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Italian Pages 364 Year 2018
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Enrique Dussel
Metafore teologiche di Marx
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Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza
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Enrique Dussel
Le metafore teologiche di Marx Traduzione dallo spagnolo e cura di Antonino Infranca
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Titolo originale Las metáforas teológicas de Marx Editorial Verbo Divino, Estella 1993.
© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 9 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716469 ISBN – E-book: 9788885716476 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Karl Marks monument © Sergey YAkovlev – stock.adobe.com
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Introduzione di Antonino Infranca
Spero che il libro di Dussel che ho tradotto dallo spagnolo e che presento al lettore italiano susciti forti polemiche. Innanzitutto perché le polemiche sono sempre segno di vitalità e poi perché l’argomento del libro è fortemente contestabile. L’idea di tradurlo in italiano me la suggerì lo stesso Dussel, durante una visita a casa sua, a Città del Messico, nel novembre del 2013. Lui era appena tornato da una tournée di conferenze e seminari in Cina e là aveva consigliato di tradurre in cinese Le metafore teologiche di Marx, perché riteneva che gli studiosi marxisti cinesi, non preparati alla lettura di questo libro, sarebbero stati sicuramente polemici verso di esso e verso il suo autore. Credo che anche in Italia si possa determinare una situazione simile a quella cinese. Innanzitutto, come lo stesso Dussel afferma nella nuova prefazione all’edizione del 2017, che qui è tradotta, il libro è indirizzato al lettore latinoamericano di sinistra, possibilmente cattolico, perché poco propenso a pensare che Marx abbia sviluppato metaforicamente una critica della teologia. Questa teologica “metaforica” è un momento fondamentale della Teologia della Liberazione. Credo che lo stesso possa pensare il lettore marxista italiano, il quale non è avvezzo alla lettura
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di un testo in cui teologia e marxismo sono così strettamente intrecciati, a formare un solo corpo teorico. Il lettore italiano non è avvezzo anche per la scarsezza di studi critici sul nesso teologia/marxismo che vengano dal mondo cattolico. Dussel ha una profonda conoscenza della teologia cristiana che utilizza brillantemente nell’analisi del pensiero di Marx. Stiamo vivendo ormai da qualche decennio una crisi del marxismo in Italia, in Europa e in tutto il mondo eurocentrico – uso questa dizione geo-culturale cara a Dussel, perché è molto indicativa del provincialismo della cultura dominante. Marx non è più argomento di ricerca scientifica e con lui tutti gli autori marxisti o che si ispiravano al marxismo, in qualche periodo della loro produzione intellettuale, come Lukács, Bloch, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Sartre, Althusser e tanti altri. Resiste un po’ Gramsci, almeno in Italia, per ovvi ragioni geoculturali. Questa presunta irrilevanza di Marx nella cultura di oggi manifesta il suo aspetto paradossale, quando si constata che periodicamente qualche importante intellettuale non marxista dichiara che il pensiero di Marx è ancora attuale. In effetti la sua attualità è dovuta alla sua critica dell’economia politica capitalistica, perché ancora non si è trovata un’analisi migliore e superiore del sistema capitalistico dominante. La situazione di indifferenza verso Marx è, però fortunatamente, ribaltata in America latina, dove gli studi su Marx o sul marxismo godono di uno sviluppo straordinario, difficile da capire per gli eurocentrici. Ormai gli intellettuali del Centro del mondo sono tutti allineati al pensiero dominante, studiano gli autori che garantiscono carriere accademiche, dimenticano di impegnarsi in qualsiasi analisi critica che possa far sospettare che vogliano cantare fuori dal coro. Forse anche per questo motivo, la filosofia, e non solo il pensiero critico, sta lentamente sparendo dall’interesse generale. La pubblicazione di libri filosofici è ormai ristretta soltanto al fine di superare un concorso, vinta la cattedra, gli autori di filosofia, i cosiddetti filo-
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sofi, spariscono nel nulla o assurgono ai fasti del supermercato della televisione, parlando di tutto ciò che non è filosofia. Per fortuna sono pochi che completano la loro carriera di usignoli dell’imperatore nei mezzi televisivi. Gli altri mettono in atto il silenzio che ha insegnato Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Si intenda letteralmente questa incapacità di parlare. Al centro di questo fiorire di studi latinoamericani c’è il pensiero di Enrique Dussel. L’interesse per Marx nacque in Dussel al ritorno dalla sua permanenza di studi in Europa (Spagna, Francia e Germania, anni 1958-1968). In Europa fu frequentatore delle lezioni di alcuni dei maggiori filosofi dell’epoca, quali Zubiri, Levinas, Ricouer, e di qualche teologo di futura fama, quale Ratzinger. Dopo essersi abbeverato alle migliori fonti della filosofia e della teologia europea, decise di andare a conoscere la terra dell’origine della sua fede religiosa e si trasferì in Israele per due anni. Là comincio a conoscere la condizione dei palestinesi, che non era al tempo pessima come lo è oggi; il palestinese è uno dei pochi popoli, che in un’epoca di grande crescita dell’intero pianeta, hanno visto peggiorare la loro condizione di vita materiale e spirituale. Dussel aveva scoperto di essere latinoamericano quando stava in Europa e scoprì di essere un cristiano critico quando era in Israele. Queste esperienze di pensiero vissuto divennero libri: innanzitutto tre volumi di critica dell’umanesimo ellenico, semitico e europeo, poi una ricostruzione critica della storia della Chiesa in America latina. Tornato nella natia Argentina, partecipò alla fondazione della “Filosofia della Liberazione” e rafforzò ancor di più la sua critica al sistema spirituale dominante, tenendo presente sempre una questione radicalmente filosofica: perché studiare la filosofia del Centro, abitando in un paese della Periferia?
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Al periodo dell’insegnamento universitario nella natia Mendoza (1969-1973) risalgono i primi saggi su Marx, in parallelo con una crescente critica del presente e non solo del passato antropologico o religioso dell’America latina. La sua posizione sempre più critica verso il sistema dominante gli attirerà le attenzioni pericolose della destra peronista, subirà un attentato nel 1973. Dopo l’attentato arriva il golpe militare del 1976, ma già nel 1975 Dussel era fuggito in Messico, il paese latinoamericano che ha fatto la rivoluzione prima della Russia (1911) e che ha sempre mantenuto una minima parvenza di democrazia. A Città del Messico, oltre a pubblicare la Filosofia della Liberazione, sintesi delle sue riflessioni dei periodi europeo e argentino, inizia a studiare metodicamente le opere economiche di Marx, approfittando anche di qualche periodo di studio ad Amsterdam e Mosca, dove sono conservate le carte di Marx ancora inedite. Da questo studio risultano tre formidabili volumi di commento alle opere economiche di Marx: il primo sui Grundrisse, il secondo su Il capitale, il terzo sui Manoscritti del 1861-63 e del 1865-67. Scrivo “formidabili” perché l’analisi del pensiero economico di Marx è condotta allo stile dei commenti di Tommaso d’Aquino delle opere di Aristotele: rigo per rigo. Un metodo che ha imparato nei suoi studi teologici, ma che riporta all’interno dell’analisi del pensiero di Marx, rappresentando una novità per questo genere di studi. I tre volumi sono l’opera più dettagliata, rigorosa e incisiva che esista sull’opera economica di Marx. Non mi dilungo su questi tre volumi, perché voglio parlare del quarto. Il quarto volume è quello che ho appena tradotto e che sto presentando al lettore italiano: Le metafore teologiche di Marx. Lo stesso Dussel nella prefazione del 2017 scrive che si tratta del quarto volume del suo studio di Marx e sempre nella stessa prefazione – come ho prima ricordato – egli afferma che il libro fu scritto per il lettore latinoamericano cristiano e critico. Insomma per un suo alter ego sotto forma di lettore.
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Ma il libro è interessante anche per il lettore marxista, solitamente abituato a considerare i numerosi riferimenti alla Bibbia, contenuti negli scritti di Marx, come uno sfoggio di cultura o una banale curiosità. A dimostrazione di quanto si ritenga mera curiosità l’uso delle metafore teologiche da parte di Marx, che nella traduzione in italiano dei Grundrisse di Giorgio Backhaus, Moloch è scritto minuscolo, non come se fosse il riferimento a un dio storicamente ben preciso, ma si trattasse di un’affermazione superficiale. Dussel, invece, mostra che l’interesse di Marx per la teologia era profondo e rigoroso, fin dagli anni di studio al liceo di Treviri, e poi dalla sua partecipazione giovanile alla Sinistra hegeliana, profondamente radicata nella critica della teologia, e al suo discepolato universitario con Bruno Bauer, che era uno studioso di teologia. Dussel si sofferma su questo aspetto del pensiero di Marx soprattutto nella prefazione all’edizione del 1993. L’uso di “metafore” teologiche si va riducendo nel corso della produzione teorica marxiana, ma non sparisce del tutto, semmai entra a far parte integrante con la critica dell’economia politica. L’affermazione più forte di Dussel è che l’analisi che Marx conduce del sistema di produzione capitalistico, soprattutto la sua scoperta più originale, cioè il feticismo, proviene proprio da questi studi di teologia. D’altronde lo stesso Marx ricorda che il termine “feticcio” viene dall’osservazione dei navigatori portoghesi, che mentre circumnavigavano l’Africa per raggiungere l’India, conoscendo le popolazioni africane rivierasche, scoprivano che queste popolazioni si costruivano i propri idoli e li adoravano. Li facevano con le proprie mani: fetiço in portoghese. Ciò che sorprendeva i portoghesi – ancora abituati alla mentalità medievale e feudale dell’Europa pre-colombiana – era l’aspetto così primitivo e ingenuo delle popolazioni africane. Non potevano comprendere come un prodotto umano, quindi relativo, potesse essere scambiato per assoluto. Ma nel giro di un paio di generazioni anche
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gli europei si comportarono allo stesso modo con il denaro, che è una convenzione arbitraria umana, ma che diviene nel capitalismo il motore della produzione economica, sostituendo il lavoro; anzi trasformando il lavoro in una merce, con un prezzo espresso in denaro. Il denaro diviene capitale e viene trattato come un feticcio, adorato come un Dio. La cultura più primitiva, l’africana, diveniva il modello dello sviluppo di una cultura più avanzata, l’europea. Era la stessa scoperta compiuta da Feuerbach: l’uomo si costruisce i propri dei. Marx comprese che lo stesso meccanismo psicologico funzionava con il capitale, che in sé è niente, ma che nella società diventa tutto, da relativo diveniva assoluto. Ora si può porre la questione: il feticismo del denaro è passato alla religione cristiana o il feticismo della religione cristiana è passato al capitalismo? Il capitalismo ha preso dalla religione il feticismo o l’ha imposto alla religione? In realtà il cristianesimo offre a Marx strumenti ermeneutici importanti per l’analisi critica dell’economia capitalistica, perché esso stesso è profondamente critico nei confronti del potere dominante del denaro; si pensi al motto evangelico che è più facile che “una gomena passi per la cruna di un ago, che un ricco in Paradiso”. In effetti il denaro era una moneta di metallo, che aveva il valore riportato sulla moneta stessa; poi è diventato un pezzo di carta, con su scritto un valore che non era affatto il valore di quel pezzetto di carta. Il garante della Zecca d’Inghilterra, Isaac Newton, impose il gold standard, cioè il cambio fisso tra sterlina e oncia d’oro e più per questa sua invenzione, che per le sue scoperte scientifiche, ha fatto grande l’Inghilterra ed è considerato uno dei più grandi uomini della lunga storia inglese. Il gold standard è il primo passo per la sostituzione del metallo prezioso con la carta moneta, che divenne possibile quando l’Europa fu dominata da un unico sistema politico, l’impero di Napoleone – era la stessa condizione che aveva
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permesso all’imperatore cinese Hsien-tsung nel 806 d.C. di introdurre la carta moneta nel suo impero. L’unicità politica dava la fiducia – e anche la paura – necessaria per imporre ai cittadini di usare la carta in luogo del metallo. Ritornati alla molteplicità dei sistemi politici, gli europei si resero conto della estrema comodità dell’uso della carta moneta e diedero maggior fiducia alla vera vincitrice di Napoleone, l’Inghilterra, che era anche la dominatrice del mondo. La fiducia era rafforzata anche dalla sicurezza che dava il gold standard. Non è, quindi, un caso che il capitalismo inizi in Inghilterra, anche perché lì nasce il dio/feticcio del capitale, che si allontana sempre più dalla sua esistenza concreta in metallo pari al valore nominale, fino arrivare al giorno d’oggi, quando il denaro è un numero che si muove alla velocità della luce da un punto all’altro del pianeta. La sua esistenza materiale è scomparsa a favore della sua esistenza ideale, un vero e proprio feticcio eterno. Questa è l’idolatria del capitale, che pretende di essere incorruttibile e permanente. Il carattere feticistico del denaro, attraverso il prezzo e il valore, passa alla merce, che nel sistema dominante è il nuovo feticcio del mercato. Il capitale trasforma in feticcio tutti gli elementi che compongono la propria riproduzione, escluso il lavoro che è la sua fonte originaria. Non è un caso che Marx abbia sviluppato la sua critica dell’economia politica in Inghilterra, a Londra, nell’allora capitale del mondo. Per Dussel non è tanto il fatto che nella biblioteca del British Museum Marx potesse trovare tutto il materiale adeguato alla sua ricerca e alla sua analisi critica, ma abitando a Londra, egli era nella condizione di conoscere in prima persona le vittime del sistema capitalistico, gli operai. È la stessa situazione in cui si trova Dussel, abitando in Messico, in America latina, essere al fianco delle vittime del sistema capitalistico. La maggioranza dell’umanità si trova ad essere nella condizione di vittima del sistema capitalistico dominante e, quindi, Dussel ha preso posizione nel luogo giusto per comprendere
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il sistema in tutta la sua complessità. Inoltre l’America latina è quel continente che ha subito una profonda e radicale opera di genocidio non solo antropologico, ma anche culturale, religioso, linguistico, direi usando una parola ormai desueta della lingua italiana, spirituale1. A differenza di altri continenti (Asia e Africa) l’America e l’Australia sono i continenti che hanno subito la colonizzazione europea più feroce con i risultati che conosciamo, ma l’America latina ha poi subito il dominio del suo vicino del nord: gli Stati Uniti. Per questa ragione Dussel ha sviluppato un pensiero critico nei confronti della modernizzazione europea, rimettendo in discussione i fondamenti dell’eurocentrismo, per una liberazione dell’Altro Occidente2. Finora non sono mancati ottimi libri di analisi del pensiero di Marx, ma la ricerca di Dussel – sia nei tre volumi di commento alle opere economiche di Marx, sia in questo – ha qualcosa di più. Innanzitutto ho detto del rigore filologico fino all’acribia filologica. Già questo lancia una sfida agli studiosi di Marx: il gran numero di citazioni di Marx, in tutte le epoche della sua produzione intellettuale, dedicate a temi religiosi o biblici è soltanto uno sfoggio di erudizione? O, come sostiene Dussel, rivela un interesse profondo, scientifico, quasi necessario per la sua critica dell’economia politica? Di conseguenza, secondo
1 C’è chi ancora nega che in America latina si sia trattato di un genocidio e opera questa negazione in manuali di storia per le scuole italiane; cfr. V. Calvani, Storie Mondi, A. Mondadori Scuola, Milano 2014, p. 59, dove si scrive che il 95% dei morti fu per malattie trasmesse dagli spagnoli. Nel caso dell’assedio di Tenochtitlan, Cortés contagiò di proposito con il vaiolo la popolazione assediata, quindi il contagio era conosciuto e utilizzato volontariamente. 2 Con questo termine ho voluto denominare l’America latina nel mio volume L’Altro Occidente. Sette saggi sulla Filosofia della Liberazione, pref. di E. Dussel, ed. it. Aracne, Roma 2010, ma l’edizione spagnola (Antidoto, Buenos Aires) è del 2000. Ci sono anche un’edizione francese (L’Harmattan, Paris 2004) e portoghese (Praxis, Londrina-São Paulo 2014).
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Dussel, un aspetto della critica dell’economia politica di Marx utile alla Teologia della Liberazione è la scoperta della contraddizione tra il dio della fede e il dio reale, attuale, il denaro. Ho scritto “interesse necessario [per la religione] per la sua critica dell’economia politica”, perché intendevo dire che Marx si rende conto che dalla critica della teologia della Sinistra hegeliana – si ricordi Bruno Bauer e la questione ebraica – si deve passare alla critica dell’economia politica, cioè alla critica della struttura fondamentale e dominante della società civile. Dussel, nell’ultimo capitolo del libro, si sofferma a dimostrare che il dominio dell’economia sulla società è dialettico e non meccanico, come pensavano gli stalinisti. L’economia attua il suo dominio insieme ad altre scienze o ad altri ambiti, innanzitutto la politica, e con essa il diritto ecc. Tornando a Marx, quando lui conosce la critica dell’economia politica del giovane Engels e decide di continuare sulla strada dell’amico, non ha altri strumenti teoretici che la critica della teologia e continua su questa strada. Naturalmente lo studio dell’economia politica accresce gli strumenti ermeneutici di natura economica di Marx, mettendo lentamente da parte quelli teologici, ma questi – come mostrato nel caso del feticismo – gli tornano utili per scoprire alcuni aspetti del capitalismo che erano sconosciuti agli economisti, perché questi non avevano una formazione teologica, come l’aveva Marx. Dussel, però, nella sua analisi del pensiero di Marx ci mette di fronte ad un altro aspetto, che è notissimo a tutti: il pensiero teologico è adattabile al capitalismo senza modificare quasi in nulla la sua struttura. È il rovesciamento dell’atteggiamento di Marx: se il filosofo di Treviri grazie alla sua formazione teologica scopre l’arcano del feticismo delle merci, il filosofo latinoamericano, grazie alla sua analisi del pensiero di Marx, scopre che la religione cristiana è il sostegno più importante del capitalismo.
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Ma si potrebbe anche provare a rovesciare il rapporto tra capitalismo e cattolicesimo e vedere nel capitalismo le tracce – se si vuole le “metafore” – di una religione. Non a caso Max Weber rintracciava nel calvinismo i tratti fondamentali di una religione che si adattava perfettamente al modo di produzione capitalistico, ma si potrebbe anche pensare che il capitalismo ha una propria etica che può svilupparsi fino a diventare una religione, quindi ha usato “metafore” teologiche per affermare questa sua nuova Weltanschauung etico-religiosa per determinare la fine di un’epoca, la fine del feudalesimo, e imporre una nuova mentalità. La scoperta dell’America, innanzitutto la scoperta dell’America latina, ha fornito al capitalismo europeo lo strumento indispensabile e necessario per lo sviluppo del suo modo di produzione, cioè l’enorme quantità di metalli preziosi che potevano divenire la moneta, in denaro, che divenisse, in Europa, capitale. Marx avrebbe proprio investigato non soltanto la relazione simbiotica tra capitalismo e cristianesimo, ma anche l’affermarsi di questa nuova religione capitalistica, che ha riformato radicalmente la religione cristiana, dando inizio a un processo religioso di secolarizzazione dal cristianesimo originario. Il cristiano capitalista vive così in una profonda contraddizione. Engels – che Dussel cita – aveva perfettamente espresso questo processo di secolarizzazione prima in Lutero e poi in Thomas Münzer; Dussel parla di un processo di allontanamento, di ateismo, dai profeti di Israele e dal cristianesimo evangelico che Marx è perfettamente in grado di cogliere e descrivere, seppure non sia l’intenzione primaria della sua critica dell’economia politica. Secondo Dussel, il socialismo è, a sua volta, un superamento dell’ateismo capitalistico e indica la via per un ritorno al cristianesimo originario, come aveva colto Lutero, nella prima fase della sua riflessione teologica, e poi Thomas Münzer. Il “cristianesimo” di Marx è contro il “cristianesimo” della rassegnazione di Lutero, che – per usare il lessico del
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Dussel delle Venti tesi di politica – si è “corrotto”, lasciando la strada della liberazione. A proposito di ateismo, Dussel osserva sagacemente che l’ateismo non è associato da Marx alla concezione del mondo della classe operaia; infatti la modernità capitalistica si costituisce a partire dall’affermazione dell’ateismo dal Dio dei poveri. L’ateismo di Marx è, invece, ateismo dal feticismo del denaro; feticismo del denaro che può essere superato dall’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il punto decisivo del distacco dal cristianesimo primitivo è nella sovrapposizione del denaro al Cristo. Marx usa la “metafora” che il denaro è l’Anticristo e, infatti, il denaro nel mondo capitalistico sostituisce la figura del Cristo, che era un lavoratore, un falegname, che era uno sfruttato e che lo sarebbe ancora oggi, se rinascesse nello stesso luogo in cui nacque: sarebbe un falegname palestinese. La metafora ha sempre un carattere connotativo di una denotazione: il Cristo della Chiesa, sostegno del sistema capitalistico dominante è un mediatore, come il denaro o lo Stato, a sua volta, fondamento e sostegno del sistema. Dussel sostiene che il denaro è il Cristo feticizzato e il capitale è la Trinità dai mille volti. Già in altri saggi Dussel aveva sostenuto questa idea del ruolo mediatore del denaro, riprendendola dalla Logica di Hegel oltre che da Il capitale di Marx. Qui Dussel denuncia anche l’appropriazione delle categorie cristiane da parte del capitalismo. Dussel cita Bartolomé de las Casas che è il primo europeo a testimoniare il fallimento morale del cristianesimo di fronte alla stragrande ricchezza delle popolazioni pre-colombiane. Le migliori intenzioni, da parte degli spagnoli, di un rapporto civile con quelle popolazioni vengono abbandonate di fronte all’irrilevanza che gli indios davano all’oro, che possedevano in quantità impensabili per gli europei. Gli spagnoli iniziano a strappare l’oro agli indios e questi, di conseguenza, credono
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che l’oro sia il vero dio degli spagnoli. Poi a giustificare la barbarie compiuta nei confronti degli indios, gli spagnoli riprenderanno gli stereotipi, usati a suo tempo, nei confronti degli arabi durante la Reconquista: gli indios, come gli islamici, sono considerati barbari, infedeli, restii al cristianesimo. Non si considera, come non si considerò nei confronti degli arabi, il livello di civiltà raggiunto da alcune culture pre-colombiane, come quella degli Inca o dei Maya. In realtà, i veri barbari erano gli spagnoli, che massacravano senza alcuna pietà cristiana gli indios per spogliarli dell’oro che avevano o per costringerli a lavorare nelle miniere d’argento. Scrivo “fallimento” perché non si può convertire al cristianesimo, la religione dell’amore umano reciproco, massacrando, cioè negando nella pratica quei valori che si vorrebbero offrire. In realtà gli spagnoli, spogliando gli indios dell’oro, cercavano il loro vero dio: l’oro. Le vittime avevano perfettamente capito la vera religione degli spagnoli e Bartolomé de las Casas era il primo testimone diretto dell’affermarsi della nuova religione. Però gli spagnoli cercavano il dio oro, l’oro per loro non era ancora capitale. Per gli spagnoli l’oro serviva ad avere lusso, comodità, arte e bellezza. L’oro diventa capitale, quando i pirati inglesi, olandesi o francesi depredando i barbari spagnoli, portano l’oro e l’argento in Europa. Quei metalli preziosi diventano monete, quindi denaro e capitale, e possono innestare la libera circolazione del capitale. Innanzitutto i metalli preziosi permettono all’aristocrazia inglese di liberarsi dalla servitù della gleba, dando un prezzo al lavoro servile. Con il pagamento del lavoro servile i nobili inglesi non devono più garantire la vita ai propri servi della gleba, possono cacciarli dalle terre, possono innescare un processo di trasformazione delle terre incolte, spesso boschive – preziosa fonte di energia (legna da ardere) e di alimenti (cacciagione e frutta boschiva) per i servi della gleba – in terre per l’allevamento delle pecore, quindi per ottenere più lana, e fonte di legna per la costruzio-
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ne di navi, quindi per aumentare la pirateria e il commercio. Inizia così il processo di accumulazione originaria del capitale, che è il vero e proprio peccato originale del capitalismo. L’Inghilterra diventa la prima nazione a innescare il processo di produzione capitalistica, perché in essa le classi dominanti – aristocrazia e borghesia che si allea alla prima – hanno dato un valore al lavoro, lo hanno trasformato in una merce. Lo Stato inglese sostiene questo processo con leggi persecutorie nei confronti dei mendicanti, che sono servi cacciati dalle terre in cui vivevano, e poi dei proletari. Tutto questo accanimento è giustificato da una nuova etica/religione, quella del capitalismo. Marx analizza questo processo in forma “metaforica”, perché il punto centrale della sua analisi è la critica dell’economia politica, ma nei confronti del capitalismo la critica dell’economia politica è anche critica della teologia e in quanto critica della teologia, secondo Dussel, è una implicita teologia, una nuova teologia. In questa teologia il denaro è l’Anti-Cristo, il Satana, il Signore del mondo terrestre, tutti gli usi metaforici di Marx sono tutti di natura negativa, per rafforzare nel lettore l’idea della negazione, da parte del capitale, della fonte del valore, il lavoro vivo. Negazione del lavoro vivo che porta all’alienazione del lavoro, asservito al capitale, che è, come ricorda Dussel, un riferimento marxiano a Paolo. In fondo questo è un vero e proprio sacrificio umano e Marx insiste molto sul tema del sacrificio del lavoro sull’altare del capitale. Anche questa accezione marxiana di “lavoro vivo”, di “vita”, ha una forte connotazione teologica. Dussel nelle sue opere successive a Le metafore teologiche di Marx insiste sul tema della vita e del lavoro vivo, innanzitutto a sottolineare che in Marx, la critica dell’economia politica nasce dalla sua presa di posizione etica a lato della vittima del sistema, di colei che viene negata nei suoi bisogni primari: alimentazione, abitazione, vestiti. Questi sono i bisogni materiali dell’essere umano,
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bisogni che hanno anche gli animali, ma che nell’uomo vengono soddisfatti in maniera umana, come ricorda lo stesso Marx. Le metafore teologiche di Marx, nel corso della produzione teorica di Dussel, occupano un posto significativo: sono, come ho ricordato prima, il quarto volume su Marx, ma sono anche il punto di passaggio dallo studio di Marx alla ri-scrittura di una etica della liberazione. Alla metà degli anni Novanta, Dussel inizia un dialogo serrato con alcuni filosofi rappresentativi della cultura eurocentrica, quali Apel, Ricoeur, Rorty, Habermas, Vattimo, ma allo stesso tempo redige la sua monumentale Ética de la Liberación en la edad de la globalización y de la exclusión. Una etica materialistica fondata sulla vita. Scrivo “ri-scrittura”, perché già negli anni del ritorno in Argentina, Dussel aveva iniziato a scrivere una Filosofía ética latinoamericana in cinque volumi. Ma allora non era entrato in profondità al pensiero di Marx e gli mancava la fonte di tutti i valori umani e in infatti era una filosofia etica latinoamericana e non una etica della liberazione. La vita nella seconda etica di Dussel non è un valore, come ci si aspetterebbe che la consideri un pensatore cristiano, essa è molto di più: è il fondamento di ogni valore, perché dove non c’è vita non ci sono più valori. Non c’è, quindi, nessun valore superiore alla vita. La riproduzione della vita è, allora, il momento della riproduzione del fondamento ed è altrettanto centrale quanto la vita stessa, perché la riproduzione della vita è la vita stessa. Il lavoro è l’attività umana dedicata alla riproduzione della vita; la capacità di lavoro è contenuta nel corpo del lavoratore, che ogni giorno deve riprodurre la sua vita, cioè la sua capacità di lavorare è la sua capacità di riprodurre la propria vita. Per questa ragione Marx aggiungeva al lavoro l’aggettivo “vivo”, perché intendeva il lavoro che serve all’essere umano a riprodurre la propria vita, oltre ad essere contenuto nella sua corporeità vivente del lavoratore. Il sistema capitalistico dominante si appropria del lavoro vivo, ma lascia
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fuori, nell’esteriorità del sistema, i bisogni umani del lavoratore. Il povero chiede lavoro per avere pane, per soddisfare i suoi bisogni, vuole che il sistema interiorizzi i suoi bisogni, vuole alienare la propria soggettività dentro il sistema. All’interno del sistema capitalistico il lavoro diventa una merce e, in tal modo, permette soltanto la riproduzione del capitale e non della soggettività umana, per questa ragione il capitale è lavoro morto, è lavoro umano che diventato merce ha un prezzo indicato in denaro e il denaro è il lavoro morto. Ma il denaro è anche il feticcio dominante il sistema capitalistico, ma in quanto feticcio è un dio morto, perché il cristianesimo non ammette dei viventi. Il denaro è incarnazione dell’oggettivazione del lavoro vivo alienato. Il lavoro morto è, quindi, frutto di un peccato, di una relazione sociale di appropriazione di lavoro vivo, di vitalità umana da parte del capitale. Tale appropriazione si realizza mediante due figure umane il lavoratore e il capitalista. Ancora una dimostrazione che la critica dell’economia politica è parallela alla critica della teologia. Il cristianesimo reclama che l’interpellazione3, l’atto-di-parola, della vittima venga ascoltato: la vittima dichiara di avere fame, chiede pane, cioè possibilità di riprodurre la propria vita. Questo è il senso dell’etica materiale che Dussel trae dal pensiero di Marx. Di contro ai filosofi eurocentrici, come Apel, Dussel afferma che la comunità di comunicazione deve assumere l’interpellazione della vittima per potersi dichiarare una comunità universale di comunicazione. Senza vita non c’è alcun attodi-parola e gli intellettuali europei, che vivono lontani dalle vittime del sistema dominante, non si rendono conto della pressante necessità di riprodurre la vita che hanno le vittime 3 Ho coniato questo nuovo termine in italiano per mantenere il forte senso di “chiamata”, di “richiesta impellente”, di “invocazione”, che ha il termine spagnolo interpelación, che è molto più ricco di significati del nostro “interpellanza”.
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del sistema capitalistico; in fondo, non sanno quello di cui parlano. Dussel che vive vicino alle vittime, che sa ascoltare l’atto-di-parola, è nella condizione di sviluppare una vera etica universale per l’essere umano, un’etica materialistica fondata sulla vita. Nel pensiero marxista il problema dell’etica è rimasto sullo sfondo, raramente affrontato e quando se ne è parlato si è pensato ad un’etica dei valori. Così la classe sociale privilegiata dai marxisti, il proletariato, è stata considerata su un grado superiore rispetto a tutte le altre classi. Lo stalinismo considerava un “nemico di classe”, degno di essere ucciso, chi tradiva la lotta di emancipazione del proletariato, ma il tradimento consisteva spesso nell’avere un’etica diversa da quella del sistema stalinista dominante. Un’etica di valori è un’etica di graduazione dei valori stessi e anche di coloro che ne sono i portatori. I membri del partito bolscevico dell’Unione sovietica, che lottavano al servizio della lotta di emancipazione del proletariato russo, che non era composto soltanto da operai, ma anche da contadini e da lavoratori senza lavoro, divennero con Stalin i portatori del valore più alto: la coscienza di classe. Essi sapevano quali erano gli obiettivi della lotta di classe proletaria. La conseguenza più assurda di questa convinzione, o meglio di questa auto-assunzione di un ruolo e con esso di un valore, è che la lotta per l’emancipazione del proletariato divenne eterna, perché se si fosse interrotta, se si fosse vinta, allora i portatori della coscienza di classe sarebbero dovuti sparire, perché il loro ruolo diveniva inutile e il valore era azzerato. Sulla base della lotta di classe eterna, allora anche i fondamenti del marxismo furono negati, ad esempio la giornata lavorativa non diminuì mai in Urss e, di conseguenza, non aumentò mai il tempo libero dei lavoratori. È vero che le condizioni di vita dell’Urss rispetto alla Russia zarista erano migliori, ma in generale l’intera umanità, negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, migliorò le proprie condizioni di vita.
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Anche nella Chiesa cristiana si verificò qualcosa di simile, se si considera il suo intero sviluppo. Nata come organizzazione di base dei cristiani, spesso per difendersi dalle persecuzioni pagane, entrò lentamente in simbiosi con l’Impero romano, ormai in crisi economica, politica, militare e finì per rimanere l’unico potere, sempre meno religioso, e sempre più politico in Europa, durante le cosiddette “invasioni barbariche”. La Chiesa gestì anche l’integrazione dei barbari nella società civile europea dell’epoca, grazie alla conversione al cristianesimo, che però si allontanava sempre più dai propri valori fondamentali. Ad esempio nel momento in cui la Chiesa prese il potere politico ed economico dell’Europa feudale non sparirono i poveri, gli affamati, ma essi furono riprodotti dal nuovo sistema politico dominante. Ancor peggio la Chiesa organizzò guerre (ad esempio le Crociate) e massacri (la conquista dell’America) per aumentare il suo potere e la sua ricchezza. Chi si appellava al cristianesimo originario era considerato un eretico4. Anche all’interno della Chiesa il dio oro riuscì a farsi largo, di pari passo al crescere dei poveri in Europa e in America. Lutero denunciò proprio questa ingerenza, a pochi anni dall’inizio della conquista dell’America, ma lui stesso non seppe trovare una soluzione al feticismo dentro la Chiesa, perché non riuscì a sviluppare una critica dell’economia politica. Thomas Münzer reintrodusse la lotta di classe nella religione e per questo fu condannato da Lutero, ma il suo messaggio rimase sostanzialmente religioso e, quindi, limitato e facile da sradicare, non passò mai a una critica dell’economia politica. Un grande filosofo marxista, György Lukács, è stato molto consapevole della situazione paradossale in cui lo stalinismo aveva spinto il comunismo. Riprendendo il proprio progetto 4 In greco ἐρετικός è il rematore, che era un uomo libero, che si dirigeva verso la meta finale guardando il luogo originario della partenza. Ho definito Enrique Dussel un moderno “eretico” nel mio L’Altro Occidente.
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giovanile, negli anni della vecchiaia Lukács cominciò a progettare un’etica marxista. Prima, però, obbedendo al suo spirito sistematico volle definire il soggetto di questa etica: l’essere sociale. Il lavoro di preparazione ontologica all’etica sfociò nella sua monumentale Ontologia dell’essere sociale e della progettata etica rimangono pochi appunti. Dai pochi appunti, però, si può dedurre che Lukács pensava a un’etica materialistica e non ad un’etica di valori. Mi piace pensare che Dussel ha praticamente scritto l’etica materialistica che Lukács avrebbe voluto scrivere. Questa convinzione, e qui non è la sede per dimostrarla, ha un punto fermo di cui si è ampiamente parlato: la critica dell’economia politica di Marx. Naturalmente Lukács non univa la critica dell’economia politica di Marx alla critica della teologia, ma era anche lui fermamente convinto che in Marx, oltre che una ontologia dell’essere sociale, fosse presente un’etica, anzi Lukács era sostanzialmente convinto come Dussel che, senza una presa di posizione etica, anche la stessa critica dell’economia politica non sarebbe maturata nella mente di Marx. Infatti Dussel dimostra che la critica della teologia in Marx parte da una presa di posizione etica, che si arma della critica dell’economia politica, la conduce, la dirige, la informa e, a sua volta, se ne rafforza, perché dialetticamente la critica dell’economia politica dimostra che l’essere sociale viene negato nei suoi diritti umani per aumentare l’accumulazione del capitale, tramite l’appropriazione del plusvalore a danno del lavoro vivo. Tra presa di posizione etica e critica dell’economia politica si instaura un rapporto dialettico per cui l’una non può sussistere senza l’altra e non è possibile discernere quale sia la struttura e quale la sovrastruttura. Sicuramente se Marx non si fosse spostato dalla critica della teologia alla critica dell’economia politica, sarebbe rimasto bloccato come la Sinistra hegeliana in un gioco di rimandi senza sbocchi e la sua presa di posizione etica non sarebbe stata così feconda di
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ulteriori sviluppi. Con la critica dell’economia politica Marx sa come risolvere il problema dello sfruttamento e Dussel lo ricorda con il riferimento al “Regno della libertà” nel Libro III de Il capitale: la riduzione della giornata lavorativa. Naturalmente la riduzione della giornata lavorativa è un obiettivo da raggiungere, assicurando dapprima il soddisfacimento dei bisogni umani. Da quell’obiettivo, però, nasce la vera storia dell’uomo, l’umanizzazione dell’uomo, la compiuta “appartenenza al genere” per dirla con il vecchio Lukács, che con questa “appartenenza al genere” intendeva far fronte all’estraniazione dominante nel mondo attuale. Un passo necessario verso il raggiungimento del “Regno della Libertà” è l’aumentare della socialità dell’essere umano. Dussel, citando Marx, parla di comunità, condizione eterna dell’essere umano, che nasce in comunità e si sviluppa soltanto in comunità, come ricorda Aristotele. Dussel non vuole usare il termine società, perché è un termine sostanzialmente storico, mentre la comunità è un termine sovra-storico. Probabilmente lo stesso Marx insisteva sul termine Gemeinschaft (comunità) di contro a Gesellschaft (società), proprio a mettere in rilievo questo aspetto storico della società, di contro al carattere sovra-storico della comunità. Ricordo che Gemeinschaft in tedesco significa anche “relazione reciproca” ed è una delle categorie kantiane. In effetti la comunità è formata da una rete di relazioni reciproche tra i suoi membri e non da un fondamento originario, come la patria o la razza. Tutti gli esseri umani possono fondare una comunità, perché sono biologicamente uguali, quindi possono avere relazione reciproche sessuali. Se non riescono a comunicare a causa delle differenti lingue che parlano – differenze spirituali –, questo non impedisce loro di avere un minimo di relazioni inter umane fatte di gesti, di atteggiamenti e di comportamenti. Si comprende perfettamente se un essere umano chiede cibo, aiuto, protezione e la risposta a questa interpellazione o atto-
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di-parola, anche se non è parlato, dipende dalla propria etica. Sollevare barriere o muri per non ascoltare quell’interpellazione non soddisfa il bisogno a chi interpella, semmai serve soltanto a chiudersi nei propri mondi di privilegio, ma è un auto-rinchiudersi in un proprio carcere interiore ed esteriore, è un rendersi estraneo al mondo in cui si vive. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, lo sfruttamento dell’uomo da parte del sistema capitalistico dominante si è esteso sull’intero pianeta e all’intero pianeta. Se nel centro del sistema al lavoratore sono garantiti i bisogni umani essenziali – anche se la tendenza attuale è di mettere in discussione questi bisogni essenziali e si può notare dal crescente indice di povertà nei paesi capitalisticamente più avanzati –, nella periferia del sistema questi bisogni sono messi in discussione. La fame, la mancanza di abitazioni, di vestiti, di sanità, in una sola parola la miseria più disumana sono la condizione quotidiana di centinaia di milioni di esseri umani. Per questa ragione la presa di posizione etica di Marx, insieme alla sua critica dell’economia politica, è una decisione all’ordine del giorno. Non è facile trovare un intellettuale che denunci questa situazione e la incombenza di una decisione per una presa di posizione a fianco delle vittime del sistema. Nella periferia del sistema gli intellettuali giocano a fare gli intellettuali del centro, leggono, scrivono, si comportano come se a poche centinaia di metri dalle loro università non ci fossero vittime del sistema dominante. In realtà stanno riproducendo il sistema, anche se lo criticano. Gli intellettuali del centro, invece, guardano soltanto al centro, per non accorgersi della miseria che affligge la maggioranza dell’umanità e dettano le regole del pensare al mondo intero, come se tutti fossero nella loro condizione di privilegio, e non di sfruttamento e di esclusione. L’ipocrisia degli uni è pari all’ignoranza dei secondi. Su tutti e due domina il sistema capitalistico con il sostegno ideologico
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della religione, più esattamente nel centro e nella periferia latinoamericana con l’avallo della Chiesa cristiana. Non è, quindi, un caso che mentre Dussel scriveva i suoi quattro libri su Marx, lentamente abbandonava le sue posizioni vicine a quelle della Chiesa latinoamericana, passava vicino alla Teologia della Liberazione, per arrivare oggi su posizioni decisamente marxiste. La questione della fede diveniva una questione personale, la militanza ideologica diveniva sempre più forte e radicale. Il Dussel che prende posizione a favore degli Indignados o dei rivoluzionari bolivariani nasce proprio dalla sua analisi del pensiero di Marx. È un caso più unico che raro che a partire dagli anni Novanta un intellettuale lasci le sue posizioni cristiane per diventare marxista; di solito in Europa, anche in Italia, abbiamo visto passaggi in direzione opposta. Alla mia osservazione su questa situazione atipica, Enrique Dussel ha risposto: «Adesso che è crollato il Muro di Berlino, vale la pena di lottare». Non c’è nulla da aggiungere.
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Parole preliminari
Poco o nulla ho dovuto cambiare di quanto scritto in questo libro, iniziato prima del 9 novembre 1989, giorno della “caduta del muro di Berlino”. La pertinenza di Marx crescerà nel futuro, poiché si manifesta come il grande critico del capitale, ancor più se questo pretende di essere il Potere trionfante a partire dalla fine del XX secolo. Il suo carattere feticista, senza contropartita, lo rende più mostruoso e causa diretta della miseria di gran parte dell’Umanità, nel “Sud” (il cosiddetto Terzo Mondo), specialmente a partire dalla guerra distruttrice del Golfo Persico, a partire dal 15 gennaio 1991, per il controllo del petrolio. Speriamo che questo libro possa collaborare a una rilettura differente dell’opera di quel gran pensatore, filosofo ed economista del XIX secolo. Contro ciò che pensa il teologo polacco, Jozef Tischner, Marx non solo non è morto, bensì che genererà nuovo impulso al pensare critico filosofico, economico e anche teologico. Poco o nulla si è indagato sul tema che pensiamo di esporre. Benché appaia paradossale, è una questione insieme alla quale si è da sempre passati lontani, mai è stata scoperta esplicitamente. Penso che sia stato molto improbabile che qualcuno pensasse che il grande critico della religione potesse aprire un
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nuovo orizzonte… alla teologia. Nel caso di Hegel esiste, al contrario, un’estesa bibliografia. Tanto Hegel, come Hölderlin o Schelling, studiarono teologia, poiché avevano pensato di diventare pastori luterani. Successivamente cambiarono direzione – ma in tutti i modi l’impronta fu indelebile1. È noto che Hegel, come studente a Tübingen, subì dalla formazione teologica, che si riceveva nello Stift evangelico2, l’impatto di una corrente teologica pietista, propria della regione del Württemberg. In effetti, in questo ducato, il luteranesimo ortodosso era stato egemonico. Prima di esso, e come opposizione, e a partire da un profondo rinnovamento spirituale e religioso, sorsero il movimento pietista (che desiderava il rinnovamento del luteranesimo da dentro la chiesa) e i movimenti più settari separatisti (che tentavano di fondare nuove comunità religiose fuori del luteranesimo). Inoltre, dal 1733 il duca cattolico Karl Alexander regnava in Württemberg, ed essendo un militare autoritario, spinse i pietisti a cominciare a sviluppare una teologia che si opponeva al potere, allo Stato, e fino a considerarlo l’Anti-Cristo. Era una teologia che si appoggiava al “Popolo di Dio” – pietista – dei poveri, per la venuta sulla terra del “Regno di Dio” per mezzo della praxis pietista, e avendo come riferimento l’antica tradizione del Württemberg, in quel momento corrotta, secondo l’interpretazione pietista, a causa tanto dei luterani ortodossi quanto del duca cattolico. Era un movimento che tentava di negare il Dio “lontano” e astrat-
1 Non si deve dimenticare, neanche, che Marx si preparò ad essere professore associato di Bruno Bauer a Bonn. Bauer era esplicitamente e solamente un professore di teologia. Se non avesse abbandonato l’università, Marx si sarebbe trasformato in professore di teologia (per quello si preparava e pensava di occupare quel posto). La teologia non è stata, quindi, fuori dall’orizzonte esistenziale di Marx. 2 Il seminario teologico luterano, dove studiarono Hegel, Schelling, Hölderlin, ecc., cfr. L. Dickey, Religion, Economics, and the Politics of Spirit, 1770-1807, Cambridge University Press, Cambridge 1987.
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to dei luterani, e la dottrina del simul justus et peccator [al tempo stesso giusto e peccatore] che sprofondava il credente in un immobilismo, che portava a una vita spirituale sterile, rassegnata e fatalista, che, fra l’altro, giustificava il dominio dei principi luterani sul popolo dei poveri. Il pietista, invece, esigeva dai suoi membri l’azione, la praxis, le opere buone, con un senso del servizio, di responsabilità politica e anche economica che in qualche maniera erano state realizzate a Ginevra dai calvinisti. Questo aspetto, tanto positivo, del pietismo porterà Hegel, contro la sua primitiva ispirazione, a giustificare, tempo dopo, la cultura capitalista, che Marx criticherà tanto duramente; però, si tenga conto che Marx criticherà esplicitamente i puritani di Inghilterra o il protestantesimo d’Olanda, ma non il pietismo di Württemberg, al quale in una certa maniera era legato. Per questo l’Aufklärung tedesca, con la sua visione ottimistica della storia (che nel caso di Hegel consiste nello sviluppo dell’Assoluto stesso: la Heilsgeschichte, Storia della Salvezza) e l’affermazione della bontà della natura umana (contro un “agostinismo” esagerato o un luteranesimo ortodosso), come nel caso della “volontà libera” della Filosofia del diritto, sembrò essere solo un movimento razionalista, consistendo in realtà, in Germania (e non in Francia), in un processo profondamente influenzato per la posizione semi-pelagiana (nel senso che l’azione umana dialetticamente merita la grazia di Dio) del pietismo del Württemberg3. 3 Il pelagianesimo, che Agostino d’Ippona criticò duramente con la sua dottrina del peccato originale della vecchiaia, affermava la possibilità della collaborazione della persona umana nell’opera della sua “divinizzazione”. La “grazia” iniziava un processo che la persona poteva completare con le sue opere. L’“agostinismo” ad oltranza di certe posizioni luterane davano, invece, alla “grazia” e alla “sola fede” una tale importanza che la libertà umana e la praxis rimanevano totalmente annichilate. Il pietismo ha, allora, certi tratti cattolici per un lettore sprovveduto – lo stesso accade spesso con Marx.
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Inoltre, questo pietismo avrà profonde influenze dal millenarismo di Gioacchino da Fiore (con la sua utopia dei tre regni: il Regno del Padre dell’Antico Testamento, il Regno del Figlio del Nuovo Testamento e il Regno dello Spirito Santo4 che si costruisce con le buone opere, per i pietisti con la praxis pietatis). Si aveva, inoltre, una visione storica dei momenti, in cui aveva regnato l’Anticristo (dall’antica Babele o Roma, che fu anche criticata dai Padri Apologisti o dai Padri Alessandrini o da Sant’Agostino, per essere tuttavia accettata da Eusebio, fino alla Chiesa cattolica di Gioacchino del XII secolo, o del ducato cattolico di Württemberg nel XVIII secolo). Si trattava di qualcosa come di una Storia universale delle figure del demonio, dell’Anticristo. Il “Popolo di Dio”, la “comunità” dei credenti praticanti, benché poveri e perseguitati, doveva lottare con questo Anticristo. Fu Spener (1635-1705), il fondatore del pietismo tedesco, colui che espresse chiaramente: «La realtà della religione consiste non in parole, bensì nei fatti»5. E J. Bengel, il grande teologo di Tübingen, affermava che «la dottrina senza vita (Lehre ohne Leben) non è cristiana»6. Esigenza della prassi (si ricordi che il libro dei Atti degli Apostoli porta in greco il titolo di Πράξεις τῶν ἀποστόλων), di opere, e non solo di una fede tragicamente passiva davanti all’onnipotenza del Dio della gra4 Questo è la struttura, nella Filosofia della religione di Hegel, della “Religione assoluta”: “Il Regno del Padre” (Vorlesungen über die Philosophie der Religion, in Theorie Werkausgabe, t. 17, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, pp. 218 ss.) [tr. it. di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Bari 1983, pp. 27 ss.]; “Il Regno del Figlio” (pp. 241 ss.) [tr. it. cit., pp. 75 ss.], “Il Regno dello Spirito” (pp. 299 ss.) [tr. it. cit., pp. 157 ss.]. In questo terzo “Regno” si parla del “Concetto di Comunità” (pp. 306 ss.) [tr. it. cit., pp. 164 ss.] e “La realizzazione della Comunità” (p. 320) [tr. it. cit., pp. 177 ss.]. 5 Cfr. Dickey, op. cit., p. 70. Non risuonano le parole di Spener come una delle Tesi su Feuerbach di Marx? 6 Ivi, p. 85.
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zia. La sofferenza era vista in relazione con il male – questo si originava da quella –, e il cristiano doveva lottare contro la sofferenza del popolo per vincere il male. Prendiamo un esempio, quello di Kant, nell’opera che più influenzò il giovane Hegel, e che anche Marx conobbe nella sua giovinezza, La religione entro i limiti della pura ragione7. Kant dice esplicitamente: Alla teologia biblica corrisponde, nel campo delle scienze, una teologia filosofica […] Questa teologia [filosofica], purché rimanga dentro i limiti della semplice ragione, e utilizzi, per confermare o per spiegare le sue proposizioni, la storia, le lingue, i libri di tutti i popoli e anche la Bibbia, ma solo per suo uso, senza voler introdurre tali proposizioni nella teologia biblica, […] deve avere piena libertà di estendersi sin dove si estende la sua scienza.8
Tuttavia, questa “teologia filosofica” kantiana ha troppi elementi positivi del cristianesimo, nella versione pietista. Per esempio, contro il pessimismo di un certo agostinismo luterano, Kant scrive: Il principio del male non si può trovare in un oggetto determinante il libero arbitrio per inclinazione, né in una tendenza naturale (Naturtriebe).9
Riafferma il principio pietista (e anche cattolico) che «non la natura ne ha la colpa […], o il merito […], ma che l’uomo 7 Questa piccola opera del 1793 è forse quella che manifesta meglio il profondo senso pietista (implicitamente teologico e anche esplicitamente) della filosofia kantiana, come vedremo. 8 Op. cit., BA, XV-XVI (Ed. spagnola, Alianza, Madrid 1969; ed. tedesca, Kant Werke, t. 7, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, pp. 655-656) [tr. it. di G. Durante, Mursia, Milano 1989, p. 71]. 9 Non può riferirsi che alla concupiscentia o libidine agostiniana, come frutto del peccato originale (nell’Agostino anti-pelagiano che cade perciò stesso nel manicheismo).
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stesso ne è l’autore»10. Da dove afferma «della disposizione originaria al bene nella natura umana»11. Nella Terza parte di questa opera, Kant espone «Della vittoria del buon principio sul cattivo e della fondazione d’un regno di Dio sulla terra»12. Questo è il principio fondamentale del pietismo del XVIII secolo (e della Teologia della Liberazione latinoamericana nel XX secolo, conservando le differenze)13. Kant mostra che non è sufficiente «uno stato giuridico-civile»14, bensì che si dovrebbe arrivare a «uno stato etico-civile», non semplicemente alla “società politica», bensì a una «repubblica morale» (ethischen Gemeinen)»15. E anche «Il concetto di una repubblica morale e il concetto di un “popolo di Dio (Volkes Gottes)” governato da leggi morali”16. Questo sono, parola per parola, il progetto del movimento pietista, che si formula nella seguente maniera:
10 Ivi, BA 8 (p. 9; p. 668) [tr. it. cit., pp. 78-79]. 11 Ivi, B 15, A 13 (p. 35; p. 672) [tr. it. cit., p. 82]. Tuttavia, sarebbe possibile «la malignità della natura umana», quando qualcuno riceve «il male in quanto male», e “questa intenzione è diabolica” (ivi, B 36, A 32,; p. 47; p. 686) [tr. it. cit., p. 91]. 12 Ivi, B 127, A 119 (p. 93; p. 751) [tr. it. cit., p. 133]. 13 Kant arrivò a scrivere che non c’è «altro vantaggio maggiore se non la sua liberazione dal dominio di quest’ultimo principio. Diventar libero “essere liberato dalla schiavitù del peccato, per vivere alla giustizia”» (ibidem) [tr. it. cit., p. 133]. 14 Ivi, B 131, A 123 (p. 95; p. 753) [tr. it. cit., p. 134]. Qui parla di uno Stato giuridico-civile “retto collettivamente (gemeinschaftlich)” [Nella traduzione italiana utilizzata gemeinschaftlich è sempre tradotto con “collettivamente”, mentre potrebbe essere tradotto con “comunitariamente” come fa Dussel in spagnolo] da leggi pubbliche giuridiche” (ibidem) [tr. it. cit., p. 134]. 15 Ivi, B 134, A 126 (p. 97; p. 755) [tr. it. cit., p. 134. Anche in questo caso la traduzione italiana utilizzata ha “repubblica”, ma è ammissibile “comunità” come traduce Dussel; N.d.C.]. 16 Ivi, B 137, A 129 (p. 99; p. 757) [tr. it. cit., p. 137. Anche in questo caso Dussel traduce “comunità” invece che “repubblica”; N.d.C.].
39 Una repubblica morale, governata da una legislazione morale divina, è una Chiesa, la quale, in quanto non è oggetto di esperienza possibile, si chiama la Chiesa invisibile17 […]. La Chiesa visibile è l’unione effettiva degli uomini in un Tutto che concorda con tale ideale.18
Inoltre, ed è bene non dimenticarlo – soprattutto se si tiene conto che Marx comincerà le successive redazioni de Il capitale a partire da una lettura attenta della Logica di Hegel –, Hegel aveva scritto a un amico che «solo la scienza è la teodicea»19. Nella Logica, questa diventa la tesi generatrice di tutto il trattato. In effetti, all’inizio di questa opera centrale in tutto il pensiero hegeliano si dice che «ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella
17 Realizzare la «Chiesa invisibile» è il lemma del giovane Hegel (cfr. Hegel, Briefe 8; t. I, p. 18) [tr. it. di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, p. 111]. Al contrario, anticipando il nostro tema, Marx parlerà del «diavolo in carne e ossa» (La Sagrada Familia, Grijalbo, México 1967, p. 86; MEW 2, p. 21) [tr. it. di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 24], o del «dio visibile» (Manuscritos del 44, Alianza, Madrid 1968, p. 179; MEW 1, p. 565) [tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1978, p. 153]. In realtà la frase è di Shakespeare, ma Marx cita la traduzione di Schlegel e Tieck, rivedendola; N.d.C.]. 18 Ivi, B 142, A 134 (p. 101; p. 760) [tr. it. cit., p. 139]. Si consideri la “comunità ideale” di comunicazione e la “reale” nel pensiero trascendentale di Karl-Otto Apel, in riferimento a queste riflessioni kantiane. O anche al “Regno della Libertà” di Marx, quando Kant scrive: «Questa rappresentazione del mondo futuro […] è un bell’ideale di un’epoca in cui l’universo […] si è convertito alla moralità […] non ad una perfezione empirica che noi potremmo abbracciare con un solo sguardo […] L’apparizione dell’Anticristo […] possono avere per la ragione un buon significato simbolico[Impero] “Il Regno di Dio non viene in forma visibile”(Luc. XVII, 21-22)» (ivi, B 205, A 195 (pp. 137-138; pp. 802-803) [tr. it. cit., p. 166]. Potremo vedere successivamente come, per Marx, la “visibilità” del demonio (nella circolazione feticizzata) è sempre allo stesso tempo l’Anticristo. Per la tradizione ebraica, Dio è sempre invisibile e innominabile: “Il Nome (hashem)”. 19 Briefe von und an Hegel (Ed. Lasson-Hoffmeister), t. XXVII, p. 137 [tr. it., p. 252, lettera a Zellmann del 23/01/1807].
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sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»20. Lo stesso Karl Löwith arrivò a scrivere che «la Logica di Hegel è un’onto-logia, allo stesso tempo che una teo-logia: una onto-teo-logia»21. Ciò che per Hegel fu nella Logica lo “sviluppo” di Dio stesso, non è estraneo che, applicata la stessa logica al capitale, desse come risultato lo “sviluppo” dell’anti-dio, dell’Anticristo, del Moloch, il feticcio. Il protestantesimo della regione renana, che influenzerà la regione di Treviri, la città natale di Marx, riceve anche l’influenza pietista, come abbiamo già detto22. Nelle sue lezioni di liceo, Marx farà esperienza di tutto questo, e, successivamente, negli ambienti hegeliani di Berlino riceverà queste posizioni attraverso la filosofia vigente. Schelling, Hölderlin e tanti altri della stessa generazione furono anche segnati dal pietismo. In questa tradizione si deve porre l’idealismo tedesco e la Aufklärung. Tuttavia, non si è tentato di “leggere” le sue 20 Wissenschaft der Logik (ed. Lasson-Hoffmeister), t. III, p. 31 [tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1974, p. 31]. 21 “Hegels Aufhebung der christlichen Religion”, in «Hegel-Studien» (Bonn), 1 (1964). Lo stesso Bloch si esprime così: «Notevole è la somiglianza di questa frase con quella di Goethe sulla musica di Bach, che farebbe sentire l’aspetto delle cose nel seno di Dio prima della creazione del mondo […] Il Logos cristiano e quello neoplatonico risuonano quindi contemporaneamente nella Logica di Hegel» (Subjekt-Objekt. Erläuterung zu Hegel, Frankfurt/M. 1962, p. 161) [tr. it. di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1975, p. 165]. 22 Cfr. A. Rosenkranz, Abriss einer Geschichte der Evangelischen Kirche im Rheinland, Düsseldorf 1960, pp. 84-97 e 111; F. W. Krummacher, Gottfried Daniel Krummacher und die niederrheinische Erweckungsbewegung zu Anfang des 19. Jahrhunderts, W. de Gruyter, Berlin-Leipzig 1935, pp. 29 ss. E. Benz, Schelling. Werden und Wirken seines Denkens, Rhein-Verlag, Zürich 1955, pp. 29-55, si occupa del pietismo, e indica la relazione tra Marx e Oetinger, pietista, dove mostra che la «visione oetingeriana della società perfetta, nella sua età dell’oro, è un ideale della società comunista». Benz mostra anche un’influenza di Oetinger su Marx riguardo al concetto di «superamento (Aufhebung) dello Stato», che «arriva a coincidere finanche nei suoi termini (wörtlich) con Oetinger» (p. 53).
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posizioni filosofiche, etiche, antropologiche e storiche come poste in relazione ai problemi teologici che si posero nella sua epoca. Se si facesse ciò, si potrebbe scoprire che anche Marx dà una propria soluzione a questi problemi teologici, come vedremo più specificamente nella II parte di questo libro. E, per questo, non è tanto sorprendente che possiamo scoprire, come faremo, posizioni teologiche nel pensiero di Marx. In tutti i modi, pensiamo che è dal pietismo tedesco da dove Marx ha bevuto la sua dottrina dell’Anticristo, della priorità della prassi; e così come i pietisti si opposero a un re cattolico, e Hegel a un re senza costituzione (il prussiano luterano), alla stessa maniera Marx si opporrà, dapprima, allo Stato luterano (nella sua tappa di critica politica come giornalista in Germania), per poi lanciare la sua critica filosofica-economica contro il capitale (dal 1843 a Parigi, successivamente a Bruxelles, e infine a Londra teoricamente e sistematicamente a partire dal 1857). Nell’opera di Marx c’è un’implicita strategia argomentativa che desideriamo esplicitare. Le daremo forma di argomento, così come ci suggerisce S. Toulmin23, nella seguente rappresentazione:
PMa
Conclusione PMi Prove
e potrebbe esprimersi nella seguente maniera. Per Marx:
23 The Use of Argument, Cambridge University Press, Cambridge 1964.
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1) PMa (premessa maggiore): se un cristiano è capitalista. 2) PMi (premessa minore): e se il capitale è la «Bestia» dell’Apocalisse, il «demonio visibile»24. 3) Conclusione: questo cristiano si trova in contraddizione pratica. Tutto questo esigerebbe “prove” (e le apporteremo nel corso di questo libro), però, al fine di comprendere adesso l’argomento a un primo livello, sono necessarie certe definizioni. Il “cristianesimo” del cristiano della PMa è quello realmente esistente, il quotidiano, il luterano, e anche il puritano dell’Europa dell’epoca di Marx (a attualmente nel mondo capitalista europeo, nordamericano e latinoamericano). Il “capitalismo” è anche quello realmente esistente, quello compreso quotidianamente da tutti (libero scambista all’epoca di Marx, e quello attuale all’inizio del XXI secolo, che in quanto relazione essenziale lavoro-capitale è astrattamente lo stesso). La PMi esigerebbe maggiori considerazioni (e di fatto sarà il tema della I e della II parte di questo libro). Se si accetta (per adesso senza dimostrazione) che il capitale è il “Moloch”, il “feticcio”, il “demonio visibile” come sviluppo della dottrina dell’Anticristo del gioacchinismo pietista25, il cristiano si troverà in una contraddizione chiara, perché l’esercizio quotidiano della prassi nel sistema capitalista richiederebbe eticamente un’azione satanica, demoniaca. Se questo fosse così, il tale cristiano potrebbe eludere questa contraddizione in quattro maniere: o
24 Può sembrare stonata, espressione di cattivo gusto o francamente assenza di immaginazione. O può apparire che adesso, a partire dalla crisi del socialismo reale, tutto è possibile. Da molto tempo abbiamo pensato che il tema valeva la pena di essere preso sul serio. Per esempio, nel 1970 abbiamo scritto, sotto forma di articolo, il capitolo 6 di questo libro sull’“Ateismo dei profeti di Israele e di Marx”. Venti anni fa! 25 Cfr. L. Dickey, op. cit., pp. 52-78.
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1) affermando il suo cristianesimo e rinunciando all’esercizio del capitalismo (che è ciò che tentava Marx); o 2) affermando il capitalismo e rinunciando al cristianesimo (che avveniva e avviene poco frequentemente); o 3) inventando una religione feticista, con il nome di cristiana, modificata in tale modo che non sarebbe contraddittoria con il capitale (e da qui la produzione, per esempio, del puritanesimo olandese o inglese, di un’attitudine religiosa di cui il capitale ha bisogno per la sua riproduzione con “buona coscienza”26; o per ultimo, 4) interpretando in tal modo il capitale (e questa è la funzione dell’economia politica capitalista di Smith, Ricardo, Malthus, ecc., occultando la non-eticità essenziale del capitale) al fine che non appaia come contraddittorio al cristianesimo più autentico e profetico. Ebbene, le possibilità 1) e 2) non hanno bisogno di alcuna critica, perché risolvono la contraddizione oggettivamente. Invece, riguardo alla possibilità 3), esistente di fatto, esigerebbe da parte di Marx una critica alla religione feticista – questione che di fatto non sviluppò integralmente, ma della quale critica ci ha lasciato molti suggerimenti, e che fu intesa senza dubbio dalla tradizione marxista e anti-marxista come la critica alla religione27. Debbo indicare che questa critica alla religione fe-
26 Nella nostra epoca, e non più in quella di Marx, abbiamo adesso un buon esempio esplicito cattolico nell’opera di Michael Novak, The Spirit of Democratic Capitalism, American Enterprise Institute, New York-Washington 1982 [tr. it. di R. Bruschi, A. Frati e M. Fratini, Studium, Roma 1987], dove si pretende di mostrare la coerenza tra capitalismo e cristianesimo, in questioni come il “peccato” (pp. 82 ss.) o il “mercato” (pp. 104 ss.). 27 Tutta la della recente tradizione cristiana (cattolica e protestante) si indirizza contro questa critica di Marx contro “la religione”. Non si è avvertito (forse per la legittimazione esplicita o implicita che il cristianesimo ha concesso al capitalismo?) che si trattava di una critica a una religione “feticista”, anti-profetica (di fatto “anti-cristiana” nel suo senso forte). La più classica di queste opere fu quella di Jean-Yves Calvez, La pensée de Karl Marx, Seuil,
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ticista è perfettamente accettabile per una coscienza cristiana autentica, profetica, di liberazione – e nel capitolo 6, su “L’ateismo dei profeti d’Israele e di Marx”, si indica il senso nonfeticista della critica di Marx alla religione di dominio; l’appendice 2, su “La religione come giustificazione del dominio e la liberazione”, offre anche materiali in questo senso. Marx avrebbe potuto affermare, con Giustino, ciò che questi scrisse nel II secolo contro gruppi egemonici dell’impero romano: Ecco l’origine del fatto che siamo accusati di essere atei (ἄϑεοι): ammettiamo certamente di essere atei (ἄϑεοι εἶναι) rispetto a queste sedicenti divinità [romane].28
Riguardo alla possibilità 4), Marx si estende su di essa in tutta la sua opera, ma principalmente ne Il capitale, impedendo al cristiano di sfuggire alla contraddizione indicata sopra, mostrando spesso che il capitale è plusvalore accumulato, e come il plusvalore è oggettivazione di lavoro non retribuito, la noneticità del capitale non può nascondersi in una visione critica. Ma d’altra parte, per sviluppare il suo argomento, Marx mostra anche che il capitale tenta di occultare questa non-eticità per Paris 1956, [tr. it. di C. De Stefanis e M. Rettori, Borla, Torino 1966] che aprì tutta una polemica sull’“umanesimo” del giovane Marx. Anche la recente opera di Alistair Kee, Marx and the Failure of Liberation Theology, SCM, London 1990, pp. 3-128, cade in questa visione parziale. D’altra parte, è bene indicarlo fin dall’inizio, la nostra posizione differisce da quella del nostro collega (benché lavoriamo nello stesso Dipartimento di Filosofia della Universidad Autónoma Metropolitana, Iztapalapa, Messico) José Porfirio Miranda, che nella famosa e mondialmente conosciuta opera Marx y la Biblia (México 1969, e tradotta in molte lingue) [tr. it. di F. Gentiloni Silveri, Cittadella, Assisi 1974], e successivamente ne El cristianismo de Marx (México 1978), tende a provare che Marx fu soggettivamente cristiano. Non è questa la nostra strategia argomentativa. Dimostreremo – e soprattutto nella sua opera matura, a partire dai Grundrisse, e tenendo conto della “logica” filosofico-economica de Il capitale – che Marx ha e sostiene oggettivamente un discorso teologico implicito, negativo, “metaforico” ma non questo meno pertinente. 28 Apologia I, 6 (Patrologia latina, Migne, t. VI, p. 336) [tr. it. cit., p. 45].
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mezzo della pretesa di “creare profitto da se stesso”, “dal nulla”. Adesso questa pretesa è interpretata da Marx come feticista. Il carattere feticista del capitale è l’altra faccia dell’interpretazione economica, politica, ideologica, occultatrice dell’essenza non-etica del capitale: è l’affermazione del capitale come “Assoluto”. La critica del carattere feticista del capitale è, epistemologicamente, un compito economico-filosofico propriamente detto (tema della I parte di questo libro). Ci rimane tuttavia il tema centrale. L’argomento, come ogni argomento, si dispiega a partire dalla premessa minore (PMi): «E se il capitale è l’Anti-Cristo, il demonio visibile». Questo enunciato può suonare di cattivissimo gusto, di volere piegare il discorso di Marx, di essere stonato e finanche ridicolo per alcuni; inoltre, sembrerà un discorso molto poco di Marx. Tuttavia, tenteremo di provare che è proprio di Marx (e questo sarà il tema della II parte di questo libro). In effetti, il cristiano non è solo in contraddizione con se stesso, né principalmente per il carattere feticista del capitale, da un punto di vista filosofico o economico (che esporremo nella I parte), e dobbiamo chiarire che l’argomento non è stato ancora esplicitamente enunciato in maniera comprensibile per il “gioco di linguaggio” o la terminologia propriamente cristiana. Tuttavia, Marx la sviluppa continuamente, benché in maniera “metaforica” – tema dei capitoli 4 e 5 –, riferendoci al capitale con predicati o determinazioni in relazione al “feticcio”, al “demonio”29, 29 Già Arnold Künzli, Karl Marx. Eine Psychographie, Europa, Wien 1966, p. 587, ci dice: «Questo non è più economia, bensì demonologia (Dämonologie)». O Friedrich Delekat scriveva in “Vom Wesen des Geldes. Theologisches Analyse eines Grundbegriffes in Karl Marx”, in «Marxismusstudien», I (1954), p. 71: “Demonizzazione del capitale”. Questo ultimo pubblica nel 1957 Christ und das Geld. Eine theologisch-ökonomische Studie, Kaiser, München. Peter Demetz, in Marx, Engels und die Dichter, Ullstein, Frankfurt/M. 1969, esprime la sua opinione su questa demonologia (a p. 156 e specialmente a p. 417).
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alla “Bestia” dell’Apocalisse, o sotto altre invocazioni (Moloch, Mammon, Baal, ecc.). Questi riferimenti “metaforici”, se si prendono sistematicamente e seriamente, producono come risultato un discorso parallelo al discorso economico-filosofico centrale di Marx. Denomineremo questo discorso “metaforico” parallelo: la teologia “metaforica” di Marx. Il tema non è stato affrontato seriamente, e, almeno per questo, crediamo che valga la pena di correre il rischio di lanciare l’ipotesi. Ma si tenga conto che la metafora, il simbolo, non producono nuova conoscenza filosofico-economica, ma aprono un nuovo mondo – come direbbe Paul Ricouer – e giustamente “aprono” un nuovo orizzonte teologico30. Se fossero metafore sciolte, caotiche, puramente frammentarie, potremmo parlare che ci sono solo metafore teologiche nell’opera di Marx. Ma se le metafore hanno una logica, allora possiamo parlare di una prototeologia o di una teologia implicita. Marx non ebbe intenzione di produrre una teologia formalmente esplicita – è necessario che questo sia chiaro fin da adesso. Non fu, nel senso stretto del termine, un teologo. Aprì l’orizzonte per una nuova teologia – il che è molto differente. Valga, come esempio, il seguente, che può fare sospettare il lettore che l’ermeneutica di tali “metafore” ha spesso molte difficoltà di interpretazione. Nei Grundrisse, parlando del denaro, Marx afferma: [Il denaro] da schiavo (Knechtgestalt) qual era in quanto puro mezzo di circolazione, esso diviene improvvisamente il signore e il dio nel mondo delle merci.31 30 Il simbolo (S), benché con minore precisione analitica, ha un’estensione e un significato metaforico maggiore che il puro concetto (C) univoco (S>C). In questo plus (x) (S = C+x) si fonda proprio la sua capacità di suggestione, di apertura, di doppio senso, di produrre un “riferimento” semantico connotativo più ricco (benché meno preciso). 31 Grundrisse, ed. cast., p. 156; ed. ted., 1974, p. 133 [tr. it. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1977, p. 160].
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Marx si sta riferendo (ma alla tradizione marxista, per mancanza di conoscenza in questa materia, e alla tradizione antimarxista per il pregiudizio verso il Marx antireligioso, passava inosservato) al testo di Paolo (Filippesi 2, 6-7), nel quale leggiamo: Il quale, pur essendo di natura divina32, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò33 se stesso, assumendo la condizione di servo (Knechtgestalt).34
Si può vedere come Marx usi il Nuovo Testamento, in maniera molto sottile e competente. Prende il denaro come il “rovesciamento” di Cristo, come l’Anti-Cristo. Mentre Cristo era “di natura divina” e si alienò assumendo la “figura di servo”, il denaro (in movimento contrario) essendo “figura di servo”, si trasforma in “dio” (il feticcio). Cristo si umiliò, si abbassò; il denaro sale, si divinizza. Si tratta di un rovesciamento. Questa maniera “metaforica” di usare temi biblici e teologici, da parte di Marx, obbliga a una lettura attenta e obliqua, che esigerebbe una doppia competenza: filosofico-economica e teologica, che non c’è mai stata (né tra i marxisti, né tra gli antimarxisti pregiudizievoli a priori contro Marx). Solo una lettura attenta, aperta, che scopra la logica del discorso filosofico-economico di Marx poteva immaginare questa ipotesi interpretativa.
32 Nella traduzione di Lutero si usa Gestalt per tradurre il greco μορφῇ (forma). Cfr. per esempio, il Nuovo Testamento, ed. Paul Pattloch, Aschaffenburg 1963, pp. 260-261, dove si segue usando le stesse parole tedesche; cioè, Marx sta usando “le stesse parole”, cioè, si sta riferendo esplicitamente al testo paolino. 33 Lutero traduce ἐκένωσεν con “entäusserte sich” (cioè, “si alienò da se stesso”), da dove i maestri di teologia di Tübingen insegneranno ad Hegel la dottrina della “alienazione”, alla quale si ispirerà Marx il proprio concetto di “alienazione” che ha storicamente un origine cristologica. 34 Nel Nuovo Testamento cit., p. 261 [ed. it., Piemme, Casale Monferrato 1988, p. 2863].
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Per questo, e desideriamo che sia chiaro, non è lo stesso il carattere feticista del capitale a partire da un discorso filosofico ed economico-politico (I parte del libro), che lo sviluppo di un discorso “metaforico”, simbolicamente con un senso implicito teologico (II parte). Si tratterebbe di una teologia implicita, negativa, “metaforicamente” frammentaria. All’inizio di questo secondo secolo successivo alla morte di Marx (dal 1983), e dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre 1989 e della profonda crisi del socialismo reale, gli studi su Marx dovranno assumere una nuova fisionomia, come critica frontale a un capitalismo che pretende di trionfare – benché il 75% del capitalismo mondiale, nel “Sud”, nell’anticamente chiamato Terzo Mondo, geme in mezzo alla miseria di un processo di crescente impoverimento senza soluzione nell’economia di prezzi e mercato libero –, ma che in realtà occulta una necrofilia che gli è essenziale. Marx è il maggiore dei critici teorici del capitale, anche con le sue “metafore” teologiche, e questo sarebbe un nuovo aspetto, chiamato, penso, ad avere enorme rilevanza e profonda pertinenza nel prossimo futuro. D’altra parte, concludo con questo libro una ri-lettura dell’opera di Marx che mi ha portato via alcuni anni35, ciò che mi prepara ad “usarlo” criticamente contro i feticismi di moda,
35 Mi riferisco alle mie tre opere precedenti: il commento alla prima redazione de Il capitale (La producción teórica de Marx. Un comentario a los Grundrisse, Siglo XXI, México 1985); alla seconda redazione: Hacia un Marx desconocido. Un comentario de los Manuscritos del 61-63, Siglo XXI, México 1988; e un commento alla terza e alla quarta redazione: El último Marx (1863-1882) y la liberación latinoamericana, Siglo XXI, México 1990 [tr. it. di L. Stocchini, L’ultimo Marx, a cura di L. Basso e M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2009]. Lì abbiamo esposto molte interpretazioni non usuali dell’opera di Marx. Qui esprimeremo forse la più contraria alle interpretazioni correnti.
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siano essi feticismi filosofici, economici, politici o religiosi (anche cattolici) del nostro inizio del XXI secolo. Contro le profezie della “fine della storia”36 come trionfo del capitalismo, Marx si scaglia contro Nietzsche quando questi scrive: Il nichilismo come sintomo del fatto che i falliti non hanno più alcuna consolazione: che distruggono per essere distrutti e, sciolti dalla morale, non hanno più alcuna ragione di “arrendersi” – che si mettono sul terreno del principio opposto e anche da parte loro vogliono potenza, obbligando i potenti a essere i loro carnefici.37
In effetti, Marx non dirà che «Dio è morto»; proprio al contrario, il capitale è un “dio” ben vivo e che esige vittime umane. E davanti al gigantesco “debito” (“interesse” che si paga al “Nord”) del “Sud”, oggi sembrerebbe più attuale che mai questo testo antinietzscheano – “dio” (il “feticcio”) vive della vita dei poveri del mondo. La totale reificazione, il rovesciamento e la follia del capitale […] è il capitale in quanto bearing “coumpund intest” [producente interesse composto] quando appare come un Moloch
36 Cfr. F. Fukuyama, “The End of History?”, in «The National Interest», ottobre 1989. 37 F. Nietzsche, La Voluntad de Poderío, Edaf, Madrid 1981, p. 61 [tr. it. di A. Treves, La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. F. Nietzsche, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1995, p. 38]. Cioè, per Nietzsche, i poveri si devono rassegnare alla sparizione, alla morte; non c’è speranza che possa consolarli, e una tale Speranza è “contronatura”. Non è strana la moda nietzscheana, tanto negli Stati Uniti che in Europa – e anche in America latina.
50 che pretende il mondo intero38 come vittima a lui spettante, offerta in sacrificio (Opfer) sui suoi altari.39
In questo testo abbiamo, ad “intero corpo”, Marx esprimendo un discorso religioso “metaforico”, o una “metafora” t eologica – come si vuole. E non è il Marx giovanile, è il Marx maturo, della seconda redazione de Il capitale, così come lo esporremo nel capitolo 3.2. Questa opera, in mano a uno psicoanalista, avrebbe potuto chiamarsi “L’inconscio religioso di Marx”, cioè questo inconscio aveva una componente religiosa importante, ma il “superio” di Marx lo censurava e soltanto attraversava questo censore per mezzo di “metafore”. In tutti i modi, queste “metafore” erano nel suo discorso esplicito e possono analizzarsi.
38 È interessante annotare che in questo aspetto («il mondo intero») è oggi più pertinente che nel XIX secolo, dove ancora il capitalismo non era arrivato all’orizzonte stesso del “mondo” come totalità. 39 Manuscritos del 61-63, Cuad. XV, folio 893 (Teorías sobre la plusvalía, t. III, FCE, México 1980, p. 406; MEGA, 11, 3, p. 1460) [tr. it. di S. De Waal, Editori Riuniti, Roma 1993, vol. III, p. 491. Le ultime parole in corsivo non compaiono nella traduzione italiana; N.d.C.].
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Prologo per l’edizione italiana: la critica della teologia come critica dell’economia
Marx scrisse che «la critica della teologia [si trasforma] nella critica della politica»1. In totale coerenza, si può aggiungere anche che la critica della teologia si trasforma nella critica della filosofia, dell’economia o della politica. Seguendo questa indicazione desidero giustificare oggi, nel 2017, introducendo Le metafore teologiche di Marx, il senso di un’opera scritta più di trenta anni fa. E riprenderò ispirazione dallo stesso Marx. Per lui la storia, la filosofia e la teologia erano in relazione col pensiero critico. Per questo motivo scrive un testo celebre, intorno a questi tre livelli epistemologici, che: È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là [Jenseits] della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua [Diesseits]. E innanzi tutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra [Heiligengestalt] dell’autoestraneazione umana, smascherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane [unheiligen]. La critica del cielo si trasforma nella critica della 1 K. Marx, Introducción a la crítica de la Filosofía del Derecho de Hegel (WEB, 1, p. 379; Marx-Engels Obras fundamentales [OF], FCE, México 1982, t. I, p. 492) [tr. it. di R. Panzieri, in K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 162].
52 terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.2
Vediamo allora la relazione di queste tre epistemi: storia, filosofia e teologia, forse per scandalo dei marxisti-leninisti tradizionali e dei cristiani antimarxisti (anche di islamici, confuciani, taoisti, buddisti, eccetera). In effetti, Engels scrisse di suo pugno che Lutero «nella Bibbia […] aveva contrapposto al cristianesimo feudale dell’epoca il cristianesimo semplice dei primi secoli»3. E continua: «I contadini avevano usato questa arma in tutte le direzioni, contro principi, nobiltà, preti». Questa “arma” è il ritorno ai “primi secoli” del cristianesimo, e anche di fronte all’istituzionalizzazione di esso come εκκλησία – e penso che è ciò che ho tentato di fare per la mia intera vita – all’inizio in maniera interrogante tra tenebre e luci, e successivamente con piena chiarezza, poiché Engels si sta riferendo anticipatamente a qualcosa di molto simile a quanto oggi chiamiamo Teologia della Liberazione, nella sua versione più radicale (come, per esempio, la formulazione suggerita da Walter Benjamin del materialismo messianico)4. Desidero riflettere sulla questione, non ponen-
2 Ibidem. Ciò che si dice della politica si può dire dell’economia, del sesso, della razza, dell’estetica ecc. 3 Lucha campesina en Alemania (MEW 7, pp. 350-351; K. Marx - F. Engels, Sobre la religión, ed. Hugo Assmann, Sígueme, Madrid 1974, p. 211) [tr. it. di G. De Caria, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 61]. 4 Si ricordi il riferimento di Walter Benjamin alla teologia in “Sul concetto della storia” nella metafora del turco che utilizzava per giocare a scacchi un nano nascosto sotto la scacchiera: «Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere» (W. Benjamin, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1974, vol. 1/2, p. 693; Obras, Mabada Editores, Madrid 2007, vol. 1/2, p. 305 [tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 2006, vol. VII, p. 483]). Certamente questa problematica
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domi soggettivamente come il credente di una comunità religiosa (ma senza negarlo), bensì di fronte all’oggettività socio- politica, culturale ed economica del mondo attuale – tappa post-secolarista all’inizio del XXI secolo – e come suggerisce J. Habermas in alcune delle sue ultime opere (benché ancora in maniera eurocentrica). E in maniera ancora oggi provocatrice, specialmente per certi marxisti, scrive Engels: Perciò il cielo non si deve cercare nell’aldilà, ma in questa vita, e il compito del credente5 è quello di instaurare questo cielo, il regno di Dio, qui sulla terra.6
Con questa attitudine oggettiva, e non solo soggettiva, desidero che anche il mio critico credente di sinistra, al quale si dirige tutta la mia opera, si renda conto di un discorso storicoteologico che distrugge nei sistemi dominanti la giustificazione religiosa teologica di destra, così come il capitalismo o il liberalismo individualista politico moderno, che passano per essere “cristiani”. È in questo senso che «la critica della teologia [si trasforma] nella critica della politica», anche come critica di altri campi pratici dell’esistenza umana (come la critica dell’economia, del sesso o del paternalismo, del razzismo, dell’eurocentrismo, ecc.) defeticcizzando e decolonizzando questa giustificazione teologica del dominio. Si possono dare molte altre ragioni per giustificare questo programma critico in altri campi, ma in questa opera mi riferirò principalmente
non poteva essere intesa da Adorno, né in America latina da S. Gandler che ritiene che Bolívar Echeverría pensò, contro l’opinione di Michael Löwy, che questo riferimento teologico era secondario e scartabile, e per questo mi squalifica come teologo senza poter capire la tematica di W. Benjamin. 5 In questo caso non interessa chiedersi, come fa Porfirio Miranda, se Engels era o meno credente nel cristianesimo, bensì che lo ha saputo usare come critica a una teologia secolare feticizzata. 6 Lucha campesina en Alemania, VII, p. 353; Sobre la religión, cit., p. 213 [tr. it. cit., p. 64].
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al campo economico della “critica”. E citando una volta ancora Marx, leggiamo un testo non considerato nella tradizione marxista (e naturalmente cristiana), che trattiamo nell’esposizione di questa stessa opera: La critica ha dunque pienamente ragione nel portare lo Stato [cristiano prussiano] che si appella Bibbia a una profonda confusione […] nella quale l’infamia dei suoi mondani, per i quali la religione serve da copertura, entra in conflitto insolubile con l’onestà della sua propria coscienza religiosa.7
Sembra strano che Marx parli di “onestà della coscienza religiosa” che si esprime in un testo rivelato ai cristiani, che si deve interpretare almeno come un riconoscimento positivo del “cristianesimo primitivo”, del quale ha parlato prima nello stesso testo a cui mi riferisco adesso. Di che contraddizione si tratta? Perché Marx vuole mostrare questa contraddizione chiaramente? Che interesse ha oggi, nel presente politico ed economico, raggiungere chiarezza in questa tematica? Possiamo cominciare ad indicare schematicamente quattro possibili contraddizioni o relazioni tra il cristianesimo (come religione, etica o teologia) e la politica, l’economia, la sociologia o altri campi pratici. 1. In una prima relazione, il credente accetta il dominio pratico (sia politico, economico, sociale, culturale, eccetera), perché non ha conosciuto, dimenticato o occultato teoricamente gli aspetti della sua stessa religione (il cristianesimo primitivo) nella tappa in cui si è compromesso con la liberazione dei poveri e degli oppressi. Non ci sarebbe contraddizione tra il cristianesimo (rovesciato a partire dal IV secolo) e l’economia politica borghese (o altre forme di dominio razziste, di sesso, culturali, ecc.). Il cristianesimo rovesciato non si oppone al capitalismo. 7 Sobre la cuestión judía, MEW 1, pp. 359-360 [B. Bauer - K. Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 189].
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2. In una seconda possibile relazione, il credente accetta il dominio pratico del capitalismo, poiché la scienza economica nascente (per esempio quella del calvinista presbiteriano Adam Smith) descrive lo stesso capitalismo come coerente con il cristianesimo rovesciato, occultando le sue componenti di ingiustizia, dominio o sfruttamento (per esempio, non scoprendo né mostrando l’ingiustizia del plusvalore ottenuto come parte non pagata del salario). La scienza economica feticizzata non si oppone al cristianesimo rovesciato. 3. In una terza possibile relazione, l’economista si opporrebbe al dominio economico del capitalismo, avendo previamente effettuato una critica dell’economia politica (per esempio, quella realizzata da Marx), mostrando l’ingiustizia o la perversità del capitalismo che sfrutta l’operaio, poiché accumula profitto con il plusvalore non pagato nel salario dell’operaio. Questo compito è quello proprio della “critica dell’economia politica”, lavoro effettuato da Marx. Il credente critico si opporrebbe per questo stesso al capitalismo (a partire da argomenti razionali). Un’economia critica mostra che è contraddittorio il capitalismo all’autentico cristianesimo dei primi secoli. 4. In una quarta possibile relazione, lo stesso credente, riscoprendo il senso critico del messaggio del cristianesimo (messianico) che si oppone alle ingiustizie sofferte dai poveri, i deboli – lotta che intrapresero i primi membri delle comunità fondatrici (siano cristiana, islamica, buddista, ecc.)- prende coscienza della contraddizione tra religione critica (che rovescia il rovesciamento) e il capitalismo. Questo è ciò che Marx chiama “critica della teologia”. È una critica teologica come ritorno messianico alle origini, che in America latina ha realizzato la Teologia della Liberazione. Un cristianesimo critico (che rovescia il rovesciamento della cristianità) è contraddizione del capitalismo.
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Marx si incarica di suggerire una critica della teologia che permetta ai cristiani (adesso critici del loro stesso cristianesimo, e in tale critica consiste la contraddizione) di porsi contraddittoriamente di fronte al capitalismo. Per questo usò continuamente metafore teologiche: descrive al credente il cammino teorico per scoprire la contraddizione della religione cristiana critica originaria (se è autentica e rovescia il rovesciamento della cristianità) con il capitalismo, possibilità che si compie defeticizzando la scienza economica, ma suggerendo simultaneamente una reinterpretazione critica della teologia (che i teologi credenti critici devono realizzare completamente e guidarla). Marx indica il metodo di questa reinterpretazione a partire dal porre la teologia “in piedi”, poiché andava a partire dal IV secolo “sulla testa”. Il cristianesimo (e l’islam nel Califfato, eccetera) si era rovesciato perché il credente accettava con complicità il dominio dei sistemi vigenti (del feudalesimo al tempo della teologia scolastica cristiana, o del mercantilismo al tempo dell’aristotelismo islamico), perché avevano abbandonato il momento critico (o messianico direbbe A. Benjamin) del messaggio cristiano nel testo sacro (nella cultura europea: la Bibbia, nel caso dell’islam il Corano, eccetera), accettazione correlativa del non essersi mostrata nella nascente scienza economica l’ingiustizia del sistema capitalista. Il cristianesimo convertito in cristianità medievale aveva effettuato un rovesciamento del messianismo originario; quello dei califfati islamici aveva rovesciato il messaggio del profeta della Mecca, lo stesso accadde nel confucianesimo, nel taoismo, nel buddismo, eccetera. In questa maniera il credente “celeste” e il dominatore “terrestre” (per esempio, oggi il cristiano capitalista nordamericano o l’islamico arricchito finanziariamente con il petrolio, ecc.) non vedono nessuna contraddizione tra la loro credenza e il capitalismo, perché entrambi sono stati rovesciati, anche epistemologicamente, nella costruzione ideologica dei loro
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rispettivi discorsi. L’uno, lo scienziato, avendo escluso dall’economia la contraddizione capitale/lavoro come sfruttamento dell’ultimo, che si manifesta nel plusvalore a sua volta occultato, l’altro, nella religione, avendo anche occultato che la sua religione si dirige primieramente ai poveri e dominati e che per questo è contraddittoria con il capitalismo. Al contrario, il credente (cristiano in questo caso, ma applicabile anche a un confuciano, a un buddista, a un taoista, a un indù o a un islamico), a partire dal testo religioso (come Thomas Münzer tra i cristiani germanici) si può opporre, se ritorna alle sue fonti più antiche, a molti tipi di dominio, e in concreto a quella del capitalismo, del liberalismo, del razzismo, del maschilismo, dell’eurocentrismo (che passano come coerenti con le religioni rovesciate, feticizzate esse stesse). Questa è la posizione che Marx tenta di esporre con chiarezza ai credenti europei e cristiani per mezzo di una “critica della teologia”. A partire da questa luce si deve anche leggere il tentativo storico-filosofico della mia opera. Tutto questo include anche la critica di ciò che Marx denomina la feticizzazione o la sacralizzazione delle “forme profane (unheiligen)”; cioè che contro ciò che si pensa tradizionalmente (nella sinistra e nella destra), coloro che hanno secolarizzato la scienza e le istituzioni nell’età secolarizzata dell’Illuminismo eliminarono anche gli “dei terrestri”, e il principale di questi dei, per Marx, è il capitale in quanto tale. Ciò che si è negato o secolarizzato nella teologia profana del “In God we trust” (che dovrebbe scriversi In Gold we trust, aggiungendo una “l” tra la “o” e la “d” di God) è un dio, un feticcio immerso nella vita quotidiana, della settimana (non è il Dio del sabato ebraico, della domenica cristiana, del venerdì islamico). Il gold, il capitale è un dio quotidiano (fondamento ontologicoeconomico dell’esistenza moderna) poiché per il fondatore del cristianesimo (o per i “cristiani primitivi”, e anche per il fondatore dell’islam) il dio “fabbricato dalle mani dell’essere
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umano”, il feticcio Mammone era il Denaro (anche per Marx). Ma nella modernità europea secolarista anche Mammone è stato secolarizzato e appare semplicemente come un momento economico8. Per Marx, al contrario (come per i credenti primitivi e oggi per i credenti critici) il Denaro era un vero dio, ma profano, un anticristo come lo esponiamo lungamente in quest’opera scritta tempo fa, ma più pertinente oggi che quando fu redatta. Per esempio, e torneremo sul tema successivamente, Marx si riferisce a un testo di Paolo di Tarso, quando scrive nei Grundrisse: [Il denaro] da schiavo qual era in quanto puro mezzo di circolazione, diviene improvvisamente il signore e il dio nel mondo delle merci.9
Nella circolazione il denaro ha diverse funzioni ma non la sua accumulazione. È uno strumento di scambio. Ma nel capitale si trasforma in un vero dio per il suo potere infinito di accumulazione. Ciò che mai si è notato è che Marx sta facendo riferimento all’autore della Lettera ai Filippesi, quando Paolo di Tarso scrive: «Il quale [Gesù Cristo], pur essendo di natura divina [Gestalt Gottes]10, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso11, assumen-
8 In una età “post-secolarista” si torna a scoprire le divinità occultate o invisibili per il secolarismo. 9 Grundrisse, Dietz, Berlin 1974, p. 133 (OF, I, p. 156) [tr. it. cit., p. 160]. 10 Si noti l’uso del concetto di “figura (Gestalt)”, applicata allo “schiavo” e a “dio” (o “Dio”), parole prese da Marx dalla traduzione tedesca di Lutero del Nuovo Testamento. 11 Questo “si alienò da se stesso” (entäusserte sich) attraverso Hegel, si trasformerà nella categoria di “alienazione” in Marx (chi direbbe, di origine paolina, cioè teologica).
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do la condizione di servo [Knechtgestalt12]»13; cioè, il Denaro da schiavo si trasformò in dio; Cristo da Dio divenne schiavo. La conclusione inevitabile della critica della teologia è che il Denaro è l’anticristo per Marx, una metafora della sua critica alla teologia profana o al feticismo occultatore, o anche: critica profana della teologia economica come quella di Adam Smith14. E sembrerebbe ancora più strano, alla sinistra e alla destra, che sia lo stesso Engels colui che scriva, riferendosi a una crisi economica inglese, che: Questa crisi è il grande scontro finale tra Dio e l’Anticristo, come lo hanno chiamato altri. I capitoli decisivi sono il 13 e il 17 [dell’Apocalisse].15
Questo non ci indica che Marx ed Engels fossero credenti, ma neanche nega che i credenti possano adottare le posizioni critiche di Marx di fronte al capitalismo. Nel mio caso particolare l’ho compreso, scoprendo lentamente queste posizioni teoriche con l’andare degli ultimi cinquanta anni. Non è stata una rottura istantanea né ereditata dalla famiglia né da maestri. Fu un mio lento processo di apertura al più critico pensiero dei secoli XIX e XX (come è quello di Marx), senza negare la possibilità dell’orizzonte di un mondo religioso, a partire da dentro comunità concreta storico-culturale, come una totalità
12 È esattamente l’espressione inequivocabile in tedesco di Marx, nella traduzione di Lutero. 13 Carta a los Filipenses 2, 6-7 [Si noti che la traduzione operata da Dussel dal testo tedesco, utilizzata da Marx, è molto diversa dalla traduzione della Bibbia, solitamente usata in Italia; N.d.C.]. 14 Ci sono riconosciuti studi sulla teologia di Adam Smith. 15 MEW 21, p. 11. Egli indica: «Il cristianesimo [primitivo, che è quello della Teologia della Liberazione, non quello della cristianità rovesciata], come ogni grande movimento rivoluzionario, fu stabilito dalle masse» (ivi, p. 10) [Le traduzioni sono mie, perché non è stata reperita una traduzione in italiana del testo di Engels Il libro della Rivelazione; N.d.C.].
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di senso che incoraggia i nostri popoli latinoamericani nella vita quotidiana. Era allo stesso tempo, un partire dal discorso rinnovato di una comunità credente, un reinterpretare il mondo criticamente, recuperando il messaggio del “cristianesimo dei primi secoli”, epoca estremamente critica dove il messianismo (cioè, il cristianesimo, poiché in greco χριστιανοί significa messianici) fu vivo in maniera esemplare e militante davanti al dominio schiavista del ferreo Impero romano, tanto simile a ciò che ci tocca soffrire nel presente XXI secolo. Per Karl Marx, quindi, la religione fondava o negava una certa praxis. Per esempio, il calvinismo riformulò il cristianesimo per renderlo compatibile con la scienza economica e con lo stesso capitalismo che nacque nel suo seno. Non dimentichiamo che in Scozia si praticò il presbiterianesimo calvinista di John Knox, la cultura religiosa e la patria di Adam Smith. Marx critica primieramente questo rovesciamento teologico e pratico del cristianesimo (che ha smesso di essere messianico e critico come nei primi secoli, posizione anche assunta da Engels e Kautsky). Se si deve effettuare una critica teologica è necessario sapere “entrare” nella logica del discorso teologico (che Marx conosceva molto bene, ma che il marxismo successivo ignorò completamente fino ad oggi) per mostrare che la teologia cristiana se è critica non può opporsi al liberalismo in politica, e al capitalismo in economia. Questa è anche la tesi di Walter Benjamin, oggi in disputa interpretativa. La questione si centra sul tema del feticismo delle “forme profane”. Primieramente, la teologia moderna (che si espande a partire dal XVI secolo) criticò la teologia medievale (che con Gines de Sepulveda fondò teologicamente il colonialismo e il capitalismo nascente). Dopo, il calvinismo tra gli altri, criticò la teologia della prima modernità, preindustriale, fondando così la possibilità di una completa identificazione tra cristianesimo e capitalismo che a partire dal XVIII sarà industriale (per il passaggio alla creazione e all’accumulazione di plusvalore
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relativo). Questo cristianesimo scozzese calvinista è l’oggetto primo della critica di Marx. D’altra parte, e recentemente, i fondamentalismi (quello del cristiano settario nordamericano, quello dell’islamista contro il Corano letto criticamente o quello del sionista di destra, in contraddizione con il profetismo etico-critico giudaico) sono il ritorno da un “dio” (o un politeismo come direbbe M. Weber) che giustifica e assolutizza una politica, un’economia, una cultura, una razza, un sesso, tutti aspetti della Modernità che usano le armi, invece di argomenti razionali comprensibili all’altro interlocutore (nessuno utilizza il potere militare, come il fondamentalismo nordamericano, invece di argomentare: pretende imporre la “democrazia” con guerre invece di argomentare a partire dalla tradizione dell’altro, per esempio, dei credenti dell’islam a partire dal Corano)16. Non si vince il fondamentalismo con le armi (e non si dimentichi che fu la CIA quella che insegnò al fondamentalismo islamista in Afghanistan ad usare le armi contro l’Unione Sovietica, e adesso raccolgono conseguenze della cui origine nessuno parla), bensì con argomenti razionali e con una prassi onesta (come insegnava Bartolomé de las Casas riguardo alla conquista a partire dal 1514). Ma questo ultimo non entra nell’orizzonte degli interessi dell’impero attuale. Si utilizza la pretesa violenza irrazionale islamista per giustificare le proprie guerre e lo sfruttamento di altri popoli. Per questo, la sinistra onesta deve scoprire oggi l’importanza di una critica della teologia come
16 Sarebbe meglio usare alcuni milioni di dollari per formare scuole di intellettuali che rendano comprensibile “a partire dalla tradizione dell’Altro” (che parte dal Corano), ciò che si pretende proporgli come migliore. È la prima regola della retorica. Ciò che accade è che i fondamentalismi sono utilizzati dal capitale per aumentare la sua accumulazione. Il resto è ipocrisia.
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momento di una critica della politica liberale e dell’economia capitalista, così come la praticò Marx. Ma tutto questo non si scoprì in America latina (né nel trascorrere della mia vita) in maniera immediata e chiara, bensì, al contrario, seguendo sinuosi cammini dove poco a poco si è andata intravedendo che, a tutto ciò che è stato detto, si doveva aggiungere il dominio coloniale, la decolonizzazione epistemologica: «Camminante non c’è cammino, si fa il cammino camminando …». In effetti, scoprire la “colonialità”, l’esistere di un coloniale (al di là di M. Heidegger diremmo: “Essere-nel-mondo- coloniale”) e pensare la “colonialità” dell’esistenza personale, familiare, comunitaria, culturale, storica, richiede tempo. E ancor più fino a raggiungere la chiara coscienza critica di fronte all’eurocentrismo e alla modernità, e con ciò effettuare il compito di una “decolonizzazione epistemologica” della filosofia, e adesso della storia, dell’economia e della teologia. La decolonizzazione epistemologica della teologia è, quindi, l’ultima tappa (questione non trattata in quest’opera), ma fu a partire dall’inizio una compagna di viaggio della decolonizzazione della filosofia e della storia. In questo inizio del XXI secolo ci si rende possibile mostrare queste tappe conservate discretamente senza troppa pubblicità, quando imperava una secolarizzazione militante nella sinistra e nella comunità filosofica, frutto ambiguo dell’Illuminismo eurocentrico. Aprendosi oggi nell’orizzonte un momento Post-secolarista, quest’opera tenta di mostrare una strana anticipazione tematica. La mia evoluzione biografica attuale, nella mia vecchiaia, può adesso tornare ad assumere le esperienze della mia gioventù che ebbero anche, in certi momenti, tonalità mistiche (per la pratica e la lettura di autori che diedero bellezza e allegria al mio entusiasmo militante e rivoluzionario in quell’età giovanile), e inquadrarle dentro orizzonti aperti da
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un Walter Benjamin, un Jacob Taubes o un Giorgio Agamben (benché gli ultimi due inevitabilmente eurocentrici), già anticipati da Martin Buber, da E. Levinas o Franz Hinkelammert, ma più radicalmente da Paul Gauthier, con cui discutevamo questi temi, in quegli anni 1959-1961, a Nazareth (Israele), entrambi come operai manuali, membri di una cooperativa di palestinesi che costruivano le loro proprie case.
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Parte I La critica del feticismo
Costoro hanno un medesimo consiglio: e daranno la lor potenza e podestà alla bestia. E che niuno potesse comperare o vendere, se non chi avesse il carattere o il nome della Bestia, o il numero del suo nome (Apocalisse 17,13 e 13,17; testo citato ne Il capitale, I, cap. 2 [1873]).1
1 Citeremo Il capitale, e le altre opere di Marx, nel seguente ordine: edizione castigliana, inglese e tedesca. La citazione del testo l’abbiamo ripresa dall’edizione del Siglo XXI, México 1979, T. I/1, p. 106; ed. inglese, London 1977, t. I, p. 90; Marx-Engels Werke (MEW), t. 23, p. 101 [tr. it. di D. Cantimori et alii, 5 voll., Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 106]. Il testo di Marx è citato nel latino della Vulgata cattolica. Io lo avevo copiato nei Grundrisse insieme al testo di Shakespeare sull’“oro dorato” (Grundrisse, Siglo XXI, México 1980, t. 1, p. 173; Vintage Books, New York 1973, p. 237; Dietz, Berlin 1974, p. 148 [tr. it. cit., p. 1078]. Il tema è stato posto in relazione con il “denaro come moneta mondiale”. Va rilevato che Engels, anni dopo, quando nella sua opera Il libro dell’Apocalisse (1883) si riferisce al tema, scrive: «Questa crisi è la grande lotta finale fra Dio e l’“anticristo”, come altri l’hanno chiamato» (testo incluso in Sobre la religión, cit., p. 326; MEW 21, p. 11) [tr. it. di F. Codino, “L’Apocalisse”, in F. Engels, Sulle origini del cristianesimo, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 67]. Engels cita lo stesso testo di Marx de Il capitale, e commenta così: «Il cristianesimo, come ogni grande movimento rivoluzionario, è stato fatto dalle masse» (ivi, p. 324; p. 10) [tr. it. cit., p. 65].
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Cominceremo con la descrizione diacronica2 dell’opera di Marx, la divideremo in tre capitoli. Nel primo, capitolo, tratteremo di porre i “luoghi” dove appare il tema del feticismo o della religione nell’opera del giovane Marx (dal 1835 al 1857). Nel secondo capitolo, continueremo la descrizione fino al 1880, poiché il tema del feticismo e della religione – come pochissimi altri temi – attraversa tutta la vita di Marx, cioè, tutta la sua opera; il che, già da adesso, ci mostra l’importanza di questo tema. Nel terzo capitolo, in una maniera sistematica, e seguendo il metodo che lo stesso Marx ci insegna, “dall’astratto al concreto”, ricorreremo i diversi momenti del suo discorso, i diversi contenuti del suo concetto di feticismo e di religione. In questo capitolo 3, spesso, dovremo esplicitare l’implicito nei testi. Pensiamo che senza una rigorosa lettura dei Grundrisse sarebbe stata impossibile questa “ri-lettura”3.
2 Questa Prima parte è frutto di un seminario tenuto 24 e 25 aprile 1984 su «Rereading Marx from the perspective of the political militancy in Latin America», in Kerala (India), grazie all’invito di M. P. Joseph (Social Action Groups) e di E. Deenadayalan (del Delhi Forum), tra i 38 partecipanti c’erano Joseph Kottukapally di Pune e Yohan Devananda dello Sri Lanka. A tutti loro dedico la Prima parte di questa opera in ricordo dei bei giorni di Mar-Thoma, terra degli antichi regni di Kerala, luogo delle “spezie”, dove arrivarono i cristiani siriaci nei primi secoli del cristianesimo, così come a Cochin, successivamente colonia portoghese, olandese e britannica. Terra di compromesso dei credenti, nel 1984 mobilizzata per le “agitations” dei “fishermen”, preludio di speranze maggiori. Lì abbiamo letto pagina per pagina, riga per riga, testi e testi di Marx, a partire dal volume I delle Collected Works fino alle sue opere postume. Questa pratica “testuale” ci convinse una volta di più della validità dell’ipotesi di una tale “ri-lettura”, a partire dalla prospettiva politica di molti credenti latinoamericani, confermata dalla rivoluzione sandinista, ma che era stata molto richiesta prima da molti di noi. 3 Cfr. la mia opera già citata: La producción teórica de Marx, Siglo XXI, México 1985.
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1. Il feticismo nel giovane Marx (1835-1857)
Dato che abbiamo già esposto questo tema in altri saggi4, almeno fino al Marx del 1857, ripeteremo quanto già detto, ma porremo in risalto nuovi aspetti in vista dell’ipotesi fondamentale che desideriamo provare qui. Ai fini della presente esposizione, tenteremo di descrivere il tema del feticismo nella vita intellettuale di Marx in maniera tale che il lettore possa, a partire dalla sua biografia, comprendere le tappe della costituzione della problematica teorica che desideriamo sviluppare. Forse in un altro tipo di ricerca sarebbe conveniente adottare un’altra periodizzazione di una vita tanto ricca in avvenimenti. Tuttavia, non sarebbe una pura
4 Abbiamo già scritto alcuni saggi biografici su Marx: cfr. “Sobre la juventud de Marx (1835-1844)”, in «Dialéctica» (Puebla, México), 12 (1982), pp. 219-239; “La religión en el joven Marx (1835-1849”, in «Universitarios» (UNAM, México), 205 (1982), pp. 25-31 (entrambi si trovano anche in Praxis latinoamericana y Filosofía de la Liberación, Nueva América, Bogotá 1983, pp. 159-222). Inoltre, il nostro articolo su “Las cuatro redacciones de El Capital (1857-1882)”, pubblicato in diverse riviste (tra esse «Concordia», Aachen 1991) [in italiano in E. Dussel, Un Marx sconosciuto, a cura di A. Infranca, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 25-48].
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ripetizione già conosciuta. Si tratta, in tutti i modi, di una ristretta sintesi.
1.1. Da ebreo e luterano credente a universitario critico (1835-1841) Marx nasce il 5 maggio 1818 a Treviri, città tedesca di origine romana e di lunga storia medievale, da una famiglia paterna ebraica (chiamata Marx-Levi) di antica tradizione rabbinica5 – dal XV secolo ci sono rabbini Marx-Levi, e furono rabbini di Treviri suo nonno e uno dei suoi zii, Samuel Marx, durante la vita dello stesso Marx6. Per motivi politici, poiché il re prussiano desiderava una burocrazia omogenea, suo padre è obbligato a battezzarsi luterano, tra il 1816 e il 1817. Il 26 agosto 1824 Marx fa lo stesso; sua madre non desiderò mai battezzarsi e si mantenne spiritualmente ebrea. Pare, tuttavia, che Marx non conobbe mai l’ebraico7. Come suo padre, Marx fu di origine piccolo borghese, di formazione nella tradizione ebraica, lu-
5 Ci stiamo riferendo a Heinrich Marx (1777-1838). Cfr. su questo particolare J. Kadenbach, Das Religionsverständnis von Karl Marx, Schöningh, München 1970, pp. 20 ss. 6 Cfr. H. Monz, Karl Marx. Grundlagen der Entwicklung zu Leben und Werk, Neu, Trier 1973, p. 222. «Quasi tutti i rabbini di Treviri dal secolo XVII fino all’emancipazione appartennero alla famiglia del padre di Karl Marx» (p. 215). Cfr. A. Künzli, Karl Marx. Eine Psychographie, Europa, Wien 1966, che arriva a scrivere che Marx è «comprensibile solo a partire dalla configurazione dell’antico destino e del messaggio biblico del giudaismo» (p. 817). La madre di Marx, Henriette Marx (1788-1863), ebrea originaria d’Olanda, ha anche rabbini tra i suoi familiari. Il suo nome di famiglia era Pressburg e Pressborck. 7 Sappiamo questo perché successivamente, nell’esame di diploma del 1835, non ricevette nessun voto in ebraico (il che indica che non fece questo corso). (Cfr. J. Kadenbach, op. cit., p. 273, nota 27).
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terana con influenze pietiste e dentro la cultura dell’Illuminismo. A Treviri, Marx entrò nel ginnasio cattolico intitolato a Spee, in ricordo di un noto progressista e critico politico gesuita tedesco, la cui tomba si venerava nel collegio. Studiò lì dal 1830 al 1835. Sappiamo che, dei suoi 32 compagni di esame di licenza liceale, solo 7 erano luterani come Marx (il resto era cattolico). Furono promossi soltanto 22 all’esame (dei quali 7 di loro divennero teologi cattolici)8. Conosciamo i suoi professori di religione, specialmente Johann Abraham Küpper, che è colui che ebbe probabilmente più influenza su Marx. Küpper proponeva una teologia morale cristocentrica e trinitaria9, temi che Marx riprenderà profondamente. Il primo lavoro di Marx che dobbiamo esaminare è del 1835, il suo esame di religione alla licenza liceale: “L’unità del credente con Cristo secondo Giovanni 15,1-14”10. Abbiamo anche un altro testo, l’esame di tedesco, sotto il titolo “Considerazioni di un giovane in occasione della scelta di una professione”11. Dai suoi primi lavori – tanto antikantiani in certi aspetti, come quando leggiamo per esempio: «La virtù non è […] figlia di una dura dottrina dei doveri»12, o l’uomo «più felice [è] colui 8 Cfr. H. Monz, Karl Marx und Trier. Verhältnisse, Beziehungen, Einflüsse, Neu, Trier 1964, pp. 92 ss. e pp. 148 ss. Uno dei compagni sarà Mons. Matthias Eberhard, futuro vescovo di Treviri. 9 Cfr. I. Kadenbach, op. cit., pp. 25-28. 10 Sobre la religión, cit., pp. 40-41; MEW, EB 1, pp. 598-601 [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 732-735]. 11 Cfr. il testo in OF, I, pp. 1-4; MEW, EB 1, pp. 591-594 [tr. it. cit., vol. I, pp. 3-7]. 12 “Composición escrita sobre religión” (agosto 1935) (Sobre la religión, cit., p. 42; Marx-Engels Collected Works [CW], Lawrence, London 1975, t. I, pp. 638-639; MEW, EB 1, p. 600) [tr. it. cit., vol. I, p. 735].
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che ha reso felice il maggior numero di uomini»13, che indica un eudemonismo ottimista, tanto patologico per Kant – possiamo già trovare un “filo conduttore” nel suo pensiero sulla religione: il tema del “sacrificio” – pietista, d’altra parte: I popoli antichi, i selvaggi, tra cui non ancora era riconosciuta la dottrina di Cristo, mostrano un’intima inquietudine, un terrore dell’ira dei loro dei, un’intima persuasione della propria riprovazione, offrendo sacrifici (Opfer) [di vittime] ai loro dei, illudendosi, con sacrifici (Opfer), di espiare le loro colpe.14
Si consideri attentamente che l’offrire sacrificio è un momento essenziale di un falso culto, di un culto a dei profani. Il tema appare sotto la penna di Marx in altri sensi: La religione stessa ci insegna che l’ideale al quale tutti aspirano si è sacrificato (geopfert) per l’umanità.15 Quando abbiamo scelto la professione nella quale possiamo maggiormente operare per l’umanità, allora gli oneri non possono più schiacciarci, perché essi sono soltanto un sacrificio (Opfer) per il bene di tutti.16 Volgiamo insieme il cuore ai fratelli cui egli [Cristo] ci ha strettamente legato e per i quali si è pure sacrificato (geopfert) […] Questo amore per Cristo […] fa sì che osserviamo i suoi comandamenti, sacrificandoci gli uni per gli altri.17 13 “Examen de bachillerato en lengua alemana” (OF, I, p. 4; CW, I, p. 8; MEW, EB 1, p. 594) [“Tema di licenza liceale. Religione”, in Opere complete, vol. I, p. 6]. 14 Sobre la religión, cit., p. 39; MEW, EB 1, p. 598 [tr. it. cit., vol. I, p. 732. Le parole in parentesi quadra non compaiono nella traduzione italiana; N.d.C.]. 15 La parola “sacrificarsi” qui non è usata nel suo senso soggettivo (fare penitenza, prodursi dolore), bensì nel suo senso oggettivo: rendere culto, effettuare un rituale: Opfer: offrire in olocausto, sacrificio. 16 Ivi (OF, I, p. 4: CW, I, p. 8; MEW, EB 1, p. 594) [tr. it. cit., vol. I, p. 7]. Qui il senso è soggettivo. 17 Dal tema di religione (ed. cit., Assmann, p. 41; CW, I, p. 638; MEW, EB 1, p. 600) [tr. it. cit., vol. I, pp. 734-735].
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Per lo studente Marx, l’orizzonte obbligato della religione è la “vita”, vita di Dio nella vita degli uomini – il “vitalismo romantico” di Marx: È insieme un atto che può distruggere l’intera vita dell’uomo […] Un giovane agli inizi della sua carriera nella vita […] Quello che di più grande la vita possa offrire […] Tutta la nostra vita è una lotta sfortunata tra il principio spirituale e quello fisico […] L’urto selvaggio della vita […] Le nostre condizioni di vita ci consentono […] Più che incidere sulla vita reale hanno a che fare con verità astratte. […] Noi si sia in grado di sacrificare la vita (das Leben zu opfern).18
Un terzo tema centrale, anche esso di origine pietista, e che avrà definitiva influenza, è quello della “Comunità” (Gemeinschaft): Amerebbe gli altri tralci già solo perché un medesimo giardiniere li accudisce, un medesimo tronco dà loro vigore. Così l’unione con Cristo consiste nella più intima e vitale comunione (Lebendigsten Gemeinschaft) con lui, nel fatto che lo abbiamo dinanzi agli occhi e nel cuore19 e, così compenetrati del supremo amore per lui, volgiamo insieme il cuore ai fratelli cui egli ci ha strettamente legato.20
È sorprendente che in questo testo, che espone il “Fondamento, essenza (Grund, Wesen) […] dell’unione dei credenti con Cristo” – titolo del tema dato dal professore di religione di Marx al ginnasio di Treviri – si trovano già predetti, come 18 Citazioni dal tema di tedesco (OF, I, pp. 1-4; CW, I, pp. 3-8; MEW, EB 1, pp. 591-594) [tr. it. cit., vol. I, pp. 3-7. Si sono raccolte tutte le citazioni con la parola vita nell’intero saggio e non sempre corrispondono a quelle citate da Dussel; N.d.C.]. 19 Si osservi che Marx parlerà spesso, come la tradizione ebraica e biblica in generale, di “organi”: cuore, occhi, stomaco, mani, piedi, testa; e non di “facoltà”: intelligenza, volontà, sensi, ecc. 20 Tema di religione (ed. Assmann, p. 41; CW, I, p. 638; MEW, EB 1, p. 600) [tr. it. cit., vol. I, p. 734].
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chiare intuizioni (non concetti), le sue ipotesi fondamentali successive: l’essenza oggettiva e reale dell’umanità ha a che vedere con un paradigma al cui centro sta la Comunità, con la comunicazione o circolazione della vita (simbolizzata dai profeti d’Israele, e da Marx, nel “sangue”21, in relazione all’offerta sacrificale e del culto riguardo alla divinità). È opportuno indicare che già in questi primi testi Marx si riferisce a Dio che l’uomo «lo trasse dal nulla (aus Nichts)»22, in chiara indicazione creazionista. Vogliamo, infine, ricordare l’importanza che il giovane Marx dà alla dignità (Würde) (“la maggiore dignità”, «la dignità è ciò che più di ogni altra cosa eleva l’uomo», «dignità può conferircela solo quella professione»23), poiché il vecchio Marx de Il capitale collocherà la dignità della persona del lavoratore 21 Sul concetto di “sangue” nell’Antico Testamento, si possono consultare i numerosi dizionari biblici, dove si stabilisce la relazione tra la vita (nefesh) e il sangue (senza sangue, il vivente animale muore). Cfr. 2 Samuele 23,17. Ho affrontato il tema nella mia opera El Humanismo semita, Eudeba, Buenos Aires 1969, p. 27. Più avanti, Marx scriverà ancora: «Lo Stato […] deve vedere un uomo, un membro vivente […] della comunità (lebendiges […] Gemeindeglied), […] in cui scorre il sangue del proprio cuore» (OF, I, p. 259; CW, I, p. 236; MEW, EB 1, p. 121) [tr. it., “Dibattiti sulla legge contro i furti di legna”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. I, cit., p. 235]. Il “sangue” è per l’ebreo, come per il cristiano, la vita, la vita di Cristo – nel tema di licenza liceale di Marx – si comunica alla comunità (nella questione successiva del “feticismo” si riferirà sempre la feticizzazione alla relazione sociale del lavoro, opposto al lavoro comunitario). Nei Grundrisse indicherà che la circolazione del valore è come una «circolazione del sangue» (Siglo XXI, t. II, p. 4; p. 519; Dietz, 1974, p. 416: Blutzirkulation) [tr. it. cit., p. 501]. Per Marx, quindi, il sangue-vita del lavoratore si sacrificherà al feticcio e sarà transustanziato, era abituato a scrivere Marx, nella vita-sangue del capitale (lavoro “morto”). 22 Tema di religione (ed. Assmann, p. 39: CW, I, p. 636; MEW, EB 1, p. 598) [tr. it. cit., vol. I, p. 73]. 23 Tema di licenza liceale (OF, I, p. 3; MEW, EB 1, p. 593) [tr. it. cit., vol. I, p. 5].
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come criterio etico assoluto nella critica del capitale (e non il “valore”, che sarà un mero prodotto del “lavoro vivo”). Nella lettera del 10 novembre 1837, all’inizio della sua conoscenza di Hegel, possiamo leggere: Vi sono momenti nella vita, che, come segnali di confine, concludono un periodo ormai trascorso […] come manifestazioni di un assetto essenzialmente necessario.24
C’è, quindi, con Hegel, un livello essenziale, necessario, e un altro livello delle manifestazioni, dell’apparire fenomenico, e così: Il mio sacrario era spezzato, e nuovi dei dovevano essere insediati.25 Per la rabbia bruciante di dover prendere come mio idolo una concezione a me invisa mi ammalai.26
Vanno apparendo temi che si ripeteranno all’infinito: l’altare del sacrificio agli idoli. Però ancora più importante è quello che racconta a suo padre: Come un robusto camminatore mi accinsi a quest’opera, intesa a mo’ di un dispiegarsi filosofico-dialettico della divinità, così come questa manifesta se stessa come concetto in sé, come religione, come natura e come storia.27
24 OF, I, p. 5: CW, I, p. 10: MEW, EB 1, p. 3 [tr. it. cit., vol. I, p. 8]. Marx usa la parola tecnica hegeliana: «… zur Erscheinung eines wesentlich…». La “manifestazione” dell’“essenza” sarà per Marx il marchio filosofico di riferimento definitivo (fino agli ultimi manoscritti de Il capitale nel 1878). 25 OF, I, p. 10: CW, I, p. 18: MEW, EB 1, p. 8 [tr. it. cit., vol. I, p. 15]. Ne Il capitale I, cap. 24, 6, parlerà anche dei “vecchi idoli d’Europa”. 26 Ivi (OF, I; CW, I, p. 19; MEW, EB 1, p. 9) [tr. it. cit., p. 15]. 27 Ivi (OF, I, p. 10; CW, I, p. 18; MEW, EB 1, p. 9) [tr. it. cit., vol. I, p. 14] Si noti l’espressione: “Concetto (Begriff)” della divinità e “dispiegarsi” dialettico.
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Vedremo presto come svilupperà dialetticamente il concetto della divinità così come si manifesta nella realtà del capitalismo – a partire dal 1857 in avanti. La tesi dottorale del 1841 meriterebbe un lavoro a parte, però vogliamo soltanto ricordare una frase: Le prove dell’esistenza di Dio non sono che vuote tautologie. […] Non ha dominato forse l’antico Moloch? Non era forse l’Apollo delfico una potenza reale nella vita dei greci?28
Così appare per la prima volta Moloch, il dio degli Ammoniti, al quale si sacrificavano in olocausto principalmente bambini29, e Marx lo sapeva molto bene, poiché anni dopo scriverà: È noto che i dominatori di Tiro e Cartagine placavano l’ira degli dei non sacrificando se stessi ma comprando i figli dei poveri per lanciarli nelle ardenti braccia del Moloch.30 Il povero piccolo – Marx si riferisce al proprio figlio Heinrich Guido, morto prima di compiere un anno nel suo poverissimo
28 OF, I, p. 69; CW, I, p. 104; MEW, EB 1, p. 371 [tr. it. cit., vol. I, p. 101]. In questo testo sul Moloch, Marx cancellò le seguenti parole:«a cui si offrono uomini in sacrificio (Menschenopfer)». 29 È citato anche nei Grundrisse (p. e., t. II, p. 133; p. 199; p. 113) [tr. it. cit., p. 136], e spesso ne Il capitale, come vedremo. Nell’Antico Testamento si veda Levitico 18,21: «Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch». Anche in 2 Samuele 12,30; Geremia 32,35; Sofonia 1,5; e nel Nuovo Testamento: Luca 20,2-5. Sotto il nome di Malcom appare in 1 Re 11,7; 2 Re 23,23; Geremia 49,1 e 3. Marx userà anche il termine Baal (cfr. Giudici 6,2532; 1 Re 16,31; Osea 2,15, ecc.). 30 «Agitación contra Prusia…», marzo 1855 (MEW 11, pp. 132-133; quando non c’è una traduzione spagnola o inglese, dovremo rimandare direttamente all’edizione tedesca). [“Agitazione contro la Prussia. Un giorno di digiuno”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XIV, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 94]
75 e freddo appartamento di due stanze, a Londra – è stato una vittima (Opfer) della miseria borghese.31
Cioè, Marx considerò il proprio figlio (figlio di un povero) un sacrificato al dio Moloch: la società borghese nel suo complesso. Marx non confonde i “nomi” che la tradizione ebraica dà agli idoli: Moloch è oggetto di sacrifici di bambini con il fuoco; Mammone, invece, solo in bocca a Gesù (non si conosce nell’Antico Testamento) è il denaro, l’oro. Ci permettiamo qui un commento come anticipazione di temi che appariranno spesso nel futuro. Yahveh, il Dio di Israele, era un Dio sommamente geloso: Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto […] t’istighi in segreto, dicendo: Andiamo serviamo altri dei […] lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Tutto Israele lo verrà a sapere, ne avrà timore e non commetterà in mezzo a te una tale azione malvagia (Deuteronomio 13,7-12).32
Ci spiega l’esperto esegeta latinoamericano del pensiero ebraico: Yahveh si presenta apertamente e senza sotterfugi: è il vero Dio essendo il Dio della liberazione. La sua manifestazione per eccellenza fu nella lotta contro il faraone in Egitto. Però chi è Baal?33 E perché appare nella tradizione come l’arci nemico di Yahveh? È logico supporre che il nemico di Dio 31 Lettera ad Engels del 23 novembre 1850 (MEW 27, p. 144) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 158]. 32 Cfr. J. Pixley, “Antecedentes bíblicos de la lucha contra el fetichismo”, in Marxistas y cristianos, Universidad Autónoma de Puebla, Puebla 1984, pp. 51-74. 33 Di lui ci parlerà successivamente Marx, come vedremo.
76 della liberazione sia il dio che legittima il dominio. E vedremo più avanti che Baal fu effettivamente il dio dei dominatori.34
Il giovane studente, sotto l’influsso della personalità di Bruno Bauer, comincia una critica del feticismo della religione hegeliana a partire dall’“autocoscienza” baueriana, più tardi considerata idealista e per questo ancora hegeliana.
1.2. Critica alla Cristianità e l’origine della questione del feticismo (dal 1842 all’ottobre del 1843) Marx, ancora non socialista, è un piccolo borghese democratico radicale, difende la libertà in generale, la libertà di stampa in particolare, di contro allo Stato autoritario, poliziesco, ed è 34 Ivi, p. 57. In effetti «Baal era un dio della fertilità, e gli si rendeva un culto orgiastico. Dice il profeta Osea: “Farò cessare tutte le sue gioie, le feste, i noviluni, i sabati, tutte le sue solennità. Devasterò le sue viti e i suoi fichi, di cui essa diceva: Ecco il dono che mi han dato i miei amanti” (Osea 2,13-14)» (ivi, pp. 57-58). «Il fondo della questione era una lotta di classe – dice Pixley –. Yahveh rappresenta gli interessi dei contadini, il cui progetto era ripudiare il dominio dello Stato asiatico. Baal, dietro la sua attraente maschera come donante l’abbondanza, legittimava gli interessi dello Stato, che nelle società della Palestina costituiva la classe dominante» (p. 62). Però successivamente, il culto orgiastico di Baal si introdusse nello stesso culto di Yahveh (il rovesciamento di cui parlerà anche Marx). Si doveva, quindi, discernere nel culto di Yahveh il culto feticista di Baal: «Io detesto, disprezzo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni, anche se voi mi offrite come olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Amos 5,21-24). Termina Pixley scrivendo: «La lotta contro la mistificazione del dominio degli uni sopra gli altri non cominciò quando Marx smascherò il feticcio del capitale. Prima che ci fosse l’accumulazione capitalistica, Gesù aveva detto: «Nessun servo può servire a due padroni […]. Non potete servire a Dio e a mammona» (Luca 16,13). Cfr. l’opera di Porfirio Miranda, Marx y la Biblia, edizione privata, México 1979, pp. 63 ss.
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nella linea critica dei pietisti. Accade, quindi, che è per uno “Stato cristiano”, una Cristianità35 prussiana, luterana – così come, per esempio, aveva dovuto porsi Kierkegaard in Danimarca. Prima di entrare in tema, e già nell’articolo sulla censura, leggiamo: È nel carattere dello pseudo-liberalismo, che si fa strappare delle concessioni, di sacrificare le persone (Personen hinzuopfern) […] e di mantenere la cosa (die Sache) […] L’irritazione contro le cose (sachliche) diventa irritazione contro le persone. Si crede di poter avere un mutamento di persone, anche un mutamento della cosa. Dalla censura l’attenzione si volge verso i singoli censori.36 Infine si prendono le mosse da una concezione completamente sbagliata (verkehrten) ed astratta della verità.37
È già concettualmente il tema del feticismo come “rovesciamento”: la persona è presa come cosa, e la cosa come persona. Immediatamente Marx si dirige a porre la questione della religione del dominio, luterana, a partire dalla tradizione critica pietista. In quanto «la religione e il fondamento dello stato sono una e una medesima cosa»38, la critica dello Stato suppone la 35 Cfr. K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, Kohlhammer, Stuttgart 1964, pp. 350-415: “Il problema del Cristianesimo” [tr. it. di G. Colli, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1979, pp. 482-569]. Sulla Cristianità, cfr. la mia introduzione alla Historia General de la Iglesia en América Latina, Sígueme, Salamanca 1983, I/1, pp. 76 ss. 36 OF, I, p. 150; CW, I, pp. 110-111; MEW 1, p. 4 [tr. it. cit., vol. I, p. 106]. Questo ci fa pensare alla futura espressione del feticismo ne Il capitale, I, cap. 1.4: «… rapporti di cose (sachliche) tra persone…». Il rovesciamento in cui consiste il feticismo. 37 Ivi (OF, I, p. 155; CW, I, p. 113; MEW 1, p. 7) [tr. it. cit, vol. I, p. 109. In italiano verkehrten è tradotto con “sbagliata”, ma più corretto sarebbe stato tradurre “rovesciata”, come è nella traduzione spagnola]. 38 Espressione di Hegel in Vorlesungen über die Philosophie der Religion, I, C, III (Werke, t. 17, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, pp. 236-237) [Lezioni
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critica al suo fondamento: la religione egemonica. Per questo, Marx distingue tra “i principi generali della religione”39, come “essenza” (Wesen), dalla sua “manifestazione” (Erscheinung), determinazione particolare, concreta. Il cristianesimo luterano, come religione positiva egemonica, sarebbe una delle “manifestazioni” della religione in generale. Marx non attacca qui la religione cristiana in generale, attacca la Cristianità come confusione tra Stato poliziesco e religione cristiana. La confusione del principio politico e di quello cristiano- religioso è anzi divenuta la confessione ufficiale. […] Voi volete uno Stato cristiano […] La religione è per voi l’universale suggello del positivo […] Per religione intendete il culto del vostro assolutismo e della vostra sapienza di governo.40
E Marx commenta, in concordanza con la tradizione cristiana profetica, critica, pietista, di liberazione: Non fu forse soprattutto il cristianesimo a separare Stato e Chiesa? Leggete il De civitate Dei di Sant’Agostino, meditate i padri della Chiesa e lo spirito del cristianesimo e poi tornateci a dire se lo Stato o la Chiesa è lo Stato cristiano.41
Qui Marx critica duramente la Cristianità, a partire dallo “Stato teocratico ebraico” – tanto attaccato dai profeti di Israele –, sulla filosofia della religione, ed. it. a cura di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Roma-Bari 1983, vol. I, p. 272], che Marx cita ne “L’articolo di fondo del n. 179 della Kölnische Zeitung” (OF, I, p. 224; CW, I, p. 188; MEW 1, p. 90) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. I, cit., p. 190]. 39 OF, I, pp. 155-156; CW, I, pp. 116-117; MEW 1, pp. 10-11: «… die allgemeinen Grundsätze der Religion, auf ihr Wesen… Erscheinung des Wesen…». Cfr. ivi (OF, I, p. 168; CW, I, p. 130; MEW 1, p. 23) [tr. it. cit., vol. I, pp. 112-113]. 40 Ivi (OF, I, pp. 156-157; CW, I, pp. 117-118; MEW 1, pp. 11-12) [tr. it. cit., vol. I, p. 114-115]. 41 Dall’articolo citato “L’articolo di fondo del n. 179 della Kölnische Zeitung” (OF, I, pp. 233-235; CW, I, pp. 198-200; MEW; 1, pp. 100-103) [tr. it. cit., vol. I, p. 201].
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fino allo “Stato bizantino”- origine storica della Cristianità, criticata dal pietismo contro il luteranesimo dominante e da Kierkegaard in Danimarca nello stesso momento. Ma rapidamente si produce la transizione del tema dallo Stato a quello del denaro, questione nuova per Marx: Se vi rapportate al detto “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” allora vogliate stimare non solo il Mammona dorato42, ma almeno altrettanto la libera ragione come il Cesare di questo mondo43.44
Insieme al Moloch appare adesso l’altro nome dell’idolo: Mammona. Marx adotta la posizione dei profeti di Israele, esplicitamente, poiché si confronta come giornalista ad essi, presentandosi come «una tignola per la casa di Giuda e una tarma per quella di Israele» – riferimento al testo del profeta Osea 4,12 cambiando Efraim con Giudea e Giudea con Israele (sembrerebbe che Marx cita a memoria e si sbaglia)45: [la provincia] ha il diritto […] di crearsi cotesti dei, ma subito dopo la creazione deve scordare, come l’adorazione del feticcio, che sono dei di sua manifattura.46
42 Solo nel Nuovo Testamento appare il tema del Mammona (Luca 16,9, 11 e 13 e Matteo 6,24) «Non potete servire Dio e Mammona». Mammona significa l’oro, il denaro. Più avanti tratteremo il tema (capitolo 5.2) 43 Il “Principe di questo mondo” (Giovanni 12,31) è un tema sempre presente nelle “metafore” di Marx. È il “Signore del mondo” (cfr. la mia opera Etica comunitaria, Paulinas, Madrid 1986, cap. 2.10: “Il Principe di questo mondo) [ed. it. a cura di G. Pompei, Cittadella, Assisi 1988]. 44 OF, I, p. 233; CW, I, p. 147; MEW 1, p. 42 [tr. it. cit., vol. I, p. 201. Il traduttore italiano ha evidentemente tradotto Kaiser letteralmente, non tenendo conto della traduzione biblica, per altro da lui stesso citata, che riporta “Principe”]. 45 “Le discussione alla Sesta Dieta Renana. Secondo un renano” (OF, I, p. 184; CW, I, p. 144; MEW 1, p. 40) [tr. it. cit., vol. I, p. 142]. 46 Ivi (OF, I, p. 187; CW, I, p. 147; MEW 1, p. 42) [tr. it. cit., vol. I, p. 145].
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È la prima volta che tocca il tema, e non lo abbandonerà più fino alla fine dei suoi giorni. Se Moloch era quello a cui si offrivano vite in sacrificio, se Mammona è il denaro, il Feticcio è opera e prodotto delle mani dell’uomo stesso, oggettivando in esso il proprio potere. La fantasia della brama fa credere al feticista che una “cosa inanimata” perderà il proprio carattere specifico per diventare il soddisfacimento delle sue voglie.47
Dei molti testi che Marx dovette conoscere nella Bibbia su questo tema, non poté evitare di ispirarsi nel Salmo 115 (114), che proferisce in difesa di Israele contro i feticci stranieri: Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non sentono.48
Il tema assume tutto il suo senso nel magnifico articolo su “Dibattiti sulla legge contro i furti di legna”, dove Marx pone la “metafora” della legna o legno, proprietà privata dei potenti, alla quale i contadini sono sacrificati: Comporta la possibilità che si danneggino alcuni alberelli; ed è quasi superfluo rilevare che gli idoli di legno trionfano e le vittime umane cadono! (Menschenopfer).49
Marx non poteva non avere in mente il testo di Isaia 44,15: Tutto ciò diventa per l’uomo legna da bruciare; ne prende una parte e si riscalda o anche accende il fuoco per cuocervi il pane o ne fa persino un idolo e lo adora, ne forma una statua e la venera.
47 “L’articolo di fondo del n. 179 della Kölnische Zeitung”, (OF, I, p. 224; CW, I, p. 189; MEW 1, p. 91) [tr. it. cit., vol. I, p. 190]. 48 Cfr. Isaia 40,18-29; 44,9-20, ecc. Specialmente Esodo 32,31. 49 OF, I, p. 250; CW, I, p. 226; MEW 1, p. 111 [tr. it. cit., vol. I, p. 224. La traduzione italiana tralascia il termine Opfer che è “sacrificio”; N.d.C.].
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Nel Quaderno di Bonn del 1842, vediamo gli appunti su questo tema, che Charles Debrosses glielo avrebbe suggerito, nella sua opera Sul culto degli dei feticci (edizione di Berlino, 1785)50 e Marx riprende la parola e il concetto “feticcio” – dal portoghese fetiço: “fatto” dalla mano dell’uomo – nel suo discorso teorico essenziale successivo, per adeguare questo concetto di feticcio a un doppio processo: essere frutto dell’uomo, oggettivazione della sua vita, e costituzione di questa oggettivazione come un Potere autonomo straniero, alieno. Marx è passato dalla critica politica dello Stato cristiano luterano alla critica economica del feticismo.
50 “Quaderno di Bonn” (1842) (OF, I, p. 540; MEGA, 4, 1 [1976], pp. 320333). Marx annota: «Fetisch von den nach Senegal handelnden Europäern erdacht, nach dem portugiesischen Worte Fetisso, d.h. eine bezauberte, göttliche Sache, von Fatum, fari. ‘Die Priester wehen den Fetisch’, S.11» (MEGA, 4, 1, p. 320). Marx prende come esempi fatti dello Yucatan, di Cozumel e Copal e qui annota Marx il testo di Bartolomé de las Casas sull’oro come feticcio degli spagnoli a Cuba: «Die Wilden von Cuba hielten das Gold für den Fetisch der Spanier» (MEGA, p. 322), da dove prende la frase “I selvaggi di Cuba ritenevano che l’oro fosse il feticcio degli spagnoli” per il suo articolo sul furto di legna nel 1842. (Cfr. OF, I, p. 283; CW, I, pp. 262-263; MEW 1, p. 147) [tr. it. cit., vol. I, p. 263]. Penso che Marx non sapeva che si trattasse di Bartolomé, che ebbe chiara coscienza in pieno XVI secolo dell’idolatria della Modernità nascente. Il testo si trova nella Brevísima relación de la destrucción de las Indias, «De la Isla de Cuba», in Obras escogidas, BAE, Madrid 1958, t. V, p. 142 [ed. it. a cura di C. Acutis, Mondadori, Milano 1992, p. 47]. Marx in tutto questo “Quaderno di Bonn” si occupa della religione, commentando le opere di C. Meiners, Critica storico-generale delle religioni, dove studia i diversi tipi di sacrifici agli dei; J. Marbeyrac, Trattato morale dei Padri della Chiesa; C. Bottiger, Idee su mitologie artistiche; ecc.
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1.3. Origine della critica antifeticistica dell’economia politica (dall’ottobre del 1843 al 1844) Sembrerebbe che l’Introduzione alla critica della Filosofia del diritto di Hegel, e almeno la prima parte de La questione ebraica, Marx le scrisse a Kreuznach prima di trasferirsi in esilio a Parigi. Sono opere presocialiste (precomuniste)51 e appartenenti al periodo del piccolo borghese radicale e democratico – questione essenziale da tenere in conto –, poiché non è il socialismo il suo quadro di riferimento, bensì ancora posizioni borghesi-riformistiche sul tema della religione. In questa epoca presocialista, «Il comunismo è un’astrazione dogmatica […] (e) la religione, e poi la politica, polarizzano gli interessi principali dei tedeschi d’oggi» – dalla lettera a Ruge, da Kreuznacht nel settembre 184352. I temi dell’Introduzione, forse i più utilizzati nella questione della religione dai marxisti successivi (pur essendo testi presocialisti), continuano ad essere politici (almeno l’ultima pagina che corrisponderà al periodo di Parigi): Per la Germania, la critica della religione nell’essenziale è compiuta, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica. […] Il fondamento della critica religiosa è: L’uomo fa la religione […] la religione (è) una coscienza capovolta del mondo […] La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. […] La
51 Cfr. le opere di Otto Maduro, La cuestión religiosa en el Engels pre- marxista, Monte Avila Editores, Caracas 1981 (specialmente “Crítica del Estado cristiano”, pp. 188 ss., e “Marxismo y religión”, ivi., p. 466; p. 149; p. 350). 52 OF, I, p. 458; CW, III, pp. 142-143; MEW 1, p. 344 [ed. it. a cura di G. M. Bravo, in A. Ruge - K. Marx, Annali franco-tedeschi, Massari, Bolsena 2001, p. 73].
83 religione è oppio del popolo […] La critica della teologia (si trasforma) nella critica della politica.53
Evidentemente, Feuerbach era dietro in più di un’espressione: «La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema»54. Schema 1. 1. Diversi livelli dell’essenza della religione e le sue manifestazioni, astratte e concrete, profonde e superficiali.
I Livello
Essenza astratta generale della religione (implicita in Marx)
II Livello (essenze concrete o manifestazioni fondamentali)
A. Essenza della religione come liberazione (implicita in Marx) (RC dello schema 4.1)
B. Essenza della religione come dominazione (Cristianità, feticismo) (RF dello schema 4.1)
III Livello (manifestazioni concrete o fondate)
A.1. Piano profondo A.2. Piano superficiale
B.1. Piano profondo B.2. Piano superficiale
53 OF, I, pp. 491-491; CW, III, pp. 175-176; MEW 1, pp. 378-379 [tr. it. in K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 161-162]. 54 Ivi (p. 497; p. 182; p. 385) [tr. it. cit., p. 168]. Della sua influenza feuerbachiana di questa epoca, il vecchio Marx scriverà il 24 aprile 1867: «Il culto a Feuerbach faccia ora un’impressione molto umoristica» (MEW 21, p. 290) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XLII,Editori Riuniti, Roma 1974, p. 319]. Marx sapeva fare autocritica finanche con umorismo.
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Se si comprende che tutta questa critica si solleva contro la religione come la intendeva Hegel, contro la religione di dominio o Cristianità, nulla avrà da obiettare il credente cristiano critico o della liberazione; ancor più, sarà d’accordo fondamentalmente finanche con le espressioni esplicite di Marx. Ne La questione ebraica, l’argomento continua ad essere lo “Stato cristiano”55, ma l’esigenza della “soppressione della religione pura e semplice”56, tanto del cristianesimo come dell’ebraismo, come manifestazioni concrete dell’essenza astratta (Livelli II.B e III.B dello schema 1.1), ci permetterà di iniziare la distinzione di diversi piani. Quando Marx si sta riferendo alla “abolizione della religione pura e semplice”, in concreto – data la critica feuerbachiana contro Hegel, e la critica antihegeliana contro la Cristianità o l’ebraismo – si tratta di una religione nella sua essenza generale “come dominio”, come giustificazione dello Stato. Marx si pone sempre al Livello II.B dello schema 1.1, però non intravede (benché ci siano indicazioni positive, come vedremo), né per questo nega l’essenza assolutamente astratta della religione (Livello I)57 (come la relazione astratta della persona e l’Assoluto, chiunque esso fosse) e la sua possibile manifestazione concreta: l’essenza generale della religione come liberazione (Livello II.A)58. Qui vogliamo soltanto indicare che la soppressione della religione, ne La questione ebraica, è la soppressione di una determinazione, di un’essenza generale concreta, di
55 OF, I, p. 463; CW, I, p. 146; MEW 1, p. 347 [La questione ebraica, ed. it. a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 175]. 56 Ivi (p. 466; p. 149; p. 350) [tr. it. cit., p. 178]. 57 Si consideri lo schema 4.1 (capitolo 4, supra), la “Religione critica” (RC), esplicitamente considerata da Marx. 58 Ciò che chiameremo la “Teologia metaforica” di Marx (nel capitolo 4, supra) si occupa implicitamente della “religione della vita quotidiana”.
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un fenomeno, che esporremo più avanti, come la religione al suo livello essenziale ancora più astratto. Essendo Marx arrivato a Parigi nell’ottobre 1843, realizza adesso la sua prima dichiarazione di ateismo: la negazione del “dio” di una tale religione di dominio (in questa religione, la persona «riconosce se stessa solo per via indiretta, attraverso un mezzo»59). La proclamazione di “ateo”, senza l’affermazione e la realizzazione di una persona realmente libera, non è sufficiente. Sufficiente è «Lo Stato politico compiuto è per sua essenza la vita di genere dell’uomo»60, con ciò Marx si manifesta ancora hegeliano in parte, benché critico, grazie a Bauer e Feuerbach, ma soffrendo anche i loro limiti. Essendo, quindi, arrivato a Parigi, stabilendo un contatto con la classe operaia industriale e avendo letto l’articolo di Engels: “Lineamenti di una critica dell’economia politica”61, si produce la rottura – parola di Marx e non qui di Althusser – alla fine del 1843 o all’inizio del 1844: Noi cerchiamo di rompere (zu brechen) la formulazione teologica della questione. La questione della capacità dell’ebreo di emanciparsi si trasforma per noi nel seguente quesito: quale particolare elemento sociale deve essere soppresso per superare l’ebraismo?62
Di colpo Marx realizza un rovesciamento completo, e da una critica teologica baueriana (si osservi che per Marx il p roblema
59 OF, I, p. 469; CW, III, p. 152; MEW 1, p. 353 [tr. it. cit., p. 182]. 60 Ivi (p. 153; p. 354) [tr. it. cit., p. 183]. 61 Ed. spagnola in Escritos económicos varios, Grijalbo, México 1966, pp. 3 ss.; CW, III, pp. 418 ss.; MEW 1, pp. 499 ss. [F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, tr. it. di N. De Domenico e E. Cantimori Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma 1977]. 62 La cuestión judía, II (OF, I, p. 485; CW, 111, p. 169; MEW 1, p. 372) [tr. it., La questione ebraica, cit., p. 201].
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era stato teologico), contro la religione positiva in favore di uno Stato come espressione dell’uomo generico, secondo Feuerbach, adesso lancia una critica economica contro la religione pratico-feticista in favore del proletariato63. Rottura epistemologica, anche permanenza e maturità di intuizione che cominciano a costruirsi come categorie: Cerchiamo il segreto dell’ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto (Geheimnis) della religione nell’ebreo reale […] Qual è il culto mondano (weltliche Kultus) dell’ebreo? Il mercanteggiare. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.64
Adesso, contro quanto detto prima, non è necessario abolire la religione per costruire uno Stato libero, adesso è necessario «sopprimere l’essenza empirica» (economica)65 della religione, e l’ebraismo come religione di dominio sarebbe soppresso. E questo perché: «Il denaro è l’essenza estraniata (entfremdete) – come pensava Moses Hess66 – dall’uomo, del suo lavoro 63 Il movimento pietista di Württemberg, nella posizione di uno Spener per esempio, non poteva avere fiducia in un Principe o un Re scelto da Dio, bensì in un “Popolo consacrato”, che doveva agire per ottenere il “Regno di Dio sulla terra”. La secolarizzazione di questo principio storico si poteva essere proprio il proletariato. Cfr. L. Dickey, op. cit., pp. 72-74. 64 Ivi (p. 485; pp. 169-170; p. 372) [tr. it. cit., p. 203]. Nel capitolo 4 tratteremo sistematicamente le questioni qui soltanto indicate. 65 Ivi (p. 490; p. 170; p. 377) [tr. it. cit., p. 206]. 66 Nel suo scritto “Ueber das Geldwesen”, pubblicato tra altri saggi in «Rheinische Jahrbücher zur gesellschaftlichen Reform», I (1845), pp. 1-34, Moses Hess esprime molte di queste idee. «La vita è lo scambio di vitalità produttiva» (p. 2). Hess richiama l’attenzione sul «corpo (Körper) di tutti gli esseri viventi (lebendigen Wesens)» (ibidem), come il luogo organico dello scambio; però come un «corpo sociale (sozialen Körper)» (p. 3). «Ciascuna persona individuale si comporta qui come cosciente e come individuo pratico cosciente nell’ambito dello scambio della sua vita sociale (gesellschaftlichen Lebens) […] Essa si comporta con il corpo-sociale (Gesellschaftskörper) come un membro singolare […] Esse muoiono quando si isolano le une
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e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l’adora»67. Abbiamo già esplicita, benché non sviluppata, la categoria del “feticismo” nel suo senso economico definitivo. Marx si appoggia, e con questo si colloca nella sua tradizione, nell’intuizione di Thomas Münzer, così come anche riconoscerà Lutero per la sua sapienza sulla questione del denaro, del prestito a interesse, eccetera. Paradossalmente, Marx fa diventare “religiosa” (fa diventare oggetto di critica religiosa con categorie intrinsecamente religiose: così come «il denaro è il geloso Dio di Israele») l’economia politica che aveva appena scoperto. E, per questo, non si tratta più della questione dello Stato libero (del piccolo borghese radicale della prima parte de La questione ebraica), bensì della questione del sapere articolarsi a ciò che realmente può essere «l’emancipazione dell’uomo
dalle altre […] La loro vita reale consiste solamente nello scambio mutuo della loro vitalità produttiva, solo nella mutua interazione, solo nella connessione con il corpo sociale» (p. 3). E tutto questo come scambio con l’atmosfera e la terra (una filosofia ecologica, diremmo oggi), e come culminazione geologica e vitale-evolutiva. «La persona offre in sacrificio coscientemente la sua vita individuale per la vita comunitaria, se si produce una contraddizione tra le due […] L’amore è più potente che l’egoismo» (p. 9). Per Hess, per natura, l’individuo muore, ma la specie no (Gattungswesen di Feuerbach); mentre, pensa Hess, il cristianesimo promette a ciascun individuo la vita eterna. E, in questo senso, «il Cristianesimo [di dominio o feticizzato] è la teoria, la logica dell’egoismo» (p. 10). In maniera che adesso l’individuo, per questo, «si deve creare anche un mondo rovesciato (verkehrte Welt)» (ibidem). Ed è qui dove appare il denaro come garanzia dell’individuo di fronte alla specie: «Ciò che è Dio per la vita teorica, lo è il Denaro per la vita pratica del mondo rovesciato» (ibidem). E dal punto 5, pp. 11 ss., Hess scrive alcune pagine che avranno enorme influenza sul pensiero di Marx, e che hanno anche grande pertinenza nel presente, se traducessimo ciò che si diceva nel XIX secolo alla nostra realtà. 67 La cuestión judía, cit., (p. 487; p. 172; p. 375) [tr. it., La questione ebraica, cit., pp. 203-204].
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[…] il proletariato», nella pagina che certamente dovette aggiungere alla fine de Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione a Parigi68. L’ultimo testo citato de La questione ebraica è un buon riassunto anticipato ed esplicito del tema che ci interessa nei Quaderni di Parigi e nei Manoscritti del 1844. Il feticismo sarà l’essenza alienata dell’uomo come negazione della comunità: Ciò che fu dominio di una persona sull’altra è adesso dominio generale della cosa sulla persona, del prodotto sul produttore.69 L’economia politica concepisce l’essenza comune dell’uomo, la sua essenza umana in azione, il suo completamento nella vita generica, nella vera vita umana, sotto la forma dello scambio e del commercio.70 Il mio lavoro è espressione vitale libera, per tanto soddisfacimento della vita. Sotto le condizioni della proprietà privata è alienazione della vita […] Il mio lavoro non è vita.71
Dai suoi primi studi economici, Marx scopre l’essenza alienata del lavoro come morte del lavoratore e produzione con le
68 Pensiamo che questa pagina fu aggiunta a Parigi nel 1844, comincia con la domanda: «Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca?» (OF, I, pp. 501-502; CW, III, pp. 186-187; MEW 1, p. 390) [tr. it. di R. Panieri, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 172-174]. Torneremo su questa “possibilità positiva (positive)”, fonte della negazione della negazione, il momento analitico per eccellenza, la contraddizione totale nella povertà radicale del proletario prima di esserlo. 69 Cuadernos de París (1844), Era, México 1974, p. 146 (MEGA, I, 3, p. 540) [tr. it., K. Marx, “Estratti dal libro di James Mill Éléments de économie politique”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, cit., p. 240]. 70 Ivi (p. 138; p. 536) [tr. it. cit., p. 236]. 71 Ivi (p. 156; p. 547) [tr. it. cit., pp. 247-248].
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proprie mani del suo opposto, il suo nemico, il feticcio, come sacrificio: Il capitale morto (tote) procede sempre con lo stesso passo ed è indifferente verso l’attività industriale reale. […] L’operaio ci rimette la sua esistenza, il capitalista ci rimette il profitto della sua morta mammona (toten Mammons).72 […] Egli [l’operaio] può soddisfare soltanto con sacrificio (Aufopferung) del proprio spirito e del proprio corpo […].73 L’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza (Macht) indipendente da colui che la produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa (sachlich).74
Marx riassume quanto detto alla seguente maniera: In relazione all’operaio, che si appropria la natura col lavoro, l’appropriazione si presenta come estraniazione, l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio (Aufopferung) della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere estraneo.75
A partire da una religione di dominio, la dottrina della creazione sarebbe una riaffermazione di quella perdita, di quella dipendenza, e per questo Marx qui la respinge76. Questa posizione sarà modificata nel Marx maturo. D’altra parte, la negazione di un tale “dio” è la questione dell’ateismo: 72 Manuscritos económicos y filosóficos de 1844 (Alianza, Madrid 1968, p. 53; CW, III, pp. 236-237; MEW, EB 1, pp. 472-473) [tr. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1978, p. 13]. 73 Ivi (p. 55; p. 238; p. 474) [tr. it. cit., p. 16]. 74 Ivi (p. 105; p. 272; p. 511) [tr. it. cit., p. 71]. 75 Ivi (p. 119; p. 281; p. 522) [tr. it. cit., p. 86]. 76 Cfr. ivi (pp. 255-256; pp. 304-305; pp. 544-545) [tr. it. cit., pp. 123-124].
90 L’ateismo, in quanto negazione di questa inessenzialità non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo; ma il socialismo in quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione […] Esso è l’autocoscienza positiva dell’uomo, non più mediata dalla soppressione della religione.77
Cioè, a partire da questo momento in avanti l’ateismo non è più necessario; il socialismo è il superamento pratico dell’ateismo. Questa è la posizione definitiva di Marx sulla questione, e per questo non accetterà mai nel futuro un ateismo militante, perciò attaccherà Bakunin a suo tempo: Il comunismo è la struttura necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro, ma il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento umano, la struttura della società umana.78
Il comunismo come orizzonte richiesto da una situazione feticizzata è un limite, un orizzonte contrafattico, un’idea regolativa, un concetto utopico o anche il contenuto di una “economia trascendentale”; non è un momento o figura della storia. Contro questa utopia si solleva il feticcio, Mammona, il denaro: Il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società […] è la divinità visibile (sichtbare)79 […] è la meretrice universale […] la forza divina propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico […] È il potere alienato dell’umanità.80
77 Ivi (p. 156; p. 306; p. 546) [tr. it. cit., p. 125]. 78 Ibidem [tr. it. cit., p. 126]. 79 Si ricordi che nella tradizione di Israele Dio è il trascendente; una divinità “visibile” è satanica, idolatrica; non può essere Dio. 80 Ivi (p. 179; pp. 324-325; p. 565) [tr. it. cit., p. 154].
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Qui abbiamo già un idea concreta ed esatta del demonio, di Satana. È una “forza divina”, un “Potere”, una “Divinità visibile”. E di tutto questo l’economia politica «non ci dà nessuna spiegazione»81. In tutti i modi, dobbiamo aspettare praticamente fino ai Grundrisse e le redazioni successive de Il capitale, per potere studiare lo “sviluppo” del concetto di feticismo, nel suo momento negativo, così come lo aveva già posto esplicitamente nei Manoscritti del 1844, come critica religiosa antifeticistica del capitale, dell’economia politica capitalistica.
1.4. Critica dell’ idealismo religioso (1844-1846) Tenendo conto della tappa definitiva del pensiero di Marx sul feticismo, questo momento – che si trasforma dopo nel fondamento teorico della religione come ideologia – non ha tanta importanza. In realtà è un’autocritica della stessa tappa baueriana di Marx. La religione di dominio, quella della Cristianità prussiana o della teologia baueriana, pone un falso problema. Il problema reale è il feticismo (perché è la religione praticoeffettiva, momento fondante del capitalismo) o la prassi che realizza il mondo materiale (dei prodotti, bisogni della vita umana). A partire da questo orizzonte troviamo, tuttavia, alcuni elementi utili: Per trasformare l’amore nel “Moloch”, nel diavolo in carne ed ossa, il signor Edgar lo trasforma prima in una divinità. Diventato la divinità, cioè un oggetto teologico, l’amore soggiace naturalmente alla critica della teologia, e inoltre, notoriamente, Dio e diavolo non sono lontani l’uno dall’altro.82
81 Ivi (p. 104; p. 271; p. 510) [tr. it. cit., p. 69]. 82 La Sagrada Familia (Grijalbo, México 1967, p. 86; CW, IV, pp. 20-21; MEW 2, p. 21) [tr. it. di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 24].
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Non si tralasci questo riferimento al “diavolo in carne ed ossa”, dove si cifra l’ipotesi centrale da essere provata nel nostro saggio. È anche interessante, ai nostri fini, l’attacco che Marx lancia contro il materialismo ingenuo, poiché questo materialismo sarà quello che si imporrà nella tappa stalinista a partire dal 1930: L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia (Stoff) su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.83
Questa materia ha un senso produttivo (oggetto di lavoro), e non si oppone a una coscienza intuitiva (come per Politzer o Konstantinov): Il difetto capitale d’ogni materialismo fino ad oggi […] è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’oggetto o dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente (subjektiv).84
Quando molti marxisti si pongono la domanda: Cosa è prima la coscienza o la materia? La relazione tra entrambi i termini era intuitiva, di conoscenza, passiva e per questo, era un momento del materialismo ingenuo, naif, non “soggettivo”. Solo in quest’ultimo caso, come soggetto, la materia può essere costituita come “materia” per il soggetto del lavoro (attivo o produttivo) o pratico (rivoluzionario, storico). Nulla di più lontano da Marx che il materialismo cosmologico o ingenuointuitivo che determina assolutamente la soggettività:
83 Manuscritos del 44 (OF, I, p. 107; CW, III, p. 273; MEW, EB 1, p. 512 [tr. it. cit., p. 72]. 84 Tesis sobre Feuerbach, 1 (ne La ideología alemana, Grijalbo, Barcelona 1970, p. 665; CW, V, p. 6; MEW 3, p. 5) [tr. it. di P. Togliatti, in F. Engels, Ludwig Feuerbach, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 81].
93 La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini, e che l’educatore stesso deve essere educato.85
In ultima istanza è la persona quella che cambia le circostanze. Per questo a Marx non interessa il materialismo ingenuo: Questa natura che precede la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione, e che quindi non esiste neppure per Feuerbach.86
Marx non sta pensando alla materia dei positivisti di fine XIX secolo – che tanto influirono su Lenin – bensì nella materia della produzione, la natura in relazione alla “produzione della vita”, «la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia»87, e per questo di ogni religione. La religione feticista giustificherà il dominio ma una religione di liberazione giustificherà la stessa liberazione, in stretto materialismo storico, questione che Marx non ha potuto intravedere. Non si deve pensare alla contrapposizione di una “materia inerte” o cosmologica opposta alla coscienza, perché se è vero che è «la vita che determina la coscienza», non si deve dimenticare che questa obiettività che determina la coscienza «corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza»88.
85 Ivi, 3 (p. 666; p. 7; pp. 56-60) [tr. it. cit., p. 82]. 86 La ideología alemana (ed. cit., p. 48; CW, V, p. 40; MEW 3, p. 44) [tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 17]. 87 Ivi (pp. 28-30; pp. 41-43; p. 29) [tr. it. cit., p. 18]. 88 Ivi (pp. 26-27; p. 37; p. 27) [tr. it. cit., pp. 13-14].
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1.5. Critica al socialismo cristiano in quanto utopico (1846-1849) Dopo la sua autocritica in forma antibaueriana, Marx entra in un periodo francamente politico, e non più filosofico antiidealista. La religione non è considerata ideologia di dominio, bensì possibile fondamento di deviazionismo politico rivoluzionario. Nei tre momenti in cui, in questi anni, Marx tocca la questione della religione, lo fa alla stessa maniera: Le chiacchiere amorose di Kriege e la sua opposizione all’egoismo non sono altro che le ridondanti rivelazioni di un animo che si è completamente dissolto nella religione […] Cerca di spacciare tutte le infamie del cristianesimo sotto l’insegna del comunismo […] In nome di questa religione dell’amore noi chiediamo che l’affamato riceva cibo […] La quale richiesta è stata già ripetuta fino alla nausea e senza il minor risultato da milleottocento anni.89
Marx si lancia violentemente contro la religione di rassegnazione del luteranesimo egemonico, ricordando le posizioni popolari del pietismo (rassegnazione tanto criticata dalla religione di liberazione, oggi in America latina, contro il cattolicesimo egemonico): Una dottrina siffatta, che predica la voluttà della bassezza e il disprezzo di se stessi, è adattissima per buoni frati, mai e poi mai per uomini energici, soprattutto in un periodo di lotta.90
Come il fondatore del cristianesimo, Marx esige la giustizia nella storia, sulla terra, la soddisfazione del povero nel presente, non in un al di là che mistifica la storia. Per il fondatore del cristianesimo, da parte sua, il Regno di Dio è “tra di voi”, oggi, 89 “Circular contra Kriege” (1846), IV (ed. H. Assmann, pp. 171-172; CW, VI, p. 46; MEW 4, p. 12) [tr. it., “Circolare contro Kriege”, in K. Marx F. Engels, Opere complete, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 47]. 90 Ivi. (p. 174; p. 49; p. 15) [tr. it. cit., p. 50].
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qui, e si deve costruirlo senza rinvii (così come lo proponevano anche i pietisti di Wüttemberg). Alla stessa maniera, e a volte con le stesse parole, Marx respinge il clientelismo di cristiani che avvertono che c’è un problema sociale, pretendendo di risolverlo spesso con organizzazioni antirivoluzionarie riformiste, che si ispirano ai “principi sociali del cristianesimo”. Tuttavia si deve considerare con molta attenzione questo tema, perché il Social Gospel, per esempio, fu un movimento sociale di fine XIX secolo, che ha qualcosa da insegnare ai movimenti sociali del XXI secolo: I principi sociali del cristianesimo si prestano anche a difendere l’oppressione del proletariato […] trasferiscono in cielo la compensazione di tutte le infamie […] dichiararono che tutte le bassezze commesse dagli oppressori sono o giuste punizioni del peccato originale o di altri peccati.91
È una critica certa – e totalmente pertinente a partire da un cristianesimo di liberazione – contro la “religione di rassegnazione”, di dominio, feticista. Nella terza parte del Manifesto del Partito Comunista Marx sintetizza le sue critiche all’opportunismo riformista di certi socialisti cristiani della sua epoca, che si mostrano ai suoi occhi come sommamente pericolosi: Come il prete andò sempre d’accordo coi feudali, così il socialismo clericale va d’accordo col socialismo feudale. […] Il socialismo cristiano è soltanto l’acqua santa con la quale il prete benedice il dispetto degli aristocratici […] Essi respingono quindi ogni azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria, vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici, e cercano, con piccoli e naturalmente inani esperi-
91 “El Comunismo del Rheinischer Beobachter” (ed. Assmann, p. 178; CW, VI, p. 231; MEW 4, p. 200) [tr. it., “Il comunismo del Rheinischer Beobachter”, in Opere complete, vol. VI, cit., pp. 243-244].
96 menti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale colla potenza dell’esempio.92
Non si dovrà dimenticare, nel suo aspetto positivo, che Marx, d’altra parte, aveva anche un grande apprezzamento per il cristianesimo primitivo, dove si trova la “porta aperta” verso la comprensione contemporanea nel Terzo Mondo di una religione di liberazione. In tutti i modi, tutte le critiche di Marx sono sommamente utili e operano in favore di una religione di liberazione (sia cristiana, sia musulmana, sia indù o buddista).
1.6. Transizione teorico-creatrice (1849-1856) Questi difficili anni di lotta di Marx, nel suo esilio londinese, di difficoltà familiari e politiche, non ci hanno lasciato progressi teorici importanti, ma in altro senso, fu tempo di incubazione, la cui testimonianza parziale sono i Quaderni di Londra del 1851-1856, che la MEGA va pubblicando. G. F. Daumer aveva pubblicato a Brunswick, nel 1842, la sua opera Culto al fuoco e a Moloch presso gli antichi ebrei. Nella recensione all’opera La religione della nuova era (Amburgo, 1850), Marx lo critica fortemente per non aver saputo “esaltare il processo pratico” che condiziona la religione, concludendo ironicamente: Il signor Daumer non sa neppure quali lotte “delle classi sociali inferiori contro quelle più alte”, sia costato produrre anche un solo “livello culturale” a Norimberga e render possibile una zanna di Moloch a la Daumer.93
92 Ed. Claridad, Buenos Aires 1967, pp. 52-59; CW, VI, pp. 508-515; MEW 4, pp. 482-492 [tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 93 e 108]. 93 “Juicio crítico sobre la obra de Daumer, La religión de la nueva era (1850)” (ed. Assmann, p. 193; MEW 7, p. 200) [tr. it., “Giudizio critico sull’o-
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Sono opere religiose che rimangono solo al livello ideologico e non sanno studiare il livello pratico-materiale della produzione della vita umana sociale e storica nella sua realtà concreta. D’altra parte, Marx critica anche l’uso populista della religione. Ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 indica giustamente: Bonaparte non aveva più bisogno del papa per diventare il presidente dei contadini, ma aveva bisogno di conservare il papa per conservare i contadini del presidente. La dabbenaggine di questi lo aveva fatto presidente. Con la fede se ne sarebbe andata la loro dabbenaggine, e col papa se ne sarebbe andata la loro fede. […] Si doveva restaurare il potere che consacra i re […] Il partito dell’ordine proclamò […] il mantenimento delle condizioni vitali del suo dominio, della proprietà, della famiglia, della religione, dell’ordine.94
Il “bonapartismo” era un nuovo progetto di Stato cristiano, una nuova Cristianità al servizio del populismo, tanto conosciuto oggi in America latina o nell’India: in quest’ultimo paese con la pretesa di uno Stato indù, per manipolare il “comunitarismo” o la lotta interreligiosa. La religione appare adesso come ideologia del dominio di classe, aspetto che non si era indicato prima: Naturalmente esso presentava [la religione la sua funzione di] il suo dominio di classe e le condizioni del suo dominio di classe come dominio della civiltà e come condizioni necessarie della produzione materiale, e dei rapporti di scambio sociali che ne derivano.95
pera di G. F. Daumer, La religion della nuova era”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. X, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 243]. 94 Ed. Assmann, pp. 197-198; MEW 7, pp. 56 e 59-60 [tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 73-79] 95 Ivi (p. 198; p. 60) [ibidem].
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In questo momento, Engels, che non abbiamo incluso metodicamente in questo lavoro, scrisse La guerra dei contadini in Germania (1850), dove possiamo leggere: Nella Bibbia egli [Lutero] aveva contrapposto al cristianesimo feudale dell’epoca il cristianesimo semplice dei primi secoli […] I contadini avevano usato quest’arma in tutte le direzioni, contro principi, nobiltà, preti. Ma ora Lutero la rivolse contro di loro e dalla Bibbia trasse […] la sovranità per grazia di Dio.96
Magnifico esempio, che dopo svilupperemo teoricamente per comprendere il contenuto del “concetto” di feticismo nella sua ricca contraddizione interna: Perciò il cielo non si deve cercare nell’aldilà, ma in questa vita, e il compito del credente è quello di instaurare questo cielo, il regno di Dio, qui sulla terra.97
Un cristianesimo di liberazione afferma esattamente lo stesso, con l’aggiunta che il Regno comincia adesso, ma non si realizza totalmente nella storia. Ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852) e in Sulla rivoluzione spagnola (1854), Marx torna su alcune idee esposte 96 Ed. Assmann, p. 211; MEW 7, pp. 350-351 [tr. it. cit., p. 61]. 97 Ivi (p. 213; p. 353) [tr. it. cit., p. 64]. Engels cita il testo di Münzer quando parla di distruggere “I sacerdoti di Baal” (altro nome ebraico dell’idolo). Anche Marx parla dei Baal nella lettera dell’11 gennaio 1859 (MEW 13, p. 160) […] «Darai alle fiamme le sculture dei loro dei» (testo del Deuteronomio 7,25) grida Münzer, ed Engels cita (ivi, p. 218; MEW 7, p. 353) [tr. it. cit., p. 63]. Commento importante attualmente per l’America latina, per l’Africa e per l’Asia. Si prenda molto seriamente l’indicazione di Marx che il “cielo” si deve realizzarlo qui sulla “terra” –è esattamente la proposta della Teologia della Liberazione latinoamericana contemporanea. Il “Regno di Dio”, dice Marx, è compito terrestre, come pensava il fondatore del cristianesimo: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Luca 6,20); «Sappiate che il regno di Dio è vicino» (Luca 10,11). Questo costruire il Regno di Dio sulla terra è un motto del pietismo, e dello stesso Kant, come abbiamo visto.
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in Le lotte di classe in Francia. Ne L’agitazione ecclesiastica – Dimostrazione a Hyde Park (1855), leggiamo che «così si comporta ora l’oligarchia inglese. Così la Chiesa, sua sorella gemella»98. Abbiamo concluso ciò che potremmo chiamare la lunga tappa preparatoria del pensiero definitivo di Marx.
98 Ed. Assmann, p. 232 [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XIV, cit., p. 298].
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2. Il feticismo nelle quattro redazioni de Il capitale (1857-1882)
Si è insistito, a ragione, sull’importanza degli scritti giovanili di Marx, specialmente dei Manoscritti del 1844. Da parte nostra, tuttavia, abbiamo voluto concentrarci in maniera speciale sul Marx tardivo, a Londra, da dove comincia i suoi quaderni chiamati Grundrisse. Lì abbiamo trovato, secondo la nostra interpretazione1, un Marx antropologico (se non lo si vuole denominare umanista), etico, pienamente filosofo, con crescente influenza di un Hegel che egli “rovescia”, benché in maniera molto sui generis, come abbiamo mostrato nell’ultima delle opere citate2. Per questo, quindi, ricorreremo alle quattro redazioni de Il capitale, a partire dal 1857 al 1880 (e c’è ancora un’altra opera fino al 1882), per “situare” in esse – in nessun modo esauriente – il tema del feticismo. Credo che ci siano nuove scoperte nella lettura che abbiamo fatto, per esempio, prendendo coscienza che il paragrafo 4 del capitolo 1 del Libro I de Il capitale del 1873 è l’ultimo testo scritto e
1 Nelle nostre tre opere già citate su La producción teórica de Marx (1985), Hacia un Marx desconocido (1988) e El último Marx (1863-1882) (1990). 2 Nell’ultima delle opere citate nella nota precedente: Capitolo 10.4: “Il capitale è un’etica”.
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pubblicato de Il capitale. Questo dà ancora più importanza alla questione del feticismo. Sembrerebbe che, in questi lavori di Marx, a partire dai Grundrisse, passando per Per la critica dell’economia politica, i Manoscritti del 1861-63, fino al capitolo VI inedito (dei Manoscritti del 1861-63), e, infine, nel Libro I de Il capitale, poco o nulla ci sarebbe sulla religione in confronto a quanto scritto nella sua gioventù. Tuttavia, è in questo periodo, quando si sviluppa per la prima volta la questione del feticismo in maniera sistematica ed esplicita, come critica religiosa (e anche teologica, come vedremo a partire dal capitolo 5) antifeticista del capitale.
2.1. Il feticismo nella prima redazione de Il capitale (a partire dal 1857) Quando il 23 agosto 1857, Marx comincia un Quaderno di appunti (Quaderno M), uno dei tanti, non aveva certamente coscienza che iniziava i dieci anni della sua vita più creativi di produzione teorica (esattamente dal 1857 al 1867). Contro coloro che si immaginano una totale assenza di “problematica filosofica” in Marx, e anche hegeliana, scriveva Marx, nel gennaio 1858: by mere accident – Freiligrath trovò alcuni volumi di Hegel appartenenti a Bakunin e me li mandò in dono – mi ero riveduto la Logica di Hegel.3
3 MEW 29, p. 260 [tr. it. di M. A. Manacorda e M. Montinari, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XL, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 273].
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Oggi sappiamo, inoltre che Marx rilesse nuovamente la Logica nel 18604; e finanche voleva scrivere un libello popolare per mostrare l’importanza della Logica5. È a partire da un paradigma filosofico, che rovescia (ma che usa tuttavia in tutte le sue parti) il “nocciolo razionale” hegeliano6, da dove Marx comincia a sviluppare il concetto economico di capitale7. Immediatamente8, Marx inizia lo sviluppo del “proprio” discorso, e abbandona lo stile letterario del commentario, appunto o critica contro il proudhoniano Darimon. È il “Marx maturo” e in confronto al quale tutti i momenti precedenti della sua vita (1835-1857) furono preparatori “scientificamente” (secondo il concetto di “scienza” che Marx aveva9). A partire da questo ottobre 1857 fino alla pubblicazione de Il capitale nel 1867, il discorso dialettico di Marx non ha pausa, se non nei pochi mesi tra il 1859 e l’estate 1861; andrà costruendo una per una le sue categorie. Nei Grundrisse, Marx espone già, in maniera geniale e inattesa – forse per lui stesso, ma manifestando con ciò la “logica” razionale del suo discorso – l’“ordine” quasi definitivo delle categorie de Il capitale. Ci sono alcune differenze. Per
4 J. O. Malley - F. Schrader, “Marx’s precis of Hegel’s doctrine of being”, in «International Review of Social History», XXII (1977), pp. 423-431; si veda inoltre nell’Archivio di Amsterdam il manoscritto B 96, dove è l’appunto di pugno e grafia dello stesso Marx, che abbiamo incluso come appendice 1 nella mia opera El último Marx (1863-1882). 5 Cfr. La mia opera El último Marx, capitolo 9. 6 Vedi questa espressione nella seconda edizione de Il capitale del 1873, MEGA, II, 6, 1987, p. 709; pp. 28-29 [tr. it. cit., p. 18]. 7 Cfr. La mia opera La producción teórica de Marx, pp. 79 ss. 8 Esattamente nei Grundrisse, ed. Dietz, 1974, p. 59, linea 16 [tr. it. cit., p. 68]. 9 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 14, pp. 285-310.
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esempio, la discussione sul denaro10 gli permette di scoprire la problematica differente (e fino a questo momento in nessuna maniera il proposito della sua ricerca) del capitale. È nell’andare costruendo dialetticamente il concetto di denaro, dove Marx scopre per la prima volta nella sua vita l’importanza del concetto di capitale, come “permanenza” (conservazione) e “processo” (movimento) – il “senso dell’Essere” in Hegel (la Bewegtheit che Marcuse studiò nella sua tesi di dottorato sull’ontologia hegeliana) – del “valore”. Il denaro “come denaro” non è lo stesso che il denaro “come capitale”. Marx scopre il tema del capitale, ma dapprima come “capitale circolante”11. A partire dall’“apparenza (Erscheinung)” della circolazione ritorna verso il “fondamento (Grund)” di ciò che “non appare”: l’“essenza (Wesen)”. Arrivato a questo, è la mia interpretazione, e tenendo adesso in conto le quattro redazioni, Marx “torna indietro” a ciò che sarà la “condizione assoluta di possibilità” dell’esistenza del capitale: la questione della “trasformazione del denaro in capitale” (questione che tratterà in primo luogo nel 1861, nel 1863 e nel 1866, perché Marx comincerà la redazione definitiva dal “capitolo 2” [nella prima edizione del 1866], che dopo sarà la “sezione 2” [della seconda edizione del 1873]. L’inizio radicale di tutto Il capitale – e questo è già una conclusione interpretativa di fondo, in discordanza con tutta la tradizione e specialmente con Lukács e Marcuse, che non considerano l’“esteriorità” come punto di partenza, bensì la “totalità”12 –, è enunciato nella seguente maniera:
10 Grundrisse, pp. 35-162 [tr. it. cit., pp. 39-194]; Quaderno I e II fino al foglio 12 del manoscritto. 11 Grundrisse, ed. Dietz, pp. 166-177 [tr. it. cit., pp. 199-201]. 12 Cfr. M. Jay, Marxism and Totality, Berkeley University Press, Berkeley 1984.
105 La separazione della proprietà dal lavoro appare come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non-capitale in quanto tale è: 1) lavoro nonmaterializzato, inteso negativamente, […] Il lavoro vivo (lebendige Arbeit) […] questa completa spoliazione, esistenza del lavoro, priva di ogni oggettività, puramente soggettiva […]. Il lavoro come povertà assoluta (absolute Armut) […] non separata dalla persona: una materialità coincidente con la sua corporeità immediata (Leiblichkeit). […] 2) Lavoro nonmaterializzato […] inteso positivamente […] è l’esistenza […] soggettiva del lavoro stesso. Il lavoro non come oggetto, ma come attività: non come valore esso stesso, ma come fonte viva del valore (lebendige Quelle des Werts).13
Questo testo, presente all’inizio dei Manoscritti del 1861186314, che doveva rimanere egualmente presente nei Manoscritti del 1863-1865 (cioè, nel Libro I del perduto Manoscritto del 1863-1865), sarà anche nello stesso luogo logico-dialettico ne Il capitale “definitivo”, cap. 2.3 dell’edizione del 1867. A partire dall’“esteriorità” del “lavoro vivo” (che non è la “capacità di lavoro”, neanche la “forza di lavoro”, denominazione che Marx non usa sicuramente fino al 1866), a partire dalla povertà (il “pauper”, come usa scrivere Marx) della persona, soggettività, corporalità, del lavoratore come il “No-capitale (Nicht-Kapital)”, trascendentale quindi alla “totalità” del capitale, il “lavoro vivo” è “sussunto” (la Subsumtion è l’atto trans ontologico per eccellenza che nega l’esteriorità e incorpora il “lavoro vivo” nel capitale) nel “processo di lavoro”. A partire da questo orizzonte, Marx, rapidamente, si pone il proble13 Grundrisse, p. 203; castellano, pp. 235-236 [tr. it. cit., p. 244]. Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cap. 7, pp. 137 ss. 14 Manuscritos del 61-63, in MEGA, II,3, pp. 147-148; e a p. 30 [ed. it. a cura di L. Calabi, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 32]: “Attività creatrice di valore” [Wert-schaffenden Thaetigkeit]». Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 3. pp. 62 ss.
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ma di come appare il “plus-valore” (Mehr-wert), e per questo scopre, per la prima volta nella sua vita, la questione del “plusvalore”: Il plusvalore che il capitale si trova ad avere alla fine del processo produttivo […] è maggiore di quello esistente nelle componenti originarie del capitale.15
In primo luogo, si inoltra nella descrizione del plusvalore, che chiamerà successivamente “relativo”, per più tardi avere chiara la categoria di plusvalore “assoluto”. Marx tratterà qui in maniera sui generis tutta la problematica della “devalorizzazione” del capitale, che mai più successivamente affronterà con tanta chiarezza. La realizzazione del capitale, infine, è la “de-realizzazione” del lavoro vivo: il suo “Non-essere”16. Anche nei Grundrisse, Marx espone, in maniera esemplare, la descrizione dei “modi di appropriazione” pre-capitalistici (distruggendo gli schemi unilineari e necessari della successione: modi di produzione primitivo, schiavista, feudale, capitalista, socialista; tanto alieni allo spirito di Marx)17. A partire da adesso, Marx può cominciare a scoprire il concetto di ciascuna “determinazione” del capitale: Merce (M), Denaro (D), Capacità di lavoro (T), Mezzi di produzione (Mp), Prodotto (P), eccetera.
15 Grundrisse, p. 227; in spagnolo, p. 262 [tr. it. cit., p. 272]. Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cap. 8, pp. 160 ss. 16 Cfr. la mia opera sopra citata, cap. 11. 17 Ivi, cap. 12.
107 Schema 2.1. Determinazioni del capitale.
M
D
T Mp
P
M’
D’
A partire dal movimento del nel suo momento produttivo, passa successivamente a descrivere il processo nel capitale circolante18. Alcune pagine sul futuro Libro III si occupano di esporre tutto il problema del “capitale e profitto”19. La ricchezza dei Grundrisse non può essere neanche suggerita in queste brevi linee. È certo che Marx termina i Grundrisse nel giugno 1858. Qualche tempo dopo scrisse l’Urtext (“Testo originario” de Il capitale), dove espone i temi della merce, del denaro, e comincia il “Capitolo 3” sul capitale. Ma lo abbandona20. Nei Grundrisse, quindi, troviamo numerosissimi riferimenti al nostro tema; sufficienti per descrivere il luogo teorico che occuperà il problema del feticismo nel discorso sistematico del “capitale in generale”. Detto di passaggio, ma fondamentale nella nostra interpretazione, è la possibilità di una “autocritica cristiana”:
18 Ivi, cap. 12. 19 Ivi, cap. 15. 20 Ivi, cap. 16.3; pp. 329 ss.
108 La religione cristiana fu in grado di contribuire alla comprensione obiettiva delle mitologie precedenti solo quando la sua autocritica fu in una certa misura, per così dire δυνάμει.21
Marx si riferisce qui alla “mitologia” come una “delle forme sociali stesse già elaborate in modo inconsapevolmente artistico dalla fantasia popolare»22. Marx non lascerà da parte le “metafore” o “mitologie” popolari, poiché manifestano una potenza artistica che non si deve disprezzare. Parlando del denaro, della sua forma “autonomizzata”: Si sviluppa il potere del denaro, il rapporto di scambio si afferma cioè come potenza esterna ai produttori e da essi indipendente. Ciò che originariamente appariva come un mezzo per promuovere la produzione, diviene un rapporto estraneo ai produttori.23
La questione del feticismo, quindi, comincia qui con il denaro, come era da aspettarsi. Marx ha già il suo concetto esplicito: Nel valore di scambio la relazione sociale tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose; la capacità personale in una capacità delle cose. […] Strappate questo potere sociale alla cosa e dovrete darlo alle persone sulle persone.24
Qui è dove Marx parla di tre livelli: il primitivo della dipendenza personale comunitaria; il capitalista dell’“indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale» (feticismo);
21 Grundrisse, Siglo XXI, Buenos Aires 1971, t. I, p. 27; Dietz, Berlin 1974, p. 26 [tr. it. cit., p. 31]. 22 Ivi (I, p. 44; p. 31) [tr. it. cit., p. 36]. 23 Ivi (I, p. 72; pp. 64-65) [tr. it. cit., p. 75]. 24 Ivi (I, p. 85; p. 75) [tr. it. cit., p. 89]. Marx aveva posto questo tema in un testo inedito (Das vollendete Geld-system, 1851, p. 41). A p. 34 aveva scritto: “Le relazioni devono essere organizzate su basi politiche, religiose, mentre il Potere del denaro non sia il nesso tra cose e persone».
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e in terzo luogo, “la libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale»25. Vediamo, quindi, che era necessario per Marx porre la questione del feticismo fin dall’inizio – quando si tratta della questione del denaro; ne Il capitale, nella tematica della stessa merce, e a partire dall’orizzonte dell’utopia come quadro di riferimento necessario di comprensione. Considerare le relazioni cosiche come fondanti quelle personali è frutto di un meccanismo ideologico, poiché «dal punto di vista ideologico […] si presenta come dominio di idee, e la fede nella perennità di queste idee […] inculcata in ogni modo dalle classi dominanti»26. E, subito, forse utilizzando il suo Quaderno di Parigi del 184427, torna al tema che ci interessa: Il valore di scambio espresso nel suo prezzo deve venir sacrificato (geopfert) non appena si impone questa specifica trasformazione in denaro […] Il denaro che è il carnefice di tutte le cose, il moloch al quale tutto dev’essere sacrificato […] Il denaro appare effettivamente come il moloch al quale viene sacrificata la ricchezza reale. […] Da servo del commercio [riferimento al testo di Filippesi 2,6] si è trasformato in suo despota.28
Si può, quindi, vedere l’applicazione del tema del sacrificio, del Moloch, della conversione dello “schiavo” (δοῦλος in greco) in 25 Ivi (I, p. 85; p. 75). [ibidem]. Cfr. sullo stesso tema in I, p. 84; p. 75 [tr. it. cit., p. 88]. È l’individuo colui che deve avere il controllo comunitario sul nesso sociale, e non le cose attraverso il denaro sugli individui (I, pp. 89-90; p. 79) [tr. it. cit., pp. 93-94]. 26 Ivi (I, p. 92; p. 82) [tr. it. cit., pp. 96-97] 27 MEGA, I, 3, pp. 568-579. 28 Grundrisse (I, p. 133; p. 113) [tr. it. cit., p. 136].
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“dios”29 (qui “despota”). È tutta la questione del feticismo del denaro, e non più della merce, perché nei Grundrisse non ha ancora scoperto l’ordine definitivo delle categorie: Da schiavo30 qual era in quanto puro di mezzo di circolazione, [il denaro] diviene improvvisamente il signore e il dio nel mondo delle merci. Esso rappresenta l’esistenza celeste delle merci.31
Marx si riferisce dopo alla morale della soggettività borghese, feticista, dove «la brama di arricchimento […] come forma particolare di appetito (Trieb) […] La brama di avere può esistere anche senza denaro, la brama di arricchimento è invece essa stessa già il prodotto di un determinato sviluppo sociale»32. Questo nuovo dio ha anche le prerogative di una religione: Il culto del denaro (Geldkultus) ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e i suoi sacrifici (Selbstaufopferung): la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni, temporali e
29 «Il denaro è quindi il dio (der Gott) delle merci» (ivi, p. 156; p. 148) [tr. it. cit., p. 160]. 30 Come abbiamo scritto nelle Parole preliminari, senza dubbio “la figura di servo (μορφῇ δούλου)” è un riferimento a Filippesi 2, 6-7, quando Paolo scrive: «Pur essendo di natura divina, […] assumendo la condizione di servo»; cioè Gesù, essendo Dio, si fece uomo e finanche schiavo, servo. Al contrario, l’Anti-Cristo, essendo “figura di servo”, si fa passare per Dio. È un riferimento di Marx al rovesciamento cristologico che corrobora la nostra ipotesi di lettura: il Denaro, il Capitale sono il demonio, l’Anti-Cristo. 31 Ivi (I, p. 156; p. 133) [tr. it. cit., p. 160]. 32 Ivi, p. 157; p. 149 [tr. it. cit., p. 161]. «Di qui i lamenti degli antichi sul denaro come fonte di ogni male. La brama di piaceri nella sua forma generale e l’avarizia sono le due forme particolari dell’avidità di denaro. […] Il denaro realizza l’astratta brama di piaceri nella sua determinazione di rappresentante materiale [incarnazione visibile del demonio] della ricchezza» (ivi, p. 157; p. 149) [ibidem]. Il dott. Luis Sanchez ha tenuto un’eccellente relazione su questo tema in un seminario che abbiamo organizzato nella UNAM, semestre dell’autunno 1990.
111 transitori; la caccia al tesoro eterno33. Da qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro.34
Poco dopo, Marx copia i testi dell’Apocalisse 17,13 e 13,1735, dove la Bestia, marca i suoi sulla fronte (come gli schiavi nell’impero romano). Spesso Marx indica questo gesto della Bestia, di Satana: il “marcare” le sue vittime. Anche lo stesso denaro ha questo segnale o marchio: L’oro è dunque nominalmente indeprezzabile […] perché esprime, porta impressa in fronte soltanto una determinata quantità della sua propria sostanza, la sua propria determinatezza quantitativa.36
È noto che per gli ebrei qualsiasi figura era idolatrica, perché gli era proibito fare rappresentazione di qualsiasi cosa (vegetale, animale o persona), per non cadere nel totemismo, idolatria o feticismo. Da qui che Gesù chiede una moneta con l’immagine di Cesare – che portando una figura umana è un segno di
33 Questo tema del “tesoro eterno” fa riferimento a Matteo 6,19 ss., come vedremo nel cap. 5.2. 34 Ivi (I, p. 168; p. 143) [tr. it. cit., p. 173]. Marx a partire da un esempio di Misselden ricorda che «i due figli del vecchio Giacobbe, che pose la mano destra sul più giovane e la sinistra sul più vecchio (ivi, p. 168; pp. 158-159) [ibidem], sono come il denaro, Efraim (che è il più giovane: viene dopo) e la merce, Manasse, (il più vecchio: viene prima), che il primo, il denaro (il giovane) fu benedetto nella circolazione, e non la merce (il più vecchio) (ivi, p. 168; p. 159) [ibidem]. In un altro testo, Marx propone un’altra metafora biblica: «È dunque chiaro che mediante questo scambio l’operaio non può arricchirsi, cedendo – al pari di Esaù che per un piatto di lenticchie cedette la primogenitura – in cambio della capacità di lavoro come grandezza data, la forza creatrice (schöpferische Kraft) del suo lavoro» (ivi, p. 248; p. 228) [tr. it. cit., p. 257]. 35 Ivi (I, p. 173; p. 148) [tr. it. cit., p. 179] e cita lo stesso testo di nuovo in ivi, III, p. 153; ed. tedesca, p. 895 [tr. it. cit., p. 1085]. 36 Ivi (I, p. 58; p. 134; p. 53) [tr. it. cit., p. 61].
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idolatria – e chiede: «”Di chi è l’immagine e l’iscrizione?” Risposero: “Di Cesare”. Ed egli disse: “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio che è di Dio» (Luca 20,23-25), con ciò in nessuna maniera approvò che si pagasse il tributo, bensì che, semplicemente, li ammonì che lanciassero lontano da loro quell’oggetto idolatra. La moneta, come lo schiavo, porta “in fronte” il segno del suo signore: è stata sussunto da lui.
2.2. Il feticismo nella seconda redazione de Il capitale (1861-1863) Poco dopo, Marx si accinse a scrivere Per la critica dell’economia politica del 1859 come inizio dei Manoscritti del 18616337. In effetti, Marx scrive il capitolo sulla merce per primo, e del denaro successivamente38, ma si ferma, e promette nel futuro di scrivere il “capitolo 3” sul capitale. È la prima redazione definitiva della futura sezione 1 de Il capitale (nell’edizione del 1873). Questa redazione è importante perché si può vedere lo sviluppo rispetto ai Grundrisse e l’immaturità riguardo alle redazioni del 1867 e del 1873. Si deve rilevare che, per otto anni (dal 1859 al 1867), Marx non tornerà sul tema, e dimostrerà nel 1867 – il momento in cui decide di 37 Questa seconda redazione de Il capitale comprende: Zur Kritik der politischen Oekonomie, in MEGA, II, 2, Dietz, Berlin 1978 (Contribución a la crítica de la economía política, Siglo XXI, México 1980) [tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Per la critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1975] e Zur Kritik der politischen Oekonomie (Manuskript 1861-1863, in MEGA, II, 3, voll. 1-6, Dietz, Berlin 1977-1982; in spagnolo, parzialmente, in Teorías sobre la plusvalía, cit., t. I-III) [in italiano parzialmente in Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980]. Nella mia opera in inglese (Towards and Unknown Marx. A commentary on the Manuscripts of 1861-1863, Routledge, London 2001), si usa la recente traduzione in questa lingua. 38 Cfr. il mio commento in Hacia un Marx desconocido, capp. 1-2.
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scrivere il capitolo 1 (dell’edizione del 1867) – di non aver sufficientemente progredito nella teoria di questa tematica durante quegli anni. Per questo, la seconda edizione del capitolo 1 de Il capitale nel 1873 (che solo in questo momento si denominerà “sezione” 1) avrà molte varianti, e importanti. Ne Per la critica dell’economia politica del 1859, quindi, possiamo vedere che il tema del feticismo è trattato dall’inizio del capitolo 1, al fine di spiegare il “carattere sociale” (nel suo senso negativo) del lavoro individuale nel capitalismo: Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose […] Se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto fra persone, bisogna tuttavia aggiungere un rapporto celato sotto il velo delle cose.39
In questa pagina appare il tema del feticismo sotto espressioni tali come “mistificazione” o “illusione”. È già un “luogo” sistematico definitivo e riferito alla merce. Marx oppone il “comunitario” al “sociale”, sempre nel trattare la questione del feticismo. Nel capitolo II, sul denaro, appare nuovamente il tema, anche senza denominazione chiara: I possessori di merci sono entrati nel processo di circolazione come semplici custodi di merci. […] l’uno di pan di zucchero personificato, l’altro oro personificato […] Essi sono una necessaria espressione dell’individualità sulla base di un determinato stadio del processo di produzione sociale.40 39 Siglo XXI, México 1980, p. 17; MEW 13, p. 21 [tr. it. cit., p. 969]. Più avanti ci dice: «Tutte queste cose graziosamente mondane recano in fronte fatali cartellini…» (ivi, p. 73; MEW 13, p. 69) [tr. it. cit., p. 1028], in riferimento alla Bestia dell’Apocalisse. Sulla “avidità dell’oro” (ivi, p. 121; MEW 13, p. 110) [tr. it. cit., 1078]; (sulla morale del tesaurizzatore, ivi, p. 123; p. 111) [tr. it. cit., p. 1079]; ecc. 40 Ivi, pp. 80-81; p. 76 [tr. it. cit, pp. 1036-1037]. Questo testo corrisponde a quello della prima redazione (Urtext) di questa Per la critica (Cfr. Grund-
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Adesso è lo stesso denaro quello che si feticizza, dato il grado di sviluppo – il secondo livello dei Grundrisse, degli individui isolati, ma socializzati nella relazione mercantile – astratta del capitalismo. Questo è il secondo luogo sistematico; dopo il feticismo della merce, adesso si tratta del feticismo del denaro; cioè, in questi capitoli I e II de Per la critica dell’economia politica, la questione del feticismo si tratta senza coscienza esplicita – mancano ancora 14 anni fino a che il tema esploda come un paragrafo autonomo del testo. Solo nell’agosto 1861 (con una pausa di due anni, quindi), Marx prende nuovamente la penna per intraprendere, di impulso, un periodo molto creatore teoricamente (a partire da questo agosto del 1861 fino all’aprile del 1867, adesso senza pause troppo prolungate, benché con alcune più piccole dovute a malattie che attaccavano sempre il Marx londinese). Scriverà 23 quaderni di appunti (che si denominano Manoscritti del 1861-63), pubblicati per la prima volta integralmente, e senza modificazioni engelsiane e kautskiane, tra il 1977 e il 1982 (2.384 pagine edite, dei 1.471 fogli manoscritti di Marx). Gigantesco materiale che non ha meritato finora una più grande attenzione da parte degli studiosi di Marx (la mia opera Hacia un Marx desconocido è un commento rigo per rigo di questi manoscritti). La struttura dei Manoscritti del 1861-63 può dividersi, per semplificare, in tre parti: la prima, dal quaderno I al IV, testo quasi definitivo sulla trasformazione del Denaro in Capitale, sul plusvalore assoluto e relativo41.
risse, t. III, pp. 162 ss.; non c’è nell’edizione inglese; ed. tedesca, pp. 901 ss.). È qui dove torna a citare l’Apocalisse 17,13 e 13,17 (cfr. supra, nota 89). 41 Cfr. op. cit., 1988, capp. 3-5, pp. 55-107.
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Una volta che Marx ha chiari questi problemi – cioè, avendo costituito l’essenziale di queste categorie in maniera “definitiva” –, può adesso affrontare la storia dell’economia per chiedersi ciò che sul tema hanno detto gli economisti, e per osservare, in confronto, se il suo quadro categoriale “resiste” alla critica. Non è una storia, e per questo non ha nulla a che vedere con un IV libro de Il capitale, e neppure la storia è la cosa più importante. Ciò che in realtà interessa – ed è ciò che abbiamo esposto nel nostro commento42 – è lo sviluppo del suo quadro categoriale; cioè, confrontando Marx nel quaderno IV – nel marzo del 1862 – a Steuart, per esempio, è più importante per il lettore del manoscritto non solo vedere semplicemente in cosa lo critica, bensì in che misura comincia a “sviluppare” nuove categorie. La creazione di nuove categorie non è prevista nel piano di Marx, poiché è solo un quadro formale storico. Si deve leggere il testo, quindi, “obliquamente”. Non vedere solo ciò che critica, bensì “come” si critica, con quali categorie si critica, quali appaiono; cioè, si necessita di una “attenzione” epistemologica in primo luogo “terminologica”. In questo caso, le “parole” contano (e le traduzioni in inglese o spagnolo, quando esistono, e molto di questi testi non sono tradotti in nessuna lingua oltre all’originale tedesco, tradiscono Marx). Si tratta quindi di “seguire” non solo le parole, bensì i loro “contenuti” semantici. Spesso, la parola è la stessa, ma non il suo contenuto (il suo concetto); altre volte, le parole cambiano (per esempio “prezzo di costo” o “prezzo di produzione”), ma il suo concetto è identico. Queste fluttuazioni, variazioni, trasformazioni, indicano uno stato “immaturo” nella “costituzione” o “costruzione” di una categoria. Quando Marx ha terminato di “costruire” una categoria, userà, definitivamente, “un” nome per “un” concetto. Il caso più paradigmatico è il seguente: 42 Ivi, capp. 6-13, pp. 109-281.
116 Tutti gli economisti incorrono nello stesso errore: invece di considerare il plusvalore puramente in quanto tale, lo fanno attraverso le forme particolari di profitto o rendita.43
Cioè, il “nome” plusvalore (uno) ha “un” concetto (così come è stato descritto nei primi quaderni). Le sue “forme” fenomeniche di apparenza nel “mondo delle merci”, subordinato e più complesso, sono: il profitto e la rendita, per esempio (che hanno “due” concetti differenti, che, con quello di plusvalore, sarebbero già “tre”). Tuttavia, gli economisti li “confondono” in “un” solo concetto. Si tratta, quindi, di “separare”, “distinguere” concetti e di “porre” denominazioni diverse per evitare confusioni. Dovremmo sviluppare qui tutta una “teoria” della costituzione delle categorie – come introduzione a questo compito abbiamo scritto i tre tomi di commenti. Forse il momento più creativo di Marx è quando tratta la questione della rendita – che, partendo dalla posizione di Rodbertus, e dalla sua critica, sviluppa il concetto di composizione organica, monopolio, eccetera44. La categoria fondamentale che Marx scopre nei Manoscritti del 1861-63 è quella di “prezzo di produzione”, che gli permette di affermare che, per prezzo di produzione, l’agricoltura può sostenere un prezzo maggiore che la media (cioè, al suo proprio valore) da dove si paga questa rendita. Questi temi, per esempio, non corrispondono più al Libro I, bensì alla parte del discorso dialettico che si esporrà nel Libro III de Il capitale, a partire dall’orizzonte più concreto della “concorrenza”. Senza un programma precedente, un tema trattato anche spesso è quello della questione della “riproduzione”45.
43 Manuscritos del 61-63, in MEGA, II, 3, p. 333, 2-6; in spagnolo, I, p. 33 [la traduzione è mia; N.d.C.]. 44 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 9. 45 Cfr. ivi, pp. 153 ss., 197 ss., 247 ss., 274 ss., eccetera.
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Il manoscritto termina (Quaderni dal XIX al XXIII) su questioni dei Libri II e III (capitale mercantile, profitto, eccetera), e anche riferimenti al Libro I (dove per la prima volta chiarisce in maniera definitiva la questione della “sussunzione reale” del lavoro vivo)46. In questa seconda redazione de Il capitale, cioè nei Manoscritti del 1861-63, è quando Marx prende coscienza, in maniera esplicita, del tema del feticismo. Questo accade, oltre che in frequenti riferimenti alla questione, terminando le “Teorie del plusvalore”, poiché, considerando in differente maniera l’espressione teorica dell’Economia Politica da parte di Smith o Ricardo e di Malthus, scopre la feticizzazione progressiva di questa “scienza” in relazione al trascorrere del XIX secolo. Si osservi specialmente alcuni passaggi centrali, dove Marx si occupa della relazione rovesciata, che è essenziale al sistema capitalista: La forma di entrata e le fonti di questa esprimono le relazioni della produzione capitalista sotto la sua forma feticizzata (fetischartigsten Form). La sua esistenza, così come si manifesta alla superficie, appare sconnessa dalle connessioni e dagli strati intermedi che servono da mediazioni. La terra si converte così nella fonte della rendita, il capitale nella fonte del profitto, e il lavoro del salario. E la forma rovesciata in cui si manifesta il rovesciamento reale è un tipo di finzione senza fantasia, una religione del volgare […] Tuttavia, di tutte queste forme, il più perfetto dei feticci è il capitale ad interesse […] La terra o la natura come fonte della rendita, cioè della proprietà terriera, è già abbastanza feticista […] Con il capitale a interesse si perfezione questo feticcio automatico.47 46 Ivi, capp. 12 e 13. 47 Quaderno XV, p. 891, ed. sp., Teorías sobre la plusvalía, cit., t. III, pp. 403-404; Theories of Surplus-Value, Mosca, t. III (1975), pp. 453-455; ed. tedesca, MEGA, II, 3,3 (Dietz, Berlin 1979), pp. 1450-1454 [traduzione mia, N.d.C.].
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In queste due pagine – forse il testo più importante sul tema, poiché include il capitale nel suo complesso: processo produttivo e circolatorio, capitale industriale, commerciale e a interesse come forme feticizzate –, il “feticismo” raggiunge già uno sviluppo teorico definitivo. Senza commentare, citiamo un altro testo: La totale cosificazione, rovesciamento, e l’assurdo del capitale come capitale a interesse […] è il capitale che rende interesse composto, e appare come un Moloch richiedendo il mondo intero come vittima offerta in sacrificio (Opfer) sui suoi altari.48 È l’interesse ciò che appare così […] come la creazione di valore (Wertschöpfung) che dal capitale emana […]. In questa forma si sfuma ogni mediazione e si consuma la forma feticista del capitale, come la rappresentazione del capitale-feticcio.49
Marx sa adesso che il contrario della “scienza” – e non dell’ideologia, come pensava Althusser – è il “feticismo”50.
2.3. Il feticismo nella terza redazione de Il capitale (18631865) Nel luglio 1863, Marx termina gli indicati manoscritti, e in questo stesso mese comincia i Manoscritti del 1863-186551, 48 Ivi, p. 893 (p. 406; p. 456; pp. 1455-1456) [traduzione mia, N.d.C.]. 49 Ivi, p. 896 (p. 410; p. 1460) [traduzione mia, N.d.C.]. Nella mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 11.4, pp. 226 ss. Questa tematica riapparirà alla fine del Libro III de Il capitale (nella terza redazione del 1865), e da lì si passerà nel 1873 al paragrafo 4 del capitolo 1 del Libro I. 50 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 14, pp. 285 ss. 51 Si è appena pubblicato per la prima volta la prima parte di questi Manoscritti del 1863-65, in MEGA, II, 4, 1, Dietz, Berlin 1988. In spagnolo abbiamo il Capitolo VI inedito, Siglo XXI, México 1981 [ed. it. a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975]. Cfr. la mia opera El último Marx y la
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più di 1.200 fogli manoscritti, che si comincia a pubblicare nella MEGA nel 1988, dove si include il famoso “Capitolo VI inedito”. Si tratta dell’unica volta in cui Marx scrisse per intero i tre libri de Il capitale. È, inoltre, l’unico testo completo (benché in certe parti solo in abbozzo) dei libri II e III. Si deve tenere conto che il Libro I, eccetto alcune pagine disperse e il cosiddetto “Capitolo VI inedito” (fogli dal 441 al 495 del manoscritto), si è perso. Penso che era in tal maniera somigliante al testo della “quarta redazione”, che Marx lo andò distruggendo mentre modificava o copiava il testo per la redazione definitiva del 1866 e del 1867. I materiali che sono rimasti del Libro I sono stati pubblicati recentemente in tedesco. Il libro aveva 495 fogli manoscritti, divisi in sei capitoli: 1. Trasformazione del denaro in capitale. 2. Plusvalore assoluto. 3. Plusvalore relativo. 4. Combinazione di entrambi i plusvalori e il problema del salario. 5. L’accumulazione. 6. Il risultato del processo del capitale.
Come si può osservare, non c’era in questo momento l’idea di includere un capitolo introduttorio, poiché il tema era stato esposto nel 1859 in Per la critica dell’economia politica. Qui Marx tratta il problema della “sussunzione (Subsumtion) formale” e “reale”, questione che rimarrà insufficientemente trattata nella “quarta redazione” per l’eliminazione di questo “Capitolo VI inedito” del 1863-1864. liberación latinoamericana, cap. 1, che è un commento completo di questo testo (incluso ciò che è ancora inedito).
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Nell’estate londinese del 1864, fino a dicembre di quell’anno, Marx comincia la redazione del Libro III52. I testi manifestano una grande vicinanza alla tematica del Libro I, cioè il passaggio del plusvalore (la sua forma di apparenza fenomenica, superficiale, complessa). Testi magnifici, di grande precisione hegeliana – Marx si va “hegelianizzando” sempre più fino al 1880-, in pieno dominio della sua fenomenologia, dei piani di profondità, dei livelli di astrazione, della “sistematica” dialettica delle categorie, infine, di una “esposizione” pienamente “scientifica” – se per “scienza” si intende il passaggio del fenomeno dal visibile alla coscienza, all’essenza, all’invisibile. Marx usa sempre “capacità di lavoro (Arbeitsvermöge)”; Engels correggerà nell’edizione del 1894 con “forza di lavoro (Arbeitskraft)”. Si tratta del Manoscritto Principale (o “Manoscritto I”) del Libro III, completo, sotto la numerazione dell’Istituto di Amsterdam di A80, con 575 fogli manoscritti (e già pubblicato in tedesco). Nel dicembre 1864, certamente a partire dal gennaio 1865, Marx interrompe la redazione del Libro III, e scrive senza nessuna interruzione il Libro II53. Alcuni pensano che abbandonò la redazione non prima del foglio 25654, mentre Otani, con argomento convincente, dimostra che dovette abbandonare la redazione dopo il foglio 182 e prima del 2455. Marx incluse alla fine, nel paragrafo 5 del capitolo 3, il pro-
52 Manoscritti del 63-65, oggi già pubblicati in tedesco. Cfr. la mia opera El último Marx, cap. 2. 53 Manoscritto I, in MEGA, II, 4, 1. Cfr. la mia opera El último Marx, cap. 3. 54 W. Wygodski - L. Miskewitsch - M. Ternowski, “Zur Periodisierung der Arbeit von K. Marx am Kapital in den Jahren 1863 bis 1867”, in «Marx- Engels Jahrbuch», 5 (1982), pp. 244-322. 55 T. Otani, “Zur Datierung der Arbeit von K. Marx am II. und III. Buch des Kapitals”, in «International Review of Social History (Amsterdam)», XXVIII (1983), pp. 91-104.
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blema de “L’accumulazione mediante denaro”, questione non proposta – neanche possibile – nell’edizione successiva di Engels (Engels ignorò questo manoscritto, non sapendo che era l’unico completo). Tutta la problematica del Libro III (con questo e i restanti manoscritti di cui parleremo in seguito) può adesso trattarsi realmente, e per la prima volta, nella storia del marxismo. A metà del 1865, dopo avere terminato il Libro II, Marx torna al Libro III, al momento in cui pronuncia il suo discorso su “Salario, prezzo e profitto”, e dove si possono osservare i temi che ancora deve scrivere, quando dice: Rendita fondiaria, interesse e profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce.56
Il libro termina al capitolo 757 sui “redditi”, cioè sulla questione del feticismo, dove ricorre a molte delle riflessioni realizzate alla fine delle cosiddette Teorie sul plusvalore. Abbiamo commentato l’immenso interesse di tutto questo nella mia opera citata. Nel dicembre 1865 Marx ha, per la prima volta nella sua vita, i tre libri della sua opera sotto i suoi occhi, “come un tutto organico”. È la prima parte di quattro (i restanti: la concorrenza, il capitale creditizio e l’azionario) di sei trattati (i rimanenti: la rendita, il salario, lo Stato, la relazioni tra Stati, il Mercato mondiale). Tutto questo – contro Roman Rosdolsky, lo abbiamo provato nelle mie opere di commento – continua ad essere il “Piano” fondamentale di tutta la sua opera. Il capitale è solo un inizio.
56 MEW 16, p. 137 [tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 86]. 57 Cfr. la mia opera El último Marx, cap. 4.5.
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Il problema del feticismo assume adesso una classica chiarezza definitiva. Come si può vedere, è già un’anticipazione espressa del capitolo 24 del Libro III de Il capitale. Ma poco dopo ci riserva ancora qualche sorpresa, poiché si applica il concetto del feticismo al livello produttivo: Non appena si inizia il processo di lavoro, il lavoro vivo […] si integra al capitale come attività appartenente a questo […] In questo modo, la forza produttiva del lavoro sociale e le forme specifiche che adotta si presentano adesso come forze produttive e forme del capitale […] si confrontano al lavoro vivo personificate nel capitalista. Torniamo ad incontrare qui il rovesciamento dei termini che, studiando l’essenza del denaro, abbiamo qualificato come il feticismo della merce.58
L’operaio considera cioè il “proprio lavoro oggettivato”, lavoro passato accumulato nel capitale, come qualcosa di estraneo, come valore del capitale. Ma, inoltre, lo stesso lavoratore si considera egli stesso come capitale, come risorsa, come momento del capitale, poiché si è venduto: «Personificazione di una cosa e cosificazione di una persona»59. Torneremo su queste questioni più avanti. In tutti i modi, possiamo concludere che è stato nel 1861-1865, nei Manoscritti di quegli anni, quando Marx assunse coscienza esplicita della “forma feticista” (ancora non “carattere feticista”) di tutto il capitale.
58 Quaderno XXI, p. 1317 (I, p. 362; I, p. 389; MEGA, 11,3,6 [1982], p. 2160) [traduzione mia, N.d.C.].. 59 Ivi (p. 363; p. 390; p. 2161) [traduzione mia, N.d.C.].: «Personifizierung der Sache und Versachlichung der Person». Ci sono altri riferimenti alla questione del feticismo p. e. in Quaderno XIV, p. 817 (III, pp. 114-116; III, pp. 129-131; MEGA, II, 3,4, pp. 1316-1318).
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2.4. Il feticismo nell’epoca dell’ultima redazione de Il capitale (1866-1882) “Archeologicamente”, diacronicamente, solo adesso possiamo aprire le prime pagine de Il capitale definitivo. Si deve, tuttavia, considerare che Marx cominciò la redazione dal capitolo 2: “La trasformazione del denaro in capitale”60. A partire dalla conferenza all’Internazionale dell’anno precedente, Marx si convince che ciò che aveva scritto nel 1859 era stato totalmente dimenticato. Era necessario scrivere un capitolo “introduttivo” sulla merce e il denaro – il tema non lo aveva trattato durante gli ultimi otto anni, ma in tutti i modi lasciò questo capitolo per il finale, per il 1867- e questo non manca di importanza. Il capitale, il suo discorso dialettico, logico, essenziale, comincia con la “trasformazione del denaro in capitale”. Su questo poggerà il fondamento della nostra pretesa di reinterpretazione totale del discorso dialettico di Marx. Marx iniziò la sua esposizione, nelle quattro redazioni, dal “capitolo del capitale” (“capitolo” che si trasformò in sezione, in un libro, in tre libri, e infine in quattro libri in tre tomi). La questione della merce e del denaro erano presupposti necessari per la “spiegazione” (cioè per sapere cosa è il denaro: lavoro vivo “oggettivato”), ma Il capitale comincia quando a partire dalla circolazione, e come contraddizione, il “lavoro vivo (lebendige Arbeit)” è “sussunto” in un processo di lavoro che è l’origine prima del capitale con la negazione del denaro come denaro (nel pagamento del primo salario): Una merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità d’essere fonte di valore […] e quindi creazione di valore (Wertschöpfung). E il possessore di denaro trova sul
60 El Capital, cap. 2, in MEGA, II, 5, 1983; in spagnolo, in Siglo XXI, México, t. 1/3, pp. 971-1042, che dopo sarà la sezione 2 della seconda edizione del 1873.
124 mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro (Arbeitsvermögen), ossia la forza di lavoro (Arbeitskraft).61
Come si può osservare, Marx dubita, è titubante nell’usare “capacità di lavoro o forza lavoro” – tre volte in una pagina porrà entrambi le denominazioni, e anche invertendo il loro ordine. Alla fine, scrivendo queste pagine si decise per la denominazione “forza lavoro” – decisione terminologica presa nel gennaio 1866, per la prima volta nella sua vita. “Capacità di lavoro” forse esprimeva meglio che “forza lavoro” il contenuto concettuale dell’argomento. I capitoli dal II al IV (la trasformazione del denaro in capitale, il plusvalore assoluto e relativo) non presentavano difficoltà, poiché dal 1861 l’argomento aveva assunto chiarezza quasi definitiva. Tuttavia, improvvisamente, nella questione della “Giornata di lavoro” si estende molto più del programmato, e l’opera va assumendo proporzioni insperate. Lo stesso accadrà con il capitolo sulle “Macchine e la grande industria”, che sale a livelli più concreti, egualmente al paragrafo del salario, necessario per comprendere il plusvalore, ma materia della parte della circolazione, o del trattato relativo dopo quello sulla rendita.
61 El Capital, cap. 4 dell’edizione del 1867 (in MEGA, II, 5, p. 120; spagnolo, p. 167) [tr. it. cit., p. 201]. Cfr. la mia opera El último Marx, cap. 4.
125 Schema 2.2. Cronologia della redazione del Libro I de Il capitale. 1. Da gennaio 1866 all’inizio del 1867: capitoli dal II al VI. 2. Successivamente: capitolo I (testo I). 3. Dall’aprile al luglio 1867: Appendice sulla “Forma del valore” (testo 2). 4. Il 17 luglio 1867: il “Prologo” alla prima edizione 5. Dal dicembre 1871 al gennaio 1872: alcune pagine per correzioni della seconda edizione (in Marx 1873) (testo 3). 6. Dal 1871 al 1873: seconda edizione (testo 4) ed “Epilogo”. 7. Fino al 1875: correzioni all’edizione francese (importanti per la discussione con i “populisti”).
Il capitolo V è più complesso62. In esso, in maniera ancora un poco confusa, si pongono diversi problemi, come si può osservare nei successivi “piani” di questa parte. Include qui temi quali il lavoro produttivo e improduttivo, sussunzione formale e reale, feticismo, “prezzo della forza di lavoro”, ecc. Questo capitolo III si dividerà nel 1873 in due sezioni (la V e la VI). Il capitolo VI sull’accumulazione chiude il libro. Terminando il manoscritto, Marx dovette scrivere il capitolo I (testo I dello schema 2.3, scritto da Marx nel 1866). Kugelmann leggendo il testo, suggerì a Marx di esporre la questione della forma “relativa” ed “equivalente” del valore di scambio. D’altra parte, nella nota 9 del capitolo I, Marx annota che «quando impieghiamo la parola valore senza nessun’altra determinazione addizionale, ci riferiamo sempre al valore di 62 Cfr. la mia opera citata, cap. 5.5.
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scambio»63. Questa nota sparisce nel 1873, perché Marx, per la prima volta nella sua vita (almeno nel 1872), distingue tra “valore” e “valore di scambio”64. È noto65 che il paragrafo 4 del capitolo I è l’ultimo testo scritto e pubblicato da Marx de Il capitale. Forse comprese, effettuando le ultime correzioni per la seconda edizione del Libro I, che probabilmente non avrebbe mai pubblicato il Libro III (dove doveva concludere con le riflessioni sulla feticizzazione “trinitaria”). È certo che si tratta di un testo definitivo, e da qui la sua importanza. Schema 2.3. Confluenza di tre testi precedenti nel definitivo del 1873.
Testo 1 Capitolo 1 (1867)
Testo 3 Pagine (1871-1872)
Testo 2 Forma di valore (1867)
Testo 4 Capitolo 1 (1873) 1.1 - 1.2 1.3 1.4 (Nuova redazione)
63 In MEGA, II, 5, p. 19, 40-41. 64 Cfr. la mia opera citata, cap. 5.7.c. 65 Cfr. la mia opera El ultimo Marx (1863-1882), cap. 4, tutta la storia a partire dalla prima edizione (1867) della quarta redazione de Il capitale, fino alla seconda edizione (1867), quando aggiunse integralmente questo paragrafo 4 del capitolo I.
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Questo testo acquisirà tutto il suo valore nell’esposizione della Seconda parte di questo libro, perché Marx non effettua soltanto una critica della religione feticista, bensì una vera teologica “metaforica”, come vedremo a partire dal capitolo 4. Adesso si può porre questo famoso testo, il paragrafo 4 del I capitolo sul feticismo della merce del 1873. Il I capitolo, per il quale molti hanno iniziato a leggere Marx, è, esattamente, l’ultimo della sua opera edita. Crediamo che a partire da adesso, nella storia del marxismo, si potrà cominciare uno studio dettagliato della costituzione del “testo” – con senso diacronico, sincronico, semantico, ecc. – e con esso una ricostruzione completa. Marx scrive: Una merce sembra una cosa triviale […] Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici […] Il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso.66
Marx mostra l’analogia tra il mondo religioso articolato al capitalismo e il mondo economico, avendo in comune uno stesso meccanismo ideologico che Marx denominava “feticismo”: Quindi per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano67 paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io lo chiamo il feticismo che s’appicica ai prodotti del lavoro […]. Tale carattere feticistico del mondo delle merci (Warenwelt) sorge dal carattere sociale (gesellschaftlichen) peculiare del lavoro che produce merci.68 66 El Capital, I, cap. 1.4 (I/1, p. 87; MEGA, II, 6, p. 102) [tr. it. cit., pp. 86-87]. 67 Come pensavano Feuerbach e Debrosses. 68 Ivi, p. 89; p. 103 [tr. it. cit., p. 88]. Spiegheremo questo testo più avanti.
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Terminato il Libro I, Marx lavorerà e continuerà a lavorare ai libri II e III. Engels ricevette in due pacchetti, organizzati da Marx, “Ciò che riguarda il Libro II” e “Ciò che riguarda il Libro III”, con manoscritti ancora parzialmente inediti, che speriamo siano presto pubblicati nella MEGA II. Negli ultimi anni Marx non ebbe notevoli novità sul nostro tema. In tutti i modi, a molti marxisti staliniani avrebbe richiamato l’attenzione che Bakunin lancerà «crescenti e pesanti attacchi contro l’Internazionale – che Marx dirigeva – perché rinnega l’ateismo»69. In effetti, sull’ateismo Marx aveva una posizione totalmente ferma. Nel 1871, quando già aveva pubblicato il Libro I de Il capitale e scriveva i manoscritti per i Libri II e III, nella lettera a Friedrich Bolte, del 23 novembre di quell’anno, inviata da Londra a New York, su alcune questioni dell’Internazionale, toccò il punto. Trattò nella seconda questione l’argomento delle “sette”. Non solo l’Internazionale non è una setta, bensì che «fu fondata per mettere al posto delle sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione della classe operaia […] è stata una constante lotta […] contro le sette e i gruppi di dilettanti»70. E racconta a Bolte che, nel 1868, Bakunin aveva preteso fondare una seconda Internazionale con lui a capo, sotto il nome di “Alleanza della Democrazia Socialista”: Il suo programma era un guazzabuglio di idee affastellate in fretta a destra e a manca: uguaglianza delle classi, abolizione dei diritti di successione come punto di partenza del movimento sociale (una stupidaggine sansimoniana), ateismo imposto ai membri come dogma ecc., e come assioma principale, astensione dal movimento politico (in senso proudhoniano).71 69 Lettera di Engels a Liebknecht, del 15 febbraio 1872 (MEW 23, p. 402) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XLIV, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 407]. 70 MEW 22, p. 328 [tr. it. cit., pp. 337-338]. 71 Ivi, p. 329 [tr. it. cit., p. 338].
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Richiama, quindi, l’attenzione che tra le “stupidaggini (Blödsinn)” bakuniane si trovi l’“ateismo (Atheismus als Dogma)”, che inoltre è considerato come un “racconto per bambini (Kinderfabel)”. In realtà, questa posizione era già per Marx una conclusione importante dentro l’Internazionale. Per questo, nel lavoro scritto tra gennaio e febbraio 1872 sulle “Pretese scissioni dell’Internazionale” – pubblicato in francese a Ginevra poco dopo –, Marx scrive, in riferimento alla “Sezione di atei socialisti”, che non possono essere accettati come membri, poiché “nel caso della Youth Men’s Christian Association” – ed è interessante sapere che la YMCA chiese di essere membro dell’Internazionale – non fu accettata perché l’“Internazionale non riconosce sezioni teologiche (theologische Sektionen)”72. È chiaro che, per Marx, quindi, una “sezione atea” era un’istituzione teologica che dovrebbe essere esclusa. E questo è così chiaro che in un articolo del 4 agosto 1878 – cinque anni prima della sua morte – sulla storia dell’Internazionale, e in risposta a George Howell, ritorna ad affermare, nella questione della stessa “Idea religiosa”, che il miglior esempio di come si deve trattare la problematica è come si trattò il caso del sig. Bakunin e della sua “Sezione di atei socialisti”, che non fu accettata perché, come la YMCA, il Consiglio Generale chiariva che non poteva “riconoscere sezioni teologiche”73. Per Marx, l’ateismo era una questione teologica e non si doveva introdurre come fattore di contraddizione nella classe operaia. C’è quindi grande distanza di questa posizione politica di Marx con la posizione dogmatica (che lo stesso Marx respinge, finanche per il suo nome: “l’ateismo come dogma”)
72 MEW 18, p. 19. 73 MEW 19, p. 144.
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dal marxismo successivo, che deformò la chiara decisione della I Internazionale al riguardo. Abbiamo citato alcuni testi del Marx giovanile sull’ateismo. Da tutti questi possiamo dedurre che per Marx l’ateismo non è un momento essenziale del socialismo, al contrario, poiché nel 1844 lo considerava superato, e vediamo che il Marx “definitivo”, poco prima della sua morte, lo rifiutava frontalmente come un errore politico – tratteremo nuovamente il tema nel capitolo 6. Che direbbe oggi Marx davanti a un Terzo Mondo, Asia, Africa e America latina dove i popoli sono soggetti di una profonda religiosità ancestrale? Certamente sarebbe molto più prudente e politico che molti apprendisti rivoluzionari stalinisti che allontanarono le masse dal marxismo per un ateismo giacobino e borghese. Un’altra volta, qui o là, Marx applica parole del Nuovo Testamento al capitale: È ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che […] hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di quarantamila uomini […] mentre i figli di Mammona danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al sangue di una nazione umiliata e torturata.74 Mentre il semibarbaro difendeva il principio della morale (Cina), il civilizzato gli contrapponeva il principio di Mammona.75
74 “L’attentato a Francesco Giuseppe” (8 marzo 1853; MEW 8, p. 527) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 532]. 75 “Storia del commercio dell’oppio”, (20 settembre 1858; MEW 12, p. 552) [Si è preferito lasciare la traduzione dal testo in spagnolo citato da Dussel rispetto a quello italiano delle Opere complete, perché evidentemente troppo diverso da quello originale tedesco. Il testo italiano dice: «A un popolo semibarbaro che si schierava dalla parte dei principi morali, le nazioni civili
131 Quegli ispettori britannici […] hanno assunto il compito di proteggere la moltitudine calpestata con un coraggio morale, un’incessante energia, una superiorità intellettuale che non trova facilmente altri esempi in questa età di culto di Mammonismo.76 Benché io conceda volentieri il diritto di traduzione ovunque in Europa, dove esiste il copyright con l’Inghilterra, sicuramente non [lo faccio] in Inghilterra, questa terra di Mammona77.
Marx si riferiva al capitale anche con altri nomi: La borsa di Londra brindò con quella di Parigi; ci furono congratulazioni e strette di mano generali tra gli apostoli della speculazione finanziaria, e la convinzione che il vitello d’oro fosse stato finalmente davvero divinizzato e il suo Aronne fosse il nuovo autocrate di Francia.78 Caduti che furono i titoli francesi, la gente si precipitò nel tempio di Baal, per liberarsi dei certificati del debito pubblico.79 L’industria inglese, che, come un vampiro, non può vivere senza succhiare sangue, e soprattutto sangue di fanciulli. Nei tempi remoti l’uccisione dei fanciulli era uno dei riti della religione di Moloch: ma non era praticata che in certe occasioni
rispondevano con linguaggio della moneta sonante» [K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 16]. 76 Lettera del 15 marzo 1859, MEW 13, pp. 284 ss. [tr. it., con il titolo “La situazione nelle fabbriche britanniche”, in ivi, p. 194]. 77 Lettera del 19 ottobre 1877 (MEW 34, p. 302) [tr. it., Lotta Comunista, Milano 2006, p. 230]. 78 Lettera del 31 marzo 1859 (MEW 13, p. 284 ss.) [tr. it., con il titolo “Un parallelo storico”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XVI, cit., p. 280]. È un evidente riferimento a Esodo 3,2. Cfr. altri riferimenti nella lettera del 4 ottobre 1853. 79 “Prospettive di guerra in Europa” (11 gennaio 1859; MEW 13, pp. 169) [tr. it. in ivi, p. 156].
132 solenni, forse una volta all’anno e inoltre Moloch non provava gusto soltanto per i figli del povero.80
80 Discorso inaugurale della Internazionale, tra il 21 e il 26 ottobre 1864 (MEW 16, p. 11) [tr. it. di G. M. Bravo, in K. Marx, L’Internazionale Operaia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 12]. I bambini lavoravano nelle fabbriche; erano “sussunti” dal capitale in maniera molto speciale – il tasso di plusvalore era maggiore che quello degli adulti.
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3. Critica del carattere feticista del capitale
Ci porremmo a un livello epistemologico economico-filosofico, dentro il discorso centrale, definitivo ed esplicito di Marx. In primo luogo, desideriamo riferirci a un tema che possa servire come orizzonte di comprensione della totalità della questione di cui ci occupiamo. Si tratta del tema della “relazione”. In effetti, ogni “relazione” – e come mostrava Aristotele riguardo alla sua quarta categoria – suppone almeno quattro momenti: un termine che si “pone in relazione con” (attivo) (A); altro termine “con il quale si pone in relazione” (passivo) (B); la relazione stessa (a); e la direzione di relazione (b). Non è la stessa relazione a partire da A in direzione di B, che a partire da B verso A. Schema 3.1. Alcuni momenti di ogni forma di relazione.
A
a
b
B
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È oltretutto noto che tutto il pensiero di Marx, in definitiva, è un’analisi della relazione, di relazione di relazioni. Marx è un genio nell’analisi della relazione: del lavoro vivo “con” il lavoro oggettivato; del valore relativo “con” il valore equivalente; della merce “con” il denaro; del capitale industriale “con” il capitale commerciale, eccetera. È impossibile comprendere Marx senza intendere dialetticamente i momenti della relazione. Nella relazione, A non è semplicemente A, bensì A “in relazione con” B. Essere “figlio” (A) non è semplicemente essere persona, bensì essere persona “in relazione con” un’altra persona “come padre”. Il “come” indica giustamente la relazione stessa (la freccia a) e la direzione (punta b della freccia). La relazione del “figlio” (A) con il “padre” (B) è di filiazione (si è figlio di; mentre la relazione del “padre” (A) con il “figlio” (B) è di paternità (si è padre di). La differenza tra filiazione e paternità, il suo contenuto, è determinata dalla “direzione” o dal senso (rappresentata dalla punta b della freccia a). Tutto questo è ovvio, però per Marx è essenziale, come vedremo.
3.1. Il feticismo come “assolutizzazione” del relativo Credo che l’argomento ci ha preparato molte sorprese. Devo confessare che pensavo di conoscerlo iniziando questo studio, però, avanzando, si sono aperti tanti percorsi che adesso, iniziando l’esposizione, devo nuovamente affermare che porrò soltanto una problematica possibile, senza la pretesa non solo di esaurire il tema, ma neanche di analizzarlo sufficientemente. Ciò che segue valga come congetture approssimative. Se dobbiamo esprimere una ipotesi sulla totalità problematica di cui ci occupiamo, crediamo che l’affermazione seguente pone fondamentalmente tutta la questione:
135 Questo saccente – della scuola ricardiana – converte, poi, il valore (Wert) in qualcosa di assoluto (absolutes), in una “qualità delle cose”, invece di vedere in esso qualcosa di relativo (relatives): la relazione (Relation) tra le cose e il lavoro sociale; di un lavoro sociale basato sul lavoro privato nel quale le cose non si determinano come qualcosa dotato di autonomia, bensì come semplici espressioni della produzione sociale.1
Qui stiamo ponendo tutto il tema, frontalmente. In quanto qualcosa è costituito come “assoluto”, abbiamo il problema ontologico (e religioso mondano, è chiaro) del feticismo. Ma questa costituzione è feticista perché è stata tolta dalla “relazione con”. Come si può vedere, ci dovremo occupare della questione dell’“assoluto” e della “relazione” nell’argomento del feticismo in Marx. Ma, inoltre, questa formulazione ci deve avvertire fin dall’inizio sul senso della parola “sociale” – spesso malintesa2. Per Marx, qui “sociale” è una posizione difettosa della persona in relazione con un’altra persona, nella produzione; è un carattere negativo, perverso, scorretto: In quale profondo feticismo sprofonda il nostro saccente, e come converte il relativo in qualcosa di positivo […] Come valori, le merci sono grandezze “sociali” (Gesellschaftliche) […] Lì dove il lavoro è comunitario (gemeinschaftlich), le relazioni tra gli uomini non si manifestano nella loro produzione “sociale” come valore delle cose. Nella prima parte della
1 Manuscritos del 1861-1863, Quaderno XIV, p. 817 (ed. sp., III, p. 115; ed. ingl., III, p. 130; MEGA, cit., 6, p. 1317). Marx userà queste annotazioni nell’edizione definitiva de Il capitale, I, cap. 1, nota 36 (I/1, p. 102; M EGA, II, 6, p. 113) [tr. it. cit., p. 101], quando difendendo in qualche modo Ricardo, esprime: «L’autore delle Observations e S. Bailey danno colpa a Ricardo di avere trasformato il valore di scambio da semplicemente relativo (relativen) in qualcosa di assoluto». 2 Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, pp. 87 ss., ecc.
136 mia opera ho esposto come il lavoro basato nello scambio privato si caratterizza (charakterisiert) perché in esso il carattere sociale del lavoro si rappresenta come proprietà della cosa; perché in esso una relazione “sociale” si manifesta come una relazione delle cose tra loro […] Questa apparenza (Schein) è considerata dai nostri adoratori del feticcio come qualcosa reale.3
Qui è posta la condizione di possibilità della precedente “assolutizzazione” del valore. Nel capitalismo c’è un tipo di relazione produttore-produttore (relazione di produzione, in astratto), o di produttori (in concreto), che raggiunge solo la “socialità” grazie al mercato. Questo carattere “sociale” si può comprendere, come perverso, a partire dalla relazione comunitaria. Marx ha bisogno, per spiegare il carattere feticista del valore, di partire dal carattere “sociale” del lavoro (opposto al carattere “comunitario” dello stesso). Desideriamo anche indicare a partire dall’inizio che per Marx la “forma feticista” – come si abitua ad esprimersi nei Manoscritti del 1861-18634 – è coniata definitivamente nella quarta redazione de Il capitale con la denominazione “carattere feticista”. Per il Marx definitivo, “forma” è forma di apparenza, determinazione che appare come fenomeno. Il feticismo è un modo del capitale come totalità e di ciascuna determinazione. La parola “carattere” vuole indicare questo modo di “porsi” del capitale e di ciascuna determinazione: è una posizione del capitale o di ciascuna determinazione come non-legata, non riferita, separata, autonoma, come assoluta. Il “carattere” feticista è un modo di porsi del capitale e, allo stesso tempo, 3 Ivi (pp. 114-115; pp. 129-130; pp. 1316-1317). Cfr. nella mia opera Etica comunitaria (Paulinas, Madrid 1986, capp. 2-3; con traduzioni in diverse lingue) [tr. it. di C. Nerozzi, Cittadella, Assisi 1988], la differenziazione tra “sociale” e “comunitario” come tipi di relazione pratica. 4 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 11 (pp. 226 ss.).
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è un concetto (e ciò che tenteremo è lo “sviluppo dialettico del concetto di divinità [feticismo]”, come si esprimeva nella sua lettera del 1837), una categoria interpretativa, e un meccanismo ideologico di occultamento (meccanismo quotidiano del capitalista o dell’operaio, e dell’economista scientifico capitalista). Desideriamo porre la problematica per descrivere il contenuto del concetto e costruire questa categoria ontologica (poiché ricorre la totalità del capitale, come un tutto e nelle sue parti). In generale, trattando il carattere feticista in Marx, si fa esclusivo riferimento a tre “luoghi” dove si tratta l’argomento: il feticismo della merce, del denaro e del capitale. Non si ha tuttavia coscienza che la questione è molto più essenziale, poiché è necessario ricorrere la totalità del discorso di Marx; cioè, il carattere feticista, essendo un modo del capitale in totalità, tocca non solo il capitale in generale, bensì anche ciascuna delle sue determinazioni (non solo la merce o il denaro, bensì anche il lavoro salariato, il mezzo di produzione e il prodotto), il capitale nella produzione e nella circolazione, e per questo il plusvalore e il profitto, ma anche in ciascuna delle sue funzioni: capitale industriale, commerciale o capitale che rende interesse (essendo evidentemente quest’ultimo il capitale feticizzato per eccellenza). Si tratta di tenere conto della totalità del discorso, e in ciascun momento vedremo sempre il riferimento di Marx alla questione del feticismo. È una critica ontologica (o nella sua considerazione feticista come “assoluto”) completa del capitale.
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3.2. Carattere feticista del capitale in generale Si tratterebbe di porre il carattere feticista del capitale come totalità e al suo livello essenziale fondamentale. Il “carattere feticista” del capitale si fonda, in ultima istanza, nell’assolutizzazione del relativo, come abbiamo detto. Dell’assolutizzazione, separazione, autonomia, mistificazione di uno dei termini della relazione. Negandosi o annichilandosi il primo termine (A, per esempio, il lavoro vivo), il secondo termine (B, per esempio, il valore) si totalizza, si chiude, si feticizza. Se il “figlio” nella relazione di filiazione nega suo padre, non gli rimane altro che negarsi come figlio. Sarebbe un affermarsi come figlio di se stesso. Sarebbe l’assolutizzazione o l’autofiliazione. Si feticizzerebbe, si divinizzerebbe, si porrebbe come l’Assoluto. Una “parte” si pone come il “tutto” negando le altre parti. Anni fa abbiamo chiamato questo la totalizzazione totalitaria della totalità5. L’atto di totalizzazione o chiusura è la auto-posizione feticista. Quella di “totalitaria” è la conseguenza pratica contro coloro che negano nella prassi (si affermano come altri) questa totalizzazione: la totalità li elimina, li reprime politicamente. L’autoaffermazione feticista della totalità suppone la negazione, l’annichilazione dell’esteriorità, dell’altro o dell’altro del capitale. a) Negazione dell’esteriorità. Carattere “comunitario” o “sociale” della produzione Come momento praticamente sconosciuto dalla tradizione marxista successiva, Marx parte sempre dalla esteriorità del 5 Cfr. la mia opera Filosofía ética latinoamericana, Edicol, México 1977, paragrafo 21 (t. II, pp. 22 ss.); e t. V (USTA, Bogotá 1980), paragrafo 68: «Fetichización ontológica del sistema» (pp. 34 ss.).
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lavoro vivo, dell’altro del capitale, la cui supposta eliminazione il capitale può feticizzare. La feticizzazione ha bisogno come condizione l’annichilazione dell’altro del capitale: Il proletariato comincia a formarsi in Germania con l’irrompente movimento industriale, poiché non la povertà (Armut) sorta naturalmente bensì la povertà prodotta artificialmente […] costituisce il proletariato. […] Quando il proletariato esige la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della società.6 L’esistenza astratta dell’uomo, in quanto semplice uomo da lavoro, che può quindi quotidianamente precipitare la sua non-esistenza sociale e perciò reale dal niente adempiuto nel niente assoluto.7 Questa completa spoliazione, esistenza del lavoro priva di ogni oggettività, pura soggettività. Il lavoro come povertà (Armut) assoluta […] una oggettività coincidente con la sua corporeità (Leiblichkeit) immediata […].8 Da un lato la capacità di lavoro appare come l’assoluta povertà (Armut) […] sta di fronte come merce altrui e denaro altrui; ma il lavoratore stesso è puramente e semplicemente la possibilità di lavorare presente e racchiusa nella vivente corporeità (Leiblichkeit) del lavoratore, una possibilità che
6 Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, finale (OF, I, p. 502; CW, III, pp. 186-187; MEW 1, pp. 390-391) [tr. it. cit., p. 173]. Cfr. l’appendice alla mia opera Hacia un Marx desconocido, su “La exterioridad en el pensamiento de Marx” (pp. 365-372). 7 Manoscritti del 1844 II (OF, I, p. 607; CW, III, p. 285; MEW, EB 1, pp. 524-525) [tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1978, p. 91]. 8 Grundrisse, Quad. III (I, p. 236; p. 296; 203) [tr. it. cit., p. 244. L’ultima frase citata nel testo di Dussel è differente: «Una oggettività che coincide con una immediata carnalità»; N.d.C.]. Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, “La exterioridad…” (capp. 7 e 13).
140 tuttavia è completamente separata da tutte le condizioni oggettive della sua realizzazione […] Come tale, secondo il suo concetto, egli [il lavoratore] è povero.9 Il lavoratore deve «mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente.10
Questi cinque testi (dal 1843 al 1867) ci mostrano la continuità della problematica nel pensiero di Marx. L’altro del capitale, il “non capitale” – come a Marx piaceva scrivere nei Grundrisse e nei Manoscritti del 1861-1863 –, il lavoratore, faccia-a-faccia11 davanti il capitalista (che personifica il capitale), lo affronta nella sua stessa carnalità come nudità, come il “povero”12. Il tema dell’esteriorità, come categoria radicale da dove la stessa categoria di “totalità” è possibile (Lukács, Kosik 9 Manuscritos del 1861-1863, Cuad. I (MEGA, II, 3,1 [1976], pp. 34-35) [tr. it. di L. Comune Compagnoni, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 37-38]. Cfr. sullo stesso tema, ivi, pp. 29-36. 10 El Capital, cap. 4,3 (Siglo XXI, México 1979, t. I/1, p. 205; ed. inglese, Lawrence, London 1977, t. I, p. 165; MEW 23, p. 183) [tr. it. cit., p. 203]. Cfr. l’appendice sulla “esteriorità”, in Hacia un Marx desconocido, pp. 365-372. 11 Cfr. la mia opera Filosofia della Liberazione, cap. 2.1; e nella mia Para una ética de la liberación latinoamericana, Siglo XXI, Buenos Aires 1973, t. I, dal paragrafo 16 in avanti. Nella sua opera Filosofía de la liberación latinoamericana, FCE, México 1983, H. Cerutti ridicolizzava tutti questi temi e pensa di farlo da un punto di vista marxista (in realtà althusseriano). Al contrario la questione dell’“esteriorità”, il faccia-a-faccia, la prossimità (e anche l’affermazione del momento chiamato analettico), si trova nel più profondo del pensiero di Marx (espresso con altre parole e spesso implicito). 12 Il concetto di “povero” (che a Marx piace nominare in latino, pauper) è l’ante festum (anche in latino in Marx) del capitale (cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, in numerosi passi). Oggi, quando il “Sud” del mondo (l’antico Terzo Mondo) sparisce nella più profonda miseria, la categoria del “povero” prende priorità anche su quella dello sfruttato (cfr. anche su questo punto la mia opera citata, alla fine, sulla “Questione popolare”, cap. 18.6; e in Hacia un Marx desconocido, cap. 3.2, e inoltre in El último Marx [1863-1882], sul tema de la “accumulazione originaria”, cap. 5).
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e altri hanno dimostrato l’importanza della “totalità”, ma non hanno compreso che si apre a partire dall’“esteriorità”)13, è ciò che permette a Marx di mostrare come la negazione dell’altro come altro, come dis-tinto (e non di-ferente nella totalità del capitale che lo ha sussunto), come ancora nella sua posizione di contraddizione assoluta, è la condizione di possibilità della feticizzazione (assolutizzazione) della totalità, del capitale affermato senza relazione a una esteriorità (l’altro termine) che è stata annichilita: L’unica antitesi che si oppone al lavoro oggettivato è il nonoggettivato […] è il lavoro soggettivo […] Ciò che è effettivamente non-capitale è il lavoro stesso.14
Però Marx non pone la questione solo in maniera soggettiva: il lavoro vivo davanti al capitale, bensì anche in maniera concreta, come il presupposto: il lavoro “comunitario” (gemeinschaftliche) davanti al lavoro “sociale” (gesellschaftliche). In generale, nelle traduzioni dal tedesco non si curano le parole. Spesso si traduce “comunitario” per “collettivo”, che non ha senso, poiché Marx non scrisse mai Kollektive. Per comprendere la questione del carattere feticista del capitale (e delle sue determinazioni essenziali), era necessario comprendere la posizione “sociale” del lavoro. Ma, per potere spiegare il carattere sociale del lavoro, Marx ha bisogno di confrontarlo con “altre forme di produzione”15. 13 L’economia politica può costruirsi a partire dalla categoria di totalità (a partire dal capitale come sistema, per esempio), ma la critica dell’economia politica capitalista si deve realizzare “a partire da” fuori (cfr. la mia Filosofía ética latinoamericana, t. II, cap. 6 su “El método de la ética” (paragrafi 26 e 37, pp. 156 ss.). Inoltre cfr. la mia opera El último Marx (1863-1882), nei cui capitoli da 8 a 10 trattiamo questa problematica. 14 Urtext de Per la critica dell’economia politica (ed. cast. nei Grundrisse, t. III, p. 212; in tedesco, p. 942) [traduzione mia, N.d.C.]. 15 El Capital, I, cap. 1,4 (I/1, p. 93; I, p. 82; MEW 23, p. 900).
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Mettendo da parte l’esempio di Robinson, il Medioevo o il lavoro comunitario primitivo, Marx ci parla di: Immaginiamoci in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni (gemeinschaftlichen) […] Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale […] Il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro comune […].16
Cioè, l’orizzonte trascendentale, come concetto limite che permette di comprendere la realtà della sua non-realizzazione nella “società reale”17, si descrive come una relazione faccia-afaccia, comunitaria, interpersonale, pratica. Schema 3.2. Relazione “comunitaria” tra persone, origine sociale di ogni prodotto.
Persona Comunità
a
b
Prodotto sociale
Persona
16 Ivi (p. 96; pp. 82-83; pp. 92-93) [tr. it. cit., pp. 95-96]. 17 Gioca la stessa funzione dei testi utopici, come per esempio: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede e aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso […] Portavano l’importo di ciò che era stato venduto e […] veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti degli Apostoli 4,32-35). Cfr. Atti 2,42-47. Entrambi i testi sono alla base di ogni “socialismo utopistico”.
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La relazione pratica interpersonale (a) è diretta. A partire dalla comunità (“associazione di uomini liberi”), il prodotto è originariamente sociale (b). Non ha bisogno dello scambio o del mercato (essere “valore”) per divenire sociale. È sociale fin dallo stesso atto creatore del produttore in comunità. Il soggetto di lavoro, come individualità pienamente realizzata, è partecipante, con libertà e coscienza, della comunità. La negazione dell’altro, del lavoro vivo nella sua carnalità (astrattamente), e della comunità di persone come luogo della produzione (concretamente), permette la costituzione del capitale; e questo per un doppio movimento. Da una parte, l’altro, il povero, il lavoratore come esteriorità, è negato e sussunto nel capitale come salariato. D’altra parte, in concreto e per la dissoluzione dei precedenti modi di appropriazione e produzione, il lavoratore, isolato dalla sua comunità di origine, è sussunto individualmente e privatamente dal capitale. Il suo lavoro, adesso privato, individuale e astratto (soggettivamente), produce un prodotto astratto, privato, per lo scambio nel mercato (oggettivamente), non per l’uso della comunità. Sotto la legge del valore (come fondamento della scambiabilità del prodotto), il prodotto è sempre merce; una mera cosa nel “mondo delle merci” (totalità dove appaiono i fenomeni alla coscienza conoscente quotidiana e pubblicamente compratrice). Il carattere “sociale” – termine negativo e che indica la perversione della relazione – del prodotto-merce gli viene dato dalla non-comunità dello scambio e del mercato; e la “socialità” della merce “socializza” i produttori isolati. Il produttore è “sociale” perché si rovescia in un mercato e riceve dal mercato la sua socialità: Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri
144 specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio.18
Il lavoro “sociale” è così perversione del lavoro “comunitario” e il prodotto merce è la perversione del prodotto immediatamente sociale; cioè: Il carattere feticistico del mondo delle merci sorge [si noti che si parla di “origine” e non di “natura”…] dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci.19 Schema 3.3. Carattere sociale del lavoro e del prodotto-merce dai produttori privati.
Persona privata 1 Persona privata 2
b b
merce a merce
La relazione tra merci (a), nel mercato, è il fondamento cosale della socialità concessa (freccia b) a partire dal mercato (e non dalla comunità) ai produttori. L’indipendenza e la separazione del produttore (1 e 2 sono indipendenti per la divisione “sociale” del lavoro, nel suo concetto negativo, perverso) degli altri produttori è così l’orizzonte di comprensione da dove è possibile il fenomeno del feticismo.
18 El Capital, cit. (p. 89; pp. 77-78; p. 87) [tr. it. cit., p. 89]. 19 Ivi (p. 89; p. 77; p. 87) [tr. it. cit., p. 88].
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b) Assolutizzazione del valore. Costituzione del feticcio Il lavoro “sociale” è la condizione ontologica della possibilità del feticismo. Ma il feticismo non è il lavoro sociale. Il feticismo è il meccanismo di assolutizzazione del capitale come tale20, del valore in ultima istanza, perché il valore è la determinazione pura e universale del capitale: La rappresentazione del capitale come valore (Wert) che si riproduce da se stesso e che si accresce nella riproduzione in virtù di una sua qualità innata, quale (als) valore che in eterno (ewig) dura e si accresce – quindi in virtù della qualità occulta degli scolastici.21 […] sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla (Schöpfung aus Nichts).22 Il capitale appare come la fonte misteriosa, e che da se stessa crea (selbstschöpferische) […] il suo proprio accrescimento. Ora la cosa […] è già capitale ed il capitale appare come semplice cosa; il risultato del processo complessivo di riproduzione appare come una qualità che la cosa ha di per se stessa […] Nel capitale […] questo feticcio automatico, valore genera valore […] senza che in questa forma sussista più nessuna traccia della sua origine. Il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, […] con se stessa.23
Se è verità che «il punto di partenza dello sviluppo […] è stata la servitù del lavoratore»24 – negazione dell’esteriorità – l’auto 20 Il feticismo soggettivamente è un “meccanismo” ideologico di occultamento (si prende il relativo per l’assoluto); oggettivamente è un “modo” di esistenza del capitale. 21 Ivi, III, cap. 24 (III/7, p. 504; III, p. 394; MEW 25, pp. 405-406) [tr. it. cit., Libro III, cap. 24, p. 544]. 22 Ivi, I, cap. 7, 1 (I/1, p. 261; I, p. 209; 23, p. 231) [tr. it. cit., Libro I, cap. 7, p. 262]. Questo ex nihilo (dal nulla ha una diretta risonanza religiosa, frequente in Marx. 23 Ivi, III, cap. 24 (III/7, p. 500; III, p. 392; 25, p. 405) [tr. it. cit., p. 540]. 24 Ivi, I, cap. 24 (I/3, p. 894; I, p. 669; 23, p. 743) [tr. it. cit., p. 882].
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affermazione assolutizzante del capitale, come valore che si auto-valorizza a partire da se stesso, con la pretesa di un’autocreazione dal nulla, per emanazione panteista a partire dalla sua propria essenza, è il fondamento ontologico del feticismo: è l’essenza del carattere feticista del capitale, del valore, e per questo di tutte le sue determinazioni (merci, denaro, eccetera). Schema 3.4. Doppia relazione sociale della merce come supporto materiale del valore: valore di uso prodotto e valore di scambio interscambiabile. lavoro vivo (privato)
valore d’uso
valore
valore di scambio
interscambiabilità e vendibilità ad un altro privato
merce relazione sociale soggettiva
relazione sociale oggettiva
Soggettivamente, la negazione della relazione produttoremerce (lavoro vivo-valore) permette l’assolutizzazione del valore. Ma, d’altra parte, può anche non tenersene conto, oggettivamente, la relazione del prodotto come merce in riferimento alla sua realizzazione: la merce è merce (non solo perché è prodotto: relazione produttore-prodotto) perché è il supporto di un valore di scambio (è prodotta per lo scambio; l’interscambiabilità e successivamente vendibilità è inerente alla sua essenza).
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L’“assolutizzazione” del valore, quindi, è doppia: da una parte, si occulta la “relazione” con il lavoro vivo che lo produce o lo crea; e, dall’altra, si dimentica la “relazione” con il possibile compratore. Senza compratore (senza interscambio reale: senza realizzazione in denaro), il valore della merce si annichila e, per questo, anche il valore appartiene alla cosa stessa (alla tavola), se non in quanto, almeno in potentia (δυνάμει, Marx era abituato a scrivere in greco), è di fatto convertita in denaro. Essendosi negato l’altro termine della relazione (il lavoro vivo nella relazione capitale-lavoro), il capitale si converte «in qualcosa assoluto […] invece di qualcosa relativo» – come diceva il saccente ricardiano – al lavoro vivo. Questo assolutizzare una “parte” (il capitale) dal “tutto” (capitale-lavoro) costituisce la realtà del carattere feticista. La possibilità di questa assolutizzazione (totalizzazione della totalità, auto-chiusura del valore valorizzante) parte, come abbiamo detto, dal fatto che come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori.25
Però si tenga conto che se si attribuisce26 alle cose stesse il valore, indipendentemente dal lavoro umano che le produce nel loro valore, e della sua interscambiabilità, è perché, prima, il suo fondamento è stato assolutizzato: la auto-posizione del valore del capitale come totalità senza relazione esterna a se
25 Ivi, cap. 2,4 (I/1, p. 88; I, p. 77; 23, p. 86) [tr. it. cit., Libro I, p. 88]. 26 Questo “attribuire” è proprio il “meccanismo” ideologico di occultamento nel quale consiste il feticismo.
148
stessa. L’auto-posizione del valore nell’essenza del capitale è l’origine e il fondamento dell’attribuzione del valore alle merci come qualità naturali inerenti alla loro costituzione propria, autonoma, “cosica”. La “forma di merce” ha un carattere feticista in quanto è l’apparenza fenomenica, la manifestazione (“forma” per Marx) dell’auto-posizione del valore come essenza del capitale che si auto-valorizza. Marx – metodicamente – dovette partire dalla merce (l’astratto) per concludere nel capitale (il concreto). Ma è il carattere feticista del capitale ciò che fonda il carattere feticista della merce. Nella forma di merce appare il carattere feticista del capitale (il suo fondamento, essenza, identità che si auto-afferma come assoluto)27. Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto (Subjekt) automatico. […] Il valore diventa quanto valore iniziale: valorizza se stesso […] autovalorizzazione. Per il fatto di essere valore, ha ricevuto la proprietà occulta di partorire valore. Scarica figli vivi o, per lo meno, depone uova d’oro. […] Il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constata la sua identità con se stesso.28
Questo valore, come essenza ultima del capitale, diventa un feticcio: fatto dalla mano dell’uomo – come Baal o gli idoli che criticavano i profeti di Israele29 –, poiché non è senza lavoro umano oggettivato accumulato, che è diventato un Pote27 Cfr. in Hegel, Logica, il concetto di “Assoluto” (II, III, 1; Werke, t. 6, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, pp. 187 ss.) [tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1974, pp. 596 ss.]. Cfr. la mia opera Filosofía ética latinoamericana, t. V, paragrafo 70, pp. 66 ss. Per Hegel, l’“assoluto” è l’essenza ancora in-sé, che non è trapassata in altro, che non è relativo-a (non è ancora parte di un “mondo”). 28 El Capital, I, cap. 4, 1 (I/1, p. 188; I, p. 152; 23, pp. 168-169) [tr. it. cit., Libro I, p. 186]. 29 Cfr. infra il capitolo 6 su “L’ateismo dei profeti d’Israele e di Marx”.
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re autonomo, autonomizzato, che comincia ad avere tutti gli attributi di un “dio”: soggetto auto-creatore a partire dal nulla, eterno, infinito nello spazio (distruggendo tutte le barriere fino ad arrivare al mercato mondiale), potere civilizzatore, fonte di libertà e eguaglianza, divinità provvedente: Un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Qui regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà […] perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro […] per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d’una provvidenza onniscaltra.30
3.3. Carattere feticista di ciascuna determinazione del capitale Nell’esposizione del tema, e a ragione, si segue spesso l’ordine dello stesso Marx: feticismo della merce, del denaro, del capitale. È l’ordine genetico e storico, oltre che metodico (dall’astratto al concreto). Il carattere feticista tocca il capitale come tale, al valore, a ciascuna delle sue determinazioni o forme di apparenza del capitale; ma, inoltre, a partire dalla circolazione alla produzione, e a partire dal capitale industriale fino al commerciale e a quello che rende interesse. Tocca tutto il capitale e in tutti i suoi momenti. L’ordine delle determinazioni, nella seguente esposizione, lo prenderemo a partire dal capitale già realizzato del ciclo capitale merce31 (vedi lo Schema 2.1 supra).
30 Ivi (p. 214; p. 172; p. 189) [tr. it. cit., Libro I, p. 212]. 31 Cfr. ivi, II, cap. 3. In questo modo, benché partiamo dal capitale già “divenuto”, conserviamo l’ordine del Libro I de Il capitale.
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a) Carattere feticistico della merce Dopo quanto già esposto nel paragrafo precedente sul carattere feticistico del capitale come totalità, è facile comprendere quello della merce. Marx espone estesamente solo in due luoghi, ne Il capitale, come abbiamo visto nel capitale precedente, la questione del feticismo: all’inizio (il feticismo della merce, Libro I, capitolo 1,4)32 e alla fine (il feticismo del capitale che dà interessi, Libro III, capitolo 24). La merce era la prima forma di apparenza del capitale che Marx studia ne Il capitale. Non la tratta semplicemente come merce, bensì già come la merce in quanto capitale (cioè, già in questo caso sussunta). Come capitale, la merce rimane costituita nel carattere feticista del capitale come tale. Per questo, all’apparire nel mercato il capitale in quanto merce, il valore che essa ha le è attribuito, senza relazione con il capitale, della quale forma parte, né con il lavoro vivo che l’ha prodotta nelle condizioni del lavoro sociale che la caratterizzarono come merce: La forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica […] La forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi […] Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione di merci.33
32 Si devono tenere in conto le successive redazioni di questo testo, dal 1857 al 1873. In effetti, ne Per la critica dell’economia politica (1859) ci sono già molte indicazioni disperse, nei capitoli 1 e 2, su questo nostro tema. Nel capitolo 1 della redazione de Il capitale del 1866 ce ne sono ancora. Ma solo, e come abbiamo visto, nel 1873, Marx scrive il paragrafo 4 del capitolo 1 su “Il feticismo della merce”. 33 Ivi, I, cap. 1,4 (I/1, pp. 88-89; I, p. 77; 23, pp. 86-87) [tr. it. cit., Libro I, p. 88].
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Come nel mondo della religione feticista, ciascuna merce (come ciascun feticcio, opera della mano dell’uomo) ha vita propria, potere, valore da sé, come qualità naturale della cosa stessa. È nuovamente un termine della relazione (lavoro, prodotto o interscambiabilità) che negando l’altro termine si assolutizza, e si “lancia a ballare” sulle sue gambe e con la “sua testa di legno” – riferimento esplicito alla “legna” del suo articolo di gioventù già sui feticci contro cui profetizza Isaia34. “Il carattere enigmatico” della forma di merce consiste, quindi, che apparendo nel “mondo delle merci” (livello fenomenico per eccellenza), come forma di manifestazione del capitale, il valore come merce, l’esistenza del valore in detta cosa, è attribuibile alla merce, o al capitale, già autonomizzato da ogni relazione con il lavoro vivo e determinato dalla forma sociale che adotta l’essere sussunto dallo stesso capitale, e questo perché, non si deve dimenticare, la merce che appare nel mercato (la “forma di merce” del capitale) è capitale; è uno dei modi di esistenza del capitale. b) Carattere feticista del denaro Essendo la prima “forma” di apparenza del capitale nel mercato, e la prima che Marx studiò – dal 1844 e nei Grundrisse era ancora la prima categoria nell’ordine dell’esposizione, non così ne Il capitale, dove è anticipata dalla merce – ci sono molteplici riferimenti nell’opera di Marx sull’argomento. Ma: L’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio.35
E questo perché? Perché «la forma di denaro della cosa sia esterna a quest’ultima e sia pura forma fenomenica di rapporti 34 Cfr. ivi (p. 87; p. 76; p. 85) [tr. it. cit., p. 87]. 35 Ivi, cap. 2 (I/1, p. 113; I, p. 96; 23, p. 108) [tr. it. cit., p. 113].
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umani nascosti dietro di essa»36. In altro modo, il denaro non è altro che una merce il cui valore d’uso è l’equivalente generale dei valori di scambio delle altre merci. La “forma di denaro” dell’oro non è inerente alle qualità fisiche dell’oro, ma a una determinazione storico-sociale che lo costituisce come denaro (o come la misura ed equivalente generale di tutti gli altri valori di scambio). Ma il denaro (oro, per esempio) è l’unica merce che non deve “realizzarsi”, in astratto (cioè vendersi: convertirsi in denaro), perché è già denaro, ed essendo il denaro la forma di manifestazione più vicina all’essere del capitale, è quella determinazione o forma del capitale che per natura appare come il feticcio in quanto tale. Da qui che Marx ha applicato il testo dell’Apocalisse già copiato: «Costoro hanno un medesimo consiglio: e daranno la lor potenza e podestà alla bestia»37. È Mammone; è quella merce alla quale si attribuisce il valore come inerente alle sue qualità reali, fisiche. Il valore è, nella sua apparenza feticista, l’oro stesso – senza relazione alcuna con il lavoro che ha costituito il valore dell’oro. Nei Grundrisse aveva scritto: «Il moloch al quale tutto deve essere sacrificato»38. E partendo dalla metafora dell’Apocalisse, nella quale la Bestia marca tutti con il suo segno sulla fronte (l’immagine dell’imperatore romano si stampava nelle moneta, o a fuoco sulla fronte degli schiavi e segnalava il loro essere tali), Marx si riferisce ripetute volte a quel “segno”: Il valore non porta scritto in fronte quel che è.39
36 Ivi (p. 111; p. 94; p. 105) [tr. it. cit., p. 110]. 37 Ivi (p. 106; p. 90; p. 101) [tr. it. cit., p. 106]. 38 Grundrisse (I, p. 135; p. 199; p. 113) [tr. it. cit., p. 136]. 39 Il capitale, I, cap. 1, 4 (I/1, pp. 90-91; I, p. 79; 23, p. 88) [tr. it. cit., p. 90].
153 Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale.40
c) Feticizzazione del lavoro come lavoro salariato La terza determinazione del lavoro è quella del lavoro come capitale: Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale.41
Questo è forse l’aspetto meno percepito del feticismo. La feticizzazione dello stesso lavoro vivo – per il capitalista e per lo stesso operaio: Così presto si inizia il processo di lavoro, il lavoro vivo si incorpora al capitale come attività appartenente a questo […] la forma sociale generale del lavoro (plasmato) nel denaro si manifesta come qualità propria di una cosa. In questo modo, la forza produttiva del lavoro sociale e le forme specifiche che adotta si presentano adesso come forze produttive e forme del capitale, del lavoro materializzato, delle condizioni materiali del lavoro, che, in quanto alla forma sostantivata del lavoro vivo, si confrontano al lavoro vivo personificate nel capitalista. Torniamo a trovare qui il rovesciamento dei termini che, studiano l’essenza del denaro, abbiamo qualificato come il feticismo.42
Il lavoro vivo, quindi, si confronta al capitale che è visto come un Potere in sé, come valore, e non come lavoro materializzato.
40 Ivi (pp. 98-99; p. 85; p. 95) [tr. it. cit., p. 98]. 41 Ivi, cap. 12 (I/2, p. 439; I, p. 341; 23, p. 382) [tr. it. cit., p. 441]. 42 Manuscritos del 1861-1863, Cuad. XXI, p. 1317 (ed. cast., I, p. 362; I, p. 338; MEGA, II, 3, 6, p. 2160).
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In maniera che il lavoro vivo è dominato dal lavoro passato oggettivato senza necessità di nessun mezzo coattivo. La sussunzione del lavoro si realizza prima formalmente per mezzo della manifattura (dove il lavoro come lavoro conserva le caratteristiche precedenti), e successivamente in maniera reale o materiale (per mezzo degli stessi macchinari): Il lavoro si presenta piuttosto solo come organo cosciente, nella forma di singoli operai vivi, in vari punti del sistema meccanico; disperso, sussunto sotto il processo complessivo del macchinario stesso, esso stesso è soltanto un membro del sistema, la cui unità esiste non già negli operai vivi […] Nel macchinario il lavoro materializzato si contrappone materialmente al lavoro vivo come la potenza che lo domina e come sussunzione attiva di esso sotto di sé […] nel processo di produzione reale stesso.43
Il lavoro sussunto nel capitale, il lavoro come capitale, è adesso una forma di apparenza del capitale (essendo in realtà la stessa fonte creatrice del valore) e, per questo, «se il lavoro (vivo) coincide con il lavoro salariato»44, il lavoro si è feticizzato per il lavoratore stesso; per lui stesso è una merce: La forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forzalavoro.45
Ma la feticizzazione della capacità o forza di lavoro è di natura totalmente distinta che quella delle altre determinazioni. Si produce quando si “separa” o non si pone in relazione (si assolutizza) la capacità o forza di lavoro con il lavoro vivo come
43 Grundrisse (II, pp. 219-220; p. 693; p. 585) [tr. it. cit., p. 708]. 44 El Capital, III, cap. 48 (III/8, p. 1050; III, p. 825; 25, p. 833) [tr. it. di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 1109]. 45 Ivi, I, cap. 4,3 (I/1, pp. 203-204; I, p. 165; 23, p. 182) [tr. it. cit., p. 202].
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tale. Lo stesso lavoro vivo, nel suo uso, come forza di lavoro, produce il suo salario nel “tempo necessario”; cioè, è la fonte del valore del salario e della forza di lavoro, ma lo stesso lavoratore attribuisce al denaro ricevuto come salario la fonte della sua riproduzione: «L’operaio […] riceve sotto la denominazione di salario una parte del prodotto, che rappresenta la parte del suo lavoro che chiamiamo lavoro necessario»46; ma non lo sa. Inoltre, crede che la totalità del suo lavoro oggettivato è eguale al salario (confondendo lavoro vivo con capacità di lavoro o lavoro salariato; o credendo che il lavoro vivo ha valore e non la sola capacità o forza produttiva), da dove la feticizzazione del valore è possibile (ed è possibile come autoposizione di un valore che valorizza se stesso, per mezzo di sé, a partire da se stesso). La feticizzazione del lavoro davanti agli occhi del lavoratore stesso è la costituente soggettiva della feticizzazione del lavoro, del capitale come tale. d) Carattere feticista dei mezzi di produzione Alla stessa maniera, gli stessi mezzi di produzione, specialmente la macchina (ma anche la terra, per esempio, tra i fisiocratici), si feticizzano: Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro vivente.47.
Di nuovo, il valore appare come macchinari (non sono più i macchinari tecnicamente “come” macchinari, né i macchinari
46 Ivi, III, cap. 48 (III/8, pp. 1045-1046; III, p. 821; 25, p. 829 [tr. it. cit., p. 1104]. 47 Ivi, I, cap. 13,4 (I/2, p. 516; I, p. 399; 23, p. 446) [tr. it. cit., p. 518] La metafora “succhia” si riferisce al “sangue”-vita.
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“come” capitale, bensì adesso il capitale “come” macchinari). L’operaio affronta questo volto materiale feticizzato del capitale nel processo produttivo: L’operaio combatte […] il modo materiale di esistenza del capitale. Si rivolta contro questa forma determinata del mezzo di produzione come fondamento materiale del modo capitalistico di produzione.48 Nella sua unità materiale è subordinato all’unità materiale delle macchine, […] che come mostro animato oggettiva il pensiero scientifico e di fatto rappresenta il momento di sintesi.49 Il mezzo di lavoro schiaccia l’operaio50 La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie contenuto al suo lavoro.51
Marx pensa sempre nella macchina come un mostro, un feticcio, un organismo morto che si rianima, resuscita, solo grazie al lavoro vivo: Il lavoro, col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo e si combina con essi in nuovi prodotti, ma soltanto in quella sua qualità di attività produttiva idonea a un fine: filare, tessere, battere il ferro.52 Le macchine «conservano la loro forma indipendente di fronte al prodotto così durante la vita, che è il processo lavorativo, come anche dopo la loro morte.53
48 Ivi (p. 521; p. 403; p. 451) [tr. it. cit., p. 523]. 49 Grundrisse (I, p. 432; p. 470; p. 374) [tr. it. cit., p. 450]. 50 El Capital, I, cap. 13,4 (I/2, p. 526; I, p. 407; 23, p. 455) [tr. it. cit., p. 528]. 51 Ivi (1/2, p. 516; I, p. 398; 23, p. 446) [tr. it. cit., p. 518]. 52 Ivi, I, cap. 6 (I/1, p. 242; I, p. 194; 23, p. 215) [tr. it. cit., p. 242]. 53 Ivi (p. 246; p. 197; p. 218) [tr. it. cit., p. 246].
157 Mentre il lavoro produttivo trasforma mezzi di produzione in elementi costitutivi di un nuovo prodotto, il loro valore subisce una metempsicosi: trasmigra dal corpo consumato nel corpo di una nuova formazione. Ma questa metempsicosi avviene, per così dire, alle spalle del lavoro reale.54
Cioè, il mostro, il feticcio, ha vita proveniente dal lavoro vivo, ma, anche quando muore, conserva l’immortalità della sua anima. È il corpo della macchina quello che muore (la sua materialità), ma la sua anima (il valore) trasmigra (circola) ancora nel caso del capitale constante o fisso. Tutto questo è già una teologica “metaforica”, come vedremo nel prossimo capitolo. Trasmigra, sia nel prodotto immediato, sia nella rotazione lunga in tutti i prodotti. Marx pensa nuovamente, quindi, nei mezzi di produzione feticizzati come enti divini, indistruttibili, immortali, nelle cui vene circola l’assoluto (il valore assolutizzato: non relativo al lavoro, né alla sua condizione sociale, né alla sua essenziale interscambiabilità o necessità di realizzazione). e) Feticizzazione del prodotto L’ultima determinazione essenziale che dobbiamo esporre è il “prodotto”, non come prodotto (frutto di lavoro vivo), bensì come capitale dapprima, e, in secondo luogo, il “capitale” come prodotto feticizzato. Già sappiamo che se si produrranno prodotti con un lavoro comunitario, il carattere del prodotto sarà diverso: Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale. Il prodotto complessivo dell’associazione [degli uomini liberi: comunità] è un prodotto sociale […] Il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della
54 Ivi (p. 249; p. 199; p. 221) [tr. it. cit., p. 249].
158 partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte del prodotto comune consumabile individualmente.55
In questo caso, in un lavoro e un prodotto comuni «le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti»56; cioè, i prodotti non sono ancora feticizzati. In altro modo «tali merci non sarebbero quindi il prodotto del capitale»57. Che significa questo? Significa che il prodotto non occulterebbe nel suo seno plusvalore espropriato all’operaio e accumulato nel capitale. Il prodotto avrebbe oggettivato tanto lavoro come prodotto che il lavoratore riceverebbe (in maniera diretta o indiretta, ma senza perdita di un eccedente). Al contrario, in una forma sociale dove il lavoro ha un carattere sociale, cioè dove la socialità del lavoro viene concessa dal fatto che i suoi prodotti privati sono solo merci per un mercato (e il mercato concede la socialità al prodotto e al lavoratore privato), il prodotto si feticizza. Il prodotto sembrerebbe valore in se stesso, come cosa, ma inoltre, nel capitale, il valore del prodotto sembrerebbe essere diverso al prezzo sul mercato dello stesso prodotto. Il profitto o la differenza tra il valore del prezzo di costo del prodotto e il valore espresso in denaro (prezzo finale) sul mercato si produrrebbe dalla vendita del prodotto sopra il proprio valore. Per questo si dovrebbe attribuire, da una parte, valore al prodotto come cosa autonoma, e costituire il mercato come causa di nuovo valore (feticizzazione della circolazione riguardo alla produzione). La circolazione creerebbe valore: 55 Ivi, I, cap. 1,4 (I/1, p. 96; I, p. 83; 23, p. 93) [tr. it. cit., pp. 95-96]. 56 Ibidem [tr. it. cit., p. 96]. 57 Ivi, III, cap. 10 (III/8, p. 222; III, p. 175-176; 25, p. 185) [tr. it. cit., p. 250].
159 L’indagine mostrerà che in regime capitalistico il prezzo di costo acquista la falsa apparenza di una categoria della produzione stessa del valore.58
Feticizzazione o falsa apparenza sono due fenomeni che hanno una stessa fonte: la assolutizzazione e pretesa auto-creazione del valore (cioè, la cecità del plusvalore contenuto nel prodotto riguardo al profitto realizzato nella vendita della merce). Il prodotto ha un valore: quello investito in denaro nei mezzi di produzione e in salari, e il plusvalore creato nel tempo di pluslavoro non pagato («il valore [è in correlazione] con la quantità complessiva di lavoro pagato e non pagato in essa contenuto»59 – nel prodotto o nella merce). La feticizzazione del prodotto, quindi, consiste in credere che il prezzo di costo (quanto speso in denaro dal capitale per produrre il prodotto; per il capitalista, il suo valore) è eguale al valore del prodotto (come esce dalla fabbrica), e in questa maniera si «oscura completamente o addirittura si travisa l’origine reale del plusvalore […] il plusvalore sembra derivare dal capitale complessivo […] [la sua origine] viene a cessare nel concetto di profitto; difatti il plusvalore, una volta assunta la sua nuova forma di profitto, rinnega la sua origine»60. “Oscurare”, “mistificare”, “occultare”, “cancellare” sono verbi che indicano in altra maniera il fenomeno di “feticizzare”; cioè, la feticizzazione del prodotto consiste, in ultima istanza, nel fatto che il prodotto “appaia” come uguale nel suo valore al valore posto dal capitale, e, per questo, il profitto successivo procederebbe dall’“astuzia” del capitale sul mercato:
58 Ivi, cap. 1 (III/8, p. 31; III, p. 28; 25, p. 37) [tr. it. cit., p. 57]. 59 Ivi, cap. 9 (III/8, p. 208; III, p. 165; 25, p. 175) [tr. it. cit., p. 237]. 60 Ivi (p. 211; p. 167; p. 177) [tr. it. cit., p. 239].
160 Se dunque nella formazione del valore della merce non concorre nessun elemento diverso dal valore anticipato dal capitalista, non si riesce a vedere come dalla produzione si debba ricavare un valore maggiore di quello immessovi, a meno che dal nulla (Nichts) non si possa ottenere qualcosa. A questa ipotesi assurda di una creazione dal nulla (Schöpfung aus Nichts) Torrens sfugge soltanto trasferendola dalla sfera della produzione a quella della circolazione delle merci.61
Ciò che accade, quindi, è che nel prodotto si trova già tutto il valore che si realizzerà successivamente come profitto. La feticizzazione del lavoro salariato produce la feticizzazione del prodotto e del profitto, e tutto dalla “sparizione” del plusvalore nella produzione: Il profitto […] è una forma in cui viene dissimulata e cancellata l’origine del plusvalore e il segreto della sua esistenza. In realtà, il profitto è la forma fenomenica del plusvalore […] come ciò accada è processo mistificato che sembra tragga origine da qualità segrete inerenti al capitale stesso.62
Se il prodotto fosse il frutto di un lavoro comunitario, sarebbe trasparente; prodotto di lavoro e per i bisogni umani dei lavoratori in comunità. Non ci sarebbe feticizzazione, né plusvalore, né pluslavoro e l’obiettivo sarebbe lavoro consumato. Se il prodotto, invece, è frutto di un lavoro sociale, si trova la misteriosa oscurità del feticcio: prodotto di un lavoro privato e come merce (prodotto per il mercato) e per questo occulta il pluslavoro, e il profitto sembrerebbe essere una relazione «il capitale si presenta come rapporto rispetto a se stesso»63. La feticizzazione del capitale (del valore) fonda la feticizzazione
61 Ivi, III, cap. 1 (III/6, p. 43; III, p. 39; 25, p. 48) [tr. it. cit., p. 69]. 62 Ivi, cap. 2 (III/6, p. 56; III, p. 48; 25, p. 58) [tr. it. cit., p. 82]. 63 Ibidem [ibidem].
161
del prodotto. Però la feticizzazione di questo dipende dalla feticizzazione della circolazione – che è il nostro prossimo tema.
3.4. Carattere feticista della circolazione La tesi potrebbe essere enunciata così: «Nel processo di circolazione egli [il borghese] dimentica il processo di produzione»64. O in quest’altra maniera: Tutti gli economisti incorrono nello stesso errore: invece di considerare il plusvalore puramente in quanto tale, lo considerano sotto le forme specifiche di profitto e di rendita della terra.65
Questa è la tesi con la quale conclude tutta l’opera Teorie sul plusvalore dei Manoscritti del 1861-63. L’assolutizzazione del capitale (del valore) fonda l’assolutizzazione del “mondo delle merci”, il processo di circolazione, del mercato. Se «questa è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici»; se la merce ha un “carattere mistico”; se «la forma fantasmagorica […] s’appiccica ai prodotti del lavoro» è perché «una parte degli economisti sia ingannata dal feticismo inerente al mondo delle merci (Warenwelt)»66.
64 Ivi, cap. 7 (III/6, p. 173; III, p. 138; 25, p. 147) [tr. it. cit., p. 201]. 65 Manuscritos del 1861-1863, Cuad. VI, p. 220 (ed. cast., I, p. 33; I, p. 40; MEGA, II, 3, 2, p. 333). 66 Tutte le espressioni citate sono quelle del già nominato paragrafo 4, del capitolo 1, del Libro I de Il capitale.
162 Schema 3.5. Progressivo feticismo del capitale.
CIRCOLAZIONE
PRODUZIONE P S
T p1 Mp
R b
D
a 1D’
M
D
D 2D’
3D’
Spiegazione dello schema. D: denaro; T: lavoro salariato; Mp: mezzi di produzione; P: prodotto; pl: plusvalore; M: merce; R: reddito; S: salario; ID’: denaro con profitto industriale; 2D’: denaro con profitto commerciale; 3D’: denaro con interesse; freccia a: progressiva feticizzazione dalla produzione alla circolazione; freccia b: progressiva feticizzazione del capitale industriale al quale si rende interesse.
Il “mondo della merce” – come il mondo fenomenico della Logica di Hegel, o il “mondo” di Essere e tempo di Heidegger – è la totalità dentro il cui orizzonte si presentano i fenomeni, dove appaiono le forme di manifestazione di ciò che sta dietro (tutte queste nozioni, parole e concetti si trovano esplicite in Marx, continuamente). La feticizzazione del “mondo delle merci” è ciò che fonda la “forma di merce (Warenform)”67 che adottano tutti i prodotti del capitale. Il carattere feticista del valore capitale, denaro, lavoro salariato, ecc. appare final-
67 El Capital, I, cap. 1,4 (I/1, p. 101; I, p. 86; 13, p. 97) [tr. it. cit., p. 87].
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mente e sempre nel “mondo della merce” feticizzata. Tutto il mistero e la mistificazione del feticismo si fonda nel negare questo principio fondamentale: «Nella sfera della circolazione non [si] generano né valore né plusvalore»68. Il pretendere che si generi valore (come profitto) nella vendita del prodotto (dal passaggio da P a M, e da M a D: realizzazione del prodotto/merce in denaro) è giustamente aver feticizzato il valore del prodotto, e per questo della merce, e pensare che il capitale generi valore nel vendere il prodotto/merce nel realizzarlo in più denaro. Per questo, è un progressivo processo di feticizzazione, non solo dalla produzione alla circolazione, bensì anche dal capitale industriale al commerciale e il quale rende interesse. Possiamo così anticipare come tesi di aumento di feticizzazione (freccia b dello schema 3.5) nella misura in cui ci allontaniamo dal lavoro e dal processo produttivo: Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato [feticizzato] e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.69
L’organismo interno, il piano profondo (il “mondo essenziale” direbbe Hegel), l’orizzonte occulto e fondamentale dove si genera il valore, la risoluzione del mistero e la possibilità di defeticizzare il capitale, si trova nel mondo della “produzione”, nel processo produttivo del capitale. Marx rappresenta detto ambito come l’“inferno” dove l’operaio è immolato in “sacrificio” al feticcio: Assieme al possessore del denaro e al possessore della forzalavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi [la circolazione, il mercato], per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della 68 Ivi, III, cap. 17 (III/6, p. 361; III, p. 281; 25, p. 292) [tr. it. cit., p. 393]. 69 Ivi, cap. 2 (III/6, p. 56; III, p. 48; 25, p. 58) [tr. it. cit., p. 82].
164 produzione sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business […]. Il lavoratore segue [il capitalista] timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la […] conciatura.70
È una processione sacrificale: l’“agnello” sarà offerto in sacrificio: Una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e sangue71 ma pure di nervi e di cervelli.72 Questi sacrifici umani (Menschenopfer) erano in gran parte dovuti alla sordida avarizia […].73
Il tempio della Bestia, del feticcio, è la fabbrica, è il luogo della morte dell’operaio e del suo sfruttamento, come un inferno: 70 Ivi, I, cap. 4 (I/1, p. 214; I, p. 172; XXIII, pp. 190-191) [tr. it. cit., pp. 212213]. 71 “Carne” e “sangue” sono categorie antropologiche ebraiche, bibliche, al posto di “corpo” e “anima” dei greci. Su questo tema ho scritto una trilogia: El humanismo helénico, Eudeba, Buenos Aires 1976; El humanismo semita, Eudeba, Buenos Aires 1969; e El dualismo en la antropología de la Cristiandad, Guadalupe, Buenos Aires 1974. In essa espongo l’importanza delle categorie “carne” e “sangue”, concezione unitaria dell’essere umano come persona, dentro la cui tradizione semitico-cristiana esplicita si iscrive certamente Marx, contro l’antropologia dualista greca e “moderna” cartesiana. È una questione essenziale dell’unità della “carnalità” della persona nell’interpretazione filosofico-economica di Marx. La dignità della “carnalità” (corporalità) è alla base di tutto il pensiero di Marx, come del pensiero critico dei profeti di Israele e del fondatore del cristianesimo; come si potrebbe affermare che «dare da mangiare all’affamato» nella sua corporalità è il criterio assoluto del giudizio etico (Matteo 25), se non ci fosse un’affermazione definitiva della dignità della “carne”? 72 El Capital, III, cap. 5 (III/6, p. 107; III, p. 88; 25, pp. 98-99) [tr. it. cit., p. 134]. 73 Ibidem.
165 Il processo di produzione si presenta insieme come un martirologio dei produttori […] Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio.74
Il luogo della produzione come maledizione, come l’essenza del mistero, è ciò che la feticizzazione della circolazione occulta: Essere operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia.75 L’arcano dell’autovalorizzazione del capitale si risolve nel suo potere di disporre di una determinata quantità di lavoro altrui non retribuito.76
Per Marx, quindi, c’è un livello superficiale feticizzato della circolazione, dove apparirebbe ciò che genera il profitto (più valore a partire dal capitale stesso), e si nega, si occulta l’altro termine della relazione: il processo produttivo, il livello profondo. Di nuovo, la feticizzazione, come assolutizzazione, è negare un termine della relazione autonomizzando l’altro (in questo caso, la circolazione, il mercato): Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare [il fenomeno] quale prezzo del lavoro.77
Per Marx, “entrare” nel processo produttivo è “uscire” dal processo di circolazione; e alla stessa maniera il prodotto “esce” dal processo produttivo ed “entra” o è gettato nel processo del mercato. Questo limite tra circolazione e produzione è fon-
74 Ivi, I, cap. 13 (I/2, p. 612; I, p. 474; 23, pp. 528-529) [tr. it. cit., p. 618]. Cfr. i capitoli 8 e 13.3 ss. Da Il capitale sulla sofferenza dell’operaio nel processo produttivo del feticcio al quale è sacrificato. 75 Ivi, cap. 14 (I/2, p. 616; I, p. 477; 23, p. 532) [tr. it. cit., p. 622]. 76 Ivi, cap. 16 (I/2, p. 649; I, p. 500; 23, p. 556) [tr. it. cit., p. 653]. 77 Ivi, cap. 17 (1/2, p. 651; I, p. 501; 23, p. 557) [tr. it. cit., p. 656].
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damentale per comprendere la questione del feticismo. L’enigmatico, misterioso, fantasmagorico sul piano superficiale, visibile a tutti gli occhi, fenomenico, delle forme di apparenza del valore si dà nel “mondo delle merci”: la circolazione. Al contrario, l’occulto, dimenticato, invisibile sul piano della produzione. Il feticcio non appare come feticcio nella circolazione: è invisibile. Nella sua invisibilità consiste il suo Potere, il potere della “religione mondana”. Prima la cosa era più semplice: «Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti dell’organismo borghese»78. Trasparenza e visibilità sull’orizzonte superficiale della circolazione è ciò che è proprio di tutti i sistemi antichi. Il lavoro dello schiavo è visibile come tale; il tributo del servo del feudalesimo è visibile come tale. Produzione e circolazione sono trasparenti, manifestano il loro essere, non occultano nulla. Al contrario, il capitale (il valore) occulta, ritira dagli sguardi, rigetta al processo di produzione, rende invisibile l’ambito del lavoro stesso (nella manifattura, nella fabbrica, nel lavoro capitalista della terra), lo trasforma in non-fenomeno: scinde la produzione (livello profondo invisibile) della circolazione (livello superficiale visibile). La invisibilità dell’origine, della realtà e lo spiegamento dei fenomeni visibili permette la feticizzazione del valore (il capitale): è il fondamento di questo meccanismo ideologico. Per questo, l’enigma, il mistero, la mistificazione, la feticizzazione di tutte le determinazioni del capitale, e specialmente del profitto, è possibile perché si pone tutto nel mero orizzonte della circolazione. La feticizzazione della circolazione come orizzonte ontologico a partire da dove si conosce tutto ciò che si presenta nel sistema capitalista è l’origine del meccanismo di ideologizzazione dell’economia politica capitalista. Questo lo vide chiaramente Lukács. Igno78 Ivi, cap. 1 (I/1, p. 97; I, p. 83; 23, p. 93) [tr. it. cit., p. 96].
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rando il processo di produzione (dove si crea il plusvalore), si assolutizza la circolazione. La totalità del capitale e la circolazione hanno negato l’esteriorità del lavoro vivo e la produzione. Arriviamo così a Jevons, Marshall, Hayek o Friedman.
3.5. Carattere di feticizzazione progressiva del processo di valorizzazione Il processo di feticizzazione è progressivo. Ci sono meno feticizzazione ai livelli più profondi (o meno superficiali) della produzione; c’è più feticizzazione ai livelli più superficiali della circolazione. Se è vero che c’è meno feticizzazione nel processo produttivo (benché lì si trovi l’origine di tutto il carattere feticista) e si trova più feticizzato il mondo delle merci del capitale industriale, da parte sua il capitale industriale è meno feticizzato che il commerciale o quello che rende interesse, e non è difficile comprendere, allora, che il livello della massima feticizzazione sia, proprio, il capitale della massima superficialità e il più lontano dal lavoro vivo negato all’origine: il capitale che rende interesse79. Nel capitale industriale, il profitto è stato realizzato a partire dal plusvalore raggiunto dal capitale come lavoro oggettivato non pagato. Il profitto industriale ha così, almeno, una relazione diretta con il plusvalore, nel processo produttivo. Invece, il capitale commerciale, che compra la merce dal capitale industriale meno del suo valore e la vende a un prezzo mag79 Cfr. il testo citato alla nota 81. Questo è stato espresso nella freccia a dello schema 3.5. Si produce maggiore feticizzazione nel passaggio dalla produzione alla circolazione. Con le frecce b si passa a maggiore feticizzazione anche del capitale industriale al quale si offre interesse.
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giore di quella con il quale l’ha comprato, ottiene un profitto commerciale appropriandosi di una parte del plusvalore industriale (cioè, il capitale industriale deve concedere una parte del plusvalore). Come si può vedere, si trova più lontano dal processo produttivo e neppure lo include nella sua rotazione. Da parte sua, il capitale che rende interesse, che offre denaro per ottenere interesse, ottiene profitto dal denaro stesso, sia perché permette al capitale industriale di realizzare con questo denaro la sua rotazione (in qualsiasi dei suoi momenti in cui necessità di denaro, e guadagnare così tempo), sia perché permette al capitale commerciale di avere denaro per poter comprare. In tutti i modi, il capitale che rende interesse si trova mediatamente in relazione con il lavoro che produce plusvalore, e si presenta davanti agli occhi del mercato nel suo carattere di capitale che crea nuovo capitale; valore che si valorizza da se stesso: L’interesse appare ora al contrario come il frutto vero e proprio del capitale, come il fatto originario, e il profitto appare trasformato ora, nella forma di guadagno d’imprenditore come un semplice accessorio e ingrediente che si aggiunge nel processo di riproduzione. Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine. In D-D’ noi abbiamo la forma empirica del capitale, il rovesciamento e la oggettivazione del rapporto di produzione alla più alta potenza.80 Nel capitale produttivo d’interesse la rappresentazione del capitale-feticcio è portata a compimento, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro, e per di più fissato come denaro, la capacità di produrre plusvalore in una progressione geometrica, per una qualità segreta innata, come un semplice meccanismo.81 80 El Capital, III, cap. 24 (III/7, p. 501; III, p. 392; 25, p. 405) [tr. it. cit., p. 541]. 81 Ivi (p. 509; p. 399; p. 412). Cfr. MEW 26, p. 447 [tr. it. cit., p. 549].
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L’interesse apparirebbe, alla falsa coscienza, essere il frutto del denaro: valore creato dal nulla dal Potere del capitale stesso, Dio in terra, feticcio, Moloch, in quanto, in realtà, la vita di tale feticcio è sangue di lavoratori offerti in sacrificio all’accumulazione del valore. Feticizzato, autonomizzato o assolutizzato (scisso dalla relazione dove è solamente un termine), arriviamo alla conseguenza finale di questa “religione secolare” o “mondana”: Capitale-profitto […] terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale.82
Dietro il capitale, la terra e il lavoro salariato feticizzati c’è la feticizzazione del valore come tale – come l’origine di questi tre feticci, queste tre persone, questa trinità, secolare, mondana, satanica, come i tre volti di Moloch, la Bestia, come parodia di un cristianesimo rovesciato, feticizzato. Al capitale feticizzato corrisponde, per il suo proprio Potere creatore dal nulla, il profitto industriale, profitto commerciale e interesse. Alla terra (che nel capitalismo è solo un mezzo di produzione) corrisponde la rendita. Al lavoro salariato (che, in realtà, in quanto pagato o salario è frutto del lavoro) corrisponde il denaro o il lavoro oggettivato in mano al capitale: salario. Ciascuna “persona”, ciascun volto di Moloch ha il suo frutto, la sua gioia, il suo pagamento, e tutto in virtù del proprio valore: il capitale il suo profitto, la terra la sua rendita e il lavoro salariato il suo salario. Ma tutto questo è il frutto di un maneggio ideologico, un gioco di specchi, un’illusione, una feticizzazione, divinizzazione, cosificazione di tre momenti che si fondano su un altro momento che è invisibile. Queste tre forme di reddito83 della «religione della vita quotidiana (Reli82 Ivi, III, cap. 48 (III/8, p. 104; III, p. 853; 25, p. 861) [tr. it. cit., p. 1095]. 83 Cfr. ivi, cap. 50 (III/8, p. 853; 14, p. 861) [tr. it. cit., p. 1146].
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gion des Alltagslebens)»84, non sono che tre forme «autonome nei confronti della forza-lavoro vivente»85. Il salario non è altro che lavoro vivo oggettivato nel tempo necessario per riprodurre la propria vita; il profitto e la rendita non sono altro che forme di manifestazione del plusvalore, cioè pluslavoro del lavoro vivo non pagato sussunto dal capitale o dal redditiere della terra. Tutte queste forme feticizzate (o scisse dalla loro origine) occultano la loro fonte: il lavoro vivo. Occultano la relazione con il lavoro vivo, che è l’origine e la possibilità (per negazione) della loro feticizzazione. Crediamo che con quanto esposto si è provato, sufficientemente, che la problematica del feticismo attraversa la totalità del discorso di Marx, a partire dall’inizio fino alla fine de Il capitale; è, d’altra parte, la questione ontologica fondamentale dove si comprende la chiusura totalizzante del valore, del capitale su se stesso. Questo continuo riferirsi di Marx al feticismo, con terminologia e contenuti religiosi, non può essere preso alla leggera, come se fosse qualcosa come il frutto del suo senso dell’umore – che certamente Marx aveva in sommo grado. Si tratta, niente meno, che di una compiuta e completa descrizione di ciò che lui chiamava, a partire La questione ebraica, la “religione secolare”, “mondana” o “quotidiana”. Questa religione, paradossalmente, era quel campo apparentemente secolare che i profeti critici di Israele includevano nel “campo religioso”. Marx realizza, in senso stretto, una critica religiosa dell’economia politica, cioè scopre i meccanismi della dominazione del capitalismo come strutture feticiste, demoniache, sataniche, idolatriche. Il “carattere feticista” del capitale è, giustamente, il suo statuto religioso stretto. La negazione della sua divini84 Ivi, cap. 48 (p. 830; p. 838) [tr. it. cit., p. 1115]. 85 Ivi (p. 815; p. 823) [tr. it. cit., p. 1096].
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tà – supposta in tutta la critica di Marx- pone il suo ateismo dal capitale come una posizione antifeticista, antiidolatrica, in totale coincidenza con l’ateismo degli idoli da parte dei profeti di Israele e del fondatore del cristianesimo86.
86 Cfr. il già indicato capitolo 6 su “L’ateismo dei profeti d’Israele e di Marx”, alla fine della II parte.
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Parte II Le “metafore” teologiche
Cominciamo in questa seconda parte il momento forse centrale della nostra esposizione. Come abbiamo indicato nelle Parole preliminari, l’argomento di Marx si basa sulla premessa minore. Se qualcuno è cristiano e capitalista (premessa maggiore), “e se il capitale è il demonio” (premessa minore), questo cristiano si trova in contraddizione (conclusione). Per evitare la contraddizione, il cristiano può abbandonare il cristianesimo o il capitalismo; ma se tenta di mantenere entrambi, dovrà: o inventare una religione non-contraddittoria al capitalismo (e la critica della religione come feticismo tenta di chiudere il cammino di questa soluzione), o inventare un’economia politica non-contraddittoria con il cristianesimo (che fu il compito dell’economia politica borghese, e la critica teorico-scientifica di Marx pretende chiudere questo secondo cammino). Ma tutto si basa sulla premessa minore: “se il capitale è il demonio”. E questo enunciato può essere provato non già da una critica della religione (che sarebbe negazione della religione puritana, protestante o adeguata al capitalismo, come “critica della religione”), bensì da una teologia implicita, positivamente esposta nel suo aspetto negativo con “metafore”: una demonologia il cui oggetto non si trova nel “campo religioso” (per parlare come Pierre Bourdieu), bensì nel “campo profano”. Sarebbe una teologia implicita della “vita quotidiana
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(Alltags-Lebenswelt)” e, in essa, si simbolizzerebbe l’esistenza di un “dio” sconosciuto, ma che Marx desidera indicare, benché lo faccia sempre metaforicamente. È una tesi differente a quelle finora esposte. È tentare di dimostrare che Marx fu, di fatto, un teologo implicito, frammentario, negativo, che sviluppò il suo discorso “metaforicamente” e obliquamente, ma non per questo meno effettivamente e completamente. Il tema ha estrema attualità all’inizio di questo XXI secolo, quando comincia il secondo secolo marxista, che sarà totalmente differente dal primo secolo, e specialmente a partire dalla “caduta del muro di Berlino” e dalla guerra in Iraq. Desideriamo indicare, infine, che in molti casi useremo nuovamente alcuni testi di Marx già citati, che ci serviranno da esempi. Nella I parte li abbiamo citati nell’esposizione cronologica o sistematica del feticismo; in questa II parte li useremo dentro di un senso metaforico-teologico.
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4. La teologia “metaforica” di Marx
Contro ciò che qualcuno potrebbe pensare, quando parliamo di “metafora” o “metaforica” non stiamo riferendoci a un aspetto del linguaggio di profonda realtà critica, in un senso positivo, pertinente, attuale. Marx espone la tesi chiaramente ed espressamente quando scrive il seguente, e che commenteremo dettagliatamente – per questo divideremo il testo in sei momenti: Lo Stato che lascia parlare il Vangelo con le parole della politica, cioè con parole diverse da quelle dello Spirito Santo, compie un sacrilegio (Sakrilegium), se non agli occhi degli uomini, sicuramente ai suoi stessi occhi religiosi. [1] Lo Stato [RM dello schema 4.1] che riconosce [2] il cristianesimo [1] come sua norma suprema e la Bibbia come sua Charte, [3] si devono contrapporre (entgegenstellen) le parole della Sacra Scrittura [RC], perché la Scrittura è sacra fino alla lettera. [4] Questo Stato […] cade in una dolorosa contraddizione (Widerspruch), insanabile dal punto di vista della coscienza religiosa, qualora lo si richiami a quei precetti del Vangelo [RC] che esso “non solo segue, ma che non può nemmeno seguire […]” Dinanzi alla sua propria coscienza, lo Stato cristiano ufficiale è un dover essere la cui realizzazione è irraggiungibile e soltanto mentendo a se stesso può constatare la realtà della propria esistenza [RM] […]. [6] La critica [freccia e] ha dunque pienamente ragione nel portare lo Stato che si appella
176 alla Bibbia a una profonda confusione, nella quale esso stesso non sa più se è una fantasia o una realtà, nella quale l’infamia dei suoi scopi mondani (weltlichen) [RM], per i quali la religione [RF] serve da copertura, entra in un conflitto insolubile con l’onestà della coscienza religiosa [RC].1
In questo testo troviamo esplicitamente la strategia argomentativa di Marx, che dista molto dall’essere semplice e che esige molte distinzioni che non sono state colte. Per orientarci meglio, proponiamo il seguente schema 4.1, dove si pongono i diversi momenti ai quali ci si riferisce continuamente. Schema 4.1. L’economia e la “metafora” del “cielo” (l’“al di là”) e della “terra” (l’“al di qua”). I. Il cielo (“l’al di là”)
Religione critica (RC) c
b
e II. La terra (“l’al di qua”)
Realtà mondana (RM) e
Religione feticista (RF)
a d
Scienze (economia, politica, ecc.) (SC) f
La Bibbia, Vangelo (religione esplicita) Il secolare, profano (religione implicita)
Teologia Economia metaforica politica critica (TM) (EP) Nuovo senso critico 1 K. Marx, Sobre la cuestión judía, I (OF, I, p. 474; MEW 1, pp. 359-360) [tr. it. cit., pp. 188-189]. Questo testo appartiene ancora al periodo presocialista, in Germania, della critica “politica”, e non ancora “economica”, del piccolo borghese critico che era Marx.
177 Spiegazione dello schema. a: razionalità scientifica o economica; SC: scienze (economica, politica, ecc.); b: verticalità religiosa alienante; RF: religione feticista (di dominio); c: critica religiosa della scienza; RC: religione critica (Bibbia, vangelo, religione della sua “purezza”); d: ritorno metodico alla realtà esistente, quotidiana; RM: realtà mondana (il “profano” o “secolare”); e: critica religiosa della quotidianità; TM: teologia metaforica (nuovo senso del profano); EP: economia politica critica (Il capitale); f: Critica filosofico- economica.
Citiamo ancora un altro testo per constatare più chiaramente ciò che stiamo affermando: Consideriamo il reale ebreo mondano [RM], e non l’ebreo del shabath [RF], come fa Bauer, ma l’ebreo di tutti i giorni (Alltagsjuden) [RM]. Cerchiamo il segreto dell’ebreo non nella sua religione [RF], bensì cerchiamo il segreto della religione nell’ebreo reale [RM].2
E per completare gli esempi, si legga ancora con attenzione quest’ultima citazione: È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là (Jenseits) della verità [I], quello di ristabilire la verità dell’al di qua (Diesseits) [II]. E innanzi tutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra [RF] dell’autoestraneazione umana, smascherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane [RM]. La critica del cielo [I] si trasforma così nella critica [frecce e o c] della terra [II], la critica della religione [RF] nella critica del
2 Ivi, II (p. 485; p. 372) [tr. it. cit., p. 201]. Questo testo inizia la tappa filosofico-economica di Marx. La critica religiosa da politica diventa economica, come abbiamo visto, ma in entrambe la strategia argomentativa è la stessa: far diventare autentica (almeno per Marx) la stessa credenza religiosa, contro la falsa coscienza del fedele.
178 diritto [SC], la critica della teologia [RF] nella critica della politica [SC].3
Marx descrive, quindi come abbiamo detto, la sua strategia argomentativa. Consiste in un “ritornare” dal piano esplicito della “religione” (I) come giustificazione del dominio (lo “Stato cristiano”, luterano, o successivamente “del puritanesimo”) (RF) al livello secolare (RM), tenuto dal “profano”, «dove sembrerà che non ci siano dei», come direbbe erroneamente D. Bonhoeffer o la “teologia della secolarizzazione” (II: l’“al di qua”). Ma al livello della realtà, dell’esistenza quotidiana e profana, Marx scopre un nuovo senso “religioso”, occulto alla vista dei fedeli alienati, estraniati (cristiani, ebrei4, ecc.) (TM). In effetti, prendendo seriamente la critica alla “Bibbia” (alla “Sacra Scrittura”) “nel suo perfetto diritto”, e “opponendola” alla quotidianità presuntivamente “profana” o “secolare”, Marx chiarisce una “contraddizione”, che si produce nella realtà, tra il “dio” sabatico (dell’ebreo) o domenicale (del cristiano) (RF) e il “dio” reale (occulto al livello RM):
3 Introducción a la crítica de la Filosofía del Derecho de Hegel (OF, I, p. 492; MEW 1, p. 379) [tr. it. cit., p. 162]. 4 Da ciò, parlare dell’antiebraismo (come dell’anticristianesimo) di Marx sarebbe porsi – in difensiva – a partire da una religione ebraica o cristiana alienate e dominatrici, come vedremo. Un ebreo o un cristiano critici sarebbero d’accordo con Marx, se comprendono bene la sua strategia argomentativa (che non si comprese sempre adeguatamente). Le profezie contro Israele di Isaia, Geremia, Gesù di Nazaret, ecc., sarebbero antisemite (come antispagnole le critiche di Bartolomé de las Casas, ecc.). Dobbiamo distinguere tra le critiche “profetiche” contro il “peccato” di un popolo, sentendosi parte di questo popolo (e Marx si “sentiva” ebreo), e la critica contro il popolo come tale.
179 Qual è il culto mondano dell’ebreo (weltliche Kultus)? Il mercanteggiare5. Qual è il suo Dio mondano?6 Il denaro.7
Non si era avvisato che Marx pone il religioso (e per questo è possibile a partire da questa ipotesi sviluppare una riflessione teologica esplicita) al livello profano, quotidiano, nella “Realtà Mondana” (RM). E – così come fanno i profeti di Israele, il fondatore del cristianesimo e successivamente la Teologia della Liberazione latinoamericana –, invece di considerare questo mondo quotidiano (la Lebenswelt) come profano, nonreligioso, Marx scopre lì una dimensione “religiosa” occulta: “dio” è adesso il “denaro” – ciò è una metafora, ma, come
5 Cfr. l’importanza della questione dell’“usura” nella polemica teologica intorno al Deuteronomio 23,20-21, che indicheremo più avanti. [Marx usa qui il termine Schacher che il traduttore italiano ha tradotto con “mercanteggiare”. Dussel, invece, lo usa dall’edizione spagnola che riporta “usura”. Si è preferito lasciare “mercanteggiare”, ma si tenga conto della discrepanza tra la traduzione italiana e quella spagnola; N.d.C.]. 6 Si osservi l’espressione: “dio mondano (weltlicher Gott)”. Questa questione è definitivamente essenziale nella nostra interpretazione: c’è un “dio” occulto nella “Realtà Mondana” (RM dello schema 4.1). Si tratta, niente meno, che di negare in quanto feticista tutta quella teologia europea e nordamericana del XX secolo, che ha parlato di un mondo “secolare senza Dio”. Marx direbbe: «Feticisti! Avete secolarizzato, de-divinizzando il dio secolare». Questa pretesa “teologia della secolarità”, in realtà, era un capitalismo religioso che aveva “secolarizzato” il dio del sistema, negando così il Dio-Altro, il Dio dei poveri e degli oppressi, il Dio di Israele e del fondatore del cristianesimo profetico, critico, del Vangelo. Siamo in presenza di un “principio generatore” di una nuova teologia. Anche la “morte di Dio” di Nietzsche può cadere in questo feticismo. Negando il “dio secolare” “Dio è morto!”, secolarizza la Modernità, come direbbe Max Weber; cioè, permette che questo “dio secolare” (l’Anti-Cristo, il feticcio, Moloch) continui dominando e vivendo del sangue degli sfruttati. Marx è molto più radicale (e più teologico) di quanto molti hanno immaginato. 7 Sobre la cuestión judía, II (ed. cit., p. 485; p. 372) [tr. it. cit., p. 203]. Vedremo nel paragrafo 4,1 che esattamente il tema si pone esattamente al livello dell’usura, secondo il testo del Deuteronomio che studieremo lì.
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v edremo, lungi dal negare razionalità al problema, “apre” un nuovo mondo teologico (TM). Marx, contro tutta la tradizione marxista e antimarxista, mette in pratica un metodo di critica religiosa che si pone nella più antica tradizione ebraico-cristiana, primitiva, quella dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali: [1] Lo Stato (o il capitale) [2] che si afferma cristiano (o il capitalista che si pone come cristiano, nella sua vita sabatica o domenicale, familiare, puritana, presbiteriana, calvinista, anglicana, cattolica, ecc.) (RF) [3] si opporrà alla propria “Sacra Scrittura” (ma presa adesso in senso “critico” (RC), [4] affinché si manifesti una “contraddizione” essenziale (contraddizione performativa, diremmo oggi) con se stesso (tra il suo dover essere cristiano [RC] e il suo essere reale quotidiano [RM]). Ancor più: Marx arriverà a descrivere questa contraddizione, da una parte, [5] mostrando che in realtà è una coscienza quotidiana feticista e bugiarda (opposizione tra RC e RF), cioè ipocrita8. In secondo luogo, [6] criticherà a partire dalla “purezza della sua coscienza religiosa” (RC), a partire da un “senso” critico (TM), la “religiosità feticista” che di fatto si afferma con gli atti (RM).
Marx effettua la “costruzione” positiva di una teologia negativa (è una “critica” teologico-religiosa) a partire dalla “Sacra Scrittura”, opposta controfatticamente alla vita quotidiana
8 Si osservi questa espressione: «Predica come necessaria la minorità; è l’adulazione che mette avanti Dio senza credere alla sua realtà, all’onnipotenza del bene; è infine l’egoismo per cui la salvezza privata è superiore alla salvezza del tutto» (Sobre la libertad de prensa, in OF, I, p. 207; MEW 1, p. 65) [tr. it., K. Marx- F. Engels, Opere complete, vol. I, cit., p. 168. Ci sono notevoli differenze tra la citazione di Dussel e la traduzione italiana. Notiamo che Heuchelei è tradotto in italiano con adulazione, ma è più corretta la traduzione spagnola con l’equivalente italiano di ipocrisia].
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f eticizzata. La critica religiosa di Marx (la freccia e9 che costituisce TM) è ciò che tentiamo di descrivere in questo capitolo 4 – ed è la tesi centrale di tutto questo libro. Solo per porci nell’epoca, desideriamo copiare un testo di Moses Hess, che si trova anche dentro la tradizione ebraica, sul denaro: Il denaro deve essere […] il vero tesoro dell’umanità. Se questo tesoro alienato corrispondesse realmente a quello interiore, ogni uomo varrebbe esattamente tanto, quanto denaro liquido o valore monetario possiede; e come la teologia conseguente giudica l’uomo dalla misura della sua ortodossia, così l’economia conseguente dovrebbe apprezzarlo solo secondo il peso del proprio sacco di denaro. Nella realtà però l’economia e così la teologia non si preoccupano affatto dell’uomo. L’economia politica è la scienza dell’acquisto dei beni sulla terra, così come la teologia è la scienza dell’acquisto dei beni celesti. Gli uomini non sono però dei beni! Gli uomini per l’economista “scientifico” puro e per il puro teologo non hanno affatto valore. […], queste scienze sacre (heiligen Wissenschaften).10
Vediamo quindi che i contemporanei di Marx, come lui stesso, si occupavano diffusamente del nostro tema.
9 In realtà, lo sviluppo critica di Marx è più complesso. Segue il cammino della freccia c dello schema 4.1 (critica dell’economia politica borghese a partire dalla “purezza” della religione critica), per riporre successivamente la questione nella realtà mondana (RM), seguendo la traiettoria della freccia d. E a partire da questa realtà mondana criticata (a partire dal vangelo puro e dalla scienza economica [che in realtà include anche EP]) si scopre l’occulto “dio secolare” della Teologia “metaforica” (TM): il “denaro” come feticcio, idolo, Mammone, Moloch, eccetera che è l’“essenza pratica (praktische Wesen)” (Sobre la cuestión judía, II, p. 485; p. 372) [tr. it. cit., p. 203]. 10 Art. citato: “Ueber das Geldwesen”, pp. 11-12 [tr. it., “L’essenza del denaro” in M. Hess, Filosofia e socialismo. Scritti 1841-1845, a cura di G. B. Vaccaro, Milella, Lecce 1988, p. 210].
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4.1. Morte del Deuteronomio 23,20-21: nascita del capitale Desideriamo adesso provare che Marx si pone dentro una tradizione antica, quella dei profeti di Israele, del cristianesimo primitivo e dei Padri della Chiesa, seguendo i teologi medievali e finendo nei primi riformatori (Lutero, Melantone, Zwingli). La rottura storica si realizzerà forse con Martin Buber (1491-1551) e certamente con Calvino (1509-1564)11. Il testo che, come una immensa diga, impediva alla Cristianità latino-germanica di rovesciarsi verso l’accumulazione gigantesca di ricchezza, era il seguente: Non farai al tuo fratello12 prestiti a interesse13, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presti a interesse. Allo straniero14 potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello (Deuteronomio 23,20-21).15
11 Non è strano che John Knox, il fondatore del presbiterianesimo in Scozia, si ispirasse a Calvino. L’economia politica borghese nascerà in questo contesto. Adam Smith, per esempio, presbiteriano, fu studioso nella scozzese Edimburgo. Anni fa abbiamo avuto il piacere di tenere una conferenza nella stessa “Hall”, nella quale J. Knox teneva le sue assemblee e abbiamo riflettuto sur place su tutti questi fatti. 12 In ebraico l’ahika, l’altro membro del clan o della tribù. 13 In ebraico neshek. In Israele aveva altri tipi di «interessi» (il marbith e il tarbith, per esempio, in Levitico 25,35-37). 14 In ebraico nokri; si deve distinguere da ger (che è lo straniero al quale si offre ospitalità). 15 Il 14 luglio 1976, dopo aver tenuto una conferenza all’Università Loyola di Chicago, alcuni alunni mi regalarono l’opera di B. Nelson, The Idea of Usury from Tribal Brotherhood to Universal Otherhood, Phoenix Book, University of Chicago Press, Chicago 1969). Ero proprio nella città dei “Chicago boys”, ebbene il resto di questo paragrafo sarà debitore di questo classico di Nelson. Si veda inoltre le opere di W. Sombart, The Jews and Modern Capitalism, The Free Press, Glencoe, Illinois, 1951; M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, Charles Scribner’s Sons, New York 1958.
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Questo testo di trova dentro La legge di Mosè (Deuteronomio 4,44-28,68). È il testo più prestigioso della Bibbia per gli ebrei. Occorre ricordarsi che il più importante e il primo dei comandamenti è una condanna dell’idolatria, del feticismo, al “No-Dio” e che si esprime così: Non avere altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo (Deuteronomio 5,7-8). Non seguirete altri dei (ivi, 6,14). Distruggerete completamente tutti i luoghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dei (ivi, 12,2).
Gli ebrei veneravano in tal maniera il loro Dio che non lo nominavano mai. Lo chiamavano Ashem (“il nome”, senza nome) con estremo rispetto. Una teologia ebraica, quindi, si occupa più di negare (teologia negativa) ciò che “non-è-Dio” che di affermare ciò che egli sia. Non è quindi affatto nuovo che la “teologia metaforica” di Marx sia negativa, frammentaria, implicita, ma esplicitamente anti-feticista. Tratterà del “non-Dio”: il capitale come l’AntiCristo. Su di questo torneremo dopo. Per adesso torniamo al nostro tema dell’interesse o dell’usura condannata riguardo al “fratello” e permessa con gli “estranei”. Gerolamo (340-420) e Ambrosio (340-397) iniziarono la tradizione occidentale sulla dottrina che esigere interesse, l’usura, è sempre peccato, dato che “tutti siamo fratelli” per il Nuovo Testamento (non ci sarebbero quindi “estranei” nella fratellanza universale)16.
16 Gerolamo, Commentario a Ezechiele, VI, 18 (Patrologia Latina, Migne, XXV, col. 176). Per l’ebreo Filone d’Alessandria, il “fratello” era solo “il figlio dello stesso padre, l’abitante dello stesso villaggio o della stessa tribù» (De virtutibus, XIV, 82). Ambrogio di Milano mostra che l’“usura” si debba equivalere al diritto di guerra, che si esercita sui vinti con la violenza; ma tale
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I carolingi promulgarono una proibizione generale tra i cristiani di caricare i prestiti di interessi usurai. Rabanus (784856)17 interpreta che il “fratello” è qualsiasi altro cattolico (e dato che nella Cristianità tutti lo erano, meno gli ebrei, di fatto era impossibile prestare ad interesse). Nell’epoca delle Crociate, dovuto alla crisi economica, si permisero alcuni prestiti ad interesse tra i cristiani, come nel caso di certi decreti di Innocenzo III (1198-1216). Nel frattempo, gli ebrei potevano prestare denaro ad interesse ai cristiani, perché già il Talmud lo permetteva. Ciò arricchì molti di loro – divenendo una delle cause dell’antisemitismo che si scatenava periodicamente nella Cristianità medievale. Per Pietro Lombardo (1100-1164), l’usura era “usurpazione illecita di qualcosa di un altro”, chiaramente condannata dalla legge di Mosè18. Per Tommaso d’Aquino (1225-1274) non c’era dubbio: Agli ebrei fu proibito di percepire l’usura “dai loro fratelli”, cioè dagli ebrei. Il che ci fa comprendere che percepire l’usura da un uomo qualsiasi è intrinsecamente peccaminoso (Summa Theol., II-II, q. 78, a. 1, ad 2).19
Questa dottrina arrivò fino all’epoca della Riforma in Germania. Lutero lanciò veementi condanne contro l’usura, che Marx copia largamente nei suoi Manoscritti del 61-63 (nelle Teorie sul plusvalore20). E Marx commenta:
diritto rimane non valido per il vangelo, perché tutti sono fratelli (De Tobia, XV, 51; Patrología Latina, Migne, XIV, col. 779). 17 Enarratio super Deuteronomium, III, 12; PL, CVIII, col. 934. 18 Liber Sententiarum, III, 37: PL, CXCII, col. 832. 19 [Tommaso d’Aquino, Somma teologica, ed. it. a cura di P. Tito S. Centi e P. Angelo Z. Belloni, Fiesole 2009; N.d.T.]. 20 Cfr. MEGA, II, 3, p. 1526; FCE, t. III, pp. 466 ss. [tr. it. cit., pp. 563 ss.].
185 Lutero è superiore a Proudhon. La differenza tra prestare e comprare non lo trae in inganno; in entrambi egli riconosce ugualmente l’usura.21
Marx si pone, come si può vedere, nella tradizione di Lutero. Ma, ciò di cui non sembra avere coscienza è quando si produsse il crollo dell’interpretazione tradizionale del Deuteronomio22. In effetti, sembra che Martin Bucer (nel suo Tractatus de usuris del 1550) comincio timidamente la nuova dottrina sull’usura23, ma si deve attribuire a Calvino, il riformatore di Ginevra, l’essersi opposto frontalmente alla dottrina teologica del denaro (contro Aristotele) e dell’usura (a partire almeno dal X secolo a.C., al tempo dell’origine della tradizione deuteronomica). Calvino fu il primo europeo che sfruttò l’ambivalenza del testo del Deuteronomio 23,20-21, al fine di permettere il poter pre-
21 Ivi, p. 1526; p. 466 [tr. it. cit., p. 564]. Marx copia un testo di Lutero che ci mostra bene il problema. Lutero esclama: «Quindici anni fa ho scritto contro l’usura […] Da allora si è così insuperbita che ora non vuol essere più nemmeno un vizio, un peccato o una vergogna, ma si fa esaltare come pura virtù e gloria, come se rendesse alla gente un grande atto di carità e un servizio cristiano […] Seneca parla con la ragione naturale: deest remedia locus, ubi, quae vitia fuerunt, mores fiunt» (Non può esservi rimedio laddove ciò che fu un vizio è diventato una abitudine) (ivi, p. 1532; pp. 470-471) [tr. it. cit., p. 569]. Come abbiamo visto, il religioso (RM dello schema 4.1) si trova coperto nei “costumi” (la Sittlichkeit di Hegel, il “mondo della vita quotidiana [Lebenswelt]»; il feticismo idolatrico, peccato, si è fatto l’abituale, il quotidiano. Il metodo di Marx consiste in prendere il quotidiano (RM) e dargli, a partire dalla critica (freccia e), un nuovo senso (TM). 22 Ha creduto che fosse il protestantesimo in Olanda ad avere iniziato la critica del Deuteronomio («Olanda. Prima apologia dell’usura. Lì anche modernizzata per prima, sottomessa al capitale produttivo o commerciale» [ivi, p. 1543; p. 472] [tr. it. cit., p. 570]). 23 G. Klingenburg, Das Verhältnis Calvins zu Butzer, pp. 22 ss. (cit. B. Nelson, n. 99, p. 68), indica che Bossuet (1627-1704) nel Traité de l’usure osserva che Bucer è all’origine di questa posizione.
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stare a interesse usuraio al “fratello”. Il suo argomento pretende di non negare la fraternità universale della morale cristiana, ma la pone dentro una coscienza individuale e con rispetto dell’utilità pubblica. In una risposta a Claude de Sachin, nel 154624, nei sermoni e nei commentari durante gli anni seguenti25, Calvino espone i suoi argomenti a favore del prestare con interesse usuraio al fratello dentro certi limiti di “giustizia e carità”. In primo luogo, Dio non poteva permettere agli ebrei di commettere un’ingiustizia, peccare, prestando con usura agli estranei. Piuttosto era un permesso di qualcosa che non conteneva peccato. In quanto fratelli dovevano favorirli – era un atto di carità, di aiuto, oltre il giusto e il permesso. Calvino, quindi, propone: La legge di Mosè (Deuteronomio 23) è politica, e non ci obbliga oltre l’equità e ciò che la ragione umana suggerisce. Certamente, sarebbe desiderabile che l’usura fosse estirpata da tutto il mondo. Però essendo impossibile, dobbiamo fare concessioni a favore dell’utilità comune (utilité commune).26
L’usura non è condannabile fin quando non «si oppone all’equità e alla carità»27. Durante due secoli si continuò a discutere del tema. La Chiesa romana accetterà la dottrina “moderna” distinguendo tra l’“interesse” (che è “permesso”) e l’“usura” (che è un vizio di eccesso). Sembrerebbe che il primo cattolico ad “aprire la porta” alla nuova interpretazione fu il gesuita Santiago Ledesma (1575), che giustificò questa posizione nella C ongregazione
24 Opera, X, 1 (CR, XXXVIII, 1), coll. 245-249. 25 In B. Nelson, op. cit., nota 5, p. 75, ci sono numerose citazioni al riguardo. 26 Opera, X, 1 (CR, 38, 1), col. 246. Calvino, tuttavia, in altri testi si oppone all’usura (Opera, XL [CR, 68], coll. 425-433, o in ivi, 31 [CR, 49], coll. 147148). 27 Opera X, 1 (Cr, 38, 1) col. 249.
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Generale del 1573, sempre e quando non fosse l’interesse maggiore del 5%, e se non si prestava ai poveri. A partire dalla sua posizione, un altro gesuita, Francisco de Toledo (15321596), fonderà definitivamente la posizione cattolica28. L’esigenza etica del Deuteronomio 23,20-21 era morta! Il capitale poteva nascere. La morale cristiana europeo-moderna (la religione feticista, RF dello schema 4.1) si era regolata per cancellare un’esigenza che ha avuto vigenza per venticinque secoli. Si deve porre Marx, con ragioni completamente nuove (con categorie “scientifiche” – se si comprende ciò che “scienza” significa per lui)29 – nella antica tradizione ebreo-cristiana che Calvino cominciò ad abbandonare, cioè che iniziò il suo rovesciamento. Marx, nello spirito del Deuteronomio, molto probabilmente senza averne coscienza, scrive nella sua teologia “metaforica” – il cui senso analizzeremo nel paragrafo seguente: Nella forma del capitale produttivo d’interesse […] il capitale come la fonte misteriosa che da se stessa crea30 […] L’interesse appare ora al contrario come il frutto vero e proprio del capitale […] Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine […] È appunto il fatto che l’interesse è cresciuto dentro al capitale monetario come a una cosa […] ciò che più di tutto preoccupa Lutero nelle sue ingenue filippiche contro l’usura. […] Moloch.31 28 Theologiae Cursus completus, Migne, XVI, col. 1016. 29 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 14. 30 Sul significato di “fonte (Quelle)” e non di “fondamento (Grund)”, e “creatrice (schöpferische)” cfr. la mia opera El último Marx (1863-1882), capp. 9 e 10. È qui dove Marx coincide con la tradizione che Maimonide chiamava della “filosofia creazionista” (degli ebrei, cristiani e islamici), che tanto orrore generava in Nietzsche. 31 Dalla terza redazione de Il capitale, Libro III, Manoscritto principale (1864-1865) che è stato pubblicato da Engels, con modificazioni, ne Il capi-
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Una volta che si può accumulare denaro, senza contraddire la morale cristiana vigente (Rf dello schema 4.1), grazie all’usura permessa, sotto il nome di interesse, siamo in un nuovo momento storico. Lo “stato di natura” primitiva ha lasciato spazio a un nuovo o secondo “stato di natura”, a partire dall’esistenza del denaro e della “accumulazione” (lo stock, cioè il capitale). Hobbes è uno degli incaricati a cominciare ad esprimere la questione a partire da certi “modelli” convenientemente idealizzati. Questi “modelli” – le cosiddette da Marx “robinsonate”32 – non sono altro che la proiezione, per astrazione, della realtà esistente; cioè Hobbes parla di uno “stato di natura” che non è altro che la stessa realtà capitalista nascente, esistente, proiettata astrattamente come “natura” umana astorica, eterna. In realtà è un modello della cosiddetta “società di mercato possessivo”33, sotto la presenza onnicomprensiva della Provvidenza Divina34, dove l’egoismo dell’interesse proprio coincide con l’amore del prossimo e con il bene comune, cioè una gigantesca operazione teologica (il cui prodotto è la “religione feticista”: Rf dello schema 4.1). Dopo una lettura attenta delle diverse opere politiche di Hobbes, possiamo concludere che il suo “modello” include tale, III, cap. 24 (Siglo XXI, III/7, pp. 500-507; MEW 25, pp. 405-410) [tr. it. cit., pp. 542-547]. 32 El Capital, I, cap. 1.4 (1873) (Siglo XXI, I/1, p. 93; MEGA, II, 6, p. 107) [tr. it. cit., p. 93]: «la economia politica predilige le robinsonate». Marx indica esattamente questa manipolazione ideologica dei “modelli” teorici convenientemente manipolati con apparenza di “scienza”. 33 Cfr. C. B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism, Oxford University Press, Oxford 1977, pp. 53 ss. 34 Cfr. l’opera di H. Assmann - F. Hinkelammert, A Idolatria do Mercado. Ensaio sobre Economia e Teologia, Vozes, São Paulo 1989, cap. 2: “Economia: O ocultamento dos pressupostos” (pp. 114 ss.); specialmente: “O ocultamento maior: o da teologia subjacente” (pp. 171 ss.). E nel cap. 3, specialmente: “O modo peculiar de incorporação da moral (e da teologia) na economia do mercado” (pp. 218 ss.).
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i seguenti momenti, come quello che risponde allo “stato di natura”, sostituito dal “contratto” che sussume e porta al suo termine definitivamente questo “stato di natura”: a) Non c’è una distribuzione obbligatoria del lavoro; b) Non c’è una provvisione obbligatoria del necessario per lavorare; c) c’è una definizione e una garanzia dei contratti da parte dell’autorità; d) ogni individuo cerca razionalmente di massimizzare i propri profitti; e) ciascuna capacità individuale di lavoro è proprietà privata ed è alienabile (vendibile); f) la terra e le sue risorse sono proprietà di individui e sono alienabili (vendibili); g) alcuni individui desiderano un maggior livello di profitto o hanno maggiore potere per raggiungerlo; h) alcuni individui hanno maggiore energia, capacità o ricchezze che altri.35
Questo “modello” si imporrà rapidamente, poiché accentandolo come se fosse l’espressione della natura umana, fu in realtà la migliore espressione di una società inglese che cominciava ad organizzare tutta la sua esistenza intorno al “mercato”, alla “concorrenza” (competition o Konkurrenz): al nascente mercato capitalista a partire dal mercantilismo dello scambio e dell’usura. John Locke sarà colui che svilupperà questo modello con una classica chiarezza. Il suo “modello” è quello dell’individualismo, che consacra la santità della proprietà, dentro un utilitarismo cristiano esplicito. All’origine Dio creò tutti gli uomini uguali: Dando il mondo in comune a tutto il genere umano (the World in common to all Mankind), Dio prescrisse all’uomo anche il lavoro. Dio e la ragione lo spingevano a sottomettere la terra, cioè a migliorarla a vantaggio della propria vita.36
35 C. B. Macpherson, op. cit., pp. 53-54. 36 Second Treatise, sect. 32 [tr. it. di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 74].
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Questo è il primo “stato di natura”. In esso, ciascun lavoratore possiede, come proprietà, il frutto del suo lavoro e la terra da lui occupata. Quando si introduce il denaro37 si stabilisce un secondo “stato di natura” – come sosteneva Hobbes. Con il denaro si può ottenere uno stock (accumulazione), e con ciò si distinguono due momenti. Nel primo momento di questo secondo “stato di natura”, alcuni si appropriano della terra e la lavorano, accumulano denaro. Altri sono viziosi, non lavoratori, e non riescono ad accumulare ricchezza; cioè, in un secondo momento di questo secondo “stato di natura” scopriamo quindi che alcuni, i ricchi, possono comprare il lavoro degli altri, poiché gli altri, i poveri, devono vendere il loro lavoro. Tutto questo come “punto di partenza” naturale, voluto da Dio. Questo lo esprime, in eguale maniera, il fondatore dell’economia politica moderna, Adam Smith: In questa situazione [stato di natura], l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore […] Non appena i fondi (stock) si sono accumulati nelle mani di singole persone, alcune di loro li impiegheranno naturalmente nel mettere al lavoro gente operosa.38
Il primo “stato di natura” sarebbe come lo “stato d’innocenza” del paradiso terreno (prima del peccato). Il secondo “stato di natura”, dove c’è accumulazione di denaro (stock), capitale 37 «[…] since there is Land enough in the World to suffice double the Inhabitants had not the Invention of Money, and the tacit agreement of Men to put a value on it, introduced larger Possessions and a Right to them» (Second Treatise, sect. 36) [«V’è terra bastante per sostentare un numero d’abitanti doppio dell’attuale, se l’invenzione della moneta e la tacita convenzione onde gli uomini le attribuiscono un valore non avesse introdotto, per comune consenso, possedimenti più ampi, e creato il diritto su di essi» (tr. it. cit., p. 78)]. 38 Investigación sobre el origen y causas de la riqueza de las naciones, Lib. I, cap. 6, FCE, México 1958, p. 47 [tr. it. di F. Bartoli, C. Camporesi e S. Caruso, Indagine sull’origine e la causa della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano 1973, pp. 49-50].
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monetario – che per Smith continua ad essere uno stato di natura o di innocenza senza peccato, cioè un certo pelagianesimo –, sarebbe per Marx lo stato dell’uomo attuale, quello del “peccato originale” (in questo punto, Marx non sarà pelagiano, bensì più agostiniano o luterano, ma con grandi differenze, come vedremo nel paragrafo 4.4). Qui tutta l’importanza si fonda nell’avere superato la restrizione del Deuteronomio 23,20-21. Una volta che prestare denaro ad interesse (l’antica “usura”) non è più proibito, passò poco a poco ad essere parte della vigente “natura delle cose”. Non solo l’accumulazione era possibile (questione essenziale per il mercato nazionale capitalista nascente, dove tutto il denaro o tesoro esistente poteva circolare in tutto il mercato nazionale e uscire da “sotto il materasso” dell’ebreo prestatore del Medioevo feudale e anti-urbano), bensì che adesso il frutto di questo prestito a interesse: l’accumulazione di denaro che aumenta e si deposita (stock: deposito), diviene un momento dello “stato di natura” umano, universale, eterno, creato da Dio. E, in effetti, questo Dio che ha creato così l’uomo, adesso lo dirige “provvidenzialmente” ai suoi fini, alla piena concorrenza naturale del mercato. È la “mano invisibile di Dio”39 che sacralizza la “concorrenza” nel “mercato”, e la trasforma in un campo teologico eccezionale: Siccome quindi ogni individuo si sforza, nella misura del possibile, di impiegare il suo capitale a sostegno dell’attività produttiva nazionale, e di dirigere quindi tale attività in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo opera necessariamente per rendere il reddito annuo della società il massimo possibile. In effetti egli non intende, in genere, perseguire l’interesse pubblico, né è consapevole della misura in cui lo sta perseguendo. Quando preferisce il sostegno dell’attività produttiva del suo paese invece di quella
39 Smith usa due volte questa espressione ne The Theory of Moral Sentiments, IV, I, 10, e la citeremo in continuazione.
192 straniera, egli mira solo alla propria sicurezza e, quando dirige tale attività in modo tale che il suo proprio prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile (invisible Hand), in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo.40
Questo testo ci fa conoscere lo sfondo teologico della costituzione dell’economia borghese. Si tratta della concezione dell’universo e della vita umana come è retta da Dio, alla maniera di un orologio (e pertanto Dio come orologiaio) che è esattamente regolato come lo proponeva Leibniz. L’armonia cosmica e umana era stata la dottrina del logos stoico, di Epitteto, di Marco Aurelio o di Cicerone. Essi parlarono già della “Mano invisibile di Giove”. Adam Smith indica la questione sotto il nome di Dio come “the great Superintendent of the Universe”, o come “all-wise Architect and Conductor”41. Questo mostra che era necessario creare tutta un’argomentazione teologica fondamentale. Spiegare come Dio, con la sua “Mano invisibile”, poteva convertire l’egoismo, l’usura, la lotta di “tutti contro tutti” della concorrenza del mercato (già spiegata da Hobbes antropologicamente con quel homo homini lupus), in un’opera virtuosa, buona, giusta. In questo senso Giambattista Vico aveva già anticipato, quando scrisse: La ferocia, l’usura e l’orgoglio – i tre vizi che portano gli uomini alla perdizione – si trasformano tuttavia in difesa nazio-
40 The Wealth of Nations, IV, II, 9, Penguin Books, Harmondsworth 1985 (Fondo de Cultura Económica, México 1984, p. 402) [tr. it. di F. Bartoli, Isedi, Milano 1973, p. 444]. 41 The Theory of Moral Sentiments, VII, II, 1.
193 nale, del commercio e della politica, e in questa maniera producono la forza, la ricchezza e la sapienza delle repubbliche. Da questi tre vizi […] la società fa sorgere la felicità. Questo principio prova l’esistenza della Divina provvidenza; per opera delle sue leggi intelligenti, le passioni degli uomini integralmente occupati nella ricerca dei propri vantaggi privati si trasformano in un ordine civile che permette agli uomini di vivere nella società umana.42
Alla stessa maniera il grande etico della presbiteriana Edimburgo, Adam Smith, scrisse: È in questo modo che gli interessi privati e le passioni private degli individui li dispongono naturalmente a indirizzare i loro fondi verso gli impieghi che in situazioni ordinarie sono più vantaggiosi per la società. […] Perciò senza alcun intervento della legge, gli interessi privati e le passioni private degli uomini li inducono naturalmente a dividere e a distribuire i fondi di ogni società tra tutti i diversi impieghi che vi sono effettuati, avvicinandosi il più possibile alla proporzione più conveniente all’interesse dell’intera società.43
In effetti, Adam Smith doveva organizzare tutto l’“ethos” borghese come manifestazione dell’essenza etica del vangelo. Così la “benevolenza”44, la “simpatia”45, le virtù cardinali, eccetera. Si trattava di mostrare che, come in un sistema morale alla maniera di Newton (applicando quindi le leggi quasi-fisiche, per cui di “natura e cause” della ricchezza delle nazioni) tutto rimaneva ordinata oggettivamente e soggettivamente (dalle
42 Citazione da Sobre la religión, cit., p. 147. 43 The Wealth of Nations, cit., pp. 594 ss. [tr. it. cit., pp. 622-623]. 44 Cfr., sulla “benevolenza” in Adam Smith, l’opera di A. Th. van Leeuwen, De Nacht van het Kapitaal. Door het oerwoud van de economie naar de bronnen van de burgerlijke religie, SUN, Nijmegen 1984, pp. 65 ss. 45 Ivi, pp. 68 ss. E sulle altre virtù fino alla p. 130.
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passioni, sentimenti e virtù) come una grande “macchina economica” architettata da Dio, in maniera necessaria. Tutto rimaneva così preparato, teoricamente e teologicamente per poter riprodurre ideologicamente il sistema46. Marx si trovava, realizzando la critica dell’economia politica borghese, davanti a questa orchestrazione teologico-economica, e l’affronterà con le stesse risorse, benché lo faccia “metaforicamente”, poiché ironizzerà in molti casi su queste costruzioni “teologiche”.
4.2. Teologia “metaforica” o “metafora” teologica Molti si sono accorti che lo stile della lingua che Marx usa ha caratteri di grande personalità47. La sua lingua “economica” contiene continue interferenze “poetiche” – potremmo chia46 Milton Friedman parla ancora oggi di “Eguaglianza davanti a Dio” nella quale nasciamo (Libertad de elegir. Hacia un nuevo liberalismo económico, 5; ed. cast., Grijalbo, Barcelona 1980, p. 186 ss.) [tr. it. di L. Basile, Liberi di scegliere, Longanesi, Milano 1981, pp. 130 ss.], ma, alla fine, manifesta la sua posizione volendo spiegare l’origine delle disuguaglianze: «Il caso determina il tipo di famiglia e di ambiente culturale in cui siamo nati e, di conseguenza, le nostre opportunità […] Il caso determina anche altre risorse che possiamo ereditare dai genitori» (p. 41) [tr. it. cit., p. 26]. L’economista liberale non avverte che, benché il caso possa determinare la nostra classe, concretamente, non perciò ci è impedito, per esempio, di analizzare teoricamente l’origine di questa classe nella storia. In realtà, in nome del caso si propone un’irrazionalità completa all’insieme del mercato e dell’economia. 47 Sul tema in: L. Silva, El estilo literario de Marx, Siglo XXI, México 1971, specialmente: “Le grandi metafore di Marx” (pp. 59-91) [tr. it. di A. Pescetto, Bompiani, Milano 1973, pp. 45-74]; F. Mehring, Karl Marx como hombre, pensador y revolucionario, ed. cast., Crítica, Barcelona 1976, sul tema “Karl Marx y la alegoría” (pp. 63-68). Si è avvertito che un “colorito religioso (religiösen Kolorit)” tinge tutta la lingua di Marx, Kadenbach, Das Religionsverständnis von Karl Marx, cit., p. 216). La tesi di R. Buchbinder, già citata,
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mare così tutte loro. Ciò che desideriamo provare è che le “metafore” poetiche del suo discorso economico-politico non solo “aprono un mondo” – e questo ha grande rilevanza, come mostra Paul Ricouer48, ma, inoltre, “costruisce” parallelamente al discorso scientifico, un altro discorso, un “discorso teologico”, che prenderemo in considerazione seriamente e del quale descriveremo la logica (RC dello schema 4.1), il suo contenuto (TM), la sua attualità in America latina e nel mondo capitalista dopo la “caduta del muro di Berlino” (e, ancora, e non senza un certo spirito umoristico, mostreremo che le posizioni teologiche di Marx sono coerenti ed accettabili per una “ortodossia” critica, da un punto di vista cristiano serio, positivo, tanto protestante quanto cattolico); cioè, e sarà la nostra conclusione, Marx fu oggettivamente, frammentariamente, implicitamente un “teologo”, non fu formalmente un teologo, né per la sua coscienza né per la sua attività, ma ha aperto un nuovo spazio teologico, lo ha ricorso coerentemente solo con metafore, senza per questo affermare, come tenta di fare il mio amico José Porfirio Miranda49, che sarebbe un credente
dedica tutto un paragrafo su “Lingua y estilo en Marx” (pp. 45 ss.), dove si citano numerosi autori che hanno studiato la metafora in Marx. 48 Cfr. La Métaphore vive, Seuil, Paris 1975 [tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1981]. 49 El cristianismo de Marx, Edición privada, México 1978 (in traduzione inglese: Marx against Marxism). Non si devono dimenticate le sue opere tra di esse: Marx y la Biblia. Crítica a la filosofía de la opresión, Edición privada, México 1971. La nostra opera di differenzia da quella di Miranda, che apprezziamo molto, su un punto. Desideriamo descrivere il discorso oggettivo prodotto da Marx nei suoi “testi”. Difficilmente si potrà negare ciò che dimostreremo, poiché si fonda sul testo esistente di Marx; ma, inoltre ed essenzialmente, sulla logica del pensiero definitivo di Marx che abbiamo lungamente commentato, riga per riga, in quattro opere precedenti: El cuaderno histórico tecnológico (Londres 1851), Universidad de Puebla, Puebla 1983; La producción teórica de Marx, Siglo XXI, México 1985; Hacia un Marx desconocido, Siglo XXI, México 1988 e El último Marx, Siglo XXI,
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(dimensione “soggettiva” della quale non ci occuperemo qui, per ragioni di metodo). A differenza di coloro che studiano la questione della “metafora” solo come momento del discorso poetico, qui considereremo nel “discorso dell’economia politica” (SC dello schema 4.1) le “metafore poetiche” che Marx si permetterà di creare su temi religiosi (“metafore teologiche”), e che devono porsi dentro una “critica religiosa” (“critica teologica”), tanto del mondo quotidiano capitalista (freccia e dello schema 4.1; di RC verso RM e TM), come dell’economia politica stessa (i cui autori si affermano ovviamente come cristiani o ebrei, a partire dal presbiteriano Smith, dell’ebreo Ricardo o dell’anglicano Malthus) (in questo caso, la suddetta critica rovescia la direzione della freccia d, attraversando RM e costituendo TM: una teologia metaforica). Osserviamo come Marx scrive ne Il capitale, I: A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia [RM]. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici [TM]. […] Non appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente soprasensibile. […] Sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.50
Questo è un buon esempio dello stile del “gioco di linguaggio” di Marx. La metafora attraversa tutto il suo discorso, a volte con senso “teologico” (come quello di “oggetto indemoniato”),
México 1990. Non è, quindi, come si dice nella strada, un “battesimo” di Marx (cooptare Marx alla tradizione cristiana feticista), al contrario, è scoprire in Marx un aspetto essenziale del suo compito critico finora in gran parte trascurato. 50 Ed. 1873, cap. 1,4 (Siglo XXI, t. I/1, p. 87; MEGA, II, 6, p. 102) [tr. it. cit., pp. 86-87. Dussel riporta una traduzione di sehr vertacktes come “indemoniato”, in italiano è riportata la traduzione “imbrogliatissimo”; N.d.T.].
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altre meramente “poetico” (come quello “la sua testa di legno”). In generale non è dato al tema l’importanza che merita. Paul Ricouer indica che nella metafora «il discorso dispiega la sua denotazione come fosse una denotazione di secondo grado, a favore della sospensione della denotazione di primo grado»51. Si sospende quindi il discorso “economico politico” e si dispiega un “altro discorso” (il teologico), di secondo grado, sovrapposto al primo. Il senso letterale economico non occulta l’“enunciato metaforico” che denota un “altro mondo”. Si tratta di un messaggio con “doppio senso” – raddoppiato lo chiamerebbe Roman Jakobson; “doppia referenza”52. Oggetto “indemoniato” o “feticizzato” rimettono al mondo religioso (livello I), ma anche al mondo quotidiano (livello II, di RM, e implicitamente TM), e anche all’economico-politico (livello SC, e criticamente EP). Il linguaggio puramente economico è denotativo; il metaforico è connotativo di una nuova denotazione. Vuole scoprire il senso della connotazione metaforica in maniera letterale o con il senso denotativo economico non può se non portare al totale fallimento (e in questo Marx non è stato compreso dalla tradizione marxista). È un compito impossibile. Non si tratta di una “visione diretta”, bensì, come indica Marcus Hester, è un “vedere come se”53. La metafora “trasferisce” il senso letterale (per esempio l’economico) dalla referenza di un mondo, al senso metaforico di un altro mondo (il teologico):
51 P. Ricouer, op. cit., p. 279 [tr. it. cit., p. 291]. 52 Sulla “referenza”, cfr. G. Frege, “Ueber Sinn und Bedeutung”, in «Zeitschrift über Philosophie und philosophische Kritik», 100 (1892); E. Benveniste, «La forme et le sens dans le langage», in Le Langage. Actes du XIIIe Congrès des Sociétés de Philosophie de Langue Française, La Baconnière, Neuchâtel 1967 53 Cfr. The Meaning of Poetic Metaphor, Mouton, La Haya 1967.
198 La metafora sviluppa la sua capacità di riorganizzare la visione delle cose quando si tratta di un intero “regno” che viene trasposto; per esempio i suoni [adesso l’economico] nell’ordine visivo [adesso il teologico]; parlare di sonorità di una pittura [o della merce indemoniata] […] Il punto che ci interessa è questo: l’organizzazione messa in atto nel regno straniero [teologico per noi] si trova ad essere guidata dall’uso che l’intera rete aveva nel suo regno d’origine [economico].54
Questo è di somma importanza. Il discorso economico politico (livello SC) guiderà la logica del discorso teologico che la metafora “apre” (che dal livello di RC, attraverso la freccia e, si dirige verso RM e TM), e sempre in Marx come critica dell’economia (invertendo in questo caso la direzione della freccia b: da SC verso RF). Data l’educazione nella famiglia religiosa di Marx fin dall’infanzia, e per l’influenza che Hegel, Bauer, Feuerbach, eccetera esercitarono su di lui, Marx sa fare questa critica. La metafora non ha la funzione della “prova” scientifica, bensì della “logica della scoperta”, come nella proposta suggerita da Max Black55 (“far ricorso al modello, significa interpretare le regole di corrispondenza in termini di estensione del linguaggio proprio dell’osservazione, mediante l’uso metaforico»56). Si “scopre” ciò che è già presente e attuale nel mondo originario del transfert: Questo transfert da un campo referenziale [economico] ad un altro [teologico] suppone che questo campo sia già in qualche modo presente, in maniera non articolata, e che eserciti una attrazione sul senso già costituito per strapparlo al suo primo ancoraggio […] Abbiamo, così, l’incontro di due energie: l’effetto gravitazionale che il campo di referenza seconda [il teo54 P. Ricoeur, op. cit., p. 297 [tr. it. cit., p. 311]. 55 Models and Metaphors, Cornell University Press, Ithaca 1962. 56 P. Ricoeur, op. cit., p. 305 [tr. it. cit., p. 319].
199 logico] esercita sul significato […] di origine [l’economico nel nostro caso] […]. È compito dell’intenzione semantica che anima l’enunciazione metaforica mettere in rapporto queste due energie, al fine di inscrivere nella sfera di influenza del secondo campo di referenza al quale si rapporta, una potenziale semantica a sua volta in via di superamento [del primo mondo, quello economico].57
La metafora nega il senso quotidiano e allo stesso tempo afferma un nuovo mondo. Che «il capitale sia un feticcio» si può non accettare, poiché il capitale è solo valore economico, valore che si valorizza, eccetera (tanto al livello SC come al RM). Ma, allo stesso tempo, alla luce del discorso religioso critico (il livello RC), o del discorso “biblico”, questo enunciato si può accettare, poiché il capitale conserva tutte le caratteristiche degli idoli così come li descrivevano i profeti di Israele o Debrosses nel XVIII secolo; è come Mammone del Nuovo Testamento, o come i feticci degli antropofagi africani (il nuovo senso teologico in TM); cioè, enuncia qualcosa di inedito che si “scontra” con il senso quotidiano (RM) e apre un nuovo campo semantico (TM) che non è passato in Marx in maniera
57 Ivi, p. 379 [tr. it. cit., pp. 395-396]; cioè, tutta la ricchezza dell’analisi economica di Marx, da un punto di vista semantico, può adesso rovesciarsi nell’orizzonte teologico. Dire che al capitale «secondo le sue leggi innate gli appartiene tutto il pluslavoro che il genere umano potrà ancora produrre. Moloch» (El Capital, III, cap. 24; III/7, p. 507; MEW 25, p. 410) [tr. it. cit., p. 547], avendo citato due pagine prima le veementi predicazioni di Lutero sull’usura, ci suggerisce tutto ciò che ci indica Ricouer. Il “senso” del discorso economico arricchisce e potenzia il “senso” del nuovo discorso teologico “aperto” (“scoperto”). Ma anche l’energia del secondo dà maggiore forza al primo, e, non dimenticare, l’origine della metafora era esattamente di proporre un discorso teologico che mostri la “contraddizione” tra il livello empirico economico (livello RM) o scientifico (SC, dell’economia politica borghese e cristiana) e il discorso della “Bibbia” (livello RC).
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speculativa (cioè, non “costruisce” una teologia affermativa), poiché non era questo il suo compito58. Questo discorso “metaforico”, che apriva il cammino a una teologia speculativa futura, si originava nell’economia politica critica (livello EP), si ispirava nelle “massime del vangelo” (livello Rc, non avendo importanza in questo caso se Marx aveva o no coscienza soggettiva di un’affermazione religiosa crescente), ed era una critica del livello empirico quotidiano, apparentemente profano (RM). Questa “teologia metaforica” esplicita di Marx, come scoperta del mondo quotidiano (livello RM) come “feticizzato” o “indemoniato” (livello TM), costituiva una nuova “interpretazione” (per mediazione di un’azione “ermeneutica”) di carattere tanto peculiare che, benché abbia richiamato l’attenzione, non fu mai descritto con precisione e rispetto. La nostra ipotesi è che la teologia metaforica di Marx ha aperto l’orizzonte della Teologia della Liberazione che oggi si pratica in America latina, in maniera che la critica facile contro la Teologia della Liberazione, a causa del suo essere marxista, rimane adesso a confrontarsi con il suo rovesciamento: la teologia metaforica di Marx è stata coerente con la più antica e autentica tradizione ebraico-cristiana nei punti che ha sviluppato e secondo la logica della sua strategia argomentativa? 58 Ricordiamo che ciò che si trattava era, esattamente, di produrre “una dolorosa contraddizione” confrontando “le parole della Sacra Scrittura” con la realtà (dello Stato “cristiano” o del capitale dei “cristiani”); le «massime del vangelo a cui non solo non obbedisce, bensì a cui non può neanche obbedire» (testo citato nella nora 1); è una struttura “pretesamente” cristiana. Era un mostrare la contraddizione tra il livello RF e quello RC (la “critica” si effettua in maniera “metaforica”, freccia e). Per questo richiama l’attenzione che Ricouer scriva: «È sorprendente come Marx abbia grande difficoltà a pensare questo rapporto in altri termini che non siano metaforici: metafora del capovolgimento dell’immagine retinica, metafora della testa e dei piedi» (Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, Seuil, Paris 1986, p. 320) [tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1994, p. 309]. Questo è ignorare giustamente la ricca funzione della metafora in Marx.
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4.3. Dalla “logica” del capitale alla “logica” simbolica della metafora teologica Se l’“energia” per parlare come Ricouer – del primo discorso, l’economico, si proietta sul secondo, il teologico, sarà conveniente, in primo luogo, considerare la “logica” del discorso di Marx nell’economia critica (livello EP) così come egli la mise in pratica e, in secondo luogo, comprendere ermeneuticamente il senso delle metafore teologiche come “sistema” (non come meri esempi sciolti, discordanti, come “salti”, livello TM), bensì a partire da una “logica” che si manifesta come una teologia speculativa in potentia. Abbiamo già esposto in un’altra opera la “logica” de Il capitale di Marx59. Desideriamo qui riassumere schematicamente il tema, riorganizzando il materiale in altra maniera al fine della sua comparazione con la teologia “metaforica”. Schema 4.2. La “logica” de Il capitale.
(5)
CAPITALE (capitalista)
LAVORO VIVO (1)
valore merce plusvalore (2)
(6) accumulazione (Lib. I) riproduzione (Lib. II) distribuzione (Lib. III) (3)
LAVORO MORTO O OGGETTIVITÀ: POTERE - FETICCIO (4) Sacrificio (Opfer)
59 Cfr. la mia opera El último Marx (1863-1882), capp. 9 e 10, dove si tratta estensivamente il tema.
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A partire dai Manoscritti del 44 fino agli ultimi manoscritti dei libri II o III de Il capitale alla fine degli anni Settanta, Marx sostiene – e non senza influenza di Moses Hess60 – che la vita umana, il lavoro, il lavoro vivo (livello 1 dello schema 4.2) si “aliena” (in terminologia precoce ed hegeliana), si “oggettiva” (nel vocabolario definitivo), si “materializza” nel prodotto. Nel capitalismo, il prodotto come prodotto (che denominiamo la “produttività”61) contiene come determinazione prodotta dal lavoro, quantitativa-qualitativa, il valore di scambio (livello 2), che è la “vita oggettivata” (Marx usa spesso la “metafora” biblica del “sangue”, come “coagulo”, come vita “coagulata”, “cristallizzata”). Questo valore, come plusvalore, si “accumula”: “ritorna poi al fondamento” (direbbe Hegel); si realizza come capitale. In questo momento, per Marx, ciò che era vita “soggettiva” nel lavoratore (nella persona come fonte creatrice) diventa adesso un momento “oggettivo” di un “Potere” (Macht) (il “Feticcio”) che si autonomizza dalla sua sostanza62 originaria. Questo “Potere” autonomizzato, feticizzato, ritorna nuovamente sul lavoro (freccia 5, dello schema 4.2), diventa adesso la sua oggettivazione come merce (livello 2), la quale, dopo aver continuato il processo della circolazione, “ritorna poi al fonda60 Hess invia a Marx a Parigi, alla fine del 1843 o all’inizio del 1844, il suo articolo “Ueber das Geldwesen” (che sarà pubblicato dopo nei «Rheinischer Jahrbücher zur gesellschaftlichen Reform», I [1845], pp. 1-34), dove si parla chiaramente del tema dell’alienazione: «Quel che Dio rappresenta per la vita teorica, lo rappresenta il denaro per la vita pratica del mondo capovolto (verkehrten Welt): l’alienata facoltà (entäusserte Vermögen) dell’uomo, la sua attività vitale mercanteggiata» (ivi, p. 2) [tr. it. cit., p. 209]. Per Hess, il denaro è l’“essenza alienata (Wesen entäussern) dell’uomo (Cfr. Philosophische und sozialistische Schriften, 1837-1850, Cornu-Mönke, Berlin 1961, p. XLIV). Questo ha dovuto influenzare l’interpretazione di Marx ne La questione ebraica, parte II. 61 Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, pp. 124-128. 62 Se si ricorda che, per Marx, a partire da Hegel, nella Logica, II, 3, la “sostanza” è la “causa” cosico-reale di un “effetto”.
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mento” per la riproduzione (livello 3). Nuovamente questo “ritorno” è affermazione del “Potere”, adesso anche più autonomizzato (grazie alla riproduzione “ampliata”). Il capitale adesso ha la virtù di produrre le condizioni della propria riproduzione. Infine, il valore, come plusvalore (livello 2), diviene profitto, in un terzo circolo, mediando il prezzo nel mercato, grazie alla concorrenza (dividendo il profitto industriale in interesse, in profitto commerciale e rendita), per, alla fine, rovesciarsi nuovamente nel capitale, ma come distribuzione delle “entrate” nelle diverse classi (la capitalista accumulerà in forma riproduttiva i profitti, il lavoro riceverà soltanto il salario) (livello 3, come una spirale crescente). Questo “movimento” dialettico è la “logica” astratta del processo metodico delle categorie e dello stesso capitale. Non spetta adesso mostrare, dentro una teoria del feticismo come teologia “metaforica”, come questa “logica” ha una struttura sacrificale, liturgica, cultuale, “sacramentale”63, religiosa – e non stiamo parlando degli scritti della gioventù di Marx, bensì del momento definitivo de Il capitale. “Culto” significa “offrire” qualcosa in sacrificio all’Assoluto, a Dio, al divino. Il “movimento” economico delle categorie in quanto oggettivazione del lavoro vivo sarà “metaforicamente” ricostituito nella logica teologica di Marx come “olocausto” o “sacrificio” (livello 4 dello schema 4.2). Sarà un senso teologico “nuovo” (livello TM o EP dello schema 4.1) non più quello della volgare quotidianità (livello RM o SC dello schema 4.1). il sacrificio della vita si accumula, è sottratto alla circolazione della vita (o del valore) come appropriazione del Feticcio: come
63 Engels cita l’opera di Rouard de Card, De la falsification des substances sacramentelles (Paris 1856), in El Capital, I, 1873 (cap. 8,3, nota 76; I/1, p. 299; MEW 23, p. 264) [tr. it. cit., p. 301], quando dice: «Neppure il buon Dio sfugge a questo destino».
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il vampiro che “succhia” (altra metafora) il sangue (freccia 6 dello schema 4.2): «in realtà il suo vampiro non lascia la presa “finché c’è un muscolo, un tendine, una goccia di sangue da sfruttare”»64 – adesso la metafora engelsiana, che Marx cita, è di antropofagia, nuova dimensione del feticismo. Per questo, l’oggettivazione della vita che non ritorna alla sua fonte creatrice è “morte” per il lavoro vivo: L’appropriazione si presenta come estraniazione, l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio (Aufopferung) della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere (Macht) estraneo.65
In una teologia biblica (abbiamo analizzato questa struttura in altri saggi66) il tema si può esporre approssimativamente nella seguente maniera. Questa teologia usa “simboli” (che anche Marx introdurrà continuamente e metaforicamente nel suo discorso economico). I momenti centrali di questa struttura simbolica biblica (livello RM) sono “pane” (= carne), “vino” (= sangue), “vita”-“morte”, “fame” (come bisogno)-“mangiare” (come soddisfacimento), “mano”-“lavoro” (in ebraico habodah)“terra” (quella che si lavora), “sacrificio” (anche habodah come διακονία in greco)-“comunità”, ecc. Feuerbach scrive, alla 64 El Capital, I, 1873, cap. 8, fin (I/1, p. 364; MEGA, II, 6, p. 302) [tr. it. cit., pp. 366-367]. 65 Manuscritos del 44; OF, I, p. 605; MEW, EB 1, p. 522 [tr. it. cit., p. 86]. 66 Cfr. il prossimo capitolo, o nella mia opera Etica comunitaria, Paulinas, Madrid-Buenos Aires 1985 (con traduzione in inglese, tedesco, ecc.), §§ 1-6 ss. (sul pane e l’eucarestia). Da anni andiamo applicando in teologia la “struttura” eucaristica de Il capitale di Marx, senza averlo mostrato esplicitamente. Solo adesso affrontiamo il tema esplicitamente per la prima volta. Devo dire, inoltre, che l’opera sopra indicata (Etica comunitaria) è, né più né meno, la teologia dei Grundrisse di Marx (aspetto che nessuno di coloro che hanno realizzato recensioni del libro hanno avvertito, e da lì i malintesi che, tuttavia, non ho potuto evitare e che si verificarono nel passato).
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fine dell’Essenza del cristianesimo: «Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen»67. Non è affatto strano, allora, che Marx sviluppi una demonologia. Non dobbiamo dimenticare che Il capitale ha come riferimento rovesciato, la Logica di Hegel. Questa fu, come abbiamo visto nelle Parole preliminari, il punto di vista di “Dio prima della creazione”. Marx, da parte sua (e con molte varianti, applica questa teodicea al capitale, e non può che risultarne una anti-teodicea, una “demonologia” – la questione che rimane in piedi è se non fu una demonologia anche la teodicea che Hegel espose nella Logica. Lo spirito critico del pietismo di Wittemberg anti-luterano e apocalittico, risuona ancora in Marx. Nel prossimo capitolo ci estenderemo ancora di più che nel seguente paragrafo su esempi dell’uso biblico che stanno alla base delle metafore teologiche di Marx, questione alla quale ci rimettiamo fin da ora.
4.4. Il “peccato originale” come “relazione sociale” nell’opera di Marx Vediamo adesso come Marx usa metaforicamente la logica di una struttura simbolico-biblica in maniera esplicita e coerente. Per mostrare questo aspetto, che è passato spesso non percepito, cominceremo la nostra esposizione da una questione del tutto tradizionale: l’argomento del “peccato originale”68.
67 Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart 1960, t. 6, p. 335 [tr. it. di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 288]. 68 Cfr. M. Puder, “Marx und Engels als konservative Denker”, in G.-K. Kaltenbrunner (ed.), Rekonstruktion des Konservatismus, Verlag Rombach,
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Il pietismo tedesco è ottimista, liberale, attivo. Ha una posizione positiva davanti al peccato originale (non può accettare facilmente il simul justus et peccator del luteranesimo ufficiale). La natura umana non è originariamente perversa, né rimane impresso nella sua struttura naturale (antropologica, biologica, pre-storica) l’effetto del peccato di Adamo. Alla stessa maniera è noto che per Hegel l’errore morale (il peccato) è l’affermazione della particolarità che si ferma e si ostina nel non rovesciarsi nell’universalità69. Marx, da parte sua, non potrebbe ammettere una determinazione astorica del male. Per questo pone come storico questo “male originario”70, quando scrive con molta precisione: Freiburg 1972, pp. 427-442; A. Rich, Die kryptoreligiösen Motive in den Frühschriften von Karl Marx, Doktorarbeit, Berlin 1966; E. Lämmerzahl, Der Sündenfall in der Philosophie des deutschen Idealismus, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1934; W. Trillhaas, “Felix culpa. Zur Deutung der Geschichte vom Sündenfall bei Hegel”, in H. W. Wolff (ed.), Gerhard von Rad zum 70. Geburtstag, Kaiser, München 1971, pp. 589-602; R. Buchbinder, op. cit, pp. 130 ss. 69 Per una discussione sul tema, cfr. la mia opera Para una ética de la liberación latinoamericana, §§ 21-22; ed. cast., 1973, t. II, pp. 22 ss. Lì studiamo la posizione di Kant e di Hegel a partire dal punto di vista di una etica della liberazione. Plotino aveva scritto che «la materia è dunque causa, per l’anima, di debolezza e di malvagità. Essa è infatti anzitutto cattiva e il primo male (πρῶτον καχόν)» (Enneadi I, 8, 14) [tr. it. di G. Faggin]. Hegel, da parte sua, spiega che «l’origine del male (der Ursprung des Bösen) in generale risiede nel mistero, cioè nel tratto speculativo della Libertà: la Libertà ha infatti la necessità di venire fuori dalla naturalità della volontà e di interiorizzarsi opponendosi a essa. A determinarsi ulteriormente come il Male è appunto questa naturalità della volontà, la quale, in quella opposizione, perviene all’esistenza come autocontraddizione e come incompatibile con se stessa, ed è così particolarità (Besonderheit) della volontà stessa» (Lineamenti di filosofia del diritto, § 139) [tr. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1998, p. 265]. 70 Abbiamo descritto la storicità del “male originario” come la “relazione sociale” di dominio nella quale storicamente ogni soggettività è costituita (esatta e adeguata definizione del peccato originale, nella linea di Origine che indicava che era il frutto di una παιδεία), nella mia opera Etica comunita-
207 Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo, la teologia spiega l’origine del male (den Ursprung des Bösen) col peccato originale (Südenfall), cioè presuppone come un fatto (Faktum), in forma storica, ciò che deve spiegare.71
Marx con tutta ragione (e in “ragione” di una buona e antica teologia), esige che si pensi in maniera storica e più profonda il tema che stiamo trattando; cioè, ponendolo nella storia reale (non solo come racconto mitico). In effetti: Bastiat produce invece storia fantastica, […] proprio come il teologo tratta i peccati (Sünde) talvolta come legge della natura umana, talaltra come storia della caduta del peccato. Entrambi sono dunque ugualmente astorici e antistorici.72
Qualcuno potrebbe pensare che questo è inevitabile – che il “mito adamico” (come lo chiama Paul Ricouer nella sua opera La symbolique du mal) non può essere se non a-storico e antistorico. Tuttavia, in buona teologia, non è così. Si può perfettamente pensare che il “naturale” di una soggettività umana è l’essere nato come sempre “in” una determinata “relazione sociale” di dominio, di peccato (e sarebbe una corretta, profonda e rinnovata maniera di pensare la questione). Per questo, la “metafora” teologica nel discorso economico de Il capitale su questo tema, lungi dall’essere una semplice “battuta”, espressione di umore, ha il maggiore significato teologico:
ria, capp. 2-3 particolarmente (in relazione al capitolo 12, dove mostriamo il capitale come una struttura originaria e condizionante del peccato, perfettamente in consonanza con la più antica tradizione dei Padri della Chiesa – che Marx apprezza e nomina con molto rispetto – e Tommaso d’Aquino). 71 Manuscrito del 44, I, XXI (MEW, EB 1, p. 511; Alianza, p. 105) [tr. it. cit., pp. 70-71]. 72 Grundrisse; p. 848 (ed. ted.); III, p. 97 (ed. cast.) [tr. it. cit., p. 1033].
208 Nell’economia politica [EP dello schema 4.1] quest’accumulazione originaria (ursprüngliche) fa all’incirca (ungefähr) la stessa parte del peccato originale (Sündenfall) nella teologia [TM]. Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto73 del passato. C’era una volta, in un’età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare. […] Così è accaduto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle [Locke]. E questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente.74
Da entrambi le parti – tra marxisti e teologi – queste riflessioni non sono mai state prese sul serio. Ebbene, Marx sta ponendo ai teologi un problema reale e con senso – ed egli stesso sta indicando una nuova maniera “teologica” di pensare la questione. In effetti, la “naturalità” (nel senso di Agostino, o del luteranesimo ortodosso tedesco, per il quale è un peccato che tocca la “natura” umana) di tale “peccato” può in maniera innovatrice, dal punto di vista teologico, porsi perfettamente nella storia (come relazione sociale “strutturale” che si eredita nel tempo e nello spazio, e che “costituisce” la soggettività
73 Marx prese come “aneddoto” il “racconto mitico” di Adamo; in questo punto “sospettava” che Adamo non fosse una persona storica, ma ciò che non “sospettava” era che si trattasse di una “figura razionale” dentro un “racconto mitico” con senso. Marx è stato ampiamente superato, in questo punto, dall’esegesi biblica contemporanea. 74 El Capital, I, 1873, cap. 24; MEGA, II, 6, p. 644; 1/3, pp. 891-892 [tr. it. cit., pp. 879-880]. Qui Marx si sta riferendo più a John Locke che al testo del Genesi, come colui che reiventa (rovesciandolo) il racconto mitico di Adamo.
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umana a partire dalla sua “nascita” = “natura” viene da natus: nato); non come un fatto storico puntuale, bensì come relazioni sociali istituzionali storiche che ci precedono, come presupposto a priori. Inoltre, e come secondo aspetto, nell’edizione francese de Il capitale c’è un’aggiunta al testo che abbiamo copiato prima: La storia del peccato teologale (péché théologal) ci mostra, veramente, che l’uomo fu condannato dal Signore a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, mentre quella del peccato economico (péché économique) ha purtroppo [scrive ironicamente Marx] un vuoto, rivelandoci che ci sono uomini che sfuggono a questo ordine del Signore.75
Si potrebbe nuovamente prendere la metafora di Marx come una suggestione comica, però, in realtà ciò che sta dicendo è che il testo mitico adamico – nel senso di Paul Ricouer: narrazione razionale in base a simboli – è in realtà più critico che la stessa economia politica capitalistica (per esempio quella di Adam Smith)76. Si tratta, quindi, della scoperta di un nuovo “senso” teologico (si passa da RM a TM o da SC a EP del75 Edizione francese di J. Roy, Paris 1875, p. 314. 76 Abbiamo già visto, nel testo di Smith citato nella nota 35, che lo “stato di natura”, per questo economista, include già il dominio del capitalista sul salariato. Interessante nell’interpretazione di Marx è che potrebbe essere perfettamente sostenuta da un teologo critico ortodosso, con due annotazioni. In primo luogo, che non è necessario che ci sia un tempo storico così come “in tempi molto remoti” (ne Il capitale); in secondo luogo, che questo “stato di natura” – tanto in Smith come in Genesi – deve essere considerato come un orizzonte a partire dal quale si costituisce la “comprensione” della struttura di un peccato costitutivo della “natura” storico-sociale di ogni p ersona umana. Nascere come dominatore (sia schiavista, feudale, capitalista o nella burocrazia socialista reale) è essere “nato (natus)” nella “relazione di peccato”; è essere soggetto attivo, per eredità sociale, di una “relazione” dove si gioca la funzione del peccatore. È un “peccato originario” e “originante”. Marx vuole indicare che il “peccato originale” può essere storificato socialmente: e ha perfettamente ragione da uno stretto livello teologico speculativo.
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lo schema 4.1); cioè, per il cristianesimo vigente (RF dello schema 4.1) l’accumulazione originaria non ha nessun senso teologico (RM o SC), come per l’ebreo che praticava quotidianamente da domenica a venerdì (o il cristiano da lunedì a sabato). Per Marx, invece, e partendo dal “vangelo” puro (RC), il semplice fatto dell’accumulazione (RM o SC) assume nuovo senso teologico (per la critica: freccia e o c): il capitale è il modo del peccato originale (TM o EP) della nostra epoca77, come relazione sociale a priori di dominio. Uno, il ricco, “già” ha denaro (accumulazione originaria); l’altro “già” è povero, prima (l’a priori del peccato strutturale) di celebrare un contratto di salariato; cioè, a partire da Hobbes, Locke o Smith (e nel nostro tempo un John Rawls), lo “stato di natura” (o “situazione originale”) includeva un male storico che non si scopriva come tale (la “natura” era buona, come per Pelagio); per Marx, invece, questo “stato di natura” era già storicamente perverso: aveva un peccato originale, storico (non è il “peccato originale”, di ogni buona e seria teologia, un fatto storico, non puntuale, bensì a priori e strutturale?). In effetti, Marx rileva che, a causa del peccato, il lavoro si trasforma in “castigo” – citando Genesi 3,17-19. Si questo punto polemizza con Adam Smith, quando scrive: Lavorerai con il sudore della tua fronte! Fu la maledizione che Geova fece pesare sulle spalle di Adamo. E così, come maledi-
77 Diciamo della “nostra” epoca, perché nell’età schiavista era lo schiavismo, o nel feudalesimo la relazione feudale. Sono le modalità “storiche” (i “modi-del-nascere”) in cui si manifesta il peccato originale che, benché abbia struttura permanente: relazione persona-a-persona di dominio, si manifesta in ciascuna epoca sotto una determinazione specifica. Marx conduce così la teologia a scoprire un nuovo metodo “teologico”, ponendo adeguatamente il locum (luogo) “teologico” per eccellenza: la vita quotidiana con le sue strutture sociali invisibili ma ovvie (la “Selbstverständlichkeit” della “Lebenswelt” di Husserl).
211 zione, A. Smith concepisce il lavoro. Il “riposo” figura come lo stato adeguato, che si identifica con la “libertà” e la “felicità”.78
Che lo schiavo, il servo feudale, l’operaio salariato, o il lavoratore in una società pianificata senza partecipazione democratica, lavorino contro la loro volontà, come un “lavoro forzato”79, è anche frutto del “peccato originale” o, per Marx, della “relazione sociale” di dominio che fa sì che il lavoratore non controlli democraticamente il frutto del suo lavoro80; è un “castigo”, un “sacrificio”, benché il sacrificio o castigo non è causa creatrice di nessun valore, bensì solo il lavoro come tale, essendo l’attività della soggettività umana, della persona e come espressione della propria dignità. Ancora si dovrebbe ricordare un ultimo aspetto. Quello della conoscenza del bene e del male (Genesi 3,5-7: “E si aprirono gli occhi di tutti”): Anzi, anche soltanto le nazioni? E l’albero del peccato non è allo stesso tempo l’albero della conoscenza, fin dai tempi di Adamo?81
Marx indica, come commento a questo riferimento del “mito adamico”, che Mandeville, definendo il male come origine dell’“ordine sociale”, è più onesto che molti “apologisti filistei”. La riflessione di Marx, quindi, può avere una volta ancora un’inattesa attualità teologica: l’“ordine sociale” vigente
78 Grundrisse, ed. ted., p. 504-505; ed. cast., II, p. 119 [tr. it. cit., p. 609]. 79 Ivi, p. 505; II, p. 119 [tr. it. cit., p. 610. Nella traduzione italiana è lavoro coercitivo esterno]. 80 Come abbiamo citato più sopra: «La vitalità come sacrificio (Aufopferung) della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere (Macht) estraneo» (Manuscrito II del 44, in OF, I, p. 605; MEW, EB 1, p. 522) [tr. it. cit., p. 86]. 81 Manuscritos del 61-63; ed. cast. Teorías sobre la plusvalía, cit., t. I, p. 361; MEGA, II, 3, p. 283 [tr. it. cit., p. 325].
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e ingiusto, in effetti, ha il “peccato originale” (una relazione sociale ereditata storicamente) come origine. La questione, nuovamente, è più essenziale di quanto si possa credere a prima vista. Si potrebbe anche annotare che, per Marx, il valore come vita oggettivata del lavoratore) è “lavoro morto”, “capitale morto”. È questa “morte” (quella del povero, del lavoratore) è il frutto del peccato come “relazione sociale”82, storica strutturale, presupposta come la condizione di possibilità di ogni altro agire concreto: si opera “a partire dalla” posizione che si eredita nella relazione di dominio (mentre non la si sovverte individualmente o in modo rivoluzionario).
4.5. La “demonologia”: la Bestia apocalittica come AntiCristo Già abbiamo indicato il conosciuto testo che Marx cita ne Il capitale, I, capitolo 1 (dell’edizione del 1867; capitolo 2 del 1873): l’Apocalisse 17,13 e 13,1783 – che Engels ricorda nel suo lavoro su questa opera84 – dove si può nuovamente osservare che 82 Cfr. nella mia opera Etica comunitaria, cap. 2.6-2.8: la questione del peccato “ereditato” nella relazione con la “morte” del giusto (non del peccatore), in quanto sfruttato, alienato. 83 Questo testo, nel latino della Vulgata cattolica, appare almeno quattro volte: nei Grundrisse (ed. cast., I, p. 173; ed. ted., p. 148 [tr. it. cit., p. 179]; e in III, p. 144; p. 889 [tr. it. cit., p. 1078]; e in III, p. 153; p. 895 [tr. it. cit., p. 1085]), e ne El Capital (I/1, p. 106; MEGA, II, 6, pp. 115-116 [tr. it. cit., p. 106]). Marx cita l’Apocalisse in relazione al Timone di Atene di Shakespeare, in riferimento all’oro, e che usa, da parte sua, spesso (per esempio in Manuscritos del 44, in MEW, EB 1, p. 564 [tr. it. cit., p. 152]; in El Capital, I, 1/1, p. 161; MEGA, II, 6, p. 154; e in MEW 3, p. 212 [tr. it. cit., p. 160]). 84 Scrive Engels: «Questa crisi è la grande lotta finale tra Dio e l’“anticristo”, come altri l’hanno chiamato. I capitoli decisivi sono il 13 e il 17. Lasciando
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la “metafora” apre, a partire dalla considerazione economico- politica del denaro, il “mondo” teologico del demonio. Questo è l’essenziale e che dobbiamo chiarire dall’inizio. Per Marx, il denaro (l’inizio) e il capitale (definitivamente) è il demonio, l’Anti-Cristo, il “Signore del Mondo”. Quando Marx lascia la Germania, ancora come piccolo borghese critico, scrive: È vero, il vecchio mondo appartiene al filisteo. Ma noi non dobbiamo trattarlo come uno spauracchio dal quale si torce via timorosamente lo sguardo. Al contrario, dobbiamo fissarlo direttamente negli occhi. Vale la pena studiare85 questo signore del mondo (Herrn der Welt). Senza dubbio, signore del mondo lo è unicamente in quanto lo riempie con la sua società (Gesellschaft), così come i vermi86 un cadavere.87
Il “demonio” non è soltanto una “cosa”, è una “società” (non una “comunità”), è il “Signore” del “Regno di questo mondo”, Signore di morte, dove si seppelliscono i morti. Per Marx il “peccato originale” era il peccato strutturale” che precede, determina, ciò che è presupposto e costituisce la soggettività individuale, che nasce sempre da un termine, da una “relazione sociale” di dominio – per esempio, signore libero/
da parte tutti gli ornamenti superflui, “Giovanni” vede una bestia che sorge dal mare» (ne El libro del Apocalipsis [1883]; ed. cast., Sobre la religión, cit., pp. 326-327) [tr. it. di F. Codino, in F. Engels, Sulle origini del cristianesimo, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 67]. Occorre rilevare che Engels richiama l’attenzione sui capitoli cabalistici 13 e 17, che sono quelli che Marx cita ne Il capitale. 85 Non sarà forse il frutto di questo studio Il capitale? 86 Qui si sta riferendo a quello che «Seguimi, lascia i morti seppellire i loro morti» (Matteo 8,22), del vecchio e del nuovo mondo: «Da parte nostra, dobbiamo portare interamente alla luce del giorno il vecchio mondo e creare positivamente il nuovo (neue) mondo» (Lettera di Marx a Ruge da Colonia, maggio 1843; OF, I, p. 450; in MEW 1, p. 343) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. I, cit., p. 153]. 87 Dalla stessa lettera, pp. 445-446; MEW 1, p. 338 [tr. it. cit., p. 148].
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schiavo, signore feudale/servo, capitalista/operaio salariato, burocrate/operaio senza partecipazione democratica nella pianificazione, ecc. (ma si potrebbe anche estendere a uomo/ donna, padre/figli, ecc.)88; cioè, il peccato originale, in realtà, si organizza come “Mondo”89, come il “Regno del Principe di questo Mondo”. Dalla sua adolescenza, Marx possedeva già un certo paradigma sulla questione di cui ci occupiamo, e che attraversa tutta la sua vita. Il Dio “lontano”, luterano ortodosso, si era trasformato nel Dio intimo del pietismo. Scrive nel suo tema di religione della maturità, come abbiamo già visto: Così l’unione con Cristo consiste nella più intima e vitale comunità (lebendigsten Gemeinschaft) con lui, nel fatto che lo abbiamo dinanzi agli occhi e nel cuore e, così compenetrati del supremo amore per lui, volgiamo insieme il cuore dei fratelli cui egli ci ha strettamente legato e per i quali si è pure sacrificato (geopfert).90
Come si può vedere, per Marx c’è una “comunità vitale” (di vita) il cui centro di espansione è Cristo; la vita di tutti, dell’individuo e dei suoi fratelli, il principio della praxis pietatis della “comunità” pietista, dipende dal fatto che Cristo è stato sacri-
88 Tutto ciò lo abbiamo sviluppato nella nostra Para una ética de la liberación latinoamericana, t. III, 1977; e specialmente in Etica comunitaria, capp. 2 e 3 (teologia sviluppata esplicitamente a partire dalla logica implicita nei Grundrisse). 89 Cfr. questo concetto nella mia Etica comunitaria, capp. 2 e 3. 90 «L’unione dei credenti con Cristo secondo Giovanni XV,1-14, esposta nel suo fondamento e nella sua essenza, nella sua incondizionata necessità e nei suoi effetti» (in Sobre la religión, cit., p. 41; MEW, EB 1, p. 600) [tr. it. cit., p. 734. Il termine tedesco Gemeinschaft, usato da Marx, si traduce sia “comunità” che “comunione”; Dussel preferisce la prima traduzione e in tal senso si è modificata la traduzione italiana].
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ficato91; cioè, Cristo è l’origine della vita che si espande per la sua generosità che si sacrifica, per il suo amore che si comunica a tutti. Questo paradigma positivo si trasformerà nell’economia politica nella comunità “di uomini liberi” (dai Grundrisse fino a Il capitale). Il paradigma negativo opposto, come contraddittorio, è la “società” (Gesellschaft) – non la “comunità” (Gemeinschaft) – di quegli individui isolati, solitari, senza comunità, la cui vita è aspirata, “succhiata” da un “Anti-Cristo” (il demonio, il feticcio, Moloch, Mammone, il “Signore del mondo”, eccetera) che vive della vita sacrificata del lavoratore. In questo caso non è Cristo che è donatore di vita alle persone individuali pienamente realizzate nella comunità. Adesso è l’Anti-Cristo che vive della vita sacrificata della società degli isolati: questo costituisce il “carattere sociale” del lavoro, delle persone, eccetera; cioè, la “relazione sociale” (nella quale consiste il capitale) è una “relazione” di dominio, di estrazione di vita, feticista, idolatrica. È un’adeguata definizione (in buona teologia protestante, e anche cattolica tradizionale) del demonio. Il fondatore del cristianesimo esclamava: Voi che avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio (Giovanni 8,44).
Nella Sacra Scrittura (livello RC dello schema 4.1), il demonio è padre della morte, fin dal tentatore di Caino o Adamo. La strategia argomentativa di Marx è, quindi, chiara: si tratta di porre in contraddizione il cristiano (capitalista nella vita quotidiana; livello RM dello schema 4.1) con il puro “vangelo” (del testo citato all’inizio di questo capitolo). Se qualcuno è capita-
91 Cfr. H. Assmann - F. Hinkelammert, A Idolatria do Mercado, cit., pp. 366367. Cristo non si suicida, né il padre sadico chiede il suo sacrificio. È il dominatore che lo sacrifica per ristabilire l’“ordine”.
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lista e cristiano – argomenta Marx –, e il capitale è il demonio, allora una delle due alternative: o questo cristiano si afferma capitalista e, quindi, nega la sua fede per adorare il demonio (a partire da una visione critico-cristiana), o respinge il demonio (e quindi smette di essere capitalista). Si tratta di una teologia negativa che indica ciò che “non-è-Dio” (= il demonio). Negare il “non-Dio” è il primo comandamento del Deuteronomio. Esponendo la questione dello “scambio” (e ispirandosi alla Filosofia del diritto di Hegel, nella questione del “Contratto”), quando arriva all’essenza del denaro (ispirandosi adesso a Moses Hess), scrive: Così essa diventa denaro. «Costoro hanno un medesimo consiglio: e daranno la lor potenza e podestà alla bestia. […] E che niuno potesse comperare o vendere, se non chi avesse il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome» (Apocalisse).92
La combinazione cabalistica (dapprima capitolo 17 e verso 13; dopo capitolo 13 e verso 17; ma entrambi i testi in riferimento alla “Bestia” e non al “Dragone”) mostra l’intenzione: si tratta del demonio visibile nella terra. Per l’autore dell’Apocalisse era Roma, cosiddetta metaforicamente Babilonia93 (la Bestia visibile e terrestre inviata dal Dragone, lo spirito maligno del “cielo”: invisibile). Il capitale è, quindi, la “Bestia” di questa età storica, l’incarnazione del Dragone, del demonio (o la manifestazione del demonio in questa età del mondo). Avremmo così l’innovatrice ipotesi di una “Storia mondiale delle figure del Demonio” (i sistemi storici di dominio). 92 Testo da Il capitale, I, 1, 2 (ed. 1873), già citato nella nota 41 [tr. it. cit., Libro I, cap. 2, p. 106]. 93 Cfr. quanto detto nella mia opera Etica comunitaria, cap. 3: “Il principio Babilonia” (questione che poniamo teologicamente, ma tenendo presente la posizione metaforica di Marx, che, d’altra parte, è la “chiave” di tutto questo nostro libretto, e per questo citiamo spesso l’Apocalisse di Giovanni).
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4.6. La “Cristologia” e la “Trinità” rovesciate Dobbiamo nuovamente ricordare che per il pietismo, di influenze apocalittiche gioachimite, l’Anti-Cristo (tanto il papismo e spesso gli stessi luterani) aveva pervertito il cristianesimo, rovesciandolo. Per questo, tale Potere appare visibilmente. Dobbiamo, quindi, adesso considerare le “manifestazioni” della “Bestia” apocalittica. In effetti, lo stesso capitolo de Il capitale che abbiamo citato nel paragrafo precedente, Marx scrive: Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra.94
Per Marx, la Bestia apocalittica, il demonio o la sua rivelazione storica il “Denaro”, l’incarnazione del Dragone (il “Cristo” rovesciato, in realtà l’“Anti-Cristo”), la “Trinità” (ma in realtà la Trinità “satanica”)95. Il capitale, la cui essenza è la valorizzazione del valore (invisibile, fondamentale, essenziale, come il Dragone), si manifesta, appare sotto tre “maschere”, “persone”, “personificazioni” (la Bestia): il profitto, la rendita e il salario. È una “Cristologia” satanica, una “Trinità” demoniaca (il “Denaro” chiamato “Cristo”, essendo l’“Anti-Cristo”), una satanalogia: questo è “metaforicamente” il Capitale, la più gigantesca teologia (accettabile per una buona teologia protestante, e anche cattolica) nei tempi moderni, teologia concreta, storica, del demonio:
94 El Capital, I/1, p. 104; p. 114 [tr. it. cit., p. 104]. Per Tommaso d’Aquino le persone della Trinità sono “relazioni sussistenti”. 95 Cfr. sulla “Trinità” in Adam Smith, nell’opera di Arend Th. van Leeuwen, De Nacht van het Kapitaal, cit., pp. 34-36, 45, 49, 50, 53, 56-57, 60-62. Su un modello trinitario, ivi, p. 734 ss.; su “La formula trinitaria”, cap. 12, pp. 522 ss.; sulla “Economia trinitaria”, cap. 14, pp. 622 ss.
218 Capitale-profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale.96
Abbiamo così la struttura della teologia “metaforica” di Marx, in quanto alla demonologia97. Schema 4.3. Invisibilità e visibilità della struttura teologico-metaforica. Livello essenziale profondo della produzione (invisibile) Livello superficiale della circolazione (visibile)
Processo di lavoro (altare del sacrificio)
Valore che si valorizza (il Dragone)
Incarnazione Denaro (Anti-Cristo, la Bestia) Possessore del denaro Lavoratore (pauper)
Essenza “una” della Trinità
Manifestazione Trinitaria
Profitto
Rendita Salario
(Cfr. gli schemi 12 e 15 della mia opera La producción teórica de Marx, pp. 119 e 161, con il presente schema). 96 Manuscrito principal, del Libro III, del 1864-1865; nel texto de Engels de El Capital, III, cap. 48 (III/8, p. 1037; MEW 25, p. 822) [tr. it. cit., p. 1095]. 97 Marx usa spesso il termine “incarnazione”: «L’incarnazione, immediatamente sociale, di tutto il lavoro umano» (El Capital, I, 1, cap. 3, 3, a; I/1, p. 162; MEGA, II, 6, p. 154) [tr. it. cit., p. 161]. Il “lavoro vivo” si oggettiva nel valore (lavoro oggettivato) e questo si incarna e si manifesta nella circolazione come denaro (capitale “come denaro”): il “Cristo falso” (l’Anti-Cristo).
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Marx si riferisce spesso al Denaro come se fosse Cristo. Questo, evidentemente, potrebbe far pensare che Marx una volta di più, adotta una posizione frontale anticristiana. Tuttavia, se si scopre la logica “metaforica” che stiamo sviluppando, si vede chiaramente che, in realtà, si sta riferendo all’“Anti- Cristo” (cioè, a un “Cristo”, o a un “Unto” demoniaco). Vediamo la questione più da vicino98. Moses Hess aveva scritto: Quel che Dio rappresenta per la vita teorica, lo rappresenta il denaro per la vita pratica del mondo capovolto: l’alienata (entäusserte) facoltà dell’uomo.99
Il Denaro è l’essenza come «un intermediario (vermittelndes) della propria alienazione»100. Esattamente, il denaro come “mediazione” (Vermittelung) o “intermediario” (Mittler), come “incarnazione” dell’oggettivazione alienata della vita umana è ciò di cui dobbiamo trattare qui. Il Denaro diviene una cosa sacra: Tutto viene sacrificato (geopfert) al godimento egoistico. Giacché, come tutto è alienabile contro denaro, tutto è però anche acquistabile con il denaro. […] Non esiste nulla di superiore, di sacro, ecc., dal momento che con il denaro ci si può appropriare di tutto. Le “res sacrae” e “religiosae” che possono essere “in nullius bonis”, “nec aestimationem recipere” […] che sono esenti dal “commercio hominum”, dinanzi al denaro non esistono, così come tutti sono uguali dinanzi a Dio.101
98 Cfr. Delekat, op. cit., p. 54; Künzli, op. cit., pp. 581-588; M. Hess, op. cit., 1961 e 1845 (Buchbinder, pp. 320 ss., 382 ss.). 99 “Ueber das Geldwesen”, in «Rheinische Jahrbücher zur gesellschaftlichen Reform», I (1845), p. 10 [tr. it. cit., p. 209]. 100 Ivi, p. 32 [tr. it. cit., p. 225. La citazione è riportata secondo quanto di più simile si è trovato nella traduzione italiana al testo citato da Dussel]. 101 Grundrisse; ed. cast., II, p. 405; ed. ted., p. 723 [tr. it. cit., p. 878]. Il testo che Marx sta citando è dalle Institutiones di Giustiniano, II, 1. Le “cose
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Il Denaro è il mediatore universale della circolazione (nelle distinte funzioni del denaro). Per il Marx della tappa giovanile, il mediatore è ciascun strato sociale; “metaforicamente” è “Cristo”: Come il principe si media con la società civile attraverso il potere governativo, suo Cristo, così la società si media con il principe attraverso gli stati, suoi preti.102
In altri testi, il mediatore è lo Stato, anche “Cristo”; scrive Marx: Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo. Come Cristo è il mediatore cui l’uomo attribuisce tutta la propria divinità, tutto il proprio pregiudizio religioso, così lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua nondivinità, tutta la sua umana assenza di pregiudizi.103
Ma ritornando adesso alla sua tappa economica definitiva (dal 1843 in avanti), ciò che disse sullo Stato si dirà, prima, sul Denaro, per successivamente attribuirlo al Capitale: Attraverso questo intermediario estraneo [fremden Mittler] l’uomo vede la sua volontà […]. Cristo rappresenta in origine: 1) gli uomini innanzi a Dio; 2) Dio per gli uomini; 3) gli uomini per l’uomo. Così il denaro [corsivo] rappresenta in origine, secondo il suo concetto: 1) la proprietà privata per la proprietà privata; 2) la società per la proprietà privata; 3) la proprietà privata per la società. Ma Cristo è il Dio alienato [corsivo] e l’uomo [corsivo] alienato. Dio ha ormai valore soltanto in sacre” non possono valutarsi, sono inestimabili. In certa maniera, il Denaro valuta tutto, ma è in se stesso come inestimabile: la misura che non può essere misurata quando si feticizza, cfr. El Capital, I, 1, cap. 3, 3, a; I/1, p. 161; MEGA, II, 6, p. 153: «A questa alchimia non resistono neppure le ossa dei santi e meno ancora altre meno rozze res sacro sanctae, extra commercium hominum» [tr. it. cit., p. 159]. 102 “Crítica de la Filosofía del Derecho del Estado” (OF, I, p. 398; MEW 1, p. 291) [tr. it. cit., p. 111]. 103 Sobre la cuestión judía, I (OF, I, p. 469; MEW 1, p. 353 [tr. it. cit., p. 182].
221 quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha valore in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il denaro.104
Questa concezione del “mediatore” (Mitter), che si ispira anche al Feuerbach dell’Essenza del cristianesimo, si deve intendere adesso nel suo senso metaforico dentro la logica che abbiamo mostrato. Si tratta di un “Cristo” feticizzato, che si interpone alla piena realizzazione della persona: in un “Cristo” satanico, un Anti-Cristo, come rovesciamento di quanto espresso nella lettera ai Filippesi 2,7: «ma spogliò se stesso105, assumendo la condizione di servo». Un Cristo-feticcio è quello la cui esistenza dipende dalla vita oggettivata della persona (che vive la sua vita), ma non è più il Cristo che si sacrifica per gli altri e che costituisce con loro la “più vivente comunità” – del 1835. È il suo completo rovesciamento: La ricchezza in quanto tale, cioè la ricchezza borghese, è espressa sempre alla massima potenza nel valore di scambio, dove essa è posta come mediatore (Vermittler) […]. Così nella sfera religiosa, Cristo, il mediatore tra Dio e l’uomo – semplice strumento di circolazione tra i due – diviene la loro unità, uomo-Dio –, e come tale più importante di Dio; i santi diventano più importanti di Cristo; i preti più importanti dei santi […] il capitale stesso in quanto mediatore tra produzione e circolazione […] Il denaro da mezzo si trasforma in fine (Mittel zum Zweck).106 104 Cuaderno de París de 1844, Extractos del libro de James Mills (OF, I, p. 523; MEW, EB 1, p. 446) [tr. it. in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 230-231]. 105 In greco κενοσις significa “spogliarsi”. Lutero lo tradusse con entäussert sich, da cui Hegel formulerà la sua dottrina cristologica dell’“alienazione” di Cristo. Cfr. l’opera di Hans Küng, Menschwerdung Gottes. Eine Einführung in Hegels Theologisches Denken als Prolegomena zu einer künftigen Christologie, Herder, Freiburg 1970. 106 Grundrisse (ed. cast., I, pp. 273-274; ed. ted., pp. 237-238) [tr. it. cit., p. 286]. Qui il riferimento a Kant è esplicito: la persona passa ad essere mezzo passa ad essere mezzo (cosa) della cosa che diventa fine.
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Adesso non è più lo Stato (come nel momento politico) né il Denaro (fino al 1857); adesso l’“Anti-Cristo” è il Capitale stesso, come mediatore universale del lavoro oggettivato, alienato: come alienazione della vita del lavoro vivo. È una mediazione che diviene più importante che la persona (si tratta, quindi, dell’inversione feticista) e si interpone con essa stessa come fine107. Questo “Cristo” (Anti-Cristo) è una “metafora” teologica molto frequente in Marx. Ciò che ci interessa, tuttavia, è porre questa metafora dentro la “logica” de Il capitale. Non si tratta di un Cristo dentro il paradigma di un donatore di vita che costituisce la comunicabilità della comunità; al contrario, si tratta di “qualcosa” che essendo una “mediazione (Vermittlung)” acquisisce un’entità propria che copre quello di cui è mediazione; alla stessa maniera, lo Stato, il Denaro e, da ultimo, il Capitale. È lo stesso feticcio, però in quanto mediazione, ma in quanto “mediazione” costituita come Assoluto, Fine come realtà autonoma. Altro aspetto del feticismo. Alla stessa maniera accade con la “Trinità” – nel suo senso metaforico satanico: l’“Anti-trinità” – come cominciamo a suggerire più sopra. Se il capitale come “Cristo” (“AntiCristo”) è la mediazione assolutizzata del mezzo che pone il proprio fine (la persona) come la sua mediazione, la “Trinità” (l’“Anti-trinità” satanica) è lo stesso capitale che si “manifesta” nella circolazione (nel “mondo fenomenico”) con le sue diverse “maschere”, “volti”, “persone”: come profitto, rendita e salario (e non appare nella sua “essenza” una: il valore che si valorizza).
107 Nell’edizione francese de Il capitale si scrive: «Nella religione, il mediatore eclissa Dio, per essere da parte sua, soppiantato dai sacerdoti, intermediari obbligati tra il buon pastore e le sue pecore» (Ed. de Le Capital [1872-1875], p. 331, nota 1 [traduzione mia, N.d.C.]).
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Il giovane Marx aveva già espresso il suo pensiero sulla Trinità – riferimento frequente nel corso di tutta la sua vita –, quando scrisse: Nulla-Nulla-Nulla, questo è il visibile concetto della Trinità (Dreieinigkeit).108
In un testo finale del Manoscritto del 63-65, scrive ancora: In capitale-profitto, o ancora meglio in capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, in questa trinità economica colleganti le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti […] Il grande merito dell’economia classica consiste nell’aver dissipato questa falsa apparenza […] questa personificazione (Personifizierung) delle cose e oggettivazione (Versachlichung) dei rapporti di produzione, questa religione della vita quotidiana (Religion des Alltagslebens).109
Per Marx, in realtà, ciò di cui si tratta è una “formula trinitaria”: il lavoro vivo si oggettiva nella produzione come valore (uno), il che appare nella circolazione come profitto, rendita o salario (tre), che sono le “fonti” delle entrate (del capitalista, del redditiere e del lavoratore). Per Adam Smith, invece, la “formula trinitaria” aveva coperto l’“unitaria”. Le “fonti” dell’entrata (revenue) erano “tre”, e, inoltre, fondavano il prezzo della merce sul mercato)110, e anche a partire dalle fonti delle entrate si deduceva il valore della merce (si andava così dal capitale verso il valore, in contraddizione con il movimento iniziale dell’Origine della ricchezza delle nazioni, che andava dal lavoro verso il valore ed essendo questo movi-
108 MEGA, 1,1, 2, p. 86. 109 Manuscrito principal del Libro III, nel testo di Engels, El Capital, III, 48 (III/8, p. 1056; MEW 25, p. 838) [tr. it. cit., p. 1115]. 110 Cfr. questa questione nella mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 7, pp. 126-136.
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mento senza contraddizione, e che sempre Marx intraprende, afferma un’interpretazione antropologica, etica e meta-fisica, nel suo senso critico). Marx fa frequentemente uso della metafora della Trinità (in realtà, nell’esempio, si tratterà di una Dualità), come quando indicando che il valore della merce si genera allo stesso che il plusvalore, scrive: Si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ed entrambi sono coetanei e costituiscono di fatto una sola persona111, poiché solo mediante il plusvalore di dieci sterline le cento sterline anticipate diventano capitale, e appena sono diventate capitale, appena è generato il figlio e, mediante il figlio, il padre, la loro distinzione torna a scomparire, ed entrambi sono uno, centodieci sterline.112
111 Qui Marx ha dovuto scrivere: “una sola natura”. 112 El Capital, I, cap. 4 (I/1, p. 189; MEGA, II, 6, p. 172 [tr. it. cit., p. 187]. Si deve indicare, inoltre, che per Marx c’è una “formula Duale” di valore, poiché appare nella circolazione come Denaro o come Merce, precedente alla formula trinitaria di profitto, rendita e salario. Inoltre, poco prima del testo citato, Marx scrive: «Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità [qui Marx sta citando il Vangelo di Giovanni, 4,23] denaro, sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturghi per far del denaro più denaro» (ibidem). Si riferisce al testo di Gesù quando dice: «La salvezza viene dagli Giudei», e all’atto “interiore” per il quale il “credente” (la “fede” feticista, per Marx qui, è la capacità di interpretare l’apparenza “merce” come identica all’apparenza “denaro”; in realtà, le due sono persone del valore, la natura Una del feticcio), che rende culto al Capitale in “spirito e verità”, scopre al di là dell’apparenza della semplice merce il suo Dio “occulto”: il denaro. Gesù dice: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità», cioè, lasciandosi ingannare dalle apparenze (la merce è denaro, e in ultimo termine valore che si valorizza, ma questa è la “natura [Wesen]” misteriosa invisibile). Sulla questione del “culto” torneremo nel prossimo capitolo. Marx produce, quindi, nuovamente il rovesciamento del testo del Vangelo.
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Tutto questo, in effetti, può essere preso come una mancanza completa di rispetto contro una religione positiva – in verità Marx non propendeva a prendere molte cose con falso rispetto –, ma a colui che stava opponendosi era una maniera superficiale di usare la Trinità per tutto, falsificandola, manipolandola. Questo era accaduto ad Adam Smith113. È certo che Marx è tornato allo spirito del Deuteronomio 23,20-21, ai Padri della Chiesa, alla più antica tradizione, ma a partire da un discorso scientifico dove ciascuna categoria va definendo la maniera in cui il “lavoro vivo”, la persona umana, si oggettiva nel valore e va transitando per i diversi momenti del nuovo feticcio, che richiama alla vita del lavoratore (poiché vive della sua morte). È ora di domandarci: chi è chi in questa storia?
113 Cfr. A. Th. van Leeuwen, De Nacht van het Kapitaal, cit., pp. 33 ss., dove mostra come a partire da presupposti teologici (tali come un Dio deista provvidenziale, non senza influenza del pensiero stoico, e anche leibniziano della predeterminazione e certamente calvinista), la “mano di Dio” regge necessariamente l’avvenire del commercio e del mercato, equilibrando i prezzi nella concorrenza e regolando l’apparente caos dell’economia borghese. Questo cercare in “Dio” il fondamento dell’economia, del mercato, è ciò che Marx sta trattando sarcasticamente con ironia – non solo contro gli ebrei, ma principalmente contro i cristiani, entrambi capitalisti. Quando questa opera era già molto avanti, arrivò nelle mie mani l’opera di Hugo Assmann - Franz Hinkelammert, A Idolatria do Mercado. Ensaio sobre Economia e Teologia, cit. (opera fondamentale per i nostri propositi).
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5. Il sacrificio cultuale al feticcio. Uso di testi biblici
Per iniziare questo capitolo, desideriamo toccare in primo luogo un tema che dà architettura all’interpretazione globale di Marx, ma che come tale è esercizio dell’attuale Teologia latinoamericana.
5.1. Teologia del “pane”: razionalità simbolica ebraico- cristiana Come Feuerbach mostrò compiutamente, nell’Essenza del cristianesimo1 c’è una relazione tra mangiare e bere e l’eucarestia: il pane consumato nel banchetto. Ciò che adesso dobbiamo mostrare è la relazione tra celebrazione rituale ed economia. In questo paragrafo 5.1, il nostro discorso diventerà, quindi, chiaramente teologico (positivamente teologico). Per farlo, prenderemo come punto di partenza il racconto che
1 Cfr. il cap. 7 su “Teologia ‘habermasiana’ ed economia”, dove abbiamo citato un testo chiave di Feuerbach nel quale si può vedere la maniera di porre in relazione l’economia con l’eucarestia.
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nella Storia delle Indie2 descrive Bartolomé de las Casas, riguardo alla sua conversione alla causa della giustizia nel 1514, a Cuba: Il chierico Bartolomé de las Casas – scrive autobiograficamente – andava ben occupato e ben sollecito nelle sue fattorie, come gli altri, inviando i suoi indios del suo dipartimento nelle miniere, ad estrarre oro e fare semine, e sfruttandoli quanto più poteva.
Arrivando Diego Velázquez alla Villa del Espíritu Santo, e dato che «non aveva in tutta l’isola chierico né frate», chiese a Bartolomé di celebrare l’eucarestia e di predicare il vangelo. Per questo Bartolomé si decise di «lasciare la sua casa che aveva sul fiume Arimao», e «cominciò a considerare se stesso a partire da alcune autorità della Sacra Scrittura». È importante il testo biblico che servì da punto di appoggio per la conversione profetica del grande lottatore del XVI secolo: La principale e prima fu quella del Siracide (Ben Sira) capitolo 34: “È sacrificare un figlio davanti a suo padre, togliere ai poveri per offrire sacrificio. Il pane è la vita del povero, chi lo ruba è omicida. Uccide il suo prossimo chi gli toglie il sostentamento, chi non paga il giusto salario sparge sangue”. Cominciò – continua Bartolomé – a considerare la miseria e la servitù che soffrivano quella gente [gli indios]. Applicando l’uno [il testo biblico] all’altro [la realtà economica caraibica], determinò in se stesso, convinto di quella stessa verità, di essere ingiusto e tirannico in tutto ciò che agli indios di questa India si commetteva.
Alla lettura del testo biblico Siracide – del secondo secolo prima di Cristo e come testimone di un gruppo sacerdotale ebreo antifeticista, scoperto nella sua versione ebraica nel XX secolo nelle grotte di Qumrán –, Bartolomé de las Casas cominciò 2 Si tratta del III libro, capitolo 79; BAE, Madrid 1961, pp. 356 ss. I testi che citeremo di seguito si trovano in questa edizione e in queste pagine.
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un’ininterrotta lotta per la giustizia che sostenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1566. Il testo del Siracide (Ben Sira), deuterocanonico, nel capitolo 34, versetti dal 18 al 22, ci servirà come riferimento per comprendere come una “struttura simbolica” possa coincidere con la “struttura teorica” di Marx. Il testo riletto da Bartolomé a Cuba esprimeva: «Il pane3 è la vita del povero». Nel Mediterraneo, cultura del grano, il “pane” è la realtà e il “simbolo” del prodotto del lavoro; cioè è il frutto primordiale del lavoro; cioè è il frutto primordiale della relazione persona-natura, del lavoro. Questa relazione si stabilisce nell’ordine produttivo (l’ordo delle factibilia)4, al quale si riferisce l’offertorio della liturgia cattolica, nel quale si offre il «pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo». Vediamo, quindi, i tre termini: terra, lavoro, pane. Questa relazione di persona-natura attraverso il lavoro è una relazione materiale. La terra diviene “materia” (nella quale e 3 Cfr. articolo άρτος (pane), Kittel, Theolog. Woerterbuch z. New. Testam., t. I, pp. 475-476 (bibliografia attualizzata in t. X/2, pp. 993, Behm). Inoltre si consulti: G. Lisowsky, Konkordanz zum hebraeischen Alten Testament, Wuertt. Bibelanstalt, Stuttgart 1958, art. lejem (pane), pp. 722-730; S. Mandelkern, Veteris Testamenti Concordantiae, Margolin, Leipzig 1925, art. lejem, ecc., pp. 637-638; habodah (lavoro), ecc., pp. 809-810; dam (sangue), p. 297, ecc.; E. Hatch - H. Redpath, A Concordance to Septuagint, Akad.-Verlagsanstalt, Graz 1975, art. άρτος (pane), t. I, pp. 160-161; W. F. Moulton - A. S. Ceden, A Concordance to the Greek New Testament, Ch. Schribner’s Sons, New York 1897, art. άρτος, pp. 109-110; A. Even-Shoshan, Nueva Concordancia de la Ley, Profetas y Escritos, Kiryath Sepher, Jerusalén 1981, art. lejem (297 volte), ecc., pp. 595-597, inoltre ranaj, palah, matsah, pat, ecc.; art. habodah, pp. 817-824, ecc. (come hebed, 799 volte); dam, pp. 266-268 (300 volte). 4 «Ordo autem quem ratio considerando facit in rebus exterioribus constitutis per rationem humanam, pertinet ad artes mechanicas» (Tommaso d’Aquino, In Ethic. Expos, I. 1, lect. 1, n. 2; Marietti, Genova 1949, p. 31) [Nel caso di cose esterne costituite dalla ragione umana, l’ordine prodotto dalla ragione dipende dalle arti meccaniche; N.d.C.].
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con la quale) di lavoro. Senza lavoro non c’è terra lavorata, c’è cosmo naturale, ma non c’è “materia [di lavoro]”. La “materia” (il materialismo sacramentale) è costituita ed è un a posteriori dell’a priori umano e soggettivo del lavoro. Il materialismo cosmologico staliniano («tutto è materia») è ingenuo e facilmente rifiutabile. Il materialismo produttivo è irrefutabile e sacramentale: la terra è materia “del lavoro”. Senza terra e lavoro non c’è pane. Senza pane non c’è eucarestia. Ma cosa è il pane? Schema 5.1. Circolo produttivo.
1. Persona, soggetto di bisogno
2. Lavoro (azione)
5. Vita, consumo
4. Pane, prodotto
3. Terra, materia di lavoro
Il pane è un pro-dotto, è quello che “avanza” (pro-) davanti alla vista (-dotto) come un fenomeno nel mondo5. È creazione umana; è continuazione della creazione divina. È esteriorizzazione, estraniazione, alienazione, materializzazione, cristallizzazione, oggettivazione della soggettività umana. È culturalizzazione della terra. È cultura, tecnica, tecnologia. Sono i prodotti che ci attorniano come sistema, come civilizzazione. In tutti i modi, questo “pane” è frutto di qualcosa di più degna che lo stesso pane: il lavoro. Nella Bibbia, il lavoro si tradu-
5 Cfr. la mia opera Filosofía de la producción, Nueva América, Bogotá 1984.
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ce con la parola habodah6. È lavoro manuale (ma anche è, come vedremo più avanti, il lavoro del tempio: è il “servizio” divino)7. Il “servo” (hebed8) di Yahveh è il “lavoratore” del Signore. Lavorano i profeti, i farisei, gli apostoli e lo stesso Gesù. Il lavoro è l’azione umana degna per eccellenza che oggettiva nella natura la dignità dell’essere umano. Senza lavoro, l’essere umano sarebbe una pura soggettività infeconda senza “pane” per il sacrificio: le sue mani sarebbero vuote. Il testo della conversione profetica di Bartolomé dice che «il pane è vita»9. Colui che è “altro” vive vita umana più che ogni altro; è libero; si autodetermina; è autonomo nella sua esistenza, la sua carnalità si mobilita per compiere i suoi fini, gode, si soddisfa, adora; come vivo rende culto al Dio vivo. La vita si oppone alla morte. Ogni bisogno è una morte certa (cfr. livello 1 dello schema 5.1). «Ebbi fame…» è il bisogno primario. La fame è una mancanza-di-alimento. Il pane è l’alimento per eccellenza; cioè, se il pane è prodotto del lavoro, ancor prima è esigenza di un bisogno: si produce pane perché si ha bisogno di mangiare. Il pane è prima alimento della vita che prodotto del lavoro (la relazione 1→5 è più fondamentale 6 Cfr. articolo ἔργον, TWNT, t. II, pp. 631-653 (Bibl., t. X/2, pp. 1084-1085), Bertam; e l’art. παῖς, t. V, pp. 636-712, di vari autori. È importante l’art. λατρεύω (rendere culto), t. IV, pp. 58-68, Bornkamm, mostra che il greco λατρεία e λατρεύειν indica l’ebraico habodah e habad (p. 59, riga 45; p. 61, righe 27-28). 7 Cfr. il mio articolo “Dominación-Liberación”, in «Concilium», 96 (1974), 6; “Praxis liberadora” (pp. 28 ss.). È suggestivo ricordare che λάτρις (da dove viene in greco il “culto”) significa “salario dell’operaio”; rendere culto è pagare il salario al lavoratore (Cfr. Kittel, TWNT, t. IV, p. 59). 8 Cfr. il mio articolo “Los poemas del Siervo de Yahveh”, in El humanismo semita, Eudeba, Buenos Aires 1969, appendice. 9 Cfr. articoli ζάο e ζωή, TWNT, t. II, pp. 834-840, e ϑάνατος, t. III, pp. 7-21, entrambi di Bultmann (Bib. Recente in X/2, pp. 1094-1095). La vita (jaiim) è il bene supremo (Proverbi 3,16; Marco 8,36).
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anche della relazione 2→4, dello schema 5.1). Il consumo (il “mangiare”) del prodotto è negazione della negazione: è uccidere la morte; è dare vita alla vita. «Ebbi fame e mi dettero da mangiare» è per questo, nella sua materialità sacramentale, il criterio assoluto dell’etica cristiana, del Giudizio Finale, o dell’eticità della praxis cristiana. Per questo, Gesù, dice, in senso eucaristico, e per questo produttivo: «Io sono il pane della vita» (Giovanni 6,35). Il pane che alimenta, prima di essere prodotto (il manà era un “pane del cielo”10, e per questo un dono gratuito pre-economico di Dio: pane senza lavoro), è soddisfacente, è godimento, è vita, è già il Regno di Dio realizzato11. Il “mangiare” («prendete, mangiate, questo è il mio corpo»: Matteo 26,26) è distruggere il pane, spezzarlo, masticarlo, negarlo. La negazione dell’oggettivazione dello sforzo carnale dell’uomo (il pane: prodotto) è negato per realizzare la vita. La negazione del pane è vita della vita. Il pane era come una morte dell’uomo nel suo lavoro. Misteriosa e sacra dialettica di morte/vita, di distruzione/resurrezione. Il certo è che la vita è la causa originaria e finale del pane. “Pane della vita” che alimenta e che muore nel dare la vita. Non dice il testo biblico: “Il pane è la vita della persona” bensì “del povero”. “Persona” siamo tutti; i “poveri” sono alcuni.
10 Il “pane del cielo” (ἄρτον ἐκ τοῦ οὐρανοῦ: Giovanni 6,31, in riferimento a Esodo 16,4; Neemia 9,15; Sapienza 16,20, eccetera. Cfr. Dictionnaire de la Bible VI (1960), col. 965-976. 11 «Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio!» (Luca 14,15). Il Regno è rappresentato dall’esperienza del mangiare ed essere sazio, soddisfatto.
233 Schema 5.2. Circolo pratico-produttivo: economico.
a
1. Persona A ricca 2. Persona B povera
c 3. Pane, prodotto b
Per capire la categoria biblica di “povero” si devono fare previamente alcune distinzioni. Perché ci siano poveri, è necessario che ci sia più di una persona. Se ci fosse soltanto Robinson Crusoe, non sarebbe né povero né ricco. Essere “povero” è porsi in un luogo molto preciso nella relazione persona/persona. Se la relazione persona/natura è produttiva, la relazione persona/persona è pratica (operabilia). La relazione interpersonale è etica. La relazione persona/natura è tecnica. La relazione etica è di bontà o malvagità, di virtù o vizio. La relazione tecnica è di efficienza o produttività. La relazione tra persone è di servizio o rispetto dell’altro o di dominio o alienazione dell’altro. Il peccato è una relazione pratica, etica. Perché ci sia un “povero”, è necessario che ci sia un ricco. Se non c’è povero, non c’è ricco; e viceversa. È una relazione dialettica: include il suo contrario. Ma entrambi i termini non sono equivalenti. Non si può essere ricco e povero nella stessa relazione hic et nunc. Il ricco è il dominatore, il peccatore; il povero è il dominato, colui che soffre il peccato del peccatore (per questo, in questa relazione, il giusto è il soggetto attuale del Regno dei Cieli). La relazione pratica o etica ricco/povero è di dominatore/dominato (freccia a dello schema 5.2). “Povero secondo lo Spirito” o “spirituale” non può essere un ricco, povero nell’intenzione mentale. L’“intenzione mentale” non è lo
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Spirito Santo12. “Poveri in spirito” sono coloro che per opzione profetica assumono la condizione di dominati: «Pur essendo di natura divina, spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Lettera ai Filippesi, 2,6). Ma non solo questo. Povero è colui che ha prodotto o lavorato il suo prodotto (freccia b) per soddisfare i suoi bisogni. Il “pane” (3 dello schema 5.2), tuttavia, non ritorna al produttore nel consumo, bensì passa, per un processo di spossessamento (freccia c), al dominatore. Il dominatore pratico si trasforma in “ricco” (si può avere un dominatore che non arrivi ad essere ricco perché, per esempio, libera il suo dominato immediatamente dopo il suo atto di dominio) quando si appropria del prodotto del lavoro dell’altro. In questo modo accumula il frutto del suo lavoro e di quello dell’altro. “Ricco”, come categoria biblica, non è soltanto il peccatore, bensì il peccatore strutturale, storico, economico13, cioè colui che usufruisce, consuma, utilizza il prodotto del lavoro dell’altro come strumento del dominio sull’altro. In maniera che quando si dice “povero”, in nessun modo si indica solo chi non ha beni o che ha libertà o disponibilità davanti ai beni. Questo non è sufficiente; perché ci sia un povero, 12 Spesso si confonde “spirituale” (πνευματικός; cfr. articolo πνεύμα in TWNT, t. VI, pp. 330-453, vari autori) con qualcosa di meramente “mentale”, nell’intenzione. Come se fosse un atto di una facoltà antropologica (l’intelligenza in atto. Confondere la intentio o intenzione con lo Spirito Santo è ciò di cui si tratta. Lo ψυχικός (animico o umano) si deve distinguere dallo πνευματικός (che proviene dallo Spirito Santo), nel testo di Matteo 5,3, che il traduttore in castigliano traduce correttamente: «Dichosos los que eligen ser pobres» [«Beati coloro che scelgono di essere poveri». Si badi che la traduzione italiana più diffusa dice «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli»; N.d.C.], e non, per esempio, come la traduzione in francese della Bibbia di Gerusalemme. 13 Cfr. ciò che abbiamo detto sul “peccato sociale”, in «Concilium», 160 (1980), pp. 581 ss.
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si deve avere anche un ricco, dominio, produzione, prodotto, espropriazione e strutturazione di quel dominio. Povero è il dominato, l’espropriato strutturalmente del frutto del suo lavoro. Adesso si capisce il testo biblico per cui «il pane è la vita del povero». Il pane è il prodotto/alimento per il povero/espropriato che, costretto, lavora, ma non consuma; la sua vita si oggettiva nel prodotto, ma non ritorna come vita/consumo. Quando il pane non è vita del povero, il povero muore. Quando qualcuno domina un altro, è un peccato pratico, etico, come chi dà uno schiaffo a un altro irrispettoso davanti alla sua dignità sacra di persona. Ma quando qualcuno toglie all’alto il prodotto del suo lavoro, la relazione non solo è pratica (persona/persona), né solo produttiva (persona/prodotto), bensì pratico-produttiva-economica. Si domina un’altra persona, ma attraverso un prodotto del suo lavoro. Il “non rubare” si trova così a un livello pratico/produttivo: economico. Ma, in ultima istanza, ci rimette al “non uccidere”. Il testo biblico della conversione di Las Casas indicava: «Il pane è vita del povero, colui che lo defrauda è omicida. Uccide il suo prossimo colui che gli toglie il suo salario, chi non paga il giusto salario sparge il suo sangue». La logica della teologia ebraica è coerente: se il pane consumato è vita, il pane non consumato lascia nel soggetto che lavora (e che si priva di vita oggettivando la sua vita nel prodotto) la pura negatività del bisogno che diventa necessità: la morte. Il pane prodotto, rubato al produttore e non mangiato da lui stesso, è “pane di morte” per il ladro – e “chi lo mangia, mangia la sua perdizione», dirà San Paolo. Per questo, la morte è il frutto del peccato, nel suo primo senso radicale; chi domina il prossimo e gli toglie il frutto del suo lavoro, lo lascia nella sua fame: «Ho avuto fame e non mi dettero da mangiare» è il criterio assoluto della Perdizione Eterna. Lasciare il produttore senza il suo prodotto è assassi-
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nare, uccidere, distruggere l’epifania di Dio, tanto della sua rivelazione come del suo culto14: l’altro dominato, il povero. Gli indigeni del fiume Arimao dovevano consegnare a Bartolomé, come tributo e sotto la violenza della dominazione, una parte del grano e del loro tempo di lavoro nel sistema economico del repartimiento, la encomienda. Bartolomé comprese, allora, «la miseria e la servitù che soffrivano quelle genti»15; e scoprì «la cecità, le ingiustizie e le tirannie che commettevano» i conquistadores. Scoprì subito che il “pane”, che pensava di offrire nel culto, era stato strappato ai poveri; che era pane non consumato; che era assassinare gli indios strappargli il frutto del loro lavoro. E come stava «per dire messa», predicò agli europei che non si «potevano salvare» se trattavano in questi modi gli indios. Vide allora la relazione tra la liturgia ecclesiastica e il sistema economico di oppressione. Vide il pane macchiato di sangue. Si racconta di san Francisco Solano, OFM, predicatore in Perù e Argentina nel XVI secolo, che, una volta, quando fu invitato da alcuni conquistadores a mangiare, benedicendo la tavola prese un pezzo di pane e lo strinse nelle sue mani, e questi cominciò a gocciolare sangue. Il francescano esclamò, allora: «Questo sangue è degli indios» e si ritirò nel convento senza mangiare neanche un boccone, lasciando i ricchi europei confusi e spaventati16. 14 Cfr. il mio articolo “Dominación-Liberación”, cit., sul povero come “epifania” (pp. 345-347). Ma il povero è anche l’epifania del culto: il servire il povero è servire a Dio: dare da mangiare all’affamato è offrire questo pane a Dio stesso. Dio ci si rivela con il povero, e noi gli rendiamo culto con il povero (il “circolo pratico” della rivelazione-culto). 15 Testo della citazione della Historia de las Indias, Libro III, cap. 79. 16 Il francescano aveva detto dopo: «Io non posso mangiare alla tavola dove si mangia il pane impastato con il sangue [la stessa metafora che Marx userà spesso] degli umili e degli oppressi» (E. de Vidal de Battini, “Leyendas de
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Che si intenda bene: il pane dell’eucarestia, il pane preparato per il cenacolo, è il pane reale; è realmente prodotto da qualche lavoro storico, concreto, umano. In effetti, offrire qualcosa a Dio ha non solo un senso sacramentale, se per sacramento si intende un “segno sensibile (materiale) della grazia” che indica la relazione persona-natura (acqua, olio, sale, pane, vino), bensì anche economico. Dare, offrire, scambiare, regalare o rubare qualcosa a un altro è una relazione economica. Offrire a Dio un pezzo di pane «Ti offriremo, Signore, questo pane, frutto della terra e del lavoro», dall’offertorio cattolico, è un atto di culto, di economia teologale17. Schema 5.3. Relazioni produttive-pratiche del culto: l’eucarestia.
Celebrante ricco A Povero il figlio B
b c a
Pane eucaristico il Figlio, il martire
b
Dio, il Padre
Pane economico (materia)
Bartolomé (conquistador, A dello Schema 5.3) aveva spossessato l’indio (il povero sfruttato, il figlio di Dio, B) del frutto del suo lavoro. Il lavoro dell’indio (freccia a) non ritorna all’indio come vita, bensì come appropriazione del dominatore (freccia c). Questo pane rubato è, adesso, lo stesso pane, collocato
San Francisco Solano”, in «Selecciones folklóricas Codex» [Buenos Aires], V [1975], p. 78). 17 Cfr. il mio articolo citato in «Concilium», 152, schema a p. 216.
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sull’altare (freccia b) come “pane eucaristico”. Il profeta latinoamericano intese la dialettica economica-eucaristica nel testo biblico del Siracide, quando lesse che «è sacrificare il figlio in presenza di suo padre rubare ai poveri per offrire in sacrificio. Il pane è la vita del povero, colui che lo ruba è omicida». E poco prima possiamo leggere nella Historia de las Indias, nel testo già citato: «L’Altissimo non accetta le offerte degli empi». L’identità del pane-prodotto del lavoro quotidiano, cambiato e scambiato, rispettato o rubato, e il pane dell’altare rimane confermata. Il pane economico è lo stesso pane eucaristico da essere offerto. Nel pane è la vita del lavoratore oggettivata (il “valore” come categoria scientifica in Marx), il suo sangue (“metafora” spesso usata da Marx nello stesso senso), la sua intelligenza il suo sforzo, il suo amore, il suo godimento, la sua felicità, il Regno. Strappargli ingiustamente questo pane e offrirlo a Dio è ciò di cui si tratta. Perché questo pane divenga l’“offerta” a un Dio giusto, deve essere “Pane di vita”, pane che abbia saziato la fame, consumato, alimentato, negato la negazione della morte, del bisogno, del dominio, del peccato; pane di giustizia. Adesso può capirsi il significato dell’idolatria o il culto del demonio, di Satana, nella Bibbia. Chi offre a Dio un pane rubato al povero, sacrifica all’idolo la vita del povero. Il povero è il “figlio” (l’indio) e il celebrante (Bartolomé de las Casas, il “ricco”) che offre questo pane strappato al povero nell’ingiustizia; offre al “padre” (“dio” o il feticcio) la vita stessa di suo figlio: «è sacrificare il figlio davanti a suo padre». Il padre che anela perversamente il sacrificio di suo figlio, che desidera il suo sangue, non può essere un Padre di amore, bensì un Idolo sanguinario, Moloch, Mammone, il Denaro, il Capitale così come lo intendeva Marx18. 18 Abbiamo visto nel tema di religione di Marx alla Maturità, nel 1835, come Cristo era per lo studente giudeo-luterano di Treveri «la comunità più
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Per questo il testo biblico esprime: «L’Altissimo non accetta offerta dagli empi». Come potrebbe accettare questa offerta che si sacrifica all’Idolo, al Feticcio, a Satana? Dio non desidera che gli si offra la vita del figlio assassinandolo alla sua presenza. Dio desidera la vita del figlio come esistenza libera; desidera giustamente come culto accettabile che si neghi la morte del dominato: il bisogno del povero, dell’oppresso19. Dare da mangiare all’affamato, restituire la vita al “morto”, dare la vita a colui che manca di vita è il culto che ama l’Altissimo. Il culto feticista offre all’Idolo il pane rubato, il sangue del povero; il culto eucaristico offre al Padre di bontà il pane di giustizia, il pane che ha saziato la fame: Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore (Atti degli Apostoli, 2, 44-46).
Il pane eucaristico della “comunità dei credenti” era un pane che aveva saziato il bisogno, nella giustizia (“lo dividevano…”), nell’allegria del consumo, del mangiare, della soddisfazione. È l’utopia del cristianesimo originario e l’utopia dell’ultimo Regno; è l’orizzonte della comprensione critica di ogni sistema economico storico, giustizia come condizione pratica di possibilità della celebrazione eucaristica che salva. Il pane che è mangiato dalla vita nella sua propria distruzione, nel suo consumarsi, nella sua negazione. La morte del pane è
vivente»: paradigma di un Cristo che comunica la vita, e non che la “succhia” per vivere delle sue vittime. Cristo era, per il giovane Marx, la vittima che dava la vita a tutti: paradigma di “espansione di vita” e non di “sacrificio sostantivo di morte”. 19 Cfr. la mia Etica comunitaria, capp. 1.6, 2.8, 4.6, 12.6-12.10, dove applico questa “logica” di Marx in una teologia economica-eucaristica di vita-morte.
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l’origine della vita di colui che lo riceve. Gesù è il “pane della vita”: Il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti (Matteo 20,28).
Servire (διακονείν in greco traduce l’habodah ebraico) è lavorare e rendere culto. Il “servitore” (diacono e lavoratore) lotta per Dio, e in esso si rende culto a Yahveh. Il “lavoro” storico di Cristo non fu soltanto per produrre come artigiano prodotti (case, tavole, sedie, che dovette fabbricare in Nazaret), bensì che fece della propria corporalità carnale il prodotto offerto al Padre perché la “moltitudine”20 arrivasse ad essere un “popolo”21. Dare vita non va senza morte, Gesù stesso è la vita (Giovanni 11,25), ed è il pane (Giovanni 6,35) che si offre al Padre: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo» (Matteo 26,26). Il suo “corpo” (la basar ebraica non è il σῶμα greco) stesso di martire si trasforma storicamente nel “dono”. Adesso, la corporalità, la carnalità, l’essere stesso del profeta, nella storia, nelle contraddizioni di classe tra ricchi e poveri, nella congiuntura politica, nello schierarsi per gli oppressi, nell’opporsi ai dominatori, ai loro eserciti, alle loro armi… adesso è la carne del Redentore che si offre nell’altare della storia: «Dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo» (Giovanni 19,18). Il suo corpo sospeso è adesso il “pane” per la vita della moltitudine. 20 Cfr. articolo ὄχλος, TWNT, V, 582-589, Mever-Katz (Bibl., X/2, p. 1208). È tutto il tema del ham haarets, la “massa” (Marco 3,20; Luca 5,1; Matteo 13,2; Atti degli Apostoli 7,19; etc.). È un gruppo di uomini senza organizzazione, senza destino, senza coscienza, senza memoria storica. 21 Cfr. articolo λαός, TWNT, IV, 29-35, Strathmann. La parola ebraica ham appare nel testo biblico più di 2.000 volte, come coi appare solo 40 volte, e come lhom 11 volte. Il “popolo” ha già il senso di una comunità con unità, in alleanza, con memoria storica, con destino, con speranza. È una categoria positiva, come nella teologia rabbinica “popolo santo” (ham gadosh).
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Il “corpo” del povero muore quando il pane gli è sottratto: la fame come spossessamento del pane del lavoro. Interporre il proprio “corpo” (materiale) tra il povero e il ricco, tra il dominatore in favore del dominato, è fare del proprio “corpo” l’oggetto del brutale atto dominatore, atto mortale, l’atto stesso satanico del Feticcio, dell’idolo. Il Feticcio vive del sangue del povero: la vita dell’Idolo è la morte del povero. Sottrarre la vita del Feticcio per mezzo della giustizia è ucciderlo. Ma l’Idolo, prima di morire, uccide. Uccide il martire (colui che testimonia al povero la possibilità di consumare il pane del suo lavoro: il Regno come banchetto nella giustizia) che lotta per la vita del povero. La vita del povero è il pane; lottare perché abbia il suo pane è rischiare il proprio “corpo” come oggetto della violenza del peccato, del dominio dell’Idolo. L’Idolo desidera la vita del Figlio, la sua morte. Il figlio offre la vita che l’Idolo strappa al Padre, che non desidera la sua morte, ma la riceve perché la morte del giusto, del povero, del Figlio, è il passaggio dalla morte alla vita; passaggio per il deserto dalla schiavitù d’Egitto alla Terra promessa, terra di questa terra e terra escatologica del Regno, che ha già iniziato quando il povero mangia, quando sazia la sua fame, nella storia: è la rivelazione della vittima innocente. Quando Cristo si identifica con il corpo materiale, con la carnalità sofferente e costretta del povero: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,40). Ma Cristo si fa “pane” della storia e offre il suo corpo per la liberazione dei poveri. Alla stessa maniera, Mons. Antonio de Valdivieso nel XVI secolo in Nicaragua, o Mons. Oscar Romero nel XX secolo ne El Salvador. Il pane di giustizia fece che Mons. Romero si identificasse con la lotta del popolo salvadoregno affinché il povero recuperasse il frutto del suo lavoro. Ma l’Idolo, i suoi eserciti, strapparono la vita dal corpo del profeta, lo stesso che prima aveva strappato la vita dal corpo del povero rubandogli il pane.
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Mons. Romero poteva celebrare l’eucarestia perché il suo pane eucaristico era un pane economico nella giustizia. Egli aveva predicato ai militari e alla Giunta democratico-cristiana che non reprimessero più il corpo povero del suo popolo. In risposta, assassinarono il suo corpo di martire innocente. Con ciò si compiva ancora una volta, la profezia di Gesù, che legava la vita al martire con la liturgia: «Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto (λατρείαν) a Dio» (Giovanni 16,2). Colui che toglie la vita al corpo del martire – che prima aveva tolto con il dominio e il furto la vita del corpo del povero – rende un sacrificio al Feticcio. Per questo Cristo dice “crederanno”, cioè penseranno di rendere culto a Dio, ma in verità renderanno sacrificio al Feticcio. Fino a qui è esercizio teologico! Torniamo al nostro tema.
5.2. Un testo biblico centrale nel pensiero di Marx: Matteo 6,19-24 Vediamo adesso come Marx lavora certi testi biblici, per affrontare successivamente lo sviluppo del tema esposto nel paragrafo precedente dentro il discorso marxista. In effetti, Marx mostra nella sua teologia “metaforica” che il capitale ha una pretesa idolatrica di eternità, di incorruttibilità, di permanenza, e inoltre, che è un feticcio che esige un sacrificio. Lo scopre nei Grundrisse nel 1857 (e lo corrobora nei Manoscritti del 61-63, e successivamente nella quarta redazione de Il capitale), che benché il denaro si “neghi” (si perde) comprando con esso qualcosa nel mercato, qualche merce, e benché lo stesso accada con la merce, essendo “negata” al produttore (poiché la consumerebbe il compratore),
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tuttavia qualcosa si “conserva” e “perdura” come processo: il valore come tale22. Riguardo a questa tematica, già prima del 1857 Marx la usava in un senso etico generale, Marx metterà mano spesso al testo del Vangelo di Matteo (6,19;24): Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano […]. Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a Mammona [il denaro].23
Questa esigenza etica del famoso Sermone della Montagna, che è tanto costitutivo del messaggio cristiano in generale, e in 22 Cfr. le mie opere La producción teórica de Marx, cap. 6.4, pp. 131 ss.; e Hacia un Marx desconocido, cap. 3, pp. 57 ss.: «Il valore esiste dapprima come denaro, poi come merce, poi di nuovo come denaro. […] La permuta di queste forme appare perciò come il suo proprio processo o il valore come si rappresenta qui è il valore in processo» (Manuscrito del 61-63; MEGA, II, 3, p. 10) [tr. it. cit., p. 8]. 23 Marx cita questo testo di Matteo, o parte di esso (anche i riferimenti al feticcio Mammona) almeno in quindici occasioni, in MEW, EB 1, p. 549; 1, pp. 101 [tr. it., “L’articolo di fondo del n. 179 della Kölnische Zeitung”, cit., p. 201] e 373 [Id., La questione ebraica, cit., p. 202]; 2, p. 345 [F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, tr. it. di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 168]; 3, p. 103 [K. Marx, L’Ideologia tedesca, cit., p. 99]; 5, p. 421 [Id., “La rivoluzione di Colonia”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. VI, p. 479]; 8, p. 527 [Id., “L’attentato a Francesco Giuseppe – La sommossa di Milano – La politica Britannica – Il discorso di Disraeli – Il testamento di Napoleone”, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. XI, cit., p. 531]; Grundrisse, ed. Dietz, 1974, p. 142 [tr. it. cit., p. 172]; ivi, p. 898 [tr. it. cit., p. 1089]; MEW 12, p. 552 [Id., “Storia delle commercio dell’oppio”, in Opere complete, vol. XVI, cit., p. 16]; 13, pp. 107, 133 e 203 [Id., Per la critica dell’economia politica, cit., pp. 1074-1075, 1106, e in Id., “La situazione delle fabbriche in Gran Bretagna”, in Opere complete, vol. XVI, cit., p. 193]; MEGA, II, 6, p. 564, nota 6 (I/3, p. 765, nota 76) [Id., Il capitale, Libro I, cit., p. 758]; 34, p. 302 [Lettera di Engels a Karl Kautsky del 28 luglio 1894, in Opere complete, vol. L, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 304-305]. H. P. Rhein, Die kulturtheoretischen Ansätze in den Frühschriften von Karl Marx, Doktorarbeit, Bonn 1966, p. 215, indica come si usa Mammona nella tradizione ebraica.
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particolare riguardo alla povertà (che sempre circondò Marx nella sua vita concreta), si deve considerare paradigmatico nella biografia soggettiva e nella produzione teorica oggettiva di Marx. Così, nel 1844, scrive, come critica al puritanesimo: L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio […] Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tagli né la polvere possono consumare il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato.24
Come si può osservare, Marx ha lo stesso criterio del Sermone della Montagna. È spregevole l’avaro, risparmiatore, ricco, negatore della vita. È nobile colui che mangia e beve – riferimento al corpo e al sangue di Feuerbach e l’eucarestia ne L’essenza del cristianesimo? – legge libri, balla, va al teatro e all’osteria, pensa, ama, teorizza, dipinge e pesca; colui che sa vivere, che è anche un autoritratto di Marx, che nella sua povertà sapeva affermare la vita nella sua vita quotidiana, come ci raccontano le sue biografie. L’avaro, per il Vangelo, e per Marx, è ignobile. Prendiamo alcuni altri esempi per vedere come Marx rovescia il senso del Vangelo, che è stato per Marx rovesciato dal puritanesimo, mostrando ancora una volta che l’apparentemente “divino” è adesso il satanico, il feticista. Per esempio, ne L’Ideologia tedesca leggiamo: Noi vediamo dunque i sacri motivi che inducono san Max a convertirsi all’egoismo. Ciò che non gli dà pace non sono i 24 Manuscritos del 44, III (OF, I, p. 629; MEW, EB 1, p. 549) [tr. it. cit., pp. 130-131].
245 beni di questo mondo, non i tesori cui rodono le tignole e la ruggine, non i capitali dei suoi co-unici, ma il tesoro in cielo, i capitali di Dio, la verità, la libertà, l’umanità ecc.25
Nei Grundrisse dice ancora più chiaramente: Il denaro, già merce universale in tutti i luoghi, ossia nella determinazione spaziale, ora lo è anche nella determinazione temporale. Si conserva perennemente come ricchezza. Possiede una durata specifica. È il tesoro che non viene eroso né dalle tarme né dalla ruggine […] Il culto del denaro (Geldskultus) ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e i suoi sacrifici (Selbstaufopferung): la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni, temporali e transitori; la caccia al tesoro eterno (ewigen). Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro.26 Schema 5.4. Reinterpretazione dell’“eternità” della metafora del Vangelo. Vangelo di Matteo 6
Per Marx
Livello 1
a. “… falena” (negativo, temporale)
a’. Negativo mercantilista
Livello 2
b. “tesoro eterno” (positivo)
b’. Negativo, feticcio capitalista
Livello 3 c. -----
c’. Positivo, tacito
25 Grijalbo, Barcelona, p. 128; MEW 3, p. 103 [tr. it. cit., p. 99]. 26 Ed. cast., I, pp. 167-168; ed. ted., pp. 142-143 [tr. it. cit., pp. 172-173]. Marx mette in relazione nel testo di Misselden, che colloca in continuazione, la storia del vecchio Giacobbe (che si trova tra le sue “metafore” teologiche preferite).
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Il livello 2 del Vangelo (b) è interpretato da Marx come un rovesciamento del Vangelo, come il feticcio del cristiano capitalista (b’). L’“eterno” del Vangelo si trasforma adesso in satanico; cioè, Marx concede il carattere di eternità non alla “ricchezza” del cielo (come nel Vangelo, perché è stata rovesciata praticamente dal cristiano), bensì al capitale stesso (cioè, lo presenta con la sua pretesa feticista di immortalità: “dio” celeste nella terra). È, quindi, un tertium quid tra il semplice denaro deperibile (che si spende comprando e vendendo, a e a’) e l’eternità così come la intende il Vangelo (b) (al quale Marx non si riferisce, né affermando né negando il suo senso, bensì modificandolo “metaforicamente” e creando con esso una nuova figura): si tratta della perennità che il “tesoro” inizia e che presagisce l’eternità della circolazione del valore che si valorizza, il capitale, il “feticcio” (la “Bestia”, il demonio terrestre): Infine come esistenza inerte del valore, come materia della tesaurizzazione, la loro relativa indistruttibilità (Unzerstörbarkeit); la loro durata eterna (ewige), la loro inossidabilità all’aria («il tesoro che né le tarme né la ruggine divorano»).27
Buchbinder28 analizza in dettaglio otto esempi nei quali Marx usa il testo di Matteo 6, e mostra il tipo di comparazioni e modificazioni nell’interpretazione, parte per parte, del testo biblico29.
27 Ivi, III, p. 158; p. 898 [tr. it. cit., p. 1089]. 28 Op. cit., supra. 29 I testi sono: MEW, EB 1, p. 549 [tr. it., “L’articolo di fondo del n. 179 della Kölnische Zeitung”, cit., p. 201]; MEW 2, p. 345 [tr. it., F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit., p. 168]; MEW 3, p. 103 [Id., L’Ideologia tedesca, cit., p. 99]; MEW 5, p. 421 [Id., “La rivoluzione di Colonia”, in Opere complete, vol. VI, p. 479]; Grundrisse, p. 142 [tr. it. cit., p. 172]; ivi, p. 898 [tr. it. cit., p. 1089]; MEW 13, p. 104 [Id., Per la critica dell’economia politica, cit., p. 1070]; MEW 13, p. 133 [ivi, p. 1106].
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Quando Marx parla di “tesoro”, “tesaurizzazione” o “tesaurizzare”, si sta riferendo a Matteo 6. Così, per esempio, nella Per la critica dell’economia politica, del 1859, nel paragrafo “Tesaurizzazione”, cita Boisguillebert: Si è fatto un idolo di questi metalli (oro e argento) […] per farne delle divinità alle quali si sono sacrificati più beni e bisogni importanti e perfino più uomini, e si sacrifica ancora, che mai avesse sacrificato alle proprie false divinità l’antichità cieca.30
Questo tesoro è venerato come il frutto della sofferenza dell’asceta, come un martirio meritorio, al quale Marx si riferisce “metaforicamente”: Il nostro tesaurizzatore appare come un martire del valore di scambio come santo asceta sulla sommità della colonna metallica.31
Ma l’aspetto più importante del testo di Matteo 6 è il reiterato uso della denominazione “Mammona” per designare lo stesso capitalismo, benché nella sua gioventù si riferiva alla ricchezza in generale: Forse, quando dite che si deve dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, non considerate come re e imperatore di questo mondo, non solo il Mammona di oro32, bensì anche […] la libera ragione?33
30 Zur Kritik, II, III, a); Siglo XXI, p. 114; MEW 13, pp. 104-105 [tr. it. cit., p. 1070]. 31 Ivi, p. 123; p. 111 [tr. it. cit., p. 1079]. Si riferisce a San Pietro Stilita, che viveva su una colonna. 32 Qui apparirebbe che passa inavvertitamente la “metafora” del “vitello d’oro” (Esodo 32,1 ss.). 33 Oltre a Matteo 6,24, Mammona si trova citata in Luca 16,9,11 e 13 [Dussel ha citato i passi del Vangelo di Matteo direttamente dalla citazione di Marx per mettere in rilievo l’uso che il filosofo tedesco ha fatto del Vangelo di Matteo, ma in realtà la citazione di Marx mette insieme due passi del Vangelo di Matteo: 6,24 e 22, 21; N.d.C.].
248
Possiamo concludere, quindi, che Marx ha aperto, grazie alle sue metafore, un ambito nuovo di riflessione teologica: tra la ricchezza deperibile terrena (il denaro mercantile) (a dello schema 5.4) e la ricchezza eterna del cielo del cristiano (del Vangelo) (b), l’ambito satanico del capitale (che si inizia con la tesaurizzazione del denaro originario) (b’), che è una ricchezza che gode di qualità quasi-celesti di indistruttibilità (poiché senza negarsi circola di determinazione in determinazione, ma nella terra. Questa ricchezza celeste/terrestre è il feticcio, il demonio nella terra, la Bestia dell’Apocalisse, manifestazione del Dragone (il demonio celeste). Ciò che per il cristiano feticista è divino (b), e da Marx criticato come satanico (b’); cioè, vuole mostrare la contraddizione necessaria nella quale cade il cristiano che è capitalista.
5.3. Altri testi biblici usati da Marx Vogliamo riferirci in questo paragrafo ad alcuni testi biblici che indicano bene la maniera come Marx li usa aprendo un nuovo campo ermeneutico a partire dalle sue “metafore” apparentemente innocenti. In primo luogo, il testo di Matteo 8,22, che dice: «Ma Gesù rispose: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti”». In un testo della sua gioventù, quando lascia la Germania e comincia il suo lungo esilio, nel 1843, scrive a Ruge con sommo patetismo: Lasciate che i morti sotterrino i morti e li piangano. Ma è una sorte invidiabile quella dei primi che penetrano nella nuova vita; questa sorte sarà la nostra. È vero che il vecchio mondo è del filisteo. Ma non dobbiamo trattare questi come un fantasma dal quale ci si apparta pieni di paura. Lontani da esso, dobbiamo guardarlo fissamente negli occhi. Poi vale la
249 pena di studiare bene questo Signore del mondo (Herrn der Welt).34
Ne Il diciotto Brumaio ritorna sul tema: Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione sociale del secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i morti.35
Ma ancora con un senso molto più economico, e riguardo agli operai cacciati dai loro lavori, nell’operetta Lavoro salariato e capitale, del 1849: Ai signori capitalisti non mancheranno carne e sangue (Fleisch und Blut) freschi da sfruttare; si lascerà che i morti seppelliscano i loro morti.36 Ma il capitale non vive soltanto del lavoro37. Signore38 ad un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé nell’abisso [in quel “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”] i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi.39 34 Lettera a Ruge del maggio 1843 (OF, I, p. 445; MEW 1, p. 338) [Questa lettera non è contenuta nell’edizione italiana delle Opere complete, quindi si è tradotta dal tedesco]. Il “Signore del mondo” è, evidentemente, il demonio, satana, il “Principe di questo mondo”, Mammona. 35 MEW 8, p. 11 [tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 11]. 36 Ediciones de Cultura Popular, México 1985, pp. 111-112; MEW 6, p. 421 [tr. it. di P. Togliatti, in Opere complete, vol. IX, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 233]. Abbiamo sottolineato “carne e sangue” – tanto frequente in Marx – per ricordare il senso dell’antropologia biblica, dove le categorie sono “tutta la persona” = carne, e la “vita” = sangue; e non i greci “corpoanima”. 37 Riferimento al testo che enuncia: «Non vive di solo pane l’uomo». 38 In chiaro riferimento ai “due Signori” del testo Matteo 6, come abbiamo visto più sopra (cioè, il demonio, Mammona). 39 Ivi, pp. 113-114; p. 423 [tr. it. cit., p. 235]. Si può osservare il senso sacrificale, cultuale, in quel “capitale vive” del lavoro (cioè, si alimenta, sussume, incorpora lavoro vivo).
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Il testo biblico è usato per indicare il passo a un nuovo ordine, o al capitale come una tomba della vita dell’operaio. In questo secondo senso, negativo, si interpreta il testo in chiave satanologica: adesso il capitale sussume “carne e sangue” e la seppellisce nel suo proprio seno (il valore che si valorizza): Satana morto che vive della vita dell’operaio. In secondo luogo, un testo come quello del Salmo 42, 2-3, quando canta: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente». Nella sua gioventù, il Marx giornalista, si riferisce a questo salmo in alcune occasioni40, ma nei Grundrisse dove assume senso economico: Nelle crisi – dopo il momento del panico –, in periodo di paralisi dell’industria, il denaro è fissato nelle mani dei banchieri, di agenti di cambio, ecc. e come il cervo urla la sua sete di acqua fresca, esso chiede a gran voce un campo di impiego per poter essere valorizzato come capitale.41
Si ricordi che la “cerva” cerca il “Dio vivente” nel salmo; adesso cerca denaro, cioè, il denaro è il nuovo “Dio vivente” al quale si sta metaforicamente riferendo Marx: il demonio. Rovescia qui nuovamente il senso biblico, ma con la stessa logica dei testi precedenti. Ancora più chiara “metafora” si presenta ne Il capitale I, quando spiegando la situazione di crisi, scrive: «Come il cervo mugghia in cerca di acqua corrente, così la sua anima [del borghese] invoca denaro, l’unica ricchezza»42. L’analogia metaforica, una volta ancora, apre un nuovo campo di significazione che non è presente nel testo biblico. Nella
40 Per esempio nel 1848 (MEW 5, p. 245). 41 Ed. cast., II, p. 132; ed. ted., p. 515 [tr. it. cit., p. 622]. 42 Siglo XXI, 1/1, p. 169; MEGA, II, 6, p. 159 [tr. it. cit., p. 167].
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Bibbia, l’equivalenza è: cerva/anima, acqua fresca/Feticcio (denaro, capitale). Invece di “Dio” (b dello schema 5.4) si trova adesso il “Demonio” (b’); invece del desiderio dell’anima, del mistico, di stare con Dio, adesso si trovano l’avarizia, l’avidità, il desiderio irrefrenabile di denaro, capitale, la “nuova divinità”. Marx usa, anche, il testo di Romani 9,14-16 in un senso “metaforico” proprio. La citazione biblica è la seguente: Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti disse a Mosè: “Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla”. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia.
Marx usa questo testo, di nuovo, in un senso particolare, aprendo un nuovo campo semantico, nelle sue “metafore”. Nella stessa Ideologia tedesca cita esplicitamente questo testo biblico43, che ha usato poco prima in maniera “metaforica”: Il potere sociale […] appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea […] e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire (Wollen und Laufen)44 degli uomini e anzi dirige questo volere e agire.45
L’espressione paolina è usata nel senso che, se si abbia o no coscienza, in qualunque dei due casi c’è uno sviluppo profondo delle strutture sociali che non dipende da questa coscienza (come la “grazia” o “misericordia” di Dio non dipende dal “volere o agire” di qualcuno, secondo la teologia luterana 43 Ed. cast., p. 184; MEW 3, p. 146 [tr. it. cit., p. 144]. 44 Queste espressioni tedesche sono di Romani 9,16. 45 La ideología alemana, ed. cast., p. 36; MEW 3, p. 34 [tr. it. cit., p. 24].
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del simul justus et peccator). Ma nuovamente rovescia adesso il senso. La “grazia” di Dio è ciò che è al di là della libertà; adesso invece sono le strutture del capitale, del feticcio stesso; critica del puritanesimo. Poco dopo, Marx cita esplicitamente Romani 9,1646 per criticare Stirner, e dopo scrive: Se tutti i borghesi eludessero in massa e contemporaneamente le istituzioni della borghesia, cesserebbero di essere borghesi; ma è una cosa alla quale naturalmente non pensano affatto e che non dipende minimamente dal loro volere e dal loro agire (Wollen und Laufen).47
Di nuovo, e come nell’esempio precedente, le strutture sociali (qui negative, perché sono capitaliste) si riferiscono come alla “grazia” di Dio (ma, in concreto, sarebbero le strutture del capitale, cioè del demonio: si produce quindi nuovamente un rovesciamento: dove la Bibbia parla di Dio, Marx parla del demonio, che è il “dio” reale e quotidiano dei cristiani borghesi). Di nuovo: Creando così l’apparenza che la posizione degli individui di fronte alla potenza del denaro sia cosa che dipenda puramente dalla volontà personale (Wollen und Laufen).48
La questione tradizionale della predestinazione luterana e calvinista è posta, quindi, nella linea critica contro il puritanesimo, riguardo alla determinazione, sempre relativa e mai assoluta, delle strutture socio-economiche riguardo alla coscienza, benché questo poté essere, in buona parte, la posizione di Engels. Dio (b dello schema 5.4) si trasforma in Satana (b’), il feticcio, il capitale.
46 La ideología alemana, p. 184; p. 146 [tr. it. cit., p. 144]. 47 Ivi, p. 20; p. 164 [tr. it. cit., p. 164]. 48 Ivi, p. 42; p. 381 [tr. it. cit., p. 385].
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C’è un testo biblico, il Salmo 115, al quale ci siamo riferiti già in un altro luogo, che attraversa come Matteo 6,19, tutta la produzione di Marx sulla questione del feticismo. Il Salmo 115,4-7 esprime: Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non parlano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni.49
Al quale si riferisce Marx, per esempio quando scrive: Essa [la Provincia, come è nell’originale tedesco] ha il diritto, […] di crearsi codesti dèi, ma subito dopo la creazione deve scordare, come l’adoratore del feticcio, che sono dèi di sua manifattura.50
Si sa che “fatto” (da factum in latino, feitiço in portoghese) dalla mano è proprio di un “prodotto” umano (come il “Dio” di Feuerbach), e da lì il termine feticismo. Questo “fatto” dalla mano, l’idolo, può essere di legno, come un tronco. Si legge in Isaia 44,15: Tutto ciò diventa per l’uomo legna da bruciare, ne prende una parte e si riscalda e anche accende il fuoco per cuocervi il pane o ne fa persino un idolo e lo adora, ne forma una statua e la venera.
Al quale Marx non può evitare di riferirsi quando scrive, per esempio:
49 Le stesse espressioni si possono leggere in Isaia 40,18-29; 44, 9-20; Esodo 32,31, ecc. 50 “Los debates de la VI Dieta renana” (OF, I, p. 224; MEW 1, p. 42) [tr. it. in Opere complete, vol. I, cit., p. 145].
254 Comporta la possibilità che si danneggino alcuni alberelli; ed è quasi superfluo rilevare che gli idoli di legno trionfano e le vittime umane cadono!51
Questo tipo di “metafore” si trova in tutta l’opera di Marx, specialmente ne Il capitale. Altra opera biblica di speciale predilezione in Marx è l’Apocalisse, come abbiamo indicato ripetutamente. Per esempio, nei Grundrisse annota: L’oro è dunque nominalmente indeprezzabile […] perché esprime, porta impressa in fronte soltanto una determinata quantità della sua propria sostanza.52
Gli schiavi, come abbiamo già indicato in altro luogo, hanno “nella loro fronte” il segnale del loro Signore. Sono marcati in segno di possesso dell’Anti-Cristo53. Marx non ignora il testo di Luca 20,24, ma neanche quelli dell’Apocalisse 7,2 («Abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi [schiavi]», e 13,16 esplicitamente citato ne Il capitale, I, cap. 2 (1873) («Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, liberi e schiavi, ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte»)54.
51 “Los debates de la VI Dieta renana” (OF, I, p. 260; MEW 1, p. 111 [tr. it. cit., p. 225]. 52 Ed. cast., I, p. 58; ed. ted., p. 53 [tr. it. cit., p. 61]. 53 Si esprime: «“Di chi è l’immagine e l’iscrizione?” Risposero: “Di Cesare”. Ed egli disse: “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”» (Luca 20,24-25). 54 Marx cita nella sua opera almeno i seguenti passi dell’Apocalisse: 1,4 (cfr. la tesi di Buchbinder, p. 243); 2,10 (pp. 162 ss.); 3,5 (p. 261); 3,11 (p. 261); 4,5 (p. 243); cap. 5-6 (p. 242); 5,2 (p. 275); 5,6 (p. 243); 5,9 (p. 162); 6,3/5/7/8 e 9 (p. 242); 7,9/l0/11 e 17 (p. 381); 8,7 (p. 126); 8,13 (pp. 242 e 275); 9,11 (p. 242); 10,2/8-10 (pp. 275 ss.); 12,5 (p. 93); 12,7 (p. 242); 13,7 (p. 278); 13,15/16 (p. 342); 13,17 (pp. 341-344); 13,18 (p. 89); 14,1 (p. 113); 16,14 (p. 279); 17 (p. 302); 17,3 (p. 299); 17,5 (p. 242); 17,6 (p. 299); 17,8 (pp. 279
255
Ci sarebbe da studiare tutti i riferimenti di Marx ai testi biblici55. Si può concludere, quindi, che c’era un permanente riferimento “metaforico” al testo della Bibbia, che era usata dentro la logica di mostrare al cristiano la sua contraddizione con il “Vangelo”, e per questo spesso trasforma metaforicamente il suo Dio nel feticcio.
5.4. La logica “sacrificale” de Il capitale Come abbiamo detto più sopra, Il capitale ha una struttura tale, a partire dal livello “metaforico” nel quale ci siamo posti, che potremmo denominarlo sacrificale, cultuale, liturgico. Con ciò vogliamo indicare, semplicemente, che Marx par-
ss.); 17,12 (p. 342); 17,13 (pp. 341 ss.); 20,2 (p. 261); 20,7-9 (p. 89); 22,15 (p. 283); 22,17 (p. 122). 55 Nella tesi di Buchbinder si indicano almeno, e non è in nessun modo una lista completa (per esempio non include Giovanni 15, che fu oggetto del suo esame di maturità, forse il testo più esplicito di tutta la sua vita e che Buchbinder non tratta), il seguente numero di testi (essi stessi riferiti o citati spesso) da libri della Bibbia ai quali Marx ha riferimento nella sua opera: dal Genesi (15 testi), dall’Esodo (21 testi, che possono essere un passo come due capitoli completi), Numeri (2), Deuteronomio (3), Samuele I (3), Re I (3), Croniche I (1), Maccabei II (1), Giobbe (2), Salmi (15), Sapienza (2), Siracide (3), Isaia (1), Geremia (15), Ezechiele (14), Daniele (3), Gioele (1), Michea (1), Matteo (41), Marco (1), Luca (1), Giovanni (19), Atti (12), Romani (2), Corinzi I (19), Corinzi II (5), Galati (11), Efesini (2), Filippesi (1), Colossesi (1), 1 Tessalonicesi (3), Timoteo I (5), Timoteo II (4), Tito (1), Ebrei (1), Pietro I (2), Pietro II (2), Giovanni I (3), Giuda (5). Come si può osservare nella lista (dove si include anche Engels), si potrebbe dire, che quasi non c’è libro biblico al quale Marx non abbia fatto riferimento nella sua opera. Sarebbe interessante, ma supera l’oggetto di questa opera, studiare dettagliatamente tutti i riferimenti per poter conoscere la “logica” dell’uso biblico da parte di Marx, nel suo insieme. L’opera di Buchbinder non arriva ai risultati che desidereremmo.
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la “metaforicamente” e continuamente di un “sacrificio”, di un atto con il quale si “sacrifica” (si offre “liturgicamente”) il lavoratore, l’operaio (la sua “carne” e il suo “sangue”, eucaristicamente, come la Bibbia e Feuerbach esprimono) al feticcio, all’idolo, a Moloch (come i bambini poveri sacrificati al dio fenicio), alla Bestia: il demonio corporale e visibile. Pretendiamo che questa struttura “simbolica”, “metaforica”, è totalmente simultanea, parallela, coerente, alla struttura “logica”, filosofico-economica, scientifica56, che Marx espone ne Il capitale. Si osservino le “metafore” nei momenti essenziali, per esempio, nel capitolo iniziale della “Trasformazione del denaro in capitale”, terminando, scrive: Lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie […] per seguire nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business57 […]. L’uno sorridente, con aria d’importanza e tutto affaccendato, l’altro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la… conciatura.58
È l’“agnello del sacrificio” (Ecce homo), al quale si può conciare la sua pelle, il suo cuoio; è uno sfruttarlo o ucciderlo come sacrificio al dio di turno. L’Inferno dove l’operaio sarà “torturato” è la stessa fabbrica, il “processo di lavoro”. Lì “vive” il mostro:
56 Cfr. il cap. 14 della mia Hacia un Marx desconocido, sul senso che Marx da a “scienza”. 57 Chiaro riferimento all’ingresso dell’Inferno nella Divina Commedia di Dante, che Marx tanto apprezzava e citava. 58 El Capital, I, cap. 4 (1873) (I/1, pp. 213-214; MEGA, II, 6, pp. 191-192) [tr. it. cit., pp. 212-213].
257 Incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore autovalorizzantesi; mostro animato che comincia a “lavorare” come se avesse amore in corpo.59
È noto che il “mostro” si anima con la vita umana, benché non per questo smetta di essere morto: Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro [altra metafora], soltanto succhiando [il sangue si può succhiare] lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia.60
Questo processo di lavoro è un sacrificio rituale che divora “uomini”: L’impulso al prolungamento della giornata lavorativa, la fame di pluslavoro da lupi mannari.61 Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro.62 Al lamento per il deperimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura del sopralavoro, il capitale risponde: dovrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro piacere (il profitto)?63 [Il] processo di produzione si presenta come martirologio dei produttori, […] un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio.64 Venivano affaticati a morte con gli eccessi di lavoro … venivano frustati, incatenati e torturati coi più squisiti raffinamenti
59 Ivi, p. 236; p. 208 [tr. it. cit., p. 236]. 60 Ivi, cap. 8 (I/1, pp. 279-280; MEGA, II, 6, p. 239) [tr. it. cit., pp. 281-282]. 61 Ivi, p. 292; p. 249 [tr. it. cit., p. 294]. 62 Ivi, p. 318; p. 268 [tr. it. cit., p. 321]. 63 Ivi, p. 325; p. 273 [tr. it. cit., p. 327]. 64 Ivi, p. 612; p. 477 [tr. it. cit., p. 618]. Di nuovo la “metafora” dell’agnello sacrificale.
258 di crudeltà; in molti casi venivano affamati fino a ridurli pelle e ossa, mentre la frustra li manteneva al lavoro … E in alcuni casi venivano spinti al suicidio!65
È evidente che il capitalista, che funge come sacerdote del sacrificio e il maggiordomo responsabile delle torture, deve anche essere moralmente un asceta di questa religione satanica, il puritanesimo: Basta: se il mondo vive ancora, è soltanto per l’automortificazione di questo moderno penitente di Visnù che è il capitalista. Non solo l’accumulazione di un capitale, ma anche la semplice “conservazione di un capitale esige una constante tensione dell’energia per resistere alla tentazione di mangiarlo”. Dunque un semplice senso di umanità [Althusser avrà letto questo testo?] impone evidentemente di redimere il capitalista dal martirio e dalla tentazione.66
Marx, per dimostrare il cinismo di molti cristiani, cita un testo di Townsend, “questo prete delicato”67, quando scrive: Sembra una legge di natura che i poveri […] siano sempre per l’adempimento delle funzioni più servili, più sudice e più volgari della comunità. Il fondo di felicità umana (the fund of human happiness) viene in tal modo molto accresciuto, le persone più delicate (the more delicate) sono liberate dal lavoro molesto e possono accudire indisturbate alla loro superiore missione […] La legge dei poveri ha la tendenza di distruggere l’armonia e la bellezza, la simmetria e l’ordine di questo sistema che Dio e la natura hanno instaurato nel mondo.68
65 Ivi, cap. 24 (I/3, p. 948; MEGA, II, 6, pp. 678-679) [tr. it. cit., p. 931]. 66 Ivi, cap. 22 (1/2, p. 738; p. 548) [tr. it. cit., p. 734]. 67 Ivi, cap. 23 (I/3, p. 807, nota 90; MEGA, II, 6, p. 589) [tr. it. cit., p. 797]. 68 Ivi, p. 806; p. 589 [tr. it. cit., p. 797]. Questa ripugnante proposta (che concorda con Aristotele e Ginés de Sepulveda) attribuisce alla legge naturale l’esistenza dei poveri. Contro questo feticismo, Marx, “metaforicamente”,
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Marx risalta queste contraddizioni dei cristiani contro il Vangelo, come per esempio, quando scrive: Neppure nelle colonie vere e proprie il carattere cristiano dell’accumulazione originaria si smentiva. Quei sobri virtuosi del protestantesimo che sono i puritani della Nuova Inghilterra misero nel 1705, con risoluzioni della loro assembly, un premio di 40 sterline su ogni scalp indiano […] Il sistema coloniale si prese la sua vendetta contro i discendenti dei pii Pilgrim Fathers.69 Il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro.70
Ma tornando al tema centrale della nostra esposizione, per Marx il movimento essenziale del capitale è un processo «sacrificale»: Questi sacrifici umani (Menschenopfer)71 erano in gran parte dovuti alla sordida avarizia […] Una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue72 ma pure di nervi e di cervelli. […] “Quale sia il mezzo migliore per eliminare questo sacrificio di vita infantile.73
solleva una teologia positiva del demonio. Questo “Dio” che stabilisce un tale sistema è esattamente, per Marx, il “Demonio”, e per ogni buona teologia cristiana contemporanea. 69 Ivi, cap. 24; I/3, p. 942-943; p. 676-677 [tr. it. cit., p. 925]. 70 Ivi, p. 950; p. 680 [tr. it. cit., p. 934]. 71 Abbiamo già visto questa espressione nell’articolo de “I dibattiti della VI Dieta renana” del 1842 (testo citato, OF, I, p. 250; MEW 1, p. 111) [tr. it. cit., p. 225]. 72 Abbiamo insistito su questa espressione “carne” e “sangue” sono i componenti ebraico-cristiani della persona umana (“carne” = persona; “sangue” = vita), e non come per i greci “corpo” e “anima” (principi dualisti). 73 Ivi, III, cap. 5 (III/6, p. 107; MEW 25, pp. 98-99) [tr. it. cit., pp. 134135]. Si osservi, ancora una volta, la maniera di descrivere la persona umana da parte dei suoi “membri” materio-funzionali (come li descrive la Bibbia
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La logica del movimento dialettico del concetto di capitale è “sacrificale”: il lavoro vivo, sussunto nel capitale ed “offerto” come l’agnello del sacrificio, oggettiva la sua vita nel valore del prodotto (e del suo “sangue” nella creazione del plusvalore che si accumula nel capitale come negazione dell’essere, come morte, dell’operaio). L’accumulazione74 è il momento in cui il sacrificio si consuma, in cui la vita oggettivata passa ad essere, irreversibilmente, vita del capitale (vita morta dell’operaio). Per ripetere quanto detto in un testo dei Grundrisse: Sul denaro che è il carnefice di tutte le cose, il moloch al quale tutto deve essere sacrificato (geopfert) […] Il denaro appare effettivamente come il moloch al quale viene sacrificata (geopfert) la ricchezza reale.75
Per Marx, questa religione “mondana”, secolare (che non è la “teologia della secolarizzazione” nordamericana, bensì il suo contrario, perché è l’affermazione religiosa dell’apparente secolarità del capitale: è la conversione in “campo religioso” di ciò che prima era decretato come non-religioso, secolare), ha i suoi adoratori, il suo culto e olocausti, circolazione vivificante del feticcio grazie al sangue umano. Adesso appare nuovamente Moloch: Nella sua qualità di capitale […] appartiene al capitale tutta la ricchezza che può in generale essere prodotta, e tutto ciò che esso ha ricevuto fino ad ora, è unicamente un acconto del suo appetito all-engrossing. Secondo le sue leggi innate
ebraica, e non attraverso funzioni, come lo fa l’antropologia greca): mani, occhi, nervi, cervello, stomaco, ecc. 74 «Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale» (ivi, I, cap. 23; 1/3, p. 805; MEGA, II, 6, p. 588) [tr. it. cit., p. 795]. 75 Grundrisse, ed. cast., I, p. 133; ed. ted., p. 113 [tr. it. cit., p. 136].
261 gli appartiene tutto il pluslavoro che il genere umano potrà ancora produrre. Moloch.76
Moloch è il feticcio al quale si offre sangue delle vittime umane (come un Huitzilopochtli fenicio). Marx si rappresenta il capitale sotto questa figura, che comincia a regnare nel panteon dei falsi dei – suggerisce con ciò che può prenderlo per vero? Fu il “dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli – idoli dei quali parlava nella sua lettera del 1837 – dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolare via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo dell’umanità.77
Abbiamo poi, già, l’“altare” del sacrificio. E su di esso il nuovo “dio”. Un dio che ha vita, ma vita prestata, offerta, accumulata: Se il denaro, come dice l’Augier, “viene al mondo con una voglia di sangue in faccia”, il capitale viene al mondo grondante di sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro.78 Nel capitale viene posta la perennità del valore […] perennità […] che passa – processo – vita. Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.79
Per Marx, il capitale è il feticcio che accumula sangue (valore) umano. Nel capitale circola il sangue umano, il valore.
76 El capital, III, cap. 24 (III/7, pp. 506-507; III, p. 397; MEW 25, p. 410) [tr. it. cit., p. 547]. 77 Ivi, I, cap. 24 (I/3, p. 943; I, p. 706; 23, p. 782) [tr. it. cit., p. 926]. Cfr. nella Bibbia il tema del “dio straniero” (Genesi 35,2; Esodo 20,3; etc.). 78 Ivi, I, cap. 24,6 (I/3, p. 950; I, pp. 711-712; 23, p. 788) [tr. it. cit., p. 934]. 79 Grundrisse (II, p. 162; p. 646; p. 539) [tr. it. cit., p. 652].
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E «come l’uomo è dominato nella religione dall’opera della propria testa, così nella produzione capitalistica egli è dominato dall’opera della propria mano»80. Se oggettivamente esiste questo “dio fatto dalla mano degli uomini” al quale si sacrifica il lavoro vivo, il feticcio esige anche come culto l’olocausto dello stesso capitalista, così come lo abbiamo già citato: Il culto del denaro ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e i suoi sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni […] Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese e il protestantesimo olandese e il far denaro.81 Quindi il tesaurizzatore sacrifica i suoi piaceri carnali al feticcio oro. Egli prende sul serio il vangelo della rinuncia.82
Si può vedere che soggettivamente, come morale, Marx guarda al modo borghese del cristianesimo – poiché in nessun modo, per esempio, il cristianesimo primitivo o medievale potrebbe aver apprezzato l’“uomo astratto”, individualista, tanto frequente nei nostri giorni nei fondamentalismi, nelle sette, nei movimenti carismatici, dove la relazione individuo-dio è stata separata dalla comunità. Anche questo cristiano riceve la sua socialità dal mercato, come i puritani contadini della Nuova Inghilterra che realizzavano il loro essere “sociale” nel momento della raccolta del denaro nel tempio – e che ringraziavano come benedizione divina la ricchezza che andavano ammassando il “dono” del feticcio83. È evidente che per una religione di liberazione la critica che Marx realizza di questo
80 El Capital, cap. 23 (I/3, p. 771; I, p. 258; 23, p. 649) [tr. it. cit., pp. 763764]. 81 Grundrisse (I, p. 168; p. 232, p. 143) [tr. it. cit., p. 172]. 82 El Capital, I, cap. 3 (I/1, p. 163; I, p. 133; 13, p. 147) [tr. it. cit., p. 161]. Cfr. sull’usura il Libro III, cap. 36. 83 Espressione di questa teologia è l’opera di Michael Novak, The Spirit of Democratic Capitalism, American Enterprise Institute, New York 1982.
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cristianesimo, che giustifica il capitalismo, non solo non è contraddittoria, bensì intrinsecamente utilizzabile, perché scopre i meccanismi reali del peccato, poiché, come abbiamo visto: Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia. […] Da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro […] Nella storia reale la parte importante è rappresentata […] dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza.84
Questa è l’idilliaca origine del feticcio. Per Marx, quindi, la “materia” del “sacrificio” che si offre al capitale (il feticcio, il demonio) è lo stesso lavoratore, la sua “carne” (la sua personalità che si definisce come corporalità torturata e martirizzata) e il suo “sangue” (la vita oggettivata come valore). Sarebbe, secondo quanto abbiamo visto nel paragrafo 5.1, il “pane” dell’offerta all’idolo, che è come “sacrificare un figlio davanti a suo padre” (Siracide 34,24), secondo la “logica” simbolica (e teologica) della tradizione ebraico-cristiana: «Lo stolto pensa: “Non c’è Dio” […] Non comprendono nulla tutti i malvagi, che divorano il mio popolo come il pane!» (Salmo 14,1-4). In effetti, il sacrificio idolatrico così come lo intendevano i profeti di Israele consisteva nell’immolare uomini e donne agli idoli, ai Baal; il culto feticista per Marx consiste, da parte sua, in un sacrificare lavoratori al capitale, al nuovo feticcio, alla Bestia dell’Apocalisse, al demonio corporeo e visibile. Il cristiano, capitalista, si troverebbe in “contraddizione”: o è cristiano, e non può adorare al demonio sotto la forma di ca-
84 El Capital, I, cap. 24 (I/3, p. 892; I, p. 667; MEW 23, p. 741) [tr. it. cit., pp. 879-880].
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pitale, o è adoratore capitalista del demonio, e deve smettere di essere cristiano. Vorremmo terminare con un riferimento teologico latinoamericano. È noto che Franz Hinkelhammert ha esposto il senso sacrificale dell’economia neoliberale e conservatrice a ttuale85. C’è un’altra versione, certamente non volgare, che dà un senso particolare alla cultura latinoamericana come “atto rituale” che si gioca in un “sacrifico festivo” del tutto opposto al sacrificio come “risparmio ascetico”. Ispirandosi in parte a Alfred Sohn-Rethel86, Pedro Morandé indica che l’elemento peculiare della cultura latinoamericana potrebbe cominciare a descriversi nella seguente maniera: La distruzione festiva e comunitaria dell’eccedente economico aveva proprio questo senso di realizzazione effettiva della reciprocità. Né il culto più sanguinario né la divinità più arbitraria potevano impedire la sua realizzazione.87
In questo caso non c’è accumulazione. Tra i guaranì del Chaco (tra Brasile, Paraguay e Argentina), questa festiva celebrazione dell’eccedente, “reciprocità” comunitaria, era abbondante. I francescani e i gesuiti la istituzionalizzarono soltanto nelle famose Reducciones dei secoli XVII e XVIII. In tutti i modi, era un ethos precapitalista. Questo “sperpero rituale e festivo”
85 Nella sua opera Las armas ideológicas de la muerte. El discernimiento de los fetiches: capitalismo y cristianismo, DEI, San José 1977 (con traduzione inglese in Orbis, New York, e tedesca in Exodus, Freiburg/Svizzera). 86 Geistige und körperliche Arbeit, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1970, e opere come quelle di Georges Bataille, La parte maldita, Edhasa, Barcelona 1974, o la sua Teoría de la religión, Madrid 1975, e anche un Peter Berger o un Octavio Paz (in Posdata, México 1970). Dello stesso Pedro Morandé, Synkretismus und offizielles Christentum in Lateinamerika, Fink, München 1982, pp. 45 ss. 87 Cultura y modernización en América Latina, Universidad Católica de Chile, Santiago 1983, p. 97.
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sarebbe per Morandé l’elemento peculiare della cultura latinoamericana, cultura popolare della religiosità tradizionale, barocca88. In sintesi, l’essenziale della cultura latinoamericana si deve porre «sul piano del rituale religioso, della legittimazione del culto del lavoro e della dilapidazione festiva delle risorse economiche»89. In tutti i modi, nel “rito festivo” di Morandé non si mangia nulla. Voglio dire: tutti sono simboli, linguaggio, cultura, fino a prodotto di lavoro sperperato, ma non c’è in realtà economia nel senso che abbiamo scoperto in Marx. C’è un’eucarestia con liturgia della parola, ma non c’è pane, né cibo, né oggettivazione di vita, né il lavoratore (l’indio, lo schiavo africano, il contadino sfruttato, l’operaio salariato, il marginale escluso, la donna oggetto sessuale, i bambini ideologicamente alienati …) diviene vittima. Non c’è transustanziazione, perché non c’è sostanza da rovesciare. È solo rito festivo! Come quello del pensiero tedesco contemporaneo – includendo Jürgen Habermas90: è solo una sociologia una filosofia del linguaggio, una pragmatica della cultura senza economica: senza corporalità sacrificata nella sua vita all’idolo del rito (del risparmio desarrollista91 e capitalista, o al 88 Morandé parla qui, come il Documento Finale di Puebla (in parte dalla penna di Alberto Methol), di un “sostrato cattolico” di questa cultura. Devo indicare che, nelle mie opere, a partire dal 1967, Hipótesis para una historia de la Iglesia en América Latina, Estela, Barcelona, e in molte altre opere (come per esempio “Cultura latinoamericana y filosofía de la liberación. [Cultura popular revolucionaria, más allá del populismo y del dogmatismo]”, in Ponencias, III Congreso Internacional de Filosofía Latinoamericana, USTA, Bogotá 1985, pp. 63-108), ho trattato ripetutamente questo tema, ma Morandé sembrerebbe ignorarlo. 89 Op. cit., p. 149. La tesi è oltremodo feconda e degna di essere continuata e approfondita. 90 Cfr. il cap. 7 di questa opera. 91 [Il desarrollismo era una teoria economica latinoamericana degli anni Sessanta che affrontò il problema dello sviluppo (desarrollo) economico del continente, provando ad attirare capitali privati e stranieri; N.d.C.].
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festival del consumo dell’eccedente che, benché molto meno sfruttatore, non smette per ciò di esserlo in qualche misura), senza miseria e morte come sua naturale conseguenza. Marx parla anche del senso “rituale”, come abbiamo esposto in questo capitolo e “festivo” (così, per esempio, spiega ciò che è il pauper nelle sue due varianti: ante festum e post festum; “prima della festa” orgiastica del capitale, quando lo inghiotte come un “agnello decapitato”, il povero è immolato sull’altare della produzione del plusvalore, nel sistema di lavoro salariato; “dopo la festa” di Moloch, quando lo si espelle, come quando sputiamo il nocciolo della frutta già divorata, il povero ritorna alla miseria della disoccupazione nella marginalità e come esercito lavorale di riserva). Ci sono “feste” e “feste”. Le nostre feste latinoamericane della cultura popolare, riti del consumo dell’eccedente, sono certamente il meglio che abbiamo, ma dovrebbero esserlo di un eccedente economico che, come negli Atti degli Apostoli 2,44-45, si festeggiavano dopo che tutti i miserabili (che sono oggi le nostre immense maggioranze) abbiano consumato in giustizia “secondo i loro bisogni” – e ancora una volta, il famoso testo di Marx della Critica del programma di Gotha92, certamente dovette estratto dagli indicati versetti degli Atti degli Apostoli. 92 Marx propone, in maniera utopistica, in senso positivo, che «Ognuno secondo le sue capacità [riguardo al lavoro che disimpegna]; a ognuno secondo i suoi bisogni! [riguardo al consumo]» (ed. cit., p. 19; MEW 19, p. 21) [tr. it. cit., p. 32]. Questa non è altro che un momento della “comunità etica ideale di riproduzione della vita umana” (applicando la definizione pragmatica di Karl-Otto Apel, ma a una “economica” in lui assente, come in Morandé). La vita come un “rituale”, dove si simbolizza la distruzione dell’eccedente economico, è esattamente, in una maniera molto più profonda che nella formulazione di Morandé, quello che è necessario festeggiare, ma dopo aver superato la società capitalistica «sotto ogni rapporto economico, morale (sittlich), spirituale (geistig)» (ivi, p. 17; p. 20) [tr. it. cit., p. 30], per raggiungere la “fraternità (genossenschaftlichen)”, basata nel “bene comunitario (Gemeingut)”, dove senza la rotazione del capitale, i produttori
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5.5. Verso una “Teologia della liberazione ecologica” Per terminare, un’ultima riflessione. La Teologia della liberazione del prossimo futuro dovrà affrontare un tema essenziale: la questione ecologica; ma lo farà alla sua maniera. Una volta ancora, Marx verrà in aiuto. Prendiamo questo tema come un altro esercizio e sviluppiamo il tema come un modello. Paradossalmente – poiché alcuni attribuiscono a Marx una posizione talmente antropocentrica che da essa ne deriverebbe un disprezzo per la natura – Marx ha posto il problema ecologico in maniera tale che ha una pertinenza latinoamericana (ma anche europeo-nordamericana) sorprendente. In generale, i movimenti ecologici hanno poca coscienza “economica”. Marx può aiutare a porre la problematica dentro una visione più concreta e critica – e permetterebbe uno sviluppo insperato della teologica ecologica, (nel senso del capitolo 5.1, supra), nel nostro caso una Teologia della liberazione ecologica, al di là dell’ingenuità di alcuni ecologisti che, con tutta la buona volontà, “fanno il gioco del capitale”. Partiamo da un testo tardivo (del 1875) di Marx:
“immediatamente (unmittelbar)” accedano alla mutua comunicazione e ai loro prodotti sociali. Un’utopia che ben potrebbe formularsi come una comunità rituale e festiva, assoluta, Regno della Libertà senza tempo di lavoro, totale tempo libero, «dopo che il lavoro non è divenuto soltanto un mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita (Lebensbedürfnis); dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva (genossenschaftlichen) scorrono [il verbo fliessen, usato qui da Marx, è lo stesso che indica come scorre il “latte e il miele” della Terra Promessa a Mosè in Esodo 3,8] in tutta la loro pienezza» (ivi, p. 19; MEW 19, p. 21) [tr. it. cit., p. 32]. Questa utopia culturale, spirituale, rituale di Marx, è anche corporale, economica. È ciò che manca al ritualismo astratto di Morandé, alla simbolica senza fame di Paul Ricouer, all’atto comunicativo di Jürgen Habermas. Marx ha ancora molto da suggerire!
268 Prima parte del paragrafo [del Programma di Gotha]: «Il lavoro è la fonte (Quelle) di ogni ricchezza e di ogni civiltà». Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. […] Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, in quanto l’uomo è fin da principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte (sic) di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro.93
In questo lungo testo si può vedere chiaramente che, in primo luogo, il lavoro non è fonte di “ogni” ricchezza (bensì di alcune); in secondo luogo, che la natura è la fonte di ogni ricchezza naturale, che sono le condizioni (come mezzi ed oggetti) di ogni produzione possibile; in terzo luogo, che il capitalismo ha distorto la relazione persona/natura, facendo di questa la proprietà di quella, con ciò si perverte una relazione adeguata tra di esse. Marx ha affermato enfaticamente che ogni valore “di scambio” ha come unica sostanza il lavoro vivo, il lavoro della persona umana. Da ciò, alcuni hanno dedotto che Marx non dà alcun “valore” alla natura. Qui c’è una confusione concettuale e terminologica che dobbiamo chiarire.
93 Crítica al programa de Gotha, I (Ricardo Aguilera, Madrid 1970, pp. 1213; MEW 19, p. 15) [tr. it. cit., pp. 23-24].
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Per Marx, tanto la natura (la terra) come il lavoro vivo (la persona) non possono avere nessun valore “di scambio” (valore propriamente “economico”), perché sono la “fonte” tanto del valore “d’uso” (la natura e il lavoro vivo) come del valore di “scambio” (solo la persona umana del lavoratore). In ciò poggia, già da qui, la posizione etico-politica ed economica dell’“Ecologismo” di Marx. Spieghiamoci. Nella teoria della rendita, Marx chiarisce ammirabilmente che la “terra” non può avere valore di “scambio”, perché non è frutto di un lavoro umano (non può avere valore di “scambio”, perché non c’è oggettivazione di vita umana in essa, in quanto natura non lavorata, in tanto non-cultura né ancora agri-coltura): La terra […], come originariamente provvede l’uomo di cibarie, di sussistenza bell’e pronti, si trova ad essere, senza contributo dell’uomo.94
Marx compara la terra con lo stesso lavoro vivo: entrambi non sono frutto del lavoro umano, e per questo non possono avere valore di “scambio”: Il prezzo del lavoro o il prezzo della terra e del suolo (o delle forze naturali in generale) sono le uniche espressioni irrazionali (irrationellen) di questo tipo. Il prezzo della terra è irrazionale, poiché un prezzo adeguato è l’espressione monetaria del valore, ma non può avere valore [di scambio] quando non c’è lavoro materializzato in questa cosa […]. Alla stessa maniera è irrazionale l’espressione: Prezzo del lavoro.95
94 El Capital I, cap. 5 (1873) (Siglo XXI, México 1979, I/1, pp. 216-217; MEGA, II, 6, p. 193) [tr. it. cit., pp. 216-217]. 95 Manuscritos del 61-63, folio 1335 (MEGA, II, 3, p. 2190, 5-15) [traduzione mia; N.d.C.]. Cfr. il mio commento in Hacia un Marx desconocido, pp. 172 ss. Debbo indicare, sinceramente, che questa dottrina di Marx si trova, esattamente, nella linea del principio chiave di tutta la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa”, in quello che la dignità della persona è il criterio asso-
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Solo i prodotti del lavoro umano hanno valore di “scambio”96, perché grazie a questo tipo di valore97, i prodotti possono scambiarsi con altri, egualmente prodotti. Questo valore fa del prodotto una “merce” (economica). Ciò che è accaduto non percepito ai critici di Marx è che, qui giustamente, si trova il principio ecologico per eccellenza di ogni teologia ecologica possibile; cioè, una “teologia della creazione”. Mi spiego. Per spiegare un’analogia, abbiamo bisogno delle seguenti e precedenti distinzioni (che sintetizziamo nel seguente schema).
luto di questa dottrina. Tuttavia, si parla nella dottrina sociale del “salario” (come prezzo del lavoro e si pretende che debba essere “giusto”, il che è una contraddictio terminorum, o una contraddizione performativa, direbbe Apel) come potendo non essere contraddittorio alla dignità della persona o della proprietà privata come di diritto naturale (non avvertendo che si esclude la maggioranza da questo diritto; cioè, perché i poveri non hanno proprietà e devono vendersi come salariati nel sistema). Marx, al contrario, in una posizione più coerente con il criterio cristiano che la stessa “Dottrina sociale”, mostra che la terra e il lavoro non hanno valore di “scambio”, bensì “dignità” impagabile, infinita (in realtà si trovano in un “altro ordine”: nell’ordine delle cause, mentre il valore di “scambio” o il prezzo si pongono nell’ordine degli effetti). Chi avrebbe detto che Marx era più conseguente con il Vangelo (o con il principio della priorità assoluta della persona umana) che la stessa Dottrina sociale cattolica dei papi! 96 Devo indicare che il Marx “tardivo” – dal 1872 al 1873 – distinguerà “valore” da “valore di scambio”, ma sarebbe necessaria una spiegazione che ci allontanerebbe dal tema attuale (Cfr. nella mia opera El último Marx [18631882], il capitolo 5 sulla “Seconda edizione” del 1873 de Il capitale). 97 Non abbiamo voluto complicare smisuratamente le cose, e solo pedagogicamente abbiamo posto tra “virgolette”: valore di “scambio”. Ma sappiamo che Marx, alla fine della sua vita, spiegava: «Egli avrebbe potuto dire che io non scarto il “valore di scambio” perché è solo la forma fenomenica del valore e non il “valore” stesso, giacché per me il “valore” di una merce non è né il suo valore d’uso né il suo valore di scambio» (K. Marx, “Notas marginales al Tratado de Economía Política de Adolph Wagner” [1879-1880], Siglo XXI, México 1982, p. 49; MEW 19, p. 369) [tr. it. in K. Marx, Il capitale, cit., p. 1419].
271 Schema 5.5. Valore ecologico, valore d’uso e valore di scambio.
Creatore (Fonte assoluta) (bonum medievale) (Tommaso d’Aquino) Dignitas Valore ecologico a o ontologico (Dignità) Livello 1 (VE) Implicito
d
Utilitas Valore d’uso a. naturale b. prodotto b Livello 2 (VU)
Factibilia justitae c
Valore di scambio (economico) Livello 3 (VS)
Lavoro vivo (persona umana) Valore “moderno” capitalista (Fonte antropologica) (Marx)
Per intenderci e per creare un linguaggio che permetta di collegare due diversissimi “giochi linguistici”, potremmo dire che il “valore ecologico” (o ciò che tradizionalmente si denominava “valore ontologico”, il bonum trascendentale degli scolastici) sarebbe, analogicamente il frutto del lavoro umano, il frutto dell’atto creatore dell’Assoluto (del “Dio creatore” medievale). Il suo “valore” (come quasi-oggettivazione della vita divina) sarebbe assoluto. Questo è ciò che, analogicamente (e senza nessuna coscienza o intenzione, ma certamente senza contraddizione), afferma Marx con l’argomentazione che la terra e il lavoro vivo (realtà “naturali” rispetto al lavoro umano, ma “frutti” del “lavoro-creatore” di Dio)98 non hanno valore di “scambio”, ma hanno “dignità”99. 98 In Genesi 2,3 si dice che il settimo giorno Dio «aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». 99 Nella nostra opera El último Marx (1863-1882), capitolo 10, abbiamo esposto questo con qualche dettaglio.
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Si potrebbe così stabilire la seguente proporzione analogica: VE/VU a. = VU b./VS
Cioè, il “valore ecologico” (o frutto dell’atto creatore assoluto, livello 1, VE) è il “valore d’uso naturale» (freccia a del livello 1 verso il livello 2, VU a.), in eguale proporzione analogica che il “valore d’uso prodotto» (VU b.) è rispetto al “valore di scambio” (freccia c del livello 2 verso il livello 3, VS); cioè, il “valore ecologico” o “ontologico”, la dignità (della terra e del lavoro vivo) procedono dall’azione creatrice assoluta (freccia d), così come il valore d’uso procede dalla sua sostanza produttrice, il lavoro vivo (freccia b). il “valore di uso naturale” non è altro che il “valore ecologico” o “ontologico” in funzione di un possibile bisogno umano (per il quale questa qualità o ricchezza naturale è “utile”). Alla stessa maniera, il “valore di scambio” non è altro che il “valore d’uso prodotto” (come valore) in funzione di un possibile atto di scambio con un’altra merce (con la quale ha equivalente “valore”)100. Marx ci darebbe una pista che aprirebbe un nuovo senso a una teologia ecologica della creazione (una, del creatore del cosmo, della realtà delle cose e delle persone, nella loro dignità, in funzione dell’utilità o del valore d’uso; l’altra, del creatore del mondo economico o della ricchezza culturale o prodotta, nel suo valore d’uso in funzione del valore di scambio). Ma questo è lontano da essere il più interessante che Marx suggerisca a una Teologia della liberazione ecologica. In effetti, l’essenziale si trova nella tanto conosciuta teoria del “plusvalore relativo”101. Per riassumere la questione, dall’inizio, si potrebbe formulare la strategia argomentativa di Marx nella seguente maniera: così come il lavoratore a partire dal XVIII 100 Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cap. 6.2, p. 126. 101 Su questo tema, cfr. le mie opere: La producción teórica de Marx, capp. 8-9; Hacia un Marx desconocido, cap. 5; El último Marx (1863-1882), cap. 5.
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secolo distruggeva le macchine, credendo che esse gli togliessero i posti di lavoro, così gli ecologisti del XX secolo giudicavano negativamente la tecnologia, credendo che essa è la causa del deterioramento ecologico della terra. In entrambi i casi si opposero all’effetto e non alla causa. La causa non fu toccata né attaccata, bensì seguì innocente e invisibile il suo corso trionfale e distruttore della natura e della persona umana della maggioranza dell’umanità. La causa è il capitale, riguardo al quale tanto la macchina quanto la tecnologia sono determinazioni interne sottomesse secondo il suo criterio essenziale: aumento del tasso di profitto (che suppone fondamentalmente l’aumento del plusvalore)102. Il capitale sussume103 il lavoro vivo, le condizioni di lavoro, eccetera, e le costituisce come sue proprie “determinazioni”, me102 Nel socialismo stalinista si trattò, invece, del criterio produttivista dell’“aumento del tasso di produzione” (che poté essere tanto feticista e anti ecologico, ma in maniera essenzialmente differente, da quello del capitale). Cfr. la questione in F. Hinkelammert, Crítica a la razón dialéctica, DEI, San José 1984, pp. 142, “Il criterio della massimizzazione del tasso di crescita economica”: «Quanto più l’orizzonte infinito dello sviluppo tecnico valorizza il processo di crescita economica come il suo veicolo reale, tanto più conferisce anche un valore intrinseco e innato alla propria struttura socialista, che ha nel tasso di crescita la sua norma centrale di condotta» (p. 143). Tuttavia, il socialismo reale non avendo un meccanismo di aggiornamento tecnologico (come la concorrenza capitalista nel mercato), andò retrocedendo tecnologicamente a tal punto che si produsse la crisi totale del sistema che tutti conosciamo. Il tasso di produzione era tendenzialmente discendente (legge che mai si era studiata, ma che doveva analogicamente compiersi come nel caso del capitale, ma che per altre ragioni, che sarebbe lungo spiegare qui, e perciò si deve passare a una critica “marxista” del socialismo reale). 103 Questo concetto essenziale dell’ontologia di Marx, “sussunzione” si deve studiare profondamente (cfr. ciò che ho detto in La producción teórica de Marx, cap. 7.2, pp. 148 ss., e cap. 17.3, pp. 350 ss.; Hacia un Marx desconocido, cap. 13.1, pp. 266 ss.; El último Marx (1863-1882), cap. 1, su “El Capítulo 6 inédito”. Ne Il capitale definitivo, quarta redazione del 1866, ci rimangono solo poche parole al riguardo (cap. 14; Siglo XXI, 1/2, pp. 615 ss.;
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diazioni. La tecnologia104 è un mezzo di lavoro, una condizione della produzione, una mediazione la cui finalità è aumentare la produttività della forza lavoro; cioè, aumentare il plusvalore relativo (e il suo tasso). Ma, e qui si trova il punto centrale, il criterio per sussumere una tecnologia (il motore a scoppio a benzina e non l’elettrico) deve essere sempre l’“aumento del tasso di profitto”. Se una tecnologia, scoperta, eccetera, dà un capitale maggiore tasso di profitto che un’altra, sarà scelta. In maniera che la tecnologia, così come oggi la conosciamo, non è altro che una tecnologia tra le possibili e il cui criterio di realtà o di esistenza rimane determinato dall’essere quello del maggiore tasso di profitto prodotto a breve termine (e deve essere a breve termine, perché la “concorrenza” non permette lunghi termini, poiché in questo lasso di tempo il capitale sarebbe stato distrutto in questa concorrenza da altri capitali più sviluppati, o tecnologicamente meglio forniti riguardo a produrre per unità di prodotto, meno valore e proporzionalmente più plusvalore). Questo sfugge a un certo ecologismo, la tecnologia non è perversa in sé, bensì lo è il “tutto” che la usa e la sussume per un fine perverso; l’aumento cosale (e non umano né etico) del plusvalore. In questo caso la tecnologia non è antiecologica, bensì l’essenza del capitale105: il capitale costituisce la natura e
MEGA, II, 6, pp. 478 ss.). E fu così perché il tema doveva essere trattato nell’ultima sezione, successivamente all’accumulazione, sulla “sussunzione formale” e “materiale” (o reale) del lavoro nel capitale. Ma dato che in quest’ultima sezione si eliminò il tema della “sussunzione”, non ebbe il posto centrale che in realtà doveva avere nella “logica” de Il capitale. 104 Cfr. la mia opera Filosofía de la producción (e i Cuadernos tecnológico-históricos de Marx, de Londres en 1851, Universidad de Puebla, Puebla 1983). 105 La sua essenza è «valorizzare il valore» (Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cap. 7 ss.).
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la persona del lavoratore come mediazioni per la “valorizzazione del valore”. Ha rovesciato il principio di ogni etica: ha posto la persona come mezzo e le cose (il plusvalore) come fine. La causa creatrice: del plusvalore (il lavoro vivo) è adesso una mediazione dell’aumento cosale del plusvalore (fondamento del profitto). La natura, da parte sua, è qualcosa di appropriabile, sfruttabile, pura mediazione senza dignità propria (creatura di Dio, direbbe un medievale; senza valore di “scambio”, senza prezzo, direbbe Marx). Questa è la ragione ontologica ed etica della distruzione ecologica della Terra, e, ancor peggio, il capitale non ha nessuna possibilità di stabilire a se stesso un limite (ogni limitazione è la sua totale annichilazione come capitale). Porre al capitale un limite ecologico è distruggere nella sua essenza la sua propria “logica”, che consiste nel lottare mortalmente (homo homini lupus) nella “concorrenza” per contrastare la tendenziale discesa del tasso di profitto. D’altra parte, liberare la tecnologia dagli artigli del capitale è il tentativo dei paesi periferici che, avendo bisogno di tecnologia, non possono adottarla antiecologicamente. Questa liberazione ecologica della tecnologia è un compito di coscienza economica e di organizzazione politica. Marx ci dà così il quadro teorico per sviluppare il tanto urgente capitolo di una Teologia della liberazione ecologica; cioè, essendo il capitale il “demonio visibile” nella storia presente, la tecnologia si trova agganciata a una “relazione sociale” (di peccato), il cui “Destino” – per parlare come Heidegger, ma rovesciandolo – può compiersi solo “fuori” e “superando” l’essenza del capitale. La tecnologia oggi è un “pane” che si sacrifica al Feticcio. Sarà necessario liberarla affinché serva alla persona come mediazione per produrre il “pane”, frutto della terra e del lavoro degli uomini (come si esprime l’offertorio della messa cattolica): indicazione economica, ecologica, eucaristica. Ciò che la Bibbia e l’offertorio esprimono “me-
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taforicamente” o simbolicamente, Marx lo esprime “scientificamente” (con una “scientificità” che abbiamo definito in un altro luogo106. Da parte sua, la Teologia della Liberazione, partendo dalla Bibbia nella quale soggettivamente si “crede”, esercita le mediazioni categoriali di Marx – tra le altre – per raggiungere metodicamente un grado di chiarezza sconosciuto, in concreto, da altre teologie. La “terra” è adesso oggetto della “teologia”, ed è in essa dove si deve realizzare il “Regno di Dio”, comunità etica assoluta, ideale, utopica, la cui fatticità è affermata dal credente, dando alla sua praxis solidaria, una propria fermezza.
106 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido, cap. 14, pp. 285 ss.
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6. L’ateismo dei profeti di Israele e di Marx1
Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non parlano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni (Salmo 113, 4-8).1 Elia cominciò a beffarsi di loro [gli adoratori di Baal], dicendo: “Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è sovrapensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà (1 Re 18,27). La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica (K. Marx, Zur Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie, ed. Lieber-Furth, Cotta, Stuttgart 1971, I, p. 489 [tr. it., Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p. 162]). L’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale (Sündenfall) nella teologia (Id., El Capital, I, cit., capitolo 24,1 [tr. it. cit., p. 879]). 1 Comunicazione presentata alla II Settimana dell’Associazione di teologi argentini (Cordoba, Argentina, 1972).
278 Nel periodo della manifattura in senso proprio è la supremazia commerciale a dare il predominio industriale. Da ciò la funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale. Esso fu il “dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolare via tutti (ivi, capitolo 24, 6 [tr. it. cit., p. 926]).
È oltremodo noto che i profeti di Israele lottarono contro l’idolatria. Ciò che forse non è stato pensato è che questa lotta significa un certo ateismo: è negazione degli dei, negazione di certi dei. È bene, d’altra parte, ricordare che gli stessi cristiani furono accusati dai romani di non adorare i loro dei romani e, per questo, andavano nei circhi accusati di ateismo. Il peggiore atto di infamia contro l’impero romano era la negazione di adorare la divinità dell’imperatore. L’imperatore era dio, cioè l’impero era sacro, e al di sopra di tutti gli dei si doveva rendere culto a ciò che significava il potere dell’impero come tale: il potere imperiale. Quando i cristiani, atei degli dei romani, non adoravano l’imperatore, erano colpevoli di sovversione contro l’ordine cosmopolita e rei di tradimento sacrilego delle tradizioni patrie. Lo stesso Taziano, che accetta i costumi dell’impero, non può arrivare ad adorare i suoi dei: È per noi che sono nati il sole e la luna: come potrò adorare i miei servitori? Come potrò ammettere che dei pezzi di legno o delle pietre mi vengano indicati come dei?2
Nessuno, allora, deve né può scandalizzarsi perché qualcuno afferma l’ateismo. La domanda deve, invece, centrarsi nella seguente maniera: «Che dio si nega? Perché? È possibile che qualcuno pretenda negare tutti gli “dei”, ma di fatto neghi sol-
2 Discurso contra los Griegos, paragrafo 4, ed. Ruíz Bueno, BAC, Madrid 1954, p. 577 [tr. it. di S. Di Cristina, Borla, Roma 1991, p. 60].
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tanto un tipo di divinità e, per questo stesso, la sua negazione non è se non la propedeutica affermazione del Dio che si nega e che non nega, nel suo fondamento, perché neppure lo conosce. Tale è, quindi, la situazione di Marx. Nei Manoscritti del 1844 si legge: L’ateismo in quanto negazione di questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, si, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo.3
In ciò Marx non fa altro che seguire lo slogan di Feuerbach: «Il compito dell’età moderna fu […] la trasformazione e la dissoluzione della teologia nell’antropologia»4. Dissolvere la teologia in antropologia è un ateismo. Ma, di nuovo, dovremo chiederci della negazione di quale dio si tratta, perché se fosse la negazione di una semplice ideologia, di un feticcio, questo ateismo sarebbe la propedeutica, attraverso l’antropologia, dell’affermazione di un Dio alterativo al quale, soltanto con la giustizia, si può rendere culto. Certamente il “dio” che negarono Feuerbach e Marx non era altro che il “dio” affermato da Hegel e dal capitalismo industriale e colonialista europeo. Essere ateo di un tale “dio” è condizione per potere adorare il Dio dei profeti di Israele. È chiaro che una tale affermazione è già “il momento positivo” di un movimento dialettico che adesso vogliamo soltanto considerare nel suo primo momento: il momento negativo, quello dell’affermazione atea o la negazione del “dio” feticcio.
3 Oekonomisch-philosophische Manuskripte (Mss. del 44), III, in Karl Marx frühe Schriften, I, ed. Lieber-Furth, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, p. 607 [tr. it. cit., p. 125]. 4 Grundsätze der Philosophie der Zukunft, paragrafo 1, ed. R. Berlinger, Klostermann, Frankfurt/M. 1967, p. 35 [Principi della filosofia dell’avvenire, in L. Feuerbach, Scritti filosofici, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1976, p. 201].
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6.1. I profeti contro l’idolo, il feticcio Per i profeti di Israele, le “nazioni” (goîm) erano cadute in un triplice peccato: l’idolatria, l’omicidio e la bestialità. Dei tre errori, il più grave era il primo, che fondava i restanti. Nella metodica profetica si può osservare sempre la presenza di certe categorie interpretative che servivano alle “scuole di nabim” (profeti) per lanciare i loro violenti appelli al popolo di Israele e ai vicini. La prima categoria fondamentale era quella della carne (in ebraico basar, in greco σάρξ)5, che potremmo oggi, nel mondo contemporaneo, tradurre con “totalità”. La categoria opposta a quella della carne è quella dello spirito (in ebraico ruah, in greco πνεύμα) che a volte si denomina anche parola (in ebraico dabar, in greco λόγος), che oggi potremmo denominare “alterità”. Le “scuole profetiche” sapevano usare abilmente queste categorie. Così, per esempio, il Dio unico di Israele – che con il tempo sarà l’unico Dio di tutto l’universo – sarà sempre considerato come precedente al cosmo creato, come se venisse dal futuro e dall’esteriorità della creatura come tale. Dio creatore è l’alterità riguardo al cosmo, agli astri, agli uomini, alle nazioni e allo stesso Israele. Dio irrompe, interpella, chiama, provoca a partire dall’“esteriorità” per ricostituire la “carne”, per re-imprimere movimento storico alle “totalità” che a causa del peccato si immobilizzano nel loro progresso dialettico. Per questo, l’unico peccato o errore, frustrazione della “totalità” (e per questo della persona), è “totalizzare” la carne a tal pun-
5 Cfr. la mia opera El humanismo semita, Editorial Universitaria de Buenos Aires, Buenos Aires 1969, pp. 22 ss. Sulla categoria di “totalità”, nulla meglio che l’opera di E. Levinas, Totalité et Infini, M. Nijhoff, La Haye 1961. Cfr. anche la mia opera Para una ética de la liberación latinoamericana, cit., I parte, cap. III.
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to che la si divinizza, e con questo non si ascolta più la voce dell’esteriorità, unico momento che potrebbe realizzare il processo. I primi quattro miti del Genesi sono racconti simbolici dei processi di “totalizzazione” (della carne feticizzata) che impediscono il processo di aumento qualitativo della storia. Il mito di Caino e Abele mostra come un fratello uccide l’altro. Il fratricidio è la “totalizzazione” di Caino, la sua instaurazione come unico e come insuperabile. L’unico peccato è uccidere l’altro. Scomparendo l’“alterità” (Abele, il fratello), la carne si feticizza, si divinizza: per questo (e si tratta della stessa questione) il serpente che tenta di suggerire ad Adamo: «Sarete come gli dei». Il peccato, morte dell’altro, è divinizzazione totalitaria della totalità. Per i profeti, il serpente simbolizza la “precedenza” del peccato nel mondo, cioè l’istituzionalizzazione, e la possibilità va prendendo forma e fa sì che il recente venuto al mondo non possa, se non affrontare la tentazione di totalizzarsi, cioè negare l’altro e costituirsi come divino, come unico. L’amore della totalità (la carne) come totalizzata è, quindi, negazione dell’alterità (l’altro, lo spirito, la parola) e pertanto divinizzazione, cioè idolatria, feticismo. Il passaggio, quindi, agli occhi dei profeti, tra il peccato e l’idolatria è immediato. Colui che uccide l’altro si deve adorare (o adorare qualcosa che è egli stesso proiettato: «Il feticcio fabbricato dalle sue mani») come “divino”. In questo caso, l’idolatra, la cui feticizzazione cominciò con l’ingiustizia del fratricidio o la morte dell’altro (che in concreto è morte del figlio, della moglie, dell’“afro” o dell’anziano da parte del maschio bianco, adulto), è considerato ateo del Dio creatore, alterativo. In questo caso, Israele enunciava che «lo stolto pensa: non c’è Dio» (Salmo 14,1). Questo ateo è ateo del Dio creatore, del Dio alterativo, di colui che interpella con la giustizia. L’idolatra è ateo del Dio di Israele, del Dio cristiano. Paolo indica come i gentili «eravate […] senza speranza e senza Dio (ἄϑεοι) in questo mondo» (Efesini 2,12).
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L’ateismo del dio creatore e alterativo si può schematizzare nella seguente maniera. Schema 6.1. L’idolatria, ateismo del dio creatore.
2. Momento negativo: negazione dell’alterità (ateismo creazionista) 4. Il divino, feticismo, panteismo
1. Dio creatore interpellante per la giustizia
3. Momento affermativo: affermazione della totalità vigente come divina (idolatria)
La “logica dell’alterità”, che era maneggiata dalle “scuole profetiche” con perfetta competenza, indicava nel suo discorso un primo momento; tutti i restanti erano corollari che i profeti seppero mostrare al loro popolo d’Israele. La negazione dell’alterità, in generale, ma concreta e primieramente come ingiustizia riguardo a ciò che si ha più vicino (il volto del fratello; volto in ebraico si dice pné, che è tradotto in greco con πρόσωπον e in latino con persona); il “prossimo” come colui che si confronta con noi nel suo volto alterativo, è già ateismo del Dio alterativo, perché, per una logica etica, colui che nega suo fratello si afferma come unico, come signore, come dominatore. Nel linguaggio profetico: pecca. Il peccato è totalizzazione della totalità, e per questo, negazione dell’alterità. Negare l’alterità è negare il Dio alterativo, cioè affermare la totalità (la carne) come divina. Il peccato di ingiustizia riguardo all’altro uomo è peccato di idolatria riguardo a Dio. È lo stesso peccato nei suoi due opposti. Per questo, i profeti
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sono gli accusatori incorruttibili del peccato come totalizzazione dell’ordine vigente ingiusto, che è lo stesso che dire contro la divinizzazione dell’ordine politico o economico al potere. All’origine della monarchia di Israele si vede chiaramente il confronto tra il profetismo e il potere politico che si sta costituendo. Samuele non vuole ungere nessun re per il popolo ebraico. Il profeta dice: Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: Prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio. […] Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere (1 Samuele 8,11-18).
La successiva dialettica tra profeta/re (alterità/totalità) mostra come il profeta è un resto escatologico di esteriorità che permette sempre di poter criticare il sistema. La contraddizione tra Samuele/Saul si continuerà tra Nathan/Davide, Aia/Geroboamo, Elia/Acab, Michea/Giosafat, Eliseo/Jehu, Isaia/Ezechia eccetera. La dialettica dominatore/dominato (il signore/ schiavo nel senso hegeliano non ha nulla a che vedere con il senso profetico di questa dialettica) si gioca dentro la totalità (la carne) come peccato. E giustamente come alterità il profeta si confronta alla totalità resa idolatra per mostrare l’ingiustizia della dominazione e della repressione come il rovescio dell’ateismo del Dio creatore o dell’affermazione feticistica del sistema. Se si accusa la totalità, il sistema, il re (sia di Israele, di Giuda, o di Egitto come faraone riguardo a Mosè, o di altri popoli o “ordini” costituiti), dell’unico peccato bipolare: idolatria e ingiustizia, cioè negazione dell’alterità e affermazione della totalità come unica teologica e politico-economicamente parlando: Appena lo vide, Acab [il re] disse a Elia [il profeta]: «Sei tu la rovina di Israele». Quegli rispose: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu insieme con la tua famiglia, perché avete ab-
284 bandonato i comandi del Signori e tu hai seguito Baal» (1 Re 18,17-18).
Come si può vedere, la totalità non accetta la critica alterativa del profeta. Il contrario, sempre presente in tutti i profeti, non si lascia aspettare: Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani (Isaia 10,1-2).
Una volta che il “sistema” si è feticizzato, è possibile in nome del diritto, opprimere il debole, la donna, il bambino, l’anziano. Per questo, la “logica dell’alterità”, il metodo delle “scuole profetiche” rimane ben espresso nel seguente discorso o corso razionale: «Non avere altri dei di fronte a me […] Non uccidere […] Non rubare» (Deuteronomio 5,7-19). Poco o nulla, in verità, si è pensato su questa dialettica. Ciò che si divinizza istituendo dei intrasistemici nega il Dio alterativo: negando l’alterità, nega l’altro, il fratello, la donna, il bambino, l’anziano: propone, quindi, il suo potere dominatore come l’unico, si divinizza. La feticizzazione della totalità è il frutto e il fondamento ideologico dell’ingiustizia antropologica, politica, economica. Non divinizzare la totalità, non uccidere, non rubare, non sono proposte negative, bensì negazione di negazione: no al no al Dio alterativo; no al no alla vita; no al no alla possibilità dell’essere reale dell’altro. Non-uccidere è il no-al-no-alla-vita dell’altro, cioè rispetto o amore all’altro nella giustizia. Così, il profeta si trova nella situazione di colui che deve negare la negazione del totalizzato: deve criticare il dominatore, ingiusto, idolatra, feticista. No alla negazione del Dio alterativo è no all’idolo; no alla negazione di giustizia è no all’ordine politico-economico imperante. Subito, quindi, il profeta diviene ateo dell’idolo e politico-sovversivo dell’ordine ingiusto vigente. Ci troviamo al rovescio della questione precedente.
285 Schema 6.2. Il creazionismo, ateismo del feticismo.
1. Il divino, feticismo, panteismo
2. Momento negativo: negazione della negazione (ateismo del feticcio) 3. Momento affermativo: affermazione dell’alterità (giustizia e creazionismo)
4. Dio creatore interpellante per la giustizia
Il processo di totalizzazione si indica quando si afferma: Facci un Dio che cammini alla nostra testa […] li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso (Esodo 32,1-4).
La praxis atea di profeta riguardo all’idolo si esprime nella formula: L’ira di Mosè si accese […] afferrò il vitello che aveva fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere (Esodo 32,19-20).
L’idolo, il sistema o la totalità (la carne come totalizzata) è come l’amante. Colui che accede e lo adora è una prostituta, poiché si vende al miglior offerente: Va’, prenditi in moglie una prostituta […] poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore (Osea 1,2).
È la prostituzione politica del sistema: Essi sono saliti fino ad Assur, asino selvaggio, che si aggira solitario; Efraim si è acquistato degli amanti. Se ne acquistino pure fra le nazioni, io li metterò insieme e fra poco cesseranno di eleggersi re e governanti (Osea 8,9-10).
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L’idolatria diventa ingiustizia: l’oppressore divinizzato domina il debole; se questi accetta la divinità del forte, è come una prostituta, perché accetta la causa del suo dominio, e si vende. Il profeta chiama: Non c’è infatti sincerità né amore del prossimo, né conoscenza di Dio nel paese. Si giura, si mente, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue (Osea 4,1-2).
Di seguito si dà la ragione di queste ingiustizie: Il mio popolo consulta il suo pezzo di legno e il suo bastone gli dà il responso, poiché uno spirito di prostituzione li svia e si prostituiscono, allontanandosi dal loro Dio (Osea 4,12).6
L’ateismo dell’idolatria è il primo momento, il momento negativo del movimento dialettico dei profeti. Il secondo momento, l’affermativo, è la proclamazione di un Dio che si rivela al povero, la vedova e all’orfano, poiché essendo esteriore al sistema o alla totalità è accolto e servito poiché ha l’udito attento e il cuore dedito alla giustizia, all’altro. Colui che si totalizza è ateo del Dio alterativo, adoratore feticista del dio prodotto dall’uomo: idolatra.
6 In questo senso, Giovanni l’evangelista conosce esplicitamente la “logica dell’alterità” e la bipolarità dialettica di una stessa esigenza: «Chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Giovanni 2,11). Come il povero è l’epifania di Dio, colui che nega il povero, il fratello, nega l’epifania di Dio creatore ebraico-cristiano. Colui che odia il fratello odia Dio o, meglio, divinizza se stesso: è un idolatra. Essere ateo di una tale idolatria è il primo momento, il momento negativo della profezia.
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6.2. Marx contro il feticcio moderno, il capitale Vogliamo enunciare fin dall’inizio la nostra tesi: Marx enuncia il primo momento o il momento negativo della dialettica profetica, cioè la negazione della divinità del feticcio, dell’idolo, ma forse non arriva al momento affermativo o positivo se non soltanto come antropologia. Non poté affermare un Dio alterativo, momento necessario e fondante dell’irreversibilità dell’affermazione del feticismo; gli era impossibile perché era segnato, forse, da una limitazione della sua generazione, specialmente di Feuerbach, quella di confondere il “dio” di Hegel (che non è altro che la totalità europea sacralizzata) con ogni “dio” possibile, anche il Dio alterativo di Israele o dei poveri come liberazione. La non affermazione di un Dio alterativo permetterà successivamente alla burocrazia sovietica di affermare se stessa come la realizzazione sacrale insuperabile di un ordine stalinista che affermava un materialismo dialettico, senza potere più trovare in nessuna esteriorità il punto di appoggio della sua propria critica7. Ma, d’altra parte8, e in concreto in America latina, farà del marxismo un movimento di élites intellettuali che non poteva collegarsi, né servire il potere creativo della cultura del popolo per quanto si riferisce il simbolismo religioso; cioè, la creatività simbolica di un popolo sarà disprezzata dalla razionalizzazione astratta di marxisti “ortodossi”, così che la reazione di destra potrà rivolgere contro il popolo oppresso gli stessi simboli e miti che nacquero dalla sua sofferenza, dal suo lavoro, dalla sua quotidianità creatrice in quanto esteriorità del sistema. Così come dobbiamo sapere di che tipo di ateismo si parla (se era negatore del feticcio o del Dio liberatore dei poveri), così anche dobbiamo chiederci 7 Scrivevamo questo nel 1972. 8 Cfr. H. Assmann, “El cristianismo, su plusvalía ideológica y el costo social de la revolución socialista”, in Teología desde la praxis de la liberación, Sígueme, Salamanca 1973, pp. 171-203.
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quale religione è alienante o oppio del popolo oppresso (quella che sacralizza l’ordine stabilito o quella che lo desacralizza per rilanciarlo verso il futuro: non si deve dimenticare che la religione ebraico-cristiana è desacralizzatrice del cosmo e di ogni ordine politico o economico, poiché non può adorare una creatura, né il Faraone né il capitale). Gli equivoci furono inevitabili per un europeo del XIX secolo, ma non per un latinoamericano del XX secolo. Riguardo alla questione della divinizzazione o feticizzazione del capitale, il Marx della gioventù pensò come quello della sua definitiva maturità, contro le tesi occultanti e superficiali di Althusser9. Nella sua gioventù subì l’influsso di una polemica senza eguali, che Schelling lanciò nel 1841 nei suoi famosi corsi di Berlino. Per questo Marx dirà che «gli eroi del pensiero si sono rovesciati l’un l’altro con furia inaudita, e nei tre anni dal 1842 al 1845 in Germania si è fatto pulizia più che altrove in tre secoli»10. Marx accettò l’essenziale del discorso antiteologico di Feuerbach, e pertanto i suoi limiti. Per il Feuerbach del 1843 (che aveva già scritto L’essenza del cristianesimo 1843; Tesi preliminari per la riforma della filosofia, 1842 e Principi della filosofia dell’avvenire, 1843), la questione si può riassumere così: in primo luogo, si indica che la questione di “dio” si introduce come teismo; in secondo luogo, si supera il teismo nel panteismo11; in terzo luogo, si indica come la metafisica dell’identità razionale di Hegel è un certo panteismo; 9 Per una recente bibliografia sulla questione, cfr. J. Kadenbach, Das Religionsverständnis von Karl Marx, F. Schöningh, München 1970, pp. XVIIILXXIV. 10 Die deutsche Ideologie, I, Feuerbach, ed. Lieber-Furth, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, t. II, p. 12 [tr. it. cit., p. 5]. Si trattava della «decomposizione del sistema hegeliano» (ibidem). 11 Grundsätze der Philosophie der Zukunft, cit., paragrafo 14, pp. 51-120.
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in quarto luogo, si dimostra come questa divinizzazione non è altro che la divinizzazione della ragione, un momento dell’essere dell’uomo. Per questo, Feuerbach propone un ateismo riguardo al “dio” di Hegel e l’apertura verso un’antropologia che permetta di scoprire la persona sensibile, l’altra persona12. Marx non si opporrà solo alla divinizzazione razionalizzata del soggetto hegeliano, ma anche alla divinizzazione dell’ordine politico ed economico che la Filosofia del diritto fondava. Si tratta di una critica alla divinizzazione di una struttura di ingiustizia. Tuttavia, sia lui sia Feuerbach non avevano percepito un primo momento negativo proprio della feticizzazione o stadio idolatrico del sistema; cioè non avevano considerato che la modernità europea era passata dapprima per la situazione che più sopra abbiamo chiamato l’“ateismo dal Dio dei poveri”. Schema 6.3. Il feticismo del capitalismo, ateismo del Dio creatore. 2. Momento negativo: negazione dell’alterità nella dominazione dell’indio, del negro, dell’asiatico, del salariato (ateismo creazionista) 4. Divinizzazione del capitale
3. Momento positivo: affermazione della totalità del capitale, della modernità europea
12 Ivi, paragrafo 32-62; pp. 87 ss.
1. Dio creatore interpellante per la giustizia
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Feuerbach e Marx, come Kierkegaard nella sua lucida critica della Cristianità in nome del cristianesimo, identificarono il “dio” hegeliano con la sacralizzazione dell’“io” europeo, imperiale e recentemente capitalista. Tuttavia, non videro chiaramente il processo della modernità, nella sua stessa origine, che, negando l’alterità del povero, del Dio-Altro, e il povero nella sua epifania, divinizzò se stesso. La conquista dell’America fu già un primo fatto importante: «Si scoprì una bocca dell’inferno per la quale entra, ogni anno, grande quantità di gente che l’avidità degli spagnoli sacrifica al loro dio, ed è una miniera di argento che si chiama Potosí»13, diceva colui che sarà il primo vescovo de La Plata il 1° luglio 1550. Quel cristiano del XVI secolo vedeva chiaramente che l’oro e l’argento erano il “dio” che il conquistador adorava, il nuovo “dio” della modernità europea. A questo “dio” si immolavano gli indios che morivano nelle miniere. Si può, quindi, vedere l’interpretazione teologica di un fatto economico-politico: la bocca della miniera era un nuovo Moloch che mangiava uomini. Si tratta dell’idolatria dell’uomo moderno europeo: ha feticizzato l’oro e l’argento, il denaro, il capitale ha negato il Dio creatore alterativo che interpella come giustizia, ha divinizzato se stesso come sistema sfruttatore dell’uomo per aumentare la ricchezza. Marx affronta il fatto di un sistema già divinizzato, già idolatrico, una religione eurocentrica e totalizzata che ha già negato il Dio altro, alterativo, escatologico. Pensa la religione esclusivamente come la religione della Cristianità14 europea, sia cattolica, luterana, calvinista o puritana. La “religione” che pensa 13 Archivo General de Indias, Charcas, folio 313. 14 La nozione di Cristianità (cultura bizantino-latina organizzata a partire dal IV secolo) l’abbiamo esposta in numerose nostre opere; cfr. Caminos de liberación latinoamericana, Latinoamérica Libros, Buenos Aires 1972, pp. 615; per una bibliografia, cfr. la nota a pag. 7.
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Marx è, di fatto, organizzata a partire dalla divinizzazione del cogito europeo (Descartes e Spinoza), dello Stato borghese (Hegel). Marx si solleva per negare questa divinizzazione feticistica, idolatrica. Per questo ripete il primo momento negativo dei profeti: negazione dell’idolo come dio; ateo, quindi, dell’idolo. Ma in due aspetti si denota la limitazione della sua negatività dialettica: primo, che non si dà conto che la sua negazione è negazione della negazione di un Assoluto alterativo: secondo, questa negazione deve essere la propedeutica all’affermazione di un Assoluto alterativo che permetta di avere un punto di appoggio di esteriorità sufficiente per potere effettuare nuove critiche in ogni ordine futuro possibile. Senza questa affermazione, alla fine, la negazione dell’idolatria o il feticismo del capitale può tornare a chiudersi in una nuova idolatria: la burocrazia stalinista, per esempio – scriviamo nel 1972. Vediamo i testi del giovane Marx e del definitivo, per dimostrare quanto accertato da questa interpretazione. «Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo»15. La religione, se la si considera nel suo contesto economico-politico, è, in fondo, «l’oppio del popolo»16, e, in questo senso, la sua esistenza è «l’esistenza di una carenza»17. Si tratta della sacralizzazione del sistema. Questa idolatrica divinizzazione si concreta nell’adorazione del denaro. Da una parte, «il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo (fremdes Wesen), come
15 “Zur Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie”, in Karl Marx frühe Schriften, I, p. 488 [tr. it. cit., p. 161]. 16 Ibidem [tr. it. cit., p. 162]. 17 “Zur Judenfrage”, in ivi, p. 457: «Das Dasein der Religion das Dasein eines Mangels ist» [tr. it. cit., p. 180].
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una potenza indipendente da colui che la produce»18. Quando questo essere indipendente sia posseduto da un altro che il lavoratore, si produce l’alienazione dell’essere dell’operaio. La proprietà privata viene ad istituzionalizzare questa espropriazione, e per questo è il male originario. Così si immolano uomini per «il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto […] È la divinità visibile […] È la meretrice universale […] La forza divina propria del denaro»19. «Il denaro è la forza veramente creatrice»20. L’ateismo, come negazione della divinità del denaro, della totalità del sistema capitalista, ha senso per Marx solamente come un primo momento. Ci dice: L’ateismo – come abbiamo già citato –, in quanto negazione di questa inessenzialità non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo.21
Cioè, ed è chiaro, Marx, come i profeti, nega il “dio” idolatrico (in questo caso il “denaro”, e qui l’ateismo ha senso; in quanto affermazione, si può affermare l’uomo solo come socialismo). Ma in questo caso, e senza avvertire, potrebbe ancora dare fondamenti per la sacralizzazione del primo socialismo che pretende essere tale. Vediamo questo di nuovo, ricorrendo allo schema già prima indicato in alcuni testi definitivi de Il capitale.
18 Oekonomisch-philosophische Manuskripte (Mss. del 44), I; ed. cit., I, p. 561 [tr. it. cit., p. 71]. 19 Ivi, III, pp. 631-634 [tr. it. cit., pp. 151-154]. Il gusto di Marx di usare riguardo al denaro termini teologici non è occasionale: «Es ist die sichtbare Gottheit […] Es ist die allgemeine Hure [così come si esprimono i profeti] […] die göttliche Kraft […]». 20 Ivi, p. 634 [tr. it. cit., p. 155]. 21 Ivi, p. 607 [tr. it. cit., p. 125].
293 Schema 6.4. La liberazione, ateismo del capitalismo feticista.
1. Divinizzazione del capitale
2. Momento negativo: negazione della negazione dell’altro: del salariato, dell’indio, del negro (ateismo del feticcio) 3. Momento positivo: affermazione dell’alterità (antropologica o assoluta)
4. Dio creatore che provoca la liberazione
Ne Il capitale si parla de «Il carattere di feticcio [Fetischcharacter] della merce e il suo arcano»22, questione che è piena di «piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici»23: Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria24, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini […] Questo io chiamo feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro […] Tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci.25
22 Libro I, I, capitolo I, 4; ed. Ullstein Verlag, Frankfurt/M. 1969, t. I, p. 50 [tr. it. cit., p. 86]. 23 Ibidem [ibidem]. 24 «[…] selbständige Gestalten», ci dice ricordandoci il linguaggio delle sue opere giovanili, dove la merce si fondava in un’alienazione del lavoro umano. 25 Ivi, p. 52 [tr. it. cit., p. 88].
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E come Marx conosceva soltanto la descrizione privatizzante del cristianesimo che era arrivato a lui attraverso Hegel e la sua generazione, poté dire: Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l’uno all’altro in questa forma di cose, come eguale lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc. e la forma di religione più corrispondente.26
In questo testo si può vedere chiaramente l’identificazione della totalizzazione borghese effettuata in Europa come trasformazione della cristianità latina medievale con il cristianesimo come tale. Per Marx, la realtà economico-politica d’Europa così come la interpretavano Hegel e la sua generazione era il cristianesimo, l’unica religione possibile; cioè, la negazione della “divinizzazione dell’ordine capitalistico” era, allo stesso tempo, la negazione di ogni religione, di ogni “dio” o alterità. C’era un’affermazione, ma era solo antropologica (nell’ordine futuro socialista, riconciliazione finale del processo). D’altra parte, per potere affermare l’uomo come realtà generica, come umanità liberata, era necessario non solo enunciare l’ateismo del feticismo del denaro, bensì indicare la forma concreta di questo feticismo, il male primario o originario. È qui dove dobbiamo avvalorare il testo posto all’inizio di questo corto capitolo: «Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia»27. L’accumulazione iniziale indica il fatto che
26 Ivi, p. 58 [tr. it. cit., p. 96]. 27 Ivi, I, capitolo 24, I; p. 659 [tr. it. cit., p. 879].
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alcuni «hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto altro da vendere che la propria pelle»: Da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro.28
Ma il nostro autore è ancora molto più preciso storicamente: La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica.29
Vuole, quindi, dire che l’ateismo del feticismo del denaro, che è l’ateismo che Marx esplicitamente esercitò, poiché egli stesso indica che non è necessario altro ateismo, perché dopo la negazione viene l’affermazione dell’uomo, ce lo mostra come una vera propedeutica all’affermazione del povero, dell’operaio europeo, dell’indio americano, dello schiavo africano, e dell’asiatico della guerra dell’oppio30. Questa negazione della divinità del sistema e l’accusa delle ingiustizie che si commettono in nome di un “dio” (che in verità è un idolo prodotto dallo stesso sistema) le pronunciò in pieno XVI secolo, senza
28 Ivi, I, capitolo 24, I; p. 659 [tr. it. cit., pp. 879-880]. 29 Ivi, I, capitolo 24, I; p. 659 [tr. it. cit., p. 922]. 30 Il testo prima citato termina così: «Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra e continua nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.» (ibidem). «Il Parlamento britannico dichiarò che i cani feroci e lo scalping erano “mezzi che Dio e la natura avevano posto in sua mano”» (ivi, p. 697 [tr. it. cit., p. 925]).
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implementazione economico-politica a livello scientifico, Bartolomé de las Casas quando denunciava: Le tirannie e le oppressioni, la forza e gli affronti che soffrono le mie pecore, gli indios nativi di tutto quel vescovato, da parte degli spagnoli, specialmente gli eccessivi tributi e vessazioni e nei servizi personali e nel caricarli come bestie notte e giorno, e nel tenere come schiavi molti uomini e donne liberi.31
Marx, quindi, pensa che l’affermazione dell’uomo si effettua nella prassi, nella negazione della negazione dell’essere umano, nella negazione dell’accumulazione primitiva in mano di pochi e trasmessa dopo in eredità. L’affermazione dell’uomo si raggiungerebbe con la negazione della proprietà privata, che è la determinazione concreta dell’accumulazione o il male originario storico. La proprietà privata, come istituzionalizzazione del possesso del denaro e del suo feticismo, è qualcosa come il culto e la divinizzazione del sistema. L’eliminazione di questa proprietà deve cominciare ad essere ateismo del denaro, per poi essere socializzazione di questi beni in mano degli oppressi, la maggioranza. Fino a qui Marx può identificarsi con i profeti. La differenza consiste nel fatto che Marx non arrivò all’affermazione chiara dell’assoluto alterativo, con il quale ridusse la sua proposta rivoluzionaria ad essere un progetto razionalizzato economico-politico, mancanza di una certa trascendenza simbolica. Indusse con ciò i suoi seguaci semplicemente imitativi ad affermare un ateismo del Dio dei poveri, negare pertanto una religione sovversivo-escatologica, e anche negando il senso liberatore del mitico e del simbolico, con il quale per-
31 «El obispo de Chiapa, D. Fray Bartolomé, representa a la Audiencia de los Confines […]», in Brevísima relación, Eudeba, Buenos Aires 1966, p. 166.
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mise alla borghesia, all’oligarchia, alla reazione, di appropriarsi dei miti e dei simboli della creatività popolare (epifania di Dio e voce di giustizia come esteriorità del sistema) e farli divenire repressori al livello ideologico. In America latina, questo è di urgente attualità, data la presenza radicata nell’ethos popolare di una religiosità profonda. Miguel Hidalgo, prete, si sollevò dietro un’immagine della Vergine di Guadalupe con il suo esercito di indios e di meticci. Il socialismo democratico latinoamericano ha davanti a sé, quindi, il compito di rilanciare la dialettica atea di Marx, momento negativo nel quale semplicemente si nega la negazione del Dio creatore, fino a un’affermazione alterativa dove il religioso recuperi il suo senso liberatore, critico profetico, sovversivo in quanto sa rischiare tutto, finanche la vita, per un ordine di giustizia che anticipi il regno escatologico, meta di una speranza senza limite. Per questo ha ragione Ernst Bloch – benché con altro senso da quello che lui gli dà – che «solo un ateo può essere un buon cristiano, ed anche sostenere: solo un cristiano può essere un buon ateo»32; cioè solo un ateo dell’idolo o del sistema (la totalità o la carne dei profeti) può essere un buon cristiano (poiché afferma un Dio alterativo, pro-vocatore e liberatore fino a un limite infinito di giustizia); e allo stesso tempo, un cristiano (che afferma il mondo e tutto il sistema come creato: come non divino) può essere un buon ateo (del sistema). È necessario, quindi, non solo per benefici tattici, bensì per la strategia della verità storica e escatologica, non solo negare la negazione o l’idolo del capitalismo, bensì affermare l’alterità divina in un’America latina, un’Asia, e un’Africa dove il mondo religioso, mitico, simbolico, significa un momento effettivamente liberatore.
32 Atheismus im Christentum, Rowohlt, Hamburg 1970, p. 16 [tr. it. di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano 1983, p. 32].
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7. Teologia “habermasiana” ed economia1
Prendete e mangiate, questo è il mio corpo (Matteo 26,26).1 Il pane e il vino sono per la loro materia prodotti naturali, ma per la forma prodotti dell’uomo. […] Mangiare e bere sono i misteri della cena […] Il mangiare e il bere in quanto sono atti comuni, quotidiani sono […] un atto assolutamente religioso (L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, cap. 28 [tr. it. di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 287-288]).
A ragione la teologia europeo-nordamericana ha iniziato a dare importanza al “paradigma del linguaggio”, alla teoria dell’azione comunicativa2. Così alla fine degli anni Sessanta, la
1 Scritto nel 1989. 2 Cfr. l’opera di H. Peuckert, Wissenschaftstheorie, Handlungstheorie, fundamentales Theologie, Patmos, Frankfurt/M. 1976; anche E. Arens, Habermas und die Theologie, Patmos, Düsseldorf 1989 (specialmente H. Peuckert, “Kommunikatives Handeln, Systeme der Machtsteigerung […]”, pp. 39-64; F. Schüssler Fiorenza, “Die Kirche als Interpretations-gemeinschaft”, pp. 115-144; e M. Lamb, “Kommunikative Praxis und Theologie”, pp. 241-270). Recentemente, P. Lakeland, Theology and Critical Theory,
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Teologia della Liberazione ha dovuto “smarcarsi”3 dalla Teologia della Speranza (che si ispirava a Ernst Bloch) o della Teologia Politica (che partiva dalla Teoria Critica di Frankfurt), oggi dovrebbe nuovamente intraprendere questo compito di “demarcazione” riguardo a quella che potrebbe chiamarsi una Teologia dell’Azione Comunicativa. Compito, allo stesso tempo, tanto più urgente per quanto significhi, per la Teologia della Liberazione, una presa di coscienza di un necessario approfondimento nel suo stesso sviluppo, e come un passaggio del tema originario di “fede politica” a quello più attuale e pertinente in America latina di “prassi ed economica”. La Teologia dell’Azione Comunicativa (come la filosofia che la ispira)4, basandosi sul paradigma del linguaggio e della comunicazione razionale, ha enormi risorse e vantaggi, ma, allo stesso tempo, ha limiti. Se è vero che, come espone J. L. Austin, ci sono maniere di «fare cose con parole»5, tuttavia queste “cose” (così come contratti, promesse, eccetera) non saranno mai un pezzo di “pane”, un “aratro” o strumenti materiali prodotti di un lavoro. Ci sono “cose” che le parole non possono fare, benché quando qualcuno “ordini” al suo servo, a un dominato, in realtà produce “cose” materiali, ma per mezzo del “lavoro” di questo dominato. Abingdon Press, Nashville 1990; E. Arens - O. John - P. Rottlander, Erinnerung, Befreiung, Solidarität, Patmos, Düsseldorf 1991. 3 Questo compito lo realizza specialmente H. Assmann, nella sua opera Teología desde la praxis de la liberación, cit. (con il suo saggio su “Confrontaciones y similitudes”, pp. 76-89). 4 Su Jürgen Habermas, crediamo che le opere più importanti per i nostri fini siano: Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1968; Theorie des Kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1981, t. I-II; Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1983. Cfr. R.J. Siebert, The Critical Theory of Religion, New York 1985. 5 Ci riferiamo all’opera How to Do Things with Words, Oxford University Press, London 1962.
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In nazioni capitalistiche periferiche, sfruttate, povere, le cui masse miserabili (come in Argentina o Venezuela, paesi che fino a poco fa erano tra i più “ricchi” del Terzo Mondo, per non riferirci all’India o ad altri dell’Africa) rubano alimenti (“pane”) per non morire di fame, per “mangiare”, in essa, una mera Teologia ispirata alla Teoria dell’Azione Comunicativa, del linguaggio dialogico, delle parole, di discorsi, di testi, di conversazioni… non è sufficiente.
7.1. Paradigma del linguaggio. Teologia e comunicazione In America latina, grazie a una lunga esperienza di organizzazione popolare, sorse alla fine degli anni Sessanta, innanzitutto in Brasile (e a partire dal movimento di Educazione di Base, ispirato in parte alla filosofia pedagogica di Paulo Freire)6, un movimento chiamato delle Comunità di Base7, dove un semplice popolo, addirittura a volte analfabeta, può superare la situazione di solipsismo astratto, prodotto dal regime del capitale, della marginalità urbana, o con la distruzione dell’esperienza di comunità rurale, in un’organizzazione dove, grazie al dialogo, la discussione, la riflessione critica (a partire dal “testo” biblico, cioè un’autentica ermeneutica popolare e politica), questi individui isolati riescono a costituire una “comunità”, arrivano a un “accordo (Verständigung)” a partire da argomenti propri. È un’esperienza unica, poiché i membri di queste Comunità di Base si trovano nell’“Esteriorità” di tutte
6 Cfr. la mia opera La pedagógica latinoamericana, Nueva América, Bogotá 1980. 7 Cfr. il mio articolo “La base en la teología de la liberación (perspectiva latinoamericana)”, in «Concilium», 104 (1975), pp. 76-89 (cfr. la bibliografia).
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le “comunità di comunicazione”8 egemoniche, nelle quali non hanno avuto nessun diritto di esprimere la propria parola. In questa maniera, in effetti, la Teologia della Liberazione, a partire dalla sua origine, ha compreso la Chiesa come “comunità di interpretazione” (per usare l’espressione di Francis Schüssler F.), specialmente queste Comunità di Base come l’espressione più essenziale della Chiesa dei Poveri. Si potrebbe così applicare tutto l’orizzonte categoriale della Teologia dell’Azione Comunicativa a un’ecclesiologia, cristologia, esegesi, eccetera, di una Teologia della Liberazione latinoamericana. Il “prendere la parola” del Popolo è stata un’esperienza del nostro continente, ampliando al marginale, al mondo operaio, contadino, eccetera, l’orizzonte della razionalità argomentativa critica, fatto che si è denominato con tutta precisione: “coscientizzazione” (presa di coscienza argomentativa delle condizioni politiche di possibilità di un’azione organizzativa popolare che tocca le istituzioni e la loro riproduzione, nella sua essenza stessa e a proposito di cambio strutturale). Ciò che accade è che, di fatto, questa “comunità di comunicazione” alla Base si trova in un “mondo della vita quotidiana (Lebenswelt)” che pretende di essere colonizzato dal sistema economico e dallo Stato in una maniera completamente differente che nel tardo capitalismo, centrale, sviluppato, dominato; e, per questo, tutta l’analisi si deve effettuare in un’altra maniera rispetto a come la sviluppa Habermas9. In realtà, il “mondo della vita quotidiana” soffre tale tipo di contraddizio-
8 Come le chiamerebbe Karl-Otto Apel nella sua Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1973, t. I -II. 9 Si racconta che, nel suo viaggio in America latina nel 1989, Jürgen Habermas abbia espresso il suo sconcerto di fronte alla realtà di questo continente. Ne ha ben donde! Le sue categorie sono state pensate per il tardo “capitalismo (Spätkapitalismus)”, ma non per un capitalismo sfruttato, e periferico come il nostro.
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ni che lo Stato semi-burocratizzato non ha nessun controllo di disarticolazione che produce su questo “mondo” il “sistema” economico di dipendenza. Inoltre, non c’è nessuna compensazione economica (che possa avere complici i cittadini di un sistema di dominazione coperto, ma sopportabile). Proprio al contrario, le condizioni di povertà, di orribile miseria (di non distribuzione della ricchezza) sono tali che la coscienza dei membri sfruttati del popolo hanno risorse proprio per “coscientizzarsi” (cioè, per non essere “colonizzati” così assolutamente o ovviamente). Su questa “fessura” si istalla la Comunità di Base – come comunità critica di azione comunicativa – e una “coscienza rivoluzionaria” (almeno di profonda insoddisfazione di fronte a un regime di sfruttamento senza contropartita di nessun tipo) non è impossibile a priori. La “Modernità”, d’altra parte, non è stata vissuta a partire dal 1492 in America latina come realizzazione, bensì come “derealizzazione”10, come l’“Altra-faccia” della Modernità (come il mondo e il sistema che “paga” lo sviluppo della Modernità europea). Tutte le categorie habermasiane dovrebbero ricevere una ricostruzione essenziale (dentro un “sistema-mondo”, per parlare come I. Wallerstein, e dove il “tardo capitalismo” sarebbe “parte” di un sistema che lo comprende e dentro il quale compie una funzione di centro sviluppato di sfruttamento della periferia). Questa ricostruzione categoriale non affetterebbe accidentalmente le categorie, se non “essenzialmente”, poiché le ridefinirebbe nella sua funzione reale (non solo nel centro, bensì in tutto il pianeta, che è la totalità concreta reale).
10 Cfr. il mio saggio “Comentario a la Introducción de la Transformación de la Filosofía de K. O. Apel desde América Latina”, in Ethik und Befreiung, Augustinus, Aachen 1990.
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Con questo desideriamo indicare l’“utilità” di una tale Teologia dell’Azione Comunicativa (o che usa le categorie habermasiane), ma, subito tutte esse devono essere ricostruite (ed è un primo limite), non solo per essere utili al Terzo Mondo, bensì affinché anche nel mondo sviluppato centrale assumano un altro senso; cioè, il “sistema” economico può “compensare” al “centro” economicamente l’operaio salariato, il che gli rende “sopportabile” il “mondo della vita quotidiana”, perché è complice dell’estrazione di valore dal salario dell’operaio periferico (mediante un tasso immenso di sfruttamento del plusvalore e di trasferimento internazionale dello stesso). In Messico, le cosiddette maquiladoras [truccatrici] (a Santo Domingo le denominano “zone franche”) pagano 80 dollari di salario mensile (per cui annualmente le transnazionali trasferiscono dalla periferia al centro 20 miliardi di dollari, in questo solo caso, unicamente dal Messico; cioè, in soli quattro anni questo paese pagherebbe integralmente il suo debito estero se si contabilizzasse questo trasferimento di valore, contabilizzazione impossibile per l’“economia capitalista”). Da qui la difficoltà in paesi periferici di affermare il seguente: A fronte di un contrasto di classe pacificato mediante lo Stato sociale e dell’anonimizzazione delle strutture di classe, la teoria della coscienza di classe perde il suo referente empirico.11 Anziché inseguire le tracce disperse di una coscienza rivoluzionaria si dovrebbe indicare le condizioni per un ricongiungimento della cultura razionalizzata con una comunicazione quotidiana dipendente da tradizioni vitali.12
11 Theorie des kommunikativen Handelns, t. II, p. 517; ed. cast., Taurus, Madrid 1987, t. II, p. 497 [tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 1017]. 12 Ivi, p. 522; p. 502 [tr. it. cit., p. 1022].
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Nel capitalismo periferico, sottosviluppato in quanto sfruttato, il 75% della popolazione mondiale vive sotto il regime del capitalismo (e da qui si può diagnosticare il fallimento del capitalismo nello sviluppare questi paesi); la società esige un altro tipo di categorie analitiche, e ciò che nel tardivo capitalismo è considerato un semplice “sistema” giustapposto, diviene il momento pertinente originario dell’esistenza umana: l’economico (in un senso antropologico, etico e anche ontologico).
7.2. Paradigma della “corporalità vivente”. Teologia ed economia Il paradigma della coscienza (“Io penso”) fu sussunto in un paradigma del linguaggio (“Io parlo”), che successivamente fu posto in una “comunità di comunicazione” (K.-O. Apel) come la sua condizione a priori di possibilità. La persona, come la definiva Aristotele, è un «vivente (ζῶον) che parla (λόγον)». Il “linguaggio” sussume tutte le funzioni razionali della “coscienza” e le supera, poiché – come bene ha mostrato Paul Ricouer – non è lo stesso un concetto che una parola, che un discorso, e anche questo ha uno statuto totalmente differente da quello del “testo”13. Su questo campo, la filosofia del linguaggio ha effettuato immensi progressi – e la teologia non può – tralasciare di assumerli; da qui l’importanza e la pertinenza dell’indicata Teologia dell’Azione Comunicativa, alla quale ci stiamo riferendo, soprattutto se si tiene conto che la Bibbia è un “testo” e l’“ermeneutica” è parte essenziale costitutiva della teologia, come già la definì Schleiermacher.
13 Cfr., per esempio, “Qu’est-ce qu’un texte?”, in Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, pp. 137 ss. [tr. it. cit., pp. 133 ss.].
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Ma di ciò di cui si tratta adesso, e per un’esigenza che ci viene imposta a partire dalla realtà latinoamericana (anche dell’Asia e dell’Africa), è che la persona umana non è solo “linguaggio (λόγος)”, bensì che essenzialmente e innanzitutto è un “vivente (ζῶον)”, ma non semplicemente come animale irrazionale, bensì come “vivente” sempre umano. La “logica” della vita si fa presente in tutti i momenti dell’essere umano. La sua stessa razionalità, lingua, spiritualità, eccetera, sono momenti della sua stessa vita umana. La razionalità, la lingua, eccetera, sono funzioni “de” la vita. Per questo, allo stesso tempo, che la persona è parte di una “comunità di comunicazione” (e soggetto della stessa azione comunicativa), è sempre e a priori membro di una “comunità di vita”; e per essere parte di essa, c’è una “comunità di comunicazione” (fondata e come funzione della “comunità di vita”). È a questo livello fondamentale umano, che denomineremo “l’economico”, ma non come un “sistema” alla Habermas (come una Wirtschaftswissenschaft), bensì come il momento relazionale pratico e costitutivo essenziale della vita umana (dove si stabiliscono le “relazioni” pratiche prime, la produzione degli oggetti della vita, la loro distribuzione, scambio, e consumo per la vita umana). Il sistema capitalista è mondiale, c’è una struttura di circolazione del valore in tutto il mondo. Nelle analisi della Teoria dell’Azione Comunicativa non si considera questo doppio aspetto: si prende la “parte” (capitalismo centrale, chiamato “tardivo” ideologicamente) per il “tutto” (il sistema mondiale), con ciò si occulta, prima, la funzione di dominio del “centro” capitalista, e, secondo, non si può spiegare in nessuna maniera la povertà, la miseria del capitalismo “periferico” (che dovrebbe essere adesso compreso come “sfruttato”). Sembrerebbe che sia una questione secondaria, ma produce l’impianto ideologico di tutta la struttura categoriale, e per questo invalida tanto il “senso” dell’analizzato nel “centro” come nella “periferia” (cioè, in tutte le parti). Abbiamo chia-
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mato questo la “fallacia del desarrollismo (Fehlschluss der Entwicklungsideologie)”, aspetto dell’“eurocentrismo” (che invalida in parte la filosofia habermasiana e la teologia che usa le sue categorie). La prima relazione umana pratica è quella di “personapersona”14, ed è il momento “economico” per eccellenza15. L’economico non è solo questione di mercato o denaro, bensì ha essenzialmente a che vedere con la “corporalità”: la “relazione” pratica dei corpi (il signore domina lo schiavo e il servo, il capitalista il salariato), e in vista del “consumo” o riproduzione materiale della vita (la “circolazione minore” o κατ’ εξοχήν come diceva Marx)16. La “fame” come bisogno (Bedürfnis) è il punto di partenza dell’economia (Ökonomie), in quanto è l’essenza del mercato (nel capitalismo, la “fame” senza denaro non è mercato, perché non è “solvente”, e in questo si fonda il problema: come dare da mangiare agli “affamati” che non hanno “denaro”? – poiché il sistema non gli permette di lavorare e, per questo, di guadagnare un salario). Ed il sistema del capitalismo periferico, poiché è un sistema sfruttato dal capitalismo centrale (cioè, “trasferisce” strutturalmente 14 Cfr. la mia Ética comunitaria, Paulinas, Madrid 1986, capp. 1, 4 e 5 [tr. it. di C. Nerozzi, Cittadella, Assisi 1988]. 15 Per Marx, il capitale è essenzialmente una “relazione sociale”, questione pratica fondamentale che hanno dimenticato coloro che criticano il suo preteso “paradigma produttivista” (Cfr. la mia opera El Marx definitivo [18631882]. Un comentario a la tercera y cuarta redacción de «El Capital», Siglo XXI, México 1990, capp. 9 e 10 [tr. it. di S. Stocchini, Manifestolibri, Roma 2009]); cioè, “il pratico” è il costitutivo essenziale dell’“economico” (che non può, per questo, essere relegato a un mero “sistema” che si connette con il “denaro” al “mondo della vita quotidiana [Lebenswelt]”, come pensa Habermas ripetutamente). 16 Cfr. Grundrisse, Dietz, Berlin 1974, p. 570: «La piccola circolazione tra capitale e capacità lavorativa […] La parte di capitale che entra in questa circolazione – la sussistenza – è il capitale circolante κατ’ εξοχήν» [tr. it. cit., p. 690].
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valore)17, non potendo accumulare sufficiente valore, è un capitale “debole” (cioè non può assorbire la totalità della popolazione come salariata, e come conseguenza sovrasfrutta18 la forza lavoro con bassissimi salari, che non creano un mercato nazionale sufficiente): economia capitalista di miseria, dove le categorie habermasiane non possono applicarsi (poiché il “mondo della vita quotidiana [Lebenswelt]” e i “sistemi”, rispondono a una logica, e a una crisi completamente differenti da quelle del capitalismo centrale, chiamato “tardivo” eufemisticamente). La seconda relazione dell’economico, e non la prima, è quella della “persona-natura” per mezzo del lavoro. In questo caso, il “lavoro vivo (lebendige Arbeit)” è sussunto (subsumiert) nella Totalità19, istituzionalizzata del capitale20, e solo in questo caso il lavoratore può lavorare (perché gli sono state espropriate le sue possibilità di esercitare questo proprio diritto). Il “processo di lavoro” è il momento secondo della trans-formazione (cambio di forma) della natura come “pro-dotto” (il “pane” al quale ci riferiamo successivamente).
17 Cfr. la mia opera Hacia un Marx desconocido (1861-1863), capitolo 15 sul “Concepto de Dependencia” (con ampia bibliografia e dibattito). 18 Tesi di Mauro Marini in Dialéctica de la dependencia, Era, México 1973. 19 Ci sarebbe molto da correggere alla tesi, ben esposta, di Martin Jay, Marxism and Totality, University of California Press, Berkeley 1982. 20 La sussunzione del lavoro vivo a partire dall’Esteriorità del capitale parte da un contratto. Questo contratto lo stabiliscono due parti in una situazione di violenza (da parte del lavoro vivo) e di dominio (da parte del proprietario del capitale). J. Rawls, Theory of Justice, Cambridge, Mass., 1971 [tr. it. di U. Santini, Feltrinelli, Milano 2002, VIII ed.], parte da una situazione astratta e formale, ma non scende mai al livello reale del capitalismo, dove essenzialmente i contrastanti sono in posizioni di ineguaglianza. Marx spiegò questo espressamente, anche ne Il capitale, quando scrive: «Un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Quivi regnano Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham. Libertà!» (ed. 1873, cap. 4; MEGA, II, 6, p. 191 [tr. it. cit., p. 212]).
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Lo statuto economico del prodotto si può descrivere in molte maniere. In primo luogo, per mezzo dello stesso processo di produzione (che sussume anche tecnologia, che nella “concorrenza” tra capitali determina l’obsolescenza delle peggiori e lascia in piedi solo le più produttive, e da qui la permanente rivoluzione tecnologica del capitalismo), il “lavoro vivo” materializza parte della sua vita (il “valore” è vita oggettivata) nel prodotto, proprietà del capitale. In secondo luogo, con la “concorrenza” indicata, e anche tra nazioni, si può produrre (e di fatto si realizza) un “trasferimento” di valore. Questo fenomeno di impoverimento del capitale nazionale globale periferico è della massima importanza (e solo se si ha la categoria marxista di “valore” si può descrivere questo fenomeno tanto essenziale per il mondo sottosviluppato). Qui è dove una Teologia dell’Azione Comunicativa rimane limitata ai soli paesi “centrali”, e la totalità delle sue conclusioni si limitano alla regione chiamata Stati Uniti ed Europa, includendo l’Europa orientale emancipata dallo stalinismo (un 13% della popolazione mondiale attuale). Una Teologia della Liberazione, che pretende di porre il fatto del dominio nell’orizzonte mondiale, non può circoscriversi solamente (e non per questo negherà merito a questa Teologia progressista e di molta importanza) al paradigma dell’azione comunicativa (o al fatto della comunicazione in generale).
7.3. Lavoro vivo, valore e prezzo Questo deve essere un aspetto centrale nella teologia contemporanea. La questione della “teoria del valore”21 non è solo un 21 Cfr. come tratta la questione J. Habermas, in op. cit., t. II, pp. 496 ss.; pp. 477 ss. [tr. it. cit., pp. 996 ss.]. In realtà, Habermas ha solo un interesse “sociologico” e mai propriamente economico, per questo non può entrare
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problema teorico: è un problema etico; è la mediazione categoriale necessaria per unire il “mercato” capitalista – che si è manifestato di una grande “efficacia”, il che non indica la sua eticità – con la vita umana, con la dignità della persona. In effetti, il “mercato” è il luogo dove i “prodotti” si trasformano in “merci” e acquisiscono “prezzo” (che sarebbe la trasformazione del “valore” in “denaro”, per una dottrina antropologica ed etica come quella di Marx22, benché per i marginalisti, a partire da William Jevons, Carl Menger o Léon Walras, sarebbe semplicemente lo “stimato” secondo la quantità di “desiderio” o bisogno [benché questo “bisogno” non è quello del produttore] del compratore). Per una teoria dove la persona umana è l’assoluto (e trasformarla o usarla come “cosa” o “merce” è considerato come il rovesciamento feticista; e teologicamente in questo consiste il peccato)23, è importante relegare il nella riflessione che adesso introduciamo. Lo stesso avverrà con la teologia postmarxista di coloro che seguono i suoi passi. 22 Disconnettendo il “valore” e il “prezzo”, si distrugge tutta l’“intenzione” scientifica del lavoro teorico di Marx. Piero Sraffa, con la Production of Commodities by Means of Commodities. Prelude to a Critique of Economic Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1960 [ed. it., Einaudi, Torino 1972] (cfr. anche I. Steedman, Marx After Sraffa, Verso, London 1981; e la polemica di I. Steedman - P. Sweezy - A. Shaikh et al., The Value Controversy, Verso, London 1981, specialmente dell’ultimo dei citati “The Poverty of Algebra”), tenta giustamente questa disconnessione. Franz Hinkelammert risponde nella sua opera inedita La coherencia lógica de la construcción de una mercancía patrón, San José 1988, specialmente nel capitolo 12 su “Las posiciones ideológicas de Sraffa». Cfr. inoltre: R. Bhaskar, Scientific Realism and Human Emancipation, Verso, London 1986 (cap. 3: «La ilusión positivista. Esbozo sobre una ideología filosófica del trabajo», pp. 224 ss.); o G. McCarthy, Marx’ Critique of Science and Positivism, Kluwer Academic Publ., Boston 1987. Di R. Rojas, Das unvollendete Projekt. Zur Entstehungsgeschichte von Marx «Kapital», Argument, Hamburg 1989, dove si studia la questione di «Das Wert-Preis-Transformation-Problem», pp. 208 ss. 23 Cfr. la mia Etica comunitaria citata, capp. 2 e 3, e specialmente il cap. 12, il capitale come “relazione sociale” strutturale, istituzionale e storica di peccato.
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mercato, il prezzo delle merci, al soggetto umano (il “lavoro vivo”). L’unica maniera di articolare questo soggetto dal lavoro al “prezzo” della merce è con la mediazione del “valore”. Il “valore” è nel prodotto (e nella merce, e per questo nel prezzo) la stessa vita umana oggettivata (Vergegenständliche). La questione centrale nell’intenzione – e questa è la mia interpretazione – dell’autore de Il capitale (economista che, allo stesso tempo e come abbiamo provato in questa opera, sviluppò una teologia negativa o una “teologia metaforica” nel suo senso forte, come direbbe Ricouer) fu il potere di articolare senza salti (fondando ciascuna categoria o momento del metodo su un altro precedente, e tutti, infine, sul “lavoro vivo”) la circolazione o le questioni del mercato con la produzione o le questioni della soggettività del produttore, dell’operaio. Nel concetto del “valore” (valore “in generale”, che Marx distingue per la prima volta dal concetto di valore “di scambio” solo nel 1872, preparando la seconda edizione de Il capitale) l’essenziale non è la distinzione tra lavoro concreto ed astratto, bensì tra lavoro vivo e oggettivato (morto). Il “lavoro vivo” non ha valore perché è la “fonte creatrice di valore a partire dal nulla” del capitale (posizione creazionista, schellinghiana)24, mentre la “forza lavoro (Arbeitskraft)” ha valore, perché assume i mezzi della sussistenza che consuma l’operaio per la riproduzione della sua “capacità di lavoro (Arbeitsvermögen)”. “Valore” è, quindi, vita, ma vita oggettivata, non la vita stessa come soggettività, attività – che, tuttavia, si trova nella “povertà assoluta (absolute Armut)”.
24 Abbiamo dimostrato, nell’opera citata, che collocando il “lavoro vivo” come “fonte” (Quelle) (non come “fondamento [Grund]”) creatrice (schöpferische) del valore “a partire dal nulla” (aus Nichts) è una posizione dello Schelling definitivo della Philosophie der Offenbarung del 1841 – questione che, penso, avrebbe dato a Habermas un’altra interpretazione completamente differente di Marx.
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In una visione antropologica (più che “umanista”) della posizione di Marx si può scoprire che, in realtà, egli analizzò la totalità dei momenti dell’economia come un dispiegarsi (entfalten) dell’essere umano. Il “capitale” (nella visione antropologica ed etica di Marx) è il frutto dell’accumulazione, il cui “Essere” è il “Non-essere” dell’operaio; la cui realizzazione cosale (sachlich) è de-realizzazione umana, morte, perversione, ingiustizia “etica” (non semplicemente “morale”): Questo processo di realizzazione è quindi al tempo stesso il processo di derealizzazione (Entwirklichungs) del lavoro. Esso si pone oggettivamente, ma pone questa sua oggettività come suo proprio non-essere o come l’essere del suo non essere – cioè del capitale.25
Per maggior chiarezza di ciò che esporremo in seguito, valga il seguente schema. Schema 7.1. Movimenti antagonici di fondazione. a Lavoro vivo (A)
Lavoro oggettivato (capitale) b Valore e
Prezzo d
Compratore c (mercato) (B)
Processo di produzione f g Processo di circolazione Spiegazione dello schema. Freccia a: oggettivazione di vita (= valore); b: trasformazione del valore in prezzo; c: desiderio del compra-
25 Grundrisse, pp. 357-358, 11 [tr. it. cit., p. 431].
313 tore o acquisto; d: il prezzo determina il valore; e: il prezzo determina il valore del lavoro. La direzione delle frecce indica quella della fondazione.
Nel 1871 W. Jevons (1835-1882) pubblicava la sua The Theory of Political Economy26 – solo quattro anni dopo l’apparizione de Il capitale I di Karl Marx. In questa opera si produce l’inizio del “rovesciamento” che è alla base di tutta l’economia capitalista contemporanea (del “marginalismo” e delle teologie che seguono i suoi passi). Ci dice il nostro autore: La scienza dell’economia politica è basata su poche nozioni apparentemente semplici. Utilità, ricchezza, valore, merce, lavoro, terra, capitale ne sono gli elementi costitutivi […] Il valore dipende interamente dall’utilità. Le opinioni prevalenti attribuiscono al lavoro più che all’utilità l’origine del valore; v’ha persino chi afferma recisamente che il lavoro è la causa del valore.27
La determinazione del valore ha come fondamento il “piacere o pena (pleasure or pain)”28, il “sentire (feeling)”29 del compratore della merce; a maggior piacere o maggior “sentimento” (o “bisogno”, ma in un senso e legato al “mercato”, la “moda, eccetera), la merce ha maggior “utilità”, cioè “valore” (per me, per noi, adesso e qui). Se c’è variazione del “sentimento (feeling)”, questa determina una certa variazione del valore (determinato, da parte sua, dall’“offerta e dalla domanda” e dall’“abbondanza e scarsezza” della merce). Per questo, «Piacere e pena sono senza dubbio gli oggetti minimi del calcolo
26 Citeremo dalla 5a edizione di Kelly & Millman, New York 1957. 27 Ivi, p. 1 [tr. it. di R. Fubini, Utet, Torino 1948, p. 25]. 28 Ivi, p. 28 [tr. it. cit., p. 52]. 29 Ivi, p. 29 [tr. it. cit., p. 54].
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dell’economia»30, e il “grado di utilità” determina quello del valore (specialmente il “grado finale o ultimo di utilità”)31. Per tutto questo, Jevons sostiene che A. Smith si sbagli quando pensa che «il lavoro fu il primo prezzo, la moneta originaria di cui ci si valse per l’acquisto di tutte le cose32. Si è prodotto, quindi, un rovesciamento completo: dal “lavoro vivo” e dalla “persona” come punto di partenza (A dello schema) si passa adesso al “mercato” o al “capitale” (B) come questo fondamento. Questo “rovesciamento” feticista (teo30 Ivi, p. 37 [tr. it. cit., p. 57]. 31 Questo “grado finale di utilità” (ivi, p. 52 [tr. it. cit., p. 67]) è il punto di partenza del futuro “marginalismo”. 32 Ivi, p. 167 [tr. it. cit., p. 139], dove Jevons cita Smith, in The Wealth of Nations, Libro I, cap. 5. Evidentemente, neanche Marx accetta la definizione di Smith, perché il lavoro (come “lavoro vivo”) non è prezzo, né ha prezzo; come “forza lavoro” ha prezzo, ma non fisso, poiché cambia; in tutti i modi, prima che il “prezzo” il lavoro determina il “valore”, e questi è ciò che determina il “prezzo” (nello schema è necessario passare dal movimento della freccia a a quello della freccia b, e non direttamente dal “lavoro” al “prezzo”). Questa critica si trova ripetutamente in Marx (cfr. l’opera Hacia un Marx desconocido, capp. 1, 2 e 6). Marx scrive: «A. Smith oscilli della determinazione (Bestimmung) del valore delle merci mediante la quantità del lavoro necessario [e la confonde…] con la quantità di merce con cui può essere comprata una determinata quantità di lavoro vivo» (Teorías sobre la plusvalía, cit., t. I; MEGA, II, 3, 2, pp. 364-365 [tr. it. di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1993, II ed., vol. I, pp. 41-42]). Il valore prodotto nel “tempo necessario” è parte del valore della merce (perché si dovrebbe aggiungerle il plusvalore); la “quantità di merce” che si compra con il salario (= valore della capacità di lavoro) include plusvalore che adesso “paga” il lavoratore con il suo salario; cioè, il valore che si produce nel “tempo necessario” è minore che il valore della merce; il denaro, che si ottiene con il salario, è uguale al prezzo = valore della merce (in altra maniera; con il valore del suo salario può comprare meno valore che quello che ha prodotto per ottenere tale salario). In questo consiste la questione “teologica” per eccellenza. Se la persona umana non è la “sostanza” (causa efficiente) o il fondamento della “determinazione” del valore, tutta l’economia si feticizza, cioè si fonda “nel” capitale, e non nella persona umana.
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logicamente è l’“idolatria” e l’“ateismo” dal Dio Vivo e dalla sua creatura: la persona umana come il criterio assoluto di ogni economia) si consuma quando si pensa che anche parlare di “valore” è complicare non necessariamente le cose. Con Marshall, Hayek e Friedman, è solo necessario riferirsi al “prezzo”; la feticizzazione è completa. Ci dice l’ultimo dei nominati nel capitolo “Il potere del mercato”, nell’opera Liberi di scegliere: Nell’organizzare l’attività economica i prezzi svolgono tre funzioni: primo, trasmettono informazioni; secondo, forniscono un incentivo ad adottare metodi di produzione meno costosi […]; terzo, determinano la quantità di prodotto che spetta a ciascuno, cioè la distribuzione del reddito.33
Adesso, tutto il discorso (e anche i discorsi teologici che dipendono da questo tipo di analisi)34 parte del suo unico fondamento: il mercato, il capitale. La “scienza – che in Max Weber ha ricevuto assoluta indipendenza dall’antropologia della persona
33 Ed. cast., Grijalbo, Barcelona 1979, p. 32; Free to Choose, Avon Books, New York 1979, p. 6 [tr. it. di G. Barile, Longanesi, Milano 1981, p. 19]. Cfr. inoltre di Friedman, Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, Chicago-London 1982; o del suo maestro F. Hayek, The Road of Serfdom, University of Chicago Press, Chicago 1976. 34 Cfr. per esempio l’opera di Michael Novak, The Spirit of Democratic Capitalism, American Enterprise Institute, New York 1982, specialmente il cap. 3 (pp. 104 ss.): «Theologically speaking, the free market and the liberal polity follow from liberty of conscience […]. In this sense, a defence of the free market is, first, a defence of efficiency, productivity, inventiveness and prosperity. It is also a defence of the free conscience […]» (p. 112) [«Parlando teologicamente, il libero mercato e la forma di governo liberale procedono dalle libertà di coscienza. […] In questo senso una difesa del libero mercato è, innanzi tutto, una difesa dell’efficienza, della produttività, dell’inventiva e della prosperità. È anche una difesa della libera coscienza» (tr. it. di R. Bruschi, A. Frati e M. Fratini, Studium, Roma 1987, p. 141)]. Cfr. l’opera di H. Assmann - F. Hinkelammert, Teología y Economía, Vozes, Petrópolis 1989.
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e dall’etica35 – parte dall’orizzonte del “capitale” e del “mercato” già costituiti e come fatti “naturali”, tanto in A. Smith36 come in J. Rawls, come abbiamo visto. Per Friedman, la causa delle disuguaglianze (che per Marx era il problema più grave 35 Cfr. l’eccellente critica del pensiero di Max Weber in F. Hinkelhammert, Las armas ideológicas de la muerte, DEI, San José 1977, pp. 64 ss. Questo è molto più importante, perché certamente Weber è a fondamento delle analisi di J. Habermas e pertanto della teologia che si costruisce sul suo pensiero. In effetti in Economía y Sociedad (ed. cast., FCE, México 1984) leggiamo: «Di economia intendiamo piuttosto parlare (almeno in questa sede) quando a un bisogno o a un complesso di bisogni si contrappone, per il suo soddisfacimento, una scarsa – a giudizio dell’agente – disponibilità di mezzi […] che comporta lo sfruttamento della situazione specificamente economica (scarsità di beni richiesti) per ottenere un proprio guadagno dalla disponibilità di questi beni» (pp. 273-274 [tr. it. di P. Chiodi e G. Giordano, Edizioni di Comunità, Milano 1999, vol. II, pp. 31-32). Si può vedere la coincidenza con Jevons: l’economico è la relazione della merce con il piacere, sentimento o “bisogno” del compratore nel mercato (non è il “bisogno” del lavoratore o produttore, che stava all’origine del “produrre” per cui, non esistendo, si dovrebbe porlo in esistenza per mezzo del lavoro). 36 Ci dice ingenuamente Smith «In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l’accumulazione dei fondi e l’appropriazione della terra, il rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l’uno con l’altro […] Non appena i fondi si sono accumulati nelle mani di singole persone, alcune di loro [perché?] li impiegheranno naturalmente nel mettere al lavoro gente operosa […] allo scopo di trarre profitto […] da ciò che il loro lavoro aggiunge [da dove?] al valore dei materiali» (The Wealth of Nations, cit., I, 6, pp. 150-151; ed. cast., FCE, México 1984, pp. 47-48 [tr. it. cit., pp. 49-50]). L’unica questione che si dovrebbe porre a Smith sarebbe questa: “Non appena i fondi …” è uno stato di natura o è un momento e prodotto di istituzioni storiche? E se è un’istituzione storica, si dovrebbe studiare il problema se è un “effetto” a posteriori non ha alcuna “causa”, e non semplicemente accertare questo “effetto” come un fatto a priori della ragione naturale. In questo consiste tutto il problema di un’economia “critica”, quella della Teologia della Liberazione, poiché questo fatto “storico” è un “peccato strutturale” storico, originario (Cfr. la mia opera Etica comunitaria, capp. 2.2-2.6 e 12.4-12.10). Penso che sia la questione essenziale della teologia contemporanea.
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da risolvere per la razionalità dell’economia, per determinare i fondamenti dell’ingiustizia o del lavoro “non pagato”) è adesso il semplice caso (il puramente “irrazionale” e contraddittorio ad ogni “ragione”): Il caso determina i nostri geni […] Il caso determina il tipo di famiglia e di ambiente culturale in cui siamo nati e, di conseguenza, le nostre opportunità di sviluppare le nostre capacità fisiche e mentali. Il caso determina anche altre risorse che possiamo ereditare dai genitori o da altri benefattori.37
Come abbiamo già sostenuto a questo riguardo per J. Rawls, anche per Friedman, è puro caso che qualcuno nasca figlio di un milionario di New York, e un’altra persona figlio di un elemosiniere di New Delhi. Teologicamente esiste un’esigenza etica in quanto si deve rimediare successivamente a questa “differenza iniziale” storica. Il caso non giustifica che debbano eticamente mantenersi le differenze (chiaro che eliminarle trae con sé nuove difficoltà, così come il dovere creare nuovi tipi di differenze nella nuova organizzazione sociale). Ma in tutti i modi, non si deve confondere “caso” con “natura” (e, in entrambi i casi, si pensi che siano inamovibili, immodificabili, “intoccabili” come l’istituzione dei “paria” in India).
7.4. Il “culto” del feticcio e la sacramentalità eucaristica Abbiamo trattato questa questione in altri saggi38, per cui non ci dilungheremo qui in maniera speciale. 37 Op. cit., p. 41; ed. inglese, p. 13 [tr. it. cit., p. 26]. “Chance” (caso) è il concetto che rimpiazza la “razionalità” alla quale aspirò Marx. 38 Cfr. Etica comunitaria, capp. 1.6-1.8, 6.3-6.7, 11 e 12; Herrschaft und Befreiung, Exodus, Freiburg/Sw. 1985; specialmente “Arte Cristiano del oprimido en América Latina”, in «Concilium», 152 (1980), pp. 215-231; e “Le
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In effetti, Hegel scrive nelle sue Lezioni sulla Filosofia della Religione che perché ci sia un “culto (Kultus)” è necessario che «Dio è da un lato, io sono dall’altro»39, e a questo livello si compie il “culto” imperfetto. Al contrario, il “culto” perfetto è che sia «me in Dio e Dio in me (mich in Gott und Gott in mich)»40. Questa “unità concreta” si può realizzare solo con la “certezza (Gewissheit) della Fede nella Verità”41, ricordando che la Verità è Tutto, e il Tutto è Dio. La Fede, per Hegel, consiste nell’atto con il quale la “rappresentazione (Vorstellung)” – non come “pensare” (Wissen)” – afferma l’“oggetto creduto” come l’“Idea assoluta”, cioè come l’Essere di Dio (non “speculativamente”, solo “rappresentato oggettivamente”). Questo atto supremo di “credenza” (di cui la “rappresentazione” è l’Idea) – molto superiore all’atto dell’“estetica”, ma inferiore al “Absolute Wissen (Sapere Assoluto)” – è il “culto” perfetto: Il culto (Kultus) è anche un operare, e in ciò c’è quindi uno scopo in sé, la Fede, che è in sé (in sich) la Realtà (Realität) concreta del Divino e la coscienza.42 pain de la célébration: signe communautaire de justice”, in «Concilium», 172 (1982), pp. 89-101 (tema esposto ampiamente nella mia opera «Introducción» a la Historia General de la Iglesia en América Latina, Sígueme, Salamanca 1983, t. I, pp. 6 ss., a partire dal tema della “conversione” di Bartolomé de las Casas). Anche nella nostra Para una ética da Libertação Latino-americana, Loyola, São Paulo 1984, t. 5, pp. 87-99: “A economía arqueológica”; o in Filosofía de la Liberación, cap. 3.4.8: “Materialismo crítico y culto como economía” (idea che si ispira, in parti eguali, a Emmanuel Levinas e Karl Marx, e, naturalmente, al Nuovo Testamento). 39 Vorlesungen über die Philosophie der Religion I, in Werke, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, p. 202 [tr. it. di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli 2003, p. 372]. 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 203 [tr. it. cit., p. 286] (cfr. Enzyklop., paragrafi 570-571). 42 Ivi, p. 218 [La traduzione è mia, essendo la traduzione italiana troppo diversa dall’originale tedesco che è più vicino alla traduzione fornita da Dussel; N.d.C.].
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Questo culto, momento dell’Intelletto (Verstand) che si avvicina alla Ragione (Vernunft), è il momento centrale del “Regno del Figlio”, la cui espressione suprema (ed eurocentrica) è la cultura germano-europea; la religione della Cristianità e il «fondamento dello Stato sono la stessa e identica cosa»43. In questo caso, il “culto” (la liturgia) è un atto intellettuale” (fede, intelletto, rappresentazione, certezza, ragione, sapere… tutti momenti della conoscenza). Una volta che il “mercato” o il “capitale” si è disconnesso dal “lavoro vivo”, la scienza economica (Wirtschaftswissenschaft) si occupa solo ed essenzialmente di problemi feticizzati dentro l’orizzonte di questo mercato (o esclusivamente a partire dal capitale), nel suo fondamento, del calcolo del tasso di profitto (della valorizzazione del valore), senza alcuna relazione con la persona, il valore (come oggettivazione della vita) o l’etica (come giudizio sul lavoro “non pagato”). Resa indipendente, l’economia del “mondo della vita quotidiana (Lebenswelt)” viene a giustapporsi come un “sistema”44. In quel caso, la cultura, la religione, costituiscono momenti di questa Lebenswelt, e in relazione con questa la teologia effettua la sua riflessione. In tutti i modi, non si potrà evadere dallo stretto orizzonte della “comunità di comunicazione” dove si compie l’“azione comunicativa”. Totalmente al contrario, nostra intenzione è mostrare che il “culto” o la “liturgia” esige un momento materiale, oggettivo, un prodotto del lavoro come relazione della “carnalità”; o “corporalità (Leiblichkeit)” – la basar ebraica o la σάρξ greca, 43 Ivi, p. 236 [tr. it. cit, p. 379]. 44 Per Habermas l’economico come il “denaro”, come il “potere” ad un altro livello, colonizza la Lebenswelt (cfr. Theorie des kommunikativen Handelns, t. II, pp. 229-294: “Entkoppelung von System und Lebenswelt”; pp. 489-547: “Marx und die These der inneren Kolonisierung”; ed. cast., t. II, pp. 215-280 e 485-501 [tr. it. cit., pp. 748-809; pp. 990-1088]).
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che non era il semplice “corpo (σῶμα)” greco, opposta a un anima – il cui statuto è, in un senso preciso, economico; cioè è una relazione pratica (la comunità celebrante e Dio: “relazione persona/persona”) e produttiva (“persona/natura” attraverso il lavoro). La persona non è solo membro di una “comunità di comunicazione”, bensì innanzitutto e radicalmente è parte di una “comunità” di vita (Lebensgemeinschaft): Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna (κοινωνία), nella frazione del pane e nelle preghiere. […] Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune (κοινά); chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno […] Spezzavano il pane a casa prendendo i pasti insieme» (Atti 2,42-45).45
In questa descrizione abbiamo tutti gli elementi di una teologia della “comunità di vita” (come sussunzione di una “comunità di comunicazione”), comunità dove “mangiavano insieme”. Il “mangiare” non è un atto del linguaggio (non si “mangiano” testi, Ricouer lo sa: benché si celebra il “mangiare” con bei “simboli”) o della comunicazione (non si “mangiano” argomenti, Habermas non può negarlo; benché tutti gli argomenti hanno sempre qualcosa a che vedere con la vita, vita umana, e con la sua riproduzione). In questo caso, la “religione” non è un semplice momento della Lebenswelt (con la sua propria intenzionalità, bensì che si deve porla a un livello ancora più ra-
45 Cfr. il modo in cui abbiamo trattato questo testo nella nostra opera Ética comunitaria, cap. 1.1-10. Anche per ciò che segue si tenga conto il saggio citato sopra nella nota 9, specialmente il punto 4: “La comunità di vita e l’interpellazione del povero. La prassi liberatrice” (e anche: 4.3. “Dalla comunità di comunicazione del linguaggio alla comunità di comunicazione della vita”), dove confrontiamo la posizione di K.-O. Apel con quella di Marx, reinterpretando quest’ultimo a partire dalle sue “Quattro redazioni” sconosciute de Il capitale.
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dicale della vita umana46; a un livello propriamente “economico” (cioè quello delle relazioni pratiche, del lavoro, il “pane”, il consumo, il soddisfacimento, nel quale consiste il “Regno di Dio”)47. Per questo, il “culto” o la “liturgia” non sono un atto “interiore” di buona volontà; è un atto oggettivo che deve contare con un’“offerta”, una “materia” del sacrificio, prodotto del lavoro umano: «Ti offriamo questo Pane, frutto del Lavoro e della Terra» – dice il celebrante nell’orazione dell’offertorio della messa cattolica. Il “Pane” sacramentale – del quale ci parla Feuerbach nel testo citato all’inizio di questo capitolo, e che si può “mangiare” – è “materiale”, nel senso di “materia del lavoro umano”48.
46 Anni fa ponemmo questa questione nella nostra opera Religión, Edicol, México 1977, dove parlavamo di “religione come infrastruttura”. Non potendo attribuire a Marx stesso questo tipo di categorie (come “sopra-” e “infrastruttura”, o almeno non furono categorie fondamentali del suo pensiero, come abbiamo provato nei nostri commenti alle “Quattro versioni” de Il capitale), dobbiamo adesso porre meglio la problematica a un livello propriamente “economico” (ma come Ökonomik, antropologicamente, eticamente, ontologicamente, e non solo come Wirtschaftswissenschaft). 47 Cfr. il concetto di “Regno di Dio” come “soddisfacimento” (nel suo senso carnale e spirituale, allo stesso tempo) nella nostra opera Ética comunitaria, cap. 1.7-1.10. 48 Marx ha della “materia” un senso produttivo (il teologo la chiamerebbe “sacramentale”); cioè, non interessa la materia “cosmica” di un preteso “materialismo dialettico” (al quale Marx non si è mai riferito), bensì a un costituire la “natura” come “materia del lavoro” (Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cit., pp. 37 ss.): «Questa natura (Natur) che precede (vorhergehende) la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione, e che quindi non esiste neppure per Feuerbach» (La ideología alemana, Grijalbo, Barcelona 1970, p. 48; MEW 3, p. 44 [tr. it. cit., p. 17]). A Marx non gli interessa «la priorità della natura esterna» (ibidem). Ci dice: «Questa è la materia (Stoff) su sui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce» (Manus., I, 44; MEW, EB 1, p. 512 [tr. it. cit., p. 72]).
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Il “culto” esige, quindi, un “pro-dotto (Her-stellt)” del lavoro, per tras-forma-zione (cambio di “forma”) della natura. Questo lavoro oggettiva la vita umana nel prodotto, e, per questo, il suddetto “Pane” è già sacro all’inizio. Biblicamente, la “vita oggettivata” la si simbolizza con il “sangue”49 (ciò in “economia” antropologica ed etica abbiamo denominato “valore”). Se l’ingiustizia di un contratto tenuto come “natura” (secondo J. Rawls, come per esempio il salario) si appropria di una parte del “valore” prodotto (come “plusvalore”), questo profitto ottenuto dalla “vita” del lavoratore dovrà essere giudicata come “peccato”. La “povertà” o miseria (come quella che soffre nel presente l’America latina, per trasferimento di valore dal capitale periferico al centrale) è un “frutto del peccato”50. Ma questo “peccato” è invisibile a colui che non possiede le categorie per scoprire questa “relazione sociale” di dominio (nella quale consiste il capitale come tale, e la relazione di dipendenza tra il capitale globale nazionale periferico e centrale). In questo caso, il “culto” a Dio è, come si esprimeva il profeta: «Misericordia voglio e non sacrifici» [Matteo 9,13]. Negare la negazione del povero, che sulla sua pelle soffre il peccato (col suo freddo, con la sua fame, con la sua sete, col suo essere senza casa, con la sua malattia… tutto ciò che soffre il popolo latinoamericano, africano e asiatico sotto il capitalismo periferico), è il culto desiderato da Dio – che ha uno statuto “economico”, oggettivo, materiale, sacramentale, come il pane, il vino, l’olio, il sale, l’acqua… “materia” dei sacramenti che riproducono la vita, carnale e spirituale. Al contrario, il demonio, satana, l’Anticristo, il feticcio, vive della vita dei poveri e come i «capi delle nazioni dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere» (Matteo
49 «Versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio» (Siracide 34,22). 50 Cfr. la mia Etica comunitaria, cap. 2.7-2.8, sul “povero” e la “morte”.
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20,25), alla stessa maniera le strutture economiche fanno con i poveri: Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia […] e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome (Apocalisse 17,13 e 13,17).51
Il sapere porre “economicamente” permette di raggiungere un livello di “realtà” sufficiente, dove la “religione” diviene sacramentale, corporale; dove le relazioni pratiche (come “grazia” o “peccato”) determinano la relazione tra persone e di produzione con la natura, e dove il “Pane” liturgico può essere “Pane di vita”, e per questo, coloro che si pongono a questo livello concreto, reale, soffrono la persecuzione e la morte – come Ignacio Ellacuría e i suoi compagni nel novembre 1989, nel momento della “caduta del muro di Berlino”: Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio (Giovanni 16,2).
In effetti, il “culto” del feticcio, di Satana, si consuma con l’accumulazione del “sangue” dei poveri (perché i poveri devono vendere il loro corpo per un salario, e la loro vita oggettivata, valore, si accumula come profitto del capitale) o del “sangue” dei martiri che lottano oggettivamente per liberarli dalla “relazione sociale” (pratico-produttiva, economica) che li domina. Questa “struttura di peccato” è storica; in essa consiste l’es-
51 Marx cita questo testo dell’Apocalisse nel capitolo 2 del Libro I de Il capitale (ed. cast. Siglo XXI, México 1979, p. 106; MEGA, 11,6, pp. 115116 [tr. it. cit., p. 106]). Questo, e altri cento testi biblici, (cfr. R. Buchbinder, Bibelzitate, Bibelanspielungen, Bibelparodien, theologische Vergleiche und Analogien bei Marx und Engels, Erich Schmidt Verlag, Berlin 1976), mostrano che per Marx il capitale era l’“Anticristo”, Mammone, Moloch, il Feticcio; cioè, il demonio. Abbiamo provato in questo saggio che questa “metafora” apre, per lo sconcerto semantico che produce, un “nuovo mondo” (direbbe Ricouer) di insospettato “senso” per la teologia.
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senza del demonio, del Feticcio: l’Anticristo. Ma è necessaria una “Teologia dell’Economia” – nel suo senso forte – per potere effettuare un’“ermeneutica” di questo essere invisibile che non si fa presente nel “mondo delle merci”, nel “mercato”, nel “capitale” visto a partire da se stesso e non a partire dal “lavoro vivo”.
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Parte III A modo di transizione
Essendo questo il quarto volume di una paziente ri-lettura di Marx, penso che dobbiamo entrare in una fase di transizione filosofica, per stabilire uno sviluppo in dialogo con quanto raggiunto ad altri livelli di riflessione. Il pensiero contemporaneo – e la Filosofia e la Teologia della Liberazione possono apprendere molto da esso – ha effettuato primieramente il cosiddetto linguistic turn (un giro filosofico intorno alla questione del linguaggio, a partire da Frege, Carnap, o il primo Wittgenstein). Questo giro fu seguito da una nuova tappa: il pragmatic turn (il giro pragmatico, a partire dal secondo Wittgenstein, Austin o Searle), che sussunse quanto già avanzato dal pensiero analitico dentro una visione molto più complessa, concreta e adesso dentro l’ambito della ragione pratica. Per questo ci pare pertinente per l’America latina e – adesso possiamo – dobbiamo “transitare”, dalla critica dell’economia politica di Marx a una critica della filosofia del linguaggio. Quest’ultima, da parte sua, è pensata da Karl-Otto Apel a partire da una “pragmatica trascendentale”. Tenteremo di provare che il prodotto teorico di Marx ha molte più grandi possibilità di quanto alcuni si immaginano. Da qui il titolo dell’ultimo capitolo di questa opera: “Dall’economica alla
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pragmatica”, poiché indica l’inizio di una tappa della Filosofia e Teologia della Liberazione, e come continuazione organica con quanto realizzato finora.
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8. Dall’“economica” alla “pragmatica”
Parla il ricco, dice cose insulse? Eppure lo si felicita. [… parla il povero] se dice cose assennate, non ci si bada. Parla il ricco, tutti tacciono ed esaltano fino alle nuvole il suo discorso. Parla il povero e dicono: “Chi è costui?” Se inciampa, l’aiutano a cadere (Siracide 13, 22-23).
Nelle righe finali di questo libro desideriamo lanciare alcune proposte come transizioni a future discussioni al centro della tematica attuale. Si tratta di incrociare due tematiche apparentemente parallele, che mai si toccano: quella delle scienze sociali, specialmente dell’economia (e della filosofia economica) e quella delle scienze del linguaggio (specialmente la tradizione della filosofia analitica anglosassone). Si tratterebbe di indagare il come la stessa sorgente o “comunità” è il presupposto, sempre a priori, per ogni “atto-di-lavoro”, come per ogni “atto-di-parola”; una “economica” che si possa articolare a una “pragmatica” – e, tutto questo, in perfetta consonanza con le proposte teoriche di Marx. Vediamo primieramente come possiamo passare dall’“atto-di-lavoro” all’economia (8.1), e da
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questo alla “pragmatica”, come condizione di possibilità dell’“atto-di-parola” (8.2).
8.1. È possibile passare dall’“atto-di-lavoro” a una “economica”? Arriviamo al momento in cui dobbiamo porre la sintesi dell’orizzonte da dove si pone il tema del feticismo nella tappa definitiva della vita di Marx (1857-1873). In questa epoca possiamo osservare i seguenti sei momenti sul tema del feticismo: 1) Nei Grundrisse; 2) nel capitolo 1 della Per la critica (1859); 3) nei Manoscritti del 61-63; 4) nei Manoscritti del 63-65, in due momenti: nel Libro I (il “capitolo VI inedito”) e nel Libro III (il “capitolo VII”); 5) nel capitolo 1 del Libro I de Il capitale (1867); 6) nel paragrafo 4 del capitolo 1 del 1873 su “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”.
Questi sono, cronologicamente, i testi principali da tenere in contro per questa riflessione finale. Dall’inizio stesso, nella prima pagina del primo quaderno di questa epoca definitiva, nel 1857, Marx critica già il solipsismo – critica che Karl-Otto Apel ripeterà alla sua maniera: Individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvio. Il cacciatore e pescatore singolo e isolato con cui cominciano Smith e Ricardo rientrano tra le fantasie prive di immaginazione delle robinsonate del XVIII secolo […] In questa società della libera concorrenza il singolo appare svincolato dai legami naturali.1 1 Grundrisse, Quad. I; ed. cast., I, p. 3; ed. ted., p. 5 [tr. it. cit., p. 5]. Il testo ha molte riflessioni che sono di attualità. Dice ancora sul solipsismo origina-
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E come anticipando i nostri sospetti, arriva a scrivere: La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società […] è un’assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme.2
Marx scrive nuovamente riferendosi a questa questione del testo definitivo del 1873, ne Il capitale, I: Poiché l’economia politica predilige le robinsonate evochiamo per primo Robinson nella sua isola.3
La maniera come Marx concepisce, nel 1857, questo stare sempre apriori in qualche tipo di “comunità”, si vede nel famoso testo dei tre stadi4: I rapporti di dipendenza personale (Abhängigkeitsverhältnisse) […] sono le prime forme sociali […]. L’indipendenza personale, fondata sulla dipendenza materiale, è la seconda grande forma5 […]. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva (gemeinschaftlichen), sociale, come loro patrimonio sociale, il terzo stadio.6
Il secondo stadio, l’individuo presuppone «il totale isolamento (Isolierung) dei loro interessi privati e una divisione del lavoro
rio: «Ai profeti del XVIII secolo, […] sta dinanzi agli occhi come un ideale che sarebbe esistito in passato. Non come risultato storico, bensì come il punto d’avvio della storia» (ivi, pp. 3-4; p. 5 [tr. it. cit., p. 5-6]). 2 Ibidem [tr. it. cit., p. 6]. Si tratta, intuitivamente, del passaggio da una economica a una pragmatica: della produzione e del linguaggio, poiché entrambi suppongono una “comunità”. 3 Op. cit., cap. 1,4 (I/1, p. 93; MEGA, II, 6, p. 107 [tr. it. cit., p. 93]. In tal modo anche l’ego cogito, da Descartes fino a Husserl, starebbe dentro questa categoria solipsista di “robinsonata”. 4 Cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, cap. 4.2, pp. 88 ss. 5 Questa è la forma capitalistica e feticizzata, che ha negato la relazione comunitaria primitiva, ma non ha raggiunto il terzo stadio. 6 Grundrisse, p. 85; p. 75 [tr. it. cit., p. 89].
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sociale, la cui unità e integrazione reciproca esiste, per così dire, come un rapporto naturale esterno agli individui»7. Da adesso, e fino alla fine dei suoi giorni, Marx userà la parola “sociale (gesellschaftliche)” con un doppio senso: il significato quotidiano, abituale; o un significato tecnico proprio, il difettivo, non genuino, negativo, il non-comunitario; cioè, il tipo di “relazione pratica” che stabilisce il capitale tra le persone (capitalista/operaio, ma anche tra capitalista/capitalista e operaio/operaio, in quanto momenti del capitale) sono “rapporti” di dominio, di individui isolati, (nella loro casa, in fabbrica, nel mercato: vite determinate da un solipsismo fondato nell’essenza del capitale)8. Vediamo questo più chiaramente due anni dopo, nella Per la critica: Le condizioni di lavoro che crea valore di scambio […] sono determinazioni sociali (gesellschaftliche) del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale (gesellschaftlicher) senz’altro, lo sono in un modo particolare […] di individui differenti (einzelnen).9
7 Ivi, pp. 85-86; p. 76 [tr. it. cit., p. 90]. Si tratta esattamente – finanche nelle parole come “rapporto naturale esterno” eccetera – del secondo stadio dell’“eticità (Sittlichkeit)” della Rechtsphilosophie di Hegel: la “società (Gesellschaft) borghese” o “civile”. 8 Habermas non ha immaginato questa “colonizzazione” della Lebenswelt che Marx aveva già analizzato esplicitamente come l’essenza della questione del feticismo, e per questo Habermas non ha scoperto il momento pratico o interpersonale nel pensiero di Marx. Per Marx, come vedremo, la “relazione sociale” è retta da una “ragione strumentale”: le cose sono fini e le persone sono mezzi. 9 Zur Kritik (1859), cap. 1 (Siglo XXI, p. 14; MEW 13, p. 19) [tr. it. cit., p. 966. La traduzione italiana riporta “individui differenti”, ma evidentemente sarebbe più corretto “singoli”; N.d.C.].
333 Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone (gesellschaftliche Beziehung der Personen)10 si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose.11
Questo corrisponde al secondo stadio, il capitalista. In quanto al primo stadio, il comunitario precapitalista, Marx scrive: Prendiamo infine il lavoro in comune (gemeinschaftliche) nella sua forma naturale spontanea […] È la comunità.12
Come vediamo, per Marx, l’orizzonte “comunitario” o della “comunità”13 è il riferimento necessario “a partire da dove” può comprendere il suo stato difettivo, poco sviluppato, negativo, feticista: il “sociale” come determinata relazione interpersonale si comprende dalla relazione “comunitaria”. Questa è una posizione definitiva che si ripeterà semplicemente nel
10 Si osservi questa formulazione perché di essa faremo una categoria fondamentale (in Marx implicita come categoria) di ogni pensiero di Marx, per potere definire una “economica” ontologica. Si tratterebbe, esattamente, di una “relazione pratica” difettiva, non-etica, propria della “ragione strumentale” (dove Habermas pone la totalità del pensiero di Marx, come un “paradigma produttivista”). Errore fondamentale del filosofo di Francoforte! Distrugge l’“intenzione” essenziale di tutto il lavoro teorico di Marx! 11 Ivi, p. 17; p. 21 [tr. it. cit., p. 969]. Altri testi molto chiari: «Non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune (gemeinschaftlicher), ma, viceversa, da lavori particolari di individui privati, lavori che soltanto nel processo di scambio, con l’abolizione del loro carattere originale, si affermano come lavoro sociale (gesellschaftliche) generale» (ivi, p. 29; pp. 31-32 [tr. it. cit., p. 982]. «Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio sociale (gesellschaftliche), ossia lo scambio dei particolari prodotti […] è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della produzione sociale (ivi, p. 36; p. 37 [tr. it. cit., p. 989]). 12 Ivi, p. 16; p. 21 [tr. it. cit., pp. 969-969]. 13 Marx, parlando di Ricardo, dice che stava chiuso dentro “l’orizzonte (Horizont) borghese” (ivi, p. 46; p. 46 [tr. it. cit., p. 999]). È una categoria propriamente “fenomenologica” di grande importanza nel nostro tema.
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futuro. Vediamo alcuni esempi. Nei Manoscritti del 61-63 ci sono frequenti riferimenti. Uno di questi, parlando del “adoratore di feticci”, Samuel Bailey, è quando Marx scrive: Esistono come incarnazioni del lavoro sociale […] Il lavoro in esse contenuto dev’essere rappresentato come lavoro sociale, come lavoro individuale alienato (!) […] trasformazione dei lavori degli individui privati contenuti nelle merci in uguale lavoro sociale […].14
I riferimenti sono ancora più frequenti nei Manoscritti del 6365, specialmente in due luoghi: nel Capitolo VI inedito, dove ci sono continue riflessioni sul feticismo (ma non esattamente nella distinzione tra “sociale” e “comunitario”), e nel capitolo VII del Manoscritto principale del Libro III. In effetti, Marx scrive: Il predominio dei prodotti del lavoro passato sul pluslavoro vivo dura soltanto quanto dura il rapporto capitalistico (Kapitalverhältnis); quel determinato rapporto sociale in cui il lavoro passato si contrappone in modo autonomo e preponderante al lavoro vivo.15
E in questo Manoscritto principale, nel 1865, troviamo uno dei testi centrali del tema che stiamo trattando, quando lancia le seguenti formulazioni sul “Regno della libertà” – tanto caro a Schiller: Il regno della libertà (Reich der Freiheit) comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità
14 Op. cit., folio 817 (in cast., Teorías sobre la plusvalía, cit., t. III, pp. 115116; MEGA, II, 3, p. 1318 [tr. it. di S. De W aal, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 136-137]). Ogni volta che poniamo “sociale”, traduciamo dal tedesco gesellschaftliche. 15 Folio 315; cap. 24 dell’edizione di Engels (III/7, p. 509; MEW 25, p. 412 [tr. it., Il capitale, cit., Libro III, p. 550]).
335 esterna16; si trova quindi per sua natura oltre (jenseits) la sfera della produzione materiale vera e propria.17
Qui dobbiamo già chiederci di cosa possa trattarsi questo “oltre” (trascendentalità da definire) del “Regno della necessità” e della produzione materiale. Se si pone oltre la storia nel futuro, o se si pone trascendentalmente come un “orizzonte” di comprensione, come idea regolativa, come un “apriori sempre presupposto”. Continua il testo facendo un riferimento al tema che, dal selvaggio fino all’uomo civilizzato (sempre il “progressismo” precedente al grande “giro” del Marx tardivo)18, in tutti i modi, benché i bisogni siano soddisfatti, crescono allo stesso tempo, per cui non possono mai compiersi completamente. Continua lo stesso testo: La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente (rationell) questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune (gemeinschaftliche) controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca.
Lo stadio comunitario appare nuovamente, ma adesso riceve un certo contenuto, che postuleremo essere una “economica”, una “comunità di produttori” ideale: Essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne (würdigsten) di essa.
16 Che sarebbero l’ambito della “ragione strumentale”: in “quanto a fini” (Zweckmässigkeit)”. 17 Tutto il testo si trova nel capitolo VII del Manoscritto principale, successivamente capitolo 48 di Engels (III/8, p. 1044; MEW 25, p. 828 [tr. it., ivi, p. 1102]). 18 Cfr. la mia opera El último Marx, cap. 7, pp. 243 ss.
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Si tratta, esattamente, di una definizione ideale di una “comunità di produttori”: minimo sforzo, massimo di adeguatezza alla dignità delle persone. Includendo, come si disse nell’enunciato precedente, la “libertà”. E termina il testo: Ma questo rimane sempre (immer) un regno della necessità. Al di là (Jenseits) di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso19, il vero regno della libertà che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa.
Il “vero” Regno della Libertà trascende idealmente il Regno della Necessità. Nella “comunità ideale di produttori” ci sarebbe lavoro con tempo zero, utopia, pura creatività artistica, scientifica, eccetera, non richiesta dal Regno della Necessità. Schema 8.1. Relazione tempo di lavoro e tempo libero (libertà e per la cultura).
Tempo di lavoro
x a
z
“Regno della libertà” (l’economica ideale)
Tempo libero
La linea asintotica a parte da un massimo di tempo di lavoro (nel paleolitico) con un minimo tempo libero (x). E, grazie al 19 Cioè, trascendentalmente a ogni “ragione strumentale”.
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processo civilizzatore, “diminuzione della giornata lavorativa” – dice Marx – dovrebbe diminuire il tempo di lavoro e aumentare il tempo libero (nel punto z). L’“infinito cattivo” di Hegel sarebbe pretendere di raggiungere questo Regno della Libertà. L’“Infinito buono” è sapere che è un postulato ideale, il Regno della Libertà come limite, come “comunità ideale di produttori”, senza sforzo, in tempo zero di lavoro, e nel compimento pieno dei propri bisogni. Questo suppone il superamento di ogni “relazione sociale” e lo stabilire pieno di una relazione “comunitaria” tra persone – le persone sarebbero il fine e non il mezzo come nella “relazione sociale” del capitale. Penso che questo è il “comunismo” per Marx; non è una tappa della storia, bensì una “comunità ideale”. Già nei Manoscritti del 44, terzo quaderno, nel paragrafo su “Proprietà privata e comunismo”, il giovane Marx aveva scritto: L’attività sociale e il godimento sociale non esistono affatto soltanto nella forma di un’attività immediatamente comune (unmittelbar gemeinschaftlichen) e di godimento immediatamente comune, per quanto l’attività comune e il godimento comune, vale a dire l’attività e il godimento che trovano la loro estrinsecazione e la loro conferma immediatamente in una società reale (wirklicher) con altri uomini, avranno luogo ovunque quella espressione immediata della socialità sia fondata sull’essenza del suo contenuto e commisurata alla sua natura.20
Ciò che richiama l’attenzione è la formulazione “avranno luogo ovunque (überall stattfinden)…” che ci fa pensare al modo in cui la “comunità ideale” si realizza nella “comunità reale”, empirica. Tutto questo paragrafo su “Proprietà privata
20 Op. cit., III, VI; ed. cast., Alianza, p. 146; MEW, EB 1, p. 538 [tr. it. cit., p. 114].
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e comunismo” merita di essere letto con lentezza. Termina con le seguenti riflessioni: Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione; perciò è il momento reale, e necessario per il prossimo svolgimento storico, dell’emancipazione e della riconquista dell’uomo. Il comunismo è la struttura necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro; ma il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento storico, la struttura della società umana.21
Questi testi ci danno argomenti per concludere fermamente nella possibilità che Marx non pensasse il “comunismo”, il “Regno della Libertà”, come un “fine” o tappa storica, empirica, bensì molto più come una “struttura necessaria”, come un “principio propulsore”, come una idea regolativa, e perché no, come una “comunità ideale di produttori” (non di parlanti per adesso). Solo adesso possiamo confrontarci con il testo definitivo sul feticismo pubblicato da Marx, nel 1873, il paragrafo 4 del capitolo 1 del Libro I de Il capitale22. Non ripeteremo quanto detto, solamente citeremo qualche testo: Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci [si tratta di una fenomenologia] sorge dal carattere sociale (gesellschaftlichen) peculiare del lavoro che produce merci.23
Come nei Grundrisse e nella Per la critica, Marx parte criticando le “robinsonate”24; si riferisce dopo, per far c omprendere 21 Ivi, III, XIII (p. 156; MEW, EB 1, p. 546) [tr. it. cit., p. 126]. 22 Cfr. El último Marx, cap. 5.7.c, specialmente pp. 192-193. Sulla storia del feticismo della merce, cfr. Th. Marxhausen, “Die Entwicklung der Theorie des Warenfetischismus in Marx ökonomischen Schriften zwischen 1850 und 1863”, in «Arbeitsblätter zur Marx-Engels Forschung», 1 (1976), pp. 75-95. 23 Op. cit.; I/1, p. 89; MEGA, II, 6, p. 103 [tr. it. cit., p. 88]. 24 Ivi, pp. 93-94; p. 107 [tr. it. cit., p. 93].
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il tema del feticismo, alle comunità pre-capitalistiche25. Ma la variazione, riguardo alle opere citate, è che in terzo luogo Marx si riferisce alla “comunità ideale” – e questo è perfettamente coerente con la nostra ipotesi interpretativa: Immaginiamoci26 in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi (freier Menschen) che lavorino con mezzi di produzione comuni (gemeinschaftlichen) e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. […] Solo per mantenere il parallelo (Parallele) con la produzione delle merci presupponiamo […].27
È chiaro che questo esempio, questa idea regolativa serve, analogicamente (in parallelo o metaforicamente) per chiarire il caso della società reale che si tenta di analizzare: la capitalista («per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste […]»28). Crediamo che abbiamo indicato, sufficientemente, il come Marx usa la “relazione comunitaria” ideale come punto di riferimento per chiarire criticamente la “relazione sociale” capitalista. Abbiamo visto, quindi, che nel nucleo stesso del pensare di Marx si trovi il tema della “comunità (Gemeinschaft)”29. Tutto
25 Ivi, pp. 94-95; pp. 107-108 [tr. it. cit., p. 95]. 26 Si osservi l’espressione di “desiderio”, utopica, di descrivere una situazione limite, trascendentale. Si tratta di un postulato. 27 Ivi, p. 96; p. 109 [tr. it. cit., p. 95]. 28 Ivi, p. 96; p. 109, 24 ss. [tr. it. cit., p. 96]. 29 Cfr. oltre a quanto detto, la nostra opera La producción teórica de Marx, cap. 4.2 (pp. 87 ss.); 14.4 (pp. 291 ss.); 17.4 (pp. 355 ss.); in questa opera cfr. nel cap. 1.1 e 3.2.a. Ma anche ne “La Introducción de la Transformación de la Filosofía de K.-O. Apel y la Filosofía de la Liberación”, pubblicata separatamente dalla UAM, México 1990, pp. 39 e segg, e pp. 73 ss.; pubblicato anche in K.-O. Apel - E. Dussel, Ethik und Befreiung, Augustinus, Aachen 1990, pp. 73 ss. Questa “comunità” ha a che vedere con la “comunità etica”
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quanto ottenuto nella ri-lettura che abbiamo effettuato di Marx nei nostri libri precedenti (e che si concreta in un paradigma teorico)30 trattava ancora di categorie oggettive, “davanti agli occhi (vorhanden)” direbbe Heidegger. Adesso, invece, stiamo tentando di considerare le “condizioni di possibilità ideali”, o il come la “comunità dei produttori” è ciò che si suppone sempre apriori al semplice lavorare “onestamente”, “seriamente” (come nel caso dei parlanti o argomentanti, in Apel o Habermas). In effetti, ogni persona che effettui onestamente un “atto-di-lavoro” lo fa, evidentemente, come un mezzo per riprodurre la sua vita. Ma questa esperienza “solipsista” (riprodurre la mia vita) è già determinata dal “mondo della vita” moderno e da un “sistema” che lo ha colonizzato: il “modo di produzione capitalista”. In una società come la azteca, la bantù, la cinese o la feudale europea, per esempio, quando qualcuno effettua un atto-di-lavoro lo fa per compiere con un dovere comunitario, per permettere la sussistenza della comunità, in una “divisione-del-lavoro” (che si va generalizzando e complicando a partire dal neolitico), che determina, per esempio, che quando qualcuno non lavora, non gli si permette semplicemente di morire “solipsisticamente”, bensì gli si chiede in tutti i modi il compimento del suo dovere per la sopravvivenza della comunità. Un “fannullone” in queste comunità è semplicemente espulso dalla comunità; e non lo si sopporta, non perché questa comunità potrebbe stare contro la libertà individuale, bensì perché semplicemente «chi non lavora, non mangi»31 – di Kant, con la “Chiesa invisibile” di Hegel e con il “Regno di Dio” in terra dei pietisti di Wittenberg, questione che suggeriamo nelle Parole preliminari all’inizio di questa opera. 30 Cfr. El último Marx, capp. 9 e 10. 31 Colui che si nega ad argomentare non può neppure parlare, perché dire che non vuole argomentare già suppone un fondamento – sarebbe quindi una contraddizione performativa (cfr. su questo tema M. Jay, “The Debate over Performative Contradiction: Habermas vs. the Post-structuralists”, in
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come diceva Paolo di Tarso – del prodotto dal resto della comunità. In maniera che il semplice atto-di-lavoro presuppone una comunità di produttori e riproduttori della vita umana (nel tempo e nello spazio). Per questo possiamo copiare un testo di Apel applicandolo al nostro problema (quando Apel parla di “argomentare”, noi scriviamo “lavorare”, eccetera): Chi lavora […] può essere condotto a riconoscere o convinto mediante l’autoriflessione, che necessariamente, in quanto produttore, già ha riconosciuto una norma etica fondamentale.32
La norma etica fondamentale si può enunciare, approssimativamente, tenendo conto della dignità della persona, riguardo ad effettuare l’atto x. Può x essere un atto-di-argomentare (o atto-di-parola discorsivo) o un atto-di-lavoro. Perché dico che il lavorare seriamente o onestamente presuppone sempre apriori la norma etica fondamentale? Perché così come l’argomentatore non impone la sua “ragione” con la forza, bensì pretende di convincere con argomenti, alla stessa maniera colui che lavora non tenta di conseguire il prodotto necessario con la forza o con il furto, bensì con il suo proprio lavoro e con lo scambio; cioè, rispetta l’altra persona e la considera eguale e se stessa, per cui si impegna a lavorare, così come l’Altro lavora il proprio. Ma, onestamente (e non in un “sistema” distorto “solipsisticamente” come il capitalista), si lavora nella produzione di un prodotto che è “nostro”, che sarà “distribuito” e scambiato con “noi”, per essere consumato da ciascuno dei membri della comunità (la “festa” è il miglior esempio)33: Zwischenbetrachtungen, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1989, pp. 171-189); qui, invece, si tratta di una contraddizione economica. 32 Il testo si trova in «Notwendigkeit, Schwierigkeit und Möglichkeit einer philosophischen Begründung der Ethik […]», IV; in trad. cast., Estudios éticos, p. 161 [traduzione mia, N.d.C.]. 33 Cfr. la mia Filosofía de la Liberación, 4.3.9.6 e 4.4.9.2-4.4.9.3.
342 Questa norma fondamentale può essere spiegata alla seguente maniera: colui che lavora ha già testimoniato in actu, e con ciò riconosciuto che la ragione pratica è responsabile dell’agire umano, cioè che le pretese di giustizia possono e debbono essere soddisfatte mediante atti-di-lavoro tecnicamente adeguati.
Abbiamo semplicemente cambiato “argomentare” con “lavorare” e “pretesa di verità” con “pretesa di giustizia”. Che significa questo? Semplicemente che, quando qualcuno lavora, considerando che lo fa a partire da una comunità sempre apriori presupposta, presuppone anche che tutti gli altri membri lavorino in proporzioni eguali (“secondo le loro capacità”, benché eticamente e per la norma etica fondamentale, ciascuno dovrà consumare “secondo i propri bisogni”). Se non presupponesse ciò, smetterebbe di lavorare onestamente e seriamente (cioè, intenzionalmente comincerebbe a lavorare, contro la comunità, in grado minore a quanto può, o a rubare). In ciò si fonda, non la “verità” (perché non è un argomento teorico), bensì la “giustizia” (che è un atto di “eguaglianza” riguardo ai prodotti del lavoro: a ciascuno secondo ciò che corrisponde alle sue capacità e bisogni nella comunità). Così come nel capitalismo la pubblicità può produrre una manipolazione degli “accordi” pubblici, a coloro a cui si arriva con distorsione e non con argomentazione (una maniera di violenza irrazionale che Habermas ha tanto studiato), alla stessa maniera questo capitalismo ci ha colonizzato soggettivamente per determinare che è “naturale” – come lo espongono Hobbes e Smith – che ciascuno lavori nel proprio (isolatamente) e che possa comprare il lavoro alieno per raggiungere fini propri (e contrari agli interessi di coloro che lavorano perché lui possa comprare il loro lavoro). Questa distorsione completa dell’economico Marx la denomina: “la “relazione sociale di produzione” (relazione di dominio di una ragione strumentale che colloca la persona dell’Altro come mezzo per i propri fini: la valorizzazione del valore del proprio capitale). Il
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“solipsismo” economico (del quale Apel non si è occupato) è in realtà tanto fondamentale come il mero ego cogito. L’ego cogito nacque simultaneamente con un ego laboro; entrambi dovettero negare la “comunità illimitata sempre presupposta apriori”, per potere organizzare un mondo fondato sull’ego della ragione strumentale (teorica, nella filosofia moderna; pratico- produttiva, nell’economia capitalista moderna). Se recuperiamo la “comunità di comunicazione”, non possiamo fare a meno di recuperare anche la “comunità dei produttori”, che simultaneamente era stata negata, ed è a partire dalla quale possiamo recuperare criticamente il superamento della modernità come transmodernità. È necessario, quindi, ricostruire questa economica ideale. Questo fu l’obiettivo dell’opera di Marx: a partire da una economica ideale (come modello universale)34 criticare l’economia del “sistema” capitalista.
8.2. Dall’“economica” alla “pragmatica” Tentiamo di fare adesso un cammino inverso al già compiuto in un altro saggio35. Non pensiamo di cadere in un economicismo che pretenda che la “comunicazione” sia un risultato o
34 Questa “economica ideale” integra ciò che denominiamo ne El último Marx (1863-1882), il “nucleo razionale” implicito e la “matrice generativa economica” (cap. 9, pp. 361 55.). Benché lì avvertiamo sulle determinazioni di esteriorità e creatività del lavoro vivo, adesso stiamo sviluppando il suo aspetto fondamentale: la sua comunitarietà – questione che era implicita, ma che non fu esplicitata dentro la “matrice generativa”. Esteriorità, creatività, (a partire dall’al di là di ogni “sistema”) e comunitarietà sarebbero le determinazioni di questo “nucleo razionale” e di questa economica. 35 Cfr. “La razón del Otro. La interpelación como acto-de-habla”, in R. Fornet-Betancourt (ed.), Diskursethik oder Befreiungsethik?, Augustinus, Aachen 1992, pp. 96-121. Lì tentammo di passare dalla “pragmatica” all’“economica”.
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riflesso del “produttivo”, alla maniera come si definiva nello stalinismo la determinazione economica di ogni ideologia (l’infrastruttura determinava assolutamente la sovrastruttura). Ma non possiamo più usare queste categorie, per non essere, in verità, categorie propriamente dette di Marx36. Pretendiamo, 36 Ho insistito nelle mie opere su Marx che la categoria di “sovra-” e “infrastruttura” non solo non è essenziale in Marx, bensì che, definita in un modo economicista, è contro la sua intenzione e teoria. L’unico testo importante si trova nell’“Introduzione a Per la critica” del 1859, che si deve leggere con attenzione in due sensi. In un primo senso, trattandosi dell’unico testo che conosco di Marx (non di Engels) sulla questione. E questo dà da pensare. In effetti, nelle migliaia di pagine delle quattro redazioni de Il capitale (dal 1857 al 1889 almeno), Marx non dedica, non un capitolo o un paragrafo, bensì neanche una pagina al tema. Potrebbe essere tanto importante per Marx e tuttavia non averle dedicato la benché minima riflessione esplicita? Penso, e trattandosi di una Introduzione (non un testo scritto come frutto della riflessione propria, che avrebbe molto più valore) e per il fatto che immediatamente termina queste riflessioni nell’“Introduzione a Per la critica” con una frase laudatoria ad Engels (ed. cast., Siglo XXI, México 1980, p. 6; MEW 13, p. 10), che questo testo o è di Engels o è scritto “in suo onore” (cioè, seguendo la sua “maniera di pensare”, ma per Marx non è essenziale). E tale è così che, teoricamente, Marx mostra sempre la codeterminazione mutua dei momenti e non una determinazione di un termine (l’economico) sull’altro (l’ideologico). Vedi ciò nelle magnifiche riflessioni della codeterminazione della produzione, consumo, distribuzione e scambio nell’Introduzione dei Grundrisse (cfr. la mia opera La producción teórica de Marx, pp. 38-47; nei Grundrisse, ed. cast., pp. 8-20; Dietz, 1974, pp. 10-20) [tr. it. cit., pp. 10-24]. Si tratta di una «produzione determinata determina quindi un consumo» (ivi, p. 20,24; p. 20,35 [tr. it. cit., p. 24]). In un secondo senso, perché le parole di Marx non permettono di trarre tante conclusioni come la tradizione stalinista pretese. Marx dice che «il modo di produzione della vita materiale condiziona (bedingt), in generale, il processo sociale» (Zur Kritik, p. 4; p. 8 [tr. it. cit., p. 957]) che non è assolutamente lo stesso che “determinare”; o che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere (Sein), ma è, al contrario, il loro essere sociale (gesellschaftliches Sein) che determina la loro coscienza» (ivi., p. 5; p. 9 [ibidem]). Cfr. bene: l’“essere” non è solo materiale; e l’“essere sociale” è molto più che un’economica economicista. E ancora, si potrebbe argomentare, la determinazione non è assoluta, bensì “relativa”, e ciò che determina è da parte sua determinato: l’e-
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invece, di mostrare la mutua correlazione e co-costituzione di una dimensione rispetto all’altra. Schema 8.2. Mutua relazione dell’“economica” con la “pragmatica”.
a Economica
Pragmatica b
La freccia a indica la determinazione dell’“economica” sulla “pragmatica”, e la freccia b il contrario. Nella prima, c’è una determinazione pratico-produttiva dell’azione economica e della sua ratio economica sulla pragmatica; nella seconda, c’è una determinazione discorsiva della ragione comunicativa, della ratio argomentativa sull’economica. In generale, la filosofia che si occupa della pragmatica – come Searle, Apel o Habermas – non si cura dell’economica. Nella Periferia, nel capitalismo dipendente del Sud, l’“economica” è fondamen-
conomico è un determinante determinato (politicamente, ideologicamente, eccetera). In definitiva, se è vero che possono entrare in conflitto “le forze sociali produttive” con le “relazioni di produzione” (ibidem), queste ultime (le “relazioni” di produzione) sono anche “relazioni” pratiche (etiche) tra persone: una persona domina l’altra estraendole plusvalore nella “relazione sociale di produzione” capitalista. In maniera che qui la determinazione non è meramente “materiale” o “tecnologica”, bensì “economica”: pratico- produttiva (e nel pratico, nel politico, per esempio, è determinante costitutivo essenziale dell’economico, in quanto riproduce la stessa relazione pratica economica). Con questa semplice chiarificazione “marxologica”, rimane in aria il libro di Jürgen Habermas, La ricostruzione del materialismo storico.
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tale per comprendere il processo di impoverimento crescente e massiccio della popolazione (in America latina, Africa e Asia e tra minoranze che aumentano il capitalismo centrale). La problematica posta dal pensiero di Marx dovrà, quindi, ritornare al tavolo del dibattito filosofico. Per questo si ha bisogno di superare semplificazioni che lo farebbero diventare improduttivo e non pertinente. Uno di questi è il luogo della critica delle formazioni sociali realmente esistenti. Schema 8.3. Luoghi da dove si esercita la critica. I Il soggettivo
II Processo storico delle formazioni sociali SE1
Lavoro vivo (sussumibile)
y
SE2 SE3
SE4 SE5 SE6
SEn
a b c d e f n
III Il modello ideale (“comunismo”)
“Comunità ideale dei produttori”
Spiegazione dello schema. La freccia y rappresenta il movimento di sussunzione in un “sistema” dato. SE1-SEn sono i “sistemi economici” (per esempio SE1: comunismo primitivo; SE2: antico; SE3: schiavismo; eccetera; non c’è tra di essi un ordine necessario unilineare, come pretendeva Engels). Le frecce a e n indicano il senso della “critica”.
Il marxismo tradizionale ci aveva abituati a collocare il “comunismo” (o il “Regno della libertà”) come tappa finale
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dell’ordine II (nella sequenza da SE1 a SEn), cioè del “Processo storico delle formazioni sociali”, e dato che il “lavoro vivo” si confondeva con la “forza lavoro”, gli ordini I (punto di partenza quasi-trascendentale soggettiva della “critica”) e III (“comunità ideale” quasi-trascendentale) si confondevano nell’ordine II, come una successione necessaria, semplificata e realizzata di “una teoria filosofico-storica”37, il che distruggeva tutto il senso del compito “critico” che Marx proponeva. Questi tre ordini si devono distinguere precisamente. L’“economica”, d’altra parte, comprende: tanto l’“economica ideale” (o la “comunità ideale dei produttori” presupposta, e a partire dalla norma etica fondamentale che la fonda), come il “nucleo razionale”38 implicito, la “matrice generativa economica” in generale, e la sua applicazione (Anwendung), per esempio, al livello della critica dell’economia politica capitalistica (Il capitale è un prodotto teorico di questa critica ricostruttiva di Marx)39. Sarebbe lungo estenderci qui sul tema. Desideriamo soltanto ricordare questo programma teorico per future esposizioni. Per adesso, ci interessa solo la relazione dell’“economica” con la “pragmatica”. Ripetendo, diremmo: ogni “atto-di-lavoro” (come ogni argomentare o “atto-di-parola” seriamente comunicativo) presuppone sempre la “comunità ideale di produttori”. Non si 37 Ci stiamo riferendo al testo di Marx che dice: «Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli» (Risposta di Marx a Michailovskij, novembre 1877 [tr. it. di B. Maffi, in K. Marx, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 19652, pp. 235-236]; cfr. il testo e il contesto nella mia opera El último Marx, pp. 252 ss.). Marx nega lì esplicitamente la successione necessaria dei sistemi economici (SE1→SEn). 38 Del quale parliamo ne El último Marx, cap. 9.1, pp. 336 ss. 39 Tutto ciò in ivi, capp. 9.2-10, pp. 361-429.
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lavora mai per se, come non si può argomentare solo per sé. L’Altro è la contropartita essenziale di ogni “atto-di-lavoro”, poiché l’atto-di-lavoro non è solo un atto tecnico (persona/natura), bensì pratico (persona/natura/persona); si trova, quindi, sussunto in un “atto-di-giustizia” (e “Justitia ad alterum est” (“la giustizia tende all’altro”, dicevano i latini). La razionalità economica, a partire dalla prassi-produttiva (analogicamente la comunicativa), presuppone sempre una “comunità ideale” illimitata, definita adesso a partire dalla corporalità necessitante (“Ho fame”), come Marx la descrisse adeguatamente a partire dai Manoscritti del 44. Soggettivamente (ordine I dello schema 8.3), è a partire dal “lavoro vivo (lebendige Arbeit)” da-dove Marx effettua la critica al modo difettivo di sussumere questo lavoro nell’“istituzionalità” economica del capitale (del capitalismo, per la classe capitalista, per i paesi capitalistici centrali)40. Questo modo difettivo è ciò che Habermas chiama “sistema” economico (ma non è tutta l’“economica”, bensì solo il modo difettivo capitalista). Ma Marx realizza questa “critica (Kritik) a partire dall’esteriorità e trascendentalità apriori del lavoro vivo (un ante festum soggettivo). Come orizzonte oggettivo-soggettivo ideale (ordine III dello schema 8.3) è il sempre implicito presupposto apriori di ogni atto-di-lavoro, ante festum (quando ancora non si è lavorato), in festum (quando si lavora sussunti nell’“istituzionalità” data, per esempio il capitalismo) e post festum (nel lavoro disponibile che tenta di tornare a lavorare per ristabilire la relazione pratica che il lavoro presuppone).
40 Abbiamo esposto lungamente questa questione. Cfr. per esempio in Hacia un Marx desconocido, cap. 14.2, pp. 290 ss.
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Ogni “istituzionalizzazione” (Marx la chiamerebbe “sussunzione”: freccia y dello schema 8.3) determina un grado di alienazione del lavoro, una colonizzazione della “vita del mondo quotidiano (Lebenswelt)”. In questa maniera, il parlante- argomentante della “pragmatica” (di un Searle o Apel) si trova sempre apriori già “posto” a partire da una trama di azioni economiche, strutture istituzionalizzate in una “comunità reale di produttori”. Questa determinazione né è assoluta né è l’ultima istanza: è una determinazione sui generis (la determinazione economica né più, né meno). Alla stessa maniera, il soggetto lavoratore (economico) presuppone sempre apriori una comunità “pragmatica” di comunicazione reale e linguistica, nella quale parla e argomenta sulla produzione e sulle sue relazioni pratiche economiche. La determinazione “pragmatica” sull’“economica” non è assoluta né l’ultima istanza (come sembrerebbe affermare Habermas): è una determinazione sui generis (la determinazione pragmatica, che dovrebbe prendere il posto di tutta la questione ideologica nel marxismo tradizionale e arricchirla enormemente, e in questo consiste il valore del lavoro di Habermas e Apel). Pensare l’“economica” soltanto come sistema colonizzatore è confonderla con un livello concreto del suo possibile esercizio: con l’economica capitalistica. Sarebbe come esporre una “pragmatica” reale solo a un livello della ragione strumentale, come momento perlocutorio senza forza allocutoria in luogo di una “pragmatica” ideale. L’“economica” è essenziale e primieramente una relazione pratica tra persone, azione pratica, dell’ambito della ragione pratica (non strategica, né strumentale, né comunicativa). Diviene dall’ambito della ragione strumentale quando il lavoro vivo è sussunto (istituzionalizzato) nella “relazione sociale” del capitale e, in questo caso, la valorizzazione del valore (una cosa) si trasforma in fine: una “economica” strumentale, sotto un paradigma produttivista (il
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capitalismo e non l’esposizione critica di Marx). In questo si fonda la confusione di Habermas (e di Apel in conseguenza). Da ora in avanti, dovremo sviluppare in alcuni punti la nostra Filosofia della Liberazione, poiché potremo definire meglio questi tre ambiti: 1) la “pragmatica”, 2) l’“economica” a partire 3) dalle relazioni pratiche (che abbiamo chiamato “faccia-a-faccia”, di prossimità; e che a partire da Austin si denomina nella pragmatica il momento allocutorio): la “politica”, l’“erotica”, la “pedagogica”, eccetera41. La “pragmatica” si occuperebbe del prodotto materialesimbolico “segno” (la “semiotica”42, a partire da una comunità di comunicazione linguistica, in riferimento allocutorio all’altro, in ogni atto-di-parola, o “discorso”, argomentante). L’“economica”43 si occuperebbe del prodotto materiale-tecnologico “oggetto con valore d’uso”, a partire da una comunità economica di produttori, in riferimento pratico all’altro, in ogni atto-di-lavoro (tecnologico). Le relazioni pratiche possibili (per esempio la “politica” ha come prodotto proprio l’istituzionalizzare esplicitamente le relazioni pratiche della pragmatica e dell’economica)44. Si tratterebbe, quindi, di un oggetto teorico sommamente complesso che andremo affrontando nel futuro. 41 Cfr. nella nostra Filosofía de la Liberación, paragrafi 3.1-3.4, nel capitolo 3: “Dalla politica all’anti-feticismo”. 42 Così la denominiamo in ivi, paragrafo 4.2. Ma includiamo in essa momenti della “pragmatica” e da lì ne deriva qualche confusione che si deve precisare. 43 Nella Filosofía de la Liberación, paragrafo 4.4. Qui distinguiamo chiaramente il momento poietico-tecnologico (paragrafo 4.3) del lavoro o del disegno dal pratico della relazione economica. 44 Nel caso della “pedagogica”, si istituzionalizzano anche le relazioni pratiche educative; nell’erotica, invece, la relazione intersoggettiva tocca intimamente la corporalità – benché a questo livello c’è anche istituzionalità culturale interpersonale.
351 Schema 8.4. Mutue autonomie e determinazioni dell’“economica”, della “pragmatica” e delle diverse “relazioni pratiche” (politica, erotica, pedagogica, etc.).
VC
ECONOMICA
CPr
PRAGMATICA
CCo A
D C
VC
VC
B POLITICA, ECCETERA CRp
Spiegazione dello schema. VC: mondo della vita quotidiana (Lenbeswelt); CCo: comunità di comunicazione; CPr: comunità di produttori; CRp: comunità di relazioni pratico-politiche, eccetera; A: coincidenza dell’Economica/Pragmatica; B: coincidenza della Pragmatica/Politica, eccetera; C: coincidenza della Politica, eccetera/Economica; D: mutua coincidenza dei tre ambiti. A, B, C o D determina in entrambe le direzioni (per esempio in A “da” l’economica alla pragmatica, e “da” la pragmatica all’economica).
In questo paragrafo abbiamo proposto soltanto il movimento dall’“economica” alla “pragmatica” (Economica, A→Pragmatica); cioè, il parlante-argomentante si trova p osto sempre in una relazione pratico-economica; l’azione comunicativa parte da una previa azione pratico-economica (da una relazione dei produttori). Si legga adesso il testo che abbiamo collocato all’inizio di questo capitolo («Parla il ricco […]; parla il povero […]». Non cadremo in un semplicismo economicistico, ma neanche cadremo in un pragmatismo idealista, che è il pericolo di Habermas o di Apel dimenticando la determinazione pratica dell’“economica”, come ambito uni-
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versale (diremmo con Habermas) o trascendentale (con Apel) e solo riducendo l’“economica” al livello della scienza “empirica” capitalista, neoliberale (un “sistema” colonizzatore): l’“economia”. Valgano alcune riflessioni sul tema indicato finora. L’“economica” sussume in una relazione pratica (relazione persona/persona tra il produttore e il consumatore; tra il capitalista o proprietario dello strumento di produzione e il lavoratore stesso; eccetera) il processo stesso “tecnologico” di produzione (relazione persona/natura che termina in un prodotto per mediazione della tecnologia). Abbiamo denominato la “poetica”45 il processo stesso persona/natura; cioè solo il paradigma produttivistico avverte il momento tecnologico del lavoro; il paradigma di Marx parte da una relazione interpersonale o pratica (“relazione comunitaria” o “relazione sociale”, quest’ultima difettiva) per sussumere dentro di essa il processo di lavoro. Alla stessa maniera, il semplice momento linguistico (come emissione di “orazioni”), con la competenza sua propria, è sussunto nel momento “pragmatico”. Il “segno” (poietica simbolica della semiotica) era una mediazione sussunta nella pragmatica46. È necessario, quindi, distinguere chiaramente il momento poietico-linguistico (astratto) dal momento comunicativo, allocutorio, pratico. In tutti i modi, nel momento pragmatico sarà possibile ancora ricordare la problematica dell’“esteriorità” (che abbiamo chiamato atto-di-parola:
45 Filosofía de la Liberación, paragrafo 4.3.; e nella nostra opera Filosofía de la producción. Nella poietica si deve includere la tecnologia (ingegneria) come il “disegno” (belle arti) o l’“estetica” quotidiana (e anche geniale dei grandi artisti, ai quali si dedica esclusivamente Kant nella Critica del giudizio). 46 Non avevo avvertito esplicitamente questa questione nella mia Filosofía de la Liberación, e per questo inclusi nella “semiotica” (paragrafo 4.2) entrambi i momenti indistintamente.
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l’“interpellazione”) che, determinata dall’“economica”, può arrivare ad essere l’“interpellazione del povero” (escluso dalla comunità di comunicazione e dei produttori/consumatori). Questa “pragmatica” (che include la “semiotica”, anche argomentante) e l’“economica” (che include una “poietica-tecnologica”, anche disegnante) sono determinate o si sussumono come mediazioni di diverse relazioni pratiche in definitiva costitutive: la “politica”, la “pedagogica”, l’“erotica”, eccetera. Queste “relazioni pratiche” (che Habermas tiene soltanto in conto in quanto “pragmatica-politica”; ma le mancherebbero molte altre dimensioni, tali quali la pragmatica-erotica, eccetera; e l’“economica-politica”, eccetera) sostengono la “forza allocutoria” dell’atto-di-parola comunicativo o l’“intenzione di giustizia” dell’atto-di-lavoro economico. Ma l’“atto comunicativo” di Habermas non può arrogarsi l’unica relazione pratica autenticamente umana; ce ne sono altre egualmente essenziali (per esempio l’atto-di-lavoro economico politico). Valgano queste riflessioni solo per aprire un nuovo campo teorico che dovremo attraversare prossimamente. Nel caso di una “pragmatica” idealista, il problema del feticismo passa non percepito nella sua determinazione economica. È ciò che ci interessa in America latina, nella Periferia mondiale, dove dall’invasione di Panama alla guerra in Iraq, un nuovo Ordine Mondiale egemonico del “Nord”, sotto il potere militare nordamericano, impone alla maggioranza dell’Umanità, nel “Sud”, il dovere morale di rassegnarsi a un minimo vitale di consumo, alla miseria, contemplando passivamente la dilapidazione ecologica del pianeta in mano dell’irresponsabilità distruttrice del Nord. Il cinismo occupa il posto dell’etica, e la morale borghese del sistema capitalista sviluppato (che giustifica l’invasione di Panama, ma si oppone all’invasione del Kuwait) si impone come la “Macro-morale dell’Umanità”: la pura violenza coattiva, irrazionale e ingiusta del più forte (sia questa forza tecnologica, o economica, ma in definitiva,
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militare)47. Quando l’“economica” determina, mai assolutamente, la “pragmatica”, possiamo comprendere l’enunciato: Parla48 il ricco49 «dice cose insulse? Eppure lo si felicita. [… parla il povero] se dice cose assennate, non ci si bada (Siracide 13,22).
Il povero è l’“escluso” dalla comunità di comunicazione e dalla comunità del produttori/consumatori. Il povero non può lavorare; se lavora, lo sfruttano; non può per questo consumare. Il povero non può parlare50; se parla, non lo ascoltano; la sua interpellazione non ha davanti a sé nessuna coscienza etica che l’accolga. La “pragmatica” senza “economica” è vuota; l’“economica” senza “pragmatica” è cieca.
47 Per questa forza “militare” cominciamo la nostra Filosofía de la Liberación, nel primo paragrafo: “Geopolitica e filosofia” (1.1): li parliamo di Eraclito, Clausewitz o Kissinger, adesso di Reagan o Bush: «La guerra è il padre di tutto, se per tutto si intende l’ordine che i dominatori del mondo controllano con il potere dei loro eserciti». Il Nuovo Ordine Mondiale successivo all’indebolimento dell’Urss e sotto l’egemonia nordamericana! 48 Si tratta di una dimensione pragmatica. 49 Si tratta adesso di una dimensione economica della pragmatica. 50 Conserva “silenzio”, ma non quello del Trattato di Wittgenstein, bensì semplicemente quello dell’“ingiustizia”: deve parlare, desidera parlare, ma non lo lasciano. È questione di Potere.
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Indice
Introduzione di Antonino Infranca
p. 11
Parole preliminari
p. 33
Prologo per l’edizione italiana: la critica della teologia come critica dell’economia
p. 51
p. 65
Parte I La critica del feticismo
1. Il feticismo nel giovane Marx (1835-1857) 1.1. Da ebreo e luterano credente a universitario critico (1835-1841) 1.2. Critica alla Cristianità e l’origine della questio ne del feticismo (dal 1842 all’ottobre del 1843) 1.3. Origine della critica antifeticistica dell’economia politica (dall’ottobre del 1843 al 1844) 1.4. Critica dell’ idealismo religioso (1844-1846) 1.5. Critica al socialismo cristiano in quanto utopi co (1846-1849) 1.6. Transizione teorico-creatrice (1849-1856)
p. 67 p. 68 p. 76 p. 82 p. 91 p. 94 p. 96
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2. Il feticismo nelle quattro redazioni de Il capitale (1857-1882) 2.1. Il feticismo nella prima redazione de Il capitale (a partire dal 1857) 2.2. Il feticismo nella seconda redazione de Il capitale (1861-1863) 2.3. Il feticismo nella terza redazione de Il capitale (1863-1865) 2.4. Il feticismo all’epoca dell’ultima redazione de Il capitale (1866-1882) 3. Critica del carattere feticista del capitale 3.1. Il feticismo come “assolutizzazione” del rela tivo 3.2. Carattere feticista del capitale in generale 3.3. Carattere feticista di ciascuna d eterminazione del capitale 3.4. Carattere feticista della circolazione 3.5. Carattere di feticizzazione progressiva del processo di valorizzazione
Parte II Le “metafore” teologiche
4. La teologia “metaforica” di Marx 4.1. Morte del Deuteronomio 23,20-21: nascita del capitale 4.2. Teologia “metaforica” o “metafora” teologica
p. 101 p. 102 p. 112 p. 118 p. 123 p. 133 p. 134 p. 138 p. 149 p. 161 p. 167
p. 173 p. 175 p. 182 p. 194
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4.3. Dalla “logica” del capitale alla “logica” simbolica della metafora teologica 4.4. Il “peccato originale” come “relazione sociale” nell’opera di Marx 4.5. La “demonologia”: la Bestia apocalittica come Anti-Cristo 4.6. La “Cristologia” e la “Trinità” rovesciate 5. Il sacrificio cultuale al feticcio. Uso di testi biblici 5.1. Teologia del “pane”: razionalità simbolica ebraico-cristiana 5.2. Un testo biblico centrale nel pensiero di Marx: Matteo 6,19-24 5.3. Altri testi biblici usati da Marx 5.4. La logica “sacrificale” de Il capitale 5.5. Verso una “Teologia della liberazione ecologica” 6. L’ateismo dei profeti d’Israele e di Marx 6.1. I profeti contro l’idolo, il feticcio 6.2. Marx contro il feticcio moderno, il capitale 7. Teologia “habermasiana” ed economia 7.1. Paradigma del linguaggio. Teologia e comunicazione 7.2. Paradigma della “corporalità vivente”. Teologia ed economia 7.3. Lavoro vivo, valore e prezzo
p. 201 p. 205 p. 212 p. 216 p. 227 p. 227 p. 242 p. 248 p. 255 p. 267 p. 277 p. 280 p. 287 p. 299 p. 301 p. 305 p. 309
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7.4. Il “culto” del feticcio e la sacramentalità eucaristica
Parte III A modo di transizione
8. Dall’“economica” alla “pragmatica” 8.1. È possibile passare dall’“atto-di-lavoro” a una “economica”? 8.2. Dall’“economica” alla “pragmatica”
p. 317
p. 327 p. 329 p. 330 p. 343
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Passages
Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA
1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart. Cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arend e Kafka. 9. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx.
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Passages | 9
Dussel analizza le “metafore” religiose o teologiche di Marx per dimostrare che esse costituiscono un discorso parallelo alla critica dell’economia e alla filosofia dialettica della sua opera. Più che semplici “metafore” religiose, esse hanno una logica propria, costituiscono una teologia “metaforica” implicita. Marx usava con discernimento queste “metafore” per sviluppare una critica globale al capitalismo incipiente del suo tempo. Dentro la globalizzazione, nel pieno dell’abbandono costante e crescente di una critica al sistema dominante, qui, nel centro del mondo, è necessario trovare nuove possibilità dentro il discorso di Marx. In questa opera si espone un filone di indagine scientifica mai esplorata in questa maniera: la lettura di Dussel si sviluppa con un’analisi rigorosa, attenta e anche obliqua del pensiero di Marx, senza distinzioni tra il giovane e il Marx maturo. Si tratta di una novità nel discorso filosofico e teologico per il pensiero eurocentrico, ma questo libro arricchisce già da venticinque anni il pensiero latinoamericano. A duecento anni dalla nascita di Marx si scopre che a fianco della marxiana critica dell’economia politica c’è anche una critica della teologia.
Enrique Dussel è nato a Mendoza (Argentina) nel 1934. È professore di Etica dell’Università Nazionale Autonoma del Messico. Ha studiato filosofia presso l’Università di Cuyo (Argentina), l’Università Complutense di Madrid, la Sorbona di Parigi e storia presso l’università di Freiburg. Ha vissuto due anni in Israele, lavorando come falegname in un kibbutz. E’ uno dei fondatori del movimento filosofico della Filosofia della Liberazione. Delle sue opere sono apparse in italiano: Etica comunitaria, Storia della chiesa in America latina, Filosofia della liberazione, La chiesa in America latina, L’occultamento dell’altro, Un Marx sconosciuto, Etica della comunicazione ed etica della liberazione, L’ultimo Marx. Inoltre La producción teorica de Marx, Etica de la liberación, Politica de la liberación.
ISBN E-book 9788885716476 € 14,00