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Italian Pages 508 [698] Year 2011
Indice Introduzione La modernità totalitaria Prefazione Capitolo primo L’ideologia di Mussolini dal socialismo all’interventismo 1. L’eretico del socialismo 2. Un socialismo di supemomini 3. L’eretico contro il socialismo 4. La nuova via dell’«homme qui cherche» 5. L’interventismo di Mussolini Capitolo secondo I miti del dopoguerra 1. Il grande evento 2. Il mito del nemico interno: le due Italie 3. Il combattentismo 4. L’antipartito 5. Il sindacalismo nazionale e ideologia della «terza via» Capitolo terzo Gli aristòcrati del combattentismo 1. Combattentismo aristocratico 2. Gli arditi 3. I futuristi Capitolo quarto Il fascismo sansepolcrista 1. Mussolini e i Fasci di combattimento: «Niente è eterno nell’universo» 2
2. Nazionalismo fascista 3. Antibolscevismo fascista 4. Ordine lirico e ordine politico Capitolo quinto Sviluppo e metamorfosi del fascismo 1. Il fascismo dei ceti medi 2. La definizione del fascismo 3. Nazionalismo e fascismo: il corteggiamento dei padri nobili 4. Relativismo fascista: le premesse ideologiche dello Stato antidemocratico 5. La richiesta di potere Capitolo sesto Rivoluzione, reazione, revisione 1. Rivoluzionari senza rivoluzione 2. Farinacci e il fascismo intransigente 3. La rivolta contro il mondo moderno 4. La rivoluzione intellettuale di Giuseppe Bottai Capitolo settimo Il mito dello Stato nuovo 1. Alla ricerca di un’Idea 2. Idealismo militante e fascismo 3. La teologia politica di Giovanni Gentile e la riforma politicoreligiosa degli italiani 4. Stato sindacale e Stato politico. Il fascismo secondo Alfredo Rocco 5. «Mimetica» e «metessica» del fascismo 6. L’ideologia di un «capo» Conclusione
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Emilio Gentile LE ORIGINI DELL'IDEOLOGIA FASCISTA (1918-1925)
Società editrice il Mulino, 2011 ISBN: 978-8815233387
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Introduzione La modernità totalitaria Il progresso della storiografia sul fascismo, durante gli ultimi tre decenni, ha prodotto una sostanziale revisione della immagine che di questo fenomeno avevano dato le interpretazioni prevalse fino all’inizio degli anni Sessanta. C’è stato, durante questo periodo, un continuo arricchimento delle conoscenze, un rinnovamento profondo delle prospettive di analisi, un notevole ampliamento dei temi e dei campi di indagine. Ma il progresso maggiore consiste nella diversa sensibilità culturale, nella visione più storica e più realistica, sempre meno condizionata da schemi ideologici e pregiudizi politici, con cui si è cominciato ad osservare e ad analizzare il fenomeno fascista nella complessità dei suoi aspetti, acquistando una sempre maggiore consapevolezza critica di ciò che esso è stato nella storia contemporanea1. Il rinnovamento più significativo forse si è avuto nello studio dell’ideologia del fascismo e, in senso lato, della sua cultura. Le nuove ricerche nell’universo ideologico e mitologico fascista, sempre più orientate verso l’analisi concreta della realtà storica, sono state accompagnate da un dibattito, talora non privo di astrattezza e di verbosità, in cui sono stati coinvolti storici e studiosi di scienze sociali, impegnati a discutere sul ruolo che l’ideologia ha avuto nella formazione e nel successo del fascismo, sulle sue matrici, sui suoi contenuti, e sulla parte che all’ideologia va assegnata nella elaborazione di una definizione teorica del fenomeno fascista. 5
A tale rinnovamento ha contribuito, nei limiti che gli sono propri, questo libro, scritto fra il 1973 e il 1974, e pubblicato nella sua prima edizione nel 1975 (Bari, Laterza)2. Si tratta del primo studio complessivo - e rimasto tuttora, per molti aspetti, l’unico - sulle idee e sui miti del fascismo nel periodo che va dalla grande guerra alla fondazione del regime fascista. Esaurito da oltre un decennio, il libro viene ora ripubblicato grazie alla fiducia che il nuovo editore ha nella sua attuale validità scientifica. Per questa nuova edizione, il testo è stato sottoposto ad un’ampia revisione sti]istica, intesa a snellire e a render più chiara l’esposizione, ma è rimasto invariato nel contenuto, anche se il giudizio dell’autore, su alcune specifiche questioni, è mutato, così come si è venuta allargando la sua prospettiva di analisi, col proseguimento della ricerca nel campo dei miti e della organizzazione del fascismo. Conservando sostanzialmente inalterate la ricostruzione, le argomentazioni e le valutazioni allora formulate, anche quando la riflessione e la ricerca successive hanno indotto l’autore a mutare parere, si è inteso attribuire al libro, nella presente edizione, anche il carattere di documento, crediamo non del tutto marginale, di una particolare stagione della storiografia italiana sul fascismo: un documento nel quale, come il lettore potrà verificare, sono stati affrontati o proposti, in certi casi per la prima volta, temi e problemi, che occupano oggi un posto centrale nel dibattito sul fascismo e sulla sua ideologia, sia nella storiografia italiana che in quella internazionale. Su alcuni temi trattati in questo libro si sono avuti durante questo ultimo ventennio nuovi studi e nuovi apporti documentari, ma non ci sembra che essi abbiano prodotto risultati tali da 6
richiedere una revisione generale della nostra ricostruzione e della nostra interpretazione, che risultano, invece, come vedremo, largamente confermate dalle ricerche sull’ideologia fascista apparse dopo il 1975. Con questa introduzione non intendiamo passare in rassegna i commenti suscitati dal libro e neppure fornire una bibliografia critica degli studi sull’ideologia fascista pubblicati nell’ultimo ventennio: intendiamo soltanto illustrare al lettore i criteri con i quali la nostra ricerca è stata condotta e i risultati cui essa è pervenuta, e fare quindi alcune considerazioni e precisazioni sul problema dell’ideologia fascista, alla luce dei risultati della nuova storiografia, soffermandoci sui problemi ed i temi che hanno particolare rilievo nell’attuale dibattito scientifico. Quando, nel corso degli anni Sessanta, prese l’avvio in Italia una nuova storiografia sul fascismo - soprattutto per merito delle ricerche condotte da Renzo De Felice con indipendenza intellettuale non comune e con genuina curiosità scientifica - fra gli studiosi dominava pressoché incontrastata la convinzione che il fascismo non aveva avuto una propria ideologia; era stato, cioè, un movimento senza una propria visione della vita e della politica, senza un suo progetto di organizzazione della società e dello Stato. Se al fascismo si concedeva una qualche ideologia, era considerata ideologia di scarto o di seconda mano, mutuata dal movimento nazionalista, oppure era considerata ideologia esclusiva-mente «negativa» (antidemocrazia, antiliberalismo, antimarxismo, antiparlamentarismo ecc.) senza alcuna formulazione «positiva». L’ideologia fascista, insomma, era un coacervo di improvvisazioni demagogiche, di aspirazioni e di propositi velleitari o mistificatori, e 7
comunque materia di scarsa o nessuna rilevanza per la conoscenza e la comprensione della realtà storica del fascismo. L’indifferenza, se non addirittura l’avversione, per lo studio degli aspetti ideologici del fascismo era tale, che scarsa eco ebbero allora, nella storiografia italiana, gli studi di Ernst Nolte, Eugen Weber, George L. Mosse, James A. Gregor: studi fra di loro molto diversi per impostazione, metodo e interpretazione, e tuttavia concordi nel riconoscere l’esistenza di una ideologia fascista e nel ritenere che essa era aspetto non trascurabile della realtà storica del fascismo. Ancora all’inizio degli anni Settanta, erano rarissimi, almeno in Italia, gli storici i quali ritenevano che fosse utile e necessario, per comprendere storicamente il fascismo, prendere in esame non solo i fatti, le azioni, i risultati - considerati esclusivamente nel campo dei giochi politici e degli interessi di classe - ma fosse altresì necessario studiare gli atteggiamenti mentali, le credenze, i valori, i miti, le visioni del passato, le interpretazioni del presente, le aspirazioni del futuro. Il fascismo - era allora opinione della maggioranza degli storici - non meritava di essere studiato come si studiano altri movimenti politici, come il liberalismo, il socialismo, il comunismo, prendendolo cioè seriamente in considerazione anche come movimento di idee. Lo storico del fascismo doveva occuparsi solo dei «fatti», delle «azioni» e dei «risultati» e non anche delle «idee», delle «intenzioni» e dei «progetti». A sostegno di tale atteggiamento si citavano la discordanza fra ideologia e pratica politica, l’incoerenza programmatica, i cambi di rotta, gli adattamenti e i compromessi dopo la conquista del potere, il contrasto fra gli obiettivi dichiarati e i 8
risultati effettivamente conseguiti, la sproporzione fra le ambizioni perseguite e l’esito fallimentare dell’esperienza fascista. Questo atteggiamento, in realtà, appare motivato pregiudizialmente dalla sottovalutazione dell’aspetto ideologico del fascismo più che dalla peculiarità della sua esperienza o dalla validità scientifica di un criterio aprioristicamente discriminatorio fra «idee» e «fatti». Se tale criterio di interpretazione fosse applicato, comeper coerenza scientifica dovrebbe avvenire, a tutti i movimenti politici, intere biblioteche dedicate alle idee del liberalismo, del socialismo, del comunismo, dell’anarchismo e via dicendo, potrebbero apparire come patetici monumenti all’inutilità, fra i quali andrebbero collocate insieme, con spirito di imparzialità, le opere di Giovanni Gentile e le opere di Antonio Gramsci. In tutti i movimenti politici si può riscontrare discordanza fra ideologia e azione, incoerenze programmatiche, mutamenti di rotta, compromessi e adattamenti alle contingenze dopo la conquista del potere o a seconda della condizione in cui si trova il movimento nei confronti del potere. In ogni movimento politico vi è un complesso di princìpi fondamentali che ne definiscono l’identità pur attraverso gli inevitabili cambiamenti determinati dal suo stesso divenire, e ne indicano i valori e le mete, che rimangono permanenti nonostante gli adattamenti e i compromessi, prima e dopo la conquista del potere, fissandone in modo definitivo il nucleo ideologico, come fu per il fascismo il mito dello Stato totalitario, e per il nazionalsocialismo il razzismo antisemita. E un grado, più o meno alto, di discrasia fra ideologia e prassi politica è sempre inevitabilmente presente nei 9
movimenti rivoluzionari, prima e dopo la conquista del potere. Certamente nel fascismo ci fu una dose di pragmatismo e di relativismo forse maggiore che in altri movimenti, ma non si trattava solo di opportunismo e di carenza ideologica: pragmatismo e relativismo erano aspetti di un atteggiamento mentale e ideologico, che contrapponeva l’esperienza alla teoria, lo sperimentalismo dell’azione alla coerenza dottrinaria, la fede nel mito alla persuasione razionale. L’adattamento contingente, la variabilità dei programmi, la discordanza fra progetti e risultati non pregiudicano comunque l’utilità dello studio dell’ideologia per conoscere e definire l’identità e la natura di un movimento politico, neppure quando questo movimento, come nel caso del fascismo, era nato con un atteggiamento attivistico antiteorico e antideologico. «Duro a morire - osservava nel 1979 Alberto Asor Rosa è il pregiudizio, tutto sommato di origine idealistica e crociana, che il fascismo, siccome non ebbe un’alta cultura, non ebbe affatto cultura»3. Ma tale pregiudizio, occorre precisare, era largamente condiviso anche dagli storici marxisti e dagli storici radicali, gli uni e gli altri non meno degli storici liberali di discendenza crociana, restii ad accogliere - come scrive ancora Asor Rosa «il convincimento che attribuire al fascismo la capacità di controllare masse estese d’intellettuali non significa riconoscergli una patente di nobiltà di fronte alla storia ma soltanto cercare di capire meglio e più a fondo le reali modalità operative di un’esperienza totalitaria». Alla base di questo pregiudizio vi era una sorta di riluttanza a riconoscere che il fascismo, in quanto movimento e regime, aveva avuto una propria ideologia, e tale riluttanza, 10
ha notato Pier Giorgio Zunino, era frutto «della percezione, più o meno consapevole ma certamente non fallace, del fatto che concedere al fascismo un po’ di terreno ideologico fosse equivalente ad immettersi su di un piano inclinato lungo il quale si sarebbe stati costretti a fare i conti con un’idea del fascismo sensibilmente diversa rispetto a quella cui si era ancorati», perché «attraverso lo spiraglio dell’ideologia si sarebbero inevitabilmente insinuati germi che avrebbero presto o tardi portato a incrinare, se non a disgregare, una consolidata immagine del fascismo e dell’antifascismo»4. In effetti, ad ostacolare l’avvio di una indagine scientifica nell’universo ideologico fascista vi erano principalmente i pregiudizi ideologici degli orientamenti storiografici che pretendevano di fondare la validità scientifica della loro interpretazione del fascismo, più che sulla ricerca concreta e sistematica, sulla fedeltà ad una tradizione antifascista, di cui questi indirizzi storiografici si ritenevano unici interpreti e custodi. Secondo questa interpretazione, il fascismo era stato un movimento politico del tutto strumentale, al servizio del grande capitale, braccio armato dell’ideologia nazionalista, e quindi movimento senza una propria individualità storica, senza alcuna autonomia «soggettiva» ed «oggettiva»; epifenomeno e non fenomeno, manifestazione contingente, nella forma estrema e degenerata, di fenomeni persistenti e preesistenti al fascismo, come la reazione borghese, il carattere degli italiani, l’autoritarismo conservatore, ecc. Il fascismo, secondo questa immagine, era stato niente altro che marmaglia di ignoranti brutali e di pseudointellettuali opportunisti, di avventurieri, di delinquenti e spostati senza idee e senza ideali, manovalanza armata e violenta assoldata 11
dalle forze reazionarie, che volevano arrestare il progresso della modernità per riportare indietro il cammino della storia. Il presupposto ideologico di questa interpretazione era una visione dicotomica e teleologica delle vicende del mondo moderno rappresentate come antagonismo fra «rivoluzione» e «reazione», fra «progresso» e «regresso», fra «modernità» e «antimodernità», fra «storia» e «antistoria». Nell’ambito di questa visione, il fascismo era una mera negatività storica, una aberrazione regressiva, antimoderna e antistorica nel progredire della civiltà moderna verso la realizzazione del mondo della ragione e della libertà, mondo diversamente prefigurato, secondo ideali contrastanti di libertà e civiltà, dalle ideologie dei vari movimenti antifascisti. Da questo punto di vista, per spiegare il successo che il fascismo aveva comunque avuto per un lungo periodo, attraendo attorno a sé un’adesione di massa e coinvolgendo autorevoli e prestigiosi uomini della cultura italiana, anche di quella più nuova, più moderna e di avanguardia, gli unici motivi ritenuti validi erano la violenza, l’inganno, la demagogia, la corruzione, l’opportunismo. Tutti gli aspetti ideologici e istituzionali che furono propri del fascismo - la militarizzazione della politica, la mobilitazione delle masse, il culto del duce, la concezione dello Stato totalitario, l’educazione dell’«italiano nuovo», i miti della «nuova civiltà», i riti e i simboli di una nuova religione politica - erano considerati nulla più che mascheratura della dittatura di un demagogo e di una classe sociale, che avevano l’unico proposito di fermare l’orologio della storia. Questa interpretazione lasciava insoluti quasi tutti i 12
problemi che nascevano da una osservazione dell’esperienza fascista senza lo schermo di schemi precostituiti. Per esempio, per quanto si riferiva alla demagogia e all’inganno motivi principali solitamente addotti per spiegare il successo del fascismo - non si può certo accusare il fascismo, come partito e come Stato di aver mascherato le sue idee e i suoi fini, agitando la bandiera della libertà, allettando gli intellettuali con la difesa della cultura indipendente, corteggiando le masse con promesse di benessere materiale e di vita pacifica e felice, ponendole al riparo dalle tempeste belliche e dalle convulsioni del mondo moderno, in un’epoca ancora dominata dalla rivalità fra nazionalismi bellicosi e ideologie rivoluzionarie. Il paradosso del fascino fascista risiede proprio nella «sincerità» della sua ideologia. Con il fascismo ci troviamo di fronte ad una franca e brutale dichiarazione di avversione per la libertà, la eguaglianza, la felicità, la pace come ideali di vita; ci troviamo di fronte ad una ideologia che esalta l’irrazionalità, la volontà di potenza delle minoranze elette, l’obbedienza delle masse, il sacrificio dell’individuo alla collettività intesa come Stato e nazione. I fascisti non dissero mai di voler diffondere la libertà e la razionalità nel mondo. Essi proclamavano che la ragione conta poco nella politica, dove predomina la forza, la volontà di potenza e il consenso suscitato dal mito e dalla fede. Il fascismo non promise mai l’emancipazione e la liberazione dell’uomo. Prima e dopo la conquista del potere, il fascismo ostentò la sua avversione per il mito dell’autogoverno delle masse e dichiarò sempre apertamente di considerare le masse un materiale da plasmare per conseguire gli obiettivi della sua politica di dominio e di 13
potenza. La sua etica individuale e collettiva predicava il sacrificio, l’austerità, il disprezzo dell’edonismo e della ricerca della felicità, la costante dedizione allo Stato, la disciplina, la fedeltà incondizionata e la forza di carattere necessarie per far fronte alla sfida di nuove guerre in nome della grandezza e della potenza. E tutto ciò era proclamato pubblicamente nelle piazze, formalizzato nei trattati dottrinali, predicato nelle scuole, inculcato nelle coscienze, impresso sulle facciate delle case e lungo le strade. Milioni di persone, di colti e di incolti, videro nel fascismo una soluzione entusiasmante ai conflitti della società moderna e credettero che fosse l’aurora di una nuova era di grandezza nazionale, la nascita di una «nuova civiltà» destinata a durare nei secoli. Comprendere le ragioni del fascino che siffatta visione della vita e della politica aveva esercitato, in Italia e in Europa, su milioni di persone, è stato uno dei motivi che ci hanno indotto ad avviare lo studio dell’ideologia del movimento che tale adesione aveva suscitato. Ridurre tutto il problema dell’ideologia fascista, e più in generale il tema dei rapporti fra fascismo e cultura, a materia di inganno, opportunismo e manipolazione appariva a chi scrive un modo per eludere il confronto con la realtà storica del fascismo attraverso un postumo rito di esorcizzazione consolato-ria. Accettare questo confronto è stata la ragione principale che ci ha indotti a studiare l’ideologia del fascismo - senza ovviamente la pretesa di trovare nell’ideologia, e soltanto in essa, la chiave di interpretazione del fascismo. Era nostro proposito conquistare al dominio della comprensione razionale una manifestazione della dimensione mitica della moderna politica di massa, 14
attraverso l’analisi di un fenomeno, come il fascismo, che aveva ottenuto l’adesione di prestigiosi intellettuali e di vaste masse non per mezzo di argomenti razionali, ma con l’appello esplicito all’irrazionale, l’esaltazione del pensiero mitico e la «sacralizzazione della politica». La nostra ricostruzione è fondata sulla concreta ricerca storica e, pur fornendo al lettore, nella prefazione, una esplicita formulazione dei concetti analitici adoperati per definire la natura e la funzione dell’ideologia, rifugge dalle disquisizioni astratte sull’esistenza di una cultura e di un’ideologia fascista, disquisizioni in voga all’inizio degli anni Settanta, ma che poco o nessun contributo effettivo hanno dato alla rimozione dei pregiudizi che ostacolavano il progresso degli studi sul fascismo, e ancor meno alla conoscenza di ciò che è stata la sua ideologia, oltre le opinioni convenzionali e i luoghi comuni, ritualmente riproposti anche se in forma aggiornata. La nostra indagine è stata condotta secondo una metodica ispirata dai princìpi di uno storicismo realistico, che non crede in un processo teleologico della storia, non identifica il problema della modernità con il proprio ideale di modernità, e non postula alcuna priorità platonica delle ideologie rispetto alla realtà sociale e politica. Abbiamo ripercorso le origini dell’ideologia fascista collegandole alle vicende e alle trasformazioni sociali e istituzionali del movimento fascista, nel contesto della crisi dello Stato liberale, fino alla svolta del 1925, quando gli elementi fondamentali e permanenti dell’ideologia fascista appaiono chiaramente definiti nella visione dello Stato totalitario creato dal partito unico. Le origini dell’ideologia fascista sono state analizzate 15
partendo dall’esperienza ideologica e politica di Mussolini, nel passaggio dal socialismo all’interventismo, e dal mito della grande guerra, seguendo quindi, con la nascita del movimento fascista, la formazione della sua ideologia attraverso la individuazione delle varie componenti che confluirono nella sua composizione e che maggiormente contribuirono alla elaborazione di una cultura del fascismo, intesa come costellazione di credenze e di ideali, di giudizi e di valori, di miti e di forme di comportamento, di progetti e di istituti, in cui si esprimono la visione della vita e la concezione della politica, proprie del movimento fascista. Questa indagine ci ha portato a mettere in luce, innanzi tutto, l’importanza fonda-mentale che il pensiero mitico e un atteggiamento attivistico verso la vita hanno avuto nell’ideologia fascista, e principalmente nella fissazione dei suoi caratteri originari ed originali di ideologia antideologica, caratteri che ne fanno qualcosa di diverso - ma non di meno ideologico - rispetto alle ideologie ottocentesche, come il liberalismo e il marxismo, fondate su presupposti razionalistici e su sistematiche elaborazioni teoriche. Il nostro modo di affrontare il problema storico dell’ideologia fascista si basa su una idea della moderna politica di massa, che considera i miti, le credenze, le passioni, gli ideali e le forme di comportamento, le aspirazioni e i progetti parte integrante ed importante della realtà storica dei movimenti politici, così come lo sono i calcoli razionali, la forza degli interessi, le forme organizzative, le costruzioni istituzionali, i successi effettuali. Ciò significa riconoscere, senza pregiudizi razionalistici, il ruolo e l’importanza che il pensiero mitico ha avuto nel nostro secolo, e il contributo che esso ha dato al processo di 16
sacralizzazione della politica, come l’abbiamo definito, cioè nel far assumere alla politica carattere religioso integralista, con una volontà di potenza e di primato, che si sono concretizzati principalmente negli esperimenti totalitari del Novecento. George L. Mosse, lo storico che ha maggiormente contribuito a rinnovare, fin dall’inizio degli anni Sessanta, lo studio del fenomeno fascista come ideologia e cultura, ha chiaramente definito il compito dello storico delle moderne mitologie politiche: «The chief problem facing any historian is to capture the irrational by an exercise of the rational mind. This becomes easier when the irrational is made concrete through rational acts within the terms of its own ideological framework»5. Questo orientamento storiografico, pur ispirandosi ai princìpi del razionalismo critico, evita tuttavia di confondere l’attività di razionalizzazione, che è propria della indagine storica, con l’intellettualismo astratto più o meno intriso di moralismo storico-politico, certamente il «più repellente dei moralismi», come lo definì Delio Cantimori e forse ancor più repellente quando si esibisce nelle vesti del moralismo pseudo-scientifico6. L’ideologia fascista - questo è il succo della nostra interpretazione - non fu soltanto creazione di Mussolini ma fu l’espressione delle credenze, delle idee, dei miti e dei programmi di un movimento di massa sorto dall’esperienza della grande guerra e dalla reazione antisocialista dei ceti medi, che acquistò una sua propria autonomia come nuova forza politica organizzata, e si propose non solo di assicurare la difesa dell’assetto economico e sociale fondato sulla proprietà privata, ma volle realizzare una rivoluzione politica e culturale, attraverso la distruzione del regime 17
liberale e la costruzione di uno Stato nuovo, concepito secondo la forma inedita di organizzazione totalitaria della società civile e del sistema politico7. L’ideologia del fascismo fu, secondo noi, la più completa razionalizzazione dello Stato totalitario, fondato sull’affermazione del primato della politica e sulla risoluzione del privato nel pubblico. Conseguenza di questa concezione fu la subordinazione della vita individuale e collettiva alla supremazia assoluta dello Stato, attuata per mezzo di una organizzazione totale, e la mobilitazione permanente della popolazione, strumenti principali di una politica di massa basata sull’aro razionale dell’irrazionale, attraverso una mitologia e una liturgia politica, che avevano la funzione di plasmare la coscienza individuale e collettiva secondo un modello di uomo nuovo, privando gli esseri umani della loro individualità al fine di trasformarli in elementi cellulari della collettività nazionale, inquadrata nell’organizzazione capillare dello Stato totalitario. Come fenomeno di massa rivoluzionario e totalitario il fascismo viene considerato, nella nostra interpretazione, un fenomeno moderno: viene visto, cioè, come un nuovo movimento politico che appartiene all’ambiente storico e sociale creato dalla modernizzazione; che partecipa alle tensioni e ai conflitti della società moderna accettandola come una realtà irreversibile, anche se modificabile, e pretende di dare a tali tensioni e conflitti una soluzione non per tornare al passato né per arrestare il corso della storia, ma con l’ambizione di affrontare le sfide della modernità proiettandosi verso la costruzione del futuro, verso la creazione di una nuova civiltà prefigurata secondo i miti e i progetti della sua ideologia totalitaria. 18
La nostra interpretazione si discostava nettamente dalle interpretazioni della storiografia tradizionale non soltanto perché rimetteva in discussione la tesi della inesistenza di una ideologia fascista, e la visione del fascismo come negatività storica, ma perché dava del fascismo e della sua ideologia, una caratterizzazione in termini sostanzialmente nuovi, anche rispetto agli orientamenti della più recente storiografia, che persistevano nel negare l’essenza totalitaria del fascismo8. Insieme a voci di consenso critico, la nostra interpretazione fu accolta da reazioni di ostilità che andavano molto al di là del legittimo dissenso critico. Da parte di alcuni recensori venne addirittura scagliata, contro chi scrive, l’accusa di essere espressione di una storiografia revisionista mirante alla riabilitazione del fascismo9. I principali capi d’accusa erano: la definizione dell’ideologia fascista come ideologia «positiva» in quanto espressione di un movimento politico di ceti medi; la confutazione della tesi di una cattura ideologica del fascismo da parte del nazionalismo; la caratterizzazione del fascismo come fenomeno rivoluzionario moderno. L’accusa era di per sé ridicola se riferita alle tesi del libro e alle argomentazioni che le sorreggevano: soltanto chi condivide una concezione totalitaria della politica come valore positivo e ideale da realizzare, anche se di segno opposto al fascismo, può attribuire intenti apologetici ad una interpretazione che nel totalitarismo identifica l’essenza dell’ideologia fascista. Ma proprio su questa tesi fondamentale della nostra interpretazione, i citati accusatori, stranamente, tacevano. Siffatto tipo di accuse non appartiene alla critica storiografica: se ne abbiamo fatto menzione è stato 19
unicamente per rievocare alcuni dei pregiudizi dominanti quando questo libro fu pubblicato e le reazioni alle quali poteva esporsi chi proponeva una interpretazione del fascismo che contrastava con la storiografia tradizionale. Da allora molte cose sono cambiate nello studio del fascismo. In questi venti anni molti pregiudizi appaiono rimossi. I risultati della nostra ricerca e le tesi in essa sostenute hanno trovato conferma nelle ricerche di altri studiosi. E ci riferiamo, ovviamente, non solo agli studiosi che si sono esplicitamente avvalsi dei risultati del nostro lavoro per le loro indagini sull’ideologia fascista, ma principalmente a quelli che, percorrendo vie indipendenti, sono arrivati, quanto meno nella valutazione generale, a conclusioni analoghe alle nostre. È, infatti, predominante oggi fra gli studiosi la convinzione che il fascismo non solo ebbe una propria ideologia, ma che questa ebbe parte non secondaria per il suo successo; che lo studio di questa ideologia è necessario per la conoscenza del fascismo perché non è materia marginale e scientificamente trascurabile; e che proprio di ideologia si tratta - cioè di idee, credenze, miti, visioni, aspirazioni, progetti - e non solo di espedienti propagandistici, di tecniche di manipolazione, di organizzazione del consenso, di istituzioni culturali: temi, questi, che certamente sono pertinenti alla storia dell’ideologia, ma soltanto in quanto mezzi e strumenti per la sua diffusione. Lo studio dell’ideologia ha ormai acquistato diritto di piena cittadinanza nella storiografia sul fascismo, e si hanno fondati motivi di ritenere che tale riconoscimento sia irrevocabile. Non può non esser confortante, per chi su questa via si è incamminato da tempo, ascoltare oggi 20
studiosi di diverso orientamento affermare, pur con differente prospettiva, che, per comprendere storicamente il fascismo, «è importante appurare che il fascismo non è riuscito a realizzare i suoi obiettivi, ma è altrettanto importante identificare le componenti e i progetti»; che occorre «comprenderne la storia in rapporto alle sue aspirazioni e alle sue realizzazioni»; che l’autorappresentazione che il regime ha fornito di sé «è assai importante per capire così gli obiettivi del regime come la tattica adottata per la loro realizzazione»; che la costruzione del regime corrispondeva «ad un disegno unico e unitario tendenzialmente totalitario, vale a dire con la pretesa di un’organizzazione totale della società dall’alto, al fine di pervenire all’identificazione della volontà delle masse con la volontà del potere politico dominante»10. Il territorio dell’ideologia e della cultura fascista, una volta guardato con sospetto o addirittura con disdegno, rischia addirittura di diventare uno dei campi più frequentati dai novelli esploratori del fascismo, che si inoltrano nel suo universo mitologico - o nel suo «immaginario», come si preferisce chiamarlo - spesso semplicemente ricalcando vie aperte da altri, oppure limitandosi a compiere una escursione fra le pagine dell’Opera omnia di Mussolini, convinti che l’ideologia fascista, al pari del marxismo, sia stata creazione di un solo individuo, Mussolini11, e liquidando altri ideologi del fascismo, come per esempio Gentile, a figure esornative, soltanto perché non considerano, per una sorta di positivistico semplicismo, la complessità dei rapporti fra cultura e politica che furono propri del fascismo. I temi di uno studio seriamente storico dell’ideologia fascista vanno oltre la biografia intellettuale del duce. Essi 21
comprendono anche la questione della funzione dell’ideologia nell’affermazione del fascismo come movimento di massa, nella sua politica di partito e di regime. Il successo o il fallimento di un movimento fascista, ha osservato Juan Linz, è dipeso molto dall’ideologia, in virtù non solo della sua formulazione come ideologia «negativa», cioè di mera opposizione a ideologie preesistenti, ma proprio per il fascino che le sue formulazioni «positive», cioè la sua visione della vita e della politica, i suoi progetti di organizzazione della società e dello Stato, insieme con lo stile e l’organizzazione tipici del fascismo, esercitarono fra gli intellettuali, i giovani e le masse. L’importanza dell’ideologia fascista - precisa Linz non viene affatto sminuita dalla incoerenza riscontrabile fra l’ideologia e la concreta politica del fascismo al potere12. Inoltre, la questione dell’ideologia è necessariamente connessa con la gestione del potere fascista e con il tema del «consenso». Componendo una sorta di «mappa di quello che fu il terreno ideologico comune alle grandi componenti della società fascista» nel periodo di stabilizzazione del regime, Zunino ha inteso mettere in particolare rilievo la funzione dell’ideologia: «Le idee-guida del fascismo, unificate e armonizzate in una ideologia meno casuale e inconsistente di quanto a lungo si è creduto, ebbero la triplice funzione di legittimare il blocco dominante, di fornire un senso di identità nazionale e di coesione sociale a larghi strati della popolazione e, da ultimo, di fare della comunità nazionale la portatrice di valori e di emozioni positive»13. Pur senza enfatizzare gli esiti di queste funzioni, Zunino ritiene, con fondati argomenti, che l’ideologia abbia contribuito non poco a far penetrare il fascismo nella 22
società italiana, reputando «impossibile negare che quelle “idee” penetrassero nelle fibre della società e, in qualche modo, riuscissero a toccare le masse popolari»14. Non vi è trattazione recente del fascismo, come fenomeno italiano o come fenomeno sovranazionale, inglobante cioè una varietà più o meno ampia di «fascismi», che non dedichi adeguata attenzione alla ideologia, cercando di definirne le matrici, i contenuti e i caratteri generali. Sempre meno credito, invece, riscuote fra gli studiosi l’immagine del fascismo come epifenomeno strumentale, come mero fatto organizzativo, tecnica di sopraffazione e di manipolazione, miscuglio contingente di opportunistiche e demagogiche promesse o di sterili negazioni. Neppure la tesi del fascismo come mero braccio armato dell’ideologia nazionalista, formulata all’inizio degli anni Venti e ribadita da vari storici dopo la seconda guerra mondiale, gode più di incondizionato credito fra gli studiosi. «Siamo d’accordo ha scritto Asor Rosa - che, ideologicamente, il nazionalismo andrà a sostanziare e irrobustire il fascismo e a toglierlo da un certo suo originario stato confusionale; però, per quanto riguarda il fascismo, parlare di “strumento materiale” puro e semplice ci sembra assai riduttivo, tenendo conto che la sua prima aggregazione fu eminentemente politicoideologica»15. Pur con differenti metodi e valutazioni, l’ideologia fascista viene oggi studiata come una concezione della vita e della politica che, pur traendo i suoi elementi da fonti diverse e preesistenti, li compose in una sintesi nuova ed originale, proponendo un progetto di organizzazione della società e dello Stato, che ebbe una funzione importante nella acquisizione del consenso e nella mobilitazione delle masse. Quanto alla individuazione dei caratteri generali 23
dell’ideologia fascista, la definizione del fascismo come ideologia rivoluzionaria e totalitaria, proposta in questo libro, è oggi condivisa dai maggiori studiosi del fascismo, anche se diverse sono le loro argomentazioni e le loro opinioni per quanto riguarda le origini e gli elementi caratterizzanti. Definire il fascismo movimento rivoluzionario non suscita più scandalo, se non fra studiosi che hanno tuttora un culto feticistico delle parole monopolizzate e sacralizzate dalla loro ideologia, o che persistono nel considerare il fascismo solo come reazione al marxismo e al liberalismo16. In un saggio del 1976, Zeev Sternhell, uno dei maggiori studiosi della «destra rivoluzionaria» in Francia dalla fine dell’Ottocento all’epoca del fascismo, ha affermato che l’ideologia fascista fu un sistema di pensiero dotato di autonomia e di coerenza non inferiori a quelle del liberalismo e del marxismo. Prodotto della simbiosi fra nazionalismo organico e socialismo antimarxista, il fascismo, secondo Sternhell, fu una ideologia rivoluzionaria, perché si opponeva radicalmente all’ordine di cose esistente e alla civiltà liberale, e la sua essenza fu il totalitarismo: «Totalitarianism is the very essence of fascism, and fascism is without question the purest example of a totalitarian ideology. Setting out as it did to create a new civilization, a new type of human being and a totally new way of life, fascism could not conceive of any sphere of human activity remaining immune from intervention by the State»17. Anche se da parte di storici e scienziati politici si avanzano dubbi sulla natura totalitaria del regime fascista, nessuno degli studiosi più seri dell’ideologia fascista nega il carattere totalitario della sua concezione della politica e dello Stato: «Le 24
fascisme - ha scritto Philippe Burrin - a pour ambition de former une communauté nationale unifiée et mobilisée en permanence sur des valeurs de foi, de force et de combat: une communauté inégalitaire, comprimée dans une unité totalitaire excluant toute autre allégeance que la fidelité exclusive à un chef qui personnifie le destin collectif et en décide absolument: une communauté militarisée enfin, soudée en vue d’une entreprise de domination qui est a ellemème son principe et son but»18. Diversità di vedute fra gli storici dell’ideologia fascista si ha invece per quanto riguarda il problema delle sue origini. Tale diversità dipende in gran parte dal differente metodo adottato nell’affrontare il tema dell’ideologia nel fascismo, inteso sia come movimento italiano sia come fenomeno sovranazionale. Alcuni studiosi, per esempio, hanno attribuito all’ideologia fascista una vera e propria dimensione teorica, una compiuta sistematicità e coerenza dottrinaria, fino a privilegiare l’ideologia come dimensione principale dove cercare gli elementi fondamentali per definire il tipo ideale, l’essenza del fascismo «au sense platonicien du terme»19. Percorrendo questa via, si è giunti a rimettere in discussione anche il luogo e la data di nascita dell’ideologia fascista. È il caso, per esempio, di Sternhell, il quale, partendo dalla affermazione che l’essenza idealtipica del fascismo è la sintesi fra nazionalismo organico e socialismo antimaterialista, ha sostenuto che l’ideologia fascista è nata in Francia molto tempo prima del fascismo italiano, ed era un compiuto sistema teorico già prima della grande guerra, che offrì solo l’occasione per la trasformazione dell’ideologia in movimento politico. Altri studiosi hanno fatto risalire le origini dell’ideologia fascista a 25
De Maistre20. Questo modo di affrontare il problema delle origini ideologiche del fascismo, prescindendo cioè dalla storia del movimento e postulando teoricamente un’«idea platonica» di fascismo, che può essere colta solo in una fase ideologica originaria ritenuta, per così dire, più pura e autentica, e disgiunta dalla fase della politica come azione e realizzazione, lascia molto perplessi, soprattutto perché si avvale pregiudizialmente di un uso molto elastico del termine «fascismo», dilatato nella sua genericità fino a risultare privo di storicità. Certo, nulla impedisce di definire «fascismo» qualsiasi ideologia, apparsa prima o dopo la nascita del movimento fascista in Italia, che risulti essere un tentativo di sintesi fra nazionalismo e socialismo: ma in questo caso forse sarebbe storicamente e filologicamente più corretto avvalersi del termine «nazional-socialismo», dato che questo termine, storicamente, sembra avere diritto di primogenitura rispetto al termine «fascismo». La ricerca di una sintesi fra nazionalismo e socialismo fu un orientamento del pensiero politico europeo - e non solo francese - molto prima della grande guerra e della nascita del fascismo; ed essa fu certamente una delle vie attraverso le quali intellettuali e politici dell’estrema sinistra rivoluzionaria, negli anni fra le due guerre, giunsero al fascismo. Bisogna però precisare che la ricerca di una sintesi fra socialismo e nazionalismo, come «ideologia della terza via» fra capitalismo liberale e collettivismo comunista, non partorì sempre e ovunque una ideologia totalitaria di tipo fascista. Se il totalitarismo fu l’essenza del fascismo, non si può in alcun modo definire fascista e neppure «protofascista», la sintesi sindacal26
nazionalista tentata da alcuni intellettuali in Francia ai primi del Novecento, e neppure si può definire fascista il sindacalismo nazionale italiano21. Infatti, se ci si vuol mantenere sul piano delle idee, si deve allora precisare che il sindacalismo nazionale rivoluzionario credeva nel mito della emancipazione dei lavoratori ad opera dei lavoratori stessi, organizzati in liberi sindacati di produttori, e non vagheggiava un regime di lavoratori inquadrati e subordinati ad una organizzazione di partito in nome del primato della politica. Lo Stato nuovo del sindacalismo nazionale rivoluzionario non era e non prefigurava in nessun modo uno Stato totalitario, ma era concepito come una società di liberi produttori, cittadini di uno Stato nazionale repubblicano organizzato sulla base di un federalismo di autonomie locali. La nuova Italia vagheggiata dal sindacalismo nazionale rivoluzionario era una nazione «economicamente liberistica, socialmente industriale operaia, politicamente repubblicana federalistica, e tendenzialmente libertaria sindacalista»; il suo nazionalismo «non può non essere se non sindacalistico comunalistico e federativo»22. Il contributo di intellettuali del sindacalismo rivoluzionario alla elaborazione dell’ideologia fascista come ideologia della «terza via», ampiamente analizzato in questo volume, non può essere certo sottovalutato: ma occorre precisare che tale contributo avvenne non attraverso una revisione, più o meno eretica, del marxismo originario, sia pure in chiave idealistica, ma attraverso il ripudio dei princìpi fondamentali del socialismo marxista - dalla concezione della lotta di classe all’avvento della società senza classi, dall’intemazionalismo all’estinzione dello Stato - e attraverso l’abiura della fede antistatalista e antipartitica, 27
federalista e libertaria, che era stata fondamentale nella sintesi fra nazionalismo e socialismo operata dal sindacalismo rivoluzionario interventista. I sindacalisti rivoluzionari che si convertirono al fascismo portarono un bagaglio ideologico certamente influente, ma da esso era stato scaricato il nucleo essenziale del sindacalismo rivoluzionario: il mito dello sciopero generale, il primato della società dei produttori nei confronti dello Stato, l’ideale della rivoluzione come lotta di emancipazione del proletariato e di liberazione dell’uomo. Sostenere che al momento dell’armistizio nel 1918 «le fascisme mussolinien a déjà presque tous ses contours. Il a en tout cas déjà integrò les idées du syndicalisme revolutionnaire»23, equivale ad affermare che l’ideologia fascista non subì sostanziali mutamenti dopo la fase originaria del «fascismo sansepolcrista», quando essa fu effettivamente più affine al sindacalismo nazionale: ma ciò vorrebbe dire che l’essenza dell’ideologia fascista fu libertaria, individualista, antistatalista come lo era l’ideologia del sindacalismo rivoluzionario. Coerenti con questa interpretazione, dovremmo allora affermare anche che la militarizzazione e la «sacralizzazione della politica», lo Stato totalitario, la subordinazione integrale dell’individuo e delle masse alla comunità nazionale organizzata nello Stato totalitario - tutto ciò insomma che fu ideologia del fascismo-partito e del fascismo-regime - furono elementi non essenziali dell’ideologia fascista, furono, cioè, elementi contingenti derivati non dalla sua essenza teorica ma dalla corruzione dell’«idea platonica» del fascismo-ideologia al contatto con la realtà della politica concreta del fascismopartito e del fascismo-regime. 28
Adottando, nella ricostruzione delle origini ideologiche del fascismo, un concetto di «fascismo idealtipico» svincolato dal «fascismo storico», e ricostruendo la sua genealogia ideologica con metodo esclusivamente teoricointellettualistico, altri paesi e altre epoche potrebbero essere indicati per situare la nascita della sua ideologia. Con lo stesso metodo, per esempio, si potrebbe legittimamente affermare che l’essenza del fascismo fu il razzismo e l’antisemitismo: in tal caso la paternità del fascismo verrebbe contesa fra la Francia e la Germania, mentre si dovrebbe arrivare a concludere che fino al 1938 il fascismo italiano non fu «fascista» o fu un «fascismo incompiuto» perché, fino a quell’epoca, razzismo e antisemitismo non furono cardini fondamentali dell’ideologia fascista. Con questo metodo sarebbe ugualmente legittimo vedere nel fascismo non un pronipote di De Maistre ma un pronipote di Marx o un fratello del leninismo, e quindi definire l’ideologia fascista una «variante del comunismo»24, oppure, capovolgendo il rapporto di discendenza, si può arrivare a considerare il castrismo e il maoismo varianti del fascismo25. Tutto è possibile quando si elabora il concetto del fascismo svincolandolo dalla storicità, attraverso la combinazione di alcuni elementi ritenuti, in astratto, essenziali per definire la sua natura, prendendo esclusivamente in considerazione presunte affinità ideologiche e genealogiche, indipendentemente dalla loro effettiva corrispondenza con ciò che realmente è stata l’ideologia del fascismo in quanto espressione di un movimento sociale e politico sorto in Italia dopo la prima guerra mondiale. Nessuno può prevedere a quali altri esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia fascista su un piano 29
esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico». Le costruzioni idealtipiche possono essere strumenti utili per orientare la ricerca e ordinare concettualmente i suoi risultati, ma soltanto se non si perde di vista il carattere strumentale e artificiale di tali costruzioni, se non si scambia il concetto con la realtà, se non si dà all’«idealtipo», come quadro concettuale, l’esistenza e la corposità di un fenomeno storico. È opportuno ricordare in proposito l’ammonimento di Max Weber, il quale avvertiva che nulla è «in ogni caso più pericoloso di una mescolanza di teoria e storia, derivante da pregiudizi naturalistici, sia che si creda di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere teoretico il contenuto “proprio”, l’“essenza” della realtà storica, sia che li si impieghi invece come un letto di Procuste nel quale debba essere costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le “idee” come una realtà “vera e propria” che sussista dietro al fluire dei fenomeni, cioè come “forze” reali che si manifestano nella storia»26. Esprimere dubbi sulla validità delle teorie generati del «fascismo idealtipico» non significa ridurre il problema del fascismo alla sola realtà italiana, né significa circoscrivere lo studio delle matrici dell’ideologia fascista solo al periodo di nascita del movimento fascista. Va tuttavia ricordato che proprio lo studio analitico delle matrici culturali dei diversi «fascismi», compiuto da Mosse per la Germania, da Sternhell per la Francia e da chi scrive per l’Italia, mostra, secondo noi, quanto sia arduo ricollegare la specificità di queste differenti tradizioni nazionali ad un fenomeno unico 30
e unitario. È storicamente innegabile che l’Europa fra le due guerre fu popolata da movimenti che si richiamavano esplicitamente al fascismo italiano o imitavano concezioni, istituti, retorica, stile politico e atteggiamenti tipici del fascismo-partito e del fascismo-regime. Ma proprio questo richiamo all’esperienza italiana dovrebbe costituire, a nostro avviso, un chiaro termine di confine per una definizione teorica del fascismo, che abbia innanzi tutto presente la realtà storica. Il fascismo come ideologia, come partito e come regime, fu la prima manifestazione di un nuovo nazionalismo rivoluzionario e totalitario, mistico e palingenetico, al quale si ispirarono altri movimenti e regimi sorti in Europa fra le due guerre, ciascuno adattando alla propria specificità nazionale il modello fascista. Ma proprio per questo riteniamo che, per procedere alla individuazione degli elementi costitutivi di una definizione del fenomeno fascista inteso come fenomeno sovranazionale, si debba partire dalla definizione del fascismo italiano. Dopo tutto, si parla storicamente di fenomeno fascista soltanto dopo e per effetto dell’affermazione in Italia di un nuovo movimentoregime, che, con la sua ideologia, con la sua organizzazione, con il suo stile politico, divenne ispiratore e modello per altri movimenti e regimi, ritenuti a torto o a ragione «fascisti». L’elaborazione di una teoria del «fascismo generico», che consenta di inquadrare concettualmente la realtà storica fascista nella varietà delle sue manifestazioni, non può non avere come fondamento, secondo noi, la individuazione degli elementi specifici del fascismo italiano, al fine di precisarne concettualmente la individualità storica, 31
offrendo, nello stesso tempo, uno strumento analitico per valutare l’estensione della sua influenza nell’epoca fra le due guerre e nell’epoca successiva. I dati essenziali per una definizione teorica del fascismo, enucleati avendo presente la realtà storica del fascismo italiano e l’unità delle dimensioni complementari del movimento, dell’ideologia e del regime, possono essere così definiti: 1) un movimento di massa, con aggregazione interclassista ma in cui prevalgono, nei quadri dirigenti e militanti, i ceti medi, in gran parte nuovi all’attività politica, organizzati in un partito-milizia, che fonda la sua identità non sulla gerarchia sociale e la provenienza di classe ma sul senso del cameratismo, e che si ritiene investito di una missione di rigenerazione nazionale, si considera in stato di guerra contro gli avversari politici e mira a conquistare il monopolio del potere politico, usando il terrore, la tattica parlamentare e il compromesso con i gruppi dirigenti, per creare un nuovo regime, distruggendo la democrazia parlamentare; 2) un’ideologia a carattere «antideologico» e pragmatico, che si proclama antimaterialista, antindividualista, antiliberale, antidemocratica, antimarxista, tendenzialmente populista e anticapitalista, espressa esteticamente più che teoricamente, attraverso un nuovo stile politico e attraverso i miti, riti e simboli di una religione laica istituita in funzione del processo di acculturazione, di socializzazione e d’integrazione fideistica delle masse per la creazione di un «uomo nuovo»; 3) una cultura fondata sul pensiero mitico e sul senso tragico e attivistico della vita concepita come manifestazione della volontà di potenza, sul mito della giovinezza come artefice di storia, e sulla militarizzazione della politica come modello di vita e di organizzazione 32
collettiva; 4) una concezione totalitaria del primato della politica, come esperienza integrale, per realizzare attraverso lo Stato totalitario la fusione dell’individuo e delle masse nell’unità organica e mistica della nazione, come comunità etnica e morale, adottando misure di discriminazione e di persecuzione contro coloro che sono considerati al di fuori di questa comunità perché nemici del regime o perché appartenenti a razze considerate inferiori o comunque pericolose per l’integrità della nazione; 5) un’etica civile fondata sulla dedizione totale alla comunità nazionale, sulla disciplina, la virilità, il cameratismo, lo spirito guerriero; 6) un partito unico che ha il compito di provvedere alla difesa armata del regime, selezionare i quadri dirigenti e organizzare le masse nello Stato totalitario, coinvolgendole in un processo di mobilitazione permanente, emozionale e fideistica; 7) un apparato di polizia che previene, controlla e reprime, anche con il ricorso al terrore organizzato, il dissenso e l’opposizione; 8) un sistema politico ordinato per gerarchie di funzioni, nominate dall’alto e sovrastate dalla figura del «capo», investito di sacralità carismatica, che comanda, dirige e coordina le attività del partito, del regime e dello Stato; 9) un’organizzazione corporativa dell’economia che sopprime la libertà sindacale, amplia la sfera di intervento dello Stato e mira a realizzare, secondo princìpi tecnocratici e solidaristici, la collaborazione dei «ceti produttori» sotto il controllo del regime, per il conseguimento dei suoi fini di potenza, ma preservando la proprietà privata e la divisione delle classi; 10) una politica estera ispirata al mito della potenza, della grandezza nazionale e della «nuova civiltà», con obiettivi di espansione imperialista. 33
Questa definizione costituisce, sinteticamente, il punto di riferimento teorico per la nostra interpretazione del carattere, del significato e della funzione dell’ideologia nel fascismo. Il tema dell’ideologia è così collocato nell’ambito di una analisi del fascismo che si basa sulla correlazione fra la dimensione organizzativa del movimento e del partito; la dimensione culturale dell’ideologia, dei miti e dei simboli; la dimensione istituzionale del regime e dello Stato totalitario. Ciascuna di queste dimensioni è stata, nel corso di questi ultimi anni, oggetto di ricerca specifica da parte di chi scrive, secondo un piano di lavoro animato dal proposito -e nella piena consapevolezza che di un tentativo si tratta di pervenire ad una visione unitaria del fenomeno fascista tramite una ricostruzione storiografica che, attraverso la trama concettuale della narrazione, aspira ad essere, insieme, evocazione, riflessione e analisi teorica. In questo tentativo, un primo risultato è stato raggiunto con l’opera che ora si ripropone al giudizio di nuovi lettori e al confronto con studi più recenti, conservando una sua propria fisionomia di contenuto e di metodo. Ciò che distingue quest’opera, e che distingue il nostro punto di vista nell’analisi del significato dell’ideologia per lo studio del fascismo, è la asserita inscindibilità della storia ideologica dalla storia politica, nel senso più ampio del termine; la complementarità della dimensione culturale e della dimensione istituzionale nella storia del partito e del regime fascista; la convinzione che non sia possibile separare il piano storico dal piano ideologico nella elaborazione di una definizione teorica del fascismo. Una storia del fascismo-ideologia che prescinda dalla storia del fascismo-partito sarebbe una storia monca, perché 34
taglierebbe fuori dall’ideologia fascista tutto ciò che fu elaborazione ideologica dell’esperienza vissuta del fascismo nel suo sviluppo, prima e dopo la conquista del potere. È necessario perciò collegare l’ideologia alla storia del movimento di cui essa è espressione, riconnettere gli aspetti ideologici del movimento alle forze sociali che lo compongono, all’azione politica concreta che esso svolge, alle organizzazioni e alle istituzioni cui esso dà vita, e che sono anch’esse, in un certo senso, espressione della sua ideologia, della sua visione dell’uomo e della politica. Ed è compito dello storico discernere quanto vi è di permanente e di contingente nell’ideologia di un movimento: quanto, cioè, corrisponde a convincimenti costanti, a valori culturali fondamentali dell’identità collettiva, e quanto è invece «derivazione», per dirla con Pareto, di atteggiamenti contingenti o di gruppi marginali; così come è compito dello storico, nel considerare la varietà e la complessità delle correnti che concorsero a generare e a formare l’ideologia fascista distinguere le correnti da cui provengono le sue matrici culturali del movimento e gli elementi che concorrono a formare la sua ideologia attraverso una sintesi in cui questi elementi perdono le loro caratteristiche originarie, per fondersi in una nuova ideologia, l’ideologia dello Stato totalitario. Il nostro punto di vista, come risulterà evidente al lettore, si differenzia dall’orientamento degli studiosi che isolano o privilegiano l’elemento ideologico separando l’ideologia dalla storia del movimento e dalla sua politica. Noi riteniamo che non si possa postulare uno stadio ideologico «puro» del fascismo prescindendo dalla storia del movimento, dalla sua organizzazione e dalla sua politica 35
concreta. Per comprendere il carattere e il contenuto dell’ideologia fascista occorre prendere in considerazione il fascismo nella totalità delle sue manifestazioni: non solo quelle formalmente ideologiche, ma anche quelle organizzative, comportamentali e istituzionali. L’esperienza dello squadrismo, la concezione e l’organizzazione del partito-milizia, i simboli e i riti della sacralizzazione della politica, il mito e le istituzioni dello Stato totalitario sono elementi costitutivi essenziali dell’ideologia fascista, in misura maggiore e più decisiva di quanto non lo sia l’eredità, più o meno spuria, della revisione antimaterialista del marxismo e del nazionalismo sindacalista rivoluzionario. Solo muovendo dalla correlazione di questi diversi aspetti del fascismo, secondo noi, si può procedere alla definizione dell’ideologia fascista, distinguendo momenti e fasi di formazione e di sviluppo del movimento, ai quali corrispondono idee e atteggiamenti mentali che costituiscono, nei motivi costanti e in quelli contingenti, l’ideologia del fascismo. Questa, ribadiamo, non fu espressione solo di un gruppo di intellettuali, né del solo Mussolini, ma di un composito movimento sociale e di un partito di massa di tipo nuovo, embrione dello Stato totalitario. Sul problema della matrici culturali e ideologiche del fascismo, un’altra precisazione è però necessaria. Chi scrive ritiene che la nascita del fascismo - e dell’ideologia fascista in Italia per effetto della prima guerra mondiale sia un fatto indiscutibile e certo, come certo e indiscutibile è il fatto che il giacobinismo è nato in Francia per effetto della Rivoluzione francese. La madre del fascismo, come ideologia e come movimento, fu la prima guerra mondiale. 36
La identità fondamentale del fascismo ebbe origine dall’esperienza e dal mito della grande guerra e, successivamente, dall’esperienza e dal mito dello squadrismo27. Il fascismo tuttavia non sorse dal nulla e non si sviluppò solo per virtù propria, traendo unicamente da se stesso la propria ideologia. Elementi importanti dell’ideologia, della cultura e dello stile politico fascista sono rintracciabili in tradizioni politiche preesistenti, sia di destra che di sinistra: nell’eredità del nazionalismo giacobino, nei miti e nelle liturgie laiche dei movimenti di massa dell’Ottocento, nel neoromanticismo, nell’irrazionalismo, nello spiritualismo e nel volontarismo delle varie «filosofie della vita» e «filosofìe dell’azione», nell’attivismo e nell’antiparlamentarismo dei movimenti radicati antiliberali di una nuova destra e di una nuova sinistra rivoluzionarie, che operavano in Italia e in Europa prima della grande guerra. Nell’ideologia fascista, come è ampiamente dimostrato in questo libro, confluirono idee e miti di movimenti culturali e politici precedenti, come l’avanguardia fiorentina de «La Voce», il futurismo, il movimento nazionalista, il sindacalismo rivoluzionario. Il fascismo inoltre ereditò quel complesso di idee, di miti e di stati d’animo, che abbiamo definito radicalismo nazionale, comune alla cultura dei movimenti intellettuali e politici di avanguardia, sorti in Italia durante il periodo giolittiano28. Retaggio più o meno spurio del mito mazziniano del Risorgimento come rivoluzione spirituale incompiuta, il radicalismo nazionale affermava il primato della nazione come perenne realtà ideale e valore supremo della vita collettiva, disprezzava il razionalismo positivista e il materialismo, esaltava le forze spirituali come le uniche 37
capaci di formare la coscienza moderna dell’Italia per condurla verso grandi imprese. A questo scopo il radicalismo nazionale voleva costruire uno Stato nuovo, concepito come una comunità nazionale imita da una fede comune e guidata da una nuova aristocrazia di giovani, capaci di compiere la rivoluzione spirituale iniziata col Risorgimento, attraverso la rigenerazione degli italiani, per portare l’Italia all’avanguardia della civiltà moderna. Le connessioni fra l’ideologia fascista e i movimenti intellettuali e politici del periodo giolittiano non giustificano tuttavia la definizione di questi movimenti - la loro ideologia e la loro cultura - come manifestazioni di «protofascismo» o addirittura di «fascismo prima del fascismo», perché idee e miti di questi stessi movimenti confluirono anche in movimenti culturali e politici che non furono fascisti o furono decisamente antifascisti. Ciò significa che non si può, secondo noi, interpretare storicamente la connessione ideologica fra questi movimenti e il fascismo come un processo necessario di combinazione, considerando il fascismo l’esito inevitabile della cultura e della ideologia di questi movimenti. Riflettendo sulle matrici culturali dell’ideologia fascista e, più ampiamente, sui rapporti fra cultura e ideologia, Zapponi ha opportunamente avanzato una ipotesi interpretativa, secondo la quale «la mancanza di corrispondenza fra indirizzi culturali e orientamenti ideologici» non costituisce «un dato di fatto eccezionale, ma la regola», traendone persuasive indicazioni per l’analisi dell’ideologia fascista: «Applicata al problema delle origini culturali dell’ideologia fascista, tale ipotesi interpretativa porta a negare che sia individuabile una qualche tendenza culturale destinata a sfociare di necessità 38
nel fascismo (o in qualche altra ideologia politica): essa implica al contrario che la ricerca storica debba accertarsi se - e in quale misura - il fascismo sia stato preceduto da manifestazioni culturali orientate di fatto, sul piano ideologico, nella sua direzione»29. Il concetto di «protofascismo» si avvale in effetti di una lettura a ritroso della storia, lettura condizionata da un pregiudizio teleologico (o dal più trito «senno del poi») che prefigura, attraverso una proiezione retrospettiva - una sorta di previsione del passato -, l’esito politico inevitabile di determinate correnti culturali. Una cosa è studiare il contesto culturale e ideologico dell’Italia prima della grande guerra e della nascita del fascismo, per individuare i fattori che prepararono un ambiente favorevole alla nascita dell’ideologia fascista; altra cosa è definire «fascista» quello stesso contesto, e considerare il fascismo stesso una conseguenza inevitabile di esso. Queste precisazioni sulle matrici culturali e le origini ideologiche del fascismo sono la premessa indispensabile per introdurre l’ultima parte di queste considerazioni sull’ideologia fascista, che riguarda il problema delle relazioni tra il fascismo e i movimenti dell’avanguardia modernista, e il più generale e più controverso problema della relazione tra fascismo e modernità. Nello studio delle origini culturali del fascismo la nuova storiografia ha volto la sua attenzione principalmente ai collegamenti tra il fascismo e i movimenti dell’avanguardia culturale del primo Novecento, un tema già studiato in passato ma che, negli studi più recenti, è stato affrontato dando maggior risalto all’analisi dell’atteggiamento del fascismo verso la modernità. Anche su questo problema 39
l’orientamento degli studiosi risulta notevolmente cambiato negli ultimi anni. Come dicevamo all’inizio, il vero progresso della nuova storiografia è rappresentato dalla diversa sensibilità culturale con la quale si studia il fascismo in tutte le sue manifestazioni, con nuove prospettive, e soprattutto con una nuova consapevolezza della realtà tragicamente contraddittoria della modernità nella storia contemporanea, osservata con razionalità critica, e senza la pretesa e l’illusione di identificare la modernità e il significato della storia contemporanea con le proprie preferenze ideologiche. Conseguenza importante di questa diversa sensibilità culturale è il nuovo modo col quale viene oggi affrontato il problema della «modernità» del fascismo, senza voler in alcun modo conferire al fascismo una patente di riabilitazione. Se venti anni fa definire il fascismo un fenomeno moderno fu considerato, almeno nell’ambito della storiografia italiana, un’affermazione blasfema, oggi parlare di «fascismo modernista», di «modernismo fascista», di «modernità fascista» non suscita più scandalo. «All the principal features of a modem political ideology - secondo Howard Williams - are combined in fascism»30. II fascismo fu, ha ribadito Jeffrey Schnapp, «for better or for worse, one dominant form which modernization took in Italy and elsewhere. The evidence to this effect is incontrovertible. Beyond the vicissitudes of the historical regime’s changing cultural policies, Italian fascism was, from its roots in the urban upheavals of 1914 and 1915 to the Republic of Salò, firmly on the side of modernity»31. In uno dei più recenti tentativi di costruzione di un tipo ideale del «fascismo generico», l’ideologia fascista, come mito palingenetico, 40
ultranazionalista e populista, è definita anticonservatrice, rivoluzionaria, moderna: il fascismo, afferma Roger Griffin, rappresentò un «modernismo alternativo» piuttosto che un rifiuto della modernità32. Il modo di affrontare la questione del fascismo come modernismo si presta però ad alcune osservazioni correttive di un orientamento che, a nostro avviso, può avere esiti poco utili o fuorviami ai fini dell’analisi dell’ideologia fascista. Di «modernismo fascista», in effetti, si sono occupati finora principalmente critici letterari e storici dell’arte, utilizzando l’interpretazione del fascismo come «estetizzazione della politica» proposta da Walter Benjamin, ma non sempre il metodo di analisi e le valutazioni interpretative di questi studi appaiono convincenti33. Il concetto della «estetizzazione della politica», per quanto suggestivo, può essere fuorviarne se si perde di vista l’altro aspetto più importante che fu tipico del fascismo, cioè la politicizzazione dell’estetica, che non solo ispirò l’atteggiamento del fascismo verso la cultura, ma fu all’origine stessa dell’incontro fra avanguardia modernista e fascismo, e fu il motivo della partecipazione di molti intellettuali modernisti al fascismo. Questa considerazione può apparire ovvia, ma è pur necessaria per richiamare l’attenzione su questo aspetto del fascismo, per evitare che l’insistenza sul!«estetizzazione della politica» possa condurre ad una sorta di «estetizzazione» del fascismo stesso, relegando in secondo piano la sua politicità. In questo caso, in effetti, si verificherebbe una banalizzazione della natura fondamentalmente politica del fascismo, della sua cultura, della sua ideologia e del suo universo simbolico. La dimensione essenzialmente politica 41
della cultura fascista non dovrebbe esser persa mai di vista neanche quando si studiano le manifestazioni estetiche del fascismo, fra le quali sono da considerare non solo le arti figurative, ma anche lo stile politico, la liturgia di massa, la produzione simbolica, che furono elementi certamente essenziali e caratterizzanti del modo fascista di fare politica, ed espressione della sua ideologia. Ciò non significa affatto sottovalutare l’aspetto della «estetizzazione della politica»: chi scrive è stato fra i primi a sostenere, molti anni fa, che la «politica come spettacolo», messa in scena dal fascismo, fu la manifestazione di una nuova «concezione estetica della vita politica»34. Riteniamo tuttavia che si debba ribadire altrettanto chiaramente che la dimensione estetica del fascismo non può essere analizzata separatamente dalla concezione totalitaria della politica, perché essa fu conseguenza di questa concezione. La produzione simbolica fascista non fu effetto di una carenza di coerenza ideologica35, ma fu al contrario espressione coerente e consequenziale dell’ideologia totalitaria fascista, di ima visione della vita e della politica tipica di un movimento che era anche una nuova religione laica36. L’adesione degli intellettuali e degli artisti dell’avanguardia modernista al fascismo avvenne sulla base di valori ideologici e politici comuni. Lo studio delle connessioni ideologico-politiche tra fascismo e modernismo è importante per comprendere i motivi della partecipazione della cultura italiana alla formazione dell’ideologia fascista. Secondo il paradigma della «negatività storica», la militanza fascista di intellettuali dei movimenti d’avanguardia, come i «vociani» e i futuristi, e di grandi protagonisti del rinnovamento culturale, come 42
Giovanni Gentile, era spiegata con l’opportunismo o con l’ingenua ed errata valutazione di ciò che il fascismo effettivamente era. Nel caso di valutazioni più indulgenti, la loro adesione al fascismo veniva spiegata con una presunta bontà di intenti, tradita o pervertita dalla pratica corruttrice del fascismo, oppure veniva giustificata, in postume argomentazioni casuistiche, con la necessità di simulare un consenso esteriore per tutelare un’interiore avversione al fine di poter agire, all’interno del fascismo, contro il fascismo. Fra le motivazioni della partecipazione degli intellettuali al fascismo e alla elaborazione della sua ideologia, non si può certo escludere l’interesse personale né l’errore di valutazione. Le ricerche recenti confermano che la loro partecipazione avvenne nella piena consapevolezza di ciò che il fascismo era, del modo in cui era sorto, si era sviluppato e si era affermato; e che la loro militanza fascista, come ci sembra di aver ampiamente documentato in questo libro, non fu frutto di un errore di valutazione o di un’ingenua bontà di intenzioni, ma fu la conseguenza del loro modo di intendere la vita, il mondo moderno, la politica e il compito che di fronte alla politica spettava agli intellettuali che credevano nel mito nazionale, in quel particolare momento della storia italiana. Il fascismo, ha scritto Zapponi, offrì «a numerosi intellettuali una realtà visibile, sulla quale riporre le loro speranze in una rigenerazione culturale per il tramite della politica, ma non suscitò da nulla la convinzione che un simile risultato potesse essere raggiunto» perché questo «convincimento collettivo traeva origine dalla certezza, già presente nella cultura e diffusa al punto di forzare la logica delle contrapposizioni politiche, secondo cui, al termine di 43
un’evoluzione plurisecolare, la filosofia, le arti, le scienze erano in procinto di fondersi con la politica, la “teoria” stava per saldarsi alla “prassi”, con vantaggi incommensurabili da entrambe le parti»37. In effetti, pur dissentendo da talune scelte e orientamenti del partito e del regime fascista, gli intellettuali che aderirono al fascismo non ritennero che la politica totalitaria, evidente già negli orientamenti del partito-milizia prima della conquista del potere, fosse in contrasto con la loro concezione della cultura, con la loro idea di modernità e con la loro visione del destino della nazione. Da ciò non si vuol inferire che il loro pensiero estetico o filosofico, elaborato prima della nascita del fascismo, sia definibile come «fascista» o «protofascista». Nel caso di Giovanni Gentile, per esempio, si può certamente contestare la tesi che definisce l’attualismo una filosofia «fascista» o destinata a divenire «fascista»: ma ci sembra difficile negare che l’adesione di Gentile al fascismo e la sua partecipazione alla definizione dell’ideologia totalitaria avvenne in piena coerenza con il suo modo di concepire attualisticamente la vita, la politica e il destino dell’Italia nel mondo moderno38. Lo stesso vale per il futurismo. Non può certo esser sostenuta l’identificazione del futurismo col fascismo, perché tale identificazione contrasta con la varietà contraddittoria dell’ideologia politica dei futuristi, che non prefigurava lo Stato totalitario, e contrasta con le posizioni di futuristi che non furono fascisti o furono antifascisti. Ma neppure si può sostenere la tesi di una sostanziale estraneità della cultura futurista rispetto ai valori e ai miti della cultura politica fascista. Se è esagerata l’identificazione senza riserve del futurismo con il fascismo, altrettanto infondata è la tesi 44
che riduce la partecipazione futurista al fascismo ad un aspetto secondario o a vicende personali, ricercandone i motivi nell’opportunismo e nell’ingenuità. I futuristi che aderirono al regime furono fascisti irrequieti e criticanti, e protestarono vivacemente contro alcune decisioni politiche e culturali del regime, ma nessuno di essi mise in discussione i motivi fondamentali dell’ideologia totalitaria: il primato del pensiero mitico, l’attivismo vitalistico, l’esaltazione mistica della comunità nazionale, la supremazia dello Stato, la pedagogia eroica e guerriera, l’ambizione imperiale. I futuristi non furono ingannati dal fascismo, ma furono affascinati dall’appello alla mobilitazione della cultura per la rigenerazione degli italiani nel culto della religione della nazione e per la costruzione di una nuova civiltà che avrebbe impresso sul futuro lo stile di una modernità italiana39. Il tema dei rapporti fra fascismo e modernità, preso qui in considerazione solo nell’ambito della storia ideologica, richiede una attenzione particolare, trattandosi di un tema sul quale la riflessione e la ricerca hanno condotto l’autore ad una più complessa interpretazione del rapporto fra fascismo e modernità, presente in questo libro solo in alcuni spunti ed accenni. Le osservazioni che seguono hanno pertanto lo scopo di svolgere questi spunti, specialmente per quanto riguarda le connessioni fra il fascismo e le avanguardie culturali, esaminandole in una prospettiva interpretativa più ampia ed anche più approfondita, almeno dal punto di vista dell’autore, del rapporto fra il fascismo e la modernità. Il fascismo, ha affermato giustamente Walter Adamson, rappresentò la politicizzazione del modernismo italiano40. In 45
realtà la politicizzazione del modernismo italiano era iniziata molto prima del fascismo, e certamente contribuì a preparare il terreno per la sua nascita. Molto prima della nascita del fascismo, il futurismo aveva sostenuto la necessità di abbattere la barriera fra cultura e politica, attraverso la simbiosi fra cultura e vita, per risvegliare le energie intellettuali e morali degli italiani, dando ad essi un nuovo e più intenso e dinamico sentimento di italianità, e l’ambizione della conquista di nuovi primati in nome della grandezza della nazione, rinnovando e potenziando il paese con una accelerata opera di modernizzazione. Molto tempo prima della nascita del fascismo l’avanguardia modernista, costituita principalmente dal gruppo de «La Voce» e dal movimento futurista, aveva sostenuto che la cultura doveva esercitare la sua influenza sul rinnovamento della politica, per compiere la rigenerazione della nazione in modo da renderla capace di affrontare quella che abbiamo definito la conquista della modernità. Ai movimenti dell’avanguardia culturale sorti in Italia all’inizio del Novecento era comune, in modo più o meno accentuato, una intonazione politica nazionalista, che si manifestava con il mito dell ‘italianismo cioè la convinzione che l’Italia era destinata ad avere un ruolo da grande protagonista e una missione di civiltà nella vita moderna del XX secolo. A tale scopo, i militanti della nuova cultura nazionale ritenevano necessario un radicale processo di rigenerazione nazionale da cui doveva nascere un «italiano nuovo». Prima della grande guerra, questi movimenti avevano dato vita ad una rivolta generazionale, condotta in nome del ruolo creativo della giovinezza, che si manifestò politicamente nella contestazione radicale del regime parlamentare, una 46
contestazione soprattutto culturale, in cui si confrontarono visioni e ideati differenti di modernità, allineati su uno stesso fronte contro la modernità borghese, liberale, razionalista. Il mito della «conquista della modernità» fu un elemento essenziale nel collegamento culturale e ideologico fra i movimenti di avanguardia e il fascismo. Questo mito, presente nella cultura nazionale italiana fin dal Risorgimento, divenne predominante nella nuova cultura che, all’inizio del Novecento, tornò ad interrogarsi sul destino della nazione in un’epoca di sconvolgenti cambiamenti prodotti dalla modernizzazione. Il sentimento che predomina nella cultura modernista italiana, all’inizio del Novecento, è l’accettazione delle forme di vita della civiltà moderna, rappresentate dalle scoperte scientifiche, dallo sviluppo tecnologico, dall’accelerazione del ritmo del tempo, dal nuovo senso dinamico dell’esistenza. Si è attribuito questo sentimento di partecipazione entusiastica alla modernità soltanto al futurismo, ma esso in realtà è comune fra gli intellettuali e gli artisti d’avanguardia che si dichiaravano antifuturisti, come molti vociani. «Essere moderni! Comprendere in sé le forme vitati proprie del nostro tempo»41, proclamava su «La Voce» Scipio Slataper. Nella nuova cultura modernista e nazionalista, all’inizio del secolo, vi è un coro di esaltazione per la modernità, con un grido unanime di incitamento affinché l’Italia fosse pronta a gettarsi nel «turbine vibrante» del «grandioso congegno della vita moderna»42. Anche i nazionalisti di formazione classicista, come Enrico Corradini, erano invasati dall’entusiasmo per il dinamismo della vita moderna e inneggiavano allo «spirito della nuova vita… grande e 47
possente come non fu mai… iniziatrice di un avvenire più grande e possente ancora… il ritmo della vita è straordinariamente violento e fulmineo… Lo spirito che come tempesta mondiale muove le moltitudini inconsapevoli, e lo spirito della nuova vita» che «sembra tutto travolgere, perché non sono ancora sorti i nuovi uomini consapevoli che abbiano l’animo pari alla nuova vita del mondo e siano forti sopra le nuove forze. Qui è l’immensa tragedia del presente, e l’epopea dell’avvenire sarà nella vittoria dell’uomo sopra gl’istrumenti e le forze della vita, formidabili come non furono mai»43. L’entusiasmo per la modernità contagiava anche un giovane socialista rivoluzionario, Benito Mussolini: «noi ci sentiamo portati alla vita multipla, armonica, vertiginosa, mondiale»44. Per lui, come per i futuristi, l’essenza della modernità era simbolizzata dal nuovo ritmo del tempo e del cambiamento: «La parola che riassume e dà carattere inconfondibile al nostro secolo mondiale è “movimento”… Movimento dovunque, e accelerazione del ritmo della nostra vita»45. All’inizio del secolo, il mito della «conquista della modernità», specialmente attraverso la cultura delle avanguardie, diede vita ad un nuovo tipo di nazionalismo, che abbiamo denominato nazionalismo modernista46 per il ruolo fondamentale che nella sua caratterizzazione ebbe la percezione della modernità, cioè la visione della nuova società prodotta dalla modernizzazione, accompagnata dall’aspirazione a realizzare una nuova sintesi fra nazionalismo e modernità per formare la coscienza della nuova Italia. Il concetto di nazionalismo modernista non si riferisce ad uno specifico movimento culturale o politico, 48
ma definisce una sensibilità e un atteggiamento mentale, centrato sul mito della nazione e sull’accettazione della modernizzazione, che possiamo rintracciare, in forma diversa, e con diversi gradi di intensità e differenti scelte politiche concrete, in tutti i movimenti intellettuali d’avanguardia, come pure, in forme più o meno esplicite, nel radicalismo politico di destra e di sinistra del periodo giolittiano. Questo nuovo nazionalismo si caratterizza essenzialmente per il suo atteggiamento verso la vita moderna, come essa appariva all’inizio del secolo. La modernità era percepita come una nuova dimensione della storia umana entro la quale la nazione poteva accrescere ed espandere la sua potenza. Perciò il nazionalismo modernista non era conservatore, non aveva la nostalgia del mondo preindustriale, non sognava di riportare indietro l’orologio della storia. La sua principale caratteristica era l’accettazione della vita moderna in quanto epoca di trasformazioni irreversibili, che investono la società, la coscienza, la sensibilità, e preparano le condizioni per il sorgere di nuove forme di vita collettiva, di una nuova civiltà. Esso era animato dall’entusiasmo per la modernità, intesa come espansione di energie umane e intensificazione della vita senza precedenti nella storia, e da un senso tragico e attivistico dell’esistenza, che ripudiava ogni atteggiamento nichilistico e compiacimento decadentistico, opponendo ad essi un sentimento esaltante di una nuova pienezza di vita e di affermazione di vitalità per gli individui e le nazioni, attratti nel vortice della modernità. Modernità, per questo nazionalismo, significava accelerazione del ritmo del tempo, invenzione e moltiplicazione dei mezzi tecnici di dominio e di sfruttamento della natura sotto il dominio 49
dell’uomo, attuazione della volontà di potenza individuale e collettiva attraverso la lotta. Nel campo politico, modernità significava crisi delle aristocrazie tradizionali, epoca delle masse, ascesa di nuove élites e di nuove figure di dominatori, predominio delle collettività organizzate sull’individuo isolato, espansionismo economico e politico. Il nazionalismo modernista non si opponeva alla modernizzazione e all’industrializzazione ma voleva promuovere questi processi, subordinandoli però al fine di potenziare la nazione per farla partecipare da protagonista alla politica mondiale. E modernizzare la nazione voleva dire non soltanto dare ad essa nuovi strumenti di sviluppo economico e sociale, ma anche rigenerare gli italiani dai costumi assimilati durante secoli di asservimento, per dar loro una nuova cultura e una coscienza moderna. Il principale carattere modemistico di questo nazionalismo è il proposito di conciliare lo spiritualismo - inteso genericamente come primato della cultura, delle idee, dei sentimenti - con la società industriale di massa, per contrastare ed evitare gli effetti, negativi, che la modernizzazione comportava, cioè il materialismo, lo scetticismo, l’egoismo edonistico, il conformismo ecc.: tutto ciò, insomma, che il nazionalismo modernista identificava con la tradizione razionalistica e individualistica dell’Illuminismo e della modernità liberale. Il nazionalismo modernista sosteneva la necessità di accompagnare la rivoluzione industriale e la modernizzazione con una «rivoluzione dello spirito» per formare la sensibilità, il carattere e la coscienza di un «italiano nuovo», un uomo nuovo in grado di comprendere e di affrontare i problemi e le sfide della vita moderna, mantenendo salda, di fronte allo 50
sviluppo delle forze materiali e tecnologiche, la superiorità delle forze spirituali, che assicuravano unità e identità collettiva alla nazione. Promotori e guide di questa rivoluzione spirituale dovevano essere nuove e giovani aristocrazie non fondate su privilegi di nascita e di tradizione, non legate al culto feticistico del passato, ma capaci di rinnovare e guidare la nazione nel mare tempestoso della vita moderna. Per compiere questa rivoluzione spirituale, il nazionalismo modernista faceva appello, più che alla ragione, all’energia dei sentimenti e delle emozioni; voleva riattivare le facoltà mitopoietiche, creare nuovi miti moderni della nazione - una religione laica della nazione -, per contrastare le conseguenze negative e gli effetti disgregatori della crisi della società tradizionale. Anche se si avvaleva dell’uso mitico della storia per costruire nuovi universi mitici e simbolici a sostegno della religione della nazione, il nazionalismo modernista non aveva il culto feticistico della tradizione, non guardava con nostalgia ad un immaginario ordine del passato da preservare o da restaurare, ma voleva partecipare alle trasformazioni della vita moderna proiettando la nazione verso il futuro, con una volontà di potenza che voleva affermarsi attraverso la lotta e la conquista. Il richiamo strumentale ai miti di passate grandezze, per esaltare il rinnovamento dell’orgoglio nazionale, conviveva, nel nazionalismo modernista, con i nuovi miti di future grandezze da conquistare; l’esaltazione del primato della nazione conviveva con l’ambizione di creare valori e princìpi di una moderna civiltà universale; la fede nel primato dello spirito conviveva con l’esaltazione del realismo della forza: guerra e rivoluzione potevano essere strumenti necessari per la rigenerazione della nazione, la 51
«conquista della modernità» e la costruzione di una nuova civiltà italiana, che doveva imprimere il suo segno sulla modernità del XX secolo. L’idea di una funzione militante della cultura, come attività spirituale plasmatrice della coscienza moderna di un «italiano nuovo», era comune ai vari movimenti dell’avanguardia modernista. Comune era anche la convinzione che «essere moderni» significava innanzi tutto, per dirla con Croce, possedere una «cultura dell’uomo intero»47, che doveva sostituire, nella coscienza dell’italiano moderno, il posto lasciato vuoto dalla crisi della religione tradizionale. La modernità, da questo punto di vista, era interpretata come epoca di crisi e di transizione da un sistema di valori, propri del mondo preindustriale, verso la formazione di una nuova civiltà, la costruzione della quale era affidata alla capacità dell’uomo moderno di dominare il proprio destino e plasmare il futuro. La percezione di stare vivendo in una crisi di civiltà era fondamentale nell’esperienza della modernità delle nuove generazioni, anche per giovani che non militavano nelle avanguardie. «L’anima collettiva - scriveva Mussolini nel 1903 - non è ancora interamente formata e si dibatte fra il vecchio e il nuovo, fra gl’ideali moderni e le credenze antiche»48. Mescolando Marx e Nietzsche, il giovane rivoluzionario interpretava la modernità soprattutto come epoca di una trasmutazione dei valori, che avrebbe portato, attraverso il socialismo, ad un superamento della civiltà cristiana e all’avvento di una nuova civiltà pagana, sotto l’impulso di una volontà di potenza «che si esplica nella creazione di nuovi valori morali o artistici o sociali» e «dà uno scopo alla vita… Il superuomo è un simbolo, è 52
l’esponente di questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza, di ideale. E la constatazione della nostra debolezza, ma nel contempo la speranza della nostra redenzione. È il tramonto - e l’aurora. È soprattutto un inno alla vita - alla vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualche cosa di più alto, di più fino, di più tentatore»49. Il problema della rigenerazione degli italiani e dell’educazione di un uomo nuovo fu al centro del progetto di modernizzazione culturale delle avanguardie, e ispirò la loro ricerca di un nuovo ideale di vita totale, che si manifestò nell’esigenza di una nuova religione laica, considerata un elemento fondamentale per consentire alla nazione di prepararsi ad affrontare le sfide della modernità. Il nuovo idealismo, le varie «filosofie della vita», il pragmatismo ridavano prestigio all’esperienza della fede nella vita della collettività. L’esigenza di una religione laica nazionale non era una residua forma di arcaici millenarismi o di visioni escatologiche tipiche dell’epoca premoderna, ma era fenomeno essenzialmente moderno. Il problema della modernità era innanzi tutto un problema religioso, osservava Croce nel 1908: «Tutto il mondo contemporaneo è di nuovo in ricerca di una religione» spinto dal «bisogno di orientamento circa la realtà e la vita, dal bisogno di un concetto della vita e della realtà»50. In questo senso, possiamo dire che tutti i movimenti d’avanguardia, sorti in Italia prima del fascismo, aspiravano ad essere movimenti «religiosi», ad elaborare un nuovo senso della vita e del mondo, e a diffonderlo, attraverso miti moderni, per l’educazione delle masse e per la loro integrazione nello 53
Stato nazionale, dando ad esse la coscienza collettiva della nazione come comunità di valori e di destino. Nel perseguire il progetto della rigenerazione nazionale, l’avanguardia modernista, coerente con la sua concezione militante della cultura, entrava inevitabilmente nel campo della politica, dove lo scontro fra ideali antagonisti di «modernità italiana» si concretizzò in un antagonismo di ideologie politiche. Croce voleva formare una coscienza italiana «non socialistica e non imperialistica o decadentistica, che riproduca in forma nuova quella del Risorgimento italiano»51. Il filosofo proponeva un modello razionale, liberale e borghese di modernità, che egli riteneva ancora pienamente valido per consentire all’Italia di far fronte alle sfide della vita moderna, sotto la guida della democrazia parlamentare. Fin dall’inizio del secolo, Croce si impegnò a combattere quella nuova condizione di spirito fatta di misticismo, di attivismo, di irrazionalismo, di estetismo e di imperialismo, che egli considerava una forma morbosa e patologica di modernità, da lui identificata col decadentismo e, successivamente, con il fascismo. Ma a gran parte delle nuove generazioni l’ideale liberale e borghese di modernità, tramandato dai padri fondatori dello Stato nazionale, appariva un modello sorpassato e inadeguato per plasmare la nuova Italia e guidarla nel vortice della vita moderna. Nella cultura delle avanguardie erano largamente diffusi i motivi della critica alla tradizione illuminista, razionalista e individualista. Questa critica, tuttavia, non muoveva verso ima reazione antimoderna ma proponeva altri paradigmi di modernità, che ideologicamente si tradussero in progetti politici di trasformazione dello Stato nazionale, non destinati tuttavia a sfociare 54
inevitabilmente nello Stato totalitario. L’unico paradigma autoritario della modernità fu elaborato dal movimento nazionalista imperialista, che riteneva la democrazia «in contraddizione con il movimento della vita moderna»52, perché lo stesso processo di sviluppo della società di massa, del socialismo e dell’economia capitalista portava ad affermare «il primato della forza e la necessità di un dominio sempre più vasto e profondo, rinnovando alcune caratteristiche condizioni delle antiche civiltà dominatrici»53. I nazionalisti imperialisti erano convinti che, per la natura stessa della modernità nell’epoca dell’imperialismo, la modernizzazione richiedeva nuove forme di autoritarismo per la società di massa: «Riappariscono così le tendenze oligarchiche, le preminenze militari, e i sistemi inneggianti ad aristocrazie forti e direttive, a un governo assoluto ed energico»54. Questi nazionalisti guardavano all’esempio della Germania e del Giappone come a modelli di modernizzazione autoritaria da proporre per la conquista italiana della modernità. La modernità, per loro, era l’inizio di una nuova epoca di dispotismo da «civiltà imperiale» verso cui erano indirizzati tutti i grandi Stati nazionali, anche quelli retti da regimi democratici come l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Le avanguardie culturali, come «La Voce» e il futurismo, cercavano altre vie per l’integrazione delle masse nello Stato nazionale e per assicurare alla nazione un sistema di governo adatto a guidarla nel suo cammino attraverso la vita moderna. Neanche il mito dell’italianismo, che condizionava la visione avanguardista della modernità, portava necessariamente a forme di nazionalismo autoritario. Tipico è il caso del futurismo, che ebbe fin dalle origini un 55
atteggiamento politico di avversione alla democrazia parlamentare, trasformato in vero e proprio impegno di azione con l’interventismo e, alla fine della grande guerra, con la fondazione di un partito politico futurista. Pur esaltando il nazionalismo e l’imperialismo, il futurismo si professava libertario e cosmopolita, pronto a favorire le più radicali riforme sociali nell’ambito del riconoscimento del primato della nazione come valore collettivo. Nel gruppo de «La Voce» fu predominante l’esigenza di conciliare nazionalismo e cosmopolitismo, libertà dell’individuo e Stato nazionale. I vociani proponevano una nuova democrazia nazionale di massa, anche se il loro concetto di democrazia rimaneva piuttosto vago nelle diverse interpretazioni che venivano proposte sulla rivista, nonostante questa reclamasse alcune riforme concrete, come il suffragio universale, il decentramento amministrativo, il liberismo. In realtà, ne «La Voce» convivevano una tendenza empirica riformatrice e una tendenza idealista che assegnava alla nuova politica compiti missionari di rigenerazione del carattere degli italiani, per guarirli dai mali di una plurisecolare abitudine alla sudditanza, al conformismo, alla retorica, per educarli a vivere nella libertà e con la dignità di cittadini consapevoli e responsabili di una nazione moderna. Il gruppo vociano si dissolse prima della grande guerra e non diede vita ad un movimento politico, come fecero i futuristi, ma molti vociani scesero in politica per sostenere, con motivazioni differenti, l’intervento dell’Italia, considerando la guerra un vero e proprio esame di modernità per la nazione, la prova della sua ascesa al ruolo di grande potenza. Ciò che politicamente accomunava comunque nazionalisti 56
autoritari e nazionalisti democratici o libertari, oltre l’avversione per il giolittismo, da essi considerato una forma di dittatura parlamentare corruttrice, era l’aspirazione alla costruzione di uno Stato nuovo, attraverso una rivoluzione spirituale che doveva produrre anche una rivoluzione politica, per portare al potere una nuova, giovane classe dirigente, nuova aristocrazia di intelletto e di carattere. La contestazione antigiolittiana era condotta all’insegna del «mito della giovinezza», come forza in sé rivoluzionaria e rigeneratrice mobilitata contro la società borghese liberale, che i giovani giudicavano decadente e corrotta, materialistica e conformista, priva di ideali e di grandi visioni del futuro. Il «mito della giovinezza» postulava l’esistenza di peculiari qualità rigeneratrici nelle nuove generazioni, attribuendo ai giovani prerogative e attitudini adatte a candidarli come nuova classe dirigente capace di guidare il paese nell’oceano tempestoso della vita moderna. La vecchia classe dirigente liberale era custode del passato, la «nuova aristocrazia» era l’avanguardia dei nuovi italiani «costruttori dell’avvenire»55. Tutti i movimenti della contestazione antigiolittiana condividevano il «mito della giovinezza», interpretando la lotta dei giovani, sani e vitalisti, contro i vecchi, senescenti e corrotti, come una fase necessaria nella «conquista della modernità». I giovani che, da destra o da sinistra, combattevano il regime parlamentare erano convinti di possedere le qualità morali e i valori etici superiori della «nuova aristocrazia» destinata a guidare la «conquista della modernità», attraverso una rivoluzione spirituale come premessa e condizione di una rivoluzione politica, per «cambiare radicalmente tutta l’anima di molti uomini»56, come annunciava nel 1913 Papini, impegnato 57
nella campagna futurista per preparare «in Italia l’avvento di quest’uomo nuovo»57. I futuristi, ribadiva nello stesso tempo Boccioni, volevano dare all’Italia «una coscienza che la spinga sempre più al lavoro tenace, alla conquista feroce. Che gli italiani abbiano finalmente la gioia inebriante di sentirsi soli, armati, modernissimi, in lotta con tutti e non pronipoti assopiti di una grandezza che non è più la nostra… Bisogna prendere partito, infiammare la propria passione, esasperare la propria fede per questa grandezza nostra futura che ogni italiano degno di questo nome sente nel profondo, ma che desidera troppo fiaccamente! Ci vuole del sangue, ci vogliono dei morti… Bisognerebbe impiccare, fucilare chi devia dalla idea di una grande Italia futurista»58. Anche il «mito della violenza rigeneratrice» - attraverso la guerra o la rivoluzione - appartiene al patrimonio della cultura dell’avanguardia modernista. All’origine dell’interventismo di molti giovani intellettuali vi fu la convinzione che l’Italia, per raggiungere lo stato di grande nazione moderna, doveva passare attraverso l’esperienza di una guerra. La partecipazione alla grande guerra rappresentava per l’Italia l’entrata «nella grande storia del mondo»59, sentenziò il filosofo Giovanni Gentile alla fine del conflitto. Nella concezione futurista, la guerra era «grande e sacra legge della vita», era il periodico «collaudo sanguinoso e necessario della forza del popolo»60. L’esaltazione della «guerra rigeneratrice» non era soltanto futurista. Sia pure con motivazioni diverse, la concezione positiva della guerra nella vita della nazione era predominante nella nuova cultura nazionale. La guerra era parte integrante della visione nazionalista della modernità. Corradini faceva l’apologià della «modernità 58
della guerra»61. Fin dal 1905, con tragico spirito profetico, Morasso aveva annunciato: «Il secolo decimonono fu il secolo della utopia democratico-umanitaria, il secolo XX sarà il secolo della forza e della conquista… E nel nuovo secolo che la forza avrà il suo regno più vasto, ed è nel nuovo secolo che si vedranno gli eserciti più formidabili e le guerre più sanguinose»62. L’idea della moralità della guerra, nell’ambito dell’avanguardia modernista, derivava dal mito della palingenesi nazionale, come processo necessario per la formazione di una coscienza italiana moderna63. Amendola attribuiva alla guerra un significato morale, come esame collettivo di disciplina e di sacrificio in cui si metteva alla prova e si temprava il carattere dell’individuo e della nazione64. Giovanni Boine idealizzava la disciplina militare, per il senso della gerarchia e dell’ordine, modello esemplare di educazione collettiva per formare il carattere degli italiani ed educarli nel culto della «religione della patria»65. La coscienza dell’Italia moderna doveva essere plasmata attraverso una pedagogia eroica, fatta di spirito di sacrificio, di esercizio della disciplina, di disponibilità al combattimento, di sublimazione dell’individuo nella dedizione alla collettività. Tutti questi elementi costituivano il nucleo di una modernistica etica nazionale, improntata al «culto dell’eroico»66, in «una atmosfera di mito e di epopea», come scriveva il sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti, il quale riscontrava, non a torto, affinità spirituali e culturali fra sindacalismo rivoluzionario e futurismo nella volontà di potenza e nell’ideale di una «palingenesi attraverso il crogiuolo ardente della lotta»67. L’esplosione della guerra europea fu, in un certo senso, 59
prevista e auspicata dalle avanguardie moderniste, dal movimento nazionalista e dal sindacalismo rivoluzionario. Alla vigilia della grande guerra, vi era in Italia l’attesa messianica di un’incombente catastrofe palingenetica, che questi movimenti invocavano per realizzare la rivoluzione spirituale che doveva rigenerare la nazione e portarla definitivamente alla «conquista della modernità». La partecipazione dell’Italia alla grande guerra fu voluta dall’interventismo nazional-rivoluzionario come necessario rito di iniziazione collettiva degli italiani alla modernità. E la guerra fu effettivamente, per milioni di italiani, una tragica «esperienza di modernità»68. Il nazionalismo modernista e l’esperienza della guerra posero le condizioni per l’incontro fra avanguardia e fascismo. Attraverso l’esperienza della guerra, molte idee e molti miti dell’avanguardia modernista si riversarono nel nascente fascismo e contribuirono a formare la sua ideologia, mescolandosi con le idee e i miti dell’esperienza dello squadrismo, con le idee e i miti della nuova cultura idealistica, con il retaggio, più o meno alterato, di tradizioni ideologiche della destra e della sinistra risorgimentale, e con idee e miti dei più recenti movimenti radicali, sia di destra che di sinistra. La storia di queste confluenze nella formazione dell’ideologia fascista è la materia del nostro libro. Nata dall’esperienza della grande guerra ed erede del nazionalismo modernista, l’ideologia fascista può essere considerata una manifestazione di modernismo politico, intendendo con questo termine definire un’ideologia che accetta la modernizzazione e ritiene di possedere la formula capace di dare agli esseri umani, trascinati nel vortice della 60
modernità, «il potere di cambiare il mondo che li sta cambiando, di fare la propria strada all’interno di quel vortice e di farlo proprio»69. Nel caso del fascismo, infatti, non crediamo si possa parlare di «modernismo reazionario»70, come ideologia antimoderna che intende servirsi della tecnologia per difendere o affermare l’ideale di una società tradizionale posta al riparo dal movimento della civiltà moderna. Il fascismo non fu in questo senso antimoderno, anche se nella sua ideologia ci furono elementi di «rivolta contro il mondo moderno», identificato con la civiltà protestante e liberale, di tradizionalismo monarchico reazionario o di culto mitico del provincialismo «strapaesano»71. Il fascismo ebbe una propria visione della modernità che si contrapponeva alla cultura, all’ideologia, allo stile della modernità liberale, socialista e comunista, e rivendicò a sé la pretesa di imporre la propria formula di modernità al XX secolo. In questo senso, si può parlare di «modernismo fascista». Tipicamente modernistica, nel fascismo, era innanzi tutto la concezione attivista della vita, che voleva dire, come spiegava l’organo dei Fasci di combattimento, «saper comprendere i tempi che si vivono, sapersi adattare all’atmosfera cambiata, agli avvenimenti che si susseguono, che si accavallano nel vorticoso ansare della civiltà moderna»72. L’attivismo si accompagnava alla concezione irrazionalista della politica, che affermava la priorità dell’esperienza vissuta rispetto alla teoria, il primato della fede rispetto alla ragione nella formazione di una cultura politica73. Il relativismo antiteoretico del fascismo e lo sperimentalismo istituzionale erano un altro tratto modernistico del fascismo, coerente con un’intuizione 61
esistenzialista della politica, intesa innanzi tutto, nella sua immediata scaturigine vitalistica, come «audacia, come tentativo, come impresa, come insoddisfazione della realtà, come avventura, come celebrazione del rito dell’azione»74. Tipicamente modernistica, inoltre, era l’affermazione del primato del pensiero mitico - in senso soreliano - nella politica di massa, e modemistico era anche l’uso mitico della storia e della tradizione per la mobilitazione delle masse e la fondazione di una religione politica. La tradizione storica, per il fascismo, non era un tempio dove contemplare e venerare nostalgicamente la grandezza di glorie remote, serbandone integra la memoria consacrata dalle vestigia archeologiche: la storia era un arsenale dal quale attingere miti di mobilitazione e di legittimazione dell’azione politica. Le glorie del passato erano evocate come eccitamento per l’azione volta alla creazione del futuro. Il mito della romanità apparteneva a questa esigenza di costruzione del proprio universo simbolico. Il culto della romanità era celebrato, modernisticamente, come mito d’azione per il futuro, mirante a creare una nuova civiltà per l’epoca moderna, solida e universale come la civiltà romana75. I fascisti ritenevano la romanità fonte di ispirazione di virtù civiche, di senso dello Stato, di valori organizzativi universali cui attingere per elaborare un modello moderno di civiltà nuova. Con l’istituzionalizzazione del «culto del littorio», il fascismo realizzava, nelle forme sue proprie, un’altra aspirazione del nazionalismo modernista, la costmzione di una religione laica della nazione. Gli artisti dell’avanguardia modernista diedero con passione e con fede il loro contributo alla costruzione dell’universo simbolico della 62
religione fascista per rappresentare alle masse, e perpetuare nel tempo, i suoi ideali e i suoi miti. Sintesi di politica, religione ed estetica, la «modernità italiana», per il fascismo, doveva concretizzarsi non solo in nuove istituzioni politiche, in una nuova religione laica, in una modernizzazione a servizio della potenza nazionale, ma doveva soprattutto estrinsecarsi come modo di vivere, come stile di vita. Lo stile era ciò che definiva l’essenza originale e universale di una civiltà e ne tramandava la grandezza nelle epoche future. Nel mito della «nuova civiltà», il culto della romanità si conciliava senza stridente contraddizione con altri aspetti propriamente futuristici del fascismo, come l’entusiasmo per l’azione, 1’attivismo, il culto della giovinezza e dello sport, l’ideale eroico dell’avventura, il pragmatismo, e soprattutto la volontà di sperimentare continuamente il nuovo attraverso l’azione creativa, proiettata verso il futuro, senza nostalgie reazionarie per un passato da restaurare e un presente da preservare dal ritmo accelerato del movimento moderno. Il fascismo non aveva nostalgia di un regno del passato da ricostituire; non instaurò il culto della tradizione come sublimazione del passato in una visione metafisica di ordine intangibile, da preservare integro, segregandolo dal ritmo accelerato della vita moderna. Il fascismo riconosceva che la tradizione era «una delle più grandi forze spirituali dei popoli», ma non come qualcosa di «sacro ed immutabile ed intangibile», bensì come «creazione successiva e costante della loro anima»76. Il passato doveva essere una «pedana di combattimento per andare incontro all’avvenire»77. Ci furono intellettuali fascisti che idealizzarono l’armonia del buon tempo antico all’ombra del trono e del campanile, ma l’impulso principale 63
del fascismo era dato dal sentimento dinamico dell’esistenza, dal mito del futuro. I fascisti si consideravano, come i futuristi, «costruttori dell’avvenire». Modernistico era infine il mito fascista della «rivoluzione continua», che spingeva il fascismo a non acquietarsi nei successi conseguiti e a garantirsi la permanenza al potere con una prudente politica di conservazione, bensì a sentirsi obbligato, quasi condannato, dall’impulso della sua essenza originaria, a proiettarsi verso il futuro, come nuova realtà da costruire imprimendo sulla civiltà del futuro lo stile di una nuova «modernità italiana», insieme nazionale e universale. Il modernismo fascista mirava a realizzare una nuova sintesi fra tradizione e modernità, senza rinunciare alla modernizzazione per realizzare i fini di potenza della nazione. Anche se esaltava l’ideale del «buon contadino» legato alla terra e alle tradizioni, il fascismo non era antindustrialista e non respingeva il progresso tecnologico. La tecnologia era uno strumento della civiltà moderna a cui il fascismo non poteva rinunciare senza dover anche rinunciare alle sue ambizioni di potenza. Il fascismo aveva verso la modernità un atteggiamento ambivalente che attenuava in parte l’entusiasmo modernistico del nazionalismo del primo Novecento, introducendo nella sua visione della modernità una differenziazione fra una modernità «sana», da costruire, e una modernità «perversa» da combattere rappresentata dal materialismo borghese, dall’individualismo liberale, dal collettivismo comunista. Capovolgendo la visione crociana della modernità, i fascisti pretendevano di essere gli artefici di una modernità «sana», antagonista della modernità «perversa» di matrice illuminista e razionalista. Essi ritenevano di avere 64
scoperto una nuova «formula della civiltà moderna»78, capace di salvare la civiltà occidentale dalle degenerazioni dell’industrialismo, del macchinismo, dell’urbanismo. Il fascismo ebbe l’ambizione di portare a compimento la conquista italiana della modernità attraverso la rivoluzione totalitaria che, come la rivoluzione spirituale delle avanguardie, voleva essere rivoluzione totale, cioè investire tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, del costume e del carattere, per rigenerare la nazione, forgiare l’«italiano nuovo», costruire una nuova civiltà. Lo Stato totalitario e la «sacralizzazione della politica», con l’integrazione delle masse nella nazione attraverso la fede, i riti e i simboli della religione fascista, erano i fondamenti della «modernità fascista», le strutture capaci di incanalare e utilizzare tutte le energie della modernizzazione a vantaggio della potenza nazionale, tenendo lontani dalla nazione i mali della modernità «perversa». La «modernità fascista» imponeva agli individui e alle masse la rinuncia alla libertà e alla ricerca della felicità in nome del primato assoluto della collettività nazionale organizzata nello Stato totalitario per conseguire fini di grandezza e di potenza. L’analisi del rapporto tra fascismo e modernità è certamente uno dei temi fondamentali, secondo noi, che la storiografia deve ancora approfondire, non solo per capire il fascismo ma per capire la natura stessa della modernità nel XX secolo. Precisiamo però che considerare il fascismo una espressione politica della modernità non significa né elogiare il fascismo né denigrare la modernità. Certo, se si identifica la modernità con la tradizione illuminista e la civiltà liberale, l’esclusione del fascismo - e di qualsiasi altra forma di totalitarismo - dalla modernità è automatica. Ma, 65
pur condividendo l’ideale di una modernità razionalista e liberale, non crediamo sia coerente con una vera attitudine scientifica trasformare tale ideale in una categoria di interpretazione storiografica, avvalorando una visione dicotomica della storia contemporanea irrigidita nell’antagonismo «progresso/reazione», «modernità/antimodernità», «storia/antistoria». La crisi del modello razionalista e progressista della modernità, come criterio di valutazione dei fenomeni della storia contemporanea, ha portato a riconoscere che irrazionalità e modernità, autoritarismo e modernità, non sono affatto incompatibili e possono anche convivere79. Ci sono nuove forme di autoritarismo e di irrazionalismo che non rappresentano affatto residui della società premoderna, ma sorgono dai processi stessi della modernizzazione, generando modelli e ideali di modernità alternativi o antagonisti rispetto al modello razionalista liberale. Dopo le tragiche esperienze del XX secolo, si deve constatare che la società moderna è stata anche la matrice di nuove forme di autoritarismo, come il totalitarismo nelle sue diverse versioni e gradazioni, fondate sulla mobilitazione delle masse, sul culto di secolari deità moderne (nazione, razza, classe), sull’etica della dedizione dell’individuo alla collettività, sul mito della produttività in funzione ideologica. La modernizzazione non solo non ha innescato un processo irreversibile di «disincantamento del mondo», e non ha condotto, attraverso la secolarizzazione, alla scomparsa del mito e del «sacro», bensì ha prodotto diverse «metamorfosi del sacro» e nuove mitologie. La sacralizzazione della politica è fenomeno essenzialmente moderno, e presuppone la modernizzazione e la secolarizzazione. La modernità è stata 66
una grande generatrice di miti e di credenze politiche proiettati verso la costruzione del futuro, a cominciare innanzi tutto dal mito dominante di questi ultimi due secoli, cioè il mito della rivoluzione, che è stato forse la fonte principale delle religioni politiche generate dalla modernità80. Il mito della rivoluzione, la fede rivoluzionaria nella potenza rigeneratrice della politica, è stata la manifestazione universale di una sacralità propriamente moderna, che ha animato movimenti opposti e nemici, i quali ebbero in comune la volontà di conquistare la modernità per plasmare il futuro secondo il modello delle loro ideologie. ComuniSmo e fascismo, esperimenti antagonisti di modernità totalitaria, sono stati i due maggiori movimenti nei quali ha preso corpo la fede rivoluzionaria nel XX secolo. È compito dello storico capire perché milioni di persone, per motivazioni opposte, sono state affascinate e hanno creduto alle ideologie di questi movimenti che promettevano la rigenerazione della nazione o dell’umanità, la fine dell’alienazione e dei conflitti prodotti dalla modernità democratica borghese, e la costruzione di una nuova civiltà. Il fascismo prometteva di costruire una nuova civiltà dell’entusiasmo e della potenza collettiva di individui e masse uniti dalla fede nella comune impresa di sfidare il tempo per dominare la storia e plasmare il futuro, chiedendo loro in cambio, per il successo dell’impresa, il sacrificio della libertà e una incondizionata sottomissione al culto totalitario della politica.
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Prefazione Ci sono opinioni diverse sull’esistenza o meno di un’ideologia del fascismo italiano. La storiografia ha dedicato scarsa attenzione a questo aspetto del fenomeno fascista. Di fronte ad esso, gli studiosi si sono arenati quasi sempre su osservazioni molto generiche oppure hanno evitato il problema affermando che il fascismo non ebbe un’ideologia, «ma piuttosto ne ricevette e se ne attribuì diverse» 1 . È stato anche scritto che, quando si vuol definire «quella che è stata l’ideologia del fascismo, ci si accorge che non è mai esistita o che una sovrastruttura ideologica è stata, volta per volta, improvvisata sulla spinta dell’azione»2. Queste opinioni, ancora oggi, sono molto diffuse. Il fascismo - è stato detto - non fu il risultato di una dottrina, non ne ebbe una propria e, per sua esplicita ammissione, fu soltanto azione. Le idee con le quali giustificava la sua prassi politica, nei vari momenti della sua storia, appartenevano ad altri movimenti. L’ideologia del fascismo - si è aggiunto - fu un coacervo di idee diverse, non fu né organica né coerente ma, improvvisata per opportunismo, non ebbe alcuna vitalità. I tentativi fatti dagli stessi fascisti per elaborare una loro ideologia appaiono - di conseguenza - come un catechismo di dogmi o una serie di sonanti frasi senza senso. Regime di asini -in conclusione - e strumento della reazione, il fascismo non era un movimento sociale con caratteristiche proprie e non poteva esprimere, perciò, un qualsiasi pensiero o elaborare un’ideologia. Tutt’al più esso prese a prestito quella dei nazionalisti, di cui divenne il braccio secolare. Quanto, infine, all’adesione dell’idealismo gentiliano al fascismo, fu 68
errore o illusione o calcolo politico. Non si può negare ai giudizi esposti almeno una parte di verità. Tuttavia, non si deve dimenticare il loro carattere di valutazioni generali e schematiche che spesso possono non avere riscontro nell’esame dei fatti. Inoltre, sia ben chiaro che riconoscere la presenza di un’ideologia in un qualsiasi movimento non implica alcuna considerazione positiva sul valore etico-politico di questo movimento. Anzi, come ha dimostrato il grande storico delle Origini culturali del Terzo Reich, George L. Mosse, la presenza di una sistematica e originale ideologia fu un elemento essenziale per la sinistra efficacia del nazismo. Del resto, i disastri che il fascismo fece in Europa furono anche conseguenza di una concezione della vita e dei rapporti umani nata da una «perversion de l’esprit»3. Lontani da una interpretazione idealistica («l’idea che si fa mondo»), noi crediamo che il maggior limite dei giudizi ricordati sia quello di voler sottoporre il fascismo alla prova di un concetto geometrico dell’ideologia. Se un simile concetto venisse applicato ad altri movimenti politici del nostro o di altri tempi, pochi di essi potrebbero superare la prova, mentre molti fenomeni storici sarebbero ridotti a convulsioni di masse inconsapevoli trascinate da «uomini del destino». L’ideologia - purché il termine non sia preso sempre en bonne part - ha varie definizioni, ma da nessuna di queste è considerata come un teorema geometrico che deve rispondere al principio di non contraddizione o essere necessariamente composta di elementi originali4. Ogni gruppo sociale - e non si può negare questa caratteristica al fascismo - ha un sistema, più o meno coerente ed esplicito, di valori, di norme e di miti in base ai quali il gruppo 69
definisce la propria identità, conserva la coesione interna, si procura proseliti all’esterno, si distingue da altri gruppi, determina gli orientamenti pratici e propone i fini da conseguire. Qualsiasi ideologia, perciò, è composta da una parte emotiva, una parte mitica, una parte normativa e una parte logica, ma con funzione essenzialmente pratica. Ora, se all’indagine storica l’ideologia fascista può presentarsi poco logica o poco sistematica, ciò non significa che il fascismo non ebbe un’ideologia diversa da altre preesistenti o contemporanee e, in qualche modo, affini. Sarebbe come dire che se una persona non pensa col rigore di un filosofo sistematico, non ha una sua visione del mondo, per quanto eclettica ed elementare, che regola, stimola e giustifica il suo comportamento. L’ideologia fascista non va cercata soltanto nei trattati teorici composti negli anni del regime per dare al fascismo una dottrina formale e coerente. Bisogna esaminare piuttosto le forme di espressione che manifestano una concezione politica della vita e della società, un ideale di comportamento e un complesso di valori che furono tipici del gruppo o, meglio, dei gruppi che si definirono fascisti5. Ideologia, insomma, può essere considerata «toute proposition ou ensemble de propositions, plus ou moins cohérentes et systématisées, permettant de porter des jugements de valeur sur un ordre social (ou secteur quelconque de l’ordre social), de guider l’action et de définir les amis et les ennemis»6. È lecito, dunque, parlare di ideologia del fascismo? A chi gli poneva questa domanda, Benedetto Croce rispondeva, nel 1924: Veramente, di disegni politici, ossia di nuove costituzioni, mi pare che finora si siano messi innanzi scarsi e vaghi 70
accenni. C’è piuttosto la formula generica del «nuovo Stato fascista» e la richiesta di riempirla di un contenuto adatto. Odo parlare perfino del nuovo pensiero, della nuova filosofia, che sarebbe implicita nel fascismo: credo di aver letto parecchi articoli su questo argomento. E mi son provato, così, per curiosità, a cercar di desumere dagli atti del fascismo la filosofia o almeno la tendenza morale nuova, che si dice implicita in esso, e, quantunque abbia qualche pratica e qualche abilità in coteste analisi e sintesi logiche, in coteste riduzioni a princìpi, questa volta non sono venuto a capo di nulla. Temo che il nuovo pensiero non ci sia, e credo che non ci sia perché non possa esserci7. Allo stesso modo, Piero Gobetti affermava che per «il fascismo le teorie sono ideologie piacevoli che bisogna improvvisare e subordinare alle occasioni. Le avventure riescono più seducenti che le idee, e queste perdendo la loro dignità e autonomia sono ridotte a funzioni servili»8. I giudizi di Croce e di Gobetti sono stati, in un certo senso, la radice dell’opinione generale su una assoluta mancanza di ideologia nel fascismo, opinione derivante dalla più complessa e, per certi aspetti, semplicistica identificazione «fascismo-anticultura», che è comune all’interpretazione liberale e a quella radicale. Unica eccezione, per restare nell’ambito delle interpretazioni «classiche» italiane, è costituita - pur nei limiti di una valutazione generale - dal giudizio dei comunisti, i quali giustamente collegarono il problema dell’ideologia con quello della principale componente sociale del fascismo, cioè quella piccola e media borghesia che non si riconosceva più nell’ideologia delle vecchie classi dirigenti. Nelle Tesi di Lione, dopo aver definito il fascismo come una reazione armata postasi al 71
servizio dei vecchi ceti dirigenti contro le conquiste della classe lavoratrice, Gramsci notava che il fascismo, socialmente, trovava però la sua base di massa «nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni». Questa base sociale, «e il fatto di aver trovato una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni militari in cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla guerriglia contro i lavoratori, permettono al fascismo di concepire ed attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi ceti dirigenti. Assurdo parlare di rivoluzione. Le nuove categorie che si raccolgono attorno al fascismo traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità di “capitalismo nascente”». «Ciò spiega - continuava Gramsci - come sia possibile la lotta contro gli uomini politici del passato e come esse possano giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini»9. Ancora più esplicito, Togliatti nel 1928 affermava: «Non si può negare che esista una ideologia del fascismo», una ideologia che, sebbene eclettica e confusa, era molto efficace nella funzione di conquista e conservazione del consenso10. Solo negli anni più recenti alcuni studiosi, di varie discipline, si sono occupati dell’ideologia fascista. Anche se non sono concordi nel definire i caratteri e i contenuti di questa ideologia o hanno ripetuto, nel complesso, alcuni luoghi comuni, tuttavia hanno avuto il merito di aver avviato una indagine più scientifica sul problema. Secondo noi, il limite più evidente di questi studi (specialmente quelli ad indirizzo sociologico-politico) è di non considerare 72
l’ideologia fascista nel suo concreto, e non sempre uniforme, svolgimento storico (che può essere compreso negli anni fra le due guerre), e di attribuire un’importanza forse eccessiva all’aspetto della coerenza formale, ricercando sviluppi teorici organici, connessioni sistematiche, accostamenti transpolitici, e affinità e concordanze non sempre convincenti oppure assai vistose ed evidenti ma non sostanziali, con altre ideologie del nostro tempo11. Noi proponiamo, in questo studio, una ricostruzione propriamente storica dell’ideologia fascista nel periodo che va dalla grande guerra agli inizi del regime. La scelta dei termini cronologici, come si vedrà dalla nostra narrazione, non è arbitraria. Vi è, secondo noi, una periodizzazione oggettiva dei motivi principali dell’ideologia fascista, che negli anni a cavallo della «marcia su Roma» presenta caratteri diversi, almeno in parte, da quelli degli anni del regime. I miti principali del fascismo nascono nel periodo che abbiamo preso in esame, ma la loro genesi non segue uno sviluppo unitario. Per questo motivo, non abbiamo cercato coerenze formali e uniformità logiche dove non c’erano - per il carattere particolare dell’ideologia fascista, che rifiutò esplicitamente ogni forma di razionalismo e di intellettualismo - ma abbiamo ricostruito la genesi storica e lo sviluppo di varie idee fondamentali del fascismo presenti negli anni 1918-1925. Abbiamo cercato di mostrare, quindi, la diversità e la varietà delle componenti ideologiche, al di sotto di alcuni atteggiamenti comuni, e di descrivere la loro durata e la loro diffusione nella concreta situazione storica e sociale in cui erano maturate e in cui o si dileguarono o furono accantonate, per riapparire, alcune di esse, ancora in anni successivi. Per meglio chiarire il metodo e il carattere 73
della nostra storia dell’ideologia fascista, avvertiamo il lettore di esserci serviti del concetto di derivazione con il quale Vilfredo Pareto indicava, secondo una chiara definizione di Norberto Bobbio, «il complesso dei ragionamenti logici e pseudologici che l’uomo fabbrica per persuadere gli altri e anche se stesso a credere in certe cose o a compiere certe azioni». Nel Trattato di sociologia generale, Pareto spiega che Le teorie concrete, nelle materie sociali, si compongono di residui e di derivazioni. I residui sono manifestazioni di sentimenti. Le derivazioni comprendono ragionamenti logici, sofismi, manifestazioni di sentimenti adoperate per derivare; esse sono manifestazioni del bisogno di ragionare che prova l’uomo. Se questo bisogno si appagasse solo coi ragionamenti logico-sperimentali, non vi sarebbero derivazioni, ed invece si avrebbero teorie logicosperimentali; ma il bisogno di ragionamento dell’uomo si appaga in molti altri modi, cioè: con ragionamenti pseudosperimentali, con parole che muovono i sentimenti, con discorsi vani, inconcludenti; e così nascono le derivazioni12. La razionalizzazione della prassi, secondo Pareto, è un processo spontaneo e connaturato all’uomo, perciò non bisogna vedervi soltanto una comoda, consapevole e strumentale invenzione di spiegazioni post factum (che certamente vi furono nel fascismo e in misura notevole), ma anche l’espressione di convincimenti sinceri, di idee maturate attraverso esperienze diverse e talvolta contraddittorie, di illusioni e di utopie che patirono il disinganno solo di fronte alla più evidente e brutale realtà. Certo, nel fascismo era dominante la concezione del valore 74
strumentale delle idee, che si risolvevano spesso in giustificazioni di comodo per l’azione, ma, come è stato osservato molto giustamente, «è egualmente possibile e probabile che i programmi del fascismo in tanto furono tali in quanto il regime “pensava” proprio in base a quei canoni teorici. E tipico di ogni formulazione teorica essere egualmente una spiegazione di comodo a posteriori dell’azione e, insieme, la ragione di fondo di questa azione. L’una e l’altra cosa, dunque. E quale sia in prevalenza in un dato momento, e in una data occasione, non è facilmente individuabile, e nemmeno forse è possibile»13. L’uomo che vuol ingannare gli altri - per dirla con Pareto - comincia con l’ingannare se stesso. Nella nostra narrazione, naturalmente, non abbiamo pensato affatto di spiegare il fascismo con la sua ideologia, anche se la consideriamo uno degli elementi, e non il meno importante, del consenso che il fascismo ebbe in Italia e all’estero. Del resto, alle domande che si pone chi desidera conoscere il passato, la storia non dà mai una sola risposta. Perciò, nei limiti della nostra ricerca, abbiamo cercato soltanto di ricostruire una delle tante «tessere» di cui era composto il fenomeno fascista.
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Capitolo primo L’ideologia di Mussolini dal socialismo all’interventismo Mussolini ostentò sempre indifferenza per le teorie politiche, compiacendosi di dare di sé l’immagine di un uomo d’azione che credeva soltanto nel valore dell’azione e disprezzava i teorici che sacrificano la realtà sull’altare delle loro idee. Perciò, Mussolini è stato considerato un politico privo di convinzioni, mosso solo da uno smodato desiderio di potere, volubile e incoerente, pronto nel mutare le sue idee con il variare delle circostanze. Privo di cultura, egli non sarebbe stato guidato nella sua azione politica da una qualche idea centrale e gli sarebbe mancata una concezione personale della vita, della società e della politica, anche se fu abile nel provvedersi di idee altrui quando gli parevano utili. Non vi è dubbio che Mussolini non fu uomo di cultura, anche se, da giovane specialmente, ebbe molte curiosità intellettuali, tipiche dell’autodidatta, e fu sensibile specialmente alle idee d’avanguardia, che più si confacevano al suo desiderio di novità e di modernità. Non va sottovalutata, in questo senso, per esempio, la sua relazione con «La Voce» fiorentina, di cui Mussolini fu lettore, collaboratore e divulgatore, e che ebbe una grande influenza sulla sua formazione, come egli stesso riconobbe. Tuttavia, come è stato notato, non si può certo valutare la sua cultura con la misura di un Croce o della più comune scienza accademica1. La sua fu la cultura tipica di un uomo d’azione, non inferiore comunque a quella di molti altri uomini politici del suo tempo, mentre si dimostrava, talvolta, rispetto a molti di questi, più «moderna». Resta il 76
fatto che Mussolini, nonostante il suo pragmatismo, nutrì sempre un desiderio di idee generali ed ebbe l’ambizione di dare alla sua azione la dignità di una coscienza ideologica, anche se non elaborata in compiute ed organiche riflessioni. Da socialista volle affiancare all’«Avanti!», nel periodo in cui ne fu il direttore, una rivista con espliciti intenti teorici, «Utopia»; da fascista, accompagnò le polemiche quotidiane de «Il Popolo d’Italia» con le estrosità intellettuali dell’«Ardita» e, in un secondo tempo, con le asserzioni e le discussioni ideologiche di «Gerarchia». Soprattutto uomo d’azione, Mussolini cercò sempre di dare alle sue scelte pratiche una motivazione generale e volle presentarsi, da socialista e da fascista, anche come «ideologo». Non vi sono motivi sufficienti per affermare che la sua aspirazione era dettata solo da opportunismo, e che non ebbe relazioni e conseguenze nella sua azione politica. In effetti, Mussolini fu un uomo politico che subiva il fascino delle idee. I suoi scritti e i suoi discorsi sono pieni di affermazioni di principio, di citazioni e riferimenti «colti», spesso forzati, talvolta estemporanei e contingenti, in non pochi casi suggeriti dall’intento di impressionare il pubblico, ma che non sempre erano attinti a fonti di seconda mano o erano frutto di letture occasionali e superficiali. Lo colpivano soprattutto le idee esposte in una forma assiomatica e immaginosa, che potevano essere facilmente assimilate e tradotte in formule semplici e chiare, utili per l’azione. Mussolini fu sempre convinto del valore pratico delle idee. «Per noi le idee non sono entità astratte, ma forze fisiche»2. Egli acquisiva certe idee per due ragioni: o perché confermavano sue confuse intuizioni o perché gli 77
illuminavano la mente su questioni del momento e gli offrivano una soluzione con cui orientarsi. Certo, non fu un ideologo originale, né può essere paragonato ad altri capi del nostro tempo per profondità e novità di concezioni: ma Mussolini sapeva dare, alle idee che assimilava, un accento proprio, e fonderle in una visione personale della vita. Gli autori che ebbero maggior influenza sulla sua formazione, lasciando una traccia durevole nella sua visione e valutazione degli uomini e della società, furono - negli anni giovanili - Marx, Nietzsche, Oriani, Sorel, Pareto e, in seguito, Machiavelli e Le Bon. A questi autori bisogna aggiungere, come si è già accennato, l’influenza delle avanguardie culturali fiorentine del «Leonardo» e de «La Voce», e le riviste del sindacalismo rivoluzionario, come «Pagine Libere» di Olivetti. Gli autori e le riviste appena citati, nella loro eterogenea combinazione, avevano in comune, secondo una volgarizzazione ideologica priva di valore speculativo, atteggiamenti e idee che ritroviamo in Mussolini e che costituiscono i fondamenti della sua cultura politica, ai quali restò fedele attraverso le varie vicissitudini della sua vita di militante e di governante. Altri autori ed altre correnti ideologiche ebbero influenza su di lui, col mutare degli anni e delle situazioni, e furono, volta per volta, assimilati o presto dimenticati, ma la sua cultura politica conservò un nucleo saldo, che possiamo scorgere fin nei suoi primi scritti significativi. Tale cultura - intesa come concezione della vita, dei rapporti fra gli uomini, del senso della storia, del valore della politica - era fondata sui seguenti motivi: a) un’idea della politica concepita soggettivamente come 78
arte, cioè intuizione individuale di circostanze opportune che possono essere modellate dalla volontà del politico; oggettivamente, come semplice manifestazione di forza e scontro di interessi e di ambizioni; b) la riduzione delle idee a miti, nel significato soreliano del termine, o idee-forza, nel senso dato da Le Bon, cioè come strumenti per suscitare le passioni delle folle, conquistare la loro fede e spingerle all’azione; c) disprezzo delle masse, ma realistica valutazione della loro importanza nella politica della società moderna, senza alcuna fiducia nella loro evoluzione verso forme di autonoma coscienza collettiva; d) una visione della storia come ciclo di gerarchie, di aristocrazie, di èdites, insomma di minoranze energiche e volitive, senza alcun senso finalistico nel suo divenire; e) la possibilità di palingenesi sociali o di rivoluzioni per mezzo di grandi capi, concepiti niccianamente come uomini nuovi, che vivono e operano al di là e al di sopra delle comuni regole morali; /) pessimismo e scetticismo sui valori umanitari, morali e sociali; sulla natura degli uomini, considerati machiavellianamente tendenti al male, se non sono sottomessi da un potere superiore che li aggioga e impone loro un ordine statale. È su questa trama costante di residui psicologici e di derivazioni teoriche che, attraverso varie componenti, nelle diverse epoche della sua carriera politica, si svolge la storia dell’ideologia di Mussolini. 1. L’eretico del socialismo
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La formazione ideologica giovanile di Mussolini era frutto del socialismo e della rinascita idealistica, cioè del rinnovamento culturale - che reagì al positivismo e alle sue derivazioni politiche -iniziato in Italia dalla «Critica» e dal «Leonardo». L’idealismo, di cui molto si parlava agli inizi del secolo, più che una definita corrente filosofica, era una mentalità, una esaltazione attivistica della vita, concepita come creazione spontanea e inesauribile dello spirito - cioè pensiero, intuizione, volontà -, contro le concezioni deterministe ed evolutive della mentalità positivista. Fin dalle prime espressioni degne di nota, il pensiero di Mussolini appare fortemente impregnato di spirito idealistico, con l’ostentato gusto per l’eresia, l’esibizione di idee audaci e prive di pregiudizi in contrasto con le cautele ideologiche del conformismo borghese dell’Italia giolittiana, che Mussolini amava scandalizzare col suo modo di vivere eccentrico, con saggi di invenzione letteraria a sfondo erotico o ispirati alla maniera macabra del Poe3. Il periodo fra il 1903 e il 1914 fu certamente quello del suo maggior impegno culturale. La sua curiosità intellettuale veniva soddisfatta da un vagabondare senza ordine fra le idee della cultura idealistica e socialista. Socialista per tradizione paterna, Mussolini ebbe agli inizi una concezione razionalista ed illuminista del socialismo, come ideale d’una rigenerazione della società per il trionfo della ragione. Il suo socialismo, anche quando parve fondato su una più vasta conoscenza della letteratura marxista, fu sempre più un ideale, una passione, una fede, uno stato d’animo, che un definito corpo di dottrine. Al di là del suo socialismo, Mussolini era un individualista e perciò poco 80
disposto ad aderire ad una dottrina definita. Egli spiegava e nobilitava il suo naturale egocentrismo come un segno della sua eccezionalità di individuo estraneo alla mentalità volgare del tempo, antesignano d’una umanità futura rinnovata dalla rivoluzione e dal trionfo della ragione su tutte le superstizioni religiose e sociali. Mussolini pensava a se stesso come a un «primitivo» del mondo futuro, a disagio nel vecchio mondo, di cui sognava e preparava la distruzione. Egli credeva di appartenere alla esigua schiera degli uomini nuovi, che avrebbero guidato la palingenesi della società4; uomini, perciò, inadatti a qualsiasi disciplina, spinti avanti senza una meta precisa - verso orizzonti sempre nuovi e sempre lontani - dalla insofferenza e dal disgusto per lo stato presente della società, e dal fascino dell’ignoto futuro. Per questi eroi del futuro non era importante il fine, ma l’azione; non il successo, ma l’ardimento: «La parola che riassume e dà un carattere inconfondibile al nostro secolo mondiale è “movimento”»5. «Noi ci sentiamo portati alla vita multipla, armonica, vertiginosa, mondiale […]. Vogliamo agire, produrre, domare la materia, godere di questo trionfo che esaspera le illusioni, moltiplica le energie della vita, e giunge verso altre mete, verso altri orizzonti, verso altri ideali»6. Citando Oriani, la sua «magnifica» Rivolta Ideale, Mussolini esaltava il pensiero del romagnolo, pervaso dalla aspettazione d’un’epoca futura, da cui necessariamente doveva nascere un nuovo carattere umano. E Mussolini immaginava questo tipo d’uomo nuovo come uno spregiatore del buon senso, amante del rischio, audace nel pensiero, creatore nella vita, eretico verso tutte le dottrine definite, demolitore della morale cristiana quale somma di tutte le possibili forme di abiezione e di rinuncia: 81
Pietà, virtù, cristianesimo, rinuncia erano le parole equivoche che rendevano furibondo l’asceta dell ’Ueber Mensch. fl buon senso è parola che per me produce lo stesso effetto […]. Insomma, io odio il buon senso. E lo odio in nome della vita e del mio invincibile gusto per l’avventura […]. Tutta la storia non è che una lotta feroce e immane fra il buon senso e la follia.
Il «buon senso» era la filosofia spicciola della conservazione sociale, la filosofia delle classi arrivate che diventavano, perciò, diffidenti del nuovo e nemiche degli iconoclasti che distruggono le tavole dei valori tradizionali. «Le rivoluzioni devono essere considerate come le rivincite della follia sul buon senso […]. La società borghese ha creato l’uomo macchina, l’uomo funzionario, l’uomo orologiaio, l’uomo regola. Io sogno l’uomo eccezione»7. Mussolini si sentiva homme qui cherche, per il quale ogni soluzione alle infinite domande dello spirito, qualsiasi adesione alle regole d’una vita ordinata e monotona, erano una rinuncia al mondo futuro, la morte dello spirito8. L’ideologia di Mussolini, anche per la concezione «rivoluzionaria» del socialismo, era un aspetto del leonardismo di tipo papiniano, in cui si mescolavano idealismo orianesco e nicciano, e pragmatismo americano. Sotto il segno di questo leonardismo fu compiuto, da parte di Mussolini, il connubio Marx-Nietzsche, connubio, per altro, già consumato dai sindacalisti rivoluzionari, a cominciare dallo stesso Sorel9. L’autore del Capitale e il profeta del superuomo, per il giovane rivoluzionario, erano i profeti della rivolta contro il mondo borghese, contro il dominio del buon senso e dell’interesse, la paura delle azioni violente e ardite, il rispetto per le regole conformiste e grette 82
della morale borghese. Nietzsche aveva suonato la diana della rivolta annunciando l’avvento degli uomini nuovi; aveva chiamato a raccolta gli spiriti eletti che avrebbero sfidato la massa degli inetti e degli imbelli. Gli spiriti eletti, di cui Mussolini credeva d’essere un esempio, avrebbero tutto osato per affermare l’ideale: non importava attuarlo, perché l’ideale era la spinta necessaria alla vita umana per superare se stessa in forme sempre piti alte o per annullarsi in un grande destino tragico. Nietzsche esaltava l’ardimento fine a se stesso, perché, come affermava l’autore dell’Irréligion de l’avenir, Guyau, «La vie ne se peut se maintenir qu’à la condition de se répandre. Vivre ce n’est pas calculer - c’est agir»10. La crisi del mondo borghese appariva al giovane rivoluzionario socialista il momento d’una trasmutazione di valori. Bisognava dare l’urto definitivo al vecchio mondo, affrettare la sua fine, lottare per la formazione di nuovi valori e di nuovi caratteri umani: Il superuomo è un simbolo, è l’esponente di questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza, d’ideale. È la constatazione della nostra debolezza, ma nel contempo, la speranza della nostra redenzione. E il tramonto - è l’aurora. È soprattutto un inno alla vita - alla vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualche cosa di più alto, di più fino, di più tentatore […]11.
Nietzsche era l’assertore dell’ideale futuro, Marx lo scienziato che aveva previsto la crisi della società borghese, e, nella sua realistica visione del divenire sociale, aveva assegnato il compito storico di attuare l’ideale nuovo dell’umanità al proletariato, cioè alla classe più sfruttata, più povera di sostanze ma più ricca di energie e più «pura». 83
Anche Marx, come Nietzsche, aveva esaltato l’azione, affermando che la nuova filosofia doveva cambiare il mondo, non conoscerlo12. Da una personale e ibrida sintesi di queste due filosofie dell’azione Mussolini derivò i temi per l’elaborazione di un socialismo rivoluzionario, con l’infondere lo spirito idealistico nel socialismo pratico e teorico, ancora chiuso in una concezione prevalentemente determinista. Ed è sotto il segno di questo connubio che bisogna intendere anche l’adesione di Mussolini alle idee di Sorel. il sindacalismo soreliano, infatti, gli sembrò la prima manifestazione reale dello spirito idealistico applicato alla lotta di classe. Da qui poteva nascere il rinnovamento del socialismo arenato fra riformismo e positivismo. Per queste combinazioni ideologiche, estranee alla tradizione del pensiero socialista italiano, e per il suo intimo leonardismo, Mussolini sentiva (senza trame in principio le conseguenze) di avere nel movimento socialista un posto isolato, da eretico. Io sono un primitivo - scrisse su «La Folla», nel 1912, dopo aver trionfato al congresso di Reggio Emilia - anche nel socialismo. Io deambulo nell’attuale società di mercanti come un esule. Non sono un businessman. Non ho il gusto dell’affare. Ora che il socialismo sta diventando un affare - per i singoli e per le collettività - non lo capisco più. Io vivo in un’altra atmosfera. Sono cittadino di un’altra epoca13.
Che il pensiero di Mussolini fosse estraneo alla tradizione ideologica del socialismo italiano, a forte caratterizzazione positivistica, era evidente fin dal 1904, da quando iniziò l’attività di giornalista politico. Egli prese subito posizione contro il riformismo predominante nel partito socialista. La sua avversione divenne, col tempo, più convinta e più aspra, 84
mentre Mussolini veniva svolgendo una sua concezione rivoluzionaria che cercò di imporre all’intero movimento. Il movimento e il partito, secondo Mussolini, si erano trasformati in una società di mercanti, a causa del prevalere, nella classe dirigente del partito, di uomini che avevano una mentalità borghese. Perciò questi socialisti erano naturalmente ostili ad una politica intransigente e rivoluzionaria, preoccupati soltanto di assicurarsi l’egemonia nel partito. Lo scopo finale della politica riformista era di far entrare il proletariato, gradualmente, nel sistema borghese, privando così il socialismo delle sue aspirazioni più originali. Mussolini si dichiarò contrario a questa politica e nemico degli «avventurieri della media borghesia che vanno forgiando un socialismo di penetrazione e collaborazione». A suo giudizio, il partito stava concedendo troppo alle lusinghe della classe conservatrice, e scivolava verso compromessi politici, non sufficientemente scoperti e denunciati dalla stampa socialista. La borghesia, affermava Mussolini, cercava di far naufragare il movimento rivoluzionario nelle secche del parlamentarismo, coinvolgendo il partito socialista in operazioni trasformiste per la sopravvivenza e la conservazione del sistema borghese. Il partito, mostrandosi disposto a concedere l’appoggio alla borghesia con la rinuncia allo scontro violento, veniva meno al suo compito storico di avanguardia del proletariato, e si riduceva ad essere lo strumento per la soddisfazione materiale delle masse malcontente. Secondo Mussolini, infatti, il partito non era più l’avanguardia vigile del proletariato, ma una eterogenea accolta di malcontenti, una rappresentanza di tutti gli interessi, un vasto movimento pietista
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[…]. Tutti socialisti […]. Non più lotta di classe, ma cooperazione di classe; non più rivoluzione sociale ma la metà più uno dei balordi di Montecitorio; non la conquista delle officine, ma la conquista delle municipalità.
Il partito non seguiva più la funzione che Marx gli aveva assegnato. Il socialismo non portava avanti la sua opera rivoluzionaria, come rinnovamento profondo della società. Bisogna, pertanto, tornare alle origini, ad una organizzazione operaia e rivoluzionaria, distruggendo la «fungaia riformistica»14. Nella concezione mussoliniana, il socialismo non era soltanto una progressiva conquista di beni sociali ed economici a favore delle classi povere e sfruttate, e non aveva solo lo scopo di erodere i beni della borghesia, per mezzo d’un proletariato organizzato in sindacati d’interesse e di categoria. Un socialismo siffatto gli sembrava la caricatura borghese del pensiero marxista e delle interpretazioni che quel pensiero avevano arricchito, uscendo dagli schemi rigidi del sistema, per sviluppare motivi rivoluzionari e non semplicemente economici. Secondo Mussolini - e in queste sue critiche al riformismo egli risentiva molto l’influsso dei sindacalisti rivoluzionari - il socialismo italiano, come pensiero e come prassi, era legato alla riduzione, di stampo riformista, della questione sociale a questione economica. Così era stata mandata in soffitta l’autentica concezione marxista della rivoluzione socialista come attuazione di valori nuovi, e non semplice aspirazione ad una giustizia sociale. Da queste critiche all’economicismo, egli derivava la necessità di affermare il primato del partito, come organizzazione politica, sulle organizzazioni economiche perché Mussolini considerava la questione economica solo come l’aspetto materiale del 86
socialismo, quale si esprimeva attraverso le rivendicazioni sindacati. Ridurre il problema sociale ad una questione di dare ed avere era la politica del riformismo, che Mussolini avversava perché la riteneva il frutto d’una degenerazione borghese del socialismo. Per rilanciare la politica rivoluzionaria era necessario rinnovare il pensiero socialista, dare un nuovo impulso e nuovi metodi di lotta al partito, come avanguardia del movimento proletario: questo fu il pensiero costante di Mussolini durante gli anni della sua milizia socialista. Le sue simpatie per il sindacalismo soreliano nacquero in funzione di questa opera di rinnovamento ideologico e politico. Dal sindacalismo rivoluzionario, infatti, sembrava venire una parola nuova, ispirata alle grandi correnti del pensiero contemporaneo. L’infatuazione soreliana di Mussolini, anche se lasciò nella sua formazione una traccia notevole, non durò a lungo. Tuttavia, nei primi anni della sua battaglia antiriformista, la sua ideologia molto attinse alle fonti del pensiero sindacalista perché il sindacalismo gli permetteva di chiarire il suo idealismo rivoluzionario. Il problema ideologico, per il Mussolini rivoluzionario e idealista, era più importante del problema organizzativo, perché dall’ideologia dipendeva la politica futura del socialismo italiano, e la possibilità di rappresentare una forza nuova e rivoluzionaria nell’Italia moderna. Lettore assiduo della stampa socialista internazionale e conoscitore, sia pure superficiale, dei più importanti dibattiti sul marxismo che si erano avuti negli ultimi anni, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento15, Mussolini era convinto che il socialismo stava attraversando una crisi profonda di pensiero e di azione, perché era stato colto 87
impreparato dal grande movimento di idee avviato ai princìpi del secolo. Di fronte al sorgere di nuove concezioni filosofiche e scientifiche della vita, il socialismo s’era disorientato: o si irrigidiva in una formale dichiarazione di fedeltà ideologica, imponendo una sorta di dogmatismo a teorie superate dal pensiero moderno, o abbandonava gradualmente l’idea per attenersi alla pratica più spicciola, sostenendo l’avvento del socialismo attraverso l’evoluzione della società borghese. Mussolini, secondo le sue ambizioni, voleva innestare nel tronco del vecchio socialismo i nuovi rami dell’idealismo filosofico e delle più moderne concezioni politiche. 2. Un socialismo di supemomini Contro la concezione riformista, Mussolini auspicò, fin dagli inizi della sua milizia politica, la formulazione ideologica e l’educazione pratica d’un socialismo aristocratico, cioè la formazione d’una élite consapevole ed intransigente, unica vera avanguardia del movimento proletario, ispirata da un socialismo idealista, contro un socialismo positivista. In questa concezione erano presenti la suggestione nicciana d’una élite d’uomini nuovi e, soprattutto, il riflesso delle idee di Vilfredo Pareto. Mussolini era venuto a conoscenza del pensiero paretiano durante il soggiorno svizzero. Pareto ebbe su di lui una grande influenza. La sua teoria delle élites diede una giustificazione sociologica alla concezione aristocratica della futura organizzazione rivoluzionaria immaginata da Mussolini. Anche se è discusso il problema dei rapporti diretti fra il solitario di Céligny e il giovane emigrante, è certo che Mussolini - avesse o no 88
frequentato i corsi di Pareto - conosceva le sue principali opere, come il Manuale e i Systèmes, e ne seguiva gli scritti minori16. È molto significativo, a questo proposito, l’articolo che Mussolini dedicò alla relazione L’mdividuel et le social, tenuta da Pareto al congresso di filosofia di Ginevra, nel 190417. Mussolini giudicò la relazione «l’unica nota di un sano positivismo in quella morta assemblea di ex pastori, ex teologi, accademici o no tutti invecchiati». Dopo un rapido riassunto della relazione, Mussolini mise in risalto le idee fondamentali di Pareto, con evidente assenso: ci sono sempre, nelle società umane, contrasti e scontri di interesse fra individui e fra gruppi di individui; non esiste unità morale, intellettuale o economica della società; non sono cose reali i diritti di maggioranze o di prìncipi, perché son maschere dell’egoismo umano e del desiderio di potere. Pareto, continuava Mussolini, nega «ogni fondamento scientifico al diritto sovrano delle maggioranze, diritto che oggi va sostituendosi a quello divino dei prìncipi e finisce avvertendo della inconsistenza di tutte le teorie esposte sui diritti dell’“individuo” e su quelli della “società”». E concludeva con apprezzamenti positivi sull’opera di Pareto, per il contributo che questi dava alla scienza contemporanea. Nella relazione del sociologo, Mussolini trovava conforto e sostegno, oltre che per il suo congenito antiumanitarismo, anche e soprattutto per la sua polemica contro il mito dell’unità sociale, cioè la ricerca d’una coesione ad ogni costo del proletariato e del partito socialista. Infatti, in nome dell’unità, all’interno del partito socialista, si conservavano concezioni e tattiche fra loro inconciliabili. Il mito dell’unità, che sarà uno dei motivi più costanti della 89
concezione politica del Mussolini fascista, allora gli sembrava un espediente della corrente riformista per ostacolare la selezione interna nel partito ed impedire, così, l’ascesa d’un nucleo dirigente di vera fede rivoluzionaria e intransigente, che non era corrotto dalla pratica del parlamentarismo, disprezzava le maggioranze numeriche ed era devoto soltanto all’idea socialista e all’attuazione della rivoluzione sociale. Inoltre il mito dell’unità, spostato dall’interno del partito all’esterno, nella vita sociale, mascherava l’integrazione del proletariato nel sistema borghese, e favoriva la buona riuscita del compromesso riformista a danno della rivoluzione. Gli interessi di classe, come Pareto dimostrava, non erano conciliabili, e tale dimostrazione, affermava Mussolini, era un conforto per noi socialisti rivoluzionari, che non abbiamo ancora rinnegato - come i filosofastri del riformismo - la lotta di classe. È da queste differenze d’interessi fra diverse parti dell’aggregato sociale - nel caso nostro Borghesia e Proletariato - che ha la sua genesi naturale la lotta di classe. Ed è probabile che questa lotta, invece di assumere forme miti, andrà sempre via via acutizzandosi, a misura che da una parte o dall’altra si prenderà coscienza delle diversità irreducibili degli interessi.
Ma ancor più la sociologia di Pareto dava a Mussolini validi argomenti per rafforzare la sua concezione di un socialismo basato su una minoranza scelta, quando spiegava che la storia era sempre storia di minoranze. La rivoluzione socialista, per opera del proletariato, non sarebbe stata un’informe mobilitazione sociale, ma il frutto dell’azione costante, cosciente ed intransigente di una élite socialista, che si sarebbe contrapposta alla élite borghese. Il richiamo a Pareto e alla sua concezione della storia era in questo caso esplicito: «Ricordate la teoria delle élites di Vilfredo 90
Pareto?» scriveva su «La Lima» il 25 aprile 190818: «È forse la più geniale concezione sociologica dei tempi moderni. La storia non è che una successione di élites dominanti». Mussolini avrebbe utilizzato questa concezione per affermare che anche la lotta di classe era un aspetto dell’eterna lotta fra minoranze: La lotta nella società umana è stata e sarà sempre una lotta di minoranze. Pretendere la maggioranza assoluta - quantitativamente - è un assurdo. Voi non riuscirete mai ad irregimentare nelle organizzazioni economiche e politiche la maggioranza del proletariato. E gli altri ceti? La lotta di classe è, in fondo, una lotta di minoranze. Le maggioranze seguono, subiscono. E non è una minoranza, quella governamentale, che in tutte le nazioni impone la sua volontà alla grande massa?19
Nei primi tempi, come abbiamo accennato, Mussolini aderì ad una concezione sindacalista del socialismo, che assegnava ai sindacati d’ispirazione rivoluzionaria il ruolo di «nuclei della futura comunità socialista»20. Come è stato giustamente osservato, il sindacalismo rivoluzionario costituì un filo rosso nelle continue evoluzioni ideologiche di Mussolini, ma non bisogna dimenticare i limiti dell’influenza soreliana sul giovane rivoluzionario. Il nome di Sorel compare per la prima volta negli scritti mussoliniani nel 1904, accanto ai grandi maestri del socialismo, con Marx, Engels, Labriola, Kautski21. Dal pensatore francese Mussolini acquisì molte idee e forme del linguaggio polemico, e in particolare la critica antiintellettualista nei confronti dei «professionisti del pensiero» i quali, con la loro concezione positivista della storia e della società, diffondevano nel socialismo la mentalità evoluzionista, ai fini d’un graduale inserimento del socialismo nel
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sistema borghese. La prima attività significativa di Mussolini iniziò proprio sulle pagine del giornale sindacalista rivoluzionario «Avanguardia socialista», diretto dai due maggiori esponenti del sindacalismo italiano, Arturo Labriola e Walter Mocchi. Una testimonianza sul valore e l’intensità di questa adesione al sindacalismo ci viene data dallo stesso Mussolini, nella sua Dottrina politica e sociale del fascismo-, fra i suoi precursori infatti, Mussolini ricordò soltanto il gruppo sindacalista italiano e francese22. Il sindacalismo rivoluzionario, per Mussolini, non era solo la più vigorosa forma di reazione contro il riformismo, ma era la dottrina che, con la teoria dell’azione diretta e dello sciopero generale, conferiva un vigore nuovo alla concezione rivoluzionaria del socialismo e che, identificando lo Stato con la classe borghese, poneva al proletariato un unico obiettivo di lotta, l’espropriazione della classe capitalistica, dando un frego definitivo alla pratica parlamentaristica delle successive riforme23.
L’influenza del sindacalismo su Mussolini fu, però, soltanto teorica; non si tradusse in un’opera di organizzazione del movimento sindacale o in un’azione di tipo sindacalista. Il sindacalismo rivoluzionario diede a Mussolini una serie di temi utili per la sua campagna antiriformista, come l’apologià della violenza, la lotta di classe senza compromessi, l’antiparlamentarismo, la concezione d’una avanguardia scelta e consapevole educata attraverso la lotta col mito dello sciopero generale. Il sindacalismo, per Mussolini, era la più moderna attuazione dello spirito della dottrina marxista, che egli integrò con i miti della sua filosofia aristocratica nicciana, per elaborare l’ideologia di un socialismo di qualità e non di quantità. Un documento interessante di questo sincretismo ideologico è 92
la recensione che Mussolini fece al libro di Prezzolini La teoria sindacalista24 nel 1909. Mussolini dichiarò di essere sindacalista «da ormai cinque anni» e di considerare il sindacalismo la realtà del domani; nella concezione sindacalista vedeva configurato il modello del mondo futuro. La morale sindacalista offriva un esempio dei nuovi valori eroici ed aristocratici della società rinnovata dagli homines novi, così come l’etica cristiana aveva sepolto e sostituito i valori del mondo romano. Il sindacalismo rivoluzionario, affermava Mussolini, «tende alla creazione di nuovi caratteri, di nuovi valori, di homines novi». Niccianesimo e marxismo si confondevano nel sindacalismo rivoluzionario e Mussolini tentò, con questo sincretismo ideologico, una revisione rivoluzionaria del socialismo, che doveva concludersi, durante gli anni della sua dirigenza socialista, con l’esperienza di «Utopia». Vi erano innanzi tutto, asseriva Mussolini, differenze fra sindacalismo e socialismo: il sindacalismo era molto più vicino allo spirito marxista con la sua predicazione di lotta intransigente che non il socialismo, genericamente inteso come ideale di giustizia e di pacificazione. Il socialismo era un ideale che abbracciava l’umanità intera. In varie forme era presente in tutte le epoche; era l’aspirazione ad una società più equa, ad un regno di eguaglianza e di benessere, di soddisfazione materiale e di libertà morale. Nella vita politica moderna, questo ideale si era attuato nel pensiero e nell’opera del riformismo con la prospettiva d’un rinnovamento pacifico e graduale della società, per mezzo di un’azione democratica e parlamentare, con un semplicismo teorico privo di vigore speculativo e impregnato d’utilitarismo. Questi erano, secondo Mussolini, 93
i caratteri principali del socialismo italiano, imposti dai riformisti alla politica del partito. Il sindacalismo rivoluzionario, invece, col suo anti-intellettualismo e il suo impulso all’azione diretta, meglio esprimeva l’esigenza storica del proletariato contemporaneo e continuava il pensiero marxista pur discostandosi dalla lettera del sistema, guscio vuoto lasciato agli ideologi riformisti incapaci di comprendere le nuove correnti della storia e del pensiero, vincolati ad una concezione statica del marxismo. Il sindacalismo non predicava ad una generica umanità ma, secondo l’insegnamento marxista, rivolgeva la sua opera all’educazione del proletariato, perché concepiva la società come divisione e scontro di interessi fra una borghesia potente ma avviata alla decadenza, ed un proletariato ancora debole, ma ricco di energie sane. Come nuovi barbari, i sindacalisti si scagliavano contro le istituzioni del vecchio mondo borghese e l’egemonia dello Stato, senza preoccuparsi troppo delle disquisizioni teoriche. Essi avevano la fede nella società futura da loro immaginata; erano l’organizzazione d’élite della rivoluzione. Ai vecchi professionisti della politica, borghesi inariditi, il sindacalismo opponeva giovani minoranze operaie, educate alla conquista del potere attraverso l’esercizio della violenza, per instaurare una nuova civiltà. Contro il determinismo della concezione riformista, il sindacalismo professava il volontarismo, coscienza delle necessità storiche e fiducia nei valori dello spirito. Mussolini trattò questi motivi ampiamente nella sua battaglia politica. Non li abbandonò del tutto neppure quando, dopo le dichiarazioni di simpatia verso il nazionalismo francese da parte di Sorel, ripudiò il 94
sindacalismo. Egli ricordò sempre l’entusiasmo che la concezione soreliana aveva infuso nel socialismo: Sorel ci aveva presentato un socialismo decisamente antiintellettualistico, religioso anzi. Il mito dello sciopero generale nel socialismo terribile, grave, sublime di Sorel […] è un mito, cioè una favola, qualcosa di non dimostrabile, di non effettuabile, che deve essere un atto di fede, l’atto di fede del proletariato. Bisogna credere nello sciopero generale, come i primi cristiani credevano nell’Apocalisse. Non indagate, non sottoponete il mito alla vostra critica razionalista. Non rompete il sublime incantesimo. Il socialismo non è solo un dato dell’esperienza o una deduzione scientifica, ma è una fede. Togliete al socialismo la sua fede, cioè la sua preoccupazione finalistica, teleologica e ne avrete un socialismo privo di finalità, un socialismo che si riduce e si rimpicciolisce al corporativismo della categoria25.
Il distacco dal sindacalismo avvenne anche per la valutazione negativa che Mussolini diede del fenomeno sindacale così come s’era sviluppato in Italia26; un sindacalismo, cioè, che aveva un carattere più rivendicativo che rivoluzionario, con fini economici e non sociali. Mussolini combattè l’economicismo dei sindacati così come aveva combattuto il riformismo, perché l’uno e l’altro erano per lui forme della degenerazione del socialismo. Prima del congresso di Reggio Emilia, Mussolini insistè continuamente, con discorsi ed articoli, sulla necessità di combattere il riformismo e il sindacalismo semplicemente economico, perché erano due fenomeni che rischiavano di uccidere l’anima rivoluzionaria del partito. Per causa loro il socialismo era ridotto ad un «atto di computisteria»27. Fin dal congresso di Milano del 1910, che secondo Mussolini si apriva «in un momento assai critico pel socialismo contemporaneo e per tutte le ideologie rivoluzionarie», egli avvertì la profonda crisi ideologica che travagliava il
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socialismo e il bisogno di rinnovarlo con l’innesto di idee nuove. Le correnti del pensiero contemporaneo avevano modificato o distrutto le tradizionali concezioni del mondo. Di questa trasformazione il socialismo italiano, povero di tradizioni teoriche, doveva tener conto se non voleva veramente liquidare Marx in soffitta con l’assenso unanime di borghesi e riformisti: Valori morali, politici, religiosi, rivoluzionari, che pur ieri venivan respinti come avanzi ingombranti del passato, tornano oggi in onore. Dottrine scientifiche la cui verità pareva ieri indiscussa, sono oggi battute in breccia dalla critica inquieta e demolitrice. Uomini che la storia pareva avesse per sempre relegati nella penombra ci balzano incontro per indicarci le vie dell’avvenire. Gli stessi metodi della scuola positivista non bastano più e il positivismo come sistema divenuto stella di ultimissimo ordine, nel cielo della filosofia, volge al tramonto28.
Della rinascita idealistica Mussolini volle far partecipe anche il socialismo. Nella storia del movimento socialista, dopo un ventennio di progressi, quando il socialismo era l’ideale delle nuove generazioni, si era finiti nelle secche teoriche e pratiche in cui era immobilizzato il movimento socialista degli anni giolittiani. La causa maggiore di questa crisi, secondo Mussolini, non era dovuta ad errori della prassi, al frazionamento, alle lotte intestine, alle rivalità personali: il motivo più importante era stato «il ripudio completo del marxismo»29. Che meraviglia se Gioiitti ha relegato Marx in soffitta? Non è il caso di protestare. I socialisti italiani hanno ignorato sempre Marx. Ci sono degli uomini che la fanno da padreterni e non hanno mai letto una riga di Marx; neppure il Manifesto dei Comunisti. Il socialismo italiano non ha mai avuto preoccupazioni dottrinali. Le ebbe fra il ’50 e l’80 quando era anarchico. Giova ricordare che il primo compendio italiano del Capitale fu scritto da un anarchico: Carlo Cafiero. Poi c’è stato un lungo periodo di depressione culturale.
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C’è un uomo, è vero, che giganteggia: il Labriola. Ma egli era fuori dell’orbita ufficiale del Partito. Solo in quest’ultimo decennio l’Italia ha portato il suo contributo geniale alla letteratura del socialismo internazionale e - strano! - per l’opera di uomini che hanno abbandonato il Partito Socialista. Non è sintomatico il fatto che la Storia del marxismo in Italia sia stata scritta da un tedesco? Mancando una solida, organica tradizione culturale socialista (come vantano ad esempio Francia e Germania) è mancato un freno ai funambolismi teorici e tattici del riformismo, il quale è divenuto possibilismo, collaborazionismo, deviazione, tradimento.
La rinascita del socialismo, perciò, poteva avvenire sia attraverso una nuova attività organizzativa, mirante alla costituzione d’un nucleo dirigente rivoluzionario che avrebbe mutato la natura e la funzione del partito, sia per mezzo d’una revisione ideologica in senso rivoluzionario della dottrina socialista alla luce delle nuove correnti culturali. Nel giovanile ardore del suo superomismo, Mussolini era persuaso di essere l’uomo destinato ad assumere i ruoli dell’ideologo e dell’organizzatore, per la trasformazione e il rinnovamento del socialismo italiano. Divenuto dirigente di partito, egli dedicò particolare cura ad illustrare i problemi dell’organizzazione, i rapporti fra politica ed economia nella prospettiva generale del movimento socialista. Mussolini si dichiarava schietto marxista e citava sovente i testi dei due fondatori del socialismo scientifico. Ma egli ebbe sempre una profonda e innata avversione per l’economia, da lui confusa con l’economicismo e considerata la sfera dell’interesse privato mediocre, egoista, utilitarista. L’economicismo era la somma della mediocrità, la manifestazione pratica caratteristica della mentalità borghese che si sarebbe infiltrata, secondo Mussolini, nel movimento e nel partito socialista. Un proletariato educato soltanto alla 97
considerazione dei suoi interessi economici e alla conquista del benessere materiale non sarebbe stato mai - per Mussolini - il protagonista storico della rivoluzione sociale, l’allievo del nuovo socialismo superumano, ma avrebbe accresciuto invece la massa dei piccoli borghesi, sostegno del sistema. Per questo, Mussolini ribadì la necessità di tener vivo nelle masse il mito della violenza e dello scontro finale, perché con la fede nel mito e la pratica della violenza il proletariato avrebbe sviluppato qualità eroiche, la capacità di sacrificio, il sentimento d’una maggiore potenza di classe, la coscienza della propria superiorità morale nei confronti della borghesia. Ed anche per ciò Mussolini riteneva che la vera sinistra, nel partito, non poteva essere che intransigente e rivoluzionaria. Una intransigenza diversa da quella dei riformisti di sinistra, basata su divergenze pratiche, perché ispirata ad una dottrina ch’egli considerava veramente rivoluzionaria30. Con la sua critica alla riduzione della questione sociale a questione economica e alla subordinazione del partito all’attività sindacalista, Mussolini giungeva ad affermare principio che per lui restò sempre saldo, anche nelle successive metamorfosi - il primato della politica sull’economia e, di conseguenza, la preminenza dell’attività del partito su quella del sindacato. In tal modo, Mussolini demotiva imo dei fondamenti del pensiero sindacalista, cui fino ad allora s’era ispirato. Egli riteneva, infatti, che le organizzazioni economiche - qualunque etichetta portino - sono riformiste perché la realtà economica è riformista. Troppa attività ha dato il partito a queste organizzazioni economiche che hanno rimpicciolito l’orizzonte mentale dell’operaio, convertendolo in un passivo piccolo borghese, sordo ai richiami ideali. Il sindacalismo di Sorel da una parte e il riformismo cooperativo dall’altra
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hanno ucciso il sentimento rivoluzionario del proletariato. Questa è la tristissima verità31.
Le organizzazioni economiche, attraverso i sindacati e le cooperative, basando la loro azione soprattutto sulle rivendicazioni salariati e sui miglioramenti economici, avevano ridotto l’egemonia del partito sul movimento proletario. L’inerzia e la decadenza dell’organizzazione politica, secondo Mussolini, erano anch’esse conseguenza del riformismo teorico e pratico, l’inevitabile fine del partito rivoluzionario in una concezione evoluzionista del socialismo. La funzione del partito era stata trasformata: da dieci anni a questa volta, il partito socialista ha dato la parte migliore di se stesso, il suo sangue più vermiglio, i suoi uomini più devoti alle organizzazioni economiche. Si è esaurito il circolo per dar vita alla lega. La comunità di idee ha abdicato davanti alla comunità degli interessi. Mentre la confederazione generale del lavoro aumentava enormemente i suoi iscritti, il partito socialista vedeva restringere i suoi a cifre sempre più modeste.
Invece di costituire l’anima d’un nuovo movimento rivoluzionario, l’organizzazione sindacale era «divenuta in Italia qualche cosa di piatto e di mercantile. Le mille pecore sbandate oggi sono sotto la ferula di pochi pastori, ma sono sempre pecore»32. Nella condanna dell’economicismo, da parte di Mussolini vi era anche il disprezzo dell’intellettuale «aristocratico» verso le masse incapaci di concepire un ideale al di sopra dei propri immediati bisogni. Le masse, secondo lui, anche se unite in leghe o in organizzazioni sindacali con scopi economici, restavano egualmente schiave dei loro pregiudizi, della loro mentalità gretta ed utilitaria, della loro ignoranza. Neppure unite formavano una vera 99
forza politica: «l’unione diventa forza quando l’unione è cosciente». Mussolini, del resto, aveva sempre detto di preferire, coerentemente con la sua concezione aristocratica del socialismo, la qualità alla quantità, la minoranza consapevole alla maggioranza incosciente: «Alla quantità noi preferiamo la qualità» aveva scritto su «La lotta di classe», nel febbraio del 191033. «Al gregge obbediente, rassegnato, idiota, che segue il pastore e si sbanda al primo grido dei lupi, noi preferiamo il piccolo nucleo risoluto, audace che ha dato una ragione alla propria fede, sa quello che vuole e marcia direttamente allo scopo». Il programma revisionista di Mussolini - revisionista in senso rivoluzionario - mirava soprattutto a rilanciare la funzione egemonica del partito nel movimento proletario e ad affermare i suoi diritti di guida nei confronti dell’organizzazione sindacale. Il partito doveva costituire l’avanguardia del movimento, nucleo cosciente, «naturale riserva di questo idealismo rivoluzionario», che avrebbe mantenuta viva la fede nel socialismo e nella rivoluzione: un partito, dunque, concepito modernamente come un organismo unitario ed omogeneo, depositario della dottrina ed unico interprete di essa; ed un socialismo considerato da Mussolini più un complesso di miti che una concezione scientifica della storia e del divenire sociale. Il socialismo, per Mussolini, non era un teorema scientifico, né, come tale, sarebbe stato utile al proletariato: a questo non importava capire le teorie socialiste, ma credere nel socialismo e, credendo, attuarlo nella propria coscienza e realizzarlo nella lotta di classe. Discepolo di James, Mussolini era certo della virtù creatrice dell’azione come origine e verifica delle teorie. Ancora una volta, nella concezione mussoliniana 100
affiora il disprezzo per le masse, considerate come folla, nel senso di Le Bon, cioè un aggregato di individui che genera una grande energia passionale, ma che ha bisogno di miti e di personalità autoritarie in cui identificarsi per muoversi all’azione. Il socialismo era un mito, e non bisognava preoccuparsi di dimostrarlo teoricamente alle masse: «Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l’umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse, l’unica realtà della vita»34. Alle masse la fede, all‘élite dirigente, cioè al partito, la coscienza dei fini rivoluzionari e la scelta dei mezzi. Mentre alle masse, per la loro natura irrazionale, Mussolini offriva miti in cui credere, ai capi, ai dirigenti, agli uomini nuovi del socialismo superomista che organizzano e guidano l’azione, che controllano ed educano le masse, riservava la lucida e razionale coscienza teorica dei fini da raggiungere, attraverso le difficili vie della complessa società capitalista. Anche se era apostolo della violenza e dell’azione diretta, Mussolini, in verità, non fece mai l’apologià dello spontaneismo, né fu sostenitore delle rivolte improvvise e dei colpi di mano. Egli non credeva affatto che la rivolta fosse sempre un momento della rivoluzione, l’unico strumento per affossare il capitalismo. Ed era ben lontano dall’essere, come appariva ai suoi avversari di partito, un rivoluzionario fanatico alla vecchia maniera35. Ciò fu osservato bene dal suo amico Torquato Nanni: lo spirito di Mussolini è sempre stato così: amante dell’azione, ma con termini ben determinati innanzi a sé. Lascia poco posto al «caso». Idealizza l’azione; ma vuole mete precise. La meta sarà l’incendio di una trebbiatrice, la devastazione della stazione, l’abbattimento della colonna di piazza,
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e, quando l’orizzonte si allarga, l’intervento in guerra o la marcia su Roma - ma che anche la parte affidata al «caso» abbia il suo novanta per cento delle probabilità di riuscita. Ecco perché Mussolini non è mai stato un «pazzo», come lo giudicavano i più, ma un «uomo d’azione» e, aggiungo, dall’azione ben ponderata36.
Il compito di preparare la rivoluzione, e di abbattere la società borghese, secondo il realismo mussoliniano, doveva spettare soltanto al partito. I partiti erano i veri protagonisti della vita politica contemporanea e qualsiasi ipotesi sul loro tramonto o sulla loro trasformazione a favore delle organizzazioni sindacali, cooperativiste o corporativiste, era per Mussolini un’illusione. Nella società contemporanea si era affermato il primato della politica, e la politica, per Mussolini, era lotta di minoranze per la conquista, l’esercizio e la conservazione del potere. I partiti non dovevano esser considerati come congreghe di mistici contemplanti la società futura o passata, ma, o si difendano per conservare o attacchino per demolire, si tratta di associazioni di uomini, di vere e proprie milizie che lavorano con determinati mezzi pel raggiungimento di un determinato scopo. Non confondiamo il partito colle chiese, e tanto meno i programmi coi dogmi. Si capisce che ogni partito impone delle limitazioni. Sono le guarentigie che difendono l’organismo dagli elementi disgregatori. È l’eterna struggle for life. Ma non è vero che il partito umili gli uomini. Li valorizza invece, utilizzandone le energie associate37.
Nel pensiero di Mussolini, il problema del partito dipendeva dal rinnovamento ideologico, perché la sua sopravvivenza era fondata sulla capacità di mantener viva, rinnovandola, l’idea che lo animava38. Secondo Mussolini, il partito doveva riprendere l’iniziativa rivoluzionaria nei confronti delle organizzazioni econo-l miche. Esso aveva la 102
funzione di’«circondare il movimento d’ascensione proletaria di un’atmosfera eroico-religiosa, fari d’avanguardia al grosso dell’esercito proletario sino a quando questo esercito proletario non sia capace di esprimere dal suo seno le vigili avanguardie del pensiero e dell’azione socialista»39. Nella introduzione al libro di Charles Albert e Jean Duchèn, Il socialismo rivoluzionario, del 1913, Mussolini riassunse in termini chiari il suo atteggiamento verso il socialismo e la funzione del partito. Egli ribadì la vitalità sia del marxismo, che non era soltanto una dottrina economica che aveva previsto scientificamente l’avvento della società senza classi, sia del socialismo, che non doveva essere concepito soltanto come una distribuzione di beni. Il socialismo marxista era una «concezione integrale di una civiltà superiore a quella capitalista»: Ecco perché i motivi idealisti sono parte integrante del socialismo, ché - in caso diverso - degenererebbe, come minaccia di degenerare il sindacalismo attuale, in una specie di operaismo corporativista ed egoista, che null’altro vede e apprezza, e per null’altro combatte aU’infuori del minuto di meno e del centesimo in più. Di qui la necessità di un’organizzazione di uomini che - oltre le organizzazioni di mestiere - tenga vivo lo spirito di rivolta, agiti la fiaccola delle idealità lontane, indichi la meta, affronti quei problemi - politici, morati, culturali, religiosi, giuridici - che trascendono la pura e semplice questione del pane. C’è ancora posto per i «partiti». Che non siano superflui come pretendeva il sindacalismo dei soreliani, lo dimostra il fatto che essi progrediscono, si rinnovano, si sviluppano, hanno insomma una «vitalità», niente affatto esaurita e niente affatto prossima ad esaurirsi. Il sindacalismo, anche quando non divenga sindacatismo - cioè un riformismo a colorazione più accentuata - non basta a tutto come proclamavano i primi assertori, basta semplicemente a se stesso. La società umana è oggi straordinariamente complessa: non il partito, ma nemmeno il sindacato di mestiere possono comprenderla tutta quanta nelle sue svariatissime manifestazioni40.
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3. L’eretico contro il socialismo Dopo il successo personale ottenuto al congresso di Reggio Emilia, Mussolini divenne uno dei capi più prestigiosi del partito socialista41, «il leader rivoluzionario, il beniamino delle ringiovanite schiere socialiste, l‘execubitor dormitantium, l’elettrizzatore del partito, il rinnovatore dell’“Avanti! ” […] l’uomo rispettato da tutti, entro il partito»42. Il fascino e la suggestione che il suo sforzo di elaborare un socialismo rivoluzionario moderno esercitava sui giovani socialisti era grande, specialmente in quei giovani delusi da decenni di attesa riformista ed ansiosi di affrontare finalmente il problema della rivoluzione, attraverso un ripensamento della teoria e del ruolo che il partito socialista doveva avere nella società italiana. Il distacco fra la generazione d’educazione positivista e la generazione che s’era formata nel fervore di studi e di idee della rinascita idealistica era un distacco netto e sempre più evidente, anche se non era altrettanto chiara la via nuova che la generazione «idealistica» del socialismo intendeva percorrere per imporre al partito una politica rivoluzionaria in senso nuovo. Mussolini, con la continua esaltazione dell’essenza rivoluzionaria del socialismo, col suo contributo di idee all’elaborazione d’una nuova ideologia che spesso rasentavano l’antisocialismo, almeno nel senso tradizionale, appariva piuttosto come un suscitatore di entusiasmi che un maestro di metodo43. Egli stesso avvertiva le difficoltà del compito che aveva assunto, sia come teorico del socialismo rivoluzionario, sia come capo del nuovo partito. Quando cominciò ad affrontare la sistemazione originale e personale delle sue idee sul socialismo, Mussolini dovette rendersi conto quanto fosse superficiale l’ortodossia che lo 104
legava alla tradizione del socialismo e alla sua ispirazione più profonda ed essenziale. Si trattava di legami sottili che, proprio nell’illusione di rendere più saldi, lo stesso Mussolini finì col recidere. Il suo successivo distacco dal socialismo fu, paradossalmente, il risultato del suo tentativo (fallito) di elaborare un’ideologia rivoluzionaria ed una nuova politica più aderente allo spirito del marxismo. Si avverte sensibilmente il mutare della posizione di Mussolini nel socialismo attraverso gli scritti del periodo fra il 1913 e la fine del 1914, sia quelli dell’«Avanti!» sia quelli che egli pubblicava, come espressione d’un suo personale punto di vista, non coincidente sempre con quello del partito, sulla rivista da lui fondata, «Utopia»44. «Utopia» iniziò le pubblicazioni il 22 novembre 1913 e fu l’estremo tentativo ideologico, da parte di Mussolini, per una revisione rivoluzionaria del socialismo, in polemica con le concezioni di derivazione positivista. Revisione che, nelle sue intenzioni, non doveva limitarsi ad una discussione sui metodi e sui mezzi necessari per una diversa politica del partito, ma doveva investire la stessa coscienza teorica del socialismo, quale era stato formulato da Marx. Il marxismo era nato, affermava Mussolini, come coscienza teorica del proletariato in relazione all’indagine sul capitalismo inglese; era necessario, ora, tener presente i nuovi sviluppi della società contemporanea, per rinnovare la coscienza teorica del socialismo che, senza rinnegare Marx, ne continuasse l’opera rivoluzionaria. Il revisionismo mussoliniano non voleva far nascere pericoli di scisma: «ortodossia, invece, pura ortodossia»45. Non si discutevano le verità fondamentali del marxismo, «il sistema più organico di dottrine socialiste», in cui nulla, 105
secondo Mussolini, era fallito, «né la teoria della miseria crescente, né quella della concentrazione del capitale, né la previsione apocalittica della catastrofe». I pilastri della concezione socialista e i concetti dell’analisi storica elaborati da Marx restavano fermi, ma era necessario però iniziare una critica ideologica per demolire la folta vegetazione parassitaria del riformismo, che minacciava di uccidere il socialismo. I motivi che secondo Mussolini imponevano la revisione erano il fallimento della politica riformista e «la crisi dei sistemi filosofici positivisti». Il riformismo, che Mussolini considerava persino antimarxista, col metodo legalitario aveva messo il partito in una posizione di attesa, di stasi, mentre la realtà storica subiva trasformazioni rapide e profonde, mentre la democrazia borghese si irrigidiva e si corrompeva nelle dittature parlamentari, mentre la reazione europea, favorita dalla tregua socialdemocratica, inaspriva le misure repressive e irrobustiva le sue forze col militarismo46. Il socialismo era rimasto inerte di fronte a questo ritorno della reazione. Si tornava «al regno della sciabola» e i riformisti credevano ancora nella possibilità dell’avvento del socialismo attraverso una fase di democrazia progressista e l’esaurimento dei conflitti di classe. Rinunciando alla rivoluzione, il socialismo riformista aveva favorito la reazione: questa era la principale tesi di Mussolini, da lui sostenuta anche nel dopoguerra. Le origini della débàcle socialista, secondo Mussolini, erano insite nella mentalità positivista dei riformisti; era la loro ingenua fiducia nella fatalità delle leggi evolutive, nel progresso senza soste, nel cammino dell’umanità verso il regno del benessere, senza scosse né urti: 106
Le frasi più correnti del gergo positivista erano e sono queste: nella natura, come nella vita, tutto evolve per gradi: lentamente, fatalmente. Non c’è creazione improvvisa di forme, catastrofe repentina di sistemi o di istituzioni, ma un passaggio, senza salti, da una fase all’altra. Questa concezione bandiva la volontà e la violenza dal mondo, negava la rivoluzione […]. L’evoluzionismo positivista aveva esiliato dalla vita e dalla storia le catastrofi, ma ecco che le teorie moderne smentiscono il troppo sfruttato Natura non facit saltus.
Al contrario, ispirandosi alle dottrine idealiste, il socialismo rivoluzionario aderiva alla realtà storica prospettando la possibilità della catastrofe della società borghese e dell’avvento del socialismo. Non si esagera dicendo che l’interpretazione rivoluzionaria del divenire socialista è confortata, oggi, da tutto un movimento di cultura, che noi analizzeremo, e da una situazione di fatto, che conduce di necessità a soluzioni violente. Il militarismo è l’incubo dell’Europa contemporanea. Disarmo o guerra internazionale? Ecco il dilemma di un domani più vicino di quanto non si creda. Il socialismo dovrà gettare allora le sue forze e la sua volontà e le sue armi sul piatto della bilancia, ma sarà inferiore al suo compito e sarà travolto dagli avvenimenti, s’egli non si sarà preparato ad affrontarli.
In quest’ultima affermazione è contenuta la spiegazione della svolta ideologica e la scelta interventista di Mussolini nel 1914. La svolta fu una conseguenza del suo socialismo rivoluzionario che, in sostanza, o era interventista o non era. Mussolini poneva il mito della rivoluzione al di sopra di tutto e dello stesso socialismo e, alla fine, la sua ambizione di revisione ideologica si esaurì nell’affermare che ciò che contava, per un rivoluzionario, era l’azione non il successo; partecipare comunque agli eventi, anche quando s’ignorava il senso che avrebbero avuto. La storia, affermava Mussolini, era piena d’imprevisti. Le affinità fra il suo socialismo da superuomo e l’attivismo erano molto strette. Era facile che si 107
confondessero nel bisogno indiscriminato di fare qualcosa, di essere presente agli eventi, di determinare il corso della storia: «l’essenziale in questo mondo - citava Mussolini da Schurè -non è di riuscire, ma di avere una volontà». Egli credeva nella rivoluzione fine a se stessa, come una palingenesi apocalittica che poteva anche non avvenire necessariamente secondo le categorie del marxismo. Un socialista rivoluzionario doveva tener conto che la storia era il regno del caso e le occasioni della rivoluzione potevano accadere fuori delle previsioni e degli schemi. Essere rivoluzionari, per Mussolini, era prima di tutto «una posizione mentale», piuttosto che fare l’esercizio continuo della violenza47. Nel 1914, Mussolini dedicò molta parte della sua attività di oratore e di giornalista nel precisare meglio la sua concezione del socialismo rivoluzionario. Se i risultati teorici della rivista «Utopia» erano, in verità, molto modesti, la concezione mussoliniana si presentava come un complesso di idee, non tutte originali, certo, ma animate e tenute insieme da una personale intuizione e dal suo temperamento «rivoluzionario»48. Imporre al partito questa concezione, vincendo le resistenze d’una tradizione di pensiero e di azione molto radicata nella coscienza dei militanti socialisti, era certamente una «impresa disperata», come la definì «La Voce». Tale concezione, infatti, esprimeva una visione personale ed irregolare del socialismo. «Utopia» era una tribuna da cui Mussolini diffondeva la sua Weltanschauung, e non si curava di sapere se corrispondeva alla concezione media del partito e se la massa socialista l’avrebbe seguito nella sua avventura rivoluzionaria. Questo fu il difetto principale della politica rivoluzionaria di Mussolini, indotto 108
in errore dal suo stesso disprezzo per le masse e dalla sua indifferenza per la loro mentalità, al di fuori della strumentalizzazione che poteva farne un capo abile. Nonostante una professione d’ortodossia, Mussolini nascondeva a mala pena la sua «estraneità» al socialismo, facendo una sottile distinzione fra il soldato che obbedisce, quale egli era su l’«Avanti!», e il soldato che discute la consegna, quale era invece su «Utopia»: «ma allora o non sono più un soldato o non si tratta più di una consegna», doveva ammettere egli stesso49. Il problema del rinnovamento teorico del socialismo, avviato da Mussolini, si svolse in realtà, fin dall’inizio, più fuori che entro l’ambito ideologico del partito socialista. La coscienza teorica, per Mussolini, era «la “derivazione” ideologica, dottrinale, riflessa di un fatto o fenomeno. Come tale non precede, segue». Ora, bisognava sapere se l’ideologia socialista aveva ancora qualcosa da dire alle nuove generazioni: «È possibile ridare un’anima a questo corpo? Una volontà a questa massa? Un nuovo dogma a questa fede crepuscolare? Io ho risposto “sì” a queste domande. E allora ho deciso - a mio rischio e pericolo - di offrire ai socialisti italiani - a coloro che studiano e pensano il modo di studiare e di ripensare il socialismo». Rischi e pericoli non mancarono: il socialismo «idealista» di Mussolini era erroneamente considerato dai suoi avversari all’interno del partito come una reviviscenza del vecchio quarantottismo50, un ritorno al socialismo utopistico, alla fede nella «taumaturgia dell’idea», ai «miracoli della volontà», senza tener alcun conto dei fatti, dell’ambiente, della civiltà51; suscitava accuse d’anarcosindacalismo, di ribellismo, di avventurismo cieco: vecchi 109
mali che il partito socialista aveva espulso da sé. Secondo Graziadei, la «concezione mussoliniana è al di là del socialismo»; il suo socialismo rivoluzionario era semplice anarchismo. Mussolini rispondeva che il suo volontarismo, l’apologià della violenza, la critica alla tradizione positivista del socialismo erano cose ben diverse dal sindacalismo e dall’anarchismo. Poco gli si addiceva, in verità, la qualifica di anarchico, almeno nel significato storico e non polemico del termine, se per anarchia si intende la negazione di qualsiasi autorità costituita che limiti, determini e condizioni lo sviluppo della libertà individuale in armonia con la libertà collettiva. Anarchico Mussolini non fu mai, per il suo scetticismo sulla natura degli uomini e per il disprezzo, psicologico prima che ideologico, verso le masse, alle quali negava una capacità di emancipazione spontanea senza la guida di capi coscienti del divenire rivoluzionario. E non poteva essere anarchico, inoltre, per il suo pessimismo sui valori umani, che non si concilia con il fondamentale ottimismo naturalista dell’anarchico. Quanto poi ad applicare un metodo di lotta anarchico, s’è visto come Mussolini fosse lontano dalla mentalità estremista del colpo di mano e dell’attentato. Egli si dichiarava persino disponibile per forme di lotta legalitarie, per un uso strumentale dei sistemi rappresentativi della borghesia, senza lasciarsi irretire nella degenerazione del «cretinismo parlamentare» diagnosticato da Marx52. Quanto ai rapporti col sindacalismo, Mussolini confermava la sua avversione alla degenerazione economicista delle organizzazioni sindacali e la sua critica alla concezione antipolitica del sindacalismo, soprattutto quando questo negava l’utilità e la funzione dei partiti. Il primato politico 110
del partito era indiscutibile, anche se, nel definire il programma rivoluzionario, Mussolini si richiamava al programma dei sindacalisti rivoluzionari, presentato da Arturo Labriola e Walter Mocchi al congresso regionale di Brescia del 190453. Tuttavia, in un centro di raccolta d’irregolari sovversivi, qual era «Utopia», fu notevole la presenza d’uomini che militavano nel sindacalismo rivoluzionario, o ne erano addirittura i teorici, come Sergio Panunzio. La loro presenza ebbe un’influenza decisiva nella scelta interventista di Mussolini. Cosciente o no, Mussolini, ancor prima della questione interventista, stava scivolando fuori dell’ideologia del partito socialista. La sua operazione politico-ideologica per un revisionismo rivoluzionario, che doveva servirgli anche per conquistare l’egemonia del partito in modo da renderlo strumento della sua concezione rivoluzionaria, si dimostrava sempre meno riuscita nella ricerca di consenso fra i militanti, sia per le ostilità che aveva suscitato negli ambienti più tradizionali ma anche più influenti del partito, sia per il sopraggiungere della guerra europea, che fece precipitare, all’interno del partito socialista, quelle situazioni di equivoco e incerto equilibrio fra le sue varie componenti, che s’erano venute a creare dopo il 191254. Già la minaccia della guerra aveva posto il problema dell’intervento: quale sarebbe stato l’atteggiamento del socialismo italiano di fronte ad una simile eventualità che, per molti aspetti, sembrava prossima? La sinistra rivoluzionaria aveva avuto un’occasione durante la «settimana rossa»: gli avvenimenti non sfociarono in una rivoluzione, ma s’era rivelata una disposizione delle masse all’azione diretta. Il fallimento delle agitazioni e l’atteggiamento assunto di 111
fronte ad esse da Mussolini suscitarono un coro di critiche severe contro il rivoluzionarismo e misero in luce la profonda distanza che separava Mussolini dalla corrente riformista. Giudicata come un moto di teppa e non rivoluzionario nel senso marxista, la «settimana rossa» rappresentava agli occhi dei riformisti la prova pratica delle follie ideologiche e degli equivoci dell’idealismo rivoluzionario di Mussolini. La «Critica sociale» derideva questi atteggiamenti da «San Gennari della sommossa». Claudio Treves, in un suo articolo, pur senza comprendere le ragioni dell’atteggiamento mussoliniano, ne rilevava acutamente gli aspetti esteriori che ispiravano diffidenza nei vecchi socialisti. La rivoluzione mussoliniana, secondo Treves, era una tragedia, «nella quale la folla ha il solito eterno “ruolo” di coro, e proprio di un coro che è un gregge tirato al macello, e i militanti hanno quell’altro, brillante e appassionato, dei protagonisti, dei fondatori per la forza dell’intuito». Questi credevano d’incarnare in sé le qualità della stirpe e i bisogni del popolo, di conoscerne l’anima e di esprimerla attraverso la loro volontà, non attraverso l’organizzazione, perché l’organizzazione non è armento che si muova ciecamente sotto l’impulso della sensazione bruta dell’epidermide escoriata, e non è neppure anima solitaria, illuminata da un intuito divino — come è nella coscienza dell’eroe, del santo , del duce. Infatti l’organizzazione è dove l’io e la massa si fondono in una unità di coscienza morale, padrona, per via dell’intelligenza, della realtà circa i rapporti sociali55.
Al di là di queste critiche, i riformisti non comprendevano però che il «mussolinismo» non era un ritorno al mito insurrezionale; che rispondeva a bisogni diffusi fra i giovani 112
socialisti, ed era il riflesso d’una situazione sempre più drammatica, all’interno del partito socialista, nel quale la fiducia nel divenire fatale della rivoluzione proletaria finiva coll’essere un ostacolo per agire nella realtà. Mussolini vedeva chiaramente i limiti della posizione riformista, l’incapacità dei riformisti di concepire «modernamente» la funzione del partito come organizzazione di mobilitazione rivoluzionaria, e di sentire la realtà nuova che stava emergendo dalla crisi dello Stato liberale. Anche se la «settimana rossa» era stata una rivoluzione mancata, anche se le forze rivoluzionarie non erano tutte socialiste, anche se la teppa aveva avuto la sua parte nel confondere gli obiettivi del moto rivoluzionario, per Mussolini l’agitazione aveva rivelato che nelle masse fermentava un nuovo stato d’animo. Era chiaro, affermava Mussolini, che «in Italia esiste uno stato d’animo rivoluzionario […]. Il pericolo è che la rivoluzione ci sorprenda troppo presto, che “precipiti”, per forza di eventi più ancora che per volontà di uomini. Ma la rivoluzione sarà […]. L’Italia ha bisogno di una rivoluzione e l’avrà»56. Il partito socialista, con la sua politica di accordi, di attese e di distinzioni, poteva trovarsi impreparato di fronte alle occasioni rivoluzionarie. Perciò, sosteneva Mussolini, era necessario decidere quale doveva essere l’orientamento del socialismo italiano di fronte ai nuovi eventi che stavano maturando. Il futuro presentava, luna di fronte all’altra, due forze storiche, e dal loro inevitabile scontro sarebbe dipeso l’avvenire dell’Europa e della democrazia: vi era, da una parte, il socialismo, e dall’altra il militarismo, cioè l’esasperazione delle ambizioni della reazione europea, con la loro costante minaccia alla libertà dei popoli e al 113
progresso della giustizia sociale. L’unica forza che poteva contrastare la reazione europea era il socialismo, ma bisognava vedere se il socialismo era preparato per combattere il militarismo e il capitalismo, due volti dello stesso fenomeno reazionario57. In questa prospettiva, non c’era da aspettarsi un periodo di eventi tranquilli, di evoluzioni pacifiche verso forme normali di partecipazione politica e di giustizia sociale. Si annunciavano eventi rivoluzionari e bisognava preparare il socialismo ad affrontarli con una mentalità adeguata. Soltanto osservatori superficiali ed ottimisti, secondo Mussolini, potevano, «dinanzi al possente sviluppo del militarismo, ritenere dileguato il pericolo rosso e deprecata la soluzione catastrofica della questione sociale». Gli eventi preparavano una prova della validità del socialismo rivoluzionario e Mussolini non intendeva rinunciare a questa occasione storica. La frenesia dell’azione, il desiderio di fare la storia erano i sentimenti della generazione «mussoliniana» che si apprestava alla guerra. Dopo che s’era discusso per anni sul primato dell’azione, era arrivato il momento di agire, di accantonare definitivamente le idee che la critica contemporanea aveva demolito ed accettare, anche a costo di sacrificare antiche tradizioni di idee e di valori, le conseguenze del pensiero moderno idealistico e attivistico. Inoltre, l’equivoco d’un socialismo che si proclamava rivoluzionario ma che sempre esitava e non agiva per la rivoluzione alimentava le critiche dei riformisti, i quali consideravano il rivoluzionarismo un’epilessia o follia giovanile. La questione fu posta, senza esitazioni, da Sergio Panunzio, sulla rivista di Mussolini. L’aver accolto l’articolo 114
fu certamente segno di adesione, da parte di Mussolini, alle idee di Panunzio58. Si trattava d’un articolo che poneva quesiti precisi al socialismo e denunciava l’impossibilità d’una connivenza fra riformisti e rivoluzionari. Secondo Panunzio59 il partito socialista, dopo il congresso di Ancona, aveva riconquistato la sua unità interna, ma era unità fittizia, basata sul fragile equilibrio di due concezioni del socialismo fra loro incompatibili. Il socialismo aveva attraversato un periodo di revisione ed aveva accumulato nuove esperienze di azione, che non potevano restare senza conseguenze sul piano dottrinale. Panunzio era, ovviamente, convinto della necessità d’una revisione idealistica del socialismo. Il socialismo, affermava, era ideale, speranza del futuro, un dover essere e non una realtà definibile secondo criteri materialistici. «Il socialismo è idealismo non materialismo; il socialismo in tanto è vero in quanto è Utopia, e ben lo sa il Mussolini, ed in quanto è scienza, è falso». Una concezione rivoluzionaria non poteva essere materialista, e non era materialista la concezione marxista, che assegnava al proletariato l’eredità della filosofia classica tedesca. Di conseguenza, il partito socialista non poteva essere che idealista e rivoluzionario, e non doveva «fare suo il criterio della realtà empirica (cioè l’accettazione del presente) e della realizzazione che è idea specifica dei partiti conservatori radicali e riformisti compresi, e non può essere a priori riformista». La prassi riformista, col suo adeguarsi alla realtà attraverso accordi e compromessi, non realizzava il socialismo, cioè non provocava un «salto» storico con la creazione d’una realtà nuova, ma favoriva, al contrario, la conservazione della realtà com’era. Il programma socialista non poteva essere che un programma massimo, e la sua 115
prassi intransigente, intollerante, assoluta. Tutta l’aspirazione morale che animava il sindacalismo rivoluzionario doveva infondere uno spirito veramente rivoluzionario al socialismo. I sindacalisti guardavano con simpatia a Mussolini e vedevano bene come il suo rivoluzionarismo fosse un ostacolo per la politica riformista all’interno del partito socialista. Il riformista, per i sindacalisti rivoluzionari, non era che un conservatore in vesti socialiste, che si rannicchiava nella realtà presente, perdendo «il respiro dell’assoluto e dell’eterno senza del quale il socialismo è un cadavere putrefatto». E poiché soltanto il sindacalismo possedeva questo spirito rivoluzionario, il senso dell’assoluto e dell’eterno, per Panunzio era necessaria ed inevitabile la fusione del socialismo col sindacalismo, se il socialismo voleva essere veramente rivoluzionario. Le conseguenze più gravi di questa critica al socialismo riguardavano l’antimilitarismo, confermato al congresso di Ancona. L’antimilitarismo pacifista era l’atteggiamento dominante e tipico del partito socialista di fronte alla politica internazionale. Ma il pacifismo, obiettava Panunzio, era in realtà una forma di rinuncia alla dinamicità rivoluzionaria: il socialismo, anche quello che si diceva rivoluzionario, non era ancora giunto «in contraddizione dello stesso marxismo, alla posizione dialettica di esaltare la guerra intereuropea come unica soluzione catastroficorivoluzionaria della società capitalistica. Altro che gridare: Abbasso la guerra! Chi grida così, è il più feroce conservatore». Con queste idee, si preparava l’adesione del socialismo rivoluzionario all’interventismo. Fu ancora Panunzio, e 116
sempre sulla rivista di Mussolini, a spiegare i motivi per i quali il socialismo rivoluzionario, dopo avere predicato per anni il primato dell’azione, non poteva assumere un atteggiamento neutrale proprio nel momento in cui la reazione europea sferrava il suo attacco più poderoso. Chi disertava favoriva il successo della reazione. Il socialismo europeo, se voleva creare una realtà nuova, doveva -secondo Panunzio - «partecipare ad affrettare la distruzione delle forze e del massimo ostacolo a quel trionfo: la egemonia feudale e militare tedesca»60. Un socialismo neutralista, per Panunzio, era inconcepibile: il socialismo era stato lotta, sacrificio, azione; non aveva mai calcolato con categorie di mero empirismo ma aveva sempre lottato in nome di un principio superiore: «Solo in momenti normali e statici valgono i ragionamenti cotidiani sui salari, sulla fame, ecc. ecc.; in momenti dinamici, come questi, la pace si è rotta, e tutti devono dolorosamente ragionare con la punta della spada. Rotta per uno, la pace è rotta per tutti». Bisognava accettare la logica della guerra per trasformarla in logica rivoluzionaria. «Nel 1789 la rivoluzione sociale precesse la guerra. Nessuno può escludere che nel 1914 la guerra debba essere il campanello d’allarme della rivoluzione». Questi ragionamenti non potevano lasciare Mussolini indifferente. Dopo aver dichiarato, in coerenza con la tradizione pacifista del partito socialista, la neutralità assoluta, egli si rese conto, progressivamente, della contraddittorietà del suo pensiero e della sua azione.
4. La nuova via dell’«homme qui cherche» La scelta interventista di Mussolini era inevitabile ed era 117
coerente con la sua ideologia rivoluzionaria. Ma, con questa scelta, egli divise le sue fortune dal partito socialista, dove per anni aveva militato con la speranza e l’ambizione di esserne il capo e l’ideologo. Per qualche tempo ancora continuò a dirsi socialista e ad usare un linguaggio conforme. Ma nella sua concezione del socialismo erano entrati elementi nuovi, che nulla avevano a che fare col socialismo, e s’erano, inoltre, affermati quei princìpi di attivismo idealistico contrari tanto allo spirito come alla lettera della tradizione ideologica del partito socialista. Le ragioni della rottura fra Mussolini e il partito socialista sono note, e non è qui il caso di ricordarle, se non per seguire l’evoluzione ideologica di Mussolini. Egli fu spinto alla decisione di entrare in collisione con il partito - dopo aver tentato invano di costringerlo ad accettare la sua tesi e a condividere la sua fiducia sugli sviluppi rivoluzionari che la guerra europea avrebbe potuto assumere - quando si convinse che per un partito rivoluzionario era necessario prender parte, anche a costo di sacrificare certi postulati teorici, alla distruzione delle grandi forze della reazione e alla creazione del mondo futuro. In nessun modo, comunque, un partito che si considerava rivoluzionario poteva restare fuori della mischia: Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo - aveva scritto sull’«Avanti!» nell’ottobre 1914. Vogliamo essere - come uomini e come socialisti - gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne - in qualche modo e in qualche senso - i protagonisti? Socialisti d’Italia, badate: talvolta è accaduto che la «lettera» uccidesse lo «spirito». Non salviamo la «lettera» del partito se ciò significa uccidere lo «spirito» del socialismo!61
Il partito socialista, con la neutralità, rischiava di essere 118
superato dagli avvenimenti. Se la fedeltà alla dottrina impediva l’azione, concluse Mussolini, allora bisognava rivedere la dottrina e non rinunciare all’azione, creatrice di nuove idee e di nuove realtà storiche. Ma i socialisti, nella grande maggioranza, non seguirono Mussolini nei suoi repentini ed apparentemente contraddittori mutamenti di opinione. La radicata tradizione pacifista e internazionalista del partito fu più forte dell’appello alla rivoluzione. Per Mussolini, era logico pertanto abbandonare uno strumento che gli appariva inadatto alla nuova realtà, e scegliere di tentare l’occasione rivoluzionaria accompagnandosi alle élites dell’interventismo di sinistra. Egli non vedeva contraddizioni nel suo mutamento di campo e, in realtà, giunse all’interventismo necessariamente, come conclusione inevitabile del suo idealismo rivoluzionario e del suo attivismo. A suo parere, egli restava sempre un socialista rivoluzionario, perché aderiva alla storia e ne seguiva il movimento, mentre il partito, che si proclamava rivoluzionario, concepiva la rivoluzione come un dogma astratto e non sapeva intuirla negli avvenimenti. La neutralità assoluta era rinnegata da Mussolini come un «dogma stolto», che isolava il partito e tutto il socialismo dalle grandi correnti vive della storia europea, da cui sarebbe sorta una società nuova. Annunciando l’adunata dei socialisti rivoluzionari per l’interventismo, egli oppose il suo nuovo realismo all’utopia, negò il valore delle verità assolute e delle affermazioni intransigenti, e giunse, nel suo disprezzo per il dogmatismo, a prospettare anche la possibilità di rinnegare Marx e il marxismo, se non servivano a comprendere il valore rivoluzionario della guerra. Il «fascista» del ‘19 usciva fuori dal bozzolo 119
socialista. Riprendeva vigore lo spirito eretico, iconoclasta, paradossale del giovane rivoluzionario, tornato ad essere un homme qui cherche, ostile a qualsiasi disciplina, spregiatore delle fedi e delle religioni assolute. Non nascondeva però la sua incertezza: Parlo da socialista a socialisti - disse a Genova il 28 dicembre 1914 -: da socialista perché nessuno in questo dinamico e movimentato periodo storico può asseverare di possedere la verità assoluta, può dichiarare di essere l’assertore del vero unico. Noi tutti siamo incerti, andiamo a tastoni: appunto perché tutto ciò che era il solido, il fisso, quello che noi credevamo il dogma, è andato in frantumi. In un certo senso si può dire che non vi sono partiti62.
Ai princìpi del 1915, aderendo al programma del revisionismo rivoluzionario di De Ambris, Mussolini esprimeva il suo nuovo atteggiamento, dominante nel dopoguerra, verso le ideologie: l’on. De Ambris nel suo forte discorso ha tracciato a grandi linee tutto un programma di revisionismo teorico rivoluzionario. Egli ha detto che un vangelo solo può bastare a una chiesa di credenti, non ad una collettività di liberi pensatori. C’è molta parte di verità nella critica «marxista», ma ve n’è anche nella ideologia mazziniana […]. Vogliamo noi -spiriti spregiudicati - credere in un solo vangelo e giurare in un solo maestro? O non vale la pena - in quelle che sono epoche di liquidazione - di gettare nella grande fucina ardente della Storia i nostri «valori politici e morali», per sceverare in essi l’eterno dal transitorio, ciò che passa da ciò che non muore? È mai possibile nel campo sconfinato delio spirito la monogamia delle idee? Non è ciò un «autonegarsi» alla più diretta e profonda comprensione della vita e dell’Universo? La vita è varia, complessa, multiforme: ricca di possibilità, fertile di sorprese, prodiga di contraddizioni. Chi è lo stolto che pretende di violentarla nel breve capestro di una formula, nella schematica proposizione di un dogma? Libertà, dunque: libertà infinita […]. Libertà di ripudiare Marx, se Marx è invecchiato e finito; libertà di ritornare a Mazzini, se Mazzini dice alle nostre anime aspettanti la parola che ci esalta in senso superiore dell’umanità nostra, libertà di tornare a Proudhon, a Bakunin, a Fourier, a S. Simon, a Owen, e a Ferrari, e a Pisacane, e a Cattaneo […], agli
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antichi e ai recenti; ai vivi e ai morti, purché il «verbo» sia capace di fecondare l’azione …63.
I socialisti rivoluzionari, «sian essi guidati dal raziocinio o sospinti da oscure, ma infallibili intuizioni sentimentali», non dovevano essere mummie perennemente immobili colla faccia rivolta allo stesso orizzonte, o rinchiudersi tra le siepi anguste della beghinità sovversiva dove si biascicano meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate; ma siamo uomini e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo sia pure modesto alla creazione della storia.
La guerra europea era la lotta contro gli imperi centrali, cioè contro due grandi istituzioni del dispotismo; la neutralità pacifista del partito socialista offriva un indiretto appoggio alla politica reazionaria, a lato del neutralismo dei preti, dei borghesi, dei monarchici giolittiani. Il socialismo, che aveva rappresentato sempre una forza viva nella storia d’Italia, doveva essere ancora il protagonista della rivoluzione. Perciò Mussolini invitava i socialisti ad aderire alla vita, a spezzare le catene di una «miserabile esistenza alla giornata», trasformando l’interventismo in un atto rivoluzionario. «Io cammino» affermava Mussolini. «E riprendendo la marcia — dopo la sosta che fu breve — è a voi giovani d’Italia […], giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di “fare” la storia, è a voi che io lancio il mio grido augurale […]. Il grido è […] una parola fascinatrice: Guerra!»64. La scelta di Mussolini fu, dunque, coerente con la sua concezione rivoluzionaria del socialismo ma, a causa della propria debole ortodossia rispetto alla tradizione 121
positivistica, antimilitarista e pacifista del partito socialista, fu anche l’inizio di una metamorfosi ideologica, che l’avrebbe portato inevitabilmente fuori dello stesso socialismo internazionalista. Per quanto improvvisa questa metamorfosi possa sembrare anche al giudizio storico, essa non era affatto dovuta a motivi estemporanei, ma era il risultato d’una logica rivoluzionaria, alla quale Mussolini restava fedele, anche se le conseguenze pratiche dovevano portarlo, progressivamente, sul fronte opposto a quello in cui aveva fino ad allora militato. Convinto d’esser sempre un rivoluzionario e un socialista, Mussolini inseguiva ora il mito della rivoluzione distaccandosi da quelle forze che non erano disposte a seguirlo nella scelta interventista per una guerra rivoluzionaria, e rivolgendosi ad altre e nuove forze, che lo accolsero come un uomo nuovo dell’Italia interventista: Con l’uscita dal partito socialista - ha scritto giustamente De Felice - anche se egli si proclamava ancora socialista, anche se proclamava questo suo socialismo davanti ai socialisti milanesi che lo espellevano e lo riaffermava col sottotitolo del suo nuovo quotidiano - «quotidiano socialista» -, con l’uscita dal partito socialista, dicevamo, indubbiamente Mussolini fece una scelta: scelse le élites. Sino allora aveva parlato al proletariato, a quello socialista in particolare e più in genere a tutto il proletariato, cercando di imprimergli un moto, una direzione unitaria. Ora, se ne rendesse chiaramente conto o no, col suo discorso interventista, se si rivolgeva alle masse proletarie, si rivolgeva anche e soprattutto alle élites rivoluzionarie e proletarie e borghesi. Con alcune di queste élites borghesi egli era stato negli anni precedenti in contatto, ne aveva subito la suggestione culturale […] aveva cercato di travasarne lo spirito e alcuni motivi culturali nel socialismo; non si era però confuso con esse. Ora il limite di classe, sin lì invalicato, era - verso di esse - superato in funzione di una guerra che doveva tutto sconvolgere, doveva creare una nuova unità rivoluzionaria […]. Superato il limite di classe era però inevitabile che, sotto la spinta delle cose, questo limite fosse destinato a spostarsi sempre più verso destra. L ‘unità rivoluzionaria si venne estendendo durante la guerra a sempre nuovi gruppi e a
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sempre nuove forze, con inevitabili cedimenti - sia pure intenzionalmente tattici e compromessi. Sotto questo profilo la battaglia per l’intervento e la guerra, specie dopo Caporetto, mutarono notevolmente i termini del socialismo mussoliniano: lo depauperarono molto e lo arricchirono poco65.
A questo punto, dopo aver seguito lo sviluppo dell’ideologia mussoliniana dal socialismo all’interventismo, è necessario chiedersi che cosa era questo socialismo mussoliniano e se Mussolini fu un vero socialista. Dal suo punto di vista, Mussolini si riteneva un vero socialista, marxista rivoluzionario sensibile allo spirito più che alla lettera del marxismo, conoscitore di Marx ma seguace anche delle varie «filosofie della vita» che, secondo lui, dovevano servire a rinnovare il carattere rivoluzionario del socialismo, attraverso una rielaborazione del marxismo secondo le categorie dell ‘idealismo. Se si considerano i suoi scritti più significativi del periodo socialista, questi non paiono, per la conoscenza della letteratura marxista, inferiori a quelli di altri capi del socialismo. Quanto e cosa abbia letto di Marx può esser discusso, ma certamente Mussolini non ignorava i problemi principali del pensiero socialista del suo tempo. Il giudizio di Croce, in proposito, è ancora valido66. Per taluni aspetti del suo pensiero, Mussolini è stato accostato a Lenin, ma per una, secondo noi, eccessiva considerazione di analogie, ed è stato ritenuto precursore del comunismo, come critica rivoluzionaria alla socialdemocrazia67. Tuttavia, se si pone come idea essenziale del socialismo la democrazia, come autocoscienza dei lavoratori in quanto classe, e se non si attribuisce eccessiva importanza al linguaggio tipico di un militante socialista, per quanto eretico, si può affermare che Mussolini non fu mai socialista perché non fu mai 123
democratico e non accettò mai il principio dell’autocoscienza del proletariato come classe. Quanto poi all’altro tema fondamentale del socialismo, l’internazionalismo, Mussolini socialista fu contro la patria borghese, derise il nazionalismo, ma la sua mentalità era condizionata da un italianismo di tipo romantico-carducciano, rinnovato dall’incontro con il gruppo de «La Voce», e da una ancor vaga ma sentita credenza in una missione dell’Italia nel mondo contemporaneo, che gli era derivata principalmente da Oriani. Il Mussolini socialista considerava la patria come «il più alto organismo collettivo cui siano giunti i gruppi etnici civili»68, ma affermava che il proletariato, come il capitalismo, non aveva patria; che «l’umanità nega la nazione dilatandola fino ai confini del mondo». Se di «nazionalismo» si vuol parlare per l’ideologia mussoliniana di questo periodo, bisogna riferirsi non a quello cosiddetto ufficiale, espresso nel movimento promosso da Enrico Corradini, ma al nazionalismo vociano, più culturale che politico, più problematico che dogmatico, più spirituale che territoriale. Egli approvava l’opera della «Voce», perché esprimeva lo spirito dell’Italia moderna, destinata, secondo lui, ad essere «la patria comune del genio»69, «a riempire di sé una nuova epoca nella storia del genere umano», mentre verso il nazionalismo corradiniano la sua ironia fu molto pungente. Per Mussolini, il «tartarinesco nazionalismo italiano»70 era un «morbus sacer»71 «dei poeti, dei novellieri, dei dandys, dei lenoni, dei Muffisti […] sorto in Italia come una caricatura del nazionalismo francese. Il suo terreno è la farsa, anzi la pochade»72. Quando fu tenuto a Firenze il primo convegno del movimento nazionalista, nel 1910, 124
Mussolini commentò: Monarchia, esercito, guerra! Ecco i tre fari spirituali ideologici attorno ai quali son convolate le farfalle tardivette - del nazionalismo italiano. Tre parole, tre istituzioni, tre assurdi […]. Quando questi nazionalisti parlano di guerra, ci sembra di vederli soffiare in fesse trombette di latta, ci sembra di vederli puntare sul serio un fucile di legno. Noi avremmo compreso e forse guardato con simpatia un nazionalismo all’interno, un movimento democraticoculturale di miglioramento, di raccoglimento e di rinnovamento del popolo italiano73. Mussolini pensò soltanto con la prima guerra mondiale. La guerra, la scelta dell’interventismo, la conversione agli ideali patriottici, lo spostamento su posizioni più «realistiche», la suggestione del combattentismo, i contatti stretti con i futuristi e gli arditi, la prevalenza del politico sul rivoluzionario: tutto questo processo di evoluzione o di involuzione ideologica introdusse nell’ideologia mussoliniana il concetto di nazione, che Mussolini concepiva ora - alla maniera soreliana - come un mito in cui credere per realizzare l’unità d’un popolo imponendogli una meta collettiva, ora -alla maniera darwinista - come stirpe etnica in contrasto con altre stirpi, nell’eterna lotta per l’esistenza. Ma questo sviluppo ideologico, anche in relazione con l’esperienza socialista, non rinnovò dalla radice la concezione mussoliniana della vita e della politica; tolse di mezzo soltanto il socialismo, sia pure «eretico», mettendone in risalto le componenti costanti e personali, più propriamente mussoliniane. Da ciò non si deve concludere che Mussolini, convertito all’interventismo 125
e al mito della nazione, divenisse un reazionario o un conservatore. Certo, secondo il linguaggio della polemica politica, si può anche accettare la qualifica di reazionario attribuita al Mussolini interventista, e si può negare anche che egli sia mai stato, a causa della sua successiva abiura antisocialista, un vero rivoluzionario. Ma se ci atteniamo al significato storico del termine «reazionario» o del termine «conservatore», allora bisogna concludere che Mussolini non fu reazionario, perché non aveva nessun passato da difendere, non si sentiva partecipe d’una tradizione imperitura, non credeva in valori eterni e trascendenti. Conservatore lo divenne dopo aver conquistato il potere, ma nel senso più semplice, e se si vuole, deteriore del termine, come lo stesso Mussolini spiegò alcuni anni dopo nei colloqui con Emil Ludwig, che costituiscono un autentico testo dell’ideologia mussoliniana: «Ogni rivoluzionario diventa in un determinato momento conservatore… Io sono venuto per restare quanto più a lungo è possibile»74. 5. L’interventismo di Mussolini Abbiamo delineato, nelle pagine precedenti, le idee principali dell’ideologia mussoliniana al momento dell’intervento. Il suo nuovo orientamento fu chiaro pochi giorni dopo l’espulsione dal partito socialista. In un discorso a Parma, Mussolini presentò argomenti che sono già quelli del fascista. Esordì contro il pacifismo e le illusioni d’un progresso illimitato, sotto il segno provvidenziale del benessere universale, diffuse in Europa dopo il 1870: Dal ’70 in poi, non ci furono che guerre periferiche, fra i popoli dell’Oriente europeo […]. Si era perciò diffusa la convinzione che una guerra europea, e
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perciò una guerra mondiale, non fosse più possibile. Si avanzavano per sostenere tale asserto le più disparate ragioni […]. Si era anche fatto assegnamento sulla «bontà» umana, sui sentimenti di «umanità», di fratellanza, di amore che dovrebbero stringere tutti i membri della specie «uomo» al di sopra dei monti, al di là degli oceani. Altra illusione. Verissimo che questi sentimenti di «simpatia» e di «simpatetismo» esistono. Il nostro secolo ha visto - invero - moltiplicarsi le opere filantropiche per alleviare le miserie degli uomini e anche quelle degli «animali», ma, insieme con questi sentimenti, ne esistono altri più profondi, più alti, più vitali: noi non ci spiegheremmo il fenomeno universale della guerra attribuendolo soltanto al capriccio dei monarchi, all’antagonismo delle stirpi o al conflitto delle economie; si deve tener conto di altri sentimenti che ognuno di noi reca nell’animo suo e che inducevano Proudhon a proclamare la guerra «di origine divina»75.
Mussolini dichiarò anche che non aveva mai creduto nelle teorie pacifiste che facevano dipendere la causa della guerra dal fattore economico. Erano, per lui, teorie astratte, perché l’economia non era il fattore dominante della storia, della vita e delle relazioni fra i popoli: «L’uomo economico “puro” non esiste. La storia del mondo non è una partita di computisteria e l’interesse materiale non è - per fortuna! l’unica molla delle azioni umane». Con simili dichiarazioni, è evidente, Mussolini era fuori di qualsiasi concezione che possa dirsi socialista, almeno in senso marxista. Egli abbandonava i princìpi della concezione classista, convertendosi alla realtà della nazione come principale protagonista della storia contemporanea. Un fenomeno nuovo si delineava all’orizzonte della storia: «i popoli tendono - colla diffusione della cultura e col costituirsi delle economie a tipo nazionale - a rinchiudersi nella loro unità, psicologica e morale». Di fronte a questa realtà nuova, l’internazionalismo era da considerarsi morto76, e con esso erano morte le speranze d’una rivolta del socialismo europeo contro la guerra in nome della 127
solidarietà del proletariato mondiale unito al di sopra delle differenze nazionali. Il socialismo che non si rinnovava con la realtà perdeva l’occasione rivoluzionaria della guerra, e finiva così col confondere i suoi ideali con quelli della borghesia parassitaria e con le forze reazionarie del trono e dell’altare, anch’esse in gran parte neutraliste, contro le quali invece insorgevano nuove e dinamiche forze borghesi. «Vi sono - disse ancora Mussolini - nella borghesia forze giovani che non vogliono stagnare nella morta gora della neutralità, ma la borghesia presa nel suo complesso è neutralista e ostile alla guerra». Le antitesi di classe non contavano più perché la guerra aveva provocato divisioni ben più gravi e profonde nel corpo della società: «da una parte stanno tutti i conservatori, tutte le forze morte della nazione; dall’altra i rivoluzionari e con questi tutte le forze vive del paese». Il discorso di Parma si concluse con l’invocazione alla guerra nazionale. Oltre l’intransigenza dottrinaria di qualsiasi principio, vi era la verità della vita, vi era il pensiero che non si cristallizza nell’ortodossia, ma sempre di continuo si rinnova al contatto con la realtà cangiante. Nessun dogmatismo era possibile nella politica della vita moderna: La vita è il relativo; l’assoluto non esiste che nell’astrazione fredda e infeconda […]. Bisogna agire, muoversi, combattere e, se occorre, morire. I neutrali non hanno mai dominato gli avvenimenti. Li hanno sempre subiti. È il sangue che dà il movimento alla ruota sonante della storia!77
Con questi argomenti, Mussolini iniziava un discorso politico che si sarebbe spinto molto avanti, verso posizioni che erano in quel momento imprevedibili, dato il suo 128
passato di socialista. Un salto notevole, rispetto a questo passato, era stato già fatto con la scelta interventista, che, per Mussolini, dissolveva il dualismo classista fra borghesia e proletariato e lo sostituiva con il dualismo fra neutralisti e interventisti. Questo mutamento era accettabile soltanto in una prospettiva non più socialista, anche se il distacco definitivo dal socialismo marxista, come corredo di formule e di miti, maturò in Mussolini dopo Caporetto. Il distacco ideologico di Mussolini dal socialismo fu, come afferma De Felice, «la conseguenza di un suo autonomo processo», anche se non mancarono pressioni esterne, come la necessità di collegamenti con taluni ambienti industriali per il finanziamento del «Popolo d’Italia». Ma voler limitare a queste pressioni i motivi della metamorfosi ideologica di Mussolini ci pare una spiegazione troppo elementare, dopo quanto abbiamo detto finora. L’esperienza dell’interventismo e della guerra operò sulla sua personalità politica un mutamento sensibile, che si accentuò alla fine del conflitto. Mussolini intuì che per il paese si sarebbero presentati problemi nuovi, dopo quattro anni di guerra, e tali che il partito socialista, psicologicamente estraneo e ostile ad essi, non sarebbe stato in grado di comprenderli. Perciò bisognava trovare nuove formule politiche, nuovi miti, nuove forze su cui poggiare le speranze della «rivoluzione nazionale». Uscito dal socialismo, Mussolini non sapeva dove rivolgersi; perciò, nell’eccitato clima ideologico della guerra e del dopoguerra, assunse un atteggiamento di attesa, dichiarando così la fine d’ogni verità e la validità del relativismo. Per lui, parole come reazione o rivoluzione erano prive di senso, le categorie marxiste si erano dimostrate inadeguate per comprendere le 129
situazioni nuove. In nome della guerra prima, in nome della nazione poi, Mussolini voleva costituire l’unità della società italiana, incontrandosi con le avanguardie più ardite e impazienti della borghesia intellettuale interventista, e con quelle nuove avanguardie del combattentismo che nacquero dall’esperienza della guerra. Mussolini, in principio, si orientò verso le idee del sindacalismo nazionale, che erano in quel momento le idee più affini al suo interventismo rivoluzionario, avviando una «risistemazione» della sua ideologia con l’osservazione della realtà e della direzione che gli avvenimenti parevano prendere. Dopo aver invano tentato di affermare una verità assoluta, intransigente, all’interno del partito socialista, Mussolini, uscito sconfitto da questa esperienza, ne aveva riportato però un profondo scetticismo sul valore delle ideologie politiche che non erano elaborate, e continuamente verificate, attraverso il confronto con l’esperienza degli avvenimenti. Ora, dopo l’esperienza della guerra, almeno due cose gli sembravano chiare: che la politica del dopoguerra avrebbe dovuto operare su una realtà molto diversa da quella del passato, e che le forze politiche tradizionali, fra cui lo stesso partito socialista, non avrebbero avuto la sensibilità psicologica e la capacità politica di rinnovarsi, di adeguarsi alla mutata realtà, di andare incontro alla massa dei reduci. Mussolini intuì le conseguenze che una guerra come quella avrebbe avuto sull’animo dei combattenti, intuì quale massa di sentimenti nuovi si sarebbe formata in loro, accumulandosi come un’energia possente, da utilizzare per compiere quella rivoluzione che le masse socialiste non erano state capaci di realizzare. Il potere, nel dopoguerra, sarebbe passato 130
nelle mani dei combattenti, le nuove aristocrazie del futuro Stato nazionale: questa aristocrazia muove già i primi passi - scriveva Mussolini alla fine del ‘17 -. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di «presa di possesso» delle posizioni sociali […]. L’Italia va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti […]. I partiti vecchi, gli uomini vecchi che si accingono, come se niente fosse, all ‘exploitation dell’Italia politica di domani saranno travolti […]. È questa previsione che ci conduce a guardare con un certo disprezzo tutto ciò che si dice e si fa dagli otri vecchi, ripieni di presunzione, di sacre formule e di imbecillità senile78.
La consueta nomenclatura cui era abituata la politica italiana avrebbe subito grandi alterazioni di significato. Le dottrine che negavano la nazione ed esaltavano la classe sarebbero crollate di fronte ad un intenso sviluppo del sentimento patriottico e di fronte ad una nuova sintesi ideologica di tutti i valori nati dall’esperienza che milioni di lavoratori vivevano nelle trincee, imparando a sentire se stessi e a considerarsi la parte viva della nazione. Il trincerismo, come lo definiva Mussolini, avrebbe realizzato «la sintesi delle antitesi: classe e nazione». Il problema fondamentale, secondo Mussolini, era quello nazionale. La soluzione delle questioni sociali, il mito stesso della rivoluzione, furono subordinati alla necessità della produzione nell’interesse supremo della nazione. Anche la libertà, se poteva nuocere alla vittoria e alla salute della nazione, era considerata dal nuovo Mussolini un pericolo. Egli arrivò ad invocare una dittatura militare di ferrea disciplina e di spirito inflessibile, per impedire che anche in Italia dilagasse una rivoluzione come quella sovietica: «Io
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chiedo uomini feroci. Chiedo un uomo feroce che abbia dell’energia, l’energia di spezzare, la inflessibilità di punire, di colpire senza esitazione, e tanto meglio, quanto più il colpevole è in alto», disse a Roma il 24 febbraio 1918. Quanto alla democrazia politica e alle rivendicazioni del proletariato attraverso la lotta delle organizzazioni di classe, Mussolini si mostrava completamente convertito alla concezione aristocratica del potere: «Democrazia non significa tendere al basso. Democrazia significa salire! Significa elevare quelli del basso, in alto». Se nel 1914 egli aveva scelto l’intervento per abbattere la reazione e per affermare i diritti della democrazia e delle masse, nel 1918 riteneva che la guerra, sorta come fenomeno democratico, era diventata, per le sue leggi spietate, una guerra aristocratica. «Questa guerra è stata fino ad oggi “quantitativa”. Ora si è visto che la massa non vince la massa; un esercito non vince un esercito; la quantità non vince la qualità […]. I soldati diventano guerrieri. Si procede ad una selezione fra le masse armate». Questa opposizione della qualità alla quantità - cara al Mussolini socialista - non era soltanto il risultato inevitabile delle necessità imposte dalla guerra, ma era necessaria anche nel campo del lavoro. Ai lavoratori Mussolini diceva: Voi rappresentate il lavoro, ma non tutto il lavoro, e il vostro lavoro è soltanto un elemento del gioco economico. Ce ne sono altri dai quali non si può prescindere. Voi siete il numero, ma il numero non basta a rendervi degni di governare la nazione e il mondo. Il numero è «quantitativo». Bisogna trasformarlo in fattore «qualitativo». Voi arriverete se lo meriterete. È possibile che dalla vostra massa attraverso un lavoro di ripulimento, raffinamento - esca un 132
organismo capace - non soltanto per voi, ma per tutti - di governare politicamente ed economicamente lo Stato. Il proletariato, per la sua impreparazione e per la necessità di elevarsi «qualitativamente», doveva essere curato, secondo Mussolini, dalla suggestione che proveniva dal socialismo di tipo sovietico, espropriatore e violento, guidato da una folle utopia verso la distruzione di tutti gli strumenti necessari alla vita d’una società moderna. «Non si tratta di “impadronirsi” dei beni; si tratta di “produrne” altri, senza interruzione. Non si tratta di eguagliare gli uomini nel senso di aplatir ma di stabilire fortemente le gerarchie e la disciplina sociale. Finché gli uomini nasceranno diversamente dotati, ci sarà sempre una gerarchia delle “capacità”». Accanto a questi spunti sindacalisti, altro motivo nuovo che Mussolini accolse e diffuse fu l‘italianismo, di tipo vociano-orianesco, come fede in una rinnovata coscienza nazionale dell’Italia e della sua «missione» nel mondo contemporaneo. Egli esaltò l’Italia immortale, i venti secoli di storia del popolo italiano, le qualità della stirpe, la bellezza e la forza della razza. La guerra avrebbe rivelato l’Italia agli italiani, sfatando la leggenda della loro incapacità ai grandi cimenti. Bisognava dimostrare che «l’Italia è capace di fare una guerra, una grande guerra. Bisogna ripeterlo; una grande guerra», perché soltanto questa poteva dare agli italiani la coscienza della loro nazionalità: «solo la guerra può fare gli “italiani” di cui parlava d’Azeglio. O la rivoluzione! [,..]»79. Con la guerra, finiva l’immagine dell’Italia di maniera «degli schitarranti e dei cantastorie», e nasceva o si affermava l’Italia nuova, moderna, industriale, laboriosa, prolifica80. Ogni residuo di socialismo, con simili 133
discorsi, era scomparso. Mussolini aveva scelto il suo nuovo pubblico, non più quello delle masse, ma delle élites. Lo stesso fenomeno dell’interventismo era da lui considerato fenomeno tipicamente aristocratico, voluto da una minoranza audace contro il naturale neutralismo delle masse, per loro carattere statiche ed incapaci di decidere nelle grandi occasioni della storia. Gli interventisti erano una minoranza giovane, che portava in sé un esasperato gusto di vita e, perciò, di azione81, e aveva dietro di sé un seguito di elementi scelti, non una massa amorfa. Il nostro pubblico è un pubblico di élite. È il pubblico delle città. Il pubblico che cerca, che vuole, che cammina. È straordinario che un giornale personale come questo raccolga così vasta messe di aiuti. Segno dunque che noi esprimiamo correnti che esistono, tendenze che affinano, volontà che si determinano. Segno dunque che questo giornale non è un sacco, come quasi tutti gli altri, ma un vessillo sotto al quale si raccolgono molti dei migliori italiani82.
Una nuova forza cominciava a delinearsi, non raccolta intorno ad un partito o in una organizzazione qualsiasi, ma come movimento d’opinione animato da un giornale che, quotidianamente, registrava i sentimenti delle aristocrazie del combattentismo, le voci varie del rivoluzionarismo nazionale; primo nucleo, fluido e volontariamente libero da costrizioni ideologiche o istituzionali, del futuro fascismo diciannovista. Tale nucleo di «aristòcrati» dello spirito aveva un solo principio unificatore ed animatore, il principio della patria, e sotto questo vessillo potevano raccogliersi le forze più disparate, per formare quella nuova unità nazionalpopolare a cui Mussolini cominciava a pensare83. Così, i Fasci d’azione rivoluzionaria, costituiti agli inizi del 15, non erano nati come partito, ma come liberi
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raggruppamenti «di quei sovversivi di tutte le scuole e dottrine politiche che ritengono di trovare nell’attuale momento, e in quello che immediatamente a questo succederà, un campo propizio alla fecondazione di idealità rivoluzionarie e non intendono però lasciare sfuggire l’occasione di un movimento in comune»84. Oltre il principio di nazionalità vi era un altro elemento unificatore: l’avversione al partito socialista, che agli occhi di Mussolini divenne la «bestia nera» del dopoguerra. Il partito era accusato d’essere reazionario e d’aver favorito con la sua neutralità e con le sue critiche alla guerra la reazione europea. Non poteva più pretendere il monopolio di rappresentanza della classe lavoratrice perché era soltanto lo strumento d’una oligarchia di politicanti, che esercitava un’influenza deleteria sul proletariato, esasperandolo con i miti del bolscevismo e istigandolo ad una lotta antinazionale, con una campagna demagogica e disfattista. Ormai è chiaro - scriveva Mussolini nel novembre del 1918 - che ci troviamo in presenza di due fenomeni: c’è il socialismo politico eminentemente «distruttivo», c’è il sindacalismo nazionale «creativo». Vi sono da una parte i borghesi del socialismo, che, pur di «sperimentare» le loro tesi, non arretrerebbero dall’acuire la crisi economica e sociale provocata dalla guerra e farebbero, necessariamente, precipitare le società europee in pieno caos; vi sono, dall’altra parte, le organizzazioni della classe operaia che respingono le confuse e stolide «anticipazioni» della politica socialista, in quanto sentono che il capitalismo ha ancora una funzione da compiere e che l’avvento del proletariato deve venire dal basso, non dall’alto, a colpo di decreti di un governo politico di socialisti tesserati85.
Non si può certo escludere una buona dose di demagogia nei nuovi atteggiamenti di Mussolini, che confondevano senza scrupolo vecchi bollori rivoluzionari e nuove cautele realistiche. Egli fiutava il mutamento dei tempi e la nuova 135
sensibilità delle masse, e si adeguava. Aveva un problema personale d’urgente soluzione, dopo la sua rottura col partito socialista: trovare un seguito, riconquistare un ruolo politico nell’interventismo di sinistra e nel combattentismo. Per adeguarsi alle espressioni più varie ed eterogenee del complesso mondo del sovversivismo nazionale, Mussolini condusse un giuoco politico non sempre lineare e coerente, che forse non era chiaro neppure a lui stesso. Il suo obiettivo sicuro era di assumere, finita la guerra, il ruolo di duce del combattentismo, con lo scopo di lottare, come egli stesso affermava, contro il partito socialista, «il partito politico che continua la sua sordida speculazione ai danni della classe operaia e appoggiare, come dicono i sindacalisti francesi, le “giuste rivendicazioni del proletariato organizzato”». La sua segreta speranza era sottrarre al partito socialista l’egemonia delle masse, che non lo avevano seguito dopo la scelta interventista, puntando ora sulla valorizzazione della loro esperienza di guerra, sfruttando il cumulo di sentimenti «patriottici» che la guerra lasciava nell’animo dei reduci e il desiderio di giustizia sociale che avrebbe animato il combattentismo. Per questo, fin dai primi mesi seguenti la vittoria, Mussolini annunciò una costituente dell’interventismo, cioè l’unione delle forze interventiste senza discriminazioni, con il proposito di lanciare una politica di rinnovamento radicale della vita sociale e politica, senza alcun legame con vecchi partiti. Per andare incontro ad un diffuso sentimento dei combattenti, egli lanciò l’idea dell ‘antipartito, cioè, come scriveva nel novembre del 18 anticipando i Fasci di combattimento, «una organizzazione “fascista” che non avrà nulla di comune coi “credi”, coi “dogmi”, colla “mentalità” e 136
soprattutto colle “pregiudiziali” dei vecchi partiti, in quanto permetterà la coesistenza e la comunità di azione di tutti coloro - quali siano i loro credi politici, religiosi, economici che accettano ima data soluzione di dati problemi»86. Il problema immediato, per Mussolini, era la ricostruzione delle sostanze economiche della nazione, la difesa dei diritti della vittoria e la soddisfazione delle aspirazioni dei reduci. Bisognava produrre, rinviando le rivendicazioni e la lotta di classe. In ciò, Mussolini trovava appoggio nelle tesi del sindacalista francese Jouhaux, cui fece più volte riferimento, il quale rifiutava gli «atteggiamenti del classismo feroce e intransigente a base di rivolte e di scioperi generali»87. Avviatosi su questa strada, Mussolini finì col rinnegare anche il sindacalismo mitico ed eroico della scuola soreliana, per aderire ad un sindacalismo «pacifico, pragmatista e realizzatore che si rende conto dei fatti nuovi e costruisce nella realtà». Il mito del sindacalismo rivoluzionario, per il Mussolini fascista, era tramontato, con ogni altra suggestione di utopie rivoluzionarie. Quel che ora contava, per lui, erano i «fatti nuovi», la «realtà» su cui costruire la propria politica, giorno per giorno, risolvendo i problemi del momento con soluzioni pratiche e spirito relativistico. Mussolini era l‘homme qui cherche, convinto che le sue fortune politiche potevano esser ricostruite soltanto nel mondo dei reduci, fra gli interventisti rivoluzionari. Per questo motivo, fallito il progetto d’una costituente dell’interventismo, si fece promotore della costituzione dei Fasci di combattimento, chiamando attorno a sé le élites del combattentismo, agitando le idee nuove e soffiando sui sentimenti che la guerra aveva fatto nascere. Con queste 137
forze Mussolini non si compromise mai fino in fondo, riuscendo, anzi, più volte a giocare i suoi «compagni di strada» sul terreno del successo politico. Ma, quale che sia stata l’avventura personale di Mussolini, non v’è dubbio che fu proprio dalla confusione di questi gruppi e dai miti del dopoguerra che ebbe origine il fascismo, e Mussolini ne fu il demiurgo.
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Capitolo secondo I miti del dopoguerra 1. Il grande evento Le conseguenze della prima guerra mondiale sono considerate dagli storici simili a quelle della Rivoluzione francese. La certezza che la guerra era stata l’inizio d’un mutamento radicale in tutte le forme della vita civile era già diffusa nella coscienza dei contemporanei. La crisi da cui furono travolti non aveva precedenti, almeno negli ultimi cento anni, e sembrava impossibile durante il periodo della belle époque. Credere che una grande guerra modifichi i caratteri di un’epoca e segni l’inizio di un’epoca nuova è, secondo Bouthoul, «una tendenza naturale dello spirito umano». I popoli, usciti da un conflitto che ha coinvolto tutta la loro esistenza, credono d’aver assolto un grande compito, «di aver sistemato e risolto i problemi che ad essi si erano presentati come più pericolosi e urgenti. Ne hanno fatto una graduatoria nuova, hanno chiuso un’epoca e ne hanno aperta un’altra molto diversa»1. Tale convinzione diventa ancor più popolare se la guerra è stata accompagnata da una mitologia sul suo valore rivoluzionario ed innovatore. Come la Rivoluzione francese, la prima guerra mondiale era stata quasi annunciata da segni premonitori, interpretati in vario modo. V’era chi temeva una crisi generale della civiltà europea corrosa nella sua fibra morale dal decadentismo, dall’irrazionalismo, dal culto della forza e dell’imperialismo, dall’avvento delle masse; altri vedevano in questi segni l’annuncio di una catastrofe 139
rigeneratrice, salutare per un mondo divenuto vecchio ed ipocrita, dominato dal materialismo della borghesia e delle classi inferiori, in cui i «valori dello spirito», l’individuo, la tradizione nazionale erano derisi o soffocati dall’utilitarismo d’una società dedita solo alla ricerca di benessere e quiete. Per gli uni e per gli altri il significato rivoluzionario -positivo o negativo - della guerra non era in discussione, e fu confermato dai suoi risultati: la guerra distrusse troni che avevano una stabilità secolare, creò nuovi Stati, fu l’inizio di rivoluzioni nazionali e sociali, mise in crisi valori e regole di vita collettiva, inferse un gravissimo colpo alle strutture economiche e politiche della società borghese liberale. Fu, inoltre, scuola di nuovi metodi di lotta politica, diffondendo un nuovo modo di concepire la vita e i rapporti umani. Una prima grave conseguenza di questo complesso di effetti della guerra fu la frattura tra le classi politiche tradizionali e la massa dei combattenti, che trovarono, al loro ritorno dalle trincee, una situazione diversa rispetto al mondo che avevano lasciato, perché l’intera società italiana fu coinvolta nel processo di cambiamento prodotto dalla grande guerra: Grande acceleratrice di fenomeni sociali - ha scritto Piero Melograni -, la guerra aveva trasformato la realtà italiana più rapidamente e profondamente di quanto la classe politica fosse riuscita a trasformare se stessa. Già prima della grande guerra, infatti, l’Italia aveva dato inizio al suo «decollo» economico, acquisendo i caratteri della moderna società industriale. Ma quanto era accaduto fra il 1915 e il 1918 aveva portato a maturazione il processo di trasformazione in corso, producendo una fondamentale conseguenza sul piano politico: che nessun gruppo dirigente avrebbe potuto stabilmente esercitare il potere senza istituire un legame con le grandi masse2.
Se, nella prospettiva dello storico, la crisi di quegli anni 140
appare chiara nelle sue linee essenziali, che permettono di vederne gli effetti profondi e duraturi, dai contemporanei la crisi era percepita come un caotico sovvertimento di abitudini, di valori, di istituzioni accompagnato da una convulsa ma vaga aspettazione del nuovo. In realtà, la crisi del dopoguerra non scoppiò in Italia come un terremoto improvviso. Nel ventennio precedente la guerra, in Italia come in altri paesi europei, v’erano state già frequenti manifestazioni di rivolta contro una certa immagine della società borghese liberale, alle quali si univano radicali condanne del suo stile di vita e della sua organizzazione economica e sociale, con il rifiuto delle sue «sovrastrutture» ideologiche e politiche, come il culto del benessere, il riformismo politico, il parlamentarismo, il pacifismo, l’umanitarismo sociale, il perbenismo di una morale ritenuta convenzionale e ipocrita. In Italia, prima della guerra, la rivolta contro la società borghese liberale si manifestò in varie forme d’insofferenza per lo stato presente e di aspirazione al rinnovamento, comuni ai movimenti culturali e politici che si consideravano d’avanguardia. C’era il sindacalismo rivoluzionario, che annunciava il mito d’una società rigenerata dall’azione violenta e predicava ai produttori, borghesi e proletari, una morale guerriera e agonistica, esaltando la violenza come levatrice della storia; immaginava un sistema di rappresentanza fondato sulle organizzazioni sindacali e metteva in ridicolo e svelava gli inganni della democrazia parlamentare, del sistema dei partiti, del professionismo politico. In un campo del tutto diverso, ma non senza sotterranei collegamenti ideali e occasionali incontri con il sindacalismo rivoluzionario, c’era 141
il futurismo, movimento di artisti che avevano la pretesa di formulare una ideologia totale, artistica, morale e politica. Le componenti dell’ideologia futurista erano la rivolta contro l’ordine, l’anarchismo intellettuale e morale, la lotta contro tutto ciò ch’era frutto della tradizione; l’affermazione dei privilegi del genio sulla massa e contro i privilegi di classe; e, infine, un nazionalismo cosmopolita, e l’esaltazione della guerra, eterna legge del mondo. C’era, ancora, il «vario nazionalismo» italiano, le cui componenti andavano da un nazionalismo monarchico, reazionario, paladino del trono e dell’altare, e soprattutto imperialista, ad un nazionalismo antimonarchico, antitradizionalista, populista, sovversivo, anticlericale e perfino antiimperialista. A questi movimenti politici e culturali di contestazione dell’ordine esistente deve essere aggiunto anche il nuovo idealismo filosofico che i giovani assimilarono non soltanto attraverso il magistero di Croce e di Gentile, ma molto più - come s’è visto per il caso di Mussolini - da sparse risonanze delle «filosofie della vita», correnti di pensiero che discendevano, in forme spurie, dalle filosofie di Bergson, di Blondel, di James, di Sorel, di Nietzsche: tutte filosofie che affermavano la supremazia dei valori dello spirito contro l’intellettualismo e il razionalismo, l’avversione per le convenzioni e le convinzioni consolidate senza più vitalità, lo slancio eroico, l’impeto dell’azione creatrice, la volontà di potenza. Le nuove generazioni italiane erano agitate da un vivissimo desiderio di rinnovamento, che assumeva ora il turbolento anarchismo spiritualista del «Leonardo», ora il volto composto e serioso della «Voce», ora la furia verbale ed iconoclasta di «Lacerba». C’era infine, a dare un tono generale all’atmosfera del tempo, come ha scritto 142
George Mosse, «uno spirito di rivolta, il desiderio di spezzare le catene di un sistema» che era finito in un vicolo cieco, dal quale si poteva uscire soltanto con l’azione violenta3. L‘ordine - cioè le istituzioni e gli ideali liberali - mancava di prestigio e non aveva radici nella coscienza del popolo. La sua crisi era particolarmente grave in un paese come l’Italia, dove ideali e istituzioni liberali erano un acquisto recente e scarsamente assimilato, considerati da molti un abito straniero inadatto al carattere e alle tradizioni storiche degli italiani. I governi liberali s’erano dimostrati poco capaci di far fronte ai nuovi movimenti di massa né avevano saputo educare i ceti sociali, che avanzavano nella scena politica, ai loro ideali attuando la giustizia sociale e salvando, nello stesso tempo, la dignità e l’autonomia dell’individuo. La guerra mondiale, guerra di masse, fu la fine del riformismo liberale, ma la critica al sistema era cominciata mólto prima, seminando il discredito sulle istituzioni rappresentative. Pareto, Mosca, Michels - per citare gli autori più noti - da tempo avevano indagato, con metodi e sentimenti diversi, i meccanismi che regolavano la vita dei regimi parlamentari, ed erano giunti alla unanime considerazione che i princìpi del sistema parlamentare democratico erano astratti e non avevano reale applicazione. Questi scienziati della politica avevano svelato che il potere, sotto qualsiasi maschera ideologica, è per natura oligarchico, e le loro dottrine misero in circolazione il mito delle aristocrazie dominanti e delle masse dominate, secondo una legge fatale del comportamento politico. A risultati simili era pervenuto Gustave Le Bon, che aveva studiato la psicologia delle folle, protagoniste della 143
vita contemporanea, ed aveva spiegato quali erano i loro sentimenti fondamentali, quali i mezzi per poter addomesticare la loro natura passionale e per conquistare la loro fede. Secondo Le Bon, le folle avevano una psicologia elementare, istintiva, irrazionale, mitica, facilmente soggetta alla suggestione del capo. Nel fondo della loro anima, le folle erano molto conservatrici, pur con esteriori manifestazioni di ribellismo. Negli stessi anni, a screditare la democrazia e i princìpi egalitari, era la filosofia di Nietzsche, divenuta popolare in forme spurie e spesso volgari, accolta come l’annunzio d’una nuova epoca che avrebbe visto l’avvento di individui superiori alla morale comune, al di là del bene e del male, dominatori delle masse. Queste idee, espressione ideologica d’una reale crisi del sistema borghese liberale, non lasciavano immaginare, se non nella mente di qualche profetico e catastrofico visionario, uno sconvolgimento come quello provocato, in pochi anni, dalla grande guerra. Tuttavia, proprio per l’esistenza di questo «spirito della vigilia» che animava molti strati dell’opinione pubblica interventista, fu possibile attribuire alla guerra, fin dal primo momento, un valore rivoluzionario. La guerra era il grande evento rigeneratore. «Siamo tutti sicuri - scrisse Agostino Lanzillo che una trasformazione radicale, profonda, imprevedibile ci attende. Ognuno sente che milioni e milioni di uomini non muoiono senza che rinnovamenti prodigiosi non derivino dall’ecatombe immane»4. L’ordine era destinato a perire e non c’erano dubbi che «una nuova società, diversa nella sua organizzazione, nelle sue finalità, nella struttura economica, morale e politica uscirà da questo trapasso decisivo della storia». 144
Le ideologie della crisi, con i temi sopra ricordati, trovarono nella guerra l’occasione d’una verifica e di una conferma. La guerra distrusse il mito d’una civiltà che sembrava destinata ad un progresso illimitato, guidata dai lumi della ragione, in uno stabile ordinamento intemazionale fondato sull’equilibrio fra grandi potenze. E col mito, rovinarono le ideologie che lo rappresentavano: Fino all’agosto 1914 - annotava nel suo diario Gaetano De Sanctis il 10 maggio 1917 - era confortante, e direi giocondo lo spettacolo della società in mezzo a cui si viveva. Continuo, rapidissimo in apparenza il progresso intellettuale ed economico, coraggiosa, severa la critica che essa faceva di sé; arditi, incessanti i tentativi per migliorarsi, per illuminarsi, per attuare maggiormente l’idea di giustizia. E poi è venuta la guerra ed ha rivelato d’improvviso quale cumulo smisurato di odio e di malvagità posasse in fondo alle anime5.
Siffatti sentimenti d’accorata apprensione per l’improwisa eruzione di odio nella guerra non erano condivisi da chi, come Mussolini ed altri giovani della sua generazione, credeva nel mito della guerra e derideva i sentimenti umanitari e pacifisti, perché dalla guerra s’aspettava l’apertura verso il nuovo mondo6. Se la grande guerra ebbe enormi conseguenze nella vita economica e sociale, essa fu anche, secondo un’efficace espressione di Mario Missiroli, una «devastazione nelle coscienze». Un sistema di certezze e di fede, creduto solido, era crollato, ed era messa in dubbio la stessa capacità dell’uomo a comprendere e dirigere con la sua ragione gli eventi. Era la fine dello storicismo finalistico, di qualsiasi concezione provvidenzialistica della storia come attuazione d’un disegno logico e razionale della provvidenza divina, della Dialettica dello Spirito o della Materia:
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La guerra mondiale ha distrutto l’ideologia del progresso, concepito come una lenta, ordinata successione di avvenimenti e di istituti, che si perfezionano svolgendo fino all’estremo la loro idea, la loro ragione primitiva; ha distrutto la concezione borghese, riformistica, evoluzionistica, del mondo e della vita, dell’azione e della storia. Alla «razionalità», che fu la religione del secolo decimonono, pare vada sostituendosi l’irrazionale, che è, poi, un modo d’assegnare alla volontà individuale un’autonomia e di superare quelle contraddizioni insanabili, che la storia ci presenta tutte le volte che tentiamo di sorprendere gli avvenimenti nell’attimo stesso in cui si formano e si consumano7.
La fine di queste certezze non fu accolta con pessimismo dai combattenti. Nonostante il sacrificio sofferto, sentivano che dalla fine del vecchio mondo poteva nascere, per la loro azione, un mondo migliore. Nella guerra, ha osservato Ludovico Garruccio, «si ravvisa la redenzione della società disgregata. E in ciò stanno la funzione e il significato che si attribuiscono al “grande evento”. L’evento, ossia, è l’apertura del grande disegno rigenerante, l’apertura di nuove prospettive non solo alla società ma anche al singolo»8. La guerra metteva anche a nudo, tolta la vernice delle consuetudini civili, la natura irrazionale, passionale, brutale dell’individuo e della massa e, nello stesso tempo, favoriva il successo di nuove élites d’uomini energici e volitivi, senza scrupoli, privi di riserve morali, educati all’azione rapida e violenta dalla guerra, divelti dalle loro radici sociali, veri eroi rappresentativi d’una società disintegrata, che facilmente potevano trovare un seguito di massa fra i reduci e i ceti più colpiti dalla crisi della guerra. 2. Il mito del nemico interno: le due Italie La convinzione che la guerra era stata una rivoluzione e una frattura fra due epoche era cominciata in Italia con la 146
polemica fra i neutralisti e gli interventisti. Nella pubblicistica di questi ultimi la guerra fu presentata, riprendendo un’immagine già consolidata nella cultura politica della contestazione antigiolittiana, come la contrapposizione fra due Italie, fra la vecchia e la nuova Italia, nata dalla guerra. Ci riferiamo, in particolare, agli interventisti che, con qualifica molto generica, si definivano «rivoluzionari» e avevano accettato la guerra come l’occasione storica per una radicale trasformazione della società. Essi volevano continuare, nel dopoguerra, la lotta contro uomini e istituzioni del passato, contro l’intero fronte dei neutralisti, che la guerra aveva condannato come relitti d’un mondo distrutto, rappresentanti d’una Italia passata che doveva definitivamente scomparire, per poter dar vita all’Italia giovane e sana, formata nell’esperienza delle trincee. Gli interventisti rivoluzionari esaltavano il loro operato e si proclamavano difensori della vittoria e dei valori combattentisti verso tutti quelli che avevano preferito la neutralità e intendevano ora fare il processo alla guerra, per negare ai combattenti il diritto di essere la classe dirigente della nuova Italia. Una nuova versione del mito delle due Italie sorse da questa polemica interventista: l’Italia dell’anteguerra contro l’Italia rigenerata dalla guerra; l’Italia dei neutralisti e dei «reazionari» rinunciatari contro l’Italia dei rivoluzionari interventisti e dei combattenti; l’Italia dei «vecchi» contro l’Italia dei «giovani». Con la pace, lo scontro fra i due opposti schieramenti si riaccese in modo più violento e dominò la vita politica dell’immediato dopoguerra. La polemica fra neutralisti e interventisti, infatti, era stata soltanto sospesa durante la guerra, nei momenti più 147
gravi, come dopo Caporetto, per lo sforzo comune di evitare al paese una sconfitta. Il disfattismo neutralista era una leggenda, oramai sfatata, perché socialisti e cattolici furono altrettanto buoni combattenti degli interventisti9. Ma la vittoria non favorì, per questo, la pacificazione. Anzi, per le conseguenze che la pace ebbe in Italia, approfondì il solco che divideva i due fronti, riaccese le polemiche e spinse la lotta politica allo scontro radicale, che caratterizzò i primi anni del dopoguerra. Non era più un normale antagonismo politico, ma una opposizione profonda che, per opera della propaganda d’entrambe le parti, assunse i caratteri d’una antitesi storica di concezioni e di valori, che non si sarebbe potuta risolvere altro che con lo scontro violento e la sconfitta d’uno dei due fronti. La polemica, da parte interventista, investiva anche la classe dirigente, che pure aveva accettato l’intervento, perché considerata composta da uomini politici incapaci di reggere le sorti d’un paese giovane, in un clima storico mutato, insensibili alle idealità della guerra e alle passioni del momento. Fra le tante situazioni che la guerra aveva determinato - ha scritto un testimone di quegli anni -, o quanto meno accentuato, in taluni casi fino all’esasperazione, v’era il distacco assai netto fra il ceto politico sopravvissuto all’anteguerra e la grande e varia massa di tutti coloro che alla guerra avevano partecipato, sperimentando la lenta tragedia delle trincee10.
L’interventismo della classe dirigente era considerato frutto di un disegno conservatore, eseguito con l’antica mentalità della diplomazia monarchica, che nulla aveva in comune con l’interventismo rivoluzionario e la guerra di masse. La guerra aveva deluso e infranto i sogni conservatori, 148
ha ucciso - osservò Missiroli -, prima di tutto, gli uomini ed i partiti che accettarono la guerra per fini di politica interna; ha eliminato dalla vita pubblica, e per sempre, tutti coloro che non sentirono il valore rivoluzionario e religioso della guerra; ha travolto, senza speranza di resurrezione, tutti quei gruppi, quelle clientele, che s’illusero di giovarsi della guerra per fini di classe o di setta, e che si riconobbero nel famoso discorso di Torino dell’on. Salandra.
La vittoria era stato l’annuncio d’un trapasso di poteri, con l’irruzione della massa dei combattenti nella vita del paese, mentre la classe dirigente si trovò ad affrontare, priva di strumenti efficaci, la prova ultima delle sue capacità per conservare il potere: si tratta di vedere se si vuole o no governare con le grandi masse; si tratta di vedere se lo Stato ha o no la forza di contenere lo spirito dei tempi nuovi, favorendo il trapasso di potere dalle vecchie oligarchie parassitane e improduttive ai ceti nuovi, che si chiamano proletariato e borghesia11.
La guerra doveva segnare l’inizio di una rivoluzione nella politica interna, e per questo fine era stata voluta da quei settori del!interventismo di sinistra che diedero vita al fascismo. Giovanni Gentile, nella prefazione alla raccolta di articoli Guerra e fede, scritti nel periodo del conflitto, affermò che per l’Italia «il problema della guerra era un problema superiore alla guerra stessa, e tale da impegnare tutto l’avvenire della vita italiana»12. Le controversie al tavolo della pace per la spartizione del bottino di guerra, e la delusione che in quella spartizione provò l’Italia, non erano questioni essenziali né importanti, perché il valore della guerra non era nella espansione territoriale, ma nella formazione d’una nuova coscienza nazionale. La 149
guerra, secondo Gentile, era stata combattuta «per un rinnovamento della vita interiore dell’Italia», e la crisi che il paese attraversava era una crisi, prima di tutto, morale. Il vero problema del dopoguerra era la riforma del carattere italiano, la fine della politica scettica di tipo giolittiano, frutto d’una secolare sfiducia nelle capacità dell’anima italiana a porsi grandi prove, a sottomettersi a duri sacrifici. La guerra, infatti, non era stata voluta da chi non aveva avuto mai fiducia nella fibra italiana e l’Italia aveva governata, e aveva creduto che si dovesse governare senza fede, senza idealità, senza programma che non fosse praticabile agevolmente, indulgendo agli istinti più bassi degli individui e del popolo, senza chiedere sacrifici ritenuti impossibili, e senza avventurarsi a rischi certamente mortati a chi non sia capace di affrontarti animosamente con ferma volontà di superarti. E la guerra, decisa, combattuta, vinta, doveva essere la dimostrazione di fatto che l’Italia non era più quel paese che costoro avevano creduto; e non doveva essere governato da quella gente e con quei metodi13.
L’Italia, invece, pungolata dalla minoranza interventista, s’era proposta una mèta «alta e degna», affrontando e superando la prova della guerra, ed aveva così acquistato la coscienza del proprio valore, «sia pure senza iattanza e senza stupidi orgogli». La vita della nazione riprendeva con spirito nuovo, perché lo sforzo della guerra aveva ucciso la «vecchia Italia scettica», ed aveva avviato la redenzione da quella vecchia Italia passata in proverbio tra i popoli europei, per la sua indole imbelle, pel suo individualismo, per il suo scarso senso dello Stato, per la sua tendenza a chiudersi nella cerchia dell’egoismo privato o nell’astratto infinito dell’arte e della speculazione intellettuale.
Bisognava perciò, secondo il filosofo, uccidere nell’italiano l’«uomo guicciardiniano», l’individuo che cura 150
il suo particolare, chiuso alla sollecitazione dei suoi simili, incapace di soffocare l’egoismo e di aprirsi alla partecipazione della vita civile, impegnandosi con la sua personalità di studioso o di lavoratore nell’opera comune dello Stato; abbandonando, nel campo della cultura, il gusto secolare dell’individualismo estetico e della contemplazione teorica neutrale, segregata dal mondo della pratica. Il primo atto di questa rivoluzione delle coscienze che, secondo Gentile, doveva essere la vera rivoluzione, era stato l’intervento, una scelta decisiva per l’avvenire, perché aveva posto il paese di fronte ad un’alternativa storica: Ecco il bivio - scriveva Gentile nel dicembre del 19 -. Da una parte, l’Italia facile del dolce far niente, nello scetticismo della cultura superficiale che non può essere religione né carattere: la vecchia Italia. Dall’altra, l’Italia che, piantatasi al Piave e sul Grappa, non si mosse più, e rovesciò dal Montello gli assalitori, e poi li raggiunse di là dal fiume, e li distrusse; l’Italia che vinse unicamente perché volle vincere, e sorprese il mondo e gli stessi italiani con la prova stupenda della sua tenacia nella resistenza: l’Italia nuova. Quale delle due resterà? Il vecchio uomo non è morto, e ci insidia e ci alletta e ci attraversa la via. Noi dobbiamo combatterlo e annientarlo; e la lotta è aspra, perché quest’uomo è tanta parte di noi14.
Gentile non predicava una catarsi moralistica individuale né il suo era solo un generico appello a ritrovare la fede nella comunità nazionale. La sua «rivoluzione culturale» aveva dinnanzi a sé bersagli storici precisi, cioè uomini e istituti che incarnavano, per lui, l’«uomo guicciardiniano», ed erano perciò i nemici da combattere. Per le stesse premesse attualistiche da cui muoveva, la rivoluzione culturale patrocinata dal filosofo doveva divenire necessariamente rivoluzione politica. Adottando l’antagonismo fra il Bene e il Male, tipico delle ideologie rivoluzionarie, Gentile vedeva i rappresentanti del Male 151
nella vecchia classe dirigente e nel complesso delle forze politiche rimaste estranee alla trasformazione morale operata dalla guerra. Avviatosi per questa strada, egli finirà inevitabilmente, come vedremo più avanti, per incontrare e riconoscere le forze del Bene in quelli che materialmente avevano sconfitto i rappresentanti della «vecchia Italia». Obiettivo della rivoluzione pensata da Gentile era creare la nazione italiana: e questo sarebbe stato possibile soltanto dopo aver distrutto le forze che negavano la nazione perché avevano un’anima «materialistica e antimazziniana». Tali erano gli uomini, le forze politiche, le ideologie che avevano dominato la vita italiana dal ’70 in poi, dopo aver rinnegato l’insegnamento religioso del Mazzini: la democrazia individualista, l’agnosticismo liberale, il materialismo socialista, il clericalismo; forze che s’erano schierate per la neutralità ed avevano respinto l’occasione della guerra perché non avevano compreso che essa, col «sacrificio del sangue», avrebbe cementato, anzi, «creato» la nazione italiana. Gentile era convinto che il problema della guerra andava oltre l’esito vittorioso del conflitto e le questioni territoriali. La guerra per l’Italia nuova non finiva con la sconfitta dei nemici esterni, perché il problema che aveva posto al paese «sarebbe rinato, in nuove forme, ma sostanzialmente immutato» dopo la pace. La soluzione definitiva sarebbe venuta soltanto con la fine del dualismo, col trionfo del Bene e la sconfitta delle ideologie matèrialiste e dei loro sostenitori. Perciò Gentile poteva affermare, nel 1919: «la guerra per me non è finita». Con queste premesse, egli aderì poi al fascismo trionfante, sicuro d’aver trovato in questo movimento le forze del Bene, con le quali attuare la 152
sua riforma politico-religiosa degli italiani. Non a caso, motivi e temi simili a quelli gentiliani si trovano negli scritti e nei discorsi di altri reduci intellettuali, e dello stesso Mussolini in questo periodo. Val la pena ricordare quel che scriveva un giovane intellettuale reduce, ardito e futurista, Giuseppe Bottai, destinato ad incontrare Gentile e Mussolini nella prospettiva d’una «rivoluzione nazionale». Anch’egli affermava: Per noi la guerra non è finita il 4 novembre 1918. Le firme apposte sugli stracci di carta (sia per maceri anglosassoni che latini) non ci interessano. Sappiamo che la pace potrà costruirsi sulla vigile, ferma, instancabile volontà di noi combattenti. Scendiamo nelle piazze. Sentiamo ch’è il nostro dovere non tacere e gridare, urlare nelle orecchie di questo sonnolento e dimenticone paese… Non possiamo rinunziare alla politica. Essa è il nostro dovere, il nostro pane 15. quotidiano
Per molti giovani come Bottai la guerra fu una iniziazione alla politica, avvenuta sotto il segno della lotta senza quartiere fra Italia vecchia e Italia giovane. La politica dei giovani combattenti, molti dei quali dovevano fornire al fascismo i suoi nuclei originari, nasceva dal loro sentimento spontaneo di sentirsi nazione, per aver combattuto per essa. Anche Mussolini era convinto che la guerra, in quanto inizio della rivoluzione interna, non era finita con l’armistizio. Dalle giornate del maggio interventista, l’Italia, secondo lui, era entrata in uno stato di guerra civile; la scena politica del dopoguerra era molto semplice: le divisioni tradizionali erano scomparse; esistevano soltanto due forze in radicale antagonismo, che nulla aveva in comune con l’antagonismo di classe. Questo «vecchio dualismo classista fra borghesia e proletariato, nel quale i dogmatici 153
del materialismo storico vorrebbero sigillare - fatuamente! tutta la storia del genere umano, qui si frantuma per dar posto ad un’altra antitesi non soltanto di interessi, ma soprattutto di ideali»16. Di questa nuova antitesi egli aveva parlato, come abbiamo visto, fin dal 1914, con termini affini a quelli adoperati da Gentile: «Da una parte stanno tutti i conservatori, tutte le forze morte della nazione: dall’altra i rivoluzionari e con questi tutte le forze vive del Paese»17. L’intervento era stato voluto da chi aveva sentito la necessità di imporre la propria volontà agli eventi, esempio d’una nuova Italia che non fuggiva rischi e sacrifici. La guerra era stata una grande prova per l’Italia, «un getto d’acqua pura», il trionfo della giovinezza contro la vecchiaia, il successo della qualità sulla quantità, delle minoranze audaci sulla massa inconsapevole e passiva di fronte al grande evento. Per Mussolini la guerra aveva dato tali prove del valore italiano da smentire l’immagine tradizionale e caricaturale degli italiani, cara agli stranieri: «quando saremo arrivati al traguardo - disse Mussolini nel maggio 18 a Bologna - potremo guardare anche noi in faccia ai nostri nemici, e dire anche noi, piccolo popolo disprezzato, anche noi, esercito di mandolinisti, abbiamo resistito e abbiamo il diritto a una pace giusta e duratura»18. A Mussolini, come a Gentile, interessava non tanto la politica estera quanto la politica interna: il problema centrale del dopoguerra era la lotta fra le due Italie, fra i «sani» e i «cadaveri»: Indietro larve! Via i cadaveri che si ostinano a non morire ed ammorbano, col lezzo insopportabile della loro decomposizione, l’atmosfera che dev’essere purificata. Noi, i sopravvissuti, noi i ritornati, rivendichiamo il diritto di governare l’Italia19.
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E come per Gentile, così per Mussolini lo scontro finale fra le forze nazionali e le forze antinazionali era inevitabile e necessario, per completare la «rivoluzione nazionale» iniziata con l’interventismo. La politica del dopoguerra era dominata dallo scontro fra interventisti e neutralisti, che superava tutte le passate antitesi politiche: «Le parole interventismo e neutralismo sono quelle che rivelano in sintesi la significazione di queste forze. Il neutralismo e l’interventismo sono due “categorie” che stanno al di sopra di quelle tradizionali che sino a ieri differenziavano gli individui»20. Nel gran parlare di rivoluzione durante il periodo immediatamente successivo alla guerra, di fronte al disordinato moto sociale delle masse, alle manifestazioni antistatali e anticapitaliste di molti interventisti di sinistra, Mussolini proponeva di oltrepassare gli antagonismi di classe per ricostituire, sull’esperienza della guerra e dei sentimenti combattentisti, una solidarietà collettiva nel mito della nazione e della produzione. Di conseguenza le categorie classiche della lotta politica gli apparivano prive di valore, dal momento che tutto era posto in discussione, ad eccezione del fatto d’avere o no preso parte alla guerra. Valorizzare la guerra, per Mussolini, significava non solo sostenere il comprensibile desiderio dei combattenti di veder compensati, moralmente e materialmente, i sacrifici di quattro anni di trincea, ma voleva dire anche rilanciare il suo mito rivoluzionario. Egli presentò la guerra come la prima vera rivoluzione italiana, anche se questa rivoluzione usciva dagli schemi del modello classico del marxismo, perché, secondo Mussolini, non aveva origini di classe, non era borghese né proletaria. 155
La guerra interpretata dagli interventisti rivoluzionari, travolgendo le ideologie e le categorie sociali del passato, trasfigurava la polemica sull’intervento in un contrasto assoluto fra due epoche e due società. Questo mito aiuta a comprendere la psicologia dei primi fascisti e i temi originali della loro ideologia, perché dalla guerra, come fonte di miti, prese le mosse il fascismo per legittimare la sua azione politica, assumendo l’esperienza della vita vissuta come radice della propria ideologia. Tutte le altre ideologie erano così negate, perché superate dall’esperienza della guerra. Il futuro iniziava con l’azione. Gentile, Mussolini, Bottai non erano i soli a interpretare le vicende del quadriennio 1915-1918 come l’inizio di una svolta storica nella vita della società italiana. Motivi analoghi, espressi in modo diverso e con diverse ragioni, erano comuni agli ambienti più irrequieti dell’interventismo di sinistra, specie d’origine sindacalista. Nel fascismo delle origini il mito delle due Italie divenne il motivo principale della sua ideologia. Giustamente è stato notato che «la guerra deve essere ritenuta uno dei presupposti del fascismo, non tanto nei suoi sviluppi, quanto per taluni atteggiamenti spirituali e talune disposizioni sociali che da essa ebbero origine»21. Fu nelle trincee e fra la massa dei giovani combattenti, sui quali la guerra ebbe maggiore influsso, che presero vita idee, simboli e atteggiamenti tipici del fascismo come una espressione del combattentismo. 3. Il combattentismo Giovanni Comisso, giovane combattente e scrittore testimone degli anni della guerra e del dopoguerra, così ha descritto lo stato d’animo dei giovani combattenti, le loro 156
emozioni, i progetti, le aspirazioni: La guerra aveva creato coscienze nuove, e queste dovevano avere la loro parola. Il mondo di prima era morto e uno nuovo doveva sorgere. L’Italia aveva compiuto non solo una guerra di liberazione di territori e di uomini, ma soprattutto di liberazione da princìpi, idee e costumi che le erano stati imposti dalla casta borghese nel secolo passato. Essa doveva ritrovare i suoi intimi valori spirituali, portarti a potenza e con questi dominare il mondo22.
Per i giovani, la guerra era stata un’avventura, un’esperienza vissuta con l’esaltazione dell’eroismo e del coraggio, in una totale libertà di spirito, pronti com’erano a morire e ad uccidere, con entusiasmo, per essere protagonisti d’un grande evento che stava trasformando il corso della storia. Per il giovane combattente la guerra era realmente la rivoluzione, il grande evento che rinnova il mondo, «il taglio netto tra il passato e il futuro», il momento risolutivo di «quel senso di disagio che gli individui sani e giovani sentono dinanzi all’ingombro di una storia pettegola, che pretendeva ficcarsi in tutte le cose della nostra vita quotidiana, ad ogni occasione, mascherata, ora da “bene inseparabile’ ora da “beneamata dinastia”»23. Per tutti i combattenti, la guerra era stata un evento eccezionale, che lasciava grandi speranze per il futuro; perciò bisognava mantener vivo il valore della guerra come «taglio sanguinante», come «scoppio rivoluzionario». Del resto, asseriva Bottai, anche i denigratori e gli avversari della guerra erano costretti a riconoscere che essa aveva messo «il mondo nella possibilità di un rinnovamento totale». La guerra aveva creato un’aspettazione messianica, presentimento e attesa di profondi rivolgimenti, tanto nei neutralisti che negli interventisti, come pure nella grande 157
maggioranza dei soldati, i quali avevano accettato passivamente la guerra, avevano combattuto con sopportazione e spirito di sacrificio, prestando fede alle promesse di grandi ricompense. Questo stato d’animo, questi residui sovversivi che alimentarono i miti del bolscevismo e del fascismo, derivarono soprattutto dal modo in cui l’Italia aveva preso parte al conflitto. L’Italia aveva iniziato la guerra, una guerra nuova perché comportava una vasta mobilitazione di massa, con strutture organizzative e con mentalità inadeguate. La polemica fra neutralisti e interventisti non comunicò alcuna emozione alla maggioranza del popolo. L’istintiva neutralità delle masse era un fatto indiscutibile, comune sia alla borghesia che al proletariato, ma dovuto più ad un naturale desiderio di evitare il peggio che ad una convinta adesione a teorie pacifiste. Come scrisse Salvemini, la neutralità assoluta aveva il consenso delle masse operaie e contadine. Ma queste, se non si curavano degli imperialismi borghesi, non si curavano neanche della rivoluzione sociale: domandavano solamente di essere lasciate tranquille alla loro vita tranquilla d’ogni giorno24.
L’atteggiamento di rinuncia ad un’attiva partecipazione ai problemi del paese, e l’avversione per la guerra, avevano radici antiche ed erano largamente diffusi fra le masse. Le manovre diplomatiche segrete con cui fu deciso l’intervento, senza interpellare il parlamento e senza impegnare il paese in un dibattito sulle ragioni della guerra e sui motivi che spingevano l’Italia all’intervento, mostravano quanto la classe politica dirigente fosse distante dal paese, e come il paese subisse senza convinzione le scelte decisive di una politica che, in campo internazionale, appariva ancora 158
seguire lo stile di condotta dell‘ancien régime. Gli italiani, nella maggioranza, accettarono la guerra come una fatalità di cui non capivano le ragioni, e se nei primi mesi combatterono con un certo entusiasmo, ciò avvenne perché credevano che la guerra sarebbe stata breve, rapida e gloriosa come le guerre del Risorgimento, così esaltate dalla iconografia ufficiale e nella letteratura patriottica popolare25. Il disastro morale avvenne quando si scoprì che la realtà della guerra era diversa dall’immagine tradizionale e oleografica, perché era una guerra del tutto nuova, lunga, di logoramento e di distruzioni senza precedenti, che trovò impreparati i capi politici e i capi militari, e travolse presto le illusioni della rapida conclusione. In questo clima di smarrimento e di sorda ribellione, indipendentemente dalle polemiche fra neutralisti e interventisti, si approfondì la frattura fra la classe dirigente e la massa dei combattenti. Sui sentimenti di questa massa la minoranza interventista - come quella neutralista - fondò le sue fortune per il dopoguerra. La guerra rivelò le gravi deficienze della preparazione militare, l’incapacità di alcuni capi, le incertezze della classe politica. Dalla delusione e dalle sofferenze dei combattenti nacquero le accuse contro il paese che, secondo i fanti, era pieno di imboscati e di gaudenti. Si accusava il parlamento e i partiti di disfare con le loro vuote polemiche quel che i combattenti conquistavano col sangue; si immaginavano nemici interni che boicottavano la vittoria e gli sforzi dei soldati, seminando lo scoraggiamento e invitando alla diserzione e alla rivolta contro l’«inutile strage». In gran parte, queste accuse erano frutto di immaginazione, prive di fondamento, ma - vere o false che fossero - il loro effetto psicologico era grandissimo, e preparò il terreno per 159
i futuri semi dei movimenti combattentisti, cioè arditismo, futurismo politico, fiumanesimo, fascismo. Nelle trincee divenne popolare la polemica contro il parlamento, il disprezzo per i politici, l’odio per i pacifisti e i disfattisti. Nelle trincee si diffuse la convinzione che l’Italia era divisa in due, moralmente e politicamente: da una parte il paese sano, che era al fronte ed era la nazione; dall’altra parte il paese degli imboscati, del parlamentarismo, l’Italia marcia che viveva speculando sulla guerra, s’arricchiva con i profitti delle forniture militari, dava di sé uno spettacolo indecente con le vuote discussioni dei vecchi politicanti. Non meraviglia se, in tale atmosfera psicologica, un uomo colto come Omodeo, per citare un caso, usava termini così aspri e violenti, in una lettera del giugno 1916, scritta dopo le vittorie russe sull’Austria che facevano sperare in un calo di tensione e di sforzi sul fronte italiano: «Ma ad avvelenare anche questa consolazione è venuto il fetentissimo parlamento italiano e i dibattiti alla Camera danno un sordo ed avvilente malessere. È una vergogna nazionale, che riesce infinitamente più umiliante in questi momenti»26. Ai combattenti delle trincee, il paese, le istituzioni, la vita sociale e politica apparivano corrotti, e per essi la sola forza rigeneratrice poteva essere quella rappresentata da chi aveva preso parte alla guerra. Come ha scritto Melograni, era la guerra che, in queste reazioni, rivelava «la sua doppia natura di creatrice e di distruggitrice, che dava la morte e nello stesso tempo suscitava nuove energie, che concludeva un’epoca dando vita a nuove regole ed a nuovi valori»27. Attraverso la guerra si formò una forza ostile all’ordine esistente, potenzialmente rivoluzionaria, la massa dei combattenti, i quali erano 160
convinti che aver preso parte alla guerra voleva dire, secondo le promesse della propaganda, diritto al benessere, partecipazione politica, radicale rinnovamento del paese. I movimenti combattentisti che sorsero dall’esperienza vissuta della guerra esaltarono la loro partecipazione al conflitto come fondamento del loro diritto ad assumere il potere, a guidare la «nuova Italia» delle trincee contro la borghesia conservatrice, i socialisti neutralisti e spregiatori della nazione contro i cattolici pacifisti e disfattisti, contro i profittatori, i pescecani, i politicanti. Il combattentismo, nella maggioranza dei reduci, fu soprattutto uno stato d’animo, un fenomeno di rivolta contro l’ordine costituito, animato da una sincera volontà di rinnovamento. Nella sua vasta base popolare esprimeva soltanto l’aspirazione ad una più equa condizione sociale ma negli strati della piccola borghesia intellettuale, che aveva fornito l’elemento ufficiale all’esercito, il combattentismo fu interpretato come una nuova morale ed una nuova ideologia. E questa elaborazione ideologica di un’esperienza vissuta trasfigurata in mito fu espressione propria delle generazioni della guerra, cioè di giovani e giovanissimi ufficiali di complemento, di intellettuali anarchici ed estetizzanti e, nel complesso, d’una promiscua ed eterogenea massa, non numerosa ma attivissima, di reduci incapaci di riacquistare le abitudini della vita normale, ambiziosi di affermare la loro presenza nel mondo politico in nome d’una nazione ch’essi, di diritto, credevano di rappresentare, per il sacrificio compiuto; giovani studenti, rampolli dei ceti medi ma mescolati ad elementi di tutte le classi, uniti nel mito della giovinezza e della guerra, per contestare il sistema borghese liberale, i partiti che lo sostenevano, gli uomini e le idee che lo 161
rappresentavano. La guerra aveva provocato una disgregazione della società ed aveva creato una massa di «spostati» in senso sociologico, cioè di persone e gruppi sradicati dal loro normale ambiente sociale, privi di status e che, attraverso la guerra, avevano maturato una sia pur torbida coscienza politica o ne avevano tratto motivi ed ambizioni di ascesa sociale. L’ordine sconvolto doveva ricostituire la sua normalità non con un ritorno alla vecchia situazione, ma attraverso la legittimazione degli spostamenti avvenuti per effetto della guerra. Prima che appartenenti ad una classe, i combattenti si sentivano solidali nella loro condizione di reduci e, come tali, ambivano a ricoprire un ruolo decisivo nella società nuova, di cui essi stessi sarebbero stati gli ordinatori. La ideologia di questi «spostati» era una legittimazione dell’identità fra nazione e combattenti, che ribadiva l’antagonismo fra l’italia materialista e l’Italia idealista, e il diritto delle avanguardie del combattentismo a dirigere la nuova Italia rigenerata dalla prova della guerra. Per i giovani reduci, guerra e rivoluzione erano momenti dello stesso fenomeno di rivolta contro l’ordine costituito, per il rinnovamento della società. Fra la guerra conclusa e la rivoluzione da essa iniziata non v’era alcuna soluzione di continuità: luna e l’altra erano la fuga dall’ordine, dalla vita regolata, dagli status definiti, dalle convenzioni sociali; l’una e l’altra erano la festa, nel senso sociologico, cioè l’esaltazione collettiva che sovverte i limiti fra sacro e profano, fra il lecito e l’illecito, e permette la completa espressione di se stessi, nella natura più autentica e sfrenata, senza impedimenti né sociali né morali, interni o esterni. Le abitudini della guerra divennero i metodi della 162
«rivoluzione», e la festa fu continuata. Attraverso questa ininterrotta sospensione delle regole e delle distinzioni normali d’una società stabile, molti giovani, che formarono poi la classe dirigente fascista, fecero la loro prima educazione politica e tornarono dalle trincee con la convinzione di essere i portatori d’una missione da compiere in nome della nazione. Fu caratteristico nel loro atteggiamento politico, come lo è in tutti i movimenti rivoluzionari moderni, l’odio verso gli istituti rappresentativi, considerati strumenti di potere nelle mani di pochi politicanti corrotti, e il disprezzo per la «politica» dei partiti, in nome d’una politica totale, identificazione di Stato e nazione, di produttore e cittadino, di individuo e massa, fusi in una mistica unità di militanti al servizio della collettività rigenerata. 4. L’antipartito Uno dei motivi più frequenti della pubblicistica combattenti-sta, nei primi mesi dopo la guerra, era appunto l’avversione per le organizzazioni politiche tradizionali e, generalmente, per la «politica», considerata come campo di speculazioni, di imbrogli, di demagogia, di sfruttamento, di interessi privati difesi e mascherati con ideali nazionali o umanitari. Il disprezzo per la «politica», in Italia, non era cosa nuova e la guerra fu un’occasione per aumentare e diffondere la sfiducia verso i partiti, le istituzioni e la classe dirigente, e per dare alla sfiducia una motivazione apparentemente logica, contrapponendo, ai dirigenti corrotti della classe politica e dei partiti, il popolo sano e laborioso dei combattenti. Si pensava, più che a costituire una moderna società politica di partiti, a creare una unità 163
della nazione, superando i limiti dell’unificazione territoriale e istituzionale, che non aveva dato uno spirito unitario a popolazioni di diversa condizione sociale. Il partito, come organizzazione moderna, era in Italia una creazione abbastanza recente alla vigilia della guerra. L’unica organizzazione politica degna del nome di partito era quella socialista. Gli altri gruppi politici, a parte il piccolo ma agguerrito partito repubblicano, non riuscirono a superare la loro originaria condizione di modesti raggruppamenti di notabili, esponenti della classe politica postrisorgimentale, o di piccoli gruppi d’opinione. La scarsa partecipazione del popolo alla vita politica aveva impedito l’educazione politica degli italiani. È noto il lungo dibattito sui contrasti fra paese legale e paese reale, fra l’amministrazione e la vita civile del paese, che accompagnò per tutto il periodo postunitario lo sviluppo del parlamentarismo. La cultura politica italiana era ricca di temi antiparlamentari che avevano favorito la scarsa fiducia nella classe dirigente borghese. I partiti politici non godevano di grande considerazione; erano visti più come elementi di disturbo in una normale vita sociale che come mezzi di espressione della volontà popolare. Perciò o erano ridotti, crocianamente, a «generi letterari» oppure erano considerati alla stregua di organi costituiti ad esclusiva tutela di interessi circoscritti e oligarchici. La scarsa partecipazione delle masse alla vita dello Stato parlamentare, la mancanza di un’ampia e forte corrente di adesione al regime liberale, la diffidenza nei confronti della classe politica e dei partiti sfociarono in aperta opposizione dopo la fine della guerra, quando, come si è visto, una gran massa di italiani combattenti maturò, sia pur rozzamente, 164
una coscienza politica. Come ha osservato lo storico russo Lopuchov, in quel momento i contadini, come anche molti altri gruppi delle classi inferiori, diventarono elementi attivi della vita statale e politica. In sostanza, questa era la prima parvenza concreta di democrazia in Italia. Infatti proprio durante una guerra si verifica il passaggio dal liberalismo borghese alla moderna «democrazia di massa» borghese, quando la vita politica del paese esce fuori dei limiti angusti delle combinazioni verti-cistiche ed esige soprattutto il contatto con le masse28.
Molti combattenti tornarono dalla guerra con sentimenti antipolitici, nel senso che abbiamo detto. Con il realismo di chi aveva vissuto una grande esperienza ed era certo d’aver aperto gli occhi, essi disprezzavano la «politica» ed esaltavano la «vita»; alle parole dei politici contrapponevano l’azione violenta ma risolutrice; alle discussioni parlamentari, i metodi concreti e rapidi della vita militare; alla divisione e alle lotte fra partiti, l’unità e la solidarietà quasi religiosa di tutti quelli che avevano sofferto le stesse esperienze, avevano condiviso le glorie e i rischi della guerra durante anni di cameratismo di fronte alla sfida della morte, diventando così l’unità vivente della nazione rigenerata, che doveva tutto radicalmente rinnovare. Il parlamento e i partiti non rappresentavano la nazione, i politici non rappresentavano il popolo, affermavano i numerosi giornali di combattenti che pullularono nel dopoguerra: Rinnovare occorre e spazzar via tutto questo vecchiume di cose che hanno fatto il loro tempo, purificare il parlamento degli inutili, tronfi solo per vani discorsi, tremolanti ad ogni folata di buon vento sovversivo, spazzar via tutto il letamaio fetido dei traditori e soppiantarvi giovinezze forti e gagliarde, giovinezze
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nuove, menti aperte alla pura luce del vero, uomini che hanno appreso la sagacia delle proprie decisioni quando si son trovati sospesi per la morte e la vita: arterie e nervi più forti della nazione. Montecitorio sia un bivacco di combattenti e di uomini che li sappiano degnamente rappresentare, non un ricovero di rimbecilliti megalomani che sentono tutto l’ebete piacere di una medaglietta di deputato che ballonzoli sul loro corpo29.
Anche le delusioni della politica estera, accresciute dal mito della «vittoria mutilata», erano attribuite a colpe dei dirigenti parlamentari che non sapevano far valere i diritti dell’Italia, mentre le altre nazioni dividevano il bottino di guerra. L’Italia, secondo un giornale combattentista degli arditi30, non poteva essere rappresentata da uomini che non sapevano imporre i suoi diritti «a Francia, ad America, ad Inghilterra ed Jugoslavia»: «I combattenti tutti, sono stanchi della vostra politica: lasciate che uomini nuovi, che non sono ammuffiti per i corridoi di Montecitorio o tra gli scartafacci dei ministeri, prendano il vostro posto: lasciate il posto agli uomini nuovi che nelle trincee hanno sviluppato la loro mente e la loro forza». Gli uomini nuovi avrebbero distrutto la vecchia Italia, «creandone una nuova più bella e più potente». La conclusione di queste polemiche era sempre la stessa: il paese aveva bisogno di una nuova classe dirigente e questa non poteva essere formata che dai combattenti. Il giornale di Mussolini fu una tribuna aperta per accogliere simili manifestazioni antiparlamentari e sovversive, contrarie a qualsiasi forma di organizzazione che potesse avere una struttura permanente e imporre i vincoli d’un partito. Mussolini fu un abile interprete di questo stato d’animo e contribuì ad accenderlo e tenerlo vivo con un’intensa attività oratoria e giornalistica. Durante tutto il 1919, egli ospitò nel «Popolo d’Italia» gli sfoghi degli ex combattenti, ne discusse i problemi con violenza 166
polemica di grande effetto, ne difese le rivendicazioni più radicali, e interpretò il loro pensiero con la sua esperienza di organizzatore e ideologo. Valorizzare la guerra, difendere la vittoria, imporre i diritti dei combattenti erano i motivi principali della pubblicistica combattentista, dove richieste di riforme radicali nel campo sociale si fondevano e si confondevano con le idealità nazionali, ma non sempre nazionaliste in senso aggressivo ed espansionista. Per i combattenti, la nazione non era né un mito né un’idea, ma una realtà che essi avevano scoperto con la loro esperienza; e «nazione» per essi era il dovere compiuto, le promesse del governo, la solidarietà e il ricordo dei compagni morti. Il loro desiderio di cambiare sistema politico nasceva da un sincero bisogno di rinnovare strutture insufficienti e superate, che non potevano più contenere il vasto movimento di ceti sociali che la guerra aveva messo in crisi. Non si pensava a soluzioni autoritarie, anche se proprio fra questi combattenti cominciarono a delinearsi, come ha ben notato Giorgio Rumi31, alcuni motivi caratteristici dell’ideologia fascista, cioè «il culto del dinamismo, della rapida realizzazione, dell’efficienza, l’insofferenza per quel tipo d’uomo politico “rammollito”, che si tira innanzi con gli zabaglioni concentrati», il disprezzo per l’Italia borghese e ufficiale degli anni dell’anteguerra. Il giornale mussoliniano, in una rubrica apposita, ospitò la voce dei trinceristi: Noi vogliamo - vi si legge - che la nazione si rinnovi, che tutti gli elementi torbidi e infettivi siano spazzati via. La nazione deve rinnovarsi in tutto, politicamente, moralmente, giuridicamente. Vogliamo che a Montecitorio ci vadano elementi nuovi e giovani. Via il vecchiume politico e corrotto!32
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Sotto accusa era soprattutto il parlamento, considerato sémina d’ogni male civile, d’ogni manovra a danno della nazione, ricettacolo di disfattisti e di incompetenti. Si reclamava un’opera di «disinfezione» in tutto l’ambiente politico. «Energie nuove vogliamo! I vecchi partiti per noi sono morti! Non conosciamo altri partiti che quello della patria, quello di coloro che hanno fatto il loro dovere, che hanno fatto l’unità d’Italia, di coloro che hanno sofferto e versato il loro sangue». La guerra aveva sconvolto usanze, abitudini antiche, aveva rinnovato la scala dei valori, dei diritti e dei doveri, la gerarchia dei meriti e delle responsabilità, aveva sottratto l’individuo al potere delle oligarchie della vecchia società e gli aveva ridato la sua intera natura umana. E la guerra non era finita, perché sopravviveva il nemico interno, che negava la patria e disprezzava la vittoria. Ora spettava ai combattenti salvare la patria dal nemico interno, come l’avevan salvata dal nemico esterno, e rinnovarla: purificazione morale, lotta all’analfabetismo, giustizia per tutti, riconoscimento dei diritti delle donne, istituzione del divorzio, riforma del costume. Bisognava lottare contro il vecchio mondo politico dell’anteguerra, organizzando i reduci senza pregiudizi né dogmi di parte. Questo affermava Mario Gioda, uno dei primi fascisti mussoliniani, assertore della necessità dell’antipartito: L’antipartito segnerebbe la fine delle cricche, delle clientele, d’ogni interesse obliquo e d’ogni scopo politico inconfessabile, di tutto insomma ciò che costituisce il bagaglio materiale e morale dei vari partiti e loro succedanei che infestano la vita italiana. L’antipartito - cioè l’idea dell’antipartito - è nata evidentemente col fallimento delle idee programmatiche e dei partiti nell’ambiente guerresco […]. Oggi occorrono uomini non di partito ma adatti al fronte dell’economia e
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del lavoro. Non degli oratori ma dei tecnici. Non dei paraboloni ma dei produttori e dei suscitatori di nuove energie […], i cantastorie dei partiti - medagliettati o non medagliettati - appartengono ad un’altra età33.
Con articoli del genere, il giornale di Mussolini divenne portavoce dei sentimenti e delle aspirazioni dei reduci, contribuendo a diffondere quei motivi antiparlamentari e antipartitici che furono il nucleo embrionale dell’ideologia fascista e in questa rimasero, opportunamente depurati del tono libertario delle origini, anche nelle successive codificazioni dell’ideologia del partito e del regime. Nel disordinato progettismo dei combattenti, si facevano inoltre strada alcune novità che avrebbero avuto una grande risonanza quando dal movimento combattentista si venne costituendo un’organizzazione politica con scopi e programmi definiti. La possibilità d’un rinnovamento - cosa di cui tanto si parlava senza soffermarsi troppo a precisare le vie, i metodi e gli scopi - appariva innanzi tutto come una via nuova alla soluzione dei problemi sociali, e diversa tanto dalla soluzione conservatrice, cui i combattenti s’opponevano per il loro spirito ribelle e innovatore, quanto a quella rivoluzionaria in senso socialista, che non teneva conto, anzi negava, gli ideali nazionali, per i quali i combattenti avevano sofferto. Era, in sostanza, l’indicazione, sia pure vaga, d’una terza via, che si concretizzava soprattutto nell’avversione al socialismo internazionalista e bolscevico e nell’avversione al sistema parlamentare. Non v’erano dubbi sulla fine del regime liberale, ritenuto insufficiente a rappresentare e a governare la nuova società di massa. 169
Dal 1870 l’Italia, affermava Agostino Lanzillo, uno dei primi ideologi della «terza via», aveva subito il governo d’una oligarchia che aveva operato soprattutto per interessi privati. I primi assalti a questo potere eran venuti dal movimento operaio, ma la guerra aveva modificato la situazione italiana ed europea, aveva messo in discussione i tradizionali rapporti di forza fra i diversi gruppi politici, aveva posto il problema del potere. Mentre da una parte la classe dirigente si dimostrava sempre più inetta ed impotente e vedeva fallire i propri progetti reazionari, dall’altra la politica socialista o bolscevica s’era alienata la simpatia dei reduci con la condanna della guerra e del suo valore rivoluzionario. Il movimento operaio si esprimeva soltanto attraverso il sindacalismo, affermava Lanzillo, ma era frantumato, nel disorientamento generale, in varie organizzazioni, fra loro in contrasto; perciò non poteva costituire, secondo Lanzillo, quella forza nuova, la terza forza, di cui aveva bisogno l’Italia: Quale può essere adunque la forza, veramente «forza», che esiste e possa diventare operante per sostituirsi da una parte alla classe dirigente, per impedire dall’altra i conati sovvertitori che la crisi profonda del nostro mondo in orgasmo non può mancare di produrre? […] Questa forza […] è quella dei combattenti, dei reduci vittoriosi della grande guerra34.
I combattenti avevano lasciato alle loro spalle i contrasti di classe, le differenze sociali, le divergenze d’opinioni politiche: tutti li univa ora il «disgusto per un’Italia ufficiale che, ignara dei sacrifìci loro, continua dopo la guerra, nei suoi intrighi, nelle sue menzogne, nella sua inettitudine»35. La massa dei reduci sentiva ch’era necessario imporre la sua volontà ad un regime corrotto: prova ne erano le numerose 170
associazioni di combattenti che nascevano in tutta Italia. Tuttavia, notava Lanzillo, si trattava d’uno stato d’animo che non era garanzia per una vera forza politica e, inoltre, pareva troppo influenzabile dalle voci di sovversione antinazionale sul modello russo. Al contrario, Lanzillo riteneva che l’Italia non dovesse «diventare teatro sperimentale delle gesta barbariche del comunismo alla russa». In quel momento, tuttavia, il vero ed unico nemico era non il bolscevismo, ma la classe dirigente, il regime parlamentare. Lanzillo aveva un’idea chiara del ruolo che dovevano avere i combattenti, e ne parlò insistendo sulla lotta rivoluzionaria contro la vecchia classe politica, con un invito esplicito alla guerra civile, per portare al potere le nuove élites. Commentando il primo congresso degli ex combattenti, scriveva: dal Congresso dovrebbe partire una dichiarazione audace e solenne di guerra, senza tregua, fino alla distruzione dell’attuale impalcatura statale e formula burocratica affaristica parlamentare. […] i combattenti devono, in altre parole, negare la vecchia Italia, la putrida Italia conservatrice, affaristica, verbosa, rettorica, scettica, incompetente; la vecchia Italia liberticida e codarda, siderurgica e riformistica, presuntuosa e disprezzata dagli italiani e dagli stranieri.
Solo i combattenti erano una forza veramente nuova, che poteva salvare il paese dal suo nemico interno, cioè dall’«attuale classe dirigente». Il nemico non era, secondo Lanzillo, il movimento operaio e neppure il «bau-bau» bolscevico: il movimento operaio aveva una funzione storica che bisognava valorizzare, sottraendolo all’egemonia del partito socialista e offrendogli, come nuova guida, il fascismo:
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Il movimento operaio è un grande moto di pressione morale e politica che converge nei suoi sforzi con quello che noi facciamo. È una realtà innovatrice e trasformatrice. È un movimento benefico e fecondo. Ed è nella sua essenza più profonda la vera e sostanziale negazione del bolscevismo. Noi non temiamo d’altra parte lo spauracchio bolscevico in quanto non è che il prodotto della decomposizione borghese. È la classe dirigente che bisogna annientare36.
5. Il sindacalismo nazionale e ideologia della «terza via» Molti temi della mitologia combattentista erano stati in un certo senso anticipati e esaminati dallo stesso Lanzillo, in uno dei primi tentativi fatti per dare una valutazione ideologica della guerra mondiale. Ci riferiamo al suo libro La disfatta del sociali-smo, pubblicato nel gennaio del 18, esaurito e ristampato dopo pochi mesi. Lanzillo era un esperto cultore del sindacalismo rivoluzionario, apostolo italiano di Sorel e divulgatore delle sue dottrine. In questo libro, scritto negli ultimi mesi della guerra, si dimostrò spesso buon profeta, descrivendo il moto della società durante e dopo la guerra. Le sue osservazioni furono i primi elementi d’una nuova ideologia politica, elaborata attorno al mito centrale della guerra come rivoluzione. Il libro fu letto da Mussolini, e senza dubbio questi ne fu suggestionato per la elaborazione delle sue vedute politiche nei primi anni del dopoguerra. La tesi fondamentale di Lanzillo era che, finita la guerra, «il diritto della forza prevarrà, pur composto fra i più complicati ri-vestimenti ideologici, e detterà le leggi del nuovo assetto». La guerra era stata soprattutto una disfatta del socialismo, venuto meno alla sua matrice rivoluzionaria realistica per aver patteggiato con la borghesia riformista e per aver subordinato al partito e agli interessi della 172
burocrazia dirigente le aspirazioni delle organizzazioni sindacali. Il neutralismo era stato la prova che il socialismo aveva rinunciato ai suoi impegni rivoluzionari e al realismo marxista, si era tenuto in disparte di fronte ad una grande occasione storica ed aveva subito lo scacco d’una guerra che era stata un’autentica rivoluzione. Ma la crisi del socialismo, precisava Lanzillo, investiva un’intera epoca ideologica: tutta una linea di pensiero e di azione veniva annullata; un edificio ideologico e storico come il socialismo, che aveva per tutto il secolo XIX e per i primi lustri di questo XX dominato gli avvenimenti, crollava e le cose prendevano un corso che col socialismo era in deciso contrasto37.
Il superamento del socialismo era dovuto, in particolare, alla persistenza del pregiudizio classista, mentre, secondo Lanzillo, la guerra aveva messo la lotta di classe in secondo piano rispetto alla realtà delle «grandi unità nazionali». La guerra era stata «l’equivalente tragico della soluzione rivoluzionaria», ma il socialismo s’era lasciata sfuggire la direzione politica di questo sconvolgimento storico. La disfatta del socialismo non era un episodio isolato, perché, secondo Lanzillo, col socialismo era in crisi la società che lo aveva prodotto, cioè il capitalismo e la democrazia borghese. Con la sua interpretazione, Lanzillo anticipava l’ideologia della «terza via», cioè l’alternativa alla crisi del sistema iiberalcapitalista e alla disfatta del socialismo di fronte alle esperienze della storia, nel contrasto fra realismo e dogmatica fede nell’utopia. A questa ideologia si richiamò il fascismo, e non solo quello italiano, fin dalle origini, come essenza d’un nuovo «minestrone rivoluzionario», in cui ribollivano progetti sociali, 173
aspirazioni tecnocratiche, residui tradizionalisti e ambizioni di rinnovamenti epocali. Non era ancora finita la guerra, e Lanzillo già faceva notare che non si era trattato di una normale piega dello svolgimento storico del secolo XX, ma invece debba ritenersi una soluzione rivoluzionaria profonda e universale, forse definitiva, di un malessere sociale accumulatosi durante circa un secolo e mezzo di vita capitalistica e di regime democratico38.
La crisi del capitalismo e del socialismo era iniziata nel momento in cui entrambi avevano rinunziato alla loro matrice morale, che era la lotta, l’uno facendo ricorso al protezionismo, l’altro al riformismo. Alla borghesia e al proletariato era venuta meno l’iniziativa eroica, l’etica della lotta, l’accettazione della violenza e del male come elementi necessari del processo storico. Era stata ripudiata una concezione realistica della vita per accettare un ingenuo utopismo sentimentale di aspirazioni umanitaristiche con la fede nell’avvento prossimo di un paradiso sociale. Solo i sindacalisti rivoluzionari avevano conservato la coscienza che la vita era cosa tragica e che nelle agitazioni violente d’una nuova, moderna barbarie si formavano e si rivelavano le virtù eroiche di aristocrazie nascenti. La società borghese, per il suo ideale di vita pacifica, mostrava tutti i sintomi della prossima decadenza: L’ideologia borghese: slancio, resistenza, audacia, è arrestata nel suo logico sviluppo dall’aberrazione protezionista e usuraia, come l’ideologia proletaria che doveva essere fremito di guerra e di conquista, è strozzata al suo inizio dall ‘illusione riformistica39.
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Secondo Lanzillo, la guerra avrebbe prodotto una reazione salutare a questa decomposizione sociale e alla degenerazione morale delle forze storiche della società capitalistica. La soluzione della terza via, l’ideologia della ricostruzione, sarebbe venuta da una nuova sintesi di sindacalismo e nazionalismo, le due concezioni politiche che conservavano il senso tragico e agonistico della vita. L’una nel campo sociale, l’altra nel campo politico, sostenevano ideali guerrieri contro il pacifismo della società decadente. La guerra aveva alimentato, con una educazione di violenza, questi ideali, preparando il terreno al successo del sindacalismo rivoluzionario. Il sindacalismo non era un fenomeno limitato a circostanze contingenti della lotta per il socialismo ma era l’espressione, la sintesi d’un processo più vasto. Lanzillo presentava questo processo come «una complessa e unitaria visione del secolo XX con il nazionalismo di Maurras, la ripresa religiosa in Francia, il ritorno di Vico e Proudhon, la filosofia di Bergson e di James, la Sociologia di Pareto, con tutte le manifestazioni di rinascenza dello spirito e di valorizzazione della volontà di cui questi anni sono protagonisti»40. A questo processo di rinnovamento ideologico, in cui troviamo enucleati alcuni elementi dell’ideologia fascista, Lanzillo attribuiva uno sviluppo coerente e conseguente. E nello stesso modo, il complesso dei temi originari dell’ideologia della «terza via» venne assunto nella propria ideologia dal fascismo, quando si trovò di fronte al problema di superare la contingente adozione del programma delle rivendicazioni e dei miti connessi alla guerra, in una più complessa visione della realtà e della storia, per inserirsi nel corso del pensiero politico 175
contemporaneo e legittimare anche dal punto di, vista ideologico e culturale il suo successo politico. Rilevare, in questa «complessa e unitaria visione», una mancanza di sistematicità e di effettiva coerenza logica - per esempio fra un Maurras e un Pareto - nulla toglie alla sua efficacia come nuova ideologia della «terza via», che ebbe un notevole fascino sui giovani iniziati alla politica dall’esperienza della guerra e formatisi nel clima della rinascita idealistica. Il fascismo fece sua questa visione unitaria e l’accettò sia nelle sue espressioni «rivoluzionarie», come movimento di idee rivolto contro l’ordine esistente, sia come soluzione alla crisi nella riscoperta e nella restaurazione di una autentica tradizione italiana, che si sarebbe smarrita nell’afflusso di idee straniere durante gli anni del Risorgimento. La guerra aveva rotto la crosta delle influenze straniere, aveva rinnovato con vigore le differenze nazionali, dimostrando la vanità delle ideologie illuministe e dell’astratto umanitarismo, ed aveva richiamato i popoli ad un realistico sentimento della vita, che era lotta, sacrificio, conquista. Perciò, affermava Lanzillo, era stata il ritorno della forza e del sentimento contro le utopie del razionalismo, ed era stata una grande lezione di realismo politico, anticipata teoricamente dalle idee del Pareto e del Sorel. Dalla situazione del dopoguerra, secondo Lanzillo, sarebbe nata una nuova ideologia, non democratica, non egalitaria, non pacifista, non razionalista, ma nazionalista, gerarchica, realista, combattiva, passionale: Questa guerra prova che i criteri che veramente reggono la compagine sociale e nazionale, oggi, ieri, sempre, non sono le idee astratte di eguaglianza, di fratellanza, di libertà, di giustizia, di solidarietà sociale, di tolleranza, di arbitrato,
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di diritto della collettività, di quelli della maggioranza che soverchiano la minoranza, di amore per i deboli e per gli oppressi, di contratti sociali e le altre, del pari astratte, coniate nel secolo dei pensatori democratici, ma bensì le idee, che sono realtà , di forza, di necessità , di onore militare, di dignità umana, di diritto dei forti e dei capaci, anche se pochi, a dirigere i molti incoscienti, di disciplina ferreamente imposta e con tutti i mezzi tenuta, di dovere in tutto, anche nel sacrificio consapevole delle masse anonime e incapaci per la conquista di generati finalità di gloria e di potenza collettiva più o meno mediata e lontana, donde riverberi l’utile e il benessere sociale41.
Date queste premesse, Lanzillo si domandava se la «società futura, dopo la guerra, sarà fondata sulle idee democratiche o su quelle che possono chiamarsi romane e tradizionali». Senza atteggiarsi a profeta, Lanzillo non voleva offrire la chiave per spiegare il futuro, ma attenersi a una osservazione realistica delle tendenze sociali e ideologiche maturate nel profondo sconvolgimento operato dalla guerra e seguirne i prevedibili sviluppi, il tempo confermò, poi, in gran parte le sue osservazioni e le sue ipotesi sulle possibilità di svolgimento di quelle tendenze. Egli aveva supposto che il dopoguerra in Italia avrebbe provocato un rinnovamento della classe politica ad opera dei giovani che avevano partecipato alla guerra e ne avevano compreso il valore rivoluzionario: «una nuova classe dirigente dovrà assumere la guida della nazione, rimuovendone gli organismi funzionati, politici, amministrativi. Ai nuovi destini dovranno essere preposte generazioni giovani e nuove, quelle che hanno voluto e fatto la guerra». Anche Lanzillo era convinto che la guerra aveva segnato un dualismo manicheo fra l’Italia del passato e quella del futuro, fra un’Italia «tutta pregiudizi, burocratica, timorosa, flaccida, inconsapevole, e la nuova Italia, alla quale la guerra europea aveva strappato dagli occhi ogni velo e fatto comprendere […] il valore definitivo, decisivo 177
di un movimento di generazioni giovani, contro generazioni vec-chie»42. L’antagonismo fra vecchi e giovani era un segno del ritorno alla barbarie - cioè alle energie istintive, alle idee semplici, agli ideali puri, alla morale severa - che era stato preannunciato dal sindacalismo rivoluzionario quale unica possibilità di palingenesi sociale. Dal fallimento delle ideologie pacifiste - socialismo, riformismo, internazionalismo, protezionismo, razionalismo, moralismo borghese - si annunciava per il futuro il successo del sindacalismo rivoluzionario su basi nazionali. Il rinnovamento della società sarebbe stato l’opera di nuove aristocrazie di produttori e di capi politici formatisi alla scuola delle trincee, dopo anni di sofferenze e di lotta, cresciuti a maturità di coscienza politica con accesi sentimenti patriottici. Le nuove aristocrazie avrebbero sottomesso le masse ad una disciplinata organizzazione gerarchica, sostituendo alla democrazia dei partiti un moderno regime di sindacati, un sistema di gerarchie scelte coi princìpi della competenza e della responsabilità delle funzioni. Non più il governo d’una massa «anonima e mediocre o incapace o intelligente o abulica o altrimenti deficiente nel sentimento, nello spirito, nella volontà, nell’organismo fisico», ma «una minoranza di uomini dinamici e forti, che sono e debbono essere i dirigenti, i comandanti, i reggitori»43. Le idee di Lanzillo, anche se non con eguale accentuazione dei toni antidemocratici, erano comuni al gruppo dei sindacalisti nazionalrivoluzionari, raccolti attorno all’Usi, alla rivista «Il Rinnovamento» di Alceste De Ambris e a «Italia nostra» di A.O. Olivetti. I sindacalisti rivoluzionari, dopo una iniziale dichiarazione pacifista, per 178
le ragioni della loro dottrina e per la considerazione delle possibilità rivoluzionarie della guerra, erano divenuti i più decisi assertori dell’interventismo in nome degli ideali rivoluzionari e, nello stesso tempo, attraverso l’esperienza della guerra e una rinnovata passione mazziniana, in nome degli ideali nazionali corroborati dal combattentismo. Fra i vari gruppi della sinistra rivoluzionaria, i sindacalisti furono certamente il gruppo più omogeneo, quello provvisto d’una ideologia in grado di accogliere con elasticità concettuale i fermenti delle nuove situazioni, senza nulla rinnegare dell’originaria impostazione sociale e, nel fondo, democratica, dell’interventismo rivoluzionario. Non per caso, Mussolini, privo d’una sua ideologia da sostituire al rinnegato socialismo, nei primi mesi del dopoguerra fu molto vicino al gruppo sindacalista, dal quale accettò, in particolare, le idee in materia sociale, senza però condividere, come del resto non aveva mai fatto, le istanze morali più caratteristiche del sindacalismo libertario e autonomista di un De Ambris. Altro motivo che univa Mussolini ai sindacalisti rivoluzionari era la consapevolezza che la guerra era stata certamente una rivoluzione, nel senso che aveva provocato una rapida partecipazione delle masse ai grandi eventi della storia, una loro improvvisa, tumultuosa ma comunque innegabile presenza nella società politica del dopoguerra. Ultimo motivo, infine, era la polemica serrata contro il partito socialista, sia per il convinto e tenace neutralismo, sia per la completa conversione del massimalismo, in chiave demagogica, ai miti del bolscevismo. Il sindacalismo nazionalrivoluziona-rio era ispirato da un fervore morale genuino, quale si rivela, per esempio, nell’azione o nel pensiero di un De Ambris o 179
d’un Olivetti, che è proprio delle idee fortemente sentite e delle convinzioni profonde, che mancavano quasi del tutto in Mussolini. Pur trovando congeniali molti temi del sindacalismo rivoluzionario, Mussolini, secondo noi, rimaneva estraneo alla sua ispirazione libertaria e antistatalista; così come era indifferente al sincero sentimento di partecipazione non demagogica al processo di formazione politica, culturale e morale delle nuove masse dei produttori. I rapporti fra Mussolini e i sindacalisti rimasti fedeli all’essenza libertaria e antistatalista del sindacalismo rivoluzionario durarono poco, come vedremo in seguito: un lungo accordo era in realtà impossibile, nonostante i successivi tentativi di elaborare un sindacalismo nazionale fascista - in cui l’accento cadeva piuttosto sul «nazionale» che sul «sindacalismo» - a causa del contrasto di fondo fra un realismo tutto pervaso d’idealismo libertario, quale era quello dei sindacalisti come De Ambris, e il realismo politico che costituì il motivo conduttore e il vanto teorico del fascismo mussoliniano. Negli anni confusi e fervidi della guerra e nei primi mesi del dopoguerra, periodo ricco di fermentazioni ideologiche e di propositi di rinnovamenti radicali, ci furono accordi, intese e collaborazioni fra i sindacalisti nazionalrivoluzionari e Mussolini. La difesa della guerra come rivoluzione di masse, la polemica contro il socialismo e il bolscevismo, la lotta ai miti demagogici che eccitavano le masse senza indicare loro, come i sindacalisti propugnavano, la via dell’educazione faticosa e dell’acquisizione matura delle leve del sistema capitalista industriale; la difesa del produttivismo come necessità di salvare la nazione al di là degli interessi di classe - tutti questi erano motivi di accordo 180
generale, per quanto provvisorio, fra i settori estremi dell’interventismo di sinistra. Lo stesso Mussolini si lasciava andare all’esaltazione delle masse, che avevano fatto la guerra e, quindi, meritavano d’essere protagoniste della pace. Una guerra di masse doveva concludersi, egli affermava, col trionfo delle masse: con linguaggio a lui non consueto, dichiarava che il «numero esalta il numero che aspira a reggere le società umane»44. Come la Rivoluzione francese aveva aperto le porte all’avvento della borghesia nella direzione della vita politica, così la guerra, anch’essa rivoluzionaria, avrebbe inaugurato l’era del governo delle masse. I motivi polemici e propagandistici di simili dichiarazioni erano evidenti, perché rivolti soprattutto a contrastare l’egemonia socialista sulla massa dei reduci e a prospettare una politica egualmente rivoluzionaria, ma in una prospettiva «italiana», alimentando anche nelle masse dei lavoratori il sentimento nazionale che la guerra aveva concorso a diffondere nell’animo dei combattenti. La polemica contro il partito socialista, sul problema della legittimità della rappresentanza delle masse, fu iniziata dai sindacalisti nazionali. L’accusa principale da questi rivolta al partito socialista era l’accusa di anacronismo, perché il partito si era schierato contro la guerra senza averne affatto compreso il valore rivoluzionario; perché non aveva sacrificato il dogmatismo della dottrina alla necessità di accettare le lezioni della realtà storica; perché, infine, suscitava nelle masse sentimenti di rivolta contro tutto ciò che rappresentava il benessere e l’avvenire della nazione. Il partito socialista, asserivano i sindacalisti nazionali, non era più nelle condizioni di poter dare una risposta realistica ai problemi della nazione, anzi, si schierava apertamente 181
contro questa col suo intransigente internazionalismo, che non trovava una sufficiente motivazione soprattutto dopo il fallimento di una rivolta internazionale contro la guerra. Il partito socialista voleva, ora, per l’Italia un esperimento rivoluzionario simile a quello russo, senza considerare che in questo modo avrebbe ottenuto soltanto il completo collasso dell’economia italiana, preparando al proletariato un’eredità di miseria. Questa politica di violenta ed intransigente negazione dei valori nazionali e di estrema demagogia, secondo i sindacalisti, era la conseguenza d’un dogmatismo ideologico che nulla aveva appreso dalle esperienze della guerra. «Il Rinnovamento», rivista del sindacalismo nazionalrivoluzionario, iniziando le pubblicazioni nel marzo del ‘18, assunse il sottotitolo di «rivista del revisionismo socialista», che nasceva al di fuori dei dogmi e «delle tante chiese e chiesuole in cui si è irrigidito il socialismo». La guerra aveva distrutto «le costruzioni ideologiche architettate da tanti valentuomini come la più completa espressione del socialismo», dimostrando la vanità di pretesi postulati scientifici sulla inevitabilità di determinati processi storici spiegati secondo categorie ritenute eterne ma che «si sono rivelate - alla prova del fuoco di questa grande ora storica - per quello che erano realmente: espressioni soggettive, apprezzamenti dettati dalle contingenze, realtà transitorie». Fino a che punto era giusto dirsi ancora socialisti, dopo aver constatato il crollo dei princìpi più saldi della concezione socialista? Che cosa rimaneva dello stesso socialismo? Nulla e tutto. Nulla, se il socialismo si vuol identificare con un certo numero di formule impennacchiate presuntuosamente dall’aggettivo di «scientifiche».
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Tutto, se il socialismo si riconosce nell’aspirazione costante delle classi lavoratrici verso la propria emancipazione, in un concetto superiore di giustizia sociale. Resta come ultima meta il gran sogno dell’uguaglianza nel lavoro; e resta ciò che forse conta ancor più - come solo mezzo per accostarsi a quella meta, lo sforzo continuo e consapevole dei lavoratori, organizzati nei loro sindacati la lotta di classe, infine. Tutto il resto ha fatto naufragio, od almeno è soggetto a radicale revisione45.
L’atteggiamento generale dei sindacalisti nazionalrivoluzionari rispondeva al carattere antiintellettualista tipico del movimento sindacalista che, di fronte all’intransigenza del socialismo dovuta - a giudizio dei sindacalisti - ad un dogmatismo teorico, si presentava come dottrina di eretici fedeli allo spirito libertario del socialismo internazionale46. Tale carattere di eresia appare confermato in occasione del primo congresso nazionale dell’Usi, tenuto ai princìpi del maggio 1918. La rivista di De Ambris ribadì la necessità di mantenersi lontani dalle pregiudiziali di qualsiasi sorta, senza neppure cadere nel «dogma» dell’eresia47, perché il sindacalismo, per la sua essenza, era e restava un atteggiamento morale e politico di fronte ai problemi dell’azione rivoluzionaria: Il sindacalismo - affermava De Ambris - non è un dogma che non si possa e non si debba toccare senza sacrilegio. Il sindacalismo è azione rivoluzionaria, e nell’azione rivoluzionaria non esistono dogmi intangibili; come nel movimento sociale non vi sono verità eterne, ma solo aspetti contingenti della verità48.
Questo atteggiamento relativista e pragmatista non degenerava, però, in un opportunismo empirico perché, al di sopra d’ogni esigenza tattica, malgrado qualsiasi forma di adattamento pratico, suggerita dal realismo dell’esperienza, 183
restavano ben saldi, per De Ambris e per il sindacalismo nazionalrivoluzionario, il principio dell’emancipazione sociale dei lavoratori e il principio della nazione, intesa come comunità storica e collettività di liberi produttori. Assumendoti entrambi nella sua sintesi ideologica, il sindacalismo nazionalrivoluzionario intendeva superare le antitesi classiche di reazione e conservazione, per indicare la terza via d’un autentico e radicale rinnovamento sociale senza distruggere i valori e il retaggio ancor vivo e vitale della civiltà tradizionale del mondo europeo: quella che noi vediamo come ineluttabile è una vera e propria rivoluzione, che non ha i caratteri caotici e puramente distruttivi del bolscevismo, in quanto tiene prima di tutto conto delle esigenze economiche e della realtà sociale, ma è radicale e profonda quanto può esserlo una rivoluzione che intenda la convenienza di demolire l’edificio sociale in tutte le sue parti disadatte alle occorrenze dei tempi nuovi, conservando appena quel tanto che si dimostra veramente indispensabile49.
Diversamente da quanto era accaduto in Russia col bolscevismo (che pure era considerato dalla rivista di De Ambris come un fenomeno, nella sostanza, sindacalista nonostante gli aspetti distruttivi), il sindacalismo aveva soprattutto un programma di ricostruzione, e forniva le indicazioni per ima rapida ripresa dell’economia a vantaggio della nazione senza, per questo, frenare o interrompere il processo di ascesa delle masse o la trasformazione politica del regime. L’ideologia sindacalista si presentava, nell’apparente paradosso della contraddizione, come «rivoluzione-conservazione»50, cioè una rivoluzione che trasformava la società con criteri storicistici, senza negare i valori della tradizione nazionale come espressione della
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vitalità d’un popolo attraverso i secoli, come patrimonio culturale inseparabile dal destino della stessa classe lavoratrice. La nazione, la patria, non erano semplicemente maschere del dominio borghese, ma erano un patrimonio di valori che apparteneva a tutto il popolo e a ciascuna classe. Per questo, nell’organo dell’Unione sindacale milanese «L’Italia nostra», che iniziò le pubblicazioni il 1° maggio 1918, fu posto il motto corridoniano: «la patria non si nega, si conquista». Il giornale aveva un orientamento anticapitalista e antisocialista, come la rivista di De Ambris, e, come questa, combatteva soprattutto il partito socialista e la sua egemonia sulle organizzazioni sindacali e sul movimento operaio. Il programma del sindacalismo nazionale, di cui si fece portatrice l’Uil, era annunziato in questi termini, in difesa dell’intervento e della guerra rivoluzionaria: Verrà giorno in cui ognuno che avrà sofferto, resistito e combattuto vorrà realizzare non solo per la propria Nazione oppressa, ma anche per sé e per la propria classe, la sostanza delle grandi idee agitate dalla guerra […]. Allora ci accorgeremo - rivalorizzando gli insegnamenti delle più luminose epoche storiche precedenti — che il fatto rivoluzionario della guerra sarà valso assai più di secoli di predicazione evangelica del socialismo utopistico per dare agli uomini il senso e la volontà della giustizia sociale51.
Il sindacalismo, naturalmente, era contrario al riformismo, come fenomeno politico che esauriva le esigenze morati e lo «storicismo» rivoluzionario nella politica d’accordi e compromessi del partito socialista. Ma era altrimenti contrario al bolscevismo, che nella sua foga distruttiva travolgeva tutti i valori nazionali, storici e sociali52. Il sindacalismo nazionale difendeva il principio 185
nazionale, l’ideale della patria come unità del popolo tutto, senza distinzioni di classe e senza divisioni fra massa e suoi pretesi rappresentanti53. E, per questo, rifiutava il radicalismo sovversivo, mentre intendeva promuovere l’ascesa delle masse attraverso la loro educazione morale e tecnica, nel rispetto e nella comprensione dei valori antichi, patrimonio del popolo, per la creazione dei nuovi, per la conquista morale della civiltà latina e italiana che non era un patrimonio della classe borghese, ma apparteneva con eguale diritto al proletariato. Né respinte né adulate, le masse dovevano essere inserite gradualmente nei quadri d’uno Stato moderno rinnovato ad opera dei combattenti, per mezzo di nuove forme di rappresentanza, con nuove classi dirigenti: I lineamenti della rinnovata dottrina socialista - affermava De Ambris s’intravedono già. Io penso che l’Unione nostra debba essere un’accolta di uomini liberi e non una congrega di frati. La piattaforma comune è la convinzione che ai lavoratori spetta il diritto di assumere la dirigenza sociale, non appena ne abbiano la capacità morale e tecnica. Di qui il dovere, per noi, di sviluppare questa capacità, pur con i mezzi diversi a seconda del temperamento e dell’ambiente in cui ciascuno deve agire, pur con la costrizione di una disciplina che ricorda quella della compagnia di Gesù. E tutta la nostra azione sia pervasa dal profondo sentimento della giustizia54.
Le notizie sulle condizioni economiche del regime sovietico dimostravano, secondo i sindacalisti, che la rivoluzione russa era un’esperienza fallimentare, perché non si poteva compiere una rivoluzione con una classe lavoratrice che mancava di quadri dirigenti tecnicamente preparati, in grado di sostituire la classe borghese nella conduzione della complessa macchina industriale. Negli ambienti del sindacalismo non socialista, s’era diffusa 186
la convinzione che il capitalismo, dopo l’espansione industriale avuta durante la guerra, era ben lontano dalla fine, e poteva ancora svolgere una funzione utile alla società. Il suo ulteriore sviluppo industriale sarebbe stato però controllato e diretto dalle organizzazioni dei lavoratori, che avrebbero partecipato al processo produttivo con eguali doveri ed eguali diritti dei dirigenti. Se il capitalismo, come sistema di sfruttamento, andava distrutto, tale distruzione non doveva coinvolgere l’intero sistema di produzione industriale, che costituiva la spina dorsale della nazione. Il fine ultimo era la produzione al servizio della nazione, per il benessere della collettività. Del resto, secondo i sindacalisti, l’unica opposizione valida al sistema di produzione capitalista poteva venire soltanto «dalla forza industrialmente organizzata del lavoro». Il sindacalismo superava il capitalismo, perché era «la dottrina del lavoro organizzato». Nel suo programma di espropriazione parziale, De Ambris riteneva necessario salvare, per il vantaggio della comunità, la produzione industriale, attaccando non tanto il capitale, quanto il profitto, con un’ampia partecipazione agli utili da parte dei lavoratori e dello Stato53. Nel crollo delle ideologie, secondo il sindacalismo nazionale, restavano ben saldi solo due valori, la patria e il lavoro: «La nazione e il lavoro - affermò Olivetti - sono le grandi idee di domani, quelle che già traverso la guerra dimostrano il loro carattere di idee-forza, suscitatrici di virtù e di energie»56. Il grande merito del sindacalismo nazionale era l’aver conciliato le «due realtà storiche superstiti dopo il crollo delle ideologie, il sentimento di nazione e il movimento operaio, ed ora a traverso l’esperienza della 187
guerra, intende rannodare le sue file ed assumere una nuova più intensa attività». Per le masse la guerra era stata una scuola di patriottismo57, e questo nuovo sentimento, secondo Olivetti, andava incoraggiato e sostenuto perché l’idea, mazzinianamente intesa, non era monopolio d’una classe né di «una grande aristocrazia plutocratica, ma deve essere di tutti». Non si poteva ridurre, affermava De Falco, l’aspirazione del proletariato ad una pura questione economica, quasi riducendo i problemi della cultura a esercizi per oziosi, e condannare coll’appellativo di «borghese» la patria. Come entità economica questa non poteva essere certo compresa dal proletariato, perché nessuno finora s’era occupato di farlo partecipe di questo sentimento. «La patria, per chi, come l’operaio, non vi abbia interessi economici diretti, può essere un sentimento, una storia, una tradizione, una cultura particolare, autoctona. Tutte cose che il proletariato non intende»58. Il sindacalismo avrebbe perciò educato le masse ai valori morali e storici della nazione, senza nulla rinnegare dei propri princìpi socialisti, bensì integrandoli «con una grande cosa che erroneamente credevano sorpassata nello spirito nostro. Ma niente più. La patria la vogliamo per noi»59. L’ideologia sindacalista era contraria all’internazionalismo, perché riteneva la nazione e la razza realtà storiche insopprimibili60, che avevano smentito l’unicità del fattore economico come movente del divenire storico. Tuttavia, pur assumendo talvolta i toni tipici della propaganda nazionalista, il sindacalismo nazionale era anche contrario all’egoismo nazionale e all’imperialismo. Difesa dei diritti che l’Italia aveva conquistato con la guerra, certo, ma nei rapporti con gli altri Stati, con i nuovi Stati, il 188
sindacalismo nazionalrivoluzionario voleva l’attuazione d’una superiore giustizia, fondata su un sistema di nazioni libere, sottratte all’egemonia delle plutocrazie e degli imperialismi di qualsiasi tipo. Era, in certo modo, un patriottismo rivoluzionario di ispirazione mazziniana e, perciò, per nulla simile al nazionalismo, che era «un miscuglio di irrequiete volontà nell’orbita di una vecchia formula, che quelle volontà imprigiona»61. Contro l’internazionalismo che negava la nazione e contro l’imperialismo che negava la libertà, il sindacalismo proponeva la sua «internazionale delle patrie libere»-, al nazionalismo che concepiva la nazione come un fatto territoriale, opponeva un’idea morale: «la patria non è un territorio, ma è l’anima, l’ideale, la virtù, l’arte, la lingua, la coscienza, la storia del popolo che vi abita: e queste cose non si cancellano come un semplice confine geografico»62. Nessuna futura internazionale poteva prescindere da queste differenze storiche, perché, come affermava la rivista di De Ambris63, «l’Internazionale vuole le nazioni»: la nazione non si rinnega né si supera, ma si vive in tutta la sua realtà e la sua potenza; […] non vi può essere patto internazionale tra nazioni deboli e umiliate e nazioni potenti e sopraffattrici, tra popoli schiavi e popoli dominatori. La guerra ha rotto l’incantesimo di una universalità proletaria contro una universalità capitalistica, e ci ha richiamato con la sanguinosa dimostrazione di fatto alla realtà eterna ed immutabile della nazione e della razza. Non vi può essere patto di alleanza internazionale se non esistono le nazioni, come non vi può essere patto di alleanza interindividuale se non esiste l’individuo, unità di coscienza, d’intelletto e di volere, uomo nella piena consapevolezza della sua personalità, della sua dignità e della sua potenza. Questo ci aveva insegnato la guerra con la violenza persuasiva di una luminosa rivelazione, e noi e il proletariato interventista volemmo la guerra come una necessità di difesa della nostra libertà di popolo, della libertà dei popoli, condizione indispensabile per una nuova e più sincera alleanza internazionale. Perciò non sentimmo la guerra in contrasto coi nostri princìpi socialisti: perciò volemmo la guerra a difesa del nostro più sacro
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patrimonio ideale. E usciti fuori dalla ingannevole nebulosa della illusione internazionalistica, ci sentimmo fremere di più calda vita entro i confini di sangue, di cultura, di storia, di tradizione, di costume della nostra più intima e viva umanità; sentimmo aderire il nostro spirito più gagliardamente a noi stessi nella nuova fiammata di dolore, di amore e di odio; e ci inserimmo con saldo cuore e con illuminato intelletto entro il cerchio vivo e vivificatore della nazione oltre il quale il nostro desiderio e la nostra speranza vedono altri popoli liberi e uniti, e intravvedono l’avvenire, serena armonia di mondi non già babelica confusione di genti vinte ed umiliate, su cui sorga prepotente e tiranno un popolo dominatore.
La nazione, per i sindacalisti, non era un uniforme e rigido organismo unitario, privo di vitalità interna, serrato e sottomesso ad una volontà di potenza imperialista, come auspicavano i nazionalisti, i quali temevano in ogni contrasto interno un attentato alla sicurezza della nazione. Al contrario, la nazione non distruggeva la classe, come l’intemazionale non poteva distruggere la nazione. Erano, Luna e l’altra, realtà storiche che si completavano a vicenda. «Noi possiamo e dobbiamo concepire la nazione armonia di contrasti, non già confusione di interessi. È nel contrasto il dinamismo della vita. Negare il contrasto è opera vana e stupida. Tentare di assopirlo è recidere i nervi dell’organismo sociale, addormentarlo in uno stato d’amor pacifico, infecondo, rattristante e miserevole». In questa visione, la vita operaia acquistava «un carattere nuovo, più pieno, più completo e possente»: Il sindacato, non più chiuso in se stesso, come forza nemica tra forze nemiche, irrompe nella vita nazionale con tutta la potenza e la frenesia rinnovatrici della sua giovinezza e si inserisce nel quadro delle forze nazionali. La sua opera si fa più complessa e robusta. La lotta economica s’integra con la lotta politica e con gli sforzi per la elevazione culturale e tecnica. Il fatto rivoluzionario non è più concepito come un fenomeno brutale di dinamismo meccanico, di peso di masse, ma si allarga e si illumina e diventa movimento, pressione ed anche
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compressione. L’operaismo si fa umanità. Umanità che marcia vittoriosa a conquistare se stessa. Nazione prima. Ed oltre la nazione l’alleanza internazionale: la wilsoniana Società delle nazioni.
Finita la guerra, secondo l’organo dell’Usi, bisognava riprendere la vita del paese con un’opera di rinnovamento profondo, ma sulla base di questi princìpi, abbandonando la «trita e masturbata polemica» fra neutralisti e interventisti. Le considerazioni sul futuro assetto sociale dell’Italia non potevano, infatti, essere condizionate dall’atteggiamento avuto verso la guerra. La posizione dei sindacalisti si staccava da quella del combattentismo, a causa del torbido stato psicologico di questo e per l’eccessiva prolificazione di idee e di progetti spesso inconsistenti. Come osservò Panunzio a Mussolini, c’erano già le classi sociali, per pensare di creare ancora un’altra classe, quella dei combattenti64, che era «una provvisoria e transitoria classe sociale». Quel che era certo, per il dopoguerra, era la necessità di ricostituire la vita politica con una radicale trasformazione dei vecchi istituti di rappresentanza, per giungere ad un’ampia partecipazione di masse organizzate alla vita dello Stato. Tornano motivi noti: per «Italia nostra» non v’eran dubbi che, contro «i vecchi, gli autoritari, gli egoisti, i prepotenti, i pigri, i parassiti, i fanatici, i religiosi, i politici, i dogmatici, i reazionari», contro questi «rottami storici», si dovevano sollevare le forze dei «giovani, intellettualmente e socialmente», giovani animati dall’ideale nazionale non fanatico, non egoista, non imperialista: patrioti e non patriottardi, i giovani avrebbero ricostituito la nuova società nazionale, dopo aver debellato il dispotismo dei partiti tradizionali, l’egoismo delle classi e delle 191
plutocrazie. In tal modo, l’ideologia del sindacalismo nazionale, col suo sforzo per indicare una terza via in cui valori nazionali e valori sociali fossero egualmente presenti, senza privilegi per l’uno o per l’altro, realizzava, secondo Mussolini, la sintesi delle antitesi, fra la classe e la nazione. I motivi sindacalisti, gli unici, come abbia-mo già detto, che avessero una salda struttura concettuale, ebbero un’accoglienza molto favorevole fra i nuclei del combattentismo più irrequieto e genericamente rivoluzionario, offrendo ad essi una concezione semplice e congeniale per gli appelli all’idealismo e all’antiintellettualismo, che soddisfaceva le loro aspirazioni al rinnovamento sociale e il loro orgoglio nazionale. Ma fu quest’ultimo che, in seguito, finì con l’avere il sopravvento sui propositi di rinnovamento sociale.
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Capitolo terzo Gli aristòcrati del combattentismo 1. Combattentismo aristocratico Il fenomeno del combattentismo fu tipico della grande guerra. In Italia prese l’aspetto di una vasta, ma disordinata aspirazione verso un rinnovamento politico e sociale della vita del paese, con una particolare cura per gli interessi dei reduci. In altre forme più accentuate, era uno stato d’animo di reazione e di rivolta «contro l’esistenza e l’essenza di tutti i vecchi sistemi e organismi dello Stato che sono il frutto del parlamentarismo e del burocratismo»1. Dal combattentismo ebbero origine varie associazioni in difesa dei reduci. L’organismo principale che raccoglieva gli ex combattenti, l’Associazione nazionale combattenti sorta nel 1919, si fece portavoce degli ideali e degli interessi dei soldati che, tornati dal fronte, erano disorientati per il loro inserimento nella vita civile, dove non volevano tornare com’erano partiti, accettando le condizioni spesso tristi di un’esistenza stentata. La guerra aveva operato una sorta di educazione politica sui soldati, rendendoli più sensibili a problemi che fino ad allora avevano forse del tutto ignorato. Inquietudine e malcontento, difficoltà a trovare un nuovo posto nell’ambiente economico, ma anche un maggior orgoglio di sé e dell’esperienza fatta, l’abitudine al comando e all’obbedienza rapida, il cameratismo e l’abitudine al rischio, tutto ciò aveva creato una «complessa condizione sentimentale battezzabile anche colla solenne denominazione di anima nuova sorta dalla guerra»2. Il 193
programma dell’Associazione, quale fu formulato da Renato Zavataro nel Congresso di Roma nel giugno 1919, era ispirato a ideali democratici e patriottici e rifletteva i consueti sentimenti d’avversione ai vecchi partiti, alle pregiudiziali istituzionali, al conservatorismo. Poiché la storia aveva fatto grandi passi in avanti e la guerra aveva accelerato il processo d’evoluzione in tutti i settori della vita nazionale, gli ordinamenti e le istituzioni politiche buoni per l’anteguerra si dimostravano ora superati ed inefficienti. Da qui la necessità di dar vita ad una nuova forza politica, mettendo da parte e combattendo «tutti i vecchi partiti perché in cinquant’anni di vita italiana tutti hanno concordemente preferito gli interessi particolari ai supremi interessi collettivi», ed erano perciò responsabili della situazione di disagio e di crisi che il paese stava attraversando3. I combattenti, che avevano in sé l’anima della nuova Italia, avevano il dovere, oltre che il diritto, di dedicare le loro energie al risanamento del paese. Essi dovevano «ricostruire tutto quello che la guerra ha fatalmente sorpassato, ricordando che il problema essenziale per l’Italia è l’epurazione contro tutte le corruzioni e le camorre e quindi la diffusione di una nuova educazione politica e sociale». L’azione politica dei combattenti avrebbe avuto per fine riforme sociali, ispirate dal sentimento nazionale e rivolte ad abolire i privilegi e le oligarchie, ma «negando le ideologie internazionaliste rivelatesi al di fuori della realtà politica europea e mondiale». Essi chiedevano, più concretamente, la riforma elettorale con scrutinio a lista regionale e proporzionale, decentramento amministrativo, abolizione del Senato sostituito da Consigli elettivi del Lavoro con rappresentanza delle categorie dei 194
produttori, una riduzione dell’autorità di polizia e l’abolizione delle prefetture, il riconoscimento giuridico e la libertà per le organizzazioni di classe, la decimazione dei grossi capitali, la collaborazione di classe con cooperative di produzione, la distruzione del latifondo e costituzione d’una fitta trama di piccole proprietà nel settore agricolo, la riforma dell’esercito e della scuola, il liberismo economico, e in politica estera rapporti internazionali fondati sul principio di patria integrato con quello di umanità. Il combattentismo, in sostanza, doveva essere la base sentimentale per elaborare una nuova politica unitaria, largamente democratica, rappresentativa delle istanze di quelle classi che avevano dato il maggior contributo di forze e di sangue alla guerra e più ne avevano subito i danni, cioè contadini e piccola borghesia. Il programma dell’Associazione cercava di rispondere alle insoddisfazioni degli uni e degli altri, ed era perciò una sorta di zibaldone che «s’intonava allo stato d’animo delle masse, ch’erano soddisfatte d’aver fatto la guerra e d’esserne uscite salve, desiderose di tranquillità esterna per potersi godere la pace»4. Il combattentismo non ebbe soltanto questo aspetto di generica aspirazione psicologica e politica al rinnovamento e ad una vita sociale più giusta e più aperta. Se questo era il suo aspetto medio e generale, in alcuni nuclei di minoranza, dai quali sorse la prima classe dirigente fascista, fu la premessa d’una ideologia sovversiva che voleva la distruzione degli istituti liberali e l’esaltazione del ruolo avuto dalle aristocrazie guerriere, come gli arditi. Per queste minoranze vale l’accusa formulata da Giustino Fortunato, che condannava il combattentismo come una 195
«anomalia», per la pretesa che aveva di voler trarre, «da un titolo tanto più onorifico quanto meno lo si ostenta», una ragione «di speciale loro rappresentanza politica»5. Queste minoranze tenevano infatti a distinguere, nel generale fenomeno del combattentismo, il ruolo avuto dalla massa e quello dei corpi scelti, che si erano distinti per speciali qualità di guerra. Per le masse, la guerra non era stata una vera e propria educazione politica, perché, secondo l’opinione di queste minoranze, non la massa, ma solo alcune «aristocrazie del coraggio» avevano compreso il valore rivoluzionario della guerra. Per le masse, essa era stata un’esperienza grande, traumatica, ma che aveva lasciato in loro soltanto desiderio di pace, di tranquillità e di benessere. Non era da questa massa che si poteva sperare la rinascita della nazione: solo la minoranza degli individui eletti, che avevano imposto la guerra alla nazione e l’avevano combattuta con una speciale condizione di spirito, aveva il diritto di costituire la classe dirigente della nuova Italia. Secondo Bottai, la vera mentalità «nuova, spregiudicata, nata proprio dalla guerra come distruzione di vecchi valori si è polarizzata in pochi cervelli di tempra robusta», cioè in una minoranza di giovani dinamici che avevano «schifo di tutto ciò che ora esiste, così com’è» ed avevano disgusto del desiderio di riprendere la vita normale, perché aspiravano a «un cambiamento a fondo»6. La grande massa dei reduci, tornata dalla guerra, aveva soltanto il desiderio di ritrovare la tranquillità del focolare e ricostruire la casa, «non la nazione di cui se ne infischia». Quelli che avevano veramente assimilato la lezione della guerra, secondo Ferruccio Vecchi, e ne avevano ereditato «lo spirito, le finalità, i valori morali, ecc., sono gli elementi 196
suoi migliori: gli arditi e tutti i giovani non ancora chiamati alle armi»7. Gran parte dei primi miti del fascismo furono creazione di queste minoranze che volevano fare la rivoluzione con l’esaltazione della guerra e della vittoria, e con la lotta ai suoi oppositori, primi fra tutti neutralisti e socialisti. Non si escludeva il ruolo delle masse nella fondazione del loro ordine nuovo, ma poiché, secondo loro, la massa dei combattenti non aveva assimilato lo spirito rivoluzionario della guerra e non era matura per capovolgere l’ordine esistente e instaurare il nuovo regime, questo compito spettava alle avanguardie, agli «aristòcrati del combattentismo», gli arditi, i futuristi, i fascisti, i dannunziani. Un ruolo particolare e significativo veniva attribuito agli ufficiali, specialmente agli ufficiali di complemento, provenienti dalla piccola borghesia, a cui questi «aristòcrati» appartenevano. L’ufficiale di complemento era considerato uomo del popolo vicino al popolo, ai fanti nelle trincee, partecipe delle loro sofferenze, spesso consigliere per i loro bisogni e un po’ educatore delle loro coscienze. «Ufficiali e soldati - affermava uno di questi “aristòcrati del combattentismo”, Ferruccio Vecchi - erano stretti da reciproca fiducia e da amore»8. Finita la guerra, questi ufficiali avevano il dovere di non abbandonare i reduci, ma dovevano proseguire la loro opera di educazione politica operando con concordia, e in spirito di morale unità con i reduci: in guerra «li riuniva la fiducia e l’eroismo, in pace l’odio generale, la stima reciproca ed una fede illimitata che trascendeva ogni bassa concezione materialistica clericoborghese-bolscevica, culminante in quella sublime della Patria»9. 197
2. Gli arditi A questa aristocrazia del combattentismo appartenevano, primi fra tutti, gli arditi. Durante la guerra, gli arditi erano stati creati come un corpo speciale di truppe d’assalto, con compiti sempre rischiosi, che richiedevano coraggio, prontezza, violenza e mancanza di esitazioni morali. Perciò gli arditi avevano vissuto l’esperienza della guerra con maggior rischio personale, ma in un alone di avventura, di nazionalismo romantico, di mistica dell’eroismo individuale e di spirito di corpo, di assoluto disprezzo per le regole convenzionali della disciplina militare. Erano, fra i reduci, i meno adatti a riprendere le abitudini pacifiche della vita civile. Essi attribuivano questa incapacità di riadattamento al loro aristocratismo, traendone motivi di conferma per il loro ribellismo anticonformista, che li portava a considerare la società, in cui non sapevano reintegrarsi, corrotta dai mali peggiori, marcia fino alle radici, e perciò bisognosa di un’opera violenta di purificazione e di trasformazione radicale. Opera alla quale, naturai-mente, essi si sentivano destinati, fra un’opinione pubblica borghese che li guardava con sospetto: Ritornati alla vita civile - si legge nell’«Ardito», organo dell’Associazione arditi d’Italia, costituita per iniziativa di Mario Carli il 1° gennaio 191910 - essi rappresentano per molti un’incognita paurosa, ossessionante. Non si sa bene che cosa vogliono, perché si organizzano, a quali precisi scopi tende la loro azione11.
In verità, neppure gli arditi sapevano quel che volevano, a parte il loro chiaro rifiuto di tornare senza troppo chiasso alla normalità e di prendere o riprendere un posto nel «sistema». V’era, in loro, la volontà, non orientata verso uno 198
specifico programma di azione, di perpetuare lo spirito dello stato di guerra all’interno del paese, di sopravvivere alla fine della guerra trasferendone i modi di vita nella lotta politica, per poter assumere un ruolo proprio nella creazione della nuova Italia. Poiché la loro esperienza militare era molto qualificata per il combattimento, e la loro abitudine all’aggressione rapida si rivelò utile anche in tempi di scontri politici accesi, gli arditi furono corteggiati dai movimenti nazionalisti, che vollero accaparrare per sé quel capitale d’energie e di individui pronti a tutto, privi di scrupoli ed efficaci combattenti. Osservatori attenti non trascurarono di notare il pericolo che poteva scaturire dal trasferimento dell’opera degli arditi dalla guerra alla vita politica: educato ad una disciplina rigida e disumana, dopo aver vissuto per anni «lanciando fucilate e bombe a destra ed a sinistra, allegramente», cosa avrebbe fatto l’ardito in tempo di pace? «Ahimè - esclamava Angelo Gatti -: io vedo già cosa potrà fare questa gente che non conosce più il valore della vita umana»12. Durante la guerra, gli arditi avevano goduto, in compenso del rischio maggiore cui si esponevano nelle loro imprese, particolari privilegi, e non dovettero subire la logorante vita di trincea. Essi avevano vissuto la guerra anche come esibizione del loro eroismo individuale, ostentato sempre nella ricerca della sfida alla morte. Ne era derivata, in loro, una indifferenza al pericolo, un gusto per il gesto temerario, una familiarità con la morte che diventava per essi desiderio d’apparire tanto coraggiosi e superiori, rispetto alla massa comune dei vili e dei pavidi, da amare persino la morte assumendola a simbolo del loro valore. Gli arditi si consideravano gli eletti della vittoria e della «bella morte». 199
Per loro, la guerra era la grande occasione per selezionare dalla massa indiscriminata l’elemento aristocratico destinato a rappresentare la nuova Italia. Poiché molti degli arditi più rappresentativi appartenevano al «proletariato intellettuale», la guerra fu vista come la sublimazione dell’arte nell’azione. Il loro coraggio era considerato di qualità superiore13 e perciò non sottoponibile alla comune disciplina, ma tale da esser distinto, esaltato, valorizzato: Volevamo compiere con gioia qualunque sacrificio per la nostra Italia, ai cui piedi deponemmo generosamente le nostre giovinezze orgogliose, ma non volemmo che questo sacrificio fosse oscuro, inutile, perduto nell’immensità dello sforzo: non volevamo essere spinti alla morte: volevamo correrci da noi, con la nostra anima di sognatori e col nostro cuore appassionato14.
Quel che univa gli arditi, e che rese possibile mantenere la loro unità anche nel dopoguerra, era l’orgoglio di appartenere ad una «umanità» diversa e superiore, «di essere i migliori dell’esercito, la bellezza delle vittorie, il comune spirito di avventura e di affinità di ideali, ed anche una comune voglia di fare a pugnalate!»15. Gli arditi erano convinti di aver acquisito valori e qualità che li rendevano superuomini rispetto alla massa dei comuni mortali. Avevano smania di combattere e presunzione di invincibilità: Era naturale dunque - affermava Vecchi - che gli amatori dell’Italia, i più pronti alla lotta, i più generosi e disinteressati, sentissero il bisogno di cercare i veri amici, i compagni di fede, i nati strani ed appassionati come loro della vita di guerra cioè della vita nella morte materiale e morale dei più, e di incontrarsi ad ogni costo per guerreggiare insieme16.
Sorsero così formazioni d’arditismo, corpi scelti destinati 200
alle azioni più pericolose, con simboli che rispecchiavano il carattere degli arditi e la loro esaltata psicologia; simboli «strani» in cui tornava sempre il colore, l’immagine, l’idea della morte: stendardi neri, teschi col pugnale fra i denti dal bianco sepolcrale su fondi funerei, strani, non perché eletti da anime assassine o ladre ma solo perché i veramente forti amano circondarsi di quello che rappresenta la propria consuetudine e che sanno dominare sempre: il pericolo, la morte. E non ci si può chiamare veri signori della guerra se non si è pronti a spendere ogni parte del proprio corpo ed anche la vita; moneta falsa in mano dei vigliacchi, ma oro e diamante in quella degli Arditi!17
La disciplina mal si adattava, in guerra o in pace, all’animo e alla psicologia dell’ardito, che si reputava espressione migliore della stirpe italiana individualista, fantasiosa, istintiva, aggressiva. L’esaltazione personale era all’origine dell’azione ardita, il desiderio prepotente di esporsi ed imporsi agli altri, nell’assoluto disprezzo degli altri. Eroismo ostentato e coltivato come un mestiere, perché l’ardito - affermava Vecchi - era «un uomo comune valorizzato eroe», che in quest’eroismo trovava ragione della sua vita18. Era naturale che, per tutto ciò, finita la guerra, la reazione degli arditi fosse un misto di disorientamento e di soddisfazione. Soddisfazione, perché la vittoria appariva ai loro occhi come il successo delle loro azioni, e la spinta per un rinnovamento del paese, che gli arditi desideravano sinceramente; smarrimento, perché la pace voleva dire la fine della bella avventura, il ritorno alle preoccupazioni della vita civile, ai doveri sociali, alle consuetudini, alle regole. L’ardito era, in genere, un individuo refrattario alle regole e 201
provava repulsione per l’ordine, almeno per qualsiasi ordine in cui fosse un subordinato e non un «capo». Quale che fosse la loro estrazione sociale, molto varia, gli arditi erano assimilati da una esperienza di irregolari, che prima della guerra avevano magari militato in partiti sovversivi, avevano subito condanne per motivi politici o anche per semplice delinquenza, e si sarebbero trovati esposti a probabile fallimento nella vita civile se non fosse venuta la guerra ad aprire per loro nuove prospettive sul futuro, mettendo in risalto le loro qualità di coraggio e di spregiudicatezza. Diversi arditi venivano dalle patrie galere19, altri erano intellettuali e artisti appartenenti alle correnti anarchico-futuriste, ben lieti di vedere finalmente realizzato il sogno della guerra e l’avvento d’un’esistenza eroica, degna delle loro qualità eccezionali di superuomini. La formazione dell’ardito era avvenuta quasi sempre fuor dagli schemi tradizionali. Si consideri, ad esempio, l’esperienza di Edmondo Mazzucato, a suo modo tipica dei giovani che formarono i primi nuclei fascisti e diedero vita allo squadrismo. Da anarchico a sansepolcrista è la sua evoluzione di giovane irrequieto: evasore da collegi, esperto di vari mestieri, attivista politico pronto ad usare le mani. Mazzucato scontò un anno di prigione per aver picchiato un caporale: «La mia avversione all’ordine costituito era centuplicata»20. Parlando di Ferruccio Vecchi, che ai suoi occhi rappresenta il campione della giovinezza ardita, Mazzucato descrive esperienze analoghe: odio per l’ordine, avversione agli studi, repulsione alla disciplina; «La guerra è stata la realizzazione di un suo sogno»21. Da parte sua, Vecchi confermava questo ritratto tipico dell’ardito, proposto come modello esemplare del cittadino della 202
«nuova Italia»: giovane che non conosce alcun principio d’ordine, che non sia la disciplina e la gerarchia del cameratismo, e vuole affermare la propria personalità senza alcun rispetto per gli altri, e preferisce l’azione al pensiero, il gesto allo studio: la guerra e la galera! Ma questo ci vuole nella vita d’un giovane, altrimenti egli non sarà mai uomo, se diconsi uomini solo coloro la cui anima è stata distillata da tutti i dolori. Le battaglie della penna e le sofferenze dei letterati faranno sempre sorridere di compassione qualunque uomo d’azione22.
Meglio lanciare bombe che scrivere un libro, proclamava Vecchi, ché la bomba poteva realizzare in un «istante tutte le idee esposte a parole»23. «Meno studio e più scuola di arditismo; ho imparato più cose e più educazione civile in questa guerra che in tredici anni di asfissianti puerilità professorali»24. Per l’educazione dei giovani, Vecchi chiedeva più sport che studio, frequenti visite nelle fabbriche, conoscenza dei mestieri: abbasso, comunque, la scuola e i professori, perché il «professore è il fossilizzato-re dello scolaro ed ha in corpo il sepolcrale odio della mummia per lo sprigionarsi della giovinezza e della primavera»25. Con queste idee era evidentemente difficile per gli arditi rassegnarsi a trovare un ruolo ordinato nella vita civile. Nella crisi del dopoguerra, essi trovarono invece un ambiente favorevole per continuare la loro avventura, esaltati dal patriottismo e dal culto del proprio attivismo, convinti di essere investiti di una missione nazionale, di un compito necessario ed esclusivo per il rinnovamento della nazione. Nel confuso prolificare di movimenti e motivi ideologici combattentistici, gli arditi furono certamente fra i 203
primi a distinguere il combattentismo fra partecipazione «aristocratica», attiva e consapevole, e partecipazione di massa, passiva e incosciente. Se la guerra aveva provocato una rivoluzione nella vita interna del paese, tale rivoluzione non poteva spegnersi, quasi automaticamente, con la firma dei trattati di pace, tanto più che questi trattati si rivelavano «ineguali» per l’Italia e non soddisfacevano a pieno l’orgoglio nazionale. La guerra, per gli arditi, aveva dato inizio alla «rivoluzione italiana», ma il senso e la mèta di questa rivoluzione s’erano pienamente rivelati solo ad animi eletti, alle minoranze dei combattenti-superuomini, che avevano il dovere di continuare la rivoluzione, trascinando dietro di sé le masse abuliche, o facendo la rivoluzione malgrado le masse, se non addirittura contro le masse. La maggioranza dei combattenti aspirava soltanto al benessere ed alla tranquillità, a soddisfare alcune richieste d’ordine economico e a sacrificare, per la soddisfazione di queste richieste, la complessa idealità della guerra. Tale massa, per gli arditi - ma la valutazione era comune ai futuristi e ai fascisti - era spinta soltanto da istinti materialistici di rivolta, come parve confermato dalla misura dell’adesione ch’essa diede ai socialisti nelle elezioni del ‘19. Non era la massa dei combattenti nel suo insieme il fattore umano rivoluzionario del combattentismo, come lo immaginavano gli arditi nella loro formulazione di un «arditismo civile». L’arditismo era stato fenomeno di selezione, difficile preparazione d’uomini nuovi, più svelti di mano che di cervello, ma comunque giovani che si consideravano totalmente dediti, senza pregiudizi né interessi di parte, alla nazione, mitica divinità che attraverso gli arditi s’incarnava, manifestava ed affermava la sua 204
volontà. L’uso di una terminologia «religiosa» era consueta nella pubblicistica ardita, come lo sarà un po’ in tutti i fenomeni combattentisti raccolti nella breve «stagione» di Fiume dal richiamo mistico-politico della predicazione dannunziana. E proprio questa «religiosità» distingueva gli eletti dell’arditismo dalla massa degli increduli, degli scettici, degli edonisti, separando nettamente i combattenti in due categorie: Da una parte i più giovani, gli spensierati, gli irrequieti, i violenti, gli scontenti, i superatoti, i passionali, i frenetici, gli sfrenati, i ginnasti e gli sportmen, i mistici e gli sfoltitori, gli avanguardisti di ogni campo della vita, i futuristi di cervello e di cuore o di muscoli. Dall’altra gli anziani, i padri di famiglia, i lenti, i pesanti, i passivi, gli sfiduciati, i pigri, magari in gran parte buoni soldati, ma più adatti all’obbedienza che all’iniziativa, più fermi al loro posto che impazienti di scattare, ottimi puntelli per le trincee, ma poco idonei allo sbalzo in avanti.
E, con una conclusione significativa, si sottolineava la diversità della provenienza, con tutte le differenze sociali e culturali che tale distinzione comportava e che ebbe un peso molto importante nella caratterizzazione del primo fascismo: «I primi venivano in generale dalle città, gli altri più specialmente dalle campagne»26. Gli arditi attribuivano a se stessi la stoffa dei nuovi capi, destinati ad assumere un ruolo di primo piano dopo la guerra, come «avanguardia della nazione». Giovani istintivi, schietti e risoluti, non sopportavano l’ordine borghese ma neppure avevano simpatie per il socialismo delle masse anonime, si consideravano al di sopra delle tradizionali distinzioni di classe, e scendevano nell’arena politica portandovi i metodi della guerra e atteggiandosi a guardie nobili degli ideali nazionali e novelli crociati della patria: 205
Noi non ci rassegnammo alla dura sorte - affermava Piero Bolzon -. Volemmo spezzare il nostro privilegio di guerra alle nuove generazioni, identificando l’arditismo col culto del coraggio. La vittoria doveva rivestire e trasfigurare di sé tutta la nazione27.
Non vi era, nelle premesse dell’arditismo civile, un pregiudizio di classe e, anche se gli arditi esaltavano l’aristocrazia, questa non aveva nulla a che vedere con privilegi nobiliari e con il predominio sociale dell’alta borghesia. L’ordine borghese era per loro un nemico, come erano nemici tutti i partiti del sistema parlamentare, ad eccezione forse dei nazionalisti, ma con molte riserve sul loro conservatorismo monarchico. Verso i partiti, l’ardito non poteva nutrire che sentimenti «di diffidenza e di nausea», per la natura stessa del partito, che limitava l’individuo, lo faceva scomparire nella massa, e lo educava soltanto alla difesa di interessi particolari28. La guerra aveva distrutto i fondamenti del mondo d’egoismi borghesi e proletari, ed aveva di contro affermato il principio nazionale come principio assoluto. La nazione era l’unico comune denominatore nel frammentario, paradossale e spesso astruso ed improvvisato bagaglio ideologico degli arditi, che tentarono di dar forma logica ai loro stati d’animo, postulando i princìpi dell’arditismo come «religione», come unica dottrina veramente viva, ecc., ma riuscendo soltanto a dare tratti impressionistici di costume, di gesti, di comportamento. Privi come erano d’una reale coscienza politica, del tutto incompetenti per quanto riguardava i problemi politici, affrontati confusamente senza alcuna base culturale, se non superficiale ed occasionale, gli arditi, nella maggior parte, ebbero comunque un certo significato nel 206
mondo combattentista perché, più di altri reduci, esasperarono emotivamente il motivo patriottico e il disprezzo, tanto ostentato quanto velleitario, contro l’ordine esistente. L’aspetto più interessante della loro ideologia fu l’esaltazione della giovinezza e il culto dell’azione, motivi indubbiamente efficaci per attrarre i giovani, specialmente quelli che non avevano fatto la guerra. Entrambi questi motivi ebbero influenza sulla formazione dell’ideologia del fascismo e dei suoi metodi di lotta politica, ma non sarebbe storicamente corretto identificare l’arditismo con il fascismo. Pur avendo costituito un’associazione che si proponeva fini politici, gli arditi mancarono d’una linea politica autonoma anche se conservarono un loro carattere particolare. Al contatto con futuristi e fascisti (ma spesso i tre termini coincidevano nella stessa persona) gli arditi aspirarono a formulare la loro dottrina sulla base dell’esperienza della guerra, dando vita - a modo loro ad una contestazione verso la società borghese, proclamandosi pronti alla sovversione interna, al punto che il loro giornale fu definito «bolscevico» e vietato nelle caserme29. In realtà, il margine di autonomia e d’azione politica originale era, per gli arditi in quanto movimento politico, molto ristretto. Essi, del resto, non costituivano un gruppo omogeneo in nessun senso, ad eccezione dell’unicità della loro comune esperienza di guerra. Ciò che li accomunava, in realtà, più che un’ideologia, era un tipo di temperamento, cioè «il coraggio fisico, il disprezzo della morte, l’insofferenza per la disciplina e per la morale comune dell’ordine, del rispetto d’ogni autorità, ecc. e una sorta d’individualismo anarchicheggiante»30. E poiché erano 207
d’origine sociale promiscua e per nulla legati ad interessi di poteri costituiti e alla conservazione dell’ordine di cose esistente, gli arditi nutrivano, sia pur confusamente, una sincera volontà di rinnovamento, rivolta soprattutto a combattere le forme e la mentalità della società borghese, piuttosto che a discuterne seriamente i fondamenti economici e sociali. Essi minacciavano la borghesia perché la giudicavano «miope, taccagna, rammollita», spaventata dal nemico che la sovrastava, e perciò destinata ad essere travolta. Gli arditi, per parte loro, affermavano che non avrebbero preso le sue difese: Gli arditi non salveranno il governo, non difenderanno la borghesia. Saranno gli uomini della situazione nuova. La sapranno creare. Sapranno abbattere tutti gli ostacoli, tutti gli istituti che si frappongono al raggiungimento di un equo equilibrio sociale, all’instaurazione di un governo a larga base popolare, onde alla Nazione sia veramente possibile governare se stessa31.
Questa rivolta contro la borghesia non ebbe, però, apprezzabili conseguenze sul piano politico, nel senso che gli arditi non si orientarono, nel complesso, verso i partiti della sinistra rivoluzionaria, anche se non mancarono oscillazioni e ambiguità da parte di alcuni di essi. L’impedimento principale era costituito da una pregiudiziale di fondo contro il partito socialista, che non era una pregiudiziale di classe e, in un certo senso, neppure politica, ma era essenzialmente psicologica. Poiché gli arditi si sentivano una nuova aristocrazia dello spirito, gli eletti della vittoria, l’avanguardia della nazione, era evidente che essi avversavano quasi per istinto le concezioni materialistiche, collettivistiche e antipatriottiche, e, forse altrettanto istintivamente, si sentivano perciò respinti da un 208
partito che negava la nazione, e faceva il processo all’interventismo e alla guerra, condannando il combattentismo. Gli arditi, inoltre, nonostante certi toni populistici della loro propaganda, non credevano che le masse lavoratrici fossero mature per sostituire la vecchia classe dirigente e per prendere il potere, e ripugnava ad essi la prospettiva di un regime collettivistico, come quella indicata dal socialismo bolscevico, dove l’individualismo fosse avvilito, e dove non fosse riconosciuto e celebrato il primato dei «valori spirituali». «Fino a quando le masse lavoratrici non avranno raggiunto un grado superiore di evoluzione intellettuale, non potranno mai dirigere, mentre si può dirigere senza avere i “calli alle mani”»32. Per gli arditi, la rivoluzione che doveva rinnovare radicalmente l’Italia e portare al potere una nuova classe dirigente doveva essere rivoluzione nazionale e spirituale, piuttosto che economica e sociale. E, di conseguenza, essa doveva coinvolgere le masse, ma soltanto in quanto forza bruta guidata da una aristocrazia intellettuale moderna, aggressiva, dinamica, illuminata per interna vocazione sui destini della nazione e per questo interprete autentica ed unica della sua volontà; un’aristocrazia che avrebbe portato i combattenti al governo per vie diverse da quelle democratiche e parlamentari, ma senza distruggere i pilastri dello Stato nazionale e le basi del sistema produttivo borghese. Gli arditi aderivano alla concezione dell‘antipartito dei combattenti, «alla testa del quale ci porremo per dare il governo d’Italia nelle mani dei vittoriosi»33. Il loro programma politico,ben poco originale, echeggiava le rivendicazioni territoriali, le velleità rivoluzionarie, l’audacia 209
innovatrice di molti programmi dell’eterogeneo movimento combattentista. Essi reclamavano, naturalmente, l’annessione delle terre italiane e delle terre necessarie alla grandezza della nazione, la riforma elettorale, la Costituente, la rappresentanza dei combattenti, la revisione dei contratti di guerra e rincriminazione dei profittatori, l’espropriazione dei capitali e nuove leggi sul lavoro. Era un programma in veste democratica molto avanzato, ma condizionato dalla concezione aristocratica della politica, dall’indifferenza per le regole del sistema liberale e dalla incapacità di rappresentare, realmente, una forza politica di rilievo. Gli arditi, come tali, ebbero un ruolo politico quasi inesistente, anche se l’influenza dei loro miti guerrieri, del loro stile di vita e dei loro metodi d’azione fu molto marcata sul fascismo. Più che un’ideologia, infatti, l’arditismo civile era, come si è detto, uno stile di vita, un comportamento individuale e di gruppo caratterizzato soprattutto da simboli e riti, interamente derivati dalla mitizzazione della loro esperienza bellica. Anche l’aspetto esteriore, per l’ardito, acquistava una particolare importanza e serviva a distinguerlo dalla folla anonima, perpetuando intorno alla sua figura ia leggenda dell’eroismo individuale, l’audacia dell’assalto e della violenza, il fascino della vitalità libera e prepotente, il timore per la sua aggressività spregiudicata. All’aspetto esteriore gli arditi attribuivano molta importanza, consapevoli dell’attrazione che la simbologia guerriera poteva avere sui giovanissimi che non avevano fatto la guerra, e che potevano però fornire nuove reclute per la sua azione politica. Gli arditi, affermava Vecchi, «dovranno avere una divisa tanto bella che ogni giovane dovrà preferirla all’abito borghese», perché gli 210
arditi, vestiti come tutti gli altri, si sentivano «stranieri e soli anche in mezzo alle moltitudini che spesso sono beote»34. Questi, in sintesi, i caratteri dell’arditismo civile: Volontarismo. Sdegno del tran-tran mediocre, in cui non si rischia né si guadagna troppo. Passione per l’emozione, per il pericolo, per la lotta. Personalità, iniziativa, fantasia, accortezza di animale predace. Spirito d’avventura e spirito di corpo. Guasconismo di fatti più che di parole. Romanticismo di uno sfondo nerissimo, sul quale guizzano muscolature di acrobata. Intellettualità assetata di gloria, generosità capace di un’estetica raffinata. Mafia insolente del valore consapevole. Fusione perfetta di pensiero-bellezza-azione. Eleganza di un gesto primitivo infantile, subito dopo un gesto di eroismo inverosimile. Tutti gli slanci, tutte le violenze, tutte le impennate di cui trabocca lamina italiana. Aristocrazia, dunque, di carattere, di muscoli, di fede, di coraggio, di sangue, di cervello. Patrizi scesi da cavallo, aviatori scesi da velivoli, intellettuali usciti dalle ideologie, raffinati fuggiti dai salotti, mistici nauseati dalle chiese, studenti ansiosi di vita, e giovinezza, giovinezza che vuol tutto conquistare o tutto perdere, che vuol dare con pienezza, con salute, con energia i suoi diciannov’anni generosi e innamorati dell’Italia, di tutte le cose belle d’Italia, della bella terra, delle belle donne, delle belle città d’Italia, dell’avvenire d’Italia che intuiscono meraviglioso35.
Attivismo, nazionalismo, giovanilismo: sono questi i caratteri tipici dell’arditismo civile, che il fascismo fece suoi (ma non traendoli solo da questa fonte) adoperandoli come arma psicologica fortemente suggestiva sui giovani ed i giovanissimi che, se non avevano fatto la guerra, subivano il fascino dell’atmosfera guerriera in cui erano cresciuti, attratti, come spesso accade ai giovani, dagli inviti alla ribellione e alla rivolta, facilmente suggestionati dai simboli, dai riti, dagli slogan, o semplicemente dal gesto del rivoltoso, che esaurisce in sé ogni valore purché sia gesto provocatorio e distruttore. «Il gesto è più bello della poesia; è l’essenza più pura della poesia». Garibaldi era più poeta di Dante, secondo Vecchi, il quale vantava come sua prima «opera» 211
l’assalto alla sede dell’«Avanti!» nell’aprile del ‘19. Inno degli arditi era Giovinezza, Giovinezza, un vecchio motivo goliardico adattato ai miti della guerra, che esaltava il coraggio fisico, la gioventù, la passione, il disprezzo della morte: «Son giovane e son forte / non mi trema in petto il cuore / Sorridendo vo’ alla morte / Prima d’andar al disonori». Un altro inno ardito cantava: «L’ardito è bello, l’ardito è forte, / Ama le donne, beve il buon vin»36. L’entusiasmo che gli arditi suscitavano fra i giovani fu certo grande, ma superficiale. Tuttavia, anche se non riuscì ad esprimere un organismo politico, l’arditismo fu, in un certo senso, l’anima delle rivolte «nazionali», dai Fasci di combattimento ai legionari fiumani. Gli arditi fornirono alla forza nascente del fascismo quadri attivi e armati, esperti nelle azioni rapide, pronti alla violenza e allo scontro fisico, poco o nulla rispettosi delle idee altrui e della vita umana degli avversari. L’arditismo divenne il metodo di lotta del fascismo, che ne prese anche i simboli e lo stile. L’uomo fascista ebbe non pochi tratti esteriori e psicologici dell’ardito. Non per questo si deve concludere che l’arditismo fu consapevolmentestrumento della reazione, al servizio della borghesia e del nazionalismo. Sia pur rozzamente, gli arditi esprimevano una certa aspirazione libertaria, che finì in gran parte nel calderone dannunziano o confluì in qualche organizzazione combattentistica ma antifascista, dopo aver invano tentato di lanciare una propria politica innovatrice, riassunta nel programma essenziale dell’arditismo civile: nazione armata, tre ore di studio al giorno e altrettante per la ginnastica, l’apprendimento di mestieri e il volontariato del lavoro. A questo programma s’accompagnava anche l’adesione 212
all’ideologia sindacalista della terza via, come soluzione innovatrice sia all’alternativa socialista che a quella reazionaria: La lotta sociale si svolge oggi tra conservatori e socialisti. È vero! Ma contro questi due protagonisti che cercano di sopraffarsi a vicenda si sono schierati gli Arditi, i combattenti, i futuristi, con un programma pratico ed unico. Programma 37 che Mussolini definisce sindacalismo nazionale
3. I futuristi All’interno dell’aristocratismo combattentista, l’unico gruppo che avesse un’ideologia elaborata, cui attinsero tanto gli arditi quanto i fascisti, era quello futurista. I futuristi erano sorti come avanguardia artistica ma, per opera principale di Filippo Tommaso Marinetti, da oltre dieci anni avevano formulato un’ideologia che si proclamava contro l’ordine in senso assoluto, e contro l’ordine borghese in particolare, in nome d’una religione del progresso e del futuro che avrebbe dovuto distruggere la società borghese nelle sue espressioni di tradizionalismo culturale e di riformismo politico. Nato come movimento artistico nel 1909, il futurismo fu la prima avanguardia del Novecento che, per la sua polemica contro le radici dell’arte e della cultura borghese tradizionale, investiva tutto il mondo di valori, di abitudini e di istituzioni legati a quella cultura. Al centro dell’ideologia futurista vi era la concezione della vita come movimento verso il futuro: il passato era menzogna, era morte; il futuro era verità, vita. Per il futurista, l’esperienza era e doveva essere sempre una corsa ed una sfida verso l’ignoto, rotti i ponti col passato, e senza scopi precisi, con l’amore del gesto dirompente e 213
sconcertante. La libertà assoluta dell’individuo era il valore fondamentale del futurismo, ed essa non trovava alcun limite né doveva ammettere ostacoli al suototale e sfrenato dispiegamento. Qualsiasi forma di società, fondata su un codice di valori consacrati dal passato e dall’abitudine, era per il futurista una costrizione, cui gli uomini nuovi in lotta per il futuro non potevano sottomettersi. L’ideologia futurista non ammetteva l’ossequio della legge, il rispetto della religione istituzionale, il culto della tradizione: il mondo borghese doveva essere sconvolto dalla nuova divinità futurista, la velocità, simbolo del mutamento rapido, inesauribile, continuo della vita moderna. La velocità era il tratto caratteristico della modernità meccanica, della civiltà industriale e tecnica. Per i futuristi, l’epoca dell’uomo tradizionalista, allevato nel culto dell’antichità classica, era conclusa, ed era iniziata l’era dell‘uomo moltiplicato per opera propria, nemico del libro, amico dell’esperienza personale, allievo della Macchina, coltivatore accanito della propria volontà, lucido nel lampo della sua ispirazione, munito di fiuto felino, di fulminei calcoli, d’istinto selvaggio, d’intuizione, di astuzia e di temerarietà
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Metà automa e metà belva, l’uomo futurista era il tipico prodotto dell’industrialismo e del modernismo tecnico, di cui il futurismo inventava una sorta di poetica. Paradossale e bizzarra, l’ideologia futurista non mancava d’una sua logica, come espressione della realtà moderna, di cui assumeva tutte le caratteristiche: una realtà che era altrettanto contraddittoria, violenta, paradossale, sottoposta al mutamento rapido, alla trasformazione meccanica, all’espansione dell’artificiale e del tecnico su ciò che fino 214
allora era apparso frutto spontaneo dello spirito umano. In una simile realtà, tutta rivolta al futuro, non doveva sopravvivere alcuna traccia del passato. Essenzialmente antistoricista, il futurismo immaginava che la storia dei popoli andava alla ventura «di qua e di là, con atteggiamenti scapigliati e poco ammodo […]. Ma essa è, disgraziatamente, ancora troppo saggia e non abbastanza disordinata, questa giovane storia del mondo»39. Fin dagli inizi, il futurismo ebbe anche un orientamento politico generale. Già nel primo manifesto futurista, Marinetti aveva fatto cenno all’ostilità verso il pacifismo e l’umanitarismo in politica, esaltando la guerra e il militarismo, affermando il patriottismo dinamico e «il gesto distruttore dei libertari»40. Il primo, succinto manifesto politico fu diffuso in occasione delle elezioni generali del 1909. In questo manifesto, Marinetti presentava come unico programma politico futurista «l’orgoglio, l’energia e l’espansione nazionale», ed invitava i giovani a lottare contro i candidati «che patteggiano coi vecchi e coi preti», per una rappresentanza nazionale «sgombra di mummie» e rapida nel rispondere con la forza a qualsiasi viltà pacifista41. Una più esplicita dichiarazione politica fu data da Marinetti lo stesso anno, in un discorso ai triestini42. Lanciato verso il futuro, il movimento di Marinetti dichiarava di preferire «un disastro splendido» ad «una corsa monotona, quotidianamente ripresa», lungo i binari d’un’esistenza regolata dal bisogno quotidiano, dalla paura del rischio, dal calcolo prudente, in una società in cui i vecchi dominavano e i giovani erano calpestati nella loro spontaneità creatrice: Nella nostra lotta, noi disprezziamo sistematicamente ogni forma
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d’obbedienza, di docilità, d’imitazione disprezziamo i gusti sedentari e tutte le lentezze prudenti; combattiamo le maggioranze corrotte dal potere, e sputiamo sull’opinione corrente e tradizionale, come su tutti i luoghi comuni della morale e della filosofia.
Da questo generale atteggiamento di rivolta, si precisarono presto alcuni più specifici obiettivi politici, che Marinetti così indicava: In politica, siamo tanto lontani dal socialismo internazionalista e antipatriottico - ignobile esaltazione dei diritti del ventre - quanto dal conservatorismo pauroso e clericale, simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto. Tutte le libertà e tutti i progressi nel grande cerchio della nazione! Noi esaltiamo il patriottismo, il militarismo; cantiamo la guerra, sola igiene del mondo, superba fiammata di entusiasmo e di generosità, nobile bagno di eroismo, senza il quale le razze si addormentano nell’egoismo accidioso, nell’arrivismo economico, nella taccagneria della mente e della volontà.
Il bersaglio polemico principale del futurismo sembra essere soprattutto l’idea d’una società pacificata e ordinata, retta da saldi princìpi etici e da istituti politici tradizionali, o fondata soltanto sulla solidarietà, la tolleranza, la naturale bontà degli uomini, secondo l’ideale anarchico. Per questo, il futurismo rifiutava decisamente - e senza possibilità di equivoci nonostante talune successive ambiguità, comprensibili nell’ambito del generico «rivoluzionarismo» futurista - il socialismo, definito, senza particolare originalità, una «filosofia del ventre», adatta alle masse ed agli utilitaristi che credevano ai miti del pacifismo interno e internazionale. Per il futurismo, la guerra si identificava con la vita stessa, era la generazione infinita del futuro attraverso la lotta, la perpetua salutare distruzione 216
del vecchio e del definito, la violenza creativa del genio contro il conformismo della tradizione. Tutte le ideologie che negavano questa identità fra la vita e la guerra, o che proponevano un mondo futuro dove i contrasti, le contraddizioni e i conflitti dell’esistenza sarebbero stati risolti in un ordine perfetto, erano avversate dai futuristi, anche se con gli aspetti di alcune di esse, in quanto opposizione all’ordine costituito, i futuristi potevano avere qualche punto di contatto, al punto da tentare anche pratiche collaborazioni43. Per esempio, l’esaltazione del gesto libertario e distruttore, l’odio per l’ordine e per il potere, l’avversione a leggi, codici e magistrati potevano accomunare i futuristi agli anarchici, ma il più profondo dissenso sulla visione dell’umanità futura avrebbe impedito qualsiasi possibilità d’una concertata azione fra futurismo e anarchismo. Marinetti ci teneva a precisare chiaramente l’antitesi fra futurismo e anarchismo, perché i futuristi affermavano come principio assoluto «il divenire continuo e l’indefinito progredire, fisiologico ed 44 intellettuale, dell’uomo» . La concezione anarchica, se pure muoveva guerra a tutte le istituzioni del potere, sognava un futuro dominato dalla pace universale e perciò rinnegava, secondo Marinetti, «il principio infinito dell’evoluzione umana». L’anarchico avrebbe potuto obiettare a Marinetti che l’ideale della società anarchica non significava affatto la fine dell’evoluzione dell’umanità, ché anzi la società anarchica avrebbe dato a tutti le condizioni per un divenire evolutivo dell’umanità liberata da qualsiasi costrizione. Ma ciò che rendeva inconciliabili le due ideologie era l’atteggiamento verso la natura dell’uomo, il significato e il valore della vita. Per il futurismo parlare di solidarietà e di 217
uguaglianza, in senso assoluto, fra uomini e donne liberati dalla servitù allo Stato e dagli orrori della guerra, era un linguaggio passatista. La lotta quotidiana, l’aggressività dei forti verso i deboli, erano considerate dai futuristi indispensabili misure di igiene sociale, valide per gli individui e per i popoli, necessarie per eliminare gli elementi decadenti, i deboli, i corrotti. Da queste premesse di darwinismo sociale, i futuristi pervenivano a negare, come ideale di futura evoluzione dell’umanità, la solidarietà fra gli esseri umani e fra i popoli, mentre esaltavano le virtù della giovinezza ribelle e violenta, il coraggio, l’amore del rischio e dell’avventura, virtù che servivano appunto a selezionare gli uomini nuovi dalla massa dei vecchi, ed imponevano il dominio dell’intelligenza aggressiva e intuitiva contro il culto borghese del buon senso, contro la cultura professionale, contro le idee meditate e composte in logici sistemi. Il futurismo, proclamava Marinetti in un manifesto rivolto alla città di Parma, nel maggio 1911, glorifica appunto la violenza e il coraggio, difende ed esalta la gioventù nell’arte e nella vita, contro l’esercito smisurato dei morti, dei moribondi, degli opportunisti e dei vili… insegna l’eroismo quotidiano, l’amore intenso della vita, l’odio del passato, il progresso multiforme, la libertà senza limiti e l’orgoglio italiano45.
Per quanto riguarda in particolare l’atteggiamento dei futuristi verso i concreti problemi politici e le forze politiche del tempo, vi è da osservare un’ambiguità o, piuttosto, un disordine fondamentale. Il linguaggio politico futurista si prestava a formulazioni contraddittorie, ancor oggi variamente interpretate, e sarebbe difficile ricavare dalle formule futuriste un discorso politico coerente quanto a 218
concretezza. Già la diffidenza o meglio il disprezzo verso le dottrine e l’esaltazione dell’improvvisazione ponevano il futurismo politico su una base concettuale deliberatamente fragile, considerando la teoria nient’altro che un abito provvisorio degli istinti e dei sentimenti imprevedibili dell’uomo futurista: «la dottrina è una veste, […] l’essenziale è il temperamento», affermava Emilio Settimelli46. Tuttavia, dal ribellismo di fondo del futurismo possiamo comunque cogliere alcuni tratti ideologici caratteristici, che furono determinanti, soprattutto dopo la guerra mondiale, per le scelte politiche dei futuristi. Il futurismo, per esempio, negava i privilegi del denaro, condannava il materialismo borghese, non faceva alcun conto, per l’esaltazione del primato creativo dell’arte, delle differenze di classe e delle distinzioni sociali, e non riconosceva altro diritto al comando ed alla superiorità che le qualità del genio. Chiunque avesse anima futurista poteva far parte del «proletariato dei geniali» destinato a dominare in una nuova società costituita secondo i princìpi del futurismo. Il futurismo era democratico nel senso che riconosceva a tutti la possibilità di emergere, in quanto individui in possesso della virtù futurista, ma, per le stesse ragioni, il movimento di Marinetti si schierò contro le ideologie democratiche, perché, a suo dire, imponevano un regime di massa, anonimo e mediocre, che avrebbe mortificato le qualità libertarie dell’individuo ed avrebbe coltivato quelle abitudini di conformismo, di convenzionalità e di buon senso, tanto nella politica esteraquanto nella politica interna, che erano in netto contrasto con l’ideologia futurista. Per questa sua fondamentale avversione ai sistemi democratici il futurismo 219
respingeva il parlamentarismo e considerava quasi «tutti i parlamenti d’Europa […] pollai rumorosi, greppie e fogne», dove predominavano il denaro, l’astuzia, l’eloquenza avvocatesca47. Il parlamentarismo aveva creato l’illusione della rappresentanza, attribuendo al popolo la capacità di scegliere i propri dirigenti, che il popolo, secondo Marinetti, non aveva. La sovranità popolare veniva considerata un’invenzione dei parlamentari, per dominare le masse con i mezzi tipici della loro demagogia. Fin dalle origini il futurismo aspirò a formulare un’ideologia totale, che comprendesse tutti gli aspetti della vita umana, muovendo da un’idea di fondo: la completa distruzione del senso della tradizione e degli istituti storici, culturali e morati attraverso i quali la tradizione si esprimeva e si perpetuava nella cultura e nelle coscienze. L’ideologia futurista, per le sue stesse matrici e caratteristiche, era destinata tuttavia a non superare i limiti della «setta» operante nell’orbita del genio pirotecnico di Marinetti, anche se, nel primo periodo del dopoguerra, essa godette d’una certa risonanza, si conquistò una fama più scandalistica che politica, e servì ad animare alcune iniziative di organizzazione politica, nel breve spazio d’un anno o poco più, per estinguersi poi o nella riduzione del futurismo ad avanguardia artistica, o nella completa adesione al fascismo, con poche frange residue schierate su posizioni antifasciste o divenute del tutto estranee alla politica. Come ideologia politica, il futurismo fu in gran parte prodotto dell’inesauribile Marinetti, il più fecondo creatore di formule futuriste, l’unico cervello, del resto, capace di mantener viva l’inventività futurista nel campo ideologico. Si può affermare, con qualche forzatura, che 220
l’ideologia politica del futurismo fu l’ideologia di Marinetti, e non sopravvisse alle sfortune politiche del «capo». Con ciò, non si vuol togliere quanto spetta ad altri futuristi che, più dello stesso Marinetti, si esibirono nell’elaborazione di progetti politici, come, ad esempio, Mario Carli, Ferruccio Vecchi, Emilio Settimelli, Piero Bolzon. Ma questi non ebbero la tenacia e la coerenza del «capo» e, attraverso tortuose elucubrazioni e avventure politiche fra estrema destra ed estrema sinistra, finirono per dare un’adesione totale ad un fascismo reazionario e tradizionalista, mentre Marinetti restò, almeno idealmente, sempre fedele al ribellismo originario. Negli anni precedenti la grande guerra, a parte le dichiarazioni di manifesto, il futurismo politico ebbe poche possibilità di rivelarsi praticamente. Oltre le dichiarazioni di principio contro la monarchia, il socialismo e il sistema liberale, il futurismo politico non ebbe allora un esplicito impegno politico né costituì un’organizzazione politica. Neppure l’impresa di Tripoli, che fu l’occasione sognata per sperimentare e cantare l’avventura della guerra e le frenesie dell’imperialismo48, spinse il futurismo a prendere i connotati d’un movimento o di un partito politico. Un programma politico fu, in verità, pubblicato nell’ottobre del T3, e portava la firma di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russoio49. Rispetto alle idee espresse precedentemente, vi si nota un’accentuazione del carattere patriottico-nazionalista, chiara conseguenza dell’impresa libica che aveva riattivato gli spiriti nazionalistici, con l’affermazione che la «parola ITALIA deve dominare sulla parola LIBERTÀ», anche se veniva conservato il carattere libertario del futurismo. Inoltre, era meglio precisato il modello della 221
«pedagogia» futurista, con il «culto del progresso e della velocità, dello sport, della forza fisica, del coraggio temerario, dell’eroismo e del pericolo»; si denunciava il tradizionalismo della cultura umanistica e il primato di questa rispetto alle altre manifestazioni dello spirito. I futuristi chiedevano scuole tecniche, scuole pratiche di commercio, di industria e di agricoltura, con molti istituti di educazione fisica e con il «predominio della ginnastica sul libro», contro «l’ossessione della cultura, l’insegnamento classico, il museo, la biblioteca e i ruderi». Liberata dal culto del passato, dall’industria turistica del forestiero attratto dal fascino dei monumenti antichi - che dovevano esser distrutti50; dall’egemonia della coalizione clerico-moderataliberale e dall’utopia democratico-repubblica-na-socialista, la nuova Italia sarebbe stata popolata da «moltissimi agricoltori, ingegneri, chimici, meccanici e produttori di affari», che avrebbero costituito la nuova classe dirigente, per l’educazione patriottica del proletariato e una politica di espansionismo coloniale, di liberismo, di realismo «cinico e astuto»: una politica volta ad affermare il «panitalianismo» e il primato dell’Italia. Era ribadito, di conseguenza, il disprezzo per il pacifismo, l’internazionalismo, il parlamentarismo e l’avversione al popolo sovrano, al Vaticano e alla monarchia, con le loro manifestazioni di bigottismo, di tradizionalismo e di reazione. Tutti i motivi dell’ideologia politica futurista si ritrovano, negli anni del dopoguerra, fra il sovversivismo cosiddetto piccolo borghese, ma alcuni di questi motivi suggestionarono anche eie-menti della classe operaia, per i toni rivoluzionari, populistici, antiborghesi e libertari. 222
Tuttavia non bisogna uniformare in una definizione generica i temi e le componenti di questo sovversivismo, fino a vedere in esso un’operazione, consapevole, organizzata e manovrata, con un piano specifico d’azione, chiaro e deliberato, mirante all’unico fine di riconfermare, attraverso una fantomatica rivoluzione interna, l’egemonia della classe borghese nel paese. Certo, occorre tener conto di ambigue convergenze, della fragilità sostanziale, ideologica e politica, delle aspirazioni «rivoluzionarie» di questo sovversivismo, ma non si devono neppure trascurare i temi più duraturi che prevalsero nel composito nazionalismo rivoluzionario del dopoguerra, le divergenze, spesso profonde, e i motivi di contrasto e di conflitto fra i diversi movimenti che si formarono nel suo ambito, la varietà delle loro scelte in tumultuose circostanze storiche, che spesso imposero decisioni imprevedibili e, almeno per chi era immerso in situazioni di mutamenti improvvisi, non predeterminate e non chiaramente orientate al conseguimento di uno scopo preciso. Ciò va tenuto presente, in particolare, per il caso di Marinetti e del futurismo, cioè d’una componente non minore dell’estremismo combattentista da cui prese origine il fascismo. Si deve, per esempio, segnalare la diversità fra il nazionalismo futurista e il nazionalismo dell’Associazione nazionalista: due nazionalismi fra loro antitetici per la diversa prospettiva in cui si muovevano, e per gli opposti obiettivi che perseguivano. Inoltre il futurismo politico, come ha notato De Felice, era animato «da un fervore a suo modo morale»51, che gli permise di non essere del tutto fagocitato dal fascismo, dopo la sua svolta a destra nel 1920. Nel seguire gli sviluppi della tematica futurista durante la stagione del maggior impegno politico dei futuristi, 223
dall’intervento fino all’avvento del fascismo al potere, è opportuno aver presenti queste considerazioni, per evitare di uniformare la complessa varietà dell’«aristocratismo combattentista» nella indistinta categoria del sovversivismo piccolo borghese e di un generico fascismo. Allo scoppio della grande guerra, i futuristi furono naturalmente fra i primi a schierarsi decisamente a favore dell’intervento italiano. Essi coglievano un’altra occasione per ribadire il valore «igienico» della guerra, per cercare di spazzar via dall’Italia l’egemonia dei vecchi ed aprire le porte al progresso senza limiti di un’Italia modernizzata violentemente nelle sue strutture e nella sua mentalità. Un interventismo, quello futurista, che nonostantele formule «panitalianiste» insisteva più sul rinnovamento interno che sull’espansione, e non a caso, fin dal primo momento, fu antitedesco. Rivolgendosi con un appello interventista agli studenti, nel novembre del 1914, Marinetti proclamava52: Il futurismo, nel suo programma totale, è un’atmosfera d’avanguardia; è la parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali del mondo; è l’amore del nuovo; l’arte appassionata della velocità; la denigrazione sistematica dell’antico, del vecchio, del lento, dell’erudito e del professorale; è un nuovo modo di vedere il mondo; una nuova ragione di amare la vita; un’entusiastica glorificazione delle scoperte scientifiche e del meccanismo moderno; una bandiera di gioventù, di forza, di originalità ad ogni costo; un colletto d’acciaio contro l’abitudine dei torcicolli nostalgici; una mitragliatrice inesauribile puntata contro l’esercifo dei morti, dei podagrosi e degli opportunisti, che vogliamo esautorare e sottomettere ai giovani audaci e creatori; è una cartuccia di dinamite per tutte le rovine venerate. La parola futurismo contiene la più vasta formula di rinnovamento; quella che, essendo a un tempo igienica ed eccitante, semplifica i dubbi, distrugge gli scetticismi e raduna gli sforzi in una formidabile esaltazione. Tutti i novatori s’incontreranno sotto la bandiera del futurismo, perché il
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futurismo proclama la necessità di andar sempre avanti, e perché propone la distruzione di tutti i ponti offerti alla vigliaccheria. Il futurismo è l’ottimismo artificiale opposto a tutti i pessimisti cronici, è il dinamismo continuo, il divenire perpetuo e la volontà instancabile. Il futurismo non è dunque sottoposto alle leggi della moda né al logorio del tempo, non è una chiesuola né una scuola, ma piuttosto un grande movimento solidale di eroismi intellettuali, nel quale l’orgoglio individuale è nulla, mentre la volontà di rinnovare è tutto.
Dopo aver identificato il futurismo con lo spirito di rinnovamento, Marinetti avvertiva che il futurismo era altra cosa che ribellismo fine a se stesso. Quasi a voler evitare una confusione fra le aspirazioni futuriste e qualsiasi generica manifestazione di rivolta, che solo per la volgarità iconoclasta pretendesse di spacciarsi per futurismo, Marinetti precisava che il futurismo interventista si poneva come preciso obiettivo la battaglia contro l’intellettualismo «germanico» in nome della vita libera, senza voler essere affatto animato da puro spirito distruttore amante della gratuità di qualsiasi gesto negativo. Al contrario, affermava Marinetti, siamo «intraprenditori di demolizioni, ma per ricostruire. Sgombriamo le macerie per poter andare più avanti». In questa difesa dell’atteggiamento costruttivo del futurismo da parte di Marinetti, èforse avvertibile il timore che il futurismo potesse apparire soltanto come nichilismo devastatore privo di attrazione sui giovani anelanti alla creazione di un mondo nuovo: timore forse ancor più vivo, quando, in occasione della guerra, il futurismo aspirò a presentarsi come una forza concreta, con obiettivi definiti contro cui lottare nella prospettiva di un’azione politica, senza però imbrigliare la sua vocazione aU’improwisazione creatrice. Da ciò nacque l’esigenza di formulare un programma politico «costruttivo», precisando però che il futurismo non accettava alcuno schema preordinato, 225
rifiutava l’intellettualismo che pretendeva di imporre limiti di coerenza teorica alle infinite possibilità della vita e dell’azione. Citando Bergson, Marinetti proclamava che la vie déborde l‘intelligence: Non si può intuire il prossimo futuro, se non collaborandovi col vivere tutta la vita. Da ciò il nostro violento e assillante amore per l’azione. Siamo futuristi di domani e non di posdomani. Intrawediamo dove andremo a finire, ma cacciamo sistematicamente dal nostro spirito queste visioni, quasi sempre antigieniche, poiché quasi sempre nate da uno stato di scoraggiamento. Diffidiamo di loro, poiché esse conducono all’anarchia intellettuale, all’egoismo assoluto, e cioè alla negazione dello sforzo, dell’energia modificatrice. Non saremo mai dei profeti pessimisti, annunziatori del gran Nulla. Il nostro Futurismo pratico e fattivo prepara un Domani dominato da noi.
In questa difesa della «concretezza» futurista erano anche le ragioni dell’interventismo dei futuristi: l’interventismo era voluto, prima di tutto, per aderire alla storia e per agire in un momento di grandi sconvolgimenti onde favorire il processo di svecchiamento dell’Italia e la fine dell’egemonia culturale intellettualista. «Il futurismo dinamico e aggressivo si realizza oggi pienamente nella grande guerra mondiale che - solo - previde e glorificò prima che scoppiasse. La guerra attuale e il più bel poema futurista apparso finora». Dalla partecipazione alla guerra, il futurismo traeva nuovi motivi per esaltare il genio italiano, glorificato sopra tutti i popoli combattenti per il suo coraggio, il suo eroismo, la sua capacità di azione fulminea, e per accrescere l’odio del passatismo. La guerra avrebbe operato soprattutto nel distruggere i capisaldi del passatismo nella vita italiana: La Guerra esautorerà tutti i suoi nemici: diplomatici professori, filosofi archeologhi, critici, ossessione culturale, greco, latino, senilismo, musei, biblioteche, industria dei forestieri. La Guerra svilupperà la ginnastica, lo sport, le scuole
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pratiche d’agricoltura, di commercio e industriali. La Guerra ringiovanirà l’Italia, l’arricchirà d’uomini d’azione, la costringerà a vivere non più del passato, delle rovine e del dolce clima, ma delle proprie forze nazionali.
La partecipazione alla guerra offriva al futurismo l’occasione per assumere, alla fine del conflitto, un ruolo politico e partecipare alla rivolta contro il sistema liberale e alla lotta contro il «nemico interno». Marinetti, Boccioni, Russoio, Sant’Elia, Sironi e Piatti, alla fine del 15, firmarono il manifesto futurista dell’orgo-glio italiano, in cui promettevano «schiaffi, pugni e fucilate» all’italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di mediocristi antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi come nemici della patria, e vanamente frustati con abbondanti e continue docce di sputi53.
Nonostante il linguaggio bellicista e l’esaltazione della guerra, nell’interventismo futurista vi è traccia di un «fervore morale» libertario che si rivelava soprattutto nell’odio verso l’imperialismo germanico. A differenza dei militanti dell’Associazione nazionalista, che identificavano il loro ideale di nazione nella società militarista teutonica, i futuristi furono sempre profondamente ostili alla Germania. La loro avversione per l’autoritarismo e il militarismo tedesco fu viscerale e sincera, e si manifestò nella difesa del principio di nazionalità per sostenere le ragioni morali dell’interventismo italiano. Fra gli attacchi al germaniSmo militarista erano incluse le polemiche contro la cultura 227
«professorale» considerata tipicamente tedesca, il culto della pedanteria, dell’erudizione, dei sistemi teorici. Al «tedescofilo» Croce, i futuristi opponevano «lo scugnizzo». Tipica espressione di quest’atteggiamento sono gli articoli antitedeschi della rivista futurista napoletana «Vela Latina», diretta da Ferdinando Russo. Sorta nel 1913, la rivista era espressione d’un futurismo, per così dire, moderato, e solo dal 1915 cominciòad ospitare largamente scritti dei maggiori esponenti futuristi, da Marinetti a Boccioni, da Balilla Pratella a Cangiullo. Dal ‘15 e per tutto il 1916, la rivista napoletana fu accesamente polemica contro il militarismo germanico e, pur esaltando il patriottismo, negava qualsiasi giustificazione nazionalista all’imperialismo, ricollegando le ragioni della partecipazione italiana alla guerra ai motivi risorgimentali, alla presenza d’una profonda moralità nella lotta per l’indipendenza. La moralità della «guerra giusta» combattuta per difendere la propria nazionalità si era manifestata attraverso l’opera dei poeti-soldati del Risorgimento, segno inequivocabile, secondo Gino Gori, del sostegno divino alla lotta: la guerra non era volontà di pochi, ma necessità per tutti, […] essa difendeva diritti oppressi, sacrosante leggi offese, tutta una civiltà calpestata dallo zoccolo selvaggio d’orde barbariche soffiateci contro dalla mala fame di dominio artigliante l’ingluvia d’un tiranno. Si comprende che quella generazione vive di un palpito superiore, che agisce e soffre, ma per obbedire a una volontà che folgora dall’alto e parla ai suoi sacerdoti. La guerra è dunque il Cristo che resuscita il suo Lazzaro eterno: Dio. Senonché c’è una guerra che lo seppellisce settemila braccia sottoterra e danza sulla fossa sacra e terribile con la grimace d’uno spaventevole apache colossale, senza fronte e tutto denti e mascelle. È la guerra d’oppressione, di aggressione, di conquista iniqua […]. Allora gli uomini possono anche vincere perché sono orda, ma la vittoria è celebrata dal bottino e dal massacro, dall’incendio e dallo stupro, dall’infanticidio, dalle mutilazioni,
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dall’evirazione, da tutte le mostruosità a cui belva umana può giungere reggendosi sul filo della sua miserabile ragione, sospinta dalla raffica della sua ferocia originaria. Ma ogni luce manca, ogni baleno è muto, ogni palpito di verità è assente. Non Poesia, non Eroe, non Dio: non alte e infrangibili volontà da attuare, comandi di un generale che stia al di sopra del duce supremo a cui obbedire; ma la bestialità che scatena in ogni petto i più tenebrosi istinti del male. Poeti che ispirati da un civile senso di giustizia, dominati dalla ossessione religiosa di un Dio custode e signore, cantino le imprese degli eserciti e la loro necessità e il loro eroismo, la Germania oggi non ne ha, l’Austria non ne ha; né potrebbero averne. Cosa canterebbero? Il Belgio? La Galizia? Le navi di passeggeri colate a fondo? L’aggressione agli ospedali? Il bombardamento della Croce Rossa? Le monache ingravidate? Il diritto delle genti calpestate? Cosa canterebbero?: un re, due re, due criminali, di là dai quali non passa, non s’agita, non può agitarsi, l’ombra augusta della patria; e che i popoli avrebbero dovuto prendere per il bavero e buttarli nella latrina come animali velenosi. Anche l’immagine della morte è diversa per gli uni e per gli altri: per chi combatte sotto la bandiera del fantastico dio, e per chi combatte da bruto. L’immagine della morte suscita fervore di preghiera e desiderio di sopravvivere nella ricordanza dei nepoti e nel cuore della patria in chi sa di combattere per la giustizia, per la verità, per l’ideale: muove nere fiamme, vampe funebri di odio belluino in chi ha la oscura coscienza di sovvertire l’ordine del mondo, in chi, bestia, si sente, sia pure un istante, il mastino ammaestrato ad ammazzare la vittima, la bestia in podestà d’un padrone54.
Animatori di rivolte studentesche interventiste, di azioni di piazza e di manifestazioni violente contro i neutralisti; intolleranti e pronti a sostituire i pugni ai discorsi, i futuristi divennero i protagonisti più attivi delle agitazioni per l’intervento e, dopo essere stati volontari e buoni combattenti, verso la fine della guerra ritennero giunto il momento favorevole per costituire un gruppo politico. Nel febbraio 1918, fu lanciato il manifesto-programma del partito politico futurista55. Il futurismo politico voleva distinguersi ora dal movimento prettamente artistico, nel senso che l’adesione al nuovo partito era libera ed aperta a tutti quelli che accettavano i princìpi del suo programma politico, anche senza condividere le idee estetiche futuriste. 229
I futuristi si rendevano conto che, come avanguardia artistica, rappresentavano un gruppo rumoroso ma esiguo, che suscitava l’ostilità e la derisione, piuttosto che le simpatie o la curiosità della gran massa del pubblico. Come movimento politico, il futurismo accentuò i suoi caratteri «rivoluzionari», di rivolta contro il passato, ma estese la sua nozione di «passato» anche alla struttura sociale, proponendo una forma di democrazia futurista, in cui era molto attenuato l’aristocratismo dei programmi politici d’anteguerra. Presentandosi come fautori e sostenitori della guerra per ragioni di italianità e di rinnovamento interno, i futuristi miravano a rappresentare, senza distinzioni di classe, l’avanguardia del combattentismo, la élite che doveva animare e guidare un movimento di mobilitazione popolare contro il regime esistente. Gli obiettivi dell’azione futurista per il dopoguerra apparivano abbastanza chiari, e il programma politico presentava punti più dettagliati su quel che volevano in concreto i futuristi politici. I fondatori del partito futurista riaffermavano la fede nella religione dell’Italia di domani, che doveva essere «libera, forte, non più sottomessa al suo grande passato, al forestiero troppo amato e ai preti troppo tollerati». Muovendo da un nazionalismo rivoluzionario sempre schierato contro i soliti nemici tradizionalismo, pacifismo, internazionalismo, socialismo, parlamentarismo -, il nuovo programma poggiava ora su due punti fondamentali: la trasformazione radicale dello Stato monarchico liberale e un violento anticlericalismo. Seguivano, poi, i miti del modernismo futurista in lotta contro tutte le vestigia del passato, dalla scuola classica alle città monumentali, che dovevano essere 230
rapidamente modernizzate. Doveva essere abolito anche il militarismo, cui andava sostituito un volontariato di quadri ufficiali esperti e la diffusione nelle scuole di attività ginnico-militari. Aspetto più nuovo del programma politico erano le richieste di ambiziose riforme sociali: confisca dei capitali, abolizione del latifondo clericale, socializzazione delle terre, giornata lavorativa di otto ore, industrializzazione del paese, valorizzazione della funzione produttiva del capitale nell’ambito di una concezione della proprietà come funzione sociale, partecipazione delle maestranze alla divisione degli utili. Per la riforma politica, il programma chiedeva l’abolizione del Senato, che doveva essere sostituito da una élite di venti giovani audacissimi eletti con suffragio universale, al di sotto dei trent’anni; e anche la modifica della Camera dei deputati, con la fine dell’egemonia «avvocatesca» e l’istituzione d’una rappresentanza formata prevalentemente da elementi tecnici e competenti. Nel costume sociale, si prometteva una larga libertà nei rapporti sessuali, la liberazione della donna, il divorzio facile e rapido, la fine del matrimonio concepito come «prostituzione legalizzata» e la distruzione della famiglia come nucleo permanente e basilare della società, per promuovere «l’avvento graduale del libero amore e del figlio di Stato». Questi erano i punti principali del programma politico futurista, inseriti nel quadro d’una trasformazione generale dello Stato, con l’istituzione della repubblica, la riforma e lo snellimento della burocrazia, un ampio decentramento amministrativo e regionale, la riduzione del personale impiegatizio, l’abolizione del diritto d’anzianità, ecc. A tutto ciò, erano aggiunti altri punti secondari, su problemi 231
contingenti, che riguardavano soprattutto i reduci, e che erano affastellati senz’ordine intorno ad un unico mito centrale: rivoluzione contro l’ordine esistente, per la fine d’ogni ordine e l’«istituzione» del disordine nella società nuova del futurismo. Come aveva affermato Pratella, l’ordine «è un vecchio poliziotto, che non ha buone gambe per correre; noi, futuristi, creiamo il nuovo ordine del disordine»56. Secondo Marinetti, che continuava ad essere il capo del movimento e l’ideologo più interessante e fecondo del gruppo, all’origine del futurismo politico vi era una nuova concezione della politica, «assolutamente sgombra di retorica, violentemente italiana e violentemente rivoluzionaria, libera, dinamica e armata di metodi assolutamente pratici»57. La grande guerra aveva avuto un peso notevole nel trasformare il mondo e nell’inaugurare una nuova epoca tipicamente futurista. La guerra aveva provocato «lo sfasciamento del concetto religioso della provvidenza e dell’intervento divino negli avvenimenti terrestri», «lo sfasciamento delle logiche e dei sistemi filosofici quadrati e chiusi», «la glorificazione della forza brutale e del diritto compenetrati». La guerra, «sintesi di patriottismo accanito, di militarismo, di garibaldinismo improvvisatore, di forza rivoluzionaria, d’imperialismo e di spirito democratico, ha sconfessato tutti i partiti politici, ridicolizzato tutti i calcoli diplomatici, frantumato tutti i quietismi, sgretolato e spaccato tutti i passatismi, e rinnovato il mondo»58. Nel suo manifesto del 1909, Marinetti rivendicava la previsione profetica di tutto ciò che la guerra avrebbe distrutto e, per questo motivo, mentre tutti i partiti, dall’estrema destra all’estrema 232
sinistra, erano disorientati di fronte alla conflagrazione, soltanto il futurismo rispondeva al richiamo dei tempi nuovi e si muoveva nel disordine come nel proprio elemento naturale. Più degli arditi e dei fascisti della prima ora, i futuristi furono radicali e conseguenti nella loro opposizione al mondo dell’anteguerra, e furono anche i più coerenti, nei termini della loro ideologia, a trarre dalla guerra le conseguenze per una trasformazione totale di tutta la vita sociale, dalle istituzioni al costume, fino al comportamento individuale. Il partito politico futurista, secondo Settimelli, era «più che altro una tendenza psicologica», «una fusione di realtà e di sconfinamento, di praticità e di lirismo», che mirava a creare un nuovo tipo di italiano59. A diffondere le idee del nuovo partito fu dedicato un nuovo periodico, «Roma Futurista», fondato da Carli, Marinetti e Settimelli, che iniziò le pubblicazioni il 20 settembre 1918. Il giornale fu la tribuna delle aspirazioni estremiste di arditi e futuristi, e soprattutto di quelli appartenenti ai ranghi degli ufficiali di complemento. Le tendenze predominanti, sia in politica interna che in politica estera, non si differenziavano dai motivi principali della mitologia combattentista, quale abbiamo fin qui esaminata, anche se i futuristi mostravano più ardore nel contestare l’Italia presente e nel proporre ardite iniziative di trasformazione, accentuando, talora in modo contraddittorio, alcuni aspetti del loro nazionalismo. In politica estera, per esempio, si schierarono a favore di Sonnino contro Bissolati60 per sostenere un «irredentismo integrale» contro un «irredentismo mutilato», chiedendo, sulla base della vittoria, un ampliamento del patto di Londra e una modificazione del patto di Roma, per favorire 233
l’inserimento dell’Italia nella costa dalmata e garantire così un’egemonia italiana sull’Adriatico61. I futuristi avversarono inoltre la Società delle nazioni, sia per l’utopia internazionalista wilsoniana, che essi non potevano condividere per il loro antipacifismo62, sia perché l’istituzione di una tale organizzazione appariva loro come un’operazione compiuta dalle potenze imperialiste e plutocratiche ai danni delle piccole potenze63. Nella politica interna, i futuristi furono naturalmente ostili a tutte le forze politiche che, in qualche modo, sembravano non voler dare piena soddisfazione all’orgoglio italiano o, addirittura, negavano il valore della guerra e della vittoria. Furono, perciò, antisocialisti64, violentemente antigiolittia-ni: «Giolitti è la sintesi della vecchia Italia mediocre, arrangiatri-ce, burocratica, tentennatrice […]. Vigiliamo Giolitti! Combattiamo Giolitti! Sbarazziamoci definitivamente di Giolitti! Non bisogna essere ottimisti nel considerarlo finito»65. Nel complesso, il futurismo politico si fece soprattutto sostenitore di generosi riconoscimenti ai combattenti, sia sul piano politico che su quello economico-sociale, con l’esaltazione dell’élite combattentista, cui riteneva spettasse di diritto il potere per governare la nazione, superando in tal modo il conflitto epocale fra vecchia e nuova Italia: abbiamo sentito prima di constatarlo che tra la vecchia Italia e la nuova non c’era possibilità di conciliazione. La guerra, che ha dato modo ai giovani di risolvere un grande problema nazionale, ha messo altresì in mano loro la patria, ed ha dato loro il diritto d’entrare nella vita politica con tutto il patrimonio d’idee nuove fucinate prima e durante la guerra, invadendo col diritto del più forte un campo prima riservato a gente, munita è vero di furberia machiavellica, ma priva assolutamente di sentimento. Questa élite dirigente dovrà quindi cedere il campo all’irruenza della nuova giovanissima classe dirigente che ha fatto la
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guerra in nome di un sentimento potente […]. Intendiamo per ora combattere nel campo della più stretta legalità […]. Noi vogliamo, dopo aver combattuto, esser rappresentati quale parte migliore della volontà nazionale66.
Il futurismo politico progettò la sua azione puntando sulla mobilitazione dei combattenti e sulla lotta contro quelli che facevano il processo alla guerra o da questa volevano far sorgere una rivolta antinazionale. H mito della nazione, per il futurismo, non si discuteva. Questo mito, presente nel movimento fin dalle origini, traeva ora nuovo e maggior alimento dai sentimenti derivati dall’esperienza e dai miti della guerra. Di conseguenza, i futuristi si trovarono quasi tutti immediamente schierati contro il partito socialista, in difesa delle rivendicazioni territoriali italiane e del primato della nazione. Tuttavia, anche per questa nuòva fase del futurismo politico, non si deve confondere l’atteggiamento futurista con quello dell’Associazione nazionalista o dello stesso fascismo, dopo la svolta a destra da questo compiuta nel 1920. Il futurismo politico restò fedele, salvo atteggiamenti di alcuni suoi militanti, all’idea antimonarchica e anticlericale, e dal nazionalismo autoritario ed imperialista si volle distinguere per il suo spirito libertario, per la sua avversione a qualsiasi forma di culto della tradizione, anche della tradizione patriottica67, come pure per l’idea di nazione concepita come eredità intangibile del passato, consacrata nei monumenti della storia. I futuristi vollero in tutti i modi evitare la taccia di reazionari o di delinquenti al servizio della borghesia, ad essi affibbiata dalla stampa socialista, specialmente dopo la partecipazione dei futuristi all’assalto e all’incendio della sede dell’«Avanti!» nell’aprile del ‘19:
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Non è per l’ordine, non è in difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile, non è in appoggio alla così detta «benemerita» che noi ci siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne presenterà l’occasione. Ma è per un’idea, per un principio: è per l’idea di patria, è per il principio di progresso, che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi opposti a quelli dei rivoluzionari russi68.
Il futurismo politico si opponeva all’ipotesi di una rivoluzione bolscevica in Italia perché considerava il bolscevismo un fenomeno tipicamente russo, un esperimento rivoluzionario valido per la Russia ma non esportabile in Italia, perché contrario alla natura fantasiosa ed individualista degli italiani. In questa valutazione del bolscevismo, che era del resto comune a tutto il radicalismo combattentista, non mancava una certa ammirazione per Lenin, ed anche il riconoscimento della necessità dell’esperimento bolscevico per la modernizzazione della Russia: «La ragione della necessità del bolscevismo è nella sua stessa esistenza e nel suosviluppo in tutto il vasto dominio orientale». Per questo, non si poteva paragonare ad «una qualunque banda Bonnot l’insieme degli accoliti leniniani»69. La disponibilità e l’apertura ideologica nei confronti della rivoluzione bolscevica, da parte dei futuristi più ardenti di ribellismo, si spinsero fino al punto di far sorgere, come vedremo più avanti, persino proposte favorevoli ad una convergenza d’azione rivoluzionaria fra futurismo e bolscevismo, partendo dal presupposto che il nazionalismo, così come era inteso dal futurismo, non era necessariamente in conflitto con una visione internazionalista, basata sul riconoscimento della realtà nazionale, e non doveva rappresentare un ostacolo al successo di una concezione rivoluzionaria e progressista della nazione italiana. Al 236
quesito «nazionalisti o internazionalisti», il futurista Carlo Casali rispondeva: «Io personalmente sono pel futurismo politico intemazionale. L’uomo non è LIBERO se non è libero egualmente in tutto il mondo […] amare la patria più di se stesso non è futurismo, amare il progresso dell’uomo in relazione all’umanità e lavorare per essa è futurismo»70. E queste non erano espressioni personali e del tutto episodiche nell’ambito del futurismo politico. Lo stesso Marinetti aveva affermato che la natura progressista del nazionalismo futurista era inconciliabile col nazionalismo autoritario e persino coll’imperialismo. Il futurismo esaltava l’idea di patria, ma unita a quella di progresso, e negava l’identificazione di qualsiasi nazionalismo con lo spirito conservatore, coll’«imperialismo rapace e sistematico», con lo spirito reazionario, con la repressione poliziesca, con il militarismo, con l’aristocrazia di sangue e il clericalismo: Siamo antimperialisti. Crediamo che ogni razza sia predisposta a un primato speciale in un dato campo della attività. Crediamo pure che non vi sia razza predisposta alla egemonia mondiale. L’Italia, che non può né potrà mai vincere tutte le concorrenze nell’agricoltura, nel commercio e nella industria, deve invece conquistare il suo primato assoluto nel pensiero, nell’arte, nella scienza […]. Vogliamo una corsa con severo controllo di partenza perché i vincitori siano veramente i migliori, siano coloro che non privilegiati o poco privilegiati avranno dato veramente il massimo sforzo. Tutti poveri ma padroni assoluti di tutte le forze71.
I futuristi intervennero nella lotta politica dell’immediato dopoguerra portandovi uno stile ed un linguaggio in gran partenuovo, di cui s’era avuto qualche saggio durante le 237
giornate di maggio per l’intervento. Come ha scritto Mario Carli, è senza dubbio vero che tutte «le manifestazioni patriottiche di quel periodo s’imperniarono sull’azione violenta e colorata dei futuristi e dei primi arditi»72, com’è vero che il primo fascismo, quello degli anni 1919-1920, fu per molti aspetti e per l’origine di molti suoi componenti una manifestazione della politica futurista. La simbiosi futurismo-arditismo generò i metodi di lotta squadrista, che sconvolsero il modo tradizionale della lotta politica, in cui raramente si faceva ricorso alla violenza organizzata per combattere gli avversari. Il futurismo, fu scritto giustamente, fin dalle manifestazioni interventiste aveva scoperto, «con i combattenti d’oggi, un nuovo elemento di vita politica: la piazza»11. Ribadendo uno dei cardini della loro ideologia e ispirandosi ai miti dell’esperienza della guerra, i futuristi esaltarono e praticarono la violenza come l’unico metodo schietto di lotta politica. La guerra aveva fortemente alimentato il gusto per la violenza e per l’azione diretta, mentre i miti combattentisti avevano diffuso il discredito dei partiti e del parlamento, favorendo l’appello alla mobilitazione di massa e la «politica della piazza» come la forma più genuina di manifestazione della volontà della nazione. Tipicamente futuristi furono i primi interventi contro le manifestazioni socialiste o «rinunciatarie»; tipica «serata futurista» fu la manifestazione inscenata alla Scala nel gennaio del ‘19 dai futuristi e da Mussolini per impedire al «rinunciatario» Bissolati di esporre le sue idee. Il rituale dell’incendio della stampa avversaria fu inaugurato dai futuristi e dagli arditi immediatamente dopo la smobilitazione. In un clima eccitato, in cui era diffuso «enormemente l’amore del pericolo, la sfida alla morte, il 238
desiderio dell’eroismo individuale»74, era inevitabile l’adozione dei metodi violenti contro gli avversari politici da parte degli «aristòcrati del combattentismo», nella convinzione che l’esaltazione e l’uso della violenza fossero prove di coraggio, azioni eroiche di minoranze di idealisti contro le masse brute organizzate dal partito socialista. Sfidare nella piazza l’egemonia d’un grande partito che allora vi dominava incontrastato poteva anche apparire, a spiriti poco inclini alla violenza e non contagiati dalle frenesie attivistiche degli arditi e dei futuristi, come atto di coraggio, gesto di sfida eroica in difesa della propria divisa di combattenti, per imporre il rispetto dei simboli della nazione, per sostenere il diritto dei reduci a partecipare alla vita politica in nome del sacrificio sostenuto75. Per gli arditi-futuristiera normale l’apologià e la pratica della violenza, che aveva costituito il loro costume di guerra. La violenza era esaltata come manifestazione dell’esuberanza e dell’insofferenza dei giovani per la politica delle parole e dei compromessi. Il mito della giovinezza incorrotta e rigeneratrice fu un altro caposaldo del futurismo politico, che si presentò come partito dei giovani: «Il domani ai giovani. Inchiniamoci dinanzi alla balda schiera che torna. Il loro dinamismo sarà quello che detterà le leggi che disciplineranno il mondo. Il mondo nelle loro mani!»76. Secondo Massimo Bontempelli, il programma fonda-mentale del futurismo politico era sostituire «la giovinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive» e lavorare per creare questa giovinezza nuova al di fuori dei vecchi sistemi, dalla scuola e dalla famiglia77. La stessa polemica antiintellettualista e anticulturale dei futuristi, che denigrava 239
la cultura come segno del passatismo, ed esaltava l’azione fine a se stessa, in sé creatrice, contribuiva al culto della violenza e al mito del giovanilismo: In mezzo alla stanchezza ed alla malafede è sorto l’amore al bel gesto, all’atto violento, rapido, quasi gioioso del giovine che vuol farla finita ad ogni costo e che senz’altro recide, sgozza con fulmineo luccicare di coltello78.
L’azione futurista si incentrò soprattutto sull’organizzazione dei Fasci politici futuristi, che sorsero prestissimo dopo la fine della guerra, in varie città dell’Italia centrale e settentrionale, costituendo una trama di associazioni su cui, poi, si poggiarono i primi nuclei del movimento fascista. I futuristi accolsero con plauso la decisione di Mussolini di fondare i Fasci di combattimento e ne furono i primi animatori ed organizzatori. Il programma dei Fasci mostrava chiare tracce del modello futurista79. L’adunata di piazza S. Sepolcro, presieduta dall’ardito Ferruccio Vecchi con la partecipazione del gruppo futurista, aveva avuto «immediatamente un tono di realismo rivoluzionario», come scrisse «Roma Futurista»80. Per parte sua Mussolini, che fu salutato dai futuristi come «l’uomo nuovo che il futurismo ha pensato e che adora»81, aveva seguito fin dalla fine del 18 l’attività e l’organizzazione dei Fasci politici futuristi, trovando in essi un valido sostegno per la sua campagna antisocialista82. Ma l’incontro del fascismo con il futurismo politico non era destinato a durare molto, per il netto contrasto che venne emergendo nel corso del 1920, fra il realismo mussoliniano, apparentemente «rivoluzionario» con pose futuriste, e l’utopia rivoluzionaria dei futuristi, che sfociò, nelle ultime
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manifestazione del futurismo politico, in una vera e propria professione di fede anarchica e di totale disprezzo per la politica.
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Capitolo quarto Il fascismo sansepolcrista 1. Mussolini e i Fasci di combattimento: «Niente è eterno nell’universo» Quando nell’ormai lontano marzo del 1919, dalle colonne del «Popolo d’Italia» io convocai a Milano i superstiti interventisti-intervenuti, che mi avevano seguito sin dalla costituzione dei Fasci di azione rivoluzionaria - avvenuta nel gennaio del 1915 -, non c’era nessuno specifico piano dottrinale nel mio spirito. Di una sola dottrina io recavo l’esperienza vissuta: quella del socialismo dal 190304 sino all’inverno del 1914 - circa un decennio. Esperienza di gregario e di capo, ma non esperienza dottrinale. La mia dottrina, anche in quel periodo, era stata la dottrina dell’azione. Una dottrina univoca, universalmente accetta, del socialismo non esisteva più sin dal 1905, quando cominciò in Germania il movimento revisionista facente capo al Bernstein e per contro si formò, nell’altalena delle tendenze, un movimento di sinistra rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel socialismo msso, fu il preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo, centrismo, di questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Péguy, dal Lagardelle del Mouvement Socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le Pagine Libere di Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone. Nel 1919, finita la guerra, il socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore, aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la rappresaglia contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano «espiarla». Il «Popolo d’Italia» recava nel sottotitolo «quotidiano dei combattenti e dei produttori». La parola «produttori» era già l’espressione di un indirizzo mentale. Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che io diedi all’organizzazione ne fissava i caratteri. Eppure chi rilegga, nei fogli ormai gualciti dell’epoca, il resoconto dell’adunata costitutiva dei Fasci italiani di combattimento, non troverà una dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di accenni, che, liberati dall’inevitabile ganga delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni,
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svilupparsi in una serie di posizioni dottrinati, che facevano del fascismo una dottrina politica a sé stante, in confronto di tutte le altre e passate e contemporanee1.
Così Mussolini ricordò, nell’esordio della dottrina politica e sociale del fascismo codificata per l’Enciclopedia Italiana all’inizio degli anni Trenta, la sua esperienza ideologica fino all’adunata di piazza San Sepolcro. La rievocazione postuma, per quanto opportunamente purgata dal riferimento ad altre influenze, riflette molto fedelmente lo spirito di Mussolini e il suo disorientamento ideologico dopo la fine della guerra, come pure la mancanza d’uno «specifico piano dottrinale» al momento della costituzione dei Fasci di combattimento. I quali, come è noto, nacquero per iniziativa di Mussolini da un’esigua adunata di reduci di varia tendenza ideologica e provenienti, in maggioranza, da partiti, organizzazioni e movimenti di sinistra. Né Mussolini né gli altri partecipanti alla fondazione dei Fasci pensavano di dar vita ad un nuovo partito, anzi, riflettendo in ciò un atteggiamento generale del momento, annunciarono la nascita dell’«antipartito», di un’associazione che si proponeva obiettivi contingenti, per sostenere i diritti dei combattenti, difendere il valore «rivoluzionario» dell’interventismo e della guerra, affermare la necessità di riforme sociali e politiche, e per un trapasso del potere dalle mani della vecchia classe dirigente a quelle dei giovani combattenti. Oltre questi motivi, che erano comuni al mondo combattentista da cui sorsero i Fasci, non vi era altro elemento d’unione fra i diversi partecipanti alla fondazione del movimento fascista, eccetto il nemico comune, cioè il partito socialista, combattuto senza quartiere per la sua passata neutralità e per la sua polemica 243
contro l’interventismo, la guerra e i reduci. Nulla di eccezionale e nulla di nuovo, dunque, rispetto a quanto era già presente nell’ideologia dei vari movimenti del nazionalismo rivoluzionario combattentista, venne fuori dall’adunata di piazza San Sepolcro. Vi furono dette e ripetute cose che si dicevano in quasi tutte le adunate di ex combattenti, e non ci fu alcuna intenzione di gettare le basi per un’organizzazione stabile, duratura, con statuto, regolamento e dottrina, con vincoli disciplinari. La tessera dei Fasci poteva esser data anche agli iscritti d’al-tri partiti. Anche il programma, orientato a sinistra, tardò ad apparire e fu pubblicato, in una forma ordinata ed ufficiale, soltanto nel giugno del 192. Nell’adunata non si discussero problemi teorici, ma si abbozzarono appena le linee d’un programma d’azione immediata, senza andar oltre la scelta di alcuni obiettivi contingenti, per quanto pretenziosi. Nessuno dei partecipanti, e ancor meno Mussolini, immaginava che il fascismo avrebbe marciato a lungo: Il Fascismo è un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita scrisse Mussolini su «H Popolo d’Italia» pochi giorni dopo la nascita del movimento -. È pragmatista. Non ha apriorismi. Né finalità remote. Non promette i soliti paradisi dell’ideale. Lascia queste ciarlatanerie alle tribù della tessera. Non presume di vivere sempre e molto. Vivrà sino a quando non avrà compiuto l’opera che si è prefissa. Raggiunta la soluzione nel nostro senso dei fondamentali problemi che oggi travagliano la nazione italiana, il Fascismo non si ostinerà a vivere come un’anacronistica superfetazione di professionali di una data politica, ma saprà brillantemente morire senza smorfie solenni. Se la gioventù delle trincee e delle scuole accorre ai Fasci […] gli è perché, nei Fasci, non c’è la muffa delle vecchie idee, la barba veneranda dei vecchi uomini, la gerarchia dei valori convenzionali, ma c’è la giovinezza, c’è dell’impeto e della fede. Il Fascismo rimarrà sempre un moto di minoranze. Non può diffondersi all’infuori della città3.
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Nel periodo dell’immediato dopoguerra, più che offrire un’indicazione precisa per l’azione futura, Mussolini si limitò ad essere un abile portavoce e suscitatore dei sentimenti delle giovani generazioni che avevano fatto la guerra; attraverso il suo giornale e la sua attività oratoria, seppe dare immagini e miti alle loro aspirazioni, senza preoccuparsi troppo dell’elaborazione teorica e della coerenza delle scelte pratiche. Fedele sempre alla sua concezione leboniana delle masse, Mussolini era capace di «sentire» i loro umori, che sapeva interpretare e rappresentare attraverso alcuni miti, ma trascurava quasi del tutto il faticoso lavoro di penetrazione ideologica, di convinzione, di educazione e di organizzazione, vantando la sua fondamentale indifferenza verso una vera politica di organizzazione e di educazione della massa come aristocraticismo del suo spirito libero e spregiudicatezza ideologica. In quel periodo, Mussolini, osservò bene Gioacchino Volpe4, «come tutti quelli che si rivolgono al sentimento più che al pensiero, e con quel mezzo vogliono sollecitare l’azione chiarificatrice di pensieri, si teneva piuttosto nel vago». Il realismo mussoliniano era un pregio e un limite della sua azione politica perché gli permetteva di intuire le situazioni del momento ma non di gettare le basi per una creazione politica sostenuta coerentemente fino in fondo. Anche il primo fascismo portò il segno di questo spirito mussoliniano, che sviluppò la sua nuova arma di azione politica attingendo ampiamente a tutto il repertorio della mitologia combattentista. Il fascismo «sansepolcrista» fu un movimento urbano, tipica espressione d’una bohème politica ed intellettuale 245
cittadina; il suo carattere più spiccato era l’attivismo, il gusto per l’azione violenta contro il mondo corrotto della borghesia e il socialismo egualitario e internazionalista. E tale il fascismo rimase fino alla svolta della fine del ’20, quando il successo, e la dilatazione numerica e geografica del movimento, con l’immissione nelle sue file di nuove reclute di varia estrazione sociale e ideologica, imposero al fascismo il problema di darsi una dottrina, di assumere una posizione definita di pensiero, oltre che di azione, verso le altre forze politiche e, più in generale, verso i problemi dello Stato e della società. Tuttavia, in questa prima fase, non riteniamo sia un’impresa del tutto vana rilevare le tracce di un’«ideologia» fascista, una serie di derivazioni, anche se né ideologicamente né politicamente i Fasci di combattimento furono un fenomeno originale ed omogeneo. E neppure ci sembra privo d’interesse un esame dei temi più ricorrenti nella propaganda mussoliniana di questo periodo, che possono far riconoscere un atteggiamento ideologico di fondo del primo fascismo, pur nella varietà delle scelte, nell’opportunismo demagogico e nel dichiarato disprezzo per le ideologie. Giustamente Giorgio Rumi ha osservato che «è pur sempre una vera concezione il frequente motivo del puro valore strumentale delle ideologie»5. Inoltre, per quanto occasionale possa essere stata l’ideologia del primo fascismo, essa condizionò le ulteriori elaborazioni con il suo originario orientamento, che era abbastanza diffuso fra i fascisti, e fu sempre presente anche negli anni seguenti. Ci riferiamo all’attivismo e al pragmatismo del primo fascismo, il cui aspetto più notevole è appunto l’antiideologia:
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Le pregiudiziali - affermava Mussolini - sono maglie di ferro o di stagnola. Non abbiamo la pregiudiziale repubblicana, non quella monarchica; non abbiamo la pregiudiziale cattolica o anticattolica, socialista o antisocialista. Siamo dei problemisti, degli attualisti, dei realizzatori che si raccolgono intorno ai postulati di un programma comune!6
Una antiideologia, quella fascista, che rispecchiava le concezioni del pensiero irrazionalista, antiintellettualista e pragmatista degli ultimi decenni, il discredito delle ideologie razionaliste messe a confronto, in una realtà nuova in continuo mutamento, con la prova della guerra, con problemi e necessità imprevedibili, che apparivano insolubili se affrontati con una concezione organica, sistematica, definita o definitiva, e teoricamente preordinata, della realtà storica. I Fasci di combattimento nascevano come un’espressione politica della crisi delle ideologie razionaliste e storici-ste, animata dallo spirito di rivolta contro l’ordine esistente delle nuove generazioni, e si presentavano con i caratteri di un idealismo morale aristocratico e di un pragmatismo anarchicheggiante, accentuando l’esaltazione della giovinezza istintiva e piena di spirito vitale, aggressiva, ambiziosa, «pura», decisa a dar battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di tradizionale buon senso7, rifiutando ogni disciplina - pratica o teorica - come limitazione dell’energia giovanile entro regole rigide ed invecchiate, entro le quali si pretendeva di far svolgere, con prudente calcolo e gretto egoismo, la vita sociale e politica. I Fasci nascevano anche come antipartito, in dispregio ai partiti ed alle organizzazioni tradizionali che facevano della disciplina un metodo di coercizione della libertà individuale, un postulato dell’organizzazione. Al contrario, Mussolini affermava: 247
Per noi non esiste un concetto della disciplina, che sia eterno, etereo, immutabile, assoluto e valido per tutti i luoghi, i tempi e le circostanze. Ci rifiutiamo di considerare la disciplina e l’indisciplina sotto la specie dell’eternità. La storia del genere umano - anche la leggenda è «una» storia! - è cominciata con un atto di indisciplina: quello di Adamo […]. Tutta la storia del Risorgimento italiano e tutta la storia del mondo è un’alterna vicenda di discipline che si compongono e di discipline che si spezzano […]. Insomma, questi concetti di disciplina e di indisciplina sono relativi e devono essere valutati a seconda delle circostanze e a seconda delle conseguenze, buone o nefaste che possano essere. Niente apriorismi, dunque, il che sarebbe squisitamente antifascista, ma esame freddo della realtà nel presente e delle sue possibili proiezioni nel futuro8.
Fin dalle iniziali dichiarazioni assiomatiche sul carattere e gli scopi del nuovo movimento, essere fascista non significava aderire ad una dottrina o accettare un programma d’azione sulla base di convinzioni razionali, bensì manifestare la propria esuberanza giovanile, dare una valutazione dei singoli momenti dell’esistenza con spirito istintivo, irrazionale, avido di esperienze e insofferente di limitazioni, giurando la propria fedeltà solo all’idolo della nazione. Fascisti, si potrebbe dire, lo si era naturalmente, come ad un certo punto della propria vita si è giovani9: Tutta la nostra energia - aveva scritto Bottai ancor prima della guerra10 - à ora da avere un solo fine: il bene de la nazione […]. Bisogna porre questa pietra angolare del nostro giovanile edifizio: «Noi miriamo al bene de la nazione». Ma per carità - e per il bene stesso cui tendiamo - non si facciano né proposizioni, né discussioni, né polemiche di partiti. Siamo una schiera gagliarda, ch’à del sangue ne le vene e de la brutale sincerità su le labbra, per aver tanto da andare innanzi da noi. Non v’è quindi bisogno, che si ricorra alle carceri di un partito. La nostra à da essere una falange robusta, sfacciata, temeraria, folle di entusiasmo e di libero pensiero, e non una chiesuola limitata, misurata, pavida di eccedere e di esagerare. Il partito non si attaglia all’anima giovanile. Il partito è una forma fissa, con
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le sue norme e le sue regole, è un sistema ideale fatto reale, è qualcosa che incanala ed obbliga il pensiero per certi determinati cammini, e non avanti, avanti […]. L’idea dev’essere in esso sempre quella. Sempre lo stesso il colore. Il vessillo invariabile e stabile l’inno. Giovinezza è tutt’altra cosa. È cambiare ogni giorno pensiero e fantasia, è avere una tendenza oggi ed una domani, è suggere da tutti i fiori, è correre, ascendere, arrampicarsi dovunque, dove ci sia da muoversi, da gridare, da agitarsi, da entusiasmarsi. La gioventù che s’inquadra nel partito sia esso conservatore o rivoluzionario - è una cosa miseranda. Diviene vecchia, comincia a darsi delle arie, sostiene sempre lo stesso principio - pur quando più non la persuada -, si consuma in litigi ridicoli, in definizioni vane, annichilisce la propria irrequietezza ed il proprio furore ne la monomania balogia dei politicastri. Il partito è la negazione della giovinezza.
Senza negare efficacia alla funzione dei partiti, Bottai riteneva che il partito non fosse adatto «a la multiforme anima giovanile» e fosse piuttosto il portato dell’età matura, quando si spegne il desiderio delle nuove esperienze e si approda, dopo tanto vagabondare, a una meta sicura. Ma i giovani non dovevano sacrificare ad una idea fissa ed unica la loro disponibilità entusiasta alle scoperte dell’esperienza, cessando d’amare ogni novità con sincerità e con passione: E questo è bello. In ciò è l’incanto de la nostra età: in questo delirio fantastico, in questa febbre visionaria. La nostra mente s’immilla: tutti i pensieri penetra, tutte le ideologie ama, tutti gli ideali le sembrano degni di lei. Si concede per un po’, a tutte le correnti più varie, più disparate, più antitetiche. A volta a volta siamo seguaci di ogni fede […]. Non possiamo quindi entrare in un partito. Per farlo dovremmo - e molti pur troppo lo sanno! - guarire la nostra febbre, ove risiede la nostra più grande speranza […]. Niente partiti, dunque, ma idee, idee, idee, che servano a migliorare noi per il bene de la nazione […]. Per far ciò è inutile il partito. Tendere al bene de la nazione, non è far questione di repubblica o di monarchia, di socialismo o di anarchia: è un migliorare noi, perché un giorno possiamo serenamente eleggerci la più consentanea forma di reggimento politico.
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Mutuato dal futurismo, il mito della giovinezza divenne per i fascisti quasi la premessa, la condizione necessaria e indispensabile del loro essere fascisti, militanti di un movimento che non si proponeva di durare per sempre. Mussolini considerava il fascismo un fenomeno transitorio, un movimento passeggero e non permanente nella lotta politica. Egli assumeva atteggiamenti da individualista e, consolandosi per le scarse fortune politiche di quegli anni, lanciava il suo incitamento all’anarchia, auspicando l’avvento d’una vita futurista in perpetuo movimento: «Io vagheggio un popolo paganeggiante che ami la vita, la lotta, il progresso, senza credere ciecamente nelle verità rivelate, che disprezzi - anzi - i farmachi miracolosi». Unica realtà era l’individuo, e la manifestazione della sua intelligenza, del suo istinto, della sua volontà di potenza11. Questi sentimenti, questo stato d’animo erano comuni fra i giovani reduci, convinti di essere il sale della nuova Italia, tornati dalla guerra senza un orientamento preciso e tuttavia certi di non trovare in nessuna ideologia o partito tradizionale, proprio perché tali, la risposta alla loro «inquietudine neurastenica», per dirla col. Salvemini12, alle loro aspirazioni e al desiderio di affermarsi come nuovi protagonisti della vita politica e sociale. L’unica loro certezza era la necessità di cambiare tutto, anche se ignoravano come e con quali mezzi e verso quali obiettivi attuare il cambiamento. Molti giovani divennero fascisti perché erano anticonservatori ed armarono le squadre antisocialiste convinti di combattere un’organizzazione che, pur proclamandosi rivoluzionaria, in realtà esercitava, secondo loro, una funzione «reazionaria», mirante soltanto a 250
conservare il potere di pochi professionisti della politica sulla massa del proletariato13. Per questi giovani non v’era altra via per uscire dalla crisi del dopoguerra che un mutamento radicale: «In fondo si tratta di capire quando è venuto il momento di cambiare […]. L’essenziale consiste proprio ed unicamente nel fatto più esteriore: cambiare»14. L’attivismo e l’esaltazione della giovinezza nascevano, oltre che da un naturale desiderio d’azione, dalla mancanza d’una fede ben salda e dallo smarrimento delle coscienze dopo l’esperienza della guerra. I giovani raccolti nei primi Fasci di combattimento erano «degli sperduti alla ricerca di una strada», confesserà più tardi lo stesso Mussolini rievocando quegli anni15: Poteva indicarla il mio «Popolo d’Italia»? Io stesso non osavo confessarlo a me medesimo […]. Quel pragmatismo che Papini aveva scaraventato nella zona mediana tra il positivo e l’ideale non soddisfaceva più la nostra solitudine di condannati all’individualismo […]. Il realismo che succede ad ogni alluvione mi aprì gli occhi.
Mussolini ostentava in quel tempo il suo tipico anticonformismo da iconoclasta, da eretico di tutte le dottrine, proclamandosi «un individualista che non cerca compagni nel suo cammino»16, ma andava avanti col suo «vecchio cuore di avventuriero di tutte le strade»17. Come ha notato Angelo Tasca, questo linguaggio suggestivo non mancava di lusingare l’anarchismo latente nel popolo italiano e soprattutto nella borghesia media: ufficiali smobilitati e malcontenti, studenti che si sentono a disagio sui banchi dell’università, bottegai in lotta contro le imposte, «declassati» di tutte le specie che vogliono «qualcosa di nuovo», assicurano al fascismo nascente un alone indispensabile di non conformismo e di eresia18.
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La gioventù intellettuale, aderente al futurismo e all’arditismo oppure reduce dalla milizia in movimenti sovversivi di sinistra, era ben disponibile per accogliere l’appello mussoliniano ad una convergenza temporanea, per un’organizzazione di tipo nuovo che doveva essere animata dalla nuova mentalità realistica, attivista, spregiudicata. Ai reduci dalla vita militare non potevano non piacere i Fasci, nati appunto non come «un’organizzazione di propaganda, ma di combattimento»19, i quali tendevano non a fare proseliti con un’opera persuasiva di propaganda, ma ad agire senza il vincolo di programmi immutabili. I Fasci eran presentati, nella «vasta democrazia della civiltà», come «l’aristocrazia del coraggio. Libertari, sono per necessità antidemagogici. Spregiudicati, sanno andare contro corrente. F una associazione di uomini che possono provenire da tutti gli orizzonti perché si “ritrovano” in alcune identità». Libero da legami con altri partiti, affermava Mussolini, il fascismo non doveva esser classificato come movimento di destra o di sinistra, perché era al di fuori di queste distinzioni, perché si rivolgeva a destra e a sinistra a seconda delle circostanze e delle opportunità, perché era un movimento aderente alla vita ed alla realtà, senza princìpi astratti che richiedano una fedeltà dogmatica. In mancanza d’una prospettiva futura chiaramente delineata, il fascismo offriva ai giovani che avevan fatto la guerra o erano cresciuti con essa una «sublimazione» della loro esperienza e del loro stato d’animo, raccogliendoli in una forma d’organizzazione in cui c’era posto per tutti i ribelli e i contestatori del sistema politico esistente, purché eretici animati dallo stesso 252
spirito libertario, che rifiutavano di conformarsi alla disciplina di partito e di lasciarsi irretire nelle formule dogmatiche delle ideologie dominanti, di destra o di sinistra: È un po’ difficile definire i fascisti - ammetteva Mussolini20 -. Essi non sono repubblicani, socialisti, democratici, conservatori, nazionalisti. Essi rappresentano la sintesi di tutte le negazioni e di tutte le affermazioni. Nei Fasci si danno spontaneamente convegno tutti coloro che soffrono il disagio delle vecchie categorie, delle vecchie mentalità. Il fascismo, mentre rinnega tutti i partiti, li completa. Nel fascismo che non ha statuti, che non ha programmi trascendenti, c’è quel di più di libertà e di autonomia che manca nelle organizzazioni rigidamente inquadrate e tesserate.
L‘antiideologia del primo fascismo era, in fondo, l’unico possibile atteggiamento mentale per chi, convinto del fallimento di tutte le ideologie esistenti, e pur scettico sulla possibilità di definire teoricamente la complessità della vita sociale, era comunque smanioso di agire. L’atteggiamento antiideologico del fascismo nasceva dal rifiuto consapevole di qualsiasi teoria razionalista che imponesse scelte e obiettivi a lunga scadenza sulla base di una visione predordinata del corso storico, obbligando al sacrificio delle occasioni che la realtà offriva, per un’astratta fedeltà ai princìpi. Questo atteggiamento può esser considerato tipicamente fascista, nel senso che, fra i moderni fenomeni politici, il fascismo fu il primo che lo adottò, lo esaltò e lo diffuse: ma non può esser ritenuto esclusivamente fascista, dato che esso appartiene, in realtà, alle caratteristiche della politica di massa del nostro tempo, e lo si può riscontrare nella cultura e nella prassi di vari movimenti politici contemporanei21. E un atteggiamento caratterizzato, in un primo momento, da un attivismo negativo, rivolto a combattere contro il nemico politico sul campo del puro 253
rapporto di forze, per ottener la sua distruzione, piuttosto che a contrastarlo con una diversa concezione della vita, in un confronto-scontro dialettico secondo i canoni della politica tradizionale. Ed è perciò un atteggiamento sostanzialmente antiliberale, oltre che antirazionalista, giustificando il valore pragmatico della forza come argomento giustificativo della validità di un movimento politico, atteggiamento conseguente alla crisi delle ideologie derivate da una concezione storicistica e razionale della storia e della società. L’attivismo negativo, nel caso del fascismo, aveva alle sue spalle l’effetto traumatizzante di un «grande evento», di fronte al quale le ideologie razionaliste, che avevano dominato la politica dell’Ottocento, avevano mostrato la loro impotenza a determinare e a controllare gli eventi: Certo - affermava Mussolini22 -, il castello incantato delle ideologie sbocciate accanto alla guerra, ha ricevuto fieri colpi dalla realtà. Ma questo è umano ed eterno. La stessa ideologia socialista, cade sotto l’impero di questa necessità […] La delusione non fa che accendere la lampada di una nuova illusione. Sono i miraggi degli orizzonti lontani quelli che danno la forza di camminare verso l’irraggiungibile meta.
L’accettazione d’una ideologia, che non fosse derivata dall’esperienza della lotta politica d’ogni giorno, e continuamente sottomessa alla verifica d’una realtà cangiante in un periodo di profondi e subitanei mutamenti, era considerata dai fascisti come un peso ed una costrizione perché avrebbe tolto ad un nuovo movimento, che in questa mutevole realtà vuol operare, non solo la necessaria elasticità di azione, ma avrebbe anche limitato la sua possibilità di attirare nelle proprie file vasti strati di 254
masse, socialmente eterogenee, scontente o deluse dai partiti e dalle ideologie tradizionali, fossero di destra o di sinistra. In effetti, proprio la mancanza d’una ideologia definita e l’ostentazione dell’anticonformismo suscitò intorno al fascismo il consenso di molti intellettuali delusi da altre dottrine, soddisfacendo il loro spirito attivistico e critico, e la loro versatilità, dando una veste dignitosa, e comunque «ideologica», alle loro inquietudini e frustrazioni, con una spiccata nota di spregiudicata modernità. In questo senso, si può condividere la definizione di Missiroli, secondo il quale il fascismo fu «una conseguenza della crisi della cultura». La conferma più esplicita a questa affermazione viene dall’influenza che il futurismo - cioè il più coerente e a suo modo organico movimento modernistico anticulturale e antiideologico - ebbe nella formazione dell’ideologia e della mentalità del fascismo nascente e dello stesso Mussolini23. Inoltre, nelle enunciazioni «teoriche» di questo fascismo antiideologico si possono riscontrare altri due caratteri contrastanti, che pure diverranno componenti essenziali dell’ideologia fascista, cioè il realismo e l’idealismo: da una parte, troviamo un idealismo che esaltava il primato dello spirito sulla materia, la vita, il gesto l’ardimento, l’individualismo, le forze irrazionali, la capacità di sacrificio e di dedizione all’ideale nazionale; dall’altra parte troviamo invece un realismo professato come superiore e più moderno atteggiamento politico, nutrito di un machiavelliano senso politico, ma che degenerava fino a diventare semplice opportunismo, adeguamento quasi quotidiano ai mutamenti delle situazioni, alle circostanze, con tutti i compromessi che esse richiedono24. Pur professando una fede incondizionata nella nazione, i 255
fascisti, qualunque fossero le loro scuole di provenienza e le loro differenze o divergenze, ritenevano che lasciarsi avvincere dalla coerenza d’una dottrina, fosse anche quella elaborata dal nazionalismo, voleva dire chiudersi davanti al futuro, sacrificare le possibilità imprevedibili della storia ad un dogma astratto, ed essere così condannati all’insuccesso di fronte alle improvvisazioni della storia - come, secondo loro, era accaduto al partito socialista. Di conseguenza, per i fascisti la tattica assumeva molto spesso un valore quasi assoluto mentre i grandi disegni ideologici erano considerati un inutile bagaglio di princìpi o di pregiudizi se non erano adattati, con realistico senso delle circostanze, alla varietà delle situazioni, degli eventi, degli uomini, mutati o abbandonati, se necessario, per seguire il ritmo della realtà: «Il “caso per caso” è essenzialmente fascista», affermò Mussolini25. La politica era considerata, secondo il più elementare e modesto machiavellismo, «l’arte di cogliere l’attimo che fugge, per determinare delle situazioni favorevoli al raggiungimento di dati obiettivi»26. Il Mussolini fascista aveva abbondantemente stemperato il suo «rigorismo» rivoluzionario in un realismo empirico e tempista, per il quale non tardò a trovare sostegno ideologico in teorie filosofiche e scientifiche del tempo, che ancor più lo convinsero sullo scarso valore delle idee in politica, se non erano idee intese e rappresentate come miti animatori per l’azione. Il suo sviluppo ideologico in questa nuova direzione, tuttavia, non era soltanto frutto d’un calcolato adattamento alle situazioni nuove. L’intera esperienza politica di Mussolini, nel periodo fra l’espulsione dal partito socialista e la fine della guerra, aveva agito come un potente dissolvente: progressivamente, aveva 256
corroso le sue convinzioni e la sua coerenza ed intransigenza di socialista rivoluzionario, che aveva tentato di attuare una revisione ideologica del socialismo in senso rivoluzionario. Il fallimento di questo tentativo aveva lasciato venire in luce, soprattutto durante la guerra, tratti, presenti in nuce anche nel periodo socialista, di scetticismo e di sostanziale mancanza d’una intima certezza morale nelle proprie idee, che lo portarono a celebrare, come virtù fondamentale del politico, il relativismo dell’azione e il disprezzo per la coerenza ideologica. Nel corso di questa esperienza, che certamente incise in modo profondo e indelebile non soltanto sulla sua cultura, ma sulla sua psicologia politica, Mussolini s’era venuto sempre più convincendo, osservando la straordinaria rapidità di mutamento delle situazioni e la facilità con cui si bruciavano le ideologie al contatto con una realtà estremamente mobile, che l’unico, realistico e veramente politico atteggiamento di fronte alla realtà fosse un possibilismo attendista e vigile verso tutte le direzioni, cauto ed incline al compromesso anche nella azione rivoluzionaria, senza, per questo, perdere di vista o abbandonare del tutto alcune mète lontane, la conquista delle quali a Mussolini non pareva affatto preclusa, ma anzi facilitata, da un simile realismo. In questa prospettiva, la vita politica appariva al Mussolini fascista come una pura manifestazione della volontà di potenza dell’egoismo umano dell’individuo dominatore e delle masse dominate, materia bruta, duttile e sfuggente, che poteva essere però modellata dall’artista dell’uomo, il politico, per creare nuove forme di organizzazione, un nuovo Stato, una nuova civiltà e un nuovo tipo di carattere. L’accostamento della politica 257
all’arte plastica era particolarmente caro a Mussolini. Il suo termine di confronto era l’opera di Lenin, che Mussolini interpretava secondo questa concezione artisticomachiavelliana della politica, come arte di dar forma alla materia umana. Particolarmente significativo è, a questo proposito, un articolo del 1920 dedicato all’esperienza bolscevica e intitolato L’artefice e la materia21, importante per comprendere sia l’idea che Mussolini andava facendosi dello Stato, sia la sua concezione della politica come arte di «modellare» le masse. Secondo Mussolini, l’esperienza bolscevica, al di sotto delle maschere ideologiche che incantavano i socialisti italiani convinti di trovare a Mosca il nuovo verbo per il risanamento di tutti i mali del mondo e per la rigenerazione della società, era soprattutto un fenomeno di «reazione» alla crisi dell’autorità, era un grande esperimento politico di creazione d’un nuovo Stato ad opera d’un grande politico-artista: Un borghese fuoruscito dalle nazioni democratiche dell’occidente, dove lo Stato attraversa la crisi paurosa della sua «autorità», appena si presenta alle soglie della Russia che cosa vede? Uno Stato che ha superato la sua crisi d’autorità. Uno Stato nell’espressione più concreta della parola. Uno Stato, cioè un Governo, composto di uomini che esercitano il potere, imponendo ai singoli e ai gruppi una disciplina di ferro, facendo, quando occorre, della «reazione».
Al confronto con l’occidente, travagliato da una profonda crisi di autorità, da un continuo discredito dello Stato divenuto «una “nozione” filosofica elastica ed evanescente», senza confini precisi, esautorato dei suoi poteri fondamentali per l’esercizio della sovranità, l’esperienza russa era una dimostrazione di realismo politico, di riaffermazione della volontà di sovranità dello Stato, che 258
altro non è se non la volontà di potenza d’una nuova gerarchia, anzi d’una singola volontà: C’è, in molti degli Stati democratici, all’ora attuale, un continuo urto fra autorità vecchie e nuove; una interferenza o coesistenza di poteri contraddittori. Ceci tuera cela. Nella Russia di Lenin, invece, non c’è che un’autorità: la sua. Non c’è che una libertà: la sua. Non c’è che una legge: la sua. O piegarsi o perire. Il pittoresco caos politico occidentale lassù si è geometrizzato in una espressione lineare che ha un nome solo: Lenin. Niente, dunque, crisi dell’autorità statale in Russia: ma uno Stato superstato, uno Stato che assorbe e schiaccia l’individuo e regola tutta la vita. Si capisce che i zelatori dello Stato «forte», o prussiano, o pugno di ferro, trovano lassù realizzato il loro ideale. Per mantenere in piena efficienza l’autorità dello Stato, non ci vogliono discorsi, o manifesti, o lacrimogene invocazioni: ci vuole la forza armata. Lo Stato più potentemente armato, per l’interno e per l’estero, che ci sia attualmente nel mondo, è precisamente la Russia. L’esercito dei Soviets è formidabile e quanto alla polizia non ha nulla da invidiare a ll’Ocrana dei tempi dei Romanoff. Chi dice Stato, dice necessariamente esercito, polizia, magistratura, burocrazia. Lo Stato russo è lo Stato per eccellenza e si capisce che avendo statizzato la vita economica nelle sue innumerevoli manifestazioni, si sia formato un mostruoso esercito di burocrati. Alla base di questa piramide, sulla cui vetta sta un pugno di uomini, c’è la moltitudine, il proletariato, il quale, come nei vecchi regimi borghesi, obbedisce, lavora, mangia poco e si fa massacrare. Dittatura del proletariato? In questa credono ancora i soci dei circoli vinicoli nelle serate di «bevuta». In Russia esiste, sì, una dittatura del proletariato, ma non esercitata dai proletari, bensì […] esercitata dal partito comunista. Il quale partito comunista, se conta […] appena settecentomila membri, rappresenta un’infima minoranza sul totale della popolazione. In realtà sono pochi uomini di questo partito che governano la Russia. La loro repubblica, con «assoluto e illimitato potere», è una vera e propria autocrazia [il corsivo è nostro].
Senza voler sollecitare più del lecito questo testo mussoliniano, è possibile rilevare in esso alcuni elementi 259
fondamentali per intravedere la nuova concezione mussoliniana, quella che resterà più saldamente in lui negli anni del fascismo, nonostante il professato antidogmatismo, come principio orientativo e giustificativo della sua azione: si tratta di una embrionale ideologia dello Stato, concepito come organizzazione che non ammette nel suo ambito, entro i confini della sua sovranità, alcuna interferenza, alcun potere che possa, in qualsiasi modo, condizionare o contestare l’autorità dello Stato, espressione della volontà di pochi, o di uno solo, che si impone alle masse e le modella secondo il proprio modello di vita collettiva e di carattere umano. In un certo senso, la nuova concezione politica di Mussolini fascista è il risultato d’una interpretazione machiavellico-paretiana dell’esperienza bolscevica, su cui certamente influì la suggestione che la figura di Lenin, come rivoluzionario creatore di un nuovo Stato, esercitò su Mussolini. Di Lenin Mussolini parlò sempre con tono d’ammirazione, anche se considerava comunque fallita, dal punto di vista dell’ideologia bolscevica, la sua «opera d’arte»: Quella di Lenin è una vasta, terribile esperienza in corpore vili. Lenin è un artista che ha lavorato gli uomini, come altri artisti lavorano il marmo e i metalli. Ma gli uomini sono più duri del macigno e meno malleabili del ferro. Il capolavoro non c’è. L’artista ha fallito. Il compito era superiore alle sue forze.
La concezione mussoliniana dello Stato non era, tuttavia, ancora maturata nel ‘19: anzi, almeno fino alla fine del ’20 Mussolini manifestò un gran disprezzo per lo Stato autoritario e monopolista, criticando l’invadenza dello Stato 260
nella società e nell’economia, presentandosi come assertore d’un liberismo che sfiorava l’anarchia28. In realtà, in mancanza d’una via ben chiara da seguire, nell’immediato dopoguerra Mussolini si muoveva con molta cautela, senza lasciarsi mai trascinare dalle sue espressioni rivoluzionarie ad un’azione conforme, senza abbandonarsi ad effettivi estremismi pratici, come avrebbero voluto i suoi compagni futuristi e dannunziani. Questo atteggiamento mussoliniano, che influì non poco sull’orientamento generale del fascismo in questo periodo di incertezze, fu messo bene in risalto da Piero Gorgolini, nel suo informe libro II fascismo nella vita italiana, che fu la prima «sistemazione» ideologica del fascismo. Mussolini, scriveva Gorgolini29, possedeva «in alto grado il senso della misura»: Mussolini sa che la virtù più pregiata è la prudenza e che il senso del limite […] mai può essere impunemente sorpassato. Conosce pure a perfezione che l’uscir fuori dai confini della propria possibilità e l’intraprendere o superare più di quanto si può legittimamente credere di conseguire, è stolido e vano: e si tiene pertanto lontano da ogni imprudenza […]. Mussolini è il politico del limite e della misura.
Molto probabilmente, l’orientamento fondamentale del Mussolini fascista, in questi anni, era conseguenza di un’innata incapacità a conservare una salda fede in un’idea trascendente il suo realismo, incapacità che, del resto, lo stesso Mussolini si compiaceva allora di ostentare, atteggiandosi a uomo moderno che aderiva senza pregiudizi al rapido e mutevole divenire della realtà, attento a non lasciarsi irretire da pregiudiziali teoriche o dal feticismo della coerenza ideologica. Ma non è neppure da escludere che questa riduzione della fotta politica a semplice 261
contrasto di forze, in cui contava soprattutto la capacità di saper fare un attento esame delle situazioni nel foro continuo mutarsi, di saper soppesare le varie circostanze e, all’occasione, di saper tessere un compromesso fra le possibili soluzioni, per non precludersi alcuna via al successo, fosse anche espressione pratica d’una concezione della vita, che abbiam visto affiorare già nel Mussolini socialista rivoluzionario e che, più apertamente e senza remore, si manifesta ora nel Mussolini fascista: la concezione, cioè, secondo la quale la vita è movimento e mutamento continuo, lotta senza tregua per la supremazia, continua conferma della fragilità delle grandi ideologie di fronte alle svolte impreviste della storia, e del primato dell’azione di fronte alla caducità di valori e istituzioni che non sanno adeguarsi al ritmo accelerato della vita moderna, perché, in sostanza, niente «è eterno nell’universo: non un regime politico, non una costituzione economica, non un sistema di idee. Tutto si forma, si trasforma, muore, rinasce, con perpetua vicenda nei secoli e nei millenni»30. L’impronta antipregiudizialista e relativista data da Mussolini al primo fascismo derivava dalla convinzione della caducità d’ogni sistema di valori di fronte all’irreversibile divenire della storia, per cui appariva inutile battersi fino alla morte per idee alle quali, a priori, si negava verità e validità assoluta, perché di assoluto non vi era nulla: tutte le idee, a seconda delle circostanze, potevano essere egualmente utili ed efficaci, avere, cioè, conseguenze pratiche, se adattate opportunamente alle necessità della propria volontà di potenza. Perciò, fin dalle origini, il fascismo fu contrario ad ogni forma di idealismo umanitario e di internazionalismo pacifista, concependo la vita come 262
perpetuo e insopprimibile conflitto fra popoli, fra gruppi e individui. L’umanità pacificata, per l’eraclitismo mussoliniano, era un’astrazione dell’ingenua fede nella bontà, nella fratellanza, nella solidarietà degli uomini che non teneva conto della realtà dei limiti e delle differenze nazionali né dei loro appetiti, desideri, ambizioni; un’astrazione continuamente smentita dalla realtà: La lotta è l’origine di tutte le cose perché è la vita tutta piena di contrasti: c’è l’amore e l’odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così31.
La lotta, per Mussolini, era la legge necessaria per il cammino dell’umanità verso forme sempre nuove di civiltà. Era illusione credere di poter arrestare questo incessante movimento, appagare l’irrequietezza fondamentale della natura umana. La pace assoluta era un assurdo: C’è qualcosa che lega l’uomo al suo destino, che è quello di lottare o contro i suoi simili o contro se stesso. I motivi della lotta possono cambiare all’infinito, - possono essere economici, religiosi, politici, sentimentali - ma la leggenda di Abele e Caino sembra essere la realtà cui non si sfugge, mentre la «fratellanza» è una favola, che gli uomini ascoltano durante il bivacco o la sosta. Si parla di umanità, di internazionale. C’è una dottrina, ci sono degli uomini che si illudono di tradurre nei fatti questa «umanità»; e credono che, un giorno, i millecinquecento milioni di individui formicolanti sul nostro pianeta si sentiranno tutti «fratelli»; e c’è chi spinge la sua ingenuità sino al punto di creare una lingua universale comune a tutte le genti. Queste illusioni sono altamente rispettabili. Non fosse altro perché c’è stato qualcuno che le ha santificate col martirio. Ma, nell’attesa del prodigio, gli uomini continuano a parlare ognuno la propria lingua come singoli o come popoli e quella fraternità che dovrebbe essere realizzata fra bianchi e neri e gialli, tra razze divise, diverse e lontane, non è possibile fra gli uomini di una stessa nazione, di una stessa regione, nati e vissuti all’ombra di uno stesso campanile e, per di più […] credenti gli uni e gli altri nel
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verbo dell’«umanità» e dell’amore universale52.
Nell’ambito di questa concezione eraclitea della vita si svilupparono le tendenze più salienti dell’ideologia fascista in questo primo periodo, il nazionalismo e l’antibolscevismo. 2. Nazionalismo fascista Pur affermando il proprio carattere di movimento privo di pregiudizi, senza dogmi né sistemi teorici, con assoluta libertà di azione e di orientamenti, il fascismo «sansepolcrista» sospendeva la sua spregiudicatezza e il suo relativismo di fronte a due princìpi ritenuti indiscutibili, il primato della nazione e la lotta ad oltranza contro il bolscevismo. Sul primo principio Mussolini era categorico: Ciò che sta come una verità tangibile e intangibile - e che si vuole negare appunto perché esiste - è la nazione, la quale già avverte i fremiti di una vita nuova che sta per esplodere in una grandezza che solo il genio italiano sa concepire e realizzare in una conquista dell’umanità33.
Fin dal 1918, abbozzando le linee del suo prossimo programma di azione per una convergenza di tutte le forze dell’interventismo, Mussolini aveva dichiarato che il presupposto fondamentale da cui questa azione avrebbe dovuto prender le mosse era la difesa della vittoria, la riaffermazione delle ragioni dell’intervento e dei diritti dell’Italia, e la incondizionata accettazione del principio della nazione come valore supremo, anche al di sopra delle distinzioni di classe, perché, affermava Mussolini, la nazione «contiene la classe di tutte le classi, mentre la classe 264
non contiene affatto la nazione»34. Il fascismo si annunciava fin dalle primissime origini con una esplicita dichiarazione anticlassista, allontanandosi in parte - e poi, come vedremo, del tutto - dall’ideologia del sindacalismo nazionalrivoluzionario, di cui pure accettava il programma sociale; e nasceva, pur senza negare ancora la realtà delle classi, con una forte intonazione nazionalista, ma di un nazionalismo che si presentava per spirito, per temi e per caratteristiche diverso da quello autoritario e da quello imperialista, mentre era più affine al nazionalismo arditofuturista. Più che derivazione dottrinaria o formulazione ideologica, il nazionalismo fascista era la manifestazione d’uno stato d’animo, un esasperato sentimento di italianità acceso o rinvigorito dalla guerra, anche se sostenuto da riferimenti ad una ricca letteratura politica, contraria a dottrine ed a politiche di ispirazione pacifista o rinunciataria, che parevano negare il valore supremo della nazione, ed attentare alla sua immancabile grandezza. Mussolini era esplicito nel voler differenziare l’atteggiamento fascista da quello proprio dell’Associazione nazionalista: Questo equivoco fra nazionalismo e fascismo - sorto in taluni centri - deve cessare. I nazionalisti, come tutti i buoni partitanti legati a un sistema mentale rigidamente immutabile, biascicano le giaculatorie strategiche del 1914 (i socialisti quelle economistiche), come se da allora ad oggi niente di cambiato ci fosse nel mondo. Inoltre, il nazionalismo romano è imperialista, mentre noi siamo espansionisti; è pregiudizialmente monarchico, anzi dinastico, mentre noi al di sopra della monarchia e della dinastia mettiamo la nazione35.
L’espansionismo fascista non si prefiggeva allora un programma di guerre e di conquiste coloniali, ma sosteneva la necessaria ed inevitabile diffusione del genio italiano nel 265
mondo, attraverso i commerci, l’emigrazione, la cultura: era un espansionismo che esprimeva i sentimenti d’orgoglio nazionale propri d’una generazione diversa, secondo Mussolini, da quella dell’anteguerra, che godeva nell’«esibire agli stranieri una Italiuzza discreta, modesta, senza pretese, che si contenta di fare l’albergatrice». Era il nazionalismo di una generazione giovane, nuova che, sotto tinte ideologiche di vario colore, ed anche di colore internazionalista, nutriva una forte ed irrazionale passione per l’Italia e per il mito della sua grandezza nella vita del mondo moderno: Noi - parlo di quelli che stanno fra i venti e i trent’anni - siamo degli esasperati di italianità. Noi sentiamo nelle nostre vene, in ciò che in noi vi è di più intimo, il dinamismo dell’Italia. È la guerra che ha rivelato noi a noi stessi. Non andremo troppo oltre, con questi stati d’animo, perché il senso innato dell’equilibrio delle proporzioni ci vieta di scivolare o nelle imitazioni o nella caricatura. Ma questo è il «dato» dell’anima italiana36.
A Mussolini non sfuggiva, certamente, l’utilità di far uso d’un certo linguaggio, per far appello a sentimenti di orgoglio nazionale, che forse egli stesso sinceramente nutriva, e comprese, sia per convinzione personale che per demagogia, quanto fosse importante, in un momento di crisi morale e di animi disorientati, agitare davanti ai giovani reduci il mito della nazione, alimentando così il nazionalismo che covava nell’animo dei combattenti, specialmente nella massa dei reduci piccolo borghesi, maggiormente sensibili, per la loro formazione e la loro mentalità, all’appello degli ideali patriottici, in cui si identificavano. Senza molta originalità di idee rispetto ad altri movimenti ed organizzazioni combattentiste e della 266
stessa sinistra interventista rivoluzionaria (ma privo del fervore mazziniano che animava il nazionalismo di quest’ultima), il fascismo si fece subito portavoce di due princìpi, fra di loro considerati complementari nella prospettiva dell’azione politica fascista, cioè la grandezza della nazione e il rinnovamento sociale. Con questi capisaldi ideologici, il fascismo si mosse con estrema disinvoltura nella precaria situazione politica postbellica. L’adesione incondizionata al principio della nazione era quasi inevitabile. Si può dire, infatti, che il fascismo scelse come sua idea centrale la nazione perché, dopo aver demolito tutte le verità teoriche in nome d’uno spregiudicato realismo, non ne restavano altre su cui basare la propria azione a difesa dell’interventismo e della guerra. Poiché nessuna ideologia era considerata eterna, e poiché le ideologie dei partiti della sinistra rivoluzionaria, opponendosi alla guerra, si erano dimostrate incapaci di aderire alle situazioni della storia, allora come fondamento per una nuova politica adeguata alla realtà nuova prodotta dalla guerra restavano solo gli stati d’animo e gli ideali che la guerra stessa aveva generato, i sentimenti e le esperienze vissute nella vita di trincea, le aspirazioni al cambiamento e al miglioramento, che erano divenuti patrimonio comune di molti reduci, ai quali bisognava dare un mito in cui potessero identificarsi, in modo da trasformarli in una massa attiva, da utilizzare politicamente. La nazione, per i fascisti, era un sentimento che diventava mito, più che un’idea teorica. L’ideologia nazionalista che il fascismo propose non era una concezione sistematica ed organica, ma era piuttosto la proiezione, la «sublimazione» degli stati d’animo dei reduci, che, nel caso del 267
combattentismo della piccola e media borghesia, diveniva anche aspirazione ad affermare la propria presenza politica come ceto dirigente. L’affermazione del primato della nazione, per i fascisti, era soprattutto una orgogliosa ed ambiziosa rivendicazione della propria esperienza di guerra, come titolo di particolare privilegio che essi rivendicavano nei confronti della massa degli altri cittadini che alla guerra non avevano partecipato o vi avevano preso parte senza coscienza. Per Mussolini, la difesa dell’idea nazionale era ragione principale per giustificare e ribadire la validità della scelta interventista, perché, come disse agli operai di Dalmine in sciopero, non si poteva negare la nazione «dopo che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si nega, poiché essa è un gloriosa, una vittoriosa realtà»37. La nazione, quindi, per i fascisti era una «realtà» più psicologica che storica (e nient’affatto razziale, almeno in senso esplicito), concepita come una continua esperienza di solidarietà collettiva, al di sopra delle differenze sociali, quale s’era manifestata nella lotta di un popolo armato contro altri popoli, e che, proprio in questa lotta, aveva acquistato coscienza di se stesso, scoprendo valori, ideali, tradizioni e aspirazioni comuni. L’esaltazione della nazione, come l’intendevano i fascisti del 19 - prima di essere meglio definita per il contributo ideologico, da una parte, del nazionalismo e, dall’altra, dell’idealismo gentiliano -, aveva il carattere sentimentale e popolaresco dell’orgoglio patriottico, rivestito da tutti i motivi retorici consueti in questo tipo di patriottismo, e soprattutto propri dell’italianismo: dal mito della romanità alla fede negli 268
«immancabili destini» della Terza Italia, nella sua missione civilizzatrice verso l’Africa mediterranea, nel suo primato intellettuale, che scrittori e poeti-vati, da Foscolo a Oriani, avevano cantato. Anche l’idea dell’imperialismo, in ambiente fascista durante questa prima fase, ha caratteristiche diverse da quello del movimento nazionalista. Per il fascismo, come si è già accennato, l’espansione verso il mondo era una naturale conseguenza della vitalità della nuova Italia. Se l’imperialismo era aspirazione dei popoli sani, giovani, creatori, come affermava Mussolini, questa aspirazione non doveva necessariamente realizzarsi solo attraverso la conquista territoriale. L’imperialismo italiano doveva tendere all’affermazione d’un primato spirituale dell’Italia nel mondo, senza fare un ricorso programmatico alla guerra come unico mezzo d’espansione. L’imperialismo, per il fascismo, si distingueva a seconda dei mezzi che adoperava ma questi mezzi non sarebbero stati mai «di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi»58. Mussolini addirittura negava l’esistenza di un imperialismo italiano39: pur dichiarando la diffidenza del fascismo verso l’internazionalismo di tipo societario e l’opposizione a quello di tipo socialista, egli si mostrava propenso ad una politica estera di pace e di equilibrio, perché, affermava, solo «un pazzo o un criminale può pensare a scatenare nuove guerre che non siano imposte da una improvvisa aggressione»40. Lo stesso problema dell’imperialismo coloniale, secondo i fascisti, si poneva in termini nuovi dopo la guerra, perché questa aveva provocato diverse incrinature nel sistema imperialistico ottocentesco, inteso come strumento intemazionale di subordinazione politica ed 269
economica di interi continenti da parte di alcune potenze. Di conseguenza, essi ritenevano plausibile ipotizzare eventi e situazioni che avrebbero favorito nuove forme di espansione, sovvertendo magari le tradizionali sfere di egemonia, facendo sorgere nuove forme di rapporti di gerarchia fra i popoli, non più basati solo sulla sopraffazione. Tale era l’idea di Bottai, secondo il quale il nuovo imperialismo italiano non avrebbe avuto la caratteristica di quello anglosassone «cinico», «sanguinario», «ladronesco» e «antilibertario», ma avrebbe avuto l’impronta civilizzatrice e benefattrice che era propria del genio italiano: Gettarsi pel mondo con una decisa volontà di bene, significa valorizzare, ovunque, le proprie qualità di razza, non con mire sopraffattrici, ma, anzi, in rapporto alle peculiari doti dei vari popoli. Significa regalare al mondo, solcato dalle varie sensibilità in contrasto, una sensibilità ricca, varia, duttile, geniale come la sensibilità italiana. Non c’è popolo veramente ed intimamente civile (voglio dire non solo nello sviluppo delle sue industrie che costituisce progresso e non civiltà), che abbia il diritto di esimersi da questo oceanico travaglio di razze; gl’individui debbono tributo di sé, intiero e devoto, alla propria patria; i vari popoli debbono sentire la propria subordinazione spirituale a qualcosa che si realizza in un ordine sovrastante. Una politica coloniale come questa vuol dire liberazione. E così audace che si risolve in un anticolonialismo vero e proprio, in rapporto agli attuali sistemi di colonizzazione e di espansione. Significando cooperazione intima, morale e intellettuale coi popoli, un’espansione del genere di quella da noi disegnata non può che essere rivoluzionaria, antimperialista, e, data l’attuale dislocazione coloniale, antinglese, ferocemente e disperatamente antinglese41.
Tuttavia, se si può rilevare qualche minima originalità o novità di temi e di accenti nel nazionalismo e nell’imperialismo fascista, nel periodo delle origini, rispetto ad altre teorizzazioni di imperialismo nazionalista, scarsa è l’importanza attribuita dai fascisti alla definizione più 270
articolata di un programma di politica estera. In effetti, in questo periodo, il fascismo non ebbe come preoccupazione principale il problema dell’espansione e della conquista coloniale. Su questo argomento, la sua ideologia, dopo una prima fase di sporadiche dichiarazioni di tutela dei legittimi interessi mediterranei e coloniali dell’Italia, venne elaborandosi, negli anni immediatamente successivi, soprattutto come ideologia d’un nuovo assetto interno dello Stato, anche se condita con continui quanto generici appelli alla grandezza della nazione nel mondo e al mito dell’impero. L’imperialismo, come programma di conquiste territoriali, non fu, almeno fino agli anni Trenta, un elemento essenziale dell’ideologia fascista; non lo fu, al punto da lasciar venire in luce, in talune correnti del fascismo ideologicamente più fantasioso o audace, la prospettiva di una «internazionale fascista», in cui il concetto stesso di nazione, come organismo autonomo in espansione, sarebbe stato definitivamente superato. L’espansionismo propugnato dai fascisti, in questo periodo, era soltanto un generico impulso all’intensificazione della presenza dinamica dell’Italia nel mondo, con appelli dannunziano-futuristi ad armare la prora per salpare verso lidi lontani. Navigare necesse est: «Che l’Italia di domani debba “navigare”, va diventando verità acquisita alla coscienza italiana: non la croce vorremmo vedere sullo stemma nazionale, ma un’ancora o una vela. È assurdo non gettarsi sulle vie del mare, quando il mare ci circonda da tre parti»42. 3. Antibolscevismo fascista L’altro tema centrale dell’ideologia fascista-mussoliniana 271
delle origini fu l’avversione al bolscevismo: bolscevico, affermava un settimanale futurista, era qualsiasi nemico dell’Italia: bolscevico era chi voleva una dittatura comunista dei soviet e perciò operava contro la nazione, sminuiva il valore della vittoria e la grandezza della patria; chi rifiutava la gerarchia delle competenze, i diritti del genio; chi «dei facenti parte di ogni potere costituito non s’ispira alla libertà e non la rispetta negli altri»; «chi alle masse evolute contende la sanzione delle aspirazioni politico-socialieconomiche atta a dar loro quella indipendenza di giudizio e di movimento affermativo della propria volontà per un più degno domani»; e, infine, bolscevico era soprattutto «chi non vede nel lavoro ininterrotto e nelle industrie in superproduzione la sola, l’unica forza viva redentrice d’Italia»11. Ora, il partito socialista riassumeva, nel giudizio dei fascisti, tutte le caratteristiche del «bolscevismo». Di conseguenza, gran parte della lotta politica dei primi Fasci, sui giornali e nelle strade, si svolse contro il partito socialista al punto che si è potuto giustamente affermare che l’atteggiamento fascista, in questo periodo, era «strettamente dipendente dall’indirizzo, dagli intenti, dalle lotte del partito socialista, avversario che il fascismo non lascia mai, mai abbandona o cessa dallo studiare scrupolosamente»44. I motivi principali della polemica antisocialista, abbastanza noti, riguardavano soprattutto la posizione del partito socialista verso il problema nazionale, il movimento dei lavoratori, il mito della rivoluzione russa. Non si condannava soltanto la politica del partito, ma anche la sua ideologia, in nome di valori «spirituali» aristocratici, individualisti e libertari. Verso il partito socialista 272
il fascismo, osservò un giovane intellettuale fascista, ribadiva «la preminenza assoluta dei valori spirituali; l’esigenza della gerarchia; condannava l’idolatria delle masse e negava il valore di ogni concezione “economica” dei problemi centrali della società»45. Motivi, questi, che erano, in gran parte, di origine sindacalista. Il partito socialista veniva accusato d’essere una oligarchia di professionisti della politica, borghesi e piccolo borghesi, che pretendevano subordinare la massa alle loro velleità politiche mostrandosi suoi adoratori e lusingatori, assicurandosi, con una propaganda demagogica e rovinosa per tutta la collettività, il monopolio della rappresentanza della classe lavoratrice. Visti in questa prospettiva, i dirigenti socialisti erano considerati dei parassiti della classe lavoratrice, dogmatici e rivoluzionari a parole, ignoranti dei problemi concreti della società italiana, e comunque proclivi ad eccitare le masse immature ed «ubriache» (il termine era tipico di Mussolini), facendo balenare davanti alla loro fantasia il mito della rivoluzione massimalista. Il fascismo opponeva all’egualitarismo socialista un’ideologia «aristocratica» che, pur riconoscendo alle masse il diritto di ascendere socialmente, negava loro la capacità tecnica e la maturità politica per poter assumere la direzione dello Stato e del sistema industriale di un paese moderno. Mussolini conduceva la sua polemica antisocialista con moduli retorici che già conosciamo: l’esaltazione della qualità contro la quantità, la valorizzazione delle minoranze di «spiriti liberi», privi di dogmi e sempre aderenti al divenire dei processi complessi della realtà moderna in continua trasformazione. Ma il motivo principale della polemica rimaneva la questione della nazione. Mussolini 273
infatti batteva soprattutto sulla rivendicazione, per sé e per i suoi, del diritto di esercitare un monopolio del sentimento nazionale, cercando di polarizzare intorno a sé e al suo giornale le simpatie del movimento combattentista, per convogliarlo nella lotta antisocialista, agitando la catastrofica minaccia del «pericolo bolscevico». Lo svolgimento della rivoluzione russa fra guerra civile, terrorismo, anarchismo e autoritarismo; la condotta del nuovo potere bolscevico, alle prese con gravi difficoltà economiche e politiche; il vario e contrastante atteggiamento del movimento socialista italiano, di cui Mussolini rilevava, talora con acuto senso politico, le difficoltà, le contraddizioni e le debolezze; l’incapacità dei dirigenti massimalisti di proporre obiettivi concreti alla mobilitazione del proletariato: tutti questi fatti non potevano non convincere Mussolini, sempre più, della bontà della sua scelta del T4, e spingerlo ad insistere nella difesa di quella scelta, presentandola come la sola, autentica azione rivoluzionaria del momento, indipendente da qualsiasi ideologizzazione dogmatica della rivoluzione stessa. L’idea di «rivoluzione», che Mussolini ora sosteneva, non aveva più nulla a che vedere con la concezione socialista della conquista violenta del potere e l’abbattimento del sistema economico borghese attraverso la dittatura del proletariato. Egli era più propenso a considerare la rivoluzione come processo complesso che non si determinava attraverso atti insurrezionali, che erano soltanto episodi del fenomeno rivoluzionario. Il fascismo, affermava Mussolini, respingeva la concezione catastrofica della rivoluzione come bagno di sangue, come sovversione distruttiva alla maniera russa. Alla concezione 274
socialista, che prevedeva una crisi irreversibile del capitalismo e l’imminenza d’uno scontro frontale fra la borghesia e il proletariato, il fascismo contrapponeva la constatazione della solidità della struttura capitalista che, dopo la prova della guerra, invece di avviarsi al declino, appariva ancor più rafforzata. Era illusione pensare che l’economia capitalista sarebbe stata abbattuta in uno scontro frontale con la rivoluzione proletaria. Le vicende della rivoluzione bolscevica, affermava Mussolini, dimostravano che Lenin aveva fallito nella realizzazione d’una società socialista, mentre l’unico concreto risultato della rivoluzione era stato la costituzione d’un nuovo regime autoritario, fondato sul capitalismo di Stato. In questo periodo, fu cura assidua e costante di Mussolini presentare nel suo giornale le voci provenienti dalla Russia che riportavano notizie sugli insuccessi, le contraddizioni, gli sbandamenti, e gli orrori della politica interna sovietica, mentre, in contrasto con ciò, egli accentuò in modo esplicito le sue simpatie per il capitalismo, come una struttura economica della società moderna che non doveva essere abbattuta, ma sviluppata nel suo dinamismo produttivo e inserita, attraverso il sindacalismo nazionale, nel processo di instaurazione d’un nuovo ordine sociale nello Stato nuovo dei produttori. Andava così configurandosi, in forme sempre più chiaramente delineate, l’idea di una «rivoluzione fascista», che avrebbe avuto carattere politico più che economico. Tale rivoluzione, per i fascisti, era un processo già in atto, avviato dalla scelta interventista, proseguito con la guerra, attraverso la guerra e per gli effetti che la guerra aveva avuto, assestando duri colpi alla stabilità dell’ordine liberale, 275
modificando radicalmente la posizione e il confronto fra le forze in campo, e i termini stessi della lotta politica e sociale, spostando il centro della lotta dai conflitti di classe a conflitti essenzialmente politici, che avevano per posta essenzialmente la conquista del potere e la trasformazione del regime politico. L’idea fascista della rivoluzione negava che ci fosse ancora una contrapposizione fatale e insormontabile fra borghesia e proletariato, perché l’interventismo e la guerra avevano rimescolato le carte, e avevano dato origine a forze nuove, e a nuove divisioni e schieramenti di forze, che perseguivano fini rivoluzionari, che non erano definiti in termini esclusivamente o principalmente economici, ma in termini ideali e politici, e che si richiamavano innanzi tutto all’interventismo e all’esperienza della guerra, come fasi successive del processo di attuazione di una originale «rivoluzione italiana», di cui il fascismo stesso era presentato da Mussolini come espressione e artefice insieme. Se «rivoluzione» significava accelerazione rapida dell’evoluzione sociale e politica, osservava Mussolini, allora bisognava riconoscere che l’Italia viveva da sei anni in una situazione rivoluzionaria, cioè dal momento dell’intervento, ma questa situazione rivoluzionaria non poteva esser interpretata secondo gli schemi marxistici come antagonismo fra proletariato e borghesia. La «rivoluzione italiana» non era borghese o proletaria: Trascende questa nomenclatura. È la rivoluzione di una parte della nazione contro un’altra parte. Dall’una e dall’altra parte della barricata stanno mischiati insieme borghesi e proletari. Ciò che li accomuna o li divide, è qualche cosa che sta al di sopra degli interessi della classe o delle ideologie dei vecchi partiti. È la guerra.
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L’episodio odierno della «nostra» rivoluzione - noi abbiamo l’audacia di tentarla, i pussisti si preparano a sfruttarla e s’illudono bestialmente - mette di fronte due razze di italiani, due mentalità, due anime di italiani, due tipi di italiani: quelli che hanno fatto la guerra e quelli che non l’hanno fatta […]. La guerra ha diviso gli uomini ben più che gli interessi o gli ideali. La nazione che ha fatto la guerra ha istinti, tendenze, passioni, speranze che sono ignote all’altra nazione che non ha fatto la guerra46.
Esaltando l’originalità della «rivoluzione fascista», Mussolini voleva respingere dal fascismo l’accusa di essere uno strumento armato e diretto dalla reazione, e a smentita di ciò citava le preoccupazioni e i timori della stampa borghese di fronte a certe manifestazioni di rivolta contro lo Stato, come la spedizione dannunziana a Fiume, considerandoli attentati al potere costituito in cui la borghesia liberale si riconosceva. Ma la «rivoluzione fascista», precisava Mussolini, non sarebbe stata una sovversione radicale dell’ordine economico borghese. Essa avrebbe accolto le istanze socialmente più avanzate del movimento sindacalista, ma non sarebbe stata una rivoluzione sociale di massa ad opera delle masse, perché il fascismo non credeva nella capacità del proletariato ad assumere direttamente la guida dello Stato e dell’economia industriale. La classe operaia, la massa lavoratrice, il proletariato erano, secondo Mussolini, realtà storiche che non potevano essere negate o respinte di nuovo ai margini dello Stato o, addirittura, ricacciate fuori dello Stato, attuando il disegno di una chiara politica reazionaria, perché solo «un criminale o un inintelligente può odiare la classe operaia, cioè la classe di coloro che guadagnano la vita lavorando onestamente colle braccia nei campi e nelle officine»11. Mussolini si rivolgeva alla massa di «quelli che lavoravano colle braccia» con toni 277
prevalentemente paternalistici, considerandola ancora politicamente immatura, e priva dei requisiti e delle competenze necessarie per conquistare e reggere uno Stato moderno. Era una massa che doveva essere organizzata, disciplinata, soddisfatta nelle sue esigenze economiche, aiutata ed educata nel suo desiderio di ascesa e di progresso, ma anche frenata e repressa nelle sue manifestazioni violente che potevano danneggiare l’interesse della nazione. A queste masse, Mussolini negava, come aveva sempre fatto del resto anche nel periodo della militanza socialista, la capacità di pervenire, in quanto massa, ad una propria autocoscienza per diventare, attraverso sue organizzazioni, la nuova forza realizzatrice della democrazia del lavoro. Per Mussolini la massa era essenzialmente numero; era folla, nel senso definito da Le Bon, priva d’una propria coscienza responsabile, e facilmente inclina all’anarchismo se abbandonata a se stessa. Di fronte alle agitazioni del biennio rosso, Mussolini plaudiva a talune iniziative di rivendicazione economica delle organizzazioni sindacali, ma guardava sempre con sospetto e con disprezzo i moti di massa. A suo giudizio, queste agitazioni erano mal condotte, per i contrasti o la «sudditanza» della Confederazione generale del lavoro al partito socialista, che, con la sua propaganda massimalista, aveva creato nelle masse un tale stato di agitazione, di cui era possibile prevedere gli esiti, che volgevano verso un disordinato e pericoloso stato di ribellismo anarchico: Nella contingenza attuale gli anarchici hanno buon giuoco: dite a degli italiani di non pagare e non vi mancherà il successo. Noi seguiamo con molta attenzione, ma senza compiacimento, lo svolgersi di questa tragi-comica finale. Le
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masse operaie offrono uno spettacolo pietoso: vanno da destra a sinistra e viceversa; si afferrano alluna o all’altra illusione; cercano ogni futile rampino a scopo di scioperismo; ma è evidente ormai che questo ballo epilettico sboccherà nel caos e, conseguentemente, nella più dura reazione48.
Nel fluido ed eterogeneo movimento fascista del periodo ‘19-20, la posizione intransigentemente antisocialista di Mussolini non era accettata in modo unanime, e non mancarono, specialmente fra i fascisti futuristi, voci discordanti dalla sua in merito all’atteggiamento che il movimento fascista doveva avere nei confronti del partito socialista, pur senza sulla cedere sulla pregiudiziale del nazionalismo interventista. Molto significativa fu, a questo proposito, la polemica che si svolse sulle pagine di «Roma Futurista» a proposito di una possibile intesa fra socialisti e vari esponenti del radicalismo combattentista. Vi era, per alcuni di questi, un possibile terreno comune su cui agire, un comune obiettivo verso il quale far convergere gli sforzi rivoluzionari dei futuristi, dei fascisti e degli arditi con l’azione dei socialisti ufficiali, dei riformisti, dei repubblicani, dei sindacalisti, con tutti coloro insomma che eran contrari alla conservazione del vecchio regime liberale: combattere l’ordine esistente per promuovere un profondo rinnovamento della vita sociale. Su questo terreno e per questo obiettivo, propose nel luglio 1919 Mario Carli, perché non tentare una collaborazione fra i partiti d’avanguardia?49 Secondo Carli, non vi erano profonde ragioni di dissidio fra partiti, che avevano il comune obiettivo di spodestare le classi dirigenti: «noi siamo libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubblicani più accesi». Secondo Carli, l’unico ostacolo da superare, per realizzare 279
questa, in verità piuttosto promiscua, unione di forze sovversive era il pregiudiziale atteggiamento ostile dei socialisti verso gli interventisti perché i socialisti non capivano che «noi, pur amando fieramente l’Italia, non abbiamo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari e codini e clericali». Se si fossero convinti della sincerità rivoluzionaria e popolare del radicalismo combattentista, i socialisti avrebbero certamente teso la mano per «spezzare tutte le servitù che ancora ci sovrastano». Dopo aver collaborato per spodestare la vecchia classe dirigente, potevano tornare a lottare e a scontrarsi per proseguire l’opera di rinnovamento del paese. Per Carli, insomma, bisognava persuadere i socialisti che anche i futuristi, gli arditi e i fascisti lottavano per imporre al paese un nuovo regime di parità fra le classi sociali, cercando anche di convincerli che il principio nazionale non era necessariamente in contrasto con le aspirazioni sociali più avanzate. Come potevano i socialisti non riconoscere la «nostra profonda simpatia per il popolo, si chiami combattente o si chiami operaio e riconoscere che la nostra azione tende, quanto e più forse della loro, ad equiparare le classi sociali?». L’articolo di Carli è un documento della confusione e dell’incertezza che regnavano nel mondo combattentista, ma esso aveva tuttavia una sua precisa giustificazione nell’ambito del futurismo politico, che non era pregiudizialmente ostile ad una politica radicalmente popolare. La sua proposta, tuttavia, non suscitò entusiasmo da parte di Mussolini e di altri arditi-futuristi, per i quali l’opposizione verso il partito socialista non era dovuta a incomprensione, come voleva Carli, ma si fondava su una 280
insormontabile antitesi di idee e su una divergenza insuperabile di prospettive politiche. Un secco rifiuto fu infatti la risposta immediata di Mussolini all’articolo di Carli: un rifiuto motivato con l’affermazione che il partito socialista era, in realtà, un partito «reazionario» e non di avanguardia, nel senso che, secondo Mussolini, rimasto ancorato a posizioni ideologiche che la guerra aveva ormai fatto crollare, perché continuava ad essere antipatriottico e internazionalista, e perché perseguiva l’ideale di una rivoluzione bolscevica antiitaliana, che avrebbe portato l’Italia alla rovina. Con siffatto partito, nessuna azione comune era possibile in vista del rinnovamento della nazione. Del resto, spiegava Mussolini, non si trattava di discutere su reazione o rivoluzione in astratto, perché questi termini avevano significato soltanto in relazione ad una determinata politica nazionale o antinazionale: a proposito di reazione o di rivoluzione, io ho una bussola che mi guida: Tutto ciò che può rendere grande il popolo italiano, mi trova favorevole e viceversa - tutto ciò che tende ad abbassare, ad abbrutire, ad impoverire il popolo italiano mi trova contrario. Ora, il socialismo pussista rientra nella seconda categoria. Io trovo strano che il mio amico Carli, fondatore della Associazione nazionale degli arditi e valorosissimo combattente, metta tra i partiti d’avanguardia il partito socialista, tempestandolo con una serie di perché, come ha fatto nell’ultimo numero di «Roma Futurista». Nego al partito pussista l’appellativo di avanguardista. Nego l’utilità e l’opportunità di una qualsiasi collaborazione con quel partito. Affermo che un partito reazionario nel 1914, 15, 16, 17 e 18 non può essere diventato rivoluzionario nel 1919. Affermo che queste serenate ai socialisti sono inutili; che questo strofinarsi al partito pussista è poco pulito. Un giorno, nel momento culminante della storia umana, essi sposarono la causa della reazione rappresentata dalla Germania degli Hohenzollern e di Sudekum. D’altronde è pericoloso e idiota blandire i socialisti ufficiali; non ci si riconcilia con quella
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gente. Ci sono stati di quelli che si sono attaccati al movimento odierno, ma i socialisti hanno sdegnosamente respinto questo appoggio poiché sono dei megalomani ed hanno, fra l’altro, la fatua vanità dello splendido isolamento50.
Una risposta, insomma, del tutto scontata da parte di Mussolini, che non era disposto a concedere al partito socialista la qualifica di partito rivoluzionario, nel senso che egli ora attribuiva a questo termine, basandosi sull’identificazione fra «rivoluzione italiana» e interventismo. Le sue obiezioni non entravano minimamente in discussioni di principio, escludendo del tutto la possibilità di concordanze ideologiche fra i partiti cosiddetti di avanguardia. Mussolini si limitava a ribadire le ragioni pratiche dell’antagonismo insormontabile, dovuto esclusivamente al neutralismo del partito socialista e al suo rifiuto di riconoscere il valore della guerra, da cui derivava l’impossibilità di conciliare i «reietti» e gli «eletti» della nazione; né bastava, a superare tale antagonismo, la mera constatazione che vi era una comune avversione per l’ordine esistente e le classi dirigenti. Ma non tutti i fascisti concordavano col secco rifiuto mussoliniano. Nell’ambito del futurismo politico, per esempio, tale rifiuto non appariva del tutto, data anche la spregiudicatezza con cui il suo organo, «Roma Futurista», era disposto ad accogliere le proposte più audaci, o, se si vuole, più strampalate, dato che non destava alcuna meraviglia «se in prima pagina si trovan cose che fanno a pugni con quelle della terza»51. Per il carattere in sé contraddittorio del futurismo politico, che cercava di conciliare l’esaltazione del genio e l’aristocrazia dell’intelletto con l’eguaglianza sociale, le reazioni alla proposta di Carli furono essenzialmente di due tipi: vi furon 282
quelle che concordavano, sottolineando la necessità per il futurismo politico di mantenere, con la sua spregiudicatezza, un carattere socialmente rivoluzionario, di sinistra, senza mai rinunciare a pretendere, prima di qualsiasi altra cosa, l’attuazione del radicale programma di riforme sociali a favore dell’emancipazione del proletariato; e vi furono quelle che, invece, insistevano sull’antitesi ideologica fra l’idea futurista e quella socialista, sulle opposte finalità dei due movimenti, sul culto dell’individualismo anarchico-aristocratico che rimaneva al fondo della visione futurista della politica. Questa duplice reazione tenne però viva la polemica sulla proposta di Carli, fra l’agosto e il dicembre del 19, polemica che non portò, almeno direttamente, a conseguenze pratiche significative, ma fu, in un certo senso, il banco di prova della volontà rivoluzionaria del futurismo e dello stesso fascismo. Sulla discussione influì certamente anche la sconfitta elettorale riportata dai Fasci di combattimento nelle elezioni del novembre del ‘19, segno dell’inconsistenza della politica fascista a causa del suo continuo ondeggiare fra posizioni contrastanti. Del tutto ostile all’ipotesi di collaborazione fu Giuseppe Bottai52. Non era possibile in alcuna circostanza, a suo avviso, una qualche forma di intesa fra futurismo e socialismo, perché l’antitesi era all’origine e nella natura stessa dei due movimenti. Il futurismo era sorto come espressione della genialità italiana, individualista, diseguale, audace, realistica; era sorto affermando il primato dei valori spirituali e perciò la necessità delle diseguaglianze come espressione delle diverse qualità del popolo italiano, considerato nella sua molteplice esistenza, nella varietà delle 283
sue caratteristiche provinciali. Vi era quasi un’antitesi «di razza» fra futurismo e socialismo, fra una ideologia che esprimeva lo spirito della stirpe italiana nei suoi difetti e in tutte le sue qualità, e il socialismo che era ideologia straniera inconciliabile col carattere italiano. Secondo Bottai, il socialismo «non nasce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci»; era un’utopia astratta che profetizzava l’avvento d’una società materialista ed egualitaria, contro la quale il futurismo era insorto per affermare il valore inesauribile della vita, dell’esperienza, della varietà del genio individuale. Niente poteva conciliare il mito socialista dell’uguaglianza con la natura aristocratica del futurismo, sia pure d’una aristocrazia dell’intelletto e non dei beni o del sangue: Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza. Diseguaglianza di valori, che bisogna esaltare, lievitare, mantenere ad ogni costo. Un piano uguale di esistenza, una distribuzione armonica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi -ma su questo livellamento di condizioni materiali l’esplicarsi diverso, individualissimo, delle singole capacità. Il socialismo, pretendendo distruggere la molteplicità innata di un popolo, non può, in via logica che discendere dalla nazione alla città, dalla città alla famiglia, dalla famiglia all’individuo, e quindi alla creazione di tanti individui identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo, ch’è la forma più in voga, non può tradursi, a meno di negarsi, che in un monismo esasperante, monotono e inerte […]. L’Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dall’Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un mondo. Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose come i suoi fiumi, divampanti come i suoi vulcani. Noi non possiamo pensare che tutto ciò si riduca a un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la necessità assoluta di un decentramento, che mantenga, esalti, vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni genialità, ogni attitudine delle singole regioni: l’unità italiana sarà allora una valorizzazione completa di tutta l’Italia.
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Il sistema socialista non poteva esser realizzato in Italia senza distruggere questa varietà della razza italiana, le sue più originali qualità di un multiforme genio creativo. Il futurismo come ideologia nuova esaltava questa varietà, era un sistema di idee che non aveva bisogno, secondo Bottai, di cercare altrove, addirittura in campi avversi, un alleato per affermare le sue idee, col pericolo di confondere l’originalità della sua concezione. Qualsiasi pensiero di collaborazione, per Bottai, era assurdo perché il «futurismo è il mondo più lontano dal socialismo». Le argomentazioni del rifiuto di Bottai, come quelle di Mussolini, erano tanto radicali quanto lontane dal rispondere alla vera questione posta dall’articolo di Carli: quale, cioè, doveva essere l’orientamento politico dei futuristi, degli arditi e dei fascisti nel complesso gioco delle forze politiche rivoluzionarie, reazionarie o conservatrici che lottavano per decidere il futuro del paese. Gli «slanci lirici di amore per la patria e di odio per ogni volgarità», i propositi «entusiastici di libertà, di generosità, di audacia» erano «parole belle e sincere, ma generiche e inconcludenti», obiettava il futurista Mannarese alla dichiarazione di Bottai53. Mannarese prendeva atto del disorientamento ideologico e politico che aveva colpito i futuristi, gli arditi e i fascisti dopo la fine della guerra, disorientamento dovuto al venir meno di valide ragioni per la lotta politica, perché, una volta conseguita la vittoria, le ragioni che avevano animato la politica dell’interventismo rivoluzionario parevano scomparse, e al loro posto era rimasto il disordine, la sensazione d’un affannoso annaspare intorno a cose senza sostanza. La prova elettorale alla fine 285
del ‘19 aveva dimostrato quale era lo stato effettivo delle modeste forze raccolte attorno a Marinetti e a Mussolini, del tutto prive - «tranne il fantasma della Costituente» - di obiettivi politici concreti: Conseguita - o quasi - l’unità della patria, altri problemi agitano la vita nazionale; terminata la guerra contro lo straniero, si è riaccesa più violenta, più accanita la lotta di classe. Questa è la realtà dell’oggi: questo è il problema che il futurismo deve affrontare, questa è la questione di fronte a cui deve prendere -nettamente posizione, se vuole avere realmente una funzione sociale. O il futurismo saprà trovare un contenuto economico, o dovrà abbandonare ingloriosamente il campo delle battaglie politiche, per tornare alle origini: arte, e soltanto arte.
Queste obiezioni calzanti ponevano il futurismo di fronte ad una scelta concreta, cercando di farlo uscire dalle belle ma inconcludenti dichiarazioni di principio e dalla sterilità del suo rivoluzionarismo verbale. Con molto realismo, ed una chiara consapevolezza dei problemi essenziali del momento, Mannarese faceva notare che il futuro dell’Italia e la possibilità d’una vera rivoluzione erano legate alla questione sociale, alla soluzione della lotta di classe. Confondere il socialismo col partito socialista o col bolscevismo russo era un errore pericoloso, perché portava su posizioni che erano del tutto anacronistiche o schiettamente conservatrici. Il socialismo non era un partito o un’esperienza politica limitata ad un paese, ma era un fenomeno storico destinato al successo, perché rappresentava il grande moto di ascesa delle classi povere, l’aspirazione ad una vera giustizia sociale. Nonostante le deficienze di coloro che questo movimento guidavano o pretendevano di guidare, non era possibile, 286
secondo Mannarese, porsi contro di esso, senza essere tagliati fuori dal processo storico in atto. Il futurismo, insomma, non aveva alternative fra una politica rivoluzionaria, e perciò necessariamente affine al socialismo, ed una politica reazionaria, che lo avrebbe posto contro il moto storico delle masse popolari. La questione sociale era il problema principale del momento ed era su questo problema che il futurismo giocava le sue fortune di movimento politico: non risolvendo questo problema, superando le proprie contraddizioni interne, il futurismo, concludeva Mannarese, era destinato a concludere con un malinconico ritorno alle Muse la sua breve stagione politica. Con acuto spirito di osservazione, Mannarese in effetti previde lo sbocco che l’estremismo combattentista rivoluzionario avrebbe avuto, se non avesse scelto nettamente, come proprio programma sociale, l’emancipazione delle classi lavoratrici e più povere. E le sue osservazioni, rivolte al futurismo, suonano ancor più profetiche, se si pensa all’evoluzione del fascismo dopo il 1919: Se il futurismo si schiererà nettamente contro il socialismo, contro tutto il socialismo, «sempre e a qualunque costo», non sfuggirà al suo destino, e intanto si troverà dannato inevitabilmente a un’alleanza indissolubile coi conservatori. Il futurismo diverrà un partito d’estrema destra, precisamente come prevedevano i nostri avversari a cui Rocca si ribellava con un suo recente articolo. Partito di estrema destra malgrado le sue aspirazioni repubblicane e la sua audacia novatrice nella morale e nell’arte; partito di estrema destra inesorabilmente. E la violenza del linguaggio, l’entusiasmo degli aderenti, e i propositi dinamitardi non gioverebbero che a spingerlo ancora più a destra: oltre l’estremità dell’estrema destra. Neppure la genialità di Marinetti, o gl’impeti rivoluzionari dei Vecchi, dei
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Bolzon, dei Rocca, potrebbero sottrarre il partito futurista al suo destino paradossale, di divenire il più scalmanato, il più violento conservatore, reazionario fino alla ferocia, passatista fino alla follia. Bisogna che i futuristi si persuadano che la sinistra, l’avanguardia, l’avvenire sono là dove si combatte per le conquiste del lavoro, e che di tutte le conquiste del lavoro il socialismo si è fatto paladino: anche di quelle più ingiuste e più assurde. Pertanto non ci si può mettere contro tutto il socialismo, senza prendere posizione contro tutte le conquiste del lavoro: anche quelle più giuste e più certe: senza passare a destra. lo sono profondamente convinto che Bottai non intendeva dare un valore così estremo e così assoluto alla sua formula; ma appunto per questo occorre precisarla o cambiarla; occorre dire ben alto e ben chiaro che noi non siamo 54. contro il socialismo, ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista
Le contraddizioni e le incertezze del futurismo politico erano comuni anche all’ambiente fascista e, nel complesso, erano diffuse nel mondo del radicalismo combattentista che, privo d’una politica unitaria, e sempre più diviso al suo interno di fronte alla progressiva affermazione del partito socialista, non riuscì a dar vita ad un’organizzazione politica capace di costituire realmente una nuova alternativa fra reazione tradizionale e rivoluzione bolscevica, né seppe aprire quella terza via di cui tutti parlavano, ma che, all’atto pratico, si rivelava irta di difficoltà, di equivoci e di forti «pendenze» tanto verso la sinistra quanto verso la destra. Il fascismo del ‘19, col suo esplicito carattere pragmatista, sembrava non darsi troppo pensiero per queste crisi interne e queste polemiche, sicuro di muoversi sul terreno della realtà, in un ambito politico molto ridotto, sebbene enfaticamente ampliato fino a coinvolgere, nelle proprie fortune, i destini della nazione. La convergenza di correnti eterogenee, tenute salde soltanto dall’ attivismo negativo, era possibile nel primo periodo del dopoguerra, 288
nel clima esaltante e confuso dell’esasperazione patriottica e del «progettismo». Ma, dopo il fallimento del disegno mussoliniano per organizzare unitariamente le forze dell’interventismo e dopo l’epilogo dell’avventura fiumana, che del combattentismo rivoluzionario fu l’espressione più importante e più significativa, la convergenza divenne sempre più precaria, portando al progressivo distacco dal movimento fascista degli elementi più sinceramente, se pure confusamente, rivoluzionari e alla confluenza di altri elementi, con aspirazioni diverse e in situazioni politiche nuove. In tali situazioni, Mussolini agì con grande abilità politica, ma non per attuare i propositi rivoluzionari del fascismo diciannovista, bensì per secondare l’orientamento del nuovo fascismo, del fascismo vero, quello sorto dallo squadrismo agrario dopo l’autunno del ’20, con una grossa ipoteca antipopolare, ma anche con un notevole seguito di massa. Fino a quel momento, il fascismo ondeggiò, nella confusione eterogenea del suo programma e delle sue componenti, fra idealismo e realismo, fra velleità rivoluzionarie e spregiudicati calcoli d’opportunità, per conseguire comunque un qualche successo politico, costruendolo giorno per giorno, senza eccessivi scrupoli né ideologici né strategici, lasciandosi progressivamente alle spalle il ribollente microcosmo del combattentismo rivoluzionario ardito-futurista, che in quel periodo, fra la fine del 1919 e la fine del 1920, ebbe in D’Annunzio, e non in Mussolini, il suo interprete più efficace e il suo duce ideale. 4. Ordine lirico e ordine politico Nel periodo fra il principio del ‘19 e la fine del ’20 il 289
fascismo ebbe un ruolo modestissimo sulla scena politica italiana, anche nell’ambito del mondo combattentista nazionalrivoluzionario, da cui era nato e che ambiva rappresentare e guidare. Centro di attrazione, di coagulazione e di sperimentazione dei fermenti innovatori della mitologia combattentista fu, allora, la Fiume dannunziana. Come riconobbe lo stesso Mussolini, fino all’autunno del ’20 l’azione fascista fu «assorbita quasi completamente dalla questione fiumana»55. Nonostante il suo prestigioso passato di agitatore e giornalista politico di notorietà nazionale, Mussolini era allora una stella di minima grandezza di fronte ad un personaggio come Gabriele D’Annunzio, un duce carismatico che riluceva di più sfolgorante luce agli occhi degli «aristòcrati del combattentismo», che il poeta attrasse attorno a sé, nel «sopramondo» dell’avventura fiumana. L’impresa di Fiume, come è noto, maturò in seguito alle decisioni della Conferenza della pace, che non assegnavano la città all’Italia, come era invece nelle aspirazioni e nelle richieste della destra nazionalista ed anche di alcuni elementi della sinistra interventista, dopo il voto della maggioranza dei fiumani a favore dell’annessione all’Italia. Il 12 settembre 1919 il poeta marciò su Fiume con pochi granatieri e proclamò l’annessione della città all’Italia. Da parte sua, Mussolini dichiarò verbalmente la sua adesione all’impresa e pose se stesso e il fascismo agli ordini del comandante56. Mussolini e D’Annunzio erano destinati ad incontrarsi, nel tentativo comune di aprirsi una strada fra la confusione del dopoguerra, agitando la bandiera della vittoria «mutilata» e con il proposito di «intraprendere come scriveva Mussolini al poeta il 1° gennaio 1919 - da e 290
sul terreno della vittoria una profonda rinnovazione della nostra vita nazionale», per «sbarrare la strada ai sabotatori della guerra - preti temporalisti, giolittiani e social-boches»11. Il dialogo e la collaborazione fra Mussolini e D’Annunzio nacquero, però, sotto il segno dell’equivoco, per dare vita ad incerti piani d’azione, pensati ed attuati con spirito e volontà del tutto diversi58. D’Annunzio e Mussolini avevano in comune il fascino istrionico e demagogico, la capacità di suscitare forti emozioni nella massa dei reduci, sensibili com’erano entrambi alle sue variazioni di umore nei momenti critici, ed abili nel dar corpo alle aspettazioni messianiche degli ex combattenti con l’invenzione di miti ed immagini incitatrici all’azione. Ma i due erano profondamente diversi per psicologia e temperamento politico. D’Annunzio era un poeta, che nella guerra aveva scoperto una nuova fonte d’esperienze, ed un teatro dove esibire il suo esaltato gusto della vita e dell’azione, anche se non sempre, soprattutto durante l’avventura fiumana, egli seppe distinguere nella sua opera i progetti della fantasia dai calcoli della logica politica. Perciò D’Annunzio rimase intimamente estraneo alla realtà ch’egli stesso contribuì a creare e che si illuse di saper controllare ed orientare. Mussolini era invece un politico vero, anche nel senso deteriore della parola, e da politico agiva, con calcolato realismo, attento nel valutare ogni possibile rischio e vantaggio prima di impegnarsi in una nuova impresa, sempre diffidente verso i colpi di mano che non erano preparati «diplomaticamente», e pronto a sacrificare, sull’altare della necessità contingente, le posizioni teoriche alle esigenze dell’azione e del successo. Il poeta e il politico, 291
perciò, vissero l’avventura di Fiume e, nel complesso, la crisi del dopoguerra con spirito diverso, che doveva portarli a percorrere vie divergenti. Le idee politiche di D’Annunzio, durante l’avventura fiumana, erano senza dubbio ispirate da un autentico ed appassionato sentimento patriottico, ma all’azione politica del poeta mancavano realismo e concretezza. D’Annunzio era un suscitatore di emozioni più che un organizzatore di forze, e non aveva la capacità, e forse la volontà, di dedicarsi, con doti opportune, all’attuazione di un organico programma politico, e perciò, molto spesso, le emozioni e le passioni da lui suscitate erano da altri sfruttate in maniera diversa, se non del tutto contraria ai suoi più intimi e sinceri sentimenti. Come osservò bene un suo seguace, D’Annunzio parlava di politica «come un giudice e come un profeta»59, e come tale, in un certo senso, egli stesso si considerava: uomo alieno dalla meschinità delle fazioni umane e dalle questioni quotidiane, giudice imparziale al di sopra delle parti in conflitto, e profeta legato, per segreti canali spirituali, alle sorgenti profonde della religione patriottica di cui si proclamava l’unico e autentico rivelatore. La suggestione che un personaggio come D’Annunzio, «poeta, romanziere, trageda, oratore, cavaliere, fante, marinaro, aeronauta, condottiero, capo di stato, vittorioso sempre, gloriosissimo sempre»60, esercitava sui «gruppuscoli» del rivoluzionarismo combattentista, era senza dubbio molto forte, e la vaghezza delle sue idee politiche, il fascino magico e profeticamente ambiguo della sua retorica politica si prestavano ad essere interpretati in vario modo, a servire da bandiera e da religione o, più prosaicamente, da belletto e da copertura a operazioni 292
politiche nobili e meno nobili, che avevano comunque il loro motore ideale nel pensiero e nell’opera di D’Annunzio. In principio, il gesto di occupare Fiume apparve come un grave atto di insubordinazione compiuto da militari regolari contro le decisioni degli alleati che presidiavano la città, e contro il governo italiano che, secondo il poeta e i suoi seguaci, non aveva saputo far fronte alla prepotenza altrui per sostenere fino in fondo i diritti che la nazione aveva acquisito con la sua vittoria e rispettare la volontà di annessione degli italiani di Fiume. Ma il poeta rivendicava l’atto di ribellione come dovere compiuto verso la nazione, che simbolicamente insorgeva, con l’impresa fiumana, per contrapporre, come D’Annunzio aveva affermato fin dal gennaio 1919 nella sua Lettera ai Dalmati, «le diritte volontà eroiche» alle decisioni di «segreti trattati laboriosi espedienti della fede fiacca e della paura intempestiva»61. Data la particolare temperie del dopoguerra, e per opera del poeta, l’occupazione non restò soltanto come una gravissima prova del basso livello cui era giunta l’autorità dello Stato liberale62, né la questione di Fiume rimase circoscritta nei termini di una rivendicazione territoriale: in breve tempo, l’impresa dannunziana divenne il simbolo dello spirito di rivolta che aveva scosso l’Europa dalla guerra in poi, simbolo in cui si riconobbero le aspirazioni, i sentimenti, gli ideali, i miti, le velleità, le ambizioni delle «aristocrazie del combattentismo». Fiume fu consacrata dal poeta quale massimo santuario dove, per suo tramite, si era rivelata la religione della patria, con le sue tavole di valori, i suoi riti, il suo cerimoniale, i suoi fedeli e i suoi martiri. Dal balcone del palazzo del governo, dinnanzi ad una folla delirante, il poeta annunciò il verbo della nuova 293
fede: Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile Fiume è oggi segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione61.
D’Annunzio animò l’avventura fiumana col suo patriottismo mistico e populista, misto di aspirazioni a rinnovamenti sociali e di culto dell’eroismo fine a se stesso, di passione nazionalistica e di appelli alla crociata dei popoli deboli e schiavi per la loro liberazione contro la prepotenza dell’imperialismo e l’ascesi collettiva dell’Italia e dell’umanità intera verso un universale regno dello Spirito, «ordine lirico» senza confini e senza alcuna servitù. Il nazionalismo dannunziano, nel periodo di Fiume, si atteggia a patriottismo idealistico cosmopolita, perché scevro da appetiti di conquista, non conservatore ma sovversivo del vecchio «ordine politico» perché fondato sull’opposizione manichea, di tipo religioso64, fra la vecchia e la nuova Italia, fra l’Italia vile e materialista del passato e la giovane Italia, nata dalla guerra, eroica, libera, che aspirava alla giustizia ed alla grandezza spirituale. Fiume divenne il simbolo di questo patriottismo rivoluzionario. Come ebbe a dire D’Annunzio, con la sua retorica «religiosa», nell’orazione la Pentecoste d’Italia65, il giorno dell’impresa fiumana era «il giorno dello Spirito e della Fiamma», una solennità che gli italiani dovevano celebrare «con un sacrificio d’amore o con un atto di fervore […] perché la religione della patria non ebbe mai co-mandamento così alto». 294
Man mano che la situazione della città, sotto il comando dannunziano, si complicava all’esterno e all’interno per le difficoltà diplomatiche e la precaria condizione economica, l’impresa annessionista venne tramutandosi, per diversi influssi di uomini e di idee, in atto costitutivo d’un nuovo ordinamento umano, politico e sociale che non si rivolgeva soltanto agli italiani ma a tutti i popoli oppressi dall’imperialismo. Per opera di D’Annunzio e per l’atmosfera di entusiasmo e di eccitazione che egli seppe suscitare ed alimentare attorno a sé durante l’impresa, Fiume fu trasfigurata in una realtà spirituale che abbracciava tutti i popoli del mondo anelanti alla libertà, alla giustizia, alla ricchezza, contro la realtà materiale degli interessi delle potenze dominatrici che detenevano l’impero economico e l’egemonia politica nel mondo. «La causa di Fiume affermò D’Annunzio - non è la causa del suolo: è la causa dell’anima, è la causa dell’immortalità»66. Le idee e la retorica politica di D’Annunzio davano una fascinante espressione ai sentimenti e ai miti del nazionalismo rivoluzionario del combattentismo, anche se, come notava Alceste De Ambris67, il sindacalista rivoluzionario che fu il principale artefice del nuovo ordinamento costituzionale della Reggenza del Carna-ro, non è certo possibile dare una «definizione geometrica» dell’ideologia dannunziana. Non è tuttavia difficile rintracciare, nelle idee politiche di D’Annunzio, alcuni motivi di fondo, una linea di sviluppo che si svolse costantemente, seguendo una propria logica, dal momento dell’interventismo fino al suo ritiro definitivo dalla attività politica, dopo il fallimento dell’impresa fiumana. Certo, l’ideologia dannunziana sfugge ad una 295
concettualizzazione rigorosamente formale né può essere facilmente ricondotta entro il razionalismo ideologico di teorie sistematiche, ma non per questo il fascino e la suggestione emotiva, più che teorica, delle idee politiche del poeta, rimasero prive di efficacia nell’agire concreto. Come affermò De Ambris, i giovani più fedeli al «fiumanesimo» «non tentavano di analizzare D’Annunzio, e molto meno ancora di attribuirgli i loro pensieri o di vincolarlo ai loro interessi: sentivano d’istinto che egli era lo spirito vivo della stirpe e lo seguivano con assoluta fede e con purità di cuore». E fu appunto a Fiume che il poeta segnò, nel quadrante della sua multiforme esistenza, la sua «ora sociale», cioè scoprì o rinnovò taluni temi della sua poetica a sfondo populista, trasformandoti, dopo l’esperienza della guerra, in «teologia» di un nuovo movimento politico a carattere mistico-sociale68. Il poeta aveva accennato questi motivi già prima dell’impresa, nella sua orazione agli aviatori di Centocelle, del 9 luglio 191969. H tono era quello tipico dell’aristocra-tismo combattentista, che si era esaltato nelle azioni di guerra e dalla guerra aveva tratto motivi di orgoglio e di distinzione, elevandosi al di sopra della massa informe dei «vecchi stanchi o ambiziosi tardivi, inesperti degli strumenti nuovi e avversarti del divino istinto, incapaci di comprendere il genio della razza e di secondarlo e di eccitarlo». Questi aristocratici del combattentismo - e fra essi i più «eletti» erano gli aviatori vivevano nell’atmosfera eroica dove i confini fra realtà e sogno erano scomparsi, dove l’audacia, il coraggio, l’eroismo erano atti normali, una quotidiana esibizione di superiorità, segno profetico del futuro che sarebbe toccato alla nuova Italia, una volta sconfitto il suo nemico interno: «C’è oggi 296
un’Italia che vuol vivere dal ventre, che vuol curvare il collo, che vuole imbestiarsi, che vuol pascersi nel chiuso? Ma c’è anche un’Italia che guarda in alto, che mira lontano, che spia i venti del largo, che ama le vie senz’orme e la lontananza senza rifugi». In questa nuova impresa «sovrumana», il poeta disegnava le linee dell’azione futura, per difendere il valore della guerra e i diritti della vittoria, e per affermare il comando delle aristocrazie guerriere, che avrebbero continuato la lotta contro gli imperi che impoverivano i popoli asservendoti alla loro prepotenza. In politica estera, la polemica dannunziana contro le decisioni della Conferenza della pace si estendeva a tutto l’occidente, succubo dell’imperialismo britannico e americano. Da Fiume D’Annunzio, novello alfiere di una crociata antimperialista, lanciava a tutti i popoli oppressi il grido di rivolta contro l’occidente: Liberiamoci dall’occidente che non ci ama e non ci vuole. Volgiamo le spalle all’occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e si disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’occidente degenere che, dimentico d’aver contenuto nel suo nome «lo splendore dello spirito senza tramonto», è divenuto un’immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transadantica. L’Italia che «sola è grande e sola è pura», l’Italia delusa, l’Italia tradita, l’Italia povera si volga di nuovo all’oriente dove fu fisso lo sguardo dei suoi secoli più fieri. Non ode l’appello degli arabi e degli indi oppressi appunto da quei giusti che tengono la nostra Malta e ci strappano la nostra Fiume? Ad appello d’amore risposta d’amore, che non può essere se non alata, cioè spirituale. Le ali secondano oggi il senso vero della vita, che è la bramosia di ascendere per fatica e per dolore alla conquista dello spirito.
Gli stessi princìpi di giustizia che avrebbero dovuto presiedere al riordinamento dell’assetto politico 297
internazionale dovevan ispirare il radicale rinnovamento sociale, che il poeta reclamava per la politica interna della nuova Italia. I temi sociali della poetica e della retorica politica dannunziana avevano per motivo comune il mito del popolo, concepito come unità di stirpe costituita in nazione: popolo lavoratore nei campi e nelle officine, con le braccia e con la mente, sano, forte, puro di spirito, radicato nelle tradizioni della sua terra patria, depositario di virtù genuine ed intatte. L’aristocratico populismo di D’Annunzio, che non era privo d’una sua vena di sincerità, forse animata dalla «disperata volontà di accostarsi al mondo degli uomini»70, trovò nell’esperienza della guerra e nell’impresa fiumana un nuovo fervore nel volgersi, in modi che erano tipicamente dannunziani, all’esaltazione del popolo lavoratore, alla difesa e alla riabilitazione degli oppressi, degli umili e dei poveri, opponendo ideale ad interesse, libertà a potere, massa laboriosa ad oligarchie parassite. Per il poeta, questo popolo aveva raggiunto, attraverso il sacrificio della guerra, la sua identità di nazione ed ora giustamente s’aspettava, dalla sua partecipazione alla guerra, una rigenerazione materiale, attraverso la conquista di un’equa vita sociale, ma, soprattutto, una rigenerazione morale, attraverso la conquista d’una condizione umana liberata dall’abbrutimento di una fatica senza ideale e dalla schiavitù di un potere estraneo ed opprimente. La guerra, portando il poeta al contatto vivo e reale con l’umanità dei combattenti, alimentò la sua credenza nel mito dell’unità mistica della stirpe. Sul Carso, scrisse più tardi, «ebbi la riprova della mia interna verità mistica. Lo spazio tra me e quei miei fratelli fu abolito»71. Ed egli si sentì come il nuovo eroe che dava coscienza e voce all’anima del 298
popolo. Il popolo, nella mitologia dannunziana, è un’unità spirituale che si esprime attraverso gli eroi: «L’eroe non è dunque se non l’apparizione improvvisa d’una forza generatrice che, invisibile ma veggente ferve nella profondità della moltitudine». Il loro rapporto è tale che non vi è frattura fra l’eroe e il popolo, né subordinazione di questo a quello, bensì vi è comunione di spirito e di volontà che, nella retorica politicoreligiosa del poeta, viene paragonata alla comunione eucaristica: «Tutti gli uomini che seguono l’eroe, e gli obbediscono, partecipano dell’eroe. Né questi senza di loro sarebbe»72. Ed è negli eroi generati dal genio della stirpe che il popolo, per quanto possa essere «dismemorato, anche traviato, finisce col riconoscersi […]. La storia degli eroi costituisce la storia della loro gente. Non può questa averne altra»73. Autoproclamatosi nuovo eroe del popolo, D’Annunzio visse la guerra e il dopoguerra considerandosi come il solo, vero ed autentico interprete della comunità popolare che era la patria, colui che dava forma alla volontà del popolo, unico sovrano, e ne profetizzava il destino. Facendosi partecipe del movimento combattentista, accogliendone e moltiplicandone i miti, D’Annunzio lanciò il verbo di questa religione mistico-popolare della patria, affermando che i termini della lotta politica erano determinati dal conflitto fra la volontà sovrana del popolo e dei suoi eroi, da una parte, e dall’altra, le caste politiche, le oligarchie economiche e le false rappresentanze del lavoro, che pretendevano di arrogare a sé l’interpretazione della volontà del popolo. Come scrisse in un articolo dal titolo significativo II comando passa al Popolo11, la guerra rappresentava per D’Annunzio l’avvento d’una schietta democrazia: 299
È necessario che la nuova fede popolare prevalga, con ogni mezzo, contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare forme di vita menomate e dispregiate. Lo spirito di rivolta, fin da quando nacque, ha il privilegio di rimanere sempre puro, sopra ogni mezzo, di là da ogni mezzo. Bisogna rompere e distruggere una buona volta il vecchio intrico degli interessi e dei pregiudizii che non si mantengono se non per appoggio reciproco. C’è, in tutte le cronache della ignominia politica, uno spettacolo più basso e più vano di questa «crisi» che si svolge e si conclude contro lo spirito di giustizia e contro lo spirito di vittoria? Io chiedo, per la mia nausea, un sorso del più aspro vino popolare. Il comando oggi passa al popolo vivente, a quello cui la patria può dire la parola sacra: Voi siete nettati, ma non tutti […]. Avanti, volere d’Italia, bronzo di buona lega popolare! Al passo o al galoppo, arriverai. E se c’è bisogno dello sprone, io son quello. E se ci sarà bisogno di sonar la carica, io la sonerò. E tutto il resto è putredine certa.
L’ideologia dell’impresa fiumana fu caratterizzata da questa «teologia» dannunziana. Data la sua «profetica» indeterminatezza, la retorica politica del poeta consentì la confluenza, nell’esperienza fiumana, di motivi eterogenei che proprio per l’attività del poeta, il quale non aveva un vero e proprio programma politico, poterono affermarsi e trovare sia pure effimeramente, una qualche attuazione. Come notò Gramsci75, le ragioni del successo dell’avventura fiumana furono diverse. Vi era, prima di tutto, l’apoliticità fondamentale del popolo italiano, che, come abbiamo già visto, si manifestò molto chiaramente nel dopoguerra con l’antipartitismo; vi era poi la facilità con cui la piccola borghesia intellettuale subiva il fascino del genio e degli avventurieri. Inoltre, l’avventura fiumana esasperò l’atmosfera del dopoguerra ed elettrizzò ancor più i giovani 300
che con la guerra erano cresciuti o si erano maturati. Lo spirito guerresco, per loro, era come una droga da cui non sapevano liberarsi, che li spingeva a perpetuare la passione del combattimento, il desiderio di eroismo e di protagonismo. C’era, ancora, la repulsione dei giovani ex combattenti a rientrare nella vita quotidiana, dove essi avrebbero perso il loro spregiudicato modo di vivere ardito fuori delle convenzioni, liberi e sprezzanti, ribelli al vecchio ordine che soffocava, con la sua pesante mediocrità, ogni conato di innalzamento morale e di vero progresso umano. Fiume rappresentava per molti la prosecuzione del clima di festa, cioè di sospensione delle regole normali e di annullamento delle dimensioni usuali fra realtà e sogno, fra realismo e idealismo, fra arte e vita, fra letteratura e politica, fra rivoluzione ed avventura. Questa psicologia era già in D’Annunzio che, alla vigilia dell’intervento, aveva affermato: «noi respiriamo non so che ardore di miracolo, dove s’avvicendano in una sorta di balenio la verità e il sogno, la vita attuale e la più lontana favola»76. A Fiume si realizzava l’utopia, in un’aria di prodigio continuo, dove l’entusiasmo era di rigore77. L’antitesi fra vita e sogno, fra la poesia e la realtà, il buon senso e l’immaginazione era stata superata - affermò Mario Carli, accorso a Fiume per trovarvi «il senso della libertà personale, della disciplina spontanea, della supremazia dello spirito»78. A Fiume, per la presenza d’un duce che aveva fuso nella sua opera e nella sua azione quell’antitesi, si viveva nella più totale libertà di spirito. La guerra aveva liberato lo Spirito mortificato da decenni di vita borghese, meschina, materialistica: i legionari, aristocratici del combattentismo, avrebbero liberato il paese dal dominio degli interessi, dal malcostume politico, per 301
ridonare alla nazione una rinnovata unità religiosa, vita magica di perpetuo prodigio e di ardimento. Il mito della giovinezza fu grandemente esaltato a Fiume e il costume fiumano attinse molto dagli arditi e dai futuristi. Era naturale che fra il politico Mussolini e il duce-poeta D’Annunzio le avanguardie del combattentismo scegliessero D’Annunzio. Essi cercavano un capo, e il poeta aveva dimostrato d’essere, con la parola e soprattutto con l’azione, il loro eroe e la loro guida79. D’Annunzio realizzava compiutamente la fusione auspicata dai futuristi e dagli arditi del poeta-guerriero-legislatore-demiurgo. Il poeta aveva osato spezzare le tavole delle vecchie leggi, proclamandosi al di fuori e al di sopra delle istituzioni sterili e delle leggi consuete; attorno a lui si viveva in un’atmosfera superiore, dove poesia e politica, pensiero e azione, arte e vita si confondevano. L’avventura di Fiume era l’annuncio della nuova rivoluzione nazionale, compiuta dai legionari arditi, futuristi, e dannunziani: una rivoluzione dello spirito che avrebbe dato il comando della nuova Italia «alla intelligenza e alla poesia»80. A Fiume si compiva una nuova unità del popolo, dell’individuo e della massa, del capo e della folla, liberati dal meschino gioco degli interessi ed elevati ad un ordine di vita nuova, più ricca, più ardita, tutta protesa verso un ignoto futuro81. E da Fiume doveva partire la marcia che avrebbe rinnovato il paese, per annettere, come affermavano i protagonisti dell’impresa, l’Italia a Fiume: Fra noi - scriveva Mario Carli82 - che siamo provatamente fedeli al migliore fra gli italiani d’oggi, c’è più di uno che ha visto nell’impresa di Fiume, non solo un’opera di giustizia e d’italianità non solo la difesa di una gentile Città martoriata contro un trust di predoni famelici, ma anche e soprattutto il primo apparire in
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Italia di una nuova forma di esistenza, il primo realizzarsi di un sogno di ribellione che attendeva impaziente l’ora e l’occasione di dare un calcio monumentale alle mille tradizioni muffite e a tutto il ciarpame di leggi, di idee e di atteggiamenti sorpassati che tuttora governano la vecchia Italia. Noi siamo oggi gli unici eredi del senso rivoluzionario della guerra, e proclamiamo che la nostra ribellione di fuorusciti è l’unico fatto realmente e italianamente rivoluzionario del dopo guerra […] questo è certo: che se oggi, nell’Italia incagoiata e imbestialita, si vuol trovare qualche traccia dello spirito nuovo, è a Fiume, e solamente a Fiume, che bisogna venire.
Ciò che fece accorrere a Fiume giovani italiani e stranieri, come Giovanni Comisso, Guido Keller, Leone Kochnitzky, Henry Furst, e persino Giuseppe Maranini - temperamento quanto mai alieno dal ribellismo fanatico e fantasioso dei dannunziani83 - era un misto di curiosità, di spirito di avventura, di insofferenza per le regole, di desiderio di «servire una causa nobile» e di realizzare i più puri ideali politici. Ad essi la Fiume dannunziana appariva come un faro di luce nelle tenebre dell’occidente, un faro che proiettava il suo raggio luminoso verso un avvenire diverso da quello che gli spiriti mercantili e prepotenti degli imperialismi occidentali volevano imporre all’Italia e al mondo84. A Fiume non si poteva vivere una vita normale: bisognava vivere in modo fantastico, nell’esistenza quotidiana come nell’azione politica85. Si era isolati in un mondo ostile, ma Fiume era isolata perché rappresentava il simbolo della rivolta contro tutte le ingiustizie che dominavano il mondo. I dannunziani fiumani ignoravano verso quali mete si sarebbe rivolta l’impresa, quale sarebbe stato l’esito di un’avventura così esaltante ed eccezionale, ma tutti giuravano fede al poeta-duce: «Sopra di noi sta Gabriele d’Annunzio che ci guida - affermava Kochnitzky86 -. Sopra Gabriele d’Annunzio, l’ignoto e il destino che lo 303
sospinge». Quel che appariva soprattutto attraente ed esaltante, per i giovani che si fecero coinvolgere nell’avventura di Fiume, era l’estraneità del fenomeno dannunziano-fiumano rispetto alle tradizionali categorie politiche: i legionari provenivano da tutti i partiti e credevano di esprimere nella loro politica disordinata e confusa, frenetica ed originale, un prodotto politico nuovo che emergeva al di sopra della materia ormai inerte delle vecchie ideologie, attraverso l’incandescente processo dissolutore della guerra e il fermento creativo dell’esperienza fiumana: Fiume - continuava Kochnitzky - è un magico crogiolo nel quale la materia in fusione ribolle. Verrà colato il metallo più puro? Fiume è una nebulosa in cui le genesi nuove s’elaborano. Scintillerà la stella promessa? Un’idea comune tiene stretti intorno a un capo liberamente scelto questi uomini di tendenza così divergenti. Una volontà sola li lega in un fascio più compatto di quello che il blocco non crei. Un immenso desiderio di giustizia solleva tutti i cuori. I legionari di Fiume sono gli assetati di giustizia. Va detto e ridetto. Fiume è il doloroso simbolo di tutte le ingiustizie d’un periodo esecrabile […]. I Legionari di Fiume sono gli assetati di giustizia. E questo solo già spiega molte contraddizioni. Per i compagni di Gabriele d’Annunzio l’iniquità ha quaranta facce; si chiama, volta a volta, Wilson, Clemenceau, Lord Curzon, Lloyd George, Orlando, Sonnino, Tittoni, Nitti: Ca-goia, anzi, se s’incarni in questa grassoccia maschera. La forza nostra è generata dalla coscienza d’essere rimasti in piedi in così pochi contro la potenza congiurata delle nazioni, dei partiti, delle caste.
D’Annunzio ed i suoi fedeli operavano in un’atmosfera dominata da un’imprecisa spiritualità sovranazionale, che faceva di Fiume un faro per tutti i popoli soggetti alle plutocrazie, il centro da cui sarebbe partita la crociata dei popoli liberi contro gli imperialismi. Il nemico principale 304
era l’impero britannico ed il nuovo imperialismo americano, venuto a dargli man forte, con la politica di Wilson, per respingere le idealità nazionali, nel sacrificare le aspirazioni dei popoli alla giustizia e alla libertà, princìpi in nome dei quali i popoli avevano fatto la guerra contro l’imperialismo germanico. In questa prospettiva, la Società delle nazioni appariva come una nuova Santa Alleanza, strumento nelle mani della politica inglese, americana e francese, per tener sottomessi i popoli deboli ed impedire la rinascita nazionale di Stati a lungo sottoposti all’egemonia straniera. Fin dall’ottobre del ‘19 D’Annunzio aveva denunciato l’imperialismo britannico ed aveva accolto l’appello all’indipendenza di tutti i popoli ad esso soggetti. Dal Sinn Fein irlandese ai movimenti di liberazione arabi, alle rivolte antiinglesi dell’India si sollevava un’onda di ribellione, un anelito di giustizia, un atto di accusa all’imperialismo, di cui anche Fiume era vittima. Ora, da Fiume partiva il segno della rivolta, la guerra dello Spirito contro la Materia, della Giustizia contro la Tirannia, del Lavoro contro lo Sfruttamento: L’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa, e non è mai sazio, può mandare su noi quegli stessi carnefici aerei che in Egitto non si vergognarono di far strage d’insorti non armati se non di rami d’albero. L’impero ingordo che guata Costantinopoli, che dissimula il possesso d’almeno un terzo della vastità cinese, che acquista tutte le isole del Pacifico sotto l’Equatore con le enormi ricchezze, e non è mai sazio, può adoperare contro di noi gli stessi «mezzi di esecuzione» adoperati contro il popolo surunto del Rendjab e denunziati dal poeta Rabindranath Tagore «tali da non aver paragone in tutta la storia dei governi civili». Noi saremo pur sempre vittoriosi. Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. E la nuova crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutte le nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra
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per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con quattordici chiodi spuntati e con un martello preso in prestito al cancelliere tedesco del «pezzo di carta» […] Perciò la nostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Ir-landa all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Rumenia all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore; concilia il Vangelo e il Corano, il Cristianesimo e l’Islam; salda in una sola volontà di rivolta quanti uomini posseggano nelle ossa e nelle arterie sale e ferro bastevoli ad alimentare la loro azione plastica. Ogni insurrezione è uno sforzo d’espressione, uno sforzo di creazione
In questa spiritualità sovranazionale, ispirata da un violento antiimperialismo, i giovani legionari più radicali ed estremisti, scontenti di certe cautele ed esitazioni dello stesso Comandante, facevano consistere l’atteggiamento più originale e genuino dell’avventura fiumana e della sua «ideologia», mentre tutto ciò destava diffidenza e preoccupazioni fra gli elementi moderati della destra fiumana, che non voleva spingere l’atto del poeta al di là della manifestazione di forza per affermare la volontà dell’Italia a difesa dell’italianità di Fiume. C’era chi paventava persino che dal movimento fiumano potesse sorgere una nuova minaccia «bolscevica», una rivolta contro lo Stato borghese, che avrebbe potuto congiungersi ai partiti dell’estrema sinistra. In effetti, nell’ideale di giustizia sovranazionale dei dannunziani radicati si manifestavano propositi antiborghesi e velleità comuniste, quali erano esplicitamente espressi nei propositi della Lega di Fiume, una sorta di contro altare della Società delle Nazioni, una Santa Alleanza dei popoli oppressi, che cercò di stabilire relazioni con tutti i movimenti di liberazione del mondo. L’iniziativa della Lega era un progetto ambizioso ma, nonostante i contatti del comando fiumano con esponenti 306
dei movimenti di liberazione, la crociata dei popoli oppressi rimase, come altre iniziative fiumane, allo stato embrionale. Una delle ragioni del fallimento, secondo il principale animatore della Lega, Kochnitzky, fu la mancanza di una vera volontà antiborghese che avrebbe potuto fare veramente di Fiu-me il centro di una ribellione universale contro l’imperialismo e il capitalismo88, promuovendo l’organizzazione di tutti i popoli d’oriente, a cominciare dalla Russia comunista, per combattere «l’egemonia anglofranco-nippo-americana», per il «raggiungimento dell’indipendenza nazionale che non paventa riforme sociali»89. L’atteggiamento verso la Russia bolscevica era molto significativo, prova dell’estrema varietà e audacia di certe posizioni del fiumanesimo. In questa rivoluzione dello Spirito contro la Materia - e Materia voleva significare autorità del potere burocratico, convenzioni borghesi, culto capitalistico dell’interesse e dello sfruttamento, appetiti imperialistici, sopraffazione delle nazioni, ecc. - i legionari più sensibili alle esigenze rivoluzionarie cercarono e tentarono accostamenti ideologici e proposte di collaborazione fra le avanguardie della rivolta anticapitalista. Non soltanto furono lanciati appelli alle nazioni oppresse e alle razze perseguitate, ma furono avviati contatti con il movimento socialista in Italia e col bolscevismo russo, nella speranza di poter fare di Fiume, per la sua particolare posizione geografica e per la sua situazione politica, la sede della Santa Alleanza anticapitalista90. Lo stesso D’Annunzio, secondo la testimonianza di Kochnitzky, amava parlare di un «bolscevismo latinizzato» che si stava elaborando a Fiume per attuare un nuovo ordine sociale che, 307
nell’ambito della nazione, attuasse «un’armoniosa sovranità del lavoro». La «città del Sole» dannunziana, pur discostandosi per metodi e soluzioni pratiche dal bolscevismo, voleva esser fondata teoricamente sullo stesso principio ispiratore, «antitesi d’ogni tipo conosciuto di borghesia “democratica”»91. Bisognava, perciò, fare della questione fiumana non solo un problema territoriale e neppure una questione meramente diplomatica, bensì trasformarla in centro motore d’una rivoluzione intemazionale che avrebbe abbracciato tutti gli sfruttati, classi e nazioni, per realizzare finalmente le aspettazioni messianiche nate dalla guerra. Dalla Fiume dannunziana si poteva guardare con altri occhi al bolscevismo e capire che, a differenza del rivoluzionarismo verbale del socialismo italiano, il comunismo russo era un principio nuovo, uno dei movimenti realmente rivoluzionari del dopoguerra. Così Mario Carli92, il quale invitava a gettare un ponte tra Fiume e Mosca. Era possibile, per Carli, tentare una collaborazione, attuando in Italia un «bolscevismo» che avesse tutte le audacie sociali di quello russo, ma, nello stesso tempo, fosse animato dallo spirito italiano. Carli, in sostanza, riteneva possibile conciliare teoricamente il bolscevismo col futurismo e con il fiumanesimo, una volta eliminato il pregiudizio antipatriottico che rendeva ostili verso il bolscevismo. Del resto, anche Marinetti si era orientato in questo senso, affermando che si doveva andare «al di là del comunismo», non contro di esso: Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale -scriveva Mario Carli -, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostituire in base a ideali vasti e profondi l’edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista.
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Inoltre il bolscevismo russo, animato da un potente soffio di misticismo, non si è mosso con quei criteri di pacifismo codardo, che fanno dei cortei proletarii italiani altrettante processioni d’innocenti agnellini, che hanno orrore del sangue ma ostentano con incredibile ardore la pennellata di carminio in forma di garofano rosso all’occhiello. Il popolo russo ha saputo difendere la sua rivoluzione e gli eserciti di Lenin si sono battuti vittoriosamente contro i bianchi paladini della reazione Non è dunque ad occidente, parlando di bolscevismo, che bisogna guardare, ma ad oriente. In ogni vita di uomo o di popolo, è noto che dopo il periodo giovanile dei tumulti procellosi, viene il periodo della saggezza e dell’assestamento maturo. Non è da dubitare che, cessata la febbre dei sovvertimenti convulsionarii, inevitabile di un movimento così gigantesco, spazzati via gli ultimi tentativi di soffocazione reazionaria, la Russia riavrà la sua pace, e inizierà la sua resurrezione graduale, e riprenderà le sue relazioni di affari e di pensiero con tutto il mondo. Le stragi, che sembrarono inique, le fucilazioni in massa, le repressioni violente che hanno avvicinato la figura di Lenin a quella di Marat, finiranno anch’esse e il popolo russo, il più travagliato dei popoli moderni, avrà una vita nuova e gloria sicura nei secoli.
Secondo Carli, era possibile per i rivoluzionari italiani che non credevano nel massimalismo livellatore, contrario alla genialità della razza italiana, accettare e prendere a modello dal bolscevismo russo i nuovi istituti sociali e politici, attraverso i quali si esprimeva la nuova coscienza delle masse. Riconoscere i valori dell’intelligenza e la supremazia del genio non voleva dire accettare un regime di sfruttamento economico e di servitù sociale: Il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l’ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obiettivi fondamentali di tutta la nostra azione. Non chiediamo di meglio che chiamare accanto alle élites anche i rappresentanti del «numero» a partecipare della vita collettiva e decidere dei proprii interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei
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nuovi tempi, ed è già così diffuso, sotto la forma sindacale, negli ambienti amministrativi e industriali, che non si capisce perché non debba entrare senz’altro nella vita politica e militare. Gli ufficiali che han fatta la guerra sanno bene come erano preziosi, in certi momenti della vita di trincea, i consigli del graduato veterano, o anche del semplice fante che vedeva con meravigliosa chiarezza i pericoli da prevenire, le accortezze da usare, i modi e la tecnica di certe azioni di guerra. Quante volte abbiamo dovuto constatare che la precisa ed acuta esperienza di un soldato qualunque valeva più di tutti i trattati di arte militare sciroppati a Modena o a Caserta. E allora, perché non ammettere questi umili, questi acuti rappresentanti della massa senza nome, alla direzione degli affari politici, sociali, militari, amministrativi, come consiglieri e come interpreti della volontà delle maggioranze? Naturalmente a parità di condizione senza alcuna supremazia o dittatura. Una cosa sola io non riesco a capire. Perché questo rinnovamento profondo non si possa fare sul terreno patriottico. In Russia si difende la rivoluzione, ma si difende anche l’integrità territoriale. In Ungheria, in Germania, nell’Austria, la patria è posta al di sopra di tutto, e si mostrano i denti alle stesse nazioni vittoriose, se per caso eccedono nelle loro pretese annessionistiche. Solo in Italia il socialismo bolscevizzante è ermeticamente, ferocemente antipatriottico […]. Ancora una volta: guardiamo all’oriente! Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna al più presto gettare un ponte fra queste due rive.
Si trattava, come è evidente, di un bolscevismo all’acqua di rose, più letterario che politico, e caratterizzato soprattutto da quei motivi combattentisti, che costituivano una discriminante insuperabile fra la sinistra fiumana e i partiti dell’estrema sinistra. Nonostante le intenzioni, non sempre chiare e non sempre decise, del Comandante per trovare consenso nell’estrema sinistra, qualsiasi ipotesi di azione comune finiva col rivelarsi praticamente impossibile, perché vi erano troppi pregiudizi e troppe ambiguità nella «nebulosa» fiumana, per permettere un vero sbocco 310
rivoluzionario all’impresa, con una unione di forze sovversive dai socialisti agli anarchici. Vi era troppo arditismo, troppo combattentismo, troppo «nazionalismo» e troppo sindacalismo rivoluzionario nel fiumanesimo sociale, da escludere l’ipotesi di una eventuale adesione dei socialisti alle proposte del poeta. Tuttavia, l’articolo di Carli è documento importante per avere un’idea dello stato d’animo e dei sentimenti che regnavano a Fiume, e per comprendere il clima ideologico in cui maturò il disegno d’un nuovo ordinamento. La nebulosa fiumana parve avviarsi a divenir corpo solido con l’opera di Alceste De Ambris, nominato capogabinetto di D’Annunzio il 10 gennaio 1920. Con la presenza di questo rivoluzionario, che non era un uomo banale, l’anarchico sperimentalismo politico fiumano si concretizzò in un progetto organico, da cui nacque quel singolare documento che è la Carta del Carnato, costituzione dello Stato nuovo fiumano, in cui erano definiti i princìpi sociali e politici ed erano posti i capisaldi d’un nuovo assetto della società, fondato sulla consacrazione del lavoro come fondamento della vita comunitaria, e sull’attuazione d’una completa libertà, indipendenza e autonomia dei comuni e degli organi di rappresentanza delle categorie produttrici. La costituzione, come è stato dimostrato da De Felice93, fu essenzialmente opera di De Ambris, ma non a caso le diede una veste letteraria il poeta, inserendovi alcune significative aggiunte, che immergevano il semplice e conciso disegno deambrisiano nel crogiuolo spirituale fiumano, infondendo, nei princìpi ordinatori e negli istituti di un moderno Stato sindacale, l’afflato mistico della religiosità dannunziana. Come documento politico del 311
sindacalismo nazionale rivoluzionario - che, come abbiamo visto, costituiva il nucleo ideologico più concreto dei diversi movimenti combattentisti - la Carta del Carnato fu certamente l’espressione più coerente e più completa d’un disegno costituzionale per lo Stato nuovo auspicato dalle ideologie della terza via: uno Stato che doveva realizzare, senza cadere nel sovversivismo massimalista, la sovranità democratica del lavoro e la sintesi dei valori sociali con i valori nazionali e morali. Nella costituzione fiumana si affermava (art. IlI) la «perpetua volontà popolare» che avrebbe attuato «un governo schietto di popolo - “res populi” - che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo e per ordinamento le più larghe e le più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro secoli gloriosi del nostro periodo comunale». La costituzione stabiliva la perfetta ed assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzioni di sesso, di religione e di fede politica, nei diritti come nei doveri: ma essa era soprattutto la consacrazione statutaria del «diritto dei produttori». Alla concezione astratta del cittadino, considerata vuota creatura del democraticismo borghese, era sostituita la concezione, ritenuta più realistica e moderna, del produttore, che soltanto nel lavoro e per mezzo del lavoro trova la piena realizzazione della sua personalità, e dal lavoro principalmente trae il diritto di partecipare alla vita della società e dello Stato. Così stabiliva l’articolo IX nel testo definitivo: Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne
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disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale.
Il primato del produttore, in questo Stato nuovo, era garantito attraverso la rappresentanza delle corporazioni, che godevano, come gli altri istituti fondamentali dell’organizzazione burocrati-co-amministrativa, di ampia autonomia. Senza voler imitare istituzioni e sistemi del passato, con i quali l’organizzazione corporativa deambrisiana aveva in comune soltanto il nome e talune esteriori somiglianze, la nuova costituzione prospettava l’avvento d’una società libera di sindacati, che avrebbe posto fine al vecchio istituto dello Stato politico, sovrapposto alla società, estraneo spesso ad essa, e quasi sempre nelle mani di oligarchie politiche che mancavano di competenza. Queste oligarchie della politica, svolgendo un’opera «generica», largamente condizionata o ispirata da pregiudizi ideologici con scarso senso della concreta realtà dei rapporti sociali e della complessità di una moderna società industriale, favorivano lo stratificarsi di interessi in permanente conflitto, irrigidendo la società in un sistema chiuso, succubo delle prepotenze di alcuni potentati economici parassitari, oppure la mantenevano in una condizione di perenne disordine, dove prevalevano le tendenze demagogiche che sfruttavano l’ingenuità delle masse, non ancora mature per divenire protagoniste del governo nella nuova società dei produttori. La società vagheggiata dalla costituzione fiumana era una società dinamica nel suo interno, che attraverso il libero ed 313
autonomo esplicarsi delle sue attività produttrici, sia manuali che intellettuali, e attraverso la libera associazione delle categorie, superava l’antagonismo con lo Stato, riducendo lo Stato ad un istituto di amministrazione, destinato in un certo senso a ridursi a funzioni minime, se non addirittura a scomparire, con la totale attuazione del sindacalismo. L’essenza ideale e politica della costituzione fiumana si poteva riassumere nel binomio mazziniano libertà e associazione. Essa è - affermava De Ambris in un commento illustrativo94 -, in ultima analisi, anche la formula del moderno sindacalismo (partiamo del Sindacalismo autentico, non delle sue grottesche degenerazioni) che non mira ad un egatitarismo maccheronico distruttore della personalità umana, negatore della libera iniziativa, conculcatore d’ogni stimolo di lotta civile e feconda; ma tende invece a creare un’etica superiore, che renda consapevoli gli appartenenti a tutte le classi sociali dei loro doveri, elevandoti fino al volenteroso eroismo individuale per la salvezza ed il trionfo della collettività cui l’individuo appartiene.
Il progetto di De Ambris rispecchiava le sue idee e il suo realismo idealista, che ammetteva duttilità tattica ma non flessibilità di princìpi e di valori etici, e cercava di conciliare «tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno» senza lasciarsi andare a concepire l’attuazione di utopie irrealizzabili o devastatrici. De Ambris non condivideva l’ottimistica convinzione che le leggi siano di per sé promotrici di rinnovamento, ed era convinto che anche i migliori progetti di rinnovamento sociale potevano avere effetti negativi, se mancavano forze preparate ad operare nel concreto della realtà per costruire nuove realtà sociali e istituzionali, sapendo avvalersi delle nuove forme di vita produttiva e delle nuove forme di vita associata, che venivano emergendo dai processi in atto di trasformazione 314
economica e sociale. De Ambris teneva a precisare che non si potevano suscitare forze nuove per mezzo delle leggi, bensì occorreva saper assecondare con nuove leggi il progressivo maturarsi delle forze nuove, senza pretendere di accelerare i tempi obbedendo ai dettami di concezioni astratte delle fasi del divenire storico, e senza pretendere di andare oltre la realtà, di sradicare del tutto, per un ideale astratto di rinnovamento radicale, le fondamenta storiche di un complesso ordine di valori, di istituti, di civiltà, che si concretizzava nella formazione della moderna realtà della nazione. La costituzione fiumana, che si voleva costruita sulla realtà anche se ispirata ad un grande idealismo, partiva dall’accettazione dei fatti nuovi che erano derivati dalla guerra, e dal nuovo processo storico iniziato con la crisi dello Stato borghese e con la comparsa, sulla scena sociale, del sindacato, nuovo e più concreto organo di democrazia e di maturità sociale delle masse. Nella visione ideale di De Ambris la futura nazione dei produttori non sarebbe stata un blocco monolitico di solidarietà obbligata, subordinata alla volontà dello Stato politico, come era nella concezione del sindacalismo nazionalista, e come sarà poi nel sindacalismo dello Stato fascista, bensì era concepita come comunità nazionale che viveva nel libero giuoco delle iniziative economiche e produttrici, anche contrastanti, perché solo dal contrasto fecondo di queste libere iniziative poteva scaturire, secondo De Ambris, una sempre nuova «formazione di nuove capacità tecniche e morali». Dalla confluenza del patriottismo mistico-popolare di D’Annunzio e del sindacalismo nazionalrivoluzionario di De Ambris si precisò più distintamente, dal punto di vista istituzionale e politico-sociale, il complesso di idee, di 315
sentimenti, di stati d’animo e di miti denominato fiumanesimo, un fenomeno a torto considerato soltanto espressione di decadentismo letterario e di estetismo politico. Al di là di questi aspetti, che pure furono parte non trascurabile della sua fisionomia, il fiumanesimo ebbe risonanza notevole anche come espressione più concreta delle ideologie combattentiste; fu fenomeno politico vero e proprio che continuò ad avere, anche dopo il fallimento dell’impresa fiumana, una parte non trascurabile nella lotta politica e ideologica del dopoguerra, fino all’avvento del fascismo al potere, al punto da apparire anche ad esponenti comunisti come un movimento da prendere in considerazione per una politica rivoluzionaria. Secondo Nino Daniele, lo stesso Gramsci riscontrava nel fiumanesimo motivi antiplutocratici, antiimperialisti e sociali che potevano concordare in parte con le finalità del comunismo95. Ma gli effetti più notevoli del fiumanesimo rimasero però principalmente nel campo della teoria: la costituzione di De Ambris non fu mai effettivamente applicata, e neppure era stata concepita in vista di una sua attuazione, come avvertiva un comunicato del comando fiumano il 14 aprile 1920. La carta non doveva essere considerata «se non come il documento severo di un’esperienza vitale e come il coronamento di un’impresa coraggiosa in servizio della giustizia e della libertà»96. L’avventura fiumana, infranta dalla risoluzione del trattato di Rapallo approvato da Mussolini, si concluse lasciando un retaggio ideologico e mitologico, ereditato soprattutto dai sindacalisti rivoluzionari che nella Carta del Camaro riconoscevano la più alta e compiuta formulazione dei loro ideali97. Il fallimento dell’impresa dannunziana 316
coincise con la svolta a destra del fascismo, un cambiamento di rotta che era in un certo senso implicito nella ideologia relativista e realistica di Mussolini. Il quale, pur comprendendo il valore politico dell’esperienza fiumana, era assolutamente estraneo al fervore morale, allo spirito libertario ed autonomista che animava l’opera di De Ambris, così come era rimasto interiormente indifferente al confuso ma sincero ribollimento di propositi rivoluzionari del piccolo mondo fiumano. Dal fiumanesimo, come dall’arditismo e dal futurismo politico, il fascismo prese certo molto dell’apparato esteriore, cioè un modo di fare politica con riti di massa e cerimonie simboliche, miranti soprattutto a rappresentare la collettività in uno stato di fusione mistica con il capo che ne interpreta il volere e ne esprime le passioni, sottoposta al suo comando non per coercizione, ma perché il capo è «il portatore dell’idea eterna» in cui la massa si riconosce, e che costituisce «la sola ragione di vivere, per sé e per la stirpe»98. Era, cioè, la trasformazione della politica di massa in spettacolo, che D’Annunzio elaborò e mise in scena a Fiume, ad esser fatta propria anche dal fascismo, come elemento essenziale della comunità politica fascista dissociando però il retaggio della estetica politica fiumana dall’ideologia sindacale e libertaria che le era complementare. Da questa assimilazione adulterata del fiumanesimo derivò, secondo Foscanelli, l’equivoco d’una filiazione del fascismo dal fiumanesimo, filiazione soltanto esteriore e di costume perché al fascismo mancava il fervore «religioso» del movimento dannunziano: Una delle ragioni per le quali l’indifferente cittadino, o l’osservatore svogliato e superficiale ha fuso, e meglio confuso, fascismo e D’Annunzio è stata la continuità di atmosfera fiumana e dannunziana che molti elementi avevano fatta
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trasmigrare in blocco dalle legioni di Fiume, alle squadre fasciste in Italia. D’Annunzio, a Fiume, da esteta, e da genio creativo, aveva trasfuso, nella formazione della sua legione, una potenza eroica e mistica, in maniera che la resultanza fosse veramente creatura sua, perfettamente rispondente alla sua concezione. La trasformazione avveniva repentinamente, e rimaneva poi perpetuata dall’assidua cura di lui, finissimo artefice di nuove anime collettive. La diserzione di una unità navale da guerra, scaturita forse da insofferenza di disciplina, è in un attimo trasformata da lui in gesto grandioso con l’inginocchiarsi dinanzi ai marinai ribelli, che, tosto presi dalla grazia, divengono i migliori legionari. Le cerimonie fiumane hanno sempre del religioso; il grido di apertura e di chiusura per ogni radunata ha una suono strano, e un significato ignoto ai più, ma racchiude il simbolo di tutti i propositi, di tutte le volontà, di ogni dedizione. I nomi che il comandante dà alle cose hanno sempre in sé del classico e dell’eroico. Tutto questo bagaglio suggestivo, mentre dura l’impresa, e ad impresa ultimata viene riversata nel fascismo, per cui questo, nell’esteriorità, appare la continuazione o almeno una filiazione della spedizione fiumana”.
Il fascismo, dunque, accolse il fiumanesimo svuotandolo della sua essenza, che era una confusa ma comunque sincera volontà di liberazione, di giustizia, di democrazia sindacale, di attuazione di un ordine lirico, per dirla con D’Annunzio, che avrebbe superato il tradizionale ordine politico. L’ordine lirico, infatti, avrebbe segnato la rigenerazione dell’umanità liberata da ogni forma di dipendenza, di costrizione, di alienazione; avrebbe attuato una società dinamicamente viva, priva di ogni apparato politico che fosse strumento di classe o di oligarchie, una società dove l’uomo lavoratore avrebbe trovato la realizzazione della totale libertà, l’espressione più spirituale della sua individualità in armonia con la collettività. L’ordine politico era l’espressione del potere, l’attuazione d’uno Stato che traeva, machiavellianamente, la sua autorità dalla mediocrità e dalla 318
viltà umana, era la manifestazione della volontà di sopraffazione e di dominio d’una classe sulle altre, di un partito su un altro, di una razza su altre razze, di una nazione su altre nazioni. Fra ordine lirico e ordine politico Mussolini scelse il secondo, a lui certamente molto più congeniale, e in questo senso orientò il fascismo, affermando, ancora una volta, il primato della politica, cioè della immutabile realtà del potere dello Stato, nei confronti dei movimenti che tale realtà credevano di poter annullare o trascendere in avveniristici, e poetici, disegni di società senza potere. Il fallimento dell’avventura fiumana segnò una svolta definitiva nella vicenda del «rivoluzionarismo» combattentista. Dalle ceneri di una rivoluzione «mancata» prendeva vita quella che potremmo chiamare, rispetto ai miti libertari della «rivoluzione italiana» degli arditi, dei futuristi, dei primi fascisti e dei dannunziani, una rivoluzione «deviata», in cui il realismo e il machiavellismo ebbero il sopravvento sui propositi rinnovatori e palingenetici di totale affrancamento dell’umanità. In occasione del congresso fascista di Roma, che sancì definitivamente la svolta a destra del fascismo, Mussolini respinse la Carta del Camaro, perché non era realistica e non poteva servire da tavola legislativa del fascismo. La costituzione fiumana, affermò Mussolini100, non poteva fornire alcun programma ad un partito che voleva agire «in una determinata realtà storica». Per il capo del fascismo, essa era, in sostanza, un’utopia disegnata a tavolino che non avrebbe potuto sopportare il confronto con la brutale realtà della politica come dominio della forza. E lo stesso fallimento del fiumanesimo, secondo Mussolini, era la conferma della sua 319
mancanza di realismo, la sanzione dell’esaurimento definitivo del combattentismo ma anche del fascismo «diciannovista».
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Capitolo quinto Sviluppo e metamorfosi del fascismo Il distacco del fascismo dai miti democratici e libertari del combattentismo avvenne fra la fine del ’20 e il principio del ’21. In questo periodo si verificò, attraverso un processo disordinato, la svolta a destra del fascismo, i cui segni erano già stati avvertiti nelle crisi interne del «fascismo sansepolcrista», nelle discussioni e polemiche fra il mussolinismo e le correnti estremiste del combattentismo, come il futurismo e il fiumanesimo. Abbiamo già parlato delle ambiguità inerenti al realismo del movimento fascista, delle insidie e dei pericoli che il troppo spregiudicato uso di questo realismo rivelava agli occhi di quei fascisti che erano ostili a certi atteggiamenti reazionari manifestati dai dirigenti dei Fasci, fin dai primi mesi del ’20. Come osservò uno dei primi critici della cosiddetta «svolta a destra» del fascismo 1 , dopo la crisi interna provocata dalla sconfitta elettorale del ‘19, il fascismo sembrava esser caduto nell’incertezza e stentava a darsi un orientamento preciso. Lo scacco subito nei vari tentativi fatti per organizzare le forze dell’interventismo, l’avversione pregiudiziale verso il partito socialista, la confusione delle prospettive locali con i propositi più generali e la stessa esiguità numerica del movimento dei Fasci, insieme con la preoccupazione di recuperare comunque uno spazio politico, avevano di fatto impresso alla nuova politica fascista, «sotto la facile bandiera dell’amor di patria, una marcata tendenza conservatrice». La necessità di un mutamento di rotta non doveva far rifluire il movimento 321
fascista verso i partiti conservatori: prendendo atto dello scarso consenso che ormai riscuoteva la bandiera dell’interventismo, e la stessa impossibilità di far convergere attorno a questa bandiera tutti i gruppi interventisti, il fascismo doveva innanzi tutto accantonare la polemica fra interventismo e neutralismo, orientandosi verso l’unica politica rivoluzionaria allora possibile, cioè la difesa e l’affermazione delle rivendicazioni economiche e sociali delle classi lavoratrici: «Già si rivela una certa tendenza al raggrupparsi delle vecchie correnti attorno a due grandi correnti, quella lavoratrice, che fa capo al socialismo, e quella conservatrice che tende a riunire la maggioranza degli altri partiti». Se il fascismo voleva avere un futuro come movimento innovatore, doveva affiancare il socialismo e svolgere, con la sua opera di critica, una funzione di moderazione e di realismo nei confronti degli estremismi rivoluzionari, dando il suo contributo all’emancipazione delle classi lavoratrici. Questo avvertimento critico era rivolto soprattutto al gruppo milanese dei dirigenti dei Fasci e al quotidiano di Mussolini, il cui atteggiamento verso le vicende sindacali del momento 2 , come appariva dai commenti del principale collaboratore di Mussolini, Cesare Rossi, era ispirato da un esplicito proposito conservatore: è tempo di proclamare francamente - affermava Rossi all’inizio del ’20 - che, di fronte alla certezza ineluttabile della dissoluzione generale a cui oggi fatalmente ci condurrebbe un movimento rivoluzionario - da chiunque diretto e qualunque ne fosse l’obiettivo - si ha il dovere di andare contro corrente: più brutalmente diciamo si ha il dovere di essere risolutamente dei conservatori e dei reazionari. Di reagire, cioè, contro i salti nel buio, di conservare, cioè, quello che di solido, di organico e di sano offre la classe sociale oggi al potere. Poiché, dunque, noi neghiamo risolutamente la maturità sindacale, la capacità tecnica e morale del
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proletariato a gestire la vita nazionale; non solo: poiché noi affermiamo che il proletariato - specie dopo questi cinque anni di bestiale predicazione - ha maggiori difetti morali e minori virtù creative dell’attuale pur corrotta e mediocre borghesia, è perfettamente naturale che non si abbia alcuna ripugnanza a circolare sullo stesso terreno difensivo ove convergono i ceti intellettuali e le altre classi non proletarie
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I motivi storici del progressivo allontanarsi del fascismo dal programma originario sono noti 4. A noi interessa, per il tema di questo studio, individuare e seguire il mutamento che avviene nelle derivazioni e nei miti di cui il fascismo si servì nella sua azione, entrando in una nuova fase della sua storia. Con la svolta a destra, in realtà, il fascismo si affiancò ai partiti conservatori, ma acquisì altre caratteristiche peculiari, tali da non consentire di ridurre l’ideologia fascista, come venne formandosi nel corso di questa nuova fase della vita del movimento, a mera ripetizione di temi e miti delle tradizionali ideologie conservatrici o reazionarie, alle quali viene spesso erroneamente affiancato. Nel seguire il processo di formazione storica dell’ideologia fascista, occorre sempre aver presente la stretta connessione che vi fu fra la situazione politica, la base sociale, i residui psicologici, da una parte, e le derivazioni emerse da questo complesso di realtà che costituirono la concreta natura del movimento fascista, perché - come osservò più tardi «Stato Operaio» - alle varie tappe della marcia fascista verso la conquista del potere corrispose «un allargamento delle basi sociali dei Fasci e un conseguente adattamento dell’ideologia fascista»5. Un segno molto significativo del nuovo orientamento che, sia pur a tentoni, il fascismo stava assumendo nella prima metà del ’20, fu il distacco dei futuristi dai Fasci di 323
combattimento, avvenuto al II congresso fascista tenuto a Milano nel maggio di quell’anno. In quell’occasione, Mussolini, molto disinvoltamente, volle imporre la rinuncia al programma repubblicano e anticlericale dei Fasci, giustificando tale rinuncia con il richiamo all’antipregiudizialismo fascista. La svolta mussoliniana non convinse Marinetti ed i suoi seguaci, e provocò la loro uscita dai Fasci. In realtà, anche il futurismo, come movimento politico, era ormai sulla china di una crisi. Dal gennaio del ’20, l’organo del partito politico futurista aveva rinunciato quasi del tutto alla politica, proclamando la necessità del ritorno all’arte. Più degli arditi, più degli altri fascisti, e forse anche più degli stessi legionari dannunziani, Marinetti e i suoi seguaci erano stati radicali oppositori delle istituzioni e della società esistente, inventori di una retorica avveniristica che aveva dato stile e linguaggio politici alla visionarie fantasie artistiche della creazione di una nuova società, di uno Stato nuovo, e di un nuovo uomo, ma la loro politica mancava assolutamente di qualsiasi rapporto concreto con la realtà della situazione italiana. Di fronte alle gravi questioni del momento, la loro visione del futuro, rivolta alla soluzione dei problemi politici e sociali, appariva sempre più astratta, ostentata persino, in questa sua astrattezza, come una sorta di politica dell’impossibile, come un’antipolitica assoluta: perciò la politica futurista era destinata a consumarsi nella rivoluzione verbale, senza consistenti conseguenze pratiche né nel campo politico né in quello sociale. Con le ultime elaborazioni marinettiane, affidate a scritti come Al di là del comunismo6, i futuristi giunsero a negare il concetto stesso della rivoluzione politica 324
e si fecero paladini di una novella utopia anarchica individualista, del tutto incompatibile con il realismo politico del fascismo e con la sua crescente adesione alla concezione dello Stato come forza ed autorità necessarie per realizzare la «rivoluzione italiana» e creare un ordine nuovo. La crisi fra futurismo e fascismo, dopo l’uscita di Marinetti dai Fasci, si concluse con una completa e clamorosa rottura alla fine del ’20, proprio su questioni di orientamento ideologico in merito alla visione dello Stato nuovo e dei metodi da adottare per giungere alla sua realizzazione. Fu l’ardito-futurista Bottai a denunciare l’incompatibilità fra fascismo e futurismo, per il carattere astratto e politicamente irreale del futurismo politico, che non poteva in alcun modo convivere con i nuovi orientamenti assunti dal fascismo, e che non dava alcuna seria risposta alla situazione sociale e politica del paese7. Bottai accusò i futuristi di essere rimasti ad una concezione «sportiva e dilettantesca» della politica, celando, con la retorica dei giovanissimi, una povertà di idee e l’inconsistenza di un pensiero contraddittorio: «La vostra è una gioventù da fiera. Noi amiamo la gioventù, voi la corrompete, la viziate, la invecchiate». I limiti del futurismo politico, secondo Bottai, erano nel rivoluzionarismo privo di concretezza, cioè «nel dire rivoluzione, e nel fermarsi, in fondo, a tutto l’aspetto esteticamente dinamico della rivoluzione, senza giungere a dichiarare ciò che in essa sia politicamente ed eticamente costruttivo». Bottai concludeva la sua requisitoria affermando che la rivoluzione futurista era «un immenso castello in aria di tanti ragazzacci impenitenti, che ruzzano, ridono, sfarfallano, giocano a rimpiattino nel loro bel castello posticcio». 325
Le polemiche antifuturiste dei fascisti denunciavano soprattutto l’atteggiamento troppo spinto a sinistra che avevano assunto Marinetti e i suoi compagni, dando al futurismo politico una «vernice frondistica bolscevizzante»8, mentre il fascismo riteneva ormai necessario sfrondare la sua ideologia dai motivi e dalla retorica politica dell’arditismo e del futurismo, almeno per ciò che riguardava le aspirazioni libertarie di rinnovamento radicale, per acquisire, con la trasformazione da movimento di minoranze in partito di massa, i caratteri sempre più evidenti di un movimento di restaurazione dello Stato. 1. Il fascismo dei ceti medi Il 1921 fu l’«anno fascista». Il movimento dei Fasci di combattimento entrò nel nuovo anno con un successo tanto rapido quanto imprevisto, destinato ad espandersi negli anni seguenti. Ogni crescita porta con sé qualche disordine, tanto maggiore quanto più rapida e ipertrofica è stata la crescita. Ogni sviluppo è anche, in un certo senso, una metamorfosi. Il successo che il movimento ispirato dall’organizzazione dei Fasci di combattimento aveva raggiunto nelle regioni agricole dell’Italia centrosettentrionale, facendo affluire sotto l’insegna del fascio migliaia di nuovi aderenti, disorientò i capi vecchi e nuovi del fascismo, i quali si trovarono a dover inquadrare una forza nuova che difficilmente poteva esser guidata mantenendo in vita i caratteri originari dell’organizzazione mussoliniana come movimento antipartito a carattere contingente ed elitario. Il nuovo fascismo dilagò e si affermò sulla scena politica senza che nessuno di quelli che poi litigarono per rivendicarne la paternità riuscisse bene ad intendere cosa fosse 326
politicamente quell’agglomerato di forze che si autodefiniva «fascista», verso quali mete fosse diretto, quali fossero le sue idee ispiratrici e direttrici, le sue basi sociali e i suoi propositi politici. Certo era solo il fatto che il fascismo, in brevissimo tempo, aveva assunto «le proporzioni di un gigantesco movimento nazionale», come scrisse Mussolini, meravigliandosi egli stesso d’uno sviluppo che aveva avuto «del fulmineo e del prodigioso»9. Non era più l’esiguo fascismo diciannovista, fenomeno milanese diffuso in alcuni altri centri urbani, con pochi aderenti, nato col solo proposito di «rivendicare l’intervento, esaltare la vittoria, lottare contro il bolscevismo». E non era più neppure un movimento di minoranza che si era proposto di assolvere ad una funzione temporanea, per ritirarsi dalla scena, dopo averla assolta. Contraddicendo la sua precedente visione contigente e transitoria del fascismo, Mussolini vi scopriva ora «motivi e radici profonde». A suo giudizio, infatti, la crescita del fascismo non poteva esser spiegata soltanto con le sovvenzioni dei «pescecani»: Non si raccolgono, in meno di due anni, centinaia di migliaia di cittadini italiani attorno ai gagliardetti del fascismo per un capriccio per un assurdo o per l’idolatria di un uomo. C’è, nei Fasci, lo diciamo con profonda convinzione e con grandissimo orgoglio, il fiore, l’aristocrazia della razza italiana10.
Inevitabile conseguenza della crescita improvvisa, che aveva prodotto un mutamento sostanziale nella natura sociale e organizzativa del fascismo, fu la crisi fra fascismo milanese e i fascismi provinciali esplosa nella primavera del ’21 e durata fino al com-promesso del congresso fascista di Roma, nel novembre 1921. Si trattò di una crisi sia politica che ideologica. Fu, infatti, prima di tutto una lotta fra capi 327
vecchi e nuovi dei diversi «fascismi» regionali per conquistare la direzione politica del movimento: ma questa lotta si manifestò attraverso polemiche di carattere ideologico, polemiche nate dal bisogno di chiarire e definire le funzioni e le finalità del fascismo. Non si raggiunse, concluso il contrasto, una concezione uniforme perché, al di sotto dell’unità del programma definito nel congresso di Roma, il fascismo conservò, nella varietà delle correnti ideologiche presenti al suo interno, l’impronta delle origini eterogenee della sua nuova massa sociale, delle caratteristiche locali, dei contrasti di potere, delle diverse componenti culturali che confluirono nel movimento. Gli stessi fascisti si interrogarono sulla natura di questo nuovo fascismo, la cui realtà si impose all’osservazione e all’esame attento di tutte le forze politiche, che fino ad allora avevano quasi ignorato o ridicolizzato la presenza di un movimento fascista nazionale. Quali erano i suoi aderenti, quali le classi che lo sorreggevano; quali motivi - nobili e ignobili - ispiravano la sua azione? Qualche anno più tardi, così lo descriveva lo storico Gioacchino Volpe: Desiderio di novità e di singolarità e di avventura; voglia di affrancarsi dalla tirannia dei rossi nelle campagne e di prendere vendetta dei soprusi patiti; preoccupazione di salvar la terra ed i raccolti dai contadini ingordi; superstite avanzo di spiriti faziosi e di baruffa; vellicamento del senso estetico davanti ad una bella gioventù sfilante con ben marcato passo; fanciullesco amore di parate e di simboli e distintivi e parole sonanti; commozione destata da virili riti con cui i fascisti celebravano i loro caduti e suggellavano il patto fra i vivi e i morti; nostalgia di comando e di guerra, ormai purificata nel ricordo dalla scoria fangosa, per effetto di lontananza e di rinnovata idealizzazione; passione nazionale esasperata dal cronico insuccesso della nostra politica estera; bisogno ossessionante di ordine e lavoro tranquillo e di gente che stia al suo posto e di gerarchie rispettate; disgusto della funebre commedia romana ecc.; questo ed
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altro, in misura diversa, secondo l’età e l’indole delle persone ed i vari ambienti locali, sollecitava verso i gagliardetti e i fasci littori, dal 1921 in poi11.
Nella congerie delle motivazioni che spinsero verso il fascismo nuove masse di aderenti vi era, ai di sotto delle formule più varie, una certa sostanza unitaria. Elemento caratteristico comune del nuovo fascismo, come fu rilevato dagli osservatori più acuti del tempo, era la condizione sociale dei nuovi aderenti, che, in gran parte, appartenevano ai vari strati dei ceti medi urbani e rurali. La presenza di questi ceti, come base sociale del movimento, fu decisiva per la caratterizzazione del fascismo come movimento politico di massa. E principalmente da questa massa sociale derivarono, per così dire, gli impulsi e i materiali per la ulteriore elaborazione dell’ideologia fascista che, pur conservando taluni caratteri e miti fondamentali del primo fascismo - come l’attivismo, il relativismo, l’antibolscevismo, il nazionalismo, i miti dell’interventismo, della grande guerra e della rivoluzione italiana, ecc. - acquisì altri temi e miti congeniali alla condizione sociale, alla psicologia e alla cultura di questi nuovi ceti. Con l’adesione dei ceti medi si compì, come scrisse il fascista Gorgolini12, la maturazione sociale del fascismo, attraverso l’aggregazione, intorno all’originario nucleo dei reduci, di «due zone abbastanza ampie di autentico proletariato intellettuale e di piccola borghesia irritata contro l’anormale stato di cose che rovinava il paese». Come risultava ben chiaro agli osservatori contemporanei, e come è stato confermato dalla storiografia, il fattore preponderante del successo fascista fu lo squadrismo agrario, cioè, per dirla col Zibordi, la controrivoluzione della 329
borghesia agraria nei confronti delle conquiste del movimento socialista, che diede origine al fascismo che potremmo chiamare economico, inteso cioè come pura e semplice reazione antipopolare da parte della borghesia che più era stata colpita negli interessi dall’avanzata del movimento socialista, prima e soprattutto dopo la guerra. Una reazione che era stata suscitata dall’ondata di paure, di risentimenti, di propositi di vendetta sollevata dall’impetuosa affermazione delle organizzazioni politiche e sindacali del partito socialista, e soprattutto dalla minaccia, che questo agitava, di una imminente rivoluzione sociale che avrebbe portato, come in Russia, alla fine della borghesia. Nell’immediatezza della lotta antisocialista, gli scopi politici di questa reazione economica apparivano a molti osservatori, e specialmente agli osservatori socialisti, quasi nulli, perché l’unico suo scopo era quello di distruggere dalle fondamenta l’organizzazione del proletariato, in una sorta di estrema resistenza opposta dalla borghesia reazionaria allo stesso sviluppo moderno dell’economia capitalistica che portava inevitabilmente con sé uno sviluppo del movimento operaio e contadino. Per i grossi proprietari terrieri che armavano le squadre, la reazione antisocialista non andava al di là del puro e semplice ritorno alla situazione di predominio e di privilegio che essi avevano goduto fino all’affermazione del movimento socialista. Il «fascismo agrario», come pura e semplice espressione di questa reazione, non aveva alcuna prospettiva politica, e certamente si sarebbe esaurito, come movimento, dopo aver ristabilito le condizioni di dominio padronale liberandolo dalle pastoie delle organizzazioni sindacali. Come osservò il comunista Giulio Aquila (Sas): 330
Contrariamente a quanto avveniva per gli elementi cittadini del fascismo, ai quali - compresi gl’intellettuali e i figli della borghesia di città - non si può contestare un certo miope idealismo, il fascismo per gli agrari affluiti nei fasci non era un movimento «rivoluzionario» né idealistico. Del lato politico del fascismo essi non si curavano affatto. Vedevano in esso e in particolare nelle «spedizioni punitive» un mezzo efficace per ricacciare al più presto nella schiavitù il proletariato agricolo già disarmato e scosso nelle sue organizzazioni. H fascismo per gli agrari s’identificava con le spedizioni punitive13.
Le caratteristiche del «fascismo agrario» furono messe in luce, con osservazione più attenta e con più complesse considerazioni sulla composizione sociale del fascismo, dal radicale Massimo N. Fovel, ma la sua valutazione errava nell’attribuire all’impronta impressa dalla reazione agraria sul fascismo un peso tale da considerarla un ostacolo insormontabile per la possibilità di durata del fascismo, come movimento politico, al di là del compimento della funzione meramente reazionaria. All’inizio del 1922, infatti, Fovel riteneva che il fascismo fosse «predestinato a scomparire come la creatura d’un passato inutile» nel nuovo clima di democrazia sociale, che egli credeva imminente: Nella mentalità prettamente schiavistica dell’agrario italiano, che è ancora oggi residuo storico dei tempi andati e che non è mai stato una fiera e nobile democrazia attiva come è stato del padronato agricolo francese, tutte le idee liberali, regalate al grosso contadiname nostrano da una aristocrazia di pochi emancipatori, precipitarono al tramonto in pochi mesi. La violenza fascista campagnuola non fu un mezzo per ridurre una tirannia avversa e sostituirvi poi un regime di comune democrazia, ma fu un mezzo per instaurare la tirannia permanente della minoranza terriera contro le garanzie fondamentali storiche e giuridiche dell’uomo e del cittadino. È l’antico regime. Dal codice civile al suffragio universale la psicologia della classe agraria ha rinnegato tutti i conquisti più sani e più provvidi dell’Italia civile, ha trasferito queste sue negazioni da ancien régime nel fascismo, ha gettato queste catene del passato ai polsi fascisti, che pur avevano avuto qualche battito di giovinezza e d’avvenire. Sotto la pressione del pollice bifolco dei vandeani il fascismo ha rimodellato da capo a
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piedi la propria figura politica, e poiché la borghesia terriera tra le sue tradizioni, i suoi istinti e i suoi propositi retrivi nello stesso modo che la borghesia industriale e cittadina ha le sue irresistibili inclinazioni progressive, così il fascismo, man mano che compenetrava le proprie schiere con le schiere agrarie, diventava una forza inevitabilmente conservatrice e reazionaria nel senso classico e storico della parola. Reazionario perché scendeva in campo a favore di una classe che è l’esponente tipico della stessa improduttività borghese. E reazionario perché la difesa della classe terriera, inerte, parassitaria, pleonastica, incapace da due secoli di sopravvivere nel regime e nella critica dello stesso liberalismo, lo ha condotto a repudiare gli elementi del regime liberale, che pur sono la guarentigia unica di ciò che l’Italia d’oggi è, la caparra infalsificabile di ciò che l’Italia può essere. […] Mentre solo un anno fa la gioventù fascista si sparpagliava per tutte le contrade d’Italia come se fosse veramente la giovinezza stessa del paese rinnovellato dalla guerra, oggi essa è ormai palesemente il segno e il nerbo del paese vecchio, decrepito, preliberale e anche preborghese, che vuol sopravvivere ad ogni costo e che vorrebbe soverchiare a colpi di violenza la vera, profonda, affiorante e incontenibile Italia giovane, che è tutta nelle città dove si sposano quotidianamente i cervelli della borghesia capace e le braccia del popolo lavoratore14.
Il punto debole dell’analisi di Fovel e delle sue previsioni sul futuro del fascismo, come di quelle di gran parte degli osservatori democratici, era costituito dalla scarsa attenzione data, nell’esame del nuovo fascismo, all’elemento dei ceti medi, che avevano impresso sul fascismo una impronta ben più caratterizzante dell’impronta reazionaria, certo notevole, ma non esclusiva; ed in particolare di quei ceti medi nuovi alla vita politica, che invano Fovel sperava di veder conquistati agli ideali della democrazia sociale. Col fascismo in effetti - come ha scritto Leo Valiani15 - «si presentavano sulla ribalta una classe sociale che in precedenza non aveva agito autonomamente e una nuova forza politica. Esse aggredivano il sistema liberale da destra, e avrebbero potuto aggredirlo perfino da sinistra, ma ne occupavano altresì lo spazio vitale al centro». Accanto alla reazione più feroce e più miope, rivolta a difendere o a ristabilire privilegi 332
tradizionali, vi era nel fascismo il diffuso e confuso, ma non meno importante, desiderio di talune categorie dei ceti medi di emergere dal caos del dopoguerra, di uscire dalle condizioni d’una esistenza anonima e sempre precaria, compressa dall’alto e dal basso, sentendosi minacciate e ferite nei loro ideali oltre che nei loro interessi, tanto dalle rivendicazioni del proletariato quanto dall’avidità della grande borghesia capitalista e terriera. In questi ceti, che certo non costituivano, come osservò Salvatorelli, una «classe organica - cioè detentrice di un potere e di una funzione economica», si era però sviluppato dopo la guerra uno spirito attivo di rivolta contro l’ordine stabilito delle vecchie oligarchie, insieme con la volontà di essere partecipi in prima persona della vita politica e sociale del paese; di trovare, fra la lotta delle due classi maggiori, una via per la propria affermazione, anche attraverso una rivoluzione, che doveva portare alla creazione di un nuovo ordine, dove fossero garantita l’egemonia dei ceti medi, la pace sociale, la soddisfazione degli interessi delle diverse classi in armonia con l’interesse della nazione, che i ceti medi ritenevano di rappresentare più e meglio della grande borghesia e del proletariato; la tutela e la riaffermazione delle idealità patriottiche, che le ideologie internazionaliste avevano deriso ed offeso, e una circolazione delle élites, liberata dalle limitazioni del protezionismo di Stato e dell’egualitarismo socialista, nell’ambito di un nuovo ordinamento politico e sociale fondato sulla gerarchia delle capacità e delle competenze. Un significativo documento di questa volontà di rivincita e di ascesa dei ceti medi è il Manifesto alla borghesia, stilato dal professore di filosofia Emilio Bodrero. Pubblicato nel 333
1921, il manifesto era un appello alla borghesia, e soprattutto alla borghesia intellettuale, affinché creasse una sua organizzazione per conquistare un ruolo egemone nella società, per affermare il suo diritto alla guida del paese, riconducendo nella subordinata sfera economica il proletariato e la grande borghesia capitalista. Bodrero muoveva dalla considerazione che la borghesia aveva subito, dopo la guerra, gli opposti attacchi del proletariato e del grande capitale perché non aveva acquisito una propria coscienza di classe e non era consapevole del ruolo egemone che gli assegnava il suo principale strumento di lavoro e fonte di guadagno, cioè l’intelletto e la cultura. La sua critica però si appuntava soprattutto contro la classe di governo. Mentre i partiti tradizionali erano decaduti per la loro incapacità a risolvere i problemi del dopoguerra, mentre il partito socialista e il partito popolare avevano conquistato un posto di primo piano sulla scena politica sfruttando le irrequietudini delle classi lavoratrici, il governo, per Bodrero, era preoccupato soltanto di conservare il potere, cedendo ai ricatti del capitalismo e agli assalti del proletariato. Di questa situazione faceva le spese soprattutto la borghesia, «divenuta la vittima del capitale e del lavoro, della monarchia e del governo, nessun dei quali può favorire, né vuole, lo sviluppo degli elementi nazionali e propriamente pratici su cui la borghesia, che è l’anima della nazione, trova il suo principale appoggio»16. La borghesia, che aveva voluto e diretto la guerra fino alla vittoria, era ripagata per i suoi meriti con la decadenza economica e l’offesa alle sue idealità. Ma essa restava l’unica depositaria dell’ideale patriottico, «quello più vero, perché più umano», perché conforme alla natura degli uomini. Per questo 334
motivo spettava ad essa il governo del paese, ed essa doveva conquistarlo con qualsiasi mezzo: «Se il governo è vigliacco bisogna rovesciarlo, se il governo non può difendere la borghesia deve questa fargli sentire che sa difendersi da sé, se il governo ha bisogno di questo aiuto deve la borghesia essere in grado di darglielo»17. Bodrero si faceva interprete dei sentimenti dei nuovi ceti borghesi che volevano emergere ed affermarsi, con qualunque mezzo e per qualunque via, senza scrupoli legalitari e parlamentari. Il suo appello conteneva accenti molto simili a quelli della propaganda del movimento nazionalista, ma senza porre, a differenza di questo, alcuna pregiudiziale nei confronti della monarchia: per Bodrero, nessun istituto doveva esser considerato intangibile. La borghesia doveva avere il potere e l’avrebbe conquistato a qualsiasi prezzo e contro chiunque. La borghesia alla quale rivolgeva l’appello era soprattutto composta dai ceti medi che aspiravano ad affermare al loro autonomia nei confronti della grande borghesia, mentre cresceva contemporaneamente il loro disprezzo e il sentimento di rivincita nei confronti dei lavoratori manuali che avevano conquistato condizioni economiche migliori dei lavoratori intellettuali18: Borghesia è il ceto medio della Nazione, il numeroso ceto di tutti coloro che lavorano prevalentemente con l’intelligenza, sospinti per lo più da uno stimolo sentimentale che avvalora agli effetti collettivi e nazionali, al meno come correttivo, l’onesto incremento dell’interesse individuale. Proprietari agricoli non latifondisti, ed industriali non asserviti al capitalismo cinico, professionisti ed impiegati, insegnanti e giornalisti, scienziati e commercianti, militari e navigatori, artisti e medici, sacerdoti e ingegneri, fattori e negozianti, editori e studenti, e via via tutte le categorie di coloro che lavorano e producono con l’ingegno, più tutti coloro che pur non appartenendo a tali categorie, credono fermamente, sinceramente e disinteressatamente nell’ideale della Patria e
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s’ispirano per il bene di questa alla normale, precisa, sana corrente di buon senso che dirige il nucleo migliore e, son sicuro, più numeroso della Nazione, questa è la Borghesia. La quale, come ho detto, crede ancora alle formule ormai trapassate di progressismo o di conservatorismo, di liberalismo o di democrazia, non avvedendosi che in esse disperde tutta la sua immensa forza, a tutto vantaggio dei ceti che attualmente la schiacciano fra di loro sempre di più. La Borghesia non s’accorge che essa vive ancora anzi sopravvive in una fase politica ormai superata, mentre i suoi avversari hanno abbandonato le formule che non rispondevano più alla realtà pratica ed hanno ripreso per sé il governo dell’umanità politica della nazione. Direi quasi a dirittura che or mai la politica, nel senso tradizionale della parola, è qualche cosa di superato e che v’è nell’aria, nelle tendenze generali del nostro tempo uno spirito sindacale che l’ha sostituita da un pezzo. La Borghesia dunque, su cui il governo non fa alcun assegnamento (né ad un certo punto può darglisi torto) si trova schiacciata fra altri due ceti che hanno saputo ottenere armi, vantaggi, privilegi enormi, a punto perché hanno sentito che il centro di gravità della vita sociale del mondo era spostato ben lungi dalle sollecitazioni che avevano animato il secolo della Rivoluzione francese concluso con la recente guerra. Da un lato dunque la sfrutta e la disprezza l’alto capitalismo che ho chiamato cinico, l’anonimato, la banca e l’industria che patteggiano con lo straniero e con il bolscevico, l’aristocrazia inerte il denaro irresponsabile ed impersonale. La Borghesia deve risolutamente sapersi distinguere da tutto ciò, perché tale capitalismo è soffocante quanto la brutalità delle masse facinorose, le quali la accomunano ad esso in un odio solo, onde per quelle il professore studioso ed il grasso azionista ozioso od il giovin signore dissoluto sono la stessa cosa. Oltre di che il capitalismo, posto alla scelta fra Borghesia e proletariato, non esiterà a sacrificare quella per questo, ben sapendo che è più facile a comprarsi il proletariato che non la Borghesia e che son più gravi i danni che quello può fargli, che non questa, la quale non essendo organizzata non sa far paura e non sa farsi rispettare da nessuno.
L’appello di Bodrero sosteneva, senza mezzi termini, la necessità, per la borghesia, di abbandonare i vecchi programmi di democrazia, di radicalismo e di liberalismo, per affermarsi, senza indugi e senza illusioni di cooperazione, anche attraverso una rivoluzione, «come vera e propria casta» al di sopra del capitalismo e del proletariato. Il programma di questa rivoluzione
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borghese doveva fondarsi sul valore della proprietà come «funzione sociale» e sulla supremazia della borghesia intellettuale come classe dirigente («solo le energie intellettuali hanno diritto al primo posto al sommo della scala sociale»). Ma il punto più interessante del «manifesto» di Bodrero era l’esortazione alla classe borghese affinché rinunciasse alle formule politiche e ai partiti del passato, per cercare nuove formule e nuove organizzazioni di lotta, dando il suo consenso alla forza politica che avrebbe fatto della riscossa borghese la sua bandiera. Oltre ad essere un documento significativo d’un certo stato d’animo della borghesia intellettuale, che molto contribuì al successo del fascismo, il «manifesto» di Bodrero ha particolare interesse per il nostro tema soprattutto perché, secondo la testimonianza di Yvon De Begnac, Mussolini, nel settembre 1941, rievocando le vicende del 1921, confidò di essere stato ispirato da questo «manifesto» nel momento in cui stava cercando di definire la funzione politica del fascismo dopo il suo impetuoso sviluppo19. Il Duce, che non era certo prodigo di riconoscimenti per le fonti della sua ideologia, affermò nel settembre 1941 che fu Bodrero ad aprirgli gli occhi sul valore politico del ceto medio, «sulla sua inespressa potenza, sulla sua manovrabilità»: Emilio Bodrero aprì un solco. Mi disse chiaramente che la borghesia aveva voluto il proprio destino di succube e che si trattava - in definitiva - di obbligarla a «volere» una sorte ben diversa da quella per cui si credeva dannata a morire. Noi non ristavamo dal farci rispettare. I rossi sindacalisti agrari dell’imolese e quelli bianchi del Cremonese avevano saputo farsi rispettare. Imparasse anche la borghesia a non farsi «impalare» come ad Imola o a Cremona: scendesse in piazza a Milano, a Torino, a Firenze, a Genova! Il resto sarebbe venuto da sé […]. Bodrero negava l’eguaglianza tra manovale semianalfabeta e professore
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universitario e tecnico di valore. Ciò batteva in breccia la concezione marxistica e dava a noi, antimarxisti della lettera, gli strumenti per combattere, sul piano dottrinale, la nuova battaglia. Concordavo con Bodrero che diceva: «il Governo a chi dimostra, col cervello, di saper guidare la sorte comune».
Ora, pur tenendo conto che tali riconoscimenti postumi vanno considerati con la prudenza dovuta al «senno del poi», non si può escludere del tutto la sincerità di questa dichiarazione che, del resto, corrisponde molto bene agli atteggiamenti che Mussolini assunse nei confronti della nuova massa affluita nei Fasci, ed è particolarmente illuminante per comprendere quale peso ebbe, per la elaborazione della ideologia del fascismo, la presenza predominante del ceto medio nella sua affermazione come movimento sociale di massa. La reazione fascista, infatti, anche se fu sostenuta dal desiderio di vendetta e di rivincita della grande borghesia, trovò soprattutto nei ceti medi gli aderenti più convinti, perché più sensibili alla sua retorica d’un patriottismo attivistico, agli appelli per la difesa dei valori intellettuali, e per la costituzione di nuove gerarchie borghesi. Anche se il fascismo non aveva avuto alcun merito nel contrastare o nel determinare il fallimento della «rivoluzione bolscevica» in Italia, esso si trovò a rappresentare quella forza politica auspicata da Bodrero per dare una nuova organizzazione ed una nuova ideologia alla borghesia. Sul fallimento della rivoluzione bolscevica e la conseguente reazione della borghesia, il piccolo nucleo del fascismo mussoliniano, opportunamente trasformato con la perdita dei suoi elementi più radicali e sovversivi, seppe costruire le fortune del nuovo fascismo, vantando come suo merito la sconfitta 338
del bolscevismo, trasformando la sua vittoria in uno dei suoi miti più popolari, quello di aver salvato l’Italia e l’Europa dal pericolo rosso. In realtà, il declino della sinistra rivoluzionaria in Italia era iniziato prima dell’esplosione della reazione squadrista, ma indubbiamente il successo della abilità politica mussoliniana fu di aver tempestivamente innalzato la bandiera dei ceti medi candidando il fascismo alla loro guida politica, facendo sì che il movimento, invece di esaurirsi come mera milizia di classe, potesse sopravvivere, svilupparsi ed affermarsi come forza politica nuova, ispirata ad una ideologia «moderna», e con l’organizzazione di una nuova massa sociale. Mussolini seppe valutare bene, e per tempo, il significato e le conseguenze degli errori psicologici e politici commessi dai socialisti nei confronti della piccola e media borghesia. Egli si rese conto che a sinistra non vi erano dirigenti capaci di guidare la rivoluzione di un proletariato ormai deluso e duramente piegato dalla reazione, e ancor meno per tentare di attrarre il consenso dei ceti medi con una propaganda opportuna. Forte di questa certezza, Mussolini avviò fin dall’inizio del ’21 una nuova strategia politica, col proposito di offrire alla maggioranza della piccola e media borghesia in cerca d’una guida, un’organizzazione ed un insieme di ideali e di miti, di simboli e di parole d’ordine, che la piccola e media borghesia potesse facilmente intendere, per poter far fruttare, a vantaggio suo e del fascismo, la mobilitazione dei ceti medi. Egli sperava di poter così avere la guida di una massa sociale relativamente omogenea ed autonoma, politicamente attiva, con cui tentare la «sua» rivoluzione, imponendo il fascismo quale rappresentante di 339
una forza sociale nuova fra le opposte forze tradizionali del proletariato e della grande borghesia. Con ciò non si vuol dire che, fin da allora, fossero già chiaramente presenti a Mussolini i possibili sviluppi futuri del fascismo e che, per questo, egli avesse formulato già un chiaro disegno per la sua azione politica. È certo tuttavia che, una volta imboccata la strada della organizzazione politica dei ceti medi, Mussolini seppe progressivamente adattarsi alla sensibilità di questa nuova massa, ne seppe interpretare interessi e ideali, proponendosi soprattutto di impedire che essa, come massa politica, finisse col disperdersi per mancanza di idee e di capi, in una sterile serie di conati rivoluzionari per raggiungere obiettivi irrealizzabili, come era accaduto al proletariato nel biennio rosso. Mussolini, inoltre, era consapevole del fatto che la rapidità dell’espansione del fascismo poteva esser causa anche del suo declino, se alla nuova massa che s’era aggregata sotto le sue insegne fosse mancata una salda e disciplinata organizzazione e un’ideologia adeguata, che erano indispensabili strumenti, oltre lo spregiudicato impiego anche dell’arma-denaro20, per assicurare al movimento unità di indirizzo e autonomia di azione. Fin dalla primavera del ’21, Mussolini imboccò la strada ch’egli riteneva giusta per conservare la propria egemonia nel fascismo, e per utilizzare politicamente la mobilitazione attiva dei ceti medi, mirando innanzi tutto al consolidamento dell’organizzazione. «Noi ci adopreremo acché il movimento, effondendosi, non perda la sua coesione e intensione. Ci si delinea dinanzi un panorama politico interessantissimo. Se il fascismo saprà rimanere fascista, cioè se saprà adeguare la sua azione 340
successivamente -alle mutate circostanze, esso è destinato a diventare una delle forze direttrici della vita politica nazionale»21. L’abilità di Mussolini nell’offrire una risposta politica e ideologica alle richieste dei ceti medi fu messa bene in luce da un vecchio amico dei tempi socialisti, Torquato Nanni: Quel che è mancato al partito socialista, nel momento per esso il più fortunoso — un programma o un capo, che desse unità d’indirizzo e di azione alle masse - questo prezioso elemento di successo il fascismo lo ha avuto in Benito Mussolini. L’agitatore romagnolo, quando ha visto confluire, attorno ai suoi gagliardetti, le varie correnti della reazione borghese, ne ha subito approfittato per rompere la tenue maglia, non di ferro e non di stagnola, che era il primitivo programma fascista, e puntare senz’altro, con la tensione di tutte le sue forze, alla conquista dello Stato. Il suo maggior sogno di uomo d’azione! Dalla primavera del 1921 all’ottobre del 1922, si rivelavano, in sommo grado, le qualità di condottiero politico che hanno fatto la fortuna di Benito Mussolini. […] Tempista: egli, in quei pochi mesi, ha dato un carattere spiccatamente personale alla realtà italiana. Quando intuisce che la nazione è stanca di violenze, auspica un’alleanza dei partiti di masse socialisti, popolari, fascisti. Era, per lui, una via, che avrebbe probabilmente percorso colla massima disinvoltura22.
Tuttavia, la strada intrapresa da Mussolini non fu affatto facile: egli la percorse fra enormi difficoltà, dovette fronteggiare ostacoli imprevisti, che gli furono frapposti dall’intemo del suo stesso movimento, sfiorando spesso i più clamorosi insuccessi; e se alla fine riuscì vincitore, dovette però pagare la sua vittoria con numerosi cedimenti e compromessi nella sua linea politica. Del resto, Mussolini non aveva certo remore o scrupoli di coerenza ideologica. Egli continuava anzi a ribadire che, pur essendo diventato movimento di massa, il fascismo doveva 341
conservare lo spirito realistico e spregiudicato delle origini e agire non sulla base di schemi preordinati ma sapendo intuire le situazioni nuove e sapendo adattarsi ad esse, restando sensibile agli umori della sua massa sociale per assecondarne i mutamenti, andando incontro alle sue aspirazioni ma senza lasciarsi trascinare da essa. Accantonata ormai definitivamente qualsiasi velleità rivoluzionaria in senso anticapitalista ed antiborghese, come era nel programma del dician-novismo, Mussolini imponeva al fascismo una svolta che doveva portarlo alla guida esclusiva dei ceti medi, con il proposito di costituire con essi una terza forza, organizzata in un partito nuovo. Le osservazioni finora svolte sul significato dell’incontro fra il fascismo e la mobilitazione dei ceti medi trovano riscontro nelle vicende di Mussolini e del fascismo dopo il cambio di rotta verso la borghesia e i ceti medi, come pure nei progetti mussoliniani per trasformare il movimento fascista in partito, al fine di inserirlo stabilmente nel gioco delle maggiori forze politiche. Queste vicende risulterebbero incomprensibili senza riconoscere lo stretto rapporto che, dopo il ’20, si venne ad instaurare fra movimento fascista e ceti medi: infatti, i contrasti che Mussolini dovette affrontare con i suoi antagonisti fascisti delle regioni agrarie, e, più in generale, la crisi che investì il fascismo dopo le elezioni politiche del maggio del 1921, furono determinati in gran parte dalla diversa composizione sociale dei Fasci per la diversità di condizione sociale e di provenienza politica dei ceti medi che si erano riversati nella sua organizzazione. Come notò acutamente Gramsci, nel momento in cui il fascismo mussoliniano si propose «esplicitamente 342
l’organizzazione politica delle classi medie», entrò in conflitto con le forze più reazionarie e più sovversive del fascismo23. Per Mussolini, il nuovo compito del fascismo, come fu affermato dal Comitato Centrale dei Fasci riunito l’8 gennaio 1921 a Milano, doveva essere quello di «assicurare al paese soprattutto attraverso l’educazione nazionale delle masse, un fondamentale rinnovamento dei suoi istituti politici che conduca al potere le nuove forze e i nuovi valori scaturiti dalla guerra e dalla vittoria»24, forze e valori che erano tipica espressione dei ceti medi. Perciò egli accantonò qualsiasi riserva verso scelte di destra o di sinistra, per muoversi «a seconda delle contingenze varie e molteplici che la complessa realtà ci presenta; quella realtà che noi siamo usi a giudicare sempre in rapporto agli interessi superiori della Nazione»25. Uno dei motivi principali che contribuirono ad orientare verso il fascismo il consenso di larghi settori dei ceti medi, al di là della pura e semplice violenza antisocialista, fu l’attrazione che su di essi esercitò non soltanto l’azione ma anche l’ideologia del fascismo, con il suo complesso di miti palingenetici e di volontà restauratrice. La campagna contro il partito socialista, combattuto tanto per i suoi propositi di rivoluzione sociale quanto per la sua insensibilità verso i valori patriottici e lo spirito delle gerarchie intellettuali; l’esaltazione del capitalismo produttivo e il disprezzo del conservatorismo parassitario; la difesa degli ideali nazionali alimentati o suscitati dalla guerra; i progetti, confusi ma proprio per questo, forse, più affascinanti, di un nuovo ordine politico e sociale dove fossero riconosciuti e rispettati i valori dell’intelletto, della competenza, del merito; insomma tutto quello che costituiva a quell’epoca 343
l’ideologia fascista non poteva non suscitare entusiasmo fra la piccola e la media borghesia, sia umanistica che tecnica, convincendola che il fascismo era lo strumento efficace per attuare la «rivoluzione dei ceti medi». Questa rivoluzione, al contrario di quella bolscevica, non avrebbe distrutto le ricchezze della nazione né avrebbe eguagliato le differenze di valore, ma avrebbe assegnato a ciascun ceto un ruolo specifico, senza impedire alle «qualità» d’essere riconosciute e favorite in un sistema sociale che avrebbe realizzato un’armonica solidarietà fra i lavoratori del braccio e i lavoratori della mente, riservando ovviamente a questi ultimi la funzione direttiva, in quanto detentori del capitale tecnico e intellettuale. L’immagine che il fascismo dava di sé, battagliando contemporaneamente contro le sinistre e contro la classe dirigente, era quella d’una forza politica autonoma da interessi di classe, moderna nell’organizzazione, nello spirito e nelle prospettive, coraggiosa, idealista, «rivoluzionaria», ma nel rispetto dei valori nazionali: una forza giovane, decisa a promuovere una vasta mobilitazione politica contro le vecchie oligarchie dello stato liberale per creare uno Stato nuovo, ma senza per questo sovvertire l’assetto sociale fondato sulla proprietà. La società contemporanea, affermava Mussolini, aveva già realizzato quanto era possibile dei programmi socialisti nei limiti della sua sopravvivenza. Da ciò era scaturita una nuova vitalità del sistema capitalista, che mostrava uno spirito più dinamico ed intraprendente, dopo aver superato la prova della guerra. Il fascismo difendeva il capitalismo con la giustificazione che esso «non è soltanto un apparato di sfruttamento, come opina Timbecillità pussista: è una gerarchia; non è soltanto 344
una rapace accumulazione di ricchezze: è un’elaborazione, una selezione, una coordinazione di valori, fattasi attraverso i secoli. Valori oggi insostituibili»26. La piccola e media borghesia, che si era sempre identificata nell’ideale nazionale, rivendicando una funzione di classe mediatrice fra le diverse componenti dell’assetto sociale, rispose con entusiasmo all’appello del fascismo contro il socialismo. Grazie ad essa, il nuovo fascismo si potè affermare come movimento borghese, ma principalmente di quella media borghesia che non si sentiva classe particolare, ma si considerava il ceto fondamentale dello Stato, ceto produttivo e disinteressato, che non si riteneva legato ad interessi particolari in contrasto con gli interessi collettivi della nazione. Forse proprio perché privi di una coscienza di classe particolare, questi ceti vagheggiavano una società nazionale concepita come complesso armonico di classi, non contrastanti fra loro se non per il maggior bene della nazione. Nell’ideologia nazionale piccolo borghese, le classi non costituivano una collettività semplicemente economica, ma erano un popolo, cioè collettività legata da unità di sentimenti, di tradizioni, di aspirazioni e di fini comuni: L’idea di collettività nazionale e l’idea di gerarchia di capacità sono suscettibili di illimitati sviluppi - osservò Fovel -. Molte cose si possono dedurre da queste premesse. Ma già così come sono, in sé e per sé, esse bastano a soddisfare l’esigenza essenziale d’ogni piccolo borghese; da un lato l’inconscio attaccamento alle idealità tradizionali e dall’altro l’aggiogamento alle più penose necessità materiati; da un lato il bisogno di una idealità in una classe che è allevata e nutrita nella cultura storica del paese, e dall’altro il bisogno di un ordinamento che la sollevi dalle misere condizioni economiche e morati a cui è soggetta. Sono questi i due poti della mentalità piccolo borghese italiana, ed è quindi questo binario su cui deve muoversi ogni politica che intenda utilizzare le forze e sviscerarne i valori. Attratta da questo duplice e oscuro magnetismo la piccola
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borghesia ha dato man forte prima alla pseudo-rivoluzione detta bolscevica e poi alla pseudo-rivoluzione reazionaria27.
Fovel considerava fallite le due «pseudo-rivoluzioni», ma riteneva tuttavia che il problema del rinnovamento sociale, avvertito dalla piccola borghesia, fosse ormai ineludibile. Egli riteneva perciò necessario, per i partiti democratici, affrontarlo prendendo atto della nuova volontà politica della piccola borghesia, ormai insediatasi stabilmente al centro dell’organismo sociale. Affiancati alle categorie dei lavoratori, i ceti medi potevano divenire la base fondamentale di una moderna democrazia sociale. Se la piccola borghesia era la materia sociale, i partiti democratici dovevano essere «la rappresentanza, la forma e il tono politici della democrazia del lavoro». Le speranze di Fovel nello sviluppo della democrazia furono deluse. Per un insieme di motivi storici e politici, i partiti democratici vennero meno al compito di offrire uno sbocco democratico all’attivismo dei ceti medi: il principale fattore del successo politico del fascismo fu di aver saputo agire dove gli altri partiti erano rimasti assenti, ponendosi come partito nuovo dei ceti medi, mobilitati per la ricerca di un diverso assetto politico e sociale. In ambito fascista, del resto, già alla fine del 1919 Agostino Lanzillo aveva richiamato l’attenzione sul ruolo che, nel dopoguerra, avrebbero avuto i ceti medi, sostenendo fin da allora la necessità, per un partito moderno, di farsi portavoce delle loro aspirazioni, dando un’espressione politica a «quelli che non lavorano col braccio»28. La classe media, aveva osservato Lanzillo, per tutto il secolo XIX non aveva avuto una propria funzione politica: «Visse e vegetò in parte 346
parassita delle classi dirigenti, in parte asservita per mestiere o per calcolo alla classe operaia». Così, pur costituendo, secondo lo schema paretiano della distribuzione dei redditi, la maggioranza d’una società, la classe media non aveva avuto un ruolo politico definito, almeno fino al momento in cui la guerra, producendo una nuova distribuzione dei redditi, creò nella classe media una coscienza nuova e l’impulso verso un’organizzazione autonoma. Le iniziative di associazionismo del ceto medio, fiorite dopo la guerra, erano un esperimento «nuovo ed importante» per le conseguenze politiche che poteva avere: Esse significano, se non abortiscono avanti di concretarsi, lo sforzo della classe più numerosa, più intelligente e più complessa della società di acquistare coscienza di una propria personalità di classe, e di far valere il proprio peso di classe in confronto ed in contrasto delle altre. L’esperimento è nuovo e importante. La posizione che la classe media verrebbe ad assumere sarebbe formidabile. Essa è necessaria agli uni e agli altri. Ha in pugno tutte le funzioni veramente tecniche, quindi comprende le posizioni decisive della complicatissima e tutta meccanica vita moderna. Certo è difficile stabilire i confini di questa classe, dove comincia e dove finisce, ed è in ciò la sua massima debolezza, insieme all’altra di avere nel suo seno delle categorie che per loro destinazione sono dipendenti dalle classi dominanti.
Riprendendo il filo di questa analisi sul problema politico dei ceti medi dopo l’ingresso dei fascisti in parlamento nel maggio del ’21, Lanzillo riconosceva che lo sviluppo del movimento dei Fasci era dovuto principalmente alla mobilitazione delle classi medie. Gli uomini che il fascismo aveva raccolto nelle sue file erano «nuovi alla attività politica», era una folla di «impiegati, di piccoli rentiers, di studenti, di professionisti piccoli e medi» che «prima della 347
guerra assisteva indifferente o apatica alle vicende politiche e che ora è entrata nella contesa. Il fascismo ha mobilitato le sue forze nella zona grigia della vita politica, e da qui deriva la violenza scapigliata e l’esuberanza giovanile della sua condotta»29. Acquistando coscienza della sua realtà sociale, il fascismo doveva affrettarsi a superare lo stato originario e fluido di movimento irregolare, per divenire «il rappresentante della classe media […] equidistante dai socialisti e dai popolari, come dalla plutocrazia e dal grande capitalismo, più sensibile, per educazione e tradizione, degli altri due gruppi, alle grandi idee nazionali». In questo modo, il fascismo sarebbe diventato un partito medio, ed avrebbe raccolto ed organizzato «quanto di sano e di buono ha la borghesia rinnovata dalla guerra»30. 2. La definizione del fascismo Il fatto più significativo della svolta a destra del fascismo dopo il 1920 fu, dunque, l’assunzione di un ruolo politico nazionale come organizzazione che voleva rappresentare gli ideati e gli interessi dei ceti medi, proponendosi non solo come forza politica equilibratrice all’interno dello schieramento tradizionale, ma come nuova forza politica autonoma, svincolata dalla tradizionale dipendenza dei ceti medi dalle classi dominanti, una terza forza che entrava in competizione non solo con i partiti della sinistra e il partito popolare, ma anche con la vecchia classe dirigente liberale, candidandosi ad assumere la guida del paese con la dichiarata volontà di attuare una propria rivoluzione politica. Il fascismo aspirava a diventare la sola forza moderna schierata a difesa della nazione, presentandosi come un partito che non perseguiva interessi particolari ma 348
era una milizia al servizio della nazione per restaurare l’autorità dello Stato nelle sue funzioni di ordine, opponendosi tanto all’oligarchia burocratica del conservatorismo tradizionale, quanto all’anarchismo socialcomunista, che distruggeva le fondamenta essenziali dello Stato. Nello stesso tempo, il fascismo si faceva interprete di aspirazioni e propositi modernizzanti, presentandosi come un movimento che non mirava soltanto alla restaurazione dell’autorità statale, ma anche alla trasformazione stessa dello Stato. Si faceva strada, nella propaganda fascista, il mito dello Stato nuovo, uno Stato che avrebbe rinnovato nei suoi istituti le funzioni essenziali dello Stato moderno adeguandole alle esigenze della società di massa, immettendo nella vita dei suoi organi, attraverso nuovi organismi rappresentativi, quei ceti sociali che erano stati politicamente assenti fino alla guerra. Un fascismo che nutriva siffatte ambizioni aveva bisogno di elaborare, precisare e definire la sua ideologia e i suoi programmi politici, se non voleva esaurirsi con la stessa rapidità con cui si era sviluppato. La possibilità di trasformare la mobilitazione dei ceti medi in una «rivoluzione» dipendeva in gran parte dalla capacità di dare ai ceti medi una ideologia nuova rispondente ai loro ideati. Come fascisti, scrisse Mussolini a Michele Bianchi nell’agosto 1921, dobbiamo definire31 il nostro atteggiamento spirituale, quindi politico, quindi necessariamente pratico di fronte ai problemi immanenti e a quelli incidentali che travagliano la vita dei popoli in genere e quella del popolo italiano in particolare. Si tratta di rispondere a queste domande. Qual è la posizione del fascismo di fronte allo Stato, di fronte al regime, di fronte al capitalismo, basato su un sistema non sempre assoluto di economia a tipo individualistico, di fronte al sindacalismo, di fronte al socialismo, cioè a un tipo di economia a base collettivistica-statale? Qual
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è la posizione del fascismo di fronte al problema delle autonomie regionali? Che cosa pensa il fascismo di una grossa questione: quella della libertà di insegnamento? Qual è la posizione del fascismo di fronte al fatto «religioso» e, nel caso italiano, di fronte al cattolicismo? […]. La vita degli individui, come quella dei popoli, è un groviglio pauroso di problemi e non v’è speranza di soluzioni «definitive». Ora il fascismo italiano, pena la morte, o, peggio, il suicidio, deve darsi un «corpo» di dottrine. Non saranno, non devono essere delle camicie di Nesso che ci vincolino per l’eternità, poiché il domani è misterioso e impensato: ma devono costituire una norma orientatrice della nostra quotidiana attività politica ed individuale.
L’urgenza del problema posto da Mussolini si avverte chiaramente nei dibatti della stampa fascista del tempo. Il bolscevismo era stato sconfitto, i valori della guerra erano stati difesi, le organizzazioni socialiste distrutte. Tutto ciò rientrava in un’azione puramente negativa, che assegnava al fascismo, nell’intenzione di molti suoi aderenti e fiancheggiatori, un ruolo strumentale, in difesa della proprietà e del sistema: ora bisognava superare la fase negativa della violenza squadrista contro le organizzazioni del proletariato, per promuovere la «rivoluzione nazionale», con realismo, senza demagogia, senza dogmi, e senza propositi di rivolgimenti radicali ispirati a concezioni utopistiche32: unico principio ispiratore doveva essere la nazione, di fronte al quale «tutto il resto idee, istituzioni, uomini e valori morali - tutto è secondario, relativo, contingente»33. Oltre al richiamo all’idea di nazione, la preoccupazione maggiore, per i fascisti, nel fissare i princìpi della loro ideologia, era di far dimenticare la passata attività antipopolare, per presentarsi come un partito sollecito del bene di tutte le classi, desideroso di ordine e di giustizia, nemico dei parassiti e degli sfruttatori. L’urgenza del problema della definizione ideologica lasciava chiaramente trasparire il timore che, limitando la sua azione 350
politica a «contrappeso» verso socialisti, comunisti e anarchici, il fascismo finisse con l’apparire un mero strumento nelle mani del governo, e di «quella corrotta e degenerata borghesia dirigente» che del fascismo intendeva servirsi per rinsaldare il suo potere34. Per fugare questa immagine, si giunse persino ad affermare che il fascismo non era contro il socialismo in quanto movimento di difesa del proletariato, perché faceva sue le rivendicazioni «giuste» delle classi popolari, ed aveva nel suo programma un disegno per garantire la presenza delle masse lavoratrici nel nuovo Stato, attraverso i consigli tecnici del lavoro35. Vi erano, tuttavia, non poche contraddizioni fra i residui della mentalità violenta dello squadrismo e i nuovi propositi di restaurazione nazionale, fra la pratica reazionaria e i programmi modemizzatori. In effetti, dopo la proclamata sconfitta del pericolo bolscevico, il metodo della violenza era inconciliabile con la promessa di restaurazione dell’ordine, che il fascismo poneva fra i principali obiettivi della sua politica per andare incontro ai desideri della maggioranza della popolazione. La funzione del movimento era mutata, specialmente dopo che un gruppo di deputati fascisti era andato in parlamento ed il fascismo era entrato, così, nel quadro della vita politica tradizionale. Di conseguenza, il fascismo non poteva continuare a muoversi liberamente nel più spregiudicato indifferentismo ideologico, riducendo la politica fascista alle spedizioni punitive e alla repressione antipopolare, pretendendo di risolvere i complessi problemi della nazione con l’eliminazione degli avversari o con la declamazione retorica della fede nei destini immancabili della patria. Occorreva uscir fuori dalla nebulosa degli stati d’animo eccitati, per 351
imporre al fascismo un indirizzo politico definito, anche se non definitivo. Di questa esigenza si fece portavoce Mussolini, con il gruppo dirigente milanese. Essi si rendevano conto che soltanto un’organizzazione unitaria, con un vincolo programmatico e una disciplina interna, avrebbe potuto impedire al fascismo di sfaldarsi e, a loro stessi, di perdere la direzione del movimento a vantaggio delle varie organizzazioni regionali. Essi volevano superare la fase meramente reazionaria del fascismo per assumere un ruolo politico di più vaste prospettive. Nel gruppo mussoliniano vi era un «incoercibile bisogno di ideologie generati»36 e la volontà di dare al fascismo una visione e una direzione politica nazionale, senza lasciarlo scadere al livello della faida e della reazione agraria locale. L’iniziativa di Mussolini per un eventuale accordo con popolari e socialisti, come anche il progetto di un patto di pacificazione con i socialisti, misero in luce clamorosamente la diversità delle componenti ideologiche, politiche e sociali del nuovo fascismo. Il contrasto scoppiò fra il fascismo regionale e rurale e il fascismo urbano, cioè milanese. Più rozzo, violento e indisciplinato il primo, nato dallo squadrismo; più realistico e politicamente maturo il secondo, che era espressione di uomini politici di maggiore esperienza e interpreti, a loro modo, delle aspirazioni modernizzatrici e normalizzatrici dei ceti medi urbani. La strada intrapresa da Mussolini poneva il fascismo davanti a problemi che avrebbe potuto trascurare se fosse rimasto soltanto un fenomeno di stati d’animo o di reazione agraria, ma che ora divenivano essenziali e dovevano essere risolti, pena la perdita di una identità «fascista» del movimento. Come osservò Gramsci: 352
Il dissidio latente comincia da questo momento a manifestarsi in tutta la sua profondità. Mentre i nuclei urbani, collaborazionisti, vedono ormai raggiunto l’obiettivo, propostosi, dell’abbandono dell’intransigenza classista da parte del partito socialista, e si affrettano a verbalizzare la vittoria col patto di pacificazione, i capitalisti agrari non possono rinunziare alla sola tattica che assicura loro il «libero» sfruttamento delle classi contadine, senza seccature di scioperi e di organizzazioni. Tutta la polemica che commuove il campo fascista, fra favorevoli e contrari alla pacificazione, si riduce a questo dissidio le cui origini non si debbono ricercare che nelle origini stesse dei movimento fascista37.
L’avvento sulla scena politica nazionale pose ai fascisti il problema di definire il fascismo: su questo problema, che includeva tanto le questioni ideologiche quanto le questioni politiche contingenti - dalle proposte di programma alla scelta degli alleati e dei metodi di azione - vennero a scontrarsi le varie correnti e tendenze che erano confluite disordinatamente nel fascismo, affiancandosi a quelle che erano presenti fin dalle origini in un calderone di idee e aspirazioni, in cui il fascismo rischiava di affogare per mancanza di identità e di unità, finendo coll’essere coinvolto anch’esso nella crisi di disorganizzazione o di dissoluzione che investiva gli altri partiti, e gli stessi movimenti nuovi sorti dall’esperienza della guerra, come il combattentismo. Bisognava insomma estrarre, dal «minestrone rivoluzionario» col quale s’era ingrossato il fascismo, qualcosa di consistente e di solido38. Ed era appunto quanto si proponeva di fare Mussolini con la sua iniziativa politica volta a definire i contenuti ideologici del fascismo in vista della sua costituzione in partito. Le opposizioni più vivaci alla nuova impostazione della politica mussoliniana vennero da parte dei fascisti che si sentivano ancora legati alle idee ed allo spirito del fascismo 353
«sansepolcrista». Gli arditi, per esempio, accusavano il fascismo di aver subito una deviazione in senso parlamentaristico, venendo meno ai suoi ideali originari, che eran quelli dell’arditismo39. E tale deviazione sarebbe stata imposta da Mussolini per soddisfare la sua ambizione, dando ancora una prova, con la pace socialfascista, del suo opportunismo40; su Mussolini ricadeva la responsabilità di aver disperso il nucleo originario del fascismo, con il progressivo abbandono del programma di piazza San Sepolcro; di aver spinto fuori del fascismo i futuristi, parte degli arditi, i legionari dannunziani. Simili accuse venivano rivolte anche dai capi dei vari fascismi regionali, portati in alto dalla reazione agraria ma desiderosi di apparire più «a sinistra» di Mussolini. Capeggiati da Dino Grandi e da Piero Marsich, costoro si proclamavano dannunziani e contestavano le pretese di Mussolini di esser riconosciuto fondatore e capo indiscusso dei Fasci, sostenendo che il fascismo «vero» era il fascismo delle province, non quello milanese, e che ideologicamente il movimento fascista era solo una prosecuzione, un nuovo sviluppo, del fiumanesimo. Furono proprio gli esponenti del fascismo agrario a polemizzare con più veemenza contro il «parlamentarismo» mussoliniano, proclamando che il fascismo era una rivoluzione innovatrice, antiparlamentare ma democratica, che mirava ad attuare il sindacalismo nazionale, secondo i princìpi fissati nella Carta del Carnaro. Il fascismo, affermava Grandi, che fu allora il principale oppositore di Mussolini, non era reazione di classe, ma avanguardia d’una rivoluzione nazionale a base sindacalista, che avrebbe risolto il grave problema della partecipazione delle masse al potere mediante i princìpi della costituzione fiumana, portando a 354
compimento l’opera di emancipazione delle masse lavoratrici iniziata dal socialismo, ma realizzandola nell’ambito della creazione di un nuovo Stato nazionale, che doveva essere concreta attuazione del disegno mazziniano della rivoluzione italiana. Più che essere una creatura di Mussolini, il fascismo, per Grandi, era sorto per effetto del fallimento del partito socialista, dovuto alla demagogia massimalista, alla pretesa di avere il «monopolio esclusivo» del sindacalismo, alla incomprensione storica della questione nazionale, considerata dai socialisti una maschera ideologica di interessi borghesi. Ma l’errore più grave dei socialisti era stato di non aver compreso il valore rivoluzionario della guerra e di aver inasprito ed allontanato da sé i ceti medi, con una irresponsabile campagna bolscevica di deni-grazione dell’interventismo e del combattentismo. I socialisti, continuava Grandi, non avevano capito che la rivoluzione russa, al di là del modello mitizzato secondo i canoni internazionalisti, era in realtà «l’avanguardia della rivoluzione di tutte le nazioni povere di oriente e di occidente contro il capitalismo inglese, uscito dalla guerra tiranno e padrone assoluto del mondo». Non avendo compreso tutto ciò, il partito socialista si era schierato contro l’impresa fiumana, aveva disprezzato l’opera sociale di D’Annunzio, senza rendersi conto che «Fiume era né più né meno che la rivoluzione di tutto il popolo italiano sindacalista e operaio contro la Santa Alleanza di Versailles»41. Era ora missione del fascismo, concludeva Grandi, riprendere la bandiera del fiumanesimo per condurre le masse lavoratrici, attraverso il sindacalismo nazionale, nell’orbita ideale della patria. Grandi agitò queste idee per contrastare tutta la politica 355
mussoliniana, dalla svolta a destra del fascismo all’iniziativa della pacificazione con i socialisti. L’ideologia del giovane leader del fascismo emiliano era una miscela composita di motivi dannunziani, con riferimenti generali ad Oriani, agli ideali «vociani», alla democrazia sociale di Murri e al liberalismo di Missiroli. Grandi fece propria l’interpretazione missiroliana del fascismo come erede del socialismo e della democrazia, ma egli era altresì convinto che il fascismo, come tale, non fosse un movimento politico autonomo, con prospettive future. Quanto poco, agli inizi del ’21, Grandi credesse nel fascismo è testimoniato da una sua lettera a Missiroli42, nella quale confessava di considerare il fascismo, in quanto conseguenza degli errori socialisti, un fenomeno transitorio, legato alla durata delle violenze contro i socialisti e destinato a scomparire con l’avvento di una democrazia sociale a base na-zionalsindacalista: Il movimento fascista - che è, nonostante tutti i comitati centrati del mondo, un insieme caotico di fenomeni locali di reazione - sarà tanto più transitorio, qualora i socialisti comprendano l’opportunità di cessare dalle violenze. Cesserà per incanto, credilo, mentre si rafforzerà sempre più se le vendette individuati e collettive socialiste continueranno […]. Il Fascio mi è fedele, perché sa quel che io faccio. E mi è fedele soprattutto quella parte fascista che persuasa come me del valore contingente del Fascismo ci si è buttata dentro nella speranza - forse fallace - di farne uno strumento a servizio della democrazia […]. Nessun fascismo potrà mai fermare il cammino di quello che è stato e sarà il socialismo, o meglio il sindacalismo.
Anche se, nello scontro con Mussolini, Grandi affermò, per ragioni di tattica personale, che il fascismo era tutt’altro che fenomeno transitorio, ribadì comunque che esso altro non era che la forma contingente del più vasto processo di 356
formazione di una nuova democrazia nazionale. Nonostante ciò, fu proprio Grandi il più veemente avversario del patto di pacificazione con i socialisti, che, nella prospettiva mussoliniana, avrebbe dovuto essere la prima tappa del cammino verso una possibile collaborazione fra i partiti di massa, popolari socialisti e fascisti, nel senso del processo di integrazione della masse nello Stato nazionale. Mussolini aveva buone ragioni per confutare le argomentazioni ideologiche di Grandi, accusando lui e gli oppositori squadristi della pacificazione di voler perpetuare, dietro la maschera del sindacalismo nazionale e del fiumanesimo, un sistema di violenze antisocialiste, che scavavano solchi sempre più profondi fra il fascismo e le masse lavoratrici, a solo vantaggio degli agrari più reazionari. In realtà, i motivi dell’atteggiamento contraddittorio di Grandi e degli altri capi squadristi della rivolta antimussoliniana non erano tanto di carattere ideologico quanto politico. Il disegno di Mussolini era di inserire stabilmente il fascismo nel mondo parlamentare, come una delle tre grandi organizzazioni di massa, accanto al partito socialista e al partito popolare. Se coronata dal successo, questa manovra non solo avrebbe confermato l’egemonia di Mussolini e del fascismo milanese sul movimento fascista, ma avrebbe comportato inevitabilmente la fine dello squadrismo e degli stessi fascismi regionali. Perciò, al fine di contrastare l’affermazione dell’egemonia mussoliniana nel fascismo, Grandi fu indotto a mettere in discussione l’origine stessa del fascismo, asserendo che, sebbene intuito da Mussolini, il fascismo era nato a Bologna, ricercando in D’Annunzio e nel fiumanesimo le 357
fonti ideologiche di legittimazione di questa rivendicazione di autonomia nei confronti delle pretese egemoniche mussoliniane, infiammando così uno scontro, che ebbe momenti polemici anche aspri e violenti, e fu combattuto prevalentemente come scontro ideologico fra diversi modi di concepire il fascismo, la sua natura di origine, la sua funzione e la sua mèta. Ma a dar fuoco alle polveri era stato, in realtà, lo stesso Mussolini. Il quale, di fronte al pericolo di perdere il controllo del fascismo, aveva infatti dichiarato che, dopo la crescita impetuosa dei Fasci, di fronte alla confusione delle tendenze, era tempo di richiamare il movimento alle sue origini, era necessario un «ritor-no ai princìpi» per non perdere la propria identità e divenire così strumento di altre forze. Il che, per Mussolini, equivaleva a dire che tutto il fascismo doveva ispirarsi alle sue idee e obbedire alle sue direttive politiche. E le sue direttive, in quella circostanza, miravano soprattutto ad aprire un dialogo con le altre forze politiche, anche i socialisti; a far deporre le armi agli squadristi, e a procurare al fascismo una patente di cittadinanza e di legittimità nel mondo politico parlamentare. In questa «legalizzazione» i capi dello squadrismo vedevano invece la fine del proprio fascismo, mentre questo era destinato, secondo loro, a rimanere ancora per lungo tempo movimento di lotta e di spedizioni punitive contro vecchi e nuovi avversari, a seguire le vie delle questioni locali e a lasciare la porta aperta per reclutare aderenti da qualsiasi parte, senza porli di fronte al problema d’una scelta ideologica. Vi era, inoltre, un’opposizione di tipo ideologico alla svolta mussoliniana e al suo progetto di trasformare il 358
movimento in partito, svolta che era diversamente valutata come realismo o come opportunismo. Il fascismo urbano, vantando diritti di primogenitura e una coscienza politica nazionale, mirava alla legalizzazione del movimento, perché, secondo Mussolini, solo in questo modo potevano essere conservati i successi conseguiti ed avviare un graduale processo per inserire il fascismo nello Stato. Al contrario, i fascismi regionali - per ragioni diverse - vedevano in questo mutamento di rotta e nella proposta di organizzarsi in partito l’abbandono del carattere «rivoluzionario» del fascismo. Gli squadristi, quelli che erano meno legati alla pura e semplice reazione, nutrivano esaltati propositi sovversivi, volevano mantenere il fascismo ancora nell’atmosfera di ribellismo irregolare. Essi recalcitravano sia alla proposta di trasformazione in partito sia alla richiesta di definizione ideologica. Per Mussolini, invece, il fascismo si trovava di fronte ad una svolta decisiva della sua storia: lo spirito di guerra doveva cedere allo spirito di pace, gli egoismi e gli interessi particolari dovevano essere superati e messi al bando dal fascismo, i campanilismi «delle molte Peretole italiane» difesi dai capi squadristi ostili alla sua politica dovevano cedere a chi voleva «sprovincializzare l’Italia e proiettarla, come “entità nazionale”, come blocco fuso oltre i mari e oltre le Alpi»43. Il fascismo insomma non doveva essere soltanto una forma di violenza reazionaria, come era divenuto - secondo Mussolini - nelle regioni agrarie. A queste accuse, i capi squadristi e i fascisti «dannunziani» reagirono ribadendo che le rivendicazioni egemoniche di Mussolini non avevano alcun fondamento, perché egli non aveva alcun privilegio di paternità nei confronti del fascismo, figlio della guerra ed 359
erede del fiumanesimo, sua unica e vera fonte di origine: il fascismo ha una essenza propria che nacque dalla guerra, germogliò nella notte di Ronchi, fiorì a Fiume nel Fiumanesimo, darà i suoi frutti propugnando e sviluppando lo Statuto della Reggenza; al di fuori di questa via non c’è salvezza di sorta. Non è a Milano lo spirito che ci deve guidare; è a Gardone […]. E il fiumanesimo, come sviluppo storico prodotto dall’evoluzione della vita sociale, del mazzinianesimo, del socialismo, del materialismo e dell’idealismo attuale, li contiene e li supera. Questo è il fiumanesimo studiato da un punto di vista storico, filosofico e sociologico. Il fascismo, dovendo confondersi con esso, allo scopo di purificarsi deve ricorrere alla fonte, allo Statuto della Reggenza. Questo sarà il vero «ritorno alle origini» e l’unico punto di partenza sicuro per raggiungere la meta magnifica ed altissima44.
Il richiamo a D’Annunzio era, politicamente, poco più d’un motivo polemico nei confronti di Mussolini. Il poeta, ritiratosi in solitario colloquio con le Muse a Gardone, dopo l’epilogo dell’avventura fiumana, non rappresentava più una vera guida politica, preferendo dare di sé l’immagine di uomo superiore alle parti, non coinvolto negli interessi e nei conflitti del mondo politico. L’appello al fiumanesimo, come «religione» di una rivoluzione nazionale di cui il fascismo avrebbe dovuto rappresentare la «seconda ondata», e il richiamo alla costituzione fiumana come tavola ideologica del fascismo, non erano sfide che potessero seriamente impensierire Mussolini, il quale considerava l’ideologia dannunziana un’utopia appartenente al romanticismo combattentista ormai tramontato, priva di alcun valido fondamento nella realtà politica e sociale del paese, e comunque non adatta a poter costituire il quadro di riferimento ideologico per un movimento di massa che voleva realisticamente affermarsi come moderno partito 360
politico ed aspirare al potere. In effetti il poeta, esaurita la sua inventività politica con la conclusione dell’avventura fiumana, non aveva da offrire altra indicazione politica che il suo appello alla pacificazione nazionale, appello al quale gli stessi fascisti, che a lui si ispiravano, non intendevano prestare ascolto. Inoltre, i rapporti fra fascismo e fiumanesimo, dopo il Natale di sangue, si erano sempre più deteriorati, per profondi motivi di contrasto, spesso violento. La Federazione nazionale dei legionari dannunziani, fondata nel gennaio del ’21 da Alceste De Ambris, aveva assunto un atteggiamento chiaramente antifascista. L’idea di un fascismo «dannunziano» che potesse convivere con un dannunzianesimo antifascista era palesamente assurda, e ciò costituiva certamente un punto molto debole per la posizione dei fascisti antimussoliniani che si richiamavano a D’Annunzio e al fiumanesimo. Altro motivo della opposizione fascista antimussoliniana era la questione della trasformazione del movimento in partito. A tale trasformazione era decisamente contrario il capo del fascismo veneziano, Marsich, anch’egli dannunziano, ma ben più di Grandi convinto credente nei miti della rivoluzione nazionale del dannunzianesimo, e decisamente ostile alla politica mussoliniana che considerava letale per il fascismo, perché legava le sorti del movimento rivoluzionario al vecchio Stato liberale e parlamentare contro il quale esso era insorto. Per Marsich il fascismo doveva conservare il suo carattere di movimento, espressione della nazione in marcia verso la fondazione dello Stato nuovo sulle basi del sindacalismo nazionale: un movimento che doveva rimanere «aperto», senza pregiudizi 361
dottrinari, senza rigida disciplina, per svolgere la funzione di coordinatore e di mediatore fra le forze sane e nuove del paese, piuttosto che diventare una delle forze dello schieramento tradizionale nelle strutture del vecchio regime. Se si doveva restare fedeli al fascismo delle origini, come voleva Mussolini, allora bisognava ricordare che la parola d’ordine del primo fascismo era: contro tutti i partiti. Per Marsich, in conclusione, il fascismo doveva restare fedele al programma del ‘19, senza innalzare barriere artificiali intorno a sé, diventando partito, né operare discriminazioni e selezioni ideologiche, che ne avrebbero ridotto la forza e la capacità di attrazione. Il fascismo doveva restare un punto di incontro, il centro animatore di una «unione sacra» delle forze giovani contro la vecchia Italia: deve lanciare il suo estremo appello a tutte le forze vive d’Italia. Queste forze ci sono e affluiranno. Affluiranno donde meno ognuno s’aspetta. Verranno i fascisti - i sinceri -, verranno i legionari, verranno gli arditi, verranno i nazionalisti, verranno i repubblicani, verranno anche quei comunisti che credono che una tappa nazionale non possa mancare nella loro strada intemazionale, verranno quei democratici e quei liberali che non sono schiavi della demagogia e detestano la degenerazione dei loro partiti. Bisogna unificare e non dividere. 45. Bisogna estendere la nostra azione e non limitarla
La trasformazione del movimento in partito avrebbe segnato la fine del fascismo, che sarebbe entrato «nel circo di Montecitorio come un animale addomesticato». Mussolini voleva giungere ad un compromesso col vecchio Stato liberale ma, in questa scelta, secondo Marsich, Mussolini appariva un «superato»46, perché non si rendeva conto che la crisi attuale era la crisi dello Stato liberale. Il fascismo aveva il compito di dare il colpo di grazia per rovesciarlo, non fornirgli un solido sostegno. Secondo 362
Marsich, l’Italia si stava dibattendo fra un pregiudizio libertario e un pregiudizio socialista, fra anarchia e collettivismo; il fascismo occupava un posto mediano: era «nazionalismo in atto», pratica concreta di sindacalismo nazionale. Marsich non credeva nell’originalità ideologica del fascismo, e nella possibilità, per il movimento, di diventare una forza politica autonoma, con una propria ideologia. Per lui, l’azione fascista altro non era che una consapevole o inconsapevole opera di «stampo nazionalista». 3. Nazionalismo e fascismo: il corteggiamento dei padri nobili Nell’ambiente fascista del 1921, le lingue erano molto confuse. Le tre posizioni principali - quella di Mussolini, di Grandi e di Marsich - furono ribadite al congresso di Roma, dove si discusse, e infine si deliberò, la costituzione del fascismo in partito. Con il compromesso fra Grandi e Mussolini, il contrasto si risolse a favore di quest’ultimo, mentre Marsich fu, poco a poco, emarginato dal movimento e finì in breve la sua attività politica con il ritiro a vita privata. Fino al congresso, e ancor più in seguito, sulla nuova forza fascista che stentava a trovare la sua strada si fissarono gli sguardi interessati dei conservatori e dei partiti di destra. Primi fra tutti, nel fare la corte al fascismo, furono i nazionalisti. La svolta a destra fatta dal movimento fascista dopo il 1920 non era a loro dispiaciuta, anche se grande era stata la delusione per la rinnovata dichiarazione di fede repubblicana pronunciata da Mussolini all’indomani delle elezioni del maggio 1921. Altra delusione, per i nazionalisti, fu la proposta d’una collaborazione parlamentare fra i popolari, i fascisti e i socialisti47. 363
Certamente, per i nazionalisti la preoccupazione maggiore era la nascita di un partito nuovo, che parlava il linguaggio della destra, aspirava a conquistare il monopolio del sentimento nazionale e, tuttavia, era animato da velleità sovversive; era troppo legato alle masse, da cui provenivano i suoi dirigenti, ed era per giunta ancora troppo anticlericale e repubblicaneggiante48. Per i nazionalisti, inoltre, vi erano nel fascismo ancora fermenti «democratici» che non si conciliavano con il loro disegno restauratore di paladini della monarchia, del capitale industriale e della grande borghesia. Nel nuovo fascismo i nazionalisti riconoscevano un orientamento ideologico che era più affine alle loro posizioni, ma proprio per questo ritenevano che con tale orientamento non fosse più compatibile un persistente demagogismo della base fascista e il repubblicanismo di Mussolini, giudicato dall’organo dell’Associazione nazionalista di «una superfluità disorientatrice»49. Il problema d’una definizione ideologica poneva inevitabilmente al fascismo anche la chiarificazione dei rapporti con l’Associazione nazionalista, a causa di alcune analogie pratiche e ideologiche fra i due movimenti. La loro politica, in verità, non era mai stata eguale, anche se per molti fascisti sembrava naturale considerare i nazionalisti come il gruppo ad essi più affine e più vicino nella lotta antisocialista, per la difesa degli ideati nazionali e per la restaurazione dell’autorità dello Stato. Di fronte alla confusione ideologica del fascismo, in quel periodo, sembrava quasi naturale che l’ordine teorico venisse dato dalla ben codificata dottrina nazionalista. Questo, almeno, era il desiderio e la speranza dei nazionalisti e dei fascisti che provenivano dalle file nazionaliste, di quelli che erano 364
ancora iscritti all’Associazione nazionalista, come pure di tutti quei fascisti che erano comunque contrari all’orientamento «democratico» del fascismo. Da parte nazionalista si guardò sempre al fascismo con un misto di simpatia, di diffidenza, di attendismo e di malcelato senso di superiorità, per una rivendicazione di primogenitura nella candidatura alla guida del paese in nome della nazione, e per il più agguerrito e coerente apparato teorico e ideologico. In particolare, l’origine sovversiva dei Fasci inquietava ancora i nazionalisti, che avevano definito la loro nascita un errore50. La formazione socialista o sindacalista rivoluzionaria e repubblicana di molti capi fascisti suscitava sempre perplessità nei nazionalisti che erano stati, e rimanevano, rigidamente tradizionalisti, monarchici, conservatori. Tuttavia, come scriveva il nazionalista e fascista Silvio Galli, non si poteva neppure dimenticare che fascisti e nazionalisti s’erano trovati spesso a combattere le stesse battaglie contro gli stessi avversari. Non vi era dubbio che esisteva una qualche affinità di temperamento e di spirito fra il nazionalismo del dopoguerra, più giovane e più combattivo, e il fascismo, mentre restava una divergenza di fondo fra questo e il nazionalismo d’anteguerra, «tradizionale e conservatore, cocciutamente attaccato alle idee monarchiche e legittimiste e filocattolico»51. La pregiudiziale monarchica era lo scoglio più grosso su cui si infrangevano le affinità e le simpatie fra i due movimenti. Il nazionalismo, in occasione del congresso fascista di Roma, augurò al fascismo di liberarsi dalla troppa «lue demagogica», residuo dell’interventismo di sinistra, per assumere il ruolo e le responsabilità d’una classe politica52. I nazionalisti, in realtà, non avrebbero scommesso sulla 365
capacità di vita e di durata del fascismo come movimento politico. Essi erano convinti che il fascismo fosse soltanto un movimento di giovani violenti ma senza idee; un complesso di stati d’animo ancora torbido, che aveva bisogno del controllo nazionalista per poter essere veramente utile al bene del paese. La natura e i compiti dei due movimenti erano diversi, anche se le finalità apparivano comuni, come diverse erano le origini e la mentalità. Secondo alcuni nazionalisti, questa diversità avrebbe potuto provocare contrasti profondi fra nazionalismo e fascismo. «V’è oggi un divario spirituale nascosto dall’urgenza dell’azione, vi sarà domani, ove il fascismo sopravviva, una antitesi netta»53. I nazionalisti tendevano a definire questa divergenza nei termini di un contrasto fra ragione ed entusiasmo. Il nazionalismo si considerava, ed in effetti era, un movimento di gente matura, con un’elaborata dottrina, consapevole dei suoi princìpi, dei suoi scopi e della sua azione, anche se non poteva vantare, al pari del fascismo, un largo seguito di massa. Al contrario il fascismo, nato come moto spontaneo e sentimentale, più istintivo che razionale, più passionale che dottrinario, era un movimento di credenti, se si voleva, ma non di persone convinte sulla base di idee razionali, con un chiaro ed elaborato progetto politico, e, perciò, non era neppure pienamente cosciente della sua azione a difesa della nazione. Per questa sua natura emotiva, asseriva il nazionalista Ugo D’Andrea, il fascismo era destinato ad aver vita breve, perché non era un vero movimento politico. La sua essenza si risolveva interamente nella attitudine alla «guerra guerreggiata»: poi, «svanita l’atmosfera eroica, ciascuno tornerà al proprio focolare sdegnoso della politica». Per i nazionalisti, dunque, 366
non vi erano molte possibilità per conciliare la «grave ed insanabile» antitesi fra i due movimenti; il fascismo non era altro che la manifestazione d’un «nuovo garibaldinismo»: Il nazionalismo ha origine teorica e culturale - affermava D’Andrea -; il fascismo scaturisce dalla necessità e dall’istinto. Il nazionalismo ha origine e finalità aristocratiche; il fascismo, democratiche. Il nazionalismo è un virus nuovo e potente da iniettare nel vecchio tronco malato di demagogia di questa nostra gloriosa stirpe per trarla a salvamento; il fascismo non è nel fondo che un nuovissimo aspetto della vecchia anima democratica italiana, con tutti i suoi difetti tradizionali.
Arroccato sull’estrema destra, il nazionalismo non poteva concordare col «garibaldinismo» fascista, che detestava. E neppure i nazionalisti avevano molta simpatia per il fascismo di ispirazione dannunziana, anche se, nella polemica fra Mussolini e Grandi, essi si schierarono a favore di quest’ultimo54; i nazionalisti non avevano alcuna stima dei programmi sociali dannunziani né per la Carta del Carnaro, «come se - affermava ancora D’Andrea - tale componimento tra lirico ed erudito, certo intonato al breve ciclo di eroica passione della città olocausta, fosse traducibile in tavole di savie leggi ordinate per un grande Stato». Con queste premesse, dunque, le concordanze fra nazionalismo e fascismo si sarebbero limitate tutt’al più al campo dell’azione mirante a restaurare l’autorità dello Stato, azione nella quale i nazionalisti assegnavano a sé il ruolo di gruppo dirigente e ai fascisti la funzione di massa di manovra. Insomma, se il fascismo voleva in qualche modo durare, doveva passare sotto le insegne dell’Associazione nazionalista: «il fascismo, se vuole veramente costruire deve per forza identificarsi col nazionalismo»55. Una fusione alla pari fra i due movimenti appariva improbabile 367
ai nazionalisti, i quali prospettavano l’ipotesi di fusione solo nel senso che il fascismo doveva accettare pienamente la dottrina e la direzione politica nazionalista, depurandosi da tutte le scorie e i fermenti «democratici», popolari e rivoluzionari. L’interessato appoggio dato dai nazionalisti alle polemiche antimussoliniane di Grandi e di Marsich era del tutto strumentale, e non andava al di là del mero tentativo di influire sulla crisi del fascismo, probabilmente più col proposito di indebolirlo, accentuandone le fratture interne, che di consolidarlo favorendo il superamento della crisi. Nulla, infatti, i nazionalisti avrebbero potuto avere in comune con la professione di fede rivoluzionaria e con la concezione dannunziana del sindacalismo nazionale, tutta intrisa di populismo, professata da Grandi e da Marsich: il movimento nazionalista era e restava un movimento aristocratico. Pertanto, la possibilità di intesa fra i due movimenti, anche a beneficio della sopravvivenza del fascismo, dipendeva interamente dalla disponibilità dei fascisti a divenire disciplinati e diligenti discepoli dell’Associazione nazionalista, e a lasciarsi istruire e guidare dai suoi dirigenti, liberandosi definitivamente di ogni garibaldinesca velleità di romanticismo rivoluzionario: Il fascismo è un movimento romantico: lo dicono tutti. Ma in ciò sarebbe la sua condanna a una vita effimera. Se vuol sopravvivere e soprattutto se vuol essere un partito deve superare il suo romanticismo. La tendenza all’ordine, alla quadratura, al classicismo è ormai decisa in tutte le manifestazioni del pensiero: è un bisogno prepotente dello spirito moderno stanco dell’instabilità, dell’irrequietezza, dell’imprecisione. Dopo l’impressionismo e il futurismo si cerca ora la massa, la solidità, «il valore plastico»: dopo il verso libero si torna alla forma chiusa perfetta del sonetto, così in politica; quel procedere un po’ saltuario e zizzagante del fascismo ch’era la delizia dei turbolenti e il disagio dei più equilibrati fra i suoi seguaci, deve trovare la sua misura. Il fascismo da romantico deve
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divenire classico, come vuole essere romano e imperiale. Ma di veramente classico, per solidità ed esattezza di costruzione non v’è, nella nostra politica, che il Nazionalismo. Il fascismo, abbandonando la sua caduca veste romantica, deve sostanziarsi col nazionalismo.
Anche nel fascismo vi erano elementi che guardavano con favore alla possibilità d’una convergenza del fascismo col nazionalismo, auspicata soprattutto dagli elementi della destra fascista. Le differenze fra i due movimenti, dicevan questi, erano sfumature, mentre i loro programmi avevano sostanziati punti in comune, come la nazione, la gerarchia, l’espansione. Certo, l’origine era diversa: il nazionalismo, nato all’ombra dei monumenti romani, aveva un carattere tradizionalista e reazionario, mentre il fascismo, figlio della guerra cresciuto nell’ambiente moderno delle città settentrionali, «anche per l’inclusione in esso di molti intellettuali di avanguardia, ha assunto un carattere almeno formalmente rivoluzionario»56. Ma erano differenze formati, tali, comunque, da non escludere pregiudizialmente la possibilità d’una fusione fra i due movimenti, nel quadro della formazione di una più grande destra nazionale, che, secondo quanto sosteneva Massimo Rocca, principale fautore di questa ipotesi, avrebbe raccolto entro un unico schieramento i fascisti, i nazionalisti e i liberali di destra57. Siffatti propositi «fusionisti» non riscossero tuttavia molti consensi fra la gran massa dei fascisti, che non si erano formati una sia pur rudimentale coscienza politica abbeverandosi alle fonti delle dottrine tradizionaliste o reazionarie, ma avevano assorbito piuttosto alla rinfusa temi e miti rivoluzionari dal mazzinianesimo, dal socialismo e dal sindacalismo, dalle avanguardie culturali della contestazione antigiolittiana e 369
antitradizionalista. L’aspetto complessivo del movimento nazionalista, come movimento positivista, reazionario, guerrafondaio, monarchista e antipopolare suscitava l’avversione della gioventù fascista, che certo non voleva «fare la rivoluzione» per regalare la nuova Italia ai nazionalisti. L’educazione di questa gioventù fascista, che aveva fatto la guerra con spirito diverso da quello dei nazionalisti, era stata influenzata principalmente dall’atmosfera attivistica creata dal pensiero idealista, che poco si conciliava con il naturalismo antropologico della dottrina nazionalista. Perciò, al di sotto delle concordanze verbali e delle finalità comuni, la maggior parte dei fascisti rilevava che fra i due movimenti vi erano sostanziali ragioni di distinzione se non, addirittura, di opposizione. Nella valutazione dei rapporti fra movimento nazionalista e fascismo, non si possono accantonare come irrilevanti le differenze, tutt’altro che formali, fra i due movimenti, così come erano percepite e vissute dai loro militanti, per ridurre semplicemente il fascismo ad una sorta di braccio armato della dottrina nazionalista, partendo dal pregiudizio che il fascismo, essendo privo di una propria ideologia, dovesse necessariamente finire nella rete ideologica del nazionalismo. Questa tesi, formulata fin dall’inizio degli anni Venti da Luigi Salvatorelli, e largamente accreditata fra gli storici, appare in realtà priva di fondamento se appena si accerta quale fu, nella concreta realtà storica, il complesso e tutt’altro che univoco rapporto fra i due movimenti. Parlare di cattura del fascismo da parte del nazionalismo, come molti ancora fanno sulla scia di Salvatorelli, è interpretazione non solo rispondente in piccola parte alla realtà storica, ma addirittura propensa a 370
far propri, accreditandoli, i miti della propaganda dei nazionalisti, che di questa interpretazione erano stati in realtà i primi propositori, mentre si espunge del tutto arbitrariamente dal fascismo tutto un filone ideologico, non nazionalista e anche antinazionalista, che, invece, costituì la sua caratteristica più originale, e non si fa alcun conto della diversa composizione sociale dei due movimenti, che pure influiva in modo tutt’altro che trascurabile sul loro orientamento ideologico e politico. Se non si può certo negare l’apporto ideologico del movimento nazionalista al fascismo, specialmente dopo la fusione fra i due avvenuta all’inizio dei 1923 - e su cui torneremo più avanti - va anche rilevato, in questa fase dei loro rapporti e della loro evoluzione, il carattere particolare del «nazionalismo fascista», espressione di ceti medi non reazionari né imperialistici alla maniera dei nazionalisti, perché portati a considerare il problema dell’espansione italiana in termini culturali e spirituali più che in termini di conquiste territoriali. La mentalità nazionalistica del fascismo non era la stessa della borghesia reazionaria, quale si esprimeva attraverso l’«Idea nazionale» o «Politica». Questo nazionalismo, osservò bene Missiroli58, era l’espressione di «piccoli borghesi conservatori per interessi e reazionari per istinto», più monarchici del re, fedeli alle istituzioni ma critici verso il regime esistente, perché non era troppo imperialista, perché «l’imperialismo italiano, per acquetarti, dovrebbe - come pensa il buon Tamaro - fare il giro del mondo ricostituendo l’Impero romano». Da questi nazionalisti, il regime esistente non aveva nulla da temere, perché essi, identificando la patria con le istituzioni, erano i più fedeli cani da guardia del sistema, e non potevano fare 371
alcun danno ad un regime che si fondava sul principio monarchico, sulla religione, sulla patria, la famiglia e la proprietà. Altra cosa, secondo Missiroli, il «nazionalismo» fascista: «Il Fascismo è un nazionalismo democratico e senza pregiudiziali: è il nazionalismo delle grandi masse». Nel movimento nazionalista dominavano il pregiudizio e la nostalgia del passato, la concezione statica del mondo nell’invariabile antagonismo delle nazioni, antagonismo meccanico e indipendente dalla volontà degli individui. Tale nazionalismo, che mostrava di non avere altro scopo futuro che la conservazione del passato e la guardia alle istituzioni, non piaceva affatto ai giovani fascisti: Questo nazionalismo - affermava Bottai59 - è, in vero, una cosa malinconica, preclusa e respingente, da cui risulta del mondo e delle varie nazioni più un concetto di ponderazione di forze, che d ’armonia d’iniziative: quindi è, ancora, l’individuo-nazione concepito alla maniera solipsista e chiusa con cui gli anarchici concepiscono l’individuo-uomo. Perché nel nazionalismo la nazione e nell’anarchismo l’individuo dovrebbero vivere assolutamente spreoccupati di ciò che avviene di altre nazioni e di altri individui, fintantoché non li muova il tornaconto personale: ossia la nazione accorre in difesa della nazione, l’individuo in difesa dell’individuo, solo quando ciò generi un rafforzamento delle proprie libertà. Nell’ordine internazionale il nazionalismo così inteso viene a coincidere con l’anarchismo nell’ordine umano, in quanto che 0 massimo di isolamento nazionale e individuale portano con sé la necessità d’un’eterna difesa, gretta, ostile diffidente. Ecco, quindi, la nazione e l’individuo come pietre angolari d’un irreducibile sistema, invariato e invariabile, cui non dà ansito di miglioramento nessuna idea generosa di espansione di qualità, anziché di quantità, di virtù anziché di forza. Questo nazionalismo è, per natura, conservativo. Ma un nazionalismo nuovo e impaziente freme nel vecchio tronco, ed è, per noi l’unico che ci interessi, perché è l’unico suscettibile di mettersi alla pari dei tempi: è il nazionalismo dei giovani. […] Il fascismo non può non repugnare dalla prima forma di nazionalismo, ma non può, d’altra parte, non tener conto della seconda forma, pregna di valori e di energie, di giovinezza e di ardire.
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La distinzione fra «nazionalismo conservativo» e «nuovo nazionalismo» fatta da Bottai si riferiva ai princìpi e alle mentalità dei due movimenti. Sul piano più propriamente politico, la diversità fra i due movimenti fu chiaramente sottolineata da Enrico Rocca, per quanto si riferiva agli orientamenti in politica interna, in politica estera, in materia di economia e in merito alla questione del regime. Il fascismo non era reazionario, anche se era antibolscevico, perché aspirava a soddisfare i legittimi interessi del proletariato. L’origine e l’avvenire del fascismo erano «sostanzialmente rivoluzionari»^, mentre il nazionalismo «è sistematicamente reazionario e praticamente difensore d’ogni privilegio»: una «alleanza con esso renderebbe sospetto il fascismo alle masse dei lavoratori, che proprio per il bene d’Italia necessita organizzare, sistemare, educare». Il fascismo, inoltre, riconoscendo che l’Italia era un paese prevalentemente agricolo, vedeva nello sviluppo dell’agricoltura la vera ricchezza e l’avvenire dell’Italia; perciò sosteneva una politica economica liberista che era antitetica al protezionismo industriale dei nazionalisti, eccitati dall’immagine dell’industrialismo militarista di tipo tedesco. Il nazionalismo, affermava ancora Rocca, «sacrifica ostentatamente al mito di un’industria nazionale (parassitarla in un paese come il nostro sprovvisto di ferro e di carbone) ed è fautore d’una politica doganale protezionista che va tutta a scapito dell’agricoltura». Divergenze maggiori vi erano sulla questione del regime e sulla visione dei rapporti fra l’Italia e le altre nazioni. Per i nazionalisti, il pregiudizio monarchico era indiscutibile: il nazionalismo «combatterebbe la monarchia sol quando 373
questa troppo s’allontanasse da quell’ideale di governo assoluto che resta sempre il sospiro dei nazionalisti e che darebbe loro modo di combattere l’odiata democrazia». Per il fascismo, invece, la monarchia non era un istituto indiscutibile e intangibile, e non sarebbe stato comunque un ostacolo alla trasformazione democratica del regime politico, per rinnovare e allargare il sistema della rappresentanza popolare attraverso l’introduzione dei Consigli tecnici del lavoro. Le considerazioni di Enrico Rocca volgevano infine verso un più accentuato antinazionalismo quando affrontavano il tema della politica estera, per il diverso significato che i due movimenti davano al problema dell’espansionismo: Il Nazionalismo concepisce la politica estera come una lotta continua e brutale tra egoismi nazionali tendenti ciascuno all’egemonia. Proclama alti diritti di nostra gente, ma non si perita di voler assegnare all’Italia il compito di soggiogare altri popoli. Tormentato da una fagia chilometrica spaventosa sogna guerre coi vicini e conquiste impossibili. Parla di conquiste coloniali quando tutte le colonie sono già distribuite, di mercati ipotetici da sfruttare e poi annettere quando I’Italia non ha e non potrà avere, per le ragioni addotte più sopra, una industria che possa affrontare la concorrenza estera. Mentre il Nazionalismo parla continuamente di realtà storica abbandonandosi alle sue fantasticherie, il Fascismo, tenendo invece conto dei reali sentimenti del popolo italiano e della brutale realtà, domanda sì una politica estera che tenga conto degli interessi nazionali, che protegga gli italiani ancora soggetti allo straniero, ma pur combattendo l’internazionalismo che nega la patria per esaltare quella del nemico, afferma non essere per nulla necessario odiare la patria altrui quando si ami la propria. La recente storia gli dimostra a che conducano i pazzeschi invasamenti egemonici. La necessità gli insegna che solo l’intesa cordiale coi popoli proletari d’Europa e coi popoli oppressi dell’India e dell’Egitto potrà un giorno liberare l’Italia e il mondo dall’esosa egemonia francoanglo-sassone. L ’espansione italiana che il Fascismo si propone di favorire non significa neppur essa imperialismo, invadenza nel campo altrui, ma incanalamento saggio verso l’Estero delle energie esuberanti in patria.
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Attraverso il dibattito sui caratteri ideologici del fascismo, i suoi rapporti con altre forze politiche, la sua posizione nella società e nella vita politica italiana, venivano emergendo i caratteri del nuovo partito fascista, fondato nel congresso di Roma. Nel ’21 il fascismo, nonostante la diversa opinione dei suoi avversari e di non pochi fra gli stessi fascisti, non era più un’irrilevante o temporanea associazione. Cresciuto di dimensioni e di forza numerica, argomentavano i sostenitori della necessità della costituzione in partito, il fascismo non poteva continuare ad essere un «antipartito», aperto alle influenze più disparate, e, nello stesso tempo, pretendere di mirare alla conquista del potere come una forza autonoma. Senza divenire partito, il movimento rischiava di disintegrarsi. Bisognava convincersi, affermava un anonimo fascista in una lettera aperta a Mussolini61, «che un movimento che si arroga, ed a ragione, il diritto di governare l’Italia, non può tollerare deviazioni, ma bisogna convenire che il fascismo, appunto perché vuol governare è qualche cosa di più di un semplice movimento politico e che gli si deve dare, e presto, la fisionomia ed i caratteri di un partito a sé». Il fascismo aspirava al potere, ma al potere non si restava senza sapere come e perché usarlo. L’organizzazione, per quanto formidabile, non bastava: era necessaria anche una «elaborata dottrina» e una «meditata filosofia» altrimenti il fascismo finiva col diventare un mero strumento nelle mani di altre forze politiche, come i nazionalisti o la classe dirigente liberale, oppure restava un movimento fondato solo sulla pratica della violenza. Un partito che voleva ricostruire l’Italia doveva chiarire, 375
ideologicamente e praticamente, il suo compito. «Superato il periodo dell’indistinto si comincia ad entrare nel distinto. Le definizioni o prima o poi diventano essenziali per la vita o per la morte»62. Senza elaborare una sua ideologia, afferma Luigi Freddi63, il fascismo non avrebbe potuto «legalmente chiamarsi partito politico» e, poiché l’azione fascista aveva superato i limiti della cronaca, «per entrare nel quadro della storia», era necessario «per rimanervi e per segnare una nuova era» che il fascismo definisse la sua ideologia: «Bisogna dare al nostro movimento un contenuto dottrinario, ideale, spirituale, morale e filosofico definitivo, perché esso non debba esaurirsi e morire». Dalla trasformazione in partito, che trovava, come abbiamo visto, resistenze da parte del fascismo squadrista e regionale, ebbe inizio l’opera di «storicizzazione» del fascismo, per inserirlo nel «gran quadro» della storia italiana e nella tradizione del nostro pensiero politico. Soltanto attraverso una legittimazione culturale il fascismo poteva motivare la pretesa di essere l’unico movimento nazionale moderno, in grado di dare una soluzione nuova, più efficace, ai problemi della società italiana e di riuscire a restaurare lo Stato operando con successo là dove altre forze erano fallite o per mancanza di idee moderne e per spirito grettamente conservatore, o per eccessivi ardori progressisti, non accompagnati da realismo e amor di patria. Il fascismo si vantava di avere soluzioni moderne per la crisi italiana, di avere realismo e amor di patria; si considerava non una escrescenza della guerra e della reazione antiproletaria, ma lo svolgimento e lo sbocco di un processo storico. Ricollegandosi ad una tradizione, per il momento non ancora ben chiara, il fascismo perdeva - come ha notato 376
bene Fulvio D’Amoja64 - «la patina di fenomeno contingente e negativo. Non era più solo una reazione ai tempi e alle condizioni del dopoguerra, ma diveniva espressione della storia d’Italia nella sua continuità e sviluppo». Un’espressione, bisogna aggiungere, che nella propaganda fascista fu presentata come necessaria ed inevitabile, quasi che l’intera storia italiana dovesse trovare necessario compimento nel movimento fascista. Il fascismo mostrava, così, ancor prima della conquista del potere, la sua vocazione totalitaria: sia nel pretendere di avere il monopolio dell’idea nazionale, sia nel modo di procedere alla «cattura» ideologica della storia passata, per presentarsi come il risultato necessario ed inevitabile d’un processo unitario iniziato col Risorgimento, e proseguito, nell’Italia unita, con la critica al positivismo, al socialismo e al parlamentarismo. Questo processo doveva infine culminare nell’identificazione «fascismo-nazione». L’opera di storicizzazione della propria natura e funzione politica, per un movimento che vantava la massima spregiudicatezza teorica ed era ancora sprovvisto di una élite omogenea e culturalmente preparata, presentava tuttavia dei pericoli. Come si è visto nel dibattito con i nazionalisti, infatti, il fascismo, inserendosi in un più ampio quadro di riferimenti ideologici, rischiava di perdere qualsiasi elemento proprio di originalità ideologica, per cadere nella rete di un’ideologia preesistente, fosse questa il liberalismo, il nazionalismo, o persino il socialismo, dove sarebbe stato fagocitato. La composizione eterogenea del movimento rendeva tutt’altro che improbabile questo rischio, e proprio su di essa facevano leva nazionalisti e conservatori, che incitavano il fascismo a confluire entro la tradizione della 377
destra liberale o nazionalista, rinunciando a qualsiasi pretesa di autonomia sia come ideologia sia come partito. Per i liberali di destra e i nazionalisti, in sostanza, il fascismo altro non era che una robusta e istintiva manifestazione di forza giovanile che doveva esser adoperata, come manovalanza armata, per sgombrare l’arena politica dalla presenza prepotente dei nemici della nazione e della società borghese, e per rinvigorire, senza traumi, lo Stato monarchico e liberale. Questo, ad esempio, era l’auspicio di Gioacchino Volpe65. E in questo senso spingevano anche fascisti come Massimo Rocca. Alla vigilia del congresso di Roma, egli poneva il quesito, su quale tendenza, nell’interno del fascismo, avrebbe avuto il sopravvento, imprimendo il proprio orientamento sull’ideologia del nuovo partito: l’estrema destra, strumento della borghesia agraria reazionaria, o l’estrema sinistra, nucleo del vecchio interventismo sindacalista e rivoluzionario? Rocca, per parte sua, augurava la vittoria di una tendenza di centro, che egli identificava nei fascisti che si sforzavano di «staccarsi dalle utopie di sinistra e dagli egoismi di destra»; che non avevano programmi preconcetti, ma affrontavano la realtà guidati da un prudente empirismo e da un problemismo che aveva come unico punto saldo di riferimento l’idea della nazione: la loro ideologia e il loro atteggiamento di fronte ai problemi del momento erano affini al movimento nazionalista delle origini, quando questo non era ancora legato alle forze economiche della reazione. Secondo Rocca, questi fascisti di centro erano la tendenza «più vasta e sana del fascismo», la più adatta ad assumere la guida del nuovo partito. Egli pertanto auspicava di veder uscire dal congresso, come ideologia del partito fascista, un’edizione rinnovata e 378
moderna del liberalismo di destra. In tal modo i fascisti, con i liberali e i nazionalisti, avrebbero potuto costituire il blocco della nuova destra nazionale. Dai risultati del congresso, fu questa tendenza, di fatto, a prevalere, nel senso che ad essa Mussolini si richiamò per inserire il partito nel grande giuoco della politica tradizionale, facendone il perno di una nuova coalizione di destra con i nazionalisti e i liberali conservatori, lasciandosi però sempre aperta, per il futuro, la strada verso qualsiasi nuova direzione, in nome di un superiore principio relativista, che doveva ispirare ed orientare sempre la politica fascista. 4. Relativismo fascista: le premesse ideologiche dello Stato antidemocratico Nel 1921, in seguito alla sua metamorfosi sociale, politica e organizzativa, il fascismo acquisì i tratti di un’ambiguità che divenne permanente e caratterizzò successivamente tutti i momenti decisivi della sua storia. Tale ambiguità fu una delle ragioni tanto del successo del fascismo, quanto di una sua intrinseca debolezza. Il fascismo appariva, a seconda delle circostanze, dei luoghi e delle persone, come un fenomeno ora rivoluzionario ora reazionario, e ciò, se da una parte, disorientava avversari e simpatizzanti, dall’altra però consentiva al fascismo di attrarre nelle sue file sia spiriti rivoluzionari che spiriti conservatori. Si è voluto spiegare questa ambiguità fascista riducendo i «due volti» del fascismo ad uno solo, quello reazionario, e facendo dell’altro, quello rivoluzionario, soltanto una maschera demagogica, consapevolmente adoperata per nascondere la vera natura del fascismo. La spiegazione è accettabile solo in 379
parte, considerando che l’aspetto «rivoluzionario» del fascismo fosse di fatto destinato a rimanere in gran parte un esercizio di teorie. Ciò tuttavia nulla toglie al suo significato storico, come componente importante dell’ideologia fascista e fattore non minore del successo del fascismo e all’efficacia che esso ebbe per richiamare nelle file fasciste numerosi intellettuali, i quali non divennero fascisti con il proposito di un ritorno al passato, e per assicurare al fascismo un consenso di massa esteso al di là dei ceti medi, anche se un consenso da parte delle masse proletarie fu soltanto passivo66. La duplicità del fascismo, come ideologia, può essere spiegata secondo noi considerando l’origine culturale del fascismo. Da una parte, infatti, il fascismo fu un’espressione della crisi della società liberale e dello spirito di rivolta contro il mondo borghese; dall’altra, fu una serie di tentativi per risolvere questa crisi in senso antimarxista, elaborando una soluzione, se non del tutto originale, tale però da essere più rispondente alle esigenze di settori della grande borghesia e dei ceti medi che al fascismo, dopo il 1920, avevano dato vigore. Come espressione della crisi, il fascismo culturalmente fu una manifestazione di attivismo assoluto, disancorato da qualsiasi tradizione e intimamente privo di princìpi, idee, valori trascendenti la contingenza politica perché ritenuti in sé e per sé validi come princìpi universali di riferimento per l’azione politica. Il fascismo, come attivismo assoluto, riduceva qualsiasi principio, idea e valore a mito, utile per il successo politico, e non andava oltre l’ambizione di conquistare il potere per manifestare la propria volontà di potenza. Come movimento restauratore dell’ordine, invece, il fascismo accolse anche diverse correnti 380
di rinnovamento, da cui scaturirono vari progetti per la fondazione di un ordine nuovo, destinati - per altro - a rimanere letteratura politica. Ma non mancava, in questi progetti, sensibilità e consapevolezza per problemi posti da una società di massa in via di trasformazione, nella espansione dei poteri dello Stato a tutte le sfere della vita pubblica. Adriano Tilgher fu il primo a notare l’essenza attivista del fascismo67. Egli scrisse, nel 1921, che il fascismo non era altro che «assoluto attivismo trapiantato nel terreno della politica», un aspetto politico del relativismo, quale si era affermato nel pensiero filosofico, scientifico e storico contemporaneo, in Vaihinger, in Spengler, in Einstein e nello stesso idealismo attuale. Il relativismo era la critica al razionalismo come fede nel vero e nel certo, come possibilità di definire oggettivamente un ordine teorico di valori stabili e razionali, rispondenti alla razionalità del mondo e della storia. Il relativismo riduceva le teorie a finzioni, e da ciò derivava la loro eguaglianza sul piano teorico: ogni uomo vive secondo una propria immagine del mondo che non è più vera o più falsa di altre; teoricamente sono sullo stesso piano, prive di qualsiasi validità oggettiva, mentre ben più importante è la loro efficacia pratica. Tali finzioni, infatti, possono diventare potenti strumenti di azione, perché suscitano energie in chi crede in esse e vuole imporle nel confronto con le altre. Il successo non dipende dalla maggiore o minore verità, ma dall’energia che si è suscitata per far trionfare la propria finzione. Il pensiero, dunque, non è un mezzo per conoscere il mondo, ma soltanto un fioco lumicino necessario per muoversi nel mondo, utile nella lotta per la vita. Questa era la filosofia del «come se» di 381
Vaihinger, che traduceva in termini gnoseologici la filosofia della vita di Nietzsche. Dal relativismo era derivata la crisi delle concezioni razionalistiche dello scientismo e dello storicismo, entrambe considerate da Tilgher come ideologie della società borghese liberale, espressioni d’una classe che fondava sulla fiducia nella razionalità della vita e della storia il suo dominio sociale, la sua speranza illimitata nel progresso e nell’evoluzione lenta, graduale, regolare delle vicende umane con la fede assoluta nella scienza. Il pensiero relativista aveva ridotto la scienza ad elaborazione di ipotesi, incerte nel loro insuperabile probabilismo; costruzioni mentali che non avevano una necessaria rispondenza nell’ordine naturale delle cose. Nello stesso modo, lo storicismo, che aveva preteso di dettare le leggi del divenire storico secondo le categorie della borghesia liberale ottocentesca, era stato sconfitto dalla vita e dall’azione, che avevano così conquistato «una supremazia assoluta sull’intelligenza, sulla ragione». Tra la verità e l’errore non vi era altro criterio di distinzione che l’utilità pratica dell’uno o dell’altra, la loro capacità di concretizzarsi in azioni che costruiscono, nel mondo delle finzioni, qualcosa di stabile e di duraturo perché sorretto dalla volontà di potenza, e dalla sanzione del successo: «Dall’equivalenza di tutte le ideologie, tutte egualmente finzioni, il relativista moderno deduce che, dunque, ciascuno ha il diritto di crearsi la sua e d’imporla con tutta l’energia di cui è capace»68. Nei confronti delle concezioni storicistiche del mondo, il relativismo era essenzialmente rivoluzionario; in esso, come nell’attivismo, le generazioni in rivolta che avevano partecipato alla guerra trovarono la risposta ideologica più congeniale per giustificare il loro desiderio di azione e il 382
disprezzo delle teorie razionaliste su cui si fondavano le grandi ideologie ottocentesche e le visioni statiche della politica: Sotto i nostri occhi, infatti, abbiamo visto in Italia, nell’improvviso venir meno dell’autorità statale sotto l’assalto proletario, insorgere il moto fascista, proclamante che lo Stato non è ma si fa da quelli che credono in esso e lo vogliono e quale essi lo credono e lo vogliono. Il fascismo non è che l’assoluto attivismo trapiantato nel terreno della politica69.
Recensendo il volume di Tilgher, Mussolini accettò la sua definizione del fascismo proclamandosi egli stesso relativista. Un simile riconoscimento non era del tutto occasionale, ma giungeva a confermare, rendendola esplicita, quella che era stata la sua fondamentale convinzione politica fin da quando, capo del socialismo rivoluzionario, aveva cercato di infondere nel socialismo questo spirito relativista, nel disprezzo delle teorie dogmatiche e nell’esaltazione dell’azione. Il suo assenso al rapporto stabilito da Tilgher tra fascismo e pensiero relativista contemporaneo non deve essere considerato, perciò, come una delle tante derivazioni provvisorie, adottata come abito di circostanza per vestire di panni nobili un fascismo senza idee. Del resto, se c’era una filosofia che poteva riscuotere l’adesione sincera di Mussolini, questa era certamente il relativismo. E attraverso il relativismo, il fascismo, per Mussolini, usciva dallo stato d’infanzia ideologica, evitava il pericolo di cadere nelle maglie delle ideologie altrui e si affermava, nella forma di movimento politico, come espressione di una tendenza del pensiero critico contemporaneo:
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Con questa affermazione, Adriano Tilgher immette il fascismo nel solco delle più grandi filosofie contemporanee: quelle della relatività. Se il Tilgher avesse seguito da vicino, quotidianamente, l’opera del fascismo, avesse notato le fasi di sviluppo del movimento e i suoi princìpi direttivi, dico senza immodestia ch’egli mi avrebbe collocato fra i relativisti, se non teoretici, almeno pratici70.
Nel relativismo e nell’attivismo, come conseguenza teoricopratica dello scetticismo moderno, Mussolini trovava la conferma della validità e della modernità del suo modo di concepire, psicologicamente e ideologicamente, l’azione politica, i rapporti con gli altri, il ruolo del capo politico, il problema della forza nella lotta per il potere, la funzione dello Stato, il valore delle ideologie. Da anni - Mussolini aveva ragione di precisare - egli si muoveva secondo queste idee, e la sua esperienza politica lo portava a rivendicare la qualifica di rappresentante del relativismo applicato alla politica. Mussolini poteva vantare in questo modo l’originalità del suo pensiero politico fascista: egli aveva sempre sostenuto, fin dalle origini, che il fascismo era soprattutto azione, era pragmatismo, e rivendicava il merito di avere per primo lanciato strali contro lo scientismo socialista, di aver criticato le concezioni evo-luzioniste della storia, di aver sempre sostenuto il primato dell’azione. Perciò il suo fascismo, come reazione e conseguenza della sua critica al socialismo, aveva un posto di diritto nel solco del pensiero relativista contemporaneo: Se per relativismo - affermava Mussolini - deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi a rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista. Se relativismo e mobilismo universale si equivalgono, noi fascisti, che abbiamo sempre manifestato la nostra spregiudicata strafottenza davanti ai nominalismi sui quali s’inchiodano,
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come pipistrelli alle travi, i bigotti di altri partiti; noi, che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per eccellenza e la nostra azione si richiama direttamente ai più attuati movimenti dello spirito europeo. La nostra ripugnanza a costringerci ad un programma, pur coll’intesa che più di un programma si tratta di semplici punti di vista di riferimento e di orientamento, la nostra posizione di agnosticismo di fronte al regime, l’aver tolto dagli altri partiti ciò che ci piace e ci giova e l’aver respinto quel che non ci garba e ci nuoce, il deridere che facciamo su tutte le ipoteche socialistiche e comunistiche sul misterioso futuro, costituiscono altrettante documentazioni della nostra mentalità relativistica. Ci basta di avere, per muoversi, un punto di riferimento: la nazione. Tutto il resto cammina da sé.
Altra prova della simpatia di Mussolini per le teorie scettico-relativiste è l’ospitalità data nel «Popolo d’Italia» al filosofo Giuseppe Rensi, che era, in quel periodo, il più originale esponente del pensiero scettico italiano, da lui applicato nella valutazione e nel giudizio sugli avvenimenti politici contemporanei. L’influenza di Rensi sulla formazione scettico-relativista della concezione politica di Mussolini, quasi del tutto ignorata dagli storici, fu in verità molto importante. Rensi collaborò al quotidiano mussoliniano fin dalla fondazione e vi scrisse articoli contro il pacifismo, il neutralismo, l’internazionalismo - posizioni, secondo Rensi, inconciliabili con la concezione socialista della storia come lotta di classe. I suoi argomenti erano recepiti da Mussolini perché a lui erano in gran parte congeniali. Nel dopoguerra, Rensi osservò con particolare impegno le vicende nazionali, giudicandole secondo i princìpi del suo scetticismo; dalle sue riflessioni emergeva il riconoscimento della forza e dell’autorità come fondamenti della lotta e della vita politica71. Se dallo
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scetticismo deriva la validità di tutte le opinioni su un piano di assoluta indifferenza logica e morale, Rensi escludeva la possibilità di una soluzione razionale dei conflitti che, immutabilmente, la diversità delle opinioni suscita fra gli uomini. E in questa situazione di perenne conflitto, la comunità umana trova momenti di pace non grazie alla attuazione di idealità umanitarie, sempre smentite dai fatti, ma per l’imposizione d’una forza, per l’ascendente di un’autorità che, irrompendo nel conflitto delle ideologie e delle opinioni contrastanti, si impone come l’unica verità risolutiva perché sorretta dalla forza. Come aveva osservato anche Tilgher, le conseguenze pratiche dello scetticismo moderno, cioè di un’epoca dominata dall’attivismo, non erano le stesse dello scetticismo classico, non portavano cioè all’indifferenza verso il mondo umano, con le sue passioni e le sue lotte, oppure al desiderio di sottrarsi ai conflitti della vita per mancanza di quell’intima certezza, che sola può giustificare una scelta di campo e spingere alla lotta. Riflesso pratico di questo tipo di scetticismo classico era, se non proprio il rifiuto di un qualsiasi impegno politico, un atteggiamento conservatore di sfiducia e di diffidenza verso le passioni politiche, e una propensione a prevenire e ad evitare la lotta, a scongiurare le rivoluzioni, in quanto matrici di imprevedibili rischi e pericoli. Al contrario, lo scetticismo moderno, se animato dall’attivismo, poteva più facilmente tramutarsi in un atteggiamento rivoluzionario perché proprio dalla negazione di una validità oggettiva ed universale delle ideologie politiche, scaturivano il rifiuto di accettare come verità inconfutabili le credenze e le idee consacrate dalla tradizione, e insieme l’ambizione di lottare per affermare le proprie idee, la propria immagine del 386
mondo, anche facendo ricorso all’azione violenta e rivoluzionaria. Uniti all’attivismo, lo scetticismo e il relativismo potevano produrre la miscela esplosiva di una mentalità rivoluzionaria di nuovo tipo, che non è più vincolata dai lacci di una concezione teorica che ne fissa e ne condiziona i modi, i metodi e i fini, e perciò può dispiegarsi in un perpetuo impulso alla lotta, nell’entusiasmo e nella fede dell’azione per l’azione. Proprio dalla mancanza di una verità oggettiva e universale, derivava, nel mondo umano, una perpetua lotta per la verità, cioè la lotta per affermare quel che a ciascuno pare essere la verità. Secondo Rensi, chi crede che ci sia una verità necessaria ed universale non ha fede ma scienza e dalla scienza non deriva un atteggiamento agonistico, perché non si deve lottare per ciò che si afferma da sé, con la legge dell’evidenza. La guerra fra gli uomini è originata proprio dalla mancanza della scienza ed è, perciò, «ineliminabile e necessaria». Il conflitto delle idee non si può risolvere se non con il ricorso alla forza72: Lo scetticismo, professando che nulla v’è che sia per sua natura buono, giusto e vero, che vi sono diverse verità, giustizia e morale, tutte egualmente verità, giustizia e morale, non ha motivo né possibilità di opporre una verità, una giustizia, una morale a quella che forma la visuale di chi - monarca o teocrazia, nobiltà o maggioranza, borghesia o proletariato - costituisce l’autorità. Esso è quindi una dottrina di autorità, di compaginazione, di costituzione, di integrazione, di ordine, re-pubblicano o monarchico, popolare o oligarchico, comunista o capitalista73.
Con queste premesse, Rensi poteva giustificare la reazione fascista, come una risposta alla violenza delle sinistre e come manifestazione della volontà di attuare un’immagine del mondo, imponendo la propria autorità per mezzo della forza. Del resto, per Rensi la professione di relativismo 387
attivistico, e l’uso della forza per affermare la propria verità, non era una novità o un fatto peculiare del fascismo: tutta la storia contemporanea, secondo Rensi, era un vero e proprio corso di relativismo, immenso spettacolo di potenze in conflitto, in nome del popolo, del proletariato, della giustizia, della democrazia o della nazione: concetti astratti, creazioni della mente che non esistono nella realtà, perché nella realtà esistono «sempre e solo individui e gruppi di individui i quali esercitano la loro volontà sopra altri che non la vorrebbero subire; “giustizia” quando se ne discorre in simili contingenze, non è se non la parola con cui si cerca di contestare e far passare la volontà di potenza d’un partito»74. Secondo questa prospettiva, Rensi considerava il fascismo la manifestazione della volontà di potenza di nuove generazioni che volevano affermarsi, paragonandole alle forze del socialismo delle origini, «nel loro intimo ed iniziale movente psicologico». Come il fascismo, il socialismo era stato allora «la vera aristocrazia dello spirito», e perciò aveva attratto a sé le forze giovani più entusiaste e più desiderose d’affermarsi. Il giovane, spiegava Rensi, diventava fascista perché il fascismo è il mezzo che si offre al giovane di oggi, come il socialismo al giovane d’allora, per affermare la propria opposizione contro l’ambiente triviale, contro la maggioranza della marmaglia costituita in «baronie rosse», contro un predominio del mero numero bruto più soffocante di quello d’allora - e per asserire individualisticamente contro ciò i diritti del proprio spirito e della propria personalità75.
La filosofia di Rensi, applicata alla politica, fornì a Mussolini consistenti argomenti per confermare la validità della sua ideologia relativista e attivista, come pure per
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giustificare, con citazioni del pensiero contemporaneo, la modernità della sua spregiudicata condotta pratica come capo del fascismo. Egli ne traeva motivo per esser ancor più convinto del fatto che nella storia le ideologie, come sistemi teorici, non avevano alcun valore se non si trasformavano in miti per entusiasmare le masse, per organizzarle, per spingerle all’azione. E la storia, in questa visione scetticoattivista, gli appariva, in modo non molto diverso dal periodo della militanza socialista, come opera di moderne aristocrazie dello spirito, prive di qualsiasi preconcetto, e capaci di mobilitare le masse per mezzo dei miti, senza lasciarsi invischiare nei lacci della coerenza ideologica, nelle dispute dottrinarie, nelle questioni d’orientamento e di collocazione a «destra» o a «sinistra». In politica, affermava Mussolini, contano soltanto la volontà e la forza capaci di assicurare il successo: perciò il fascismo, ad onta di tutte le accuse di trasformismo e di opportunismo, teneva in poco conto la coerenza dei programmi, mentre era sempre pronto invece a seguire, con spirito spregiudicato, il mutare continuo degli avvenimenti e degli umori delle masse, adeguandosi di volta in volta alle nuove situazioni. Il fascismo, proclamava Mussolini, era un movimento «superrelativista» perché non aveva il feticismo dei programmi, con cui rivestire i «suoi complessi e potenti stati d’animo», ed era andato avanti «per intuizioni e frammenti». «Tutto ciò che io ho detto e fatto in questi ultimi tempi - è relativismo per “intuizione”. Se, difatti, per relativismo deve intendersi la fine dello scientificismo, il tramonto del mito “scienza” intesa come scopritrice di verità assolute, io posso vantarmi di aver applicato questo criterio nell’esame del fenomeno socialista». La critica 389
relativistica aveva decretato il tramonto definitivo della «mentalità storicistica e democratica», e la storia appariva ora realisticamente come conflitto di forze, dove solo «il successo è giudice»76. Questa esplicita dichiarazione di fede relativistica nella forza e nel successo consente di valutare sotto una nuova luce la condotta politica di Mussolini dopo il 1920. Proclamando la sua assoluta indifferenza per la coerenza delle idee e dei princìpi, accettando come unico giudice della validità di una ideologia il successo, e la sua capacità di adeguarsi ai fatti, Mussolini si schierava contro tutte le ideologie razionaliste, scientiste e storiciste che avevano guidato, nel corso dell’Ottocento fino alla grande guerra, i movimenti liberali, democratici e socialisti, accomunati dalla visione della storia come cammino dell’umanità verso il regno della libertà, della ragione e del progresso; ed esplicitamente invocava per l’Italia, «l’inizio di una grande restaurazione», ritenendo «possibile che i prossimi decenni vedano la fine ingloriosa di tutte le così dette conquiste democratiche». Gli uomini, secondo Mussolini, erano ormai stanchi di decidere con la propria testa dopo anni di travagli e di sconvolgimenti; aspiravano all’ordine e volevano essere guidati senza essere interpellati; erano desiderosi soltanto di lavorare all’ombra di. un’autorità che, come il monarca hobbesiano, pensa e decide per tutti, assicurando la fine del disordine: «Gli uomini avranno forse vaghezza di un dittatore». Facendo propri gli argomenti della «filosofia dell’autorità» di Rensi, Mussolini elaborava la sua concezione antidemocratica dello Stato, come autorità derivante da una forza, che si impone al di là di qualsiasi 390
ragione ideologica, al di là delle formule e degli schieramenti tradizionali. Lo Stato era una insopprimibile realtà umana, di fronte alla quale distinzioni come «destra» e «sinistra» perdevano valore, se considerate come opposte categorie della Verità, mentre erano soltanto formule per designare schiera-menti di stati d’animo collettivi, legati a particolari contingenze e non a princìpi universali: ciò che politicamente, realisticamente aveva valore era l’uso che di queste tendenze delle masse veniva fatto per affermare, al di sopra degli opposti schieramenti, l’autorità dello Stato, come organizzazione del potere di una minoranza che dalla forza e dal successo derivava la sua legittimità al comando, e che, affermandosi sulle altre parti in conflitto, imponeva ad esse una forma di giustizia, esercitando una superiore funzione di equilibrio, che prescindeva dalla formula ideologica con la quale questa minoranza, dotata d’una propria autonomia e d’una sua logica di governo, in virtù della forza di cui disponeva e del consenso che sapeva suscitare fra le massa, giustificava la sua posizione di comando. In questo svolgimento ideologico, Mussolini mostra di seguire una sua logica politica, che lo porta dal rivoluzionarismo come fede nella palingenesi liberatrice dell’umanità da ogni forma di asservimento, all’attivismo come culto dell’azione per l’azione nel ritmo degli avvenimenti, e al realismo come certezza della immutabilità della natura degli uomini, dell’insopprimibile dualismo fra potere e società, fra governanti e governati, in un mondo in cui regna incontrastata la legge della forza. L’attivismo realistico, nel modo in cui viene inteso dal Mussolini fascista, non può che essere relativismo sul piano ideologico 391
e, in politica, non può finire che nell’esaltazione della forza come forza, senza alcuna giustificazione di ordine superiore. E la forma storica della forza, come espressione più alta, predominante, della politica, è lo Stato: creazione del politico-artista che impone alla massa inerte la sua forma per trarne nuove costruzioni storiche. L’ideologia di Mussolini, da questo momento, si imperniò sull’idea dello Stato come principio e fine dell’azione politica: Che cosa è lo Stato? Nei postulati programmatici del fascismo lo Stato viene definito come «l’incarnazione giuridica della nazione». La formula è vaga. Lo Stato, soprattutto lo Stato moderno, è anche questo, ma non è soltanto questo. Senza volere elencare tutte le definizioni che del concetto di Stato furono date, nei secoli, dai cultori delle scienze politiche - il che sarebbe inutile e prolisso - mi pare che lo Stato possa essere definito come un «sistema di gerarchie». Lo Stato è, alle sue origini, un sistema di gerarchie. Quel giorno in cui un uomo, fra un gruppo di altri uomini, assunse il comando perché era il più forte, il più astuto, il più saggio o il più intelligente, e gli altri per amore o per forza ubbidirono, quel giorno lo Stato nacque e fu un sistema di gerarchie, semplice e rudimentale allora, come era semplice e rudimentale la vita degli uomini agli albori della storia. H capo dovè creare necessariamente un sistema di gerarchie, per fare la guerra, per rendere giustizia, per amministrare i beni della comunità, per ottenere il pagamento dei tributi, per regolare i rapporti fra l’uomo e il soprannaturale. Non importa l’origine da cui lo Stato ripete o con cui lo Stato legittima il suo privilegio di creatore di un sistema di gerarchie: può essere Iddio ed è lo Stato teocratico; può essere un individuo solo, la discendenza di una famiglia, o un gruppo di individui, ed è lo Stato monarchico od aristocratico (qui mi sovviene del Libro d’Oro della Serenissima); è il popolo, attraverso il meccanismo del suffragio, e siamo allo Stato democostituzionale dell’era capitalistica: ma in tutti i casi lo Stato si estrinseca in un sistema di gerarchie, oggi infinitamente più complesso adeguatamente alla vita che è più complessa in intensione ed in estensione77.
Il sistema statale era sempre fondato sull’ordinamento delle gerarchie, che si erano sviluppate in maniera sempre più organica nell’ambito delle diverse funzioni dello Stato, 392
determinate dalla complessità crescente della vita moderna, secondo una scala di capacità, di valori, di funzioni e di competenze, che culminava nel principio unificatore della più alta delle gerarchie, la gerarchia politica, in cui si incarnava e si esprimeva la volontà, l’unità, la continuità e la finalità dello Stato. Affinché «le gerarchie non siano categorie morte, è necessario che esse fluiscano in una sintesi, che convergano tutte ad uno scopo, che abbiano una loro anima, che si assomma nell’anima collettiva, per cui lo Stato deve esprimersi nella parte più eletta di una data società e dev’essere la guida delle altre classi minori»: La decadenza delle gerarchie significa la decadenza degli Stati. Quando la gerarchia militare, dal sommo all’infimo grado, ha perduto le sue virtù, è la disfatta. Quando la gerarchia dei tributi rapina e divora l’erario senza scrupoli, lo Stato barcolla. Quando la gerarchia dei politici vive giorno per giorno e non ha più la forza morale di perseguire scopi lontani, né di piegare le masse al raggiungimento di questi scopi, lo Stato viene a trovarsi di fronte a questo dilemma: o si dissolve dietro l’urto di un altro Stato o attraverso la rivoluzione sostituisce o rinsangua le gerarchie decadenti o insufficienti. La storia degli Stati, dal tramonto dell’impero romano al crollo della dinastia capetingia, al declinare malinconico della repubblica veneta, è tutta un nascere, crescere, morire di gerarchie.
L’eco delle teorie di Vilfredo Pareto, nella concezione mussoliniana dello Stato, risuona in modo così chiaro, che è superfluo soffermarsi a commentarlo. Altrettanto evidente è la conseguenza che Mussolini traeva da questa concezione, cioè la negazione della democrazia come governo del popolo da parte del popolo, esercitato sia direttamente sia attraverso rappresentanti scelti dal popolo stesso. Per Mussolini, il sistema delle gerarchie, ossatura insostituibile dello Stato, rispecchiava la diseguaglianza degli uomini, e quindi la impossibilità di concepire uno Stato democratico 393
fondato sulla effettiva eguaglianza degli individui e sull’autogoverno del popolo. L’ideologia di Mussolini, come quella del fascismo, si caratterizza in questo periodo, esplicitamente, come aperta antitesi dell’ideologia democratica egualitaria e di tutto il corredo di miti, sentimenti e idee che l’accompagnavano. Mussolini riteneva che il divenire storico non era diretto fatalmente e progressivamente verso l’attuazione di una sempre maggiore democrazia ed eguaglianza politica e sociale. La storia non seguiva alcun percorso obbligato: «La storia non è una strada o una scala, come la pensano i democratici, è un panorama vario, complesso, formidabile, in cui la luce si alterna alle tenebre; la morte alla vita»78. Se il secolo XIX era stato il secolo della democrazia, che aveva visto la nascita, lo sviluppo e il trionfo delle idealità democratiche, il secolo XX, con le sue crisi profonde e sconvolgenti, si presentava già con i caratteri di un secolo «aristocratico», che preparava il ritorno al comando delle élites, alla restaurazione dello Stato come emanazione ed affermazione del volere di una nuova minoranza. Mussolini poteva agevolmente dimostrare come le critiche ai princìpi della ideologia democratica, che da decenni venivano rivolte tanto da destra quanto da sinistra, avevano diffuso il discredito anche sulle conquiste della democrazia liberale: il sistema parlamentare non appariva più neppure alla borghesia come il migliore dei regimi possibili, specialmente in seguito alla crisi che lo aveva logorato dalla guerra in poi. Annunciando prossima la restaurazione dello Stato ad opera del fascismo, alla vigilia della «marcia su Roma», Mussolini delineò abbastanza chiaramente i princìpi antidemocratici che guidavano il fascismo. Dopo il 394
fallimento della rivoluzione socialista in Europa, si imponeva ovunque l’esigenza di un ritorno all’ordine, che lo Stato liberale e l’ideologia democratica non potevano più garantire: essendo noi sempre più convinti che occorre per salvarci ristabilire un ordine, anche attraverso la più inverosimile reazione; essendo noi persuasi che lo Stato liberale è stato demolito ancor prima della guerra dalle influenze perniciose della mentalità democratica, è chiaro che niente è intervenuto a colmare l’abisso che ci divide dalla democrazia. La democrazia ha della vita una concezione prevalentemente politica; il fascismo ne ha una prevalentemente guerriera. La democrazia ha un sacro terrore del numero e della massa che crede di addomesticare con i suffragettismi più o meno allargati; il fascismo ha bandito e disperso limbecille ideologia socialista, per cui la massa, soltanto perché è massa, è quasi assurta a una specie di misteriosa divinità. Ora la massa è gregge e come gregge è in balìa di istinti e di impulsi primordiali. La massa è senza continuità. E preda di un dinamismo abulico, frammentario, incoerente. È materia, insomma, non è spirito. Abbandonata a sé si polverizza sino all’atomo. La massa non ha domani. Bisogna dunque abbattere dagli altari eretti dal dèmos sua santità la massa. Il che non significa che non si debba curare il suo benessere. Anzi! Si potrebbe anche a tal proposito accettare l’affermazione di Nietzsche, il quale chiedeva che si desse alla massa tutto il benessere materiale possibile, perché non turbasse coi suoi lamenti o coi suoi tumulti le manifestazioni più alte - quelle trascendenti - dello spirito. Noi non ci opponiamo a che la massa goda di tutto il benessere compatibile con altre esigenze; ci opponiamo alla religione della massa, siamo gli eretici della religione della massa che democratici e socialisti, dipartitisi dall’89 hanno ampliato sino al grottesco79.
Nella politica del Mussolini fascista, non ci sono soltanto opportunismo, ambizione, avidità di successo, ma c’è anche una componente ideologica: una concezione della vita, della storia, della politica che trovava conforto, e non del tutto pretestuosamente, in talune correnti del pensiero relativista contemporaneo, ed era comunque il risultato di un’evoluzione autonoma della ideologia politica mussoliniana, dal socialismo al fascismo, attraverso 395
l’esperienza della militanza al servizio della rivoluzione socialista; poi, con l’esperienza dell’interventismo e della guerra come rivoluzione sociale; ed infine, con la nuova esperienza della «rivoluzione fascista», come restaurazione dello Stato. Attraverso queste esperienze diverse di militanza «rivoluzionaria», l’idea di rivoluzione, in Mussolini, subisce una progressiva degradazione dal suo significato originariamente marxista, come lotta per una radicale liberazione della società e dell’uomo, secondo l’inevitabile divenire storico del socialismo. Se egli non era mai stato pienamente posseduto dall’idea marxista di rivoluzione, come qualcuno ha sostenuto, è pur vero che, nel suo periodo socialista, Mussolini era fermamente convinto del valore della rivoluzione come emancipazione e liberazione dell’uomo dalla servitù economica e dalla oppressione religiosa. Il suo rivoluzionarismo giovanile combinava, come abbiamo visto, una concezione del socialismo marxista e idealista con la filosofia di Nietzsche e con un illuminismo antireligioso e anticattolico inneggiante a Giordano Bruno, agli eretici hussiti, a tutti gli «spiriti liberi» che in ogni tempo avevano lottato contro l’oscurantismo, la superstizione e il dogmatismo. E con queste convinzioni il Mussolini socialista aveva agito coerentemente, da rivoluzionario che voleva esser anche realista, cercando l’occasione storica della rivoluzione, credendo di potere usare il partito socialista come strumento per l’attuazione della sua concezione idealistica, marxista e nicciana della rivoluzione. Fallito questo progetto, Mussolini tentò la carta rivoluzionaria della guerra, coniugando l’idea di rivoluzione come emancipazione e liberazione dell’uomo con l’idea di 396
nazione, ma gli eventi che seguirono al conflitto lo convinsero della vanità anche di siffatta idea di rivoluzione, destinata a scontrarsi con la brutalità della vita reale e con la natura ferina dell’uomo. Il suo realismo venne quindi emergendo, sospinto dall’attivismo, superando il fine rivoluzionario che fino ad allora aveva ispirato l’uno e l’altro. La carta rivoluzionaria della liberazione dell’uomo, già molto alterata, fu usata da Mussolini anche nel primo fascismo, ma ancora una volta, di fronte all’insuccesso dei suoi ideali, da politico ambizioso e desideroso d’azione e di successo, sacrificò gli ideali alla realtà e al successo, e fece di questo il suo nuovo ideale, proclamando che l’unica rivoluzione realistica era l’affermazione della volontà di potenza di una nuova aristocrazia, che riconosce nella realtà della nazione uno dei più potenti miti moderni, e mobilita le masse per condurle alla restaurazione dell’autorità dello Stato. 5. La richiesta di potere L’attivismo politico e il relativismo filosofico giustificavano, ideologicamente, la metamorfosi del fascismo, il suo nuovo orientamento, i suoi violenti metodi di azione e le sue finalità antidemocratiche. L’attivismo, come totale disponibilità all’azione considerata in se stessa creativa, era un tratto specifico della personalità di Mussolini e un aspetto essenziale del fascismo, che non poteva avere, teoricamente, altra «filosofia» che il relativismo pragmatista, cioè una concezione del valore contingente e strumentale delle idee. Sia il relativismo che l’attivismo fascisti non possono essere considerati soltanto in maniera semplicemente negativa, come mancanza di idee o 397
volgare opportunismo: l’uno e l’altro erano anche riflessi di correnti politiche e culturali, che si riversarono nel fascismo come uno dei vari fenomeni maturati dopo la crisi delle concezioni razionaliste e storiciste della vita. L’originalità dell’ideologia fascista derivò proprio dal legame, tut-t’altro che casuale e contingente, che il fascismo aveva con alcune tendenze spirituali del tempo, ed anche con situazioni ed esigenze reali della società italiana, come la mobilitazione dei ceti medi, le aspirazioni modernizzatrici, la richiesta di ordine e di rinnovamento dello Stato. L’ideologia fascista - che, come si è visto, era un’ideologia flessibile e in continua elaborazione nel confronto con le esperienze reali - fu qualcosa di nuovo e di diverso dai tradizionali movimenti autoritari di destra, conservatori o reazionari, perché fu un ideologia che si formò nel processo di modernizzazione della società e dello Stato, e tentò soprattutto di dare, a suo modo, una soluzione ai problemi posti dall’avvento delle masse nella vita politica. I caratteri reazionari del fascismo non esauriscono la complessità del fenomeno e l’ambiguità della sua natura, e non bastano a spiegare la diversità di atteggiamenti mentali, di metodi, di scelte politiche nei confronti dell’ordine costituito - cioè lo Stato liberale. Il fascismo, osservò bene un socialista, non era una delle solite forze d’ispirazione autoritaria che tendevano all’ordine, «per lo meno all’ordine di cui lo Stato borghese è espressione e custode»80. E si ingannavano anche quelli che lo consideravano soltanto come reazione all’estremismo di sinistra socialcomunista: Quale errore! - osservò Mario Missiroli81. Il fascismo fu, è vero, una «reazione» al bolscevismo, ma non fu soltanto una reazione: esso trasse origine,
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forza e prestigio dalla lotta contro gli eccessi del socialismo, ma esso conteneva, in sé, elementi autonomi e originali, e, in ogni caso, rientrava nel quadro generale del dopo guerra, di quella crisi spasmodica, che non è penoso privilegio del nostro paese, ma di tutti quelli che hanno partecipato alla conflagrazione mondiale. In pari tempo, giovandosi soprattutto degli errori del socialismo, di due anni di nullismo socialista, il fascismo diventava l’interprete di quelle nuove classi, di quei nuovi ceti borghesi, che sono l’espressione definitiva di quel profondo rivolgimento, negli elementi costitutivi della società italiana, che è stato operato dalla guerra. Immaginare che il fascismo potesse risolversi in una tragica beffa antisocialista era un’illusione puerile.
La novità del fenomeno fascista, la sua organizzazione armata, i suoi metodi di lotta, la sua composizione sociale, le sue confuse e ambigue dichiarazioni ideologiche che agitavano miti restauratori e miti rivoluzionari, la sua spregiudicata ed imprevedibile tattica politica: tutto questo sconcertava e disorientava gli avversari, e gli stessi simpatizzanti della destra liberale e conservatrice, abituati alle regole politiche dell’anteguerra, e impedì agli esponenti della classe dirigente e agli altri gruppi politici e sindacali antifascisti di provvedere tempestivamente, con mezzi opportuni ed un’adeguata strategia, a disinnescare la carica eversiva del fascismo, illudendosi sulle possibilità di riassorbirlo nel sistema parlamentare o di farlo esaurire come tardivo residuo della crisi del dopoguerra. Pensare di poter reprimere il fascismo con le stesse forze con le quali lo si era, in un primo momento, alimentato, era un’illusione della classe dirigente, ed era destinata, come altre illusioni di «addomesticare» il fascismo, ad essere delusa, prima e dopo la «marcia su Roma». Come ha osservato giustamente Federico Chabod, queste illusioni potevano essere nutrite da chi credeva di poter valutare il fascismo, nel 1921-22, sulla base di vecchie formule politiche del sistema legale parlamentare, che la guerra e il fascismo stesso avevano 399
svuotato di contenuto: ma proprio questo fu il più grave errore, perché il fascismo «non era una forza politica vecchio stile. I suoi princìpi - ammesso che ne abbia - non hanno nulla in comune con quelli che fino allora avevano regolato il giuoco politico. La legalità degli atti non lo preoccupa; la libertà, la salvaguardia del parlamento, tutti i vecchi princìpi dello Stato liberale gli sono estranei»82. È pur vero però che, nonostante queste illusioni e questi errori, non vi era nulla di inevitabile nell’avvento del fascismo al potere. Furono i profondi contrasti in seno alla classe dirigente e fra i partiti non fascisti, la irresolutezza socialista fra rivoluzione e collaborazione, la progressiva perdita di autorità e di prestigio dello Stato, il pericoloso prolungarsi delle crisi parlamentari, che spianarono la via al successo fascista e alla conquista del potere nell’ottobre del ’2283. Senza rendersi conto della vera natura del fascismo, anche per quel tanto che nel fascismo esprimeva aspirazioni di rinnovamento del vecchio Stato nazionale, ed esigenze reali, sociali e politiche di ceti emergenti, la maggior parte dei suoi avversari continuò a tessere, su una realtà politica profondamente mutata dalla stessa presenza fascista, una trama di progetti contraddittori, e privi di efficaci realizzatori, per restaurare l’autorità dello Stato liberale. Il nuovo Partito Nazionale Fascista, con un programma misto di liberismo, di corporativismo, di moderno nazionalismo e di istanze tecnocratiche, nacque con un’esplicita volontà rivoluzionaria di diventare Stato, sostituendosi di fatto allo Stato legale nell’esercizio di funzioni di autorità e di potere, sovvertendolo attraverso un sistematico processo di delegittimazione e di espropriazione 400
del monopolio della forza, fino a provocare, con un’iniziativa insurrezionale, il momento della successione. La volontà di potere costituiva il principale fattore unificante delle diverse componenti del fascismo. In effetti, il partito fascista era, come lo definì Missiroli, un partito di eretici e perciò di incerta collocazione fra le tradizionali categorie politiche, perché appariva ancora disponibile sia per la destra che per la sinistra, a seconda del prevalere nel suo interno, a seconda delle circostanze, dell’una o dell’altra corrente. Il fascismo, in verità, pur preferendo presentarsi come movimento che esprimeva la nuova tendenza del mondo verso la destra, verso la riaffermazione dell’autorità dello Stato secondo princìpi di autorità, disciplina e gerarchia, non si preoccupava, per il suo relativismo spregiudicato, di essere collocato a destra o a sinistra, negando che l’una fosse tutta reazione e l’altra tutta rivoluzione: Niente di più assurdo - affermava Mussolini84. Il fascismo, che siede a destra, ma poteva benissimo sedere alla montagna del centro, è reazionario nei confronti del socialismo, il quale, pur sedendo a sinistra, è oggi tipicamente, borghesemente, si potrebbe dire, conservatore e reazionario. Ma il fascismo, che siede a destra, ed è reazionario nei confronti del socialismo, è invece rivoluzionario nei confronti dello Stato liberale e del liberalismo, inquantoché vuole ridurre lo Stato alle sue necessarie funzioni, vuole rianimare le gerarchie e rinnega nello stesso tempo il modo di governo liberale. Si vuole significare che a destra c’è la borghesia e a sinistra il proletariato? Lasciamo andare che anche i termini di «borghesia» e di «proletariato» non corrispondono a nessuna concreta realtà sociale; ma sta di fatto che i veri borghesi - di abitudini, di temperamento, di portafoglio - stanno precisamente fra le democrazie, non esclusa quella di estrema sinistra […]. Dopo quel piccolo episodio della storia umana, che è stata la guerra mondiale, le vecchie posizioni mentati e politiche si sono alterate e capovolte. Non è un paradosso affermare che i rivoluzionari possono stare oggi a destra ed i reazionari a sinistra. Queste parole insomma non hanno un significato fisso e immutabile: ne hanno uno variabile e condizionato dalle circostanze di luogo, di tempo e di
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spirito. Noi ci infischiamo sovranamente di queste vuote terminologie e soprattutto disprezziamo coloro che si appalesano terrorizzati da queste parole.
Mussolini era convinto di essere, ancora una volta, buon realista e di saper intuire le tendenze profonde del momento. La funzione che egli ora assegnava al fascismo era conseguenza di questa intuizione, e rispondeva, secondo lui, alle esigenze del nuovo orientamento della società italiana. La guerra aveva provocato, per dirla col Monnerot85, una situazione di «détresse», da cui scaturiva negli elementi più omogenei della società, mobilitati dalla situazione critica, e politicizzati dalla decadenza delle vecchie élites e dalla partecipazione alla guerra e alla lotta politica contro il socialismo, una richiesta di potere per reintegrare la società nell’equilibrio di un nuovo ordine, senza distruggere radicalmente le istituzioni esistenti, ma adattandole e subordinandole agli ideali e ai fini dei nuovi ceti aspiranti alla direzione dello Stato e della società. Giustamente Vilfredo Pareto osservò che la cosiddetta rivoluzione fascista non era altro che «difesa dello Stato» e promessa di «rinnovamento sociale»86. Da parte sua, Mussolini spiegò questa «richiesta di potere» come sintomo del nuovo orientamento degli umori del tempo. Dopo due anni di corsa a sinistra, il mondo volgeva a destra. E destra, per Mussolini, non voleva dire semplicemente ritorno alla normalità, alla moderazione, all’equilibrio liberale, ai sistemi di sempre: «si va a destra -affermava87 - nel senso di una revisione di valori assai più vasta e radicale». Era iniziato, cioè, il processo al secolo XIX, al secolo della democrazia, dell’uguaglianza, della maggioranza. «Se il secolo XIX fu il secolo delle rivoluzioni, il secolo XX appare come il secolo delle restaurazioni». Queste affermazioni non 402
volevano essere, per Mussolini, la deduzione teorica di una sorta di «metafisica» o «metapolitica» ostilità alle idee democratiche del secolo XIX, come poteva esser la natura dell’ostilità antidemocratica di reazionari classici e conservatori tradizionalisti. Esse nascevano soltanto dalla constatazione realistica delle tendenze della vita sociale e politica contemporanea, alle quali Mussolini voleva adeguare la politica del fascismo. Dopo quattro anni di guerra e un altrettanto lungo periodo di lotte civili, gli italiani desideravano un ritorno all’ordine, il ristabilimento della pace sociale, e la ricomposizione delle gerarchie sovvertite. La guerra e le incertezze della classe dirigente avevano fortemente scosso il prestigio delle istituzioni ed avevano screditato i princìpi liberali che le legittimavano. Osservando questa crisi, Mussolini fu costretto a mutare quasi completamente la sua precedente valutazione degli effetti rivoluzionari della guerra, almeno nel senso di una rivoluzione a sinistra, come trionfo della democrazia e delle masse. La guerra era stata certamente una rivoluzione, affermava ora Mussolini, ma nel senso opposto a quello che lui stesso aveva immaginato all’epoca dell’interventismo e nell’immediato dopoguerra; era stata una rivoluzione nel senso che ha liquidato - tra fiumi di sangue - il secolo della democrazia, il secolo del numero, delle maggioranze, della quantità. Il processo di restaurazione a destra è già visibile nelle sue manifestazioni concrete. L’orgia dell’indisciplina è cessata, gli entusiasmi per i miti sociali e democratici sono finiti. La vita torna all’individuo.
Mussolini riteneva che i popoli, stanchi delle convulsioni continue che avevano distrutto la loro serenità, vagheggiavano l’avvento di un «tiranno» e muovevano 403
ansiosi, «oggi più che mai, alla ricerca di istituzioni, di idee, di uomini che rappresentino dei punti fermi nella vita, che siano dei porti sicuri, in cui ancorare -per qualche tempo l’anima stanca di aver troppo errato». Il partito fascista era già l’attuazione del nuovo spirito restauratore descritto dal suo capo. Era un partito moderno, e del tutto diverso dai partiti tradizionali, con le caratteristiche proprie di un partito rivoluzionario: era, cioè, un partito che esprimeva tutte le funzioni di uno Stato in potenza, che si preparava, con l’esercizio di un potere di fatto esercitato al di fuori della legalità, a sostituire lo Stato liberale, in quanto questo aveva ormai perso gli attributi essenziali di un vero Stato, nel senso mussoliniano, cioè non era più la forza organizzata di una minoranza in grado di imporre la sua volontà di potenza e di far valere la sua autorità88. Il partito fascista, nelle sue strutture di organizzazione militarmente disciplinata, andava incontro al bisogno di ordine, di inquadramento delle masse, di dedizione ad un capo e ad una fede. Il partito, inoltre, riassumeva in sé le caratteristiche della crisi spirituale postbellica, rispondeva alle aspirazioni di conquista e all’esigenza di fede delle giovani generazioni, col suo elemento mistico e guerriero, con riti, cerimonie, simboli di unità e di gerarchia, adatti a soddisfare le ambizioni di comando, lo spirito di avventura, il colore rivoluzionario, il bisogno psicologico degli individui di integrarsi in una superiore ma reale collettività, in cui ritrovare il senso di sicurezza e di partecipazione in una stabile e ordinata vita sociale. Il fascismo, affermava Mussolini89,
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segna il tramonto del vecchio concetto di partito, massa o gregge di tesserati, vincolati da una disciplina puramente politica: il nuovo concetto di partito risponde al diffuso e profondo bisogno che hanno gli uomini di una disciplina, di un ordine, di una gerarchia. Noi osiamo affermare che se la disciplina del fascismo, per quanto ancora imperfetta, diventasse un abito nazionale, l’Italia uscirebbe dal periodo caotico ed anarchico della sua storia. Lo Stato italiano è capace di imporre ai suoi dipendenti quella disciplina formale e morale che il fascismo sa e deve imporre ai suoi gregari? La risposta a questi interrogativi è il giudizio sulle possibilità dello Stato che sorge, mentre l’altro declina.
Mussolini presentava il partito fascista, nucleo organizzato del nuovo Stato, come partito dell’ordine e della restaurazione. Il capovolgimento delle posizioni, rispetto all’ormai lontano «diciannovismo» libertario, era notevole: con piena consapevolezza, e con altrettanto consapevole e spregiudicata disinvoltura, molte idee del primo fascismo erano state del tutto abbandonate. L’intuizione delle nuove tendenze della società aveva imposto al fascismo un ripensamento ideologico, con l’elaborazione di miti meglio rispondenti alle richieste più diffuse sia nel popolo italiano che nella massa degli aderenti al fascismo. In questa situazione, parlare ancora di «ritorno ai princìpi» era ridicolizzato dallo stesso Mussolini come prova di senilità o di infantilismo politico: il fascismo doveva essere realistico e saper dare una risposta, ideologica e politica, al desiderio di ordine delle masse, doveva essere l’espressione organizzata di questa tendenza dello spirito contemporaneo, di questa ripresa classica della vita contro tutte le teorie e le razze dissolvitrici, di questo bisogno che si potrebbe chiamare architettonico di ordine, di disciplina, di gerarchia, di chiarezza, di forza, di qualità, in opposizione a tutte le anticipazioni caotiche, a tutte le incerte dottrine ed alla folle e cretina paura che avvelena taluni, i quali temono sempre di non avere idee abbastanza «avanzate»90.
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Con questi discorsi, Mussolini voleva anche tranquillizzare quei settori della destra italiana che avevano guardato con interesse all’azione fascista, ma ora temevano che questa azione andasse oltre i limiti di un ritorno all’ordine, per sostituirsi al socialismo nel dissolvere la società borghese. Inoltre la sua preoccupazione era che la massa dei simpatizzanti avrebbe certamente abbandonato il fascismo se invece di trovare in esso un elemento di stabilità e di restaurazione avesse scoperto che portava in sé una nuova minaccia eversiva. Per approfondire e chiarificare le idee del fascismo, Mussolini fondò nel gennaio del 1922 la rivista «Gerarchia», con l’ambizioso proposito - analogo a quello che lo aveva spinto a creare dieci anni prima, e in tutt’altro contesto, la rivista «Utopia» - di svolgere «un’opera culturale di critica e di scelta più vasta, più complessa e ben altrimenti delicata e profonda di quella che può compiere un quotidiano». Nel Breve preludio91, Mussolini spiegava il significato del titolo, chiarendo il suo concetto fondamentale di gerarchia. Gerarchia, egli affermava, significava scala di valori umani, di responsabilità e di doveri. Le gerarchie erano necessarie a qualsiasi sistema, ma nessuna di esse poteva ritenersi eterna. Lo scopo di questa definizione era duplice, mirando a giustificare e ad accreditare, contemporaneamente, sia l’immagine del fascismo come movimento restauratore dell’ordine sia la sua volontà rivoluzionaria, in quanto espressione di una nuova gerarchia, e quindi di una nuova concezione dello Stato. Mussolini, certamente, voleva suscitare attorno al fascismo il consenso della borghesia presentandolo come una forza equilibratrice, che avrebbe ristabilito l’ordine e rinnovato la società nel quadro 406
della tradizione dello Stato nazionale. Ma, nello stesso tempo, egli voleva anche distanziare il fascismo dalle posizioni ideologiche troppo tradizionaliste e conservatrici, per esaltarne la novità e la modernità come movimento politico di avanguardia. Così, pur riconoscendo il grande valore spirituale della tradizione come «creazione successiva e costante» dell’anima di un popolo, Mussolini respingeva l’idea della tradizione, in senso metapolitico, come qualcosa di assoluto, di immutabile e di definito, un’idea che, dal suo punto di vista, serviva solo a legittimare l’inamovibilità della vecchia gerarchia al potere. Il fascismo rispettava la tradizione che costituiva patrimonio storico di un popolo, ma non poteva certo arrestare la sua azione di fronte a gerarchie tradizionali in declino perché incapaci di esercitare la loro funzione dirigente: erano gerarchie che avevano compiuto il loro ciclo storico e dovevano, perciò, cedere le redini del comando alle nuove gerarchie in ascesa, espresse dal fascismo. Non ci sono gerarchie eterne, ribadiva Mussolini: le gerarchie «nascono, vivono, si trasformano, declinano, muoiono» e nuove gerarchie iniziano il loro ciclo, innestando però la loro opera in quella passata. In tal modo, Mussolini presentava il fascismo come movimento nuovo e moderno di congiunzione fra passato ed avvenire, fra restaurazione e rivoluzione, movimento che raccoglieva in sé l’eredità più vitale e ancor valida di un’epoca storica conclusa e, insieme, conteneva i nuclei vitali del nuovo corso. Molto significativo per la definizione dell’ideologia mussoliniana in questo nuovo orientamento, è l’articolo II fascismo e i rurali 92, in cui Mussolini, tracciando una rapida sintesi dello sviluppo del movimento, fece una vera e 407
propria palinodia del sovversivismo fascista. Egli descriveva abbastanza esattamente le tappe dello sviluppo, indicando nell’autunno-inverno del ’20 l’inizio della metamorfosi del fascismo, durata fino al congresso di Roma, quando fu sancita la svolta a destra. Il fascismo, in quel tempo, era uscito dai centri urbani espandendosi nelle campagne, da dove trasse la sua forza maggiore, anche se la direzione del movimento - precisava Mussolini - era rimasta nelle città. Dalle campagne, il fascismo aveva raccolto una grande massa di piccola borghesia rurale, e questa nuova affluenza di forze sociali aveva alterato, «più o meno profondamente la fisionomia originaria del fascismo»; ma merito principale del fascismo, secondo Mussolini, era proprio di avere così inserito «vaste masse di elementi rurali nel corpo vivente della nostra storia». Il ruolo politico nuovo che questa piccola borghesia rurale aveva conquistato era considerato da Mussolini estremamente importante per i fini politici del fascismo, perché rappresentava «una forza di stabilità, di equilibrio, di sodo patriottismo. Una garanzia insomma - di continuità nazionale». Questa piccola borghesia, però, non avrebbe tollerato un linguaggio sovversivo, che offendesse le sue più radicate credenze. Ad essa, quindi, il fascismo doveva presentarsi soprattutto come movimento di ordine, come paladino degli ideali e degli interessi della piccola borghesia rurale, e soprattutto difensore della sua proprietà. In tal senso si svolgeva la presentazione che del nuovo fascismo faceva Mussolini: il fascismo considera assurda la socializzazione della terra, «rispetta la religione, non è ateo, non è anticristiano, non è anticattolico», concorda con le tradizioni della piccola borghesia rurale, la cui religiosità, «perfettamente italiana», 408
aborre dalle tendenze distruttive della morale, della tradizione, dei valori popolari. Il fascismo, giunto alla soglia del potere, non si curava se le sue trasformazioni ideologiche suscitavano le critiche e le ironie degli avversari, che coralmente negavano ai fascisti originalità di pensiero. Anche in ciò il fascismo si vantava di essere un fatto nuovo nella politica italiana, perché aveva capovolto il rapporto tradizionale fra pensiero ed azione. Il fascismo, era una «dottrina della realtà», che aveva un solo dogma, la nazione: Il fascismo - scriveva Cesare Rossi93 - ha, in sostanza, capovolto uno schema della politica tradizionale: non è più la dottrina che guida o imprigiona un movimento, ma è il movimento che produce ed anima la dottrina, non più arida raccolta di previsioni fatalistiche, di giudizi stantii, di teorie bislacche, ma solo agile ed organica consacrazione di avvenimenti contingenti.
Il successo fascista smentiva le previsioni del suoi avversari e critici, che ne avevano diagnosticato una fine rapida, giudicandolo un movimento privo d’un proprio impulso vitale, incapace di esprimere una forza politica autonoma. I successi del partito fascista, nella sua sfida contro lo Stato liberale, dimostravano invece che la rivoluzione contro il vecchio regime poteva avvenire anche al di fuori e contro gli schemi del rivoluzionarismo classico della sinistra. Senza mettere in dubbio il valore rivoluzionario del fascismo, Rossi indicava i caratteri della nuova «rivoluzione», e le forze sociali su cui si basava: non una rivoluzione di masse a solo beneficio delle masse, «democratica, egualitaria, plebea a base internazionalista», ma rivoluzione animata e diretta da minoranze, costituita da ceti nuovi e giovani, «a favore di tutte le classi e a fondo 409
esclusivamente italiano». Rossi voleva dimostrare che il fascismo non era un movimento politico al servizio della reazione agraria e del capitalismo, perché raccoglieva attorno a sé il consenso e la simpatia della maggioranza della piccola e media borghesia. La base sociale, di cui il fascismo rappresentava l’organiz-zazione e l’ideologia, erano i ceti medi, soprattutto quelli delle campagne, che erano «un elemento di equilibrio nella vita italiana ed una garanzia di salute di tutta la razza»: E naturalissimo che tutta questa gente, «che sa produrre e risparmiare», che è attaccata per tradizione e per affetto alla sua terra, si orienti verso il fascismo. Esso è apparso ai suoi occhi come il giustiziere di tutte le follie collettiviste, destinate a disperdere tante diffuse fortune singole e ad immiserire le fortune generali del paese. È dunque perfettamente umano che si stringa al suo fianco e si confonda con esso. Ma in questo atteggiamento noi non scorgiamo solo un gesto di difesa economica; c’è anche una promessa ed un incominciamento di carattere politico. Questa gente rude e sana, che finora non faceva della politica permanente e che costituiva la riserva delle critiche clerico-moderate oppure demo-riformiste per il giorno delle elezioni, è il nuovo materiale politico del fascismo. Sono, in sostanza, i ceti medi - quelli che in città si compongono poi di commercianti, di impiegati, di professionisti, di artigiani, ecc. - che si avanzano alla ribalta della vita politica e che nel fascismo hanno trovato il loro interprete disinteressato e chiaro. […] Il fascismo è la diana e l’insegna dei ceti medi che rappresentano nella vita di un popolo l’equilibrio e la continuità.
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Capitolo sesto Rivoluzione, reazione, revisione 1. Rivoluzionari senza rivoluzione La «marcia su Roma» si concluse con un compromesso fra Mussolini e le forze politiche dello Stato liberale. Episodio in sé modesto, anche come «colpo di Stato», essa non è considerata dagli storici una svolta di grande importanza nella storia dell’Italia contemporanea e dello stesso fascismo: il vecchio ordine non era stato distrutto e il nuovo governo, presentato da Mussolini senza speciale ardore rivoluzionario, era molto simile al risultato di una tradizionale operazione trasformista di collaborazioni temporanee. Per i fascisti, invece, dal punto di vista ideologico, la «marcia su Roma» ebbe un grandissimo significato: si era conquistata Roma per conquistare l’Italia, per rinnovarla, per spazzar via il vecchiume con i suoi uomini, i suoi istituti, le sue leggi, la sua mentalità. Perciò, piuttosto che una marcia su Roma i fascisti la consideravano simbolicamente una marcia contro Roma. La nuova Italia, l’Italia nata dalla guerra, giovane aristocratica idealista attiva, aveva conquistato la capitale della vecchia Italia, dove da sessanta anni s’erano raccolti i vizi e le degenerazioni di un sistema che aveva tradito lo spirito del Risorgimento: non si marciava su Roma soltanto per fare un governo di coalizione, ma per compiere un’opera storica, affermò Camillo Pellizzi, un giovane intellettuale fascista: Roma riassumeva, rappresentava, potenziava tutto questo stato di cose. Era là che si giuocava al parlamento, si celebrava secondo la liturgia democratica, si
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barava nei corridoi; si facevano le parate a tipo classico e si barattavano onori e prebende nei ministeri; si amministrava tutta l’Italia, ignorando tutta l’Italia ed il resto; si comandava senza forza e si subiva senza dignità. Capitale pomposa e di stucco, buona per un giuoco di «roulette» internazionale o come grande esposizione permanente di passati valori. In tutto questo, diciamolo subito, non ci ave-vano alcuna speciale colpa i romani, né tampoco le tradizioni locali; la colpa era del sistema improvvisato e in gran parte erroneo, uscito dal nostro Risorgimento, e di quel risucchio […] per cui la mentalità, le virtù e i vizi del nostro paese prima della rivoluzione nazionale erano riaffiorati dopo la formazione del regno, più o meno adattandosi o truccandosi nelle vesti della democrazia. La nuova corrente aristocratica formatasi e potenziatasi attraverso la guerra e il fascismo si trovò di fronte il problema: o rifare Roma capitale dal di fuori, o rifarla dal di dentro. O prolungare indefinitivamente la situazione rivoluzionaria del triennio 1920-1922; costringere l’Italia tutta ad una specie di lungo febbrone, che facesse traspirare molti veleni, maturare molti bubboni; vivere alla macchia e manovrar fuori degli organismi costituzionali, svolgendo un nuovo corpo storico, originale e fortemente individuato, sufficiente a se stesso, capace di sostituirsi, un giorno, di un sol colpo, al vecchio organismo cancrenoso. Oppure muovere direttamente al centro; prendere Roma così com’era, coi suoi abiti e le sue istituzioni, e sviluppare la rivoluzione gradualmente, dal centro alla periferia. Seguendo il primo sistema, la parte fascista sarebbe stata meno numerosa, ma ben più formata, più limpida, più definita nella sua personalità, prima di diventare governo; la sua opera sarebbe stata più lenta ma forse più radicale; per converso, il pericolo era che la nazione, anche per le difficoltà della politica estera, non reggesse alla lunga malattia, e se ne sbarazzasse d’un colpo, ritornando ad un paludoso riassestamento di tutto il passato. Attuando invece il secondo sistema, si poteva mutare la sostanza salvando temporaneamente alcune delle vecchie forme, instillare gradualmente la rivoluzione nelle arterie del paese mettere subito la nuova gerarchia agli educativi cimenti del potere, d’altro lato, si rischiava la confusione degli spiriti e delle lingue, la corruzione degli animi meno forti, il contagio del vecchio mimetismo e il rovesciamento dei valori (in parte poi accaduto) nel seno stesso della propria aristocrazia. La seconda via fu scelta, come sempre accade, soprattutto per le necessità dell’ambiente: lo Stato di diritto troppo debole, il fascismo troppo forte, le squadre d’azione troppo agguerrite e pronte, l’opinione pubblica troppo disposta a concedersi un esperimento di governo fascista (l’opinione pubblica era da un pezzo disposta a mettere il governo nelle mani di chicchessia, purché questi avesse la compiacenza di voler governare). Inoltre, c’era il fenomeno diffuso del mussolinismo , cioè fiducia nell’uomo per se stesso, indipendentemente dalle idee sue e del suo movimento. Pertanto fu decisa la «marcia su Roma», che avrebbe dovuto piuttosto
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chiamarsi «marcia
contro
Roma», contro quella Roma di cui si è detto1.
Questa citazione mostra molto bene quali erano i sentimenti che mossero i fascisti alla conquista del potere, nell’incertezza di un’azione di cui essi stessi non erano molto consapevoli, e vi risaltano i problemi più gravi che la conquista della capitale poneva innanzi tutto al movimento fascista. I fascisti giunsero al potere senza preparazione per i vari e complessi settori della macchina statale, ma erano egualmente convinti che la «marcia su Roma» avrebbe avviato la trasformazione del regime con la forza del loro ideale. Le idee intorno allo Stato nuovo erano, tuttavia, nebulose e confuse. Neppure l’ideale o, come si diceva, la «Causa» era motivo di vera fusione fra le schiere fasciste, e non costituiva una garanzia per la loro unità nel momento in cui il fascismo affrontava la prova del governo. Le altre forze politiche e la grande maggioranza degli italiani, stanchi della lunga crisi, si erano rassegnate ad assistere all’esperimento di un governo Mussolini, convinti che l’uomo fosse migliore del suo partito e che le difficoltà del potere avrebbero costretto il fascismo ad abbandonare i metodi violenti e illegali, inducendolo ad entrare nelle vie consuete della politica parlamentare, dove avrebbe forse dimostrato maggior energia degli altri governi e uno spirito di sincera devozione alla patria. Siffatta soluzione, se andava incontro ai desideri delle forze conservatrici che appoggiavano Mussolini e trovava consenso negli esponenti della destra fascista, non era affatto soddisfacente per la grande massa dei fascisti, i quali videro nei risultati della «marcia su Roma» una rinuncia ai programmi rivoluzionari e sentirono 413
la collaborazione con gli avversari come un tradimento delle loro ambizioni. Nelle masse fasciste vi era «nostalgia dell’azione»2. Attorno all’assestamento raggiunto con il compromesso mussoliniano lievitava, insofferente ed inquietante, «un’insoddisfazione di varia indole»3. Nella massa dei fascisti, e specialmente nello squadrismo, c’era un’aspettazione «rivoluzionaria» che andava molto al di là della soluzione raggiunta con un governo in cui prendevano parte, accanto a pochi fascisti, molti rappresentanti del vecchio mondo politico. La delusione era conseguenza naturale del raggiungimento di uno scopo ritenuto troppo al di sotto delle ambizioni, e fu accompagnata da un più vivo desiderio di azione, per conquistare nuove posizioni e per ridurre all’impotenza i nemici. I fascisti volevano restare accampati nel paese come un esercito sempre armato in difesa della «rivoluzione»: e che credessero veramente di aver fatto una rivoluzione e di doverla continuare contro tutti gli avversari, malgrado le deviazioni e le lentezze imposte dalla tatti-ca, ci sembra fuori di dubbio. Questo in particolare era lo stato d’animo del fascismo provinciale, squadrista ed intransigente, che rispecchiava, in gran parte, i sentimenti e le aspirazioni che erano all’origine della «rivoluzione» della piccola e media borghesia, nei suoi ceti emergenti, contro socialismo e capitalismo. Il nuovo Stato fascista avrebbe dovuto soddisfare e concretizzare nei suoi istituti gli interessi e gli ideali dei ceti medi. Le difficoltà, all’interno del fascismo, sorsero molto presto quando venne il momento, per i fascisti al potere, di chiarire a se stessi e mostrare al paese con quali princìpi, con quali metodi e con quali forze il partito fascista intendeva 414
realizzare la sua politica di governo. Un chiarimento ideologico era urgente e necessario perché il successo della «marcia su Roma» e l’abilità del duce al compromesso non erano motivi sufficienti per soddisfare gli ardori rivoluzionari di cui il fascismo si era fatto interprete. Ma, d’altra parte, proprio la presenza di questi ardori rivoluzionari era fonte di ostacoli per il nuovo governo e per la sua politica di «normalizzazione», come fu allora chiamata. Infatti, se il governo fascista non voleva perdere il credito di cui godeva fra la borghesia, come movimento restauratore dell’autorità statale, doveva dimostrare con i fatti di saper dare ordine e rinnovamento, per non lasciar scadere questa cambiale di fiducia: saper agire e soprattutto riuscire là dove i precedenti governi erano stati inetti, specialmente nel ristabilire l’ordine pubblico - anche nei confronti delle squadre fasciste; risanare il bilancio; ridare dignità ed autorità allo Stato: insomma, portare il paese fuori della crisi postbellica. Questi erano i desideri di quanti avevano piaudito all’avvento di Mussolini al governo, considerando il fascismo un bastone per sedare gli spiriti sovversivi a vantaggio dello Stato liberale. Ma una semplice soluzione d’ordine, ispirata a questi criteri, scontentava lo squadrismo, perché in pratica, ormai sconfitto il movimento rivoluzionario di sinistra, la richiesta di ordine si rivolgeva essenzialmente a danno dello squadrismo stesso: non si poteva ristabilire l’ordine senza procedere ad una rapida smobilitazione delle squadre. Ciò sarebbe stato certamente più facile se il fascismo, così come s’era presentato alle porte di Roma, fosse stato soltanto una milizia di classe o una schiera di bravi giovani impetuosi ma 415
generosi, che avevano servito lo Stato liberale nel restaurare l’ordine, pronti poi a ritirarsi nell’ombra. Il fascismo, invece, non era soltanto un’armata al servizio di altre forze, ma era un complesso di forze con impulsi autonomi, di interessi di classe, idealità e sentimenti non bene amalgamati fra di loro né orientati verso un medesimo obiettivo. Unico motivo comune, per tutti coloro che costituivano, per così dire, il fascismo vero e proprio, in quanto partito che aspirava a realizzare un proprio disegno politico attraverso cambiamenti anche radicali, era la negazione della realtà politica presente e del sistema democratico, liberale e parlamentare, per impulso di una generica volontà rivoluzionaria in cui si mescolavano ancora confusamente residui di rivolta romantica dell’interventismo e del combattentismo e nuovi miti palingenetici di trasformazione della società e dello Stato. Questo spirito di rivolta contro l’ordine esistente, in nome di un non ancora meglio definito ordine fascista, era caratteristica dei gruppi fascisti provenienti dalla sinistra rivoluzionaria, dalle «aristocrazie del combattentismo», dalla militanza squadrista vissuta non solo come reazione di classe ma come crociata idealistica per la rigenerazione della nazione e la creazione di uno Stato nuovo. I fascisti invece che provenivano dalle file della destra conservatrice e nazionalista cercavano di esercitare, spalleggiati dai nuovi fiancheggiatori del governo mussoliniano, un’intensa opera di freno e di condizionamento per mantenere il fascismo entro l’alveo del sistema. In particolare, era scopo dei fiancheggiatori neutralizzare le velleità rivoluzionarie del fascismo - in cui avevano preso corpo le aspirazioni di ceti emergenti dopo la mobilitazione sociale seguita alla guerra 416
per far prevalere al suo interno le ben più consistenti ambizioni delle forze conservatrici economiche e politiche, che cercarono di avere il sopravvento nel complesso gioco di compromessi in cui si svolse la politica mussoliniana dopo la «marcia su Roma»4. Per restare nei limiti del nostro tema, in questo capitolo non ci occuperemo delle vicende politiche del fascismo dopo l’avvento al potere, ma ci occuperemo delle motivazioni e delle derivazioni ideologiche che tali vicende ebbero negli anni dopo la «marcia su Roma». Dal dibattito vivace e spesso aspramente polemico iniziato all’interno del fascismo dopo la conquista del potere emergeva una realtà indiscutibile: nonostante la disciplina militare dell’organizzazione, il fascismo era tutt’altro che un partito saldamente costituito ed organizzato, in modo da poter assumere le responsabilità di governo, senza lasciarsi confondere e sopraffare dalle difficoltà di volta in volta insorgenti delle situazioni reali o dalle situazioni prodotte dal contrastarsi e sovrapporsi di concezioni e valutazioni diverse dei compiti che spettavano ad un governo presieduto dal capo di un partito che si considerava rivoluzionario e mirava, nei suoi gruppi più attivi, ad una conquista integrale del potere, cioè, in pratica, alla fine della democrazia parlamentare. Le tendenze ideologiche che convivevano al suo interno erano varie, e difficile appariva la possibilità di unificarle in un orientamento comune, ora che si doveva definire una politica di governo. Secondo un esponente della destra fascista, il fascismo aveva «cinque anime»5 ma, per semplificare il discorso, diremo che nel fascismo continuavano a vivere - come, del resto, accade in ogni movimento politico di vaste proporzioni - due anime 417
che si possono definire luna conservatrice e l’altra innovatrice, ma si deve tener presente che, all’intemo di questa generica distinzione, vi erano altre distinzioni, strati di orientamenti diversi che spesso convivevano, o per mancanza di vera e propria coscienza teorica o per mere ragioni di opportunismo, con motivazioni ideologiche di diversa matrice. La storia dell’ideologia fascista, dal 1922 al 1925, è lo scontro fra queste due anime con una serie di atteggiamenti minori, locali, personali persino, definiti o appena accennati, alcuni con un significato importante per l’elaborazione dell’ideologia fascista, altri destinati a restare posizioni marginati, sostenute da pochi convinti fino alla loro scomparsa o alla loro trasformazione in atteggiamenti più o meno ostili al fascismo6. Gli stessi osservatori fascisti più avveduti e responsabili ritenevano che fosse più esatto parlare di fascismi (se non proprio di fascisti) - che di fascismo, e ritenevano che la «marcia su Roma» dovesse essere l’inizio di un processo di unificazione delle sue molte anime, per poter inserire stabilmente il fascismo nella storia nazionale: Prima della Marcia il fascismo fu, un po’ per cause occasionali diverse da regione a regione, da paese a paese, per qualità soggettive dei primi capitani, per differenza di ostacoli e di nemici, un movimento spezzato in un’estrema varietà di tipi. Più che di fascismo, si poteva allora parlare di fascismi. Il Congresso di Roma del 1921 rivelò, in pieno, la molteplicità difforme, in cui era, per altro, insita una delle ragioni della rapida propagazione del proselitismo e, quindi, del successo. La marcia su Roma fu il principio e l’attuazione di una sintesi. I fascismi vi giunsero unificati nel fascismo7.
I fascisti più assillati dal problema ideologico speravano che, dopo la conquista del potere, ci sarebbe stata energia 418
sufficiente, all’interno del partito e anche da parte di Mussolini, per amalga-mare le diverse correnti e inserirle in un corso ben definito di pensiero e di programmi. Alla prova dei fatti, invece, la colla che fino ad allora aveva tenuto insieme elementi così diversi non resse, e per tre anni il fascismo fu investito dalla crisi: crisi politica certo, ma anche crisi ideologica, perché principale fonte di discordia era proprio il problema di definire il significato della «rivoluzione fascista», e di indicarne le vie e i metodi ma soprattutto le finalità. Quanto precaria fosse l’unificazione del movimento apparve evidente nei due anni successivi all’andata al potere. Come scrisse Guido Dorso, il fascismo giunse al governo «come un’amalgama informe di forze discordanti e contraddittorie, tenute insieme dal prestigio personale di un uomo, che, nella immaturità generale del paese, era riuscito a carpire a quasi tutti i ceti una cambiale di fiducia»8. Mussolini si illudeva di poter tenere uniti nel mito della nazione «interessi proletari ed interessi padronali, produttori e parassiti, rivoluzionari e trasformisti, mediandoli successivamente e contraddittoriamente per mantenere in piedi un’esigua ed inconcludente schiera di ex socialisti rivoluzionari, scettici e cinici, assolutamente incapaci di risolvere il problema italiano appunto per la loro origine barricadiera». E alla fine, secondo Dorso, dal consolidamento del fascismo al potere venne fuori un regime di compromesso fondato su una coalizione di forze, economiche e politiche, che però era rivolta proprio contro le aspirazioni «rivoluzionarie» dei nuovi ceti, che videro progressivamente avvilita, dalla politica governativa del duce, la loro autonomia nel fascismo e nel nuovo Stato 419
autoritario. L’avvenire del fascismo, è noto, fu determinato da concrete scelte politiche ed economiche, che furono in larga parte dettate a Mussolini non dalla sua fedeltà alle aspirazioni rivoluzionarie del suo partito, ma dalla necessità di non perdere il consenso delle forze tradizionali che avevano accettato il suo avvento al potere, ed erano disposte ancora a sostenerlo, purché fosse stato in grado di metter la briglia al suo stesso partito. Non è però meno interessante, per capire lo svolgimento della crisi finale del regime liberale e il ruolo che ebbero in essa le varie «anime» del partito fascista, conoscere le motivazioni ideologiche delle scelte di Mussolini, da una parte, e dell’atteggiamento, spesso con queste scelte contrastante, dei principali esponenti del fascismo in quel periodo, portando così alla luce la notevole varietà di posizioni politiche del fascismo, non prive di una loro logica coerenza, e neppure così sradicate - come si è portati a credere se si accetta per valida la pregiudiziale metodo-logica di una totale negatività ideologica del fascismo - da qualsiasi tradizione di pensiero, e da una consapevolezza, confusa quanto si vuole, dei problemi della società italiana, non riducibili semplicemente alla vocazione reazionaria della grande borghesia. Riteniamo, al contrario, come fu già osservato bene da Gramsci9, che attraverso il fascismo, proprio per la sua natura di composito movimento sociale di massa, riemergevano contrasti e problemi della società italiana che il governo fascista si illuse di poter eliminare con una soluzione di forza e di repressione entro la cornice dell’ordine ristabilito, di una società definitivamente pacificata e cristallizzata nelle sue tradizionali gerarchie sociali e politiche. Di tali contrasti e problemi furono in 420
certo qual modo interpreti tutti coloro che, all’intemo del fascismo, non ritenevano esaurita la funzione e la «missione storica» del partito fascista con la formazione di un governo di coalizione, la cui principale preoccupazione avrebbe dovuto essere la restaurazione dell’ordine, il rinvigorimento del vecchio regime monarchico parlamentare, la riaffermazione del predominio sociale dei ceti borghesi tradizionali. Il successo della «marcia su Roma» diede ai fascisti una momentanea euforia, ma il termine «rivoluzione» adoperato in quell’occasione era un’esagerazione10. Come si legge nel primo numero di una rivista giovanile, «La Rivoluzione fascista», all’indomani dell’avvento al potere mancavano nel movimento fascista «le correnti di idee, l’elaborazione dei princìpi, la lotta di pensiero che sono il sostrato necessario alla formazione di ogni specifica ideologia, e che sole possono dare vitalità al fascismo»; di conseguenza, non si poteva parlare di compimento della «rivoluzione fascista»: La rivoluzione fascista non è come ci si vuol da ogni parte far credere, compiuta. O meglio, è compiuta in quel suo primo atto di schermaglia violenta che ha portato il fascismo alla conquista del potere, preludio necessario ad un ordine di fatti che ancora devono svolgersi, e tanto più saran difficili in quanto debbono operarsi non solo contro avversari, ma anche e specialmente contro noi stessi. Perché si insiste a proclamare che il fascismo è una rivoluzione e non piuttosto si dice che fu sinora una rivolta, se i fatti che noi vediamo non sono che i risultati di una violenta sostituzione di persone e di mezzi, e non ci fanno ancora intravedere i sintomi di una rivoluzione di idee, di princìpi, di sentimenti, di sistemi, di mentalità, quale noi intendiamo sia una rivoluzione?11
In effetti, né i fascisti di destra né quelli di sinistra avevano chiaro il disegno programmatico del nuovo ordine 421
da istituire, ma tutti volevano qualcosa di più da un governo fascista. Il governo di Mussolini appariva troppo moderato per i «rivoluzionari», troppo collaborazionista per gli intransigenti, troppo parlamentare per gli squadristi, troppo empirico e sovversivo per i revisionisti, troppo modernista e liberale per i reazionari tradizionalisti, i monarchisti assoluti, gli antimodernisti. E tutte le correnti, ad eccezione di quelle che risolvevano il problema del potere con la semplice applicazione della forza, erano egualmente convinte che l’opera di un governo fascista non poteva essere che l’attuazione di un’ideologia, ed ognuna di esse cercò di offrire la propria. Le posizioni iniziali più importanti e più influenti, che acquistarono quasi un valore di simboli di opposti modo di concepire il fascismo e la politica fascista, furono quelle rappresentate’soprattutto dal revisionismo di Giuseppe Bottai, da una parte, e dall’altra dall’intransigentismo di Roberto Farinacci e dai cosiddetti «fascisti integrali» dello squadrismo provinciale. I motivi e i problemi dai quali ebbe origine il contrasto erano diversi, ma raccolti attorno ad alcune questioni fondamentali: il rapporto del fascismo con le altre forze politiche e, in particolare, con la classe dirigente liberale e con la tradizione del liberalismo; la funzione del partito nei confronti del governo; la sorte dello Stato liberale dopo la «rivoluzione fascista». Su tali questioni si svolse il dibattito fra le varie correnti che, da queste due posizioni iniziali, vennero precisandosi all’interno del fascismo, soprattutto nel 1924, allorché il delitto Matteotti pose drammaticamente l’urgenza di risolvere quelle questioni, in un senso o nell’altro, per salvare il fascismo da una fine sicura. A parte i fascisti 422
favorevoli alla pura e semplice restaurazione del regime esistente, più o meno corretto in senso autoritario, la polemica sui rapporti fra governo e partito fascista, sui compiti e sulle finalità del fascismo investì la gran massa dei militanti del partito, raggiungendo spesso toni violenti, e favorì una germinazione straordinaria di derivazioni, in cui è possibile individuare alcune tendenze principali, fra di loro spesso contrastanti e talvolta opposte, esprimenti comunque la volontà di imporre alla politica del governo fascista una direzione contraria alla mera conservazione dell’ordine esistente, che doveva esser comunque trasformato, per vie moderate e legali o per vie sovversive e violente, con orientamento volgente più a destra o più a sinistra. La maggior parte dei fascisti, i più rozzi esponenti dello squadrismo come i più colti rappresentanti del fascismo cittadino, aveva voglia di cambiare le cose, di fare qualcosa per dimostrare che l’avvento del fascismo al potere era l’inizio di una rivoluzione e non un normale avvicendamento di governi. Gli uni e gli altri consideravano la «marcia su Roma» l’inizio di un’epoca di politica sperimentale per realizzare lo Stato nuovo, per risolvere la crisi dello Stato liberale certamente in senso autoritario, ma senza respingere il paese a stadi premoderni, cercando di conciliare l’esigenza dell’autorità con le esigenze di una società di massa. Nessuno di essi credeva che la «marcia su Roma» fosse l’ultimo atto della «rivoluzione fascista», perché rivoluzione vera e propria non c’era stata ancora, e spettava ai fascisti compierla. Se gli intransigenti rifiutarono di obbedire all’ordine imposto dal governo fascista allo squadrismo, i revisionisti non erano meno convinti di loro che il governo fascista non doveva essere un governo di 423
ordinaria amministrazione, sorto magari per liquidare il fascismo. Si differenziava da queste due posizioni, pur essendo considerato iniziatore della polemica revisionista, Massimo Rocca il quale riteneva che il problema della «rivoluzione fascista» dovesse essere risolto nell’ambito del regime liberale, al quale il fascismo avrebbe dato un nuovo vigore, sopprimendo le tentazioni sovversive dello stesso fascismo, per restaurare lo Stato nazionale nei suoi istituti tradizionali, rinnovando i princìpi della destra. Più che esprimere un movimento sociale e politico autonomo, che doveva dar vita ad un nuovo assetto politico, il fascismo doveva essere una rivoluzione morale, per dare agli italiani il sentimento dello Stato, ma senza introdurre radicali cambiamenti di regime. Questo era, per Rocca, il significato storico del fascismo: una risposta, nata dall’inquietudine del paese, al bisogno di disciplina, di certezze, di fede, dopo un lungo periodo di dissoluzione nel pensiero e nella prassi, per il prevalere del dubbio, dell’individualismo, della democrazia. Privo di una originalità teorica, il fascismo era un moto spirituale in cui si manifestava l’esigenza dell’ordine: esso avrebbe potuto anche scomparire come movimento politico, ma certamente un altro movimento sarebbe sorto ad esprimere il desiderio di certezze, il sentimento di disciplina e la richiesta di autorità che pervadeva il popolo. Da queste premesse, Rocca concludeva che la funzione del fascismo doveva esaurirsi nel ripristino dell’autorità legale e dell’ordine dello Stato contro qualsiasi minaccia di sovversione e di illegalismo. Il richiamo all’ordine, ovviamente, era rivolto da Rocca soprattutto ai fascisti che ancora dominavano nel paese con 424
le loro squadre armate e si mostravano poco disposti a deporre le armi e a lasciar lavorare i politici. Secondo Rocca, la stessa sopravvivenza del partito fascista, con la sua organizzazione armata, era un inutile peso per l’azione del governo fascista; era più un motivo di preoccupazione che un valido appoggio nell’opera di restaurazione; una fonte di continue azioni illegali che erodevano il prestigio e l’autorità dello Stato, rappresentato ora da Mussolini. Rocca rivolse perciò un esplicito l’appello ai fascisti invocando la fine dello squadrismo, la normalizzazione della vita politica, un confronto civile con gli avversari, appello che allo stesso Mussolini parve, in un primo momento, quanto mai propizio al suo proposito di esautorare il partito e di imbrigliare lo squadrismo nelle province, sottoponendolo ai rigori della legge. L’appello di Rocca non era dettato soltanto dalla considerazione di motivi contingenti o dalla sua avversione per il rozzo intransigentismo farinacciano e squadrista, ma rispondeva alla sua visione del fascismo e dei compiti del governo fascista. Il governo fascista avrebbe dovuto operare come una dittatura classica, essere cioè un governo di emergenza per superare la crisi del paese, governo eccezionale e transitorio, come eccezionale e transitorio era, per Rocca, lo stesso fascismo. Questa interpretazione si inquadrava nella visione liberalconservatrice del fascismo di Rocca. Egli credeva che il disfacimento della società italiana poteva essere arrestato e superato soltanto con un ritorno ai princìpi della destra, al liberalismo cavouriano, liberalismo pratico e non dottrinario, informato al buon senso e al realismo italiano. Questo liberalismo, secondo Rocca, poteva soddisfare il bisogno di una dottrina nazionale del 425
fascismo per inserirsi nella tradizione storica del paese. Come conseguenza di un vasto e non definibile moto spirituale, il fascismo non doveva considerarsi una chiesa chiusa nel suo dogma e nella sua intransigenza, ma doveva invece aprire le porte a tutti gli elementi sinceramente disposti a collaborare, con la loro esperienza e la loro competenza, per il bene della nazione. I non fascisti sia i rappresentanti della vecchia classe dirigente come i lavoratori non sottomessi alla disciplina delle organizzazioni fasciste - non dovevano essere considerati nemici da annientare, ma come «non credenti da convertire» attraverso l’esempio. Bisognava dimostrare che il fascismo non era solo vio-lenza e non voleva conquistare l’Italia per interesse di parte e per imporre un’assurda uniformità a tutti gli italiani. Al contrario, il governo fascista doveva imporre, senza discriminazioni politiche, una disciplina comune ed una giustizia imparziale a tutti i cittadini, a cominciare dagli stessi fascisti. Ciò, inoltre, avrebbe evitato la pletorica enfiagione del partito, in cui accorrevano gli opportunisti e i profittatori dell’ultima ora, i quali aderivano al fascismo nel momento del successo per utilizzarlo ai propri fini12. In conclusione, Rocca riteneva che il programma della «rivoluzione fascista» dovesse consistere unicamente nell’infondere uno spirito nuovo «nelle istituzioni vigenti», con lievi ritocchi modernizzato-ri, ma senza un mutamento radicale delle «forme costituzionali»13. Il revisionismo di Rocca, in un primo momento (dall’autunno del ’23 alla primavera del ’24), rappresentò la tendenza più esplicita e decisa fra le varie correnti fasciste che volevano la fine dell’illegalismo, del rassismo e della guerra civile e credevano necessario un periodo di pace e di 426
tranquillità politica per elaborare le idee e definire i nuovi istituti nei quali doveva concretarsi lo spirito fascista. Prima di giungere a ciò, bisognava ristabilire l’autorità dello Stato e bisognava sottomettere a questa autorità, rappresentata da un governo fascista, anche il partito. La continuità della rivoluzione doveva svolgersi attraverso la normalizzazione e la collaborazione con tutte le forze disponibili, senza innalzare attorno al fascismo una trincea di intransigenza e di spirito settario. Il fascismo, per Rocca, era un mezzo per raggiungere un fine, non un fine in sé: perciò una volta portato Mussolini al governo, i fascisti dovevano tornare ad essere cittadini come tutti gli altri, certo più meritevoli per l’opera compiuta in favore della restaurazione, ma non per questo destinati ad avere particolari privilegi al di fuori o al di sopra della legge. Essi avevano fatto una rivoluzione non per sé, ma per l’Italia, come scrisse nel settembre del 1923: La rivoluzione fascista, nell’ampia e fulminea intuizione del Duce nostro, doveva essere così, e così difatti fu in parte, malgrado le rèmore e le opposizioni che dagli stessi fascisti provenivano: la rivoluzione compiuta dai fascisti, ma per l’Italia e non per i fascisti medesimi; la rivoluzione capace di violentare prima, ma di convertire poi l’Italia intera, di «fascistizzarla», con licenza del termine barbaro: in modo che il fascismo, lungi dal marcire in una supposta torre d’avorio tramutatasi in una scatola di conserva, si espandesse spiritualmente fino a fondersi, ad annegarsi, a disperdersi nella nuova e diffusa e salda coscienza nazionale14.
2. Farinacci e il fascismo intransigente I più insoddisfatti per i risultati conseguiti dal fascismo dopo la «marcia su Roma» erano gli esponenti del fascismo squadrista intransigente, i quali non erano disposti ad ascoltare discorsi sulla normalizzazione, e ancor meno le tesi 427
di chi riteneva ormai conclusa la rivoluzione fascista e persino esaurita la funzione del partito fascista, come suo interprete ed artefice. Per gli intransigenti la rivoluzione fascista non doveva affatto concludersi con la formazione di un governo di collaborazione, e con una politica di normalizzazione che era diretta a danno del fascismo stesso e soprattutto del partito. Il partito, per essi, rappresentava il fascismo nella sua integrità, come organo della rivoluzione che mirava alla conquista integrale dello Stato, e non aveva pertanto bisogno dell’apporto di collaborazioni al di fuori del fascismo, collaborazioni che risultavano essere null’altro che condizioni imposte al fascismo per costringerlo ad abbandonare le posizioni conquistate, a smobilitare le squadre, a rimandare nelle province i «guerrieri» per lasciar discutere i «politici». Il fascismo intransigente, animato dal più violento estremismo di idee, di metodi e di azione, aveva il suo rappresentante in Roberto Farinacci, una delle pochissime personalità politiche di rilievo dello squadrismo, e l’esponente più rumoroso e più influente del fascismo provinciale. Nell’estremismo farinacciano trovarono posto i motivi vecchi e nuovi dello squadrismo, interessi di classe, spirito di intransigenza e semplice settarismo, aspirazioni rinnovatrici e personale cupidigia di potere. Tuttavia, la corrente di Farinacci parve rinnovare l’anima del fascismo originario, antiparlamentare e anticollaborazionista, infervorato dai propositi rivoluzionari di una base sociale costituita dalla piccola borghesia, soprattutto rurale, che aveva armato il fascismo con l’ambizione di fare la propria rivoluzione in competizione sia con i conserva-tori sia con le masse 428
proletarie. La tendenza piccolo borghese, come osservò Gramsci nel 1926, è ufficialmente impersonata da Farinacci. Essa obiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo. 1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze d’interesse specialmente doganali. È certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole assentire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La seconda contraddizione è di gran lunga la più importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo […]. In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di organizzazione, di princìpi generali. Essa è più uno stato d’animo diffuso che una tendenza vera e propria15.
Questa piccola borghesia, tuttavia, era nient’affatto disposta a vedersi sottrarre il potere ambito a vantaggio di un compromesso parlamentare che avrebbe ridato vigore alle forze della vecchia Italia; e nella difesa del partito armato, come istituzione tipicamente fascista, essa vedeva il migliore strumento per contrastare le tendenze conservatrici e portare a compimento la conquista dello Stato. La rivolta dell’estremismo fascista contro l’ordine costituito, contro lo Stato liberale e la sua classe dirigente, era radicale e non aveva scrupoli né ideologici né pratici. Ogni concessione ai vecchi avversari era considerata un attentato alla «rivoluzione». L’estremismo rappresentava, in modo elementare, l’anima bellicosa del fascismo, che concepiva la politica come azione e imposizione di forza, e considerava le questioni teoriche e tattiche vizi propri del vecchio regime: «la politica è intuito ed azione. Non è cultura e tanto meno acrobazia ragionativa», affermava 429
Emilio Settimelli, che con Mario Carli fu il più agitato sostenitore di un estremismo a forti tinte monarchicoreazionarie16. Nel fascismo intransigente, inoltre, si trovano annunciati alcuni dei motivi che diverranno poi tipici del regime fascista: la mitologia del Capo17; l’esaltazione indiscriminata dell’attivismo e l’ostentazione di atteggiamenti antiintellettuali18; il rifiuto del dubbio e della critica disprezzati come segni di incertezza politica e di impotenza senile; l’imperialismo retorico delle aquile romane e degli immancabili destini della grandezza italiana19; e perfino spunti di razzismo, con grottesche semplificazioni positiviste20. Il fascismo intransigente si oppose alla politica di disarmo messa in atto dal governo nei confronti dello squadrismo e ai propositi di smantellamento dei centri di potere provinciali, politica voluta da Mussolini con l’appoggio dei conservatori e dei fascisti più moderati, o perché convinti che la «rivoluzione fascista» era solo un problema morale, come l’intendeva Rocca, o perché, come Bottai e i revisionisti raccolti attorno a lui, avevano della rivoluzione una concezione più culturale e istituzionale, e perciò volevano liberare il fascismo dall’estremismo rozzo e violento. La costituzione della MVSN, la smobilitazione delle squadre, l’autoritarismo governativo nei confronti del fascismo provinciale, la progressiva subordinazione del partito allo Stato liberale, sia pure attraverso un governo presieduto da fascisti, erano per l’estremismo altrettante rinunce ai princìpi della rivoluzione. Perciò, già all’indomani della «marcia su Roma», Farinacci chiedeva la «vittoria integrale» del fascismo, per impedire che la rete di manovre tessuta dagli amici dell’ultima ora servisse soltanto 430
ad imbrigliare il fascismo, ed evitare la sua azione di trasformazione radicale dello Stato. Dopo la conquista del potere, i fascisti estremisti riaccesero il vecchio conflitto tra fascismo guerriero e fascismo politico. Furono rinnovati i motivi polemici contro il gruppo dirigente fascista che, senza tener conto delle esigenze della «base» ma operando contro di essa, stava preparando la liquidazione del fascismo «rivoluzionario». La pacificazione e la normalizzazione non dovevano essere imposte come prezzo da pagare per la collaborazione e il consenso dei vecchi avversari: nessun compromesso e nessuna tregua con la vecchia classe dirigente, ma intransigenza assoluta e leggi speciali per ridurre la possibilità di azione degli avversari e dare tutto il potere al fascismo. Se il fascismo era una rivoluzione, doveva procedere con metodi rivoluzionari. Le rivoluzioni non si muovevano sui binari della legalità del vecchio ordine. Il nuovo ordine doveva nascere dalla legittimazione dell’illegalismo fascista. La collaborazione di non fascisti, di fiancheggiatori e di esponenti della vecchia classe dirigente; come pure i ponti che alcuni fascisti cercavano di costruire fra il liberalismo e il fascismo: tutto questo, per gli intransigenti, era un pericolo molto grave per la loro rivoluzione: È proprio qui - affermava Farinacci21 - il pericolo: negli amici del-l’ultim’ora - sia stampa che uomini; negli eroi della sesta giornata, in coloro che fecero in Roma il loro ingresso dopo che la breccia era stata aperta e si proclamarono a gran voce, tronfio il petto di croci e commende, i conquistatori della capitale. E proprio qui il pericolo: nei falsi amici, o occulti nemici di ieri, che sono oggi i più rumorosi amici e potrebbero essere i tristi consiglieri di domani. Da un simile pericolo - il peggiore - bisogna che il fascismo provveda in tempo a guardarsi e a salvaguardarsi. In tale previdenza - e provvidenza - risiede la
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condizione essenziale perché sieno conservate la sua vergine forza e la sua elasticità perché non vadano frustrati i suoi sacrifici e il suo successo. Bisogna insomma che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai margini della vita politica italiana sieno messe in mora, vigilate, controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di rifarsi, attraverso il fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere integrale: nel senso che non debba condurre soltanto al rinnovamento dei ceti dirigenti centrali e quindi alla rivalorizzazione completa dello spirito delle forze nazionali, ma debba anche iniziare un vasto movimento rigeneratore di quelli che sono i gangli effettivi, nell’ordine morale, soprattutto, del sistema nervoso della nazione.
Farinacci non era un uomo travagliato da problemi ideologi-co-culturali, anzi aveva poca simpatia per certe forme di intellettualismo fascista che, a suo giudizio, frenavano lo slancio rivoluzionario nelle secche delle discussioni e rischiavano di andare al di là del fascismo, per divenire vere e proprie eresie contro il fascismo, come nel caso di Massimo Rocca. Tuttavia, non per questo si può negare a Farinacci, come fecero i suoi avversari, dentro e fuori il partito fascista, una sua concezione del fascismo, elementare quanto si vuole nella definizione ideologica, ma a suo modo chiara e coerente, e sostenuta per di più, con pervicacia, da un comportamento conforme, che ostentava come virtù politica il fanatismo delle proprie idee e il culto della violenza. Farinacci emerse dall’ambiente dell’estremismo più fazioso, violento e retorico non soltanto perché era egli stesso un capo dello squadrismo, ma anche perché, nella profonda crisi di orientamento del fascismo dopo il delitto Matteotti, egli apparve, più dello stesso Mussolini, uomo deciso e «vero» fascista, che non aveva mai ceduto alle lusinghe della vecchia classe dirigente, non 432
aveva mai creduto alla normalizzazione, non era mai stato disposto alla liquidazione dell’organizzazione armata del partito né all’esautora-mento di questo a vantaggio del governo e dei fiancheggiatori che miravano ad uccidere il fascismo nelle spire di un nuovo compromesso trasformista. Per impedire ciò Farinacci riteneva indispensabile lasciare al partito fascista la sua autonomia e il ruolo di unico artefice della rivoluzione, organo al quale doveva far capo anche l’azione del governo fascista; quindi, bisognava impedire con qualunque mezzo agli avversari del fascismo di riprendere fiato e forza dopo la «marcia su Roma» e dopo la crisi seguita al delitto Matteotti; infine, si doveva procedere a costruire celermente il nuovo regime mediante una totale «fascistizzazione» della società italiana, sia negli istituti politici che in quelli economici. Nello scontro fra le diverse e confuse teorizzazioni dei revisionisti, abbozzanti le linee del futuro Stato fascista attraverso mescolamenti di vecchio liberalismo e nuovo autoritarismo, Farinacci ebbe una posizione propria, affermando la concezione del partito come organizzazione armata e disciplinata militarmente, al servizio della «rivoluzione fascista», e come istituto fondamentale su cui doveva essere edificato lo Stato nuovo fascista, in cui il partito sarebbe stato sede unica e indiscutibile del potere. Solo il partito era depositario della fede fascista; non era perciò un’assemblea di discussioni, ma un organo di propaganda e di combattimento. Come disse al congresso fascista nel giugno del ’25, nelle vesti di segretario del partito: La propaganda della fede e le opere sono la vita stessa del partito. Perché la propaganda fosse viva e feconda e, formando al partito una volontà più
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consapevole, più ricca e potente, fosse chiamato, persuaso, esaltato, alla nuova vita, il popolo italiano, noi obbedimmo a queste due necessarie esigenze che fosse chiaro all’anima dei fascisti il significato della loro avversione all’intellettualismo e, insieme, fosse salvo il partito dalla oziosa compiacenza delle discussioni accademiche e astratte […]. Poche idee chiare, una fondamentale consapevolezza del nostro orientamento storico e spirituale, l’entusiasmo per i problemi concreti che la vita nazionale ci impone come doveri da compiere, questi sono i criteri a cui ci siamo ispirati, cui resteremo fedeli. E soprattutto fu ripudiato con violenza e spregiato il falso concetto della scienza superiore ai partiti, della scienza liberale, cioè neutrale e superiore alla vita e alla concezione della vita22.
Per quanto elementare, quella di Farinacci era una concezione che prefigurava i caratteri del partito totalitario come organo assoluto di governo e strumento di terrore, ordine chiuso di eletti, al quale doveva far capo tutta l’organizzazione della vita politica e sociale del paese. Il partito esprimeva il fascismo autentico, cioè lo squadrismo, il fascismo delle province. In ragione di questa concezione, nei primi due anni di governo fascista, Farinacci fu l’oppositore più accanito del fascismo moderato e revisionista, facendosi portavoce dei sentimenti della base fascista senza curar-si troppo di fare distinzione fra interessi e ideali, senza discutere se la violenza e 1 illegalismo dei fascisti fossero di natura reazionaria o, come lui affermava, rivoluzionaria. La sua politica si riassumeva nell’affermazione: tutto il potere a tutto il fascismo e nessuna trattativa con avversari e nemici. Farinacci credeva e i fatti gli diedero ragione, almeno in parte - che soltanto attraverso lo squadrismo era possibile imporre al paese un regime nuovo, integralmente fascista; non solo, ma che soltanto sull’appoggio dello squadrismo poteva fondarsi l’opera di un governo fascista. Per questo motivo, dopo la crisi Matteotti, Farinacci riuscì a condizionare l’azione di 434
Mussolini, ad imporre al partito una linea dura ed intransigente. Tuttavia, nonostante il suo prestigio di «antagonista» del duce e il suo indubbio fascino sul fascismo «rivoluzionario», Farinacci fallì nel suo progetto di fare del partito la sede della volontà politica del fascismo, ponendolo in posizione predominante rispetto allo stesso governo, come istituto fondamentale dello Stato nuovo. Nel 1926, dopo essere stato per un anno segretario del partito, venne emarginato dal quadro politico del nuovo regime, che subordinò il partito alla volontà del duce. Ma parte dei motivi del suo fallimento erano insiti nella sua stessa visione della politica del partito totalitario e nel modo in cui egli cercò di attuarla. La concezione del partito di Farinacci, infatti, si scontrava, all’interno del fascismo, con una realtà ben diversa da quella che egli immaginava, ma, forse ancor di più, essa trovava invalicabili ostacoli nella personalità stessa del capo degli intransigenti. Il ras cremonese non potè attuare la sua conquista integrale dello Stato perché gli mancarono le doti per essere un vero capo di un partito totalitario; egli non poteva in realtà contare su alcun altra forza, se non le velleità dello squadrismo provinciale nella sua rivolta contro lo Stato liberale e contro la città. Il suo disegno totalitario poggiava sulla fiducia nella forza rivoluzionaria della piccola e media borghesia, in maggioranza rurale, che aveva animato lo sviluppo del fascismo ed aveva espresso, attraverso lo squadrismo, un’organizzazione armata con cui attuare la propria «rivoluzione». Ma la violenza dello squadrismo e la forza della piccola borghesia rurale non bastavano per risolvere la crisi interna del fascismo e il problema dello Stato. La crisi 435
investiva tutto il fascismo - massa, partito e governo -, e non esisteva allora alcuno stabile collegamento fra questi tre elementi del «regime fascista» come era immaginato da Farinacci. Lo stesso partito fascista, al-lora alla deriva fra fazioni, scissioni e dissidentismi, era ben lontano dal costituire quell’ordine chiuso di militanti mossi da una fede intransigente, che avrebbe dovuto portare a compimento la conquista dello Stato. Tutte le deficienze oggettive del fascismo erano invece ben chiare al suo antagonista Bottai: La crisi del partito - scriveva Bottai - si impernia, secondo noi, su alcuni punti che indichiamo sinteticamente anche per non ripetere ciò che in altri scritti illustrammo con sufficiente chiarezza: 1) Mancanza, dal giorno che Benito Mussolini assorbito nelle più gravi cure del governo cessò di essere il capo del partito in senso pratico, pur rimanendone il capo ideale, d’un uomo che alle cose del partito si dedichi esclusivamente, continuamente ed autorevolmente. 2) Esistenza d’una giunta esecutiva creata con investitura dall’alto, che volle essere il più possibile felice, ma non riuscì nella creazione d’un organismo direttivo omogeneo, animato da una volontà unica, lineare, precisa. 3) Abuso anche nei gradi inferiori della gerarchia, di investiture dall’alto, che raramente corrispondono alle reati esigenze dell’organizzazione, e che spesso montano la testa degli investiti. 4) Persistenza di un sistema disciplinare rigido, militaresco, ricco di formule primitive, ottimo in tempi di azione politica, esecrando per l’uso tirannico, impulsivo ed abusivo che ne fanno la maggior parte dei capi locali. 5) Persistenza di quadri, creati in un’atmosfera di lotta e di violenza, incapaci di informarsi alle necessità nuove di maggiore studio meditazione e responsabilità. 6) Confusione di poteri, di attribuzioni e di autorità tra i vari rami dell’organizzazione fascista (partito, milizia, sindacati, cooperative, gruppi di competenza), e mancata definizione dei loro rapporti. 7) Persistente confusione tra i poteri dello Stato e i poteri del partito, per cui questi, in ispecie nelle province, tendono a sovrapporsi a quelli. 8) Indefinitezza programmatica delle attuati funzioni del partito. Queste, a parer nostro, le linee generati del quadro, nel quale, per altro, sarebbero da rilevare non pochi altri segni particolari; queste le linee, secondo le quali l’opera
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di revisione va condotta23.
Ai revisionisti fu facile accusare Farinacci e gli estremisti, di sinistra o di destra, di rappresentare una rozza, istintiva e antistorica sopravvivenza dello squadrismo e del ribellismo, perché non riuscivano a capire le nuove situazioni e le ragioni politiche della crisi del fascismo. La conquista del potere aveva avuto come prima conseguenza la crisi del partito: un partito che, nonostante l’organizzazione monolitica esteriore e il sistema gerarchico militare, era un coacervo di ideali e di interessi diversi, moderno nella forma e nelle strutture di massa ma con tutte le caratteristiche negative del «movimento». La disciplina era un apparato esteriore, perché aveva valore soltanto in situazioni locali ma, nel complesso, non dava coesione al partito, ed era dovuta più al fascino e al prestigio di alcuni capi che ad una coscienza politica collettiva. Era una disciplina che traeva autorità morale soltanto dal mito della nazione, divenuto, per il caotico proselitismo del fascismo trionfante, «il denominatore comune di mille preoccupazioni non precisamente mistiche e non precisamente religiose»24. Neppure esisteva una vera e propria classe dirigente di partito come sarebbe stata necessaria per la politica di Farinacci. I capi del fascismo suscitavano emozioni ed entusiasmo per ragioni di carattere locale, per interessi, per crudeltà e violenza, per fascino personale, ma scarsa era la loro preparazione politica per compiti nazionali. I problemi posti dai revisionisti, insieme con l’invito a rivedere e discutere la situazione politica, ideologica ed organizzativa del partito suonavano, alle orecchie degli 437
intransigenti, come attentati alla «rivoluzione fascista»: erano infiltrazioni di moderatismo e di liberalismo, inutili e pericolose divagazioni accademiche, che sfociavano nella richiesta di sostituire le gerarchie squadriste con nuove gerarchie di teorici e di intellettuali. In verità, gli intransigenti non avevano tutti i torti a paventare una prossima liquidazione non solo dello squadrismo ma dello stesso partito. Con la situazione creata dal compromesso mussoliniano, il ruolo politico dei capi provinciali del fascismo, dei ras, diminuì rapidamente di importanza, quando si cercò di incanalare nella legalità imposta dall’alto il partito e lo squadrismo. Il partito, invece di essere il nucleo del nuovo Stato, era ridotto a supporto del governo, partito fra gli altri e come gli altri, secondo qualcuno, destinato a scomparire di fronte all’autorità dello Stato25. Come osservò Pellizzi26, «ogni passo avanti del fascismo ha diminuito l’autorità del partito fascista come tale: le corporazioni e le cooperative gli hanno tolto l’iniziativa sul terreno economico; la milizia volontaria sul terreno dell’organizzazione squadristica; i gruppi di competenza sul terreno tecnico specializzato; lo stesso governo fascista, infine, sul terreno politico generale». Il partito e i capi dello squadrismo che non erano entrati nella sfera del nuovo governo non avevano molto spazio per agire da protagonisti in opposizione alla politica mussoliniana. Il fronte degli intransigenti non costituiva una formazione politica omogenea, in grado di assumere la totale rappresentanza del fascismo. Nello schieramento dell’estremismo intransigente finirono col trovare ospitalità tutti quelli che, in un modo o nell’altro, e per diversi motivi, erano contrari alla normalizzazione, anche se 438
erano assolutamente privi di qualità politiche e neppure sposavano le tesi del ras cremonese. Ci riferiamo, per esempio, a personaggi come Carli e Settimelli, già ricordati, i quali con il loro giornale «L’Impero» furono la voce più rumorosa e più retorica dell’estrema destra fascista. Il loro intransigentismo era lo sbocco di un avventurismo politico che alla labilità delle idee cercava di dare vigore con il più violento ed elementare estremismo verbale. Essi riesumavano i miti del fascismo futurista ma vi aggiungevano l’esaltazione dello Stato assoluto e del reazionarismo monarchico. In loro prevaleva ancora una concezione estetica della politica. Fascista chiamavano «chi ama la realtà nella sua totalità e sa affrontarla virilmente, fino a goderne i riflessi di poesia che da questo virile assalto promana, è fascista chi va spedito e detesta le lentezze, è fascista chi ama la sintesi e si addormenta all’analisi, è fascista chi si sente più comodamente in piedi, calzando un paio di stivaloni ferrigni piuttosto che due pantofole ovattate»27. Con questi caratteri di energia, di passionalità, di violenza, di esaltazione dell’istinto era impossibile, per il fascismo, adeguarsi ad una realtà politica fatta di compromessi, di accordi, di calcoli prudenti, secondo lo stile e il metodo della politica democratica e liberale. Ma il fascismo non era un movimento politico sorto per esaurire la sua energia nelle funzioni burocratiche, per continuare un sistema di vita politica dominato da personalità mediocri adatte soltanto all’ordinaria amministrazione. Il fascismo, affermava Carli28, «non può fare dell’ordinaria amministrazione» né Mussolini poteva perdersi nei «rigagnoli della metodicità quotidiana». Agli estremisti si presentava l’immagine retorica dell’uomo politico che non 439
può essere in alcun modo un uomo dei tempi normali, ma, se è veramente grande politico, come Mussolini appariva, doveva essere all’altezza del suo ruolo, essere, oltre che politico, anche guerriero. Perciò il fascismo, dopo aver imposto all’interno il principio dell’autorità e dell’ordine, avrebbe dovuto volgere all’estero la sua bramosia di azione, di potenza e di dominio, per affermare, attraverso la guerra, il dominio della razza italiana. Alla retorica nazionalimperialista, «L’Impero» affiancava il ripudio dell’anarchismo intellettuale, e di tutte le idee che, prima della guerra, avevano rappresentato la rivolta culturale contro l’ordine borghese. Nietzsche e Stirner erano stati gli idoli di artisti e poeti insofferenti delle regole, della legge, dell’ordine costituito animato da sentimenti mediocri e meschini, senza alcun spirito eroico; ordine in cui non era possibile l’affermazione delle grandi individualità. Ora che il fascismo aveva rinnovato l’ordine con «un geniale assorbimento e utilizzazione di tutti i valori fattivi», bisognava ristabilire il senso dell’autorità, della gerarchia, del dominio di individui superiori nei quali si manifestava lo spirito della razza. Questa era, secondo Carli, la ragione del diverso orientamento assunto da uomini come lui che, dopo aver esaltato il disordine creativo e la ribellione in tempi di ordine debole e mediocre, ripiegavano verso forme di intransigenza assolutista e di estremismo reazionario, in una visione di unità e di solidarietà nazionale coatta, imposta dalla vittoria fascista a tutti gli italiani. Ordine nuovo rispetto al regime liberale, ma ordine ristabilito con un ritorno ai princìpi tradizionali dell’autoritarismo, superando la «degenerazione» democratica e liberale e senza concessioni alle tendenze moderate che potevano impedire 440
lo sviluppo autoritario del fascismo verso la costituzione della società italiana in un solido regime rivolto alla lotta contro altre nazioni. Il fascismo, nato per ristabilire un ordine «classico» ed autoritario, non doveva riportare in vigore i metodi del vecchio mondo politico né adottare misure di compromesso e di moderatismo per creare attorno a sé il consenso delle masse e cercare di conquistare gli avversari. I fascisti avevano vinto con la forza e dovevano quindi usufruire del diritto dei vincitori. Così, con argomentazione elementare e violenta, si chiedeva la massima durezza verso gli avversari che non intendevano piegarsi alla volontà del nuovo regime e verso i tiepidi afascisti o fascisti dubbiosi e critici che ostacolavano la definitiva affermazione del diritto assolutista. Il fascismo dell’«Impero» era sostanzialmente l’esaltazione di un metodo: il metodo dell’azione violenta e istintiva. I fascisti avevano il diritto di agire da padroni e dovevano considerare gli avversari come «servi pseudorivoltosi», verso i quali unica forma di comportamento era la forza. La vittoria fascista non era una vittoria da diluire in mille piccole transazioni e in mille piccole morbide abdicazioni. «Ci sorregge - affermava Carli29 - non solo l’altissima coscienza del compito assegnatoci dal destino, ma anche la matematica certezza di appartenere a una razza migliore e a una zona superiore di vita». Dal giornale di Carli e Settimelli, che raccoglieva le piti disparate voci dell’estremismo ma senza che da queste venisse fuori una qualsiasi concreta e realistica soluzione politica alla crisi del fascismo e alla fondazione del nuovo Stato, sia pure una soluzione francamente reazionaria, ma comunque praticamente realizzabile, si diffondevano i 441
motivi della retorica più turgida del fascismo al potere. Il dibattito politico era ridotto ad una rumorosa e presuntuosa affermazione di potere da parte fascista, di autoritarismo, di intransigenza, di violenza. Erano residui del futurismo politico che, dopo un malinconico esaurimento, trovava imprevedibili espressioni in uno strano miscuglio di volgarità anticulturali lanciate contro qualsiasi forma di intellettualismo critico, e di bolso autoritarismo che echeggiava o assorbiva i temi del pensiero autenticamente reazionario dei monarchici assolutisti. Da parte di Settimelli e di Carli vennero, come vedremo, il ripudio di ogni seria discussione sull’elaborazione ideologica del fascismo, ed in particolare il rifiuto più sprezzante della legittimazione culturale che al fascismo diede l’idealismo gentiliano. Soltanto per questo atteggiamento derisorio verso gli intellettuali che facevano politica e pretendevano di discutere sul problema dell’ideologia fascista, gli estremisti dell’«Impero» si trovarono affiancati a Farinacci. Ma il fascismo del ras cremonese non aveva nulla in comune coll’assolutismo monarchico predicato dall’«Impero», anche se i toni e i motivi della polemica contro la soluzione di compromesso adottata da Mussolini erano simili. Farinacci affermava il più intransigente estremismo non per attuare un ritorno alla monarchia assoluta, ma per continuare fino in fondo la «rivoluzione fascista», fino alla totale assunzione del potere da parte dei fascisti e della trasformazione del partito fascista in nuovo Stato, con la monarchia o contro la monarchia. E mentre Carli e Settimelli, privi di autentica vocazione politica, esaurirono il loro estremismo nell’esaltazione del duce, Farinacci difese sempre, anche dopo anni, il valore politico del suo estremismo, che 442
era stato «la difesa ad oltranza della nostra rivoluzione […] del nostro partito e del nostro Duce»30. Ancora nell’ottobre 1927, in un articolo pubblicato su «Gerarchia», Farinacci ribadì la sua condanna dell’esperimento collaborazionista di Mussolini, che aveva minacciato di distruggere la «rivoluzione fascista»: Nell’autunno del 1923, quando già lo squadrismo era stato inquadrato nella milizia, quando già il governo era saldo nelle mani del nostro capo, molti ritennero che fosse giunto il momento di normalizzare, di revisionare il partito e di iniziare con i vinti un’opera fattiva di collaborazione. Noi che non corremmo a Roma nell’ottobre del 1922, perché avevamo dei nostri morti da seppellire e rimanemmo in provincia a contatto del popolo, non credevamo che con la persuasione o con le leggi esistenti si potessero ridurre all’impotenza gli avversari. Fin d’allora - purtroppo fra l’ilarità di tutti i non fascisti e di molti fascisti chiedevamo le leggi della difesa della nostra rivoluzione, senza le quali una normalizzazione non poteva effettuarsi data la malafede degli avversari, e il loro dichiarato proposito di prepararsi ad una rivincita. Così pure sostenevamo che collaborare con gli uomini della vecchia Italia era come voler man mano rinunciare all’avvenire della nostra rivoluzione, e fedeli a questo convincimento, non limitammo la nostra azione a combattere i socialisti ed i popolari, ma la estendemmo anche contro i cosiddetti partiti nazionali ed i loro esponenti i quali, con il loro ni rappresentavano il pericolo maggiore. E ci sentimmo umiliati quando più tardi, in Parlamento, bisogno temperare la volontà del fascismo con la mentalità e gli atteggiamenti di Salandra, Giolitti, Orlando, Di Cesarò, e cioè gli uomini responsabili della decadenza del nostro paese e delle rinunce del dopoguerra31.
L’intransigentismo di Farinacci, anche se non ebbe certo nessuna delle eleganze teoriche del revisionismo bottaiano, non fu soltanto il risultato di una mentalità semplicistica e istintivamente portata alla violenza. A parte la retorica dell’«Impero» e il «provincialismo rivoluzionario» di un Suckert (che per altra via, come vedremo più avanti, porterà 443
sostegni ideologici all’estremismo farinacciano), l’estremismo del ras cremonese era in gran parte residuo della violenza squadrista, come affermavano i fascisti moderati, i revisionisti e gli avversari. Ma, oltre ciò, esso trovava motivazione negli ideali della massa piccolo borghese delle province italiane che nel fascismo aveva visto la possibilità di attuare, contro l’avidità capitalista e l’aggressività proletaria, una società nuova fondata sull’egemonia dei ceti medi e sull’unità, funzionale per questa egemonia, di tutte le componenti della società italiana32. Questo stato d’animo fu colto bene da Pellizzi, che non apparteneva all’estremismo ma pure esaltò nello squadrismo l’origine della futura «aristocrazia» fascista. Lo squadrismo, affermò Pellizzi33, non era stato liquidato dal «compromesso del 1922, quello per cui Benito Mussolini accettò di incanalare la nostra rivoluzione per la via delle istituzioni e delle leggi preesistenti», ma costituiva ancora una forza autonoma, che aveva resistito alle lusinghe delle vecchie classi dirigenti e recava in sé le qualità, ancora vergini e rozze, di una nuova classe politica. Attraverso lo squadrismo, nel fenomeno - così deprecato dalla stampa revisionista - del rassismo, Pellizzi intuiva l’agitazione di un ceto che tentava di emergere e di imporsi34: Diciamo l’elogio dei Ras. Se è vero che il fascismo è piccola borghesia si tratta certo di una classe che non ha nulla delle tipiche limitazioni, mentali e di carattere, della piccola borghesia europea quale ce l’hanno descritta in immortali pagine Balzac e Maupassant; è una piccola borghesia nuova, tutta fresca vibrante volitiva ingenua; primitiva anche, in più modi. Se il fascismo è sorto da questa classe alla quale noi non apparteniamo, e per la quale sempre credemmo di dover nutrire diffidenza o disprezzo, facciamo onorevole ammenda del passato, e ci dichiariamo entusiasti di poterla infine
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riconoscere oggi, e seguire. È una vera classe che sorge. Non più plebe oscura indifferenziata, ma popolo, ossia definita e organizzata volontà civile di una moltitudine. Questo popolo fascista che già era confuso e latente nell’anteguerra, nella guerra ha trovato l’insieme di grandi e gravi circostanze che l’hanno sbozzato, e poi lanciato sul primo piano della storia. È una nuova classe dirigente a cui bisogna dichiarare fedeltà o guerra. I mezzi termini a lungo andare la impazientiscono; è una classe giovane, espressa prevalentemente da giovani. Gli aristòcrati dei tempi andati, i borghesi liberali, radicati o di varia caratura riformista dell’anteguerra non debbono presumere che questa classe lasci loro le guide di comando per poco prezzo. Anche le restaurazioni costano sangue. Ma qui di restaurazione non si parlerà. Poiché di fatto questo popolo nuovo ha spalle sufficienti per portarvi sopra il meglio delle vecchie gerarchie. I migliori uomini del vecchio regime sanno benissimo che nel fascismo o presso il fascismo le loro energie sarebbero assai meglio valorizzate che non lo fossero nell’ordine dei vecchi sistemi. Se non aderiscono, se non si inquadrano, è per equivoci mentati e per la preoccupazione di mantenere una formale coerenza col loro passato. Così è che il fascismo ha dovuto in fretta, in mezzo al tormento confuso della sua gestazione e delle prime lotte, crearsi i suoi capi da sé.
Questa interpretazione dell’intransigentismo corrispondeva, con le ovvie differenze di valutazione e di giudizio politico, a quella che ne diede Gobetti, il quale scrisse un Elogio di Farinacci35 in polemica con i «teorici di Roma» come Massimo Rocca. Farinacci era, per Gobetti, l’uomo dell’intransigenza che difendeva posizioni di potere conquistate con la forza e con sacrifici personali, mentre i «teorici di Roma», con chiara allusione ai revisionisti, erano gli uomini del compromesso, dell’accordo, del trasformismo. Ora, soltanto da uomini come Farinacci, secondo Gobetti, il paese poteva aspettarsi, finalmente, uno scontro senza mezze misure fra le forze della reazione e quelle rivoluzionarie, scontro dal quale sarebbe nata, secondo la dialettica gobettiana della storia, la nuova Italia. 445
Per l’intellettuale torinese, l’unico fascismo utile all’Italia, e all’educazione politica degli italiani, era «il fascismo del manganello», perché avrebbe impedito il trionfo di una nuova e più vasta operazione «giolittiana», costringendo gli italiani a scegliere senza compromessi, ad impegnarsi in una lotta senza quartiere, fra i fautori della nuova tirannide e i fautori della rivoluzione liberale. Con la progressiva liquidazione dell’estremismo di Farinacci e delle forze che esso rappresentava, si rinsaldò, invece, il compromesso dell’ottobre 1922, e si avviò la costruzione di uno Stato fascista totalitario più nella forma, che nella sostanza, in cui trovarono sempre meno posto le ambizioni rivoluzionarie della piccola borghesia provinciale rappresentate da Farinacci. 3. La rivolta contro il mondo moderno L’estremismo di Farinacci, di Carli, di Settimelli si faceva vanto del carattere violento e istintivo del fascismo e della sua avversione all’intellettualismo e alla cultura. Il fascismo in effetti non aveva dietro di sé alcuna particolare, specifica tradizione culturale, cui fare esplicitamente riferimento per indicare i presupposti della sua ideologia; e ciò, per molti intellettuali fascisti, più o meno colti, era considerato piuttosto un pregio che un difetto, ché stava a confermare il pragmatismo fascista e la sua capacità a mantener saldi i contatti con la realtà, affissandosi soltanto all’idea di nazione e di grandezza italiana quale principio guida della sua azione politica. Definita la cultura come astrazione teorica e discussione accademica tipica dei «vecchi», si vantava l’antiintellettualismo fascista perché rispecchiava lo spirito realistico e pratico delle nuove generazioni, e il loro forte 446
senso di italianità, che non accettava più l’egemonia di movimenti culturali e ideologie che avevano origine e carattere straniero, ed erano estranei alla tradizione storica e allo spirito italiano. L’antiintellettualismo fascista era l’ostentazione di un praticismo attivo, combattivo e sano, espressione di una volontà energica, scaturente dall’anima nazionale. Nato dall’azione - era il motivo ricorrente nella pubblicistica fascista - il fascismo aveva agito prima di teorizzare, e aveva agito innanzi tutto proprio contro movimenti politici che si richiamavano a ideologie e sistemi teorici che erano stati importati nella vita italiana. Qualsiasi ideologia, come sistema teorico definito ed organico, era derisa come immagine falsa della vita, come un impoverimento dell’originalità creativa ed imprevedibile della razza italiana. Continuando su questa linea, alcuni «teorici» fascisti ritenevano che il fascismo avrebbe potuto conservare il suo carattere originale soltanto mantenendosi aderente alla realtà, traendo ispirazione per la sua azione futura dagli istinti sani del popolo, lasciando da parte, in quanto residui del dottrinarismo socialista e dell’intellettualismo borghese, i problemi della cultura. La rivoluzione fascista, spiegava Curzio Suckert, era stata più contro Benedetto Croce che contro Buozzi o Modigliani; non era stata preceduta dal dottrinarismo di una sua «enciclopedia», ma era stata spinta soltanto dalla fede nella nazione e dalla «verginità e libertà dei nostri antichissimi istinti»36. Con questi argomenti, in realtà, almeno da parte degli intellettuali meno sprovveduti, si voleva distruggere il patrimonio culturale del mondo liberale e socialista, accusando liberali e socialisti di essere il prodotto di culture straniere che avrebbero snaturato 447
l’anima italiana. Dal-l’antiintellettualismo, perciò, presero le mosse alcune correnti del fascismo, per cercare di elaborare un «pensiero» fascista da contrapporre alle ideologie e alle dottrine che avevano ispirato l’azione politica del liberalismo e del socialismo, cercando di riallacciare il fascismo ad una tradizione italiana precedente e immune dall’influsso delle dottrine straniere. In effetti, superata la fase tumultuosa e passionale delle origini, anche i fascisti che maggiormente disprezzavano l’intellettualismo e le discussioni teoriche si trovarono di fronte al problema di definire che cosa era il fascismo, di dare un’interpretazione degli avvenimenti degli ultimi anni, dall’interventismo alla «marcia su Roma», per chiarire i motivi dell’azione fascista e il programma per il futuro. Sia gli estremisti di destra che gli estremisti di sinistra, nonostante le loro pretese antiteoriche, cercarono di dare una legittimazione culturale alla loro azione, orientando la loro ricerca verso altre correnti ideologiche, diverse da quelle che divennero dominanti nel fascismo, come l’idealismo o il nazionalismo, e maggiormente legate a certe motivazioni di tipo «popu-lista». Dopo aver accreditato il mito - negativo - di un fascismo sorto come movimento schiettamente italiano per combattere il pericolo del bolscevismo e per soddisfare un generale e profondo desiderio di ordine, di pace, di disciplina, di certezza, bisognava ora mostrare che il fascismo possedeva la risposta alla crisi ideologica che travagliava la società italiana: L’epoca nostra e tanto più dopo la guerra, va alla ricerca di un Dio - scrisse Massimo Rocca : e ritornerà molto probabilmente al Dio cattolico, che ha una storia, mentre non si vede come se ne fabbricherebbe un altro, dato lo
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spezzettamento nazionalista del mondo attuale, che vieterà per chissà quanti secoli ogni nuova universalità politica, paragonabile a quella romana. D’altronde questo ritorno a Dio è una necessità mentale, una volta negate le ideologie liberati e democratiche37.
Il fascismo era nato nel momento più critico d’un processo storico di dissoluzione di un’intera civiltà38, rappresentato dal generale disfacimento della società tradizionale, e da un diffuso discredito dei valori liberati borghesi, che, per molti fascisti, costituivano di per sé un elemento negativo nel processo storico italiano, perché erano infiltrazione di germi stranieri, che avevano corroso ed indebolito, con lo spirito critico, la sostanza classica della tradizione italiana. Con la crisi della guerra, le nazioni si erano come ritirate in se stesse, nell’egoismo dei loro interessi, dopo ventate di cosmopolitismo umanitario e internazionalista, riscoprendo filoni dimenticati della propria individualità culturale. Anche in Italia si avvertivano i sintomi di questo ritorno alle proprie tradizioni storiche, che per molti si manifestava come ritorno alla tradizione cattolica, anche se in un senso non specificamente religioso. Nel retorico «spiritualismo» fascista, la riscoperta del cattolicesimo nell’ambito di un sempre più accentuato tradizionalismo finì con l’approdare al più rigido reazionarismo. Nella ricerca di una tradizione nazionale in cui situare e definire il proprio ordine ideologico, alcuni fascisti dovevano necessariamente riscoprire la tradizione cattolica, anche se, come fu notato da più parti, la nuova ortodossia era più un atteggiamento da letterati, da artisti o da politici, che espressione di spiriti cattolici sinceramente religiosi e credenti. Non si trattava, comunque, solo di una 449
machiavellica operazione per ridurre la religione cattolica ad instrumentum regni, almeno non in un senso strettamente politico. Infatti, da questa riscoperta polemica del cattolicesimo, nacquero e si svilupparono, in un periodo più o meno lungo, le correnti ideologiche dell’antimodernismo fascista o, come venne definito, del movimento dell‘antiriforma-. termine che unificava, esteriormente, varie tendenze, dall’estrema sinistra sindacalista e populista di Suckert fino al reazionarismo, più o meno nobiliare, dei monarchici assolutisti. In una valutazione complessiva, si può dire che molte idee di questo antimodernismo erano paradossali o brillanti costruzioni intellettuali, scarsamente fondate su una vera analisi storica e politica. Nonostante ciò - o forse proprio per questo - tali idee ebbero un certo fascino, rispondendo ad una tendenza generale di «ritorno all’ordine», nell’ambito del dibattito ideologico fascista. Si può dire anzi che, negli anni successivi alla «marcia su Roma», dopo l’idealismo gentiliano, e spesso in polemica con questo, l’antimodernismo fu la corrente dell’ideologia fascista che ebbe maggior influenza su certi orientamenti culturali del regime; molti dei suoi motivi fondamentali furono conservati fino alla fine, dando una connotazione particolare al fascismo come ideologia di una «terza via» tradizionalista-. alternativa italiana al capitalismo e al comunismo, che conciliava in una sintesi armonica lo spirito romantico dell’attivismo con il culto della tradizione classica, con l’esigenza di un ordine stabile, e con l’aspirazione ad una vita totalmente integrata in un sistema organico di valori e di istituti, traenti linfa vitale dal «genio della stirpe». I temi più significativi di questo fascismo antimodernista 450
furono accennati, fin dal 1921, nel suo scritto La rivolta dei Santi maledetti (ristampata con un’aggiunta nel 1923) e successivamente svolti nel saggio letterario-politico L’Europa vivente, del 1923. L’ideologia di Suckert nasceva dall’esaltazione del popolo italiano in guerra, un popolo mitico, sano e ricco di virtù ma per secoli travagliato e tormentato da una storia voluta e fatta da altri popoli, mai educato politicamente, costretto a subire la tirannia di padroni stranieri e di signori indigeni; profondamente radicato nella sua terra, l’italiano era un popolo fedele ad antichi e tradizionali valori, ma incapace di elevarsi fino al sentimento del dovere civico, al senso dello Stato e, perciò, era stato per secoli un popolo disperso e disunito, condannato ad una vita sociale amorfa e individualista, dove predominavano soltanto il vincolo del sangue e la faida locale. Questo popolo, per secoli, non aveva saputo far altro che subire il dominio di una classe dirigente di abili machiavellici, che riflettevano in sé i peggiori difetti e i vizi del popolo da cui provenivano. Assente per secoli dalla storia attiva, mai chiamato a decidere del suo destino, il popolo italiano fu improvvisamente gettato nella gran fucina della grande guerra. Gli italiani affrontarono la prima guerra mondiale con le loro deficienze, la loro diseducazione politica, la loro mancanza di senso civico e una radicato spirito di sorda ribellione contro lo Stato, anonimo e distante, identificato nel padrone e nel carabiniere. Caporetto fu il risultato di tutto questo, fu una rivolta del popolo, cioè dei fanti, «proletariato dell’esercito»: «La fanteria, cioè il popolo delle trincee, era divenuta una “classe sociale”, con una mentalità propria, nettamente antiborghese e antiretorica»39. Dalla rivolta di Caporetto, 451
secondo Suckert, era poi nata la «rivoluzione nazionale» fenomeno analogo alla rivoluzione bolscevica -, che aveva, a sua volta, generato il fascismo: «I due avvenimenti iniziali facce diverse di uno stesso fenomeno - la rivoluzione russa e la rivolta di Caporetto, hanno dato origine a due movimenti paralleli, tesi ad un unico termine, ma l’uno e l’altro da diverso spirito animati»40. Mentre la rivoluzione bolscevica rifletteva l’anima collettivista russa, la rivoluzione fascista era schietta emanazione dello spirito individualista della razza latina: ma proprio dall’incontro di questi due movimenti rivoluzionari sarebbe nata una civiltà nuova, «la civiltà dell’uomo umano, dell’individuo nuovo, integrato in una vivace umanità di credenti». Per Suckert bolscevismo e fascismo erano spiritualmente affini perché movimenti di rivolta contro lo spirito della modernità. Con questo termine, Suckert definiva il processo storico, ideologico, politico e culturale dell’Europa fin dall’epoca della Riforma, un processo che portava perciò impressa, nella sua essenza, il marchio dell’eresia e della ribellione luterana contro Roma. L’ideale della modernità, identificato con la civiltà nordica, con il liberalismo e il capitalismo, con il libero arbitrio e la democrazia individualista, si era sviluppato per secoli, assurgendo a modello assoluto di civiltà, giungendo quasi a soffocare il corso originario della civiltà latina mediterranea, che aveva carattere e spirito diversi da quella nordica. Si era così creata un’artificiosa superiorità della cosiddetta Europa civile rispetto a quella che Suckert chiamava YItalia barbara. Ora, in situazioni storiche e geografiche completamente diverse, fascismo e bolscevismo erano entrambi manifestazione di una reazione contro questa 452
modernità e le sue conseguenze sociali e politiche, opponendo ad esse il richiamo allo spirito fondamentale della razza russa e della razza italiana contro l’influenza e l’egemonia dei paesi nordici: Credo che il fenomeno rivoluzionario italiano è, o dovrà essere antimoderno, cioè antieuropeo. Credo che il fascismo è l’ultimo aspetto della Controriforma, perché tende a restaurare la civiltà propria, naturale e storica, dello spirito italiano, naturalmente antico, classico e improprio alla modernità, contro tutti gli aspetti conseguenti della riforma, perciò contro lo spirito moderno, che è barbarico, settentrionale e occidentale, eretico. E credo che il fenomeno rivoluzionario russo, il quale procede parallelamente a quello italiano nella sua avversione e nella sua lotta contro lo spirito moderno (che per noi è quello settentrionale e occidentale, e per i russi è quello europeo), è il complemento storico del fenomeno rivoluzionario italiano. Entrambi si aiutano a vicenda nella comune opera di disgregazione della modernità, né l’uno è concepibile, attuabile e giusto, senza l’altro41.
Secondo Suckert, però, la rivoluzione fascista era superiore alla rivoluzione bolscevica perché aveva un proprio patrimonio di civiltà da sostituire alla civiltà della modernità, la tradizione latina e cattolica. In ciò era la radice di un inevitabile conflitto fra le due rivoluzioni antimoderniste, una volta compiuta la comune opera di distruzione dell’Europa «moderna»: Se i due fenomeni rivoluzionari - scriveva Suckert -, l’Antieuropa russa e l’Antiriforma italiana, si svolgeranno parallelamente ancora per molto tempo, fino a quando cioè il processo di decomposizione della modernità non sarà giunto alle sue ultime conseguenze, non è tuttavia detto che non abbia a deviare e a incontrarsi. Anzi, è certissimo che un tale incontro avverrà. Ciò rientra nella fatalità, e non nel giuoco delle occasioni. È fatale che l’Antiriforma si continui in Antirussia o meglio, in una lotta fra la civiltà classica, latina, cattolica, più propriamente italiana, naturalmente antica e politica, e la civiltà naturale, istintiva e intuitiva, antipolitica, del mondo slavo, ortodosso, più propriamente russo. Il quale, nella sua avversione allo spirito europeo, tende a combattere anche il nostro, che della civiltà europea è grandissima parte. Sarà questo l’incontro di due
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rivoluzioni: di quella italiana, dominata dal senso dell’individuo, e di quella russa, dominata dal senso della collettività. Fascismo contro bolscevismo. Ho fede nel Cristo nostro, italiano, cattolico, armato di croce e di spada. Il Cristo nostro sa resistere al male. Vincerà42.
Tali erano, per Suckert, le prospettive catastrofiche della futura storia europea. E in questa prospettiva, egli assegnava al fascismo la missione di affrontare e risolvere il «dramma della modernità» iniziato con la Riforma43. Su questo tema, è forse utile notare che, nell’individuare nella Riforma protestante l’origine e l’es-senza della modernità, Suckert concordava con la visione della modernità che, negli stessi anni, stava elaborando Piero Gobetti, il quale non disdegnava di ospitare in prima pagina, su «Rivoluzione liberale» le considerazioni di Suckert sul «dramma della modernità»44, che però procedevano da premesse e portavano a conseguenze del tutto opposte a quelle del giovane liberale rivoluzionario. Entrambi infatti ricollegavano la modernità alla Riforma protestante, ma le loro visioni del «dramma della modernità», in cui identificavano le origini della crisi contemporanea, crisi politica, morale e religiosa, della società italiana, corrispondevano come la stampa e il negativo di una fotografia. Per i liberali rivoluzionari, infatti, il «dramma della modernità» doveva risolversi facendo assimilare agli italiani lo spirito della civiltà moderna e nordica, per eliminare dal loro carattere e dal loro costume tutto ciò che apparteneva a secoli di asservimento della coscienza, cioè l’assenza di spirito libero, l’abitudine al conformismo, al servilismo politico, al tradizionalismo formale, al provincialismo. In questa visione della modernità, Gobetti e la «Rivoluzione Liberale» si situavano nella corrente 454
modernizzatrice iniziata da «La Voce», e ancor prima da De Sanctis, nel vagheggiato disegno di un rinnovamento intellettuale e morale del popolo italiano sul modello delle civiltà liberali europee. Suckert e gli antimodernisti erano invece sulla sponda opposta perché ritenevano necessario, per risolvere la crisi italiana, respingere radicalmente qualsiasi influenza della modernità nordica liberale, restaurando integralmente il principio cattolico di autorità, col rifiuto del dubbio e dell’eresia, nella creazione di un nuovo ordine sociale fondato su valori tradizionali della civiltà italiana. Da queste opposte visioni della modernità scaturivano opposte interpretazioni del significato del fascismo nella vita degli italiani. Mentre per i liberali rivoluzionari il fascismo era l’ultima manifestazione della immaturità morale e del servilismo degli italiani, per gli antimodernisti fascisti esso era invece la prima manifestazione di una rinnovata salute del popolo italiano, che riattingeva alle fonti vive della sua antica civiltà latina e cattolica nuove energie di fede e di forza, con le quali gli italiani avrebbero riconquistato il primato in Europa, ponendosi all’avanguardia di una rivoluzione dei popoli di tradizione latina e cattolica contro lo spirito e le istituzioni della civiltà moderna liberale, perché i popoli di mentalità cattolica - «e alla mentalità è necessario aggiungere i costumi, le tradizioni, la cultura, forze imponderabili ed enormi» - erano per natura e formazione ostili ai princìpi ispiratori della civiltà moderna. Fino all’avvento del fascismo, questi popoli, che già avevano reagito con la Controriforma allo spirito della modernità, avevano subito con rassegnazione il primato della civiltà nordica e luterana, sforzandosi di imitare, per un errato 455
complesso di inferiorità, «le forme anglosassoni del viver civile». Ma la crisi di civiltà dell’Europa contemporanea altro non era che l’estrema conseguenza del successo dei princìpi della modernità, l’effetto della loro intrinseca forza distruttiva, che si era diffusa attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, tutti figli e nipoti della ribellione luterana e borghese contro l’ordine cattolico. La modernità aveva corroso le fondamenta della civiltà latina distruggendo forme tradizionali di vita e istituti secolari in cui si era realizzato lo spirito di unità e di solidarietà «cattolica». La civiltà moderna era il trionfo dell’economicismo, del materialismo e deU’utilitarismo borghese, che non concepiva la vita al di là dei propri interessi, ed aveva costruito un tipo di società in cui solo questi interessi erano custoditi e favoriti. Il razionalismo inerente ad una concezione utilitarista della vita, proseguiva Suckert nella sua invettiva antimodernista, aveva distrutto la fede e il senso dell’autorità: il razionalismo illuminista, con un ideale astratto e antistorico, aveva demolito e deriso la tradizione; il liberalismo politico aveva generato governi di classe, in cui lo Stato e il popolo erano estranei ed ostili l’uno verso l’altro; il capitalismo aveva diffuso lo sfruttamento, l’avidità, il demone della competizione e della lotta di egoismi, fra gli individui come fra le classi e le nazioni; l’edonismo scettico aveva inaridito le sorgenti della solidarietà umana. Definita in questi termini la modernità, Suckert giungeva alla conclusione che essa era «contraria e impropria alla nostra tradizione». I mali di cui l’Italia aveva sofferto, dal Seicento in poi, fino alla crisi risolutiva della grande guerra, erano stati causati dall’«aver tentato più volte, e sempre 456
inutilmente, di assimilare lo spirito moderno europeo, contrario al nostro»45. La crisi che aveva travagliato la vita politica e sociale italiana dopo l’unificazione era stata in larga parte causata dal fatto che la classe dirigente liberale, per formare il nuovo Stato imitano, si era servita di ibride mescolanze di ideologie straniere, di liberalismo all’inglese e di democraticismo francese. Solo dalla fine dell’Ottocento, tuttavia, il pensiero italiano aveva cominciato a reagire contro queste influenze ideologiche, con l’opera di Benedetto Croce - al quale Suckert concedeva questo fuggevole riconoscimento -, con la nascita e lo sviluppo del sindacalismo italiano, ed infine con il nuovo movimento di riscossa italiana dell’interventismo e del fascismo. La grande guerra aveva mostrato a qual punto di decadenza era giunta l’Europa per la diffusione della civiltà moderna: dominata dal demone del profitto e dell’interesse, priva di radici storiche, sorretta solo da una fitta trama di complicità plutocratiche, tessuta al di sopra degli interessi nazionali, l’Europa moderna era votata alla distruzione. Contro questa degenerazione della civiltà moderna, si risollevava ora, per opera del fascismo, la civiltà italiana, che era sempre stata civiltà dello spirito e, perciò, veramente universale ma non cosmopolita, l’unica civiltà che poteva ridare all’Europa la fede di nuovi valori, attraverso la riscoperta dei valori antichi: «abbiamo da difendere una civiltà antichissima, che si fa forte di tutti i valori spirituali, contro una nuova, eretica e falsa, che si fa forte di tutti i valori fisici, materiali e meccanici. Questa è la nostra funzione»46. Il fascismo, per Suckert, era una insurrezione del sentimento nazionale contro la modernità nordica e 457
liberale, una nuova manifestazione dello spirito combattivo della Controriforma; era, perciò, fenomeno schiettamente italiano, espressione non di una classe ma di un popolo, che dalla guerra aveva avuto un’educazione politica, ed aveva trovato negli ufficiali di complemento i suoi capi naturali, l’élite che l’avrebbe guidato nella nuova rivoluzione nazionale contro la modernità: Il valore e il significato del fascismo son tutti in questa sua storicissima funzione di restaurazione dell’antico ordine classico dei nostri valori nazionali. Considerato entro il quadro del secolare contrasto fra la civiltà orientale e meridionale, cattolica e latina, e civiltà nordica e occidentale, protestante e anglosassone (cioè, direbbe Leon Daudet, fra la concezione religiosa della vita e quella laica, ma noi vogliamo almeno per ora, non uscire dai termini che ci siamo posti), il fenomeno fascista viene ad essere propriamente giustificato non dall’occasione, che potrebbe anche rivelarsi, in seguito, inadeguata, ma dalla tradizione. Le radici del fenomeno appaiono, così, profonde e storicissime. Le cose, gli avvenimenti e le persone acquistano in tal modo un significato che sorpassa i limiti dei fatti immediati e muta gli aspetti occasionati in aspetti storici47.
Suckert interpretava e giustificava ideologicamente il fascismo come un fenomeno di «reazione culturale», cui attribuiva però un contenuto sociale, attraverso l’identificazione del fascismo col sindacalismo nazionale. Del sindacalismo rivoluzionario, e dell’elaborazione che questo aveva avuto in Italia attraverso il pensiero di Arturo Labriola, Alceste De Ambris e Filippo Corri-doni, Suckert aveva una visione romantica e populista, che si accordava con la sua rivolta contro la modernità. Il sindacalismo infatti era per lui un’ideologia e una prassi politica congeniali agli italiani, perché sorto da una critica delle ideologie democratiche e liberali per affermare, contro l’utilitarismo, lo scetticismo e il materialismo della borghesia nordica, i 458
valori della fede, del coraggio, dell’audacia, dello spirito di sacrificio, del sentimento di solidarietà popolare. Il sindacalismo aveva una concezione pessimistica e antiedonistica della vita, tutta pervasa di eroismo, e per questo era la sola ideologia veramente rivoluzionaria e antiborghese, mentre il socialismo italiano, per Suckert, altro non era che un prodotto della mentalità borghese: non era un vero movimento di popolo e di nuove classi dirigenti, ma era organizzazione di piccoli borghesi, rimasti legati ad una concezione classista della società italiana. Solo attraverso il sindacalismo e il fascismo stavano emergendo nuovi ceti popolari, si costituiva una nuova classe sociale e politica, che avrebbe ripreso il processo rivoluzionario del Risorgimento, interrotto e «tradito» dal compromesso monarchico. Promuovere la crociata contro la modernità, riprendere e portare a compimento la rivoluzione nazionale del Risorgimento, creare uno Stato veramente unitario e popolare, era la missione che Suckert assegnava al fascismo: Il suo profondo e implacabile spirito antisocialista, antiliberale, antidemocratico, antiumanitario, è uno spirito decisamente antimoderno, quasi diremmo antieuropeo, se non temessimo per analogia di antitesi, di dare al termine europeo il significato attribuitogli dagli slavofili russi. La forza del fascismo è nel popolo, negli istinti del popolo, è nella tradizione indeviabile della nostra cultura, della nostra religiosità, è nella stessa natura della nostra razza, non già, si badi, nel gioco degli equilibri e delle compromissioni politiche. La sua missione nel mondo europeo non è di accettazione e di trasformazione dei fattori politici, sociali ed economici della civiltà moderna, non è di assimilazione delle forme culturali e meccaniche del moderno viver civile, ma è pur sempre la storicissima nostra missione cattolica di avversità continua e implacabile allo spirito moderno, nato dalla Riforma. La sua funzione immediata (diciamo funzione, non compito) è di restituire al popolo la coscienza della propria continuità storica e il senso ormai quasi perduto della propria legittimità guelfa, giustificata nuovamente, dopo la tragica separazione avvenuta nel Cinquecento fra
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noi e l’Europa moderna, anticattolica, da quattro secoli di Controriforma. Si badi alla fatalità, che da noi ha valore di tradizione millenaria, piuttosto che alle vicende politiche degli ultimi quattrocento anni, le quali han da noi valore esclusivamente di occasioni. Chi volesse considerare il fascismo non per quello che è, ma per quello che appare tuttavia dall’inevitabile contrasto degli interessi, dei pretesti, dei compromessi e dall’adattamento della fatalità alle occasioni, mostrerebbe di non sapersi rendere conto del mutamento avvenuto, profondissimo, nel corso della nostra vita nazionale e di ciò che il fascismo rappresenta per le nostre possibilità ultime di vendetta48.
L’ideologia del fascismo antimoderno, presentata con suggestivo stile immaginoso e con un virtuosismo dialettico prevalentemente retorico da uno scrittore che Gobetti giudicava «la più forte penna del fascismo», non tanto per la serietà e la concretezza degli argomenti, quanto per la vivacità letteraria, si basava in larga parte su una materia storica e politica adoperata disinvoltamente da Suckert per «fabbricare favole storiche»49. Non a torto, i fascisti gentiliani, avversi a questo tipo di reazionarismo culturale, lo consideravano null’altro che espressione di «estetismo» e di «decadentismo» politici, privo del tutto di concretezza storica e di seria e consapevole riflessione sui problemi della crisi italiana, e sulla natura e la funzione del fascismo stesso50. Tuttavia, la constatazione del carattere meramente retorico e letterario della concezione politica di Suckert non deve far perdere di vista i collega-menti che essa aveva con talune tendenze politiche reali del fascismo stesso, collegamenti stabiliti attraverso l’azione politica che lo stesso Suckert svolse nel periodo 1924-1925, quando si fece momentaneamente interprete e portavoce del fascismo intransigente e integralista delle province, affiancando Farinacci nella difesa del partito, in nome di una rivoluzione «popolare» contro il fascismo «romano», in cui egli vedeva 460
una riedizione del trasformismo liberale che aveva governato l’Italia da Cavour a Giolitti. Nella polemica dell’intransigentismo, Suckert introdusse i motivi della polemica antirisorgimentale, nel senso della condanna della soluzione liberale-monarchica al problema italiano dell’indipendenza e dell’unità, raggiunta non con una rivoluzione di popolo ma attraverso la «conquista piemontese» dell’Italia51. Secondo Suckert, infatti, l’unificazione non era stata una rivoluzione nazionale, ma il risultato di una gara di conquista fra i diversi regni della penisola. La monarchia sabauda aveva vinto la gara ed aveva imposto al paese uno Stato unitario costruito imitando modelli stranieri liberali, tradendo lo spirito rivoluzionario che era stato all’origine dei primi moti risorgimentali. «Il Risorgimento si presenta appunto come una guerra di liberazione e di conquista, non già come una rivoluzione»52. L’opera della monarchia sabauda era stata rivolta principalmente a contenere la partecipazione del popolo, per imporre alle «province» il regime conservatore dei ceti cittadini. Lo Stato unitario non era nato come Stato popolare, ma come ordine politico costituito in difesa di particolari interessi. Il genio del compromesso e della mediazione, che aveva guidato la politica monarchica per far fallire l’azione rivoluzionaria, era stato Cavour; in tempi più recenti, suo degno successore nell’arte del trasformismo in funzione conservatrice, era stato Giolitti: Se Cavour è stato il liquidatore del pericolo rivoluzionario insito nelle guerre di liberazione e di conquista del Risorgimento, Giolitti appare a ragion veduta il liquidatore di tutti i tentativi rivoluzionari verificatisi in Italia fino al 1914. Cioè fino alla guerra, che risuscitando nel popolo lo spirito di conquista assopito dal giolittismo, ha ricondotto il problema della creazione dello Stato unitario sul terreno rivoluzionario.
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Con ciò, Suckert intendeva ricollegare il fascismo non solo alla corrente «rivoluzionaria» e popolare del Risorgimento, ma lo presentava anche come l’erede del socialismo, perché da questo aveva ereditato il compito della conquista dello Stato da parte delle masse popolari. Interpretando, alla luce di questa visione del fascismo, le sue vicende concrete nel momento di più grave crisi del partito fascista, dopo l’assassinio di Matteotti, Suckert, attraverso la sua rivista «La conquista dello Stato», scese in campo contro la politica normalizzatrice di Mussolini, e contro il collaborazionismo della vecchia classe dirigente, denunciando con molta virulenza polemica il tentativo di disarmo dello squadrismo e di indebolimento del partito come un nuovo esperimento di trasformismo cavou-rianogiolittiano contro la rivoluzione popolare delle «province». La politica di normalizzazione e gli attacchi dei revisionisti contro l’estremismo fascista costituivano, nel quadro di questa operazione trasformista, il maggior pericolo per il futuro della «rivoluzione fascista». La crisi che aveva investito il fascismo dipendeva per Suckert principalmente dal fatto che vi erano in realtà due tipi di fascismo fra loro incompatibili: il fascismo storico, espressione dello spirito «rivoluzionario» delle province, e il fascismo politico, che rappresentava l’«opportunismo» dei governanti fascisti che si erano insediati a Roma, ormai invischiati nelle pratiche corrotte del vecchio regime53. Il fascismo «politico», alleandosi con le vecchie oligarchie dirigenti, mirava ad impedire la conquista integrale dello Stato da parte del fascismo «rivoluzionario», che per Suckert era movimento popolare di classi in ascesa, formato 462
dai ceti medi rurali delle province: il fascismo non è stato soltanto una reazione delle classi medie (come sostiene l’antifascista Salvatorelli) contro i ceti operai turpemente antinazionali dei grandi centri urbani, ma anche una sollevazione dei ceti medi rurali contro la tirannia socialista operante soprattutto attraverso la «fame di terra» del bracciantato. Dirò anzi, pur se la mia affermazione debba meravigliare i più, che il fascismo ha la sua prima origine nelle regioni agricole della valle padana; che ha, cioè, origine «paysanne», e non «politica»54.
L’antimodernità di Suckert si incontrava, nella difesa del fascismo populista delle province, con la rivolta antimoderna dei «selvaggi», come furono soprannominati gli estremisti fascisti toscani raccolti attorno alla rivista «Il selvaggio» di Mino Maccari, e con la loro polemica contro il fascismo «romano», moderato e parlamentare. In comune avevano l’idealizzazione dello squadrismo, forza primigenia, genuina e incontaminata del fascismo ed espressione della rivoluzione piccolo borghese; il mito della «provincia» come mondo di italianità autentica non inquinato dalla modernità; l’ostilità regionale contro il potere accentratore di Roma capitale; il ripudio della «politica» come arte del compromesso di vertice, del trasformismo, del machiavellismo conservatore. La rivista di Suckert e quella di Maccari furono le tribune più rumorose della polemica antinormalizzatrice del fascismo intransigente delle province che reclamava dalla rivoluzione fascista la definitiva liquidazione dello Stato liberale. Vari erano i motivi ideologico-politici che animavano questo particolare gruppo di fascisti «provinciali», con maggiori pretese culturali dell’estremismo di Farinacci, e non senza coltivare l’ambizione di poter influire sull’orientamento generale del fascismo, in 463
antagonismo con le correnti culturali moderniste, come il revisionismo, che si richiamava invece all’idealismo gentiliano. Innanzi tutto, v’è da precisare che la provincia rivoluzionaria, alla quale si richiamava il fascismo «selvaggio», non era soltanto il luogo della rivolta dei ceti medi contro un sistema economico dove i rapporti fra piccola borghesia (piccoli proprietari, artigiani, commercianti, industriali di modesta e paesana attività) e il proletariato agricolo erano dominati da reciproca ostilità e dalla comune subordinazione alla grande borghesia agraria; ma era l’idealizzazione di una tradizione culturale che, rispetto alla cultura urbana moderna, rivendicava il pregio di una maggiore sanità e originalità e, nel quadro di un’artificiale cultura nazionale, riteneva di rappresentare l’aspetto più «popolare», più «italiano» e perciò antimodemista, della tradizione italiana. In effetti, il «provincialismo selvaggio», più che esprimere una vera e propria idea politica, era un movimento culturale che si richiamava ai valori immaginari della toscanità, valori che avevano nel Soffici fascista, grande nume tutelare dei «selvaggi», il più tipico esponente55. Ai miti della provincia, inoltre, il fascismo estremista della piccola borghesia si richiamava per nobilitare la sua reazione contro il proletariato contadino ma anche per legittimare l’aspirazione a rappresentare il vero fascismo rivoluzionario56. Vi era infine la necessità di difendere i feudi di potere dello squadrismo, contro i propositi normalizzatori e centralizzatori del governo mussoliniano, facendo l’apologià delle origini regionali del fascismo e della fecondità delle molte anime che componevano ed arricchivano l’italianità: 464
L’italianità - si legge nel «Selvaggio»57 - è un comune denominato-re, una conditio sine qua non, un indispensabile presupposto, ma non deve né strozzare, né annacquare quella meravigliosa e vivace varietà di costumi e di temperamenti, di qualità e di attitudini nella quale i toscani son definiti dai liguri, i siciliani dai veneti, i pugliesi dai lombardi […]. Vi è un fascismo italiano, ma in seno ad esso vi è un fascismo toscano, emiliano, ecc.
Nei miti del fascismo «selvaggio» si riscontrano altri temi comuni all’ideologia dell ’antimodernità di Suckert, come, per esempio, la critica del Risorgimento come rivoluzione «tradita», perché l’iniziativa «popolare», rappresentata da Garibaldi, era stata fagogitata da parte del «grande straniero» Cavour, «il dominatore non in nome di una razza ma dei princìpi liberali […]. La vera rivoluzione con lui finisce. Egli la muta in gioco diplomatico, in manovre di polizia d’alto stile […]. Comincia l’Antirisorgimento o lo pseudo Risorgimento, il parlamentarismo, il liberalismo, la rinuncia all’ideale»58. Tuttavia, a parte la somiglianza di alcuni temi, ai «selvaggi» mancava l’estro dialettico di Suckert, la facondia polemica e immaginosa della sua ideologia sindacalpopulista, che mescolava i miti antimodernisti di una novella Controriforma cattolica con i miti modernisti del sindacalismo nazionale. Il contenuto sociale del fascismo, secondo Suckert, era dato infatti dal sindacalismo, e solo attraverso i sindacati nazionali il fascismo avrebbe realizzato uno Stato veramente popolare e nazionale. Ma il sindacalismo di cui parlava Suckert aveva poco a che vedere con il movimento sindacale esistente: era un sindacalismo del tutto letterario, concepito come espressione più autentica dello spirito italiano, e perciò, anche se non esitava a fare l’elogio della violenza, era diverso dal sindacalismo di matrice soreliana, che aveva pur sempre una impronta classista: 465
La funzione moderna dei produttori - scriveva Suckert59 - non può essere quella di creare un nuovo ordine di valori sociali, ma un nuovo ordine di valori civili. Il sindacalismo fascista, a differenza di quello soreliano, fa distinzione tra società e civiltà: e non si attribuisce, perciò, il compito di preparare e di stabilire la nuova civiltà proletaria sulle rovine di quella borghese (il termine «civiltà proletaria» significa qui «società proletaria» secondo la terminologia soreliana), ma di preparare e di compiere il ritorno della civiltà nazionale, propriamente italiana, storicissima, sulle rovine di quella moderna, antinazionale, classista, d’origine anglosassone, che dalla Riforma in poi ha soffocato ogni nostra forza autoctona, naturale, trionfando da ultimo col liberalismo democratico e il socialismo.
Il mito del sindacalismo italiano, per Suckert, non era la conquista del potere da parte del proletariato ma era il mito della guerra rivoluzionaria, con cui l’Italia aveva realizzato la sua unità, combattendo contro i nemici esterni e i nemici interni. Il processo storico iniziato dopo la guerra, continuava Suckert, era caratterizzato dalla ripresa dello spirito tradizionale italiano e dalla ricerca di una rinnovata coscienza nazionale, superando l’antagonismo d’origine nordica fra borghesia e proletariato, ridando al popolo, mitica entità, la sua coscienza nazionale. Il fascismo, secondo Suckert, aveva il compito di «compiere quella profonda trasformazione del moderno ordine sociale (fondato sulla lotta economica e politica fra borghesia e proletariato), dalla quale uscirà, potentemente organata, un’unica classe nazionale. Il fascismo rappresenta già questa nuova classe»60. Per queste ragioni, Suckert si poneva fra gli intransigenti e i difensori dello squadrismo, in cui credeva di ravvisare l’embrione della nuova classe nazionale. La normalizzazione antisquadrista e la collaborazione con la vecchia classe dirigente liberale rappresentavano un tradimento della funzione «rivoluzionaria» che Suckert 466
assegnava al fascismo. Perciò, la sua polemica contro il fascismo «romano» toccò punte di estrema violenza, persino contro lo stesso Mussolini, in nome del fascismo integrale delle province, che aveva la funzione «storica» di abbattere lo Stato liberale. Durante la crisi del delitto Matteotti, Suckert fu uno dei maggiori avversari della normalizzazione e polemizzò contro le manovre dei fiancheggiatori e dei fascisti conservatori che miravano, «in definitiva, a parte la solita retorica ispirata da Dio e da Gentile, al rafforzamento dello Stato liberale e al consolidamento di alcune posizioni personali nella macchina parlamentare»61: Soltanto così - scriveva Suckert - sarà dato al Fascismo di realizzare con l’ausilio delle migliori energie italiane, quella conquista dello Stato da parte delle nuove generazioni, dei nuovi ceti intellettuali, dei nuovi ceti produttivi, che è la base necessaria per un processo di riforme, di riordinamenti, di esperienze moderne indispensabili; conquista che è il problema fondamentale degli ultimi settanta anni di storia italiana, in quanto base necessaria per la creazione dello Stato nazionale unitario62.
L’avvento di questa nuova classe nazionale avrebbe coinciso con la definitiva negazione dello spirito moderno, col ripudio della mentalità critica e liberale nata dalla rivolta luterana e, infine, con la sconfitta politica delle forze che da quella mentalità erano derivate ed erano ancora ispirate. L’ideale sociale di Suckert era uno Stato popolare e nazionale come ritorno ad una più autentica tradizione italiana, quasi una nuova Controriforma. Ma il suo richiamo al cattolicismo tradizionalista, e lo stesso rifiuto della modernità, non andavano oltre una sorta di vagheggiamento nostalgico ed estetico di un immaginario ordine classico del passato, di una mitica civiltà latina dalla solida e armoniosa architettura di valori, di istituti, e tradizioni, che Suckert 467
contrapponeva all’individualismo anarchico, nervoso e utilitarista della civiltà nordica. La reazione alla modernità in nome dei valori tradizionali presupponeva, però, almeno secondo una logica conseguenza della negazione del libero esame, anche un rifiuto totale del concetto di libertà sia nel senso politico che in quello sociale. Ma ciò minava alla base la concezione sindacal-populista di Suckert. Cos’altro infatti avrebbe potuto essere lo Stato nazionale e popolare immaginato da Suckert, se non l’attuazione di una libera partecipazione delle masse - il popolo - alla vita politica attraverso l’organizzazione sindacale? Nella concreta azione politica, lo stesso Suckert affermava esplicitamente che il mito cattolico, nell’antiriforma, escludeva la parte dogmatica e metafisica del cattolicismo - la sola, tuttavia, che potesse legittimare la reazione alla libertà di coscienza mentre ne accettava soltanto la parte storica che coincideva, in sostanza, con la tradizione italiana, ma con valore universale. Ad una concezione reazionaria della storia, al ripudio dell’ideologia progressista Suckert faceva corrispondere, nella politica concreta, un orientamento di «sinistra», che alla base aveva pur sempre il principio della sovranità popolare, principio da cui si risaliva inevitabilmente alla libertà individuale. Vi era, perciò, una contraddizione evidente fra l’ideologia reazionaria dell’antiriforma e la pratica politica del sindacalismo, fondato appunto sulla partecipazione popolare alla vita e alla guida dello Stato, mentre la conseguenza politica dei princìpi dell ’antiriforma non poteva essere altro che un rifiuto della concezione dello Stato moderno come espressione della volontà popolare e un ritorno al concetto dello Stato come autorità che non deriva la sua esistenza e la 468
sua ragion d’essere dalla storia ma da un ordine eterno ed assoluto. Come osservava giustamente Volt, Suckert respingeva il mito del progresso senza combattere però i princìpi «metafisici» da cui discendeva63. A questo combattimento invece si sentiva chiamato un altro gruppo dell’estrema destra fascista antimodernista, i sostenitori del principio monarchico assoluto, per i quali la reazione culturale alla modernità, come restaurazione dell’ordine classico, doveva essere integrale e produrre risultati conseguenti nella vita politica e sociale, riportando veramente indietro l’orologio del tempo, all’epoca precedente la Rivoluzione francese e la Riforma. Il loro ideale dell’ordine non era ispirato dalla considerazione di particolari situazioni storiche e neppure dall’estetismo, ma dalla fede in un principio metafisico, che storicamente si era concretizzato nel potere assoluto del monarca. Il ruolo ideologico e politico che il gruppo monarchico assolutista (rappresentato soprattutto dal giornale «Il Sabaudo» di Giuseppe Brunati e G.A. Fanelli64) ebbe nel fascismo fu molto modesto, anche se fu particolarmente vivace nell’opporsi all’influenza dell’idealismo gentiliano sulla cultura fascista. I monarchici assolutisti erano, in sostanza, alquanto isolati all’interno del fascismo, ed erano piuttosto ai margini che al centro del dibattito ideologico. Del resto, la loro adesione al fascismo poteva esser considerata, per così dire, strumentale perché essi non riconoscevano al fascismo altra funzione che quella di «riconsegnare alla monarchia, integralmente, la sua sovranità»65, contrastando quindi qualsiasi interpretazione rivoluzionaria del fascismo come movimento di mobilitazione sociale di nuovi ceti borghesi aspiranti alla 469
formazione di una nuova classe dirigente e alla creazione di uno Stato nuovo. Anche i monarchici assolutisti erano ovviamente contrari allo sgretolamento dello Stato, ma il loro ideale di ritorno all’ordine, di restaurazione della sovranità statale non si mescolava a motivi più o meno democratici, che eran comunque all’origine della ricerca fascista di una nuova legittimità per fondare il potere di una nuova classe dirigente. Il loro era un ideale francamente reazionario, nel senso storico del termine: essi volevano distruggere l’ordine esistente per ritornare alla monarchia assoluta e alla società artigianale precapitalistica. Il loro modello era la monarchia assoluta di Luigi XIV66, cioè una monarchia dove la volontà del re era sovrana e fonte della legge e della giustizia per una società politicamente accentrata ma economicamente organizzata secondo attività associative a carattere solidaristico, di tipo artigianale67. Anch’essi erano però antimodernisti, considerando una continua degenerazione lo sviluppo storico seguito alla Riforma luterana, cioè la nascita del capitalismo, del liberalismo, del socialismo, la distruzione dei valori tradizionali: la modernità era «l’ora di Barabba»68, culminata «col trionfo della democrazia materialista, avvenirista, razionalista, protestante e corruttrice di folle, sulla cui congenita incoscienza e incapacità di governarsi essa specula fondando il suo dominio plutocratico, nemico di ogni onestà e d’ogni giustizia». La democrazia, cioè la concezione di un potere derivante dai sudditi, era la peggiore profanazione della sovranità monarchica, la negazione del «sommo bene» che si esprimeva attraverso la monarchia integrale e corporativa. Il giornale, la banca, l’«opinione», la «plutocrazia internazionale» erano i demoni 470
partoriti dalla Riforma, da cui aveva avuto inizio la decadenza della civiltà con la negazione dell’autorità, trascendente e indipendente dalla volontà dei sudditi. La condanna reazionaria della storia moderna colpiva anche il Risorgimento, che non era visto come rivoluzione nazionale ma come la corruzione della tradizione italiana per mezzo delle idee liberali, che avevano distrutto il potere assoluto del monarca. Nei confronti della monarchia sabauda, bisogna notare, i monarchici assolutisti non mostravano un particolare interesse, anzi rimproveravano ad essa di aver accettato la guida dell’unificazione nazionale venendo meno al suo diritto divino assoluto e accettando i princìpi della modernità. Per essi, il principio della reazione fascista non era condizionato da una monarchia storicamente determinata, e neppure da quella sabauda, ma dall’idea monarchica come incarnazione in una volontà unica del privilegio della sovranità derivante da Dio69. Il fascismo pertanto rappresentava per i monarchici assolutisti l’occasione per attuare questa reazione politica, per trasformare la società capitalista moderna non già sulla base del sindacalismo o del corporativismo, così come era inteso dai fascisti, ma col ritorno al modello dell’economia artigianale medioevale. Essi infatti diffidavano del sindacalismo nazionale propugnato da fascisti provenienti «da scuole rivoluzionarie», che «troppo han pasciuto la mente alle bestialità di Marx, Engels, Proudhon, Sorel, Mazzini e simili»70. Ma, proprio per la coerenza del loro integralismo reazionario, i monarchici assolutisti non trovarono nulla, nella politica fascista dopo la «marcia su Roma» e nello stesso fascismo, così come si veniva sviluppando in quel periodo, che fosse realizzazione del loro 471
ideale di reazione, e per questo si schierarono contro quasi tutto quello che, in campo politico sociale e culturale, veniva fatto dal governo o dal partito fascista. In sostanza, essi ritenevano che il fascismo, non avendo riconsegnato al monarca il potere assoluto, aveva fallito la sua «storica funzione»71. Ma come si poteva giustificare questa affermazione di fede nella monarchia assoluta con la loro permanenza nel fascismo, che continuava a proclamarsi movimento rivoluzionario? «Eresia, dunque, può apparire il nostro pensiero», riconosceva Fanelli, mentre il suo sodale Brunati ammetteva che l’adesione al fascismo poteva apparire come un’«abiura» dell’idea monarchica, anche se l’uno e l’altro poi seguivano con allarmato sospetto i modi e le idee con le quali il fascismo cercava di orientare la sua azione di governo72. In effetti, l’isolamento dei monarchici assolutisti nel fascismo appariva ancor più evidente dal loro rifiuto di collegarsi sia con il revisionismo di Rocca che con l’in-transigentismo di Farinacci, dal momento che l’uno e l’altro, a giudizio di Fanelli, anche se erano antagonisti, discendevano, senza rinnegarla, da una comune matrice «democratica» e con le loro teorie, in definitiva, abbozzavano «un disegno di Stato democratico» che cercava di riproporre comunque il deprecato problema della rappresentanza politica. L’elenco delle accuse al fa-scismo al potere e al partito fascista era piuttosto lungo, e non lasciava margini ad obiezioni: Avversi ad ogni forma di libertà politica che riteniamo incompatibile in uno Stato forte - affermava Fanelli73 -, noi giungiamo a riconoscere allo Stato la facoltà di immolare alla sua ragione financo l’esercizio delle libertà civili […]. Ora, esaminando il fascismo al di sopra di questi fenomeni individualistici, come attuazione rivoluzionaria e come partito politico, noi vi cogliamo queste due verità:
472
a)
mancata soluzione antiparlamentare della Marcia su Roma;
b
) organizzazione democratica del movimento.
Le quali qualità - senza scendere a esaminare le cause di questo duplice errore che noi avevamo tempestivamente intuito e segnalato -ne attestano del fallimento del fascismo, come restaurazione dell’autorità morale e politica e conservazione delle idee fondamentali. Questo fallimento fu conseguenza della sua deformazione […]. La marcia su Roma […]. lungi dall’integrare quello stupendo movimento restauratore, lo corruppe; poiché nei suoi effetti immediati e mediati, essa non fu se non la marcia di una nuova formazione democratica, garibaldina e romantica uscita dal clima storico di una guerra vittoriosa, contro una vecchia formazione democratica, avara e quietista, uscita da Porta Pia e riaffermatasi nella sconfitta di Adua. […] la «marcia» del ’22 ha arrestato, ritardato chi sa di quanto, l’unità spirituale che il nostro paese avrebbe potuto conseguire - mercè il Fascismo dal vigore di un reggimento monarchico integrale. Dopo l’agosto ’22 era il colpo di Stato che si doveva preparare in alto. E la marcia su Roma doveva essere la marcia di un’aristocrazia che si recava a restituire al suo monarca la suprema potestà usurpatagli dal parlamento democratico […]. Revisione? Inutile! Il partito del fascismo non può essere diverso, laddove esso quale si conviene a un aggregato di uomini riuniti secondo un interesse : organismo politico che le esigenze della lotta parlamentare spinge fatalmente verso una pratica democratica e demagogica.
Dall’alto di un corrucciato e nostalgico spirito reazionario, il gruppo dei monarchici assolutisti guardava con disdegno le vicende «democratiche» del fascismo, i suoi compromessi con la vecchia classe dirigente, la sua demagogia sindacalista e, soprattutto, considerava con una malcelata ostilità le aspirazioni alla educazione di una classe dirigente fascista e di uno Stato concepito non come negazione bensì come superamento del vecchio Stato liberale, alla ricerca quindi di nuove forme di rappresentanza, di legittimazione e di sovranità. Le varie tesi dell‘antiriforma più o meno reazionaria suscitavano molti 473
dubbi negli ambienti del revisionismo e degli intellettuali fascisti più sensibili all’attivismo e al desiderio di novità che caratterizzava parte del fascismo, lasciando nell’arsenale dei miti polemici e degli strumenti di propaganda tradizionalista i richiami del regime patriarcale monarchico e la consacrazione assoluta del quadrinomio «Dio-re-patriafamiglia». Lo stesso concetto di antiriforma, come abbiamo visto, si prestava a interpretazioni politiche contrastanti, e serviva egualmente bene tanto alla sinistra quanto alla destra. Pretendere che il fascismo, fenomeno del XX secolo, dovesse risolvere un problema «che poteva avere un senso e un valore agli inizi del XVI»74 appariva francamente a molti fascisti una proposta paradossale e brillante, ma del tutto priva di valore politico, perché del tutto antistorica e in netta antitesi con l’anima moderna del fascismo come movimento politico di avanguardia, con il suo spirito dinamico, rivolto al futuro. Il fascismo, affermava Pellizzi in polemica con gli antimodernisti reazionari o populisti, era un fenomeno di giovinezza, era passione di novità, e non poteva impegnarsi su un anacronistico conflitto fra Riforma e Controriforma, conflitto ormai «cristallizzato e concluso», a meno che non si credesse seriamente che l’Italia vera e autentica, quella immaginata dagli antimodernisti, fosse rimasta in letargo per quattro secoli75. Si poteva anche accogliere la critica ideologica ai movimenti politici individualisti che erano discesi dalla Riforma protestante, osservava da parte sua Bottai polemizzando con Suckert, ma non bisognava per questo arrivare a negare tutta la civiltà moderna, e a condannare «il liberalismo come affermazione del processo unitario della storia, a cui partiti e individui contribuiscono, o la democrazia, intesa come 474
possibilità, per tutti i sudditi dello Stato, di partecipare alla vita del medesimo»76. Il problema ideologico del fascismo, obiettava Bottai, andava certamente risolto ricollegando il fascismo alla tradizione del pensiero italiano, ma senza pretendere per questo di risalire ai pitagorici o ai Pelasgi: un tradizionalismo siffatto, che rifiutava interamente la cultura moderna, era soltanto provincialismo. Il fascismo, secondo Bottai, doveva invece riassumere e rielaborare nella sua concezione i problemi della società moderna italiana, per dare ad essi soluzioni nuove; doveva riprendere e completare l’opera del liberalismo risorgimentale, ampliando a tutte le classi la partecipazione alla vita dello Stato, doveva creare uno Stato in cui libertà e autorità fossero riconciliate, sotto il segno di una concezione moderna e non reazionaria della politica. 4. La rivoluzione intellettuale di Giuseppe Bottai Bottai era l’esponente più prestigioso della corrente revisionista, che faceva capo alla sua rivista «Critica fascista», fondata nel giugno 1923 per favorire, attraverso il dibattito aperto, l’elaborazione dell’ideologia fascista e l’educazione della nuova classe dirigente. Le premesse del revisionismo di Bottai, più complesso di quello di Rocca, partivano dalla considerazione che la «marcia su Roma», anche se in sé non era stata una rivoluzione, segnava tuttavia una svolta nella vita del fascismo. Si era concluso un ciclo e ne iniziava uno nuovo, con caratteri, problemi, orientamenti differenti rispetto al precedente. Negli anni dal ‘19 al ’22 il fascismo era stato soprattutto lotta, azione. Poche idee, improvvisate sull’urgenza degli avvenimenti, avevano accompagnato e orientato una politica 475
sostanzialmente basata sull’esercizio della violenza. Il fascismo, in quegli anni, era «tutto milizia»; il suo tipico rappresentante era lo squadrista in camicia nera, non «l’uomo politico»; il materiale umano della sua massa era un aggregato non selezionato, affluito nel fascismo per un «oscuro istinto», e animato piuttosto dal coraggio fisico che dalla convinzione intellettuale. Il proselitismo, negli anni della lotta e delle violenze, non nasceva dall’adesione ad un sistema di idee, ma era «adesione ad ima forma di vita e di azione»: negli anni della lotta armata il proselitismo fascista si verificò secondo un principio selettivo di capacità morale e fisica al combattimento. Furono fascisti gli audaci, i coraggiosi, magari gli imprudenti e i temerari; gli intelligenti timidi non furono fascisti, mentre lo furono taluni dotati di molto fegato, ma poveri di cervello. La battaglia sceglieva i suoi uomini, scartando gli uomini tentennanti e dubitosi dello studio, del raziocinio e della meditazione. Oggi siamo in un ciclo nuovo. Nonostante alcuni residui di ribellismo agonizzante il fascismo si avvia a divenire partito d’ordine, nel senso organico della parola. Ciò muta il principio selettivo del suo proselitismo, che diviene di capacità morale e intellettuale a partecipare, anche in organismi lontani dal centro del governo, alla vita dello Stato. La necessità suprema dello Stato agisce nel senso di creare i suoi uomini77. In questo brano, tratto da un discorso pronunciato da Bottai nel marzo del ’23, sono riassunti i motivi essenziali del revisionismo fascista. Nello stesso discorso, Bottai precisò il significato della svolta del fascismo dopo l’andata al potere, e i problemi che essa poneva al partito fascista: si avvicina rapidamente il tempo nel quale, il disagio che è oggi di persone, sarà nelle cose. L’azione di governo assegna al fascismo il compito di costruire un partito, nel quale sempre più abbondino gli uomini atti a seguire, fornire e condizionare tale azione. Verrà, quindi, il giorno in cui la funzione degli uomini d’arme sarà solo ausiliare subordinata alla funzione degli uomini di pensiero. E la funzione di questi, che fu un tempo ausiliare e subordinata, sarà in sé essenziale, e condizionante l’efficienza del fascismo78.
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In questi termini iniziava dunque l’opera critica di Bottai nei confronti del fascismo e della sua crisi interna, crisi che, secondo Bottai, era dovuta principalmente a contrasti fra vecchie e giovani reclute del fascismo, fra militanti convinti, per abitudine, solo dell’efficacia del manganello e i militanti che, dopo la conquista del governo, ritenevano necessario occuparsi di problemi ideologici. La crisi poteva essere superata soltanto attraverso un lavoro di revisione ideologica e di ripensamento sui motivi, teorici e sentimentali, che avevano informato il fascismo. E dalla necessità della revisione ideologica derivava anche la necessità di stabilire chiaramente quali sarebbero stati i compiti del partito e gli orientamenti nuovi del fascismo al governo. I temi del revisionismo, in questo senso, erano dibattuti anche da altre riviste fasciste, come «Rivoluzione fascista», «La Montagna», «Polemica», ma essi acquistavano un senso tutto particolare nel pensiero di Bottai, per la sua formazione culturale, per il suo temperamento, per i motivi ideali della sua attività politica. Bottai, in effetti, non era un vero uomo politico ma era, piuttosto, un intellettuale convertito alla politica, dove portò le distinzioni, i dubbi, i problemi, le ansie, ed anche la tendenza all’astrattezza, accompagnata da un pregiudizio di superiorità della «cultura» nei confronti della «politica», che sono tipici di un intellettuale che si era formato nei turbolenti anni della crisi delle ideologie, partecipando ai movimenti d’avanguardia passando poi attraverso l’esperienza della grande guerra. Nel fascismo, Bottai fu molto più un suscitatore di idee e un organizzatore di cultura, che una personalità politica, come per esempio un Farinacci o un 477
Grandi. Subito dopo la marcia su Roma, egli pose seriamente il problema di dare al fascismo un’ideologia organica ed unitaria, accantonando la demagogia e la violenza, per «sistemare» in una concezione organica, e non più contingente ed estemporanea, le sparse e disordinate intuizioni da cui era sorto il fascismo. Come osservò molto bene anni dopo il suo maggior antagonista, Farinacci, Bottai era entrato nella lotta politica «con idee e suggestioni e orientamenti personalissimi, con una certa ricchezza e delicatezza di sentimenti, con certe sue esperienze di cultura e di approfondimenti dottrinali»79. Così Bottai si attribuì, durante gli anni della polemica fra revisionisti ed intransigenti, il ruolo di «coscienza critica» del fascismo, con molta cautela e prudenza politica, ma con indubbio vigore intellettuale, pur insidiato sempre, anche negli anni successivi, dalla propensione a circonfondere l’analisi dei problemi politici ed economici d’un certo alone d’utopia. Egli era uno dei giovani fascisti per i quali il fascismo aveva in sé le potenzialità di un grande fenomeno storico, originale e rivoluzionario, pieno dell’energia che gli proveniva dalle aspirazioni e dagli ideali delle nuove aristocrazie dello spirito, educate alla politica dall’esperienza esistenziale e culturale della guerra, sensibili ai travagli della società italiana e decisi a trovare una soluzione non transeunte alla lunga crisi istituzionale e morale che aveva reso fragile, fin dalla sua nascita, lo Stato nazionale. Nel fascismo, Bottai cercò soddisfazione al suo desiderio di azione e alla sua intima vocazione, quasi d’artista più che di politico, ad essere parte attiva nell’opera di creazione dello Stato nuovo. Bottai era stato convertito alla politica dall’esperienza della guerra, che lo aveva sorpreso giovanissimo poeta dai 478
toni crepuscolari, intimamente dubbioso, in cerca del «suo paese»80. Partecipò alla guerra come ardito e, più tardi, Bottai ricordò81: Fu tra gli «arditi», fenomeno guerresco più cittadino che rurale, più operaio che contadino, e perciò più sensibile e aperto alle ripercussioni della lotta politica sullo stato d’animo dei combattenti, che cominciai a staccarmi dalle pagine dei miei libri preferiti, di poesia, d’arte, di critica, di ricerche filosofiche, accatastati nelle cassette d’ordinanza a conforto delle stremanti attese nelle trincee. Numerosi erano, in quelle formazioni di volontari del rischio, gli uomini provenienti da partiti estremi o da estreme posizioni di pensiero: ex anarchici, socialisti, sindacalisti, nazionalisti integrali, passati attraverso il vaglio rigoroso della guerra. Non v’erano per certo, gli uomini del giusto mezzo, della guerra omeopatica, i moderati e i calcolatori.
Dopo la guerra, Bottai trovò una nuova fede nell’ideale di un’Italia profondamente rinnovata dalla guerra, da cui doveva sorgere uno Stato nuovo, che egli allora vagheggiava probabilmente molto simile al «paese» della sua fantasia poetica, un «paese all’antica, senza lega operaia né rossa né nera»82, anche se non aveva affatto chiaro ancora lo scopo della sua azione, e non aveva neppure tracciato le linee dello Stato futuro immaginato. Come molti altri della sua generazione, Bottai tornò dalla guerra senza un orientamento preciso: Si ritorna di
lassù,
con l’anima assorta.
Gli uomini ti si stringono intorno, in rissa. Le città congestionate t’urlano addosso la loro menzogna. A compensare quest’inutile vita diffusa, ecco pochi attimi della tua vita intima. Una poesia sommessa, quasi sottovoce, affiora nella tua passione di soldato, ieri di una guerra tra popoli, oggi di una lotta tra fratelli. Si cammina come nelle tenebre, guidati da un oscuro profondo senso del bene, verso un paese lontano, e tutte le vie del mondo dànno l’ansia di questa mèta che, forse, non c’è […].
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Un paese - dove? […]. A quale incrocio di strade, da quale profilo di monti, scollinando, su quale piaggia di mare, ci apparirà nitido e sereno il paese, giorno per giorno costruito nel nostro spirito senza pace? […]. Qualcuno guarda e sorride: «non c’è un paese…». Non importa. Si cammina83.
Così avrebbe scritto Bottai nella prefazione alla sua raccolta di versi Non cè un paese, pubblicata nel 1921. Del suo malinconico e smarrito stato d’animo, si liberò gettandosi in politica, che cominciò a concepire come la più completa espressione della spiritualità dell’uomo, sintesi di pensiero ed azione, atteggiamento seriamente impegnato nella vita e sprezzante d’ogni tipo di neutralismo morale. «Sopprimiamo le anime neutre, la solitudine è diserzione», affermò su «Roma Futurista»84, lanciando il suo programma di rigenerazione degli italiani. Il neutralismo morale era il male di razza. Il quieto vivere è la spina dorsale del cittadino italiano. Ora, mentre la guerra delle parole si fa più amara d’ogni strazio di battaglia vera, c’è già, tra noi, chi torna alla sua solita oziosità contemplativa […]. Noi vogliamo che la passione politica, la quale ora si rovescia schiumante di ira e di odio, sul nostro paese, si abbarbichi nelle carni e nei nervi di tutti, nessuno escluso: non vogliamo evirati.
La guerra aveva operato nell’animo di Bottai una trasformazione profonda. Il letterato dubbioso e crepuscolare aderì all’idea nazionale e ai miti del dopoguerra con tutto l’entusiasmo e il fanatismo nel neofito. E decisivo per il suo avvenire fu l’incontro con Mussolini, come ricordò qualche anno dopo: Non ho mai trovato sul mio cammino il paese, a cui, poeticamente, tendevo - scrisse in una pagina autobiografica pubblicata su «L’Assalto» di Bologna nel
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192885 -. Quando, tra il ‘18 e il ‘19, appena uscito dalla trincea, che, fante, mitragliere, ardito, avevo bazzicato per quattr’anni, m’incontrai con Mussolini, la mia vita fu decisa con quella d’un’intiera generazione […] nulla è nella mia vita, che appartenga a me solo, tanto essa è commista al tempo che Mussolini à dominato e domina. Nulla, se non forse, una certa tendenza a sistemare i fatti, cui partecipo, nel mio spirito, a ordinare le mie idee, a vedere le cose in prospettiva. È quella tendenza, che i miei avversari e nemici mi rimproverano, non pensando che, ove venissero a capo di togliermela, non riuscirebbero, come è nei loro voti, a darmi tormento, il mio unico tormento consistendo proprio in essa. Ne nacque, tra il ‘19 e oggi, la mia opera giornalistica, accompagnata interiormente da uno sforzo di coordinazione, che mi permetterà, un giorno, di raccoglierne frutti non effimeri. Ne nacque, all’avvento del fascismo al potere, quella Critica Fascista, che mi à data la consolazione di essere combattuto, insieme a pochi amici, per idee ed atteggiamenti spirituali, che oggi vanno sotto il titolo comune di stile fascista.
Bottai prese parte alle battaglie politiche del dopoguerra come animatore del fascismo romano, distinguendosi come una delle personalità fra le più notevoli del movimento. Dopo la «marcia su Roma», fu uno dei primi a rendersi conto dei problemi nuovi che il fascismo si trovava ora di fronte, e delle gravi difficoltà che sarebbero sorte all’interno del partito, perché la conquista del potere avrebbe provocato un mutamento sia nei rapporti fra le diverse componenti del fascismo, sia nei rapporti del fascismo con le altre forze politiche e, in generale, verso lo Stato liberale. Si trattava di vedere se, dopo una rapida e quasi inattesa vittoria, il fascismo era in grado di assumere il ruolo di forza politica che doveva restaurare lo Stato, oppure se era destinato a degenerare e a disgregarsi, inevitabilmente, nel ribellismo cronico per la sopravvivenza della mentalità e dei costumi squadristi. Bottai vedeva gravare sul futuro del fascismo il peso di un lungo periodo di violenze, di illegalismo, di indifferenza verso le regole della vita civile, di odio contro gli avversari, di disprezzo per qualsiasi autorità. 481
Sarebbe stato possibile per il partito, rinunciare alle bardature militari e alla mentalità faziosa per ristabilire, senza condizioni, l’assoluta autorità dello Stato? Bottai pose questo interrogativo all’indomani della «marcia su Roma», convinto che il buon esito della «rivoluzione fascista» dipendeva principalmente dalla capacità o meno dei fascisti di sapere accettare con disciplina e obbedienza la responsabilità che il governo del paese imponeva, tramutandosi perciò rapidamente da guerrieri in politici, da distruttori in costruttori, da ribelli contro lo Stato in fondatori di uno Stato nuovo. Bottai auspicava un trapasso, dal vecchio al nuovo regime, senza traumi violenti, in modo quasi naturale, come inevitabile proseguimento dello sviluppo del movimento fascista, che nato per colmare una lacuna della vita italiana, lentamente, attraverso una fatica tormentosa di tre anni con una serie di atti rivoluzionari, diviene Stato e nello Stato inserisce tutto il suo complesso organismo, senza lasciare fuori della sua cerchia residui che possano, eventualmente, agire come princìpi di turbamento nella vita della nazione86.
L’accenno ai residui turbolenti era chiaramente riferito più che agli avversari del fascismo - agli squadristi, ai fascisti che erano andati a Roma con le armi in pugno pronti alla violenza, e che meno sentivano l’esigenza di una nuova classe dirigente fascista, convinti che, dopo la vittoria, tutto era permesso ai vincitori. Da questa valutazione del problema della funzione del partito nella costruzione dello Stato nuovo, e, di conseguenza, del problema dello squadrismo, ebbe origine il revisionismo di Bottai, che, a differenza del revisionismo di Rocca, non abiurò mai ad una formale professione di ortodossia nei confronti del 482
fascismo, evitando, anche nei momenti di più aspra polemica con gli estremisti, di apparire come un nostalgico del vecchio Stato liberale o, peggio, come un eretico che voleva liquidare il partito. Bottai fu certamente un «fascista critico», ma la sua critica rimase sempre nell’ambito del fascismo, fedele ad una «idea» che, con la sua critica, Bottai contribuì ad elaborare e a definire, muovendosi anche lui, pur con diversità di metodo, di concezione, e diremmo anche di stile, verso la conquista integrale dello Stato per trasformarlo in uno Stato nuovo, ma senza abbattere, fin dalle fonda-menta, con l’impeto di un assalto alla nuova Bastiglia, lo Stato esistente, bensì servendosi delle strutture di questo per procedere alla realizzazione del progetto di un nuovo edificio. La sua avver-sione all’estremismo, allo squadrismo, ai ras provinciali fu, prima di tutto, ostilità e antipatia dell’intellettuale verso il guerriero che crede solo nella forza bruta, e si ostina a rimanere sul piede di guerra anche in tempo di pace, con la pretesa di portare nella vita civile le maniere spicciole, rudi e prepotenti della vita di combattimento. Dopo l’andata al governo, il fascismo doveva cambiare metodi e mentalità: la religione rivelata è venuta al punto di scrivere i suoi codici e di costruire i suoi templi. Occorrono i dottori e i costruttori. L’antica gerarchia è ad un tratto insufficiente: il gesto che un tempo bastava a gettar nella lotta centinaia e centinaia di uomini, è ormai una smorfia grottesca; i capitani di ieri, sono ormai, nella gran maggioranza, fantocci che abusano d’un potere che non anno più; la parola secca del comando non basta più, non persuade […]. Noi chiediamo una disciplina viva, dinamica, che cerchi e susciti i nuovi valori, che costruisca una gerarchia degna dei nuovi e più ponderosi compiti del fascismo. È un lavoro lungo e difficile, comprendiamo, e nessuno chiede che sia fatto in un giorno: si tratta di sostituire tutta una classe di uomini che ànno, in gran parte, indubbie benemerenze per l’opera loro passata, con una nuova classe, con una nuova élite dirigente. Si aprono, finalmente, nella compagine
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stessa del partito le valvole della seconda ondata, che à da essere dei competenti, dei capaci, degli intelligenti, dei produttivi87.
All’origine della crisi del fascismo, vi era, secondo Bottai, un contrasto di fondo fra l’elementare e brutale concezione di un fascismo come strumento per imporre arbitrii personali, egoismi di classe, faide locali, e la concezione che veniva formandosi attraverso una laboriosa riflessione sui problemi ideali del fascismo, per sollevarlo dalla contingenza del periodo di violenza, ed inserirlo in un ampio, organico, coerente orientamento politico e culturale, capace di affrontare i gravi compiti del governo di uno Stato moderno. Il revisionismo di «Critica fascista» sorse inizialmente come critica al partito armato, per svolgere, all’interno di questo, una funzione necessaria di opposizione, di controllo, e di richiamo alle esigenze meno contingenti del fascismo. E fu, perciò, una critica rivolta ai fascisti che, nel partito, avevano trovato uno strumento personale di potere e di prestigio, e non avevano capito che la «marcia su Roma» aveva segnato la fine del periodo bellico del fascismo, e che un «nuovo corso» era iniziato, di restaurazione dell’ordine e di rinnovamento dello Stato, in cui non era piti utile né tollerabile la conservazione del dominio delle armi e la perpetuazione dei potentati dei ras locali, che si ritagliavano porzioni di sovranità dello Stato, considerandosi un po’ tutti alla stregua di «duci» minori. I fascisti dovevano lasciare dietro di sé la «bella lotta» per affrontare i complessi problemi dell’inserimento del fascismo nell’organismo dello Stato88. L’uomo d’arme doveva cedere il passo all’uomo di governo. Bottai, come si è detto, condusse la sua campagna critica 484
con decisione ma anche con prudenza, evitando i dissensi troppo scoperti e gli scontri frontali. La sua critica non discuteva il fatto compiuto dell’avvento al potere del fascismo, né metteva in dubbio i diritti «rivoluzionari» dei fascisti ad operare una trasformazione di regime all’interno dello Stato monarchico. Anzi, la critica era necessaria, secondo Bottai, per far valere questi diritti, sostenendoli con solide argomentazioni per confutare le accuse degli avversari politici, e per impedire che il movimento fascista potesse dissolversi con la stessa rapidità con cui era arrivato al successo, sotto la pressione dei nuovi problemi e delle nuove responsabilità di governo, rivelandosi immaturo e incapace di far fronte ad essi. Tale critica, riconosceva Bottai, poteva sembrare inopportuna, poteva apparire come vuoto intellettualismo ai rudi fascisti delle province, usi più alle armi che al pensiero e, perciò, sospettosi e infastiditi per tutto quel che aveva sembianze di cultura, giudicando del tutto superflua, o addirittura nociva, per il consolidamento del potere fascista, una critica ideologica troppo raffinata ed intellettuale: ciò che contava, per questi fascisti, era la forza e la fede, idee semplici e una solida organizzazione, e tanto bastava al fascismo per durare al governo, mentre piene di insidie erano le discussioni sulle origini e le affinità del pensiero fascista. Bottai avversava questo modo di concepire la politica del fascismo, il culto della forza, il disprezzo per la cultura; criticava apertamente quei capi fascisti che risolvevano tutto il problema del futuro nell’organizzazione militaresca del partito e nel predominio armato del partito nel paese: «L’organizzatore di professione - affermava89 -, arido come tutti gli specialisti, non conosce che il consolidamento del 485
numero, della folla, della moltitudine». Contro una concezione così aridamente «tecnica» della politica come forza, la rivista di Bottai affermava che il partito non doveva limitare la sua funzione all’esercizio della violenza «manuale e verbale», ma doveva impegnarsi a «studiare, porre e vagliare ed agitare i termini di questa crisi meravigliosa, dalla quale sta per nascere una nuova classe dirigente». Per questo era necessario al fascismo un periodo di revisione ideologica e di aperto dibattito, sia all’interno del partito, sia con le altre forze politiche ad esso affini. Il partito non doveva irrigidirsi nella sua immaturità né restare come esercito in armi contro tutti, senza concedere tregua, senza permettere al suo interno la circolazione delle idee, senza avvalersi dell’apporto esterno di movimenti e ideologie che potevano aiutare la sua crescita di partito di governo. La questione del partito veniva così posta al centro della polemica revisionista. Gli scrittori di «Critica fascista» discussero prima di tutto sulla natura del partito fascista, sui suoi rapporti con il governo, sul suo ruolo nello Stato, sulla sua funzione nell’ambito del movimento fascista. Aveva il partito il diritto di costituirsi come guardia armata della rivoluzione e di presentarsi come depositario unico della fede fascista? I revisionisti bottaiani non rispondevano in modo nettamente negativo, come faceva Rocca, a questo interrogativo, ma ritenevano che la rivendicazione di questo diritto fosse accettabile soltanto se il partito affrontava il vero problema del fascismo, che non era la preservazione del potere conquistato con la violenza ma era la creazione di uno Stato nuovo e di una nuova classe dirigente - problema che richiedeva un’opera lunga, lenta, laboriosa: 486
nessuno - scriveva il revisionista De Marsanich - che abbia una concezione il più possibilmente chiara dell’ora presente può illudersi che il fascismo, sia come idea che come partito e come governo, abbia tale potere mistico e mitico, tali possibilità d’inquadramento e di organizzazione d’individui e di masse, tali strumenti di dominio e di potenza da potersi considerare l’arbitro assoluto ed eterno dello Stato, e di poter rifiutare qualsiasi apporto dalle altre correnti vive che pur sono nel paese all’infuori di esso, irrigidendosi in un’intransigenza chiusa e sospettosa come quella di una nuova Compagnia di Gesù. Tuttavia vi sono molti fra noi che, quasi ossessionati dalla potenza del nostro partito, credono giusto e utile considerare come una sottospecie umana e politica tutt’i cittadini i quali non hanno sentito l’imperativo categorico di prendere la nostra tessera e tutti quegli altri i quali non credono che l’abiura sia un atto più bello della fedeltà alle proprie idee. C’è perciò nel fascismo, tra le varie e molteplici ragioni di contrastitudine e di lotte, di cui noi ci rallegriamo perché esse provano che siamo un corpo vivo nelle membra e nello spirito, un delinearsi di due correnti: una degli intransigenti, degli immobili, i quali credono che il partito fascista debba restare armato contro tutto ciò che non è creazione nostra e contro tutti quelli che non sono entrati nelle nostre file; l’al-tra, dei ricercatori delle verità intime, di quelli che credono che nella vita nulla è immutabile e definitivo, nulla integralmente certo e giusto, e che si propongono di partecipare all’inevitabile svolgimento delle idee e dei fatti, che si produce nella storia delle nazioni come in quella degli aggregati politici90.
De Marsanich tornò più volte sul tema della «revisione», con maggior insistenza dello stesso Bottai, e con toni polemici sempre più vivaci, assumendo posizioni sempre più severe nei confronti del partito in quanto tale. Egli riteneva che non si dovesse indugiare troppo nel discutere sui princìpi ideali del fascismo, che erano tanti e confusi, ma si dovesse innanzi tutto definire la natura e la funzione del partito nei confronti dello Stato, fino ad arrivare anche, se necessario, a mettere in discussione la legittimità della sua esistenza. Secondo De Marsanich, infatti, il partito era rimasto indietro negli eventi, s’era fermato «al 31 ottobre 1922, ultimo giorno di battaglia e di vittoria», non
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aveva saputo formarsi un’anima nuova in armonia con le esigenze dei nuovi tempi e delle situazioni mutate. Tuttavia, si cercherebbe invano di capire quale fosse questa «anima nuova» attraverso gli articoli di De Marsanich, di Bottai e di altri scrittori di «Critica fascista» e della corrente revisionista. Almeno in questo, coglieva nel giusto l’accusa di intellettualismo inconcludente rivolta ai revisionisti da Farinacci il quale, a suo modo, offriva una risposta precisa, per quanto semplicistica, ma politicamente concreta per risolvere la crisi del fascismo, precisando con chiarezza natura, ruolo e funzione del partito nel progetto di conquista dello Stato. In effetti c’era, fra revisionismo bottaiano e intransigentismo fascista, una visione nettamente divergente del rapporto tra fascismo e partito fascista. I revisionisti chiedevano libertà di critica, di dibattito, di revisione perché ritenevano che il fascismo non si esaurisse nel partito, e neppure nel governo Mussolini, perché era un fenomeno più vasto e complesso, era un movimento di idee e di stati d’animo, che rifletteva in sé tutta la crisi italiana, diventando così un momento del processo di formazione dello Stato nazionale, che in Italia continuava ancora dopo il Risorgimento. In questa visione, il partito, con l’illegalismo e l’avversione a qualsiasi tentativo di collaborazione e di discussione interna, era considerato piuttosto un ostacolo che un utile strumento al progresso della «rivoluzione fascista». Secondo i revisionisti vi erano, nel partito, troppo settarismo, troppa violenza e troppa ignoranza dei problemi politici, per cui, invece di essere un organismo unitario ed omogeneo, il partito era un caotico miscuglio di prepotenze locali e di ambizioni personali, fattore di nuovo 488
disordine e ulteriore decadenza dell’autorità dello Stato. Il partito non si era formato una «coscienza statale» ma, accusava «Rivoluzione fascista»91 dopo il delitto Matteotti, era «una oligarchia di faziosi che hanno interdetto ai nemici e agli amici il diritto di criticare e la possibilità di operare». L’esistenza di un simile partito appariva incompatibile con la funzione «storica» del fascismo: «l’indisciplina fascista si manifesta come una sedizione in potenza - affermava De Marsanich92 - e come ima continua negazione dell’autorità costituita». Il contrasto fra le correnti degli intransigenti e dei revisionisti - che, ripetiamo, non costituivano due fronti unitari né erano spinti dagli stessi motivi - non era, come poi fu detto93, soltanto la conseguenza di temperamenti o di esperienze politiche diverse e, per taluni aspetti, inconciliabili. Gli intransigenti, «storditi dall’ebbrezza del trionfo», credevano che il fascismo dovesse risolversi tutto nell’esercizio del potere, tanto più fascista quanto più intollerante, totalitario ed arbitrario, gestito esclusivamente da un partito chiuso a critiche e collaborazioni. Gli intransigenti, affermava Bottai, appartenevano al periodo eroico, bellicoso e romantico del fascismo. Avevano avuto il merito come «guerrieri» di combattere e di vincere, di aver marciato quando era necessario marciare: ora avevano il dovere di ritirarsi, di sottomettersi all’ordine, perché il compito di continuare la rivoluzione spettava agli intellettuali, ai teorici, ai «politici». I revisionisti, che naturalmente si ponevano nel novero di questi ultimi, si muovevano con cauto realismo e, in verità, senza precludere al fascismo sviluppi diversi da quelli sperati fino a quel momento, senza troppi urti con lo status 489
quo. Una certa aria di «liberalismo», più o meno conservatore, ispirava la loro visione del fascismo al governo, che, del resto, nei primi tempi dopo la «marcia su Roma», rispondeva all’atteggiamento dello stesso Mussolini, impegnato a consolidare e ad ampliare, fra le altre forze politiche, l’area dei suoi sostenitori dentro e fuori del parlamento. Il revisionismo, come denominatore comune di orientamenti diversi, era certamente espressione di un fascismo «moderato», perché consapevole delle deficienze ideali del movimento e della superficialità dell’ideologia e della quasi inesistenza di una classe dirigente fascista. Perciò i revisionisti volevano far maturare il fascismo con il contributo di altre correnti politiche e culturali ad esso affini, come i nazionalisti e i liberali di destra94. Ed ancora per favorire questa maturazione, essi volevano che nel partito venisse risolto, prima di tutto, il problema della definizione ideologica, e fossero accantonate quelle pretese di potere assoluto che, non accompagnate da una consapevolezza dei fini per i quali si voleva il potere, riproducevano quelle situazioni di dissoluzione e di sgretolamento della società e dello Stato contro cui il fascismo era insorto. Il problema, insomma, da organizzativo e politico diveniva teorico e ideologico. La crisi del partito e del fascismo, dopo la «marcia su Roma» e, ancor più, dopo il delitto Matteotti, dipendeva, secondo «Critica fascista», dalla mancanza di una coscienza teorica: Ecco dunque delinearsi la massima deficienza del partito fascista: la mancanza di un pensiero centrale organico e ben definito, intorno a cui raccogliere tutte le fila del movimento e dargli una base e un’unità, così come il marxismo costituisce la base del socialismo, e il mito della libertà e il diritto naturale e il liberismo economico costituiscono quella del liberalismo.
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Che non esista una dottrina politica fascista oltre l’idea di nazione gerarchicamente ordinata, che non è integralmente nostra, è dimostrato dalla molteplicità delle interpretazioni che gli stessi fascisti danno del fascismo, sì che ognuno crede in un suo proprio fascismo. E poiché nel nostro partito è sempre mancata la possibilità della discussione, le varie correnti e le singole opinioni si disperdono o restano ignorate. Abbiamo perduto un anno a cercar nemici per ogni dove e non ci siamo accorti quale grave pericolo abbiamo in noi per tale deficienza. Il mito, il dogma della patria non basta a costituire e, sopra tutto, per conservare un partito politico, ma è necessario avere anche un nucleo d’idee basilari su cui tutti i soci di esso debbono concordare. Il partito fascista è uscito dal nazionalismo, dal liberalismo e dal sindacalismo; dobbiamo deciderci a definirne la sua individualità ideale. Ed è anche necessario, per noi che siamo ad un tempo causa ed effetto della crisi moderna, la quale è crisi parlamentare, che ci decidiamo a chiarire la nostra posizione di fronte al parlamento, tanto più che molti fascisti autorevoli continuano a definire il fascismo un movimento di reazione antidemocratica, non pensando che oggi, ponendo la parola aristocrazia in contrapposto a quella di democrazia, si fa un bisticcio verbale senza alcun senso storico Noi siamo certi che per stabilire il vero concetto della disciplina fascista non bastino le norme e la consuetudine finora seguite, ma che occorra definire al più presto quel nucleo d’idee alla luce delle quali non tutti gli attuali fascisti appariranno tali95.
Bottai riteneva che il fascismo non fosse «entrato ancora nella fase della sua politica originale»96. Ma anche nel suo pensiero, la politica e l’ideologia del fascismo erano ancora molto più espresse come esigenza che come compiuta elaborazione di princìpi97. Tuttavia, tracce di questa elaborazione, che risentiva della fretta polemica da cui nasceva, si trovano in modo frequente negli scritti e nei discorsi di Bottai, negli anni fra la «marcia su Roma» e il 1925. Proprio da Bottai, secondo noi, venne il contributo più serio del revisionismo alla definizione dell’ideologia fascista, mentre altri revisionisti, come Casini, Spampanato, De Marsanich offrirono idee sparse e frammentarie, troppo 491
legate alla polemica contingente contro gli intransigenti, e comunque non sviluppate attraverso un costante sforzo di riflessione organica, quale fu invece caratteristica propria del revisionismo bottaiano durante l’intera parabola del fascismo al potere. Ma il prestigio di Bottai e la risonanza delle sue idee nel fascismo furono dovuti tanto alla vivacità intellettuale del suo inquieto pensiero, quanto alla prudenza con la quale egli seppe inserire la sua interpretazione ideologica del fascismo nel contesto disordinato del movimento, presentandola, quale effettivamente era, come interpretazione in forma più convinta e complessa di un fascismo intransigente. Ciò, naturalmente, gli permise di evitare la sconfessione da parte di Mussolini e di mantener vivo a lungo, attorno alla sua rivista, un dibattito «aperto». Bottai sconfessava, infatti, posizioni come quelle del revisionismo a forti tendenze antimussoliniane e antipartito di un’altra rivista revisionista, «Polemica fascista»98, ma, nello stesso tempo, rivendicava il diritto di svolgere un’opera di critica ideologica che egli riteneva complementare e non in antitesi con quella degli intransigenti che erano assillati solo dal problema organizzativo. In tono conciliante, Bottai affermava, e non a torto, che «le due polemiche confluiscono in una serena e profonda impresa critica, che voglia e costruire l’unità ideologica del fascismo e salvaguardarla negli ordinamenti pratici del partito»99. Il revisionismo di Bottai e la sua critica all’estremismo degli intransigenti nascevano dalla considerazione che il fascismo doveva risolvere due problemi fondamentali: formare una classe dirigente e creare uno Stato nuovo. L’uno e l’altro erano problemi complessi perché legati alla 492
crisi non solo del fascismo ma della società italiana, e richiedevano riflessione e discussione, quindi un dibattito aperto nel partito e un confronto dialettico con le altre forze politiche. Non si trattava di definire a priori la durata o la validità della «rivoluzione fascista» né di mettere in discussione il potere conquistato: il problema era vedere se il fascismo era soltanto un’effervescenza contingente, un’esplosione di violenze e di reazioni, un romanticismo istintivo e selvaggio oppure se veramente era un fenomeno storico che aveva radici profonde nella storia italiana e rispondeva alle esigenze dei tempi. Fino alla «marcia su Roma», il carattere del fascismo era stato quello di un movimento spontaneo, caotico, locale, sorretto soltanto dall’avversione contro i nemici comuni e dall’esaltazione del mito patriottico. Nella sua avanzata, questo primo fascismo si era affermato senza alcuna discussione di principio per mezzo di una violenza feroce, necessaria - si diceva - per ricacciare il bolscevismo e per restaurare l’autorità dello Stato. Il fascismo, dunque, nasceva dal disordine per riportare l’ordine e i fascisti più responsabili, dopo aver sconvolto la società per affermare i diritti della nazione, sentivano che, preso il governo, bisognava restaurare lo Stato contro qualsiasi illegalismo. L’ordine, affermava Bottai, è necessario per la società, perché senza ordine non vi è giustizia100. L’ordine fascista, però, non doveva essere simile a quello d’una caserma o di un regime reazionario fondato solo sulla violenza e la repressione e sul dispotismo di una minoranza che irrigidiva la società entro la camicia di forza d’un sistema inerte e statico. L’ordine fascista, come lo immaginava Bottai per la società italiana e per il fascismo stesso, doveva essere un ordine dinamico, mezzo e non fine, 493
ordine rinnovato sempre non dalla forza ma dalla coscienza politica della classe dirigente e con il consenso delle masse. La violenza era la fase primordiale della rivoluzione, il momento della distruzione necessaria per sgombrare il campo dai nemici e per garantire il potere alle nuove élites. Ma questa fase primordiale, con caratteri ben definiti, non era la rivoluzione, né il fine della rivoluzione si esauriva nella conquista e nell’abuso del potere. I fascisti che continuavano a credere nel valore del manganello e minacciavano una «seconda ondata» di violenza appartenevano al periodo insurrezionale, distruttivo, «preistorico». Non si poteva scambiare la violenza per rivoluzione, il dispotismo personale per inizio di un nuovo regime. Nelle sue Dichiarazioni sul revisionismo101, Bottai precisò che il revisionismo non era «questione di pulizia o di polizia interna del partito», ma «un problema spirituale e politico di revisione di metodi, di ordinamenti, di idee», nato dalla coscienza della necessità per il fascismo di «avviarsi sul terreno storico di una nuova sintesi di sistemazione del pensiero moderno, per la sua salvezza integrale». La rivoluzione non era un problema di forza ma di idee: C’è, nel fascismo, dopo la marcia su Roma, una crisi di abbandono e di rilassamento. Molti fascisti ànno esaurito il loro compito di fascisti con la conquista del potere; altri, rinchiudendosi in un curioso histeron-pròteron, ànno creduto, in buona fede, che le responsabilità del governo potessero far lega con i metodi dell’antica e generosa lotta antibolscevica e antidemagogica. Dimentichi che l’ideale del partito unico è in antitesi con quell’imperativo di lotta da cui un partito trae vita, i più dei nostri amici credono che il miglior modo di salvare il fascismo nella sua integrità sia quello di far diventare tutto e tutti fascisti, mentre noi riteniamo che il non aver riconosciuta la necessità di cernere la merce prima di immagazzinarla sia tra le non ultime cause di questa crisi. Per dare al fascismo significato e funzione universali, come noi vogliamo, non è di mestieri che tutti ci si ficchino dentro.
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Gli appelli alla «seconda ondata» o a una nuova «marcia su Roma» rivelano questo stato d’animo, con chiarezza. Ne nasce che la rivoluzione viene assunta come norma di vita quotidiana. Il che significa che non si è compreso che la conquista del potere da parte del fascismo, come non è un episodio qualsiasi nella vita nazionale così non dev’essere un episodio qualsiasi della vita del partito. Nel «fatto compiuto» della conquista del potere si racchiude, in sintesi, la nostra potenza rivoluzionaria, la quale deve esplicarsi con il tradurre le idee in istituzioni. NOI NON ABBIAMO IL POTERE PERCHÉ ABBIAMO FATTA LA RIVOLUZIONE, MA ABBIAMO IL POTERE PERCHÉ DOBBIAMO FARE LA RIVOLUZIONE.
E la rivoluzione si fa, quando si à il potere in mano, in modo profondamente diverso da quello in cui l’intendono certi rohespierrini di nostra conoscenza: si fa cercando un nuovo equilibrio delle attività e delle funzioni dello Stato, rielaborando i princìpi e consolidando negli istituti e, se occorre, nella costituzione medesima le grandi idee direttive. Chi non si persuade di questa verità è fuori del fascismo e metterebbe il Fascismo fuori dello svolgimento storico della politica italiana, creando un pericoloso squilibrio tra la Nazione e il Partito.
L’atteggiamento di Bottai verso i problemi del partito e verso i rapporti con le altre tendenze del fascismo era conseguenza della sua concezione del fascismo come «rivoluzione intellettuale». Egli, con ciò, non aveva la pretesa di presentare il fascismo come una dottrina nuova e originale, bensì come risultato storico e politico di una tradizione di pensiero che, dopo la grande guerra, aveva finalmente trovato una situazione storica e sociale in cui attuarsi. Il movimento fascista era nato dall’azione, non aveva mai mostrato alcun rispetto per le idee ma, secondo Bottai, proprio in ciò stava uno dei motivi del suo successo. Anche il disprezzo per le idee politiche dominanti era conseguenza di un atteggiamento mentale derivato dal rifiuto della vecchia cultura positivista, liberale e democratica. Per questo Bottai rivendicò, nonostante «certe deformazioni manganellistiche» che si attardavano ai margini del fascismo, l’origine intellettuale del movimento: 495
«il primo nucleo costitutivo del fascismo fu di intellettuali»102. Senza soffermarsi nel vagliare la promiscua varietà di questi intellettuali, Bottai considerava soltanto lo spirito comune che li animava, un sentimento di vuoto e il rifiuto di un mondo politico che secondo lui manca di valori intellettuali e morali103. Bisogna dire, in verità, che Bottai esponeva queste idee senza voler giungere ad una definizione teorica e dottrinale del fascismo. Il fascismo, precisava, non era sorto per definirsi in una dottrina specifica; aveva avuto un’origine «tutta spontanea e illogica, nel senso paretiano della parola, non da una teoria preordinata e sistemata, ma dall’azione». S’era poi sviluppato come un vasto movimento di passioni e di interessi che avevano trovato un motivo di coesione nel mito della guerra e della nazione, riuscendo a mantenere l’unità e la forza mentre gli altri partiti si disgregavano e ripiegavano su posizioni di difesa. La vittoria del fascismo non poteva essere ritenuta soltanto frutto della violenza, perché questa violenza era stata esercitata contro partiti organizzati e numerosi, già corrosi da un’interna e fatale debolezza, per mancanza di idee vive e di fede. La rivoluzione fascista, affermava Bottai, era nata dal fallimento della rivoluzione liberale e della rivoluzione socialista, perché l’una e l’altra non avevano risolto il problema della società italiana, quello di costituire uno Stato in cui libertà e autorità, potere di élites e partecipazione di masse fossero conciliati in una nuova unità nazionale. Il fascismo, nato per fronteggiare la disgregazione della società e per riedificare lo Stato, non era, per Bottai, una nuova «dottrina», arida e schematica come le vecchie teorie politiche, ma desiderio di agire e passione di realizzare. Era un metodo di vita, un 496
modo nuovo di concepire e di fare la politica104, e non poteva, perciò, essere racchiuso in una formula teorica, anche se le origini del fascismo erano intellettuali. Anzi, per Bottai il fascismo era una rivoluzione intellettuale (più tardi lo definirà «rivoluzione culturale») una rivoluzione né compiuta né tradita (come accusavano i «selvaggi»), bensì rivoluzione permanente, in continuo sviluppo di revisione e di realizzazione, fra le opposte rive del dottrinarismo astratto e del pragmatismo empi-rico, il cui fine ultimo, chiaro e definito, era il compimento del processo unitario nella fondazione dello Stato organico nazionale: Il fascismo - disse in un discorso nel marzo del 1924105 - è una rivoluzione di intellettuali. Dirò più esplicitamente: è una rivoluzione intellettuale. Se è vero, come è vero, che il problema centrale del fascismo è, ancor oggi, tanto nell’ordine nazionale quanto nel suo ordine interno di organizzazione di parte, quello della creazione di una nuova classe dirigente, ciò non significa che quella prima pattuglia che nel marzo del 1919 si adunò intorno a Benito Mussolini abbia fallito alle sue premesse intellettuali di negazione della vecchia cultura e di creazione della nuova. Significa, invece, che il compito storico del fascismo, che nel marzo del 1919 si presentò alla mente del suo fondatore e dei suoi primi seguaci in tutta la sua terribile vastità, permane a cinque anni di distanza, con tutto il peso della sua enorme responsabilità. Le dure necessità della lotta antibolscevica, che fu, secondo noi, aspetto secondario e non principale del fascismo, impedirono l’assolvimento di quel compito. Non si poteva filosofare con il nemico alle porte. Ma rimosso l’ostacolo, conquistato il potere, il problema delle origini si ripone in tutta la sua interezza. Questo problema è di rivoluzione intellettuale. Così noi rispondiamo agli oppositori, che tentano di gettare nel nostro cammino l’equivoco d’una rivoluzione esaurita in uno sforzo puramente muscolare e ci negano il diritto di creare la politica nuova della nuova Italia, e rispondiamo anche, mi sia permesso di affermarlo senza ambagi, a quei fascisti i quali incadono nell’equivoco antifascista dell’opposizione, quando disgraziatamente tentano di elevare a teoria aspetti superati e transeunti della nostra azione politica.
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Con questo discorso, Bottai cercava di stabilire, sia pure con tratti molto generali, i caratteri ideologici che si erano fissati nel movimento fascista e che, attraverso l’opera di riflessione teorica e di realizzazione pratica, dovevano portare ad una chiarificazione ideologica del fascismo. La nuova «rivoluzione intellettuale», secondo Bottai, s’era svolta dalle contraddizioni seguite alla Rivoluzione francese sul problema dei rapporti fra Stato e individuo. Da una parte, il principio borghese dell’individualismo, che generò il liberalismo e i vari movimenti democratici e pose l’uomo come atomo di fronte allo Stato, atomo che racchiudeva in sé tutti i diritti ed era «l’unica ed effettiva realtà della vita sociale». Ma lo Stato, ridotto all’arbitrio del singolo, finiva per annullarsi con lo sviluppo della «degenerazione liberale nell’anarchia». Dall’altra parte, dalle conseguenze della Rivoluzione francese, attraverso l’esperienza napoleonica, aveva avuto origine una concezione dello Stato come organo autonomo, al di sopra dei singoli e unica fonte della legittimità politica di una volontà che si pone come sovrana nei confronti del volere individuale, e «subordina a sé i cittadini come strumenti propri». Da questi sviluppi antitetici dell’eredità Rivoluzionaria, si era quindi sviluppato, nel secolo diciannovesimo, il dibattito fra liberalismo democratico e dispotismo, generando un vasto movimento ideologico di critica e di reazione ai princìpi della Rivoluzione francese. In questo movimento, secondo Bottai, si inseriva il fascismo come rivoluzione intellettuale. Il fascismo, affermò Bottai, non negava la realtà del fatto democratico, cioè la necessità della partecipazione del popolo come tale, al governo; e neppure era inconciliabile col liberalismo, «inteso come 498
concezione liberale della politica», «affermazione d’un processo unitario della storia, a cui tutti i partiti e tutti gli individui contribuiscono, […] politica intesa come lotta, come conquista. Questo liberalismo, dottrina eminentemente realistica, in cui si ritrova il filo della nostra più pura tradizione, è la storia nel suo svolgersi». Ma tanto la democrazia quanto il liberalismo erano anche due particolari forme ideologiche della rivolta individuale contro l’autonomia e l’autorità dello Stato, cui veniva conferito il compito di amministratore ma non di educatore e di formatore della società civile. Il fascismo, reazione alla crisi del principio di autorità, era contro queste ideologie, ma cercava, a suo modo, di realizzare tanto la democrazia quanto la libertà all’interno della sovranità dello Stato. Contro le accuse, mosse da Giovanni Amendola - il quale affermava che il fascismo si ricollegava al pensiero reazionario di De Maistre, De Bonald, Burke e quindi era in antitesi con lo Stato nazionale sorto dalla Rivoluzione francese - Bottai rispondeva che, se vi era nel fascismo una critica negativa alla Rivoluzione francese, tale critica non era ispirata da un antistorico rifiuto del processo storico e sociale messo in moto dalla rivoluzione: fra la critica negativa dei reazionari e l’atteggiamento ideologico fascista, vi era la filosofia idealistica, l’antidemo-craticismo di Sorel, il nazionalismo di Oriani e Corradini: una corrente di pensiero che rinnegava l’egalitarismo non per tornare al passato ma per ricostruire, secondo le esigenze di una società moderna, l’autorità dello Stato. Il nucleo dell’ideologia fascista veniva quindi affermato, da Bottai, nell’assunzione del concetto di Stato maturato attraverso la tradizione politica italiana: 499
Questa concezione moderna dello Stato etico, filosoficamente apparsa in Italia con Machiavelli, maturatasi con Vico, Spaventa, De Meis, politicamente promossa dal nazionalismo, limpidamente formulata nella filosofia di Croce e di Gentile, è alla base del fascismo che procede alla sua vittoriosa affermazione, non solo, in virtù della sua forza materiale, ma più ancora, perché, anziché essere un ritorno innaturale, coincide con la rinascita dello stesso pensiero italiano!106
Bottai tentava, così, di storicizzare il fenomeno fascista, riconoscendogli una dignità culturale come aspetto politico della rinascita idealistica, nell’ambito di un più ampio esperimento di sincretismo fra idealisti e fascisti, che veniva allora compiuto da Gentile e da molti idealisti gentiliani. Il suo pensiero veniva a contrapporsi perciò a quello espresso dalle correnti dell’estremismo ispirate ad una rivolta contro la modernità e, quindi, contro l’idealismo italiano. Per Bottai, il fascismo si inseriva «nella tradizione italiana attraverso l’ultima filosofia idealistica»107 e, per questo, era un fenomeno politico schiettamente moderno, che nell’attuazione della sua rivoluzione e per realizzare il suo Stato poteva ispirarsi «ai princìpi che l’idealismo di schietta tradizione italiana à elaborati e diffusi nel nostro paese attraverso l’opera di Giovanni Gentile»108. Non vi era nonostante le suggestive e scintillanti teorizzazioni dei fascismo come movimento antimoderno di Suckert o il nostalgico reazionarismo dei monarchici integralisti e assolutisti - «per il fascismo al di fuori della filosofia idealistica italiana altra possibile fonte ideale». Attraverso l’idealismo - e in particolare attraverso l’interpretazione gentiliana del Risorgimento come rivoluzione incompiuta - il fascismo si ricollegava al processo storico unitario, come continuazione del Risorgimento, e ripartiva dal punto in cui questo si era fermato, cioè nella 500
costruzione di un’unità esteriore, istituzionale e formale. Il momento di ripresa, per quanto non evidente né chiaramente compreso, era stato la guerra, che realizzò, per la prima volta, l’unità della coscienza nazionale. E dalla guerra, appunto, per iniziativa di pochi aristocratici del combattentismo, ebbe origine il fascismo. Perciò, continuava Bottai, il fascismo era anche rivoluzione di popolo, di quel popolo che era rimasto assente dal processo risorgimentale ed ancora assente era stato durante il primo cinquantennio dell’unità, fino alla guerra. Il parlamentarismo e la democrazia italiana, frutto di compromessi e di mancanza di ideali, oltre che di ideologie estranee alla tradizione e poco funzionali per la società italiana, erano state le maschere di un’oligarchia di «politici piemontesipartenopei». La storia dell’Italia unitaria, fino al fascismo, secondo Bottai vedeva schierati, opposti ed estranei, una casta di politicanti borghesi e un popolo in lotta per le necessità essenziali della vita e per la giustizia sociale ma, in sostanza, assente dalla vita politica. Con la guerra, la crosta del conservatorismo oligarchico si era rotta, e il popolo era diventato protagonista - immaturo - della vita nazionale. Si poneva così il grande problema della crisi italiana, come conciliare le masse con lo Stato, creando uno Stato che fosse, insieme, organo di autorità, fonte del diritto, ma anche strumento di educazione e di partecipazione e di progresso delle masse, cui bisognava dare «il senso e la volontà dello Stato»: Se fino ad ora - scrisse Bottai su «Critica fascista»109 - il fascismo non è stato contro il popolo, da ora dovrà essere col popolo. Antidemocratico è stato per troncare l’illusione di una falsa democrazia, ma schiacciata questa, essa chiama
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oggi il popolo perché dai suoi quadri esca la democrazia destinata a governare lo Stato italiano.
E quésto popolo, precisava Bottai, non era una mitica ed astratta unità: erano le classi lavoratrici che fino a quel momento erano rimaste fuori dello Stato, «trascurate e disprezzate dai partiti conservatori, organizzate dall’altra parte dei partiti avanzati ed estremi come strumenti elettorali»110. Attraverso la progressiva elaborazione del pensiero di Bottai, venivano delineandosi chiaramente, dal punto di vista del revisionismo, la natura e la funzione del nuovo Stato, come pure il compito che spettava al partito per realizzare questo ideale. Dal partito allo Stato: questo era in sostanza il programma di Bottai: il partito doveva svolgere una funzione di inquadramento e di educazione delle masse, per mezzo di un’organizzazione né rigida né faziosa, ma sempre rinnovantesi con le esigenze della realtà e delle situazioni nuove. Il concetto di organizzazione, in Bottai, non era soltanto tecnico ma comprendeva una sfera di valori morali che andavano oltre il dato puramente funzionale dell’organizzazione: un concetto di organizzazione che rispondeva sia alla sua idea della politica che al suo ideale di Stato nuovo. La politica, aveva detto Bottai, «viene dal popolo nostro e torna a lui, come una fiumana di sangue vivificatore»111; essa era «un incessante, febbrile processo di revisione d’idee e di metodi. Ma, sopra il flusso irrequieto e infinito, alcune idee, alcuni princìpi, alcune verità si tramandano e rinnovano nei secoli in sintesi originali e attuali»112. E Bottai credeva, attraverso il fascismo, di poter realizzare negli istituti del nuovo Stato
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una di queste «sintesi storiche», senza ripetere, con monotono tradizionalismo, forme desuete del passato e senza irrigidirsi in un sistema statico di disciplina. In questo, il suo ideale di organizzatore si univa con quello di suscitatore di energie spirituali e di iniziative, per un personale spirito problematico: Davanti a ogni problema nuovo, a ogni svolta, il nostro compito è, non di riferirsi alla tradizione né di cercarvi una risposta che non vi si trova, ma, partendo dall’esperienza tutta intiera del partito, di apportarvi una soluzione nuova, adeguata alla situazione. Nelle questioni di organizzazione, come nelle questioni di metodo, si ànno, più che antitesi di princìpi, problemi di tempo. Si tratta di comprendere l’ordine esatto di applicazione dei diversi princìpi, in una data situazione, a una data epoca, a un dato momento. Assumere come elemento di fatto incontrovertibile il tipo di organizzazione che giovò in un determinato periodo, sarebbe errore grossolano […]. Il partito non può e non deve essere una burocrazia statica, ma à da trovare in sé un’incessante forza di rinnovazione.
Questo ideale di organizzazione, tanto del partito come dello Stato, fu operante nell’attività di Bottai, durante l’intero arco della sua esperienza fascista. Egli, come è stato detto giustamente; fu essenzialmente, come politico e come ideologo, un mediatoreI13: concepì sempre il fascismo non come una dottrina e un regime compreso in un sistema definito di teorie ed istituti, ma come un nuovo atteggiamento verso la vita, e la vita politica in particolare; come un metodo, sempre rinnovato, di organizzazione e di mediazione fra le diverse e contrastanti componenti della società. Bottai non era, come i nazionalisti, un fanatico dell’ordine e della reazione, ma concepiva l’ordine e la reazione come strumenti per ristabilire l’autorità dello Stato e rinnovare il processo dinamico interno di partecipazione della collettività allo Stato e di circolazione di élites competenti. La sua posizione 503
di fronte al problema delle élites, della classe dirigente in cui egli vedeva lo scopo e il fine del fascismo, era diversa da quella che, nello stesso tempo, assumevano i nazionalisti, presentandosi come nucleo della classe dirigente fascista, mentre al fascismo lasciavano il compito di organizzare le masse. Una simile concezione chiusa e aristocratica delle élites contrastava con la concezione di Bottai, il quale immaginava invece una circolazione di élites attraverso un continuo processo di educazione e di selezione operante sulle masse: immaginare che un partito crei l’élite e solo l ‘élite, senza contatti con la grande massa, è assurdo. L’élite è l’espressione sintetica, direi quasi simbolica di qualcosa che è diffusa nel numero. È il tipo attraverso cui la massa si manifesta. Come è possibile concepirne una solitaria formazione? E v’è chi non veda come il caso contrario, di un’educazione, cioè, del popolo senza conseguente espressione di élite, è altrettanto assurdo? Aver fatto due problemi di quelli che non sono che i due aspetti di un unico problema è conseguenza della politica demagogica. Superarla, per riaffermare l’unità del problema, è il compito del nostro tempo114.
Il suo ideale era lo Stato come sintesi politica della società, non cristallizzato nella struttura di dominio di classe - come era lo Stato concepito da Alfredo Rocco - ma sempre arricchito da nuove esperienze e rinnovato da una permanente osmosi sociale. Uno Stato, quindi, che organizzava le forze della società senza reprimere il dinamismo e che, in questa sua funzione essenzialmente politica, si poneva al di là sia dello Stato conservatore borghese sia dell’antitesi marxista fra società e Stato. È difficile, infatti, trovare nel pensiero di Bottai, fin dagli inizi, un esplicito riferimento ad una rivoluzione sociale: nel suo ideale essenzialmente politico, evitava di affrontare il 504
problema della struttura economica della società italiana. Ciò, del resto, avrebbe comportato, oltre la diversa formazione culturale, una personalità di spirito più radicale, che Bottai non aveva. Il suo ottimismo sperimentale trovò un limite nel suo criticismo intellettuale, che non gli diede mai la fiducia necessaria per superare le antinomie sorte dal fallimento della «rivoluzione fascista» nel compromesso mussoliniano115.
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Capitolo settimo Il mito dello Stato nuovo 1. Alla ricerca di un’Idea Il dibattito sul significato ideologico del fascismo - e sui compiti che il fascismo avrebbe dovuto svolgere dopo la conquista del potere e la definitiva sconfitta delle opposizioni - impegnò tutte le correnti politiche del partito e, in una misura ideologica molto ridotta, coinvolse anche le organizzazioni sindacali fasciste. A parte certi singoli interventi più chiassosi che influenti, e intellettualmente privi di prestigio e di consistenti basi culturali, e a parte anche le suggestive «favole storiche» elaborate su un’immagine mitica della italianità, vi erano, nel dibattito degli anni che precedono la trasformazione del regime, alcuni motivi principali e più ricorrenti, da cui emersero i due temi fondamentali dell’ideologia e dalla politica del fascismo al potere: il mito dello Stato e la formazione di una classe dirigente fascista, come fine ultimo della «rivoluzione». Si è notato, più volte, che per i fascisti il problema più importante della loro ideologia non era la definizione dottrinale del fascismo in un sistema organico di idee, da cui far derivare poi l’azione. I fascisti non consideravano la mancanza di un pensiero originale, e precedente l’azione, come un limite o un difetto perché, come aveva affermato Cesare Rossi, il fascismo aveva invertito il consueto rapporto fra pensiero e azione, fra ideologia e politica, facendo della realtà, dell’azione, dell’esperienza vissuta l’unica fonte della 506
sua ideologia presentando ciò come caratteristica evidente della suo modernità e prova sperimentale della sua efficacia, legata al successo. I fascisti consideravano il fascismo una «fucina di esperimenti», sostenendo che «ogni sua realizzazione concreta e duratura deve rampollare dalla realtà viva», mentre era opera vana, in cui ancora si affaticavano le ideologie ottocentesche, l’attardarsi ad applicare formule teoriche di interpretazione e di previsione della realtà, che la vita regolarmente smentiva1. Eppure, neanche il fascismo sfuggiva al bisogno di derivazioni per giustificare e dar legittimità alla sua azione, inserendola comunque in una visione della vita e della politica, facendo così rientrare dalla finestra il problema della ideologia scacciato dalla porta. Al di là degli stimoli di idee occasionali, derivanti dalle contingenze e dalla necessità di fronteggiare la polemica degli avversari - i quali vedevano nella mancanza di una dottrina fascista il segno inequivocabile della immaturità e fragilità del movimento vi era, negli intellettuali che militavano nel fascismo fin dalle origini o avevano aderito dopo la «marcia su Roma», una non contingente sensibilità, e un travaglio sincero, per i problemi culturali e ideologici che costituivano, fin dagli anni giolittiani, quella che potremmo chiamare «la questione della crisi italiana», vista nell’ambito di una più vasta crisi epocale europea, crisi di valori e di istituzioni, che non era nata dalla guerra ma che la guerra aveva fatto esplodere2. E in questa crisi aveva radici il fascismo, sorto dalla guerra, rapidamente sviluppatosi, con impeto torrenziale, come una fiumana che trascinava con sé un ammasso confuso di correnti di idee e di miti, che ora, giunti i fascisti alle responsabilità del governo del paese, occorreva 507
decantare, facendolo fluire entro argini ben saldi di una disciplina non solo di forme esteriori e di subordinazione militaresca, ma anche di abito mentale e di costume civile, più in armonia con la loro pretesa d’esser l’avanguardia dell’Italia nuova. Ora, se i fascisti non volevano che il loro movimento venisse marchiato dall’accusa di essere soltanto una sanguinosa reazione antipopolare o il parto transitorio della mentalità di guerra, bisognava spiegare a quali esigenze della società italiana il fascismo rispondeva, quali addentellati aveva con il passato della nazione e con le forze politiche e sociali esistenti, quale configurazione ideologica intendeva assumere dopo la conquista del potere, e, infine, in quale nuova realtà politica doveva concretarsi la sua azione di partito e di governo. C’era stata l’azione, ora ci doveva essere l’elaborazione dell’idea sulla base dell’esperienza, secondo una mentalità e un modo di vedere le cose tipicamente fascista. Nel seguire le vicende ideologiche del fascismo abbiamo già visto affiorare, nel suo interno, motivi e temi che non erano soltanto frutto d’occasione o espedienti di propaganda, ma corrispondevano a giudizi su situazioni reali, alle quali il fascismo si adattava cercando di risolvere, a suo modo, i problemi che tali situazioni ponevano, sforzandosi anche, con sempre maggior consapevolezza, di inserire queste soluzioni, per così dire, programmatiche, entro un quadro di interpretazione generale della crisi italiana, vista in una prospettiva che era, nonostante le professioni di relativismo, una prospettiva propriamente ideologica, vincolata ad alcuni princìpi ritenuti saldi e inconfutabili: il primato della nazione e il mito della sua grandezza, il mito della grande guerra, il mito della nuova 508
aristocrazia, il mito dello Stato nuovo. Man mano che il movimento fascista si accresceva per nuovi aderenti, acquisiva suggestioni, problemi e idee provenienti da fonti diverse, ma che nel fascismo trovavano, a seconda delle circostanze e delle opportunità politiche, una propria collocazione, diventando, in alcuni casi, componenti stabili della sua ideologia in formazione. Tuttavia, l’aspetto pratico dell’ideologia, come complesso di idee-forza e di miti destinati essenzialmente all’azione e utili per la conquista del consenso, nel fascismo rimase sempre dominante, e servì quale discriminante per selezionare e scegliere gli apporti teorici che venivano da altre forze politiche, individuando quelli più confacenti alla «mentalità» fascista, o ritenuti più idonei ad orientare l’azione per la conquista del potere e per garantire la durata del successo. Come crediamo di aver dimostrato in queste pagine, l’ideologia del fascismo - studiata nel suo sviluppo storico e non secondo un astratto criterio di coerenza formale - rivela una serie di strati ideologici da cui risaltano, però, al di là della varietà delle posizioni personali e di singoli gruppi, alcuni temi permanenti e comuni: la «sublimazione» della guerra come momento rivoluzionario, il mito del combattentismo aristocratico, il disprezzo delle ideologie democratiche, l’esaltazione del sentimento nazionalista, l’apologià sociale dei ceti medi e intellettuali, il mito della gerarchia e i valori della competenza. A questi temi generali, man mano che il fascismo acquistava dimensione nazionale e confondeva i suoi problemi e le sue esigenze con i problemi e le esigenze della società (o di parte della società), si aggiunsero, in maniera sempre più intensa e netta, idee riguardanti soprattutto il problema dello Stato, 509
quali, per esempio: la necessità del suo rinnovamento, in senso autoritario, attraverso nuovi istituti politici; la soluzione della crisi dell’autorità; il superamento del conflitto fra Stato e società, fra governanti e governati, fra sovranità politica e potere di gruppi d’interesse o di pressione che si erano affermati con la società di massa, lo sviluppo del capitalismo e del sistema partitico, e con la nascita del sindacalismo. Dal complesso di questi problemi, che non avevano avuto, ovviamente, origine dal fascismo ma nascevano da situazioni oggettive della realtà italiana, emergeva l’esigenza fondamentale del fascismo, cioè la creazione di una classe dirigente fascista, aristocrazia di uno Stato nuovo, con caratteristiche e finalità proprie, e con il suo «mito storico» da attuare3. La soluzione di questo problema impegnò - in un dibattito che aveva molto anche l’aspetto di un antagonismo per conquistare l’egemonia nel partito fascista - le tre componenti principali del fascismo, cioè l’idealismo gentiliano, il nazionalismo e il sindacalismo. Se l’idealismo riuscì a conquistare l’egemonia ideologica e culturale e il nazionalismo, nella particolare elaborazione giuridica di Rocco, impose al nascente regime le strutture dello Stato autoritario, unico sconfitto fu il sindacalismo, che non riuscì a fare del sindacato l’istituto fondamentale dello Stato nuovo4. Tutti i temi cui abbiamo accennato furono oggetto di interpretazioni diverse. Se non vi erano dubbi sul fatto che il fascismo era stato sostanzialmente un fenomeno di reazione antisocialista e antipopolare, non era altrettanto pacifico, per i fascisti, definire i caratteri, la funzione e l’ideologia del nuovo Stato che intendevano instaurare una volta giunti al governo del paese. I sogni reazionari e assolutisti 510
dell’estremismo monarchico nobiliare, più o meno colorati suggestivamente dal richiamo alla Controriforma o al mito della società artigianale, trovarono scarsissimo consenso. La loro speranza di un ritorno al potere assoluto del monarca, magari incarnato nello stesso duce, fu delusa. Ma anche le velleità rivoluzionarie del fascismo antimodernista e provinciale restarono soltanto fenomeni di costume, con scarso rilievo politico se non nel breve periodo della crisi provocata dall’assassinio di Matteotti, tornando ad essere, dopo la svolta del 3 gennaio e la nomina di Farinacci a segretario del partito, quel che erano in origine, cioè miti estetici e letterari. Il maggior limite dell’ideologia del fascismo antimodernista, quale era idealizzato da Suckert e dai «selvaggi», era costituito dalla stessa origine provinciale della loro concezione del fascismo, identificato, in sostanza, con l’idealizzazione della piccola borghesia di provincia contro l’opera centralizzatrice del fascismo della capitale. Prive di una vera e propria ideologia nazionale, in grado di soddisfare le esigenze di un movimento nazionale e di rispondere in modo concreto ed efficace alle necessità del fascismo per la creazione dello Stato nuovo, queste correnti persero presto il loro fascino ed ebbero scarse conseguenze politiche, consegnando la sopravvivenza della loro notorietà più alla fortuna individuale, artistica o letteraria, di alcuni suoi esponenti, che ad una effettiva e influente presenza sulle successive vicende dell’ideologia fascista. Tuttavia, non per questo scomparvero del tutto alcuni dei miti a cui essi si richiamavano idealizzando il passato attraverso la trasfigurazione tradizionalista, in chiave estetica più che politica, di alcune epoche della italianità. Infatti, ai miti del tradizionalismo il duce farà ricorso nel momento di 511
stabilizzazione del regime, per sfruttare le tendenze conservatrici delle masse e la mitizzazione di innate virtù morali della sana provincia contadina, non contagiata dal nervosismo della modernità urbana. Ma nessun richiamo tradizionalista poteva vincolare definitivamente il fascismo al culto del passato. Il richiamo all’essenza attivistica del fascismo risuonava sempre forte contro queste tentazioni di irrigidimento ideologico in formule di restaurazione reazionaria, più o meno tinteggiate di cattolicesimo controriformatore o di monarchismo assolutista. Invece di opporsi al mondo moderno e ai problemi della società con la fuga nel passato, il fascismo avrebbe dovuto sviluppare, come scriveva Carlo Curdo5, le caratteristiche di «termine medio» non in quanto partito fra gli altri partiti, ma come strumento di mediazione fra le molteplici esigenze di conservazione e di innovazione della società, ad opera dello Stato. Il fascismo difettava ancora di unità ideologica e di un elaborato pensiero politico, ma il suo impulso originario, che era l’anima della sua natura più genuina, era la volontà di costruire una realtà nuova, come avvertiva «Critica fascista»: Si è molto obiettato al fascismo che esso, come partito politico, manca di un programma chiaro e definito. L’osservazione è vera. Il fascismo è chiaro in tutto il suo programma negativo, di opposizione ai dogmi, ai miti, alle utopie di cui il socialismo ha per più decenni imbevuto il popolo; di opposizione alle tendenze antisociali e dissolvitrici che ne sono la conseguenza; di opposizione al classismo, all’antipatriottismo e ad ogni demagogia. È chiaro anche nel suo programma di restaurazione: restaurazione dell’autorità statale, dell’ordine sociale, della disciplina, delle gerarchie, dei valori morati e intellettuali, di tutto ciò insomma che stava corrompendosi e decadendo. Si presenta quindi, sotto questo aspetto, come una grande forza di conservazione sociale. Non è affatto chiaro, invece, quale sia il suo programma di innova-
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zioni positive, che si aggiungano, come un progresso, al semplice ristabilimento o consolidamento di ciò che si dissolveva. Se il fascismo deve condurre a termine la sua opera rivoluzionaria, bisogna bene che questa non si limiti a disfare o rifare ciò che gli altri partiti e governi avevano fatto male o distrutto, ma deve aspirare anche a fare qualche cosa di nuovo. È ben vero che, quand’anche il fascismo mancasse a questa sua funzione innovatrice e veramente rivoluzionaria, non sarebbe per nulla diminuito il suo immenso valore di movimento più decisamente e radicalmente innovatore, prodotto da una nuova elaborazione di idee, che certamente non mancherebbe di formarsi6.
Bottai, che emerge in questo periodo come uno dei più attivi e autorevoli protagonisti del dibattito sull’ideologia fascista, ribadì senza perifrasi concilianti, che il fascismo non era un sistema teorico né aspirava a diventarlo, perché era un atteggiamento spirituale essenzialmente politico di fronte alla vita, era un modo di fare politica che si inseriva nel corso della politica moderna iniziata con la Rivoluzione francese, e non una dottrina, concepita in astratto, che doveva calarsi nella realtà per opporsi a questo corso e addirittura ribaltarlo. La validità ideologica del «bottaismo», il realismo della sua visione politica, pur sovrastata da una spiccata propensione utopisticheggiante ad architettare forme nuove di sperimentazione del fascismo, furono, in quel momento particolare della crisi del fascismo, di aver saputo individuare i due elementi utili al suo superamento per consolidare la presa sul potere, irrobustendo i quadri ideologici del partito: l’utilizzazione della classe politica nazionalista7, come la più preparata per trattare i problemi istituzionali del governo, e l’assunzione del pensiero idealistico gentiliano (e in parte crociano) come unica possibile legittimazione culturale, come la sola ideologia compatibile con i presupposti innovatori e le 513
forme tradi-zionaliste in cui si muoveva il fascismo. La mediazione ideologica e politica di Bottai non fu, perciò, mai concepita in termini puramente reazionari. Egli affermava decisamente, in polemica con Pellizzi (il quale, nonostante la fluidità dialettica di certe sue discussioni, era comunque il più vicino al fascismo di Bottai), che la sua posizione non si ispirava all’idea di Stato forte di tipo prussiano o conservatore8, ma «ai princìpi che l’idealismo di schietta tradizione italiana à elaborato e diffusi nel nostro paese attraverso l’opera di Giovanni Gentile». Allo stesso modo, Bottai precisava che l’ideale fascista dello Stato non rispondeva ai propositi crociani di un semplice ritorno alle consuetudini del vecchio Stato liberale. Si mettevano in discussione i princìpi politici e sociali derivati dalla Rivoluzione francese, ma si voleva andare oltre la reazione e la conservazione, senza finire però in una rivoluzione di tipo socialista. Nulla in comune, quindi, con l’antirisorgimento neomonarchico o «selvaggio». Secondo Augusto De Marsanich9, il fascismo è invece la ripresa del filone unitario del Risorgimento, interrotto dalla degenerazione parlamentaristica del liberalismo e dalle dottrine marxistiche, arricchito adesso dall’impulso della guerra vittoriosa, per la costituzione dello Stato del popolo italiano. E lo Stato nuovo dovrà sorgere di là dal liberalismo, superando non rinnegando la Rivoluzione francese donde il liberalismo democratico è nato, poiché quello inglese sta a sé, è un fenomeno tutto insulare il quale ha trovato la sua definizione nello splendido isolamento. Superare la Rivoluzione francese non vuol dire rinunziare al suffragio universale, che deve essere considerato intangibile, ma vuol dire invece revisione e rammodernamento del principio e degli istituti della rappresentanza. L’uomo moderno non è più soltanto il citoyen né soltanto homo oeconomicus, ma è, insieme, il cittadino produttore. Questi vive oggi, legalmente, in parlamento e, illegalmente, nei sindacati o comunque nella sua coscienza di categoria. Occorre legalizzare anche il l’
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produttore. Questa, sotto la spinta infrenabile della forza dominante nella società moderna, il sindacalismo, è la nuova idea, cui dovranno corrispondere le nuove forme della rappresentanza.
Il maggior contributo ideologico, come si è già accennato, venne dalla adesione al fascismo della scuola gentiliana e dal sistema di leggi e di istituti giuridici forniti da Alfredo Rocco. A nostro giudizio, Gentile e Rocco sono in un certo senso le due personalità rappresentative che, nelle rispettive posizioni ideologiche, riassumono quasi emblematicamente le due anime del fascismo, negli anni fra la «marcia su Roma» e le prime leggi istitutive del regime: il periodo, cioè, del maggior fermento ideologico in campo fascista, in un clima di accesa ma abbastanza libera polemica, quando ancora non si era imposta l’ortodossia formalista del regime. L’ideologia di Gentile e l’ideologia di Rocco rappresentano le due correnti principali del fascismo, correnti fra di loro antagoniste e contrastanti per i presupposti culturali su cui si fondavano, anche se avevano alcuni punti in comune e un’eguale avversione per la democrazia liberale, riassumendo le diversità di concezione, di mentalità, di temperamento anche fra i fascisti «rivoluzionari» e i fascisti «reazionari», cioè fra i fascisti trasportati, da un entusiasmo attivista e dal mito del futuro, verso la novità e il cambiamento per il loro senso dinamico della storia, e i fascisti che diffidavano del divenire medesimo della storia e quasi speravano di poter fissare, una volta per sempre, in un ordine chiuso le forme della vita sociale. Se scegliamo Gentile e Rocco quali rappresentanti delle due «anime» principali dell’ideologia fascista, non intendiamo minimamente - sia ben chiaro -considerare le loro posizioni 515
come le uniche degne di nota né vogliamo sottovalutare il fatto che l’ambiente ideologico fascista restava promiscuo e confuso, abitato o frequentato da personaggi di provenienza diversa, ognuno dei quali aveva da offrire la sua interpretazione ideologica del fascismo e un progetto per il nuovo Stato. Ma si trattava di atteggiamenti e posizioni minori, almeno per il periodo di tempo da noi preso in esame, che esclude il discorso sul regime mentre analizza le componenti ideologiche del movimento. Per quanto riguarda altre tendenze, di maggiore o minor rilievo, come ad esempio il corporativismo e il mito della romanità e dell’impero, esse restano fuori dal nostro discorso perché, anche se affiorano in questo periodo, hanno un vero e proprio sviluppo negli anni successivi e, pertanto, devono essere oggetto di uno studio non solo cronologicamente spostato più avanti, ma anche rivolto all’esame di miti, temi e problemi -quelli del regime appunto - che sono, per certi aspetti, nuovi o diversi da quelli dei primi anni di governo, e richiedono un diverso metodo di trattazione. Per semplificare il discorso si può dire, col Pellizzi10, che delle correnti più importanti del fascismo «l’una tendenza abbia per suo caratteristico ispiratore il De Mai-stre, mentre l’altra si riferisce e si appella piuttosto all’idealismo attuale». Le correnti che si ispiravano, con accenti più o meno reazionari e cattolici, al De Maistre e all’antimodernismo, erano frammentate, come abbiamo visto, in una molteplicità di posizioni variamente graduate nell’intensità della loro rivolta contro la modernità e non furono mai in grado di costituire una solida e complessa ideologia per il fascismo. Al contrario, fin dalla metà degli anni Venti, vi fu una vera e propria egemonia della cultura idealistica gentiliana. Non 516
mancarono, certo, avversioni e contrasti, proprio da parte degli antimodernisti «metafisici» contro l’egemonia dell’idealismo attuale, ma è giusto constatare, come è stato fatto, che «l’avvento del fascismo ha coinciso con l’epoca del completo successo di questa cultura»11. L’idealismo attuale venne incontro al fascismo con quanto di eccitante ma anche di retorico e di equivoco vi era nella sua esaltazione della prassi e nel suo appello, rimasto meramente intellettuale, al superamento dell’individualismo borghese nella creazione collettiva di una nuova comunità nazionale12. L’attualismo, attraverso il fascino esercitato dalla forte personalità di Gentile, trovava una risonanza congeniale per l’equivoco dell’attivismo - nelle aspirazioni culturali della giovane generazione fascista che aveva avuto la sua educazione politica con la guerra, e da questa aveva tratto la convinzione di partecipare ad una «rivoluzione nazionale», di continuare il Risorgimento per completarlo nella costituzione di uno Stato nuovo. 2. Idealismo militante e fascismo Uno dei rappresentanti di quella generazione, Ugo Spirito, ha dato una efficace testimonianza dei sentimenti dei giovani di fronte alla crisi dello Stato liberale, riassumendoli nel mito del rinnovamento e nel mito della giovinezza come artefice di questo rinnovamento, sentimenti e miti che animavano soprattutto i giovani intellettuali educati dall’idealismo, all’indomani della fine della guerra, allorché la situazione confusa ed agitata non consentiva di formulare programmi precisi13. Vi era, scrive Spirito, «il bisogno di rinnovamento generale che fosse illuminato da una fede profonda e costruttrice», il desiderio di veder 517
tradotto in azione quanto, per oltre un decennio di studi, si era formulato nel pensiero. Secondo Spirito, in quegli anni vi era un processo ideale che coinvolgeva tutte le correnti culturali e politiche del paese, da «Croce a Gentile, a Mussolini, fino a Bottai, a Balbo, a Grandi, l’ideale era uno solo, e le stesse sinistre erano coinvolte nell’unico processo»: In questa atmosfera ebbe inizio la nostra giovinezza. Se volessimo caratterizzarla nella sua espressione dominante, dovremmo appunto sottolineare il fatto della giovinezza. Eravamo, sì, uniti alla vecchia generazione e amavamo i maestri senza distinguerci da loro, ma sentivamo che con loro iniziavamo una nuova vita piena di ideali che si andavano chiarendo su tutti i piani, a cominciare da quello filosofico. Nella generale confusione si andava enucleando una ricchezza eccezionale di germi fecondi, che attendevano di essere condotti a piena maturazione. Sentivamo di cominciare, e, pur nell’ansia della trasformazione avvertivamo la gioia di un nuovo cammino. L’inno Giovinezza non aveva nulla di retorico, e l’accenno alla primavera e alla bellezza era immediato e senza riserve. Il problema dei giovani, perciò, era per noi il problema stesso della vita nella sua pienezza effettiva. Noi eravamo i giovani e l’avvenire era il nostro avvenire. Tutto il resto era secondario e discutìbile, era riassunto appunto dalla nostra volontà creatrice. Una volontà in cui potevamo mettere tutto e in cui tutto realmente vedevamo, al di là di ogni teoria e di ogni singola azione. Il fascismo eravamo noi e si esprimeva nella nostra giovinezza.
Per comprendere il discusso rapporto fra l’idealismo gentiliano e il fascismo, e le ragioni del loro incontro - al di là dell’interpretazione polemica secondo cui l’incontro non avvenne per ragioni ideali e per coerenza ideologica del filosofo e dei suoi discepoli, ma solo per opportunismo o per ingenuità - non si può fare a meno di considerare l’«atmosfera», rievocata da Spirito, in cui avvenne l’incontro. Gli esiti dell’incontro fra idealismo e fascismo sono noti, e non si possono sottovalutare le responsabilità che ebbero gli idealisti gentiliani nel garantire 518
al fascismo il consenso d’una grande parte degli intellettuali, senza riuscire, per altro, in alcun modo a prevenire, a contrastare e ad evitare la costruzione di un regime autoritario di massa, ben diverso dallo Stato etico da essi immaginato. La spiegazione dei motivi dell’incontro, secondo la quale il fascismo era altra cosa da quello che immaginavano gli attuaiisti, ci pare insoddisfacente. I gentiliani si sentirono fascisti e agirono da fascisti in completa coscienza, cercando anzi di conservare la loro egemonia ideologica nel movimento per dirigerne la politica. Tale affermazione non implica affatto l’identificazione del fascismo con la filosofia attualista né significa voler vedere nel fascismo una derivazione di questa. È tuttavia innegabile che l’idealismo gentiliano, per tutto ciò che attiene al suo pensiero politico, fu uno degli elementi costitutivi e caratterizzanti della cultura fascista; è innegabile che il fascismo fu anche prodotto della cultura idealista. Come ha scritto molto giustamente Carocci, semplificando i termini della questione, «si può affermare che il fascismo fu il frutto più clamoroso e la conclusione di quella cultura, che era stata soprattutto spiritualista, antimaterialista, 14 antipositivistica, antidemocratica» . Gentile e i gentiliani fascisti, insomma, non furono i filosofi del fascismo soltanto perché furono i più importanti pensatori che «piegarono la loro mente al fascismo e si compromisero con esso», ma soprattutto perché nel loro idealismo e nella situazione politica creatasi dopo la guerra e dopo l’avvento del fascismo, vi erano le premesse per un incontro «necessario»15. E la comprensione storica non può prescindere dal valutare e vagliare anche quegli elementi che, sebbene non siano determinati o definibili 519
more geometrico, non di meno costituiscono fatti storici utili alla conoscenza del fenomeno. Ciò è ancor più importante, secondo noi, per comprendere l’adesione dei gentiliani al fascismo, che avvenne soprattutto per motivi ideologici, anche se questi erano inizialmente ancora alquanto confusi in merito a ciò che avrebbe dovuto essere la funzione del fascismo nella soluzione della crisi italiana. L’idealismo era stato prima della guerra il protagonista del rinnovamento culturale. Il mito del rinnovamento, che dominò la cultura italiana a cavallo della guerra, era nato dalla reazione alla filosofia positivista, con tutto quello che ideologicamente questa reazione comportava anche nella politica. Basti pensare, per il periodo immediatamente prima della guerra, all’idealismo militante come era stato formulato sulle pagine della «Voce» del 1913 e del ‘14, quando apparve chiaro lo spostamento dell’egemonia culturale da Croce verso Gentile16. Fu l’attualismo, quindi, col suo misticismo dell’azione, ad attirare i giovani intellettuali che sentivano il bisogno di tradurre le nuove concezioni in istituti politici. L’idealismo militante gentiliano appariva come la formulazione più coerente e radicale, spinta alle ultime conseguenze, del pensiero idealistico. E con la formulazione dell’unità di pensiero ed azione, anzi, con la risoluzione del pensiero nell’azione, in quanto filosofia vissuta, l’attualismo si prestava molto più della «distinzione» crociana ad essere adottato come ideologia dai giovani che volevano cambiare la società italiana. Nel dopoguerra, l’attivismo diffuso nella cultura italiana aumentò la febbre idealistica dell’azione: Agire, vuol dire dirigere la propria azione, se vuoi che sia idea vissuta, in cento direzioni diverse, per cento anime diverse […]. Non essere
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più se stessi, essere di tutti, a disposizione di tutti […] Diventi il moto perpetuo; trascuri il pacifico ordine della casa, disordini le abitudini più sane […]. Diventi come ossesso di fare, sempre preoccupato di aver trascurato qualche cosa, sempre ansioso di finire una cosa perché ce n’è un’altra che aspetta […]. Agire è una febbre, una divina febbre, che non metaforicamente ti consuma17. Così Lombardo Radice descriveva lo stato d’animo dell’idealista, in una prefazione del ’22 a una raccolta di scritti pedagogici. E lo stesso Lombardo Radice - che pure non aderì al fascismo e mise in guardia gli idealisti dinanzi alla sua natura reazionaria e violenta - spiegava qual era il carattere attivista della nuova filosofia, in una conversazione tenuta a Bellinzona nel 1923: La filosofia degli idealisti - unisco due nomi che resteranno indissociabili nella storia italiana: Croce e Gentile - è soprattutto vita ; è la filosofia che vuole immedesimarsi colla vita; non contemplazione, ma auto-coscienza. E la filosofia dell’uomo, che ha bisogno di sorreggere la sua vita con l’idea; che ha bisogno di dare a se stesso la giustificazione del suo mondo, che altrimenti sarebbe non vita ma fluire di istanti, senza valore, senza ordine, senza perché. La filosofia per gli idealisti non è dei filosofi, se non perché è di tutti. Una filosofia è implicita in ogni coscienza, in ogni manifestazione di attività umana […]. È interessante come questi idealisti si fanno, per ciò che la filosofia non è contemplazione, critici della vita nazionale; storici che sentono la contemporaneità di tutta la vita nazionale; col-laboratori operosi della vita politica del loro paese. Tutta la speculazione filosofica di questi fondatori, o meglio ricreatori dell’idealismo italiano, è come la preparazione della loro azione politica, anzi è azione essa stessa […]. Così gli idealisti sentono chiaramente che la filosofia o investe tutta la vita o è nulla18.
L’idealismo militante affermava la necessità dell’impegno: tutti in lotta, tutti combattenti, partecipi e collaboratori del processo storico, che è realizzazione dello Spirito nel suo perpetuo farsi attraverso l’azione degli individui; tutti protagonisti, insomma, nel divenire della storia19. Se inizialmente, almeno nell’accezione «vo-ciana», tale impegno era considerato come attività nei singoli e diversi campi della cultura e della vita sociale, a margine e 521
in polemica con le istituzioni politiche, nella situazione creata dalla guerra divenne esplicito impegno politico rivolto al cambiamento delle istituzioni politiche. La distinzione fra ideologia e pratica, fra mondo della cultura e mondo della politica era considerata una conseguenza della mentalità positivista. Il distacco di fronte alla politica non poteva conciliarsi con l’attivismo idealista né sembrava più sostenibile la vecchia distinzione fra l’intellettuale e il politico. Il fine dell’attivismo idealista, passando attraverso l’impegno culturale e l’opera pedagogica, si concludeva per Gentile, coerentemente con i presupposti dell’attualismo, con la risoluzio-ne della filosofia nella politica, nell’affermazione del primato dell’azione. Il segno di un sempre più deciso orientamento degli idealisti verso l’azione politica vera e propria fu l’adesione alla grande guerra. Essi si schierarono dalla parte dell’interventismo, recando alle ragioni di questo un motivo culturale notevolissimo, che pesò a lungo sulla cultura italiana. Il fronte degli idealisti -ad eccezione significativa di Croce - vide nella guerra l’occasione per quella collaborazione alla storia, in cui avrebbe dovuto formarsi la «nuova anima» italiana. Già in questa scelta si ponevano degli addentellati per compiere poi l’aggancio al fascismo, secondo la comune interpretazione della guerra come frattura rivoluzionaria nello sviluppo politico italiano, e la critica al regime esistente. L’incontro dell’idealismo attualista col fascismo avvenne al momento della «marcia su Roma», quando Gentile fu chiamato a dirigere il ministero della pubblica istruzione. Il motivo, per così dire, occasionale dell’adesione, da parte idealista, fu la speranza di poter usare il fascismo come il 522
mezzo più idoneo per attuare la riforma della scuola20. Tale riforma, nell’intenzione dei più fervidi idealisti, non era soltanto un problema tecnico di strutture ma, per i princìpi ai quali si ispirava e per i contenuti che proponeva, implicava un atteggiamento politico di fronte alla vita sociale: era una riforma che, nell’intenzione dei suoi creatori, doveva minare alla base - attraverso l’educazione delle nuove generazioni - il regime «della casta democraticoborghese-parlamentare»21. Al momento dell’incontro con il fascismo (movimento fino a quel momento, pare, trascurato dagli idealisti e dallo stesso Gentile22) si scoprirono analogie, nemici comuni ed obiettivi concordanti, almeno in linea generale, e su queste concordanze fu avviata la collaborazione, non solo per la questione della scuola, ma anche per l’interpretazione e la definizione dell’ideologia fascista. Il fascismo aveva le doti per sedurre gli intellettuali. Come abbiamo visto più volte, esso alimentò fin dalle origini lo spirito «corporativo» dei ceti intellettuali, rivendicando i diritti e il primato della «qualità» contro il predominio democratico della «quantità». Fin dagli inizi si era parlato, nel fascismo, di «potere ai competenti». L’istanza tecnocratica, formulata in dettaglio nel programma del 1921, a parte gli indubbi aspetti di modernità che un simile progetto aveva (progetto, del resto, destinato a rimanere tale, nonostante gli sforzi del suo ideatore, Massimo Rocca, e i primi tentativi fatti per inserire questi gruppi fra gli istituti dello Stato nuovo)23, si prestava molto bene a suscitare un consenso entusiasta da parte dei ceti intellettuali. Per la prima volta, essi si vedevano riconosciuto un ruolo dirigente nella vita politica, in ragione di un riconquistato «primato dello spirito», di cui Mussolini 523
aveva parlato al principio del ’2224. Gli elementi comuni fra idealismo e fascismo si ritrovano però nella situazione del dopoguerra, nella mentalità attivista e antidemocratica comune ad entrambi. Fu Camillo Pellizzi (fautore di un incontro Mussolini-Codignola prima della marcia su Roma)25 a mettere in risalto le affinità ideali fra pensiero idealista e pratica politica del fascismo. In un articolo pubblicato su «Gerarchia» nell’ottobre 1922 e intitolato appunto Idealismo e fascismo, Pellizzi riconosceva l’origine antiintellettualista del fascismo ma respingeva la tesi di una inconciliabilità del fascismo con una concezione filosofica. Nel fascismo, egli affermava, non vi sono teorie la teoria filosofica «è generalmente la conclusione di un processo di vita» - ma vi era una ben distinta mentalità, che è invece l’inizio di un nuovo processo di vita. Ora, secondo Pellizzi, la mentalità fascista era essenzialmente idealistica e antidemocratica, e si situava nel movimento di pensiero avviato in Italia e in Europa dalla ripresa della filosofia idealista. Il fascismo, in questo senso, «ha già una sua coerente filosofia, una mentalità, che esso implica, che lo necessita idealmente, e senza la quale esso Fascismo sarebbe del tutto inumano e incomprensibile nella storia moderna. Ma si tratta di una mentalità, di una corrente, non di ima perfetta e conclusa filosofia». Non sarebbero sfuggite ad un osservatore attento le connessioni culturali fra il fascismo e la rinascita idealistica: Lo storico dell’avvenire, esaminando gli eventi dell’epoca nostra in Italia, non potrà non rilevare il parallelismo fra due grandi fenomeni sovvertitori delle vecchie linee di vita intellettuale, morale e pratica. Nel campo del pensiero e degli studi, egli osserverà come il periodo del positivismo, dell’empirismo, dell’utilitarismo più o meno materialistico, il periodo della fede assoluta nell’analisi sperimentale, dopo aver portato il suo bene e il suo male, si sia chiuso
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un bel giorno, delineando nettamente le proprie colonne d’Èrcole, e quindi i punti di partenza di nuove fatiche, nella filosofia di Benedetto Croce; e come contemporaneamente un altro filosofo, il Gentile, abbia tracciato una profonda direttiva in senso opposto, cioè in un senso idealistico fino all’intransigenza. Vedrà, lo storico futuro, che questa nuova scuola «avrà fatta una nuova generazione d’italiani», e sarà stupito forse nel contemplare il diffuso fervore con cui in tutte le scuole e i circoli, dove seriamente i giovani si affaticano alle opere del pensiero, questo nuovo problema filosofico venisse studiato, ed anzi elaborato con una tormentata assiduità. Parallelamente, quel nostro pronipote osserverà il sorgere e raffermarsi del fascismo nel campo della politica. Fascismo, è cioè negazione pratica del materialismo storico, ma più ancora negazione dell’individualismo democratico, del razionalismo illuminisdco, e affermazione dei princìpi di tradizione, di gerarchia, di autorità, di sacrificio individuale verso l’ideale storico, affermazione pratica del valore, della personalità spirituale e storica (dell’uomo, della nazione, dell’umanità) contrapposta e opposta alla ragione della individualità astratta ed empirica degli illuministi, dei positivisti, degli utilitari.
L’origine storica dell’idealismo europeo era stata la critica al razionalismo da cui erano derivati l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, e «che ancor oggi continua a combattere aspramente sul terreno della politica, ed ha in ogni nazione intere classi sociali più o meno organizzate sotto le sue insegne (in Italia, quasi tutta la piccola borghesia, e gran parte delle classi popolare e plutocratica)». La morale illuminista e l’ideologia democratica costituivano per Pellizzi il tessuto della società contemporanea, cristallizzata nella forma borghese e nazionale, prodotto della concezione individualista propria dell’Illuminismo. Al razionalismo seguiva, ora, attraverso fenomeni di ripresa spiritualista e immanentista, l’idealismo: un superamento della società organizzata secondo la cultura illuminista democratica, fondata sull’atomismo individuale, che aveva avuto un primo fiero colpo con l’apparizione
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del comunismo, «una primitiva interpretazione politica dello hegelismo, ma tuttavia nascimento, inizio effettivo di un nuovo periodo di storia». Secondo Pellizzi, il comunismo aveva la stessa radice storica e ideale del fascismo, e cioè «la rivolta moderna contro tutta la politica preidealistica». Ovviamente, per Pellizzi il superamento del comunismo, in quanto materialismo, era nell’idealismo di «destra», rappresentato in Italia dalla tradizione di Gioberti, De Sanctis e Spaventa. Questa tradizione si fondava su un equilibrio e una mediazione realistica fra l’esigenza del nuovo e del superamento, e la necessità di conservare un legame indissolubile col passato, con la storia. In un primo tempo questo idealismo sembrò decadere per eccesso di misticismo, e parve cedere al trionfo delle ideologie positiviste. Ma poi, con l’idealismo di Gentile e di Croce, ci fu una nuova ripresa del superamento del dualismo fra oggettivismo materialista e soggettivismo mistico: «L’Idea diviene storica senza perdere il suo carattere di intrinseca spiritualità, spontaneità, libertà». L’idealismo aveva superato lo storicismo materialista, presentandosi come dottrina «profondamente religiosa e morale»: Tale essendo oggi l’idealismo italiano, noi vediamo che i suoi germi sono tutti presenti ed attivi nel movimento fascista. Già lo ha acutamente intravisto il Tilgher [nei Relativisti contemporanei ] che ha rilevato l’intimo valore soggettivistico e attivistico della dottrina gentiliana, ed ha osservato come ciò sia anche al fondo dell’ispirazione fascista. Però il Tilgher accentua ed esagera oltre il bisogno l’attivismo «imperialistico» dei fascisti, e lo mette in rapporto con la ventata di imperialismo che è soffiata su tutto il mondo e ancora ne muove le acque tempestose. Qui bisogna precisare che tale imperialismo economico (prevalentemente economico) è stato uno degli aspetti della società borghese, una delle paradossali, ma prevedibili conseguenze della concezione razionalista affermata dalla Rivoluzione francese. Ora, poiché noi fascisti andiamo per l’appunto facendo la revisione e critica in atto di quella rivoluzione, poiché siamo in atto la creazione politica più nettamente antiborghese
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e antidemocratica, perché abbiamo ereditato dal socialismo e dalla sua critica il principio sano del sindacalismo, poiché abbiamo un senso nettamente dinamico dello Stato e un senso tradizionalistico e gerarchico della società, noi, dico, siamo appunto quel movimento che, dilagando o anche solo divenendo Stato nel nostro paese, inizierà la rovina degli imperialismi economici e della organizzazione borghese del mondo. Ora, come questo è il nostro problema d’azione nella sua maggiore ampiezza, questo in fondo è lo stesso massimo problema intorno a cui si agita la scuola idealista italiana. Essa elabora la coscienza di quello che noi andiamo facendo. Essa, che ha liquidato il concetto di uno spirito teoretico puro; che ha ricapita la storia e valorizzata l’arte come qualità fondamentale della vita dello spirito; che ha negata l’individualità astratta (quindi la massa) e messa al suo posto la personalità storica e il valore; essa, infine, che dei princìpi di autorità e libertà, di edonismo e di moralità, va ricercando le fonti e le verità più profonde nella tradizione e nella fede, essa è, dico, in modo inconfondibile ed esclusivo, per ragioni ideati e per ragioni nettamente storiche, la nostra filosofia. Le sue origini sono le nostre origini, i suoi intenti sono i nostri intenti.
Pellizzi credeva che vi fosse, fin dalle origini del fascismo, e ancor prima del suo effettivo incontro con l’idealismo, un collegamento ideale e morale fra un movimento politico che nasceva dall’azione ma aspirava a formularsi nel pensiero, e un movimento di pensiero che era necessariamente spinto, per coerenza con le sue premesse filosofiche, verso l’azione. Per questo, l’incontro avvenu-to dopo la «marcia su Roma» - quando il fascismo aveva mostrato di poter essere un fenomeno politico destinato a durare e a permeare col suo attivismo la vita politica italiana nazionale26 - era considerato da Pellizzi, per l’uno e per l’altro movimento, una «necessità»: Abbiamo oggi un idealismo italiano - scriveva Pellizzi nel suo saggio filosofico-politico Problemi e realtà del fascismo , del 1924 - che può chiamarsi ugualmente bene: concretismo, immanentismo storico, idealismo attuale, attualismo assoluto. Esso insegna l’astrattezza del reale e la concretezza dell’azione; la realtà della fede e la realtà della c.d. natura; la verità della storia
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(nella nostra coscienza storica attuale) e la falsità di quelle «teorie della storia» che cercano d’incapsularla in un solo aspetto della vita spirituale, guardandola in sé e non in noi stessi; che vede il Mito come una realtà, e la logica formale come un’astrazione. Questa mentalità filosofica, che da un pezzo germinava nel sottosuolo del nostro popolo, ha trovato insigni formulazioni recenti (col Croce; col Gentile soprattutto, per non dir d’altri); e pareva che soltanto avesse bisogno di un vasto fenomeno storico che la saldasse energicamente, una volta per tutte, alla realtà ambiente del nostro paese. Diciamo che l’idealismo attualista è oramai ancorato alla storia italiana dalla volontà e dalla esperienza fascista. Non potrà più involarsi verso l’empireo delle mitologie estetizzanti e individuali, non potrà muoversi a capriccio, né dipendere interamente, per le sue fortune, dalla pura potenza d’ingegno di un filosofo Tizio o di uno scrittore Caio. Essa è la filosofia di un’epoca storica in atto. E, che più importa, questa mentalità filosofica ci aiuta a saldare il nostro romanticismo alla nostra classicità, e ci chiarisce in che modo e in qual punto il fascismo si riconnetta ad una Fede, a una religione positiva […]. Se si fa senza credere, come se si crede senza fare, Dio e la coscienza umana sono distrutti con un colpo medesimo. È ben perciò che la stessa filosofia idealista, oltre a pensare, sente pure il bisogno d’insegnare, di scrivere, di pubblicare! Perché, se non la agisce, la sua stessa filosofia è nulla. Il fascismo agisce: non diciamo letteralmente quella filosofia, ma l’esigenza spirituale di essa. Essa quindi sta, nella spirale ascendente di tutte le vicende umane, tra quell’idea e una fede27.
I riferimenti all’idealismo erano parte di un discorso più ampio e più variegato, che lo stesso Pellizzi stava svolgendo in quegli anni, in modo abbastanza organico, sulla questione della crisi italiana, anche se la sua riflessione teorica, per quanto ricca di temi e di miti che anticipavano, o formulavano con particolare originalità, temi e miti che diverranno poi costitutivi dell’ideolo-già fascista, ebbe pochi riscontri nell’immediata realtà delle scelte e degli atti politici del fascismo al potere. Pellizzi, come Bottai, capì bene le difficoltà che il fascismo avrebbe incontrato, se non avesse saputo trovare una ragione ideale e una tradizione 528
teorica per legittimare la sua pretesa funzione storica, quale sbocco di un processo unitario che risaliva al Risorgimento. Pellizzi tentò di delineare un sistema «aperto» di ideologia fascista, in cui fosse messo in evidenza il carattere moderno, dinamico e rivolto al futuro del fascismo. Con il suo sincretismo ideologico, in cui cercò di conciliare i motivi del tradizionalismo con le istanze «rivoluzionarie» e idealiste del fascismo, Pellizzi svolse un ruolo complementare rispetto a quello di Bottai, come vedremo meglio più avanti, anche se le loro posizioni non furono sempre concordi. Sia Pellizzi che Bottai videro, in realtà, delusa la loro speranza di sottrarre il fascismo alla sua involuzione autoritariaconservatrice e alla trasformazione del regime in una dittatura sempre più legata al mito del duce. Altrettanto delusi furono gli idealisti gentiliani, che non potevano più riconoscere il loro fascismo nel regime cattolico-autoritario quale venne delineandosi nell’ideologia e nella pratica dopo il 1929. Se di equivoco si vuol parlare, a proposito dell’incontro fra idealismo e fascismo, si può dire che l’equivoco fu la valutazione del fascismo come fenomeno rivoluzionario (secondo un concetto idealistico di rivoluzione) da parte di una filosofia che si credeva rivoluzionaria. Fu questo equivoco, determinato dalla ambiguità del fenomeno fascista, che spinse Gentile a contestare la legittimazione culturale del fascismo ai nazionalisti prima e ai cattolici dopo. Infatti, mentre il fascismo, avvolto nella spirale della necessità di «durare», fu spinto a ricercare altre legittimazioni ideologiche in dottrine più tradizionaliste, e più radicate nella coscienza popolare, l’idealismo restò prigioniero della sua illusione di fondo: che parlare di 529
rivoluzione equivaleva a farla. Detto ciò, non si può asserire che gli idealisti diedero al fascismo l’avvallo della loro filosofia con intenzioni conservatrici. Polemizzando con l’antistoricismo dei fascisti antimodernisti e dei liberali gobettiani, il gentiliano Giuseppe Saitta rivendicò il ruolo «rivoluzionario» del fascismo, come continuità della rivoluzione risorgimentale in senso più italiano, ma anche più moderno. Il fascismo non era antitesi del Risorgimento, non era un fenomeno reazionario che si ispirava ai princìpi della Controriforma, né credeva alla necessità di una Riforma in senso liberale gobettiano. Il fascismo, affermava Saitta, era «un movimento decisamente rivoluzionario […] che non ripudia tutta la esperienza storica» e si rifaceva a princìpi che non potevano assolutamente conciliarsi con gli ideali reazionari del movimento dell’Antiriforma fascista, perché la Controriforma «non rappresenta che la negazione integrale di ogni vita di pensiero, in cui solo spiriti miopi o intellettualmente ottusi trovano facilmente rifugio»28. Nel gruppo dei suoi più entusiasti e fervidi credenti, l’idealismo attuale era considerato come il culmine del processo filosofico moderno, come «la concezione della realtà più matura e più elevata che oggi possa vantare l’intero mondo del pensiero contemporaneo»29. Questo primato non doveva restare soltanto intellettuale ma, per le premesse dell’attualismo, doveva coincidere anche con un primato politico. Il consequenziale atteggiamento di questi moderni Platoni di fronte alla politica si manifestò inizialmente come un rinnovamento del liberalismo di destra, come riscoperta del pensiero giobertiano e mazziniano in senso antidemocratico e statalista. La loro rivista si chiamò appunto «La nuova 530
politica liberale», progettata poco dopo la «marcia su Roma», e pubblicata nel gennaio dell’anno successivo. Animatore della rivista era il giovane gentiliano Carmelo Licitra. Per l’adesione degli idealisti, fu determinante, in un primo momento, l’interpretazione del fascismo come «l’unico partito nel quale potessero innestarsi e trovare una nuova fase della sua vita quel liberalismo che abbiamo ereditato dalla vecchia destra, e che nelle nostre dottrine filosofiche ha trovato il suo ideale sviluppo e la sua nuova forza», come scrisse Licitra nell’articolo Giovanni Gentile fascista, pubblicato nel luglio 1923. Lo stesso Licitra, nel proemio al primo numero, aveva illustrato le ragioni ideali della politica degli idealisti30: soltanto l’idealismo realizzava «quell’intima aspirazione di tutta la filosofia moderna, per cui pensiero filosofico e pensiero politico, o meglio filosofia e vita politica, si unificano in un’unica opera costruttrice del mondo umano come mondo di valori». Agli inizi, l’opera dell’idealismo si era svolta nel campo degli studi, come critica teorica alle concezioni che erano dietro le ideologie democratiche. L’idealismo aveva attaccato con molto vigore polemico la concezione individualista della società ed aveva elaborato un nuovo concetto dello Stato come realtà etica nazionale, sintesi di autorità e libertà, armonia di società e potere politico nell’unità ideale dell’individuo e dello Stato. La guerra mondiale aveva risvegliato il sentimento nazionale, suscitando una coscienza unitaria negli italiani che, per la prima volta, acquistavano una «personalità nazionale». Ma dopo la guerra avevano ripreso forza anche le ideologie e i partiti che appartenevano alle concezioni razionalistiche, individualistiche e materialistiche criticate dall’idealismo. 531
Contro questi movimenti era insorto il fascismo, reazione confusa, che tuttavia combatteva sul campo politico quelle forze che l’idealismo aveva da anni combattuto nel campo delle idee. Il fascismo si offriva all’ideologia idealista come la sola forza politica reale, che avrebbe potuto concretizzare il programma idealista e la ripresa del pensiero antidemocratico. Se fino alla «marcia su Roma» il fenomeno fascista e l’idealismo s’erano tenuti distinti quasi ignorandosi l’un l’altro, vi era tuttavia, secondo gli idealisti, un’intrinseca unità ideale: l’uno nell’azione, l’altro nel pensiero avevano combattuto gli stessi nemici, cioè le ideologie e i partiti derivati dalle concezioni illuministiche, muovendo entrambi, per dirla col Licitra, da un’«unica idealità di ordine spirituale diverso». Il fascismo poteva portare a compimento anche l’altra aspirazione fondamentale della politica idealista, cioè la creazione dello Stato nuovo. Il fascismo, spiegava Spirito, poteva esser legittimamente considerato come «la prima manifestazione politica del nuovo pensiero idealistico»31, cioè del pensiero italiano che «rappresenta oggi la maggiore coscienza storica e filosofica che ci sia, e dall’Italia deve partire l’esempio del rinnovamento politico e della liquidazione definitiva delle ideologie illuministiche». L’idealismo aveva superato l’antinomia fra pensiero e azione, fra filosofia e politica, dimostrando l’indissolubilità dell’ima dall’altra. Da ciò conseguiva, secondo la rivista idealista, una unità logica e storica fra fascismo e idealismo: la sintesi vivente di questa unità era la personalità di Mussolini. Il duce, affermava Licitra, era «una fede, un’azione che si organizza e vive entro un concetto, concetto, che è poi la nostra stessa dottrina». All’azione di Mussolini era necessaria però la 532
determinazione dottrinale della sua fede, perché questa potesse essere realmente una forza storica, «l’universalità necessaria perché essa abbia un vero valore storico». Tale determinazione era data al fascismo dall’idealismo attuale. Se fosse stata privo di questa universalità, l’opera riformatrice di Mussolini sarebbe rimasta confinata alla superficie, ed avrebbe risolto la crisi della società italiana soltanto nelle sue forme esteriori e caduche, perché non sarebbe stata accompagnata da una riforma morale delle coscienze, quale poteva venire solo da un pensiero, insieme, filosofico politico e religioso, quale era appunto l’idealismo gentiliano: La crisi che noi dobbiamo superare è crisi essenzialmente morale, che non si supera con la semplice riforma delle istituzioni, ma con la riforma e il risanamento delle coscienze, nelle quali le istituzioni si concretano e vivono. Lo Stato che intendiamo noi e al quale lo stesso Mussolini tende, è Stato essenzialmente religioso e educatore, in tutti gli ordini della sua vita. E per instaurarlo nella sua pienezza, è necessaria una riforma tenace, profonda, metodica, che mai si potrà dire interamente compiuta, giacché essa deve coincidere con l’intera attività educativa dello Stato, che appunto si riforma giorno per giorno nella volontà operosa dei suoi cittadini. Per questa opera noi rappresentiamo davanti a Mussolini una concezione dello spirito che è tutta una pedagogia. Una pedagogia non esclusivamente per le scuole, staccate e irrigidite fuori della vita nazionale; ma per l’intera collaborazione in cui la vita nazionale consiste. E questo è il carattere fondamentale, per cui il nostro idealismo oggi si afferma come pensiero essenzialmente politico, e per cui può vantarsi di rappresentare il grado più elevato del pensiero europeo.
Il fascismo, in sostanza, se voleva sopravvivere alla sua esperienza di movimento, per inserirsi nel divenire storico nazionale non poteva far altro che riferirsi alla dottrina idealista, che ne interpretava gli stati d’animo e ne definiva le finalità. Questo era quanto sostenevano gli idealisti: ma 533
altre proposte ideologiche congeniali allo spirito attivistico del fascismo, obiettivamente, non c’erano, perché quelle proposte dagli antimodernisti, dai «selvaggi», dai nazionalisti o erano prive di un complesso organico di idee o rientravano nella tradizione della politica reazionaria e restauratrice, che si sarebbe limitata ad irrigidire le strutture dello Stato esistente, senza lasciar adito a quel rinnovamento profondo della coscienza italiana in cui si sarebbe realizzato compiutamente l’ideale dei «profeti del Risorgimento»: la riforma politico-religiosa degli italiani e la nascita dello Stato nazionale. Solo attraverso il contributo ideologico idealista, il fascismo avrebbe assunto la fisionomia di un fenomeno storico «rivoluzionario» ma nello stesso tempo inserito nella tradizione risorgimentale. Non è casuale, del resto, che la rivista si rivolga a Mussolini, trasfigurandolo in una hegeliana individualità «cosmico-storica», sintesi vivente della nuova coscienza nazionale, della storia in atto della nuova Italia nata dalla guerra: in tal modo, l’idealismo non si confondeva con una delle tante ideologie che venivano offerte al fascismo, ma si presentava come la sola necessaria definizione filosofica e storicistica dell’opera di Mussolini, in quanto soltanto attraverso la concezione idealistica si comprendeva il valore storico della personalità del Duce. Per gli idealisti, ma soprattutto per Giovanni Gentile, Mussolini fu il principale punto di riferimento concreto per la loro visione del fascismo, al di là della massa fascista e del partito che l’organizzava. La collaborazione fra le due personalità, fra il filosofo e il politico, «idealisticamente» uniti nell’opera di riforma intellettuale e morale degli italiani, avrebbe permesso al fascismo di perdere la sua particolarità, per assumere la forma 534
di un’epoca storica della nazione italiana, sempre rinnovantesi nel suo divenire. Scriveva il Licitra: Ai fascisti poi, che oggi contano entro le loro file la poderosa personalità di Giovanni Gentile, diciamo soltanto che la sua presenza deve essere per loro non solo una nuova forza, ma principalmente un monito continuo per la loro elevazione spirituale. Col Gentile entra nel fascismo la più elevata dottrina filosofica e politica insieme, per la quale oggi l’Italia può vantarsi di non rimanere dietro a nessuna nazione nel mondo della cultura; e soltanto attraverso quella dottrina il fascismo può trovare la sua piena vitalità e il suo legame alla tradizione più fortemente e più schiettamente italiana. Ma essa richiede lavoro e sacrificio; essa vuole dal partito il superamento continuo di se stesso, perché intende la vita politica come vita essenzialmente morale32.
3. La teologia politica di Giovanni Gentile e la riforma politicoreligiosa degli italiani Fino all’inizio della prima guerra mondiale, Giovanni Gentile non s’era mai occupato direttamente delle vicende politiche, ma, in realtà, tutta la sua opera di filosofo aveva come fine ultimo l’azione politica, intesa come riforma politico-religiosa degli italiani. Il problema dell’unità di filosofia e vita civile era stato presente in lui fin dalla giovinezza, e dalla soluzione di questo problema egli faceva dipendere l’avvenire dell’Italia come nazione e come Stato. La sua figura di intellettuale e di politico veniva così a situarsi idealmente nella tradizione risorgimentale dei grandi profeti e artefici della nuova Italia, da Alfieri a De Sanctis, dei quali egli si sentiva ultimo epigono. Gentile era convinto che allo Stato nato dalle lotte risorgimentali mancavano ancora una coscienza nazionale unitaria, una fede comune, un vincolo morale fra classe dirigente e popolo. Il Risorgimento, che negli ideali dei suoi massimi esponenti, come Mazzini e Gioberti, era stato visto come 535
un movimento volto alla creazione di uno Stato nazionale, era rimasto una rivoluzione incompiuta, perché s’era arrestato alla soglia dell’unità, all’aspetto istituzionale dell’unificazione politica, conquistata non attraverso una cosciente partecipazione del popolo, ma per l’opera di una minoranza che aveva saputo inserire la propria azione in un gioco fortunato di combinazioni diplomatiche. Da ciò derivava, secondo Gentile, la necessità di una riforma dello Stato, e questa doveva essere prima di tutto una riforma morale, investire cioè la coscienza dei singoli individui per elevarli alla consapevolezza della loro unità statale e nazionale. Una traccia di questo ambizioso progetto appare fin dal 1898, quando il giovane filosofo siciliano scriveva all’amico Croce: Al di sopra del De Sanctis, che ne è certamente un nobilissimo rappresentante, ce tutto un ordine di idee, dal quale non si sa sollevare la nostra comune cultura; e gli effetti se ne risentono ogni momento in tutta la vita sociale. Nessuna idea filosofica vive fra noi; e quel poco che si dice è ripetizione, erudita e modernissima, se si vuole, ma ripetizione. Dopo il periodo di attività del Risorgimento, decadde la filosofia in Italia; e gli sforzi poderosi dello Spaventa per formare una coscienza filosofica come uno sviluppo della nostra storia sono riusciti infruttuosi come l’opera critica e l’insegnamento del De Sanctis, che rampollano dallo stesso bisogno di fare la mente italiana. Ma quegli uomini s’erano temprati nella rivoluzione, che ci aveva fatto tutti rivivere davvero. Poi spentasi quella fiamma, i venuti dopo sono tornati, com’era naturale, indietro. Lo spirito nazionale non s’improvvisa; e senza di esso, o almeno senza intima comunanza di spiriti non può esservi filosofia53.
Negli anni precedenti la guerra, il programma gentiliano di una riforma morale degli italiani si era realizzato soprattutto attraverso la sua riflessione pedagogica ed i suoi studi sul pensiero italiano nell’età del Risorgimento. Soltanto con lo scoppio della guerra e la sua adesione 536
all’interventismo, l’idea di riforma intellettuale e morale si trasformò in impegno politico. Gentile ritenne necessario per l’Italia prendere parte al conflitto, indipendentemente da questioni di opportunità o di interesse, perché l’Italia non poteva restare assente dinanzi ad un evento così grande, lasciando che gli avvenimenti seguissero il loro corso senza la sua partecipazione. Partecipare alla guerra voleva dire forgiare l’anima della nazione, attraverso un’esperienza di sacrificio collettivo che impegnava tutti gli italiani per il raggiungimento di uno scopo comune. La guerra, per Gentile, era un hegeliano esame per i popoli: accettandola, gli italiani avrebbero dimostrato se l’unità politica da essi conseguita era soltanto un fatto accidentale dovuto all’abilità di pochi uomini, che seppero sfruttare occasioni fortunate, oppure era stata veramente l’attuazione di una risorta coscienza nazionale. Il neutralismo era una posizione incompatibile con la filosofia gentiliana: ogni filosofia vera, in quanto educazione e trasformazione di coscienze, era per Gentile attività politica, impegno civile. In un discorso dell’ 11 ottobre 1914, col quale prese posizione di fronte alla guerra34, Gentile disse: «Il filosofo deve filosofare da uomo, conservando tutti i doveri dell’uomo dentro la sua stessa filosofia. Oggi non è lecito a nessuno, a nessun titolo, guardare con occhi indifferenti alla guerra». A Lombardo Radice, Gentile scriveva il 20 maggio 1915: «Dunque, ora ci siamo; e si vedrà cos’è quest’Italia e se merita di vivere!»35. La guerra segnava per il filosofo siciliano l’inizio di un nuovo periodo nella storia d’Italia. Nessuno poteva restare estraneo alla formazione del mondo nuovo. La guerra era «l’ingresso dell’Italia nella grande storia del mondo»36. Non si trattava 537
di polemizzare sui motivi ideologici o sugli interessi pratici dell’intervento. La formula unitaria dell’interventismo, come scriveva Guido De Ruggiero37, era «l’azione per l’azione»: «L’azione stessa colma il vuoto delle coscienze e dei cervelli, si crea quell’atmosfera ideale nella quale può vivere e intensificarsi. Tale idealità è la febbre dell’azione, che consuma, logora le forze e intanto crea forze sempre nuove, inesauribili». L’adesione appassionata dei gentiliani alla guerra lasciava invece freddo e diffidente Benedetto Croce. Egli cercava di salvare, nell’eccitamento delle passioni, la serena razionalità dell’intellettuale che osserva, critica, commenta gli accadimenti valutandoli col superiore equilibrio della ragione, nel primario rispetto della verità, non si lascia trascinare dalla febbre dell’azione a scelte avventate. Non a caso, però, l’atteggiamento di Croce sorprendeva e meravigliava l’amico Gentile, infervorato dall’attivismo del momento: «il da fare crescerà sempre - scriveva a Lombardo Radice il 6 luglio 191538 -. Ma bisogna fare, perché con questa guerra comincerà la nuova storia d’Italia (benché Benedetto ancora non se n’accorga) e noi dobbiamo dare la nostra piccola spinta». Il distacco fra i due numi dell’idealismo italiano, accennato già nel 1913 con la polemica sull’attualismo, si approfondì, anche senza un’immediata consapevolezza da parte loro, in seguito alla guerra o, per meglio dire, in conseguenza della diversa interpretazione che essi diedero della grande guerra, e degli accadimenti che ne seguirono. Nel caso di Croce e di Gentile, non si trattava infatti di scelte dovute a motivi contingenti, dettate cioè solo da una diversa valutazione sulle opportunità e i modi dell’intervento, ma derivarono, 538
diremmo quasi necessariamente, dalla loro diversa personalità e dall’orientamento pratico delle loro filosofie. La frattura «politica» fra Croce e Gentile, che divenne palese ed irreparabile nel 1925, iniziò proprio con la divergenza profonda del loro atteggiamento di fronte a quella guerra. Le pagine che Croce e Gentile dedicarono agli avvenimenti fra il 1915 e il 1919 rivelano già un contrasto, agli inizi forse appena avvertibile, nel modo in cui l’uno e l’altro vivono e interpretano l’esperienza della guerra, e la nuova realtà politica e sociale che, in seguito alla guerra, stava maturando. Croce, per nulla eccitato dalla guerra, la seguiva ispirando le sue osservazioni al realismo politico, che nella guerra riconosceva un momento tragico dell’eterna lotta fra i Leviatani dalle viscere di bronzo. Egli era convinto, però, che essa, come tutte le guerre, era una tragica necessità, un terremoto nella vita dei popoli, superato il quale bisognava tornare presto al costume civile, alle consuetudini pacifiche tradizionali, rinnovando, se necessario, con prudenza e misura, lo Stato liberale e la classe di governo secondo le mutate esigenze dei tempi, ma senza confondere i campi e i compiti del politico con quelli dell’uomo di cultura. Con questo atteggiamento fondamentalmente conservatore, Croce aderì alla politica di Giolitti del dopoguerra, riconoscendo in lui, alla fine, il suo ideale di uomo politico. Gentile, al contrario, fu convinto fin dall’inizio del conflitto, che la guerra avrebbe sconvolto e trasformato profondamente la vita italiana, e a questa trasformazione egli doveva prender parte, per inserire la sua opera di riforma nel gran moto di rinnovamento nazionale, iniziato dalla guerra, in un magma di passioni, di 539
sentimenti, di interessi torbidi e confusi, destinato tuttavia a dar vita a realtà nuove, in cui sarebbe stato possibile attuare la riforma politicoreligiosa per compiere l’opera di formazione della nazione italiana moderna iniziata dal Risorgimento. Con la scelta interventista, Gentile assumeva una posizione opposta a quella che aveva assunto Croce non solo per quanto riguardava il fatto della guerra in sé, ma, cosa ancor più importante, per quanto riguardava il modo di concepire il rapporto fra cultura e politica. Il neutralismo di Croce e l’interventismo di Gentile, infatti, erano due atteggiamenti che andavano al di là del problema specifico della guerra. L’una e l’altra scelta implicavano il carattere delle loro filosofie e, in senso lato, il ruolo dell’intellettuale di fronte alla politica, e in particolare di fronte a situazioni, come la guerra e ancor più, successivamente, il fenomeno fascista, che imponevano una scelta politica ed etica. In questo senso, si può dire che il rapporto fra Croce e Gentile dopo la guerra riassume la crisi dell’intellettualità borghese di ispirazione risorgimentale, di fronte alla crisi dello Stato in cui fino a quel momento essa si era riconosciuta, anche al di là delle manifestazioni di più aperta critica. La guerra aveva scavato un solco profondo e incolmabile fra il regime liberale, come si era praticamente sviluppato nel periodo giolittiano riuscendo a raccogliere attorno a sé una larga area di consenso, spesso passivo, ma limitato principalmente al mondo parlamentare, e la situazione critica del dopoguerra, in cui il problema del consenso era visto in stretta relazione con il problema della sovranità politica, messa in discussione da nuovi 540
movimenti rivoluzionari, e la ricerca di una nuova legittimazione al potere dello Stato. Da parte socialista e comunista, il problema dello Stato liberale non presentava difficoltà teoriche, perché la soluzione era coerentemente unica: distruggere lo Stato, che è per sua natura strumento di classe, e pervenire alla società senza classi in cui il problema del consenso diventa, di per sé, superfluo. Da parte «borghese», invece, le risposte erano diverse. Vi era, ad esempio, la posizione di Piero Gobetti, il quale cercava di conciliare il problema della sovranità politica con l’ascesa delle masse popolari attraverso le loro aristocrazie che, in quanto portatrici di modernità, avrebbero svolto una funzione essenzialmente liberale. Vi erano i liberali democratici e dei socialisti riformisti, i quali si incontravano sul comune terreno di un empirismo sensibile ai nuovi problemi della società di massa, che intendevano affrontare salvaguardando però le conquiste fondamentali dello Stato liberale. E vi erano, infine, i nazionalisti, per i quali il problema del consenso era subordinato al progetto di restaurazione senza limiti della autorità dello Stato, organizzazione quasi naturale della collettività nella perpetua lotta fra le nazioni, e come tale quindi indifferente sostanzialmente a qualsiasi tipo di legittimazione, che non fosse la pura e semplice affermazione della sua sovranità attraverso la forza. Nell’ambito di queste posizioni borghesi, genericamente delineate, si inseriva il dibattito fra le diverse correnti fasciste e lo stesso idealismo gentiliano. Il loro motivo comune era che la legittimità del potere politico del nuovo Stato nasceva dalla partecipazione alla guerra: il problema della sovranità, da lungo tempo dibattuto da giuristi, filosofi e politici nella sfera teorica, era stato risolto, 541
nella pratica, con l’affermazione violenta del fascismo, in quanto esso era ed operava come vero Stato nello Stato, e non solo in quanto strumento di restaurazione dello Stato liberale. L’atteggiamento interventista di Gentile, con lo sviluppo ideologico che ebbe negli anni successivi alla fine della guerra fino alla sua adesione al fascismo, appariva ai suoi seguaci più politicamente impegnati rivolto piuttosto a ricostituire su nuove fondamenta lo Stato, che a riparare il vecchio Stato liberale, al quale rimaneva legato Croce. Agli intellettuali idealisti la posizione di Gentile apparve animata da uno spirito «rivoluzionario» perché aperta al futuro e alla possibilità di innovazioni radicali39. Molto significativo, in questo senso, è quanto scrisse «Levana», una rivista pedagogica di ispirazione gentiliana, diretta da Ernesto Codignola, nell’ottobre del ’22. Salutando l’ingresso di Gentile nel governo mussoliniano, la rivista presentava la figura del filosofo insistendo non tanto sul carattere specifico della sua attività politica quanto sull’«immenso afflato spirituale che coll’energia d’un riformatore religioso egli ha trasfuso nella scuola, nella vita, in tutte le esauste vene della società italiana spossata dallo sforzo del Risorgimento»: Programmi? Progetti? Disegni di legge? Farebbe ridere discuterne, adesso. Giovanni Gentile è, lui, il programma vivente […]. Chi ha bisogno comunque di un programma, ripetiamolo pure, rilegga in questi giorni le opere del Gentile […]. Leggano, le anime timorose del fascismo, Guerra e fede, e Dopo la “Vittoria : gli articoli politici dell’attuale ministro dell’istruzione. Vedranno come, negli anni della guerra, e nell’infausto periodo socialnittiano del dopoguerra, Giovanni Gentile si ergesse gigante pur su uomini che come il Salvemini, il Missiroli, il Prezzolini si lasciavano, nonostante le loro innegabili doti e i loro indiscussi meriti, bocciare chi per un verso e chi per l’altro a quel gigantesco esame di maturità che fu per i politici la guerra europea con tutti
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i fenomeni sociali ad essa succeduti. Unico, Giovanni Gentile non si lasciò impigliare nelle reti del filo-socialismo, della democrazia, della politica rinunciataria, del liberalismo sinistroide all’acqua di rose: unico sopportò, senza ostentazioni ma con tranquilla fermezza, le accuse di uomo arretrato, di nazionalista, di reazionario. Persino Benedetto Croce non seppe spogliarsi, in quanto politico, di un residuo di mentalità liberale vecchia: potè trovarsi al suo posto in un ministero Giolitti perché un certo temperamento di gran signore scettico lo portava, in ultima analisi, a non avere gran fede né nella scuola, né, in genere, nel rinnovamento nazionale per opera delle forze antidemocratiche allora in oscuro fermento nell’ombra. (E ciò si affermi senza venir meno in nulla al rispetto dovuto a questo grande fratello spirituale del Gentile. Lo ha detto anche lui: non omnes possumus omnia. Croce è vero educatore fuori della scuola). Ma il Gentile che nessun Giolitti avrebbe mai chiamato al potere è al suo posto, oggi, nel ministero fascista. Si narra a questo proposito un episodio che, se non è autentico, è benissimo trovato come simbolo della situazione presente. Quando Gentile venne incluso nella Usta del ministero fascista, Mussolini tagliò corto agli stupori e alle passioni contro tale scelta con questa secca affermazione: «Su Gentile non posso transigere. E stato mio maestro». Era verissimo! Il Gentile che aveva scritto gli articoli di Guerra e fede era stato il maestro dell’uomo che, direttore del «Popolo d’Italia» ai tempi di Nitti, osava scrivere 40. l’articolo Il ministro della fogna
Il Gentile che aderì al fascismo, dunque, non era tanto il filosofo teorico dell’attualismo, quanto il pensatore politico, che aveva elaborato i temi della sua ideologia negli anni della guerra e soprattutto dopo la crisi di Caporetto. Abbiamo già visto che, tra i miti del dopoguerra, Gentile aveva accolto il mito della guerra come rivoluzione, col dualismo tipico delle situazioni rivoluzionarie, cioè lo scontro di due categorie storiche assolute, fra di loro inconciliabili e fatalmente destinate ad urtarsi in uno scontro in cui l’una doveva eliminare l’altra, senza compromessi e transigenze. Tali categorie, per Gentile, erano politicamente rappresentate dall’interventismo e dal giolittismo: in esse, egli vedeva riassunti, simbolicamente, al di là delle singole esperienze e dei singoli protagonisti, i 543
pregi e i vizi della storia italiana, dal Risorgimento alla guerra. Vi è uno svolgimento unitario e coerente nel pensiero politico di Gentile, espresso attraverso gli articoli raccolti nei due volumi Guerra e fede e Dopo la vittoria, fino ai numerosi scritti e discorsi dedicati, fra il 1923 e il 1925, all’interpretazione del fenomeno fascista. Anche in questa fase dello svolgimento del pensiero gentiliano si collocano, e acquistano particolare importanza, gli scritti che Gentile dedicò al pensiero politico di Dante, di Alfieri, di Mazzini, di Gioberti considerati quali rappresentanti di una tradizione unitaria nazionale del pensiero polìtico, da cui Gentile derivò la sua concezione politico-religiosa della «rivoluzione italia-na» e la sua interpretazione del fascismo come compimento del Risorgimento. L’universo ideologico gentiliano venne popolandosi, negli anni fra la fine della guerra e l’avvento del fascismo, di «figurazioni ideali» alle quali egli faceva corrispondere, nella realtà, personalità storiche individuali, anche se tali personalità non esaurivano in sé e nella propria opera il contenuto ideale di queste «figurazioni ideali». Secondo Gentile, infatti, dietro le persone, i partiti, le forze sociali, vi erano idee storiche di cui persone, partiti e forze sociali erano una particolare ma non definitiva determinazione: «dietro le persone voi trovate sempre idee, che sono metodi, ossia indirizzi già reali, con radici profonde nel saldo terreno della storia, che non è opera d’individui particolari, quantunque essi vi lavorino»41. Le personalità e le forze politiche valgono per le idee che rappresentano e soltanto in queste idee trovano un significato storico. L’interpretazione gentiliana del fascismo si svolge nell’ambito di questa visione idealistica della lotta politica. Ciò spiega non solo il tono astratto e lo scarso 544
realismo che caratterizza il pensiero politico gentiliano nella valutazione delle situazioni concrete, ma aiuta anche a comprendere le conseguenze di questo atteggiamento, che condusse il filosofo - animato da intransigente coerenza e con indiscussa fede nel valore delle proprie idee per il bene della patria - a giustificare azioni, personaggi e metodi aberranti del fascismo, alla luce di quei valori ideali di cui questo, malgrado le sue pratiche manifestazioni, secondo Gentile era portatore. Da parte del filosofo, tuttavia, non vi fu alcun ingenuo travisamento o illusione sulla natura reale del fascismo. Egli riconosceva il fascismo per quel che era e, nonostante ciò, lo giustificava in virtù della sua concezione attualista della politica, secondo cui la realtà non è il determinato, il particolare, il fatto ma è attività volta al futuro, processo di attuazione di un’idealità universale mai esauribile in una particolare situazione storica. L’atteggiamento di Gentile di fronte al fascismo era coerente con uno degli elementi fondamentali del suo pensiero politico, cioè la concezione religiosa e totalitaria della politica e dello Stato, attuazione concreta e storicamente determinata di una volontà universale, di fronte alla quale l’individuo deve scomparire, come affermazione egoistica, sacrificandosi, religiosamente, all’idea che lo trascende, e che, attraverso il sacrificio e l’abnegazione individuale, si realizza. Nell’affrontare nel 1920, col primo dei suoi Discorsi di religione il problema politico, Gentile riassumeva in questi termini la sua teologia politica: Ma questa virtù d’abnegazione e di sacrificio, questa devozione alla legge e all’ideale, questo ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e trascende, questo è ed è stato sempre, quantunque in forme sempre diverse, la religione. Se vogliamo
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pensare seriamente, e pagare di persona le nostre idee, e queste idee portare nella vita e combattere perché esse trionfino, se vogliamo non dire soltanto ma fare, se sdegniamo il vile abito di una cosa dire e un’altra farne, se ci preme di ristaurare la vita, come tutti sentiamo il bisogno di assicurarla, il nostro pensiero non può non essere religioso, la nostra azione non può non essere compenetrata dal senso del divino. E se la nostra azione è azione politica o Stato, il nostro Stato conviene pure che sia governato da uno spirito schiettamente e profondamente religioso. La sua religiosità è la sua serietà, la sua solidità spirituale, la sua consistenza: quella virtù insomma, per cui si dice e si fa sul serio a questo mondo quello in cui abbiamo fede. Lo Stato, poniamo, fa eseguire le leggi e amministra la giustizia. Secondo che fa o no sul serio, le sue leggi sono o non sono eseguite; la giustizia è o non è amministrata; è o non è Stato. Non già che una legge sia tale soltanto se rigida d’un rigore come di legge naturale, secondo pensava il Rousseau: ma anche la legge che l’uomo deve temperare, giunta a quel grado di temperamento di cui è capace, bisogna pur che s’irrigidisca, e si applichi, e sia legge, limite dell’arbitrio. Lo Stato insegna, lo Stato amministra, ha servizi pubblici. In tutte le sue funzioni, grandi o piccole, deve sapere d’essere in faccia, in ogni istante della sua vita concreta, a un dovere, che non è astratta moralità, anzi è la concretezza della sua storica attualità, dove ogni atto è un omaggio a un’ideale assoluto. Tale religiosità non può essere dello Stato, se non è del popolo, cioè dell’individuo, in cui lo Stato ha coscienza di sé, e quindi realtà. E se lo Stato non dev’essere qualche cosa di astratto e di utopico, ma la forma concreta della vita d’un popolo, nello Stato - per esempio, nella sua cultura, com’è rappresentata nella scuola - non è realizzabile forma religiosa, che non abbia radice nella coscienza popolare42.
Per Gentile, il principale problema politico dell’Italia, dopo la guerra, cioè la formazione di una coscienza nazionale e l’affermazione della sovranità dello Stato, era essenzialmente problema morale e religioso, e, come tale, si ricollegava al motivo ideale e politico fondamentale del Risorgimento: un processo scaturito, secondo Gentile, dalla reazione romantica al materialismo e all’individualismo della Rivoluzione francese, e sempre caratterizzato, durante il suo svolgimento, da una forte ispirazione morale, attraverso il pensiero di Mazzini, di Capponi, di Rosmini, di Manzoni, di 546
Gioberti, accomunati, pur nella diversità delle loro idee, dalla convinzione, che il fine essenziale della rinascita politica italiana risiedeva nel problema religioso, nella formazione di un carattere nazionale serio e attivo, consapevole della propria unità nazionale come missione e come dovere. La rinascita dello spirito religioso nella politica, iniziata con l’interventismo e proseguita dal fascismo, doveva addivenire alla creazione dello Stato nuovo non come una machiavelliana opera d’arte, frutto di astuzia e di forza, ma come istituzione etica, emanante da sé autorità, religiosità, moralità, «ristorazione veramente politica, epperò generatrice delle energie morali», «una realtà morale, una sostanza da realizzarsi dal libero volere etico, cui non è dato prescindere da un concetto religioso della vita»43. Sull’aspetto religioso della politica Gentile aveva insistito più volte nei suoi articoli politici. In uno di questi in particolare, La profezia di Dante11, egli partiva dalla definizione dantesca dello Stato («unum velie, unum nolle») per affermare che lo Stato non poteva essere indifferente di fronte al problema religioso e spirituale né poteva lasciare vivere, all’interno della sua insopprimibile unità, un altro potere indipendente e sovrano come la Chiesa. La sovranità non poteva essere che unica, come unica era la volontà dello Stato. Secondo Gentile, nel definire il carattere religioso dello Stato Dante aveva anticipato il problema che, nel Risorgimento, inquietò l’animo e la mente di Cavour e di Ricasoli, i quali non consideravano possibile l’agnosticismo dello Stato e la sua contrapposizione alla Chiesa. «Lo Stato come volontà - questa divina realtà spirituale che l’uomo attua nella vita civile - non può incontrare ostacoli, che ne 547
limitino la libertà, recidendola quindi alla radice». La sovranità dello Stato, secondo Gentile, non poteva essere che sovranità assoluta, in quanto manifestazione di una volontà che non può non essere unica, e non può ammettere, nella sfera del suo imperio, altra volontà, che la limiti o la contraddica. Ma era proprio in questa idea dello Stato, «totalitario» perché religioso nella sua funzione essenziale, che il filosofo vedeva l’ideale politico dell’Italia nuova, nel momento in cui la guerra sembrava dare agli italiani la loro coscienza nazionale: Questo è oggi il nostro ideale: potrei dire il nostro Stato, avvertendo che lo Stato, al modo stesso d’ogni realtà etica, non è per l’appunto quello che c’è, ma quello che si costruisce, quello che noi politicamente sempre lavoriamo a costruire, senza poter dire mai di avere bella e compiuta l’opera nostra: l’idea, per cui lottiamo, per cui diamo anche la vita torcendo lo sguardo dai difetti degli istituti e degli uomini in cui essa s’incarna - se non fosse per colmarli col senso vivo e operoso del nostro ideale. Questa fu la profezia di Dante: uno Stato intimamente religioso perché libero dalla Chiesa, indipendente, potenza illimitata: e però una Chiesa povera, cioè spirituale, ed alimentatrice di quella vita etica, che nello Stato trova la sua attualità e la sua tutela.
La definizione del fondamento religioso e spirituale dello Stato, e l’affermazione della sovranità statale come potere unico ed assoluto di decisione, collocava Gentile in una posizione distante tanto dalla concezione del liberalismo democratico quanto dalla concezione dei nazionalisti. Infatti, sulla base della concezione totalitaria dello Stato e della politica in senso spiritualista, Gentile criticava con molto vigore non solo le ideologie politiche che si ispiravano ad una concezione individualista e contrattuale dello Stato, ma criticava anche, con eguale vigore, quelle ideologie che volevano restaurare la sovranità dello Stato fondandola sul presupposto di un’unità naturale della società nazionale, 548
mirando alla costruzione di un ordine autoritario rigidamente fisso in strutture di potere che subordinavano la massa dei governati ai governanti. Nel pensiero di Gentile il tema centrale dello Stato era indissolubilmente connesso col tema della nazione, da lui definita non come realtà naturale, antropologica o razziale, ma come coscienza di una missione e di una volontà comune, in cui pienamente l’individuo si riconosce, perché la nazione, secondo la definizione gentiliana, non è al di fuori ma dentro la coscienza individuale. Sia il tema dello Stato sia il tema della nazione, concepiti come attuazione inesauribile dell’attività spirituale, erano ritrovati da Gentile nel pensiero di Gioberti e, soprattutto, di Mazzini, ai quali dedicò due saggi nel 1919, raccolti successivamente nel 1923 nel volume I profeti del Risorgimento italiano. Il volume era dedicato a Mussolini, «italiano di razza / degno di ascoltare / la voce dei profeti della nuova Italia»45. Gentile rivalutava l’aspetto profeticoreligioso del pensiero mazziniano e, in polemica con le interpretazioni di studiosi come Salvemini e Levi, che negavano a Mazzini un pensiero organico e coerente o lo consideravano apostolo di democraticismo, ne faceva risaltare i caratteri antidemocratici e totalitari. Egli accettava la concezione mazziniana della vita come missione, della morale come dovere, della politica come grande pedagogia e fede religiosa «poiché (Mazzini) la politica concepisce come creazione di un’unità superiore agl’individui, e realizzatrice dei valori morali che s’affermano nella vita sociale»46. Infine, Gentile assumeva pienamente la concezione della vita come vita sociale, in cui l’individuo annulla il suo particolare e partecipa con senso del dovere all’opera collettiva. 549
Dal carattere religioso della politica derivava, secondo Gentile, l’impossibilità del neutralismo e dell’individualismo. L’elemento fondamentale del pensiero politico-religioso del Mazzini gentiliano era l’antiindividualismo e la concezione della nazione come unità morale storicamente determinata ma reale soltanto come coscienza collettiva in funzione di una missione, attuazione di un’idea che non si esaurisce mai nel «fatto» ma sempre lo supera col «fare» continuo di una incessante attività, che è essenza e vita dello spirito. Le nazioni, nella concezione mazziniana-gentiliana, erano lo spirito umano nel divenire della sua concretezza storica «che non è astratta individualità, né solidarietà statica e già realizzata: ma formazione di sé, o, come dice il Mazzini, progresso, inconcepibile se la realtà, per alta che sia, non debba sempre, necessariamente, commisurarsi a un’idea superiore, alla quale la realtà stessa abbia quindi ad elevarsi»47. L’idea di nazione, nel pensiero gentiliano, acquistava i caratteri d’una realtà dinamica e spirituale rivolta verso il futuro; come tale, essa non era in alcun modo assimilabile all’idea di nazione, come realtà etnico-naturale, che era alla base del nazionalismo e dell’autoritarismo di Rocco. Fin dal 1917, in polemica con Corradini, Gentile aveva deriso il nazionalismo di questi, che minacciava «di uccidere quell’idea di nazione, che profondamente era piantata e viveva nella sana coscienza d’ogni buon patriota»48, proponendo un concetto di nazione che, nel suo gretto egoismo conservatore, avrebbe fatto d’ogni uomo una sorta di cams nationalis: «Il quale, se esistesse veramente, significherebbe […] la fine d’ogni cultura e d’ogni vita del pensiero: che non può aver valore spirituale, se non è 550
universale: Cams nationalis, asinus universalis». Secondo Gentile: il concetto di nazione, da cui muove il nazionalismo, è effettivamente naturalistico, non solo quando presuppone la nazione come un fatto naturale, antropologico o etnografico; ma anche quando la considera bensì come una formazione storica, ma come una formazione già esistente in virtù di un processo, che venga egualmente presupposto. […] Concetto naturalistico, ripeto, se si parla di processo storico delle nazionalità, come di un che già esistente e fondamento della vita morale e politica dell’individuo; poiché naturalismo è ogni concezione dell’uomo come condizionato o da quel che si dice ordinariamente natura, sistema di forze inferiori e anteriori a ogni attività specificamente umana; ovvero da quella realtà, che è dovuta all’opera umana, ma ad un’opera che è già esaurita e fissata nei suoi effetti, costituenti una seconda natura, anch’essa parimenti anteriore alla nuova attività umana […]. Or bene, una nazione determinata da certi caratteri della struttura cranica, o della lingua, o della religione, o dal complesso della tradizione storica propria d’un popolo è una cosa - posto pure che sia determinabile - priva affatto d’ogni valore. E un fatto bruto, che non può essere per l’individuo, conscio della libertà essenziale al suo essere di spirito, se non quella catena che esso deve spezzare per essere uomo per davvero e vivere la libera vita dello spirito49.
La nazione era una realtà storica, ma la storia, per Gentile, era divenire del reale immanente alla coscienza, come lo erano gli elementi - lingua, religione, tradizione, nazionalità - che caratterizzano l’appartenenza ad una nazione: La storia, sì certamente, è alla base del nostro essere di uomini consapevoli di questo loro essere, che è il loro formarsi. Ma questa storia non è un dato, né un fatto: essa è un atto; è quel fatto che noi facciamo, ricostruendolo e rimettendolo per tal modo innanzi a noi. In conclusione, non è la personalità in funzione della storia, ma la storia in funzione della personalità […]. La nazione non c’è, se non in quanto si fa: ed è quella che la facciamo noi col nostro serio lavoro, coi nostri sforzi, non credendo mai che essa ci sia già, anzi pensando proprio il contrario: che essa non c’è mai e rimane sempre da creare50.
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La concezione gentiliana della vita sociale - immanentista, storicista, attivista e totalitaria - oltre a differenziarsi nettamente dalla concezione «naturalistica» del nazionalismo, era altresì in antitesi con la concezione dei liberalismo democratico d’origine illuminista, secondo cui il dato iniziale e fondamentale della vita sociale era l’individuo come particolarità insuperabile e insolubile in un’unità sociale superiore31. Di fronte all’individuo isolato nella ricerca e nella soddisfazione del suo interesse particolare e utilitario, si ergeva - nella rappresentazione del liberalismo democratico - lo Stato non come espressione di una volontà totalitaria, immanente agli individui, e come sovranità assoluta, ma come un potere ostile ed estraneo ad essi, come sovranità incerta e debole perché continuamente contestata e limitata dalla libertà individualistica, e da questa continuamente rimessa in discussione. L’individualismo, ripeteva Gentile da Mazzini, era di per sé materialismo, perché materialista era qualsiasi concezione della so-cietà come insieme di individui fra loro atomisticamente divisi e contrastanti. Fin dal compimento dell’unità, la vita italiana, secondo Gentile, era stata dominata dall’individualismo materialistico e dagli atteggiamenti mentali che ne derivavano, come la mancanza di fede, il diffondersi della mentalità utilitarista, l’agnosticismo, il neutralismo, il divorzio fra cultura e politica, la continua e crescente lotta fra gruppi e classi, la crisi della sovranità statale. Tutto ciò, secondo Gentile, era conseguenza del sopravvento che le ideologie democratiche e individualiste avevano preso nella vita e nella cultura politica italiana, soprattutto durante il 552
periodo giolittiano. La guerra aveva posto un freno a questo processo di degenerazione, che Gentile riassumeva nel termine giolittismo, ed aveva dato vita a quelle forze di reazione antidemocratica e di restaurazione dello Stato che, dopo la «marcia su Roma», Gentile identificò senz’altro col fascismo. Nel fascismo, secondo il filosofo, prendeva nuova forma la tradizione del liberalismo di destra che aveva centrato nel mito dello Stato l’intero problema della rinascita politica dell’Italia52. Il pensiero politico gentiliano - che abbiamo riassunto nei suoi temi fondamentali - era un sistema organico di idee sul problema della politica italiana, sul significato e sul valore della storia d’Italia dal Settecento fino al primo dopoguerra: un sistema che si era formato prima del fascismo e indipendentemente dallo sviluppo di questo movimento prima della «marcia su Roma». Tuttavia, da quanto abbiamo detto finora e avendo presente quello che è stato lo sviluppo storico dell’ideologia fascista, non può non colpire, nel loro rispettivo svolgimento, l’analogia (non altro che analogia!) fra il pensiero politico gentiliano e l’ideologia di Mussolini. Inoltre, come notò Pellizzi, nella concezione gentiliana vi erano molte idee che corrispondevano a quanto il fascismo veniva proponendo, in maniera torbida e confusa, e con metodi violenti, come concezione una nuova politica di rigenerazione nazionale. Se fino alla «marcia su Roma» Gentile aveva ignorato il fascismo e il suo duce, la conquista fascista del potere (al di là della accettazione, da parte di Mussolini, della riforma idealistica della scuola) convinse il filosofo della «effettualità» del fascismo come movimento politico che, nella pratica, corrispondeva alle sue idee politiche. Nel 553
fascismo - che aveva sconfitto sul piano dell’azione le persone e i partiti nei quali Gentile identificava la concretizzazione storica della mentalità democratica, cioè il giolittismo - il filosofo vedeva affermati quei caratteri di attivismo, di dedizione ad un’idea, di coscienza nazionale, di senso dello Stato, che egli aveva prefigurato come elementi essenziali per la rinascita dell’Italia e per la realizzazione della riforma politico-religiosa degli italiani. In questo senso, Gentile riteneva di poter riscontrare l’esistenza di una ideale continuità fra la tradizione risorgimentale liberale e il fascismo: per lui, tuttavia, il fascismo non era solo una salutare restaurazione del vecchio ordine, come volevano i liberali conservatori, ma rappresentava il superamento di quella tradizione, superata in quanto sviluppata e realizzata in una forma ulteriore di affermazione della sovranità dello Stato come totalità morale. Per Gentile, il significato storico del fascismo, pertanto, non andava ricercato nell’antitesi fra reazione e rivoluzione perché tanto l’idea di reazione quanto quella di rivoluzione erano idee astratte, derivanti cioè da una concezione antistoricista e materia-lista del divenire storico. La reazione, infatti, pretendeva di arrestare e cristallizzare in determinate forme e istituti storici lo svolgimento della storia che, in quanto attuazione dello spirito, non poteva non essere infinita e non avere mai compimento in una forma data. D’altro canto la rivoluzione, così come era stata concepita dagli illuministi e come era concepita dai socialisti, cadeva nell’illusione opposta, nel credere di poter arrestare lo svolgimento storico e di segnare in esso una frattura per rigenerare l’uomo con l’avvento di una nuova epoca del tutto liberata dalla tradizione, un’epoca che 554
avrebbe dovuto iniziare quasi da uno stato di verginità naturale della coscienza. L’una e l’altra idea, prese di per sé, erano incompatibili con una concezione idealista e storicista della vita. Per l’idealismo, il divenire storico non era né pura conservazione del passato né totale ripudio di questo, ma realizzazione e svolgimento, continuità e innovazione dialetticamente unite. Il vero realismo politico doveva ispirarsi a questa concezione della storia, che si richiamava a Gioberti: «per lui - scriveva Gentile - la storia è svolgimento, e niente è storicamente possibile, che non s’innesti nello stesso processo storico, così com’è, a un certo punto dell’esistenza». Una simile concezione «non è storia idealizzata, ma la storia qual è, nella dialettica immanente delle sue forze»53. Nell’ambito di questa visione della storia, all’idea di rivoluzione, come superamento di una situazione storica mediante un taglio radicale col passato, doveva essere sostituita, secondo Gentile, l’idea di Riforma, di Risorgimento: soltanto questa idea poteva ispirare una politica realistica di rinnovamento profondo, ma senza pretendere di recidere del tutto, antistoricamente, i legami con la tradizione54. Vero realismo politico, per Gentile, era appunto la capacità di combinare, a seconda delle situazioni, elementi di conservazione ed elementi di innovazione, non in maniera semplicemente prammatica, ma con la consapevolezza del divenire dialettico della storia. E poiché lo spirito si attuava nella storia attraverso popoli e nazioni, Gentile concludeva che il realismo politico non poteva prescindere dalla realtà nazionale «nel complesso dei rapporti concreti di cui consta», per cui la nazionalità non è un carattere naturale e immediato, ma il processo dinamico di svolgimento di un popolo, che conquista e realizza la propria autonomia,
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contemperando insieme il proprio essere di fatto (la propria capacità e le proprie forze) e l’idealità dei fini immanenti a cui le forze devono essere indirizzate55.
Gentile interpretò la funzione storica del fascismo secondo la sua concezione politica, ritenendo di veder concretizzate in un movimento e in una personalità Mussolini - le «figurazioni ideali» della politica della nuova Italia, da lui elaborate dopo la guerra. La via indicata dalla sua interpretazione non tendeva tuttavia a definire il fascismo come filosofia o come sistema organico di idee. Anche per Gentile, come per altri intellettuali fascisti, il fascismo era definibile come una politica nuova, come un metodo di vita, come un fenomeno storico dai caratteri mobili e ancora imprecisi, scaturito da esigenze profonde della risorta coscienza nazionale: un fenomeno simile, per certi versi, al Risorgimento e perciò, come questo, non esauribile in una qualsiasi formula ideologica o filosofica, e neppure identificabile del tutto col partito fascista. In tal modo, il fascismo, per parte sua, riceveva dal pensiero politico gentiliano la più coerente e congeniale giustificazione ideologica per la sua azione che voleva essere insieme conservatrice e rivoluzionaria, agire nel solco della tradizione ma avendo lo sguardo proiettato verso il futuro, verso la creazione di nuove realtà storiche. L’attualismo di Gentile contribuì a rinvigorire l’attivismo fascista ma servì anche a liberare il fascismo dall’accusa di movimento spregiatore della cultura, e ad innestare in esso i problemi della società italiana, ai quali il pensiero idealistico, a modo suo, aveva dato soluzione. Il primo proposito dell’interpretazione gentiliana, infatti, fu di sottrarre il fascismo alla condizione di fenomeno 556
occasionale, sorto per ragioni contingenti, presentandolo invece come lo sbocco conclusivo e la concretizzazione di un movimento di pensiero che risaliva all’inizio del Novecento. Nel fascismo, affermava Gentile, confluiva «il movimento ideale italiano del primo ventennio del nostro secolo», vale a dire la reazione alle ideologie democratiche, socialiste e positiviste che si era manifestata attraverso la filosofia idealista, la ripresa dei sentimenti religiosi, il sindacalismo soreliano e l’interventismo56. Muovendo da questa valutazione generica, che in effetti non precisava quali erano i compiti del fascismo né spiegava il significato storico e politico della sua azione per il futuro, Gentile tornò più volte, nel 1924 e nel 1925, e in maniera più distesa, a trattare il tema del fascismo dal punto di vista della interpretazione storica e della giustificazione ideologica, cercando anche di definire le linee generali della funzione che la sua politica doveva svolgere nella vita italiana. L’interpretazione gentiliana del fascismo si svolse su tre temi fondamentali: la considerazione del fascismo come atteggiamento spirituale di fronte alla vita; la sua relazione con il liberalismo e col socialismo; la sua azione per lo Stato nuovo. Secondo Gentile, il fascismo aveva riportato nella vita politica il carattere «religioso» che ad essa era essenziale: religioso nel senso di aver introdotto nella lotta politica la fede intransigente ed intollerante, la capacità di sacrificio del proprio particolare all’interesse nazionale, la volontà di lotta ideale e di partecipazione totale alla vita sociale. Nessuna esitazione teorica ebbe Gentile per giustificare la violenza fascista, considerata ora come vichiana barbarie rigeneratrice, fondatrice d’un ordine 557
nuovo, ora come conseguenza di quella unità di pensiero ed azione che l’idealismo aveva ristabilito nel pensiero e il fascismo nella pratica57. Nell’attivismo fascista, Gentile credeva di scorgere, trapiantato nella politica, un atteggiamento attualista di fronte alla realtà, per cui la realtà era creazione dell’attività dello spirito. Per questo suo attivismo, il fascismo non poteva conciliarsi con una filosofia concepita alla maniera intellettualistica, cioè come pensiero separato e precedente l’azione, aleggiante al di sopra delle passioni umane e delle lotte, in un sereno olimpo di neutralità contemplativa. Il fascismo, con la sua azione violenta, aveva riportato la necessità dell’impegno, costringendo tutti a prendere posizione, spingendo il filosofo ad uscire dagli studi solitari e tranquilli, per vivere la propria filosofia nell’impegno e nella lotta. Anche in ciò, Gentile vedeva il ca-rattere «religioso» introdotto dal fascismo nella lotta politica, imponendo scelte inesorabili che dividevano gli italiani, distruggendo anche antichi affetti e consuetudini di lunghe amicizie58. Il fascismo, insomma, restaurava la fede intransigente e fanatica, combattendo nella politica, come nella scuola, l’agnosticismo e il neutralismo, perché erano atteggiamenti che allontanavano dall’impegno nella vita e nella società, abituando allo scetticismo, al rifiuto di giudicare, e cioè di decidere, di scegliere, di parteggiare, con la «conseguente rinunzia a impegnarsi con l’azione per l’uno o per l’altro concetto, programma o partito». Questo neutralismo era «separazione della personalità dalla vita, che può essere elevata e generosa quanto si voglia e ispirata alle più larghe concezioni possibili, ma non si può vivere se non secondo determinati partiti e correnti sociali»59. Neutrale, in questo 558
senso, era stato per secoli il carattere degli italiani, scettici e indifferenti, nella vecchia Italia dell’individualismo, fino al Risorgimento60, quando cioè l’uomo non era considerato vivente nella società, con la sua personalità «innestata nel mondo sociale a cui ciascuno appartiene, in cui soltanto può vivere coi suoi interessi umani, con la sua famiglia, con la sua fede di uomo morale che ha dei doveri, un programma da realizzare, una verità da professare». L’italiano «neutrale» era l’«uomo guicciardiniano», chiuso nell’intimo del suo interesse particolare, isolato nella società, impegnato solo per trarne vantaggio o per imporre la propria individualità, ma non per attuare un’idea che lo trascendeva, per vedere nella vita una missione devoluta alla società in cui viveva. Con il Risorgimento era ricomparso, nella vita italiana, l‘uomo, cioè il carattere, la fede, il sentimento della vita come dovere e missione. L’ideale dell’italiano nuovo, da Alfieri a Mazzini era, secondo Gentile, realizzato nella gioventù fascista, «gioventù ideale di quest’Italia, che è fatta e dev’essere ancora fatta». Il tipo dell’italiano nuovo immaginato da Gentile era Mussolini: «il temperamento di Mussolini coincide con quello di Mazzini»61. Nella concezione fascista di Gentile, Mussolini acquistava un ruolo di grande significato: il duce era l’uomo, la personalità «cosmico-storica» in cui si realizzava lo spirito del mondo62: e in Mussolini era espressa l’essenza del fascismo. Il duce assumeva un significato determinante e fondamentale perché egli era «una dottrina vivente»; attraverso la sua azione l’idea si formulava e si trasformava in forza sociale e politica, in passione di massa e opera di governo63. Così Mussolini entrava nell’universo delle «figurazioni ideali» di Gentile, dove le personalità non erano altro che 559
incarnazione storica delle idee. L’idea fascista diventava realtà attraverso la personalità di Mussolini, «un uomo, un eroe, uno spirito privilegiato e provvidenziale, in cui il pensiero s’è incarnato, e vibra incessantemente col ritmo potente d’una vita giovanile in pieno rigoglio»64. Mussolini era tutt’uno col fascismo, era l’espressione insostituibile di una fede delle masse; una fede, avvertiva Gentile, che non doveva per forza definirsi in una dottrina. Le formule sono necessarie per definire gli amici e i nemici, affermava Gentile, ma nulla possono per trascinare le masse se non acquistano un fascino emotivo attraverso l’opera di un duce: solo in tal modo le formule, affermava Gentile echeggiando il mito soreliano, diventano forza d’azione: Creano miti, suscitano consensi e adesioni cieche, globali, mettono in moto le forze del sentimento e della volontà, rendendo possibili quei grandi fasci d’uomini che rovesciano posizioni storiche secolari, strumenti animati dal pensiero, che si annida e vive in pochi spiriti guidatori, anzi in uno, che è il Duce. Ma questo pensiero è vivo in colui che guida e nei molti che se ne fanno strumento. A questa condizione è un pensiero vivo, vero, aderente alla storia di cui è prodotto e principio, da cui è nato e su cui reagisce in un processo che non è mai compiuto ed esaurito65.
La condanna dell’agnosticismo di fronte ai problemi della vita sociale e politica, e l’ideale di un’esistenza dedita assolutamente, in modo fanatico e totalitario, alla vita della nazione, erano una critica rivolta in particolare al tipo di liberalismo quale, secondo Gentile, si era affermato in Italia dopo l’unità, sul modello di quello individualista inglese e razionalista francese. Come già si è detto, la condanna di questo liberalismo verteva sul concetto individualista della società, cioè sulla limitazione della società e dello Stato a vantaggio dell’individuo. La libertà, qual era concepita da 560
questo liberalismo, era un dato inerente alla natura dell’individuo, quasi una corazza protettiva che lo difendeva dalla società e dallo Stato, verso i quali l’individuo doveva rivendicare la propria autonomia. Tale concezione, secondo il filosofo, presupponeva un individuo astratto, isolato e preesistente allo Stato e alla società: una concezione che Gentile condannava perché materialista, giungendo fino a negare l’esistenza stessa dell’individuo in quanto entità a sé stante: «L’individuo particolare è un prodotto dell’immaginazione […] circoscritto dentro gli estremi limiti della nascita e della morte e nel breve confino della sua personalità fisica»66. Richiamandosi alla dottrina dello Stato etico tedesco e alla tradizione del pensiero italiano da Vico a Gioberti, Gentile affermava che non era possibile concepire un individuo preesistente alla società e presupposto allo Stato, quasi fosse possibile astrarlo dalla storia in cui si trova determinato: «tutto ciò che è umano è sociale e storico». L’individuo, così come appare nella sua materiale particolarità, era un prodotto della società e della storia. Lo Stato espressione storica più alta della volontà sociale, non poteva esser estraneo all’individuo né essere contro di lui, ma coincidere, nella sua essenza ideale, con l’individuo: Nel lento e tragico travaglio della storia l’uomo diventa uomo: e la sua libertà, che è la sua stessa essenza spirituale, non può essere un presupposto, anzi piuttosto il risultato della vita che egli viene vivendo attraverso i rapporti onde via via integra e attua se stesso nella società. La quale, in quanto unifica sotto una legge e un potere comune, ossia in una sola volontà, è lo Stato. Questo perciò non è nulla di estrinseco e sovraggiunto all’individuo: è la sua concretezza. È cioè quel sistema organico, dal quale tutto ciò che si divida ed apparti, cade nel nulla67.
Ora, nel mondo della politica, il fascismo rifletteva 561
appunto la reazione a questo tipo di liberalismo, mentre sosteneva l’ideale dello Stato etico che era stato al centro della riflessione del liberalismo di destra, quel liberalismo che, secondo Gentile, era giusto chiamare fascismo. L’esigenza della libertà, per cui il liberalismo non può che assumere un atteggiamento polemico nei confronti del potere per difendere l’integrità dell’individuo, veniva messa in ombra da Gentile per riaffermare il senso dello Stato. È vero che, secondo il filosofo, la libertà era la concreta vita dell’uomo all’interno dello Stato, realizzata e conquistata continua-mente dall’individuo che sente nell’intimo della sua coscienza lo Stato: ma nella realtà pratica, l’accento cadeva piuttosto sull’autorità dello Stato che sulla libertà dell’individuo, per cui risultava tutt’altro che risolta l’antitesi fra i due termini fondamentali del vivere civile. Col proiettare sempre in avanti l’attivismo della propria fede, Gentile non risolveva in concreto il problema della sintesi autorità-libertà, del rapporto fra governanti e governati, fra Stato e popolo, mentre considerava compito primario del fascismo restituire allo Stato, integralmente, la sua sovranità, educando l’individuo a sentire se stesso come momento particolare della società. Nell’accentuazione del carattere sociale e storico dell’individuo e quindi dell’impossibilità di concepire una vita sociale atomistica, in cui ciascun individuo persegue il proprio fine a danno degli altri o con essi in concorrenza, Gentile ricollegava il fascismo al marxismo, tentando di presentare il primo come superamento del secondo, non come antitesi. Già nel primo dei suoi Discorsi di religione, lamentando la decadenza morale dell’Italia postrisorgimentale, Gentile aveva manifestato un 562
interesse positivo per il socialismo, che aveva posto per primo il problema della disciplina collettiva, sia pure per un ideale, secondo Gentile, tutto materialista. Ma, al di là del ripudio del materialismo, non era possibile per Gentile concepire un nuovo movimento politico che non continuasse l’esperienza del socialismo, perché «al socialismo non può contrapporsi altra forma di orientamento politico destinata a soccombere perché di più bassa ispirazione. Occorre contrapporgli una concezione la quale s’indirizzi a un più elevato e schietto ideale, a una forma di vivere sociale dove tutta si possa liberamente spiegare la forza dello spirito, e che cominci dunque dal far guerra a ogni sorta d’individualismo astratto»68. Il limite più grave del movimento socialista, agli occhi del filosofo, era lo stretto collegamento fra la dottrina del socialismo e il positivismo, per cui la filosofia marxista era stata interpretata secondo una concezione meccanicistica della vita sociale. Il fascismo, invece, derivando anche dal sindacalismo soreliano, per tramite di questo assumeva nella sua ideologia i temi fondamentali del marxismo idealisticamente interpretato: «la concezione dinamica della storia e della funzione che in essa spetta alla forza come violenza, è tutta di schietta origine marxista»69: Del Marx il fascismo combatte l’astratta concezione classista della società, scrollando l’antitesi su cui poggiava l’artificioso mito della lotta di classe: concezione già scardinata dalla critica teorica, a cui il marxismo soggiacque con quella stessa rapidità con cui dapprima era venuto in così alta e vasta considerazione, ma rumorosamente smentita poi in pratica dal fatto imponentissimo della guerra, che, costringendo le singole società ad abbandonare tutte le ideologie per adeguarsi alla realtà e alla logica interna e indeclinabile della propria struttura organica, dimostrò la solidarietà e unità interna, morale ed economica, delle classi costitutive dell’organismo sociale e statale.
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L’importanza del materialismo storico, per Gentile, era fuori discussione: bisognava fare i conti con questa concezione non negandola in astratto, ma superandola in una dottrina più storici-sta e più realista, restando valido il principio marxista della conoscenza come attività e trasformazione della realtà: noi potremo combattere il materialismo, come una filosofia insufficiente, e attraverso di esso vincere la lotta di classe e instaurare altri metodi di azione politica; ma non potremo fare né che il materialismo storico non sia stato una filosofia avente una grandissima importanza storica proprio perché fu anche politica, né che il materialismo storico sia vinto altrimenti che con una filosofia, realistica com’esso, anzi più realistica70.
Gentile considerava il marxismo l’unico antecedente dell’attualismo, perché aveva posto, per la prima volta, l’unità di filosofia e prassi, e quindi di filosofia e politica. Ora, il fascismo sarebbe stato, secondo Gentile, la negazione del marxismo, come materialismo, ma anche il suo superamento con una filosofia - l’attualismo - più realistica proprio perché liberata da qualsiasi presupposto materialistico. Nato dalla guerra, il fascismo aveva gettato via le ideologie intellettualistiche, ed aveva fatto della realtà l’unica fonte delle sue idee. La guerra aveva dimostrato che il movimento internazionale socialista si arrestava e si dissolveva di fronte alla realtà nazionale, che aveva una coesione ben più radicata di quella ricercata dall’internazionale delle classi proletarie. Ferma restando l’identificazione individuo-società, bisognava realizzare una società totalitaria sulla base della realtà nazionale. Per Gentile, inoltre, il fascismo era un fenomeno politico 564
che esprimeva la volontà di partecipazione delle masse alla vita dello Stato, nell’ambito della realtà nazionale. Ciò rendeva il fascismo, movimento di massa, ben diverso dal nazionalismo, anche perché diverso era il loro ideale dello Stato, pur nella comune aspirazione allo Stato forte e sovrano. Gentile riassumeva i temi dell’ideologia fascista, presentandola come sintesi, eredità e superamento dei grandi movimenti politici del XIX secolo, attraverso la critica idealistica delle ideologie e delle filosofie che quei movimenti ispiravano. Il primato filosofico veniva così a coincidere col primato politico, e l’indissolubilità dialettica fra idealismo e fascismo offriva a questo la legittimazione culturale di cui aveva bisogno71. L’interpretazione gentiliana del fascismo era un’ideologia coerente ed organica, che, sia pure con notevole disinvoltura verbale, presentava il fascismo come il fenomeno storico che avrebbe realizzato nello stesso tempo - una democrazia di massa, il senso dello Stato e la giustizia sociale. Il fascismo, infatti, se ripudiava la concezione aritme-tica della democrazia, secondo Gentile, accettava invece il concetto di democrazia come educazione del popolo, non indifferenziata massa di cittadini, ma collettività organizzata attraverso le categorie del lavoro e dei sistemi di attività in cui il popolo concretamente viveva. Il fascismo accettava inoltre il socialismo inteso come «elevazione delle condizioni materiali e rivendicazione della dignità morale e politica del lavoro» e come «riconoscimento dell’origine di ogni proprietà dal lavoro, che insieme con ogni altra forma di attività umana è la fonte di ogni bene che abbia valore»72. Il fascismo così concepito, anche con talune audaci 565
enunciazioni teoriche, restava circoscritto alla coerente ma talvolta vaporosa teologia politica gentiliana e trovava un limite nella personalità del filosofo, legata a sentimenti d’impronta conservatrice. Nell’opera pratica, infatti, l’ideologia totalitaria di Gentile si arrestava di fronte alle strutture dello Stato come era definito nell’ambito dello Statuto, e non riusciva a immaginare lo Stato nuovo se non come un rinvigorimento e un rinnovamento, in senso autoritario e antiparlamentare, dello Stato monarchico borghese. Anche se Gentile affermava che lo Stato fascista «è idea che si attua vigorosamente; ma è idea; e come tale trascende ogni presente e ogni forma contingente e materialisticamente definita», in realtà non concepiva lo Stato fascista altro che come Stato monarchico, in cui cioè il potere esecutivo, la sovranità era e restava nella monarchia; uno Stato in cui l’attributo di «fascista» era semplicemente un riconoscimento del mutamento avvenuto negli orientamenti politici della classe dirigente, non già che una nuova classe dirigente fascista avesse raccolto l’eredità del potere. Riferendo i risultati della Commissione dei Diciotto73, Gentile precisava in chiare lettere che non si era mai pensato di «sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risorgimento», perché il fascismo era nato per costruire non per distruggere e di conseguenza, gli uomini chiamati a definire le linee dello Stato fascista restavano convinti che lo Stato del Risorgimento e della gloriosa Monarchia nazionale, che dagli albori antelucani della riscossa accompagnò e resse con fede magnanima il popolo italiano fino al pieno meriggio della grande guerra vittoriosa e restitutrice dell’Italia in agognati confini, questo Stato sia ormai, per forza di tradizioni divenute sacre a ogni cuore italiano, una solida costruzione da rispettare, e una solida base su cui edificare lo Stato della rivoluzione fascista.
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Il fascismo concreto e reale di Gentile, dunque, non usciva dai termini di una mentalità sostanzialmente conservatrice, che all’attivismo, inerente la filosofia gentiliana, dava in politica un prudente freno. Tuttavia, oltre queste contraddizioni, l’ideologia gentiliana si trovava fuori della tradizione liberale e in netta antitesi con essa, prestandosi a interpretazioni ambivalenti e decisamente contrarie all’ordine costituito. Gentile poteva anche definire la sua ideologia, prima che fascismo, nuovo liberalismo, di un liberalismo italiano contrapposto a quello anglosassone, di un concetto «positivo» della libertà contro un concetto meramente negativo, ma nella realtà pratica la sua identificazione dell’individuo con lo Stato portava alla negazione dell’autonomia dell’individuo e alla sua scomparsa di fronte alla totale affermazione dello Stato. In questo senso, si può dire che la filosofia politica di Gentile è la più radicale teoria dello Stato totalitario, uno Stato che si definiva «etico», e la cui eticità coincideva con quella della classe governante posta al di sopra di tutti. Secondo Gentile, l’antitesi fra Stato e individuo era superata soltanto facendo coincidere la volontà dell’individuo con la volontà dello Stato, in una perfetta armonia di intenti: per questo, occorreva dilatare il fascismo fino a farlo coincidere col popolo italiano, facendo anzi scomparire il fascismo quale forza autonoma di partito. Il fascismo, per Gentile, era lo spirito dell’Italia nuova ma non un partito né una casta dirigente. Il filosofo non aveva alcuna stima della massa fascista ed egli, infatti, rivolgeva il suo appello per il rinnovamento dello Stato non ai soli fascisti ma a tutti gli italiani desiderosi di collaborare. 567
Questa tesi egli sostenne nel suo discorso al convegno di cultura fascista del 1925 e la stessa tesi riportò nel testo originale (modificato da Mussolini) del Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni74. Nel Manifesto (che non si presenta come uno degli scritti migliori del filosofo e in cui Gentile non fa che ricapitolare molto sommariamente i temi della sua interpretazione del fascismo e della sua ideologia politica) il fascismo veniva presentato infatti come un ideale di vita civile e morale, «religiosa» nel senso mazziniano, come impegno, serietà, responsabilità, dovere, spirito di sacrificio, dedizione alla patria, coerenza di pensiero e azione. Un ideale, avvertiva Gentile, che non bisognava commisurare con gli aspetti brutali del fascismo, giacché, in quanto ideale, era oltre la realtà e mai esaurito in essa: Questo ideale è un ideale, ma un ideale per cui si lotta in Italia oggi, con contrasti fierissimi che dimostrano che si fa sul serio, e che c’è una fede negli animi. [Molti che si dicono fascisti, non si rendono conto di questa idea sublime a cui anch’essi servono; e alcuni talvolta si dimostrano indegni di essere pur commisurati a una tale idea. Ma che perciò? Solo gli spiriti superficiali e inetti a penetrare nel segreto dei grandi fatti storici, possono scambiare il fascismo con questi fascisti, per considerevole che ne possa essere il numero. Animi torbidi e feroci, ai quali pure brillò una certa luce di quella stessa fiamma che essi non sono capaci di vedere tutta, e intendere in tutta la sua forza purificatrice, si volsero e si volgono tuttavia al segno che splende in alto, e accolgono anch’essi in sé una parola di fede, e marciano, ancorché or qui or là si sbandino e vadano errando o cadendo nei fossati dei margini. Certo, oramai è evidente che malgrado errori innegabili e colpe non lievi di molti fascisti]. Il fascismo, come tutti i grandi movimenti spirituali, si fa sempre più forte, più capace di attrazione e di assorbimento, più storicamente efficiente e ingranato nel congegno degli spiriti, delle idee, degli interessi, delle istituzioni; insomma nella compagine viva del popolo italiano. E allora non è più il caso di contare e misurare i singoli uomini, ma di: guardare e valutare l’idea; la quale, come ogni idea vera, cioè viva, [storicamente] dotata di una sua potenza, non è fatta dagli uomini, ma fa gli uomini. [Perciò oggi i fascisti che hanno idee chiare, agli
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avversari del fascismo dicono: - Non siete contenti di alcuni fascisti? Ebbene, aderite voi al fascismo, e date una mano a quelli che dentro il fascismo lavorano a purificarlo. E ai dissidenti ripetono: - Il fascismo non si riforma dall’esterno, ma dall’interno. - Questo ogni uomo intelligente vede, e perciò gli stranieri che conoscono l’Italia fascista, riconoscono che qui si agita il germe di una vita nuova che vale per l’Italia, ma non per l’ Italia soltanto].
Il fascismo non era, secondo Gentile, un fenomeno reazionario né antipopolare né antioperaio. Se voleva restaurare l’autorità dello Stato e ridare allo Stato una funzione etica, non per questo voleva un regresso rispetto allo Stato costituzionale. Si voleva invece una maggiore concretezza nella partecipazione del popolo alla vita sociale e politica, attraverso la conciliazione dei due grandi protagonisti delle società contemporanee: lo Stato e il sindacato: Stato, come forza giuridica della nazione nella sua unità organica e funzionale; Sindacato, come forza giuridica dell’individuo quale attività economica, che nel diritto possa avere la sua garanzia, attività quindi specificata socialmente e appartenente ad una categoria sociale. Stato, come organizzatore di tutte le attività individuali, nel loro ordine organico e concreto.
Così, per Gentile, il fascismo avrebbe risposto alle più diffuse esigenze sociali e spirituali della società italiana; soltanto la prevenzione e i pregiudizi degli avversari, legati al mondo della democrazia e del liberalismo individualista, potevano impedire una più completa fusione di tutte le forze sane del paese nel fascismo. Ma, in realtà, il problema del consenso si risolveva praticamente nella maniera che più contraddiceva la sua immagine dello Stato fascista, sintesi di autorità e libertà, conciliazione di potere e popolo: il popolo era assente e non partecipava allo scontro fra i fascisti e i loro avversari del mondo democratico («due mondi che si 569
escludono reciprocamente») così come era stato assente nel Risorgimento; né si vedeva in qual modo, secondo il filosofo, e per quali vie il popolo sarebbe entrato nello Stato. Ed era invece proprio su questo problema che il fascismo doveva misurare la sua capacità di creare uno Stato nuovo e di formare una classe dirigente fascista, diversa dai vecchi ceti dirigenti che avevano affiancato il fascismo per renderlo un utile strumento, e niente altro, della reazione antisocialista per la restaurazione del vecchio Stato. Da questo punto di vista, tuttavia, Gentile non aveva da offrire alcuna soluzione concreta né per la selezione della nuova classe dirigente né per l’organizzazione e la mobilitazione delle masse; e neppure si poteva seriamente pensare che fosse possibile creare un consenso di massa attorno al fascismo con la dialettica attualista. In effetti, l’idealismo gentiliano non riuscì a contrastare l’involuzione autoritaria del regime ed esaurì la sua funzione politica nel garantire una dignità culturale ad uno Stato che andava prendendo forma in una maniera molto diversa da quella contemplata nell’ideologia dello Stato etico: uno Stato, cioè, che nella politica pratica si alleava proprio con quelle forze che l’idealismo aveva combattuto, come il nazionalismo autoritario e il clericalismo. Ciò che restava del mito idealista, nella realtà dello Stato mussoliniano era l’asserita subordinazione del popolo al regime e il riconfermato primato dello Stato sulla società. 4. Stato sindacale e Stato politico. Il fascismo secondo Alfredo Rocco Il problema più grave della società borghese nel XX secolo era la crisi della sovranità e della legittimità dello 570
Stato come Sta-to neutrale e non interventista quale si era affermato agli inizi dello sviluppo industriale con l’avvento della democrazia liberale75. Il liberalismo aveva scarnificato lo Stato dei suoi attributi essenziali e, nel suo ottimismo naturalista e razionalista, aveva lasciato la società nel giuoco libero delle sue forze, e teoricamente limitato fin dove possibile il potere dello Stato e il suo intervento nei conflitti fra le componenti della società. La politica, sfera di attività del potere, era chiusa entro i limiti dell’amministrazione e trovava il suo argine astratto nella distinzione delle attività umane e nell’affermazione formale dell’uguaglianza del cittadino, depositario naturale della sovranità. Il principio assoluto della libertà individuale sottraeva allo Stato la sua funzione essenziale e altrettanto assoluta, cioè l’esercizio del potere politico. Lo Stato liberale, pertanto, lasciava la società al suo sviluppo, ma proprio per questo, quando le forze tradizionali furono sconvolte dalla nascita di nuove forze eversive dell’equilibrio liberale, lo Stato neutrale e non interventista aveva mostrato la vanità della sua presenza, disgregandosi in una molteplicità di funzioni, mentre nella società nascevano e si affermavano nuove organizzazioni, che rivendicavano a sé l’esercizio del potere e bollavano lo Stato liberale come strumento di classe. Il «gaietto stuolo delle divinità democratiche - scriveva il gentiliano Arnaldo Volpicelli - veniva buttato giù dagli altari mentre il liberalismo era al tramonto»76. In effetti, il vero bersaglio della polemica attualista non fu tanto il socialismo quanto il liberalismo. Nel suo entusiasmo totalitario, un altro filosofo gentiliano, Ugo Spirito, affermava che non ci poteva essere altra libertà o volontà «oltre quella dello Stato, o, che è perfettamente lo stesso, 571
degli individui nello Stato»’7. I concetti della libertà individuale, dello Stato contrattualista, dell’antagonismo fra individuo e Stato costituivano, secondo il filosofo gentiliano, i capisaldi del pensiero politico a sfondo illuminista, il quale concepiva la società e lo Stato in maniera puramente negativa. L’idealismo, come pensiero disgregatore delle ideologie illuministe, affermava invece il carattere totalitario dello Stato, cui solo compete il diritto della libertà: «L’ideale dello Stato moderno deve essere quello del massimo processo di differenziazione unito al massimo processo di unificazione: dell’unione insomma della massima libertà e della massima autorità: perché libertà e autorità si identificano […]. Il cittadino non è nulla se non nello Stato», perché «Al di sopra o al di fuori dello Stato non c’è nessuna realtà». In tal senso, Spirito negava i «feticci» del liberalismo e della democrazia («libertà di stampa, di parola, di riunione, di pensiero, ecc.») quali «locuzioni senza senso» perché considerate come diritti naturali non come derivanti dall’autorità dello Stato che è la sola volontà libera. Lo Stato per sua natura non può tollerare alcun potere di opposizione e di critica alla sua sovranità senza annullarsi. Lo Stato liberale, che non impegnava la sua presenza e la sua attività in ogni settore della vita sociale, non era più in grado di far fronte ai grandi conflitti della società contemporanea ed era perciò destinato a dissolversi in un’anarchia neofeudale oppure a trasformarsi in uno Stato nuovo in grado di riconquistare la sua sovranità e la direzione politica della vita sociale. Nel definire ora il loro atteggiamento verso l’esperienza storica del socialismo, gli idealisti mostravano un certo apprezzamento positivo. Anche la reazione antibolscevica 572
del fascismo veniva presentata, ora, come un episodio transitorio, dovuto a situazioni contingenti piuttosto che ad una vera e propria volontà reazionaria antipopolare. Il vero nemico, specialmente per i fascisti gentiliani, era il liberalismo, perché era rimasto arroccato su posizioni anacronistiche, che non reggevano più sotto la spinta dei nuovi problemi della moderna società di massa. In tal modo, da parte fascista si cercava anche di cancellare il marchio di reazionario per presentare il fascismo come fenomeno di rinnovamento in senso progressista, nel senso stesso del socialismo, ma senza negare né la nazione, realtà storica, né lo Stato, realtà politica insopprimibile Del resto, risaliva al socialismo la prima negazione dello Stato liberale, «di quello Stato - scriveva Arnaldo Volpicelli -, per sua natura impotente ad accogliere ed intendere le esigenze economiche, spirituali e politiche del secolo XIX». Nel formalismo giuridico di questo Stato non poteva essere contenuta la concretezza della vita sociale e politica, sempre rinnovantesi nelle sue forme e nei suoi contenuti: la limitazione della sfera politica e la separazione della politica dall’economia avevano portato lo Stato liberale alla incomprensione del movimento sindacale e delle nuove organizzazioni di rappresentanza, attraverso le quali si esprimeva una nuova forma della sovranità e della legittimità dello Stato: Lo Stato reale insomma, lo Stato da realizzare, non deve conoscere cittadini uti singuli nel loro astratto diritto alla rappresentanza e all’esercizio della vita politica, ma come produttori, o ch’è il medesimo, uti sodi nella varia e complessa vita sociale che è vita articolata d’interessi e bisogni, vita di produzione e di classi. Lo Stato dev’essere l’espressione e conciliazione politica della vita economica e delle classi produttrici che lo compongono.
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Il grande merito del socialismo, secondo Volpicelli, era l’aver distrutto il carattere formalistico-giuridico dello Stato neutrale ed aver posto le premesse per quella soluzione alla crisi dello Stato che gli idealisti proponevano al fascismo come ideale da attuare. Lo Stato etico gentiliano meglio si precisava nel disegno di Volpicelli: La nuova realtà sociale e storica creatasi e maturatasi nel sec. XIX, il secolo in cui sorge il grande industrialismo, chiede e attende ancora di rientrare e di sistemarsi nel seno dello Stato: il problema dei rapporti fra capitale e lavoro, le due classi e forze economiche enucleate e differenziate dal secolo XIX, chiedono e attendono una sistemazione e un riconoscimento politico, ossia chiedono e attendono di essere rappresentate e composte dallo Stato e nello Stato. II cui supremo dovere, la cui meta suprema è adunque di ricongiungersi e raffiatarsi con le forze vive che lo compongono e ne sollecitano l’intervento e la direzione. Lo Stato ha oggi il grave compito di ricondurre a sé le forze sociali, da troppo tempo esplicantisi fuori delle sue esanimi forme giuridiche, per poter essere appunto lo Stato, l’organo direttivo ed unificatore della vita sociale. Il dualismo dissolvitore ed anarchico della società e dello Stato, dell’economia e della politica, del contenuto economico e della forma giuridica, dev’essere reintegrato e colmato: ristabilire l’autorità dello Stato non è né significa altro che regolare politicamente la vita sociale, porre gli istituti rappresentativi e politici all’altezza del progresso economico e culturale, elevare e rinnovare lo Stato in conformità dei bisogni e degl’interessi comuni. Conservare in gelatina le morte forme istituzionali e politiche non è che un sogno di sciocchi, ed è una pericolosa illusione credere che la perennità del liberalismo consista nella sua immobilità e inalterabilità; anche per il liberalismo, anzi proprio per il liberalismo ben inteso, come per tutto che viva, vivere e conservarsi importa e significa rinnovarsi, assecondare il ritmo incessante di trasformazione della realtà. Orbene, occorre comprendere che la suprema, inderogabile necessità dell’epoca nostra è di conciliare e saldare le esigenze sociali ed economiche affermate dal socialismo e l’esigenza statale e politica affermata dal liberalismo; è di comporre in sintesi la più originale conquista della storia politica moderna, ossia lo Stato unitario e sovrano che trionfa di ogni particolarità all’intemo e di ogni potere spirituale all’esterno, con le potenti organizzazioni sindacati e di classe in cui si vengono componendo e individuando le forze sociali della produzione. Il vecchio Stato liberale trionfava degli interessi particolari disconoscendoli e disperdendoli, riconoscendo e garantendo il cittadino uti singulus nella
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sua astratta figura giuridica: il nuovo Stato liberale deve unificare la concreta realtà sociale, e cioè trionfare dei grandi organismi in cui l’individuo e il cittadino si viene ordinando nella sua più complessa e concreta figura di produttore, e cioè delle classi che deve abbracciare nel suo sistema e promuovere.
Lo Stato nuovo, pertanto, avrebbe dovuto realizzare la sintesi e il superamento sia del socialismo che del liberalismo, secondo un ideale che appariva già accennato nella teoria dello Stato forte nazionalista. Ma, nei confronti di questa concezione, lo Stato nuovo degli idealisti prendeva decisamente le distanze perché rifiutava il mito dell’imperialismo - fondamentale nell’ideologia nazionalista più del mito statuale che ne era un corollario -, così come rifiutava l’internazionalismo e il principio della lotta di classe del socialismo. Insomma, per concludere con Volpicelli, Questo nuovo Stato che in sé componga e riassuma le esigenze liberali, nazionali e sociali, che fonda e unifichi i valori giuridici, nazionali, economici ed etici, questo nuovo Stato che emerge e si delinea all’orizzonte della storia, è appunto lo Stato a cui deve mirare con sempre più chiara e ferma coscienza il fascismo.
Le affermazioni di Volpicelli mostrano molto bene le attese che in certi gruppi intellettuali suscitò l’avvento del fascismo. A parte le facili critiche che possono essere mosse alle premesse e agli effetti di certe idee, per quanto astratte, non possiamo trascurare di riconoscere che l’esercizio del potere da parte del fascismo fu accompagnato, fin dai primi tempi, dal consenso attivo di molti che si sentivano insoddisfatti e insofferenti dello Stato liberale; e che, senza nutrire propositi eversivi ma anche senza miope reazionarismo, credevano di scorgere nel fascismo 575
esigenze proprie della società italiana, travagliata dalle incerte forme della rappresentanza politica, dalla cronica debolezza del regime parlamentare e dalla disfunzione dei suoi organi burocratici. Al fascismo perciò, guardarono con simpatia anche quelli che, in vari settori, dalla cultura all’industria (basti pensare al caso di un «tecnocrate» come Belluzzo78) speravano di servirsi del fascismo come elemento di modernizzazione dello Stato italiano. Questa tendenza, che si affermò con maggior evidenza durante gli anni Trenta, è appena delineata negli anni precedenti l’instaurazione del regime, ed è presente piuttosto come esigenza che come un programma preciso. Tuttavia, anche se il tema esula dai limiti cronologici del nostro lavoro, possiamo almeno accennare alla caratteristica manageriale in cui veniva proposta al fascismo l’ideologia della terza via: creare un sistema di governo e di organizzazione sociale fondato sui valori della competenza e della tecnica, ispirato dal criterio della funzionalità e non da miti politici. Questa terza via, nell’intenzione dei migliori, non doveva essere una via di mezzo, una specie di ibrido compromesso, bensì una via nuova - e di superamento - fra socialismo e capitalismo79. Non si può dire, certo, che questa ideologia fosse creatura originale del fascismo e non fosse piuttosto un riflesso dello sviluppo industriale cui l’Italia si avviava. Del resto, nonostante l’entusiasmo, il disegno di uno Stato manageriale, tecnocratico, rimase nella nebulosa dei progetti, realizzandosi in modo settoriale, a seconda delle circostanze e delle personalità organizzatrici, senza diventare un vero e proprio modello di tipo fascista. Allo stesso modo rimase teoria, seppur meglio definita, l’altra caratteristica della «funzionalità» dello Stato nuovo, cioè 576
l’aspetto sindacale. Nel dibattito su Stato sindacale o Stato politico, coerentemente con l’ideologia fascista, fu il secondo ad avere il sopravvento trasformandosi addirittura in Stato cesaristicom. Ma, nel periodo di cui ci occupiamo, tale esito non era ancor prevedibile né scontato, e diverse erano le soluzioni che, all’interno del fascismo, veniva proposte per risolvere la crisi dello Stato e renderlo in grado di far fronte alla società di massa e all’esigenze dell’organizzazione dei lavoratori. Il grande fenomeno sociale contemporaneo era la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni di mestiere, dei sindacati, che misero «in discussione i princìpi fondamentali dell’organizzazione attuale dei pubblici poteri»81. Da più parti e in maniera sempre più vigorosa si chiedeva la trasformazione di questa organizzazione, «ritenuta la causa principale dei mali della società contemporanea», in un nuovo sistema di rappresentanza «sulla base delle unità organizzate, dei gruppi professionali e di interessi, dei consigli o sovieti, come si chiamano in Russia, delle corporazioni, dei sindacati». Il sindacato si affermava come antagonista dello Stato liberale, ma era un fenomeno che non poteva essere più ignorato né cancellato dalla vita sociale, cui era naturalmente legato. Il conflitto fra società e potere politico aveva raggiunto il suo momento critico con l’affermazione del sindacalismo. Le tendenze principali del sindacalismo erano antipolitiche, miravano cioè alla distruzione del potere politico come strumento di subordinazione della volontà creato dal dominio di una classe sulle altre, per raggiungere un’organizzazione sociale basata sulla spontanea, libera e autonoma vita delle associazioni di lavoro e dei loro istituti di rappresentanza. Il 577
modello più organico e coerente di questa tendenza pansindacalista e «antipolitica» era la Carla del Carnaro in cui, come notava Gaspare Ambrosini, il potere assegnato allo Stato era quasi nullo82. L’avvento della società sindacale significava infatti la fine dello Stato come organizzazione unitaria del potere: L’attuazione completa del sistema sindacale porterebbe - scriveva Gaspare Ambrosini83 - ad intaccare la concezione unitaria della sovranità dello Stato moderno e a sminuirne i poteri. Contrapponendo la società allo Stato alcuni hanno messo in rilievo che le unità economiche, i gruppi professionali ed enti similari preesistono allo Stato, e che lo Stato deve considerarsi l’organismo più grande formato da questi organismi minori, per il che è sulla rappresentanza di questi organismi e non dei singoli individui, che dovrebbe poggiare la costituzione dello Stato.
Dopo la svolta a destra, come si è già visto, il fascismo aveva abbandonato i contenuti essenziali del sindacalismo nazionale conservando di questo il principio della subordinazione degli interessi sindacali all’interesse superiore della nazione, e la conseguente concezione della collaborazione di classe che, senza negare la realtà delle classi e i loro conflitti, doveva portare ad un sistema di risoluzione pacifica delle controversie sotto l’egida arbitrale dello Stato. Ma, a parte ciò, il fascismo svuotava il sindacalismo, almeno come era concepito dai sindacalisti che aderirono alle tesi della Carta del Carnaro, del suo valore autonomo, quale palingenesi della società contro il potere politico. Come osservava il giornale dei sindacalisti dannunziani «La Patria del Popolo»84, ancor prima della «marcia su Roma», commentando un articolo di Mussolini, vi era nel duce «la più assoluta inconoscenza del sindacalismo» perché l’elemento dinamico del 578
sindacalismo era completamente ignorato da Mussolini (e il giudizio può essere esteso all’intero sindacalismo fascista). Il fascismo infatti poneva il primato della politica e del partito nei confronti del sindacato, non considerando che «la politica è la perfetta antitesi del sindacalismo». Conciliare sindacato e partito politico, sindacalismo e statalismo appariva un’impresa ardua, perché erano termini inconciliabili. Il fascismo veniva a trovarsi, con la sua posizione, nelle stesse condizioni del partito socialista, assumendo quell’atteggiamento di egemonia politica nei confronti del movimento sindacale, che il fascismo delle origini aveva rimproverato al partito socialista. Ma come «fu impotente ai fini rivoluzionari il sindacalismo dei socialisti perché pretesero dominare col partito, così finirà nel nulla il sindacalismo fascista perché il partito nazionale fascista ha la medesima pretesa». L’essenza del sindacalismo autonomista, federalista e antipolitico era totalmente negata dal fascismo, che aveva come mito fondamentale lo Stato totalitario, in cui i sindacati avrebbero avuto necessariamente una funzione subordinata. Per i sindacalisti «dannunziani», invece, lo Stato era e rimaneva comunque «l’edificio autoritario, dogmatico, aprioristico, onde viene esercitato dalle classi dominanti, a traverso il meccanismo della politica, il potere sulla nazione»85. L’ideale sindacalista rivoluzionario, pertanto, mirava alla completa distruzione della «superstruttura ingombrante dello Stato», spostando il potere dal centro alla periferia, dallo Stato accentratore agli organismi locali e autonomi. La sovranità politica doveva essere tolta dalle mani dello Stato per essere posta «sotto l’efficace controllo e l’azione diretta delle masse». Nel 579
sindacalismo «dannunziano» restava viva, in sostanza, la matrice libertaria e antistatalista di Sorel: da ciò si può comprendere quanto sia labile o nominale la derivazione, spesso asserita, dell’ideologia fascista dal sindacalismo soreliano, almeno nel suo senso originario. Del resto, anche i sindacalisti fascisti, come ad esempio Sergio Panunzio86, giudicavano superato il sindacalismo rivoluzionario dal principio della collaborazione di classe sotto l’egida dello Stato. Mentre il sindacalismo era stato il momento negativo, cioè «l’insurrezione vitale dell’economia contro la politica, delle vergini e istintive forze sociali, contro le vecchie ed esaurite forme statali», il sindacalismo fascista mirava alla costruzione e alla riorganizzazione delle forme politiche, cioè dello Stato, attraverso una sintesi di statalismo e sindacalismo. Nell’ambito del sindacalismo fascista, tuttavia, le posizioni e le tendenze, pur trovando un denominatore comune in alcuni temi fondamentali (la subordinazione dell’economia alla politica, della lotta di classe alla produzione, delle organizzazioni alla sovranità unica dello Stato, ecc.) non avevano un eguale atteggiamento verso i rapporti fra il sindacato e lo Stato nuovo che si intendeva creare. Poiché su questo problema esiste un esauriente lavoro87, non entreremo in merito al dibattito che si svolse fra i «sindacalisti» e i «politici», specialmente in occasione dei progetti di riforma istituzionale presentati dalla Commissione dei Diciotto. Tuttavia ci preme, ai fini di una completa delineazione dell’ideologia fascista, definire la posizione teorica dei sindacalisti integrali, di quei sindacalisti fascisti, cioè, che volevano fare del sindacato non una organizzazione alternativa allo Stato, come i 580
«dannunziani» ma il fondamento dello Stato nuovo fascista. La posizione più chiara, su questo problema, è certamente quella di Sergio Panunzio a cui corrispondeva, nel campo propriamente organizzativo, ma con un minor rigore concettuale, come giustamente ha notato Bruno Uva88, la concezione del sindacalismo integrale di Rossoni. L’elemento fondamentale nell’ideologia di Panunzio e di Rossoni era l’identificazione dello Stato nuovo con lo Stato sindacale, uno Stato cioè in cui il sindacato diventava l’organo fondamentale di rappresentanza e di sovranità politica. La corporazione doveva essere, in sostanza, l’embrione dell’unità fra Stato e sindacato e da ciò derivava la proposta formulata da Panunzio del sindacato unico obbligatorio di Stato: Lo Stato fascista - scriveva Panunzio89 -, dal momento che, non solo non escludeva e non scioglieva i sindacati, ma li faceva anzi suoi e si assideva sopra di essi, si porgeva come uno Stato, se non ancora e in atto di sindacati, basato sopra i sindacati, e quindi come Stato sindacale nazionale; e siccome lo Stato, sia pure lo Stato fascista, è Stato in quanto è universale, non particolare, di tutti, non di una parte, ne veniva la estensione e la universalizzazione, sotto forma de jure del sindacato obbligatorio dei sindacati fascisti a tutti i cittadini italiani.
Lo Stato sindacale, così come veniva fuori dalla concezione di Panunzio, non era certo un’organizzazione priva di potere e di sovranità. Al contrario, attraverso il sindacalismo lo Stato rafforza il suo potere istituzionale, ma sarebbe stato un potere di sindacati, anche se sopra i sindacati - per usare la distinzione di Panunzio -, e uno Stato totale «di fronte al quale il Leviatano di Hobbes è ben poca cosa - infinitamente superiore a tutti»90. Lo Stato sindacale, infatti, avrebbe inquadrato tutti i cittadini nella struttura del sindacato obbligatorio, istituendo un sistema di 581
rappresentanza «scelta» professionale. Il sindacato, in sostanza, diventava la struttura fondamentale dello Stato nuovo, Stato totalitario con un potere unico. Ciò voleva dire, in termini politici concreti, l’assunzione della corporazione fascista di Rossoni a vero centro del potere, spostando questo dalla classe dirigente politica ad una classe dirigente economica. Il sindacato veniva ad assumere un ruolo primario nello Stato, ponendosi addirittura al di sopra del partito fascista e risolvendo i fini politici dello Stato negli interessi economici dei suoi cittadini. Una tale concezione «sindacale» dello Stato trovava naturalmente ostili le altre tendenze «politiche» del fascismo, da Bottai a Rocco e allo stesso Mussolini, per il quale lo Stato - cioè il suo potere - non poteva avere di fronte a sé alcun antagonista, che ne limitasse e ne controllasse l’azione. Essi vedevano nella concezione del sindacalismo integrale, in cui il sindacato non era uno strumento dello Stato ma diventava esso stesso Stato, una minaccia per lo Stato fascista e un ritorno a metodi «rivoluzionari» che potevano mettere in crisi il «compromesso» politico raggiunto da Mussolini con le forze politiche ed economiche tradizionali, le quali vedevano nel sindacalismo fascista uno strumento di subordinazione delle masse, non certo di antagonismo e di lotta per le medesime. Lo Stato sindacale teorizzato da Panunzio finiva con l’apparire come un modello di tipo sovietico e il sindacalismo integrale una «postuma reincarnazione dell’idea socialista»91. Il sindacato, inoltre, osservava Volt, costituito come fonte della sovranità e della rappresentanza, riproponeva nel fascismo il criterio della democrazia rappresentativa, fino a dissolvere lo Stato politico nello 582
Stato sociale, delegando ai sindacati, cioè alla organizzazione degli interessi di classe, l’esercizio del potere. Lo Stato politico, al contrario, non poteva esaurirsi nella rappresentanza contingente degli interessi, perché la politica implicava ideali inerenti allo Stato quale sintesi della nazione, con fini storici che andavano al di là degli interessi economici, anzi subordinavano questi agli ideali politici. Su questa concezione l’accordo fra gli avversari del sindacalismo integrale e gli ideologi dello Stato politico totalitario era unanime. Secondo Gentile, il sindacalismo integrale conduce al sindacato che abbia assorbito in sé lo Stato, e che nella sua frammentarietà e molteplicità spontanea e inevitabile ne abbia infranta quindi e distrutta l’essenziale unità. Postulato ideale, anch’esso antitetico ai princìpi e alle ispirazioni più profonde dello Stato fascista92.
In questo senso, l’ideologia totalitaria di Gentile, nel riconoscimento della necessaria ed insopprimibile funzione strumentale del sindacalismo, si incontrava, nella situazione reale, non con una nuova forma di socialismo o di liberalismo in chiave statalista e nazionale, bensì con la più avanzata definizione giuridica dello Stato politico autoritario di massa - formulata da Alfredo Rocco - dove si perdeva ogni speranza di riforma politico-religiosa, come pure ogni possibilità di fare del sindacalismo integrale la base fondamentale dello Stato fascista. Non a caso, l’interpretazione e la definizione rocchiana dello Stato fascista come Stato politico del fascismo ebbe il plauso, non solo strumentale, di Mussolini93. 583
Le ideologie di Gentile e di Rocco, al di là delle diverse e antitetiche matrici culturali e della profonda divergenza di princìpi e fini che si proponevano, si incontravano nel considerare lo Stato come sovrano assoluto con fini trascendenti gli interessi della società economica, uno Stato che inglobava nella sua sfera tutta la vita della nazione, senza alterare affatto il potere della borghesia come classe dominante anzi offrendo a questo potere un’estensione e una libertà di azione che non aveva mai avuto fino a quel momento. Mentre Gentile ragionava avendo davanti a sé la materia vivente delle sue «figurazioni ideali» che gli consentivano di proiettare in un indefinibile futuro la realizzazione dello Stato etico, Rocco operava sulla materia di forze reali e per scopi precisi: ristabilire in modo assoluto, e utilizzando le organizzazioni sindacali, il dominio dei governanti, cioè, secondo Rocco, dell’alta borghesia industriale e finanziaria, sulla massa disciplinata, organizzata e materialmente soddisfatta, dei governati. Alfredo Rocco fu il fondatore giuridico dello Stato fascista, quando il fascismo, superata la crisi Matteotti col discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 e dopo vari e contrastanti progetti di «aggiornamento» costituzionale, imboccò decisamente la via del regime94. A noi, però, interessa il pensiero di Rocco non per la sua attività di giurista, quanto per la sua interpretazione del fascismo che dava un ordine coerente e sistematico alla sua ideologia, sia pure in forma diversa dalle altre tendenze reazionarie del fascismo. Rocco proveniva dal radicalismo e dal nazionalismo, dove aveva avuto una posizione dominante ma abbastanza personale. Egli era tuttavia privo delle esitazioni legalitarie dei suoi compagni di partito verso i 584
propositi di trasformazione fascista dello Stato monarchico, di cui il nazionalismo era il fedele cane da guardia. Nel fascismo, perciò, Rocco si inserì facilmente, assumendo con autorità e chiarezza di idee il ruolo del datore di leggi. La sua interpretazione del fascismo, in coerenza con la sua concezione giuridica dello Stato, era una franca rivendicazione del fascismo al pensiero reazionario, ma in un senso positivista e non metafisico, come avveniva per i monarchici assolutisti. Il fascismo di Rocco, pertanto, era del tutto privo di quel desiderio di novità che animava, per esempio, i gentiliani o lo spirito riformatore di Bottai. Egli aveva una concezione naturalista della storia e della società. Lo Stato era per lui un potere naturale assoluto che imponeva e conservava la coesione interna delle nazioni, concepite biologicamente come «frazioni della specie umana, aventi una organizzazione unitaria per il raggiungimento dei fini propri della specie»95. Gli individui erano elementi cellulari dell’organismo biologico umano diversificato in varie società. L’esistenza degli individui non aveva alcun valore in sé e un trascurabile significato di fronte ai fini superiori della specie sociale in cui vivevano: come i fini della specie umana non sono i fini dei singoli individui in un certo momento viventi, anzi, possono essere con questi eventualmente in contrasto, così i fini delle varie società umane non sono i fini degli individui che in un dato momento le compongono, ma possono essere con questi eventualmente in contrasto. È noto che la conservazione e lo sviluppo della specie può, qualche volta, implicare il sacrificio degli individui. Il fenomeno bellico ne è il più grande esempio.
L’universo umano, visto attraverso la desolata concezione «atea» di Rocco, si presentava come un’immutabile vicenda di organismi sociali in perpetua lotta fra di loro, senza altro 585
fine che la loro conservazione96. All’interno di ciascun organismo la formicolante esistenza degli individui acquistava valore soltanto per la conservazione della società. E ciò era possibile se gli individui vivevano la loro vita in una coesione rigida e totale attraverso l’organizzazione del potere dominante dall’alto, quale era lo Stato. Lo Stato, sovrano assoluto, aveva il ruolo di garantire l’unità necessaria alla conservazione dell’organismo sociale e alle esigenze della perpetua lotta con altri Stati. La risoluzione di questo eterno conflitto in un’organizzazione universale era esclusa dalla concezione di Rocco, che poneva in maniera dogmatica il principio della divisione dell’umanità in specie naturalmente differenziate, in cui, tuttavia, avevano una funzione di distinzione e di coesione anche i valori spirituali e ideali, come la religione, la cultura, i costumi, la tradizione. Ma tutto ciò che in qualche modo metteva in discussione l’assoluto potere dello Stato e costituiva al suo intemo elementi di disgregazione individualista o di «privatizzazione» degli interessi, era considerato come il male peggiore per la società. L’organizzazione unitaria, subordinata allo Stato, degli individui era lo scopo della politica: «L’individuo isolato - aveva affermato Rocco al congresso nazionalista romano del 191997 -, le masse amorfe ed inorganiche di individui, che pure dominano tuttora la nostra vita politica, sono nulla». Il nazionalismo e il fascismo di Rocco furono una trasposizione, in termini politici adeguati alla situazione del tempo, della sua concezione della vita sociale. Rocco si pose, da giurista, il grande problema di dare una nuova organizzazione assoluta al potere statale, riconducendo nella 586
sua sfera le forze sociali che si erano sviluppate contro di esso, minando quella saldezza interna, quella coesione totalitaria necessarie per la conservazione delle società e per la lotta fra gli Stati. Non si trattava, quindi, di un semplice ritorno al passato o di far ricorso a misure di polizia, consuete fra i conservatori della vecchia destra per frenare la crescita della società al di fuori del controllo statale, ma di utilizzare quelle forze per garantire allo Stato una maggiore efficienza. Bisognava, cioè, ristabilire il potere e la sovranità dello Stato, mettendo al servizio di questo le forze che fino allora si erano imposte contro di esso98. Tutto lo svolgimento della storia moderna si presentava a Rocco, secondo le linee del pensiero reazionario, come un processo di disgregazione del potere centrale dello Stato e di dissoluzione della società. A partire dalla Riforma luterana, attraverso uno sviluppo logico e coerente della concezione atomistica della società nel giusnaturalismo, nel liberalismo, nella democrazia fino al socialismo vi era, per Rocco, un unico e ininterrotto cammino verso l’anarchia, verso la vittoria degli interessi individuali o di gruppi sul superiore interesse dello Stato, al quale erano contestati i suoi attributi fondamentali: il potere e la sovranità assoluta. Secondo la concezione atomistica, comune a tutte le ideologie democratiche, dal liberalismo al socialismo, la società non era un organismo avente fini propri e contenente in sé la vita di innumerevoli generazioni, ma era soltanto la somma materiale degli individui viventi in una data epoca storica. L’individuo precedeva la società e ne era il fondamento, perciò la società era organizzata in funzione del benessere dei singoli. L’organizzazione politica, lo Stato, non aveva altra funzione che di garantire la felicità dei 587
singoli, attraverso il libero sviluppo dell’esistenza individuale. Le forme del potere politico nate da questa concezione mancavano degli attributi fondamentali dello Stato e la sfera del loro potere si arrestava davanti alla realtà degli individui, in cui era posta la sovranità. Ai governanti era affidato il compito di svolgere una funzione di tutela, perché la libera concorrenza degli individui nella ricerca della loro felicità fosse rispettata. Dalla iniziale concezione liberale, che poneva l’assoluta autonomia e prevalenza dell’individuo di fronte alla società e allo Stato, derivò il socialismo, come estensione del criterio edonistico: se il fine della società era il benessere degli individui, la ricerca della felicità non era soltanto il risultato di una libera gara ma la conseguenza di una reale uguaglianza dei beni sociali. Neanche il socialismo - che pure aveva posto il problema dell’organizzazione sociale secondo categorie, in vista di fini non legati all’interesse del singolo - superava la concezione atomistica e edonistica della società il cui scopo era sempre quello di servire gli individui, non di essere da questi servita. Vi era, in sostanza, secondo Rocco, uno sviluppo logico necessario dal liberalismo, alla democrazia, al socialismo, e le loro differenze consistevano soltanto nei metodi e nei mezzi per raggiungere il fine comune, cioè il benessere e la felicità dei singoli individui viventi in un tempo determinato. Tanto il liberalismo che il socialismo muovevano dall’affermazione dei diritti naturali dell’individuo e negavano la sovranità dello Stato quale potere naturale inerente alla struttura della società come organismo. Il liberalismo considerava lo Stato come il tutore dell’ordine pubblico, privo di potere e di sovranità, e 588
distruggeva l’autorità dello Stato con la divisione di poteri, che finivano con l’annullarsi nella reciproca interferenza o autonomia, lasciando così la società in balìa di nuove forze tendenti alla soddisfazione di interessi particolari. Il socialismo negava completamente l’esistenza dello Stato quale istituto naturale ed affermava la preminenza della società senza alcuna divisione e subordinazione fra governanti e governati. Secondo Rocco, vi era un unico movimento nel divenire storico, dalla caduta dell’impero romano: quello diretto verso la soppressione dello Stato e alla proliferazione di gruppi di potere, mortali per la società come un cancro. Dall’anarchia feudale al neofeudalesimo dei sindacati e dei partiti, Rocco non vedeva altro che la rovina dello Stato, una lunga notte medievale, da cui finalmente il fascismo sembrava uscire restituendo allo Stato integralmente la sovranità e il potere. Perciò, il fascismo come ideologia era l’antitesi del pensiero politico moderno sviluppatosi dopo la Riforma luterana: tradizione politica nordica, individualista, materialista, estranea al carattere, alla natura e alla tradizione del pensiero politico dei popoli latini. Secondo Rocco, nel pensiero politico italiano, da Tommaso d’Aquino fino a Mazzini vi era, motivo costante e unitario, il senso dello Stato con i suoi fondamentali attributi di unità, autorità e sovranità. L’influenza delle ideologie straniere aveva fatto deviare il popolo italiano dalla sua tradizione. La concezione atomistica della società, i diritti naturali degli individui, avevano diffuso una mentalità che alimentava un’avversione generalizzata contro la sovranità dello Stato. Alla concezione atomistica e individualista, il fascismo opponeva la concezione assoluta dello Stato, da cui tutto proviene, 589
libertà e diritti, benessere e felicità, ma solo in funzione della conservazione e continuità della serie indefinita delle generazioni appartenenti alla specie nazionale. Era capovolto il rapporto fra società e individuo. E la società riacquistava, nel pensiero fascista, una priorità assoluta: Il rapporto pertanto fra società ed individuo appare nella dottrina del fascismo perfettamente rovesciato. Alla formula delle dottrine liberali, democratiche e socialistiche, la società per l’individuo, il fascismo sostituisce l’altra, l’individuo per la società. Ma con questa differenza, che mentre quelle dottrine annullavano la società nell’individuo, il fascismo non annulla l’individuo nella società. Lo subordina non l’annulla, perché l’individuo, come parte della sua generazione, è pur sempre elemento sia pure infinitesimale e transeunte della società. Lo sviluppo e la prosperità degli individui di ciascuna generazione, quando siano proporzionati ed armonici, diventano condizioni dello sviluppo e della prosperità di tutta l’unità sociale. Vi è dunque un interesse della società alla prosperità degli individui. A questo punto l’antitesi tra la concezione fascista e la concezione liberaledemocratica-socialistica, appare - come è - assoluta e totale99.
Come un padrone aveva interesse al benessere dei suoi schiavi per un loro migliore rendimento, allo stesso modo, per Rocco, lo Stato doveva curare il benessere delle masse dei lavoratori, attraverso una politica di alti salari e di materiale soddisfazione, per garantire alla politica del potere la massima efficienza. La produzione era un elemento necessario alla conservazione e alla potenza dello Stato. Rocco non distoglieva lo sguardo dai fenomeni della società industriale, non ripudiava lo sviluppo del capitalismo per tornare a remote società agricole-artigianali sognate dai reazionari monarchici, ma voleva anzi la massima espansione del capitalismo al servizio della potenza dello Stato e un totale inquadramento delle masse nelle organizzazioni sindacali, riconosciute quali istituti al servizio 590
dello Stato, canali di trasmissione delle volontà del potere dall’alto verso il basso per una risposta rapida ed efficiente. Tutta la vita sociale, organizzata per il massimo rendimento, doveva svolgersi nella sfera dello Stato, che avrebbe riconquistato la sua sovranità, il suo potere di decisione e la sua autorità. A questo compito era destinato il fascismo, nato dall’esigenza di reagire alla disgregazione del potere centrale. Le conquiste del pensiero politico moderno, dal liberalismo al socialismo, non erano rinnegate ma, da fini che erano, diventavano mezzi: la libertà, la giustizia sociale, i diritti del cittadino non erano conquiste degli individui ma concessioni dello Stato, nell’ambito e nei limiti delle sue esigenze e dei suoi fini, tanto nel campo politico quanto nel campo economico. Al di fuori dello Stato, l’individuo non aveva alcun valore, dentro lo Stato il suo valore dipendeva dalla sua utilità ed efficienza per gli interessi superiori della società: Per il liberalismo - affermava Rocco -, la libertà è un principio, per il fascismo è un metodo. Per il liberalismo la libertà è riconosciuta nell’interesse dell’individuo, per il fascismo è concessa nell’interesse sociale. O - in altri termini - per il fascismo l’individuo è fatto organo o strumento dell’interesse sociale; strumento che si adopera finché serve allo scopo e si sostituisce quando non serve. In tal modo il fascismo risolve l’eterno problema della libertà economica e dell’intervento statale considerando luna e l’altro come puri metodi, che possono essere volta a volta applicati o messi in disparte. Quello che si dice per il liberalismo politico ed economico, vale per la democrazia. La democrazia si preoccupa soprattutto del problema della sovranità e del suo esercizio. Anche il fascismo se ne preoccupa, ma lo pone in modo fondamentalmente diverso. Per la democrazia la sovranità è del popolo, cioè della massa dei viventi. Per il fascismo, la sovranità è della società, in quanto si organizza giuridicamente, ossia dello Stato100.
La restaurazione della sovranità dello Stato come diritto 591
assoluto del potere politico poneva il problema di definire i caratteri della classe dirigente, cui era affidato il compito di esercitare il potere per il conseguimento dei fini remoti e degli interessi superiori della specie. E nella risposta al problema l’ideologia di Rocco mostra ancor più il suo carattere reazionario, nonostante l’uso spregiudicato dei mezzi moderni che Rocco proponeva per il rafforzamento dello Stato. La classe dirigente, infatti, negata la sovranità popolare, doveva essere composta da quei pochi spiriti eletti che sapevano sollevarsi al di sopra degli interessi materiali immediati, in cui era involta la massa popolare, per considerare soltanto i «grandi interessi storici» della società. Questa qualità, affermava Rocco, era «dote rarissima e privilegio di pochi». Non bastavano però l’intelligenza, le doti naturali, le qualità personali, ma «più forse ancora la chiaroveggenza istintiva di alcuni spiriti eletti, la tradizione, le qualità acquisite mediante l’eredità»101. La classe dirigente cui Rocco poteva riferirsi non era certamente la tumultuosa élite squadrista e neppure i più raffinati intellettuali fascisti «riformatori», bensì le vecchie classi dirigenti del potere economico e finanziario, le classi dominanti la vita sociale attraverso il controllo del sistema industriale e dell’apparato statale. Nessuna circolazione di nuove classi dirigenti, come era nella concezione di Mussolini, perché non vi era, secondo Rocco, la possibilità di ascesa di nuovi ceti, cosa che comportava comunque una rimessa in discussione dell’autorità dello Stato, una crisi della sovranità. Così il sindacato, di cui molto parlavano i teorici del corporativismo integrale, come Rossoni, che concepivano i sindacati come le strutture d’un nuovo Stato «popolare» 592
da cui sarebbero nate le nuove aristocrazie dirigenti, perdeva assoluta-mente qualsiasi caratteristica autonoma ed originale, per diventare soltanto uno degli strumenti nelle mani dell’alta borghesia. La classe dirigente, mirando alla conservazione dello Stato in cui identificava la propria conservazione, non poteva concepire altrimenti lo Stato se non come un’armatura d’acciaio che racchiudeva tutta la vita sociale nella rigida struttura del potere di classe e nell’insuperabile separazione fra governanti e governati. Rocco voleva realizzare uno Stato moderno per le vecchie classi dirigenti102. A questo scopo, egli aveva aderito al fascismo come, in un primo momento, aveva aderito al nazionalismo, dopo aver militato nelle file del partito radicale. Fra il nazionalismo e il fascismo di Rocco vi erano in effetti pochissime differenze, perché la sostanza della sua ideologia, definita sistematicamente già prima della guerra, restava immutata, non aveva subito alcuna sensibile variazione con l’esperienza della grande guerra e la mobilitazione di nuovi ceti sociali. La sua ideologia, come sintesi giuridica del pensiero autoritario moderno, non aveva eguali per rigore costruttivo ma neanche per mancanza di illusioni riformatrici per il rinnovamento dello Stato attraverso l’ascesa sociale della piccola borghesia e l’educazione di una nuova classe dirigente. A parte il contributo originale della sua dottrina giuridica, l’interpretazione del fascismo data da Rocco non si scostava molto, nelle linee generali, dall’interpretazione comune ai nazionalisti, nata da una capziosa adozione ideologica del fascismo da parte nazionalista. Secondo Rocco, dopo il 1921 era fuori discussione l’identità sostanziale fra i due movimenti e tale identità era a 593
tutto vantaggio dei nazionalisti, perché il fascismo veniva presentato come un fenomeno puramente nazionalista, nazionalismo di masse e di azione, ma sempre nazionalismo103. 5. «Mimetica» e «metessica» del fascismo I nazionalisti, come abbiamo visto, nutrivano un sentimento di superiorità nei confronti del fascismo, al quale volevano dare lezioni di storia e di filosofia politica. Per i nazionalisti, il fascismo era appena una forza, cioè qualcosa di brutale, di naturale, di elementare; efficace ma incosciente esplosione di sentimenti «nazionalisti» che non era stata accompagnata da un’adeguata coscienza storica della funzione del fascismo. Fino alla «marcia su Roma», i fascisti avevano avuto una politica di reazione contingente e, talvolta, persino pericolosa agli occhi dei nazionalisti per certi antichi legami ideologici con la democrazia, il socialismo, la repubblica. Tuttavia, dopo la «marcia su Roma», i nazionalisti non ebbero alcun dubbio che il fascismo era «pretto nazionalismo», «una grande realizzazione di nazionalismo» e per spiegare ciò la stampa nazionalista adoperò tutte le risorse della sua dialettica retoricostorica104. Vi era fra i due movimenti una «continuità mirabile» ma, ovviamente, i meriti del successo andavano soprattutto ai nazionalisti, che avevano da molti anni auspicato, pensato e lottato per il successo della reazione e la vittoria delle forze antidemocratiche. Così, l’unificazione fra nazionalismo e fascismo, avvenuta nel febbraio 1923, fu presentata dai nazionalisti come «una necessità storica nazionale»105, una vittoria sostanziale del nazionalismo sul fascismo: «Il nazionalismo ha così trionfato 594
su se stesso, sulla sua parte materiale e caduca; la sua reincarnazione nel fascismo segna la maggior vittoria dello spirito nazionalista». Per i nazionalisti, il fascismo era il braccio secolare della loro religione, di cui i fascisti avrebbero attuato i princìpi e fondato la chiesa. Crediamo di aver messo in luce, nella nostra narrazione, le principali matrici storico-politiche e i caratteri particolari dell’ideologia fascista perché si debba ancora ripetere che ci sembra in gran parte priva di fondamento l’asserita identità di nazionalismo e fascismo e la cattura ideologica del fascismo da parte dei nazionalisti. Il termine nazionalfascismo, coniato per indicare un fenomeno unitario, se ebbe in origine un efficace e comprensibile significato polemico, non ha alcun senso storiografico, perché i rapporti fra nazionalismo e fascismo, anche dopo la loro fusione, furono tutt’altro che risolti con la subordinazione del fascismo al nazionalismo e col pieno successo dell’ideologia nazionalista. Se il fascismo fece suoi taluni motivi dell’ideologia nazionalista, non per questo divenne una pura e semplice «pratica» di nazionalismo. Al contrario, se i nazionalisti fornirono al fascismo uomini politicamente preparati e il nazionalista Rocco creò le strutture giuridiche dello Stato fascista, la cultura e l’ideologia fascista non furono del tutto ispirate alla dottrina nazionalista, ma seguirono altre dottrine, spesso in contrasto o addirittura in antitesi con quella nazionalista. Il nazionalismo confluì nel fascismo e condizionò da destra la politica e l’ideoiogia del fascismo, ma di questo non fu che una componente e, dal punto di vista ideologico, neppure la più significativa, almeno per il periodo da noi preso in esame. I nazionalisti entrarono nel fascismo ma non si 595
«fusero» con i fascisti e conservarono sempre un ruolo autonomo, furono compagni di viaggio di cui il fascismo si servì e che cercarono di servirsi del fascismo, ma nei nazionalisti rimase sempre viva la diffidenza verso le aspirazioni innovatrici e le velleità rivoluzionarie di certe correnti fasciste. Le giovani generazioni veramente fasciste, anche se animate da spirito «nazionalista», non erano educate dal nazionalismo o non si riconoscevano interamente in esso, rivolgendosi piuttosto all’idealismo gentiliano, decisamente antinazionalista, o al sindacalismo integrale, teoricamente in antitesi con lo Stato autoritario nazionalista. Fra nazionalismo e fascismo, in conclusione, non vi erano solo differenze di temperamenti e di mentalità: diverse erano le origini culturali da cui traevano ispirazione i fascisti e nazionalisti, diverse le classi sociali da cui erano composti i loro movimenti e quelle a cui si rivolgevano; diversi - infine - i loro atteggiamenti di fronte allo status quo e le opinioni sul futuro del fascismo, sulla creazione dello Stato e sulla formazione di una classe dirigente fascista. Con ciò - sia ben chiaro - non intendiamo affatto sottovalutare l’importanza che ebbero i nazionalisti nel determinare la politica del fascismo e nel contribuire in misura notevole alla fondazione del regime autoritario di massa. Ma resta il fatto che all’influenza politica non corrispose un’eguale influenza sull’elaborazione dell’ideologia fascista, che aveva orientamenti diversi, anche se non sempre chiari, su temi comuni all’ideologia nazionalista. Gli intellettuali fascisti avvertirono il pericolo che, per l’autonomia e l’originalità del fascismo, costituiva il nazionalismo, come espressione più organica della mentalità 596
conservatrice e reazionaria, devota al sistema e ostile a mutamenti di classe dirigente. Gli ideati e le aspirazioni dei nazionalisti sull’assetto dello Stato nuovo erano molto diversi dalle aspirazioni, più confuse, degli intellettuali fascisti, i quali comunque non volevano uno Stato autoritario oligarchico e non riconoscevano il loro ideale nello Stato rocchiano. Anzi, in polemica con la concezione di Rocco, Bottai disse chiaramente, in una conferenza del 1925, che se il Fascismo […] realizza la critica alle utopie dell’illuminismo e dell’empirismo, dai cui sistemi sono nati il liberalismo e la democrazia, non è detto che esso debba irrigidirsi in un’accettazione pura e semplice di questa corrente di pensiero, generatore altresì di dottrine egoistiche e conservatrici, ripugnanti al nostro spirito»106.
E proprio dalla rivista di Bottai, «Critica fascista», vennero i più espliciti attacchi al nazionalismo e, direttamente, al discorso in cui Rocco aveva voluto definire l’ideologia del fascismo, con la pretesa di esserne l’unico vero interprete107. Ugo D’Andrea, che pure era di estrazione nazionalista, denunziò il fine reazionario del discorso di Rocco. Il suo ideale, osservava D’Andrea, non era lo Stato nuovo fascista ma lo Stato monarchico autoritario dell’alta borghesia, un sistema oligarchico fondato sul diritto divino della sovranità monarchica. Siffatta concezione non poteva conciliarsi col fascismo, che rivendicava una funzione a suo modo democratica, come partecipazione di masse, educate al sentimento nazionale, alla vita dello Stato attraverso nuovi istituti rappresentativi. Se il fascismo era «un profondamento e un’estensione della massa nazionale e un vigoroso balzo in avanti nella formazione di un’unitaria 597
coscienza nazionale come ripresa e conclusione del Risorgimento, esso non può concludersi con una limitazione dei diritti civili e politici dei più». Mentre appariva ben lontano il compimento della «rivoluzione fascista», nel discorso di Rocco, secondo D’Andrea, erano adombrati «gli elementi di una re-staurazione che sarebbe forse cara al Principe di Mettemich!». E proprio in questo senso il nazionalismo costituiva il punto di riferimento di quegli intellettuali fascisti, come il conte Fani Ciotti (Volt) i quali, con non minor spirito reazionario dei monarchici assolutisti e con eguale disprezzo verso qualsiasi forma di sovranità popolare, concepivano il fascismo non come una nuova forza storica, ma come uno strumento per un vero e proprio ritorno alla monarchia di diritto divino e al potere oligarchico delle caste nobiliari e dell’alta borghesia. Il fascismo, per costoro, non era un fenomeno nuovo nato dalla guerra e dalla crisi europea del liberalismo e del socialismo per cercare una «terza via» alla crisi del sistema liberale, ma soltanto una manifestazione dello spirito nazionalista reazionario: «Noi - affermava Volt108 vogliamo restaurare un ordine che non e né vecchio né nuovo, ma eterno. Noi propugnamo il principio di autorità, che non deriva dalla volontà degli individui comunque associati, ma ad essi si imponga dall’alto». Essi, cioè, esigevano una restaurazione antistorica del diritto divino della sovranità monarchica, con «una platonica aspirazione al cancellierato»109. La loro concezione escludeva, così, l’interpretazione del fascismo come un fenomeno di massa con caratteristiche autonome e originali, come rivoluzione politica di ceti medi destinata a sfociare in un regime fondato sull’egemonia politica di ceti borghesi 598
emergenti e su una vasta mobilitazione di masse, ed escludeva anche il problema essenziale della formazione di una nuova classe dirigente fascista, quale prova dell’effettiva autonomia ed originalità del fenomeno fascista. Il fascismo, come concreta forza politica che aveva il potere, si trovava di fronte a due vie: o seguire la via della pura e semplice reazione, negando oltre mezzo secolo di esperienze politiche, come se non ci fossero stati il socialismo e il sindacalismo, o disporsi sulla via di un rinnovamento riformista che, senza mettere in discussione la struttura borghese dello Stato né rinnegare la tradizione, garantisse il successo politico alla nuova borghesia con un più largo consenso di massa, con una estensione del senso dello Stato a quei ceti che, dal compromesso del Risorgimento, erano rimasti esclusi o estranei alla vita politica. Il futuro del fascismo, insomma, dipendeva dalla capacità di dare una risposta al problema posto dal socialismo: o il fascismo riusciva a far aderire le masse allo Stato oppure le masse che erano rifluite nel fascismo sarebbero tornate al socialismo. Così Gherardo Casini, su «Critica fascista»110: La vittoria del fascismo fu contrassegnata dalla volontà di essere Stato della nuova organizzazione politica, di fronte all’abdicazione dell’oligarchia governante. Di contro c’era un incomposto movimento di grandi masse operaie e agricole, desiderose di miglioramenti economici solo perché questa era stata la nota dominante della sinfonia socialista, ma di fatto anelanti a una dignità di vita nella nazione. Questo è il senso riposto e profondo della lotta fascismo-socialismo. Liberato dei molti errori tattici, oggi ancora rimediabili, prima che accumulati formino un’invarcabile barriera frapposta al nostro cammino, il fascismo deve assumere un senso nuovo nella politica nazionale. Coloro che amavano chiamarsi liberali han gettato la maschera e si appalesano come magnifiche tempre di conservatori nel senso più reazionario
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della parola, come feroci difensori del passato, di tutto il passato uscito dalle loro mani, in blocco, quasi ch’esso costituisse un corpus inalienabile di testi sacri. Le masse che furono socialiste aderiscono (bon grè, mal grè) al fascismo, ma sentono ancora segretamente che in un socialismo spoglio di molte utopie sarà domani il loro asilo. Qui si tratta per il fascismo di scegliere la via. O col nazionalismo rigidamente classista e disposto a perdersi nei deliqui imperialistici, fiancheggiati dai conservatori confessi e segreti, d’ogni tinta, ed allora il socialismo si ritroverà per opera dei suoi stessi nemici ad avere una rinnovata funzione storica. Oppure ubbidendo ad un vero spirito rivoluzionario essere il nuovo demiurgo della politica italiana e rinnovando ed erigendo nuovi istituti statali, mirare alla fondazione dello Stato forte, non conferendo allo Stato una falsa divinità, come asseriscono i modernissimi filosofi nostrani, ma cercando di infondere la coscienza e la volontà dello Stato nei più larghi strati che sono alla base della vita nazionale, e che nell’incessante mutevolezza della vita sociale esprimono dal loro seno le élites più atte al governo. Come queste masse potranno divenire Stato dovrà provvedere il fascismo attraverso la riforma costituzionale, con l’organizzazione degli interessi associati, preludio forse ad una lunga evoluzione verso forme nuove di sovranità politica. Ed essenziale è erigere questi istituti; ma coessenziale è pure educare in queste masse il sentimento di nazionalità, non sulle orme dell’ingannevole e falsa retorica nazionalistica dei pescecani e dell’elmo di Scipio, ma come concreta coscienza dei doveri derivanti dalla vita associata, nell’ideale della nazione come termine di elevazione e di potenziamento dell’uomo astratto nel cittadino, entità reale. Partito del lavoro a base nazionale e non nazionalista dovrà essere il fascismo, socialismo nazionale, direi, se il logoro senso delle parole non nascondesse fatti diversi da quelli ch’io intendo. Lo Stato in cui ad ognuno sarà affidato un compito di responsabilità proporzionato alla propria reale funzione nella vita nazionale non sarà più lo Stato-diligenza dei democratici o lo Stato-amministrazione dei liberali, o lo StatoMoloch degli idealisti, ma lo Stato nazionale degli italiani. Come programma di pratica immediata nasce da questo che il fascismo dovrà non solo a parole, ma coi fatti avvicinarsi alle masse che sentono ancora lo Stato come nemico sub specie Fisci, e parlare ad esse il linguaggio della cordialità non servile, ma franca e virile dovrà dare e non promettere ad esse una politica del lavoro. Infine non si tratta che di farsi mediatori fra la nazione e lo Stato, riducendo
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quella alla sua più comprensiva e genuina espressione, facendo di questo uno strumento squisitamente sensibile e saldo. Così fuor degli schemi mentali degli alchimisti politici il fascismo potrà compiere la prima vera e grande rivoluzione in Italia. Sostanziosa rivoluzione di fatti più che roboante fulminar di parole grosse e sogni di palingenesi storiche, fine intuizione di realtà vitali più che pensamenti apocalittici d’intellettuali decadenti. […]
La strada è ancora aperta: affrettiamo il passo prima che la nostra ora volga al tramonto!
Casini dava, nel suo articolo, una sintesi molto chiara del punto di vista degli intellettuali fascisti vicini a Bottai (o appartenenti alla corrente revisionista) di fronte al problema essenziale del fascismo e ai rapporti fra questo e il nazionalismo. Anche se aveva svolto un’utile funzione nel suscitare una ripresa dei sentimenti nazionali, il nazionalismo era considerato estraneo alla loro concezione di un fascismo rispettoso della tradizione ma non tradizionalista, fedele custode del sistema borghese ma convinto anche della necessità di rendere il sistema più moderno e più funzionale nell’interesse dei nuovi ceti borghesi, antidemocratico ma consapevole dei problemi di una società di massa, antibolscevico ma preoccupato di non apparire perciò reazionario. Nonostante le pretese di modernità, il nazionalismo apparteneva al modo di pensare ottocentesco e la sua ideologia, nei motivi essenziali e nello spirito, era un modello di mentalità positivista; la sua idea di nazione non si staccava dalla considerazione naturalista della specie etnica e dalla consacrazione mitologica delle glorie passate. La mentalità nazionalista non era stata per nulla modificata dalla rinascita idealistica, anche se aveva assunto i toni d’un movimento «idealista», 601
ma restava ancorata ad una concezione darwinista della vita sociale, cristallizzata nelle forme di reazione interna e di lotta all’esterno, «in un’aura sanza tempo tinta». Il nazionalismo non aveva partecipato neppure ai miti rivoluzionari della grande guerra e del combattentismo, da cui era nato il fascismo, perché ad esso la guerra era apparsa un episodio, grande ma normale, dell’eterna lotta fra le nazioni. Il problema del dopoguerra, per il nazionalismo, si esauriva nella martellante richiesta di una politica imperialista e, per la politica interna, di un ritorno alla monarchia autoritaria. L’essenza della politica nazionalista era la conservazione dell’ordine e la subordinazione della politica interna alla politica estera, «alla politica per eccellenza»111. Lo scopo del nazionalismo, come dei tradizionali movimenti e regimi conservatori, era la restaurazione dell’autorità dello Stato nelle forme istituzionali esistenti, secondo la fedeltà ad una tradizione mitica, considerata intangibile perché superiore alla volontà e al pensiero degli individui. Anche il nazionalismo proponeva un diverso tipo di organizzazione della società, ma il suo mito non era lo Stato (come era per i fascisti di questi anni) bensì la guerra e l’impero, e lo Stato non era concepito diversa-mente da una caserma o da un esercito, che non può ammettere disordini al suo interno. Non poteva, del resto, essere concepito diversamente uno Stato considerato in un perenne stato di guerra, nel quale la nazione, come un animale da preda, era destinata a vivere. Per queste ragioni i nazionalisti, a differenza dei primi fascisti, erano decisamente conservatori e diffidenti delle novità e consideravano (come disse più tardi un loro esponente) una «terribile epidemia» la «smania del nuovo e 602
dell’universale» che animava i vari movimenti sovversivi del dopoguerra112. Ora, se è fuori dubbio che negli anni Trenta il regime fascista si mise sulla strada tracciata, tanti anni prima, dal nazionalismo, avventurandosi in una politica estera di conquista coloniale e di espansionismo territoriale agitando la bandiera corradiniana della «nazione proletaria», è però anche vero che negli anni Venti né l’imperialismo, inteso come conquista territoriale, né il tradizionalismo, inteso come culto di un passato intangibile, furono gli elementi caratterizzanti dell’ideologia fascista, così come veniva elaborata nelle correnti più tipicamente fasciste, tanto di destra quanto di sinistra. L’imperialismo, come espansione coloniale e territoriale, restava sullo sfondo di una generica retorica della potenza italiana113. Il nazionalismo, in conclusione, era considerato, per dirla col Pellizzi, un fenomeno «mimetico», cioè conservatore, borghese, tradizionalista, devoto al mito del passato, materialista - mentre il fascismo doveva essere un fenomeno «metessico», cioè rivoluzionario, sindacalista, animato dall’attivismo e posseduto dal mito del futuro come creazione continua di nuove realtà sociali e politiche. Secondo Pellizzi, il nazionalismo era l’estrema destra della mentalità borghese-democratica nata dalla Rivoluzione francese e apparteneva, perciò, alla società che il fascismo voleva superare. Il nazionalismo, scriveva Pellizzi, con la sua connessa «realpolitik», è un prodotto di mentalità illuministica e democratica; è l’estrema destra di tutta quella realtà storica che ha avuto, come sua estrema sinistra, l’edonismo e l’economismo socialista. Realtà che ha polarizzato tutta la lotta politica nel mondo intorno alle nazioni, alle monadi nazionali (come in altri tempi si lottava intorno ai dualismi: impero-chiesa, o riforma-controriforma). Al centro di tutta questa realtà sta il liberalismo e il principio della
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autocrazia individuale. Principio che diciamo borghese per l’origine e la funzione da esso avuta nella storia; principio razionalista e protestante (autonomia della coscienza degli interessi individuali; la radice dell’autorità è nei singoli associati; la società è un contratto; i suoi ideati e i suoi miti in atto debbono essere, ora e qui, prodotto degli interessi e delle coscienze attuati dei singoli). Attraverso questo liberalismo le borghesie moderne nord occidentali hanno affermato il loro dominio. Ma le classi povere e lavoratrici trovarono che, se questo sistema di vita politica avvantaggiava l’ individuo borghese, nuoceva esso invece alla categoria, alla classe proletaria, che rimaneva economicamente schiava, e senza reale difesa di fronte all’egoismo dei pochi. E quindi accettò, anzi accentuo i princìpi di monadismo e contrattualismo; ma, come monade, intese la classe. E questo fu, complice la democrazia, il socialismo: il bubbone di estrema sinistra della società liberale. Il nazionalismo fu il suo bubbone di estrema destra. Non la classe e non l’individuo, si pensò, ma la nazione. Monade anch’essa, egocentrica, edonistica e razionalmente attiva nel mondo. Unità economica, politica, militare e tradizionale; trovante in se stessa la sua ispirazione, i suoi motivi, la sua legge; individuo libero fra altri individui liberi; contrattualmente legata per la sua libera iniziativa a tutti (il mito della Società delle nazioni) o a parte dei suoi individui consimili; tendente, nei limiti di queste leggi internazionali liberamente scelte, a soverchiarti e dominarti, almeno indirettamente. Socialismo e nazionalismo sono due derivazioni logiche e storiche del principio razionalista liberale114.
Le critiche di Pellizzi al nazionalismo erano parte essenziale della sua concezione del fascismo, che egli cercò di elaborare e diffondere con un’intensa attività giornalistica, mantenendo una posizione personale ma partecipando vivacemente ai dibattiti sul problema dello Stato, sulla formazione della classe dirigente e sulle dottrine in cui doveva riconoscersi la tradizione fascista115. I suoi libri principali, Problemi e realtà del fascismo (1924) e Fascismo aristocrazia (1925), sono il documento più significativo, dal punto di vista ideologico, che getta una luce sulla posizione di quei giovani intellettuali fascisti i quali non volevano rassegnarsi al conformismo della nascente dittatura 604
né alla brutale violenza squadrista, ma chiedevano che il fascismo diventasse «più legislativo e meno poliziotto, più “gran signore” e meno elettoralista; più sostanziale e persuaso, e meno sagraiolo e réclamista», perché vedevano chiaramente i limiti e la retorica della presunta «rivoluzione» e l’involuzione autoritaria del fascismo. Il pensiero di Pellizzi rifletteva, in questo senso, le aspirazioni, le idealità, le suggestioni di vario genere che animavano gli intellettuali fascisti nei primi anni di governo. Accanto alla vivacità intellettuale e alla capacità di assimilazione e di elaborazione di tradizioni diverse, il pensiero di Pellizzi rifletteva anche le ambiguità e gli equivoci dell’ideologia fascista, in un virtuosismo dialettico sincero quanto si vuole ma sostanzialmente esterno alla concreta situazione politica. Tuttavia, pur considerando questi limiti di fondo (comuni del resto a tutte le correnti più intellettuali dell’ideologia fascista), non si può non riconoscere nell’ideologia di Pellizzi lo sforzo più originale per sistemare in un «sincretismo» ideologico fascista i motivi principali che erano al centro del dibattito ideologico. Il risultato era un’interpretazione del fascismo come rivoluzione spirituale il cui motivo ispiratore non avrebbe dovuto essere né l’interesse di classe né l’egoismo nazionalista, bensì la creazione di uno Stato nuovo in cui concretizzare l’idealità fascista come attuazione dello spirito «metessico» degli italiani. Il fascismo era sostanzialmente un fenomeno politico, nel significato idealista e dinamico che il termine aveva in Pellizzi. La politica (o politia, per usare il termine di Pellizzi) era «arte intesa a devolvere l’opera presente e immediata alla soluzione di problemi lontani e futuri, a dominare il presente e il certo in vista di un lontano 605
e futuro probabile»116; era «continuo sforzo verso l’attuazione di un mito, e non […] “amministrazione” di interessi già dati e di problemi chiusi»117, in quanto «forma dello spirito che si innesta nella concretezza delle attività pratiche particolari»118. L’essenza e la funzione della politica non si esauriva nella ricerca di un equilibrio sociale fra forze contrastanti rivolte soltanto alla soddisfazione di esigenze economiche - come era proprio della civiltà nordeuropea da cui derivavano, secondo Pellizzi, il liberalismo, il socialismo e il nazionalismo, fenomeni essenzialmente borghesi - e non era soltanto un’empirica composizione di interessi presenti: essa «è creazione originaria dello spirito il quale si realizza in essa come assoluta responsabilità di se stesso e della propria azione, e in essa crea la propria personalità etica»119. Nell’ideologia fascista, la politica era il più alto dei valori umani, valore «metessico» perché rivolto sempre al futuro, e alla creazione di nuove realtà storiche. In questa valutazione Pellizzi concordava con Bottai, con Gentile, con lo stesso Mussolini. Del resto, la filosofia che circola nel pensiero di Pellizzi è l’idealismo gentiliano, con il senso dinamico e attivista della vita e la concezione della storia come processo inesauribile. Pellizzi affermava che il fascismo «intende fare i suoi tempi, non subire il passato od il presente»120. Tuttavia, Pellizzi non traduceva l’attivismo fascista in un cieco irrazionalismo, anche se questo era inevitabilmente collegato al culto dell’azione per l’azione. Egli ancorava il mito del futuro alla tradizione, perché la tradizione costituiva la «personalità storica» di una comunità sociale che sceglieva l’attivismo per non cristallizzarsi in una forma storica determinata. Al contrario, la natura «mimetica» si 606
manifestava con lo spirito conservatore e con il culto di una tradizione compiuta e immutabile. Pellizzi definiva l’attivismo fascista ottimismo tragico e attivo121: nessuna fede, cioè, nella totale redenzione del mondo in uno stato di perfezione, ma eterna lotta di valori per la continua creazione di «monumenti storici» - come Pellizzi definiva le grandi istituzioni, quali, per esempio, la Chiesa o l’Impero romano - in cui attuare, senza pensare di concludere il divenire storico, il proprio mito. Il mito è un elemento essenziale dell’ideologia fascista; nella particolare concezione di Pellizzi, era considerato il motore ideale della politica, qualcosa che non poteva esser definito ma che suscitava passioni e fede e dava origine ai fenomeni «metessici»; mito, dunque, nel senso soreliano, ma con un significato più ampio, quasi a rappresentare l’ideologia di una comunità nazionale in un determinato momento storico, come complesso di giudizi di fatto e di valore: Mito è per noi ciò che conduce alla creazione di un concreto monumento storico, un principio finale e in sé trascendente, ma che si rivela concretamente all’uomo in ogni chiarezza di dettaglio, via via che egli traduce nelle opere quotidiane quella superiore ispirazione122.
Secondo Pellizzi, il fascismo era il primo fenomeno «metessi-co» unitario nella storia d’Italia, e con caratteristiche essenzialmente italiane. Il mito del fascismo era la creazione di uno Stato nuovo. Ciò significava, secondo Pellizzi, educare e insediare al potere una nuova aristocrazia, cioè un gruppo di individui ispirati dal mito, animati dall’attivismo «metessico», guidati e rappresentati da un duce. Solo a condizione di creare una aristocrazia e uno 607
Stato nuovo il fascismo poteva realizzare il suo mito in un «monumento storico». Ma tanto l’aristocrazia quanto lo Stato, nel pensiero di Pellizzi, erano cose diverse da una concezione oligarchica del potere, alla maniera di Rocco e dei nazionalisti. L’aristocrazia fascista doveva essere un’aristocrazia «aperta», di qualità rivoluzionarie, elemento migliore del popolo da cui proveniva: non si trattava, quindi, di una concezione dello Stato che si sovrapponeva al divenire della società per bloccarlo in forme rigidamente reazionarie, ma di una concezione che, per il suo carattere, poteva anche dirsi «liberale»: La nostra concezione metessica - affermava Pellizzi - è sostanzialmente, non formalmente liberale. Si tende ad un mito nuovo (sebbene, razionalmente, eterno) e perciò si vuole una società dinamica, progressiva, aperta; ed è solo nella dinamica del non-Stato aristocratico che l’intima libertà creatrice dello spirito umano si celebra e si concreta, divenendo personalità assorbente e acquistando, attraverso quella, valore storico universale. Mentre, se si antepone lo Stato e la legge al predominio delle forze e delle personalità più vive, non si garantisce che il predominio di tutte le passività statiche e moltitudinarie, si ha la mediocrità dell’oggi che uccide la grandezza del domani123.
Lo Stato fascista, perciò, non doveva essere secondo Pellizzi la cristallizzazione di un ordine sociale particolare. Era uno Stato aristocratico, ma di un’aristocrazia «spirituale» non economica o nobiliare, per la quale lo Stato non era il completamento della propria azione politica né il fine delle sue aspirazioni. Lo Stato fascista, com’era definito da Pellizzi, non era una struttura immutabile, definita una volta per sempre in una formula qualsiasi: Lo Stato fascista è, più che uno Stato, una dinamo. Lo Stato fisso e determinato è un bisogno delle aristocrazie in declinare, o delle masse anonime; il fascismo invece è un’aristocrazia che deve affermarsi, e che, per sua natura, non può rinchiudersi su se stessa ; lo Stato è il partito degli
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immobili; il fascismo è un partito di semoventi124.
Lo Stato era lo strumento per attuare il mito di un’aristocrazia rivoluzionaria e come tale non era «una fissata realtà, ma un processo in atto» e come processo, sintesi di valori nuovi e tradizioni, in funzione del nuovo mito, che altro non era se non «unità,nuova di miti anteriori»125. Secondo Pellizzi, dunque, l’Italia che avrebbero voluto i fascisti non è uno Stato che è; è uno Stato che si fa. Ora noi qui precisiamo: questo farsi dev’essere il processo di affermazione di un’aristocrazia, e dev’essere il processo di fissazione di uno Stato aristocratico aperto, nel senso che abbiamo cercato di tratteggiare. Ai cosiddetti intellettuali corre l’obbligo di dar parole agli ideali e alle finalità di cui tutti gli altri hanno più o meno confusa coscienza. Non certo sorgerà dal fascismo un’aristocrazia pel solo fatto che l’autore di queste pagine abbia tanto parlato di aristocrazia; ma c’illudiamo di aver aiutato molti dei nostri a riconoscere che esiste questo problema ed a proporselo, nei pensieri e negli atti. Se l’Italia fascista deve vivere e deve vincere, presto o tardi essa dovrà meritare e conquistare la sua Magna carta’26.
I princìpi fondamentali della «magna carta» fascista, secondo Pellizzi, avrebbero dovuto essere: da una parte, per quanto riguardava l’ordine interno, la creazione dello Stato «metessico» aperto, con una funzione assolutamente politica; dall’altra, un motivo imperiale in cui il fascismo doveva esprimere la sua rivolta contro il mondo moderno della borghesia liberale e la sua aspirazione a creare una nuova civiltà di valore universale, superando il concetto «borghese» di nazione. In questo secondo motivo, Pel-lizzi delineava il carattere antiborghese e antinazionalista del fascismo, ma nei limiti di una considerazione puramente ideale e culturale. Secondo Pellizzi, il motivo imperiale era 609
congeniale alla natura degli italiani, i quali non avevano mai rappresentato una vera e propria nazione, ma avevano espresso sempre valori universali, come il cattolicismo. Perciò, secondo Pellizzi, il fascismo doveva essere cattolico, cioè universale e riconoscere nella Chiesa un modello di «monumento storico». Inoltre, poiché il fascismo era fenomeno «metessico» e spirituale, esso avrebbe dovuto superare il carattere economico e materialista della società borghese capitalista e di quella socialista, perché entrambe essenzialmente «mimetiche», cioè conservatrici di un ordine fondato esclusiva-mente sulla lotta degli egoismi nazionali o degli interessi di classe. In questo modo, Pellizzi cercava di riassumere i diversi motivi dell’antimodernismo, dell’attivismo e del tradizionalismo fascisti, trovando nell’idealismo attuale l’elemento di fusione e di combinazione, da cui trarre i caratteri dell’ideologia fascista in maniera originale, costituita in un sistema «aperto» coincidente con la prassi ispirata dall’ottimismo tragico, con un indirizzo prevalentemente modemizzatore, che avrebbe dovuto concretarsi progressivamente in un sistema politico di tipo internazionale, come superamento, in termini di cultura e di mentalità, della civiltà liberale e del bolscevismo. Il fascismo, perciò, nella valutazione di Pellizzi, conteneva molto della filosofia liberale, come concezione dialettica e dinamica della storia e rifiuto di qualsiasi fanatismo statalista in senso conservatore e burocratico. Come rifiutava il nazionalismo verso l’esterno, con i corollari di imperialismo coloniale e di militarismo, così all’interno Pellizzi voleva che il fascismo fosse sintesi della molteplicità delle caratteristiche regionali, senza fare dell’Italia «un‘unica caserma prussiana» o sacrificare la 610
dinamica delle sue forze per l’ideale «filisteico e borghese» della concordia nazionale. Il fervore culturale di Pellizzi non trovava però alcun riscontro nei caratteri del regime fascista, che si stava delineando attraverso le prime leggi repressive e autoritarie. L’antiborghesismo fascista, a parte la retorica di costume, non andava al di là della questione culturale e non intaccava minimamente il potere della grande borghesia finanziaria e industriale, su cui il regime fondava gran parte delle sue forze. Tutt’al più, l’antiborghesismo rifletteva residui dello spirito di rivolta dei ceti medi contro l’alta borghesia, i quali trovarono soltanto una soddisfazione «sovrastruttu-rale» nel regime fascista, mentre i rapporti di forza all’interno della struttura sociale e politica rimasero, nelle fondamenta, immutati, grazie al compromesso maturato e confermato anche dopo il 3 gennaio. Non per nulla, Suckert aveva protestato contro la nuova politica di normalizzazione allora iniziata, per il fatto che, come ha scritto De Felice, «il 3 gennaio rischiava di diventare la pietra tombale sulla “rivoluzione fascista”»127. L’assunzione di un nazionalista d’ordine come Federzoni al ministero degli interni simbolizzava molto significativamente, agli occhi di Suckert, la trasformazione della rivoluzione in un regime poliziesco di tipo reazionario. Né poteva sfuggire, ad un osservatore attento come Pellizzi, la tendenza reale, nel fascismo, «a creare un regime di assolutismo in alto e di demagogia in basso», come egli scriveva alla fine del 1925128. Di fronte ai primi passi sulla strada del regime autoritario, alla sconfitta del sindacalismo come struttura autonoma del nuovo Stato fascista e delle aspirazioni tecnocrati-che, al prevalere delle forze economiche e politiche 611
tradizionali, attraverso la mediazione del Duce, nell’ambito del fascismo, con la scomparsa del ruolo autonomo e fondamentale del partito - di fronte a questa involuzione restavano poche speranze, secondo Pellizzi, per la realizzazione dello Stato aristocratico aperto. Il fascismo aveva opposto alla democrazia soltanto «una tendenza e una specie di nostalgia dittatoria. Ora, se con questo taluno credesse di aver definita una rivoluzione, costui sbaglierebbe». Rivoluzione era superamento della democrazia e della dittatura, principi astratti, nella sintesi concreta dello Stato aristocratico aperto, nel senso illustrato da Pellizzi. Uno Stato fondato, come l’aristocrazia, su un popolo differenziato e consapevole, non una massa amorfa, ma gerarchia «che è salita dal basso» e raccoglie i cittadini consapevoli e attivi nella vita dello Stato. Un concetto, secondo Pellizzi, «antiassolutista e antidispotico e, almeno in linea di principio, antidittatorio, poiché il cittadino non può e non deve ammettere né tollerare che la sua dignità gli venga conferita e misurata dall’alto». Tutt’altra cosa, però, la realtà del regime fascista: Noi fascisti c’illudiamo di avere disperso le nebbie della demagogia, e invece la grande malattia romantica, il culto sentimentale della massa e dell’uno, termini opposti e quindi reciprocamente necessari, non è ancora affatto guarita in noi. Noi non vediamo il divenire gerarchico e selettivo della grande vicenda nazionale: vediamo la folla e l’uomo; la platea e il solista sul palcoscenico.
Senza far mostra di avvedersene, Pellizzi indicava così i due termini entro i quali era ridotta l’idea dello Stato, quale poteva essere concepita da un uomo che considerava la politica soltanto una manifestazione della volontà di potenza e lo Stato un’istituzione di ordine necessaria per dominare la 612
natura ferina degli uomini. 6. L’ideologia di un «capo» Il dibattito ideologico all’interno del fascismo interessò Mussolini soltanto per le conseguenze politiche che poteva avere e nella misura in cui poteva servire a rispondere alla esigenza del fascismo e del potere del Duce: durare; «la mia parola d’ordine: durare, inflessibilmente, giorno per giorno, mese per mese, anno per anno»129. La sua politica consisteva nell’usare, secondo le circostanze, sia le tesi dei revisionisti che quelle degli intransigenti, avendo cura però di far risaltare nella sua opera che il potere vero del fascismo non era nel partito ma nello Stato, e che il motore dello Stato era il Duce. Per il resto, egli poco tollerava la polemica delle tendenze, che non rispondevano all’immagine monolitica che egli voleva dare del fascismo: Queste parole di revisionismo, estremismo, terribilismo, ecc., sono state sepolte in una maniera che si può dire definitiva - disse al consiglio nazionale del PNF il 7 agosto 1924130 -. Credo che non se ne parlerà per un pezzo. Del resto era più un’esercitazione dei nostri avversari che una cosa per sé stante. In realtà mi pareva impossibile che l’amico Bottai, che è un fascista del ‘19, che è più giovane di me, che è un ardito di guerra, volesse impaludare il suo intelletto nelle acque più o meno acquitrinose di un pantano sia pure neoliberale. E mi pareva impossibile, d’altra parte, che Farinacci, che a sua volta ha un temperamento ed un cervello, ed è fascista del ‘19, volesse sul serio chiedere cose che non sono possibili, giacché abbiamo tutto: Governo, province, comuni, abbiamo le Forze armate dello Stato, arricchite di recente da un’altra forza armata, che è entrata di fatto e di diritto nella Costituzione. La seconda ondata non avrebbe che dei bersagli fuggevoli ed effimeri. Se nel 1922 ci fu un fatto rivoluzionario, la rivoluzione deve continuare attraverso l’opera legislativa, attraverso l’opera dei Consigli fascisti, del Gran Consiglio fascista, del governo fascista.
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Coerente con il suo pragmatismo, Mussolini dichiarava, con enfatica ostentazione, il suo disprezzo per un fascismo «culturizzato» e per i filosofi che «risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono però incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita»131. Egli era convinto che la «forza e la vitalità del fascismo sono da ricercarsi anche nella sua estrema elasticità mentale, che non lo ha mai allontanato dalla vita, la quale è mobile, mutevole, complessa, piena di imprevisto»132. Da queste affermazioni sembrerebbe confermata l’immagine tradizionale di Mussolini come uomo dotato di notevole fiuto politico ma soltanto istintivo, senza alcuna concezione politica, ignaro dei problemi della società contemporanea, opportunista mediocre ambizioso di potere ma incapace di adoperarlo oltre la vanità della propria persona e il gusto dell’unanimità plaudente. Abbiamo già osservato, nel primo capitolo di questo libro, che una simile immagine, pur cogliendo indubbiamente alcuni tratti caratteristici della personalità mussoliniana, non ci offre gli elementi per una comprensione razionale del suo successo politico che vada al di là di un impressionistico mito «capovolto» del duce carismatico, cioè in possesso di un carisma distruttore e negativo. La personalità di Mussolini, come ha osservato De Felice133, era un miscuglio di personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se stesso e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore di ogni atto e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un significato morale, un valore che non fosse provvisorio, strumentale, tattico.
Ciò non impedì a Mussolini di diventare un capo e di mantenere per lunghi anni il consenso intorno alla sua 614
persona134. Una via, a nostro parere, per comprendere le ragioni di questo successo può essere quella di esaminare la concezione politica di Mussolini in relazione con i problemi posti, nella società contemporanea, dalla necessità di governare le masse. Mussolini non era soltanto un istintivo fortunato che riuscì per gran parte della sua vicenda politica ad imboccare la strada giusta grazie al fiuto. Il fiuto sarebbe stato un mezzo fragile se non accompagnato da una consapevolezza, per quanto rozza e sommaria, del ruolo di un capo nella società di massa. Ora secondo noi, tale consapevolezza non mancava a Mussolini e gli permise di sviluppare, negli aspetti positivi ma ancor più in quelli negativi, le sue doti naturali di politico. Il Mussolini fascista si pose coscientemente il problema del potere politico nella moderna società di massa. Da politico egli elaborò, nella sua riflessione sparsa e occasionale, una personale ideologia del capo, che divenne uno degli elementi costitutivi e distintivi fondamentali dell’ideologia fascista, un modello per i «fascismi» stranieri ma anche per un certo tipo dell’uomo di Stato nuovo, diverso dai tipi tradizionali delle società e dei regimi liberali135. Mussolini - come si è visto - aveva intuito fin dalla grande guerra che l’avvento delle masse nella vita politica, con un’ulteriore e più radicale massificazione della società italiana, avrebbero provocato profondi conflitti fra le varie classi e i diversi strati della borghesia, creando tensioni nuove fra i ceti tradizionali. Per dirla in termini sociologici, Mussolini si rese conto che la guerra, provocando una disintegrazione della società, aveva dato il via ad una mobilitazione sociale e ad una crisi di valori politici. Su questa intuizione di fondo, che ci sembra evidente, egli 615
cercò di elaborare i temi della sua azione, dando una risposta ideologica e una guida politica ai ceti medi che la guerra aveva mobilitato liberandoli da una condizione di sottomissione alla grande borghesia e al proletariato organizzato e svegliando in loro desideri di ascesa sia sociale che politica, con i propositi di tentare una propria carta rivoluzionaria. Nella misura in cui Mussolini riuscì a soddisfare queste esigenze dei ceti medi, egli conquistò il successo al fascismo fino agli anni del regime. Nella sua esperienza di capo socialista, egli -come tutti gli altri componenti della classe dirigente fascista originaria aveva imparato a conoscere le masse, a intuirne gli umori, e sollecitarne l’azione. Poiché in occasione della guerra le masse popolari si erano dichiarate francamente neutrali e non avevano seguito Mussolini nel suo disegno della guerra rivoluzionaria, egli si orientò, soprattutto dopo il reflusso della mobilitazione dei ceti proletari seguita all’occupazione delle fabbriche, verso la piccola e media borghesia, parlando un linguaggio conforme ai suoi desideri e alle sue aspettazioni. Nonostante il suo innato disprezzo per le masse (che, come ha notato molto bene Piero Melograni, era comune ad altri capi del nostro tempo e non costituiva un limite al fascino da essi esercitato sulle medesime), Mussolini era convinto di essere e fu, senza dubbio un capo, nel senso almeno che questo termine aveva nei primi studi sulla psicologia delle folle e sul ruolo del capo nei moderni movimenti di massa. Mussolini conosceva questi studi attraverso l’opera di Roberto Michels136 e di Gustave Le Bon. Quest’ultimo era uno dei pochi autori, insieme a Nietzsche, Pareto e Sorel (ma il Sorel del «mito»!), che 616
abbia lasciato una marcata impronta nella formazione della mentalità e dell’ideologia di Mussolini e che abbia suscitato in lui sempre grandi elogi: «Ho letto tutta l’opera di Gustavo Le Bon - dichiarò Mussolini137 -, e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. È un’opera capitale, alla quale ancor oggi spesso ritorno». Poiché abbiamo già parlato dei rapporti dell’ideologia mussoliniana con il pensiero di Nietzsche, Pareto e Sorel, crediamo necessario soffermarci sui rapporti con il pensiero di Le Bon, perché da questo egli derivò alcuni temi che servirono a rendergli chiara la sua intuizione sulla funzione e i metodi del potere nella società moderna e sul carattere delle folle. Il mito del «duce» è stato costruito da Mussolini, molto chiaramente, sul modello del capo disegnato da Le Bon. Le Bon aveva previsto che il nostro secolo sarebbe stato Vera delle folle: «La voce delle folle è divenuta preponderante. Detta ordini ai re. È nell’anima delle folle, e non più nei consigli dei prìncipi, che si preparano i destini delle nazioni»138. Nel pensiero di Le Bon, le folle non sono informi agglomerati di individui ma sono realtà umane che hanno una personalità, una mentalità, un carattere: sono poco inclini al ragionamento ma pronte all’azione, concepiscono soltanto idee semplici tradotte in immagini, sono irrazionali e nutrono sentimenti profondi ma volubili, sono serviti verso le forti personalità e tendono sempre verso un «Cesare», purché questi sappia comprendere la loro psicologia e parlare il loro linguaggio, hanno convinzioni radicate nella tradizione e sono naturalmente conservatrici, pur avendo la propensione al caos e alla distruzione se non sono addomesticate da un 617
uomo forte e legate saldamente alla loro razza e alle loro tradizioni. Nella psicologia delle folle le tradizioni hanno un’importanza grandissima: «Sono la sintesi della razza e gravano su noi con tutto il loro peso»: Un popolo è un organismo creato dal passato. Come ogni organismo non può modificarsi se non attraverso lente accumulazioni ereditarie. La vera guida dei popoli sono le tradizioni e, come ho ripetuto molte volte, tali tradizioni mutano facilmente soltanto nelle forme esteriori. Senza tradizioni, vale a dire senza anima nazionale, non è possibile alcuna forma di civiltà. Le più grandi occupazioni dell’uomo, da quando esiste, sono state due: creare le tradizioni e poi distruggerle, quando gli effetti benefici di esse erano finiti. Senza tradizioni stabili non c’è civiltà; senza la lenta eliminazione delle tradizioni non c’è progresso. La difficoltà sta nel trovare un giusto equilibrio tra la stabilità e la variabilità. Ed è una difficoltà immensa139.
Le folle hanno bisogno di credere; la fede è l’elemento necessario sia per creare la loro coesione e la loro docilità, sia per spingerle all’azione. La virtù principale dei capi è quella di suscitare questa fede. Nell’era delle folle, il ruolo del capo è fondamentale: Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti - si tratti di una mandria di animali o di una folla d’uomini - ricercano d’istinto l’autorità di un capo, di un trascinatore. Nelle folle umane, il capo ha un compito importante. La sua volontà costituisce il nucleo attorno al quale si formano e si identificano le opinioni. La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone’
Le qualità principali del capo, secondo Le Bon, sono la fede in se stesso, la volontà, l’autorità dispotica e il prestigio. La funzione dei capi è quella di ordinare le folle in organismi unitari e promuovere, in questo modo, la nascita di nuove 618
civiltà. La tendenza delle folle, lasciate a se stesse, è la distruzione e la fine di ogni civiltà. Se consideriamo, dopo questo rapido sommario delle idee fondamentali di Le Bon, talune espressioni dell’ideologia di Mussolini, non ci sarà difficile riscontrare una corrispondenza notevole, prova che tali idee erano congeniali alla personalità del Duce. Documenti significativi, a questo proposito, sono l’articolo Forza e consenso, del 1923, e il saggio Preludio al Machiavelli del 1924. In essi Mussolini espone con una certa sistematicità le sue idee sulla crisi dello Stato liberale, la funzione del potere statale, la natura degli uomini e il ruolo del capo. Secondo Mussolini, il liberalismo era stata un’ideaforza adatta al primo sviluppo del capitalismo e alle lotte nazionali del secolo XIX. Come ideale e metodo di governo, esso risultava insufficiente per i tempi nuovi, in cui erano nati due grandi fenomeni di massa, il fascismo e il comunismo, che avevano in comune la loro avversione al liberalismo. La libertà non era più un valore assoluto, ma un mezzo utile a seconda delle circostanze. I tempi nuovi avevano riportato il potere esecutivo, la forza nel suo ruolo primario e insostituibile. Mussolini aveva compreso che la crisi dello Stato liberale era stata determinata dall’avvento delle masse nella vita politica. Le masse potevano essere brute, rozze, irrazionali, ma erano una realtà che non poteva essere cancellata e con la quale bisognava fare i conti. Non si poteva governare contro o senza le masse, ma neppure si poteva concepire, secondo Mussolini, un governo fondato soltanto sulle masse, cioè sul consenso. La forza era essenziale quanto il consenso ma la necessità di garantire il consenso era appunto un esplicito riconoscimento all’enorme e insopprimibile ruolo delle masse nella vita 619
politica moderna. Governare nella società moderna significava usare la forza delle masse e ciò, come aveva dimostrato Le Bon, comportava la necessità per i capi di seguire le masse, pur cercando di non lasciarsi trascinare da esse. Ciò significava - per Mussolini - assecondare il riflusso dell’ondata «rivoluzionaria» seguita alla guerra e la ricomparsa dei sentimenti tradizionali di integrazione. La libertà, affermava Mussolini, non attraeva le masse: «Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono ordine, gerarchia, disciplina»141. Il problema delle masse - che, secondo la concezione lebo-niana, tendono naturalmente al caos e alla distruzione se non trovano un capo che le riduca in stato di docilità rendeva necessario il ricorso ad un potere assoluto e unitario, capace di soddisfare le masse ma imponendo ad esse una disciplina nello Stato, ricercando il loro consenso attraverso l’utilizzazione dei loro sentimenti di conservazione e di devozione al capo e il loro attaccamento alle tradizioni. La concezione leboniana delle folle dava una conferma al pessimismo di Mussolini sulla natura degli uomini e sulla necessità dello Stato. Rileggendo Machiavelli alla luce delle sue esperienze di governo, egli affermava che il pensiero del Segretario fiorentino era ancora attuale sia nella definizione della politica come arte di governare gli uomini, sia nella valutazione pessimista della loro natura, sia sulla necessità insopprimibile dello Stato per impedire la dissoluzione delle società nell’anarchia. Mussolini accettava, con estrema franchezza, il giudizio negativo sugli uomini dato da Machiavelli e, muovendo da questa considerazione 620
che per lui era di carattere universale, passava ad esporre la sua idea dello Stato come potere assoluto ed unico depositario della sovranità: se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende ad evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro - eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C’è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove incominci esattamente né dove finisca. L’aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare […]. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia […] il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai142.
Secondo Mussolini, le società stavano vivendo in tempi eccezionali, in uno stato permanente di guerra, per cui era sempre più necessario il ricorso al potere assoluto, alla 621
volontà indiscutibile di un capo. Da qui derivavano le sue critiche al parlamentarismo, regime di assemblea che frantuma la sovranità con la divisione e la lotta dei partiti, e i suoi impliciti elogi al bolscevismo che, secondo il Duce, risolveva con metodo diverso lo stesso problema del fascismo, dare cioè uno Stato alle masse. Il problema della sovranità, nel pensiero di Mussolini, era risolto riaffermando il ruolo assoluto del potere esecutivo143. Del resto, secondo Mussolini - ed anche in questo è evidente un riflesso delle idee di Le Bon144 - tutta la storia della civiltà era una continua limitazione della libertà dell’individuo145. La critica di Mussolini al liberalismo e al parlamentarismo non era originata da convinzioni ideologiche reazionarie; non era una critica dottrinaria di principio, come per i nazionalisti o i tradizionalisti nostalgici dell’ancien ré-gime, ma una critica alla funzionalità sociale del sistema e dell’ideologia liberale per la conquista e per la conservazione del potere nella società di massa e nei tempi moderni. Nel suo «solipsismo»146, Mussolini non aveva riserve di principio, ma soltanto considerazioni di opportunità, di efficienza e di realismo. All’origine di queste valutazioni vi era l’atteggiamento di fondo che Mussolini aveva verso la realtà, cioè l’attivismo e lo scetticismo sui valori umani. L’esperienza difficile dei primi anni di governo e i contrasti con gli uomini del suo partito avevano aumentato in lui sia il pessimismo che lo scetticismo, mentre cresceva la convinzione della sua natura di capo, che sente le masse e non ha bisogno di organi intermedi per dirigere la loro azione e intendere le loro aspirazioni. Lo Stato, organizzazione insopprimibile contro la natura ferina degli 622
uomini, si trasformava nel pensiero di Mussolini in dittatura cesaristica fondata sul ruolo del «duce». Sprezzante delle masse come presunte depositarie di chiara volontà e coscienza politica, diffidente dei suoi compagni di partito, incapace di creare attorno a sé una classe dirigente, Mussolini doveva necessariamente concepire il ruolo del «duce» come principio fondamentale dello Stato fascista e rinviare alle future generazioni il compito di creare la classe dirigente fascista e l’italiano nuovo. Il Duce era l’unico attivo mediatore del compromesso fra fascismo e vecchio Stato liberale e interprete diretto della volontà delle masse. In lui era riposto l’ago del difficile equilibrio fra tradizione e innovazione. Il significato del capo nell’ideologia e nello Stato fascista è spiegato bene in un libro sul pensiero di Mussolini, Nietzsche e Machiavelli uscito nel 1939: Il Capo […] è un’espressione della massa e - più o meno inconsciamente interpreta la volontà di potenza che è, oscura, nella massa stessa. Il Capo è la condizione necessaria alla grandezza di un popolo, ma è pure il popolo stesso che rende possibile il Capo. E ci sono legami di razza di lingua di nazionalità, legami psicologici che legano Capo e popolo e che non possono fare del secondo il puro e semplice strumento del primo, perché si tratta di natura viva, che si può e si deve piegare a forza, che si deve magari porre duramente sulla dritta e grande strada perché altrimenti non saprebbe né vorrebbe trovarla ma è materia viva, della stessa sostanza del Capo, capace di sacrificarsi per il Capo e per tutto quanto vedono impersonato nel Capo; non un puro e semplice «armento» che il «Capo-pastore» possa guidare ad un compito esclusivamente «proprio». Non esistono crasi così nette e recise nella natura umana da far considerare a un grande Capo le proprie azioni come tendenti a fini che non si risolvono pure in fini della restante umanità guidata.
Mussolini concepì lo Stato fascista secondo il suo modello del ruolo del capo, solitario artista che lavora la materia 623
umana ma non può formarla senza assecondarla. Lo Stato fascista, pertanto, si reggeva sul fondamento più difficile a conquistarsi e a mantener saldo, cioè il consenso creato intorno alla figura del capo. Mussolini sapeva che il prestigio del capo è basato sul successo. Avendo poggiato lo Stato fascista sul prestigio del «duce», Mussolini fu spinto, negli anni del regime, mentre la «rivoluzione fascista» diventava sempre più ima dittatura personale, a conservare il consenso attraverso la ricerca continua del successo, anche per mezzo dell’avventura imperialista. Discepolo di Le Bon, Mussolini non ignorava l’avvertimento del maestro: «L’insuccesso distrugge sempre il prestigio»147.
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Conclusione Il 22 giugno 1925 Mussolini chiuse a Roma il quarto (e ultimo) congresso del partito fascista, in un clima di generale euforia. Il fascismo aveva vinto, le opposizioni erano disperse o impotenti, le prime leggi fondamentali del regime erano state poste, il contrasto delle correnti pareva definitivamente rientrato di fronte all’unanimità dei consensi intorno a Mussolini. «Il Partito Nazionale Fascista - disse il duce1 - è oggi granitico ed unanime come non fu mai». Lo Stato fascista si apprestava ad educare «la generazione italiana dei silenziosi operanti». Nel suo discorso, Mussolini riassunse brevemente i princìpi e i programmi del fascismo ed affermò che il fascismo doveva diventare un nuovo modo di essere italiani, doveva creare l’italiano nuovo. Nel futuro Stato fascista, ogni generazione sarebbe stata educata e selezionata per compiti specifici: «A volte - disse Mussolini - mi sorride l’idea delle generazioni di laboratorio, di creare cioè la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto del mistero; la classe dei giudici; la classe dei grandi capitani di industria, dei grandi esploratori, dei grandi governatori». Queste erano le generazioni che creavano gli imperi politici, spirituali o economici. Per il fascismo, «la mèta è quella: l’impero», non come un programma di conquiste territoriali ma quale nuovo mito da infondere nelle masse. La società nazionale, perciò, doveva essere unita e disciplinata all’interno. Per questo fine, la parola d’ordine era una sola: «tutto il potere a tutto il fascismo». E il fascismo era il duce, perché i fascisti non erano guariti di lui, perché «evidentemente ogni grande 625
movimento deve avere un uomo rappresentativo che di questo movimento soffra tutta la passione e porti tutta la fiamma. Ebbene, o camerati, ritornate alle vostre terre, che io amo, e gridate con alta voce e con sicura coscienza che la bandiera della rivoluzione fascista è affidata alle mie mani». In un commento al congresso («nel quale si è parlato poco e si è ascoltato molto e dove tutte le deliberazioni sono state prese all’unanimità») su «Gerarchia» si prevedeva la fine del partito, perché «il regime fascista è la negazione del partito»2. Col congresso si chiudeva dunque il periodo del fascismo movimento e si iniziava l’era del regime. La fase tumultuosa delle origini, prolungatasi nel travaglio ideologico dopo la conquista del potere, si era conclusa. Il fascismo presentava ormai i caratteri definiti di un fenomeno politico nuovo, che gli stranieri guardavano non solo con avversione, ma ancor più con curiosità e interesse. I princìpi ideologici, emersi nel dibattito delle correnti fasciste, cominciavano a diffondersi e a far proseliti anche fuori d’Italia. In un discorso alla Camera, del novembre 1925, il duce dichiarò enfaticamente che il fascismo era la prima idea italiana, dopo alcuni secoli, che suscitava interesse in tutto il mondo: intorno ad un’idea italiana, intorno ad un’esperienza politica italiana, il mondo si divide pro e contro […]. E mentre io affermo che non è possibile all’estero copiare il fascismo perché diverse sono le condizioni storiche, geografiche, economiche e morali, affermo però che ci sono nel fascismo fermenti di vita il cui carattere universalistico non può essere negato3.
Per l’opinione pubblica europea il fascismo non era un fenomeno negativo privo di idee ma, insieme al bolscevismo, era considerato uno dei grandi movimenti politici sovversivi 626
nati dalla guerra, dalla crisi del sistema liberale e borghese, e destinato, per la sua ideologia e la sua origine sociale, a rappresentare, in antitesi al bolscevismo, l’alternativa ai sistemi liberali. Fascismo e bolscevismo, affermava nel 1924 Georges Valois, erano due aspetti della medesima reazione contro lo spirito borghese, contro la plutocrazia: Au financier, au pétrolier, à l’éleveur de pores qui se croient les maìtres du monde et veulent l’organiser selon la loi de l’argent, selon les besoins de l’automobile, selon la philosophic des cochons, et plier les peuples à la politique du dividende, le bolschevisme et le fascisme répondent en levant l’épée4.
Mentre il bolscevismo, per il suo carattere slavo ed orientale, avrebbe rappresentato una minaccia di barbarie per l’Europa latina, il fascismo avrebbe potuto salvare la civiltà occidentale met-tendo al servizio della nazione e del popolo gli strumenti della ricchezza. Il fascismo costituiva, dunque, un’ideologia positiva, esprimeva cioè un progetto di trasformazione della società secondo princìpi propri che sembravano assumere un valore e un significato al di là della situazione italiana, come soluzione alla crisi sociale, politica ed economica dell’Europa dopo la grande guerra. Se si esclude nel fascismo italiano l’esistenza di un’ideologia positiva (nel senso spiegato) - di cui in queste pagine abbiamo descritto l’origine e le componenti principali, in relazione con la realtà storica e sociale - diventerebbero difficilmente comprensibili i motivi del successo che il fascismo ebbe in altri paesi d’Europa, come la Francia, dove fu quasi inesistente come forza politica ma ebbe invece ima notevole risonanza fra gli intellettuali. Diventerebbe, inoltre, del tutto irrazionale - come in realtà non fu -l’adesione da parte di 627
uomini con notevoli qualità intellettuali, che subirono il fascino del fascismo al punto di seguirne con coerenza il destino e di mettere in gioco la loro dignità e perfino la loro esistenza. L’ideologia degli intellettuali fascisti non si spiega soltanto con 1’opportunismo, la malafede, l’ignoranza o l’inganno, escludendo con ciò un’adesione convinta e coerente fatta per scelte consapevoli e per reale corrispondenza di ideali e di obiettivi. Il fascismo, senza un’ideologia, non sarebbe apparso a molti intellettuali come una rivoluzione spirituale contro le degenerazioni e il materialismo della società industriale, capitalista o comunista; una «rivoluzione» da cui doveva nascere un uomo nuovo, rigenerato nel corpo e nello spirito. Questo fu il mito di tutte le ideologie fasciste: lo scrittore fascista francese Robert Brasillach scriveva che in Italia era nato un nuovo esemplare umano, l’uomo fascista, che andava a porsi dopo l’homo faber e l’homo sapiens5. Il mito dell’uomo nuovo ebbe molta importanza nel dibattito ideologico dei vari movimenti fascisti a partire dalla seconda metà degli anni Venti. Esso nasceva dalla convinzione di una crisi profonda della società e della cultura borghese tradizionale, che aveva avuto il suo ideale nell’uomo cartesiano ottimista razionalista, fiducioso nella Verità e nei propri strumenti logici per comprenderla e descriverla in modo chiaro e distinto, un uomo sicuro del suo destino in un mondo governato dalla Ragione e dalla ripetizione di leggi immutabili, avviato verso un progresso indefinito, nella crescita e nello sviluppo inesauribile della ricchezza e della civiltà industriale. La grande guerra aveva sconvolto le basi sociali di questa cultura. L’ideologia fascista nacque su un terreno favorevole, preparato dalle 628
critiche che, con diversi motivi e da varie parti, negli anni a cavallo della guerra, erano state rivolte contro l’idea di una Verità oggettiva intangibile e definita. L’ideologia fascista sorse dalla crisi dello storicismo razionalistico, cioè di una concezione del mondo basata sulla razionalità del divenire storico secondo la dialettica dello Spirito o della Materia, destinato alla realizzazione del Bene sulla terra. L’identità hegeliana di realtà e ragione era stata il saldo fondamento dell’ideologia borghese e la molla speculativa della rivoluzione marxista. I giovani, che avevano sofferto il trauma della guerra in uno stato d’animo di particolare esaltazione, considerarono questa identità e il complesso di idee che ne derivavano - razionalismo, ottimismo, fiducia nella natura umana e nel progresso della società industriale, certezza nella razionalità degli avvenimenti e nel determinismo delle leggi storiche - la ragione principale di un impoverimento «spirituale» dell’uomo, sradicato dalla tradizione, e una deformazione della vita nelle abitudini piccolo borghesi del moralismo e del buon senso, nell’ideale dell’utilità e del profitto. Tutto ciò costituiva, per i giovani fascisti, un freno al libero dispiegarsi delle energie della personalità, il cui nucleo più autentico era posto al di là della soglia razionale. I movimenti artistici e politici del primo ventennio del Novecento erano animati da questo spirito di rivolta contro la società borghese e liberale nell’età dell’industrialismo, quando la forte avanzata del proletariato da una parte e il crescente potere della grande borghesia finanziaria dall’altra avevano tolto il respiro ai ceti medi e li avevano gettati in balìa di forze che essi ignoravano e temevano. La guerra provocò la fine violenta del precario equilibrio su cui si 629
reggeva la società liberale, e fece coagulare intorno al fascismo lo spirito di rivolta della piccola e media borghesia. La presenza di questa base sociale è un elemento determinante - come abbiamo mostrato più volte nel nostro lavoro - per comprendere i caratteri dell’ideologia fascista a partire dal 1921. Fino a quel momento, l’ideologia del fascismo fu soltanto un tentativo per dare ad un’esperienza (la guerra) e ad una condizione temporanea (il combattentismo) un valore politico e sociale, al di là del generico «reducismo». Quando però la base sociale si estese a ceti sociali, con proprie aspirazioni, ideali e interessi, allora l’ideologia fascista seguì la trasformazione del movimento ed acquistò, pur conservando alcuni miti del primo fascismo, una varietà di temi nuovi, che erano tipica espressione dei ceti medi. Il loro motivo comune di fondo era il rifiuto delle ideologie tradizionali, sia di destra che di sinistra, e la ricerca di un nuovo complesso di idee in cui fossero determinanti l’esperienza, la cultura, la tradizione nazionale. Nel delineare i caratteri generali dell’ideologia fascista, il primo fatto da tener presente è che il fascismo ebbe come principio della sua ideologia la critica delle ideologie. Attraverso l’opera dei suoi capi originari che avevano vissuto l’esperienza ideologica socialista o sindacalista, il fascismo acquisì come nuova concezione politica le conclusioni di quel filone del pensiero critico contemporaneo che, da Marx a Pareto e a Sorel, aveva messo in risalto il valore pratico e la funzione strumentale delle ideologie. L’antiideologia, tipica del fascismo ma comune ad altre ideologie di questa «epoca di transizione», è un atteggiamento mentale di fronte alla politica che il fascismo per primo adottò nella lotta contro determinate 630
concezioni di origine positivista e storicista. Legate ad un razionalismo che si sovrapponeva alla concreta vicenda storica, queste concezioni mostrarono dopo il trauma della guerra di non saper dare una risposta ai problemi nuovi nati da situazioni sociali impreviste. Per il fascismo, dunque, le ideologie erano idee-forza, con fini essenzialmente pratici, sintesi di azione e oggetto di fede, come i miti soreliani, che dovevano esser presi «quali mezzi per operare nel presente»6. In un libretto fascista si legge che i fascisti non credevano che esista un problema delle ideologie; un problema cioè che risolva in quale di esse - quelle conosciute - segga la verità in trono […]. Allora, dunque, lottare per un’ideologia è lottare per una mera parvenza? Senza dubbio, se si tolga di considerarla nel suo unico ed efficace valore, psi-cologico-storico. La verità dell’ideologia è in quel suo mettere in moto tutte le nostre capacità ideali e attive. La sua verità è assoluta per quel tanto che essa, vivendo in noi, è bastante ad esaurire tutte quelle capacità7.
Nella nostra narrazione crediamo di aver ampiamente dimostrato che non si può limitare l’ideologia fascista a questo aspetto negativo e strumentale. A partire dal 1921, infatti, essa si arricchì di temi che acquistarono mano a mano consistenza e consenso. Scomparirono, indubbiamente, i motivi originari più radicali ma anche più deboli politicamente, come espressione «aristocratica» di un’esperienza vissuta e meno efficaci, perciò, a diventare miti di massa, di una massa composta essenzialmente dai ceti medi. L’elemento essenziale che caratterizzò l’ideologia del fascismo italiano fu Y affermazione del primato dell’azione politica, cioè il totalitarismo, inteso come risoluzione totale 631
del privato nel pubblico, come subordinazione dei valori attinenti alla vita privata (religione, cultura, morale, affetti, ecc.) al valore politico per eccellenza, lo Stato. Il nucleo centrale e costante dell’ideologia fascista fu la concezione dello Stato come attuazione della volontà di potenza da parte di una minoranza attivista che era rivolta alla realizzazione del suo mito e tendeva a costituire, nella società, un gruppo politico autonomo nelle sue scelte e indipendente da tutte le forze che lo avevano appoggiato e condizionato nella sua ascesa al potere. Tale gruppo era immaginato come una classe di moderni Platoni, che dovevano costruire uno Stato organico e dinamico in cui allevare Yuomo nuovo fascista. La politica, per loro, era un valore assoluto fine a se stesso: «la nostra politica affermava Giuseppe Bottai - è vita nel senso pieno, assoluto, ossessionante della parola»8. Di conseguenza, nonostante i risultati effettivi, l’ideologia del fascismo fu la piu completa razionalizzazione dello Stato totalitario, soprattutto per l’apporto ideologico dell’idealismo gentiliano: «Il sistema fascista - affermò Gentile9 - non è un sistema speculativo, ma ha nella politica e nell’interesse politico il suo centro di gravità […]. La politica fascista si aggira tutta intorno al concetto dello Stato nazionale». L’ideale fascista dello Stato era una società organizzata gerarchicamente e subordinata ad un’aristocrazia politica «aperta»; che traeva la legittimità del suo potere soltanto dalla perpetuità della sua azione. L’attivismo, dunque, non era solo un atteggiamento mentale ma anche un fattore essenziale per la durata dello Stato fascista e costituiva, con questo, l’altro elemento fondamentale dell’ideologia fascista. Come è stato 632
notato10, il rapporto fra l’attivismo di Mussolini e quello di Gentile, nella comune risoluzione della vita e della conoscenza nell’azione, non era casuale. Nulla esiste al di fuori dell’azione e nulla sopravvive all’esperienza dell’azione: L’inazione è il più grande peccato dello spirito. Idee e valori non restano appartati fuori della vita, ma possono venire integrati dalle nostre azioni nella vita. L’ozio e la passività ci tengono lontani dai valori essenziali, e, per conseguenza, dalla realtà e dalla vera vita. Ogni atto ed ogni creazione fanno parte della vera vita spirituale. Valore ideale, realtà e vita vengono messi in istrettissimo rapporto dal concetto di attività. In tanto io ho un valore, in quanto agisco; o -per dirla diversamente - soltanto nell’azione si esplica la mia realtà. La vita sta non nel sogno e nella speculazione, nel contemplare le cose e nel rappresentarcele, bensì nell’azione risoluta. Il compimento di un’azione e di un’opera dovuta ad una retta volontà, questa irradiazione di energia nella vita sociale, è non soltanto un criterio per la realtà, ma la realtà stessa. Non ci si limita a dire: «agisco, dunque sono», ma: «nell’azione stessa risiede la mia realtà». Tali teorie filosofiche, come si vede, invadono il campo dell’attività pratica: in tanto vivo la mia vera vita, in quanto mi esplico nella vita presente. Occorre soprattutto non farsi sfuggire il momento propizio, ed essere sempre in grado di far valere la propria individualità nella vita sociale. Il passato non è più; l’avvenire non è ancora. Nel presente fortemente sentito sta la realtà e il significato della vita.
Il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell’attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia, che lo distinsero dalle altre ideologie politiche dei nostro tempo. Il fascismo fu soprattutto uri ideologia dello Stato, di cui affermava la realtà insopprimibile e totalitaria, necessario per imporre un ordine alle masse ed impedire la degenerazione della società nel caos. Come tale, fu l’antitesi dell’ideologia comunista, che è ideologia della società in quanto prevede - a parte le attuazioni storiche -la realizzazione di una collettività di liberi e di eguali non 633
differenziati né subordinati gli uni agli altri dagli effetti dell’organizzazione del potere nello Stato. Il fascismo, perciò, non fu un’ideologia di masse ma per le masse, perché, se comprese l’importanza delle masse nella società contemporanea, non riconobbe ad esse il diritto e la capacità, in quanto «massa», di esprimere un’idea politica e di autogovernarsi secondo princìpi di eguaglianza e di libertà, ritenuti diritti naturali. Il fascismo fu una negazione radicale, quasi un’antitesi storica dei princìpi della Rivoluzione francese, essenza di tutte le ideologie democratiche: la lotta politica fuor d’ogni riduzione parlamentare è trasportata […] sopra un terreno storico coi caratteri d’un vero contrasto politico che è contrasto di due spirituali atteggiamenti diversi per dottrina e costume. C’è una nuova filosofia che ha avuto i suoi inizi con la filosofia antirazionalista e antipositivista. C’è una nuova civiltà politica bandita dal fascismo che vede oggi tutte le forze d’un vecchio mondo e delle vecchie dottrine riunite nella difesa attorno alle formule, ai miti, alle «ombre» del passato. In quel processo di revisione della politica demoliberale che rappresenta il fatto fondamentale della crisi politica in quasi tutti gli Stati rappresentativi moderni, negli anni del dopoguerra, il fascismo è stato il movimento che maggiormente ha costituito l’affioramento alla luce di una nuova ideologia e di una nuova coscienza politica in antitesi col regime demoliberale e parlamentare: ed era quindi naturale che questo duello ideologico tra due civiltà politiche avesse tra noi la fase più drammatica e decisiva11.
Antitesi dell’ideologia comunista e democratico-liberale, l’ideologia del fascismo si distinse anche dalle ideologie conservatrici e da quelle reazionarie. Non si può certo negare che vi furono idee affini fra loro, ma le discriminanti fondamentali furono l’attivismo e il primato della politica. Il pensiero conservatore, infatti, nelle sue varie espressioni, si 634
presenta come uno scetticismo verso qualsiasi mutamento radicale che non tenga conto delle condizioni storiche e naturali e, anche se non accetta i princìpi e i metodi di un determinato ordine costituito, ritiene che la conservazione dell’ordine e la sua lenta mutazione, secondo un ragionevole e cauto realismo politico, siano più utili alla società di una trasformazione rivoluzionaria che pretenda annullare le condizioni storiche e sovrapporsi alla natura degli uomini. Il conservato-re non ha il mito del futuro, inerente ad ogni attivismo, e non accetta il primato della politica - né di qualsiasi altra specie -mostrandosi fedele, crocianamente, alla distinzione fra le forme autonome dello spirito. Le ideologie reazionarie, invece, hanno per principio fonda-mentale e denominatore comune l’idea dell’Ordine, archetipo assoluto, universale, trascendente. La politica è considerata uno strumento al servizio di valori eterni ed immutabili, metastorici o - secondo talune ideologie reazionarie - realizzati in una particolare società del passato remoto. A differenza dell’ideologia fascista, il pensiero reazionario ha il mito del passato e giudica la storia una continua degenerazione da una età sacrale. Fra l’ideologia reazionaria, la conservatrice e la fascista si possono trovare, e vi furono, collusioni e confusioni, ma non si può parlare di identità né di genesi da un unico ceppo. La diffusa opinione di una cattura ideologica del fascismo da parte del nazionalismo risulta così infondata. Se di cattura si vuol parlare, si deve capovolgere il rapporto, nel senso che fu il fascismo, nella sua spregiudicata utilizzazione di forze e di idee, ad assorbire il nazionalismo, il quale sopravvisse all’intemo dell’ideologia fascista come una corrente ben distinta e mai del tutto assimilata. 635
Il fascismo affermò l’idea della nazione come mito, mentre per i nazionalisti la nazione era una realtà naturale, per i reazionari un principio tradizionalista indipendente dalla volontà degli individui, un passato che condiziona il presente e determina il futuro secondo percorsi immutabili. Per il fascismo non vi erano valori o princìpi oggettivi, validi per sé, da tramandare o da rispettare nella tradizione del passato: «Il mito è una fede, una passione. Non è necessario che sia una realtà. E una realtà, nel fatto che è un pungolo: che è una speranza, che è fede e coraggio»12. In un mondo considerato senza senso, la vita umana diventava solo una manifestazione della volontà di potenza senza giustificazione metafisica o etica. L’ideologia fascista non è assimilabile, pertanto, a nessuna forma di tradizionalismo, di riconoscimento e fedeltà a valori permanenti nel cangiamento storico, che acquistano prestigio dalla loro tradizione e non perché - come il fascismo concepiva la tradizione - utili ed efficaci instrumenta regni. Questo carattere originale dell’ideologia fascista è stato illustrato con grande chiarezza da Henri Lemaitre: Il nazionalismo, in effetti, si presenta come tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un patrimonio storico, un’eredità legittimata, il più delle volte, dal riferimento a valori trascendenti, politici, morali, religiosi (è il caso, per esempio, del nazionalismo alla Barrès). Il passaggio del nazionalismo al fascismo avviene con una specie di caduta del nazionalismo al livello della pura immanenza storica, come è accaduto a quegli intellettuali che, nel 1940, si sono convertiti al fascismo. Infatti il fascismo, al contrario, concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza, dal momento che si fa della storia l’unico assoluto teorico, è naturale che la volontà di potenza presente nell’azione storica diventi il solo assoluto concreto. La storia, allora, non è considerata più come nel nazionalismo una fedeltà alla tradizione ma come creazione continua, che ha il diritto di rovesciare tutto ciò che si oppone al suo cammino, e come una deliberata accelerazione del divenire umano.
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Ciò spiega perché il fascismo non solo faccia uso della violenza - l’uso della violenza non essendo proprio solo del fascismo - ma faccia della violenza persino un assoluto perché, secondo la moderna ideologia del divenire storico, la violenza non si limita più ad essere un mezzo della storia, ma ne diventa in qualche modo il fine, come se la violenza fosse, per così dire, la forma suprema dell’energia sociale, creatrice di storia13.
Da quanto detto finora possiamo dedurre anche la differenza di fondo fra l’ideologia fascista e quella nazista. Come ha dimostrato George L. Mosse14, il nazismo rappresentava, nonostante il suo attivismo, l’affermazione di una tradizione naturale e spirituale data - cioè svincolata dall’adesione e dalla volontà individuale -, la tradizione del Volk, fortemente socializzata in tutti i ceti della società tedesca. Il fascismo, al contrario, si trovava di fronte un popolo che non aveva alcuna tradizione ideologica unitaria, se non quella cattolica, e in cui nessun’idea politica era diffusa a tal punto da poter costituire un efficiente strumento di mobilitazione e di coesione. A questo scopo, anche il fascismo cercò di elaborare, negli anni del regime, un’ideologia tradizionalista, capace di eccitare i sentimenti delle masse sfruttando razionalmente i miti del cattolicismo, della romanità e del mondo rurale, che erano molto diffusi nella maggioranza degli italiani. L’elemento tradizionalista era un fattore importante per la conservazione del regime in quanto, secondo Le Bon, le masse sarebbero dominate da sentimenti di attaccamento alla tradizione. Non potendo ancorare la loro mobilitazione ad una tradizione propria, era inevitabile che nell’ideologia fascista l’elemento personale, la figura carismatica del Duce assumesse un ruolo essenziale per divenire il punto di riferimento concreto degli ideali delle masse e il motore dell’intero sistema fascista.
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Questa visione della politica di massa e la concezione fascista della vita crearono un atteggiamento fascista sul modo di fare politica, di organizzare la vita sociale, di concepire le finalità di gruppo non secondo la logica e la persuasione, ma facendo appello all’istinto, alla fede, al sentimento, all’immaginazione, al fascino magnetico del Duce. A questo proposito, bisogna osservare che l’irrazionalismo dell’ideologia fascista, lungi dall’essere solo una manifestazione di istinti ciechi, era la conseguenza di una svalutazione razionale della ragione quale protagonista della storia e della politica. La concezione fascista dell’uomo si ricollegava alle idee di Nietzsche, di Pareto, di Le Bon, di Sorel, ai critici della scienza, ai profeti del tramonto dell’occidente, ai filosofi dell’antiintellettualismo che esaltavano la vita e l’azione: la filosofia della vita trionfava, dopo il processo di distruzione della ragione ad opera della ragione medesima. E il fascismo, cioè la classe dirigente fascista e Mussolini in particolare, cercarono di utilizzare razionalmente e consapevolmente l’irrazionalità delle masse, quale era stata descritta dalla «psicologia delle folle», trovando una certa rispondenza nei sentimenti dei ceti medi, di cui gli stessi fascisti erano partecipi. Il gruppo fascista era concepito, perciò, come un gruppo legato da vincoli di fede. Il fascista non sceglieva una dottrina né la discuteva, perché era soprattutto un credente ed un combattente. Nei confronti del costume liberale, il fascismo apparve un’evasione da tutto ciò che dava dimensione e misura alla vita sociale e le toglieva il carattere pittoresco, mistico, eroico, avventuroso. L’avventura, l’eroismo, lo spirito di sacrificio, i rituali di massa, il culto 638
dei martiri, gli ideali di guerra e di sport, la devozione fanatica al Duce: questi erano i caratteri del comportamento del gruppo fascista, con un atteggiamento essenzialmente soggettivo verso la politica. Non senza ragione, quindi, si è parlato di «romanticismo» fascista, per definire una concezione estetica della vita politica15. Secondo i fascisti, il fascismo avrebbe rialzato i «valori dello spirito» contro il materialismo del capitalismo e del comunismo. L’uno e l’altro umiliavano l’individuo nella figura del funzionario sottoposto alla regolarità burocratica, dell’operaio al servizio della produzione e della macchina, del cittadino educato alla morale piccolo borghese del guadagno e del benessere, indifferente verso la vita politica e sociale, chiuso nel suo egoismo, oppure avvilito nel degradante sistema collettivistico e soffocato nella anonimità dell’urbanizzazione. Il fascismo, al contrario, sembrò un’ideologia politica che riportava il colore e la gioia nella vita sociale. Nello Stato totalitario immaginato dal fascismo e realizzato, almeno nell’aspetto esteriore, con l’uso dei moderni mezzi di propaganda, la vita civile diventava uno spettacolo continuo, dove l’uomo nuovo fascista si esaltava nel flusso della massa ordinata, con la ripetizione dei riti, con l’esposizione e venerazione dei simboli, col suggestivo richiamo alla solidarietà collettiva fino a raggiungere, in momenti di alta tensione psicologica ed emotiva, la fusione mistica della propria individualità con l’unità della nazione e della stirpe, attraverso la mediazione magica del Duce, che avrebbe realizzato una democrazia di massa, senza diaframmi di false rappresentanze. Taluni di questi aspetti sono propri dei regimi di massa e possono trovarsi in altri sistemi totalitari. Ma nel fascismo, per le 639
premesse della sua ideologia e l’uso razionale dell’mazionalismo, vennero presentate come l’ideale della vita sociale e costituirono un non trascurabile fattore di successo. L’organizzazione del consenso era fondata su questi cerimoniali, che spesso finivano col diventare la sostanza del regime. Infatti un sistema politico basato sull’irrazionalismo riduce consapevolmente la partecipazione politica, individuale e collettiva, allo spettacolo di massa (a ciò, tuttavia, si può giungere anche attraverso la degenerazione pratica di ideologie totalitarie fondate sul razionalismo). E non può accadere diversamente, quando si disprezza nell’uomo l’idealismo razionale, la capacità di conoscenza logica della realtà, il bisogno di persuasione e di comprensione, il sentimento innato della propria intima individualità. Quando questo disprezzo diventa uno strumento di seduzione politica, l’uomo è inevitabilmente degradato ad elemento cellulare della folla. Il suo consenso non è più conquistato per mezzo di discorsi razionali, ma soltanto con gli strumenti della sopraffazione psicologica, con la violenza morale, con la manipolazione delle coscienze e la degradazione della vita alla pura esteriorità. Esaltando la fantasia e l’immaginazione, eccitando i pregiudizi di gruppo, le angosce, le frustrazioni, i complessi di grandezza o di miseria, si distrugge nell’individuo la capacità di scelta e di critica. I simboli e i riti, le cerimonie di massa e la consacrazione mitica di atti banali della vita sociale diventano alla fine l’unica forma di partecipazione reale delle masse al potere politico, come protagoniste del dramma che si svolge con loro, ma al di sopra di loro. E in ciò il regime e l’ideologia 640
del fascismo furono, senza dubbio, un fenomeno moderno.
641
Note all’introduzione 1 Gli orientamenti più recenti della storiografia sul fascismo, specialmente nel campo della storia culturale, sono stati esaminati, con la sua consueta finezza di giudizio, da Niccolò Zapponi, Fascism in Italian Historiography, 1986-93: A Fading National Identity, in «Journal of Contemporary History», ottobre 1994, pp. 547-568. Per una valutazione dei progressi della storiografia sul fascismo dopo gli anni Sessanta, dal punto di vista di chi scrive, rinviamo a E. Gentile, Fascism in Italian Historiography: In Search of an Individual Historical Identity, in «Journal of Contemporary History», aprile 1986, pp. 179-208. 2 I risultati conclusivi della nostra ricerca furono pubblicati all’inizio del 1974: cfr. E. Gentile, Alcune considerazioni sull’ideologia fascista, in «Storia contemporanea», marzo 1974, pp. 115-125. 3 A. Asor Rosa, Gli intellettuali dalla Grande guerra a oggi, in L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N. Tranfaglia, Milano, 1980, pp. 218-219. 4 P.G. Zunino,
L’ideologia del fascismo,
Bologna, 1985, p. 14.
5 G.L. Mosse, Masses and Man, Detroit, 1987, p. 15. 6 D. Cantimori, Conversando di storia, Bari, 1967, p. 134. A proposito di questo orientamento storiografico, qualcuno ha paventato che il riconoscimento della presenza dell’irrazionale «al di fuori di adeguati strumenti analitici rischia di “plagiare” lo storico» facendo «tornare in auge una visione inevitabilmente irrazionale delle vicende umane, negatrice di nessi significativi tra fatti e sentimenti, tra le realtà istituzionali e gli stati del cuore e della mente» (D. Cofrancesco, La nazionalizzazione delle masse: società e politica nel ’900, in «Economia & Lavoro», a. XVII, n. 3, pp. 133-150). Ma si tratta di apprensione infondata, del tutto fuori luogo in riferimento all’orientamento storiografico sopra descritto, e tipica di studiosi i quali, per quanto poco provvisti di adeguata competenza ed esperienza del concreto lavoro storiografico, pretendono tuttavia di valutarne metodi e risultati, confondendo sovente il giudizio storico con il concettualismo tautologico e la predicazione moralisticopolitica. 7 Per una argomentata definizione del fascismo come fenomeno rivoluzionario, nella prospettiva dell’autore, cfr. E. Gentile, Il fascismo fu una rivoluzione?, in «Prospettive Settanta», ottobre-dicembre 1979, pp. 580-596. 8 Cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Partito e Stato nel regime fascista, Roma, 1995, pp. 75 ss. 9 Un accusatore concludeva la sua recensione con un non troppo
642
velato appello censorio nei confronti dell’editore del libro, chiedendosi «perché certe case editrici consentano a questa storiografia di produrre non lievi ombreggiature sul loro blasone antifascista» (G. Santomassimo, L’ideologia del fascismo, in «L’Unità», 16 ottobre 1975), mentre un altro accusava il libro di essere frutto di «una storiografia che attraverso il filologismo interessato e l’empirismo obiettivistico finisce sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo» (G. Quazza, Antifascismo e fascismo nel nodo delle origini , in Fascismo e capitalismo, a cura di N. Tranfaglia, Milano, 1976, pp. 63-66). 10 E. Collotti,
Fascismo, fascismi,
Firenze, 1989, pp. 165, 17, 54,
50. 11 Tipico in questo senso l’articolo di MacGregor Knox, Conquest, Foreign and Domestic, in Fascist Italy and Nazi Germany, in «Journal of Modern History», marzo 1984, pp. 1-57. Una tesi analoga è sostenuta da A.J. Joes, Fascism in the Contemporary World: Ideology, Evolution, Resurgence, Boulder, 1978. 12 J.J. Linz, Some Notes Toward a Comparative Study of Fascism in Sociological Perspective, in Fascism, a cura di W. Laqueur, New York, 1979, pp. 26-27. 13 Zunino, 14
Ibidem,
L’ideologia del fascismo,
cit., p. 50.
p. 11.
15 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, IV, Dall’Unità ad oggi, Torino, 1975, pp. 1235-36. La tesi di una «cattura» ideologica del fascismo da parte del movimento nazionalista venne ribadita, per esempio, da F. Gaeta, Nazionalismo italiano, Roma-Bari, 1981, per contestare la nostra interpretazione, che invece mette in risalto le differenze fra le due ideologie e, senza sottovalutare l’apporto dell’ideologia nazionalista all’elaborazione dell’ideologia fascista, riconosce a quest’ultima una propria autonomia. Secondo Gaeta, il nostro giudizio dipendeva dall’adozione della distinzione fra «fascismo-movimento» e «fascismo-regime» proposta da De Felice nella sua Intervista sul fascismo (Roma-Bari, 1975): avvalendoci di tale distinzione, affermava Gaeta, noi avremmo «privilegiato aspetti e gruppi particolari» del «fascismo-movimento» «sulla base di una deliberata non considerazione dello Stato autoritario di massa e di un interesse eccessivamente prevalente per gli «intellettuali» dissenzienti o semidissenzienti del regime» (p. 82). In realtà nella nostra interpretazione non vi era, e non vi poteva essere, alcun richiamo alla distinzione defeliciana, perché Xlntervista sul fascismo fu pubblicata dopo la pubblicazione di questo libro. Quanto all’altra osservazione - aver privilegiato, nella nostra indagine, gli intellettuali «dissenzienti o semidissenzienti» -non ci pare che tali possano essere definiti gli intellettuali ai quali abbiamo dedicato la maggior parte della nostra analisi, cioè Marinetti, Bottai, Pellizzi, Malaparte, Gentile, Panunzio, Rocco. Infine, per quanto riguarda
643
il problema della «realtà dello Stato autoritario di massa», tale «realtà» non rientrava nei termini cronologici della nostra indagine, che si arrestava al 1925; ma nell’ambito della nostra trattazione era comunque presa ampiamente in considerazione, nel capitolo sul mito dello Stato, l’ideologia nazionalista e lo «Stato autoritario di massa». Per una ulteriore precisazione dei rapporti fra le ideologie del movimento nazionalista e del fascismo, cfr. E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini della crisi dello Stato nazionale in Italia, in «Storia contemporanea», n. 6, 1993, pp. 833-887. 16 Cfr. Gentile,
Il fascismo fu una rivoluzione?,
cit.
17 Z. Sternhell, Fascist Ideology, in Fascism, a cura di W. Laqueur, cit., p. 379. 18 P. Burrin, Autorité, in Nouvelle histoire des idées politiques, a cura di P. Ory, Paris, 1987, p. 527. Cfr. anche P. Milza, Les fascismes, Paris, 1991, p. 317. 19 Z. Sternhell, Ni droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Paris, 1983, p. 40; trad. it. Né destra, né sinistra, Firenze, 1984. Id.,
20 Cfr. I. Berlin, Joseph de Maistre and the Origins of Fascism, The Crooked Timber of Humanity, London, 1990, pp. 91-174.
in
21 Z. Sternhell, M. Sznajder e M. Asheri, Naissance de l’idéologie fasciste, Paris, 1989; trad. it. Nascita dell’ideologia fascista, Torino, 1993. Oltre questo studio, sul sindacalismo rivoluzionario e i rapporti col fascismo, dal punto di vista ideologico, cfr. A.J. Gregor, Sergio Panunzio. Il sindacalismo e il fondamento razionale del fascismo, Roma, 1978; D.D. Roberts, The Syndicalist Tradition and Italian Fascism, Manchester, 1979; F. Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, 1984; Id., Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, 1988; Id., Il sindacalismo fascista, voi. I, Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Roma, 1988. 22 A.O. Olivetti, in Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, cit., p. 45. 23 Sternhell, Sznajder e Asheri, Naissance de l’idéologie fasciste, cit., p. 50. Il dissenso dal metodo di analisi e da talune tesi sulle origini e sul carattere dell’ideologia fascista non attenua, per chi scrive, il riconoscimento dell’importante contributo che gli studi di Sternhell hanno dato finora alla conoscenza della «destra rivoluzionaria» in Francia, alla riflessione sulla crisi ideologica e culturale europea negli anni precedenti la nascita del fascismo e nel periodo fra le due guerre mondiali, e all’approfondimento del dibattito storiografico sul fascismo. 24 Cfr. D. Settembrini,
Fascismo controrivoluzione imperfetta,
644
Firenze, 1978. 25 Cfr. A.J. Gregor,
The Ideology of Fascism,
New York, 1969.
26 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano, 1974, pp. 113-114. 27 Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari, 1989. 28 Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, 1982, pp. 3-28. 29 N. Zapponi, G.L. Mosse e il problema delle origini culturali del fascismo: il significato di una svolta, in «Storia contemporanea», settembre 1976, p. 478. 30 H. Williams,
Concepts of Ideology,
New York, 1988, p. 59.
31 J. Schnapp, Forwarding address, in Fascism and Culture, in «Stanford Italian Review», n. 1-2, 1990, p. 54. 32 R. Griffin, The Nature of Fascism, London, 1991, pp. 47-48. Id., Fascism, Oxford, 1995. 33 Sulle connessioni fra fascismo e avanguardia modernista: Faschismus und Avant-Garde, a cura di R. Grimm e J. Hermand, Frankfurt am Main, 1980; E. Gentile, From the Cultural Revolt of the Giolittian Era to the Ideology of Fascism, in Studies in Modern Italian History, a cura di F.J. Coppa, New York-Frankfurt, 1986, pp. 103-119; Fascist Aesthetics, numero speciale di «South Central Review», estate 1989; W.L. Adamson, Fascism and Culture: Avant-Gardes and Secular Religion in the Italian Case, in «Journal of Contemporary History», luglio 1989, pp. 411-435; Id., Modernism and Fascism: The Politics of Culture in Italy, 1903-1922, in «American Historical Review», aprile 1990, pp. 359-390; Fascism and Culture, numero speciale della «Stanford Italian Review», voi. 8, n. 2, 1990; W.L. Adamson, The Language of Opposition in Early Twentieth-Century Italy: Rhetorical Continuities between Prewar Florentine Avantgardism and Mussolini’s Fascism, in «Journal of Modern History», marzo 1992, pp. 22-51; Fascism, Aesthetics, and Culture, a cura di R.J. Golsan, Hanover (NH), 1992; W.L. Adamson , Avant-Garde Florence. From Modernism lo Fascism, Harvard, 1993; A. Hewitt, Fascist Modernism: Aesthetics, Politics, and the Avant-Garde, Stanford, 1993; E. Gentile, The Conquest of Modernity: From Modernist Nationalism to Fascism, in «Modernism/ Modernity», settembre 1994, pp. 55-87. 34 Gentile,
Alcune considerazioni,
cit., pp. 123-124.
35 Cfr. J.T. Schnapp, Epic Demonstrations: Fascist Modernity and the 1932 Exhibition of the Fascist Revolution, in Fascism, Aesthetics, and Culture, a cura di Golsan, cit., p. 3.
645
36 Gentile,
The Conquest of Modernity,
cit.
37 N. Zapponi, I miti e le ideologie, in Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, voi. VII, Napoli, 1983, pp. 203-204. 38 Su Gentile e il fascismo il confronto delle interpretazioni è divenuto più intenso nell’ultimo decennio: cfr. S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, 1984; D. Veneruso, Gentile e il primato della tradizione culturale italiana. Il dibattito politico all’interno del fascismo, Roma, 1984; G. Calandra, Gentile e il fascismo, Roma-Bari, 1987; S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino, 1989; A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, 1990; prevalentemente informativo è G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, 1995. 39 Sui rapporti ideologico-politici tra futurismo e fascismo, oltre ai lavori citati nella nota 35, si veda in particolare Futurismo, cultura e politica, a cura di R. De Felice, Torino, 1988; E. Mondello, Roma futurista. I periodici e i luoghi dell’avanguardia nella Roma degli anni Venti, Milano, 1990; C. Salaris, Artecrazia. L’avanguardia futurista negli anni del fascismo, Firenze, 1992. Fra i nuovi apporti documentari va segnalato soprattutto F.T. Marinetti, Taccuini 1915-1921, a cura di A. Bertoni, Bologna, 1987 (da integrare con Selections from the Unpublished Diaries of F.T. Marinetti, a cura di L. Rainey e L. Wittman, in «Modernism/Modernity», settembre 1994, pp. 1-44). 40 Cfr. W.L. Adamson, Modernism and Fascism. The Politics of Culture in Italy, 1913-1922, cit., pp. 3-60. Per le considerazioni che figurano, riprendiamo parzialmente quanto scritto in E. Gentile, The Conquest of Modernity, cit. 41 S. Slataper, agosto 1909. 42 M. Morasso,
Ai giovani intelligenti d’Italia, L’imperialismo nel secolo XX,
in «La Voce», 26 Milano, 1905, p.
327. 43 E. Corradini, La vita estetica, in «Novissima», 1903, ora in Id., Scritti e discorsi 1901-1914, a cura di L. Strapping Torino, 1980, pp. 64-65. 44 B. Mussolini, Blériot, in «Il Popolo», 28 luglio 1909, in Opera Omnia , 35 voli., a cura di E. e D. Susmel, Firenze, 1951-63, voi. Il, pp. 194-195. 45 B. Mussolini, Latham, in «Il Popolo», 22 luglio 1909 (ibidem, p. 187). Sulla formazione ideologica di Mussolini nel periodo giovanile cfr. A.J. Gregor, Young Mussolini and the Intellectual Origins of Fascism, Berkeley, 1979.
646
46 E. Gentile, Il futurismo e la politica, cultura e politica, a cura di De Felice, cit., pp. 107-108. Id.,
in
Futurismo,
47 B. Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana Cultura e vita morale, Bari, 1955 3 , p. 20.
(1908), in
48 B. Mussolini, La malattia del secolo, in «Il Proletario», 6 giugno 1903, in Opera Omnia, cit., I, pp. 28-30. 49 B. Mussolini, La filosofia della forza, in «Il pensiero romagnolo», 29 novembre, 6 e 13 dicembre 1908, in Opera Omnia, cit., I, pp. 183-184. 50 B. Croce, (Cultura e vita morale,
Per la rinascita dell’idealismo cit., p. 36.
51 B. Croce, Memorie della mia vita (appunto del gennaio 1912). 52 Morasso,
, Napoli, 1966, p. 39
L’imperialismo nel secolo XX,
53 Ibidem, 54 M. Morasso,
p. 11. Imperialismo artistico,
(1908), in
cit., p. 10. Torino, 1903, p. 60.
55 L’espressione è tratta dal manifesto futurista Contro Venezia passatista, pubblicato il 27 aprile 1910, riprodotto in F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, 1968, p. 32. 56 G. Papini, aprile 1913. 57 G. Papini,
La necessità della rivoluzione, Il discorso di Roma,
in «Lacerba», 15
in «Lacerba», 1° marzo 1913.
38 U. Boccioni, Contro la vigliaccheria artistica italiana, in «Lacerba», 1° settembre 1913. 59 G. Gentile, 24 maggio 1915, in «Il Resto del Carlino», 24 maggio 1918, in Id., Guerra e fede, Napoli, 1919, p. 119. 6° F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi Id., Teoria e invenzione futurista, cit., p. 59. 61 E. Corradini, 62 Morasso,
La guerra,
(11 maggio 1913), in
in «Il Regno», 28 febbraio 1904.
L’imperialismo nel secolo XX,
cit., pp. 32 e 39.
63 Sull’importanza del mito della palingenesi nella cultura prefascista ha insistito, considerandolo elemento fondamentale dell’ideologia del «fascismo generico», Griffin, The Nature of Fascism, cit., pp. 38-40. 64 G. Amendola,
La grande illusione,
in «La Voce», 2 marzo
1911. 65 G. Boine,
Discorsi militari,
Firenze, 1914.
66 L’espressione è di A.O. Olivetti, Sindacalismo e nazionalismo, in «Pagine libere», 15 febbraio 1911, in F. Perfetti, introduzione a A.O.
647
Olivetti, p. 36.
Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo,
67 A.O. Olivetti, novembre 1911, p. 42.
L’altra campana,
Roma, 1984,
in «Pagine Libere», 15
68 Sulla grande guerra come «esperienza di modernità» cfr. P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, 1984; E.J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, 1985; A. Gibelli, L’officina della guerra, Torino, 1991; E. Gentile, Una Apocalisse nella modernità. La Grande Guerra e il Mito della Rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», ottobre 1995, pp. 733-787. 69 M. Berman, L’esperienza della modernità, Bologna, 1985, p. 26. 70 Cfr. J. Flerf,
Il modernismo reazionario,
71 Cfr. E. Gentile, Image of the United States, 7-20. 72 D. Bianchi,
Bologna, 1988.
Impending Modernity: Fascism and the Ambivalent in «Journal of Contemporary History», 1993, pp. …i fascisti picchiano,
in «Il Fascio», 23 ottobre
1920. 73 Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. XXX. 74 S. Panunzio, Italo Balbo, Milano, 1923, p. 9. 75 Cfr. E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, 1993, pp. 145152; R. Vesser, Fascist Doctrine and the Cult of the Romanità, in «Journal of Contemporary History», 1992, n. 1, pp. 5-21. 76 B. Mussolini,
Breve preludio,
in «Gerarchia», 25 gennaio
1922. 77 B. Mussolini, discorso del 4 giugno 1924, in cit., voi. XX, p. 306. 78 «Critica fascista», 15 gennaio 1939. 79 Cfr. S.N. Eisenstadt, Civiltà comparate, 80 Gentile,
Il culto del littorio,
Opera Omnia,
Napoli, 1990.
cit., pp. 301-313.
Note alla prefazione 1 V. Stella, Pensiero politico e storia nell’interpretazione del fascismo , in «H Mulino», XII, 1964, n. 144. 2 C. Bo, L’ideologia del regime antifascismo, Milano, 1962, p. 305.
648
, in
Fascismo e
3 Cfr. T. Kunnas, fasciste, Paris, 1972.
Drieu La Rochelle, Celine, Brasillach et la tentation
4 Cfr. A. Lancelot,
Les attitudes politiques,
Paris, 1969, pp. 99-
102. 5 Sul rapporto fra ideologia e gruppo sociale, cfr. D. Krech, R.S. Crutchefiel e E.L. Ballachey, Individuo e società, Firenze, 1970. 6 J. Baechler, De l’ideologie, in «Annales», XXVI, 1972, n. 3, p. 642. 7 B. Croce,
Pagine sparse,
8 P. Gobetti, 9 A. Gramsci, 1971, p. 495.
III, Bari, I960 2 , p. 481.
La rivoluzione liberale,
Torino, 1965, p. 181.
La costituzione del partito comunista,
Torino,
10 P. Togliatti, A proposito del fascismo, in R. De Felice, Il fascismo, Bari, 1970, p. 120. 11 Per alcuni di questi studi cfr. L. Castelnuovo, Fascismo ideologia di transizione, in «Il Mulino», XIII, 1964, nn. 141-142; A.J. Gregor, The Ideology of Fascism, New York-London, 1969; L. Garruccio, L’industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione, Bologna, 1969; N. Poulantzas, Fascisme et dictature, Paris, 1970, pp. 276-279; L. Garruccio, Mulino», XX,
Le tre età del fascismo,
in «Il
1971, n. 213. Interessanti osservazioni in M. Ledeen, L’internazionale fascista, Roma-Bari, 1973; A. Lyttelton, La conquista del potere, Roma-Bari, 1974, pp. 587 ss. Prefazione
59
12 N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia , Bari, 1971, p. 101. Per la definizione paretiana cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Milano, 1964, § 1401. 13 F. D’Amoja, 17-18.
La politica estera dell’impero,
Padova, 1967, pp.
Note al capitolo primo 1 Cfr. E. Nolte, 2 B. Mussolini,
I tre volti del fascismo , Milano, 1966, p. 263. Dopo l’eccidio di Roma, in «La Lima», 11 aprile
1908. 3 «Gli uomini cosiddetti “seri” costituiscono - affermava Mussolini -
649
la zavorra sociale. La civiltà è l’opera dei cosiddetti “pazzi”». B. Mussolini, Medaglioni borghesi. L’Uomo serio, in «L’Avvenire del lavoratore», 1° settembre 1909. 4 Cfr. G. Megaro,
Mussolini dal mito alla realtà,
Milano, 1947, p.
146. 5 B. Mussolini, 6 B. Mussolini,
Lathan, in «Il Popolo», 22 luglio 1909. Blériot, ivi, 28 luglio 1909.
7 L’Homme qui cherche, Cavalcata paradossale. Caccia al «buon senso», in «La Folla», 6 aprile 1913. 8 L’Homme qui cherche,
Le indennità socialiste, ivi,
7 settembre
1912. 9 Sulla presenza di Nietzsche nel pensiero sindacalista rivoluzionario, cfr. i vari testi, di diversi autori, raccolti nell’antologia di R. Melis, Sindacalisti italiani, Roma, 1964. 10 Cfr. B. Mussolini, La filosofia della forza. Postille alla conferenza dell’onorevole Treves, in «Il Pensiero romagnolo», 29 novembre, 6 e 13 dicembre 1908. Cfr. E. Nolte, Marx und Nietzsche im Sozialismus des jungen Mussolini, in «Hi-storische Zeitschrift», ottobre 1960, pp. 249-335. 11 Ivi. Un accenno a Nietzsche comparve per la prima volta negli scritti di Mussolini nel maggio 1908 (cfr. B. Mussolini, Schermaglie, in «La Lima», 9 maggio 1908). 12 B. Mussolini, Evoluzione e lotta di classe, lavoratore», 11 marzo 1909. 13 L’Homme qui cherche, agosto 1912. 14 B. Mussolini, socialista», 3 aprile 1904.
in «L’Avvenire del
Indennità socialiste,
in «La Folla», 11
Le parole di un rivoltoso,
in «Avanguardia
15 B. Mussolini, Gli ultimi aneliti, in «La lotta di classe», 19 marzo 1910: «Su Marx […] crollato si affaticano e non invano i migliori intelletti dell’Europa contemporanea da Sorel a Croce, da Kautsky a Labriola, da Pareto a Plekanoff». 16 Sui rapporti fra Mussolini e Pareto, cfr. Megaro, Mussolini dal mito alla realtà, cit., pp. 116-123. 17 B. Mussolini, Uomini e idee - «L’individuel et le social», in «Avanguardia socialista», 14 ottobre 1904. Il testo della relazione di Pareto è riportato in V. Pareto, Scritti sociologici, a cura di G. Busino, Torino, 1966, pp. 323 ss. 18 Vero Eretico,
Intermezzo polemico,
1908.
650
in «La Lima», 25 aprile
19 B. Mussolini, Per l’intransigenza del socialismo. Le ragioni del cosiddetto «pacifismo», in «Avanti!», 29 marzo 1913. 20 B. Mussolini, settembre 1904.
La crisi risolutiva,
in «Avanguardia socialista», 3
21 B. Mussolini, Atei, ivi, 13 marzo 1904. Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, 1965, pp. 40-45. 22 «Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle del Mouvement Socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le Pagine Libere di Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone». Mussolini, Opera omnia, cit., XXXIV, p. 122. 23 Cfr. De Felice, 24 B. Mussolini,
Mussolini il rivoluzionario, La teoria sindacalista,
cit., p. 4L
in «Il Popolo», 27 maggio
1909. 25 B. Mussolini, Da Guicciardini a Sorel, in «Avanti!», 18 luglio 1912. Le sue critiche al Sorel erano iniziate fin dal 1910: cfr. B. Mussolini, L’ultima capriola, in «La lotta di classe», 26 novembre 1910 («Giorgio Sorel, maestro riconosciuto e venerato del sindacalismo franco-napoletano, è passato definitivamente nelle schiere dei monarchici francesi che sognano una “restaurazione”»). Mussolini definiva Sorel «il pacifico pensionato borghesoide» che aveva «nostalgia dell ‘ancien régime», con un rivoluzionarismo da «pensionato francese frugatore di biblioteche»; «Il suo sindacalismo non era che un movimento di reazione. Era una maschera. Oggi è caduta». 26 Cfr. B. Mussolini, Note e letture, in «La lotta di classe», 8 luglio 1911: «Sono le deformazioni intellettualistiche del sindacalismo che noi non accettiamo […]. Il sindacalismo in fin dei conti è un metodo, non una dottrina: pragma non dogma, azione e non formula. Non limitato al campo operaio vivrà la vita effimera dei libri e terminerà in una caricatura teistica patriottarda, nazionalistica, liberistica, antisocialista. La parabola di Giorgio Sorel è altamente significativa. Quest’uomo è passato - quasi impunemente - dalla teoria del sindacato a quella dei… camelots du roi». 27 B. Mussolini, Le eresie che risorgono e le eresie che muoiono, in «La lotta di classe», 29 giugno 1912. 28 B. Mussolini, ottobre 1910.
Esame di coscienza,
in «La lotta di classe», 22
29 B. Mussolini, Il partito socialista in un libro di Colajanni, «La Soffitta», 15 giugno 1912. 30 Mussolini,
Opera omnia,
651
cit., IV, pp. 146-147.
in
31
Ibidem,
32 Mussolini,
p. 147. Le eresie,
cit.
33 B. Mussolini, La nostra propaganda, febbraio 1910. 34 Mussolini, Da Guicciardini, cit.
in «La lotta di classe», 12
35 Cfr. G. Zibordi, Verso il congresso, in «Critica sociale», 16-30 aprile 1914: «Nei fini, nel volere, egli è socialista, nella mentalità e meglio ancora nella psicologia, egli è il classico rivoluzionario italiano, romagnolo nutritosi e rinforzatosi di storia francese, dall’89 alla Comune. Egli è sinceramente così, e sinceramente vive una seconda vita quando vibra nel comizio, s’esalta nell’ardore della folla, s’illude e s’inebria se vede in piazza cento persone che gridano». 36 T. Nanni, Dal bolscevismo al fascismo al lume della critica marxista, Bologna, 1924, pp. 178-179. 37 B. Mussolini, M. novembre 1912. 38 B. Mussolini, 39 B. Mussolini, gennaio 1912. 40 Mussolini,
Fovel e la crisi dei partiti,
in «Avanti!», 20
Lo sviluppo del partito, ivi, 9 marzo 1913. La crisi dell’inazione, in «La lotta di classe», 6 Opera omnia,
cit., IV, pp. 175-176.
41 Sul «mussolinismo» cfr.: A. Romano, Antonio Gramsci tra la guerra e la Rivoluzione, in «Rivista storica del socialismo», ottobre-dicembre 1958; E. Santarelli, Socialismo rivoluzionario e «mussolinismo» alla vigilia del primo conflitto europeo, in «Rivista storica del socialismo», maggio-dicembre 1961; L. Dalla Tana, Mussolini massimalista, Salsomaggiore, 1963, pp. 134 e 144; G. Arfè, Storia del socialismo italiano, Torino, 1965, pp. 176 ss.; L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, I, Roma, 1970, pp. 110 ss.; A. Tasca, I primi dieci anni del PCI, Bari, 1971, pp. 86-93; P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino, 1972, pp. 259 ss.; L. Cortesi, Le origini del PCI, Bari, 1972, pp. 57 ss. 42 G. Zibordi, novembre 1914.
La logica di una crisi,
in «Critica sociale», 16-30
43 In una recensione del maggio 1922 ai Discorsi politici di Mussolini, Mario Lamberti notava acutamente i limiti sostanziali del rivoluzionarismo socialista di Mussolini e del suo volontarismo che era rimasto «astratta affermazione, più ribellione di orgoglio personale che reale forza»; cfr. M. Lamberti, Letture politiche, in «Rivoluzione Liberale», 14 maggio 1922. 44 Cfr. R. De Felice, Introduzione a Utopia, Milano, 1973.
652
45 B. Mussolini,
Al largo,
in «Utopia», 22 novembre 1913.
46 In proposito Mussolini accennava al «ponderoso volume pubblicato recentemente da Rosa Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals (Contributo alla interpretazione economica dell’imperialismo)». 47 B. Mussolini, Un «blocco rosso»?, ivi, 15 febbraio 1914. 48 Cfr. G. Zibordi, Continuando a discutere di cose interne di famiglia, in «Critica sociale», 1-15 agosto 1914. Secondo l’esponente riformista, le masse seguivano il giovane direttore dell’«Avanti!» perché dava una voce alla loro psicologia. Mussolini, affermava Zibordi, cercava in Marx, Engels, Bergson «la sanzione scientifica dei propri stati psicologici, e l’autorità per farli accettare alla folla». 49 B. Mussolini,
L’impresa disperata,
in «Utopia», 15 gennaio
1914. 50 Cfr. Il Vice [Claudio Treves], I. maggio di Pan gloss, in «Critica sociale», 1-16 maggio 1914: «Qui 0 pericolo: la ripresa del verbalismo anarcoide, il dileggio di ogni zelo di responsabilità, la divina e fanciullesca illusione di tenere il mondo nel pugno […] dell’Idea». 51 II Vice [Claudio Treves], Involuzione rivoluzionaria. Revisione o riaffermazione della dottrina socialista (Polemiche di casa nostra), ivi, 16-31 luglio 1914. 32 Cfr. l’intervista concessa da Mussolini al «Giornale d’Italia» il 6 luglio 1914, in Mussolini, Opera omnia, cit., VI, p. 242. 33 Sull’o.d.g. Labriola-Mocchi cfr. Il partito socialista italiano nei suoi Congressi, a cura di F. Pedone, Milano, 1961, II, p. 11; e L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforma e rivoluzione, Bari, 1969, pp. 167 ss. 54 E curioso, ma Mussolini accusava il «demone dell’individualismo» delle nuove generazioni, che avrebbe distrutto il sentimento della disciplina e dell’unità: «Gli uomini che sappiano imporre una disciplina collettiva sono rari, perché rari diventan quelli che tale disciplina sian pronti a subire. Chi dice Partito, dice necessariamente: limitazione, dogma, fede, disciplina, gerarchia: ma per tutte queste “categorie” mala tempora currunt. Nessuno, nemmeno l’ultimo dei gregari accetta più la parola della fede senza discuterla: tutti rivendicano il loro diritto al “libero esame”: così gli eretici, gli irreducibili, i refrattari, gli indisciplinati aumentano e vivono e agiscono all’infuori dei partiti». Un «blocco rosso»?, cit. 55 II Vice [Claudio Treves], 56 B. Mussolini, 15-31 luglio 1914. 57 B. Mussolini,
La
Involuzione rivoluzionaria,
cit.
settimana rossa»,
in «Utopia»,
«
L’anno che è morto…,
1914.
653
in «Avanti!», 1° gennaio
58 Cfr. De Felice,
Mussolini,
cit., p. 195.
59 S. Panunzio, Il lato teorico e il lato pratico del Socialismo, «Utopia», 15-31 maggio 1914.
in
60 S. Panunzio, Il socialismo e la guerra, ivi, 15 agosto-1° settembre 1914. 61 B. Mussolini, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, in «Avanti!», 18 ottobre 1914. 62 Mussolini, Opera omnia, cit., VII, p. 98. In questo stesso discorso Mussolini disse, fra l’altro: «E, del resto, la nazione non è scomparsa. Noi credevamo che fosse annientata; invece la vediamo sorgere vivente, palpitante dinanzi a noi! E si capisce: la realtà nuova non sopprime la verità; la classe non può uccidere la nazione. La classe è una collettività di interessi, ma la nazione è una storia di sentimenti, di tradizioni, di lingua, di cultura, di stirpi. Voi potete innestare la classe sulla nazione, ma luna non elide l’altra». 63 B. Mussolini, gennaio 1915. 64 B. Mussolini,
Dopo l’adunata, Audacia, ivi,
in «Il Popolo d’Italia», 28
15 novembre 1914.
65 De Felice, Mussolini, cit., p. 284. 66 Cfr. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, 1942, pp. 179 ss. Molto giustamente Leo Valiani ha affermato che «Mussolini era un socialista rivoluzionario nella misura in cui lo erano quegli altri socialisti italiani del suo tempo che si professavano rivoluzionari». «… Fino al 1914 socialista egli era seriamente stato», La storia del fascismo, in «Rivista storica italiana», giugno 1967. 67 Cfr. Nolte, I
tre volti,
cit., pp. 135 ss.
68 Mussolini, Opera omnia, cit., II, p. 167. Su Oriani cfr. B. Mussolini, Il monito di Oriani, in «Il Popolo d’Italia», 14 marzo 1915. 69 Mussolini, Opera omnia, cit., II, p. 175. Sui rapporti fra Mussolini e «La Voce», cfr. De Felice, Mussolini, cit., pp. 64-65. Sull’atteggiamento della «Voce» verso il partito socialista, cfr. E. Gentile, «La Voce» e l’età giolittiana, Milano, 1972, pp. 60 ss. In un articolo dedicato a «La Voce» su la «Vita Trentina» del 3 aprile 1909, Mussolini così spiegava la funzione della rivista prezzoliniana: «Non basta l’educazione per creare una cultura, non basta un programma -anche massimo - per formare un partito, non basta un glorioso passato a giustificare un presente sotto ogni rapporto basso e volgare, non basta l’unità politica di una nazione ad assegnarle una missione nella storia del mondo, se non v’è l’unità psicologica che saldi la volontà e diriga gli sforzi. La vita intellettuale italiana manca di coraggio: ebbene “La Voce” cercherà d’infonderlo: essa aiuterà a risolvere “il terribile problema” che si pone davanti all’anima nazionale: “o avere il coraggio di creare la terza
654
grande Italia, l’Italia non dei papi né degli imperatori, ma l’Italia dei pensatori, l’Italia che finora non è esistita - o non lasciare dietro di sé che una scia di mediocrità subito dileguata con un colpo di vento”. Ecco il programma della “Voce” […]. Tentativo superbo che, se da una parte ha suscitato entusiasmi e speranze, dall’altra ha incontrato un’opposizione sorda. Mi auguro che “La Voce” continui a squillare per un pezzo». 70 L’Homme qui cherche, Folla», 18 agosto 1912. 71 B. Mussolini, lavoratore», 18 aprile 1909. 72 B. Mussolini, agosto 1912. 73 B. Mussolini,
Nel mondo dei Rabagas,
Artificio avvocatesco, Giovincelli, a voi!, Nazionalismo, ivi,
in «La
in «L’Avvenire del
in «La lotta di classe», 31 10 dicembre 1910.
74 «Io sono per temperamento, per abitudine di studi, un antitradizionalista perché le tradizioni sono dei ruderi; ma qualche volta sono dei ruderi intorno ai quali bisogna andare per ispirarsi. Ebbene, noi riprendiamo le tradizioni italiane». Mussolini, Opera omnia, cit., VII, p. 109. 75 Mussolini,
Opera omnia,
cit., VII, pp. 76-77.
76 «L’Internazionale» disse Mussolini in una intervista a «La Patria Il Resto del Carlino» dell’ll novembre 1914 «dato che sia mai stata qualche cosa di più profondo di una vaga aspirazione tendenziale e di più fattivo di un ufficio di corrispondenza sedente a Bruxelles, il quale ufficio emanava una o due volte all’anno un insipido bollettino trilingue di informazioni, l’Internazionale, questa Intemazionale, è spacciata, è morta. Certi socialisti italiani vogliono propinare delle sacche d’ossigeno a questo cadavere, colla peregrina illusione di tornarlo a vita. Ma è fiato sprecato. Bisogna, invece di biascicare meccanicamente le formule della verità rivelata e finita, affrontare il problema dell’internazionalismo sul terreno della critica. Ed allora io sono tratto a domandarmi se l’internazionalismo non sia un oggetto di lusso, una di quelle idee-limite, che si possono anche portare nel proprio bagaglio dottrinale o piuttosto morale, ma sulle quali sarebbe imprudente fissare la linea di condotta precisa per un Partito che non sia un’accolta di sognatori. Io mi domando se l’internazionalismo sia un elemento assolutamente necessario alla nozione di socialismo. La critica socialista di domani potrebbe anche esercitarsi a trovare una forza di equilibrio fra la nazione e la classe». 77 Mussolini, Opera omnia, cit., VII, p. 81. 78 B. Mussolini, dicembre 1917.
Trincerocrazia,
in «Il Popolo d’Italia», 15
79 B. Mussolini,
La prima guerra d’Italia, ivi,
80 B. Mussolini,
Occhio per occhio!, ivi,
655
14 febbraio 1915.
7 maggio 1915.
81 B. Mussolini, Approcci e manovre, ivi, 9 ottobre 1917: «Noi siamo una forza. Quantitativa, no. Qualitativa. Il nostro programma è tale che non può conciliare le simpatie delle masse, che appunto essendo “masse” tendono alla “staticità” degli atteggiamenti e delle idee. Ma la forza non è sempre nel numero. “Massa” non siamo stati nemmeno nel 1915. Anche allora eravamo soltanto una minoranza fortissima. Come oggi, malgrado le decimazioni che la guerra ha compiuto nelle nostre file. La nostra forza scaturisce, prima di tutto, dalla nostra giovinezza. Siamo ancor giovani. Di anni. Di spiriti. Quindi spregiudicati. Elastici. Aggressivi. Non apparteniamo alla turba degli uomini impotenti, che si somigliano sino nelle minimalie della vita, che si misurano, che credono di essere degli “investiti” di qualche suprema missione in questo mondo paradossale e che sono, in fondo, degli anchilosati dello spirito. Noi siamo di un’altra generazione. Portiamo nelle cose una nota di gaiezza. Gaja Scientia. Il dovere cessa, per noi, di essere la legnosa nozione del pedagogo, per diventare piacere, un “dilettamento” dei sensi e dell’anima». È già, in nuce, l’ideologia del Mussolini fascista sansepolcrista, che veniva alla luce mentre, di volta in volta, con sempre maggiore disinvoltura, Mussolini lasciava cadere la sua veste socialista. 82
Ivi.
83 Mussolini, Opera omnia , cit., Vili, p. 250. 84 Lo statuto programma dei «fasci dazione rivoluzionaria», Popolo d’Italia», 6 gennaio 1915. 85 B. Mussolini, Il sindacalismo nazionale. Per risorgere!, Popolo d’Italia», 23 novembre 1918. 86 B. Mussolini,
A raccolta!, ivi.
87 B. Mussolini,
Conquiste e programmi, ivi,
in «Il in «Il
22 febbraio 1919.
Note al capitolo secondo 1 G. Bouthoul, 2 P. Melograni, Bari, 1969, p. 559. 3 G.L. Mosse, aprile 1967.
La guerra,
Milano, 1961, p. 423.
Storta politica della grande guerra 1915-1918,
Le origini del fascismo,
in «Dialoghi del XX»,
4 A. Lanzillo, La disfatta del socialismo, Firenze, 1918 (le citazioni sono tratte dalla seconda edizione, datata 1922), p. 160. 5 G. De Sanctis,
Ricordi della mia vita,
656
Firenze, 1970, p. 184.
6 Cfr. M. Isnenghi, Malaparte, Bari, 1970.
Il mito della grande guerra da Marinetti a
7 M. Missiroli, Prefazione a A. Tilgher, Roma, 1923 2 , p. 11. 8 L. Garruccio, Bologna, 1969, p. 80. 9 Cfr. Melograni, 10 C. Pellizzi, 11 M. Missiroli,
Relativisti contemporanei,
L’industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione, Storia politica,
cit., p. 321.
Una rivoluzione mancata,
Milano, 1949, p. 15.
Una battaglia perduta,
12 G. Gentile, Guerra e fede, Prefazione è datata 20 febbraio 1919.
Milano, 1924, pp. 46-47. Roma, 1927 2 , pp. 3-4. La
13 G. Gentile, La crisi morale, in «Politica», novembre 1919 (in G. Gentile, Dopo la vittoria, Firenze, 1920, p. 71). 14 G. Gentile, Natale di vittoria, in «Nuovo giornale», 25 dicembre 1919 (in Dopo la vittoria, cit., pp. 61-62). 13 G. Bottai, Parole alla buona, in «L’Ardito», 15 giugno 1919 (in G. Bottai, Pagine di critica fascista, a cura di F.M. Pacces, Firenze, 1941, p. 9). Il corsivo è nostro. 16 B. Mussolini, agosto 1919. 17 Mussolini, 18 19
Ìbidem, Ibidem,
20 Mussolini, 21 E. Nolte, Bologna, 1970, p. 8. 22 G. Comisso,
Si continua, signori!, Opera omnia,
in «Il Popolo d’Italia», 19
cit., VII, pp. 78-79.
XI, p. 86. p. 87. Si continua, signori!,
cit.
La crisi dei regimi liberali e i movimenti fascisti, Le mie stagioni,
Milano, 1951, p. 56.
23 G. Bottai, Ultimo appello, in «Roma Futurista», 16 novembre 1919 (in Pagine, cit., p. 46). 24 G. Salvemini, Dal Patto di Londra alla pace di Roma, Torino, 1926, p. x. 25 Melograni,
Storia politica,
cit., pp. 11-12.
26 A. Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, 1963, p. 123. Anche l’Omodeo credeva che dopo la fine della guerra ci sarebbero state nuove lotte in Italia «perché, dopo aver impegnato la nazione in una così dura lotta, non si possono trascurare a pace conclusa i problemi che ne conseguiranno e la lotta degli interessi generali, perché la esperienza della guerra mi ha dimostrato che ogni colpa ed ogni errore dei governi passati e presenti, ogni incuria della cosa
657
pubblica da parte dei cittadini s’è pagata ed espiata con sangue preziosissimo», ibidem, p. Ì89. 27 Melograni,
Storia politica,
cit., p. 163.
28 B.R. Lopuchov, cit. in R. De Felice, Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, 1970, p. 499. 29 f.g., Fascio di combattimento, in «Il Velino», 24 agosto 1919. 30
I combattenti,
in «Gagliardetto», 18 marzo 1919.
31 G. Rumi, «Il popolo d’Italia», fascismo, a cura di B. Vi-gezzi, Bari, 1961, p. 429.
in
Dopoguerra e
32 «Il Popolo d’Italia», 7 gennaio 1919. 33 M. Gioda, 34 A. Lanzillo, 35
Ivi,
L’antipartito, ivi, 10 febbraio 1919. L’ora dei combattenti, ivi, 20 marzo 1919. 31 marzo 1919.
36 A. Lanzillo, Quel che dovrebbe significare il congresso dei combattenti, in «Il Popolo d’Italia», 21 giugno 1919. 37 Lanzillo,
La disfatta,
38 39
Ibidem, Ìbidem,
p. 13. p. 15
40
Ibidem,
p. 17.
41
Ibidem,
p. 24.
42
Ibidem,
p. 258.
cit., p. 10.
43 Ibidem, p. 287. 44 B. Mussolini, I maddaleni,
in «Il Popolo d’Italia», 5 marzo
1919. 45
In cammino,
in «Il Rinnovamento», 10 marzo 1919.
46
La conferenza socialista di Londra, ivi,
47
Postilla, ivi,
10 marzo 1918.
1° maggio 1918.
48 A. De Ambris,
Sempre e più che mai sindacalisti, ivi,
49 A. De Ambris,
I rimedi eroici, ivi,
15 luglio
1919. 50 S. Panunzio, 51
La conquista,
1° maggio 1919.
Un programma dazione, ivi,
15 marzo 1919.
in «Italia nostra», 1° maggio 1918.
32 A. De Ambris, Che cosa è l’Unione Socialista Italiana, Rinnovamento», 31 agosto 1918. 53 Cfr. Gian Capo, 1918. Cfr. anche Marco,
in «Il
Concretiamo la vittoria, ivi, 30 novembre Sindacalismo e Nazionalismo, ivi, 15 agosto
658
1919. 34 De Ambris,
Che cosa è,
cit.
33 Sul programma economico-politico di De Ambris, cfr. R. De Felice, Sindacalismo e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio, Brescia, 1966, pp. 59-61. 36 A.O. Olivetti, Ripresa, in «Italia nostra», 1° maggio 1918. 37 Cfr. L. Ciardi, Rinnovamento», 1° maggio 1918. 58 G. De Falco, maggio 1918. 59 A. Pedrini,
La disciplina degli idealismi,
in «Il
L’ideale ch’è assente e l’ideale che trionfa, ivi, Per la grande strada, ivi,
1°
31 ottobre 1918.
60 Oldo Marinelli (Per una Federazione Repubblicana Socialista, ivi, 31 agosto 1918) sosteneva che la guerra aveva dato un fiero colpo al materialismo storico: «Non più il ritmo delle vicende umane governate dal fattore economico; esistono le razze, le lingue, le nazioni, le patrie che agiscono anche indipendentemente da quello. Tutto ciò i socialisti scismatici, i fuoriusciti hanno riconosciuto con una sincerità che ha il respiro lungo di una liberazione. Non più lotta di classe, ma perfetta solidarietà di classe, finché la guerra dura, in un problema grave come questo: la morte. Le guerre non più esclusivo capriccio di potentati o di capitalisti, ma necessità difensiva di popoli, senza esclusione di insegne; necessità, cioè dovere». 61 E. Rossoni, Alti salari - alti valori, in «Italia nostra», 22 giugno 1918. 62 M. Teresi,
La Patria e l’Internazionale, ivi,
15 giugno 1918.
63 C., I nuovi orizzonti della vita operaia italiana, Rinnovamento», 6 giugno 1918. 64 S. Panunzio,
Progettismo, ivi,
in «Il
31 dicembre 1918.
Note al capitolo terzo 1 U. Fabbri, Futurista», 8 giugno 1919.
Combattente, sola igiene d’Italia,
in «Roma
2 C. Bellieni, L’Associazione dei combattenti (Appunti per una storia politica dell’ultimo quinquennio), in «La Critica politica», 25 luglio 1924. Per una storia dettagliata dell’Associazione combattenti soprattutto nei primi due anni di vita, cfr. G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, 1974. 3 R. Zavataro,
Unione Politica di Rinnovamento Nazionale,
659
in
«La Nuova giornata», 28 giugno 1919 (in Sabbatucci, pp. 390 ss.). 4 Bellieni,
L’Associazione,
I combattenti,
cit.,
cit., p. 304.
5 G. Fortunato, Dopo la guerra sovvertitrice, Bari, 1921, p. 46. 6 G. Bottai, Combattenti, in «Roma Futurista», 20 luglio 1919 (in Pagine, cit., p. 16). Un interessante documento di questo stato d’animo è una lettera di Ferruccio Parri a Giuseppe Prezzolini, da questi pubblicata nel «Resto del Carlino», 28 ottobre 1972. 7 F. Vecchi,
Arditismo civile,
8
Ìbidem,
p. 69.
9
Ìbidem,
p. 23.
Milano, 1920, p. 81.
10 Sulle vicende dell’Associazione e il ruolo politico degli arditi nel dopoguerra, con una complessiva valutazione del combattentismo «aristocratico», cfr. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova, 1969. 11 Per intenderci, in «L’Ardito», 8 giugno 1919. 12 A. Gatti, Arditi e legionari,
Caporetto, cit., p. 11).
13 M. Carli, 14
Bologna, 1964, p. 230 (in Cordova,
Arditismo,
Ibidem,
Milano, 1929, p. 33.
pp. 6-7.
15 Vecchi, Arditismo civile, 16 Ibidem, p. 67. 17
Ibidem,
p. 68.
18
Ibidem,
p. 39.
19 Cfr. Cordova, 20 E. Mazzucato,
cit., p. 68.
Arditi e legionari,
cit., p. 4.
Da anarchico a sansepolcrista,
Milano, 1934, p.
37. 21
Ibidem,
22 Vecchi,
p. 74. Arditismo civile,
cit., p. 18.
23 Ìbidem, p. 140: «Quanto è triste per me ardito l’aver scritto un libro mentre avrei voluto ottenere in un istante tutto ciò che ho esposto, con una grande mina». 24
Ibidem,
p. 117.
25 Ibidem, p. 97. 26 Carli, Arditismo , cit., pp. 19-20. 27 P. Bolzon, Prefazione a Mazzucato, sansepolcrista, cit., p. 19. 28 Vecchi,
Arditismo civile,
660
cit., pp. 87-88.
Da anarchico a
29 Cfr. Cordova, 30 De Felice,
Arditi e legionari, Mussolini,
cit., p. 39.
cit., p. 478.
31 Per intenderci, art. cit. 32 A. Miceli, Gli arditi al proletariato,
in «L’Ardito», 8 giugno
1919. 33 Nota all’articolo di Aldo Valori, Socialisti e arditi, ivi, 29 giugno 1919. Secondo Vecchi, «Quando l’uomo è in un partito cessa di essere una volontà, un pensiero individuale per scomparire nella massa a vantaggio di pochi furbacchioni che portano sempre la gran bestia al macello. Deve transigere continua-mente con la propria coscienza perché i “compagni” gli parlano di un ideale comune che in fondo non potrà mai essere suo, della famiglia, del Paese: cose per le quali egli è nato e a cui ha non solo il diritto, ma il dovere di dedicarsi interamente. I più, giunti ai 25 o 30 anni, si iscrivono in un partito qualunque pur di attendere, imbrancati all’unica ricerca della posizione. Ne viene di conseguenza che per creare qualcosa di nuovo bisogna rivolgersi ai giovanissimi, non per sfruttarli politicamente ma per inquadrarli in nuovissima coscienza nazionale forgiata e preparata dalla scorsa guerra. Gli uomini che l’hanno combattuta risultano stanchi e immemori di tutte le battaglie di idee combattute prima di essa e che essa stessa ha in gran parte abbattute, e anziché porsi il problema di crearne delle nuove, preferiscono rinnegare ogni cosa dandosi ad un’ideologia di menzogne e di ricatti. Essi sono veri e propri rottami del grande esercito vittorioso per ricomporre il quale non muoveremo un dito. Ma tra questi infiniti rottami restano saldi gli arditi, che però sentono che i loro migliori amici sono i giovanissimi» (Vecchi, Arditismo civile, cit., pp. 87-88). 34
Ibidem,
pp. 127-128.
35 M. Carli, L’aristocrazia degli Arditi, in «Roma Futurista», 5-12 gennaio 1919 (in Carli, Arditismo, cit., pp. 34-35). 36 Cfr. A. Gravelli, 37 E. Bolongaro, agosto 1919.
1 canti della rivoluzione, Roma, 1934, p. 24. Gli Arditi e il socialismo, in «L’Ardito», 3
38 F.T. Marinetti, Contro i professori, in L. Scrivo, del futurismo -Storia e documenti, Roma, 1968, p. 19. 39 F.T. Marinetti, p. 25.
Sintesi
Contro l’amore e il parlamentarismo, ibidem,
40 F.T. Marinetti,
Manifesto del futurismo, ibidem,
41 F.T. Marinetti, 42 F.T. Marinetti,
Primo manifesto politico, ibidem, p. 4. Discorso ai triestini, ibidem, p. 5.
43 Cfr. De Felice,
Mussolini,
44 F.T. Marinetti,
Trieste, la nostra bella polveriera,
661
p. 2.
cit., p. 249. in Scrivo,
Sintesi,
cit., P- 6.
45 F.T. Marinetti, p. 4L
Manifesto futurista ai cittadini di Parma, ibidem,
46 E. Settimelli, Cancellare la gloria romana con una gloria italiana più grande, in «Roma Futurista», 13 ottobre 1918. 47 Marinetti, Contro l’amore, cit., in Scrivo, Sintesi, cit., p. 24. 48 Cfr. F.T. Marinetti, 49
Tripoli italiana, ibidem,
Programma politico futurista, ibidem,
p. 40.
p. 86.
50 Cfr. Contro Venezia passatista, ibidem, p. 15; F.T. Marinetti, Contro Firenze e Roma piaghe purulente della nostra penisola, ibidem, p. 23. 51 De Felice, Mussolini , cit., p. 475. 52 F.T. Marinetti, In quest’anno futurista Sintesi , cit., pp. 112-115. 53 ibidem,
L’orgoglio italiano, p. 128.
, in Scrivo,
in «Vela latina», 15 gennaio 1916,
54 G. Gori, Dio, in «Vela latina», 9-15 settembre 1915. Cfr. anche: M. Galdi, La tracotanza teutonica, ivi ; O. Conti, Ferocia tedesca e bontà latina, ivi, 21-27 ottobre 1915; G. Gori, Machiavelli e la sua falsificazione, ivi, 19-25 agosto 1915. 55 Sul futurismo politico, oltre le osservazioni del De Felice e del Cordova, cfr. soprattutto: la bella Introduzione di L. De Maria a F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, 1968 (vi sono raccolti anche gli scritti politici del Marinetti); M. Verdone, Il futurismo, Roma, 1970, pp. 15-22 e 106-111; E. Santarelli, Il movimento politico futurista, in Fascismo e neofascismo, Roma, 1974, pp. 3 ss.; M. De Micheli, L’ideologia del futurismo, in «Controspazio», aprile-maggio 1971. Il testo del programma del partito politico futurista è riportato in De Felice, Mussolini, cit., p. 738. 56 B. Pratella, Sintesi, cit., p. 61. 57 F.T. Marinetti, 58
Ibidem,
59 E. Settimelli, Futurista», 20 ottobre 1918.
La distruzione della quadratura, Democrazia futurista,
in Scrivo,
Milano, 1919, p. 13.
pp. 29 ss. Creiamo un italiano tipo unico,
in «Roma
60 Cfr. P. Bolzon, La Dalmazia c’invoca, on. Orlando!, in «Roma Futurista», 30 dicembre 1918; M. Carli, Gli errori di Orlando, ivi, 30 novembre 1918; Volt, Bisciolati, ivi, 19 gennaio 1919; R. Astarita,
662
On. Bissolati!, ivi,
26 gennaio 1919.
61 Cfr. A. D’Alba, Il sozzalista Treves, in «Roma Futurista», 10 dicembre 1918: «Noi preferiamo un Adriatico “lago italiano” a un Adriatico “mare jugoslavo” o internazionale». 62 Cfr. P. Bolzon, Non disarmiamo le anime!, in «Roma Futurista», 26 gennaio 1919. 63 Cfr. Marinetti, Democrazia, cit., pp. 107-116: «Non Società delle Nazioni, ma semplicemente carabinierismo universale. L’arma dei carabinieri a custodia dei popoli grandi borghesi intimoriti». 64 Cfr. E. Rocca, Costituente anti-sozzalista, in «Roma Futurista», 10 dicembre 1918. L’antisocialismo verteva soprattutto sulla rivendicazione del combattentismo «aristocratico», come contrapposizione della vecchia alla nuova Italia, dei «giovani» contro i «vecchi», delle élites contro i partiti di massa. 65 E. Settimelli, novembre 1918.
Contro Giolitti,
in «Roma Futurista», 30
66 E. Rocca, La prima battaglia morale dei combattenti, in «Roma Futurista», 16 febbraio 1919. Il giornale futurista fece varie proposte per far «largo ai giovani»: cfr. Volt, Aboliamo l’immonda anzianità, in «Roma Futurista», 20 novembre 1918; R. Calcaprino, Un partito agli studenti, ivi, 20 dicembre 1918; Volt, Come sostituire il Senato, ivi, 5 dicembre 1919. 67 Volt, Tradizione antinazionale, in «Roma Futurista», 30 novembre 1918. Secondo Volt l’Italia non aveva tradizioni nazionali: «Queste tradizioni non potevano esserci per la semplice ragione che l’Italia, come Stato unitario, non ha un passato qualsiasi. Bene o male, siamo una nazione di “parvenus”». 68 M. Carli, Non chiamatela reazione, in «Roma Futurista», 27 aprile 1919. 69 C. Fomari,
L’incubo comune (appunti sul bolscevismo), ivi.
70 C. Casali,
Nazionalisti o internazionalisti?, ivi,
13-20 aprile
1919. 71 Marinetti,
Democrazia,
cit., p. 71.
72 M. Carli, Giuseppe Bottai, Roma, 1928, p. 14. 73 E. Settimelli, Cancellare la gloria, art. cit. 74 M. Carli, 20 ottobre 1918.
Si vive in un’epoca futurista,
73 A. De Ambris, giugno 1919.
La mantellina dell’ardito,
663
in «Roma Futurista», in «L’Ardito», 8
76 R. Gazzaniga, Il mondo nelle mani dei giovani, in «Roma Futurista», 30 dicembre 1919. Scriveva Settimelli: «Il nostro partito è il partito di tutti i giovani italiani […]. Noi vogliamo incanalare le giovani forze italiane, le autentiche, in un unico grande partito di uomini decisi, sani, adoratori della vita, orgogliosi di essere italiani e sicuri del proprio destino […]. Vogliamo diffondere nella nostra gioventù l’amore per la politica […]. Lo sport e l’arte saranno legati intimamente alle nostre riunioni politiche» (Il partito futurista, in «Roma Futurista», 30 settembre 1918). Lo stesso tono in un articolo di Piero Gobetti, Scuola = Vita, in «Roma Futurista», 23 aprile 1919: «Per affermarsi la nuova generazione ha bisogno di rovesciare i pregiudizi di quella che l’ha preceduta; chi sia educato all’ossequio, al rispetto verso i vecchi non potrà assolvere questo suo dovere, cioè sarà un disertore vigliacco dell’ineluttabile lotta sociale». 77 M. Bontempelli, Futurista», 30 novembre 1918.
Fabbricare la giovinezza,
in «Roma
78 G. Galli, Il dopoguerra degli arditi-futuristi, ivi. 79 Cfr. De Felice, Mussolini, cit., p. 481. 80 I fasci di combattimento indetti da Mussolini, Futurista», 30 marzo 1919. 81 E. Rocca,
Benito Mussolini, ivi,
82 Cfr. E. Settimelli, 26 gennaio 1919.
in «Roma
29 giugno 1919.
L’intenso movimento dei Fasci - Milano, ivi,
Note al capitolo quarto 1 Mussolini,
Opera omnia
, cit., XXXIV, p. 122.
2 Cfr. De Felice, Mussolini , cit., p. 461 e pp. 513 ss. Per una diversa interpretazione cfr. G. Rumi, Mussolini e il «programma » di San Sepolcro, in «Il Movimento di liberazione in Italia», aprile-giugno 1963. 3 B. Mussolini,
Il «fascismo»,
in «Il Popolo d’Italia», 3 luglio
1919. 4 G. Volpe, Storia del movimento fascista, dell’Enciclopedia italiana. 5 Rumi,
«Ilpopolo d’Italia»,
6 Mussolini,
Opera omnia,
7 Cfr. Bottai,
Combattenti,
8 B. Mussolini, dicembre 1920.
Fascismo
cit., p. 449. cit., XIII, p. 63. art. cit.
Disciplina…,
664
in voce
in «Il Popolo d’Italia», 12
9 Mussolini,
Opera omnia,
10 G. Bottai, Pagine, cit., pp.
Da noi,
cit., XIV, p. 286. in «Terza Italia», 5 gennaio 1915 (in
3-5).
11 Mussolini, Opera omnia, cit., XIV, p. 223. 12 G. Salvemini, Scritti sul fascismo, Milano, 1966, p. 10. 13 G. Bottai, Il trionfo socialista, dicembre 1919 (in Pagine, cit., pp. 49 ss.).
in «Roma Futurista», 7
14 G. Bottai, Risposta ad un ippopotamo, 12 novembre 1919 (ibidem, p. 44). 15 Y. De Begnac, 1959, pp. 157 ss.
in «Roma Futurista»,
Palazzo Venezia. Storia di un regime,
Roma,
16 Mussolini, Opera omnia , cit., XII, p. 316. 17 B. Mussolini, Il treno in ritardo , in «Il Popolo d’Italia», 14 marzo 1919. 18 A. Tasca,
Nascita e avvento del fascismo
, 2 voli., Bari, 1969, I,
p. 52. 19 B. Mussolini, d’Italia», 6 ottobre 1919. 20
La prima adunata fascista
, in «Il Popolo
Ivi.
21 Cfr. Garruccio, 22 B. Mussolini, maggio 1919.
L’industrializzazione Universale illusione
, cit., p. 129. , in «Il Popolo d’Italia», 14
23 Cfr. B. Mussolini, 15 dicembre 1919.
Mister Tentenna imponente una disciplina, ivi,
24 Cfr. R. Mondolfo, II fascismo e i partiti politici,
Per la comprensione storica del fascismo, in a cura di R. De Felice, Bologna, 1966, pp. 30
ss. 25 B. Mussolini, La lettera del senatore Salmoiraghi, Popolo d’Italia», 26 agosto 1920. 26 B. Mussolini, 27 B. Mussolini,
in «Il
Giugno? Ottobre?, ivi, 3 marzo 1919. L’artefice e la materia, ivi, 14 luglio 1920.
28 Cfr. B. Mussolini, L’ora e gli orologi, ivi, 6 aprile 1920: «Lo Stato è la macchina tremenda che ingoia gli uomini vivi e li rivomita cifre morte. La vita umana non ha più nulla di segreto, di intimo, di ordine materiale o spirituale che sia: tutti gli angoli sono esplorati, tutti i movimenti cronometrati, ognuno è incasellato nel suo “raggio” e numerato come in una galera. Questa, questa è la grande maledizione che colpì la razza umana negli incetti cominciamenti della storia: creare, nei secoli, lo Stato, per rimanervi sotto,
665
annientata! […1. Abbasso lo Stato sotto tutte le sue specie e incarnazioni. Lo Stato di ieri, di oggi, di domani. Lo Stato borghese e quello socialista. A noi che siamo i morituri dell’individualismo non resta, per il buio presente e per il tenebroso domani, che la religione, assurda ormai, ma sempre consolatrice, dell’anarchia!». 29 P. Gorgolini,
Il fascismo nella vita italiana,
Torino, 1922, pp.
18-19 30 B. Mussolini, 11 luglio
Tra l’oggi e il domani,
in «Il Popolo d’Italia»,
1920. 31 Mussolini, 32 B. Mussolini,
Opera omnia, Umana,
cit., XV, p. 216. in «Il Popolo d’Italia», 7 marzo 1920.
33 Mussolini, Opera omnia, cit., XIII, p. 144. 34 B. Mussolini, In tema di «Costituente», d’Italia», 7 dicembre 1918. 35 B. Mussolini,
Ciò che rimane e ciò che verrà, ivi,
36 B. Mussolini,
Italia e Trancia, ivi,
in «Il Popolo 13 novembre
1920. 37 Mussolini,
Opera omnia,
3 dicembre 1918.
cit., XII, p. 314.
38 Ibidem, p. 322. 39 Cfr. B. Mussolini, La favola, maggio 1919.
in «Il Popolo d’Italia», 10
40 Mussolini, Ciò che rimane e ciò che verrà, art. cit. Per un’analisi più particolare sui temi ideologici di questo imperialismo, cfr. E. Santarelli, Mussolini e ideologia imperialista, in Ricerche sul fascismo, Urbino, 1971. 41 G. Bottai, Politica coloniale ardita, in «L’Ardito», 23 ottobre 1920, in Pagine, cit., p. 139. Cfr. anche quanto scriveva C. Bazzi, Le forze nazionali per la repubblica sociale, in «Il Fascio», 23 agosto 1919: «Siamo per la nazione non per il nazionalismo, allo stesso modo come siamo per il socialismo e non per la maschera di esso, rappresentata dal partito socialista ufficiale, e siamo per il sindacalismo nazionale contro quella mostruosità sindacale e logica che è la nostra Confederazione del Lavoro». 42 B. Mussolini, Navigare necesse est, in «Il Popolo d’Italia», 1° gennaio 1920. Sull’imperialismo fascista delle origini cfr. G. Carocci, Appunti sull’imperialismo fascista degli anni ’20, in «Studi storici», gennaio-marzo 1967 e, più in particolare (ma con una valutazione diversa dalla nostra), le osservazioni di G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista (19191923), Bari, 1968.
666
43 agosto 1919.
È nemico d’Italia ogni bolscevico,
in «I Nemici d’Italia», 10
44 G. Bergamo, Il fascismo giudicato da un repubblicano, II fascismo e i partiti politici, cit., p. 64.
in
45 C. Pellizzi, Problemi e realtà del fascismo, Firenze, 1924, pp. 103-104. 46 B. Mussolini, L’urto fatale, in «Il Popolo d’Italia», 24 settembre 1919. 47 B. Mussolini,
Noi e la classe operaia, ivi,
48 B. Mussolini,
Il gregge non paga…, ivi,
6 dicembre 1919. 1° agosto 1920.
49 M. Carli, Partiti d’avanguardia: se tentassimo di collaborare?, in «Roma Futurista», 13 luglio 1919. Sulla polemica cfr. Cordova, Arditi e legionari, cit., pp. 46 ss. 50 B. Mussolini, Per combattere il leninismo irresponsabile, in «L’Ardito», 27 luglio 1919. 51 E. Rocca, A proposito di un articolo di M. Carli, in «Roma Futurista», 3 agosto 1919. 52 G. Bottai,
Futurismo contro socialismo, ivi,
53 Mannarese,
Futurismo e socialismo, ivi,
9 novembre 1919. 14 dicembre 1919.
54 Cfr. la risposta di Bottai, Insisto: futurismo contro socialismo, ivi, 21 dicembre 1919: «Non è possibile nessun contatto tra due sistemi così opposti come sono quello socialista e quello futurista». 55 B. Mussolini, L’ora del fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 21 agosto 1920. 56 Cfr. Carteggio Mussolini-D’Annunzio (1919-1938), a cura di R De Felice e E. Mariano, Milano, 1971, pp. 9-10. 57
Ibidem,
p. 3.
58 Sui rapporti fra D’Annunzio e Mussolini, cfr. N. Valeri, D’Annunzio davanti al fascismo, Firenze, 1963; Id., Da Giolitti a Mussolini, Milano, 1967; R. De Felice, D’Annunzio, Mussolini e la politica italiana 1919-1938, in Carteggio D’Annunzio-Mussolini, cit. 59 N. Daniele, Mondo», 24 gennaio 1923.
Il valore politico del libro dannunziano,
in «Il
60 A. De Ambris, La Costituzione fiumana commento illustrativo (1920), in La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di Gabriele D’Annunzio, a cura di R. De Felice, Bologna, 1973, p. 91. 61 In La riscossa dei Leoni, a cura di E. Coselschi, Firenze, 1928, pp. 18-19.
667
62 Cfr. [A. Gramsci], ottobre 1919. 63 In F. Gerra,
L’unità nazionale,
L’impresa di Fiume,
in «L’Ordine nuovo», 4 Milano, 1966, p. 110.
64 Sul carattere della politica dannunziana, cfr. Valeri, Mussolini, cit., pp. 43-44. 65 «L’Idea nazionale», 9 giugno 1919 (in G. D’Annunzio, e contro tutti, Roma, 1919, pp. 169-185). 66 Lettera a Giulietti del 15 ottobre 1919, in Gerra, cit., p. 175.
Da Giolitti a Contro uno L’impresa,
67 A. De Ambris, D’Annunzio e il proletariato, in «L’Internazionale», 3 dicembre 1922 (in R. De Felice, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo , cit., pp. 346 ss.). 68 Cfr. U. Foscanelli,
D’Annunzio e l’ora sociale
, Milano, 1952.
69 In G. D’Annunzio, Libro ascetico della Giovane Italia , Roma, 1943, pp. 71 ss. 70 Cfr. Valeri, D’Annunzio davanti al fascismo , cit., p. 12. 71 D’Annunzio, cit., p. 138.
Commento meditato,
72
Ibidem,
pp. 431-432.
73
Ibidem,
p. 310.
74 In D’Annunzio, 75 Cfr. A. Gramsci, 76 D’Annunzio,
in
Libro ascetico,
Contro uno, cit., pp. 186-199. Passato e presente, Torino, 1964, p. 13. Per la più grande Italia,
77 Cfr. L. Kochnitzky, Bologna, 1922, p. 69.
Roma, 1943, p. 31.
La quinta stagione o I centauri di Piume,
78 Cfr. M. Carli, Con D’Annunzio a Piume, Milano, 1920, p. 71: «Sono quattro mesi che a Fiume, per virtù di questo prodigio, si respira. La vecchia antitesi fra vita e sogno, fra realtà e poesia, fra buon senso e immaginazione, è stata finalmente sorpassata. I due termini si possono considerare fusi e sovrapposti». 79 Cfr. Il saluto di F. “Vecchi a D’Annunzio, Ufficiale» del Comando di Fiume d’Italia, 26 settembre 1919. 80 Carli, Con D’Annunzio, cit., p. 65. 81
Ibidem,
p. 124.
82
Ibidem,
pp. 74-75.
in «Bollettino
85 Cfr. G. Maranini, Lettere da Fiume alla fidanzata, a cura di E. Bossi, Milano, 1973. Il 22 settembre Maranini scriveva di non approvare «le intemperanze eccessive di Mussolini e D’Annunzio»: «Essi disubbidiscono al
668
governo, e fanno bene. Raccolgono denaro e volontari, e fanno bene. Ma non dovrebbero rompere così la disciplina nazionale, che è pur sempre una cosa sacra e necessaria». D’Annunzio, secondo il giovane Maranini, andava «perdendo il rispetto delle istituzioni» ( ibidem, pp. 37-38), ma un mese più tardi, il 14 ottobre, già era inserito nell’atmosfera fiumana: «Qui sto benissimo. Mi trovo molto bene fra questi rozzi soldati. Ti assicuro che qui, fra questa umile gente, è la forza vera e viva d’Italia; ed anche nella nostra piccola umile borghesia. Ma non fra quella gente che io e te conosciamo, e che è la vecchia borghesia. Lì non si trova che putredine. Mi viene il dubbio che una rivoluzione sociale possa essere, a conti fatti, un bene, per il solo merito di spazzare via certa gente» (ibidem, pp. 98-99). 84 Cfr. Kochnitzky, 85 Cfr. Comisso, 86 Kochnitziky,
La quinta stagione, Le mie stagioni, La quinta stagione,
cit., p. 12.
cit., pp. 37 ss. cit., p. 60.
8 7 Discorso del 24 ottobre 1919, in E. Coselschi, Ronchi, Firenze, 1929, pp. 83-85. 88 Cfr. Gerra, L’impresa di Fiume, Le mie stagioni, cit., pp. 42 ss. 89 Cfr. Carta di Carnaro,
La marcia di
cit., pp. 406 ss.; Comisso,
Promemoria di L. Kochnitzky cit., p. 125.
(agosto 1920), in
90 Cfr. Kochnitzky, La quinta stagione, 91 Ibidem, p. 164.
cit., pp. 152-153.
La
92 M. Carli, Il nostro bolscevismo , in «I Nemici d’Italia», 14 marzo 1920 (in Con D’Annunzio a Fiume , cit., pp. 105 ss.). 93
La carta del Carnaro
94
Ibidem,
, cit., pp. 11 ss.
p. 99.
95 Cfr. R. De Felice, Il dannunzianesimo di sinistra in un memorandum di Nino Daniele a D’Annunzio del marzo-aprile 1921, in «Storia contemporanea», settembre 1970. 96 False voci sulla costituzione fiumana, in «Bollettino Ufficiale», cit., 21 marzo 1920. 92 Cfr. P. Orano, settembre 1920. 98 Cfr. in Coselschi,
in «Pagine Libere», 25
Disegno di un nuovo ordinamento dell’Esercito liberatore, La Marcia di Ronchi, cit., p. 180.
99 U. Foscanelli, 1923], pp. 99-
D’Annunzio è con noi,
D’Annunzio e il fascismo,
Milano, s.d. [ma
100.
100 B. Mussolini,
Punti fermi,
669
in «Il Popolo d’Italia», 4
novembre 1921.
Note al capitolo quinto 1 Maggiore G. Baseggio, 25 gennaio 1920. 2 Cfr. F. Cordova, Bari, 1974, pp. 24 ss. 3 C. Rossi, 22 gennaio 1920.
Il Fascismo e la sua crisi,
in «L’Ardito»,
Le origini del sindacalismo fascista,
Non vogliamo salti nel buio,
4 Cfr. R. De Felice,
Roma-
in «Il Popolo d’Italia»,
Mussolini il fascista,
I, Torino, 1966, pp. 3
ss. 5 S. Tranquilli, Operaio», aprile 1928.
Borghesia, piccola borghesia e fascismo,
in «Stato
6 Cfr. F.T. Marinetti, Al di là del comunismo (1920), in Teoria e invenzione, cit., pp. 411-424. Marinetti e i futuristi rientrarono nel fascismo nel 1924, dopo aver invano cercato di ricondurre questo allo spirito delle origini libertarie. Al congresso futurista di Milano del 23 novembre 1924 Marinetti fece delle dichiarazioni inviate al «vecchio compagno Benito Mussolini» in cui chiedeva al «duce»: «Con un gesto di forza ormai indispensabile liberati dal Parlamento. Restituisci al Fascismo e all’Italia la meravigliosa anima diciannovista disinteressata, artista, antisocialista anticlericale, antimonarchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvisoria funzione unitaria, rifiutale quella di soffocare o morfinizzare la più grande, la più geniale e la più giusta Italia di domani. Non imitare Giolitti, imita il Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia immortale e al Carso divino. Schiaccia l’opposizione clericale antiitaliana di Don Sturzo, l’opposizione socialista antiitaliana di Turati e l’opposizione medio-crista di Albertini con una ferrea dinamica aristocrazia di pensiero armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi senza pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo e lo vogliamo» (dichiarazione riportata in Marinetti, Marinetti e il futurismo (1929), ibidem , pp. 499542). Cfr. anche F.T. Marinetti, Fascismo e Futurismo (1924), ibidem, pp. 427-498: «Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al potere costituiscono la realizzazione del programma minimo futurista»; «Il Fascismo nato dall’Interventismo e dal Futurismo si nutrì di princìpi futuristi». 7 G. Bottai, novembre 1920.
A F.T. Marinetti, Per le rime…,
8 M. Sammarco, 9 B. Mussolini,
Il Futurismo è morto, ivi,
in «L’Ardito», 20 27 giugno 1920.
Preparazione al programma,
670
in «Il Popolo
d’Italia», 28 dicembre 1921. 10 B. Mussolini, Fascismo e «Pus» tregua?, ivi, 21 gennaio 1921. 11 G. Volpe, 12 Gorgolini,
-
A quali condizioni la
Giovane Italia, in «Gerarchia», gennaio 1923. Il fascismo nella vita italiana, cit., p. 133.
13 G. Aquila (Sas), fascismo e i partiti politici,
Il Fascismo italiano, cit., p. 448.
Monaco, 1923, in
14 M.N. Fovel, politica», 25 gennaio 1922.
La degenerazione del fascismo,
II
in «La Critica
15 Valiani, La storia del fascismo, cit., pp. 471-472; sull’analisi di Fovel, si vedano le osservazioni di S. Colarizi, Giovanni Amendola e l’Unione Nazionale. I democratici all’opposizione, Bologna, 1973, pp. 178-181. 16 E. Bodrero, 17 Ibidem,
Manifesto alla borghesia, p. 25.
18
pp. 28 ss.
Ibidem,
1 9 De Begnac,
Palazzo Venezia,
Roma, 1921, p. 19.
cit., pp. 217-218 e 223-224.
20 Per l’uso di questo termine cfr. A. Lyttelton, La conquista del potere, Roma-Bari, 1974, p. 94. Per il discorso sociologico sulla mobilitazione cfr. G. Germani, Sociologia della modernizzazione, Bari, 1971, pp. 91 ss. 21 B. Mussolini,
Sviluppo,
in «Il Popolo d’Italia», 11 gennaio
1921. 22 Nanni,
Bolscevismo e fascismo,
23 [Antonio Gramsci], nuovo», 26 agosto 1921.
cit., p. 270.
Tra realtà e arbitrio,
in «L’Ordine
24 «Il Popolo d’Italia», 11 gennaio 1921. 25 C. Rossi, gennaio 1921.
Dopo il voto dei Fasci,
in «Il Popolo d’Italia», 16
26 B. Mussolini, Il «Pus» a congresso, ivi, 14 gennaio 1921. 27 M.N. Fovel, Piccola borghesia e revisionismo sociale, in «La Critica politica», 16 luglio-l° agosto 1921. 28 A. Lanzillo, Quelli che non lavorano col braccio, d’Italia», 24 dicembre 1919. 29 A. Lanzillo, 30 In Lyttelton,
Cause, effetti, programmi, ivi, La conquista del potere,
in «Il Popolo
22 maggio 1921. cit., p. 107.
31 «Il Popolo d’Italia», 27 agosto 1921. Sull’importanza dell’ideologia cfr. G. Germani, Fascismo e classe sociale, in II Fascismo, cit.,
671
pp. 613 ss. 32 agosto 1920.
Perché dobbiamo convergere al fascismo,
33 G. Lumbroso,
L’antipartito,
in «Il Varco», 29
in «La Riscossa», 22 gennaio
1921. 34 S. Galli, gennaio 1921.
Nuovi orizzonti del fascismo,
in «L’Ardito», 21
35 Tenax, Gli operai e il fascismo, in «Allarmi!», 29 aprile 1921. Sulla manovra di accreditare un socialismo fascista o un fascismo socialista, anche al di là della pura e semplice strumentalizzazione propagandistica, cfr. Gorgolini, Il Fascismo nella vita italiana, cit., p. 140: «Il sano socialismo, professato dai fascisti, ha forma naturalmente agraria, senza apparenze marxistiche e leninisdche; è intrinsecamente fascista per le ardue, oscurantiste condizioni d’ambiente, ed è, in ultima analisi, una manifestazione sentimentale e positiva nel medesimo tempo, ma in fondo esiste, se così si può chiamare, un fascismo socialista o un socialismo fascista : e cresce, si sviluppa, si moltiplica, prende proporzioni grandiose e si lancia a capo fitto nel dottrinarismo classico del “blanquismo-lassallismo” (non sembri ciò un paradosso) dietro il cui paravento c’è sempre, in tutta la sua divina realtà, il più semplice, il più puro, il più santo del socialismi: quello di Cristo». Gorgolini poteva altresì affermare che il fascismo «è ancora giovane e va orientandosi a sinistra, molto a sinistra, senza di che la sua vita sarebbe un fuoco di paglia» ( ibidem, p. 147), ed era, inoltre, dichiaratamente antiborghese: «il Fascismo, interprete della sana maggioranza del popolo delle trincee e del sacrificio e del lavoro, non può tollerare più oltre il predominio della borghesia conservatrice » (ibidem, p. 131). Il libro del Gorgolini era, come nota Gobetti, «un’antologia politica di tutti i programmi di sinistra dopo Depretis, Wilsonismo e socialismo di Stato, liberismo confuso con l’economia del giusto prezzo, finanza demagogica difesa della piccola proprietà e lotta contro il latifondo» (La rivoluzione liberale, Torino, 1965, pp. 181-182). Tuttavia, per il suo valore documentario sul fascismo delle origini è ancor oggi interessante, tanto più che per molto tempo venne considerato, in Italia e all’estero, un po’ come il testo ufficiale del fascismo, autorevolmente presentato da Mussolini nella Prefazione come «la migliore pubblicazione sul fascismo fra quante ne sono uscite in Italia dal marzo 1919 ad oggi». Si noti che la Prefazione dell’autore reca la data gennaio 1922. 36 L’espressione è di A. Gramsci, nuovo», 19 agosto 1921. 37 A.G.,
I due fascismi, ivi,
38 M. Rocca, d’Italia», 20 gennaio 1921.
Contro il terrore, 25 agosto 1921.
Il minestrone rivoluzionario,
672
in «L’Ordine
in «Il Popolo
39
Arditismo,
40
Pace socialfascista,
in «L’Ardito», 23 luglio 1921. in «L’Assalto» (giornale ardito), 21 agosto
1921. 41 D. Grandi, Lettera ad un socialista, in «Il Resto del Carlino», 11 settembre 1920. 42 Contributo allo scandalo: le lettere di Dino a Mario, in «Idea nazionale», 18 dicembre 1924. 43 B. Mussolini, settembre 1921. 44 G.P., settembre 1921. 45 novembre
Fatto compiuto,
in «Il Popolo d’Italia», 3
Il nostro orientamento. La Fonte,
La risposta di Marsich a Mussolini,
in «L’Assalto», 3
in «Idea nazionale», 4
1921.
46 P. Marsich, Mussolini e il fascismo, in «Italia nuova», 4 novembre 1921 (anche in «Idea nazionale», 4 novembre 1911). 47 La profezia di Mussolini, in «Idea nazionale», 26 luglio 1921, in La stampa nazionalista, a cura di F. Gaeta, Bologna, 1965, pp. 344 ss. 48 Cfr. Gaeta, Introduzione a LXVII ss. 49 R. Forges-Davanzati, 28 maggio 1921.
La stampa nazionalista
Cronache bizantine,
, cit., pp.
in «Idea nazionale»,
50 O. Pedrazzi, I Fasci di combattimento. Un errore, ivi marzo 1919, in La stampa nazionalista, cit., pp. 341 ss. 51 S. Galli, In tema di pregiudiziali, gennaio 1921. 52 La revisione dell’interventismo, novembre 1921. 53 U. D’Andrea,
in «Il Popolo d’Italia», 27 in «Idea nazionale», 10
Due nature due compiti, ivi,
54 Cfr. Gaeta, Introduzione a LXVI.
, 25
25 novembre 1921.
La stampa nazionalista,
cit., p.
55 L. Coletti, Verso una fusione del fascismo col nazionalismo, «Idea nazionale», 9 dicembre 1921.
in
56 Volt, Sul programma fascista, in «Il Popolo d’Italia», 8 settembre 1921. 57 M. Rocca, Per una nuova destra, in Idee sul fascismo, cit., pp. 44 ss. Cfr. anche II fascismo e la crisi italiana, in «Idea nazionale», 23 novembre 1921. 58 Missiroli,
Una battaglia perduta,
673
cit., pp. 301 ss.
59 G. Bottai, Noi e il nazionalismo, in «U Popolo di Trieste», 2 febbraio 1921, in Pagine, cit., pp. 167-171 e Id., L’impostazione dottrinale dei rapporti fra il fascismo e il nazionalismo, in «Idea nazionale», 6 dicembre 1921, ibidem, pp. 171-175. 60 E. Rocca, 15 settembre 1921.
Le basi del Partito Fascista,
in «Il Popolo d’Italia»,
61 Ursus, Lettera aperta a Mussolini, in «La Valanga», 18 settembre 1921. 62 M. Terzaghi, Il ponte dell’asino, in «Il Fascio», 13 agosto 1921. 63 L. Freddi, Movimento fascista e partito politico, d’Italia», 6 settembre 1921. 64 F. D’Amoja,
La politica estera dell’impero,
in «Il Popolo
Padova, 1967, p. 2.
65 G. Volpe, Fascismo e monarchia, in «D Popolo d’Italia», 1° giugno 1921, riportato in G. Volpe, L’Italia che fu, Roma, 1961 2 , pp. 7 ss. 66 Cfr. Aquila, 67 A. Tilgher,
Il fascismo, cit., p. 448. Relativisti contemporanei, Firenze, 1944 6 .
68
Ibidem,
p. 33.
69
Ibidem,
pp. 76-77.
70 B. Mussolini, Nel solco delle grandi filosofie. Relativismo e fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 22 novembre 1921. 71 Cfr. G. Rensi, 72 Ibidem, 73 G. Rensi, 74 Rensi, 75
L’orma di Protagora, p. 86. Filosofia dell’autorità,
Teoria e pratica,
Ibidem,
Milano, 1920. Bologna, 1920, p. 126.
cit., p. 94.
p. 143.
76 Mussolini, Nel solco delle grandi filosofie, art. cit. 77 B.-Mussolini, Stato antiStato e fascismo, in «Gerarchia», giugno 1922. 78 B. M.,
Fiera di «Demos»,
in «Il Popolo d’Italia», 19 agosto
1922. 79 B. M.,
Adagio, ivi,
80 II Vice, 31 marzo 1922. 81 Missiroli, 82 F. Chabod,
17 settembre 1922.
Borghesia, Stato e Fascismo, Una battaglia perduta, Italia contemporanea,
674
in «Critica sociale», 16-
cit., p. 330. Torino, 1965, p. 87.
83 Cfr. G. Pierangeli, Critica politica», 25 agosto 1922. 84 B. Mussolini, d’Italia», 29 luglio 1922.
Le eventualità della dittatura,
Luoghi comuni. Destra e sinistra
in «La
, in «Il Popolo
85 J. Monnerot, Sociologie de la revolution, Paris, 1969, p. 515. 86 V. Pareto, Il fascismo, in «La Ronda», gennaio 1922. 87 Mussolini,
Da che parte va il mondo,
in «Gerarchia», febbraio
L’uomo e la gerarchia,
in «Il Popolo d’Italia», 18
1922. 88 A. Lanzillo, ottobre 1921. 89 B. Mussolini,
Forze e programmi, ivi,
90 B. Mussolini, 91 B. Mussolini,
Si va a destra, ivi, Breve preludio,
92 B. Mussolini,
Il Fascismo e i rurali, ivi,
93 C. Rossi,
26 novembre 1921.
12 luglio 1922. in «Gerarchia», gennaio 1922. maggio 1922.
La critica alle critiche del fascismo, ivi,
aprile 1922.
Note al capitolo sesto 1 Pellizzi,
Problemi e realtà del fascismo,
2 G. Bottai, L’illegalismo fascista, gennaio 1924 (in Pagine, cit., p. 302). 3 G. Bottai, Funzione storica, dicembre 1922 (ibidem, p. 221).
cit., pp. 117-118. in «Corriere italiano», 8
in «Il Giornale di Roma», 15
4 Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, II, Torino, 1968, pp. 3 ss. 5 Volt, Le cinque anime del fascismo, in «Critica fascista», 15 febbraio 1925 (vedi il testo in Appendice, pp. 454-458). Secondo Volt, le «anime» del fascismo erano: «1) Estrema sinistra : Suckert e i repubblicani nazionali. 2) Centro sinistro : Rossoni, Grandi, Panunzio, Olivetti, Ciarlantini, ecc. - ancora, in seno al fascismo, il gruppo più numeroso. 3) Estrema destra : cioè il gruppo de “L’Impero”. 4) Centro destro : vi appartengono da una parte gli ex nazionalisti, dall’altra gli integralisti che fanno capo a Bottai. 5) Revisionismo-, sulle posizioni del revisionismo puro è rimasto solo il gruppo fiorentino di “Rivoluzione fascista”». Dopo un esame di queste correnti, Volt concludeva con un appello all’unità, «per via di una specie di riassorbimento interno ». Per una posizione critica sia nei confronti dell’articolo di Volt, sia verso le diverse correnti estremiste, cfr. A. Goglia, Tendenze microrganiche del fascismo (revisionismo, integralismo, ecc.), in «Polemica», 28 febbraio-15 marzo 1925. Questa rivista era l’espressione di
675
un fascismo di ispirazione «crociana» e aveva la collaborazione del crociano Giovanni Castellano. Secondo Goglia, «Revisionismo e integralismo sono più che sostanza interiore, un paludamento esteriore per cui la voce grossa o piccola di quelli che parlano e scrivono dalla capitale o dalle province, e che non escono da questo chiuso, non è destinata ad avere quella importanza quale in apparenza si vuol dare, a parte il carattere di contingenza e di interesse spicciolo che si esaurisce nella breve fase del presente o in quella di un futuro ancora più labile. Non si sconosce che al fascismo è mancata oltre che la disciplina nei ranghi, quella che è destinata a stabilire le gerarchie e che gli uomini che vi sono associati per un medesimo fine devono imporsi, la disciplina intellettuale». Inoltre occorreva «vedere quanto di derivato nel fascismo vi è di quella bistrattata (e non forse a torto) concezione liberale, del principio socialista, sviluppo e movimento di masse, del sindacalismo, concetto filosofico-economico, ecc., quanto vi è delle teorie designate da Feuerbach, Flobbes, Vico, Marx, Sorel, Maurras, ecc. senza parlare di Machiavelli e di quanti scrissero di politica, fino a Benedetto Croce (se Settimelli mi permette)». Sul medesimo problema delle correnti ideologiche fasciste è da vedere l’articolo, cronologicamente precedente queste polemiche, di G. Casini, Classici romantici e scettici del pensiero fascista, in «Rivoluzione fascista», 18 maggio 1924. 6 Tipico il caso di Alfredo Misuri, su cui cfr. De Felice, fascista, I, cit., pp. 446 ss.
Mussolini il
7 G. Bottai, La Marcia su Roma, in «Critica fascista», 1° novembre 1923 (in Pagine, cit., p. 287). 8 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Roma, 1945 2 , p. 89. Sul valore storiografico dell’interpretazione del fascismo data dal Dorso, cfr. R. De Felice, Interpretazioni del fascismo, Bari, 19724, pp. 194-197. 9 Al congresso di Lione, Gramsci affermò che era necessario «esaminare le stratificazioni del fascismo stesso, perché, dato il sistema totalitario che il fascismo tende ad instaurare, sarà nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti che non si possono manifestare per altre vie» (in De Felice, Mussolini, II, cit., p. 4), 10 Cfr.
Punti fermi,
11 G. Casini,
in «Rivoluzione fascista», 18 maggio 1924.
La via maestra, ivi.
12 Rocca, Idee sul fascismo, 13 Ibidem, p. 215.
cit., pp. XIII ss.
14 M. Rocca, Fascismo e Paese, in «Critica fascista», 15 settembre 1923, in Idee sul fascismo, cit., pp. 67-68. 13 Cfr. A. Gramsci, 1973, pp. 318-320. 16 E. Settimelli,
Sul fascismo, Roberto Farinacci,
676
a cura di E. Santarelli, Roma, in «L’Impero», 21 agosto
1924. 17 Cfr. E. Settimelli,
Mussolini e la profanità, ivi,
24 luglio 1924.
18 Cfr. M. Carli, Fascismo intransigente, Firenze, 1926 (raccolta di articoli degli anni 1923-25), pp. 39-51; E. Settimelli, Fascismo e intellettualità , in «L’Impero», 5 febbraio 1925 («Il fascismo è un movimento anticulturale»). 19 Cfr. Carli, Fascismo intransigente , cit., pp. 28-39. 20 21
Ibidem,
pp. 86 ss.
Oggi siamo tutti fascisti,
in «Cremona nuova», 9 novembre
1922. 22 In R. Farinacci, Foligno, 1927, p. 160.
Un periodo aureo del Partito Nazionale Fascista,
23 G. Bottai, Esame di coscienza, (ibidem, p. 280). 24 G. Bottai, Disciplina, ivi, cit., p. 268).
in «Critica fascista», 1° ottobre
1923
5 luglio 1923 (in
Pagine,
25 Questa era la posizione, per esempio, di Dino Grandi: cfr. De Felice, Mussolini il fascista, I, cit., p. 418. 26 Pellizzi,
Problemi e realtà,
27 E. Settimelli, «L’Impero», 30 agosto 1924.
cit., p. 123.
Liberiamo il fascismo dai falsi fascisti,
28 Carli, Fascismo intransigente, 29 Ibidem, pp. 184-185.
cit., p. 93.
30 R. Farinacci, Coerenti al nostro posto, 24 luglio 1924, in R. Farinacci, Andante mosso, di articoli degli anni 1924-25), p. 59. 31
Ibidem,
32 Cfr. De Felice,
in
in «Cremona nuova», Milano, 1927 (raccolta
pp. 8-9. Mussolini il fascista,
II, cit., pp. 66 ss.
33 C. Pellizzi, Fascismo aristocrazia, Milano, 1925, p. 101. 34 Ibidem, pp. 107-108. Diversa la valutazione dei revisionisti «puri» come Casini, il quale scriveva (La secessione del fascismo, in «Rivoluzione fascista», 1° novembre 1924): «Bisogna risolutamente ed una buona volta intenderci nel fascismo. Si vuole continuare a vellicare o a chiosare timidamente le furibonde voglie di logomachia piazzaiola di un Farinacci, che privo di ogni altra arma logica o ideologica pretenderebbe con un gesto da tiranno di palcoscenico vieux stile riportare Mussolini, Presidente del Consiglio, nella Valle Padana e farlo marciare di nuovo alla testa delle camicie nere su Roma, contro chi e contro che
677
cosa non si sa? Si vuol mantenere ancora la Nazione sotto l’incubo di una ripresa di guerra civile, contro un’opposizione che è in realtà meno forte, pur rafforzandosi ogni giorno, di quel che si creda? Si crede che possa ancora continuare l’identificazione che si fa tra il fascismo e i violenti che lo dominano? L’Italia è stanca». Casini giungeva persino a minacciare, contro il prevalere del fascismo farinacciano, una secessione «spirituale» dal partito. 35 Cfr. P. Gobetti, liberale», 19 febbraio 1924.
Secondo elogio di Farinacci,
in «Rivoluzione
36 Cfr. la nota di Curzio Suckert alla collezione, da lui diretta, I problemi del Fascismo, in C. Malaparte, L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Firenze, 1961, p. 642. 37 Rocca, Idee sul fascismo, cit., p. 350. 38 Cfr. Riflessioni sulla nostra ragion d’essere, fascista», 8 giugno 1924. 39 C. Suckert, vivente, cit., p. 96.
La rivolta dei santi maledetti,
40
Ibidem,
p. 128.
41
Ibidem,
p. 135.
42 43
Ibidem, Ibidem,
p. 136. pp. 355 ss.
44 C. Suckert, liberale», 4 giugno 1922. 45 C. Suckert, cit., pp. 377-379.
Il dramma della modernità, L’Europa vivente,
46
Ibidem,
p. 464.
47 48
Ibidem, Ibidem,
p. 380 p. 467.
in
in «Rivoluzione in
L’Europa
in «Rivoluzione L’Europa vivente,
49 Cfr. G. Martelli, Curzio Malaparte, Torino, 1968, p. 39. Cfr. anche G. Grana, Malaparte, Firenze, 1968, p. 18. Sul Suckert politico si veda A.J. De Grand, Curzio Malaparte: The Illusion of the Fascist revolution, in «Journal of Contemporary History», gennaio-aprile 1972. 50 G. Saitta,
Controriforma,
in «Vita Nova», agosto 1925.
51 C. Suckert, Il fallimento della conquista piemontese dell’Italia, in «La Conquista dello Stato», 30 luglio 1924.
678
52 C. Suckert,
Il problema fondamentale, ivi,
53 C. Suckert,
Fascismo storico e fascismo politico, ivi.
54 C. Suckert,
10 luglio 1924.
Le origini «rurali» del fascismo, ivi,
10 agosto
1924. 55 Sul «fascismo» di Soffici e le sue relazioni con il movimento Add antiriforma, cfr. L. Mangoni, Interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, 1974, pp. 58 ss. 56 Sul «Selvaggio», cfr. R. Busini, Il «Selvaggio» squadrista (1924-25): Le radici di una corrente del cosiddetto «fascismo di sinistra», in «Quaderno 70 sul Novecento», Padova, 1970. Per un discorso complessivo su «Il Selvaggio» cfr. Mangoni, Interventismo, cit., pp. 93 ss. 57 Giovanni Tramontano, Fascismo toscano, 21 dicembre 1924, in Busini, Il «Selvaggio» squadrista, 58 Maccari, ibidem, p. 65. 59 C. Suckert, cit., pp. 463-464. 60 Ibidem, 61 C. Suckert, Stato», 24 ottobre 1924. 62 C. Suckert,
Made in England,
in «D Selvaggio», cit., p. 71.
in «Il Selvaggio», 16 agosto 1924,
L’Europa vivente,
in
L’Europa vivente,
p. 466. Lo Stato in dissoluzione, L’età critica del fascismo, ivi,
in «La Conquista dello 30 agosto 1924.
63 Cfr. Volt, Reazionari sì conservatori poi no, in «L’Impero», 5 marzo 1925; Id., I due estremismi, ivi, 20-21 gennaio 1925. 64 Per alcune notizie sulla «Comunità monarchica», cfr. «Il Sabaudo» del 18 gennaio 1925.1 princìpi della Comunità Monarchica erano i seguenti: «Monarchia significa la necessità di far osservare i dieci Comandamenti di Dio L’amore dell’Arte innalza l’uomo molto più della ricchezza - Invidia soltanto chi lavora meglio di te - L’artigianato in genere e quello artistico in specie saranno la salvezza dell’economia d’Italia - L’opera eseguita a mano, essendo fatta con l’aiuto dell’anima, prova più d’ogni cosa l’esistenza di Dio - La ricchezza sarà distribuita dalla capacità dell’artigiano - Operai! La vostra forza non è nel numero ma nella vostra capacità individuale - Monarchia presso i primi popoli significava distribuzione della ricchezza e della giustizia - L’odio di classe significa disperata fiducia nella Provvidenza - L’amore per gli umili è un segno predarò di superiorità spirituale - La ricchezza senza il sacrificio, la cultura senza la carità cristiana non è un merito ma un’onta - Chi non aiuta i poveri che lavorano li scaglia contro Dio e le sue Istituzioni - La tutela dei diritti degli umili non spetta ai sovrani ma alla classe dirigente», cfr. «Il Sabaudo», 21 febbraio 1925. Su Brunati e l’ideologia dell’artigianato cfr. G.A. Fanelli, L‘artigianato, sintesi di un’economia corporativa, Roma, 1929.
679
65 G.A. Fanelli, Fascismo e monarchia, in «Il Veltro», 9 settembre 1922, in G.A. Fanelli, Dall’insurrezione fascista alla Monarchia integrale,
Roma, 1925, p. 20
66 Fanelli,
.
Dall’insurrezione,
cit., p. 218.
67 Ibidem, pp. 245 ss. 68 G.A. Fanelli, L’ora di Barabba, settembre 1924, ivi, p. 121.
in «La Monarchia», 21
69 Fanelli, Dall’insurrezione, cit., pp. 260-261. I monarchisti assoluti non manifestarono mai un’esplicita devozione alla casa Savoia, come modello dell’ideale di monarchia che essi immaginavano. Anzi, non poche erano le critiche alla monarchia sabauda che aveva compromesso l’ideale monarchico assoluto con la sua accettazione del liberalismo risorgimentale: cfr. A.A. Monti, Pagine reazionarie, Foligno, 1926, p. 41; G.A. Fanelli, ibidem, pp. 174-175. Tanto poco il loro ideale si identificava con la monarchia sabauda, che Fanelli poteva anche auspicare che il ritorno al potere assoluto potesse essere ristabilito consolidando «in un nuovo diritto monarchico quella potestà politica che oggi Mussolini sviluppa dalla sua personalità dominatrice». Fanelli, L’artigianato, cit., p. 18. 70 Fanelli, 71
Dall’insurrezione,
Ibidem,
cit., p. 206.
p. 148.
72 Cfr. La discussione fra Carlo di Lomborgo e G. Brunati, A.M.I. e la Comunità Monarchica, in «Il Sabaudo», 14 febbraio 1925. 73 G.A. Fanelli, Revisione, conservazione o integrazione?, in «La Monarchia», 7 dicembre 1924, in Dall’insurrezione, cit., pp. 93-100. 74 C. Pellizzi, fascista», 15 giugno 1924. 73 Pellizzi,
L’essenza aristocratica del fascismo,
Problemi e realtà del fascismo,
cit., pp. 354-355.
76 G. Bottai, Il Fascismo e l’Italia nuova, (riproduce alcuni discorsi di Bottai). 77 78
Ibidem, Ibidem,
in «Critica
Roma, 1923, p. 18
p. 52 p. 33.
79 R Farinacci, Precisazioni, in «La Vita italiana», dicembre 1941 (a proposito di una antologia di scritti bottaiani curata da F.M. Pacces). 80 M. Carli,
G. Bottai,
Roma, 1928, pp. 51 ss.
83 G. Bottai,
Venti anni e un giorno,
Milano, 1949, p. 8.
82 In Carli, Bottai, cit., p. 69. 83 Premessa a Non c’è un paese, da Carli, Bottai, cit., p. 57. Non ci è stato possibile trovare copia della raccolta. Le citazioni sono tutte
680
tratte da M. Carli. 84 G. Bottai, 25 maggio 1919. 83 In Bottai, 86 G. Bottai, dicembre 1922 (in
Sopprimiamo le anime neutre, Pagine, cit., p. VII. Situazione squadrista, Pagine, cit., p. 224).
87 G. Bottai, Disciplina (ibidem, pp. 270-271). 88 G. Bottai, 1° febbraio 1923 1923
in «Roma Futurista»,
in «Il Giornale di Roma», 17
, in «Critica fascista», 15 luglio 1923
Saluto alla camicia nera (ibidem, p. 249).
89 G. Bottai, Proponimento, (ibidem, p. 263).
, in «Il Giornale di Roma»,
in «Critica fascista», 15 giugno
90 A. De Marsanich, Revisione, ivi, 1° agosto 1923. 91 G. Casini, I fascisti contro il fascismo, in «Rivoluzione fascista», 15 ottobre 1924. ivi,
92 A. De Marsanich, 15 dicembre 1924.
93 G. Bottai, 1925 (in Pagine, 94 G. Bottai, Puglia», 9 gennaio 1923
La situazione del Partito Nazionale Fascista,
Farinacci e noi, cit., p. 439).
in «Critica fascista», 1° ottobre
La vicenda del Nazionalismo, (ibidem, p. 247).
in «La Gazzetta di
95 De Marsanich, La situazione del P.N.F., art. cit. 96 G. Bottai, Il Fascismo nel suo fondamento dottrinario (conferenza del 27 marzo 1924) (in Pagine, cit., p. 335). 97 Cfr. G. Bottai, Ripresa polemica, in «Critica fascista», 15 febbraio 1925 (ibidem, p. 402): «Non abbiamo nessuna difficoltà a confessare che, muovendo i primi passi sul terreno di una critica alla nostra parte, non erano in noi idee ben precise circa la strada da percorrere e la mèta da raggiungere. Il nostro tentativo rispondeva ad un oscuro desiderio di aggiustare il Partito ai compiti nuovi, suscitandone in primo piano le idee, che durante la lotta avevano agito più come motivi vaghi che come categorie perspicue, mutandone i quadri, correggendone i metodi». 98 Sul revisionismo di questa rivista cfr. G. Cipriani-Avolio, Da una rivoluzione a un colpo di governo, in «Quaderni di Polemica fascista», n. 2, Roma, s.d. [ma 1924], 99 G. Bottai, Ideologia e pratica del fascismo, in «Corriere italiano», 8 maggio 1924. Cfr. la risposta a questo articolo di C. Suckert, Revisionismo e normalizzazione, in «Corriere italiano», 14 maggio 1924: «nessuna normalità fascista […] sarà possibile, se prima il fascismo non avrà
681
stabilito quale è la sua dottrina». 100 G. Bottai, Per il Partito non contro il Partito, fascista», 1° gennaio 1924 (in Pagine, cit., p. 310).
in «Critica
101 G. Bottai, Dichiarazioni di revisionismo, in «Critica fascista», 17 luglio 1924 (ibidem, p. 276). 102 Bottai, Il Fascismo nel suo fondamento dottrinario, cit. (ibidem, p. 331). 103 G. Bottai, Il Fascismo e l’Italia nuova, cit., p. 71: «Non sappiamo - affermava Bottai - se, come sembra affermare con sicurezza lo stesso Tilgher, questo tormento sia suscettibile d’una soluzione, secondo i dettami della filosofia relativistica, in una religione del come se che faccia riscontro alla filosofia del come se, di Hans Veihinger, o, se piuttosto come una mutevole serie di conversioni, in cui per altro c’è forte sospetto di letteratura, ci vorrebbero far credere in un ritorno puro e semplice alla tradizione cattolica. Al nostro esame non interessa, per ora, la soluzione: ci basta il problema». 104 Ibidem, p. 48: «Il Fascismo deve essere qualcosa di più che un metodo di governo: deve essere un metodo di vita, quindi ricercare la vita non solo ove ella è istituto, legge, programma di partito, ma più in là, dove ella è ancora for-mantesi coscienza del popolo, più in fondo, dove ella è ancora palpito indistinto d’idea, nei sostrati intimi della nostra razza, nelle ragioni profonde del nostro tempo, nella sensibilità dei contemporanei, nel dolore dei nostri simili; deve essere il ritmo d’una nuova ansia, il sigillo d’una nuova grandezza, e l’armonia d’una nuova bellezza; quindi, scavare, scavare fino a trovare il filone vivo ed energico della nostra tradizione in quella che è la vita diffusa e molteplice del nostro Paese, in quella che è la sostanza medesima dell’umanità italiana: solo con questo rivestimento totale, orgiastico e lirico, passionale e folle, di tutta la vita, oltre tutte le categorie, oltre tutti i limiti, oltre tutte le regolamentazioni e le casistiche, il Fascismo potrà essere quello che fu il sogno estremo dei suoi morti giovanetti: la rinascenza italiana» 105 Bottai,
Il fascismo nel suo fondamento dottrinario
, cit., p.
340. 106
Ibidem,
pp. 343-344.
107 II fondamento dottrinario del Fascismo, intervista a G. Bottai, in «L’Epoca», 7 maggio 1924 (in Pagine, cit., p. 359). 108 Bottai,
Ripresa polemica,
art. cit. (
109 G. Bottai, Epilogo del primo tempo, dicembre 1925 ( ibidem, pp. 443-444). 110 G. Bottai, (ibidem, p. 450).
I pochi e i molti, ivi,
682
ibidem,
p. 408).
in «Critica fascista», 15 1° dicembre 1925
111 G. Bottai,
Il Fascismo e l’Italia nuova,
cit., p. 47.
112 G. Bottai, L’essenza ideale del Fascismo, conferenza in parte pubblicata su «Critica fascista», 1° giugno 1925 (in Pagine, cit., p. 466). 113 Cfr. S. Cassese, G. Bottai, in Dizionario biografico degli italiani, XIII. 114 G. Bottai, L’impostazione dottrinale dei rapporti fra il fascismo ed il nazionalismo, in «L’Idea nazionale», 6 dicembre 1921 (in Pagine, cit., p. 174). 115 Cfr. Bottai,
Venti anni e un giorno,
cit., pp. 25 ss.
Note al capitolo settimo 1 G. Miceli, febbraio 1924.
Revisionismo sindacale
2 Cfr. G. Casini, fascista», 9 giugno 1924.
, in «Critica fascista», 1°
Le origini della crisi europea,
in «Rivoluzione
5 Sul «mito» come elemento essenziale dell’ideologia fascista, cfr. Pellizzi, Problemi e realtà, cit., pp. 149 ss. 4 Sulle vicende del sindacalismo fascista negli armi precedenti il regime, cfr. B. Uva, La nascita dello Stato corporativo e sindacale fascista, AssisiRoma, s.d., e, soprattutto, Cordova, Le origini del sindacalismo, cit. 5 C. Curcio, L’espertenza liberale del fascismo, Napoli, 1924, pp. 73 e 147. 6 M. Govi, Il momento decisivo del fascismo e il problema costituzionale, in «Critica fascista», 15 maggio 1924. 7 Cfr. Bottai, Pagine, cit., p. 237. 8 Bottai,
La vicenda del Nazionalismo,
Ripresa polemica,
9 A. De Marsanich, settembre 1924.
art. cit.,
Il punto fermo,
ibidem,
art. cit., in p. 407.
in «Critica fascista», 1°
10 Pellizzi, Fascismo aristocrazia, cit., p. 188. 11 A. Del Noce, Per una definizione storica del fascismo, L’opera della secolarizzazione, Milano, 1970, p. 119. 12 Cfr. E. Garin, 1966, p. 286. 13 U. Spirito, Cfr. anche U. Spirito,
Cronache di filosofia italiana, 1900-1943,
in Bari,
L’avvenire dei giovani, Firenze, 1972, pp. 11-12. Giovanni Gentile, Firenze, 1969, pp. 144 ss.
683
14 G. Carocci,
Storia del fascismo,
Milano, 1972, p. 64.
15 Così il Del Noce: «Penso che il fascismo debba appunto venire definito come ripresa del pensiero rivoluzionario dopo la reazione idealistica contro lo scientismo, da cui accoglie la critica del materialismo marxiano. Da ciò il suo incontro necessario con la filosofia che, inseritasi in questa reazione, ne rappresenta il punto ultimo», cfr. A. Del Noce, Appunti sul primo Gentile, in «Giornale critico della Filosofìa italiana», ottobre-dicembre Ì964, p. 529 n. Nello stesso senso, riferendosi particolarmente a Gentile, scriveva A. Bertelè, Aspetti ideologici del fascismo, cit., p. 124: «Egli è stato anzitutto dei primi, e se riguardiamo alla sua altezza intellettuale, il primo fra i grandi esponenti della cultura italiana, che sia non passato ma venuto incontro al Fascismo per un travagliato svolgimento di pensiero e per una sincera e fedele aderenza di sentimento». 16 Cfr. E. Gentile, «La Voce» e l’età giolittiana, Milano, 1972, pp. 193 ss. 17 G. Lombardo Radice, Accanto ai maestri, Torino, 1925, p. x. 18
Ibidem,
pp. 271-272.
19 Cfr. Curcio, L’esperienza liberale del fascismo, cit., p. 4: «Pensare è fare, è operare: tutta la divinità è in questa creazione, ch’è di tutti ed è pure la più nobile sorgente della vita. Pensare vale non solo l’essere, ma l’essere uomo, creatore di concrete esperienze, vale divenir sempre uomini, farsi ancora e sempre in un’ascesi infinita. In questo fare è la storia, la storia umana, che, racchiudendo tutte le possibilità, tutta la potenza in terra, è la vera affermazione della provvidenza divina. Uomo e storia - l’uomo e la sua storia, così - sono i due estremi, pur identificandosi in uno stesso atto, che è la loro reciproca produzione, dell’esperienza umana». 20 Cfr. E. Codignola, Memoriale autobiografico, in «Scuola e Città», aprile-maggio 1967: «Accettai di entrare nel fascismo perché lo considerai come parecchi altri della mia e della precedente generazione, un modo incomposto ma vigoroso di giovani insofferenti del marasma morale e politico, in cui era caduto il paese. A questo punto di vista aderirono allora parecchi anche di coloro che poi diventarono corifei dell’opposizione. Si sperava difatti di poter indirizzare un moto ancor privo di caratteri ben determinati per una via sindacalista e repubblicana». Il «memoriale» fu scritto nel 1946. Su Codignola, oltre gli articoli riportati nel numero citato di «Scuola e Città», interamente dedicato a Codignola, si veda E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, 1974, pp. 137 ss. 21 La Direzione, Per Giovanni Gentile, in «Levana», ottobre 1922. La rivista era diretta da E. Codignola. 22 Nella Prefazione al libro di C. Licitra, Dal liberalismo al
684
fascismo, Roma, 1925, Gentile affermava di non conoscere ancora, prima della «marcia su Roma», «nel suo intimo lo spirito del fascismo, e non l’avevamo visto all’azione come lo vedemmo che esso fu al governo, e sopra tutto non conoscevamo la persona che ne è l’anima e nel cui cuore è il segreto della sua forza, dei suoi metodi e delle sue fortune, poiché, quanto a me, prima del 29 ottobre 1922 non avevo mai visto il Mussolini e devo confessare che non avevo seguito la sua opera personale da potermene fare un concetto mio», p. XIV. Da notare il riferimento alla personalità di Mussolini come rappresentativa del fascismo, che fu uno degli elementi di maggior peso nell’incontro idealismofascismo. 23 Sui gruppi di competenza e il valore delle istanze tecnocratiche del primo fascismo, cfr. A. Aquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», maggio 1964. 24 Mussolini, Da che parte va il mondo, art. cit. 25 Cfr. A. Carlini, La riforma Gentile e il fascismo, politica liberale», maggio-giugno 1926.
in «La Nuova
26 È da tener presente, a questo proposito, quanto ha osservato Nolte, I tre volti del fascismo, cit., p. 376, per comprendere come il fascismo poteva apparire agli idealisti: «In effetti il fascismo non vuole dire soltanto manganello e olio di ricino: dopo la sua vittoria esso è anche entusiasmo di costruzione, è una passione di mettersi al lavoro, in cui trovano posto molte delle migliori forze dinamiche dei giovani. Si era ripetuto troppo spesso per trent’anni che la vita italiana aveva bisogno d’essere rinnovata dal profondo, che era ora che l’Italia diventasse uno Stato moderno, che bisognava finirla con le lentezze burocratiche: era chiaro che questo stato d’animo non poteva non tornare di incoraggiamento anche al fascismo». 27 Pellizzi, 28 Saitta,
Problemi e realtà, Controriforma,
29 C. Licitra, giugno 1923. 30 C. Licitra,
cit., pp. 180-183. art. cit.
Mussolini e noi Proemio, ivi,
, in «La Nuova politica liberale», gennaio 1923.
31 U. Spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, «Critica fascista», 15 giugno 1924. 32 Licitra,
Giovanni Gentile fascista,
33 G. Gentile, (lettera del 19 aprile 1898).
Lettere a B. Croce,
34 Gentile, Guerra e fede, 33 In «Archivio Gentile». 36 G. Gentile,
in
art. cit. I, Firenze, 1973, pp. 86-87
cit., pp. 7 ss.
La data sacra,
685
in «Il Resto del Carlino», 24
maggio 1918. 37 G. De Ruggiero, Bologna, 1963, p. 25.
Scritti politici,
a cura di R. De Felice,
38 In «Archivio Gentile» (il corsivo è nostro). Cfr. la lettera scritta dal Gentile a De Ruggiero il 16 maggio 1915, nell’Introduzione di R. De Felice a De Ruggiero, Scritti politici, cit., p. 23. 39 Croce, affermava Pellizzi, era «l’ultimo della borghesia», il filosofo della realtà quale è racchiusa nel suo sistema. Al contrario, «Gentile è un altro filosofo, uno stampo d’uomo diverso, dalla testa ai piedi. Croce è un conclusivo, Gentile un iniziatore; Croce chiude un’epoca, Gentile accenna ad un’epoca nuova […]. Gentile dice “andiamo!”, mentre Croce affermava: “siamo andati”. Ora, quella “prigionia” è lo stampo morale borghese, dipendente dall’essenza e dal fine storico della Borghesia. Uscire di là significa avventurarsi a un mondo nuovo, oggi». Per dirla col Pellizzi, Croce era un filosofo «mimetico», Gentile un filosofo «metessico». Cfr. C. Pellizzi, Croce, l’ultimo della borghesia, in «La Nuova politica liberale», novembre 1923. Rispondendo a Pellizzi, Armando Carlini faceva notare che, se era stato l’ultimo della borghesia, Croce era stato anche uno degli homines novi del rinnovamento spirituale e politico che ha fatto capo al fascismo: cfr. A. Carlini, B. Croce e il fascismo, in «La Nuova politica liberale», febbraio 1924. Di fronte alle iniziative politiche degli idealisti e alla teorizzata unità di filosofia e politica, Croce commentava: «Soprattutto mi offende che la “bianca stola” (per usare l’immagine di Fra Jacopone), con la quale ai miei occhi andava vestita la Filosofia, amore dei miei anni giovanili, sia diventata uno strofinaccio per la cucina del fascismo o di altra politica qualsiasi. Vero è che il Gentile ha testé affermato che Campanella è il tipo del filosofo moderno, perché univa alla filosofia l’azione politica, ma ha trascurato di dire che, in politica, il Campanella fu un folle»: lettera a A. Casati del 30 ottobre 1924, in B. Croce, Epistolario, II, Napoli, 1969. Secondo il filosofo napoletano, con l’identificazione di idealismo e fascismo o si faceva come scriveva a Ugo Spirito il 31 marzo 1923 (Epistolario, I, Napoli 1967) - «una deduzione sbagliata o si muove da un principio mal concepito: perché che quella sia una sciocchezza è evidente». Croce, pur affermando di avere «molta stima pel Mussolini» (lettera a E. Pistelli del 30 aprile 1923, in Epistolario, I, cit.), precisava che «per lui il fascismo era il contrario del liberalismo. Ma, quando il liberalismo degenera com’è degenerato in Italia negli anni tra il 1919 e il 1922 e resta poco più di una vuota e ripugnante maschera, può essere benefico un periodo di sospensione della libertà: benefico a patto che restauri un più severo e consapevole regime liberale» (lettera a S. Timpanaro del 3 giugno 1923, ibidem ). Sull’atteggiamento politico di Croce di fronte al fascismo, cfr. R. Colapietra, Benedetto Croce e la politica italiana, II, Bari, 1970, pp. 439 ss. G. Pezzino, L’intellettuale e la politica in Croce
686
attraverso «La critica», in Benedetto Croce, a cura di A. Bruno, Catania, 1974, pp. 382 ss. Il saggio di Stelio Zeppi, Il pensiero politico dell’idea-lismo italiano e il nazionalfascismo (Firenze, 1973), è ricco d’una diligente informazione e conoscenza dei testi, ma offre un’interpretazione dei rapporti fra idealisti e fascismo che, secondo noi, è in gran parte molto discutibile. 40 La Direzione,
Per Giovanni Gentile,
in «Levana», cit.
41 G. Gentile, Responsabilità, in «Il Resto del Carlino», 19 gennaio 1918, in Guerra e fede, cit., p. 82. 42 G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, 1957 4 , pp. 29-30. 43
Ibidem,
44 G. Gentile, maggio 1918. 43 G. Gentile, 46 47
p. 11. La profezia di Dante, I profeti del Risorgimento,
Ibidem, Ibidem,
in «Nuova antologia», 1° Firenze, 1944 3 , p. VII.
p. 35. p. 51.
48 G. Gentile, Nazione e nazionalismo, 2 marzo 1917, in Guerra e fede, cit., p. 53. 49
Ibidem,
p. 55.
50
Ibidem,
p. 57.
in «Il Resto del Carlino»,
51 Sulla filosofia sociale di G. Gentile, il miglior studio complessivo è, finora, quello di H.S. Harris, The Social Philosophy of Giovanni Gentile, Urbana, 1960, trad. it. La filosofia sociale di G.G., Roma, 1973. Cfr. anche A. Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile, Roma, 1971 (soprattutto pp. 225 ss.). Per la formazione del pensiero politico di Gentile, fino al 1919, cfr. M. Cicalese, La formazione del pensiero politico di G.G. (1896-1919), Milano, 1972. 52 G. Gentile, Il mio Liberalismo, in «La Nuova politica liberale», gennaio 1923, in G. Gentile, Che cose il fascismo, Firenze, 1925, pp. 119-122. 53 Gentile,
I profeti,
cit., p. 87.
54 Cfr. A. Del Noce, L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in «Giornale critico della Filosofia italiana», aprilegiugno 1968. 55 Gentile,
I profeti,
cit., pp. 108-109.
56 G. Gentile, La marcia su Roma, in «Idea nazionale», 28 marzo 1923, in Che cos’è il fascismo, cit., p. 123 . 57 Ibidem, p. 124. La violenza del fascismo, affermava Gentile,
687
«era pure la forma propria del nuovo pensiero, che non poteva più essere idea astratta, poiché valeva appunto come attività costruttiva di una nuova vita morale. La nuova filosofia infatti non conosceva più idee che come tali non fossero volontà, azione; non intendeva più come si potesse distinguere tra teoria e pratica. E aveva insegnato che l’uomo il quale pensi veramente, profondamente, sentendo la verità del proprio pensiero, e vivendola, non può non riversarla nella realtà e dar mano a foggiare quel mondo, in cui la verità del suo pensiero si attui e dimostri». 58 G. Gentile, Caratteri religiosi della presente lotta politica, in «Educazione politica», marzo 1925, in Che cos’è il fascismo, cit., pp. 144-145. 59 G. Gentile, Contro l’agnosticismo della scuola, in «La Corporazione della scuola», 10 maggio 1925, in G. Gentile, Fascismo e cultura, Milano, 1928, pp. 38-39. 60 Gentile, Che cos’è il fascismo, cit., p. 17. Conferenza dell’8 marzo 1925. 61 Gentile,
Caratteri religiosi della presente lotta politica,
cit., p.
145. 62 L’espressione è di A. Del Noce, Il ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, in G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza , Firenze, 1973, p LXXXVII. 63 G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia (conferenza tenuta a Palermo il 31 marzo 1924), in Che cos’è il fascismo , cit., pp. 52-56. 64 G. Gentile, Discorso inaugurale dell’Istituto nazionale fascista di cultura (del 19 dicembre 1925), in Fascismo e cultura , cit., pp. 4748. 65 Ibidem , pp. 48-49. 66 Gentile,
Che cos’è il fascismo
67 Gentile,
Il fascismo e la Sicilia,
68 Gentile,
Discorsi di religione,
, cit., p. 25. cit., p. 89. cit., p. 28.
69 Gentile, Il fascismo e la Sicilia, cit., p. 43. 70 G. Gentile, Filosofia e politica, in «Politica», 15 dicembre 1918. 71 Si veda il caso di Bottai e «Critica fascista»: nel 1924 scriveva a Gentile che la sua rivista si onorava «di aver onestamente tentato di far comprendere ai Fascisti quale immenso apporto di pensiero significasse l’adesione al Fascismo e la partecipazione al Governo Nazionale di V. E. » (cfr. Il Fascismo e Giovanni Gentile, in «Critica fascista», 15 luglio 1924). Nel 1927,
688
in una nota all’articolo di C. Sgroi, Fascismo antifilosofico? (in «Critica fascista», 15 marzo 1927), che difendeva la tradizione idealista del fascismo, la redazione della rivista affermava: «Non possiamo […] del tutto consentire dove lo Sgroi vorrebbe dimostrare, che l’idealismo gentiliano è la filosofia della rivoluzione fascista. Nessuno può disconoscere il cospicuo contributo di pensiero che il Gentile ha portato alla cultura italiana, ma nella filosofia del Gentile non si può circoscrivere, senza cadere nell’asserzione gratuita, la concezione rivoluzionaria del fascismo. In una rivoluzione in marcia, come la nostra, si sviluppano diversi orientamenti di pensiero, i quali concorrono tutti alla continua vitalità dell’azione politica. Ma è assolutamente necessario che nessuno di tali orientamenti filosofici prevalga in senso assoluto, perché è chiaro che, in questo caso, la dialettica della rivoluzione si cristallizzerebbe». 72 Gentile,
Discorso inaugurale,
cit., pp. 51-52.
73 Cfr. Gentile, Che cos’è il fascismo, cit., pp. 231 ss. 74 II testo originale, è nell’«Archivio Gentile». Nelle parentesi quadre sono riportati i periodi soppressi da Mussolini. Sul Manifesto cfr. E.R. Papa, Storia di due manifesti, Milano, 1958. Le maggiori polemiche da parte fascista contro il Manifesto gentiliano vennero dai fascisti estremisti tradizionalisti e dai monarchisti assoluti: cfr. Il Sabaudo, Il Convegno di Bologna, in «Il Sabaudo», 4 aprile 1925, in cui si accusava Gentile di essere il «cavallo di Troia» del liberalismo; Settimelli, su «L’Impero» del 1° aprile 1925, dichiarava che i futuristi-fascisti non erano contenti del Convegno culturale fascista; M. Carli affermava, da parte sua, che il fascismo non era un fenomeno culturale, ma un « fenomeno di temperamenti» (cfr. Carli, Fascismo intransigente, cit., pp. 43 ss.). «L’Impero» definì il Manifesto «un orsacchiotto pseudo selvatico»: «Noi confischiamo gaiamente dell’una e dell’altra manifestazione [la risposta di Croce al Manifesto gentiliano], perché luna e l’altra sono equidistanti e dall’intelligenza e dal Fascismo». A queste polemiche, rispose la rivista gentiliana «Vita Nova»: «Il loro dinamismo [degli estremisti dell’«Impero»] scrutato a fondo è il vuoto concentrato e si riduce a chiacchiera fragorosa ma fastidiosa, acida, inconcludente, che può fare impressione nei cervelli grossi o negli animali spiritualmente ottusi, ma che non può aver nessuna efficacia nella parte migliore del Fascismo che è […] la parte pensante» (Rusticus, «L’Impero» e i filosofi, in «Vita Nova», agosto 1925). Secondo Pellizzi, il Convegno di Bologna aveva dimostrato che Gentile poteva esser considerato «il primo filosofo del Fascismo» (cfr. Pellizzi, Fascismo aristocrazia, cit., p. 48). 75 Cfr. C. Schmitt, pp. 143 ss. 76 A. Volpicelli, liberale», agosto 1924.
Le categorie del «politico», Il fascismo e lo Stato,
689
Bologna, 1972,
in «La Nuova politica
77 Spirito,
Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione,
78 Cfr. Lyttelton,
La conquista del potere,
art. cit.
cit., pp. 572 ss.
79 Cfr. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, cit., p. 178. 80 Sul concetto di Stato come dittatura cesaristica cfr. F. Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna, 1973, pp. 333 ss. 81 G. Ambrosini, Sindacati, consigli tecnici e parlamento politico, Roma, 1925 2 , p. 7. Su questo problema cfr. S. Cassese e B. Dente, Una discussione del primo ventennio del secolo: lo Stato sindacale, in «Quaderni storici», settembre-dicembre 1971. 82 Ambrosini,
Sindacati,
83
p. 162.
Ibidem,
cit., p. 124.
84 Mussolini e il sindacalismo, in «La Patria del Popolo», 19 ottobre 1922. 85 A.O. Olivetti, I precedenti storici del Federalismo italiano, ivi, 13 gennaio 1923. 86 S. Panunzio, 87 Cordova, 88 Uva, pp. 10-11.
Lo Stato fascista,
Bologna, 1925, pp. 66-67.
Le origini del sindacalismo,
cit.
La nascita dello Stato corporativo e sindacale fascista,
89 S. Panunzio, 90 Panunzio,
Ipotesi ed eventi, in «La Stirpe», dicembre 1923. Lo Stato fascista, cit., p. 92.
91 Cfr. Volt, articoli), p. 107.
Dal partito allo Stato,
92 Gentile,
cit.,
Che cos’è il fascismo,
93 Cfr. De Felice,
Brescia, 1930 (raccolta di
cit., p. 235.
Mussolini il fascista,
cit., II, p. 167n.
94 Su A. Rocco, cfr. P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, 1963. Per la costruzione dello Stato fascista, fondamentali sono gli studi di: A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, e De Felice, Mussolini il fascista, II, cit. 93 A. Rocco, La dottrina del fascismo e il suo posto nella storia del pensiero politico, in Id., Scritti e discorsi politici, III, Milano, 1938, p. 1101. 96 Rocco, 97
Scritti e discorsi politici,
Ibidem,
II, cit., p. 494.
pp. 477-478.
98 In Rocco, ha osservato Ungari, il «nuovo assolutismo si disegna nella sua mente come una replica vittoriosa del potere politico, minacciato di dissolversi nella disgregazione sindacalista delle società moderne (non reggendo
690
ormai più i Parlamenti al compito di ridurre a unità gli indomabili particolarismi aggressivi), lungo le stesse vie per le quali le monarchie moderne sorsero sulla piegata anarchia feudale: non dubitando, come quelle, di por mano anche a mezzi di forte sapore demagogico, ma assolti sempre nella luce fredda di un’inflessibile ragion di Stato». P. Ungari, Alfredo Rocco, cit., pp. 27-28. 99 Rocco, 100 101
Scritti e discorsi,
Ibidem, Ibidem,
cit., Ili, p. 1001.
p. 1104. p. 1105.
102 Come ha osservato giustamente Paolo Ungari, «Lo Stato di Rocco è un’armatura d’acciaio, che costringe in un vincolo di dura solidarietà tutte le paretiane élites della società moderna - impresa, sindacato, partito, Stato, e le rispettive burocrazie - sotto una direzione autoritaria che sappia spegnere ogni germe di contrasto dialettico aperto, prevenendo ogni formazione di classi dirigenti all’infuori del sistema: una versione contemporanea, ma secondo una più precisa linea di pensiero giuridico, della «società organica» sansimoniana o del Système de politique positive di Auguste Comte. Ad essa come alla propria salvezza si volgerà certa parte della classe dirigente italiana, il giorno in cui le sembrerà di avvertire la propria come una posizione precaria di accampati in terra ostile ai quali - facendo impeto le masse socialiste e cattoliche, e impotente ormai l’istituto parlamentare a una mediazione efficace con le loro nuove e irre-conciliate guide - resti sola via aperta quella di riannodare il filo nero della disciplina industriale di guerra». Ungari, Alfredo Rocco, cit., pp. 28-29. 103 Rocco,
Scritti e discorsi,
104 Cfr. E. Corradini, nazionale», 22 dicembre 1922, in
cit., p. 732.
Nazionalismo e fascismo, in «Idea La stampa nazionalista, cit., p. 360.
105 II valore dell’atto, in «Idea nazionale», 28 febbraio 1923, ibidem, p. 372. Sulla fusione nazionalismo-fascismo cfr. F. Gaeta, Nazionalismo italiano, Napoli, 1965, pp. 203 ss. Sui rapporti ideologici del nazionalismo con le rivoluzioni nazionali e il totalitarismo, cfr. AA.W., L’Europe du XIX e e du XX e siècle, III (1914-aujourd’hui), Milano, 1964; R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Urbino, 1966, pp. 175 ss. 106 G. Bottai, L’essenza ideale del fascismo, cit. (in Pagine, cit., pp. 466-467). 107 U. D’Andrea, 15 settembre 1925. 108 Volt,
Note sul discorso Rocco,
Reazionari sì, conservatori poi no,
109 A. Pasini, aprile 1925.
Fascismo universale,
691
in «Critica fascista», art. cit.
in «Rivoluzione fascista», 1°
110 G. Casini, dicembre 1924.
Problema essenziale,
in «Critica fascista», 1°
Questo articolo riprende i temi già discussi dallo stesso Casini su «Rivoluzione fascista», il 1° ottobre 1924 (Il problema della rivoluzione): «È doveroso - scriveva Casini - per il Fascismo riconoscere, come ha fatto in Enrico Corradini, un precursore e un completo teorizzatore dell’antecedente nazionalista, ma ciò non significa imprigionare il Fascismo nel Nazionalismo. Il nazionalismo, cioè la creazione di una società nazionale ricca, potente, fortemente espansiva è il presupposto necessario del Fascismo, ma non è il Fascismo. Il Fascismo è rivoluzionario ed antidemocratico, mentre il nazionalismo è conservatore e antidemocratico semplicemente perché tradizionalista. Il Fascismo potrà accettare un imperialismo spirituale che sarà piuttosto manifestazione dell’universalismo latino e cattolico, mentre il nazionalismo non esce dal dogma della nazione se non per allargarne la cerchia nel dogma dell’impero, come più larga base semplicemente territoriale e quindi economica. Il Fascismo infine combatte del socialismo la concezione classista e l’internazionalismo mentre ne accetta l’esigenza di elevazione operaia. Mentre in economia il nazionalismo è protezionista il Fascismo è liberista, perché distingue accortamente il liberismo economico dal liberalismo politico. Infine la più vasta cerchia del fenomeno fascista tipicamente italiano impedisce di vedere in esso un nazionalismo in atto». 111 Manifesto, in «Politica», dicembre 1918, in La stampa nazionalista, cit., p.21. 112 Tipico il caso di Luigi Federzoni. Questi nelle sue memorie (L’Italia eh ieri per la storia di domani, Milano, 1967) offre un singolare documento della posizione ideologica dei nazionalisti, come devoti «sagrestani» della monarchia e dell’ordine costituito, nei confronti delle conseguenze rivoluzionarie della grande guerra. Federzoni ci teneva, nelle sue memorie, a distinguere il nazionalismo dal futurismo, dall’arditismo, dal fiumanesimo e dallo stesso fascismo perché, secondo Federzoni, il nazionalismo non era il padre di «una bella nidiata di bastardi» (p. 8). E affermava ancora: «L’esaltazione e l’uso della violenza, una qualsiasi anche larvata idea di colpi di Stato, una tendenza ad esperimenti totalitari furono del tutto estranei al Nazionalismo italiano» (p. 15). E, infine: «il fascismo fu per certi aspetti, la deformazione, se non la parodia del nazionalismo corradiniano, e per certi altri, in qualche momento, ne fu addirittura la negazione» (p. 86). 113 Secondo E. Corradini, La lotta delle Nazioni, in «Gerarchia», dicembre 1923: «Nazionalismo, Fascismo e imperialismo sono la stessa cosa. Nazionalismo, o piuttosto Associazione Nazionalista e Fascismo, o
692
piuttosto Partito Nazionale Fascista, sono due manifestazioni dello stesso principio e della stessa forza nazionale operante […] l’uno e l’altro si integrano, hanno il loro fine nel-l’imperialismo». L’imperialismo era accolto molto favorevolmente dagli estremisti di destra, ma suscitava polemiche e perplessità nei fascisti revisionisti: per i primi, ad esempio, cfr. A. Monti, La missione mondiale del Fascismo, in «L’Impero», 24-25 gennaio 1925, che voleva prospettare la possibilità di costituire un fronte imperialista reazionario fra i vari movimenti di destra. Diversamente A. Signoretti, Contro la retorica universalistica sul fenomeno fascista, in «Critica fascista», 15 novembre 1923. 114 Pellizzi,
Fascismo aristocrazia,
cit., pp. 166-168.
115 Ibidem, pp. 7-9. 116 Pellizzi, Problemi e realtà del fascismo, 117
Ibidem,
p. 16.
118
Ibidem,
p. 175.
119 Pellizzi,
Fascismo aristocrazia,
cit., p. 47.
120 Pellizzi, Problemi e realtà, 121 Ibidem, p. 165. 122
Ibidem,
p. 66.
123
Ibidem,
p. 22.
124
Ibidem,
p. 165.
123 Ibidem, 126 Pellizzi, 127 De Felice, 128 C. Pellizzi,
cit., p. 9.
cit., p. 133.
p. 21. Fascismo aristocrazia,
cit., p. 197.
Mussolini il fascista, Regime di popolo,
cit., I, p. 726. in «Vita Nova», novembre
1925. 129 Mussolini,
Opera omnia,
cit., XXI, p. 388.
130 Ibidem, p. 46. ni Ibidem, p. 358. 132
Ibidem,
133 De Felice,
p. 513. Mussolini il fascista,
cit., I, p. 472.
134 Cfr. P. Melograni, Mussolini e la società di massa, osservatore», ottobre-novembre 1967.
in «Nuovo
135 Cfr. J. Kornis, L’homme détat, Paris, 1938, pp. 369 ss. 136 Cfr. R. Micheis, Sociologia del partito politico, Bologna, 1966. 137 Mussolini, 138 G. Le Bon,
Opera omnia,
cit., XXII, p. 156.
Psicologia delle folle,
693
Milano, 1970, p. 37.
139
Ibidem,
p. 117.
140 Ibidem, pp. 155-156. Sui rapporti di Mussolini con il pensiero di Le Bon e Sorel, cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., II, pp. 365 ss., e l’Introduzione di P. Melograni a Le Bon, Psicologia delle folle, cit. 141 B. Mussolini, 142 B. Mussolini,
Forza e consenso, in «Gerarchia», marzo 1923. Preludio al Machiavelli, ivi, aprile 1924.
143 Al congresso fascista del 22 giugno 1925, Mussolini disse: «Abbiamo portato al primo piano il potere esecutivo. Intenzionalmente, perché il portare al primo piano il potere esecutivo è veramente nelle linee maestre della nostra dottrina, perché, signori, il potere esecutivo è il potere onnipresente ed operante nella vita della nazione, è il potere che esercita il potere ad ogni minuto, è il potere che ad ogni momento si trova di fronte a problemi che deve risolvere; è, signori, il potere che decreta le cose più grandi che possano capitare nella storia di un popolo; è il potere che dichiara la guerra e conclude la pace», Opera omnia, cit., XXI, p. 361. Su «potere» come decisione, cfr. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 33 ss. 144 Cfr. Le Bon,
Psicologia delle folle,
cit., pp. 249 ss.
145 «Se c’è un dato storico - disse Mussolini a Milano il 4 ottobre 1924 -è che tutta la storia dall’uomo delle caverne all’uomo civile o sedicente civile, è tutta una limitazione progressiva della libertà», Opera omnia, cit., XXI, p. 94. 146 Cfr. Del Noce, 147 M. Ferrara, 1939, p. 94.
Per una definizione storica, cit., p. 121. Machiavelli, Nietzsche e Mussolini, Firenze,
Note alla conclusione 1 Mussolini, Opera omnia , cit., XXI, pp. 357-364. 2 M. Maraviglia, Il valore del congresso fascista , in «Gerarchia», luglio 1925. 3 Mussolini,
Opera omnia
4 G. Valois,
La Révolution Nationale,
5 R. Brasillach,
, cit., XXII, p. 10.
I sette colori
Paris, 1924, p. 151.
, Milano, 1966, pp. 161-162.
6 Sul mito in Sorel, cfr. G. Sorel, Considerazioni sulla violenza Bari, 1970, pp. 180 ss. 7 Bertelè, Aspetti ideologici, cit., p. 9. 8 Bottai,
Il fascismo e l’Italia nuova,
9 G. Gentile,
cit., p. 46.
Origini e dottrina del fascismo,
694
,
Roma, 1934, pp.
43-44. 10 G. Melis, Il pensiero di Mussolini e il significato del Fascismo, Milano, 1930, pp. 79-80. 11 G. Secreti,
I due isolamenti,
in «La Montagna», 15 febbraio
1925. 12 Mussolini,
Opera omnia,
13 H. Lemaitre,
cit., XVIII, p. 45.
Les fascismes dans l’histoire,
14 G.L. Mosse,
Paris, 1959.
Le origini culturali del Ferzo Reich,
1968. 15 P. Serant,
Romanticismo fascista,
Editore: Il Mulino (2011) Collezione: Storica paperbacks ISBN-10: 8815233385 ISBN-13: 978-8815233387 conversione epub - pdf: 2020
695
Milano, 1961.
Milano,
INDICE Introduzione
5
La modernità totalitaria
5
Prefazione Capitolo primo
68 76
L’ideologia di Mussolini dal socialismo all’interventismo 1. L’eretico del socialismo 2. Un socialismo di supemomini 3. L’eretico contro il socialismo 4. La nuova via dell'«homme qui cherche» 5. L'interventismo di Mussolini
Capitolo secondo
76 79 88 104 117 126
139
I miti del dopoguerra 1. Il grande evento 2. Il mito del nemico interno: le due Italie 3. Il combattentismo 4. L'antipartito 5. Il sindacalismo nazionale e ideologia della «terza via»
Capitolo terzo
139 139 146 156 163 172
193
Gli aristòcrati del combattentismo 1. Combattentismo aristocratico 2. Gli arditi 696
193 193 198
3. I futuristi
213
Capitolo quarto
242
Il fascismo sansepolcrista 1. Mussolini e i Fasci di combattimento: «Niente è eterno nell’universo» 2. Nazionalismo fascista 3. Antibolscevismo fascista 4. Ordine lirico e ordine politico
Capitolo quinto
242 242 264 271 289
321
Sviluppo e metamorfosi del fascismo 1. Il fascismo dei ceti medi 2. La definizione del fascismo 3. Nazionalismo e fascismo: il corteggiamento dei padri nobili 4. Relativismo fascista: le premesse ideologiche dello Stato antidemocratico 5. La richiesta di potere
Capitolo sesto
321 326 348 363 379 397
411
Rivoluzione, reazione, revisione 1. Rivoluzionari senza rivoluzione 2. Farinacci e il fascismo intransigente 3. La rivolta contro il mondo moderno 4. La rivoluzione intellettuale di Giuseppe Bottai
Capitolo settimo
411 411 427 446 475
506
Il mito dello Stato nuovo 1. Alla ricerca di un’Idea 697
506 506
2. Idealismo militante e fascismo 3. La teologia politica di Giovanni Gentile e la riforma politicoreligiosa degli italiani 4. Stato sindacale e Stato politico. Il fascismo secondo Alfredo Rocco 5. «Mimetica» e «metessica» del fascismo 6. L’ideologia di un «capo»
Conclusione
517 535 570 594 613
625
698