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Italian Pages 550 Year 2011
Annalisa Ceron
L'amicizia civile e gli amici del principe: lo spazio politico dell'amicizia nel pensiero del Quattrocento
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Annalisa Ceron
L’amicizia civile e gli amici del principe: lo spazio politico dell’amicizia nel pensiero del Quattrocento
eum
isbn 978-88-6056-282-1 Prima edizione: ottobre 2011 ©2011 eum edizioni università di macerata
Centro Direzionale, Via Carducci 63/a - 62100 Macerata [email protected] http://eum.unime.it Stampa:
stampalibri.it - Edizioni SIMPLE via Trento, 14 - 62100 Macerata
[email protected] www.stampalibri.it
a Lorenzo
Indice
11
Ringraziamenti
13
Premessa
Parte prima Capitolo primo
A guisa di introduzione: l’amicizia nei libri della Famiglia di Leon Battista Alberti 43
Un’opera singolarissima: genesi e struttura della Famiglia
SZ
Nel segno dell’amicizia: temi e problemi dei primi tre libri della Famiglia De amicitia: il quarto libro della Famiglia
83 LL
Considerazioni
Capitolo secondo
Linee di continuità e punti di rottura: coordinate per l’analisi 123 153 189
Lada
Gli specula principum nel Quattrocento Modelli medievali per la riflessione sull’amicizia
2.3
La lettera di Petrarca a Francesco da Carrara: un nuovo
1
spazio per l’amicizia
INDICE
Parte seconda Capitolo terzo
L’amicizia civile: l’amicizia nella Vita civile di Matteo Palmieri 215
Se
230
Sa
243
3.3
256
3.4
274
3.5
ZA
3.6
Nel segno dell’amicizia: impegno politico e produzione letteraria di Matteo Palmieri Struttura e caratteristiche della Vita civile Il valore politico dell’amicizia L’utilità politica dell’amicizia Luci e ombre dell’amicizia: alcuni punti di tensione nella riflessione di Palmieri Quale amicizia civile? Capitolo quarto
De electione amicorum: l’amicizia nel De institutione regiminis dignitatum di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano 283 288
4.1
301
4.3
329
44
4.2
Cenni biografici Struttura e temi del De institutione regiminis dignitatum Gli amici del principe: la fenomenologia dell’amicizia delineata da Vicini Conclusioni Capitolo quinto
Tra mutua caritas e comitas: l’amicizia nel De principe di Giovanni Pontano 333
del
340 355
Del
374
54
15:
Coordinate biografiche e bibliografiche Struttura e temi del De principe La funzione politica dell’amicizia Conclusioni
INDICE
9
Capitolo sesto
Quales sint amici principum: l'amicizia nel De principe di Bartolomeo Sacchi detto Platina Vita e opere di Platina Struttura e temi del De principe
377
6.1
387 400
6.2 6.3
413
6.4:
Uno sguardo al De optimo cive: gli amici del principe e gli amici di Lorenzo de’ Medici
424
6.5
Conclusioni
Il valore politico dell’amicizia: tot aures, tot manus, tot animos quot amicos
Capitolo settimo
De civili seu sociali amicitia: l'amicizia nel De regno et regis institutione di Francesco Patrizi da Siena 427
7.4
Vita e opere di Francesco Patrizi da Siena
434
2
455
7.3
Struttura e temi del De regno Dall’amicizia tra i sudditi all’amicizia tra i principi
480
7.4
Conclusioni
Note conclusive
485
Prima e dopo Machiavelli: alcune considerazioni
509
Bibliografia
d97,
Indice dei nomi
Ringraziamenti
Questo saggio è frutto degli studi intrapresi durante il Dottorato in Storia della Filosofia (XXI ciclo), che ho conseguito presso l’Università di Macerata. Ringrazio con profonda riconoscenza tutti i professori che mi hanno seguito con grande e sincera disponibilità, contribuendo in modo decisivo alla mia formazione: Guido Alliney, Silvia Ferretti, Alessandro Linguiti, Maurizio Migliori, Omero Proietti, ed Emanuela Scribano. Un grazie speciale ad Alberto Gajano, non solo per la pazienza infinita con cui ha letto e riletto le diverse versioni del lavoro. Sono profondamente grata anche a Filippo Mignini, che ho avuto l’onore di avere come tutor, per la professionalità, la disponibilità e l’attenzione con cui ha seguito le mie ricerche. Vorrei ringraziare anche Cesare Vasoli e Michele Ciliberto, Giuseppe Cambiano e Roberto Lambertini, per i consigli preziosi che mi hanno dato: spero di averne fatto tesoro. Un ringraziamento particolarmente sentito a Marco Geuna, con
cui ho avuto la fortuna di laurearmi: senza i suoi insegnamenti questo libro non ci sarebbe stato. Ringrazio di cuore anche Simona Forti e tutti i membri del Dipartimento Polis, con cui ho la possibilità di lavorare, discutere, confrontarmi, e quindi imparare. Non posso non ringraziare Giambattista Gori, per l’affetto e la disponibilità con cui mi ha seguito in questi anni. Spero che Carolina Gasparoli, Andrea Lanza e Francesca Pasquali sappiano quanto sono stati importanti, ma li ringrazio comunque. Un grazie immenso, va ai miei genitori: loro sanno perché. Ringrazio infinitamente anche mia sorella Marta e suo marito Stefano e, naturalmente, tutti i miei amici: senza di loro non avrei scritto nemmeno una riga. Ringrazio per ultimo mio marito Lorenzo, ma solo perché il
grazie più grande è per lui. A.C.
5a Da
Lis
Premessa
1. La parola amicizia denota una pluralità di rapporti, che possono essere più o meno estesi ed intensi. Di solito, infatti,
chiamiamo «amici» le poche persone con cui scegliamo di condividere pensieri ed esperienze, ma anche alcuni dei colleghi che stimiamo di più, e persino qualche semplice conoscente che riteniamo particolarmente gentile. E per distinguere coloro a cui affidiamo i segreti più intimi del nostro cuore da coloro che troviamo soltanto simpatici, sosteniamo che i primi sono i nostri «veri»,
o «migliori», amici. Il linguaggio cui ricorriamo comunemente rivela, dunque, che l’amicizia si dà in molti modi. Se volessimo
provare a definire questa relazione, indicando le caratteristiche comuni ai diversi rapporti che sottende, probabilmente diremmo che è un legame sentimentale che unisce due o più persone, o un rapporto affettivo che si basa sull’affinità di idee ed il rispetto reciproco!. Per quanto ci appaia familiare, questa accezione dell’amicizia non è l’unica. Il termine amicizia, infatti, ha assunto
significati diversi nel corso del tempo: non esistono solo molti tipi di rapporti amicali, ma anche differenti concezioni, filosofiche, dell’amicizia?.
1 Si veda, per esempio, il significato che è attribuito alla parola amicizia in S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, 1961, vol. I, pp. 390-391, in particolare: l’amicizia è «sentimento vicendevole di affetto, comprensione, o fiducia [4] 2 Da Pitagora a Derrida (J. Derrida, Politiques de l’amitié, Paris, Galilée, 1994; trad. it. Politiche dell'amicizia, Milano, Cortina, 1995), sono molti i filosofi che hanno riflettuto sulla amicizia nel corso dei secoli. Come dimostra la voce Freundschaft, che si trova nel famoso Historisches Worterbuch der Philosophie (hrsg. von J. Ritter, K. Grunder und G. Gabriel, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1972, vol. II, pp. 103-114), la
14
PREMESSA
Molti filosofi, antichi e moderni, hanno scelto l’amicizia come
oggetto della loro attenzione. L’idea che l’amicizia sia un rapporto affettivo, che ha origine nell’interiorità degli individui, e richiede un coinvolgimento emotivo molto intenso, si è affermata solo in età moderna. Sebbene sia difficile tracciare delle linee di confine nette nella storia dell’idea di amicizia, la riflessione di Michel de Montaigne costituisce sicuramente una svolta: nel XXVIII capi-
tolo degli Essais il filosofo descrive lo «straordinario» legame che ha stretto con il compianto La Boétie, mettendo in luce la dimensione affettiva della relazione. Sostiene, infatti, che le loro anime
erano unite da un «affetto» tanto «ardente» e si conoscevano così nel profondo («nelle viscere») da confondersi l’una nell’altra?. [N storia di questo concetto è molto articolata e complessa. È stata finora ricostruita in modo frammentario e incompleto. Studiosi come Fraisse (J.-C. Fraisse, Philia. La
notion d’amitié dans la philosophie antique. Essai sur un problème perdu et retrouvé, Paris, Vrin, 1974) e Konstan (D. Konstan, Friendship in the Classical World, Cambridge, Cambridge UP, 1997) hanno concentrato la loro attenzione sull’età antica, mentre Pizzolato (L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Torino, Einaudi, 1993) si è spinto sino all’epoca di Agostino. Non ci sono studi di carattere generale e sistematico dedicati all’età medioevale, rinascimentale e moderna. Questa lacuna è colmata da alcune monografie volte a mettere in luce l’idea di amicizia che è stata elaborata da singoli filosofi: per fare due esempi recenti si possono citare D. Schwartz, Aquinas on Friendship, Oxford, Clarendon Press, 2007 e S.-E. Fauskevag, Philosophie de l’amitié. Essai sur le «Traité de l’amitié» de Madame de Lambert et «La Nouvelle Héloise» de Jean-Jacques Rousseau, Paris, L’Harmattan, Oslo, Solum, 2008. Sono importanti anche le raccolte di saggi che prendono in esame la riflessione di diversi filosofi, antichi (Aristotele e Cicerone), medioevali (Tommaso e Agostino) e moderni (Montaigne) Kant, Mill), provando ad evidenziare diverse caratteristiche della relazione: N.K. Badhwar (ed. by), Friendship. A Philosophical Reader, Ithaca and London, Cornell UP, 1993; S. Jankelevitch et B. Ogilvie (sous la dir. de), L’amitié: dans son barmonie, dans ses dissonances, Paris, Autrement, 1996; J.-C. Merle et B.N. Schumacher (sous la dir. de), L’amitié, Paris, PUF, 2005. Per quanto mi risulti, solo due volumi sono dedicati all’amicizia come concetto politico: P. King and G.M. Smith, Friendship in Politics, London-New York, Routledge, 2007, uno studio che esamina con particolare attenzione la concezione dell’amicizia propria di Kierkegaard, Schmitt ed Arendt; J. von Heyking and R. Avramenko (ed. by), Friendship & Politics. Essays in Political Thought, Notre Dame (Indiana), University of Notre Dame Press, 2008, una raccolta di saggi dedicati a Platone, Aristotele, Cicerone, Tommaso, Montaigne, Hobbes, Tocqueville e Nietzsche. 3 M. de Montaigne, Essais; trad. it. Saggi, Milano, Adelphi, 2002, vol. I, cap. XXVIII, pp: 242-261, in particolare pp. 250 e 252. La riflessione di Montaigne è indicata come punto di svolta da Francesco Fusillo nella voce Amicizia dell’Enciclopedia
PREMESSA
15
La natura affettiva della amicizia emerge in modo ancor più evidente nella Nouvelle Héloise, in cui Rousseau mostra che gli amici hanno un cuore ed un’anima sola*. Per il filosofo ginevrino, infatti, l'amicizia è un sentimento capace di realizzare un’unità assoluta, senza produrre gli effetti sconvolgenti dell’amore, la più forte delle passioni. Giulia e Clara, le protagoniste femminili del romanzo epistolare di Rousseau, sono così unite da arrivare
persino a scambiarsi i ruoli. Come si evince dalle lettere che le due «inseparabili» amiche si scambiano, l’una si identifica nell’altra, trovando se stessa. Attraverso continue proiezioni e rifrazioni, esse riescono infatti a scoprire la parte più vera e più profonda della loro anima. Per Rousseau, l’amicizia è la via che porta alla autenticità ed alla trasparenza dell’Io. Prima di Rousseau e di Montaigne, la semantica della amicizia non è quella dell’affetto, o del cuore, bensì quella del bene e della virtù. Ciò che contraddistingue l’amicizia, infatti, non è tanto la
profondità dei sentimenti che uniscono gli amici, quanto la natura morale della loro relazione. Questa concezione dell’amicizia risale ad Aristotele, il filosofo che ha dedicato a questa relazione la riflessione più articolata e sistematica: le analisi sviluppate nel
del pensiero politico: autori, concetti, dottrine, diretta da R. Esposito e C. Galli, RomaBari, Laterza, 2000, pp. 17-18. Le pagine che Starobinski dedica all’analisi dell’amicizia tra Montaigne e La Boétie consentono di comprendere l’entità di questa svolta: J. Starobinski, Montaigne en mouvement, Paris, Gallimard, 1982; trad. it. Montaigne. Il Paradosso della apparenza, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 55-75, in particolare p. 71: «la perdita di sé nella volontà della amico è una espansione dell’Io». 4 J.-J. Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloise; trad. it. Giulia o la Nuova Eloisa, saggio introduttivo e commento di E. Pulcini, Milano, BUR, 2001. Mi limito a citare i passi in cui sono descritti gli abbracci più intensi che si scambiano i protagonisti dell’opera, perché sono il simbolo della fusione dei cuori che si realizza nell’amicizia: pp. 75, 177, 189-190, 351-352, 442-443, 511-518, 621, 729-730, 735, 740-742, 760. S Secondo Pulcini, l’amicizia è la sublimazione, nel senso freudiano del termine, della passione amorosa. Oltre all’introduzione della edizione citata della Nuova Eloisa,
si vedano E. Pulcini, Amour-passion e amore coniugale: Rousseau e l'origine di un conflitto moderno, Venezia, Marsilio, 1990 e Ead., L'individuo senza passioni: individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, in particolare pp. 97-126. Da queste pagine emerge la profondità della connessione . istituita da Rousseau tra autenticità, felicità e philia.
16
PREMESSA
VII e nel IX libro dell’Etica Nicomachea forniscono le coordinate teoriche e concettuali fondamentali per descrivere l’amicizia almeno sino al XVI secolo£. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele non fornisce una defini-
zione dell’amicizia (philia), ma individua diversi tipi, o «specie», di amicizie, mostrando di essere consapevole della molteplicità dei rapporti che il termine denomina. Delinea una fenomenologia molto complessa, non riducibile alla tripartizione delle amicizie basate sull’eguaglianza che diventerà canonica. Inizia la propria analisi distinguendo l’amicizia perfetta (teleia philia), che nasce in vista della virtù (dia ten areten), si realizza solo tra i buoni (agathoi), e mira al bene dell’altro, dalle amicizie strette in vista
dei piaceri e dei vantaggi che si ottengono dalla relazione”. In queste «amicizie per accidente», o «per somiglianza», che sorgono in vista dell’utile (dia to cresimon) e del piacere (dia ten edonen),
la componente virtuosa è più debole, ma non è affatto irrilevante. Aristotele tende, infatti, a ricondurre gli aspetti che contraddi-
stinguono le amicizie utili e piacevoli alle caratteristiche proprie dell’amicizia virtuosa. Da una parte, afferma che ciò che è buono è utile e piacevole in sé; dall’altra precisa che la ricerca di benefici e vantaggi non coincide con il perseguimento degli interessi personali: per Aristotele l’utile è sempre condiviso ed è un esito della relazione, come il piacere che nasce dalla frequentazione degli amici. Sembra che l’amicizia stretta in vista della virtù sia perfetta 6 Oltre agli studi di Fraisse, Pizzaolato e Konstan che sono stati citati in precedenza, sull’idea aristotelica di amicizia si vedano almeno i seguenti studi: L. Smith Pangle, Aristotle and the Philosophy of Friendship, Cambridge, Cambridge UP, 2003; S. SternGillet, Aristotle’°s Philosophy of Friendship, Albany, State of New York Press, 1995; A.W. Price, Love and Friendship in Plato and Aristotle, Oxford, Clarendon Press, 1989. Molto utile, anche il commento di Michael Pakaluk ai due libri sull’amicizia dell’Etica Nicomachea: Aristotle, Nicomachean Ethics: Books 8-9, translated with a commentary by M. Pakaluk, Oxford, Clarendon Press, 1998. 7 Aristotele, Etica Nicomachea, trad., introd. e note a cura di C. Natali, RomaBari, Laterza, 2003, VII, 1155a 32-1157b 24, pp. 313-325; d’ora in poi mi riferirò
a questa edizione semplicemente con EN. Per quanto concerne il rapporto tra le tre forme di amicizia basate sull’eguaglianza, che non vanno considerate come tre specie di un medesimo genere, si veda: A.W. Price, Aristotle on the Variety of Friendship, in Id., Love and Friendship in Plato and Aristotle, cit., pp. 131-161.
PREMESSA
17
non tanto perché è migliore delle altre, quanto perché realizza al meglio, in modo completo e compiuto, le caratteristiche proprie di tutti i rapporti amicali. Il filosofo sostiene infatti che l’amicizia virtuosa sia l’amicizia in senso proprio (aplos)8: è una relazione reciproca e disinteressata, non soggetta a calunnia, poco incline
alla contesa, che mira al perfezionamento morale degli amici e li incoraggia a compiere nobili azioni.
La componente virtuosa è presente anche nelle amicizie che non sono basate sulla uguaglianza, come quelle che stringono i giovani e i vecchi, i ricchi e i poveri. In ogni sua forma, infatti, la philia è uno «stato abituale» (hexis), una disposizione stabile che deve essere ricambiata sulla base di una scelta (proaîresis): la scelta del bene dell’amico?. Per questo motivo, e non perché sia uno stato intermedio tra due comportamenti opposti, Aristotele sostiene che «l’amicizia è un certa virtù o è connessa alla virtù»!0. Usando parole diverse, potremmo dire che è una relazione intrinsecamente morale: per Aristotele, gli amici si vogliono bene perché vogliono l’uno il bene dell’altro. Questo non significa che l’amicizia non abbia una componente affettiva, ma che è un habitus pratico, che si dispiega nella polis, piuttosto che uno stato emotivo, che si radica nell’interiorità del soggetto. L’affetto che proviamo per l’amico, infatti, non è posto all’origine della relazione: a differenza della philesis, l’attrazione che l’uomo prova per le cose e le persone, non sorge in modo spontaneo e passivo, ma dipende da una scelta!!. Inoltre, è un sentimento che deve necessariamente essere contraccambiato, e non può che essere reciproco. L’amicizia, infatti, non può restare nascosta o esistere
solo in potenza, come la benevolenza (eunoia): deve manifestarsi,
8 EN, VII, 1157a 32, pp. 322-323. 2 EN, VIII, 1157b 29-35, pp. 324-325. 10 EN, VII, 1155a 1-4, pp. 310-311.
11 Proprio perché è passiva e spontanea la philesis è considerata una passione (pathos). Le analisi di Stern-Gillet mostrano che Aristotele caratterizza l’amicizia in termini psicologici, a differenza di Omero, ma non la considera una passione: l’amicizia è una manifestazione della razionalità umana. Vd. S. Stern-Gillet, Se/fhood, e Selves
and Other Selves, in Ead., Aristotle’s Philosophy of Friendship, cit., pp. 10-58.
18
PREMESSA
tradursi in atto, concretizzarsi attraverso una frequentazione assidua e costante!2. Per questo motivo, Aristotele ripete più volte che gli amici devono vivere insieme, dividendo i loro beni e le loro ricchezze oltre che il loro tempo ed i loro pensieri. Ciò non significa solo che l’amicizia è vita in comune, ma anche che è una forma di vita condivisa!3. Poiché è una disposizione stabile, che si basa su una scelta e mira al bene dell’altro, l'amicizia è una relazione tipicamente umana, che può stringere solo chi è possiede il logos ed è capace di formulare giudizi e pensieri. L'amicizia è dunque espressione della natura razionale e socievole dell’uomo, un essere che ha
bisogno degli altri per sopravvivere e degli amici, con cui condividere decisioni e pensieri, per vivere bene ed essere felice!4. Tutti gli uomini possono
stringere amicizia tra loro, non
solo quelli che sono simili ed eguali, ma anche quelli che sono
diversi, per genere, età, e status. Nell’Etica Nicomachea, infatti,
non sono descritte solo amicizie basate sull’uguaglianza, ma anche amicizie basate sulla superiorità (kath’uperochen)!.
Sono rapporti asimmetrici e sproporzionati, che si realizzano
tra il padre e la madre, i genitori e i figli, ma anche tra i giovani e gli anziani, i cittadini che governano e quelli che non ricoprono cariche, i re e i sudditi, gli ospiti e gli stranieri. La presenza di queste tipologie di amicizia non deve stupire perché Aristotele non crede che gli uomini siano uguali per natura, né pensa, per
usare una terminologia contemporanea, che tutti gli abitanti della città abbiano gli stessi «diritti» e i medesimi doveri. La disuguaglianza che caratterizza questi rapporti non impedisce che essi diano luogo a forme di amicizia perché la philia consiste nel voler bene (to philein) piuttosto che nell’ essere amato (#0 phileisthai), nel dare piuttosto che nel ricevere vantaggi e bene-
12 EN, IX, 1166b 30-35, pp. 372-375. 13 EN, VII, 1157b 19-21, pp. 324-325; EN, VIII, 1159b 31-35, pp. 334-337; EN, IX, 1168b 1-14, pp. 380-383; EN IX, 1169b 16-1170b 16, pp. 386-393. 14 EN, IX, 1169b 4-1170b 15, pp. 386-393. 15 EN, VIII, 1158b 11-29, pp. 328-331.
PREMESSA
19
fici!6. Per Aristotele, infatti, si deve voler bene all’amico per se stesso, senza necessariamente aspettarsi delle ricompense, né desiderare onore e stima in cambio dei benefici elargiti. Inoltre, si deve voler bene all'amico in modo proporzionale alla sua virtù, riconoscendo il valore della funzione che svolge nella città!7. Se l’amicizia non rispondesse alla logica del dono, oltre che a quella dello scambio, non sarebbe in qualche modo possibile riportare all’equilibrio quei rapporti in cui ciò che si deve all’amico è più di quanto si ottiene da lui. Se l’amicizia non fosse una relazione intrinsecamente morale, il rispetto del valore non potrebbe essere il criterio da seguire per stabilire come e quando ricambiare benefici. La descrizione dei rapporti d’amicizia basati sulla superiorità mostra che l’uguaglianza non è solo una condizione di possibilità della relazione, ma anche unsuoesito.L’ «amicizia è uguaglianza »!8 perché rende simili persone diverse, riduce la distanza che separa il superiore dall’inferiore, parifica i rapporti asimmetrici portandoli all’equilibrio. L’uguaglianza creata dall’amicizia è un’uguaglianza proporzionale, che media ed articola le differenze, senza annullarle. Infatti, se è vero che per Aristotele l’amico è come un altro sé, è altrettanto vero che rimane comunque ed inevitabilmente diverso da noi!?. L’unità generata dall’amicizia non è dunque totale e assoluta: con un linguaggio diverso da quello usato nell’Etica Nicomachea, si potrebbe dire che le anime degli amici non si fondono mai l’una nell’altra. Mentre la riflessione di Montaigne e Rousseau ripiega l’ami-
cizia nella interiorità del soggetto e la chiude nella sfera privata dell’esistenza, quella di Aristotele mostra che la philia è una rela16 EN, VII, 1158a 25-35, pp. 332-333; ma anche EN, IX, 1167b 19-1168a 29,
pp. 378-381.
17 In particolare EN, VIII, 1163b 1-10: «rispettare il valore delle persone restaura l’eguaglianza e salva l'amicizia», ma si vedano anche i primi paragrafi del libro successivo: EN, IX, 1163a 32-1165a35, pp. 358-367.
18 EN, VII, 1158b 31-33, pp. 330-331.
19 EN, IX, 1166a 29-31, pp. 370-371 ed EN, IX, 1170b 7, pp. 392-393. Sulla idea
aristotelica dell'amico come altro sé, e la sua fortuna, si veda Smith Pangle, Aristotle and the Philosophy of Friendship, cit., pp. 142-154.
20
PREMESSA
zione politica. Non soltanto perché i rapporti di amicizia si dispiegano all’interno della polis, ma soprattutto perché l’amicizia è la relazione che «tiene unite le città»?0. Il filosofo è molto esplicito nel riconoscere valore politico all’amicizia. Sin dall’inizio della propria riflessione dichiara, infatti, che i legislatori dovrebbero occuparsi della amicizia prima che della giustizia perché la philia genera concordia (omonoia)?!. Per comprendere il significato di questa tesi bisogna tener presente che «amicizia e giustizia riguardano lo stesso ambito e si realizzano tra le stesse persone»: sono
due virtù correlate, che si riferiscono agli stessi tipi di rapporti, generando uguaglianza tra gli individui che sono in relazione tra loro. Poiché si è visto che l’amicizia accomuna persone diverse ed unisce quelle simili in una forma di vita condivisa, dovrebbe essere chiaro che più si intensifica l’amicizia più si rafforza la giustizia. Ma Aristotele si spinge oltre, arrivando a sostenere che gli amici non hanno bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno bisogno di amicizia. La priorità riconosciuta all’amicizia dipende dal fatto che la giustizia è una virtù sociale e «l’amicizia consiste nella comunità (koinonia)»?2: l'amicizia è la relazione che unisce
i membri di un gruppo, dando loro una forma di vita comune regolata dalla giustizia. Secondo
Aristotele,
ad ogni comunità,
o associazione
di
individui, corrisponde una forma di amicizia ed una forma di giustizia. Sono unite dall’amicizia tutte le comunità di cui consta la polis, un composto ordinato, ma eterogeneo, di parti23. Come è spiegato nella Politica, infatti, la città nasce dall’unione di più famiglie e di diversi villaggi?4. Nell’Etica Nicomachea, oltre alle 20 EN, VII, 1155a 21-29, pp. 310-313. 21 Ibid. ed EN IX, 1167 a 21-1167b 4, pp. 374-377. 22 EN, VIII, 1159b 25-1160 30, pp. 334-339.
23 Per questa interpretazione della struttura della polis si veda P. Accattino, L’ana-
tomia della città nella «Politica», Torino, Tirrenia stampatori, 1986, ma si veda anche G. Zanettti, Ragion pratica e diritto. Un percorso aristotelico, Milano, Giuffrè, 2001,
in particolare pp. 88-89. 24 Aristotele, Politica, introd., trad. e note a cura di C.A. Viano, Milano, BUR,
2002, libro I, 1252a 1-1253a 39, pp. 70-79. D'ora in poi mi riferirò a questa edizione
semplicemente con P.
:
PREMESSA
21
famiglie, sono menzionate anche altre «parti» che sono comunità basate amicizia: le associazioni dei tiasoti e degli eranisti, cioè i gruppi di cittadini che si riuniscono per svolgere insieme un’attività piacevole; le compagnie dei commilitoni o dei naviganti, ossia le unioni dei cittadini che entrano in relazione tra loro perché intraprendono una attività comune; le «circoscrizioni» che raccolgono gli abitanti dello stesso demo e della medesima tribù?5. Anche la famiglia è fondata sull’amicizia, o meglio su tre diversi tipi di amicizia, perché è a sua volta un composto di «parti»: la comunità tra marito e moglie, che è basata su una amicizia che esiste
per natura, perché è finalizzata alla riproduzione e all’educazione dei figli; la comunità dei genitori e dei figli, che è fondata sull’amicizia tra superiore ed inferiore; la comunità dei fratelli, legati da un’amicizia incentrata sulla somiglianza?9. L’area semantica della philia si estende dunque sino a comprendere tutte le relazioni che si realizzano nella polis, inclusi i rapporti di parentela. Riferendosi alle tipologie di amicizia descritte in precedenza ed introducendone di nuove, Aristotele mostra che i cittadini sono uniti da
diverse forme di amicizia, che mediano la loro appartenenza alla città. Essendo una comunità, anche la polis è unita dalla amicizia.
A seconda della costituzione vigente, e del tipo di giustizia che essa stabilisce, nella comunità politica si realizzano diverse forme di amicizia. Così come nella Politica, anche nell’Etica Nicoma-
chea Aristotele individua tre tipi di costituzioni rette: monarchia, aristocrazia e politeia. L'amicizia propria della monarchia è simile alla amicizia che unisce il padre e i figli, perché è basata sulla superiorità. L'amicizia propria della aristocrazia è analoga al rapporto che lega marito e moglie, perché questa costituzione prevede che chi ricopre una carica governi in base al proprio valore ed eserciti il potere solo nell’ambito che gli spetta. L'amicizia propria della politeia è affine a quella che unisce i fratelli, perché è basata sull’uguaglianza. Nella democrazia e nella oligarchia, le prime 25 EN, VII, 1160a 8-30, pp. 336-339. _ 26 EN, VIII, 1161b 11-1162a 33, pp. 344-349,
22
PREMESSA
due forme di governo degenerate, in cui il potere si esercita in vista dell’interesse personale anziché in nome del bene comune, l’amicizia si riduce, ma non viene meno, proprio come si indebolisce, ma non scompare, la giustizia. Per Aristotele, infatti, non vi
è amicizia solo nella tirannide, la forma di governo peggiore, in cui il governante e i governati non hanno nulla in comune?7. Il parallelismo istituito tra le costituzioni e le relazioni che uniscono i membri della famiglia non deve essere frainteso. Aristotele, infatti, non intende ritrattare le critiche che ha rivolto a Platone nella Politica, accusandolo di aver trasformato la città in una grande famiglia?8. Vuole, invece, mostrare che il zomos
non è separabile dall’ethos: la giustizia richiede la condivisione di valori morali e politici, presuppone quella forma di vita condivisa che si realizza nella amicizia. Individuando le forme di amicizia che corrispondono alle diverse costituzioni, il filosofo chiarisce inoltre che la amicizia svolge una duplice funzione politica nella città: non è solo la relazione che lega imembri delle diverse comunità che formano la polis, ma anche il rapporto che unisce chi governa e chi è governato. Con un linguaggio diverso da quello usato da Aristotele, potremmo dire che l’amicizia non è una relazione politica solo perché genera quella comunanza di idee e scopi senza la quale non esiste una comunità, ma anche perché è il modello del legame sociale. L’amicizia mantiene unita la città generando concordia. Per Aristotele, essa non è identità di idee e pensieri, ma convergenza di interessi e scopi??. Infatti, come chiarisce nel secondo libro della Politica, in cui critica l’unità «incondizionata» e assoluta
della città ideale descritta da Platone, l’unità della polis non è «omofonia», ma «sinfonia»: è accordo nella dissonanza, equilibrio nella differenza?9. Proprio quando mette in luce le caratteristiche della omonoia che si realizza grazie alla amicizia, nel nono
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EN, VIII, 1160a 31-1161b 10, pp. 338-345. P, II, 1260b 30-1261b 15, pp. 132-139. EN, IX, 1167a 21-1167b 40, pp. 374-377. P, II, 1263b 30-36, pp. 150-153.
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libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele utilizza, per la prima ed unica volta, il sintagma philia politike31. Tale espressione non compare mai nella Politica. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, in quest’opera Aristotele non dedica molta attenzione alla amicizia. Riconosce il valore politico della relazione perché, quando sostiene che la polis «non è costituita soltanto dalla identità del luogo» ed è la sola comunità che «ha come fine la vita buona, indipendente e perfetta», afferma che l’unità della città è «opera della amicizia, che è preferenza per una vita comune»32. Tuttavia, non approfondisce il nesso che ha istituito tra amicizia e giustizia: quando espone la propria teoria delle forme di governo, non indica le tipologie di amicizia che corrispondono alle diverse costituzioni. Ricorda solamente che il tiranno non ha amici, ed
«impedisce il sorgere di rapporti di amicizia tra i sudditi»33. I critici tendono per lo più ad identificare la philia politike con uno dei tipi di amicizia descritti nell’Etica Nicomachea, cercando una conferma delle loro interpretazioni nelle analisi esposte nella Politica*4. Ma l’aggettivo politike potrebbe semplicemente denotare la funzione che è propria dell’amicizia all’interno della polis. Essa articola l’unità della città senza annullare l’irriducibile molteplicità da cui è composta. Come la comunità politica è la comunità che racchiude tutte le altre comunità, subordinandole a sé secondo
l’ordine stabilito dalla costituzione, così l’amicizia politica è la relazione che racchiude in sé tutti i rapporti di amicizia che uniscono i membri della città, e li dispone in modo tale che l’appartenenza a diverse comunità non generi conflitti, ma produca concordia. La città è più della somma delle sue parti proprio perché è unita da 31 EN, IX, 1167b.
32 P, II, 1280 b 29-40, pp. 266-269. 33 P, V, 1313b 30-a 1314a 14, pp. 481-483.
34 Fraisse ritiene che l’amicizia virtuosa sia una forma più elevata dell’amicizia politica e che questa coincida con l’amicizia in vista dell’utile; Price considera la amicizia politica come un’evoluzione di quella virtuosa; Irwin crede che l’amicizia politica sia
affine a quella virtuosa solo nella città che ha la miglior forma di governo. Tutte queste posizioni sono discusse da Stern-Gillet, che è convinta che la amicizia politica si realizzi nella politeia, quella virtuosa nella aristocrazia: S. Stern-Gillet, Friendship, Justice and the State, in Ead., Aristotle’s Philosophy of Friendship, cit., pp. 152-164.
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molteplici relazioni di amicizia che creano condivisione di valori e scopi. Si potrebbe dire che la città non è tanto un insieme di individui, quanto un intreccio di relazioni: i rapporti di amicizia si compongono in modo diverso a seconda della costituzione vigente, rendendo la città una comunità. Le analisi sviluppate nell’Etica Nicomachea non sono fondamentali solo perché indicano che la amicizia è un concetto chiave della filosofia aristotelica. Essa mostrano anche che non vi è polis senza philia né philia senza polis. Se amicizia e politica si implicano a vicenda, come crede Aristotele, allora la politica non è fatta solo di leggi o costituzioni, ma anche di relazioni. Non basta, dunque, riflettere sulle caratteristiche della comunità politica, ma occorre anche domandarsi che cosa abbiano in comune
i suoi membri, perché siano uniti. Queste domande sono l’eredità più significativa che la riflessione aristotelica ci ha lasciato. Aristotele non è il solo filosofo antico a mettere in luce la valenza politica dell’amicizia. A questa relazione è stato attribuito un significato politico anche nel Laelivs, una delle opere più celebri di Cicerone. Si tratta di un dialogo, interamente dedicato all’amicizia, cui prendono parte Lelio, Fannio e Scevola. Come è noto, è stato composto lo stesso anno della morte di Cesare, ma è ambientato il giorno dopo la scomparsa di Scipione Emiliano. Questa scelta non dipende solo dal fatto che Lelio e Scipione erano uniti da un’amicizia così profonda da essere diventata esemplare per i posteri. Per Cicerone, infatti, Scipione Emiliano incarna il modello del perfetto cittadino che ha saputo mettersi a servizio della patria. Come si evince da altre opere ciceroniane, in particolare dal De republica e dal Somnium Scipionis, l’età di Scipione è l’epoca a cui si deve guardare per porre fine alla lotta tra le fazioni che sconvolge la repubblica di Roma. Vista l'ambientazione del dialogo, la riflessione proposta nel Laelius è parte del progetto di rinnovamento politico e culturale perseguito da Cicerone per promuovere una gestione della respublica basata sulla solidarietà politica tra tutti i ceti (corsensus omnium
bonorum).
Questi
concentra
la propria
attenzione
sull’amicizia perché è spinto dalla volontà, dichiarata nella dedica
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adAttico, di giovare ai propri concittadini35. Non sviluppa un’analisi sistematica come quella aristotelica, ma affronta una serie di questioni concrete: tornando più volte sugli stessi argomenti, Lelio spiega ai suoi interlocutori come nasce l’amicizia, quali e quanti amici si possono avere, come ci si deve comportare con
loro. Per comprendere appieno le finalità pratiche della riflessione di Cicerone occorre tener presente che l’amicizia, nella società romana, è un rapporto basato sullo scambio di favori e benefici, che si dispiega sulla scena politica configurandosi come fedeltà ad una delle parti in lotta56. L’amico è l’alleato che appoggia questo o quell’uomo politico, il socio che deve essere ricompensato una volta saliti al potere: con lui si condividono gli oneri e gli onori della vita politica piuttosto che le gioie e i dolori dell’esistenza. Da homo novus che ha ottenuto il consolato, Cicerone sa bene quanto sia importante poter contare su una vasta rete di rapporti personali — di amicizie — per ricoprire le cariche più importanti. Non vuole disconoscere la prassi vigente, relegando l’amicizia nel privato, ma correggerla. Per questo, si sforza di dare una forte
connotazione etica all’amicizia, mostrando che può svolgere la funzione politica che la contraddistingue solo se è fondata sulla Virtù.
Alle amicizie comuni e mediocri, che sono strette solo per interesse e convenienza, Cicerone contrappone la vera e perfecta amicitia di Lelio e Scipione7. Mette in luce le caratteristiche di
35 Cicerone, L’amicizia, testo latino a fronte, trad. it. a cura di C. Saggio, introd. e note a cura di E. Narducci, Milano, BUR, 2005, pp. 74-75. D’ora in poi mi riferirò a
questa edizione del Laelius semplicemente con A. 36 Come mostra J. Hellegouarc'h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politique sous la République, Paris, Les Belles Lettres, 1963, pp. 41 sgg., la parola amicitia indica una prassi, codificata e quasi istituzionale, che trova applicazione anche nell’ambito della politica estera: si definisce amicus populi romani il popolo che ha scelto di porsi sotto la protezione dell’Impero. Sul significato politico dell’amicizia all’epoca di Cicerone, vd. anche: P.A. Brunt, Amicitia in the Late Roman Republic, in R. Seager (ed. by), The Crisis of the Roman Republic: Studies in Political and Social History, Cambridge, Heffer and New York, Barnes & Nobles, 1969, pp. 202 sgg. 37 A, 22, pp. 96-97. Sull’idea ciceroniana di amicizia, oltre alla introduzione di Narducci all’edizione citata del Laelius (A, pp. 5-48), si vedano anche L. Pizzolato, Lo stoicismo di mezzo e Cicerone, in Id. L’idea di amicizia nel mondo antico, classi-
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questa relazione, che è il modello a cui devono conformarsi tutti i rapporti amicali, richiamandosi ad alcuni assunti della filosofia
stoica, nella versione datane da Panezio. Attraverso la mediazione di Panezio, e forse anche quella di Teofrasto, filtrano nel dialogo alcuni topoi aristotelici. Come l’amicizia virtuosa di Aristotele, anche la vera amicizia
di Cicerone si realizza solo tra i buoni. Costoro non sono i pochissimi individui che raggiungono la perfezione assoluta del sapiente, ma tutti i cittadini che vivono secondo natura, ossia in modo conforme all’ordine razionale e morale che governa il cosmo??. Seguendo Panezio, Cicerone attenua il rigore dello stoicismo antico per proporre un ideale morale che sia realizzabile in usu vitaque communi. Attribuisce ai boni le stesse virtù sociali che porrà a fondamento della scoietas hominum nel De officiis perché è convinto che la felicità non si raggiunga da soli né in privato: come credono gli stoici, la partecipazione alla vita politica è uno dei doveri che l’uomo deve espletare per sviluppare appieno la propria natura di essere socievole e razionale. Le qualità morali che possiedono i boni — lealtà, integrità, onestà, equità, giustizia, temperanza, moderazione, e fermezza —
sono imprescindibili per la nascita dell’amicizia. Infatti, è la virtù ad indirizzare verso un singolo individuo l’impulso che l’uomo prova per natura nei confronti dei propri simili, trasformando co e cristiano, cit., pp. 106-128, e M. Bellincioni, Struttura e pensiero del «Laelius» ciceroniano, Brescia, Paideia, 1970. Questa monografia ha il merito di confrontare la prospettiva ciceroniana con quella aristotelica, stoica ed epicurea (ivi, pp. 91-178). 38 Il trattato Peri philias di Teofrasto è indicato come fonte del dialogo di Cicerone sull’amicizia già da Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C. Diversi studiosi della prima metà del Novecento, tra cui si deve menzionare almeno Steinmetz (E-A. Steinmetz, Die Freundschaftlehre des Panaitios, Wiesbaden, Steiner, 1967), hanno sottolineato l’influenza del trattato Peri kathekontos di Panezio, di cui peraltro Cicerone si avvale anche nel De officiis. Per una disamina critica del problema, ancora irrisolto,
delle fonti del Laelius, oltre a Bellincioni, Struttura e pensiero del «Laelius» ciceronia-
no, cit., pp. 13-32, si veda almeno W. Fortenbaugh and P. Steinmetz, Cicero’s Knowledge of the Peripatos, London, Transaction Publishers, 1989. Per un’analisi dettagliata degli elementi stoici presenti nel pensiero di Cicerone rimando a M.L. Colish, The Stoic Tradition from Antiquity to Early Middle Ages, Leiden, Brill, 1985, pp. 61-158.
39 A, 18, pp. 90-93; A, 21, pp. 94-95; A, 48, pp. 122-123.
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il generico desiderio di unirsi a loro in una relazione intima e personale“. In linea con gli assunti della filosofia stoica, Cicerone sostiene dunque che l’amicizia sia una manifestazione delle propensioni sociali che sono connaturate nell’individuo, una forma particolare e più forte del legame che unisce tutti gli uomini tra loro. La virtù non è solo l’origine dei rapporti di amicizia, ma anche il loro fine. Infatti, nell'’amico, che è amato per le sue qualità morali, si deve cercare un esempio in cui specchiarsit!. Cicerone arriva addirittura a sostenere che gli amici hanno il dovere morale di correggersi reciprocamente, con gentilezza piuttosto che con severità, ma senza mai essere indulgenti o compiacenti?”?. Del resto, poiché è generata dalla virtù, l'amicizia non può che costruirsi sulla fiducia e sulla sincerità: è un rapporto che esclude per principio ogni forma di adulazione (adulatio e adsentatio) e di simulazione. Poiché contribuisce al perfezionamento morale dei soggetti coinvolti nella relazione, non solo l’amicizia non ostacola il raggiungimento della pace dell’anima, quell’equilibrio interiore in cui consiste la felicità per gli stoici, ma è anche il più importante dei beni che l’uomo possa desiderare. Per Cicerone, è il solo bene che rende piacevole l’esistenza degli uomini: le pagine più riuscite del Lelius sono proprio quelle in cui si legge che una vita senza amici non è veramente umana. La vera amicitia ciceroniana è una relazione più intima e personale della philia aristotelica. Cicerone la descrive come una forma di amore (4107), quell’amore che si prova per natura nei confronti degli altri uomini. Sostiene inoltre che è sempre accompagnata da sentimenti di affetto (caritas) e di benevolenza (benevolentia)*4.
La componente affettiva della amicizia ciceroniana va indubbiamente riconosciuta, ma ad essa non deve essere attribuito un
40 A, 20, pp. 92-93. 41 A, 23, pp. 96-97. 42 A, 44, pp. 120-121; A, 65-67, pp. 136-139; A, 89-100, pp. 157-167.
43 A, 47, pp. 122-123; A, 52, pp. 128-129; A, 83-88, pp. 150-155; A, 102, pp. 168-169.
44 A, 20, pp. 92-94; A, 26, pp. 102-103.
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peso eccessivo. Tanto per Aristotele quanto per Cicerone, infatti, l’amicizia si basa una scelta. È una scelta etica e razionale, non
emotiva o istintiva, che porta a voler bene all’amico per la sua bontà, dopo aver valutato le sue virtù4. Seguendo ancora una volta la lezione degli stoici, per cui le affezioni dell’animo (motus animi) come la benevolenza sono basate su un giudizio, Cicerone sostiene che non scegliamo un amico perché nutriamo dei sentimenti nei suoi confronti, ma afferma che gli vogliamo bene perché lo stimiamo e lo apprezziamo. Con un linguaggio diverso da quello usato nel Laelius, potremmo dire che l’amore non è la causa della amicizia, ma la forma in cui questa relazione si manifesta quando è basata sulla virtù. Si deve inoltre considerare che la componente affettiva appare particolarmente accentuata quando Cicerone nega che l’amicizia sia generata dal bisogno (imbecillitas) e dall’indigenza (inopiam)f*. Il filosofo romano rifiuta questa tesi, di ascendenza epicurea, non solo perché è incompatibile con l’ideale stoico dell’autosufficienza della virtù, ma anche perché trasforma l’amicizia in ciò che non deve essere per potersi dispiegare nella scena politica: una relazione meramente utilitaristica e strumentale, e quindi altamente instabile e conflittuale, che si stringe solo per interesse e convenienza. Ponendo l’accento sull’amore, Cicerone vuole escludere che l’utile personale sia il movente e il fine delle amicizie politiche. Questo intento è evidente soprattutto quando si legge che l’amico deve essere amato per se stesso, come un altro sé (alter idem). Si deve tuttavia notare
che Cicerone non si spinge così in là da negare che l’amicizia procuri dei vantaggi ai soggetti coinvolti nella relazione. Si sforza, invece, di mostrare che l’utile, come il piacere, è intrinseco alla relazione,e
quindi sempre orientato al bene dell’altro. Per quanto il ragionamento di Cicerone appaia contraddittorio, è palese che l’amicizia non è basata completamente né sulla logica del dono né su quella dello scambio. Per sciogliere la tensione potremmo dire che l’amicizia tende ad essere un rapporto altruistico e disinteressato, perché 45 A, 27, pp. 102-103 e A, 62, pp. 134-137. 46 A, 29-32, pp. 105-107; A, 49, pp. 124-127; A, 56-58, pp. 129-133.
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è fondata sulla virtù: per Cicerone l’amico deve essere generoso, pronto a condividere le ricchezze, incline a rendere favori piuttosto che a domandare piaceri, capace di trattare da pari il partner che è inferiore, sollecito nel concedergli benefici, disposto ad aiutarlo senza sperare di ricavare dei guadagni. Rispettando questi doveri amicali si riduce notevolmente la possibilità che nascano dei conflitti tra i soggetti coinvolti nella relazione. l’essenza (vis) della vera amicizia è il sommo accordo delle volontà, delle opinioni, delle propensioni (voluntatum, studiorum, sententiarum
summa
Scipione48. Definendo
consensio) che hanno realizzato Lelio e
l’amicizia come
consonanza
di idee e
convergenza di scopi, Cicerone non si limita a sostenere che gli amici debbano essere simili nella virtù e nel carattere, ma esclude,
per principio, che possano entrare in competizione tra loro. Prova così ad evitare che sorgano le contese e i conflitti che contraddistinguono le amicizie comuni. Pertanto, si potrebbe sostenere che l’accordo degli amici è il presupposto della stabilità e dell’ordine della respublica. Per chiarire il significato di questa affermazione, occorre precisare un altro aspetto molto importante della definizione ciceroniana: la consonanza di idee e la convergenza di scopi che gli amici realizzano si deve sempre mantenere nei confini stabiliti dalla virtù. Infatti, in nome dell’amicizia, non si possono chiedere, né fare, cose turpi°. Dettando questa norma, che è la
prima legge dell’amicizia (prima lex amicitiae), Cicerone cerca di stabilire una gerarchia tra gli obblighi che si hanno nei confronti degli amici e i doveri che si hanno nei confronti della respublica. Con una serie di esempi negativi, tra cui spicca quello di Tiberio Gracco, il filosofo romano mostra che non si deve voler bene
all’amico al punto da prendere le armi contro la patria, né avere così tanta fiducia in lui da perdere l’onore e la stima dei concittadini. Se la legge che governa i rapporti di amicizia fosse sempre
47 A, 69-73, pp. 141-143; A, 100, pp. 166-167. 48 A, 15, pp. 88-89.
49 A, 76-78, pp. 146-148. 50 A, 33-44, pp. 108-121.
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rispettata, la concordia politica sarebbe salva. Infatti, lo scambio di favori e benefici che caratterizza l’amicizia non potrebbe mai entrare in conflitto con il rispetto dell’utilitas reipublicae, quella ricerca del «bene comune» che deve essere il criterio da seguire in ogni azione politica. Gli amici sarebbero degli alleati ma non dei congiurati, dei soci ma non dei complici nel commettere ingiustizie: resterebbero fedeli l’uno all’altro senza mai tradirela patria. L’uso del condizionale è inevitabile perché Cicerone è consapevole che la vera amicizia proposta come modello per tutti i rapporti amicali, e soprattutto per le amicizie politiche, è una relazione rara e quasi divina. Nonostante le continue esortazioni alla virtù che si leggono nel dialogo, in molti passi la distanza tra il modello e la realtà appare insuperabile?!. Come dovrebbe essere emerso dalla descrizione della riflessione proposta nel Laelius, il nesso tra amicizia e politica istituito da Cicerone è più debole di quello stabilito da Aristotele. Per il filosofo romano, infatti, l'amicizia non è il modello del legame sociale, ossia la relazione che unisce tra loro i cittadini della respublica, bensì un rapporto personale, che può avere fini e scopi politici solo se è fondato sulla virtù. Mentre Aristotele articola l’unità della polis attraverso l’amicizia, Cicerone difende l’ordine e la stabilità della respublica dalle amicizie politiche che sono strette esclusivamente in vista dell’utile e della convenienza personale. L’uno mostra che la politica è fatta di relazioni, l’altro chiarisce che i rapporti personali possono essere rapporti politici solo se hanno una forte connotazione etica. La riflessione del Laelius è particolarmente significativa perché invita a considerare quanto sia difficile conciliare gli interessi particolari e personali con quelli generali e collettivi quando le relazioni sono, allo stesso tempo, personali e politiche. Ciò che ci lascia in eredità è una caratterizzazione dell’amicizia che ha toni etici ancora più accentuati della descrizione aristotelica.
51 Oltre ad A, 22, pp. 96-97, si veda anche A, 64, pp. 136-137; A, 79, pp. 148-149.
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2. Comeè pensata l’amicizia nel XV secolo? È ancora descritta in termini aristotelici e ciceroniani? Si radica già nell’interiorità del soggetto, oppure è dotata di funzioni politiche? Il saggio che il lettore ha tra le mani intende rispondere a queste domande, ricostruendo un momento importante, ma poco studiato, della storia dell’idea di amicizia. Prima di mostrare quale percorso d’analisi seguirò, vorrei soffermarmi brevemente su una questione storiografica che mi sembra opportuno chiarire. Gli studiosi del Rinascimento non hanno mai messo in discussione che il pensiero del Quattrocento sia fortemente influenzato dalla riflessione Cicerone. Per ovvie e diverse ragioni, che basterà qui accennare. Celebri umanisti scoprono e diffondono alcune opere di Cicerone che erano rimaste ignote nel Medioevo. Si pensi, per esempio, a Coluccio Salutati, che riporta alla luce le epistole Ad familiares, o a Poggio Bracciolini, che recupera il De oratore. Il primo nome che si dovrebbe fare, però, è senza
dubbio quello di Petrarca. Il ritrovamento della Pro Archia e delle epistole Ad Atticum, Ad Quintum e Ad Brutum si deve, infatti, proprio a colui che è generalmente considerato il padre dell’umanesimo®?. Potrebbe essere superfluo ricordare che il De officiis e il De inventione di Cicerone continuano ad avere un ruolo fondamentale nella riflessione etica per tutto il XV secolo. Non credo, invece, che sia inutile precisare che il filosofo romano non è solo un modello di stile, ma anche un esempio di vita: per gli umanisti che rivendicano il primato della vita attiva su quella contemplativa, primo fra tutti Leonardo Bruni, Cicerone è il perfetto cittadino che ha saputo coniugare l’attività filosofica con l’impegno politico53.
52 Si veda quanto sostenuto in S. Gentile, Il ritorno delle culture classiche, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, Milano, Mondadori, 2002, pp. 70-92. Anche Garin insiste sulla scoperta di nuove opere di Cicerone in uno dei suoi più importanti contributi sul pensiero del Rinascimento: E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli, Bibliopolis, 1983. 53 Per indicazioni più precise su questo aspetto della «scoperta» di Cicerone, si vedano i primi paragrafi del terzo capitolo, in cui si farà riferimento agli imprescindibili studi di Hans Baron.
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Mentre il XV ed il XVI secolo sono sempre apparsi come dei secoli ciceroniani, si è creduto a lungo che il Rinascimento** fosse ‘ un’epoca platonica, da contrapporre al Medioevo, considerato invece come l’età aristotelica per antonomasia. Questo «mito» storiografico, che trova la propria origine negli studi di Jacob
Burckhardt ed Ernst Cassirer, è stato sfatato nella seconda metà del
Novecento. Le ricerche di Paul Oskar Kristeller hanno mostrato che gli umanisti non sono semplicemente i cultori di quelle discipline - grammatica, retorica, storia, poesia e filosofia morale — che iniziano ad essere chiamate studia bumanitatis nella seconda metà del Quattrocento, usando un termine mutuato da Gellio o da Cicerone. Sono anche, in un senso più tecnico, gli «eredi professionali ed i successori dei retori medioevali»55. Seguendo
54 Un’ampia ricostruzione del dibattito tardo ottocentesco e primo novecentesco sul significato del termine Rinascimento si trova in C. Vasoli, Umanesimo e Rinascimento, Palermo, Palumbo, 1969. Lo studioso esamina le posizioni dei più insigni studiosi, soffermandosi con particolare attenzione sulle interpretazioni di Jacob Burkhardt (La cultura del Rinascimento in Italia [1860]); Wilhelm Dilthey (Interpretazione e analisi dell'uomo nel XV e XVI secolo [1891-92]), Johan Huizinga (L'autunno del Medioevo [1919]); Konrad Burdach (Riforma, Rinascimento, Umanesimo [1925]), Ernst Cassirer (Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento [1927], ma soprattutto Il problema della consoscenza nella filosofia e nella scienza. Dall’Umanesimo alla scuola cartesiana [1906]), Giovanni Gentile (Intorno al concetto di Umanesimo [1937]) e Federico Chabod (Il Rinascimento [1944]). 55 P.O. Kristeller, Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956, pp. 262, 560-561, 564. Mi limito a ricordare gli studi di Kristeller che sottolineano la continuità esistente tra il pensiero medioevale e il pensiero rinascimentale: Id., Renaissance Thought: the Classic, Scholastic, and Humanist
Strains, New York, Harper & Row, 1961, la versione rivista e ampliata di The Classics and Renaissance Thought (Cambridge Mas., Harvard UP, 1955; trad. it. La tradi zione classica nel pensiero del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1965), che ha come seguito i Papers on Humanism and the Arts, New York, Harper & Row, 1965; Id.; The Moral Thought of Renaissance Humanism, New York, Columbia UP, 1961; Id., La tradizione aristotelica nel Rinascimento, Padova, Antenore, 1962; Id., Medieval Aspects of Renaissance Learning: Three Essays, New York, Columbia UP, 1979; Id., Renaissance Philosophy and the Medieval Tradition, Latrobe, Archabbey Press, 1966; Id., Renaissance Thought and its Sources, New York, Columbia UP, 1979; Id., Renaissance Thought and the Arts: Collected Essays, Princeton (NJ), Princeton UP, 1980; trad. it. Il pensiero e le arti nel Rinascimento, Roma, Donzelli, 1998. Per infor-
mazioni più dettagliate rimando a T. Gilbhard, Bibliographia Kristelleriana. A Bibliography of the Publications of Paul Oskar Kristeller, 1929-1999, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006. Per un esame critico dell’interpretazione del Rinascimento
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l’insegnamento di Kristeller, che aveva già messo in luce la persistenza di significativi elementi aristotelici nel pensiero filosofico del XV e del XVI secolo, Charles Bernard Schmitt ha dimostrato che la tradizione aristotelica è così vitale che si dovrebbe parlare di aristotelismi, al plurale, piuttosto che di aristotelismo$6. Mentre questo insigne studioso si è concentrato prevalentemente sulla filosofia naturale, David Lines ha focalizzato l’attenzione sulla filosofia morale, provando con analisi dettagliate e convincenti che l’Etica Nicomachea detiene un ruolo di primo piano nelle università italiane dal XIV al XVII secolo®7. Grazie alle ricerche di Ferdinand Cranz sappiamo ormai che prima del 1600 sono date alle stampe più di tremila Aristotelica, contro le circa cinquecento edizioni di dialoghi platonici58: credo non vi sia un dato più decisivo per provare che il Rinascimento continua ad essere anche un’età aristotelica. Grazie ai lavori di Kristeller e degli altri studiosi appena menzionati, il termine Rinascimento è comunemente usato per indicare
un periodo di tempo molto ampio, che si estende dalla fine del XIV agli inizi del XVII secolo. Non si tratta di porre cesure tra questa età di rinnovamento e il Medioevo, ma di individuare le linee di
continuità ed i punti di rottura rispetto al passato, per cogliere la specificità dei diversi fenomeni culturali che modificano l’immagine dell’uomo e del mondo: il primato degli studia bumanitatis, la durata della tradizione aristotelica, la nascita della filologia, la diffusione del neoplatonismo, la scoperta del Corpus ermeticum elaborata da Kristeller si veda, invece: J. Monfasani (ed. by), Kristeller Reconsidered: Essays on His Life and Scholarship, New York, Italica Press, 2006. 56 Ch.B. Schmitt, Aristotle and the Renaissance, Cambridge Mas., Harvard UP, 1983; trad. it. Problemi dell’aristotelismo rinascimentale, Napoli, Bibliopolis, 1985, ma anche: Id., The Aristotelian Tradition and Renaissance Universities, London, Variorum reprints, 1984 ed Id., Filosofia e scienza nel Rinascimento, a cura di A. Clericuzio, con
una postfazione di Ch. Lohr, Firenze, La nuova Italia, 2001. Per una analisi approfondita di alcuni aspetti dell’aristotelismo rinascimentale si veda anche L. Bianchi, Studi sull’aristotelismo del Rinascimento, Padova, Il Poligrafo, 2003. 57 D. Lines, Aristotle’s Ethics in the Italian Renaissance (ca. 1300-1650). The Universities and the Problem of Moral Education, Leiden, Brill, 2002. 58 FE. Cranz, A Bibliography of Aristotle Editions (1501-1600), second ed. with addenda and revisions, edited by Ch.B. Schmitt, Baden-Baden, Koerner, 1984.
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e così via5?. Volendo riprendere le celebri parole di Machiavelli, si potrebbe dire che «la lezione degli antichi», è il moto propulsore di cambiamenti culturali profondi, che investono la filosofia, ma anche l’arte e la letteratura, propagandosi per tutta l’Europa. Eugenio Garin è stato uno dei primi studiosi a sottolineare la complessità che caratterizza il pensiero del Rinascimento. Con le sue ricerche non si è limitato a mettere in luce che «Aristotele continua ad essere una autorevole fonte di insegnamenti morali» per gli umanisti99, ma ha anche evidenziato che umanesimo ed aristotelismo non sono due fenomeni contrapposti. Senza dubbio la riscoperta della cultura classica che è la cifra caratteristica del pensiero del Quattrocento trova la sua origine nella polemica contro gli aristotelici con cui Petrarca invitava a procedere nella ricerca del vero academico more, vale a dire seguendo la ratio piuttosto che l’auctoritas, come indicato da Cicerone negli Academica priora. Tuttavia, è innegabile che gli umanisti si accostino al pensiero di Aristotele con rinnovato interesse filologico proprio perché seguono i consigli di Petrarca, che per primo aveva
suggerito di leggere le opere di Aristotele anziché le traduzioni o i commentari.
Del resto, il Quattrocento non è solo il secolo in cui si diffonde il pensiero di filosofi come Plotino ed Epicuro, poeti come Omero
cit.,ma 59 È questa l'impostazione seguita in Vasoli, Le filosofie del Rinascimento,
si vedano anche: Ch.B. Schmitt, Q. Skinner and E. Kessler (ed. by), The Cambridge History of Renaissance Philosophy, Cambridge, Cambridge UP, 1988 e J. Hankins (ed.
by), The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, Cambridge, Cambridge
UP, 2007.
60 E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 60-71, in particolare p. 60: «L'interesse che tutto il primo umanesimo fiorentino, dall’età del Salutati fino al diffondersi dell’influenza di Ficino, ebbe per le opere politiche ed economiche di Aristotele è veramente singolare. Se Cicerone è il maestro di retorica, Aristotele continua ad essere una autorevole fonte di insegnamenti morali: e i due nomi sono di continuo connessi, non disgiungendosi mai l'insegnamento delle discipline logico-retoriche da quello delle scienze etico-politiche. L’idea della vita cittadina come ‘civile conversazione’, in cui l’ordine è quasi unconvergere di ben ragionare, ben persuadere e ben operare, era del resto un’idea antica in Firenze, se nel Tesoro di Brunetto Latini, troviamo già legati strettamente i nomi di Aristotele e Cicerone».
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e Sofocle, storici come Erodoto e Tucidide, scrittori come Senofonte e Plutarco, retori come Isocrate e Luciano e così via. È
anche il secolo in cui si traducono, dal greco, tutte le opere di Aristotele!. Umanisti del calibro di Leonardo Bruni e Giannozzo Manetti si cimentano con la traduzione dell’Etica Nicomachea e della Politica sin dai primissimi anni del Quattrocento. Seguendo il metodo usato da Giovanni Argiropulo e dagli altri dotti bizantini arrivati in Italia, da cui imparano il greco, non traducono più parola per parola. Si servono, invece, di circonlocuzioni e parafrasi, usando un latino forbito, privo di neologismi e grecismi,
molto simile a quello ciceroniano. A poco a poco, le traduzioni di Bruni e degli altri umanisti sostituiscono quelle medioevali, ma la frattura è meno netta di quanto possa sembrare: in molte edizioni
a stampa dell’Etica Nicomachea le traduzioni continuano ad essere affiancate dai Commentari di Tommaso d’Aquino®2. Credo che siano sufficienti queste considerazioni per mostrare che il pensiero del Quattrocento è fortemente influenzato dalla riflessione filosofica di Aristotele, oltre che da quella di Cicerone. 61 E. Garin, Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo XV, Firenze, Atti e memorie dell’Accademia fiorentina di Scienze morali La Colombaria, 1947-1950. Per quanto riguarda le traduzioni ed i commenti in ambito fiorentino vd. anche E. Franceschini, Leonardo Bruni e il vetus interpres dell’Etica a Nicomaco, in AA.VV., Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni, 1955, pp.
299-319; D.A. Lines, The Commentary Literature on Aristotle’s Nicomachean Ethics in Early Renaissance Italy: Preliminary Considerations, in «Traditio», LIV, 1999, pp.
245-282 ed Id., «Faciliter edoceri»: Niccolò Tignosi and the Audience of Aristotle’s Ethics in Fifteenth Century Florence, in «Studi Medioevali», XL, 1999, pp. 139-168.
Ecco un elenco, incompleto ma indicativo, delle principali traduzioni quattrocentesche di opere aristoteliche e pseudo-aristoteliche: Roberto Rossi traduce gli Analitici posteriori; Bruni l’Etica Nicomachea, gli Economici e la Politica; Ciriaco d’ Ancona il De virtutibus et vitiis; Filelfo la Rbetorica ad Alexandrum; Manetti l’Etica Nicomachea; Gregorio Tifernate l’Etica Eudemia; Bessarione la Metafisica; Giorgio di Trebisonda la Retorica, la Fisica, il De anima, il De coelo e il De generatione et corruptione, il De bistoriis animalium, il De partibus animalium ed il De generatione animalium, tre opere che sono tradotte, insieme ai Problemata, anche da Teodoro di Gaza; Argiropulo traduce l’Etica Nicomachea, il De anima, la Fisica, il De coelo, tutti i libri di logica tranne i Topici e gli Elenchi sofistici, nonché la Metafisica; Giorgio Valla il De coelo, i Magna Moralia e la Poetica, il cosiddetto Laurentianus traduce il De interpretatione. 62 FE. Cranz, The Publishing History of the Aristotle Commentaries of Thomas Aquinas, in «Traditio», XXXIV, 1978, pp. 157-192.
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Per questo motivo, ho supposto che gli umanisti fossero particolarmente sensibili al tema della amicizia. Tale ipotesi ha trovato conferma e si è rivelata particolarmente feconda: nella Famiglia
di Leon Battista Alberti, nella Vita civile di Matteo Palmieri, nel
De institutione regiminis principum di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano, nel De principe di Giovanni Pontano, nel De principe (e nel De optimo cive) di Platina e nel De regno et regis insititutione di Francesco Patrizi da Siena si trovano ampie sezioni dedicate alla amicizia. Questa relazione è descritta in termini aristotelici e ciceroniani: è una relazione di natura morale, fondata sulla virtù, orientata al bene dell’altro, basata sulla sincerità e la fiducia reci-
proca. Tuttavia, gli autori delle opere appena menzionate non si limitano a riprendere le tesi che trovano nell’Etica Nicomachea e nel Laelius. Tendono, invece, a rielaborare in modo originale la riflessione aristotelica e ciceroniana, adattandola alla realtà politica e storica in cui vivono. Individuando diverse tipologie di amicizia e di amici, essi attribuiscono all’amicizia diverse funzioni politiche. Proverò a metterle in luce articolando un percorso in cinque tappe che trova un termine ad quem nel Principe di Machiavelli. Nel corso delle analisi non cercherò solo di evidenziare il lascito della tradizione aristotelica e ciceroniana, ma proverò anche a mettere in luce gli elementi più innovativi della riflessione sull'amicizia sviluppata nelle opere esaminate. In particolare, mi sforzerò di sottolineare l’importanza che rivestono autori come Sallustio, Plutraco, Senofonte, Isocrate, Dione di Prusa e
Diogene Laerzio. Si vedrà, infatti, che tutti gli autori delle opere
esaminate tendono ad utilizzare contemporaneamente linguaggi
diversi: il linguaggio aristotelico è predominante, insieme a quello ciceroniano e a quello platonico, ma non è il solo. Per mostrare come sia concepita l'amicizia nel Quattrocento sarà indispensabile tenere conto della pluralità dei linguaggi e della varietà delle fonti usate dagli umanisti. Il percorso che seguirò per mettere in luce le caratteristiche della amicizia è un percorso albertiano. Non essendoci opere quattrocen-
tesche specificatamente dedicate all’amicizia, ho deciso di lasciarmi guidare da «una delle figure più straordinarie di un secolo straor-
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dinario»: Leon Battista Alberti63. Leggendo il quarto libro della Famiglia, è stato possibile delimitare l'ambito delle analisi. Come cercherò di mostrare nel primo capitolo, che ha carattere introduttivo, la Famiglia è un dialogo molto complesso, che si presenta allo stesso tempo come un trattato de re familiari ed una summa di vita civile. È scritto in volgare e consta di quattro libri, l’ultimo dei quali è un vero e proprio trattato sull’amicizia. Poiché Alberti insiste molto sul fatto che i giovani membri della sua famiglia debbano imparare ad amare ed essere amati per riuscire a procurarsi onore e fama grazie all’amicizia, questa relazione gioca un ruolo chiave nell’educazione del perfetto cittadino. Per questo, dopo la Famiglia, ho deciso di esaminare la Vita civile di Matteo Palmieri: un dialogo in volgare, composto negli anni trenta del Quattrocento per i cittadini fiorentini, in cui si esalta il valore della vita attiva. Immaginavo che vi fosse spazio per l’amicizia anche nelle opere di altri esponenti del cosiddetto umanesimo civile, ma il racconto con cui si apre il quarto libro della Famiglia mi ha portato molto lontano dalla città di Firenze. Poiché Piero narra le difficoltà incontrate nel diventare amico di tre grandi principi, ho deciso di volgere lo sguardo verso le corti, esaminando alcune delle raccolte di consigli per i principi scritte nel Quattrocento. Nel De institutione regiminis principum di Vicini, nel De principe di Pontano, nel De principe di Platina e nel De regno et regis insititutione di Patrizi si trovano ampie sezioni sull’amicizia, speculari al racconto di Piero. Dipingendo il ritratto dell’ottimo principe, Vicini, Pontano, Platina e Patrizi non mancano, infatti,
di indicare al signore a cui rivolgono i loro consigli quali amici scegliere. La possibilità di accostare opere così diverse tra loro come quelle appena indicate dovrebbe emergere dalle analisi sviluppate nel secondo capitolo. Riprendendo gli studi di Quentin Skinner, ma anche le ricerche di Manlio Pastore Stocchi e Diego Quaglioni, 63 E. Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 2 Miseria e Grandezza dell’uomo, in Id., Rinascite e Rivoluzioni, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 161-181, in particolare p.
170 ed anche, nella stessa opera, Studi su Leon Battista Alberti. 1 Per un ritratto, pp. 133-160.
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proverò a mettere in luce le caratteristiche del linguaggio politico degli umanisti: essi non si interrogano sugli assetti costituzionali del potere, ma sulle qualità morali di chi governa, attribuendo le stesse virtù — aristoteliche e ciceroniane — ai principi ed ai cittadini che cercano di educare. Nel secondo capitolo tenterò anche di individuare alcuni possibili modelli medioevali per la riflessione proposta negli specula di Vicini, Pontano, Platina e Patrizi. Pertanto esaminerò brevemente il De morali principis institutione di Vincenzo di Beauvais, il De regno di Tommaso d'Aquino e il De regimine principum di Egidio Romano. Ponendo sullo sfondo tali opere emergeranno più chiaramente sia le linee di continuità sia i punti di rottura che caratterizzano la riflessione quattrocentesca sull'amicizia. Come cercherò di mostrare nell’ultimo paragrafo del capitolo, l’idea di educare il principe alla scelta degli amici è un’idea tipicamente umanistica, che affonda le proprie radici nel De republica administranda, la lettera che Petrarca scrive al signore di Padova. All’esame delle opere di Palmieri, Vicini, Pontano Platina e
Patrizi saranno dedicati i cinque capitoli della seconda parte del saggio. Ogni capitolo inizierà con un paragrafo in cui saranno
fornite le indicazioni biografiche necessarie per contestualizzare meglio la riflessione di questi autori, più o meno noti. Prima di concentrarmi sull’amicizia, nel secondo paragrafo di ogni capitolo, cercherò di mettere in luce i temi chiave delle opere che saranno prese in esame di volta in volta, individuando le analogie e le differenze che le contraddistinguono. Sarà possibile riscontrare delle affinità anche perché il valore politico della amicizia si gioca in due diversi spazi: lo spazio del consenso e quello del consiglio. Per Palmieri l’amicizia è una relazione politica perché mantiene unita la città. Rielaborando tesi aristoteliche, sallustiane e ciceroniane, l’autore della Vita civile mostra che l’amicizia non è solo
uno dei doveri del perfetto cittadino, ma anche il modello del legame sociale: l’amicizia civile è la forma del rapporto che deve unire governanti e governati, generando quella concordia senza la quale una città come Firenze non potrebbe espandersi. Negli specula principum quattrocenteschi esaminati dopo la Vita civile,
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la relazione che unisce governanti e governati è descritta come una forma di amore (mutua caritas), che può colorarsi delle sfumature dell’amicizia. Tuttavia, tanto nella lettera di Petrarca al signore di Padova, quanto rielle opere di Vicini, Pontano, Platina e Patrizi lo spazio politico riservato all’amicizia si contrare. Infatti, non sono
considerati amici del principe tutti i cives, ma solo alcuni cittadini: quei cittadini dotati delle caratteristiche morali necessarie per essere scelti come collaboratori e consiglieri del principe. Nello spazio del consiglio, l'amicizia è descritta come vera amicitia: è un rapporto intimo e personale, basato sulla fiducia, l’onestà e la lealtà, che si rivela fondamentale per la gestione delle attività politiche che il principe non può svolgere in prima persona. Come emergerà analizzando l’opera di Vicini, l’amicizia tiene uniti i regni, oltre che le città perché è la relazione attraverso cui avviene la selezione dell’élite di governo. Come si vedrà analizzando l’opera di Platina e Pontano, quanto più sarà definita la funzione del principe, tanto più apparirà diverso dalla vera amicizia il rapporto che unisce il principe ai sudditi: nello spazio del consenso si troverà un’amicizia esteriore e superficiale, basata sulla comitas, quella affabilità e quella cortesia dietro a cui si intravede l’amicabilitas egidiana. Analizzando l’opera di Patrizi sarà possibile mostrare che la contrazione dello spazio politico dell’amicizia è massima quando il principe è descritto come un essere divino e sublime: i veri amici del principe potranno essere solo altri principi, mentre i
collaboratori e i funzionari di chi detiene il potere saranno semplicemente amici. Per questo, e non solo perché Patrizi riflette de civili seu sociali amicitia, proponendo una tipologia di amicizia affine, ma non identica a quella di Palmieri, le analisi del De regno chiudono il percorso iniziato esaminando la Vita civile. Seguendo questa via sarà possibile mostrare che l’amicizia inizia ad essere concepita in modo nuovo. La semantica della relazione continua ad essere quella del bene e della virtù. Tuttavia, con l’emergere del tema degli amici principis, l'amicizia si configura come un rapporto con il potere, o meglio, con chi detiene il potere. Poiché vedremo che gli amici del principe devono posse-
dere non solo le qualità morali senza le quali non potrebbero
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essere fedeli al principe, ma anche la formazione umanistica grazie a cui saranno dei buoni consiglieri, è evidente che quando Vicini, Ponatano, Platina e Patrizi indicano al principe come scegliere i suoi collaboratori cercano di aprirsi le porte della corte per ottenere (o mantenere) incarichi ufficiali. Quindi l’amicizia non è solo
un rapporto con il potere, ma si presenta anche come un rapporto di potere. Il nesso tra amicizia e potere è l’eredità più significativa che gli umanisti ci lasciano, ed il tema più significativo su cui ci invitano a riflettere.
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Capitolo primo A guisa di introduzione: l’amicizia nei libri della Famiglia di Leon Battista Alberti
1.1 Un'opera singolarissima: genesi e struttura della Famiglia
Come sottolinea Garin, «non si capisce la Famiglia se non se ne afferra la collocazione nell’esperienza albertiana; anzi se ne falsano le prospettive se non si sottolinea il suo carattere singolarissimo: tre libri — i primi tre libri — stesi d’un fiato, a meno di trent'anni, prima di partire per Roma, in una lingua non posseduta appieno [...]: un’offerta alla patria, ma per celebrare la gloria di una grande casata, per ricordare il padre morto troppo presto, per sottolineare i legami di sangue; soprattutto per dimostrare che proprio l’orfano maltrattato e perseguitato poteva rendere più splendida con le lettere disprezzate la famiglia dei superbi mercatores. Era insomma la rivincita dell’ingegno sul denaro, il trionfo della virtù sulla fortuna. I parenti lo avevano spogliato del suo, ne avevano persino insidiata la vita: ebbene,
egli li perdonava tutti collocandoli sotto il segno di una sventura comune, e rispondeva alle offese esaltando l’unità degli Alberti, ripagando il male ricevuto, non con la vendetta, ma beneficio et omni bumanitate»!. Per cogliere il carattere singolarissimo della Famiglia? bisogna x
1 Garin, Studi su Leon Battista Alberti.
p. 165.
2 Miseria e Grandezza dell’uomo, cit.,
2 L.B. Alberti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, nuova ed. a cura di E. Furlan, Torino, Einaudi, 1994; d’ora in poi mi riferirò a questa edizione
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ricostruire la vita di Leon Battista Alberti sino al 1441, anno in
cui viene organizzato il certame coronario sull’amicizia durante il quale il quarto ed ultimo libro dell’opera, composto verso il 1437, viene offerto in dono al Senato e al Popolo fiorentinoì. Battista Alberti (Leone è un soprannome, aggiunto nell’ambiente umanistico romano, probabilmente da Pomponio Leto, sulla base delle qualità dell'animale lodate in alcune pagine delle Intercenales) nasce a Genova nel 1402 da Lorenzo di Benedetto Alberti e Bianca Fieschi, vedova Grimaldi. Il padre, bandito
da Firenze nel 1401, quando la città è ancora controllata dagli Albizzit, muore in esilio nel 1421. Essendo figlio illegittimo, Alberti non si vede riconosciuti i diritti ereditari dai parenti. Essi non appoggiano neppure le sue ambizioni culturali, ritenen-
dole contrarie agli interessi commerciali della famiglia, attiva in Ponente,
a Londra, Bruge, Colonia, Venezia, Genova, Bologna,
Avignone, Parigi, Valencia e Barcellona?. Oltre ad essere posta all’origine del pessimismo di Alberti, la situazione familiare è ritenuta la causa principale della sua formazione quasi interregionale: Alberti si forma apud extras nationes, lontano dai fermenti culturali che hanno dato vita all’umanesimo fiorentino9. Compiuti i
semplicemente come LdF. 3 Per questa ricostruzione della vita di Alberti non mi sono avvalsa solo degli studi di Boschetto citati in seguito, ma anche di due saggi di Grayson, The Humanism of Alberti (1957) e Leon Battista Alberti: vita e opere (1994) raccolti in C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, a cura di P. Claut, Firenze, Olschki, 1998, pp. 129-149 e pp. 419-433. 4 In seguito alla sconfitta del regime democratico instauratosi dopo la rivolta dei Ciompi, la famiglia Alberti è oggetto di una serie di persecuzioni politiche: a partire dal 1387 gli Alberti sono sempre più emarginati dalla vita cittadina sino a che, nel 1401, sono mandati in esilio, e quindi sono banditi da Firenze, tutti imaschi maggiori di 16 anni. Nei tre decenni in cui gli Alberti sono lontani da Firenze avviene il passaggio dallo stato comunale allo stato territoriale. Inoltre, in questi anni le strutture comunali sono messe a dura prova dal processo graduale, ma inarrestabile, che porta all’affermazione dell’élite di governo medicea. Per una ricostruzione dettagliata della situazione della famiglia Alberti, vedi L. Boschetto, Amplificate la fama di casa nostra: la famiglia Alberti alla fine dell'esilio, in Id., Leon Battista Alberti e Firenze, Firenze, Olschki, 2000, pp. 3-67. 5 Per l’estensione dell’attività commerciale degli Alberti vedi anche LdF, p. 101. 6 Apud extras nationes educatus è il titolo del capitolo che Boschetto dedica alla
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primi studi a Venezia, a Padova Alberti è allievo di Gasparino Barzizza (1415-1418). Questi, una delle figure più significative dell’umanesimo settentrionale del primo Quattrocento, era solito impartire ai suoi allievi una solida educazione letteraria imperniata sullo studio delle opere di Cicerone. Secondo Grayson, a Padova Alberti impara anche il greco, con Filelfo7. Completa la propria educazione a Bologna, dove si laurea in diritto canonico nel 1428, nonostante sia stato costretto ad interrompere gli studi per l’improvvisa morte del padre. Benché appaia evidente solo in opere più tarde, risale a questi anni anche la formazione matematica che rende Alberti una figura rara, capace di coniugare scientia e studia humanitatis. L’anno della laurea è l’anno della revoca dell’esilio. Sebbene non siano immediatamente riammessi alla vita politica, nel 1428 i membri della famiglia Alberti ottengono il permesso di rientrare a Firenze. La città attraversa un momento particolarmente
drammatico della sua storia politica, essendo spaccata in due dalla lotta tra la fazione albizzesca e quella medicea. La revoca dell’esilio potrebbe essere vista come un tentativo messo in atto per stemperare la tensione, se si ignorasse che gli esuli devono il ritorno in patria anche all’influenza di Martino V. Diversamente dagli altri membri della famiglia, Alberti non torna immediatamente a Firenze. Infatti, benché il periodo compreso tra il 1428 e il 1431 sia poco noto, è certo che proprio in questi anni egli abbia preso i voti, sia diventato segretario del Patriarca di Grado, e grazie a lui sia stato nominato Abbreviatore Apostolico. Come si vedrà meglio in seguito, questo incarico permetterà anche a
Platina di dedicarsi completamente agli studi. Dal 1431 Alberti vive stabilmente a Roma. Ha facile accesso alla corte papale perché importanti membri della famiglia cui era molto legato, tra cui Francesco d’Altobianco Alberti, erano da tempo a servizio dei pontefici con incarichi di rilievo. Entrato a far parte del gruppo di umanisti a servizio di Eugenio IV, nel 1432 giovinezza di Alberti: Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, cit., pp. 71-94. 7 Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, cit., p. 420.
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riesce ad avere dal Papa «l’assolvimento dal difetto di illegittimità». Ottiene anche il beneficio di San Martino in Gangalandi, una proprietà che lo terrà legato a Firenze sino alla morte senza mai imporgli l’obbligo di residenza. Stando alla biografia che ha scritto egli stesso prendendo a modello le Vite degli antichi, proprio a Roma, tra il 1431 e il 1434, in soli sessanta giorni, Alberti scrive i primi tre libri della Famiglia. Prima di questa opera, ha già composto il Philodoxeos (1424), commedia giovanile in latino firmata con lo pseudonimo Lepidus, alcune Intercenales che evidenziano continuamente la sua condizione di orfano, nonché il De commodis literarum atque incommodis (1428).
Quest'ultima opera risulta particolarmente significativa perché l’autore descrive le difficoltà cui va incontro chi sceglie la vita
dello studioso, rifiutando la tesi bruniana dell’unione tra lettere e
virtù civili, e pone il problema del ruolo sociale del letterato con osservazioni acute e disincantate.
Dopo un primo soggiorno a Firenze, tra il 1435 ed il 1436, Alberti vi ritorna nel 1439. È al seguito della curia pontificia, trasferitasi a Firenze in occasione del Concilio che sancisce l’unione della chiesa latina con la chiesa ortodossa. Sembra che vi rimanga sino al 1443, anche se non continuativamente perché nel 1436 è a Bologna e nel 1438 a Ferrara. Egli arriva a Firenze nel momento in cui la vita culturale della città è segnata dai conflitti: la rivalità sorta tra Bruni e Traversari, ma anche le feroci polemiche che oppongono Niccoli e Marsuppini a Filelfo, chiamato ad insegnare retorica nello Studium di Firenze con il consenso di Cosimo de’ Medici, ma schieratosi poi col partito albizzesco. Alberti sviluppa una visione critica della cultura umanistica, mostrando un certo scetticismo nei confronti dell’idea di una missione culturale della città, tant'è che Firenze viene attaccata da
una satira feroce in molte pagine delle Intercenales ed è oggetto di non poche critiche in quelle della Famiglia. Come attesta la 8 Si tratta del Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze, convocato nel 1431 dal papa Martino V secondo quanto previsto dal Concilio di Costanza e trasferito a Firenze in seguito alle pressioni di Cosimo il Vecchio.
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dedica a Brunelleschi della versione in volgare del De pictura (1436), in questo periodo, Alberti si sente attratto dagli artisti,
non dagli umanisti fiorentini. Non cerca neppure di inserirsi negli ambienti della cultura ufficiale. A Firenze prende forma l’importante riflessione sull’uso e l’origine del volgare. La lettera dedicatoria del terzo libro della Famiglia, che Alberti scrive a Francesco d’Altobianco Alberti poco dopo aver celebrato la divina potenza creatrice dell’artista nel De pictura, è un momento fondamentale di questa riflessione,
anche per l’evidente riferimento alla disputa sulla lingua avvenuta nel 1435 tra i segretari apostolici presenti a Firenze. Leggendo il proemio della Grammatica volgare (1442), in cui saranno ripresi
i temi affrontati in tale lettera, è possibile chiarire che Alberti è in aperta polemica con le tesi sostenute da Leonardo Bruni e va oltre le posizioni difese da Flavio Biondo. Crede, infatti, che il volgare discenda dal latino, corrottosi per l’uso in seguito alla caduta dell’Impero romano, e pensa che sia una lingua conforme alle categorie della grammatica latina, capace di esprimere anche le più elevate riflessioni filosofiche. La revisione linguistica cui sono sottoposti i primi tre libri della Famiglia a partire dal 1435 dipende da queste opinioni ed è strettamente connessa alla definizione teorica del ruolo dell’intellettuale?. I primi tre libri della Famiglia sono accolti con un certo interesse dai concittadini, ma non sono affatto apprezzati dai parenti dell’autore. Come racconta nell’autobiografia, Alberti desiste a stento dal desiderio di bruciare l’opera e dà prova della propria magnanimità dedicando il quarto ed ultimo libro della Famiglia agli «ingrati» familiari. In realtà, secondo accurate analisi filologiche, condivise anche dagli studiosi che non dubitano dell’autenticità dell’autobiografia albertiana, la prima circolazione della Famiglia comprende solo il primo e il secondo libro!°. Insieme al 2 La Famiglia è stata rivista anche dopo il certame, nel 1443, come attesta la lettera che contiene il giudizio espresso da Leonardo Dati e Tommaso Ceffi ricordata in Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, cit., p. 124.
10 G. Gorni, Antichi editori e copisti dell’Alberti volgare, e quel che se ne ricava, in «Albertiana», I, 1998, pp. 153-182.
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prologo, infatti, essi costituiscono il nucleo originario dell’opera che Alberti ha effettivamente destinato ai propri familiari, per cercare di far dimenticare la condizione di illegittimo che sentiva pesare su di sé, e per celebrare la ritrovata grandezza di una delle più antiche e delle più ricche famiglie di Firenze. Secondo
Boschetto!!,
le disavventure
finanziarie
attraver-
sate dagli Alberti alla fine degli anni Trenta del Quattrocento permettono di spiegare la circolazione autonoma dei rifacimenti del terzo libro della Famiglia, dedicato all’amministrazione della casa. Questo libro è stato rivisto a Firenze da un autore ignoto, che ha sostituito gli interlocutori originari: al posto dei membri della famiglia Alberti si trovano come protagonisti imembri della famiglia Pandolfini. Tra costoro vi è anche Agnolo Pandolfini, il principale interlocutore della Vita civile di Palmieri, nonché uno dei personaggi che dà voce ai pensieri di Alberti nei Profugiorum ab aerumna. Uno dei codici in cui è conservato solo il terzo libro della Famiglia riporta anche i primi due libri e parte del terzo libro della Vita civile!?. La crisi finanziaria raggiunge la fase più acuta già nel 1437, generando lotte violente tra i soci delle diverse compagnie commerciali, che mandano la famiglia in rovina. Con la crisi, gli Alberti perdono il prestigio politico di cui godevano: dopo il 1437 solo i fratelli Giannozzo e Antonio Alberti conserveranno «onore
11 Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, cit., p. 128 e p. 145. Secondo Boschetto, Agnolo Pandolfini può avere ruoli di rilievo sia nella Vita civile, sia nel rifacimento del terzo libro della Famiglia e nei Profugiorum ab aerumna, in cui Alberti condanna gli eccessi del nuovo governo mediceo, perché è considerato un modello di saggezza e moderazione anche in politica. i 12 Come si evince dalla Nota al testo che segue l'edizione dell’opera curata da Grayson (L.B. Alberti, Opere volgari, vol. I, a cura di C. Garyson, Bari, Laterza, 1960, pp. 367-449, in particolare p. 369), la Famiglia è circolata manoscritta a Roma e Firenze. Si è conservata in tredici codici, di cui ben cinque contengono solo il terzo libro della Famiglia, preceduto dalla lettera dedicatoria. Tra questi, il Cod. Magl. XXI 134 (E8), riporta anche i primi due libri e parte del terzo libro della Vita civile di Palmieri. In uno dei tre codici contenenti tutti e quattro i libri dell’opera, il Cod. Magl. XXI 90 (F2), si trovano anche l’ottavo libro di una versione in volgare dell’Etica Nicomachea, il Tractato de amicitia di Mariotto Davanzati, un trattato di Bendetto d'Arezzo che verte sullo stesso argomento ed i Decti e sententie sopra l’amicitia di più savii philosophi.
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e sostanze», mentre gli esponenti degli altri rami della famiglia non ricopriranno più nessun incarico di rilievo. Vi è una conseguenza ancora più importante: la crisi spezza quell’unità familiare che suscita le lodi dei protagonisti dei primi tre libri della Famiglia perché ha permesso di resistere e di superare la dura stagione dell’esilio. Si trovano evidenti tracce della crisi anche nel quarto libro della Famiglia, in cui Alberti esalta la ricchezza della propria famiglia con toni meno enfatici di quelli usati in precedenza ed insiste sull’amicizia come relazione capace di aprire la famiglia all’esterno garantendo l’appoggio e la protezione di cui ha bisogno. La Famiglia non è legata al certame solo per il tema affrontato nel quarto libro, ma anche perché gli esametri recitati da Alberti durante la competizione sono l’esergo dell’opera!3. Il certame, ossia una gara di poesia in volgare sull’amicizia, ha avuto luogo il 22 ottobre del 1441 nella Cattedrale della città di Firenze. Insieme ad Alberti, ha partecipato all’organizzazione dell’evento anche Piero de’ Medici: per controllare e boicottare gli sviluppi della lotta intrapresa da Alberti per la difesa della dignità letteraria del volgare, come crede Martelli, oppure perché in buoni rapporti con l’autore della Famiglia, come ritiene Marietti!4. La partecipazione di Piero è così controversa perché anche un’opera come il De iciarchia, in cui la polemica contro il governo dei Medici sembra molto più esplicita che in altri scritti, ha avuto diverse interpretazioni: è stata considerata come una sorta di celebrazione della Signoria medicea, ma è stata altresì vista come una ripresa del programma oligarchico sostenuto dallo schieramento 13 Gorni, Antichi editori e copisti dell’Alberti volgare, e quel che se ne ricava, cit., p. 167. 14 Per l’opposta interpretazione del certame vd. M. Martelli, Il Quattrocento. Politica e letteratura, in AA.VV., Letteratura Italiana III Umanesimo e Rinascimento. La storia e gli autori, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2007, pp. 93-116 e M. Marietti, “Patriotisme” des pères et “patriotisme” citadin: le voies de l’italianité dans les traités en vulgaire de Léon-Baptiste Alberti, in AA.VV., Quétes d’une identité collective chez les italiens de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1990,
. pp. 11-65, in particolare p. 55, dove si ricorda che Alberti aveva dedicato a Piero de’ Medici l’Uxoria, un’opera composta a Ferrara nel 1438.
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antimediceo!5. Senza entrare nel merito della questione, vorrei sottolineare che il pensiero politico di Alberti non può essere ridotto alla questione dell’adesione o dell’opposizione ai Medici. La gestione medicea del potere è infatti criticata, con toni più o meno accesi, alla luce di una precisa convinzione, oligarchica e anacronistica. Come nota Furlan, Alberti crede alla necessità e
all'esistenza di un tessuto di amicizie e di una rete di alleanze tra le famiglie chiamate a reggere la repubblica per la loro storia, la loro ricchezza ed i loro meriti!6. A mio giudizio, questa convinzione spiega anche perché Alberti abbia deciso di offrire in dono al Senato e al Popolo fiorentino il quarto libro della Famiglia. Sono strettamente connesse al quarto libro della Famiglia altre due opere di Alberti, che non è possibile non menzionare: il Theogenius, scritto nel 1440, ma dedicato nel 1441 a Lionello d’Este con una lettera in cui è ripresa la riflessione sul volgare; i Profugiorum ab aerumna, un dialogo composto tra il 1441 e il 1443 seguendo il modello ciceroniano delle Tusculanae disputationes che insegna come vincere i rovesci della fortuna conservando la tranquillità dell'animo. Tali opere appaiono molto diverse da quelle precedenti perché si riduce il peso della tradizione letteraria toscana ed aumenta la componente lessicale e sintattica latina!7: Alberti inizia ad utilizzare il volgare per riflettere su temi morali come l’amicizia e la fortuna, in un’epoca in cui il trattato dottrinario viene considerato di pressoché esclusivo dominio del latino. Nel Theogenius e nei Profugiorum ab aerumna è anche possibile cogliere un nuovo atteggiamento nei confronti del pubblico cittadino. Questo è un ulteriore punto di contatto con la Famiglia: concentrando la riflessione sull’amicizia, nel quarto libro 15 Per l’interpretazione filo-medicea dell’opera vd. G. Beretta, L'ideale etico del «De iciarchia» e il «De officiis» di Cicerone, in «Miscellanea di studi albertiani», Genova, 1975, pp. 9-34; per l’interpretazione anti-medicea vd. invece L. Boschetto, Note sul «De iciarchia» di Leon Battista Alberti, in «Rinascimento», XXXI, 1991, pp. 183-217. 16 E Furlan, À l’origin du dialogue en vulgaire: le ‘ragionare domestico e familiare’, in «Albertiana», II, 1999, pp. 169-190, in particolare pp. 182-184. 17 Vd. M. Dardano, Sintassi e stile nei «Libri della Famiglia» di Leon Battista Alberti, in «Cultura neolatina», XXIII, 1963, pp. 215-250.
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dell’opera Alberti inizia a spostare lo sguardo verso la città. Come raccontato nei Profugiorum, nessuno dei componimenti
recitati in Santa Maria del Fiore ottiene l'ambito premio. I dieci segretari di Papa Eugenio IV scelti come giudici del certame decidono, infatti, di non attribuire la corona argentea a nessuna delle
quattro poesie che reputano degne di vittoria!8. Infuriato per l’esito della gara, che gli impedisce di mostrare la dignità letteraria del volgare, nella Protesta Alberti si sfoga con violenza contro i giudici, accusandoli di leggerezza, invidia, vigliaccheria e inumanità!9. Il fallimento del certame costituisce una pesante sconfitta per l’umanista: dopo il 1441, fatta eccezione per la versione in volgare dei Ludi mathematicorum e per il De iciarchia, Alberti scriverà solo in latino. Gli interessi morali cederanno il passo a quelli artistici e scientifici. Il ritorno a Roma inaugura, infatti, una nuova stagione della riflessione albertiana, come provano opere quali la Descriptio urbis (ca. 1443) e il De re aedificatoria (1452). Questo trattato assicura ad Alberti, già impegnato nel rifacimento esterno della chiesa di San Francesco a Rimini, nuove importanti committenze, prima a Firenze (dove lavora per Giovanni Rucellai
dal 1455-1465 ca.) e poi a Mantova (dove Ludovico Gonzaga gli affida la costruzione della chiesa di San Sebastiano nel 1460 e quella di Sant'Andrea nel 1470). Nell’ultima parte della sua vita, egli diventerà un famoso architetto. Sebbene avesse mantenuto le sue amicizie fiorentine e fosse stato occasionalmente in contatto con il cenacolo degli umanisti raccolti intorno a Lorenzo de’ Medici, Matteo Palmieri è l’unico a ricordare la sua morte
(1472)?0,
18 Tra i giudici si devono ricordare almeno Poggio Bracciolini e Carlo Marsuppini. 19 La Protesta è edita in appendice ai testi del certame: L. Bertolini (a cura di), De vera amicitia: i testi del certame coronario, Modena, Panini, 1993. 20 Nelle Disputationes camaldulenses (gennaio-aprile 1474) Cristoforo Landino presenta Alberti come la figura più autorevole tra i letterati che si ritrovano a Camaldoli insieme a Lorenzo: Marsilio Ficino, Marco Parenti, Alamanno Rinuccini, Antonio Canigiani, Piero e Donato Acciaiuoli; gli affida inoltre una difesa della vita contemplativa d’impronta neoplatonica che ha lasciato perplessi gli studiosi. Secondo Boschetto, il punto di incontro che porta all’indovinato accostamento di Alberti e di Lorenzo il Magnifico non va ricercato nella filosofia neoplatonica, ma nel comune interesse per
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Anche se è composta da libri che sono circolati separatamente, la Famiglia è un’opera unitaria e coerente. Come mostra Danzi,
per rendersi conto di ciò, bisogna porre sullo sfondo delle riflessioni sviluppate da Alberti la concezione medioevale della scientia oeconomica elaborata da Vincenzo di Beauvais?!. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, infatti, nello Speculum Doctrinale il filosofo medioevale colloca la propria riflessione sulla domus dopo la riflessione sull’etica e prima di quella sulla politica, proponendo una tripartizione delle scienze pratiche che verrà ripresa anche nei trattati de regimine, a cominciare dal De regimine principum di Egidio Romano. Articola, inoltre, la propria trattazione de re familiari in quattro parti, l’ultima delle quali espressamente dedicata all’amicizia: de mutua societate et amore coniugum, de educatione filiorum, de regimine servorum, de cultu amicorum.
Esse corrispondono ai temi affrontati nei quattro libri della Famiglia: il primo libro è un De liberis educandis, il secondo un De uxoria, il terzo un Economicus, il quarto un De amicitia?2. Se non si pone lo Speculum Doctrinale sullo sfondo della Famiglia, non si coglie l’entità dello sforzo attuato da Alberti per mostrare che il volgare è una lingua capace di trattare un tema che aveva da tempo ottenuto lo statuto di scientia. Inoltre, se le arti e l’architettura: Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, cit., pp. 179-180. Non è Boschetto, ma Grayson a notare che la morte di Alberti viene ricordata solo da Palmieri: Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, cit., p. 147. Non si sa se Alberti e Palmieri si siano mai conosciuti, ma è assai probabile, visto che entrambi erano intimi amici di Niccolò della Luna e Leonardo Dati: vd. A. Mita Ferraro, Matteo Palmieri. Una biografia intellettuale, con una prefazione di C. Vasoli, Genova, Name, 2005, pp. 298-299. In queste pagine Mita Ferraro mette in discussione la relazione stabilita dalla critica albertiana tra la Famiglia e la Vita civile: anticipando la composizione dell’opera di Palmieri al 1434-1435, ipotizza che vi siano influenze reciproche tra le due opere. Si tratta, però, solo di un'ipotesi, che potrà essere verificata quando sarà terminato il commento alla Viza civile cui sta lavorando la studiosa. 21 M. Danzi, In bene e utile della famiglia. Appunti sulla precettistica albertiana del governo domestico e la sua tradizione, in L. Chiavoni, G. Ferlisi, M.V. Grassi (a cura di), Leon Battista Alberti e il Quattrocento, Firenze, Olschki, 2001, pp. 107-140 e, anche se meno recente, M. Danzi, Tra oikos e polis: sul pensiero familiare di Leon Battista Alberti, in G. Bastia e M. Bolognani (a cura di), La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età moderna, Bologna, Il Nove, 1995, pp. 47-62. 22 ] titoli latini sono riportati nella edizione citata della Famiglia.
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non si comprende che «Ila riflessione medioevale sulla domus è la lingua implicita con cui, a Quattrocento inoltrato, Alberti parla del governo della casa, dei ruoli diversi e complementari della madre e del padre, dell’educazione dei figli, della buona amministrazione familiare e della necessità dell’amicizia in una maniera mai prima di allora così articolata, il quarto libro della Famiglia sembra un’aggiunta posticcia». In realtà, la presenza del quarto libro risponde «alle ragioni cogenti di una riflessione che, da Cicerone al Medioevo, valorizza, per la vita delle famiglie e, poi, degli stati, l’amicizia intesa come indispensabile rete di rapporti e alleanze sociali»23. La Famiglia si distingue dai libri di memorie familiari e ricordi mercantili, scritti soprattutto in Toscana nel Duecento e nel Trecento24, perché è qualcosa di più di un trattato de re familiari. Alberti, infatti, non racconta la storia della sua casata, ma propone un’immagine molto idealizzata della propria famiglia: come nota Garin, «la famiglia che Alberti vagheggia non è mai esistita, non esiste e non esisterà mai, perché è un sogno impastato di tante cose reali, ma tutte trasfigurate e connesse [...] in una favola morale»?5. Nella Famiglia, diversamente che nei libri di ricordi e memorie, non si trova semplicemente una precettistica empirica relativa alla
vita domestica. Come sostiene Gorni, senza tradire la topica e la tipologia del genere cui appartiene l’opera che compone, Alberti propone un «sistema sul bene e beato vivere», che va letto come una «summa di vita civile»?6. I precetti impartiti dagli interlo23 Danzi, In bene e utile della famiglia. Appunti sulla precettistica albertiana del governo domestico e la sua tradizione, cit., p. 109. { 24 Vd. almeno D. Herlihy e Ch. Klapisch Zuber, Les Toscans et leurs familles: une étude du catasto florentin de 1427, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1978; trad. it. I Toscani e le loro famiglie: uno studio sul catasto fiorentino, Bologna, il Mulino, 1988. 25 Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 1 Per un ritratto, cit., p. 166. 26 Vd, G. Gorni, Dalla famiglia alla corte: itinerari e allegorie nell’opera di Leon Battista Alberti, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLII, 1981, 2, pp. 241-256, in particolare p. 246. Quando propone di accostare la Famiglia alla Vita civile Gorni sostiene che non è un libro de re familiare, ma con questo termine indica i libri di memorie familiari e i ricordi mercantili, non i trattati di scientia oeconomica cui si riferisce Danzi. Io utilizzo il termine «trattato de re familiari» con l’accezione con cui lo usa Danzi.
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cutori della Famiglia, infatti, servono a fare dei giovani Carlo e Battista non solo dei buoni patres familias, ma anche dei buoni cittadini. Per questo, l’opera di Alberti è generalmente accostata
alla Vita civile di Matteo Palmieri?7. Sebbene lo sforzo attuato per
far coincidere etica familiare e vita civile attraverso l’educazione dell’individuo sia costante, le diverse prospettive da cui muove la riflessione albertiana generano spesso tensioni. Si deve inoltre considerare che la Famiglia è l’opera più complessa mai scritta da Alberti28. Nove interlocutori sono sapientemente alternati in questo dialogo che registra fino a sei diversi interventi nella stessa discussione, dura due giorni ed è ambientato nella casa padovana in cui abitava Lorenzo Alberti, il padre dell’autore che in punto di morte affida i giovani figli alle cure dei familiari2?. Segnalano l’entrata in scena, il ritorno, o l’uscita degli interlocutori diverse
pause interne, che servono anche a dare ordine agli argomenti trattati nel dialogo. La complessità dell’opera è notevole anche perché la Famiglia è l’audace trasferimento in volgare dello schema storico e narrativo del De oratore di Cicerone: Lionardo corrisponde a Crasso, Adovardo
ad Antonio,
Giannozzo
a Scevola.
Non
27 Oltre a Gorni, vd. anche H. Baron, Leon Battista Alberti as an Heir and Critic of Florentine Civic Humanism, in Id., In search of Florentine Civic Humanism: Essays on Transition from Medieval to Modern Thought, Princeton, Princeton UP, 1988, p. 258 e
p. 288 (solo un accenno in H. Baron, The Crisis of the Early Italian Renaissance: Civic Humanism and Republican Liberty in an Age of Classicism and Tyranny, Princeton N.J., Princeton UP, 1955; trad. it. La crisi del primo Rinascimento italiano: umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, ed. rivista e aggiornata, Firenze, Sansoni, 1970, p. 377) e Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, cit., p. 129, dove viene però messa in luce la mancanza di spirito repubblicano che distinguerebbe l’opera di Alberti da quella di Palmieri. 28 Furlan, À l’origin du dialogue en vulgaire: le ‘ragionare domestico e familiare”, Cit Pal. 62:
29 LdF, pp. 15-16. 30 Per l’influenza del De oratore di Cicerone sulla Famiglia, oltre a D. Marsh, The Quattrocento Dialogue: Classical Tradition and Humanist Innovation, Cambridge, Cambridge UP, 1980, vd. anche D’Ascia, Tecnica dialogica e tematica politica nell’Alberti volgare, cit., p. 204. Le analisi di D’Ascia sono molto diverse da quelle di Furlan, sebbene entrambi gli studiosi evidenzino la complessità formale della Famiglia ponendo questa opera in relazione ad altre opere in volgare: D’Ascia sostiene che la cornice
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trova riscontro in questa, né in altre opere di Cicerone, il «cortigiano Piero», che come vedremo è il personaggio chiave per la riflessione sull’amicizia delineata nel quarto libro3!. Non è l’unico aspetto che distingue la Famiglia dal De oratore: diversamente da Cicerone, Alberti è anche uno degli interlocutori del dialogo. Tuttavia sarebbe un errore credere che il giovane Battista, presente sulla scena sin dal primo libro della Famiglia, sia il portavoce di Alberti, perché il pensiero dell’autore emerge, peraltro non sempre chiaramente, solo dallo scambio di opinioni che avviene di volta in volta tra i protagonisti del dialogo. Conformemente al modello ciceroniano di riferimento, nella
Famiglia le circostanze della conversazione sono ben definite. Inoltre, i personaggi esemplificano diversi atteggiamenti psico-
logici. L’amara situazione che fa da cornice al dialogo, velato dalle ombre della morte e dell’esilio32, infatti, è recepita in modo diverso dagli interlocutori: il «litterato» Lionardo dà voce ad un ragionato pessimismo, intimo e privo di riferimenti storici; il «massaro» Giannozzo vede nelle vicissitudini che vive la famiglia un limite intrinseco alla praticabilità degli ideali etici ed economici che propone ai parenti; il «buon padre» Lorenzo colora le sue parole degli stessi toni malinconici e patetici che traspaiono dai discorsi di Adovardo. Questi illustra il contrasto tra sentimenti e ragione quando spiega a Lionardo le preoccupazioni cui sono
soggetti i padri. Come evidenzia D’Ascia, Alberti abbozza anche una tipologia di affezioni emotive e irrazionali dell’animo, sofferfamiliare del dialogo sia incompatibile con l’esaltazione della vita civile proposta in esso, considerando «il continuo mutamento della prospettiva dell’enunciazione» come un segno della mancata conciliazione di etica familiare ed etica umanistica (p. 211 e p. 208); Furlan crede che la riflessione sulla famiglia sia un tentativo cosciente di lettura della realtà umana che è teso a valorizzare la dimensione quotidiana dell’esistenza, ed è portato a compimento con il De iciarchia, in cui risulta più chiaro il ruolo della famiglia per la coesione del tessuto sociale e lo sviluppo individuale. 31 E. Narducci, Tra Alcibiade e Catilina. Spunti «ciceroniani» in Leon Battista Alberti (amicizia, adulazione, simulazione), in Id., Cicerone e i suoi interpreti. Studi sull’opera e la fortuna, Pisa, ETS, 2004, pp. 241-275, in particolare pp. 250-252, dove sono individuate alcune citazioni tratte dalla Vita Attici di Cornelio Nepote che Alberti mette in bocca a Piero. 32 LdF, pp. 16-17, ma anche p. 31 e p. 47.
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mandosi sull'amore paterno, che è rappresentato da Adovardo, e sull'amore sensuale, che è rappresentato da Battista33. Inoltre, il serrato confronto con cui Lionardo spiega a Battista che l’amicizia deve essere preferita all'amore sensuale è una vera e propria declamatio in utramquem partem, una delle dispute in cui gli interlocutori oppongono tesi contrapposte, seguendo una precisa dialettica dell’argomentazione. Tali dispute rendono ancora più difficile la comprensione del dialogo, perché il significato delle tesi sostenute può essere valutato solo alla fine della discussione, e va spesso riconsiderato alla luce del contesto più generale in cui essa è inserita. Si assiste altresì ad un continuo mutamento della prospettiva dell’enunciazione. Infatti, i precetti che i giovani Carlo e Battista devono seguire per diventare buoni padri di famiglia e buoni cittadini sono comunicati in modi molto diversi dagli interlocutori del dialogo: essi alternano consigli pratici ed ammonimenti; si lanciano in invettive, come quella di Giannozzo contro gli uomini che desiderano «avere stato»; affrontano speculazioni filosofiche, come quella di Lionardo sulla natura divina dell’uomo; trasformano il dialogo in un racconto, come fa Piero spiegando in che modo sia diventato amico dei principi; si soffermano a lungo su un argomento propo-
nendo un vero e proprio trattato, come fa Adovardo riflettendo sulle caratteristiche dell'amicizia nella seconda parte del quarto libro della Famiglia. Si deve infine notare che i temi proposti nel primo libro, che funge da introduzione ai libri successivi, vengono ripresi più volte, per essere messi a fuco da diverse angolature. Questo avviene per il tema della masserizia, ma anche per quello dell’amicizia. Poiché la Famiglia non è un’opera di facile lettura, prima di affrontare l’analisi del De amicitia, mi soffermerò su alcuni temi e su alcuni problemi, connessi all’amicizia, che emergono nei primi tre libri. 33 D’Ascia, Tecnica dialogica e tematica politica nell’Alberti volgare, cit., pp. 205-206, dove si fa riferimento alla «re-interpretazione in chiave psicologica» della dottrina platonica del Fedro proposta nei Profugiorum, e p. 207, per la disputa tra Lionardo e Battista come declamatio in utramquem partem tipicamente umanistica.
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1.2 Nel segno dell’amicizia: temi e problemi dei primi tre libri della Famiglia
La riflessione pedagogica di Lorenzo e Lionardo: amicizia e virtù Come si evince chiaramente dal prologo dell’opera, il tema chiave della Famiglia è quello della virtù. Opponendo la virtù alla fortuna, Alberti nota quante famiglie siano «cadute e ruinate» per l’instabilità e la mutevolezza della fortuna persino dopo aver raggiunto la grandezza dei «Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Marcelli». Sottolinea così la capacità di resistere alle avversità di cui ha dato prova la sua famiglia durante l’esilio. Mostra dunque che il potere della fortuna può e deve essere limitato dalla forza della virtù34. Sostenendo che gli uomini accusano la fortuna senza motivo, perché sono i soli responsabili delle loro sventure, Alberti inizia un elogio che raggiunge l’apice quando dichiara con toni perentori che «tiene gioco alla fortuna solo a chi se gli sottomette». Per Alberti, infatti, «solo è sanza virtù chi nolla vuole»35.
Questa concezione del rapporto esistente tra virtù e fortuna poggia su un’idea condivisa dagli autori delle opere che saranno esaminate nella seconda parte del saggio: con toni e sfumature diverse, anch’essi sottolineano che l’uomo è artefice e padrone del proprio destino. La peculiarità della prospettiva albertiana non 34 LdF, pp. 3-5. Il paragone implicito tra la famiglia Alberti e le grandi famiglie di Roma mostra chiaramente che Alberti propone un’immagine idealizzata della propria famiglia. In LdF, p. 174 gli esempi di famiglie cadute in rovina non sono antichi, ma contemporanei: oltre alla famiglia degli Alberti, «perseguitata dalla fortuna», vengono menzionate grandi famiglie fiorentine come quelle dei Cerchi, dei Peruzzi, degli Spini e dei Ricci. 35 LdF, p. 7: «Come confesseremo noi non esser più nostro che della fortuna, che
noi con sollecitudine e diligenza delibereremo mantenere e conservare? Non è potere della fortuna, non è come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tien gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette» e LdF, p. 10: «Così adunque si può statuire la fortuna essere invalida e debolissima a rapirci qualunque nostra minima virtù, e dobbiamo giudicare la virtù sufficiente a contendere e occupare ogni sublime ed eccelsa cosa, amplissimi principati, supreme laude, eterna fama e immortal gloria. E conviensi non dubitare che cosa qual sia, ove tu la cerchi e ami, non tè più facile ad averla e ad ottenerla che la virtù. Solo è sanza virtù chi non la vuole».
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deve, però, essere ignorata: nella Famiglia la virtù è allo stesso tempo virtù dell’uomo, virtù delle grandi famiglie e virtù politica. La storia delle repubbliche e dei principati mostra, infatti, che la gloria conquistata dall’individuo viene aumentata e mantenuta solo grazie alle «buone e sancte discipline del vivere»3*. Il risvolto politico dell’elogio della virtù diventa ancora più evidente quando Alberti sottolinea che «nelle cose civili e nel vivere degli uomini» la ragione vale più della fortuna, e precisa che la prudenza conta più del caso: «famiglie, repubbliche e principati cadono nell’infelicità per mancanza di prudenza e diligenza»37. L'esempio proposto per confermare questa tesi è quello delle «civili dissensioni» che hanno causato la rovina dell’Italia romana, «capo e arce dell’universo mundo» quando era «unita, unanime e concorde a mantenere virtù»38.
Proprio perché la virtù è più forte della fortuna, proprio perché l’uomo è l’artefice del proprio destino, l’educazione dei figli ha un ruolo chiave. La riflessione pedagogica sviluppata nel primo libro della Famiglia è posta immediatamente sotto il segno dell’amicizia. Adovardo accetta, infatti, il compito che gli ha assegnato Lorenzo, quando ha affidato i suoi giovani figli alle cure dei familiari, sottolineando che «ha più forza l’amistà che ‘1 parentado»3?. Il significato di queste parole può essere meglio compreso se si considera che l’amicizia è un legame capace di rafforzare ed estendere i legami di sangue con l’affetto, come emerge già nel Laelius ciceroniano*9. Anche Platina, nel De principe, analizzerà il rapporto esistente tra amicizia e parentela. Occorre ora precisare che ha senso chiedesi se l’amicizia conti più della parentela e che è possibile identificare «cari parenti» e 36 LdE, p. 5: «Vero, e cerchisi le republice, ponghisi a mente tutti e’ passati principati: troverassi che ad acquistare e multiplicare, mantenere e conservare la maiestate e gloria già conseguita, in alcuna mai più valse la fortuna che le buone e sante discipline del vivere».
37 LdE p. 11.
38 LdF, pp. 8-9. 39 LdE, p. 16. 40 A, V, 19, p. 93. Si noti che questo passo del Laelius è ripreso anche in LdF, p. 116, con esplicito riferimento a Cicerone.
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«veri amici» come fa Lorenzo rispondendo a Lionardo, perché i rapporti di amicizia sono collocati all’interno della famiglia già da Vincenzo di Beauvais. Inoltre, come si vedrà meglio analizzando il De regimine principum di Egidio Romano, i rapporti tra i membri della famiglia sono tradizionalmente ed aristotelicamente considerati delle forme di amicizia4!. Questa concezione emerge chiaramente nel passo della Famiglia in cui Adovardo, dopo aver fatto un cenno alla dottrina platonica dei quattro furori, contrappone la «passione venerea» alla «vera amicizia» ed identifica questa forma di amicizia con l’amore dei padri verso i figli42. Si fa ancora più evidente nel secondo libro, quando Lionardo spiega la contrapposizione introdotta da Adovardo chiarendo la natura del rapporto esistente tra amore e amicizia: l’amicizia è la relazione su cui si basano tutti i rapporti familiari, quello tra padre e figlio, ma anche quello tra moglie e marito. Come si evince dalle parole con cui Lorenzo introduce il tema pedagogico nel dialogo, i giovani devono essere educati all’esercizio della virtù per imparare ad essere felici e ad usare in modo corretto le ricchezze della famiglia43. La virtù non è mai definita, ma è descritta come un composto di diversi elementi: la pazienza che permette di resistere alle avversità della fortuna, il desiderio costante di vincere le iniquità degli uomini, la umanità e la discrezione, che rendono capaci di frequentare gli uomini. Il più importante di questi elementi è la prudenza, identificata nel terzo libro della Famiglia con la qualità che contraddistingue il buon amministratore della casa. Poiché si dice espressamente che il vizioso non stima l’amicizia*4, l'educazione alla virtà è la premessa della riflessione sviluppata nel quarto libro della Famiglia. Inoltre, 41 Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, nello Speculum Maius Vincenzo di Beauvais colloca l’amicizia all’interno della famiglia, mentre nel De regimine principum Egidio Romano sostiene che tutti i rapporti tra i membri della famiglia siano forme d’amicizia riprendendo alcuni passi dell’Etica Nicomachea. Vd. EN, VII, 1161b 11-1162a 32, pp. 345-349. 42 LdF, pp. 31-32; come chiarisce Tenenti in nota, la dottrina dei quattro furori è quella esposta da Platone nel Fedro. 43 LdF, pp. 29-31. La descrizione della virtù è in LdF, p. 31. #:LdEp. 69.
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l'amicizia sembra essere parte integrante della felicità che è stata posta come fine dell’educazione: «beatissimo colui el quale si porge ornato di costumi, forte d’amicizie, copioso di favori e grazia fra’ suoi cittadini»45. Mettendo in bocca a Lorenzo questa affermazione, Alberti inizia a chiarire che la felicità si realizza
nelle città: gli uomini devono essere educati anche per imparare ad essere dei buoni cittadini*6. Anzi, i giovani membri della famiglia Alberti devono essere educati per essere migliori degli altri cittadini: il desiderio di lode, fama e onore è la leva da muovere per insegnare come vincere i vizi.
La riflessione pedagogica sviluppata nel primo libro dell’opera poggia su un’idea fondamentale, secondo la quale il governo del padre sui figli non deve essere un governo dispotico o tirannico: il buon padre deve esercitare la propria autorità facendo in modo di non essere temuto, ma amato, dai figli48. Sostenendo questa tesi,
Lorenzo fa esplicitamente riferimento ad un passo del De officiis di Cicerone che è utilizzato anche nelle opere che saranno esaminate nella seconda parte del saggio per descrivere il rapporto che unisce governanti e governati, principi e sudditi. Basti per ora notare che è un riferimento particolarmente significativo. Come si vedrà meglio nel corso dell’analisi, questo riferimento sarà ripreso alla fine del quarto libro della Famiglia, quando Adovardo 45 LdF, p. 32, ma si veda tutta la conclusione dell’intervento di Lorenzo, fino a p. 33. 46 Vd. anche il discorso di Messer Benedetto riportato da Adovardo in LdF, pp. 20-24, dove si afferma che gli antichi spartani, il modello che i padri devono imitare nell'educazione dei giovani, procuravano gloria e onore alla patria rendendo la gioventù più moderata e più civile. 47 LdF, p. 81, in particolare: «pare a me che in ciascuno non in tutto freddo e tardo d’intelletti di natura sia immersa molta cupidità di lode e gloria, e per questo, e’ giovani animosi e generosi più che gli altri desiderano essere lodati. E pertanto molto gioverà e con parole incedere ne’ figliuoli molto amore alle cose lodate, e in loro confermare odio grandissimo contro alle cose disoneste e brutte». Sul desiderio di lode e gloria da parte dei giovani Alberti vd. anche Alberti, De iciarchia, cit., pp. 189-191, dove si dice che i giovani Alberti desiderano essere principi, cioè primi tra i cittadini. 48 LdF, p. 19: «Vero è che io sempre con ogni industria e arte mi sono sempre ingegnato d’essere da tutti amato più che temuto, né mai a me piacque appresso di chi mi riputasse padre volere ivi parere signore. E così costoro [Battista e Carlo] sono stati da sempre ubbidienti, riverenti, e hannomi ascoltato molto e seguito i comandamenti miei»; da confrontare con LdF, pp. 427-428.
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si accingerà a spigare cosa deve fare il principe per essere amato, mettendo in luce le affinità esistenti tra le qualità del buon padre e dell’ottimo principe. Chiarita la tesi su cui poggia la riflessione proposta nel primo libro dell’opera di Alberti, è possibile precisare che gli interlocutori del dialogo delineano una pedagogia delle relazioni analoga a quella che emergerà analizzando la Vita civile di Palmieri. Quando Lorenzo affida i propri figli alle cure dei familiari, chiarisce infatti che i giovani non devono essere educati solo a «vivere liberi, lieti, onorati», ma devono anche imparare a «farsi voler
bene e amare». Per questo, egli insiste molto sul rispetto che i giovani devono ai padri ed ai parenti più anziani°0, Pone inoltre l’accento sulla pericolosità delle cattive frequentazioni, le «disoneste compagnie» che riescono a corrompere persino le nature
meglio predisposte alla virtù5!. Quando Lorenzo esce di scena per la stanchezza e il bisogno di riposo, la riflessione prosegue con le considerazioni di Lionardo ed Adovardo. Rispondendo alle domande con cui questi mette in evidenza le preoccupazioni e le difficoltà dei padri, Lionardo espone
i precetti che devono
essere rispettati per educare
i
figli, seguendo da vicino il De liberis educandis di PlutarcoS2. Il discorso diventa sempre più tecnico. Tuttavia, il dialogo non assume un tono didascalico. Inizia infatti una delle dispute più importanti dell’opera. I toni sdegnosi con cui Lionardo è pronto a minimizzare le preoccupazioni dei padri, fino a sostenere con tesi stoiccheggianti che non bisogna preoccuparsi nemmeno della
49 LdE, p.27. SO LdF, pp. 27-28. S1 LdE, p. 76. S2 Per una recente edizione dell’opera vd. Plutarco, Moralia II, L'educazione dei ragazzi, a cura di G. Pisani, Roma, Biblioteca dell’Immagine,1990, che oltre al De liberis educandis contiene anche altri opuscoli pedagogici (Quomodo adulescens poetas audire debet, De recta ratione audiendi, De musica). Danzi evidenzia (Danzi, In bene e utile della famiglia, cit., pp. 134-135) che la trattazione del tema della balia non dipende da Plutarco, ma dalle Noctes Atticae (XII, 1) di Gellio, come nella Vita civile di Palmieri, anche se questi segue la riflessione pedagogica dell’Institutio oratoria di Quintiliano.
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morte dei figli perché si deve temere solo ciò cui non si può porre rimedio, possono essere valutati nella giusta prospettiva alla fine del primo libro. Solo quando la riflessione sull’educazione è ormai conclusa, infatti, ci si accorge che Adovardo ha fatto di tutto per
cercare di convincere Lionardo a formare una famiglia$3. Colpisce che Alberti affidi a chi non ha moglie né figli il compito di esporre i precetti da seguire nell’educazione dei giovani, ma forse è un riflesso autobiografico della sua condizione: rimasto orfano del padre in giovane età, Alberti non avrà nè moglie nè figli54. I precetti educativi proposti da Adovardo e Lionardo si
fondano sull’equazione tra natura e virtù. La virtù, infatti, non è
«altro se nonne in sé perfetta e ben prodotta natura». Natura e virtà possono essere identificate perché Lionardo ha già chiarito che l’uomo è un animale razionale, un essere capace per natura di esprimere pensieri e passioni e di distinguere il bene dal male56. Quando Lionardo esorta i padri ad educare i figli rispettando il loro carattere, risulta evidente quale influenza eserciti su questa concezione la teoria degli umori. Mentre i giovani «sanguinei» devono dedicarsi all’esercizio delle armi, i «flemmatici» vanno
indirizzati allo studio delle lettere97. L’invito a rispettare l’indole naturale dei giovani non troverà riscontro in nessuna delle altre opere esaminate in questo saggio. Non credo che sia solo un riflesso della lotta combattuta da Alberti per dedicarsi agli studi
53 LdF, p. 98. 54 Per un’analisi più approfondita di questo aspetto: N. Bianchi Bensimon, L’immagine paterna come archetipo in alcuni dialoghi volgari dell’Alberti, in «Albertiana»,
V, 2002, pp. 77-88. SS LdF, p. 75.
56 LdF, p. 54: «la natura, ottima costitutrice delle cose, volle nell’uomo non solo che viva palese in mezzo degli altri uomini, ma certo ancora pare gli abbia imposto necessità che con ragionamento e con altri modi comunichi e discopra a medesimi uomini ogni sua passione e affezione e raro patisce in alcuno rimanere o pensiero o fatto ascoso [...]»; e LdE, p. 55: «Più nello ingegno e intelletto de’ mortali have ancora inseminato la natura e inceso una cognizione e lume di infinite e occultissme ragioni di ferme e propinque cagioni, colle quali conosca onde e a che fine sieno nate le cose. E aggiunsevi una divina e meravigliosa forza di distinguere ed eleggere di tutte le cose qual sia buona e qual nociva, qual mala e qual salutifera, quale accomodata e quale contraria». 57 LdF, pp. 75-76.
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che più amava. Infatti, la consapevolezza della diversità dei caratteri è un assunto filosofico che condiziona fortemente anche la riflessione sull’amicizia proposta nell’ultimo libro della Famiglia. Comune a tutte le altre opere esaminate e tipicamente umanistico è invece l’elogio delle «sacre lettere» proposto prima che sia minuziosamente descritto il programma di studi necessario «all’uso e vivere civile»58. Le lettere non sono solamente utili,
ma addirittura «necessarie a chi regge e governa le cose» perché procurano quella forza nel persuadere e nell’argomentare che consente di essere ascoltati, ammirati e lodati dai concittadini5?. Le sfumature autobiografiche dell’elogio sono evidenti: quando Alberti sottolinea l’eccellenza raggiunta dai membri della sua famiglia, e da loro messa a servizio della patria, legittima la scelta di vita che ha faticosamente intrapreso®0. Forse è più interessante notare che la vita dello studioso deve essere preferita alla vita del soldato perché la terra da cui provengono gli Alberti «non patisce che de’ suoi alcuno cresca troppo nelle vittorie dell’armi», essendo assai pericoloso «se chi have adempiere nella repubblica le sue voluntà con favore e amore degli altri cittadini, potesse con minacce e forza d’arme eseguire quanto l’animo il trasporta, quanto la fortuna si gli porge, quanto il tempo e condizioni delle cose gli accede e persuade»6!. Queste parole evidenziano il valore e la funzione politica dell'educazione: non servono soldati, ma
58 LdF, pp. 82-90, in particolare p. 83 e p. 88. L'educazione non è solo educazione della mente, ma anche educazione del corpo: si vedano, per esempio, le considerazioni di Lionardo sulla caccia e i giochi in LdF, pp. 86-87. 59 LdF, p. 85. 60 LdF, p. 83 («Tutti i nostri Alberti quasi sono stati molto letterati»; «Non mi stendo a lodare messer Alberto, questo nostro lume di scienza e splendore della nostra famiglia Alberta [...]»; «Adunque a una famiglia, massime alla nostra, la quale in ogni cosa, in prima e nelle lettere fu sempre eccellentissima») e p. 85 («Dimentichianci noi Alberti — così vuole la nostra fortuna testè — dimentichianci le nostre antiche lode utili alla republica e conosciute e amate da’ nostri cittadini, nelle quali fu sempre adoperata molto la famiglia nostra, solo per la gran copia de? literati, prudentissimi uomini quali sopra tutti gli altri al continovo nella nostra famiglia fiorivano». 61 LdF, p. 49. Si noti che poche righe dopo (LdE, p. 50) l'avidità di ricchezze dei fiorentini è contrapposta alla brama di vittoria degli spartani, popolo citato più volte come esempio di moderazione e virtù.
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uomini istruiti nelle lettere, perché la cultura umanistica è un elemento costitutivo della libertà di Firenze. Sostenendo questo, Alberti non manca di ribadire, per bocca di Adovardo, che la vita dello studioso è una vita difficile e nota anche che «non fa la terra nostra troppo pregio de’ litterati, anzi più tosto pare tutta
studiosa al guadagno e cupida di ricchezze». Non è tanto una condanna della ricchezza, quanto piuttosto una denuncia della corruzione morale di Firenze, città in cui «tutti pare crescano alla industria del guadagno» e «ogni pensiero s’argomenta ad acquistare», Alberti criticherà la corruzione morale di Firenze anche in altri passi della Famiglia, in particolare nel terzo libro, attraverso l’invettiva di Giannozzo contro gli «statuali» che sarà esaminata in seguito. Alberti denuncia l’avidità dei concittadini, ma non condanna
la ricchezza in un’opera scritta per celebrare la grandezza di una delle più facoltose famiglie fiorentine. Si preoccupa soprattutto di spiegare che deve essere usata in un certo modo. Come dimostrano Adovardo e Lionardo, infatti, i giovani devono imparare a non
anteporre mai i beni materiali alla lode e alla fama generata dalla virtù, devono essere educati a non considerare mai la ricchezza come un fine in sé, e devono evitare di arricchirsi a danno della libertà, loro ed altrui63. La virtù è così assimilata alla modera-
zione ed alla modestia nell’uso delle ricchezze. Il ragionamento poggia su un assunto stoico che emerge con particolare chiarezza quando Lionardo precisa che per usare correttamente le ricchezze bisogna «imparare a reggere» se stessi, e ad «emendare gli appetiti e le volontà»54. La possibilità di amministrare bene la casa e
62 LdF, p. 49, ma vd. anche LdF, p. 177, dove Lionardo ricorda che «gli esercizii delle lettere si truovano sottoposti a mille impeti della fortuna» e, con riferimenti auto‘biografici ancora più evidenti: «ora mancano e’ padri; ora seguono e’ parenti invidiosi, duri, inumani; ora t’assalisce la povertà, ora cadi in qualche infortunio». 63 LdF, p. 31, pp. 64-65 ed anche pp. 96-97, dove si dice che: «E se tu annovererai bene, più troverrai virtuosi poveri che ricchi. La vita dell’uomo si contenta di poco. La virtù è troppa di sé stessa contenta. Assai sarà ricco chi viverà contento».
64 LdF, p. 65.
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le altre qualità che contraddistinguono il buon padre di famiglia dipendono dunque dalla capacità di governare se stessi. La disputa tra Lionardo e Battista: amore e amicizia Anche il secondo libro della Famiglia si apre nel segno dell’amicizia. Lionardo spiega a Battista che Adovardo, ritiratosi dalla discussione per l’arrivo del suocero Ricciardo, ha posposto la vera amicizia all’amore che unisce padri e figli proprio perché ha perso molte delle antiche amicizie a causa dell’esilio65. Quando Lionardo sottolinea che gli Alberti sono stati «schifati» dagli amici di un tempo non appena sono stati allontanati da Firenze, si chiarisce un aspetto importante della prospettiva albertiana. Come già accennato nel precedente paragrafo, per comprendere il senso della riflessione sull’amicizia sviluppata nel quarto libro della Famiglia, si deve tenere ben presente che l’esilio ha sconvolto le reti amicali costruite dagli Alberti. Come si vedrà meglio in seguito, Piero cerca l’amicizia dei principi anche perché non può contare sull’appoggio e la protezione dei suoi concittadini. Ricordando a Battista che nessuna cosa è utile per vivere bene quanto l’amicizia, Lionardo colloca l’amicizia al suo posto, mettendola prima di ogni altra cosa e subito dopo la virtù:
«persuadetevi al tutto, come fo io a me stessi, questa vera una amicizia, nella vita de’ mortali doppo la virtù deve essere tale che molto sé stessi possa non solo agli altri amori, ma a qual sia cara
e pregiata cosa preferirsi e soprastare»66, È evidente il richiamo all’Etica Nicomachea perché, come è noto, Aristotele comincia la riflessione sulla philia sostenendo appunto che «l’amicizia è una certa virtù o è connessa alla virtù». Inoltre, secondo Aristo-
65 LdF, pp. 102-103: «E così le nostre vere amicizie né hanno seguito il nostro esilio, né quegli animi già a noi benevoli ora sofferano esser compagni alla nostra calamità e miseria. Rimasono nella patria nostra gli antichi meriti insieme colle vere amicizie perduti. E ora qui fuori molti solevano monstrarsi a noi amorevoli e domestici, e quali da lungi ora ci schifano». (66 LdF, p. 102.
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tele, «nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni»67. Non deve, però, sfuggire il riferimento al Laelius: non è Aristotele a parlare di vera et perfecta amicitia, ma Cicerone88. Sostenendo che le vere amicizie sono la forma di amore più stabile e più forte, Lionardo inizia una disputa con Battista, che non riconosce il primato dell’amicizia e la ritiene inferiore all’amore$?. Si potrebbe sottolineare che il rapporto tra amore e amicizia viene analizzato in numerosi trattati e dialoghi umanistici, dal commento di Ficino al Simposio di Platone, ai Dialoghi d’amore di Leone Ebreo?0. Preferisco, invece, evidenziare che la
disputa fa emergere la dimensione etica dell’amicizia, mettendo in luce alcune caratteristiche morali della relazione che saranno riprese in tutte le opere esaminate nei prossimi capitoli.
Battista descrive l’amore come un «appetito naturale», una forza travolgente e impetuosa cui gli uomini resistono meno degli animali, soprattutto se giovani7!. Attraverso una serie di esempi, tra cui quello di Pompeo, dimostra che l’amore ha distolto i più grandi uomini del passato dalla ricerca di gloria, vincendo il loro desiderio di fama e onori72. Non nega che il rapporto coniugale sia quella vera e perfetta amicizia che ritiene utilissima per reggere la famiglia, ma introduce una nuova serie di esempi per provare che per amore degli amanti sono stati uccisi mariti e figli73. Tali esempi mostrano chiaramente che l’amore è una passione, inarrestabile e dirompente. Quando Battista nota che nemmeno i filo67 EN, VII, 1155a 1-5, p.311. 68 A, VI, 20-22, pp. 93-97. 69 LdF, pp. 104-105. Il termine «disputa» è usato dello stesso Lionardo, che invita Battista ad argomentare per contraddirlo. 70 Per una lista dei trattati e dei dialoghi d’amore scritti nel XVI secolo in Italia vd. S. Prandi, Il «Cortegiano» Ferrarese: i «Discorsi» di Annibale Romei e la cultura nobiliare nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 1990, pp. 211-218.
71 LdF, p. 105.
72 LdF, p. 106. 73 LdF, pp. 107-109, in particolare: «Non mi stendo in raccontare quanta grande utilità si tragga da questa coniugale amicizia e sodalità, in conservare la casa domestica, in contenere la famiglia, in reggere e governare tutta la masserizia [...]. Ma pure, non so come, non raro si trova a chi più piace uno strano amante che il proprio marito [...]».
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sofi sono stati capaci di contenere la furia dell’amore con la virtù, che per primi hanno proposto come modello di vita, sembra che l’amore sia più forte di tutto74. La critica ai «famosissimi filosafi» è paradigmatica per diversi motivi: emerge la profondità della distanza che separa, come si vedrà con maggior evidenza nel quarto libro della Famiglia, teoria e prassi; si complica il quadro antropologico che fa da sfondo all’analisi albertiana, perché la virtù si contrappone alla passione oltre che al vizio; diventa infine sempre più evidente la componente platonica delle tesi del giovane Battista. Richiamandosi al Simposio, al Fedro ed allo Ione, questi svela la natura folle e divina dell’amore”5. Pur apprezzando la cultura che Battista dimostra di possedere, Lionardo ribalta le tesi del suo interlocutore chiarendo quale rapporto sussista tra amore e amicizia. L’amore di cui ha parlato Battista è «l’amore venereo»: corrisponde alla fase dell’innamoramento e deve essere distinto dall’amicizia. Essa è identificata con un altro tipo di amore, molto diverso perché «libero d’omni lascivia», che unisce «con onesta benevolenza» sia gli animi degli amici, sia quelli dei congiunti78. Non mi soffermo su questo punto perché ho già precisato che i rapporti familiari sono considerati delle forme di amicizia sin dal XIII secolo. Mi sembra però opportuno precisare che la vera e perfetta amicizia è posta come
modello dell’unione coniugale in diversi trattati quattrocenteschi sul matrimonio, per esempio nel De re uxoria che Francesco Barbaro compone nel 1415 come regalo per le nozze del fratello di Cosimo de’ Medici. L’identificazione dell'amore coniugale con la vera e perfetta amicizia è un topos della trattatistica quattrocentesca che sarà ripreso anche da Erasmo da Rotterdam”7. 74 LdE, pp. 109-111; sono vittime dell’amore due filosofi in particolare: il cirenaico Aristippo e l’epicureo Metrodoro. 75 LdE, p. 110 e p. 111. 76 LdE, pp. 111-112. 77 E. Barbaro, De re uxoria, in E. Garin (a cura di), I prosatori latini del Quattrocento, Torino, Einaudi, 1976-77. Come già sottolineato, anche Alberti scrive un De uxoria, che è analizzato in A. Tenenti, La res uxoria tra Francesco Barbaro e Leon
Battista Alberti, in M. Marangoni e M. Pastore Stocchi (a cura di), Una famiglia veneziana nella storia: iBarbaro, Atti del Convegno in occasione del quinto centenario della
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Dopo aver chiarito che l’amore è una passione che non ha nulla a che vedere con le relazioni interne alla famiglia, Lionardo mostra che il furore degli innamorati non è una scintilla divina, bensì una libidine bestiale, «un appetito non naturale perché mosso
da volontà»,
che non
deve essere
assecondato?8.
La
grandezza dell’uomo dipende, infatti, dalla capacità di frenare e contenere ogni appetito lascivo con la forza della ragione??. Quando Lionardo precisa che «troppo sarebbe misera, e imbecillita la natura umana se a noi fosse forza sempre perseguire ogni nostro amatorio desiderio», non difende solo la forza della virtù, ma anche il valore dei precetti pedagogici impartiti per insegnare come ottenerla89. Come si vedrà nel corso delle analisi, anche
gli autori delle altre opere esaminate, ed in particolare Vicini, sosterranno che l’impeto delle passioni deve essere arginato dalla ragione. Soltanto Patrizi ritornerà, invece, sulla distinzione tra amore e amicizia, caratterizzando l’amore erotico come furore.
La dimensione etica dell’amicizia affiora non appena Lionardo chiarisce che non genera biasimo, vizio e crudeltà, come l’amore
venereo, bensì lode, onestà e pietà8!. L’amicizia è dotata di valore morale anche perché è un rapporto gratuito e disinteressato, come si evince dall’esempio di Oreste e Pilade, di Lelio e Scipione e di altre coppie di «veri amici» che sono stati disposti a morire per salvare la vita della persona cui erano legati da un affetto così profondo8?. Inoltre, mentre l’amore produce finzioni, preoccupazioni, sospetti, pentimenti e dolori, l'amicizia genera unità e morte dell’umanista Ermolao, Venezia 4-6 novembre 1993, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 1996, pp. 43-66. Per le radici aristoteliche delle riflessioni di
Alberti sull’unione coniugale e la condizione della donna vd. L. Mastrorosa, L’inferiorità politica e fisiologica della donna in Leon Battista Alberti: le radici aristoteliche, in G. Rossi (a cura di), La tradizione aristotelica nel Rinascimento europeo: tra familia e civitas, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 25-78. Per un quadro più generale, sino ad Erasmo: R. Leushuis, Le mariage et l’amitié courtoise dans le dialogue et le récit bref de la Renaissance, Firenze, Olschki, 2003.
78 LdE, pp. 113-115. 79 LdF, p. 113.
80 LdE, p. 114. 81 LdF, p. 115. 82 LdF, p. 116.
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concordia, perché porta a «volere e non volere quanto l’amico e l’onestà richiede»: come sostiene Lionardo, gli amici sono due persone con una sola anima83. Il valore morale dell’amicizia è, inoltre, strettamente connesso al suo significato esistenziale: senza amicizia, gli uomini non possono essere felici84. Sembra che l’amicizia abbia anche valore politico. Lionardo sostiene, infatti, che «le amicizie sono necessarie alle famiglie,
alle repubbliche e ai principati, in ogni età, in ogni vita, in ogni stato»85. È solo un accenno, ma credo che non sia poco rilevante, perché i giovani interlocutori di Lionardo sono immediatamente invitati ad «acquistare amici assai», amici che siano «utilissimi»
alla famiglia. Il significato e la funzione politica dell’amicizia non emergono appieno in questo contesto perché Lionardo sposta il piano dell’analisi, riportando l’attenzione sulla amministrazione della casa. L'amicizia appare allora come la più importante delle «cose» grazie alle quali la famiglia può essere «gloriosa e felice». Questo mutamento di prospettiva non impedisce di riconoscere che non sono necessarie solo le «piladee e lelie amicizie», cioè le amicizie fondate sull’onestà e la virtù, rare sebbene non impossibili da realizzare. Servono anche le «amicizie volgari», ossia le amicizie comuni, basate su una virtù meno perfetta di quella che ha unito Oreste e Pilade, Lelio e Scipione89. La distinzione tra
vera e perfetta amicizia ed amicizie mediocri o volgari formulata da Cicerone nel Laelius, come si vedrà in seguito, sarà proposta
anche da Vicini87. Grazie ad essa emerge il bisogno di mantenere la riflessione sull’amicizia a livello del quotidiano e dell’esperienza comune, lo stesso bisogno che contraddistingue la riflessione sviluppata nel quarto libro della Famiglia.
83 LdE, p. 118. 84 LdF, p. 115. 85 LdF, pp. 118-119. 86 In LdF, p. 116; Oreste e Pilade, Lelio e Scipione sono addotti come esempio di «vera e perfetta amistà»; in LdF, p. 117, ricorre l’espressione «piladee e lelie amicizie»; in LdF, p. 119, si fa riferimento alle «volgari amicizie». 87 A, VI, 22, p. 97.
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L'amicizia come fine delle attività umane Per soddisfare la richiesta di Battista, alla fine della disputa,
Lionardo svolge una riflessione sulle cose che rendono felice la famiglia88. Quando chiarisce che l’argomento deve essere trattato unendo considerazioni «disseminate e nascoste» nelle opere di molti scrittori greci (Platone, Aristotele, Senofonte, Plutarco, Teofrasto, Demostene e Basilio) e latini (Cicerone, Varrone, Catone, Columella, Plinio, Seneca), ed evidenzia che deve essere sviluppato con ragionamenti «domestici», adatti a giovani istruiti,
ma non «tinti di lettere»89, emergono alcune delle fatiche incontrate da Alberti nel rinnovare il linguaggio della domus. Il ricordo della grandezza raggiunta dalla famiglia prima dell’esilio continua ad essere sullo sfondo delle considerazioni di Lionardo?9. Nonostante si sottolinei subito quanto fosse «possente di grazie, favore e amicizie» la famiglia Alberti?!, l’importanza dell’amicizia emerge solo dopo una lunga serie di consigli che spiegano come e quale moglie prendere, quanti figli fare, come chiamarli, se adottarli... L’ordine dell’analisi si chiarisce quando Lionardo indica i quattro «precetti» fondamentali da cui dipende la felicità della famiglia, sostenendo che deve essere numerosa, agiata, capace di procurarsi buona fama e di aumentare le proprie amicizie evitando l’odio e l’invidia. I toni empirici e concreti del ragionamento si elevano gradualmente sino ai vertici della più alta speculazione filosofica, facendo prevalere la prospettiva individuale su quella familiare. Infatti, dopo aver esortato i suoi interlocutori a non lasciar «impigrire» la casa nell’ozio, che è considerato «origine e fabbrica d’ogni vizio», Lionardo identifica la felicità umana con l’azione?2. Gli
88 LdE, p. 120 e p. 123. 89 LdF, pp. 121-122.
90 LdF, p. 124; è un ricordo velato di nostalgia, con cui Lionardo «compensa la infelicità de’ tempi presenti».
91 LdF, p. 124.
92 LdF, p. 156 e p. 162: «Adunque si può statuire così: l’uomo essere fatto da natura a usufruttare le cose e nato per essere felice. Ma questa felicità non è da tutti conosciuta, anzi da diversi diversa stimata. Alcuni reputano felicità aver bisogno di
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assunti antropologici su cui poggia questa tesi sono chiariti dal confronto tra l’uomo e le altre specie animali, sempre impegnate in qualche attività per garantire la sopravvivenza della prole. Esso dimostra che l’uomo è «nato certo non per marcire giacendo, ma per stare facendo»?3. Un riferimento a non meglio specificati «filosafi antichi» e «passati teologi» consente di mettere in luce che «piace nell’uomo non ozio e cessazione, ma operazione e azione»?4. Celebrando la laboriosità dell’uomo, Lionardo stabilisce una precisa gerarchia tra vita attiva e vita contemplativa:
benché sia «fabbricato ritto con la fronte e col viso elevato per potere rimirare e contemplare i luoghi celesti», l’uomo è stato posto da Dio nel mondo non solo per essere «contemplatore» delle opere divine e «speculatore», ma anche per essere «operatore»95. Precisa, inoltre, che l’uomo è un essere attivo per natura perché è «quasi come un mortale Iddio felice, intendendo e facendo con ragione e virtù»?%. L’uomo non ha quindi solo una natura attiva, ma anche, ed allo stesso tempo, una natura divina. Questi passi della Famiglia possono essere accostati e confrontati con i passi della Vita civile in cui Palmieri celebra l’operosità e l’industriosità umana, oltre che con le orazioni de dignitate hominis di Giannozzo Manetti e Pico della Mirandola. Non deve, però, sfuggire la peculiarità della prospettiva albertiana: l’uomo è nato per piacere ad un Dio che Lionardo identifica con la stessa
nulla, e questi cercano le ricchezze, le potenze, e amplitudine. Alcuni reputano la felicità non sentire incarico o dispiacere alcuno, e questi si danno alle delizie e voluttà. Altri pongono la felicità in un luogo più erto e difficile aggiugnervi, ma più onesto [...]. Forse di questi ciascuno può aggiugnere non molto discosto dalla felicità adoperandosi con virtù, usando le cose con ragione e modo». 93 LdF, pp. 157-158. 94 LdF, p. 159.
95 LdF, p. 158. 96 Ibid.
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forza produttrice e creatrice della natura’. Come nota Garin?8, la natura di Alberti è «una natura stoica, che è forza divina immanente, fatta di fuoco animatore, di semi razionali di cose, di scin-
tille di vita» ed è «dominata da ritmi matematici». È una natura viva e sacra, che si esprime nella bellezza, nel generarsi armonioso degli esseri, in quel ritmo vitale che sembra prolungarsi nelle creazioni dell’architetto. Se si volesse far riferimento allo schema proposto da Paoli per sciogliere l'ambiguità del termine natura, si potrebbe dire che Alberti usa questa parola per indicare l’essenza dell’uomo, intesa sia come differenza specifica sia come «principio vitale» che fa sì che ogni individuo diventi ciò che è, ma anche per denominare il «mondo visibile», l’insieme delle cose che costituiscono la realtà. Per Alberti è natura anche la «dinamica del mondo», ossia il principio che anima tutte le cose, e la «volontà d’ordine», ossia il principio che fa del mondo una totalità ordinata e organizzata??. Comesiè appena detto, Dio si identifica con la natura. Lasciando in sospeso la spinosa questione della fede e della ortodossia di Alberti, può essere utile chiarire che il «vero e primo principio alle cose», non è solo il creatore dell’universo e dell’anima dell’uomo, ma anche l’incarnazione dell’armonia delle cose!0, Tale armonia 97 L’identificazione di Dio con la forza produttrice e creatrice della natura è evidente sin dalla critica che Lionardo muove ad Epicuro in LdF, p. 158 («Né mi può non dispiacere la sentenza dello Epicuro filosofo, el quale riputa in Dio somma felicità el far nulla»), ma vd. soprattutto LdE, p. 160: «Fece la natura, cioè Iddio, l’uomo composto parte celeste e parte divino, parte sopra ogni mortale formosissimo e nobilissimo». 98 Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 1 Per un ritratto, cit., p. 158. 99 Per i diversi significati del termine natura vd. M. Paoli, L’Idée de Nature chez . Leon Battista Alberti, Paris, Champion, 1999, pp. 125-128. Visti i fini delle ricerche in corso non sono interessanti solo le pagine in cui Paoli analizza i nessi esistenti tra natura e fortuna, natura e umanità, natura e stabilità (ivi, pp. 128-147), ma anche le pagine in cui esamina la nature dans la pensée socio-politique d’Alberti, riservando particolare attenzione alla Famiglia (ivi, pp. 151-181). Per la natura come potenza che governa tutte le cose secondo ragione, oltre che LdF, pp. 158-163, vd. anche LdE, pp. 44, 54 e 74. 100 Dio è definito come «vero e primo principio a tutte le cose» in LdF, p. 159. Non sono specificati altri attributi del creatore dell’anima dell’uomo e dell’universo in questi passi della Famiglia che, secondo Paoli, non contengono alcuna proposizione esplicitamente contraria alla dottrina cristiana, ma neppure qualche proposizione specificamente cristiana (Paoli, L’Idée de Nature chez Leon Battista Alberti, cit., pp.
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non è qualcosa di acquisito o già dato, perché si realizza solo se l’uomo sviluppa appieno la propria essenza di animale razionale ed attivo, e vive, come direbbero gli stoici, «secondo natura».
Come precisa Lionardo, l’uomo diventa tanto più simile a Dio quanto più è attivo nell’usare i doni che ha ricevuto, non solo la capacità di muoversi, ricordare, ragionare, parlare ed evitare ciò che è dannoso, ma anche la capacità di adoperare le cose. Citando una sentenza attribuita a Crisippo, secondo la quale ogni cosa è nata per servire all’uomo, questi sostiene che l’uomo è simile a Dio non perché è il signore della natura, ma perché è un artefice che plasma e trasforma le cose secondo i suoi bisogni!0!, Lionardo chiosa la citazione precisando che l’uomo è nato «per conservare compagnia e amistà far gli uomini»: nel momento in
cui l’uomo è divinizzato e posto al centro della natura come artefice, l’amicizia è posta al centro del mondo dell’uomo ed è indicata come fine delle attività umane. L'importanza dell’amicizia
111-112). Il problema dell’ortodossia di Alberti è molto complesso per diversi motivi: i riferimenti a Dio sono piuttosto rari nelle opere di Alberti; inoltre questi usa un linguaggio latinizzante, per cui non parla solo di Dio, ma anche degli dei e chiama Dio con il nome di Giove. Mentre studiosi come Mancini, Michel e Saitta hanno evidenziato «l’ossequio alle verità insegnate dal Vangelo» (G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, Firenze, Carnesecchi, 1911, p. 146), notando come umanesimo e cattolicesimo potessero vivere fianco a fianco «sènza urtarsi» (P.-H. Michel, Un idéal humain au XVe siècle. La pensée de Leon Baptiste Alberti, Paris, Les Belles Lettres, 1930, p. 548) nelle opere di un «cristiano stoicizzante» qual è Alberti (G. Saitta, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. I, L’Umanesimo, Bologna, Zuffi, 1949, p. 394), studiosi come Garin e Grayson hanno parlato di una religione senza misticismo, costruita sui basi sociali e morali (Garin, Studi su Leon Battista Alberti, cit., p. 187; C. Grayson, The Humanism of Leon Battista Alberti, in «Italian Studies», XII, 1957, p. 46). A tal proposito, può essere importante ricordare che Alberti non fa nessun riferimento al peccato originale, né alla ricompensa dei giusti dopo la morte, perché crede che l’uomo pratichi la virtù per interesse e sia punito dalla cattiva reputazione che procurano le azioni malvagie. Non si occupa neppure di problemi come la ricerca della salvezza, la natura di Cristo o la Trinità. Infine, pur non condannando come pagane le credenze religiose dei gentili, a differenza di altri umanisti, per esempio Pico della Mirandola, non afferma mai che il messaggio cristiano sia contenuto în nuce nelle
dottrine dei filosofi antichi. 101 Per le capacità umane come dono di Dio vd. LdF, p. 158; per le cose come dono di Dio, oltre a LdF p. 158, vd. anche LdF, p. 161: «Diciamo al nostro proposito che
l’uomo sia nato per usare le cose».
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risulta particolarmente evidente anche quando Lionardo ricorda la lettera ad Archita, in cui Platone sostiene che gli uomini sono «nati per cagione degli uomini», ed afferma che «parte di noi si debbe alla patria, parte a’ parenti, parte agli amici»!02. Come si vedrà in seguito, questa affermazione sarà ripetuta anche dagli autori delle opere esaminate nei prossimi capitoli, per mettere in luce il significato politico dell’amicizia. Si potrebbe precisare che l’amicizia trova la propria condizione di possibilità in quel «fermo vinculo a contenere la umana compagnia» che Dio ha posto nell’animo e nella mente dell’uomo!9. Mi sembra tuttavia più significativo far notare un altro aspetto della riflessione albertiana: l’amicizia è il fine delle attività umane perché è un legame voluto dalla natura per armonizzare le diverse capacità che ha distribuito agli uomini. Lionardo spiega, infatti, a Battista che: Ogni uomo non si truova abile a così facilmente essere felice. Non fece la natura gli uomini tutti d’una compressione, d’uno ingegno e d’uno volere, né tutti a uno modo atti e valenti. Anzi volse che in quello in quale io manco ivi tu supplisca, e in altra cosa manchi la quale sia apresso di quell’altro. Perché questo? Perch’io abbia bisogno di te, tu di colui, colui d’un altro e qualche uno di me, e così questo aver bisogno l’uno uomo dell’altro sia cagione e vinculo a conservarci insieme con publica amicizia e congiunzione. Forse
questa necessità fu esordio e principio di formare le republice, di costituirvi
le leggi [...]1°4.
È evidente, in questo passo, il richiamo alla tesi epicurea della nascita dell’amicizia dall’indigentia, aspramente criticata da Cicerone nel Laelius!05. Esso mostra più chiaramente di altri passi che l’amicizia ha un’origine e un fondamento naturale: nasce per
102 LdF, p. 161. Anche Cicerone, nel De officiis, sostiene che gli uomini non sono nati solo per se stessi, ma devono parte della loro esistenza alla patria e agli amici, attribuendo questa tesi a Platone: Cicerone, Dei doveri, con testo latino a fronte, introd. poi trad. e note a cura di D. Arfelli, Milano, Mondadori, 2005, I, VII, p. 21. D'ora in Of. come te semplicemen citerò questa edizione 103 LdF, p. 161. 104 IdF, pp. 163-164; corsivo mio. 105 A, VII-IX, 26-33, pp. 101-109.
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soddisfare quei bisogni naturali, individualmente non perseguibili, che rendono gli uomini dipendenti dalle qualità e dalle capacità altrui. Senza l’aiuto degli altri, l’uomo non potrebbe sopravvivere né, tanto meno, vivere felice. È la natura stessa a far sì che i
bisogni dell’uomo siano reciproci e complementari, evitando così che il singolo individuo ricerchi la propria felicità a danno della felicità altrui. Poiché i bisogni che l’uomo soddisfa unendosi in amicizia con altri uomini non possono entrare in conflitto tra loro, l’amicizia, anche se è fondata sulla necessità ed è stretta in
vista dell’utile personale, non è una relazione utilitaristica o strumentale. La rivalutazione cui sono soggette le amicizie in vista
dell’utile nel quarto libro della Famiglia trova la propria condizione di possibilità nella «publica amicizia» menzionata in questo passo per evidenziare che la natura armonizza le diverse capacità distribuite agli uomini. I bisogni che spingono gli uomini ad unirsi tra loro in amicizia sono gli stessi che portano alla nascita delle istituzioni politiche: nel passo citato Alberti sembra porre l’amicizia a fondamento del processo di socializzazione. Da questa tesi potrebbe scaturire una riflessione sul valore politico dell’amicizia, che, però, non si trova né in questa né in altre parti del dialogo. L’amicizia non è indicata come modello del legame sociale perché Lionardo continua la propria riflessione seguendo l’ordine stabilito. Dichiara, infatti, di voler riportare l’attenzione sulle qualità e le attitudini individuali necessarie per una corretta amministrazione della casa!06, La masserizia: amicizia e ricchezza
L’amicizia non è utile e necessaria solo perché è una risposta ai bisogni naturali dell’uomo, ma anche perché è strettamente 106 LdF, p. 164: «Ma non usciamo del proposito. Vorrassi, a conoscere quale esercizio più si convenga, considerare queste due cose: l’una esaminare lo ’ngegno, lo ’ntelletto, el corpo tuo, e ogni cosa quale sia in te; poi appresso porre la mente di quegli aiuti, amminnicoli e appoggi e’ quali sono necessarii e utili al tale esercizio, a quale ti pare essere più che agli altri sufficiente e di quelli come tu abbia ad averne in tempo attitudine, copia e libertà [...]».
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connessa alla ricchezza di cui la famiglia può disporre. Poiché le ricchezze sono considerate «utilissime a perseverare nelle principali faccende con lodo e grazia»!07, il tema della ricchezza è introdotto nel dialogo non appena Lionardo indica quali siano le attività e gli esercizi più adatti all'uomo per rendere felice la famiglia. La riflessione si articola in due diversi momenti, separati nella finzione dialogica dal trascorrere della notte, ma concettualmente correlati: alla fine del secondo libro Lionardo indica come si procurano le ricchezze; nel terzo libro Giannozzo mostra come si conservano. La connessione tra i due momenti è esplicitata
quando Lionardo specifica che le sue considerazioni fungono da premessa per l’analisi della masserizia, il tema chiave della riflessione di Giannozzo!08. Non ricostruirò nel dettaglio questa parte del dialogo, che andrebbe esaminata cercando di mettere in luce le analogie e le differenze esistenti tra la Famiglia e le precedenti riflessioni sulla scientia oeconomica!9. Mi limito solamente a precisare che la 107 LdF, p. 175. 108 Ibid. 109 Nella Introduzione all’edizione citata della Famiglia (LdE, pp. XIV-XXII) Tenenti evidenzia le principali novità della riflessione sulla masserizia rispetto alla tradizione medioevale: il denaro è al centro di tutto, non viene preso in considerazione il problema teologico dell’usura quando si sostiene che le ricchezze si accumulano prestando e vendendo denaro oltre che commerciando beni; l’accumulazione delle ricchezze dipende dal lavoro, che è considerato una componente del prezzo;ilgiusto mezzo viene invocato quando si riflette sulla conservazione delle ricchezze, ma non quando si spiega come si accumulano; il raggiungimento dell’equilibrio tra bisogni e benessere è il tema chiave della analisi sulle spese; l’onore e la reputazione della famiglia sono il vero fine della ricchezza. Per quanto riguarda i debiti della riflessione di Lionardo e Giannozzo nei confronti degli scrittori antichi, ma non solo, si veda ancora una volta Danzi, In bene e utile della famiglia. Appunti sulla precettistica albertiana
del governo domestico e la sua tradizione, cit., in particolare pp. 120-130: sono di derivazione senofontea la disposizione della precettistica del governo domestico per fasi della vita e la lunga sezione sugli insegnamenti impartiti alla moglie; l’analisi relativa ai modi con cui si accumula la ricchezza rimanda invece alla riflessione aristotelica sulla crematistica. La definizione della masserizia dipende dalla distinzione aristotelica tra uso e possesso della ricchezza, mentre la sua articolazione deriva da un’altra distinzione aristotelica: quella tra beni esterni, beni del corpo e beni dell’anima. E ancora: l’elogio della mercatura è condotto con formule tipiche, che si ritrovano anche in Salutati, Brac-
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masserizia è la sollecitudine nell'amministrare e conservare le ricchezze che contraddistingue il buon padre di famiglia!!°, Posta a metà tra la prodigalità e l’avarizia, essa consiste essenzialmente nella capacità di adoperare le ricchezze con misura e nella capacità di usare i beni per soddisfare bisogni necessari. Le cose di cui si deve far masserizia sono distinte in due gruppi: il primo gruppo include i beni che dipendono solo dall’uomo, cioè corpo, anima e tempo; il secondo gruppo include i beni che dipendono dalla fortuna, cioè ricchezze, potenze e «stati», ma anche onore e amicizia!!!, Come si dovrebbe evincere da tale classificazione,
Alberti ha un’idea molto complessa della ricchezza: essa non coincide immediatamente con le cose che si possiedono, né con il denaro che si guadagna, perché dipende dal modo in cui l’uomo impiega il proprio tempo, usa la propria mente ed esercita le proprie capacità fisiche. Però, l’analisi svolta nel terzo libro della Famiglia riguarda cose molto concrete: come costruire la casa, se è meglio costruirla in campagna o in città, come scegliere e trattare
villani e fattori, quali spese affrontare e quali spese evitare, come rendere la moglie una buona amministratrice della casa. Essendo un uomo «sperto e pratico», che non conosce le lettere!!2, Giannozzo spiega come si conserva la ricchezza della famiglia con continui riferimenti alla vita di ogni giorno, soffermandosi anche su dettagli apparentemente insignificanti. La -prima connessione tra amicizia e ricchezza emerge non
appena Lionardo chiarisce che la ricchezza si acquista coi commerci e con quelle che oggi si chiamerebbero attività finan-
ciolini, Bruni e Goro Dati. Dal De avaritia di Bracciolini dipende inoltre la definizione della spesa come giusto mezzo tra gli opposti della prodigalità e dell’avarizia. La descrizione del passaggio dall'economia di scambio a quella basata sulla moneta deve essere letta in parallelo con i passi della Vita civile che affrontano il medesimo argomento. L’innovativa concezione del tempo come bene di cui si deve far masserizia potrebbe avere una fonte nei Commentari di Ghiberti. 110 LdF, pp. 199-205. 111 LdE, pp. 175 e 205; pp. 177, 216 e 218. 112 LdF, p. 199: «Tu sai, Lionardo, che io non so lettere». La mancanza di istruzione di Giannozzo condiziona il suo modo di esprimersi, molto diverso da quello di Lionardo sia sul piano sintattico sia su quello lessicale.
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ziarie («prestando e riscuotendo»). Criticando chi giudica vili le attività volte al guadagno («esercizii pecuniarii»), «mercenarie» e inadatte ai «liberali ingegni», sostiene che «sono atte le ricchezze ad aquistar amistà e lodo, servendo a chi ha bisogno»!!3. La ricchezza procura dunque amicizie. Si tratta di una tipologia di amicizia molto particolare, perché sono gli stati (le «republice») ad aver bisogno della ricchezza della famiglia: essi non possono «ampliarsi con autorità e imperio senza grandissima spesa»,
inoltre non riescono a difendere «la libertà e la dignità della patria solo con stipendi del pubblico erario». Le amicizie procurate dalla ricchezza possono essere considerate delle amicizie politiche perché non sono vincoli affettivi che uniscono due o più individui, bensì rapporti che uniscono i membri di una ricca e influente famiglia a chi governa e detiene il potere. Citando le sentenze di Cipriano e Benedetto Alberti, Lionardo mostra che la sua famiglia ha messo le ricchezze acquisite con i commerci a servizio della patria da molto tempo. Visto che le amicizie con i signori ed i cittadini più ricchi sono annoverate tra le cose «atte a guadagnare» che dipendono dalla fortuna, non è solo la ricchezza a procurare amicizia, ma anche
l’amicizia a generare ricchezza!!4. Tra amicizia e ricchezza è quindi istituita una relazione biunivoca, che non trova riscontro nelle opere che saranno analizzate nei prossimi capitoli perché è un riflesso delle attività commerciali della famiglia Alberti. Poiché si vedrà che sia il buon principe sia il buon cittadino devono essere liberali, trova invece riscontro nelle altre opere esaminate nella seconda parte del saggio l’idea che la ricchezza debba essere destinata agli amici. Tale idea è espressa per la prima volta quando Lionardo invita Carlo e Battista ad essere onesti: «Se la fortuna vi dona ricchezze, adoperatele in lodo e onore vostro e
113 LdE, p. 170.
114 LdF, p. 176: «Fuori di noi le cose atte a guadagnare sono poste sotto imperio
della fortuna, come trovare tesauri ascosi, venirti eredità, donazioni, alle quali cose
sono dati uomini non pochi. Molti fanno suo esercizio acquistarsi amicizie dei signori, rendersi familiari a ricchi cittadini, solo sperando indi ricevere qualche parte di ricchezza, de quali si dirà a pieno in luogo suo».
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dei vostri, sovvenitene gli amici, adoperatele in cose magnifiche e onestissime»!!5. Giannozzo non sembra condividere l’idea di Lionardo, perché limita notevolmente il dovere di essere generosi e aiutare gli amici. Afferma infatti che: È si vuole vivere a sé, non al comune, essere sollecito agli amici, vero,
ove tu non interlasci e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande. A noi non sarà amico colui il quale non fugga ogni danno e vergogna nostra!!6,
Per comprendere il senso di questa affermazione si deve considerare che Giannozzo pronuncia tali parole alla fine di una lunga invettiva contro gli uomini che desiderano «avere stato», cui si è fatto cenno nel primo paragrafo. Questa invettiva contro gli
«statuali» potrebbe sembrare un rifiuto della vita politica, che è descritta come una «vita molestissima, piena di sospetti, di fatiche, pienissima di servitù» ed è addirittura considerata quale massima espressione della pazzia e della bestialità umana!!7. In realtà, è il rifiuto di un certo tipo di vita politica: alla fine del ragionamento si capirà che Giannozzo sta criticando solamente coloro che assurgono alle più alte cariche dello stato ingiuriando e servendo chi è al potere. Sono i cittadini fiorentini che considerano lo stato come la loro «bottega», desiderando arricchirsi con ogni mezzo!!8. Se questa interpretazione è corretta, gli amici da 115 LdE, p. 180. 116 LdE, p. 221. 117 LdF, p. 218: «Niuna cosa pare a me in uno uomo meno degna di riputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati [...]. Ogni altra vita a me piacque sempre più troppo che quella delli, così diremo, statuali, e a chi non dovesse quella al tutto dispiacere? Vita molestissima, piena di sospetti, di fatiche, pienissima di servitù». Sembra che Alberti stia giocando con le parole, perché Giannozzo sostiene che le cariche e gli uffici pubblici, gli onori, non procurano onore. L’invettiva raggiunge l’apice del livore in LdF, p. 219: «O pazzia degli uomini, i quali tanto stimano l’andare colle trombe e col fuscello in mano, che a loro non piace più il proprio riposo domestico e la vera quiete dell’animo. O pazzi, fummosi, superbi, proprii tiranneschi, che date scusa al vizio vostro. Non potete sofferire gli altri meno ricchi [...]» e in LdF, p. 220: «O bestialità! Uomini degni di odio, se così pigliate a piacere tanta perversità e travaglio quanto trabocca addosso a chi sia in questi uffici e amministrazioni pubbliche!». 118 LdF, pp. 218-221, in particolare p. 221 (corsivo mio): «Non ti biasimerò se di te porgerai tanta virtù e fama che la patria ti riceva e impongati parte de’ incarichi suoi, e
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evitare cui si fa riferimento nel passo appena citato sono esclusivamente i cittadini che considerano le cariche un guadagno, trasformando il bene pubblico in interesse privato. Se si considera che a conclusione della propria invettiva Giannozzo esorta i giovani a diventare buoni massai e a lasciare ad altri gli onori e i dolori della politica, non si può ignorare che la famiglia tende a chiudersi su se stessa. Ciò appare ‘ancor più evidente quando questi sostiene che «a noi i quali siamo contenti del nostro privato e mai desiderammo quello d’altrui, sarà mai dispiacere non avere quello che sia pubblico o non avere quello di che noi non facemmo stima»119. Si deve però tener presente che proprio queste considerazioni di Giannozzo porteranno Lionardo
ad identificare il buon massaio con il buon cittadino che deve mettersi a servizio della patria. Rispondendo a Giannozzo, egli dice, infatti, che: E affermovi che il buon cittadino amerà la tranquillità, ma non tanto la sua propria, quanto ancora quella degli altri buoni, goderà negli ozii privati, ma non manco amerà quello degli altri cittadini suoi, desidererà l’unione, quiete, tranquillità della casa sua propria, ma molto di più quella della patria sua e della repubblica. [...] Ma neanche quelle republiche medesime si potranno ben conservare, ove tutti i buoni siano solo del suo ozio privato contenti. Dicono e’ savi ch’ e’ buoni cittadini debbono traprendere la republica e soffrire le fatiche della patria e non curare le inezie degli uomini, per servire il pubblico ozio e mantenere il bene di tutti i cittadini, e per non cedere luogo a’ viziosi, i quali, per negligenza de’ buoni e per loro improbità
chiamerò onore essere così pregiato da’ tuoi cittadini. Ma che io volessi fare come molti fanno, gittarmi sotto questo, fare coda a quell’altro, e servendo cercare di signoreggiare o vero che io mi dessi a diservire o ingiuriare alcuno per compiacere a costui col favore del quale io aspettassi salire in stato, o vero che io volessi, come fanno tutti, ascrivermi lo stato quasi per mia ricchezza, riputarlo mia bottega, ch° io pregiassi lo stato tra la dote, alle mie fanciulle, che io facessi in modo alcuno del pubblico privato, quel che la patria mi permette a dignità trasferendolo a guadagno, a preda, non punto, Lionardo mio, non figlioli miei». Questo passo continua con le parole citate nel testo.
119 LdF, p. 222.
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perverterebbero ogni cosa, onde cose pubbliche né private più potrebbono bene sostenersi!20,
Questo passo mostra più chiaramente di altri che la Famiglia, come si è detto, è una summa di vita civile. In poche righe, quello che sembrava un rifiuto della vita politica si trasforma nel dovere di «mantenere il bene di tutti i cittadini». La rapidità del passaggio dipende dal fatto che è in atto una disputa tra Lionardo e Giannozzo, che serve per mettere in luce quanto Lionardo aveva già anticipato, ma era passato inosservato: Gian-
nozzo avrebbe insegnato «l’ottimo e civilissimo vivere» oltre che «la vera masserizia»!21, Attraverso tale disputa, Alberti inizia a spostare lo sguardo dalla famiglia alla città, criticando la politica da «bottegai» dei fiorentini. Sebbene onore e fama siano anteposti a tutti gli altri beni che dipendono dalla fortuna, sebbene i giovani Battista e Carlo siano esortati ad essere «utili» alla patria!22, l’apertura della famiglia alla città non è totale né immediata. Giannozzo ricorda infatti ai suoi giovani interlocutori che si possono governare gli altri solo se si è capaci di reggere se stessi!23, Inoltre, riconosce che «per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici» solo dopo aver specificato che i giovani non devono mai smettere di occuparsi delle loro attività personali: l'equilibrio tra interesse pubblico e privato sembra molto difficile da raggiungere; ed è instabile e precario!24, L'idea che gli amici siano le persone cui va destinata la ricchezza in eccesso è reintrodotta nella discussione da Adovardo!?5. Questi torna sulla scena del dialogo alla fine del terzo libro, con un inter120 LdF, pp. 223, ma vd. tutto l’intervento di Lionardo, in LdF, pp. 223-225, ed in particolare la conclusione: «Noi in questo mezzo, Battista e tu Carlo seguiamo con ogni virtù, con ogni studio, con ogni arte a meritare lodo e fama, e così apparecchiànci essere utili alla republica, alla patria nostra, acciò che, quando la stagione interverrà, noi ci porgiamo tali che né Giannozzo, né questi temperatissimi e modestissimi vecchi ci reputino indegni vederci tra’ primi luoghi pubblici onorati». 121 LdF, p. 208. 122 LdE, p. 225. 123 Ibid. 124 LdF, p. 226. 125 LdF, pp. 222, 248 e 305.
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vento che fornisce una legittimazione teorica ai precetti indicati da Giannozzo!26, Affermando che il denaro è utile alla famiglia anche perché può essere prestato agli amici!?7, egli trasforma la riflessione sulla moneta, a cui sta partecipando, in una riflessione sull'amicizia. Tale riflessione non stabilisce solo nuove connessioni tra amicizia e ricchezza, ma mette anche in luce alcune caratteri-
stiche della relazione. Il De amicitia albertiano inizia dunque già nel terzo libro della Famiglia. Lo spostamento del piano dell’analisi è indicato dall’emergere di un punto di tensione interno al dialogo. Giannozzo spiega ad Adovardo che il denaro deve essere prestato agli amici, ma non ai signori, cioè ai principi ed ai tiranni: essi sono cupidi di denaro perché devono soddisfare le richieste degli adulatori di cui amano circondarsi; inoltre considerano i prestiti come doni da gettare via!28. Vietando di prestare denaro ai principi, Giannozzo contraddice quanto sostenuto dai suoi interlocutori che, come si è visto, avevano lodato la famiglia Alberti anche per aver sempre messo la propria ricchezza a servizio degli stati!2?. Lionardo ed Adovardo non colgono questa contraddizione. Si concentrano, invece, su altri aspetti del ragionamento in corso: il primo chiede se si debbano fare prestiti oppure donazioni agli amici, il secondo si domanda se si possano rifiutare le loro richieste!39. Per rispondere, Giannozzo arriva a mettere in dubbio la natura gratuita e disinteressata della amicizia: «Se a me fosse troppo sconcio fare quanto chiedesse l’amico, perché devessi io avere caro più l’utile suo che il mio?». Questa domanda troverà una risposta definitiva solo alla fine del racconto con cui Piero mostrerà come sia diventato amico di tre famosi principi. Come si vedrà nel prossimo paragrafo, infatti, Giannozzo scioglierà la contraddizione emersa 126 LdF, pp. 295-298.
127 LdF, p. 305.
128 LdE, p. 307. 129 LdF, pp. 306-308. Si noti che è lo stesso Giannozzo ad usare il termine «tiranni» comé sinonimo del termine «signori», chiarendo così che i signori di cui parla sono principi.
130 LdE, p. 308.
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spiegando che i principi cui non si deve prestare denaro sono i papi.
1.3 De amicitia: il quarto libro della Famiglia Prima di mostrare come sia possibile trovare una risposta alla domanda con cui Giannozzo chiede perché l’utile dell’amico debba essere più caro del proprio, vorrei chiarire qual è la struttura del De amicitia albertiano. Credo, infatti, che il senso della riflessione di Alberti possa essere compreso solo avendo in mente la complessa struttura del quarto libro della Famiglia. Il De amicitia è costituito da due parti: il racconto con cui Piero mostra come sia diventato amico di tre principi; la riflessione con cui Adovardo evidenzia le caratteristiche dell’amicizia dopo aver mostrato insoddisfazione verso le riflessioni degli «antichi scrittori». Le due parti sono separate da una pausa: terminato
il pranzo in cui Piero racconta la propria storia, Battista e Carlo vanno a far visita al padre Lorenzo e lo lasciano in compagnia di Ricciardo!3!. Credo che la pausa serva a sottolineare che è il racconto di Piero a suscitare le riflessioni di Adovardo: di ritorno dalla visita al padre, Battista e Carlo trovano Adovardo già impegnato nella discussione con Lionardo. Le due parti che costituiscono il De amicitia sono connesse in modo più esplicito alla fine del dialogo, quando Adovardo promette a Lionardo che il giorno successivo spiegherà cosa può fare il principe per farsi amare!?2, 131 LdE, pp. 347-348. 132 LdF, pp. 424-425: «Adovardo: Dicemmo con che arte si acquisti, come si accresca, in che modi si rescinda, che cagion sia da racquistarla, e ora discurremmo qual industria s'appruovi, a conservarla. Che più avevi tu da desiderare? Lionardo: Nulla, se coteste tutte a pieno fossero come furono esplicate. Ma vedi quanto da te aspetti. Piero a noi insegnò acquistar benivolenza apresso de’ signori, da te siamo stati fatti
dotti in ogni altra ragione amatoria. Chi da te ottimo maestro delle amicizie, sendo in principato, chiedesse divenire erudito in quello quale quasi principe niuno par che sappia, dico ben farsi amare, stimo sarebbe da tua umanità troppo alieno negarli tanta utilità. Adovardo: Oh felicissimo quel principe quale così vorrà acquistarsi benivolenza, e meno essere temuto che amato, quanto con una sola facile e piena di voluttà cosa possono tutti, ma non erano in questa parte insieme acquistarsi lode e benivolenza
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È una promessa che non viene mantenuta perchè la Famiglia finisce lasciando il lettore in attesa della riflessione sul principe che Alberti svolgerà nel Momus e nel De iciarchia. Tuttavia è evidente che Adovardo continuerebbe il racconto con cui Piero ha mostrato come sia diventato amico di tre grandi principi spiegando come i principi possano essere amati ed avere amici.
Il De amicitia si apre e si chiude cipi di cui parla Giannozzo, a cui poi identificati con i papi, sono il il principe capace di essere amato risce Adovardo alla fine del quarto
nel nome dei principi: i prinnon si deve prestare denaro, modello del cattivo principe; anziché temuto, a cui si rifelibro, è il modello dell’ottimo
principe. Tra questi principi vi sono i tre principi di cui Piero
è diventato amico. Indipendentemente dal fatto che il modello dell'ottimo principe sia indicato, ma non descritto, il passaggio dal polo negativo a quello positivo è possibile solo se si passa attraverso un’esperienza reale e concreta. L’esigenza di mantenere l’analisi a livello empirico ed il bisogno calarla nel concreto dell’esperienza condizionano anche la riflessione sull’amicizia. Come si vedrà, Adovardo riconsidera
le amicizie analizzate dai filosofi e dagli storici del passato alla luce delle amicizie sperimentate da Piero. Chiarendo cosa manchi nella storia di Piero, egli mostra che l’amicizia che si realizza a corte non è la cattiva amicizia da contrapporre alla vera amicizia descritta dai filosofi e dagli storici: la corte è il contesto in cui si mostrano più chiaramente che altrove alcune caratteristiche della relazione. Pertanto, non è in atto un processo di idealizzazione, ma una ri-definizione delle caratteristiche dell’amicizia che
si realizza attraverso l’emergere di continui punti di tensione tra gli interlocutori del dialogo. Per fornire una nuova definizione dell’amicizia, che tenga conto dell’esperienza vissuta da Piero, essi riprendono molti passi dell’Etica Nicomachea di Aristotele e del Laelius di Cicerone, selezionati in modo da soddisfare le esigenze di una analisi che si contraddistingue per il suo orientamento pratico e pragmatico. immortali».
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La «istoria» di Piero: l’amicizia a corte tra utile, industria e grazia
Come già accennato, quando Giannozzo chiede perché l’utile dell'amico debba essere considerato più del proprio, è seriamente messa in discussione la natura gratuita e disinteressata dell’amicizia: Lionardo esclude che questo rapporto debba essere stretto per convenienza, sostenendo che tutto deve essere condiviso con l’amico perché l’amicizia è reciprocità. Poiché non si riferisce tanto alla condivisone di ricchezze («cose e fortune») quanto, piuttosto, alla condivisone di «voglie» e «pensieri», ricorda agli interlocutori del dialogo che l’amicizia è quella relazione capace
di fare di due persone un’anima sola, come sostenuto nella disputa con Battista!33. Essendo un uomo di lettere, invita i «massari» a non dimenticare che l’amicizia è una relazione fondata sulla virtù e sull’onestà, come hanno mostrato Aristotele e Cicerone. Pur ammettendo che l’utile sia una componente importante della
relazione, spiega che non deve essere il movente principale: onestà e virtù devono prevalere, evitando che la ricerca dell’utile personale trasformi l’amicizia in un rapporto strumentale. Giannozzo accetta la tesi di Lionardo, perché invita i suoi interlocutori a distinguere i veri amici dai falsi amici, cioè dagli amici che entrano in relazione con gli altri solo per estorcere denaro e favori!34. Sembrano relazioni utilitaristiche e strumentali solo le false amicizie, ma la questione si complica perché la categoria delle false amicizie si estende sino ad includere tutte le relazioni amicali, perdendo così la propria ragion d’essere. Nel momento stesso in cui distingue veri amici e falsi amici, il «massaro» Giannozzo sottolinea infatti che «tutto il mondo si truova pieno di finzioni»!35, Inoltre, sostenendo che «salutatori, lodatori, assen-
133 LdE, p. 309. 134 LdF, p. 309: «E abbiate da me questo: chi con qualunque arte, con qualunque colore, con quale si sia astuzia cercherà tòrvi del vostro, costui non vi sarà vero amico. Chiegga costui medesimo il tuo in dono, dimandilo in preghiera, o voglialo per minacce, o cerchilo con lusinghe, dico chi studierà t6rvi sarà non vero amico».
135 Ibid.
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tatori si truovono
assai, amici niuno, conoscenti quanti vuoi,
che non sono falsi amici fidati pochissimi», Adovardo chiarisce solo i «chieditori», cioè gli amici che cercano di ottenere denaro,
ma anche gli adulatori!36. L’identificazione dei falsi amici con gli adulatori è un segno dell’influenza esercitata da un’opera del Corpus di Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico!37,
che lascia evidenti tracce di sé anche nelle raccolte di consigli per
i principi che saranno prese in esame in seguito. Poiché sembra che nel mondo non si trovino veri amici, ma solo falsi amici,
Adovardo sposta il centro del discorso. Focalizza l’attenzione sul comportamento da tenere con i falsi amici anziché sulle caratteristiche dei soggetti coinvolti nella relazione. «Quali adunque con questi saremo?»: questa domanda di Adovardo mostra chiaramente l’orientamento pratico e pragmatico della riflessione sull’amicizia proposta nel quarto libro della Famiglia. Quando Giannozzo spiega che non bisogna fidarsi dei legami di parentela di cui si vantano i falsi amici, che non si deve credere ai loro elogi o ai loro sorrisi ed è meglio non lasciarsi stordire dai discorsi che raccontano per estorcere denaro, ha il dubbio di non dover proseguire nella sua riflessione. Si rende conto, infatti, che sta diventando un «maestro di malizie», mentre dovrebbe
insegnare al giovane Battista e a suo fratello Carlo che bisogna essere liberali con gli amici!38, Lionardo dovrebbe esortare Gian136 Per il significato del termine «chieditori» vd. LdF, p. 311. 137 Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, a cura di A. Lukinovich e M. Rousset, con una nota di L. Canfora, Palermo, Sellerio, 1991. Cito questa edizione, invece di quella del Corpus Plutarchi Moralium curata da I. Gallo e E. Pettine, perché riporta la parafrasi latina di Guarino Veronese, il De differentia veri amici et adulatoris. Essa è un segno della fortuna di cui gode quest'opera di Plutarco, che è stata tradotta anche da Maffeo Vegio e Piccolomini. Come è noto, Erasmo ha dedicato la propria traduzione(1514) a Francesco I. Anche Aristotele mette in luce le caratteristiche dell’adulazione nell’Etica Nicomachea: in EN, II, 1179a 25-30, p. 69, è definita come eccesso di amabilità in relazione alla dottrina del giusto mezzo e, dato ancor più rilevante, in EN, X, 1173b 30-35, p. 411, è distinta dall’amicizia. Come evidenziato da Canfora nell’introduzione a Come distinguere l’adulatore dall’amico, Plutarco riprende questa distinzione aristotelica. 138 LdF, p. 310. Secondo Langer, la trattazione del tema della liberalità risente degli influssi del De beneficiis di Seneca: U. Langer, Friendship and pragmatic nego-
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nozzo ad avere comportamenti liberali proprio perché ha appena ricordato che gli amici devono condividere tutto. Invece, lo invita a continuare affermando che si deve considerare virtù anche «vincere con malizia un malizioso»!3?. Emerge così per la prima volta la distanza che separa teoria e prassi: nel contesto della vita quotidiana, dove si fa esperienza di false amicizie piuttosto che di vere amicizie, per essere amici non serve solo la virtù, ma anche la
malizia. E l’astuzia. Le astuzie e le malizie da usare nei confronti dei falsi amici sono indicate da Giannozzo quando suggerisce di esser larghi e prodighi di parole per prendere tempo, di addurre scuse per non cedere alle loro richieste, di fingere di nutrire stima e interesse per non negare apertamente la propria disponibilità!49. Tali consigli mostrano che con i falsi amici bisogna comportarsi da falsi amici: la distinzione tra veri e falsi amici non è svuotata di significato solo a livello teorico, ma anche a livello pratico, perché vi sono relazioni in cui si deve fingere e lusingare per salvaguardare il proprio interesse. Nonostante si abbia l’impressione che finzione e adulazione caratterizzino tutte le relazioni tra gli uomini, Adovardo e Giannozzo sostengono che le false amicizie sono relazioni in cui si imbattono soprattutto i ricchi: «chi è ricco truova più amici che non vuole» perché «le ricchezze sono assediate da tanti piluccatori»!4!. La tesi viene rovesciata da Buto, servitore fidato della famiglia Alberti, che prende la parola all’inizio del quarto libro della Famiglia per sostenere che «cosa niuna tanto nuoce a farsi amare quanto trovarsi povero»!42, Per sciogliere questo nuovo punto di tensione del dialogo, si deve considerare che tiation: Leon Battista Alberti «De amicitia», in Id., Perfect Friendship, Studies in Literature and Moral Philosophy from Boccaccio to Corneille, Genève, Droz, 1994, pp. 192-211, in particolare p. 194.
139 LdE, p. 310. Anche Adovardo sottolinea la distanza tra teoria e prassi nell’amicizia quando esorta Giannozzo a continuare dicendo: «Sì, certo, a me pare spesso necessario usare astuzia coi troppo astuti».
140 LdF, pp. 311-312. 141 I dF, p. 315; si noti che poche righe prima Giannozzo sostiene che «chi è ricco truova più amici che non vuole». 142 LdF, p. 320.
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Buto non è solo il buffone che suscita il riso dei commensali coi suoi motteggi!4, ma anche il servo ignorante che contrappone la propria esperienza alle «favole» che ha sentito raccontare servendo i suoi ricchi e «literatissimi» padroni!44. Povero ed ignorante, Buto è identificato col vero amico non appena è introdotto sulla scena, quando gli interlocutori del dialogo sottolineano che è rimasto fedele alla famiglia Alberti tanto nella buona quanto nella cattiva sorte!45. Questa identificazione può essere letta in vari modi. A mio giudizio, essa suggerisce che le caratteristiche dell’amicizia possono essere comprese solo se sono analizzate alla luce di un’esperienza concreta, realmente vissuta. Con un gioco di parole, che appare evidente contrapponendo «l’amicizia vera» di cui è capace il servo Buto alla «vera amicizia» descritta dai filosofi che ha menzionato Lionardo nella disputa con Battista, Alberti fa emergere ancora una volta la distanza che separa la teoria dalla pratica dell’amicizia. Non essendo condivisibile dagli altri interlocutori, l’esperienza cui fare riferimento per mettere in luce le caratteristiche dell’amicizia, non è quella del servo, bensì quella del cortigiano. Vale a dire l’esperienza di Piero, che è un membro importante della famiglia Alberti, non un semplice servo. Questi prende la parola subito dopo l’intervento di Buto, dicendo:
143 Tra i motteggi di Buto spicca il detto antichissimo secondo cui si può essere sicuri di un amico solo quando si è mangiato con lui così tanto cibo che occorre un moggio di sale per condirlo. Questo detto è riportato da Aristotele in EN, VIII, 1156b 26-27, p. 319 e da Cicerone in A, XIX, 67, p. 139.
144 LdF, p. 320: «Più volte intesi messer Benedetto, messer Nicolaio, messer Cipriano, cavalieri Alberti, uomini quanto ciascuno dicea literatissimi, in queste simili disputazioni molto e alto fra loro contrastare, che non mi duole essere come io sono ignorante se a chi sa di lettere conviene come a loro sempre bisticciare e insieme gridare [...]. Molte diceano cose dell’amicizia cose belle a udirle, ma cose quale a chi le prova poi favole». 145 LdE, p. 319: «Onde, doppo a’ primi saluti, fu commendata la fede e costanza di Buto, che così ne’ nostri casi avesse conservata la ottima persino dallo avolo co’ i nostri Alberti nata e ben nutrita amicizia: essere adunque vero amico costui a chi qual sia mutazion di fortuna può mai distorre o minuire la impresa benivolenza, e sopra gli altri meritar lode chi come Buto di sua affezione e animo nelle cose avverse non resti dare di dì in dì aperti e grati di se stessi indizi e beneficio».
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Quanto [...] io lodo l'ingegno di Buto! E confermo il detto suo essere verissimo, quanto provai che ad acquistar amicizia con molte iniurie vi si oppone la povertà e interrompe ogni nostro instituto e impresa. Come sapete, ogni mio sussidio e fortuna familiare era, quando sedavamo in la patria nostra, in possessione e ville. In questo poi nostro grave esilio, a difendermi dagli odi e inimicizia quali noi spogliarono de’ publici ornamenti e troppo ci persequitavano, a me parse utile agiugnermi a qualche principe, apresso di chi io vivessi con più autorità che escluso, e con men sospetto che nudo, e con più riguardo della salute mia. Così feci adunque; con molta industria e sollecitudine acquistai la grazia di tre, come sapesti, in Italia ottimi, e in tutte le genti famosissimi principi. Questi furono Gian Galeazzo duca di Milano, Ladislao re di Napoli, e Giovanni summo pontefice, a quale ciascuna impresa provai quanto il non esser più ch’io mi fussi ricco a me noceva e disturbava!49.
Sembra che Piero voglia dar ragione a Buto, perché ammette che sarebbe stato più facile farsi amare dai principi, da cui ha cercato appoggio e protezione durante l’esilio, se fosse stato più ricco. Si deve però considerare che la povertà di Piero è sottolineata per mettere in evidenza l’«industria» e la «sollecitudine» grazie a cui ha ottenuto il favore dei principi: dando ragione a Buto, Piero non accetta la tesi per cui la povertà ostacola l’amicizia, bensì l’esigenza di realismo espressa dalle critiche alle «favole» dei letterati. L’uso ripetuto del verbo «provai» mostra che la riflessione si mantiene ad un livello pratico ed empirico. L’accento cade su una particolare situazione di povertà, anziché sulla generica e astratta alternativa tra ricchezza e miseria. Dovrebbe allora essere più chiaro che la connessione tra amicizia e ricchezza indagata da Giannozzo può essere compresa solo all’interno di una situazione concreta. Come si evince dal riferimento all’esilio, la
riflessione sull'amicizia non ha un andamento pratico e pragmatico solo perché è calata nella prassi della vita quotidiana, ma anche perchéè segnata dalla contingenza degli eventi storici che hanno colpito la famiglia Alberti. Prima che Piero racconti come sia diventato amico del Duca di Milano, del re di Napoli e del Papa, gli interlocutori del dialogo
146 LdF, p. 321.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
mostrano chela ricchezza è solo una delle tre variabili da cui dipende la possibilità di stringere amicizie e non è quella più importante. Adovardo e Lionardo sottolineano infatti più volte che Piero è riuscito a farsi amare dai principi non per le sue ricchezze, ma per le sue virtù. Emerge però un nuovo punto di tensione del dialogo. La forza della virtù di Piero è infatti esaltata nel momento stesso in cui i principi sono ritenuti incapaci di stimare la virtù. Da una parte, Adovardo afferma che la virtù di Piero è stata apprezzata da tutti i principi solo dopo averli descritti come uomini oziosi, dediti ai vizi, capaci di circondarsi solo di adulatori. Dall’altra, Lionardo
sostiene che la virtù di Piero è stata più utile d’ogni altro bene della fortuna subito dopo aver ammesso che ci vorrebbe un «miracolo» per far sì che il principe, potendo fare tutto ciò che vuole, vinca e moderi se stesso in modo da riuscire ad apprezzare la virtù dei propri amici!47. Credo che la tensione possa essere stemperata da questa considerazione: le affermazioni di Lionardo ed Adovardo spingono Piero a precisare che sono stati la sua «industria» e la sua «diligenza» a permettergli di ottenere grazia e benevolenza presso i principi. Inoltre, sembra che in un contesto caratterizzato dal vizio e dal potere qual è quello della corte la virtù non sia solo lealtà, fedeltà, onestà, ma anche intraprendenza, ingegno, solerzia
e scrupolosità. Prima che Piero racconti la sua esperienza, Ricciardo introduce una terza variabile che pare più importante della ricchezza e dell’industria: è la grazia, caratteristica indispensabile del buon cortigiano ben prima della riflessione sviluppata da Castiglione!48,
147 LdE, pp. 322-324.
148 Su Alberti e Castiglione: J. Woodhouse, Dall’Alberti al Castiglione, Ammonimenti pratici di cortesia, di comportamento e di arrivismo, in L. Chiavoni, G. Ferlisi e M.V. Grassi (a cura di), Leon Battista Alberti e il Quattrocento, cit, pp. 193-210 ed A. Annoni, L’amicizia nella trattatistica dell’età Rinascimentale, in AA.VV, Il concetto di amicizia nella storia della cultura europea, Atti del XXII Convegno Internazionale di Studi italo-tedeschi, Merano 9-11 maggio 1994, Merano, Accademia di studi italotedeschi, 1995, pp. 462-484, in cui l’analisi si spinge sino alle opere di Della Casa. Si noti che anche Langer rimanda ad alcuni passi del Libro del cortegiano sostenendo che «Piero’s behavior anticipates Castiglione’s courtier’s mediocrità»: Langer, Friendship and pragmatic negotiation: Leon Battista Alberti «De amicitia», cit., p. 198. Sottolinea
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Presente sulla scena del dialogo dalla fine del primo giorno, ma rimasto al capezzale del fratello Lorenzo fino al momento del pranzo, Ricciardo prende la parola per la prima volta nel quarto libro della Famiglia. Egli affermare che: Ma guardate non in prima forse sia necessaria non tanto virtù e ricchezza, quanto certa non so come la nominare cosa, quale alletta e vince ad amare . più questo che quello, posta non so dove nel fronte, occhi modi e presenza, con una certa leggiadria e venustà piena di modestia. Nollo posso con parole esprimere; che vedrete saranno due pari virtuosi, pari studiosi, pari in ogni altra fortuna, nobili e pecuniosi, e di loro questo verrà giocondo e amato, quello ritarderà quasi odiato. E forse chi persuadeva le amicizie avere occulti - e quasi divini principi e radici era da udirlo. Sono in le cose produtte dalla natura meravigliose e occultissime forze di inimicizia e di amore, delle quali
ancora non seppi comprendere causa aperta o ragione alcuna!49,
Come si evince dal passo citato, la grazia coincide con la capacità di essere amabili e di risultare piacevoli a tutti. Si vedrà meglio nei capitoli successivi che l’amabilità e la piacevolezza non contraddistinguono solo il buon cortigiano, ma anche l’ottimo principe, il principe di Pontano in particolare. Occorre ora preci-
sare che Ricciardo insiste sulle forze meravigliose e segrete della natura, che portano a preferire un individuo all’altro indipendentemente dalle sue qualità, perché sta parlando della naturale attrazione e repulsione che si prova per le persone: ciò che noi probabilmente chiameremmo simpatia e antipatia. Quando Piero ricorda a Ricciardo che Benedetto Alberti era amato da tutti per la sua modestia, gentilezza, ed affabilità («facilità»), per la sua
«dolce gravità e infinita prudenza», per il suo «animo virilissimo e mansuetissimo», sostiene che per farsi amare servono l’impegno e un certo modo di comportarsi, che genera benevolenza. Nega dunque che la grazia sia solo una dote naturale e dimostra che consta di quelle virtù collaborative (dolcezza, affabilità, la continuità esistente tra la riflessione di Alberti e quella di Castiglione anche Amedeo Quondam, considerando con particolare attenzione il quarto libro della Famiglia: A. Quondam, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Bologna, il
Mulino, 2010, pp. 357-369. 149 LdE, p. 325.
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L’AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
condiscendenza, generosità, benignità) che Cicerone definisce leniores ed indica come sicuro veicolo di favore e consenso nel De officiis!5°. Poiché la grazia è un’arte ed una tecnica, che si può imparare con impegno e si deve usare comportandosi in un certo modo, essa è strettamente connessa all’industria. Piero inizia a raccontare l’«istoria» di come sia diventato
«domestico» e «familiare» del Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, del re di Napoli Ladislao e di papa Giovanni XIII avvisando gli interlocutori che descriverà «caute poco usate e raro udite astuzie»!51, L’uso del termine «astuzie» segnala che il racconto va posto in continuità con i consigli dati da Giannozzo per spiegare come comportarsi con i falsi amici. Nella descrizione di Gian Galeazzo e Ladislao, ma non in quella del papa, sono ripresi i canoni esemplari dell’ottimo principe in modo abbastanza palese: mentre le qualità del duca di Milano sono la somma delle virtù militari di Cesare e di quelle civili di Traiano, il 150 Il parallelismo tra LdE, p. 327 e De officiis è suggerito da Narducci, Tra Alci-
biade e Catilina, Spunti «ciceroniani» in Leon Battista Alberti (amicizia, adulazione, simulazione), cit., p. 251, in cui si rimanda a Of, I, XV, p.41e Of, II, XIV, p. 169.
151 LdF, pp. 327-328. Come evidenzia Cabrini, il racconto di Piero riguarda un periodo che va dal 1393 al 1414: A.M. Cabrini, Il principe, il tiranno e l’ottimo cittadino nell'opera di Leon Battista Alberti, in T. Matarrese e C. Montagnani (a cura di), Il principe e la storia, Atti del Convegno Scandiano 18-20 marzo 2003, Novara, Interlinea, 2005, pp. 276-279. La scelta di questo periodo è particolarmente significativa perché i primi due principi sono celeberrimi e assai pericolosi nemici di Firenze. Alberti non cerca solo di mostrare che Piero non si è comportato come l’esule Rinaldo degli Albizzi, istigatore di Filippo Maria Visconti contro la Firenze di Cosimo, ma descrive anche il Duca di Milano come principe buono e giusto: «Ed era suo esercizio in amministare a° popoli suoi quanto in lui fosse iustizia interissima, e mantenere a’ suoi domestica pace, ed era studio suo contraere publica società e amicizia con tutti e? suoi finitissimi, né era ozioso in iungere benivolenza con quanto fusse nobile republica e principe in Italia e fuori di Italia» (LdE, p. 329). Sullo sfondo del racconto di Piero vi è la lotta tra Firenze e Milano: secondo Cabrini, esaltando Gian Galeazzo Visconti, Alberti si allinea con la posizione sostenuta nel Panegyricus de laudibus Mediolanensis urbis da Pier Candido Decembrio (1435-1436), in contrapposizione alla Laudatio Florentine urbis di Bruni, rimessa in circolazione nel 1434. Questo è un dato particolarmente rilevante, se si ricorda che i tempi di composizione e diffusione del quarto libro della Famiglia in parte incrociano e in parte precedono il compimento dell’ultima fase di scrittura delle Historiae di Bruni (i cui primi nove libri sono presentati alla Signoria nel 1439), l’opera in cui Gian Galeazzo Visconti è descritto come il tiranno per antonomasia, ed è presentato come l’oppressore di quella libertas che Firenze incarna e difende in Italia.
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re di Napoli è un uomo d’azione, che ha caratteristiche analoghe a quelle possedute da Ciro nella Ciropedia di Senofonte!S2, Tuttavia, industria e grazia non sono state indispensabili solo con il papa. Piero ha adottato strategie diverse, adattando il suo comportamento alla situazione. Piero racconta
di aver
ottenuto
la simpatia
del Duca
di
Milano, facendosi amico di Francesco Barbavara, «uomo di ingegno e nobilissimo, assiduo col principe, facile, liberale»!53, È stato quindi capace di distinguere l’uomo di fiducia del Duca dagli adulatori che si trovavano nella corte milanese. Si è guadagnato l’amicizia del Primo camerario grazie alla propria cultura,
sfruttando l’interesse di Barbavara per i poeti toscani. Ottenuta udienza da Gian Galeazzo Visconti, è riuscito a farsi ben volere per l’amore e la lealtà mostrata nei confronti della patria nonostante la condizione di esule, dando prova della sua virtù!54. Nel momento stesso in cui riconosce di aver beneficiato della liberalità e della munificenza del Duca, riuscendo così ad ampliare la fama e il buon nome della famiglia, Piero sottolinea che ha ottenuto la sua amicizia con «pazienza e fermezza incredibile»: ha aspettato giornate intere solo per poterlo salutare, si è informato
sulle attività e la situazione della famiglia Alberti per raccontargli sempre cose nuove e interessanti, ha interpretato profezie
e calcoli astronomici in modo da liberarlo dalle angosce della morte. Queste precisazioni mostrano che non si è comportato in
modo molto diverso da come si comportano i falsi amici, perché ha finto, blandito e lusingato per ottenere favori. Per diventare amico del re di Napoli, da cui si è trasferito dopo la morte del Duca di Milano, Piero ha usato una strategia
152 L’aneddoto della caccia potrebbe derivare dalla Arabasi, anche se nella Ciropedia di Senofonte sono descritte molte scene di caccia che hanno Ciro come protagonista. In riferimento alla Ciropedia, un’opera importante soprattutto per il ritratto
dell’ottimo principe delineato da Pontano, si pone il problema della conoscenza, da parte di Alberti, di testi greci non ancora o solo parzialmente tradotti: vd. L. Bertolini, Graecus sapor, Roma, Bulzoni, 1998.
153 LdF, p. 330.
154 LdF, p. 332.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
adeguata alla natura di quest'uomo «più atto all’imperio delle armi che alla gravità e maturità de’ consigli»!55. Spiega, infatti, che ha ottenuto un invito a cena per aver favorito il buon esito di una battuta di caccia ed aver finto che il merito della preda spettasse solo al re. Anche in questo caso la cultura è stata uno strumento utile perché Piero ha catturato l’attenzione di Ladislao con un sapiente confronto tra la caccia e la guerra che gli ha permesso di entrare nelle sue grazie. Il favore del re è stato mantenuto con «industria e grazia»: Piero ha affidato missioni ed incarichi politici solo a persone oneste e degne di fiducia; ha evitato tutto ciò poteva procurare odio e invidia; si è mostrato
«facile, affabile e umano» persino con i «plebei»; ha organizzato tornei e gare per intrattenere il re mostrando la propria superiorità senza offendere!56, Spiega che non ha fatto meno fatica ad essere amico del re di Napoli di quanta non ne avesse fatta in precedenza: ha dovuto rinunciare a tutte le occupazioni per essere pronto a soddisfare ogni desiderio di Ladislao ed ha imparato a controllare parole e sguardi in ogni momento per non risultare offensivo!57. L’esempio di Dioniso, il tiranno che non ha esitato a uccidere una delle persone che stavano giocando a palla con lui per un sorriso di troppo, mostra che il rischio di essere odiati da un principe può essere mortale. Poiché Piero lo ha evitato con «molta vigilanza, assiduità e osservanza [...], con ogni riguardo in favellare e degna moderazione d’ogni suo gesto»!58, la grazia sembra tanto più importante quanto meno è virtuoso il principe
di cui si vuole essere amici. . Dato che Giovanni XIII ha amato Piero da subito per avere accesso alle ricchezze della famiglia Alberti, questi non ha usato industria e grazia per diventare suo amico, ma per conservare
155 LdF, p. 335. 156 LdF, p. 340.
157 LdF, p. 341; come evidenziato in nota da Tenenti, l'esempio è tratto dalle Tusculanae disputationes di Cicerone. La mancanza di tempo da dedicare alle proprie attività è un tema tipico delle opere che sottolineano le difficoltà della vita dei cortigiani ed è ripreso, per esempio, anche nel De curialium miseriis di Piccolomini.
158 LdF, p. 341.
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il favore ottenuto concedendo in prestito l’ingente somma di denaro richiestagli!5°. Le ricchezze hanno aiutato Piero meno di quanto si potrebbe credere perché egli si è sforzato in ogni modo di evitare che il papa, principe vizioso e cupido di denaro, chiedesse ancora di più. Piero ha anche dovuto impedire che il favore concessogli dal papa generasse l’invidia degli altri cortigiani!90, Per riuscire a far «fruttare» l’amicizia stretta con Giovanni XIII, ottenendo qualcosa in cambio del denaro prestato, Piero non ha esitato a comportarsi da postulante, continuando a chiedere favori e benefici per sé e per la sua famiglia. Da queste considerazioni si evince che diventare amici di un principe significa non solo inserirsi in una rete di rapporti clientelari, ingraziandosi gli amici del principe, ma anche crearsi una propria rete di rapporti clientelari, in modo da poter favorire i membri della famiglia e gli amici. Vinte le resistenze del papa con «virtù e merito»!6! ed ottenuto quanto chiesto, Piero si è infatti mostrato assai liberale con gli altri cortigiani, distribuendo favori per guadagnarsi il loro appoggio. È evidente che anche in questo caso, e forse più che con gli altri principi, Piero ha adulato, lusingato, blandito. Le difficoltà incontrate da Piero nel mantenere l’amicizia del papa sono sottolineate da Giannozzo. Questi interrompe il suo racconto spiegando che i «preti» sono «cupidissimi» e «incontinentissimi», soddisfano tutti i loro appetiti «senza risparmio o masserizia», si circondano sempre di uomini diversi, tutti viziosi e malvagi, per soddisfare le loro infinite voglie così da generare «gare» e «sette» tra i membri del loro seguito!92. Diventa, allora, palese che i principi cui non si deve prestare denaro sono soprat-
tutto i papi. Lodando le «buone astuzie» usate da Piero, Giannozzo dice inoltre che:
159 LdE, p. 342. 160 LdF, pp. 343 e 344, dove si ripete che il papa inizia ad amare Piero solo perché vuole il denaro della sua famiglia.
161 LdF, p. 345.
162 LdE, pp. 345-346. Il riferimento alle sette che dividono la curia potrebbe essere un riflesso dell’esperienza di Alberti che, come si è già sottolineato, scrive il quarto libro della Famiglia proprio quando è a servizio del papa.
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E quale oggi sarà che in miglior fortuna non a sé stessi contenga, € quasi fugga qualunque amicizia di chi meno si sia fortunato, e da cui e s’aspetti non altro essere per averne gravezza e spesa? E chi non tutto sé dia a felici e abundanti uomini, sperando da loro aiuto e favore alle sue necessità e desideri? Tanto siamo da natura tutti proclivi e inclinati all’utile, che per trarre da altrui e per conservare a noi, dotti credo dalla natura, sappiamo simulare benivolenza e fuggire amicizia quanto ci attaglia!99.
Proprio chi ha posto in dubbio la natura gratuita e disinteressata dell’amicizia chiarisce ora che l’utile di un amico non può prevalere su quello dell’altro, perché entrambi i soggetti devono trarre vantaggio dalla relazione. Precisa inoltre che si tratta di una necessità naturale: l’uomo non permette che l’amico tragga un utile maggiore dalla relazione perché è incline all’utile per natura. Se virtù e natura coincidono, come è emerso analizzando
la sezione pedagogica della Famiglia, la domanda posta alla fine del terzo libro non può trovare una risposta molto diversa da quella con cui Lionardo aveva spiegato che tutto deve essere condiviso con l’amico. È come se Giannozzo applicasse la tesi
di Lionardo ad una situazione concreta, in cui non è la virtù ad
evitare che la ricerca dell’utile personale trasformi l’amicizia in un rapporto utilitaristico e strumentale, bensì la reciprocità degli interessi dei soggetti coinvolti nella relazione. l’ambiente di corte pare particolarmente adatto a mostrare che l’amicizia è stretta in vista dell’utile sia perché Piero cerca l’amicizia dei principi per necessità, durante l’esilio, sia perché i principi concedono la loro amicizia a Piero quando scoprono che questi può soddisfare i loro bisogni. La corte papale è il luogo migliore per mostrare che l’utile di uno dei soggetti coinvolti nella relazione non deve prevalere su quello dell’altro perché il rischio che l’amicizia non sia una relazione reciproca è maggiore che in altre corti, per l’avidità che contraddistingue i papi. Non stupisce che l’amicizia nasca e sia stretta per reciproca
utilità, perché si è detto che l’amicizia è una risposta a bisogni naturali oltre che una relazione stretta per aumentare l’onore e la 163 Ibid.
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fama della famiglia. In atto sin da quando Lionardo si richiama alla tesi epicurea della nascita dell’amicizia dall’indigentia, la rivalutazione di quelle che Aristotele avrebbe definito amicizie in vista dell’utile trova una conferma pratica nel racconto di Piero ed una conferma teorica nell’esplicito riferimento alla concezione epicurea dell’amicizia che è posto alla fine del quarto libro della Famiglia!64. Stupisce molto, invece, che la capacità di fingere benevolenza sia una capacità che l’uomo ha per natura. E colpisce ancora di più che l’amicizia sia ottenuta con astuzie e strategie, che richieda adulazione e finzione: Piero si comporta a corte come Giannozzo
ha spiegato che ci si deve comportare con i falsi amici. Visto che non esita ad adulare i principi, a lusingarli e a elogiarli senza motivo, sembra essere egli stesso un falso amico. Questo non accade solo nella corte del papa, che è l’opposto del principe virtuoso, ma in tutte e tre le corti, dove l’amicizia mostra di essere
un rapporto di natura clientelare che genera a sua volta clientele, ed è quindi una relazione con caratteristiche molto diverse da quelle attribuitele da Lionardo nella disputa con Battista. Come sostiene Langer: Inspite the fact that true friendship seems difficult mostly because of the context of the merchant and banking into which it is set, it is perhaps the courtier who represents the real problem of Alberti’s moral philosophy, given the interdependence of wealth and willful political power which enables it. The problem of the prince’s favor presents the real obstacle to the pratical
realization of the ethics of friendship!55,
L’ostacolo messo in luce da Langer sarà superato solo alla fine del quarto libro della Famiglia, dopo un’attenta analisi che ridefinisce le caratteristiche dell’amicizia emerse nella prima parte del De amicitia albertiano. 164 Il passo citato deve essere confrontato con LdF, pp. 163-164 per il chiaro riferimento all’istinto di autoconservazione. Epicuro è menzionato in LdF, p. 419: «Già che non si nega officio dell’amicizia servire a” comuni comodi [...]; e approvasi la sentenza dello Epicuro filosofo, l’amicizia esser lodato consorzio di volontà». 165 Langer, Friendship and pragmatic negotiation: Leon Battista Alberti «De amicitia», cit., p. 196.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
La riflessione di Adovardo: l’amicizia di Aristotele e Cicerone tra Alcibiade e Catilina
Nella seconda parte del De amicitia, Alberti mostra come le caratteristiche che l’amicizia manifesta a corte siano anche le caratteristiche che contraddistinguono la relazione, facendo emergere gli assunti filosofici più profondi su cui poggia la propria analisi. È Adovardo ad assumersi l’onere della prova, quando evidenzia di non essere del tutto soddisfatto dell’esito del ragionamento ed esprime il bisogno di trattare la materia «con altro filo e testura»!66. Visto che applica al racconto di Piero la distinzione aristotelica tra amicizie oneste basate sulla virtù, amicizie voluttuose basate sul piacere ed amicizie utili, Lionardo pensa che la riflessione sull’amicizia non debba essere svolta «a modo di istoria», ma «come sogliono i litterati», cioè con defi-
197. nizioni, distinzioni in «spezie», «argomentazioni e sentenze» definizioni le che sostenendo così, è non che Adovardo chiarisce
e le descrizioni «scolastice» dei litterati sono inutili per «travagliarsi in publico fra l’uso e costume degli uomini» 198, Egli dimostra di conoscere bene tali definizioni, perché cita Aristotele per
sostenere che l’amico è un altro sé, e ricorda la distinzione tra
amicizia naturale, amicizia equale e amicizia ospitale che attribuisce a Platone!69, Spiega che ritiene inutili queste definizioni per
166 LdE, p. 347.
167 Ibid. Si noti che la distinzione aristotelica cui fa riferimento Lionardo non si adatta alle tipologie d’amicizia descritte da Piero, ma ai tipi di principi: il Duca di Milano è il principe che apprezza la virtù, Ladislao quello che cerca il piacere, il papa quello che mira all’utile; è come se Alberti avvertisse sin dall’inizio della riflessione di Adovardo che è in atto una ri-definizione delle caratteristiche dell’amicizia. 168 LdE, p. 349. 169 La distinzione tra amicizia naturale, amicizia equale ed amicizia ospitale deriva dalla Vita di Platone di Diogene Laerzio: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 126. Questa distinzione viene riproposta
anche da Patrizi nel De regno et regis institutione, dove si vedrà che l’amicizia equale diventa amicizia civile. Per l’amico come altro sé vd. EN, IX, 1166a 30-31, p. 371. In EN, IX, 1168b 5-10, p. 383 sono riportati due «proverbi», quello secondo cui le cose degli amici sono in comune, che Adovardo attribuisce a Pitagora, e quello per cui gli amici hanno un’anima sola, che Adovardo attribuisce a Zenone.
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la stessa ragione per cui preferisce il medico che cura il paziente a quello che teorizza come avviene la digestione. Chiarisce infine quale sia il filo con cui tessere la trama della riflessione sull’amicizia, dicendo che: E ben sai, in tanta diversità di ingegni, in tanta dissimilitudine d’oppinioni, in tanta incertitudine di volontà, in tanta perversità di costumi, in tanta ambiguità, varietà, oscurità di sentenze, in tanta copia di fraudolenti, fallaci, perfidi, temerari, audaci, rapaci uomini, in tanta instabilità di tutte le cose, chi mai si credesse colla sola simplictà e bontà potersi agiugnere amicizia o pur conoscenze alcune non dannose e tediose? Conviensi contro la fraude, fallacie e perfidia essere proveduto, desto, cauto; contro alla temerarietà, audacia e rapina de’ viziosi opporvi costanza, modo e virtù d’animo; a qual cose i’desidero pratico alcun uomo, da cui io sia più in fabbricarmi e usufruttarmi amicizie, che in descriverne e quasi disegnarle fatto ben dotto. Così adunque vorrei dell’amicizia m’insegnassero acquistarla, accrescerla, descinderla, recuperarla, e perpetuo conservarla!70,
Il flo è quello dell’agire, intrecciato in cinque punti che mostrano come si procuri, si accresca, si sciolga, si riallacci e
si mantenga l’amicizia. Tali punti costituiscono la trama della riflessione svolta nella seconda parte del De amicitia albertiano. Mentre conferma l’orientamento pratico e pragmatico della riflessione sull’amicizia, nel passo citato Adovardo fa emergere ciò che manca nella «istoria» di Piero: la consapevolezza dell’instabilità di tutte le cose. Pertanto, non cerca solo una regola pratica dell’amicizia. Vuole, invece, una norma di comportamento che
renda capaci di far fronte a tutte le situazioni: di essere buoni con chi è buono, cauti con chi inganna, costanti con chi è vizioso. Non capendo il punto di vista di Adovardo, Lionardo ribadisce che si devono leggere le opere degli «antichi scrittori» che non si limitano a dare una definizione della vera amicizia, ma
spiegano anche come conservarla e mantenerla. S’innesca così una disputa sul valore delle riflessioni che filosofi e storici antichi hanno dedicato all’amicizia. Sebbene siano annoverati scrittori come Seneca e Luciano, la vera amicizia descritta da Lionardo è
170 LdF, p. 350, ma vd. anche LdF, p. 347.
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quella di Cicerone e Aristotele: è «coniunzione di tutte le nostre
cose divine e umane», che può essere stretta solo tra i buoni; è «l’ottima amicizia» che non tollera finzione, dissimulazioni,
ambizione né avidità perché si fonda su una «vera, costante e ferma virtù»!7!, Adovardo confuta Lionardo sostenendo che per capire cosa sia l'amicizia non si debba «averne dottrina solo da’ libri muti e oziosi», ma sia necessario «averne altra esercitazione e mani-
festa esperienza», vedendo come si realizza in mezzo alle piazze, «entro a’ teatri, fra e’ privati ridutti»!72. Il divario tra teoria e prassi che contraddistingue la prospettiva albertiana prende così la forma della contrapposizione tra vera amicizia ed amicizia. Si chiarisce solo adesso che il nodo problematico dell’analisi è costituito dall’applicazione della virtù. Adovardo spiega, infatti, che i letterati non sanno come «porgere» la loro virtù per farsi amare e ben volere, subito dopo aver citato un passo del Laelius per sostenere che proprio la virtù è «vincolo e ottima conciliatrice di amicizie»1!73, Inoltre, per Adovardo, gli storici non sono maestri di amicizia più validi dei filosofi perché la «istoria solo sempre recita perturbazioni di stati, eversioni di repubbliche, incostanza e volubilità della fortuna»!74. 171 LdF, p. 351, da confrontare con A, VI, 21, pp. 93-95 ed EN, VIII, 1156b 6-35, pp. 319-321. In uno dei dialoghi di Luciano, il Toxaris, emerge l’esigenza di una concezione pragmatica e attiva dell’amicizia perché il rude sciita che dà il titolo all’opera critica le inconsistenti disquisizioni sull’amicizia dei greci, proponendo esempi e modelli concreti. Tuttavia, come ha evidenziato Secci, questa opera di Luciano ha un andamento narrativo molto diverso da quello del quarto libro della Famiglia, che non è costruito giustapponendo esempi diversi. Inoltre, l’unico riferimento evidente all’opera di Luciano (Tox., 37) non è particolarmente significativo: in LdF, p. 374, è minutamente descritto il rito della coppa degli Sciiti per corroborare la tesi aristotelica secondo la quale si possono avere pochi amici. Vd. E. Secci, Mutevolezza dell'animo umano e certezze antiche: Aristotele e Cicerone nel quarto libro della Famiglia di Leon Battista Alberti, in Rossi, La tradizione politica aristotelica nel Rinascimento: tra familia e civitas, cit., pp. 78-108, in particolare p. 83. In questo saggio Secci evidenzia la maggior parte dei riferimenti all’Etica Nicomachea e al Laelius citati nel presente paragrafo.
172 LdE, p. 352.
173.LdF, p. 351: Adovardo cita A, XXVII, 100, p. 167. 174 LdF, p. 353: «riderei se tu meco facessi professione mostrarmi con quelle occasioni e ruine delle terre in che modo io potessi godere con felice amicizia».
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Sentendosi quasi preso in giro da Lionardo, che propone di cercare degli esempi storici che possano soddisfare il bisogno di concretezza emerso nel corso della riflessione, Adovardo mostra che l’instabilità di tutte le cose è una conseguenza della mutevolezza della fortuna, signora della storia e della vita degli uomini. Gli «infiniti esempi» che Lionardo potrebbe indicare, continuando a citare Plutarco, Svetonio, Aulo Gellio, ed Eutropio
per mostrare che l’amicizia è quella relazione fondata sulla virtù che si conserva con doni e benefici!75, stridono in modo evidente con la storia raccontata da Piero. Il contrasto si riduce quando Adovardo spiega che gli esempi degli storici e le sentenze dei
filosofi sono utilissimi, ma insufficienti, perché nessuno di loro insegna quale sia la «legge» per far nascere un’amicizia!76. È così introdotto il primo dei cinque punti indicati da Adovardo. Egli colma le lacune lasciate dagli scrittori antichi riferendosi alla propria esperienza: ha visto che l’amicizia nasce per «industria» ed ha compreso quanto sia importante «farsi chiedere, porgersi onesto, modesto, facile, affabile, incondo, astinente, officioso, e mansueto, e animoso ancora, e costante e chiaro di buona fama e
nome». Dopo questi evidenti richiami all’industria ed alla grazia di Piero, Adovardo afferma che: E meco compresi bisognaci varie arti, vario ingegno, e non poca prudenza e molto uso a legarsi gli animi degli uomini, quali sono, quanto nulla più, volubili, leggeri, facili a ogni impeto a quale e’ sieno incitati, minima favilla in loro incende grandissimo odio, minimo lustro di virtù gli abbaglia ad amarci. [...] E sarà quasi niuno che quale non desideri trovarsi spesso con chi gli renda onore, e prestili icondità e onesto riso!77,
175 LdF, pp. 354-357, con esplicito riferimenti al De beneficiis di Seneca (II, 91), come evidenziato in nota da Tenenti. 176 LdF, p. 359: «Così qui ora que? tutti essempli e sentenze, quali affermo sono apresso gli ottimi scrittori utilissimi e copiosissimi, non però prestano quanto aiuto ci bisogna. E ramentami in questo pensiero e investigazione qualche volta meco iscorsi non le cagioni solo onde nascessero le amicizie, ma ancora el modo e quasi legge d’intrarvi».
177 LdF, pp. 359-360.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Come si evince da questo passo, l’instabilità di tutte le cose non è soltanto un’evidenza storica, ma anche un dato antropologico: l’animo degli uomini è mutevole e instabile per natura. Alcune caratteristiche dei principi, quali la volubilità, l’incapacità di controllare desideri e voglie (il papa), l’irritabilità (il re di Napoli), il bisogno di circondarsi di persone in grado di accrescere l’onore (il duca di Milano) e di intrattenerli (il re di Napoli),
appaiono ora radicate nella natura umana. Si chiarisce così che la corte non è uno dei luoghi in cui gli uomini possono fare amicizia, ma il contesto in cui si palesano meglio che altrove quelle caratteristiche della natura umana che mostrano come debba essere concepita l’amicizia. L’accento di Adovardo cade soprattutto sulla diversità e sulla molteplicità dei caratteri: servono arti e ingegno nell’amicizia perché ci sono uomini «moderati nelle parole, duri a rispondere, superbi nel contenedere», «motteggiosi, festivi, lieti, ridiculi», «remissi, taciturni, umili, vergognosi»; altri «petulanti e audaci», altri ancora «doppi e molteplici, non d’ingegno solo e animo, ma in ogni risposta, atti e parola», altri infine perfidi, arroganti e «fallaci»!78. Questa dettagliata rassegna dei caratteri umani integra e completa quella proposta da Piero quando ha descritto i tre diversi principi di cui è diventato amico. Senza negare che la virtù sia importante per risultar graditi
a tutti, Adovardo sostiene che non si trova nessun uomo che si
comporti sempre in modo perfetto. Afferma altresì che vi sono pochissimi uomini che vivono seguendo «quella mediocrità qual tanto piace a’ peripatetici filosofi»!7?. La morale aristotelica del giusto mezzo lascia dunque il posto all’«astuzia» utilizzata a Genova, la città in cui Adovardo ha finto di amare una «celebra-
tissima fanciulla» serve sottolineare che ha messo in di Milano. Forse
178 LdF, p. 362. 179 LdF p. 363.
per diventare amico dei giovani del luogo. Non che egli si comporta seguendo la stessa strategia atto Piero quando è diventato amico del Duca è più utile evidenziare che Adovardo chiarisce
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che le nuove amicizie si cercano per avere qualche vantaggio150, Egli insiste, inoltre, sulle virtù /eriores del De officiis che sono servite a Piero per riuscir gradito ai principi: per «accappiarsi gli animi umani» non servono solo eloquenza, buona fama,
«indole e presenza», «modo del vivere civile», «gesti degni e aspersi d’umanità e parati a grazia», ma bisogna anche apparire «modesto, costumato di virtù» in ogni «atto, detto, fatto, abito e
portamento». L’amicizia tende così ad esteriorizzarsi, a diventare un codice di comportamento basato sulla gentilezza e la cortesia, riducendosi quasi ad una questione di buona educazione e di etichetta. Come si vedrà nei prossimi capitoli, questa tipologia di amicizia è la stessa che unisce il principe di Pontano ai sudditi e la medesima che lega Lorenzo de’ Medici ai suoi concittadini, come ritiene Platina. La distanza tra l’amicizia descritta da Adovardo e quella esaminata da Aristotele e Cicerone appare massima quando sono indicati degli esempi da imitare piuttosto insoliti, decisamente diversi da quelli proposti da Lionardo: Alcibiade e Catilina, due personaggi che non possono certo essere considerati un modello di virtù. Visto che Alcibiade e Catilina sono citati per spiegare come possano essere accresciute le amicizie, introducendo questi esempi inizia ad essere svolto il secondo dei cinque punti indicati da Adovardo. Credo che l’aneddoto relativo alle «astuzie» messe in atto da Benedetto Alberti per capire di quali collaboratori si potesse fidare nelle attività commerciali sia posto dopo l’esempio di Alcibiade e prima di quello di Catilina per legittimare la novità di modelli di amicizia così insoliti!8!, L’esempio di Alcibiade è chiamato in causa per spiegare a Lionardo che bisogna sapersi adattare alle caratteristiche degli amici, siano essi «studiosi di lettere», uomini «operosi a’ traffichi e mercantia», oppure «possenti giovani e splendidi». Sembra che non debba fingere, simulare, lusingare e compiacere solo chi
180 LdE, p. 364: «E quasi niuno correrà a congiunger teco nuova benivolenza senza
suo qualche utile proposito e sperata commodità». 181 LdF, p. 367.
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vuole diventare amico dei principi perché Adovardo dice che: Tu con ciascuno di questi ramenterei imitassi Alcibiade, quale in Sparta, terra data alla parsimonia, esercitata in fatiche, cupidissima di gloria, era massaro, ruvido, inculto; in Ionia era delicato, vezzoso; in Tracia con quelli si adattava a bevazzare ed empiersi di diletto; e tanto sapea sé stessi fingere a quello che acadea in taglio, che sendo in Persia, altrui patria, pomposa, curiosa d’ostentazioni, vinse el re Tisaferne de elazione d’animo e di magnificenza!82,
Con il secondo esempio si trasforma in un elogio quella che in Sallustio era una denuncia sdegnata delle turpissime arti usate da Catilina per legare indissolubilmente a sé giovani già inclini al vizio ed alla depravazione. Adovardo dice, infatti, che: Onde poi conosciuta la natura e’ modi di quelli quali tu proponi accoglierti e accrescerti ad amicizia, sta luogo usare l’industria di Catelina, uomo in questo certo prudentissimo e ottimo artefice, quale a questo donava lo sparviere, a quello l’arme, a quest'altro il ragazzo, e a tutti quello di che in prima si dilettasse. E vidi io inseminare e farsi molto maggiore la benivolenza non raro ancora fra chi te mai non vide, quando fummo lodatori e quasi promulgatori delle virtù sue; quando difendemmo la dignità e la autorità e nome suo appresso de’ maledici e detrattori, quando fummo ai suoi amici e procuratori con nostra opera, consiglio e suffragio utili, e in aiuto conservarli e accrescerli utilità e pregio; quando sovvenimmo alle loro aspettazioni e desideri!83,
Mentre l’esempio di Catilina non compare più nel quarto libro della Famiglia, l'esempio di Alcibiade ritorna ancora una volta. Compare alla fine della lunga riflessione sviluppata quando Lionardo ha ammesso che si trova «artificio ad amicizia in mezzo
l’uso e la conversazione degli uomini più molto che ne?’ nostri, quali io troppo approvava libri e discipline scolastiche»!84, Verso _ la fine del De amicitia si legge, infatti, che:
182 LdF, pp. 365-366. L’esempio di Alcibiade è tratto dal XXII capitolo della Vita di Alcibiade di Plutarco. Non è la prima volta che Adovardo fa il nome di Alcibiade, ma l’esempio proposto in LdF, p. 363, è ben diverso da quello successivo perché nel primo caso Alcibiade non è un modello positivo. 183 LdE, p. 368; l’esempio è tratto da Sallustio, De coniuratione Catilinae, XIV 5, ma si veda anche l’inizio del paragrafo: Sallustio, La congiura di Catilina, trad. it. a cura di C. Pontiggia, con testo latino a fronte, Milano, Mondadori, 2008, p. 20. 184 LdE, p. 369.
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E quanto Lelio appresso di Cicerone dicea sé in cosa alcuna mai essere stato grave a Scipione, mai da lui avere ricevuto cosa ingrata, così noi molto fuggiremo essere non iocundissimi e accettissimi a chi vorremo esserci affetti
da benevolenza. E dove in quelli quali riputiamo benivoli, quasi da natura forse saranno elevazioni d’animo inette, e arderanno di immodestia e non molto comportabile cupidità d’essere più che non meritano pregiati; e dove alcuni forse saranno di natura dura e solitaria, ivi seclusa ogni assentazione, quale sempre fu servile e indegna d’animo onesto, provederemo con iocundi ragionamenti contenerli a noi molto benivoli. E come diceano sapea Alcibiade, così noi imiteremo el camaleonte, animale quale dicono ad ogni prossimo colore sé varia ad assomigliarlo. Così noi co? tristi saremo severi, co’ iocundi
festivi, co’ liberali magnanimi; e quanto dicea Cicerone al fratello, la fronte, el viso, le parole, e tutti e’ costumi, accomodaremo a’ loro appetiti!85.
Per comprendere perché sia possibile proporre Alcibiade come esempio dopo un esplicito riferimento all’amicizia virtuosa stretta tra Lelio e Scipione, occorre mostrare che l’amicizia camaleontica che Alberti propone, estendendo a tutti rapporti amicali le caratteristiche che l’amicizia ha nella corte, non è altra cosa rispetto all’amicizia aristotelico-ciceroniana. Si deve però tenere
ben presente sin d’ora che il confine tra simulazione onesta e adulazione, che è tracciato nel passo citato escludendo la «assentazione», appare piuttosto instabile. Già prima che Lionardo riconosca i limiti delle analisi libre185 LdF, p. 417; corsivo mio. Come notato da Narducci, Adovardo offre il comportamento di Alcibiade come illustrazione del contegno che Quinto Cicerone raccomandava al fratello Marco Tullio nel Commentariolum petitionis, un’opera in cui il ricorso alla lusinga e alla adulazione è considerato legittimo durante la campagna elettorale: vd. Narducci, Tra Alcibiade e Catilina. Spunti «ciceroniani» in Leon Battista Alberti, cit., pp. 270-271. La definizione di Alcibiade come camaleonte proviene dalla Vita di Alcibiade di Plutarco. Tuttavia, nel passo citato, secondo Narducci, vi è anche un riferimento al Catilina della Pro Celio: in questa orazione Cicerone lo presenta come un uomo capace di volgere e rivolgere la sua natura a tal punto che gli era facile «cum tristibus severe, cum remissis iocunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum
facineriosis audaciter, cum libidinosis luxuriose vivere». Adovardo non menzionerebbe i libidinosi e i facinorosi ricordati nella Pro Celio per non compromettere in maniera irrimediabile l’«onestà» del proprio punto di vista (ivi, p. 272). La tesi di Narducci
appare particolarmente significativa perché il Catilina della Pro Celio è preso come modello di simulazione e dissimulazione in un passo emblematico per comprendere il camaleontismo di Momo: L.B. Alberti, Momus o del Principe, ed. critica e trad. a cura di R. Consolo, introd. di A. Di Grado, Genova, Costa e Nolan, 1986, pp. 98-99.
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sche e scolastiche sull'amicizia, Adovardo riduce il divario tra teoria e prassi che è emerso nella disputa, sostenendo di non voler negare che le amicizie nascano per virtù, utile o piacere!86. Sembra contraddire il giudizio che ha dato sugli scrittori antichi, perché arriva addirittura ad affermare che «niuno sarà ancora tinto di lettere che me non riprenda arrogante e non contento della dottrina e’ scritti dei maggiori filosofi»!87. Tuttavia, la contraddizione è solo apparente. Si è già visto, infatti, che le tesi sostenute nelle dispute possono essere comprese e valutate solo alla fine della discussione, alla luce del contesto più generale in cui sono inserite. Del resto, la continuità con la riflessione svolta
in precedenza emerge non appena è ripresa la distinzione aristotelica tra amicizie in vista della virtù, dell’utile e del piacere che Lionardo aveva proposto di applicare al racconto di Piero. Chiarendo che non sosterrà nulla che sarebbe «contro a’ primi vulgatissimi precetti di amicizia», Adovardo mostra di voler riprendere i precetti esposti dal suo interlocutore. Alla fine della disputa, questa esigenza è sollecitata dallo stesso Lionardo, in un passo di raccordo in cui ricorda i cinque punti attorno a cui deve ruotare la riflessione. Emerge qui un altro elemento che non è stato messo in luce nel racconto di Piero: l’insondabilità e l’inconoscibilità dell'animo umano. Come nota Secci, gli anthropika aristotelici, ossia i diversi caratteri descritti nell’Etica Nicomachea, lasciano il posto alle «occulte latebre degli animi umani», perché Alberti avverte il bisogno di indagare i moventi segreti, le inclinazioni profonde e le reazioni ignote degli uomini!88, In nessuna delle altre opere esaminate in questo saggio si trova un’indagine psicologica così raffinata come quella
186 LdF, p. 368, in particolare: «Tu solo affermavi quel che né io nego, l’utile, l'onestà, la voluttà dare principio ed esordio alle amicizie».
187 LdE, p. 371.
188 Secci, Mutevolezza dell'animo umano e certezze antiche: Aristotele e Cicerone nel quarto libro della Famiglia di Leon Battista Alberti, cit., pp. 94-95, in cui si rimanda ad EN, VIII, 1157b 10-15, p. 327 oltre che A, X, 33, p. 109; A, XX, 74, p. 145; A,
XXI, 77, p. 147.
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proposta nel quarto libro della Famiglia per cogliere la natura multiforme dell’animo umano. Quando gli assunti filosofici rimasti in ombra nel racconto di Piero sono esplicitati, la riflessione sull’amicizia sembra ricominciare da capo, con un taglio argomentativo e analitico che tende a trasformare questa parte del dialogo in un trattato. Sebbene rifiuti di moltiplicare le «questioni» e i «dubbii» con un’evidente presa di distanza dai commentari dell’ottavo e del nono libro dell’Etica Nicomachea!8?, Adovardo procede nell’analisi in modo aristotelico: definisce l’amicizia, distingue l’amicizia dalla benevolenza, descrive le caratteristiche delle amicizie oneste, voluttuose e piacevoli, spiega quanti amici si possano avere!9. La distinzione tra amicizia e benevolenza e la caratterizzazione dei tre tipi di amicizia rimandano in modo abbastanza evidente ad alcuni passi dell’Etica Nicomachea!9!. La definizione della perfetta amicizia inizia, invece, con la citazione esplicita di un passo del Laelius: «l’amicizia, la quale così si chiama perché in lei solo in
189 LdF, p. 373: «Sarebbe chi forse in questo luogo s’estenderebbe e ostenterebbe l'ingegno suo moltiplicando a questa materia questioni: se forse ad amicizia più siano atti i ricchi uomini che i fortunati; e quale sia più in amore constante, o chi da te bisogno domanda, o tu che libero el ricevi; e se i prudenti più sono ch’ e’ non prudenti, tardi a farsi familiari e domestichi; e se virtuosi più altri amano, che da altri sono amati. E simili potre’ io ancora qui addur non pochi, ma non forse qui molto accomodati dubbii, quali altrove fra chi si diletta in scuole gloriarsi disputando più saranno grati». Per un’analisi della struttura e della diffusione dei commentari all’ottavo e al nono libro dell’Etica Nicomachea vd. B. Sère, Penser l’amitié au Moyen Age. Ètude historique des commentaires sur le livres VIII e IX de l’Éthique à Nicomaque (XIII-XV siècle), Turnhout, Brepols, 2007, in particolare: Commentaires Florentins du XV siècle: Pamitié entre intérét humaniste et tradition scolastique, pp. 371-384. A p. 371 Sère menziona il certame voluto da Albert ricordando che l’«amitié vraie» su cui vertono i componimenti della gara «est aristotélicienne», ed è «celle que l'Érhique s'emploie à definir». 190 LdE, pp. 375-382. 191 Per la distinzione tra amicizia e benevolenza vd. EN, VIII, 1155b 33-34, p. 315 (l’amicizia è benevolenza contraccambiata) e 1156a 1-5, p. 315 (l’amicizia è benevolenza espressa); EN, IX, 1167a 11-33, p. 375 (la benevolenza è un’amicizia non in atto); per la distinzione tra amicizie basate sulla virtù, sul piacere, e sull’utile vd. EN, VIII, 1156a 6-1158a 29, pp. 315-331 ed EN VIII, 1159b 10-24, p. 335. Si noti che nel Laelius non si trova il trinomio virtù, piacere, utilità, perché Cicerone non prende in considerazione la motivazione legata al piacere per spiegare la genesi dell'amicizia.
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prima vi si pregia quella affezione d’animo chiamata amore»!%2. Le componenti ciceroniane, che paiono orientate all’agire, quali, per esempio, le «comunicazioni di studi, opinioni e fortune» o lo «scambio di ogni officio», si sovrappongono a quelle aristoteliche, che definiscono la relazione da un punto di vista teorico!93. Come si evince dall’uso del termine onestà quale sinonimo del termine virtù, è impossibile distinguere chiaramente le une dalle altre. L’amicizia è ri-definta, su basi aristoteliche e ciceroniane, mentre Adovardo mostra come si rescindano, si riallaccino e si
mantengano le amicizie. Il tema dello scioglimento delle amicizie è particolarmente interessante perché è affrontato con un’analisi molto ampia, mentre è solo accennato nell’Etica Nicomachea e nel Laelius. Aristotele si sofferma brevemente sul problema costituito dal dialuesthai philias chiedendosi se l’amicizia debba essere sciolta all'improvviso quando l’amico cambia. Concentra la propria attenzione sulla disuguaglianza rispetto alla virtù, senza spiegare come si debba effettivamente trattare l’amico meno virtuoso. Cicerone sfiora la questione del dimittere amicitias in diversi punti del dialogo, ma l’unico passo del Laelius espressamente dedicato a questo tema è quello in cui consiglia di spegnere piuttosto che di soffocare le amicizie!?4, Adovardo comincia la sua analisi chiarendo che bisogna cercare di correggere l’amico in ogni modo prima di rompere il rapporto, ed insistendo sul fatto che si devono rompere solo le amicizie strette con chi danneggia la virtù e la fama dell’altro con i suoi vizi. Collocando in un nuovo contesto alcuni passi mutuati dall’Etica Nicomachea e dal Laelius, sostiene che non si
deve provare odio né desiderio di vendetta, perché la virtù porta a voler bene anche a chi non merita più la nostra amicizia. Chiarisce, inoltre, che non vi sono molti motivi per rompere l’ami192 LdF, p. 371 da confrontare con A, XVIII, 26, p. 103. 193 LdF, p. 381. 194 EN, IX, 1165b 1-37, pp. 367-369; A, XXI, 76-78, pp. 147-149 per il passo specifico; per la riflessione più generale sui limiti all'amicizia, A, XVI, 56, p. 129 e A,
XVII, 61, pp. 133-134.
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cizia. Infatti, la virtù non impone solo di aiutare gli amici con liberalità nei momenti del bisogno, ma spinge fino al sacrificio della vita!95. È soprattutto il Laelius ad essere usato per spiegare ciò che Aristotele e Cicerone lasciano nell'ombra. L'immagine ciceroniana del fuoco, per esempio, viene rielaborata per creare la metafora della brace con cui Adovardo sottolinea che l’affetto deve rimanere anche quando l’amicizia si spegne!%, Dopo aver affermato che l’amicizia si può rompere solo a causa dei vizi più gravi che generano infamia, a cominciare dal tradimento della patria, Adovardo prosegue la riflessione mostrando particolare attenzione per le conseguenze pratiche della rottura dell’amicizia!?7. Mano a mano che gli esempi degli storici e i detti
dei filosofi si infittiscono, tutti gli elementi discussi in precedenza tornano in primo piano, trovando un nuovo equilibrio. L’ap-
profondita descrizione dei tipi e dei caratteri umani (i permalosi, gli insolenti, i diffamatori, i maldicenti, i bugiardi, gli iracondi e gli irascibili) proposta quando era stata esaminata la genesi dell’inimicizia consente ora di fornire una vera e propria tattica di comportamento. Essa si basa sui tre precetti che Adovardo ricorda a Lionardo, ribadendo che l’uomo è l’essere più esposto alla fortuna, che il nemico è pur sempre un uomo, e che l’animo umano è volubile!?8. Poiché Adovardo pone l’accento sulla virtù anche quando spiega come comportarsi con i nemici, dovrebbe essere chiaro che l’instabilità di tutte le cose e l’insondabilità dell’animo umano condizionano l’amicizia, ma non la privano affatto della dimensione etica che la contraddistingue.
195 LdE, pp. 383-386, da confrontare con A, XI, 38, p. 115; LdF, pp. 388-390, da confrontare con EN, IX, 1169a 18-21, p. 385 ed EN, 1171b 20-23, p. 399. Quanto
sostenuto in questi passi trova riscontro in A, VII, 24 p. 99 e XIII, 44, p. 121. 196 LdF, p. 385 e p. 392, da confrontare con A, XXI, 78, p. 149; LdE, pp. 383, 390, 395, 397 e 401, da confrontare con A, XVII, 61, p. 135.
197 LdF, p. 393; la brace dell'amicizia deve essere mantenuta anche per evitare «alcuno maggiore incomodo». 198 LdF, p. 406. Per evitare fraintendimenti, preferisco parlare di un ritratto dei caratteri e dei tipi umani piuttosto che di un’analisi della psiche, anche se Secci ricorre più volte a questa espressione nel saggio citato.
no
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La valenza
morale
dell’amicizia,
che era
stata
messa
in
questione dagli esempi di Alcibiade e Catilina, diventa ancora più evidente quando Adovardo spiega come si riallaccino le i rapporti!99. Non si limita ad insistere ancora una volta sulla
virtù, dicendo che il nemico deve essere allontanato vivendo in
modo onesto e degno di lode oppure reso amico, ma specifica
anche che «Ia facilità, benignità, liberalità e simili virtù, come a iungere nuova amicizia così ancora molto muovono gli animi,
benchè acerbi e duri, a rapacificarsi in antiqua benevolenza con chi le senta né fitte né simulate»209, Le virtù /eniores che hanno permesso a Piero di diventare amico dei principi tornano così in primo piano. I limiti imposti alla possibilità di fingere e simulare, questa volta, sembrano più chiari perché l’amico deve sentire che il tentativo di farsi ben volere è sincero. Se il nodo problematico della riflessione sull’amicizia è quello del «saper porgere», cioè il passaggio dalla virtù all’applicazione
della virtù, la soluzione sta nel fatto che si devono mostrare le
virtù che effettivamente si possiedono. Credo che sia una soluzione ciceroniana, perché nel De officiis Cicerone ricorda che la via più breve per giungere alla gloria consiste proprio nel fare in modo di essere come si vuole apparire?0. La simulazione sembra esclusa con forza perché l’animo umano appare per sua natura mutevole e instabile: i comportamenti devono riflettere l’indole degli uomini. Viene rifiutata con altrettanta decisione anche l’aduche lazione. Dopo aver consigliato di evitare quei comportamenti suscitano odio ed invidia e quegli atteggiamenti che attestano superbia?02, infatti, Adovardo afferma che «è nostro officio non 199 Si noti che oltre alle opere di Diogene Laerzio, Gellio, Livio, e Plutarco, da cui aveva attinto anche Lionardo per proporre esempi di amicizia, Adovardo cita anche la À Ciropedia di Senofonte. 200 LdF, pp. 409-410 e LdF, p. 412, un passo in cui l’umanità è associata alla facilità. Queste sono due virtù capaci di mantenere le amicizie perché evitano la nascita dell’odio. 201 Of, II, XII-XIII, 43-44, p. 165. 202 LdF, pp. 413-416: mentre Adovardo si riferisce esplicitamente ad Aristotele per sottolineare che la superbia rende poco amabili, quando definisce l’odio come il veleno dell'amicizia cita A, XXIV, 89, p. 157 senza indicare la fonte.
1. A GUISA DI INTRODUZIONE
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biasimare niuno e lodare chi ‘l meriti e darci quasi precones e promulgatori delle virtù dei nostri amici»203, Questa tesi funge da premessa alla seconda comparsa di Alcibiade come esempio. Si dovrebbe allora comprendere che l’amicizia camaleontica di Alcibiade non è una forma di finzione né un tipo di adulazione, ma la capacità di risultare «iocundissimi e accettattisimi», piacevoli e amabili. Come Lelio, ma non solo con
un amico come Scipione: con tutti gli uomini, principi inclusi. 1.4 Considerazioni
Dall’analisi dei libri della Famiglia sono emersi alcuni temi chiave della riflessione sull’amicizia che saranno ripresi nelle opere esaminate nella seconda parte del saggio. Alcuni temi riguardano l’ambito della famiglia, che è concepita come un insieme di rapporti d’amicizia quando Alberti sottolinea la superiorità dei legami di amicizia sui vincoli di parentela ed esamina il rapporto esistente tra l’amore e l’amicizia. Altri concernono l’educazione, che non deve essere solo una formazione umanistica, finalizzata al raggiungimento della virtù ed al contenimento delle passioni, ma anche una pedagogia delle relazioni. Come si è visto, infatti,
i membri della famiglia Alberti devono imparare ad essere amati e a farsi amare. Altri temi sono invece connessi all’elaborazione dell’idea di vita attiva, perché Alberti pone l’amicizia come fine delle attività umane e sottolinea che l’uomo è nato non solo per se stesso, ma anche per la patria e per gli amici. Come anticipato nella premessa, sono le considerazioni che suggeriscono di prendere in esame la Vita civile di Palmieri. Vi sono poi temi che riguardano la caratterizzazione dell’amicizia: la tripartizione aristotelica tra amicizie in vista della virtù, dell’utile e del piacere e quella «platonica» tra amicizia naturale, amicizia equale ed amicizia ospitale; la distinzione tra vera amicizia e amicizie volgari; la connessione tra amicizia e liberalità; la contrapposizione tra amici e adulatori; l’esteriorizzazione dell’amicizia che diventa un codice di compor203 LdF, p. 417.
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tamento, un’arte da usare per riuscire ad esser amabili e piacevoli con tutti, anche con i principi. Infine, è un tema chiave anche l’idea che il principe debba avere amici, essere amato e non temuto. Tali riflessioni saranno riproposte nelle raccolte quattrocentesche di consigli per i principi che ho deciso di prendere in esame perché includono sezioni complementari al racconto di Piero. Dall’analisi sviluppata nel quarto libro della Famiglia si evince che l’idea aristotelica di amicizia è ripresa insieme a quella ciceroniana ed è sovrapposta ad essa: l’amicizia è la teleia philia di Aristotele e la vera amicitia di Cicerone. È una relazione che ha una dimensione etica evidente perché è fondata sulla virtù. La valenza morale dell’amicizia può apparire più o meno accentuata, ma non è mai negata: sebbene non sia una relazione completamente gratuita e disinteressata, perché è fondata su bisogni naturali ed è cercata in vista dell’utile, l'amicizia non è mai un rapporto meramente utilitaristico e strumentale. Come si è cercato di mostrare analizzando il racconto di Piero, non è il riconoscimento dell’uti-
lità della relazione a costituire un problema, ma la sua collocazione nel contesto della corte. Qui l’amicizia diventa una relazione di natura clientelare, che si cerca per avere e distribuire favori, si ottiene con astuzie, si mantiene adulando e fingendo, e tende a
coincidere con la capacità di risultare piacevoli e amabili. Come
dovrebbe essere emerso
nel corso dell’analisi, però,
queste caratteristiche non appartengono solo alle amicizie che si realizzano a corte, ma a tutti i tipi di amicizia perché sono radicate nella natura umana e dipendono da assunti filosofici ben precisi. Lo sforzo fatto da Alberti nella seconda parte del De amicitia per ricondurre tali caratteristiche al modello aristotelico e ciceroniano mi sembra particolarmente degno di nota. Non tanto perché sia uno sforzo riuscito, quanto, piuttosto, perché anche gli autori delle opere esaminate nei prossimi capitoli continueranno a descrivere l’amicizia in termini aristotelici e ciceroniani, parlando di vera e perfetta amicizia, ma coloreranno la relazione di nuove sfumature, non immediatamente riconducibili alla riflessione di Aristotele e Cicerone. Questi autori, però, non hanno la mede-
sima consapevolezza di Alberti: la loro riflessione sull’amicizia
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pare meno problematica di quella delineata nel quarto libro della Famiglia, perché non sembrano rendersi conto che citano passi di Dione di Prusa, Isocrate, Sallustio o Senofonte per colmare le lacune che Alberti riempie, come si è visto nell’ultimo paragrafo, continuando ad attingere dall’Etica Nicomachea di Aristotele e dal Laelius di Cicerone. Sebbene gli autori delle opere esaminate nella seconda parte del saggio non esprimano il bisogno di dare un orientamento pratico e pragmatico alla loro riflessione sull’amicizia, come fa invece Alberti, si vedrà che questo orientamento è implicito nella loro riflessione ed emerge non appena si consideri che alcuni di essi cercano di inserirsi nelle corti dei principi per cui scrivono le loro opere. Come si vedrà nel terzo capitolo, anche la riflessione sull’amicizia delineata nella Vita civile ha un orientamento pratico e pragmatico: non solo perché Palmieri partecipa attivamente alla vita politica, ma anche perché si riferisce alle lotte tra fazioni che hanno lacerato Firenze per mostrare il valore politico dell’amicizia. Come si è cercato di mettere in luce, Alberti riprende da vicino molti passi dell’Etica Nicomachea. Non riprende, però, quei passi in cui Aristotele sostiene che l’amicizia tiene unite le città, sottolinea che l’amicizia e la giustizia riguardano lo stesso ambito e le stesse persone, identifica l’amicizia con il legame che unisce le diverse comunità che compongono la polis, attribuisce un tipo di amicizia ad ogni forma di governo (tranne che alla tirannide) e identifica l’amicizia politica con la concordia?04, È un’assenza significativa, perché sono i passi aristotelici da cui emerge più chiaramente il valore politico dell’amicizia. Ci si aspetterebbe di trovare citati questi passi quando Alberti accenna alla «publica amicizia», ponendo la relazione alla base del processo di socializzazione dell’uomo. Invece, come si è mostrato 204 EN, VIII, 1155a 20-29, pp. 311-313 (l’amicizia tiene unite le città); 1159b1161a, pp. 335-343 (amicizia e giustizia riguardano lo stesso ambito e le stesse persone, ogni comunità che è parte della comunità politica ha la sua forma di amicizia; ad ogni costituzione corrisponde un tipo di amicizia tranne che alla tirannide) ed EN, IX, 11167a 21-1167b 4, pp. 375-377 (la concordia è amicizia politica): sono le tesi discusse nella premessa.
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nel corso dell’analisi, egli non approfondisce questo argomento. Non spiega neppure perché l’amicizia sia necessaria alle repubbliche e ai principati. Per cogliere il valore politico che ha l’amicizia nella città bisognerà analizzare le pagine della Vita civile, in cui Palmieri riprende i passi dell’Etica Nicomachea tralasciati da Alberti. Tuttavia, la città non è assente dall’orizzonte della
riflessione delineata nel De amicitia albertiano. Si deve infatti ricordare che Piero riesce a diventare amico dei principi durante l'esilio, quando non può cercare l’appoggio e la protezione di cui la sua famiglia ha bisogno tra i concittadini. Inoltre, il libro della Famiglia dedicato all’amicizia è stato offerto in dono al Senato e al Popolo fiorentino durante il certame. Il valore politico dell'amicizia emerge molto chiaramente proprio in uno dei componimenti scritti per la gara di poesia: la canzone Sacrosanta, immortal, celeste e degna, composta e reci-
tata da Francesco d’Altobianco Alberti?05. Essa si apre con una 205 Durante il certame sono recitati i componimenti di Francesco d’Altobianco Alberti, Antonio degli Agli, Mariotto d’Arrigo Davanzati, Anselmo Calderoni, Benedetto di Michele Accolti, Ciriaco dei Pizzicolli d’Ancona, Leonardo Dati e dello stesso
Leon Battista Alberti. Il componimento di Antonio degli Agli identifica amicizia e carità sulla base dell’aucitoritas agostiniana, mostrando un’evidente ispirazione teologica e mistica. D’ispirazione platonica appare, invece, il componimento di Ciriaco dei Pizzicolli d’Ancona, che dipende dal Liber de Causis e dal De spirituali amicitia di Aelredo di Rilveaux piuttosto che dal Timeo di Platone. Il componimento di Benedetto di Michele Accolti riprende i modelli argomentativi della tradizione scolastica, coniugando le citazioni tratte dall’ottavo e dal nono libro dell’Etica Nicomachea con
quelle mutuate dal Laelius ciceroniano. Si richiama ad esso anche Anselmo Calderoni, citandolo prevalentemente attraverso volgarizzamenti e florilegi trecenteschi. Tra questi pare particolarmente rilevante l’antologia tardo antica di Cesare Balbo, che riporta molte sentenze morali di filosofi greci e latini sull'amicizia, poste alla base dell’intero componimento di Mariotto d’Arrigo Davanzati. Non cita nessuna sentenza e nessuna aucoritas Leonardo Dati, l’autore della scena tripartita che descrive la discesa dal Cielo di Amicizia ed è strettamente collegata agli esametri recitati da Leon Battista Alberti sia per il tema sia per lo stile. Per l’edizione critica dei componimenti, recitati e non, vd. Bertolini (a cura di), De vera amicitia: i testi del primo certame coronario, cit. Non insisto sul fatto che Francesco d’Altobianco Alberti sia un poeta «militante», schierato contro i Medici, perché nella canzone del certame la polemica contro i Medici è assente. Proponendo una interpretazione antimedicea del certame, Martelli attesta la fede politica di Francesco d’Altobianco analizzando il sonetto del settembre del 1433, in cui il poeta apostrofa Firenze per lamentare il dolore provato nel vedere «gli antichi e cari figli» della repubblica sopraffatti dagli «avventizi» filomedicei, e la canzone Firenze
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lunga apostrofe ad un’innominata entità femminile, che potrebbe essere l’amicizia, la giustizia, oppure la filosofia morale che Palmieri elogia nella Vita civile2°. Dopo aver definito l’amicizia con versi in cui si trovano evidenti riferimenti all’ Etica Nicomachea, al Laelius e alla Famiglia, il poeta dice?07; Che necessaria ed util sia chiarita questa nostra amicizia, ognun l’afferma e così per gli antichi è diffinita. Ciò che s’ha a ministrar guida e conferma questa in ogni atto pubblico e privato,
mia, benché rimedi iscarsi del 17 marzo del 1450, in cui l’invettiva contro i fiorentini filomedicei assume forme dantesche e petrarchesche: vd. Martelli, Il Quattrocento. Politica e letteratura, cit., pp. 57-58. 206 Bertolini (a cura di), De vera amicitia: i testi del primo certame coronario, cit., pp. 187-188 per l’esegesi dei versi dell’apostrofe. 207 Ivi, pp. 198-200 e p. 204. La definizione di amicizia che precede i versi citati è la seguente: «Solo nell’almo consiste e s'appartène / chi al virtiioso amico usar per tutto / quel ch’al debito ufizio suo convène. / L’amico è un altro io proprio redutto; / fitte son l’amicizie per le quali / del vero amor in fuor segu’ altro frutto. / Assentatori e simil non leali, / sol nel domestico uso han quella parte / familiar, ma l’opre son mortali. / Solo è l’amar chi con ingegno e arte / desidera e ben porge chi conviensi / d’esser laudato in palese e in disparte. / Sentenzia Plutarco ancor mantiensi benevolenza con virtute e grazia, / numisma d’amicizia esser contiensi / come l’uso che mai gli amici sazia / serva giocondità perfetta e ’ntera e virtù, degnità con buona audacia. / Felice è quella che poco o nulla spera / in cosa che leggier col tempo passi / ma solo in te, che se’ costante e vera. / Marco Mannilio nostro, a chi gustassi / ben sua sentenzia volle (e qui pon cura / perché in dubbio giammai si rivocassi) / che nulla mai creasse in sé natura / maggior che d’amicizia un colmo petto / né sia cosa più rara e più sicura. / Tutti gli antichi e
moderni ch’ han detto / d’esta nostra virtù, chiari ed aperti / concorron quasi in un medesmo effetto: / seguon dell’amicizia utili e certi commodi ne? bisogni e casi avversi I (e que? lo sanno che son del fatto esperti) / seguon anche piaceri vari e diversi / ne’ prosperi successi, e segue laude a chi ver amando mantenersi. / Util grata e lieta gaude, / diletta e necessaria infra” mortali / che prieghi onesti interamente esaudi / Raccolto ha in sé più parti principali: /grazia munificenzia, benefizio / e altre, che’ ntendendo sapra’ quali. / Risiede ognuna al suo debito offizio: / verità, fede, sì religione / che conservano in noi vero iudizio / Semplice umana, e facil d’intenzione. / S’aggiungon oltr’altre a questa insieme, / secondo che pe’ saggi si dispone. / Segue dall’opre sua fruttevol seme / consiglia, conferisce, emenda e aita / magnanima perdona e mai non teme» (ivi, pp. 194-198). Per i riferimenti ai passi aristotelici, ciceroniani e albertiani vd. le note critiche di commento. Nei versi omessi viene evidenziato il valore della amicizia nelle «private cure, opre e consigli»: il poeta nota che gli amici permettono di preservare «la cosa familiare» (p. 202) e cita una serie di esempi, tra cui non può mancare quello di Lelio e Scipione (p. 203).
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ma senza lei ogni opra è vana e inferma. In qualunque republica o senato sanza compagni fidi e diligenzia nulla può ben condursi in magistrato Ed a questo concorre ogni sentenzia d’autorità, gli esempli e i casi strani, insieme con la vera esperienzia: sì coi nimici prossimi e lontani, sì in osservar le leggi e consigliare, sì in conservar col tempo esti ben vani,
nulla senza gli amici si può fare; ma coi consigli uniti, e opre loro, pace e quiete a’ tuo puo’ ministrare
ESSI Ma qual sia l’amicizia e quanto giova. Quel ch’ ella ’mporti, aoperi, e contenga, compreso avete e come ella s'approva; e quanto in ogni parte essa mantenga
la degnità, gli stati, e più quant’ella gli accresca e le discordie abbassi e spenga.
L’amicizia non ha valore e funzione politica solo perché l’appoggio degli amici è indispensabile a chi ricopre qualche carica («in qualunque repubblica o senato sanza compagni fidi e diligenza nulla può ben condursi in magistrato»), ma anche e soprattutto perché spegne le discordie garantendo la pace e la quiete della città. Negli ultimi versi citati si sente l’eco della tesi aristotelica, che sarà sostenuta anche da Palmieri, secondo la quale l’ami-
cizia politica coincide con la concordia e l’unità della città. Concludendo questo primo capitolo, vorrei ribadire che l’analisi dedicata ai libri della Famiglia ha carattere introduttivo. Mette in luce alcuni frammenti dell’idea albertiana di amicizia, tessere di
un mosaico molto più complesso, che potrebbe essere ricostruito solo esaminando più in profondità il pensiero del filosofo. Infatti, oltre all’Alberti della Famiglia, che celebra gli studia bumanitatis come strumento di convivenza civile ed esalta l’uomo attivo e virtuoso, vi è anche l’Alberti del Momus e delle Intercenales. È l’Alberti «dei toni cupi, notturni e allucinati, del pessimismo
amaro e del senso tragico della realtà, della miseria umana e
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della follia universale, dell’inno non all’uomo virtuoso, razionale
e attivo, ma al vagabondo fantastico e ozioso». Come avverte Garin, «bisogna resistere alla tentazione di risolvere le contraddizioni della riflessione albertiana nella successione cronologica delle opere e nella differenza dei generi letterali, perché la forza di Alberti dipende proprio dalla capacità di esasperare il contrasto, tenendo legati insieme i termini dell’opposizione»?08, L’irriducibile complessità della riflessione albertiana emerge anche se si considera l’idea di amicizia, che è caratterizzata in modo
diverso in opere diverse. Per ricostruire il mosaico si dovrebbe innanzitutto esaminare il Momus sive de principe, un’opera unica nel suo genere che, visti gli intenti satirici e la polemica anticuriale sviluppata in essa, può essere accostata alle opere de principe e de regno esaminate nella seconda parte del saggio più difficilmente di quanto non sia possibile accostare la Famiglia alla Vita civile. L’amicizia camaleontica che emerge dalle considerazioni svolte da Adovardo e Lionardo rimanda, infatti, abbastanza chiaramente al
camaleontismo di Momo?09, Si deve inoltre considerare che mentre 208 Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 2 Miseria e Grandezza dell’uomo, cit., pp. 170-171. 209 Per la dimensione curiale del Momus vd. M. Miglio, Niccolò V, Leon Battista Alberti, Roma, in Chiavoni, Ferissi e Grassi (a cura di), Leon Battista Alberti e il
Quattrocento, cit., pp. 46-64: Miglio cerca la chiave interpretativa dell’opera suggerendo un parallelismo tra Momo e Porcari (il congiurato che ha attentato alla vita di Papa Niccolò V), mettendo in relazione la scelta di rifare il mondo con l’oro degli ex voto, fatta da Giove, con le opere edilizie realizzate da Niccolò V grazie all’oro del giubileo. Gli intenti parodistici di Alberti non riguardano solo la corte papale, ma anche le raccolte di consigli per i principi, se è lecito considerare le tabellae che Momo lascia a Giove come un piccolo speculum principis: Giove legge i precetti sul governo che gli ha consegnato Momo solo quando ha definitivamente rinunciato al rovinoso progetto di riformare il mondo e Momo è ormai definitivamente caduto in disgrazia. Il Momus è un libro difficile da comprendere perché è sospeso tra il satirico e l’ironico, è dominato dalla dimensione teatrale ed è un intreccio di modelli diversi: il dialogo di Apuleio si fonde con la satira di Luciano, le citazioni di Cicerone e di altri autori classici si sovrappongono a quelle del ventitreesimo frammento di Stobeo, noto anche come Kore Kosmou, che è parte del Corpus Ermeticus. Le difficoltà di comprensione dipendono in parte dal fatto che Alberti tende ad evitare con cura la formulazione di categorie etiche, anche sul piano lessicale: si pensi, per esempio, che quando imita o cita Cicerone, capovolge il senso dei brani presi a modello arrivando a proporre una sorta di parodia delle Catilinarie. Alberti, infatti, non sembra interessato a celebrare questo o
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presenta la politica dei principi-dei come una parodia di quella degli uomini, Alberti usa il termine amicizia pochissime volte, con un’accezione prevalentemente negativa, tesa a mettere in risalto la dimensione clientelare e la natura interessata della relazione?!0. Questi aspetti dell'amicizia emergono anche nel racconto di Piero, sebbene in modo meno accentuato. Per ricostruire la concezione albertiana dell’amicizia si dovrebbe analizzare anche De iciarchia, l’ultima opera composta da Alberti, ambientata a Firenze, scritta in volgare ed indirizzata ai giovani membri della propria casata come la Famiglia. Affrontando il tema preannunciato nelle pagine conclusive del suo De amicitia, l’umanista propone una riflessione sul principe molto diversa, ma complementare, a quella del Momus, assimilando il principe e l'ottimo cittadino, il pater familias (l’iciarco) ed il principe?!!. quell’assetto politico particolare, ma ad evidenziare il processo carnevalesco di permanente rovesciamento e sempre possibile sostituibilità dei valori consolidati: come nota Di Grado, Momo è il dio dell’ambiguità, della provocazione e del biasimo; è il buffone, il transfuga, il libertino e il nichilista ante-litteram; il dissimulatore per eccellenza, la personificazione della metis (A. Di Grado, Introduzione. L'ombra del camaleonte, in Alberti, Momus o Del principe, cit., pp. 1-18). 210 Alberti tende a parlare di familiaritas e di familiares piuttosto che di amicitia e di amici (per es. Alberti, Momus o Del principe, cit., p. 263). Il primo riferimento di Momo all’amicizia suona come una vera e propria forma di captatio benevolentiae (ivi, p. 59). Gli altri, davvero pochi, non sono più positivi: gli dei cercano di diventare amici di Momo solo quando questi gode del favore di Giove, il principe dell'Olimpo (ivi, p. 133); gli amici non aiutano il filosofo Gelasto che, non avendo il denaro necessario per pagare Caronte ed essere traghettato nell’aldilà, rimane sospeso tra la vita e la morte (ivi, p. 249); nel discorso finale tra Momo e Gelasto il filosofo ricorda a Momo che gli amici l’hanno tradito (ivi, p. 279). Come si evince da questi esempi, l’amicizia è descritta con toni negativi, che evidenziano la dimensione clientelare e la natura utilitaristica della relazione. 211 L.B. Alberti, De iciarchia, in Id., Opere volgari II. Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966, pp. 191-196 per l’identificazione del principe con l'ottimo cittadino ed il supremo magistrato; p. 273 per l’identificazione del pater familias con il principe («Poniangli nome tolto da’ Greci, iciarco: vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua»); p. 266 per l’analogia tra famiglia e città («Quanto m’occorre dalla natura, pare a me che la città come è costituita da molte famiglie, così ella in sé sia quasi una grande famiglia; e, contro, la famiglia quasi una piccola città»). -Poiché l'analogia tra grande famiglie e piccola città viene proposta anche nel Politico di Platone, trona in primo piano il problema della conoscenza di opere non ancora tradotte dal greco. Si noti che la funzione del principe è accostata, sebbene non
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Questa duplice identificazione basata sull’analogia (platonica) posta in essere tra la famiglia, che è considerata come una piccola città, e la città, che è vista come una grande famiglia, riguarda anche l’amicizia. Secondo Alberti, infatti, il potere di comando del
principe deve essere «officio di vera amicizia e compiuta carità» piuttosto che «arrogante elazione» e «cupidità di imporre servile condizione ad altri»2!2, Visto che la caratterizzazione dell’amicizia proposta nella Famiglia dipende da precisi assunti antropologici tesi ad esaltare la natura attiva e divina dell’uomo, bisognerebbe anche esaminare il Theogenius. In questo dialogo tra amici scritto a scopo auto-consolatorio, in cui Alberti estremizza tesi stoiche già soste-
nute in altre opere, è infatti delineata un’antropologia opposta e complementare a quella articolata nella Famiglia: l’uomo non è più «quasi un mortale iddio felice», ma un «un lupo per l’altro uomo». L’amicizia non può più essere quella relazione che procura lode e gloria, come è sostenuto nella Famiglia, ed assume così nuove caratteristiche: è il rapporto che mette al riparo dalla malvagità e dalla perfidia dei nemici?!3, Poiché nella Famiglia Alberti sviluppa una forte polemica nei confronti degli uomini che desiderano «avere stato», ma pone l’amicizia come fine delle attività umane, per capire quale sia lo spazio politico riservato all’amicizia si potrebbe analizzare la Vita Sancti Potiti. In quest'opera di Alberti, la celebrazione della virtù, dell’attività mondana e della società, ossia l’esaltazione di tutto il mondo di valori difesi nella Famiglia, appare come il male assoluto e la tentazione del demonio. È il mondo difeso dal crudele tiranno pagano, che Potito rifiuta scegliendo prima la vita nei identificata, a quella del padre anche nella Famiglia: in LdF, pp. 262-263, dopo il paragone tra il principe e le api si trova il paragone tra il padre di famiglia e il ragno. 212 Alberti, De iciarchia, cit., p. 194. Il termine «elazione» è un neologismo creato da Alberti: derivato dal termine latino elatio, significa arroganza, altezzosità, orgoglio. 213 L.B. Alberti, Theogenius, in Id., Opere volgari II. Rime e trattati morali, cit., p. 94: «Lupo dicea Plauto poeta esser l’uomo per l’altro uomo. In quale animante troverai tu maggior rabbia che nell’uomo? [...] l’uomo efferattissimo si trova mortale agli altri uomini e a se stessi. E troverai più uomini esser periti per cagion di altri uomini che per tutte le altre calamità ricevute».
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
boschi, dove fa amicizia con le belve, poi la via del martirio?2!4,
Infine, visto che nelle ultime pagine del quarto libro della Famiglia la capacità di avere amici sembra essere una caratteristica dell’ottimo principe, per comprendere se l’amicizia sia uno degli elementi che connotano il buon governante si potrebbero esaminare anche il Defunctus e il Lacus, due Intercenales in cui è descritta la figura del re e del del tiranno?!5, Come dovrebbero mostrare questi accenni ad altre opere di Alberti, le tessere che emergono dalla Famiglia non sono sufficienti per ricostruire l’intero mosaico. Tuttavia, sono fondamentali: questa è la prima opera di Alberti in cui è formulato il tema dell’amicizia, e la sola in cui la relazione è oggetto di una trattazione così ampia. La Famiglia indica, se così si può dire,
come sia possibile ricostruire l’intero mosaico. Poiché il pensiero di Alberti è talmente complesso da costituire un vero e proprio «enigma storiografico» per i suoi stessi critici2!6, non ci si deve 214 L’accostamento della Famiglia alla Vita Sancti Potiti è suggerito in Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 2 Miseria e Grandezza dell’uomo, cit., p. 174, anche perché le
due opere sono composte nello stesso periodo di tempo. 215 Per l’accostamento della Famiglia al Defunctus e al Lacus vd. Cabrini, Il principe, il tiranno, l'ottimo cittadino nell'opera di Leon Battista Alberti, cit. Cabrini considera anche il Pontifex, perché in questa opera i doveri del vescovo sono definiti attraverso un confronto con le prerogative del pater familias e del rex, ritenuto particolarmente rilevante per comprendere meglio gli interessi teorici che Alberti nutre per la «definizione del potere regio» (ivi, p. 280). 216 L'espressione «enigma storiografico» è ripresa da D’Ascia, Tecnica ‘dialogica e tematica politica nell’Alberti volgare, cit., p. 201. Per quanto concerne le diverse interpretazioni storiografiche del pensiero albertiano vd.: R. Fubini e A. Menci Gallorini, L’Autobiografia di Leon Battista Alberti. Studio e edizione, in «Rinascimento», XII, 1972, pp. 21-78, in cui sono sottolineati i tratti illuministici dell’utilitarismo di Alberti; P. Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Roma, Bonacci, 1988, in cui si parla di ascetismo arcaico e religioso per caratterizzare lo stoicismo di Alberti; A. Tenenti, Introduzione, in Alberti, Libri della Famiglia, cit., dove Alberti è l’annunciatore del tempo borghese; Alberti, Momus o del principe, cit., dove Consolo e Di Grado accentuano degli spunti gariniani, facendo di Alberti il dissacratore impietoso di poteri e ideologie; G. Ponte, Introduzione, in L.B. Alberti, Profugiorum ab aerumna libri, Genova, Costa e Nolan, 1986, dove Alberti continua ad essere considerato un precettore di virtù positive nonostante il pessimismo che traspare dall’opera. Per cercare di sciogliere l’enigma, si dovrebbe imboccare la strada recentemente percorsa dalla critica, che ha cercato di fornire un’interpretazione più omogenea del pensiero albertiano esaminando alcune strutture letterarie ricorrenti, comuni a diverse opere:
1. A GUISA DI INTRODUZIONE
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stupire se, disponendo i frammenti e le tessere, prendono forma disegni diversi. In primo piano si possono vedere la corte, sia essa la corte terrena di Piero o quella divina di Momo, oppure il principe, contrapposto al tiranno oppure identificato con l’ottimo cittadino e il buon padre di famiglia. Al centro potrebbe esserci l’uomo, l’uomo-dio della Famiglia o l’uomo-lupo del Theogenius, ma anche la vita civile, che è esaltata da Adovardo e Lionardo, ma è condannata da Potito. Non tutte le tessere che emergono dalla Famiglia si incastrano
con quelle presenti nelle altre opere di Alberti appena menzionate. Non mi sembra, infatti, che in esse sia espressa l’esigenza di mantenere l’analisi a livello empirico, né che sia sottolineato il bisogno di analizzare l’amicizia partendo dal concreto di un’esperienza vissuta, come quella raccontata da Piero. Non mi pare
neppure che sia mantenuto l’orientamento pratico e pragmatico che Adovardo e Lionardo imprimono alla riflessione dopo aver ascoltato il racconto di Piero, chiedendosi come possa effettivamente essere stretta, mantenuta, aumentata, allentata o sciolta l’amicizia. Credo, infine, che lo sforzo fatto da Alberti per conciliare l’amicizia camaleontica di Alcibiade e Catilina, che è la stessa amicizia che ha sperimentato Piero a corte, con l’amicizia aristo-
telico-ciceroniana, fondata sulla virtù, sia un tratto peculiare del quarto libro della Famiglia. Per questo, con la consapevolezza dei limiti che una analisi di questo tipo comporta, ritengo che sia possibile considerare solo la Famiglia, provando a tracciare un percorso che conduce non verso altre opere di Alberti, ma verso quelle che saranno esaminate nella seconda parte del saggio. vd. R. Cardini, Mosaici. Il nemico dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990. Oltre al saggio di Cardini, si vedano anche gli studi di Cesarini Martinelli, che ricostruisce lo spazio semantico teatrale di alcune opere albertiane (L. Cesarini Martinelli, Metafore teatrali in Leon Battista Alberti, in «Rinascimento», XXIX, 1989, pp. 3-51) e quelli di Rinaldi, che accosta diverse opere di Alberti sulla base della teoria dei temperamenti (R. Rinaldi, «Melancholia» albertiana dalla «Deifira» al «Naufragus», in «Lettere Italiane»,
XXXVIII, 1985, pp. 41-82).
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Capitolo secondo Linee di continuità e punti di rottura: coordinate per l’analisi
2.1 Gli specula principum nel Quattrocento
Come dovrebbe essere emerso dall’esame dei libri della Famiglia, per vedere come sia ripresa la concezione aristotelica e cice-
roniana dell’amicizia e quale valore politico venga attribuito alla relazione, l’amicizia non deve essere cercata solo nella città,
analizzando la Vita civile di Matteo Palmieri, ma anche nella corte, considerando le raccolte di consigli per i principi scritte nel Quattrocento.
Prima di procedere nell’analisi, vorrei chiarire quali sono le caratteristiche delle raccolte di consigli per i principi scritte nel XV secolo, spiegare perché ho scelto di analizzare solo alcune di esse, mostrare che possono essere accostate alla Vita civile anche
se Palmieri non vuole educare un principe, ma i cittadini fiorentini. Questi chiarimenti saranno forniti nel primo paragrafo del presente capitolo. Nel secondo paragrafo saranno, invece, esaminati alcuni possibili modelli per la riflessione sull’amicizia delineata nelle raccolte di consigli per i principi che analizzerò nella seconda parte del saggio. Vorrei infatti provare ad individuare le linee di continuità e i punti di rottura che uniscono e separano gli specula principum quattrocenteschi dagli specula medioevali. Per mostrare che l’idea di educare i principi all’amicizia è un’idea tipicamente umanistica, nell’ultimo paragrafo del capi-
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
tolo mi soffermerò sulla lettera che Petrarca scrive al signore di Padova, Francesco da Carrara. Esaminando questa lettera, sarà
possibile fissare il termine a quo del percorso di ricerca intrapreso. Inoltre, emergerà quale sia lo spazio in cui si gioca il valore politico dell’amicizia. Forma e contenuto delle raccolte di consigli per i principi
Non è facile fornire un elenco completo ed esauriente delle raccolte di consigli per i principi scritte nel Quattrocento, prima del Principe di Machiavelli. Se non vi è dubbio che la prima opera da includere nell’elenco sia la lettera che Petrarca scrive a Francesco da Carrara poco prima di morire, una lettera delle Serili che è considerata il primo esempio di speculum principis umanistico, le perplessità aumentano considerando che nell’elenco trovano posto opere molto diverse tra loro!. Si possono infatti 1 L’elenco che propongo è stato formulato a partire dalle indicazioni trovate nei seguenti studi: L.K. Born, Erasmus on Political Ethics: The Institutio Principis Christiani, in «Political Science Quarterly», XLII, 1928, pp. 520-543; W. Berges, Die Frstenspiegel des hohen und spiten Mittelalters, Stuttgart, Hiersemann, 1952 (riproduzione dell’ed. Stuttgart, Hiersemann, 1938); F. Gilibert, Il concetto umanistico di principe e il «Principe» di Machiavelli, in Id., Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, trad. it. di A. De Caprariis, Bologna, il Mulino, 1964, pp. 109-160 (questo capitolo è la riproduzione del saggio The Humanist Concept of the Prince and the «Prince» of Machiavelli, apparso nel «Journal of Modern History» nel 1939); A.H. Gilbert, Machiavelli’s Prince and its Forerunners: the «Prince» as a Typical Book de regimine principum, New York, Barnes & Noble, 1968; Q. Skinner, The Foundation of Modern Political Thought. The Renaissance, Cambridge, Cambridge UP, 1978; trad. it. di G. Ceccarelli, Le origini del pensiero politico moderno. Il Rinascimento, a cura di M. Viroli, Bologna, il Mulino, 1989, in particolare cap. Vi: L’età dei principi, pp. 143-244; G. Ferraù, Introduzione, in B. Platina, De principe, Palermo, Il vespro, 1979, pp. 5-31; C. Dionisotti, Machiavellerie II, in «Rivista storica italiana», LKXXII, 1971, articolo riveduto e ristampato con il titolo Dalla repubblica al principato in Id., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, pp. 227-263; C. Vasoli, Riflessioni sugli umanisti e il principe: il modello platonico dell'ottimo governante, in Id., Immagini umanistiche, Napoli, Morano, 1980, pp. 151-187; Q. Skinner, Political Philosophy, in Ch.B. Schmitt and Q. Skinner (ed. by), The Cambridge History of Renaissance Philosophy, Cambridge, Cambridge UP, 1988, pp. 387-452; Id., Repubblican Virtues in an Age of Princes, in Id., Visions of Politics II. Renaissance Virtues, Cambridge, Cambridge UP, 2002; trad. it. Virtà rinascimentali, Bologna, il Mulino, 2006, in particolare cap.
2.LINEE Di CONTIMUITÀ E PUNTI Dil ROTTURA: COORDIMETE PER LUENALSI
R3
includere il De wrstitutione regiminis dignitatum che Giovanni Tinto Vicinì scrive nei primissimì annì del Quattrocento per il signore dì Fabriano, l’incompiuto De monarchia dì Pier Paolo Vergerio (1410); il De republica che Uberto Decembrio compone (1420 circa) dopo aver portato a termine una delle prime traduzioni della Repubblica di Platone (1402) su richiesta del duca dì Milano, Gian Galeazzo Visconti; il De republica composto dal figlio di questi, Pier Candido Decembriîo, che dedica la propria traduzione dell’omonima opera platonica al duca dì Gloucester (1437-1441). E ancora: il De stredizs et litteris che Leonardo Bruni
scrive tra il 1422 e il 1429 per un’îstruita nobildonna della casata dei Montefeltro dì Urbino; la lettera dì Enea Silvio Piccolominì
per Sigismondo del Tirolo (1443) ed il De liberorum educazione, che questi scrive per Ladislao, re d'Ungheria e dì Boemia (1449). E poi: il Momus sive de principe composto da Leon Battista Alberti trail 1443 eil 1450; il De principibus che Martino Garati da Lodì dedica în quegli stessi annì a Filippo Marìa Visconti (1442-1443, oppure 1444-1447); l’epitome del Politico di Platone, intitolata
Liberde regno, che Marsilio Ficino compone entro il 1469 per ìl duca dî Urbino Federico da Montefeltro. Ed anche, nella seconda metà del Quattrocento: il De regno et regîs insiitutione che Francesco Patrizì da Siena dedica a papa Sîsto IV (1481-1484); il De regentis et boni principis officiis che Diomede Carafa scrive per il re di Napoli, Ferdinando d'Aragona, tra il 1480 e ìl 1490; la lettera che Francesco Filelfo, l’autore del De morali disciplina, scrive alla moglie di Gian Galeazzo Maria Sforza per l’educazione del figlio nel 1477; il De principe composto da Pontano intorno al 1468 per il Duca dì Calabria; l’opera omonima che Bartolomeo Sacchi, meglio noto come Platina, indirizza a Federico Gonzaga (ante 1470) ed il De maîestate dì Maio (1492). Infine, a cavallo tra XV e XVI secolo, ma prima che sìa terminato
il Principe di Machiavelli: il De officio principis liber, composto
IVèVirtùrepubblicane in un'etàdiprincipi, pp. 155-206; GM. Cappellì, Introduzione,
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
per papa Giulio II da Giovanni Francesco Bracciolini, ed il De optimo statu libellus di Filippo Beroaldo?. Come si evince da questo elenco, che non ha la pretesa di essere esaustivo, vi sono sia opere de regno sia opere de prin-
cipe, ma anche opere de officiis ed opere sull’institutio principis. Non si può inoltre ignorare che nessuna di esse porta il titolo di speculum principis. È una precisazione meno banale di quanto potrebbe sembrare. Infatti, come nota Deug-Su, «se gli specula principum rappresentano un genere indiscusso nella storiografia moderna, tuttavia va detto che resta ancora irrisolto il problema di come attribuire al medesimo genere le opere non intitolate
2 Per la lettera di Petrarca al signore di Padova vd. F. Petrarca, Ad magnificum Franciscum de Carraria Padue dominum, qualis esse debeat qui rem publicam gerit, in Id., Le senili, testo critico di E. Nota, trad. it. di U. Dotti, libro XIV, lettera 1, Torino, Aragno, 2004, pp. 760-837. Per una edizione delle altre opere citate: G. Tinto Vicini da Fabriano, De institutione regiminis dignitatum, testo inedito a cura di P. Smiraglia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977; per il De monarchia di Vergerio, il De republica di Uberto Decembrio e il De republica composto dal figlio di questi, Pier Candido Decembrio, si vedano le indicazioni fornite in J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leiden, Brill, 1990, in particolare, pp. 103-160 ed in Vasoli, Immagini umanistiche, cit., pp. 151-170; per il De studiis et litteris di Bruni ed il De liberorum educatione di Piccolomini, vd. C.W. Kallendorf (ed. by), Humanist Educational Treatises, Cambridge Mas.-London, Harvard UP, 2002. Secondo Aulotte-Legay (R. Aulotte-Legay, Plutarque et ’Humanisme en France et en Italie aux temps renaissants, in G. Tarugi (a cura di), Validità perenne dell’Umanesimo, Firenze, Olschki, 1986, pp. 15-20), la traduzione di Guarino Veronese del De liberis educandis di Plutarco è il modello per il trattato sull’educazione che Piccolomini dedica al re di Boemia e di Ungheria. Inoltre: Alberti, Momus o del Principe, cit.; M. Garati da Lodi, Tractatus de principibus, con ed. critica della rubrica De principibus a cura di G. Rondinini Soldi, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino, 1968; M. Ficino, Opera, Basileae, ex officina Henricpetrina, 1576, vol. II, in particolare In librum Platonis de regno ad Federicum ducem semper invictum, ff. 1294-1296; E. Patrizi da Siena, De regno et regis institutione, Parisii, in aedibus Galioti a Prato, 1531; D. Carafa, Memoriali, ed. critica a cura di F Petrucci Nardelli, note e glossario di A. Lupis, saggio introd. di G. Galasso, Roma, Bonacci, 1988. Per il De morali disciplina di Filelfo vd. D. Robin, Filelfo in Milan: Writings 1451-1477, Princeton, Princeton UP, 1991; per la lettera di Filelfo inserita nell’elenco di specula quattrocenteschi proposto da Born vd. L. Firpo, Francesco Filelfo educatore e il Codice Sforza della Biblioteca Reale di Torino, Torino, UTET, 1967. Ed ancora: G. Pontano, De principe, cit.; B. Platina, De principe, a cura di Ferraù, cit.;
G. Maio, De maiestate, a cura di E. Gaeta, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956; E. Bracciolini, De officio principis liber, Romae, per Iohannem de Besicken, 1504; G.FE. Beroaldo, De optimo statu libellus, in Id., Opuscula, Basileae, J. Froben, 1513.
2. LINEE DI CONTINUITÀ E PUNTI DI ROTTURA: COORDINATE PER L’ANALISI
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speculum»3. Non si risolve il problema parlando di Firstenspiegel anziché di specula principum, ossia utilizzando il termine tedesco con cui sono generalmente indicate le opere scritte con intenti
polemici per educare il principe ai valori del cristianesimo. Gli studi dedicati ai Fiirstenspiegel non si occupano, infatti, in modo
approfondito delle raccolte di consigli per i principe scritte nel Quattrocento: si concentrano sugli specula medioevali4, oppure
prendono in considerazione quelle opere che sono più facilmente collocabili in un orizzonte di pensiero segnato dal cristianesimo come l’Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam. In effetti, le raccolte di consigli per i principi composte nell’età dell’Umanesimo sembrano ispirarsi agli ideali classici piuttosto che ai valori cristiani”. Nonostante il problema sottolineato da Deug-su non trovi risposta, alcune delle opere menzionate possono essere considerate a pieno titolo degli specula principum o, se si preferisce chiamarle così, dei Fiirstenspiegel. Infatti, come cercherò di mostrare nei prossimi paragrafi, esse prendono a modello gli specula medioevali di Vincenzo di Beauvais, Tommaso d’Aquino ed Egidio 3 I Deug-Su, Gli Specula, in G. Cavallo, C. Leonardi e E. Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del medioevo. Il medioevo latino. La produzione del testo, Roma, Salerno, 1993, vol. I/2, pp. 515-534, in particolare pp. 533-534. 4 Particolarmente interessante da questo punto di vista uno dei primi studi che affronta il tema: Berges, Die Fiirstenspiegel des hohen und spéten Mittelalters, cit. Dopo aver esaminato analiticamente lo speculum di Tommaso d’Aquino e quello di Egidio Romano, Berges conclude le sue riflessioni prendendo in considerazione la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara e, quindi, non sfiora neppure il XV secolo. Oltre ai testi già citati sugli specula principum medioevali, per un quadro d’analisi più generale si vedano anche: I.P. Bejczy and C. Nederman (ed. by), Princely Virtues in the Middle Ages, Tunhout, Brepols, 2007; D.M. Bell, L’idéal éthique de la royauté aux Moyen Age, Paris-Genève, Droz, 1962; A. de Bendictis (hrsg.), Specula principum, Frankfurt am Mein, Kostermann, 1999.
5 Sottolineando l’ispirazione classica degli specula principum quattrocenteschi non intendo sostenere che in queste opere non trovino spazio i valori cristiani promossi dagli specula di epoca precedente, anche perché, come si vedrà meglio nel corso dell’analisi, se è vero che il De principe di Pontano è considerato uno speculum «laico», non si può dire lo stesso né del De institutione di Vicini né, per fare un altro esempio, del De principe di Platina. Inoltre, nella lettera di Petrarca che funge da modello per gli specula quattrocenteschi, come si vedrà alla fine del capitolo, l’amore che deve regnare tra il principe e i sudditi è imitazione dell’amore di Cristo. ì
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Romano. Non si deve però ignorare che sono modelli di specula principum molto diversi tra loro. Bisogna altresì considerare che le opere appartenenti a questo genere letterario hanno subito una notevole evoluzione nell’arco del Medioevo, trasformandosi
da semplici manuali morali in veri e propri trattati sull’irstitutio regia. I cambiamenti sono brevemente, ma efficacemente,
descritti in un saggio in cui Quaglioni mette in luce le caratteristiche degli specula principum dall’età della Rinascita carolingia sino all’Umanesimo. A conferma di quanto sostenuto, si noti che il saggio fa solo qualche cenno alle opere scritte prima del Principe di Machiavelli, mentre dedica particolare attenzione all’Institutio di Erasmo. Per Quaglioni, infatti, questo è «l’ultimo e più compiuto esempio della tradizione dello speculum principis»9. Forma secolarizzata dei florilegi spirituali, gli specula principum si distinguono sia dagli specula virginum e dagli specula clericorum, sia dalle opere enciclopediche che si richiamano nel titolo alla metafora dello specchio, perché hanno un contenuto morale e politico ben preciso. Sono infatti espressione di quella che Quaglioni definisce «etica della regalità»7. Il genere letterario degli specula principum fiorisce in età carolingia ed ottoniana: autori quali Paolino di Aquileia, Incmaro di Reims, Agobardo di Lione, Sedulio Scoto, Giona di Orleans e Smaragdo di Saint
Mihiel scrivono in questo periodo i loro specula caratterizzati dall’intreccio di politica e religione, dalla sovrapposizione di ordinamento secolare ed ordinamento ecclesiastico. Essi esortano il principe a realizzare un ideale etico basato sul dominio delle passioni e sulla lotta al peccato. Tanto le caratteristiche formali di questi specula, quanto la complessa simbologia legata alla metafora dello specchio confluiscono nelle opere scritte tra il XII e il XII secolo.
6 D. Quaglioni, Il modello del principe cristiano. Gli specula principum tra Medio Evo e prima Età Moderna, in V.I. Comparato (a cura di), Modelli nella storia del pensiero politico, Firenze, Olschki, 1988, vol. I, pp. 103-122, in particolare pp. 119-122.
7 Ivi, p. 107.
2. LINEE DI CONTINUITÀ E PUNTI DI ROTTURA: COORDINATE PER L'ANALISI
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Agli inizi del Duecento avvengono molti cambiamenti, cui è possibile fare solo qualche cenno: dalla lotta per la riforma della chiesa alla nascita delle università, dalla ripresa dello studio del diritto romano al diffondersi di nuovi tipi di potere cittadino. Tutti questi fenomeni lasciano evidenti tracce anche nelle raccolte di consigli per i principi. Purtroppo, le opere di Pierre de Blois, Giraldo Cambrense e Vincenzo di Beauvais, gli autori che scrivono i loro specula poco prima del diffondersi del pensiero politico aristotelico, non sono state analizzate in modo approfondito come gli specula carolingi. È stato, però, oggetto di particolare attenzione da parte della critica lo speculum più noto di questo periodo: il Polycraticus di Giovanni di Salisbury. Gli studi dimostrano che le fonti classiche, abitualmente accostate a quelle scritturali e patristiche, iniziano ad avere un peso maggiore in quest’opera in cui si trova la prima esplicita formulazione della metafora organicista del reggimento civile. Inoltre, nel Polycraticus, la figura del tiranno, considerato il perturbatore e il distruttore dell’ordine divino, è contrapposta per la prima volta al modello del re giusto. Colorato di sfumature diverse da diversi autori, questo paragone avrà una storia molto lunga, diventando un topos degli specula principum delle epoche successive. Agli inizi del XIII fioriscono anche i primi trattati De regimine civitatum, una sorta di manuale teorico-pratico ad uso dei podestà cittadini. Essi rientrano appieno nel genere letterario in questione. Con l’affermarsi dei comuni, infatti, in mancanza di una teoria capace di giustificare il diffondersi delle nuove istituzioni di governo, gli autori delle opere De regimine civitatum non tendono solo ad utilizzare il linguaggio scritturale, ma continuano anche a servirsi delle forme letterarie mutuate dagli specula principum. Per spiegare e classificare le nuove realtà politiche presenti nella penisola italiana si utilizzano gli strumenti acquisiti con la «riscoperta» del pensiero aristotelico, rielaborato e tradotto in un linguaggio cristiano da Tommaso d’Aquino. La tradizione veterotestamentaria della monarchia è messa a confronto con nuove idee filosofiche e politiche, che evidenziano il carattere naturale della comunità politica ed il fondamento umano delle forme di
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
governo, ritenute indipendenti dalla storia sacra e dalla storia della caduta. Vista la varietà della sua simbologia, la metafora dello specchio consente di conciliare vecchi e nuovi ordinamenti di pensiero. Si diffondono così degli specula princibum che sono influenzati da concezioni aristoteliche, ma restano ancora legati alla forma tradizionale di questo genere letterario. I più importanti sono il De regimine principis ad regem Cypri di Tommaso d’Aquino (e Tolomeo da Lucca) ed il De regimine principum di Egidio Romano, vera e propria «summa del pensiero medioevale sulla regalità»8. In questi specula, accanto all’usuale catalogo delle virtù del principe, insieme alla tesi secondo la quale sia il potere temporale sia il potere spirituale contribuiscono al raggiungimento della salvezza ultraterrena, compaiono concetti nuovi. Per esempio: l’idea di bonum commune o la distinzione tra regimen regale e regimen politicum. Sono rielaborazioni ed interpretazioni di tesi aristoteliche. Anche se la riflessione morale e teologica non scompare dagli specula principum, con il diffondersi del pensiero politico aristotelico sembra giocare un ruolo determinante la riflessione di carattere giuridico. L’ottimo principe non è più solo colui che, per definizione, deve possedere tutte le qualità e le virtù proprie del buon cristiano, ma è anche, e soprattutto, il garante e il custode della giustizia: il principe è iustum animatum, come afferma Tommaso, oppure, come sostiene Egidio, medium inter legem naturalem et positivam. Invece, fatta eccezione per il De tyranno di Salutati, se si può considerare uno speculum principis quest'opera che
riprende le tesi di Bartolo da Sassoferrato, la riflessione giuridica passa in secondo piano nel XV secolo. Come nota Quaglioni, infatti, gli specula princibum quattrocenteschi tendono ad assumere sin dall’inizio quell’impronta platonica che risulterà particolarmente evidente nell’Institutio di Erasmo. Il platonismo sembra essere la cifra caratteristica degli specula del XV secolo anche per Vasoli. Questi rifiuta la celebre distinzione proposta da Gilbert tra gli autori di specula principum che 8 Ivi, p. 116.
2. LINEE DI CONTINUITÀ E PUNTI DI ROTTURA: COORDINATE PER L'ANALISI
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avrebbero una concezione assolutizzante del principato e gli autori che, richiamandosi a Platone, avrebbero una concezione democra-
tizzante?. L’impronta platonica caratterizza tutti gli specula principum ed è espressione della fiducia tipicamente umanistica nella possibilità di educare il principe, riuscendo ad indirizzare la azione di governo per costruire una città più razionale, in cui i dotti e i sapienti possano occupare la posizione privilegiata di consiglieri, magistrati, funzionari e diplomatici. Pertanto, ricostruendo la teoria quattrocentesca dell’ottimo principe, Vasoli non concentra l’attenzione solo su opere generalmente ed univocamente considerate platoniche quali il Liber de regno di Ficino, il De iciarchia di Alberti o gli specula di Platina e Patrizi. Egli considera anche le opere degli umanisti attivi nella corte di Milano: Uberto Decembrio, Pier Candido Decembrio e Pier Paolo Vergerio, che sin dall’inizio del Quattrocento si richiamano alla Repubblica di Platone per dare i loro consigli al principe!0. Riesce così a dimostrare che il platonismo influenza gli autori degli specula principum prima che prenda corpo il «progetto platonico»!! di Cosimo de’ Medici e di Marsilio Ficino, e non fa sentire i suoi effetti solo sugli autori fiorentini e sugli umanisti che gravitano intorno a Firenze. Alla luce di quanto sostenuto da Quaglioni e da Vasoli, l’impronta platonica degli specula principum quattrocenteschi mi sembra innegabile. Tuttavia, credo che sarebbe fuorviante contrapporre gli specula aristotelici di Tommaso ed Egidio agli specula platonici del XV secolo. Si rischierebbe, infatti, di semplifi-
? Gilbert, Il concetto umanistico di principe e il «Principe» di Machiavelli, cit., pp. 109-160 e Vasoli, Riflessioni sugli umanisti e il principe: il modello platonico dell’ottimo governante, cit., pp. 151-187. Per Gilbert gli autori che hanno una concezione democratizzante del principato sono Alberti (De iciarchia), Ficino (epitome del Politico) e Platina (De optimo cive). 10 Vd. M. Vegetti e P. Pissavino (a cura di), I Decembrio e la tradizione della
«Repubblica» di Platone tra Medioevo e Umanesimo, Napoli, Biblioplis, 2005, pp.
99-236 e pp. 341-484.
11 Come è noto, è Garin a parlare del progetto platonico di Cosimo de’ Medici e di Ficino: E. Garin, La cultura filosofica fiorentina nell’età medicea, in C. Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienza e arti nella Firenze dei Medici, Firenze, Giunti-Martello, 1980, pp. 83-112, in particolare p. 98.
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care troppo. Per poter comprendere meglio la natura degli specula quattrocenteschi, per cogliere le linee di continuità che li avvicinano agli specula scritti in epoche precedenti ed i punti di rottura che li separano da questi, sono opportune ulteriori precisazioni. Si deve innanzitutto considerare la varietà della materia che si ha di fronte. Gli autori delle opere inserite nell’elenco si rivolgono a principi molto diversi tra loro, anche quando scrivono più o meno nello stesso periodo. Basti pensare, per esempio, a chi sono
dedicate le opere di Vicini e di Vergerio: il primo si rivolge ad un un piccolo signore delle Marche, il secondo al capo di uno stato potente ed in via d’espansione come il ducato di Milano. I principi per cui sono composti gli specula quattrocenteschi possono
essere esponenti di una casata feudale quale quella dei Gonzaga, discendenti di una dinastia europea come Ferrante d’Aragona, e persino dei papi, che non vengono certo scelti come destinatari delle opere in virtù della funzione spirituale che esercitano in qualità di capi della Chiesa. Ovviamente, la varietà del panorama cui ci si trova di fronte è anche un riflesso della situazione politica della penisola italiana, divisa in stati dalle caratteristiche molto diverse tra loro. Si deve altresì notare che gli autori delle raccolte di consigli per i principi sono umanisti famosissimi che hanno goduto di grande notorietà nella loro epoca come Alberti, Ficino e Piccolomini, oppure figure minori, pressoché sconosciute, come Martino Garati da Lodi e Giovanni Tinto Vicini. Inoltre, nonostante si
servano quasi tutti del latino per rivolgere i loro consigli ai principi!2, essi compongono opere molto diverse tra loro dal punto di vista della forma e della struttura. Alcune opere dell’elenco, per esempio il De principe di Pontano, hanno una forma epistolare come lo speculum principis di Petrarca. Altre, invece, ed è il caso del De principe di Platina e del De regno di Patrizi, sono ampi trattati, che riprendono la struttura del De regimine principis di 12 Non sono originariamente scritti in latino i Memoriali di Diomede Carafa. Anche la lettera di Filelfo per la duchessa reggente di Milano è scritta in volgare. Come già sottolineato nel precedente capitolo, è scritto in volgare anche il De iciarchia di Leon Battista Alberti.
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Egidio Romano, come si vedrà meglio in seguito. Altre ancora, per esempio il De institutione di Giovanni Tinto Vicini, sono dialoghi come la Vita civile di Palmieri. Le differenze più rilevanti riguardano, però, il contenuto delle opere in questione. Correndo il rischio tipico di qualsiasi schematizzazione, esse possono essere suddivise in diversi gruppi. 1. Le traduzioni. Come è noto, il Liber de regno di Ficino è la traduzione del Politico di Platone: si tratta di un’opera fondamentale per la storia del platonismo e del neoplatonismo rinascimentale, oltre che per la storia del pensiero politico del Quattrocento. Vi sono, però, altre traduzioni tra le opere indi-
cate all’inizio del paragrafo: il De liberorum educatione che Piccolomini scrive per Ladislao di Ungheria è la traduzione del De liberis educandis, un’opera iscritta nel Corpus di Plutarco,
che gode di molta fortuna tra gli autori di trattati sull’educazione!3. Come si è visto, è ripresa anche nel primo libro della Famiglia. Sono traduzioni anche alcune delle opere scritte da Uberto Decembrio e, successivamente, da suo figlio Pier Candido: si tratta di due diverse versioni della Repubblica di Platone. Come si vedrà nei prossimi capitoli è un testo chiave per tutti gli autori delle opere prese in esame, perché essi si rivolgono ai principi animati dalla speranza che possano, se non diventare filosofi, almeno ascoltare i filosofi che li consigliano. 2. Le opere di carattere pedagogico. Rientrano in questo gruppo sia il De studiis et litteris di Bruni, sia il De liberis educandis di Piccolomini, sia la lettera di Filelfo. Se in tutti gli specwula quattrocenteschi citati si insiste sull'educazione morale del principe, queste opere pongono esclusivamente l’accento sulla formazione del principe agli studia humanitatis. I temi e i consigli propriamente politici passano così in secondo piano, lasciando il posto alle questioni didattiche. Come si vedrà
13 Oltre a Aulotte-Legay, Plutarque et ’Humanisme en France et en Italie aux temps renaissants, cit., pp. 15-20, vd. anche Plutraco, Moralia II, a cura di G. Pisani,
Pordenone, Biblioteca dell'immagine, 1990. Si è già accennato, nel precedente capitolo, alla fortuna di cui ha goduto quest’opera nel Quattrocento. .
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analizzando la riflessione pedagogica elaborata da Palmieri, in queste ed in altre opere pedagogiche dell’epoca i riferimenti all’amicizia sono molto rari: la centralità dell’amicizia emerge quando non si attribuisce alla relazione solo un valore morale, ma anche una funzione politica. . Le opere giuridiche. Il De principibus di Martino Garati da Lodi, più che un vero e proprio speculum, è una raccolta di quaestiones de iure principum, realizzata da un professore dello Studium di Pavia. Sulla base delle fonti canonistiche e civilistiche più accreditate dell’epoca, questi esamina i rapporti esistenti tra il papa, l’imperatore ed il principe. La descrizione del principe è particolarmente significativa: grazie all’aiuto di molti e saggi consiglieri deve agire rettamente in vista della felicità eterna, non per la gloria terrena; poiché è il ministro di Dio sulla terra, deve servire la giustizia, che è definita con espliciti riferimenti alla Repubblica di Platone; benché il suo volere sia superiore alla legge positiva, deve vivere secondo i dettami della legge naturale e della legge divina e non ha, quindi, un potere illimitato. Martino Garati da Lodi dedica molta attenzione anche al problema della successione, che è definita per via ereditaria. In tutta l’opera sono presenti molti riferimenti al pensiero politico di Bartolo, che diventano particolarmente evidenti quando il principe è contrapposto al tiranno!4. Il De principibus risulta, dunque, diverso dagli specula quattrocenteschi anche per il suo contenuto: la ricerca della gloria terrena viene duramente condannata, il principe è concepito come ministro di Dio ed è opposto al tiranno da un punto di vista giuridico piuttosto che da un punto di vista etico, nell’opera non vi è nessun riferimento all’amicizia. Sottolineando queste differenze, iniziano ad emergere alcune peculiarità degli specula principum quattrocenteschi che saranno esaminati nella seconda parte del saggio. 14 Garati da Lodi, Tractatus de principibus, cit., qq., 20, 26, 39, 46, 62, 76, 94, 96,
98, 108, 127, 149, 150. L’opera di Martino Garati da Lodi è stata inserita nell’elenco seguendo le indicazioni fornite da Ferraù nella già citata introduzione al De principe di Platina.
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4. Le opere politico-pratiche. La prima opera che appartiene a questo gruppo è il De regentis et boni principis officiis. Diomede Carafa, noto intellettuale della corte di Napoli, che ha ricoperto importanti cariche politiche in qualità di ambasciatore e consigliere, suggerisce infatti ad Eleonora di Aragona, appena diventata la moglie di Ercole d’Este, un programma di politica economica specifico e abbastanza dettagliato. Indica anche quali siano gli strumenti amministrativi più adatti per attuarlo. L’attenzione riservata alle strutture statali e la presenza di indicazioni di carattere amministrativo costituiscono un’eccezione rispetto agli altri specula principum dell’epoca. Il De officiis si distingue da queste opere anche perché è stato originariamente
scritto in volgare. Non è affatto eccezionale, invece, l’origine contingente e pratica dell’opera, anche se è molto accentuata. Molti degli autori delle opere inserite nell’elenco, infatti, scrivono in situazioni storiche precise, per cercare di far fronte al mutare delle condizioni politiche delle corti in cui si trovano o si sono trovati ad operare, oppure per ottenere la protezione che è loro indispensabile per coltivare l’otium letterario. Non esitano a dare consigli al principe su argomenti molto concre-
ti, che a prima vista non sembrano avere nulla a che fare con la teoria politica: scrivendo al signore di Padova, Petrarca inserisce lunghe digressioni sul restauro degli edifici pubblici, sulla cura delle strade e sulla bonifica delle paludi; Pontano insiste sul portamento, sulle vesti e sugli ornamenti adatti al principe, sviluppando il tema della maiestas; pur essendo uno dei pochi autori che tratta anche di questioni militari, Platina non dimentica di dire qualcosa sul sonno del principe!5. 5. Le opere teorico-filosofiche. Rientrano in questo gruppo le opere di più ampio respiro, come quelle di Platina, Patrizi e Pontano. Si possono considerare opere teoriche perché la riflessione sulle virtù e le funzioni del principe è svolta in modo più sistematico e più consapevole di quanto non avven15 Petrarca, Ad magnificum Franciscum de Carraria Padue dominum, cit., pp. 787-795; Pontano, De principe, cit., pp. 79-87; Platina, De principe, cit., pp. 97-100.
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ga negli altri specula quattrocenteschi. Si possono ritenere opere filosofiche perché il debito nei confronti di filosofi antichi, soprattutto Aristotele e Cicerone (ma anche Seneca) e medioevali, Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano in particolare, è evidente. I loro autori sviluppano tesi originali: l’idea di maiestas che costituisce il nucleo della teoria del potere delineata nel De principe di Pontano; il concetto di nobiltà proposto da Platina nel De principe; la teoria dell’obbligo politico abbozzata da Patrizi nel De regno. 6. Le opere platoniche. Non mi riferisco soltanto all’epitome ficiniana del Politico, nota come Liber de regno, o alle opere di
Platina e Patrizi. Seguendo le indicazioni di Vasoli, includo nella categoria anche le prime traduzioni della Repubblica e il De republica Uberto Decembrio. Poiché si è visto che l’impronta platonica è la cifra caratteristica degli specula quattrocenteschi, l’ultimo gruppo merita un’attenzione particolare. Come nota Hankins!9, la traduzione della Repubblica che Uberto Decembrio compie insieme al suo maestro, l’erudito bizantino Crisolora, è oscura ed imprecisa, piena di omissioni ed errori. Rivela una mancata comprensione delle tesi metafisiche ed epistemologiche sostenute da Platone e, conseguentemente, anche del pensiero politico che il filosofo esprime nella Repubblica. L'analisi delle costituzioni formulata nel dialogo, inoltre, è utilizzata in modo selettivo, a gloria del committente, il
signore di Milano Gian Galeazzo Visconti. Questo approccio al pensiero politico di Platone emerge anche analizzando il De republica, un dialogo che risente in modo significativo anche dell’influenza delle Tusculanae disputationes e del Sominum Scipionis.
16 J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leiden, Brill, 1990, in particolare pp. 105-148. Si noti che nella prima parte dell’opera, analizzando le traduzioni dei dialoghi di Platone compiute da Leonardo Bruni, Hankins mostra che non è possibile pensare alla lotta tra Milano e Firenze come alla opposizione tra platonismo e umanesimo civile: Platone non è solo difeso dagli umanisti milanesi, ma è anche considerato un filosofo «repubblicano» da quelli fiorentini (ivi, pp. 29-80). Sul cosiddetto Umanesimo civile e la sua interpretazione da parte di Hans Baron si veda quanto indicato a p. 145 e nel primo paragrafo del prossimo capitolo.
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Uberto Decembrio è l’autore ed il protagonista. Gli altri interlocutori ascoltano questo umanista con l’attenzione dovuta a chi conosce la Repubblica. La distinzione tra città sana e città malata consente di giustificare la superiorità di Milano su Firenze. Il testo platonico è ulteriormente forzato per sostenere che la forma di governo migliore è la timocrazia, la forma di governo in vigore a Milano, mentre la forma peggiore è l’oligarchia, identificata con il regime al potere a Firenze. Non solo non vi è alcun accenno alla tesi del re filosofo, ma la giustizia non è definita né come dovere di svolgere la funzione per la quale si è nati, né come armonia ed equilibrio tra le parti dell'anima: è la giustizia di Polemarco, quel «far bene agli amici e male ai nemici» che è associato alla più nota e familiare definizione ciceroniana della giustizia come suum cuique tribuere!?. Del resto, il buon principe che governa la città sana non è altri che il vir virtutis del De officiis: mantiene l’amore tra i sudditi, protegge la religione, difende la legge e la morale pubblica, si occupa dell’educazione dei fanciulli, premia i meriti intellettuali invece della nobiltà di nascita. Questo platonismo adattato alle circostanze storiche e alla situazione politica del tempo, un platonismo interpretato e letto alla luce di Cicerone, è lo stesso platonismo che emerge anche nella traduzione della Repubblica compiuta da Pier Candido Decembrio. Cimentandosi nell’impresa quasi quaranta anni dopo il padre, questi tenterà di dare una versione più coerente e più completa del pensiero del filosofo greco, servendosi di un complesso sistema di annotazioni, indici, tavole di argomenti, marginalia e chiose, che sono affiancate al corpo del testo. Pur comprendendo meglio certe tesi del pensiero politico di Platone, per esempio quella del re filosofo,
17 Per la definizione di giustizia data da Polemarco vd. Platone, Repubblica, I, 331e-332b, in Id., Opere, Torino, UTET, 1999, vol. II, p. 274; da confrontare con Of,
I, VII, 20-24, pp. 20-22. D’ora in poi citerò questa edizione della Repubblica semplicemente come Rep. Per le altre definizioni di giustizia proposte in questo dialogo di Platone, cui si è accennato: Rep, IV, 433a, p. 431; 443d sgg., pp. 447 sgg. La tesi del re-filosofo viene formulata in Rep, V, 473d, pp. 488-489 ed è poi ripresa nel sesto libro dell’opera.
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secondo Hankins lo sforzo di Pier Candido Decembrio risulta comunque vano. Ho fatto riferimento agli studi di Hankins, che prende in considerazione anche le traduzioni delle opere platoniche compiute da Ficino, perché vorrei chiarire che si può parlare di platonismo per gli specula quattrocenteschi sia in senso stretto sia in senso lato. Parlare di platonismo in senso stretto significa esaminare in dettaglio il rapporto e il debito che ciascuna di queste opere ha nei confronti della Repubblica e degli altri dialoghi di Platone. Parlare di platonismo in senso lato vuol dire, invece, rimanere ad un livello più generale di analisi. Pur prescindendo dalle questioni filologiche ed ermeneutiche più complesse, è comunque possibile mettere in luce degli aspetti molto importanti: le tesi platoniche sono mediate da tesi ciceroniane ed anche, come si vedrà meglio in seguito, da tesi aristoteliche; tendono a coincidere con la fiducia
e la speranza di poter educare i principi; hanno a che fare con la forma dialogica dell’opera e con la funzione pedagogica attribuita alla filosofia. Dato che il debito delle opere di Pier Candido e Uberto Decembrio nei confronti dei dialoghi platonici è molto diverso da quello contratto da Ficino, Platina o Patrizi, è solo in
questo secondo senso che il platonismo può essere considerato la cifra caratteristica degli specula quattrocenteschi. Nel quinto gruppo, quello delle opere teorico-filosofiche, potrebbero rientrare anche il De optimo cive, che Platina scrive intorno 1474 per Lorenzo de’ Medici, ed il De institutione reipublicae, che Francesco Patrizi da Siena compone alla fine degli anni Sessanta del Quattrocento. Platina e Patrizi riprendono, infatti, in queste opere le stesse teorie che si trovano nel De principe e nel De regno. Accanto al Momus si potrebbe inserire nell’elenco originario anche il De iciarchia, l’ultima opera scritta da Alberti in cui, come già evidenziato, il padre di famiglia è identificato
con il principe ed il principe è assimilato all’ottimo cittadino!8. 18 Sebbene sia più simile al De infelicitate principum e al De varietate fortunae di Poggio Bracciolini che agli altri specula quattrocenteschi, il Momus è stato inserito nell’elenco proposto per due diversi motivi: in un manoscritto, l’ottoboniano latino 1424, l’opera è intitolata Polycrates de principe ed è riportata insieme con il Polycrati-
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Sia Gilbert sia Vasoli, infatti, accostano il dialogo alla traduzione ficiniana del Politico, in cui il principe è descritto come vir civilis e re privato: Alberti descrive il principe come quel «supremo magistrato» che ha il compito di salvaguardare la quiete dei cittadini e di conservare la libertà della patria!. Se si decide di includere il Momus nell’elenco degli specula quttrocentschi, si dovrebbe considerare anche il De infelicitate princibum di Bracciolini, creando un altro gruppo: quello delle opere scritte con fini satirici ed intenti polemici da umanisti legati alla curia pontificia. Inoltre, vista la comune analisi delle virtù, si potrebbe prendere in esame un altro dei Memoriali di Carafa, il Della electa vita cortesana, composto dopo il 1480. Esso potrebbe essere inserito in un nuovo gruppo, insieme al ben più noto Libro del cortegiano, pubblicato nel 1529 ma scritto da Castiglione tra il 1513 e il 1518, e al De officio legati di Ermolao Barbaro (1489)20, Sarebbero qui riuniti tutti gli specula sui doveri: i doveri dei principi, ma anche quelli dei cortigiani e degli ambasciatori. Seguendo un altro criterio di classificazione, si potrebbe infine creare il gruppo degli specula in cui si trovano ampie sezioni dedicate all’amicizia: il De institutione regiminis dignitatum di
cus, lo speculum principis di Giovanni di Salisbury (vd. Garin, Studi su Leon Battista Alberti. 1 Per un ritratto, cit., pp. 139-140); come si è accennato in nota nell’ultimo paragrafo del precedente capitolo, l’opera può essere considerata una parodia degli specula principum. Si veda in proposito anche l’introduzione a L.B. Alberti, Momus, ed. and transl. by S. Knight, London-Cambridge Mas., Harvard UP, 2003. 19 Per questa interpretazione del De iciarchia e del Liber de regno vd. Gilbert, Il concetto umanistico di principe e il «Principe» di Machiavelli, cit., pp. 159-160 riprese da Vasoli, Riflessioni sugli umanisti e il principe: il modello platonico dell’ottimo governante, cit. 20 Platina, De optimo cive, in F. Battaglia (a cura di), Della vita civile di Matteo Palmieri. Del De optimo cive di Bartolomeo Sacchi detto il Platina, Bologna, Zanichelli, 1944; F. Patrizi da Siena, De institutione reipublicae libri novem, Parisii, apud Aegidium Gorbinum, 1575; Alberti, De iciarchia, cit.; P. Bracciolini, De infelicitate principum, a cura di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998; D. Carafa, Memoriale facto et ordinato al magnifico misser Ioanni Thomasi Carrafa della electa vita cortesana, in Id., Memoriali, cit., pp. 255-293; B. Castiglione, // Cortegiano, ‘a cura di C. Cordié, in B. Castiglione, G. Della Casa e B. Cellini, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 5-361; E. Barbaro, De officio legati, in B. Figliuolo, Ermolao Barbaro ambasciatore della Serenissima e il De offcio legati, Napoli, Guida, 1999.
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Giovanni Tinto Vicini, il De principe di Pontano, il De principe di Platina (e il De optimo cive), il De regno et regis institutione di Francesco Patrizi da Siena. Come già anticipato sin dalla premessa, sono le opere che saranno esaminate dopo la Vita civile di Palmieri. ] Il linguaggio politico degli umanisti
Le raccolte di consigli che gli umanisti rivolgono ai principi nell’arco del Quattrocento sono essenzialmente dei cataloghi di virtù in cui si teorizza il modello dell’ottimo principe. Questo sembra essere il denominatore comune di opere così diverse tra loro per struttura e contenuto come quelle dei sei gruppi indicati. Confluiscono in esse diverse linee di pensiero, elaborate nel corso del Quattrocento: dal tema dell’educazione a quello dei doveri, dalla teoria della virtù alla polemica anticuriale, sino alla riflessione sull’infelicità dei principi e di chi occupa posizioni di potere. Sono linee di pensiero platoniche, ma anche ciceroniane ed aristoteliche, che non è sempre possibile distinguere in modo netto. Per fare un po’ di chiarezza credo sia opportuno considerare meglio alcune delle caratteristiche del linguaggio politico degli umanisti, che permettono anche di spiegare perché sia possibile accostare la Vita civile di Palmieri alle raccolte di consigli per i principi in cui si trovano ampie sezioni sull’amicizia. Come nota Pastore Stocchi2!, l’ordine che governa la trattatistica tardo medioevale e il linguaggio tecnico in cui essa si esprime non trovano riscontro nella letteratura umanistica: «il pensiero civile del Quattrocento ama esprimersi nei modi generici della persuasione oratoria, fidando più nella suggestione propiziata dalla retorica che non nella dimostrazione analitica, più nell’esempio degli antichi che nella forza dei principi giuridici e filosofici». Il linguaggio degli umanisti è essenzialmente, anche se 21 M. Pastore Stocchi, I/ pensiero politico degli umanisti, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Umanesimo e Rinascimento, Torino,
UTET, 1989, pp. 3-68, in particolare p. 6.
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non esclusivamente, un linguaggio retorico, che mira a persuadere con la forza degli esempi piuttosto che a convincere con il rigore delle analisi. Sarebbe tuttavia un errore pensare che per questo motivo la riflessione politica degli umanisti sia poco interessante. Secondo Stocchi, infatti, il linguaggio usato «esprime il senso di una realtà contrastata e problematica, irriducibile alla presa di sistemi ideologici definitivi»22. Si deve inoltre considerare che gli umanisti tendono ad usare un linguaggio retorico anche perché sono convinti che la politica sia una scienza pratica, che è tanto più degna di considerazione quanto più può essere verificata nel concreto operare degli uomini e nella realtà delle istituzioni che essi sperimentano?3. Per questa ragione, per quanto noiosi e ripe-
titivi possano sembrare al lettore di oggi, gli esempi sono il cuore della riflessione politica degli umanisti. Sono proposti prevalentemente esempi antichi. Infatti, quello che per Stocchi è il principio fondamentale dell’Umanesimo l’idea che la natura umana abbia una dignità necessaria e perenne, nella quale ciascuno si riconosce sia come individuo sia come membro della comunità, dal momento che non ritiene estraneo a se stesso
nulla che riguarda l’uomo - va correlato ad una tesi molto rilevante: la convinzione che le facoltà umane si siano dispiegate al meglio ed abbiano raggiunto la perfezione nella civiltà classica. Non mi sembra opportuno insistere sul fatto che l’Umanesimo porti alla riscoperta dei classici ed al ritorno all’antico, perché è un aspetto così noto da costituire ormai un luogo comune. Credo invece che sia importante mettere in luce un aspetto spesso ignorato: gli esempi proposti dagli umanisti sono molto eterogenei
tra loro, perché essi cercano risposte ai problemi del presente in opere scritte in vari contesti storici e politici, riferendosi indifferentemente, e a volte contemporaneamente, alla polis greca, alla repubblica romana, alle monarchie ellenistiche o ai grandi imperi del passato, non solo quello romano, ma anche quello persiano. Non bisogna allora stupirsi notando come grandi personaggi 22 Ivi, p. 5. 23 Ivi, p. 8.
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della storia repubblicana di Roma, primo fra tutti Scipione, possano essere indicati come esempio da imitare anche ai principi, al principe di Pontano in particolare, mentre celeberrimi re del passato, quali ad esempio Alessandro Magno e Ciro, possano essere proposti come modello ai cittadini fiorentini che Palmieri vuole educare alla vita civile. Gli umanisti propongono essenzialmente degli esempi di virtù. Per questo la riflessione politica degli umanisti tende a trasformarsi in deontologia, ad essere prevalentemente, sebbene non esclusivamente, una riflessione sui doveri dell’uomo virtuoso?4.
Essi prendono come modello il De officiis, ma anche altre opere di Cicerone quali il De oratore e il De inventione, sia quando definiscono i doveri dei principi, sia quando indicano i doveri dei cittadini, sia quando descrivono i doveri dei cortigiani e degli ambasciatori25. Come si vedrà più in dettaglio nel corso dell’analisi, il De officiis è non solo una delle fonti più importanti cui attingono gli autori degli specula presi in esame per comporre il catalogo delle virtù che contraddistinguono l’ottimo principe, ma anche il testo fondamentale cui si riferisce Palmieri nella Vita civile per educare i fiorentini ad essere ottimi cittadini. In quest'opera, così come nelle raccolte di consigli per i principi esaminate in seguito, le citazioni (esplicite o implicite) ed i riferimenti (diretti o
indiretti) al De officiis sono affiancati, alternati e a volte persino sovrapposti alle citazioni (esplicite o implicite) ed ai riferimenti (diretti o indiretti) all’Etica Nicomachea.
Come indicato nella
premessa, quest'opera di Aristotele continua infatti a giocare un ruolo determinante per la definizione delle virtù. Per comprendere meglio le ragioni per cui il linguaggio politico degli umanisti non è un linguaggio tecnico, occorre precisare che gli autori delle raccolte di consigli per i principi che saranno analizzate non pongono l’accento sulle forme di governo. Sempli-
24 Ivi, p.9. 25 Sebbene esercitino notevole influenza anche le Tusculanae disputationes ed il De finibus, come si vedrà nel corso dell’analisi, gli autori degli specula presi in esame si riferiscono soprattutto al De officiis, al De inventione e al De oratore per comporre i cataloghi delle virtù del principe.
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ficando, si potrebbe forse dire che le virtù contano per loro più
delle costituzioni. Per quanto possano restare perplessi i lettori di oggi, agli occhi degli umanisti una determinata forma di governo non trova, infatti, legittimazione in un particolare assetto costi-
tuzionale, bensì nelle qualità morali di chi governa, governino i principi oppure i cittadini. Inoltre, non sono importanti i mezzi
con cui il principe si è impossessato del potere né la forma con cui lo esercita: conta prima di tutto che il principe non sia un tiranno. La distinzione tra principe e tiranno è declinata sul piano etico, non su quello giuridico e costituzionale: il principe non è un tiranno se non è temuto dai sudditi, ma amato per le sue virtù. Se chi governa amministra il potere seguendo l’esempio dei grandi uomini del passato, prendendosi cura della pace e della sicurezza di tutti, allora la differenza tra monarchia e repubblica può addirittura passare in secondo piano. Si pensi che nel De institutione
reipublicae Patrizi, pur essendo l’autore più interessato all’analisi delle forme di governo, sostiene che la repubblica deriva dalla monarchia ed afferma che non sarebbe stato necessario affidare il governo a molti uomini se tutti i principi fossero stati virtuosi?9. Questo esempio permette di chiarire che repubblica e monarchia non sono necessariamente termini opposti, che si escludono a vicenda, ma concetti complementari, che possono essere unificati
dal comune denominatore della virtù. Proprio perché le virtù contano più delle costituzioni, non deve stupire che Palmieri si riferisca a re e tiranni per indicare ai fiorentini come deve essere governata la città, né che gli autori delle raccolte di consigli per i principi prese in esame chiamino cittadini (cives) i sudditi dei principi cui si rivolgono. Le virtù sembrano contare più delle costituzioni anche perché gli autori delle raccolte di consigli per i principi tendono ad identificare la figura del cittadino ideale con quella dell’ottimo principe, a considerare il principe come un ottimo cittadino, oppure come il
26 Patrizi, De institutione reipublicae, cit., I, pp. 12-15; i passi più importanti si possono leggere, tradotti, anche in Pastore Stocchi, I/ pensiero politico degli umanisti, cit., pp. 28-35.
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primo dei cittadini. Per questo, non solo per opportunismo, o per l’esigenza di far fronte alle mutate condizioni politiche delle realtà
in cui si trovano ad operare, essi rivolgono i medesimi consigli ai
principi e ai cittadini, scrivendo sia opere de principe sia opere de repubblica. Si è già detto che nel Liber de regno e nel De iciarchia Ficino e Alberti descrivono il principe come un re privato ed un pubblico magistrato. Occorre ora anticipare che Platina trasforma il De principe che ha scritto per Federico Gonzaga nel De optimo cive, il dialogo con cui cerca di educare alla vita civile un ottimo cittadino fiorentino come Lorenzo de’ Medici. Cambia pochissimi passi, come si vedrà nel sesto capitolo, mostrando che la tendenza ad identificare le virtù dei principi con quelle dei cittadini può essere particolarmente accentuata. Ovviamente, questo modo di vedere il principe non è privo di intenti ideologici, tesi a giustificare lo status quo, a legittimare il potere dei principi ed anche quello dei Medici. Se si richiamano alla mente alcune delle riflessioni di Skinner sulle origini del pensiero politico del Rinascimento?7, è possibile mostrare che la coincidenza tra le virtù dell’ottimo principe e le virtù dell’ottimo cittadino non è solamente un dato linguistico. Cercando di individuare alcuni elementi costitutivi del processo attraverso il quale si è formato il concetto moderno di stato, Skinner considera gli umanisti quali eredi dei maestri di ars dictaminis del XII e del XIII secolo. Riprendendo ed integrando alcuni noti studi di Kristeller28, contrappone la propria interpretazione alle celebri tesi storiografiche di Baron, secondo il quale l’Umane27 Mi riferisco a Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., in particolare, parte I: Le origini del Rinascimento, pp. 47-142, dove è esaminata l’idea di libertà che emerge dalle riflessioni basate sui precetti dei dictatores (Retorica e libertà) e dalle teorie degli autori influenzati dalla cultura scolastica (Scolastica e libertà). Si veda anche la seconda parte dell’opera: Il Rinascimento italiano, pp. 143-318, perché l’analisi proposta da Skinner in queste pagine è ripresa sia da Quaglioni sia da Stocchi nei saggi citati. Skinner ritorna su questi temi, ma non li approfondisce, anche in Virtà rinascimentali, cit., capitolo IV: Virtà repubblicane in un’età di principi, pp. 155-207. 28 Skinner si riferisce soprattutto a P.O. Kristeller, Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1956 e Id., Renaissance Thought: the Classic, Scolastic and Humanist Strains, New York, Harper & Row, 1961.
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simo, e con esso l’ideologia repubblicana, avrebbe avuto origine durante lo scontro tra Firenze e Milano, dunque nei primissimi anni del Quattrocento. Skinner esamina il pensiero di Remigio de’ Girolami, Tolomeo da Lucca e Bartolo da Sassoferrato per indicare come sia stata recepita la Politica di Aristotele. Evidenzia i cambiamenti subiti dall’ars dictaminis per mostrare come siano fioriti, nella prima metà del XIII secolo, i nuovi generi letterari delle cronache e dei libri di consigli per ipodestà ed i magistrati. Riesce così a fornire prove convincenti, che dimostrano l’esistenza di una cultura retorica capace di legittimare e difendere l’esperienza politica di autogoverno delle città del Regnum Italicum. Secondo Skinner, questa cultura si sviluppa molto prima della lotta tra Firenze e Milano, attinge prevalentemente da fonti romane e sopravvive alla diffusione dell’aristotelismo senza subire grandi cambiamenti. Mentre alcuni studiosi, tra cui Garin, hanno insistito sulle radici
platoniche del pensiero filosofico e politico del Rinascimento, ed altri, per esempio Ullmann e Pocock, hanno sottolineato l’importanza della riscoperta di Aristotele, Skinner evidenzia l’influenza delle opere di Sallustio, Livio, Seneca e, soprattutto, Cicerone??. Sviluppando la propria linea interpretativa del pensiero filosofico e politico del Rinascimento, mostra quale sia il filo rosso che unisce gli specula principum scritti nella seconda metà del Quattrocento alle raccolte di consigli per i magistrati e i podestà delle città. Egli afferma, infatti, che: Non v'era nulla di strano nell’idea di offrire consigli pratici ai capi politici sulla conduzione dei loro affari. Era sempre stato questo lo scopo della antica tradizione di raccolte di consigli per podestà e magistrati comunali, tradizione che a sua volta aveva fatto uso del ben più antico concetto di «specchio» per i principi, ossia di presentare ai principi un’immagine ideale chiedendo loro di riflettersi in essa. Non vi era nulla di inconsueto negli assunti fonda-
29 Per una ricostruzione delle tesi storiografiche e delle linee interpretative sviluppate da Skinner, rimando a M. Geuna, Skinner, pre-humanist rbetorical culture and Machiavelli, in A. Brett and J. Tully, with H. Hamilton-Bleakley (ed. by), Rethinking the Foundations of Modern Political Thought, Cambridge, Cambridge UP, 2006, pp. 50-72.
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mentali alla base dei consigli offerti dagli umanisti del tardo Rinascimento ai principi del periodo. Non appena ci volgiamo ad un esame delle loro opere, il primo aspetto da mettere in evidenza è fino a che punto essi continuassero ad attingere ai valori ed agli atteggiamenti che già gli umanisti «civili» del primo Quattrocento avevano articolato. Il loro eroe rimaneva pur sempre il vir virtutis ed essi continuarono a sostenere che la vera ambizione di questa figura eroica dovesse essere quella di conquistare per se stessa il massimo grado possibile di onore, gloria e fama. I tardi umanisti diedero ancor più risalto a queste concezioni già familiari, perché essi videro nel principe l’uomo capace di conseguire una Virtù insuperabile30.
Per comprendere meglio la tesi espressa nel passo citato, può essere utile chiarire che la nuova declinazione del rapporto tra libertà e potere posta in essere nella riflessioni di umanisti «civili» del calibro di Bruni e Bracciolini affonda le proprie radici in due assunti caratteristici degli scritti dei dictatores medioevali, che sono stati compiutamente formulati anche nel Tesoro di Brunetto Latini3!. Come Brunetto Latini, i dictatores sono infatti convinti
che «la promozione di una vita politica sana e senza corruzione
30 Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 215, ma vd. l’intera analisi dell’ideale umanistico del governo di un principe: ivi, pp. 214-244. 31 Ivi, pp. 101-114. Il Tesoro è un’opera enciclopedica fortemente influenzata dalla teoria morale aristotelica e dalla teoria ciceroniana della retorica. La prima sezione della seconda parte, relativa alla «teoria delle virtudi e delli vizi secondo l’Etica», infatti, è una parafrasi dell’Etica Nicomachea di Aristotele, mentre la sezione iniziale del terzo libro, che verte sul «ben parlare» è una parafrasi del De inventione di Cicerone. La terza ed ultima parte dell’opera, quella intitolata «Del governamento delle città», deriva invece dall'omonimo trattato di Giovanni da Viterbo e presenta, quindi, la medesima forma dei libri di consigli per i podestà e i magistrati (vd. B. Latini, Il tesoro volgarizzato da Bono Giamboni, con testo autentico francese, edito da P. Chabaille, Bologna, Collezione di opere inedite e rare dei primi tre secoli della lingua pubblicata per cura della Regia Commissione per i testi di lingua nelle province dell'Emilia, 1878). Credo sia rilevante notare che tra le virtù esaminate da Latini nel sesto libro dell’opera vi è anche l’amicizia (ivi, libro VI, capp. XLE-XIVI). Inoltre, nell’opera, la vera amicizia è assimilata alla carità (ivi, libro VII, capp. LIV-LVI). Infine, quando, nel libro IX, sostiene che il podestà non deve essere temuto ma amato dai cittadini, l’autore del Tesoro contrappone il principe al tiranno senza fare nessun riferimento alla mancanza di amici che, già per Aristotele, contraddistingue quest’ultimo (ivi, libro IX, cap. XXV). Come si evince da questi accenni, nel Tesoro, l'amicizia è una relazione fondamentale per il raggiungimento della felicità umana, ma non sembra essere una relazione connotata in termini espressamente politici: si potrebbe dire ci sono gli amici dei principi, ma non gli amici dei podestà.
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dipenda più dallo sviluppo delle energie e dello spirito pubblico dei cittadini che dal perfezionamento dell’apparato di governo». Sostengono, inoltre, che la virtù sia l’unica vera forma di nobiltà: credono che il valore di un cittadino non dipenda dal lignaggio né dalle ricchezze, bensì dalla capacità di sviluppare le qualità personali che devono essere messe a servizio della collettività32. Come si vedrà più chiaramente in seguito, la seconda di queste tesi sarà formulata anche nelle raccolte di consigli per i principi prese in esame, ed in particolare nel De principe di Platina. Per mostrare che il principe è l’uomo virtuoso per eccellenza, l’unico capace di raggiungere la gloria e di vincere la lotta contro la fortuna perché è dotato delle armi più efficaci, di cui dispone solo chi è stato educato agli studia bumanitatis, occorre chiarire meglio il concetto di vir virtutis. Skinner descrive le caratteristiche dell’uomo virtuoso dopo aver mostrato che il recupero della concezione ciceroniana della virtù inizia con Petrarca e prosegue con Bruni e gli altri umanisti della sua generazione. Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo nasce un nuovo genere di pensiero morale e politico, «contraddistinto da raccolte di consigli che non sono scritti per consigliare direttamente i podestà e i principi, ma per fornire indicazioni sulla forma migliore di educazione da dare a coloro che avrebbero potuto trovarsi ad adempiere questi importanti ruoli»33. Provando a dimostrare che l’educazione deve essere imperniata sullo studio della retorica e della filosofia antica perché deve preparare all’ingresso nella vita pubblica, Skinner non si riferisce solo ai trattati pedagogici di Pier Paolo Vergerio o di Maffeo Vegio, ma anche a quelli di Piccolomini che sono stati inclusi nell’elenco proposto all’inizio del paragrafo. Il principe riceve dunque la stessa educa-
32 Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 160 e pp. 159-160, con particolare riferimento alla Laudatio di Bruni (L. Bruni, Laudatio florentine urbis, ed. critica a cura di S.U. Baldassarri, Tavarnuzze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2000) e alla Controversia sulla nobiltà di Buonacorso da Montemagno, ripresa anche da Bracciolini nel De vera nobilitate (P. Bracciolini, De vera nobilitate, ed. critica a cura di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002). 33 Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 174-175.
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zione dei cittadini, ed incarna la loro stessa virtù. Per dimostrare
che la virtù è virtù terrena, che si definisce in opposizione alla fortuna, può essere raggiunta senza l’aiuto divino e va perseguita
per ottenere lode e gloria, quando definisce le caratteristiche del vir virtutis, Skinner si concentra soprattutto sul primo libro della Famiglia di Alberti, considerandolo un trattato pedagogico al pari delle opere di Vegio e Piccolomini®4. A conclusione della sua analisi, lo storico delle idee mette in
luce le analogie esistenti tra il Principe e gli specula principum scritti prima di questa opera di Machiavelli. Mostra così due elementi che distinguono la riflessione degli autori delle raccolte di consigli per i principi composte nella seconda metà del Quattrocento da quella elaborata dagli umanisti «civili». Infatti, mentre questi ultimi pongono la libertà a fondamento della vita politica, i primi pongono l’accento sulla sicurezza e sulla pace. Inoltre, diversamente dagli umanisti «civili», gli autori delle raccolte di consigli per i principi sembrano interessarsi alle virtù dei governanti piuttosto che a quelle dei governati$5. La differenza è meno netta di quanto potrebbe sembrare perché è lo stesso Skinner a notare che Palmieri, generalmente considerato il massimo esponente dell’Umanesimo civile, insiste sulla pace e sulla sicurezza della città piuttosto che sulla libertà. Sottolinea inoltre che, prima di Machiavelli, solo Patrizi distingue le virtù dei governanti da | quelle dei cittadini. Platina, Pontano, La possibilità di accostare le opere di Vicini, e Patrizi alla Vita civile non dipende solo dalle osservazioni di Skinner e Stocchi che sono appena state richiamate. Come proverò a mostrare nel corso dell’analisi, vi sono anche ragioni più specifiche, legate alla riflessione sull’amicizia. Non basta infatti notare che la Vita civile è generalmente accostata al De optimo cive ed è stata pubblicata insieme a questo dialogo di Platina nella prima edizione novecentesca dell’opera. E non è neppure sufficiente
notare che Palmieri è annoverato tra i Machiavelli's forerunners 34 Ivi, pp. 179-191. 35 Ivi, pp. 221-222 e p. 225.
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al pari degli autori delle raccolte di consigli per i principi scritte prima del Principe86. Si devono considerare altri tre elementi, che mi sembrano particolarmente rilevanti. a) Per mostrare che l’amicizia tiene unite le città Palmieri rielabora un passo del De offtciîs a cui si riferiscono anche gli autori degli specula che saranno esaminati in seguito, sostenendo che chi governa deve essere amato anziché temuto. b) Per chiarire quale sia la funzione politica dell’amicizia, Palmieri sostiene che gli amici sono la miglior difesa del regno. Questa tesi non si legge solo nella Vita civile, ma anche (oltre che nella lettera di Petrarca) nel De principe di Pontano e nel De principe di Platina. c) L’amicizia civile non è descritta solo da Palmieri. Come si vedrà meglio nell’ultimo capitolo del saggio, infatti, alcuni capitoli del De regno sono dedicati all’analisi della amicitia civilis seu socialis, ossia alla descrizione dei rapporti di amicizia stretti dai cittadini.
Un’idea umanistica: educare il principe all’amicizia Come già accennato, ho scelto di analizzare gli specula princibum quattrocenteschi in cui si trovano ampie sezioni dedicate al tema dell’amicizia. Esaminando le opere di Vincenzo di Beauvais, Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano come farò nel prossimo paragrafo, intendo mostrare che la presenza di accenni e di riferimenti all’amicizia non è affatto una novità. Tuttavia, solo nelle opere del Quattrocento è sviluppata una riflessione articolata e complessa, in cui viene attribuita all'amicizia una nuova funzione politica. Sin dalla lettera che Petrarca scrive a Francesco da Carrara, infatti, le considerazioni relative all'amicizia non
riguardano più la relazione che unisce il principe ai sudditi, ma 36 Nonostante non sia scritta in latino come l’opera di Platina, la Vita civile è pubblicata insieme al De optimo cive: Battaglia (a cura di), Della vita civile di Matteo Palmieri. Del De optimo cive di Bartolomeo Sacchi detto il Platina, cit. L'espressione Machiavelli’s forerunners è ripresa dal titolo del saggio di Gilbert: Gilbert, Machiavellis Prince and its Forerunners, cit. Tuttavia, non è Gilbert ad accostare Machiavelli a Palmieri bensì, come si vedrà meglio nel terzo capitolo, Finzi: C. Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 67-68.
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si concentrano intorno al problema della scelta dei collaboratori del principe: il tema degli amici principis si affianca a quello della mutua caritas che deve regnare tra principe e sudditi, e prende il suo posto. Il rapporto tra il principe e i sudditi continua ad essere considerato una forma di amore e di amicizia dagli umanisti, che non smettono di ripetere che solo il tiranno non ha amici, come affermavano anche Tommaso ed Egidio. Tuttavia, l'argomento centrale della riflessione sull'amicizia cambia: il valore politico della relazione non si gioca più nello spazio del consenso o della concordia, ma in quello del consiglio. Chi può essere amico del principe? Secondo quali criteri il principe deve scegliere i propri amici? Quali caratteristiche devono avere gli amici del principe per essere veramente tali? Queste domande sono formulate sin dagli inizi del Quattrocento, nel De
institutione regiminis dignitatum di Vicini. Attraversano tutto il
secolo, perché si trovano risposte ad esse sia nel De principe di Pontano, sia nel De principe di Platina e nel De regno di Patrizi. Ho scelto di analizzare tutte queste opere perché Vicini, Pontano, Platina e Patrizi indirizzano i loro consigli a principi molto diversi, mostrando di essere più o meno influenzati dal pensiero platonico
(Patrizi), da quello aristotelico (Pontano) o da quello cristiano (Vicini). Non formulano risposte identiche, anche se sono tutti
convinti che l’amicizia è la vera amicitia di cui parla Cicerone nel Laelius e l'amicizia basata sulla virtù che Aristotele descrive nell’Etica Nicomachea. Credo che l’opera di Vicini meriti particolare attenzione perché mette in luce gli aspetti clientelari che l’amicizia assume a corte prima di quanto non faccia Alberti nel quarto libro della Famiglia. Prenderò in esame il De principe di Pontano perché è un esempio «tipico e notevole» delle raccolte di consigli per i principi del Quattrocento, ma anche perché permette di mostrare che il tema degli amici principis è rilevante in una realtà politica diversa da quelle in cui vivono Vicini o Platina, qual è appunto quella della corte napoletana, in cui i sovrani aragonesi perseguono una precisa politica culturale, servendosi degli umanisti per consoli-
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dare il proprio potere?7. Gli specula di Platina e Patrizi risulteranno particolarmente interessanti per la loro valenza filosofica. Come è emerso analizzando il quarto libro della Famiglia, a corte l’amicizia si colora di nuove sfumature, perché non è solo una relazione virtuosa, gratuita e disinteressata, ma anche
un rapporto di natura clientelare. Analizzando le sezioni sugli amici principis che sono complementari al racconto di Piero sarà possibile mostrare che l’amicizia inizia ad essere pensata in modo nuovo: è un rapporto di potere, ed un rapporto con chi è al potere. Senza anticipare le conclusioni del saggio, vorrei chiarire sin d’ora che gli amici principis non sono solo le persone con cui il principe deve stringere un rapporto intimo e personale, ma anche i suoi sostenitori, consiglieri e collaboratori: coloro ai quali il principe dovrebbe affidare gli incarichi e le funzioni politiche più importanti. La parola amicizia indica dunque qualcosa di più del rapporto affettivo, privato e personale, cui si è soliti pensare parlando di amici. Si deve però tener presente che questo qualcosa di più, vale a dire il valore e la funzione politica dell’amicizia, caratterizza la relazione solo se, e proprio perché, essa è un rapporto privato e personale che si stringe con chi è al potere. Questo intreccio tra personale e politico è un aspetto nuovo della riflessione sull’amicizia, che non è presente negli specula medioevali. In quanto rapporto di potere e rapporto con il potere, l’ami-
cizia è la forma di quelle relazioni politiche che convergono verso il principe e si irradiano da lui. Sono rapporti centripeti e centrifughi, che sottendono una circolarità che è tanto più evidente quanto più si considera che sono gli stessi autori delle raccolte di consigli per i principi a proporsi come amici. Secondo Dell’Aquila, l’aspirazione rinascimentale ad un rapporto paritario col principe si fonda non solo sulla valorizzazione della fides, che Cicerone pone a fondamento della vera amicizia nel
37 Per questo giudizio sul De principe di Pontano rimando a Skinner, Virtà rinascimentali, cit., p. 176. Per quanto riguarda la politica culturale degli aragonesi si veda, invece, quanto sarà indicato nel quinto capitolo.
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Laelius, ma anche sulla riscoperta dell’Etica Nicomachea, che
porta ad una rivalutazione della virtù amicale nell’ambito dei rapporti sociali e civili. Il maestro del principe si propone quindi, come amico, secondo gli esempi classici di Chirone ed Achille, di Aristotele ed Alessandro Magno, abbagliato dal «miraggio di una società di boni viri governata mediatamente dai filosofi»3* Dell’Aquila chiarisce che questo sogno si infrange di fronte alla «realtà effettuale» delle cose. Io vorrei invece evidenziare che umanisti come Vicini e Platina non cercano di essere amici dei principi solo perché si sentono chiamati ad educarei potenti, né solo perché sono animati dal nobile desiderio di mettere al loro servizio il proprio sapere e la propria esperienza. Essi hanno bisogno dell’appoggio e della protezione dei principi anche per svolgere la loro attività intellettuale: l'amicizia non ha valore politico solo perché è la relazione con cui il principe seleziona l’élite di governo, ma anche perché è la chiave che apre le porte della corte agli umanisti59. Concludendo, vorrei mettere in evidenza un altro aspetto della riflessione sugli amici principis: il valore politico che è attribuito all'amicizia può essere visto come una risposta teorica alla particolare situazione politica della penisola italiana. Proprio perché è una relazione duttile e ambigua, che non appartiene totalmente alla sfera pubblica, ma non è neppure collocabile solamente nell’ambito dei rapporti intimi e privati, l’amicizia sembra politicamente rilevante proprio in quelle realtà politiche che sono prive di una struttura stabile e definita, in cui il potere del principe è un potere individuale e personale. Come si vedrà più chiaramente esaminando la-lettera di Petrarca,è in questi contesti, in cui i
38 M. Dell’Aquila, Dalla fedeltà all'amicizia: l'aspirazione ad un nuovo rapporto del letterato col principe, in AA.VV., Il concetto di amicizia nella storia della cultura europea, Atti del XXII Convegno Internazionale di studi italo-tedeschi, Merano 9-11 maggio 1994, Merano, Accademia di studi italo-tedeschi, 1995, pp. 530-535.
39 Sulla figura dell’intellettuale nel Rinascimento vd. M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri e E. Garin, L’intellettuale tra Medioevo e Rinascimento, Roma-Bari, Laterza,
1994, in cui è descritto quel cambiamento delle funzioni e delle caratteristiche del filosofo che permette agli umanisti di essere amici dei principi.
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cortigiani non sono ancora dei veri e propri funzionari e le relazioni politiche sono sempre anche dei rapporti personali, che si crea lo spazio politico per gli amici principis*.
2.2 Modelli medievali per la riflessione sull’amicizia De electione amicorum: l’amicizia nel De morali principis institutione di Vincenzo di Beauvais
Vincenzo di Beauvais compone il De morali principis institutione tra il 1260 e il 12644!. Questo speculum principis è un manuale di formazione morale, indirizzato al re di Francia. È
diviso in tre parti: i primi nove capitoli esaminano l’origine e la natura del potere politico, quelli centrali (X-XV) insistono sulla saggezza che il principe deve possedere per amministrare bene il suo regno, gli ultimi (XVI-XXII) esortano il principe ad eccellere nella bontà e ad evitare i vizi, soprattutto l’ambizione. La tripartizione non è casuale. Dipende, infatti, dall’applicazione dello schema trinitario alla concezione del principe come imago dei: questi deve imitare la potenza del Padre, la saggezza del Figlio, la
40 Non essendo questa la sede per affrontare un tema così complesso, mi limito ad indicare i seguenti studi: G. Chittolini (a cura di), La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato nel Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1979; A. Tenenti, L'Italia nel Quattrocento. Economia e Società, Bologna, il Mulino, 1980 ed Id., Stato: un'idea, una logica, Bologna, il Mulino, 1987 (in particolare: Archeologia medioevale della parola stato, La nozione di stato nell’Italia del Rinascimento, Le dittature nelle cittàstato italiane fra XIII e XVI secolo, Profilo e limiti delle realtà nazionali in Italia tra Quattrocento e Seicento, pp. 7-156); D. Hay e J. Law, Italy in the Age of Renaissance, 1380-1530, London, Longman, 1989; trad. it. L'Italia nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1989. 41 Vincentii Belvacensis, De morali principis institutione, edidit R.J. Schneider, Brepols, Turnholt, 1995, cap. XII, pp. 64-68; d’ora in poi citerò questa edizione come De morali principis institutione. Come spiega Schneider, questo speculum doveva essere uno dei quattro trattati dell’opus universale de statu principis, che Vincenzo di Beauvais ha iniziato a comporre sin dal 1448, lavorando insieme ad altri frati domenicani a Saint-Jacques ed insieme ad alcuni monaci a Royaumont. Non ha mai terminato l’opera, riuscendo a completare solo il primo e l’ultimo dei quattro trattati previsti: il De morali principis institutione e il De eruditione filiorum.
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bontà dello Spirito4. Per comporre il proprio trattato sull’educazione morale del principe, Vincenzo di Beauvais attinge ampiamente da un’altra delle sue opere: lo Speculum Maius, il trattato enciclopedico che ha continuato a rivedere ed integrare fino alla morte. Come è evidenziato dagli accurati confronti proposti da Schneider, lo Speculum Maius funge da fonte per il De morali principis institutione per le analisi relative alle virtù e alle passioni, per le riflessioni sul governo dell’anima e del corpo, e per le considerazioni sul linguaggio*3. In particolare, nel De morali principis institutione, Vincenzo di Beauvais cita le sentenze dei poeti, dei
filosofi classici e dei primi autori cristiani che ha ricordato negli ultimi quattro libri del Doctrinale, una delle quattro parti di cui consta lo Speculum Maius**. La dipendenza del De morali principis institutione dal Doctrinale si riscontra anche se si confrontano le sezioni dedicate al tema dell’amicizia. Il dodicesimo capitolo dello speculum principis di Vincenzo di Beauvais è interamente dedicato all’amicizia. La saggezza del principe si manifesta, infatti, anche nella scelta degli amici, dei consiglieri e degli ufficiali: Quod debet esse sapiens in amicis et consiliariis et officialiis eligendis*5. Questo
42 De morali principis institutione, p. XXIV, nota 17. Vincenzo di Beauvais applica l’antico topos del principe come imago dei ad una nozione che è diventata fondamentale nel pensiero teologico sin dalla fine del XII secolo, attribuendo potenza, sapienza e bontà alle persone della trinità. Questa concezione appare anche nel De trinitate (in cui deve essere segnalata la presenza di lunghi passi tratti degli scritti teologici di Riccardo di San Vittore e Pier Lombardo), nello Speculum Naturale e nello Speculum Historiale. 43 Per una corrispondenza precisa dei passi delle due opere, anche per quel che riguarda l’amicizia, vd. De moralis principis institutione, pp. XXXVIF-XL. 44 Come è noto, lo Speculum maius è costituito dallo Speculum Naturale, Doctrinale, Morale e Historiale. La prima edizione dell’opera, un’edizione bipartita composta dallo Speculum Naturale e dallo Speculum Historiale, è completata da Vincenzo di Beauvais e dai suoi collaboratori nel 1247; agli inizi degli anni cinquanta il Naturale è ampliato e diviso in Naturale e Doctrinale; alla fine degli anni Cinquanta l’Historiale, che era già stato rivisto in precedenza, vede due successive redazioni. Tutti questi lavori vengono completati tra il 1256 e il 1259. Per un’analisi più precisa della redazione e della cronologia dell’opera vd. M. Paulmier Foucart e S. Lusignan, Vincent de Beauvais et l’histoire du Speculum Maius, in «Journal des Savants», 1990, pp. 97-124. 45 De morali principis institutione, cap. XII, pp. 64-68.
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tema è affrontato anche in uno dei capitoli del sesto libro del Doctrinale, che si intitola appunto De electione vel acquisitione amicorum*. Questi due capitoli sono uno dei primi esempi della riflessione sugli amici del principe. Come si vedrà meglio esaminando l’opera di Tinto Vicini, influenzano la riflessione degli autori degli specula principum quattrocenteschi. Si deve altresì notare che gli amici sono accostati ai consiglieri ed agli ufficiali del principe molti anni prima di quelli in cui Petrarca e gli altri umanisti consiglieranno al principe quali amici scegliere. Il contesto in cui è affrontato il tema della scelta degli amici nel Doctrinale è particolarmente importante. Infatti, come già accennato analizzando la struttura della Famiglia, i capitoli iniziali del sesto libro di quest'opera di Vincenzo di Beauvais riguardano la scientia vel ars oeconomica. L’analisi si svolge in due parti, l’una relativa alla famiglia, l’altra all’amministrazione della casa, che sono poi ulteriormente suddivise per argomenti: la parte che respicit familiam sive personas familiares si articola nelle sezioni de mutua societate vel amore coniugum, de educatione filiorum, de regimine servorum, de cultu amicorum; la parte che pertinet ad rei familaris dispositionem è divisa così: in domesticum rerum negotiis, in eis custodiendis, in eis dispensandis ed in eis evitandis!”.
Come nota Lambertini, si tratta di una delle prime esposizioni di un certo respiro del tema del governo della casa, che è posta dopo un libro sull’etica e prima di un libro sulla politica. 46 Vincentii Belvacensis, Speculum doctrinale, Graz, Akademische Druck, 1995 (rist. anastatica dell’ed. Duaci, 1624), libro VI, cap. XIV, pp. 490 sgg. Si noti che sono dedicate all’amicizia anche altre sezioni del Doctrinale: vd. per es. icapp. LKXXII-LCII del quinto libro (pp. 450-456), in cui Vincenzo di Beauvais riporta una serie di citazioni sull’utilità e la piacevolezza dell’amicizia, sulla vera amicizia, sulla fedeltà e la costanza degli amici, sulla concordia e la condivisione che questa relazione implica, su ciò che ostacola e ciò che danneggia la relazione, su ciò che deve o non deve essere fatto per un amico. Sembra pertanto che l’amicizia sia una parte non secondaria della scienza morale. 47 Ivi, libro VI, cap. XIV, p. 481. 48 R. Lambertini, A proposito della «costruzione» dell’Oeconomica in Egidio Romano, in «Medioevo. Rivista di Storia della Filosofia medioevale», XIV, 1988, pp. 315-370, in particolare pp. 321-323. Lambertini analizza l’ars oeconomica delineata nel Doctrinale anche in un precedente articolo: Id., Per una storia dell’oeconomica tra alto e basso Medioevo, in «Cheiron», 1985, pp. 45-74, in particolare pp. 50-53.
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Dopo aver citato le definizioni di ars economica proposte da Isidoro di Siviglia e Riccardo di San Vittore, non avendo accesso alla traduzione dell’Economico senofonteo che menziona, l’au-
tore procede nella trattazione dell'argomento raccogliendo i brani più rilevanti di diversi autori. Non avendo intenzione di affrontare un problema cosi complesso qual è quello della divisio scientiae o quello dell’origine della scientia economica, mi limito a sottolineare un dato che mi sembra rilevante per l’analisi in corso: nonostante l’assenza di riferimenti espliciti ad Aristotele, tanto in quest'opera di Vincenzo di Beauvais quanto nell’Etica Nicomachea l’amicizia è una delle relazioni che costituiscono la famiglia. Poiché Vincenzo di Beauvais si occupa della scelta degli amici (cultus amicorum) dopo aver esaminato la relazione
(mutua societas) tra i coniugi, l’educazione dei figli ed il rapporto tra il dominus ed i servi, l'amicizia è la relazione che apre la famiglia verso l’esterno. Sembra dunque che il passaggio dalla sfera individuale a quella sociale e politica sia mediato dall’amicizia. Come si vedrà tra poco, anche Egidio Romano colloca l’amicizia all’interno della famiglia, riprendendo quei passi dell’Etica Nîicomachea in cui i rapporti familiari sono descritti come forme di amicizia‘. Visto il carattere enciclopedico dell’opera, il capitolo de electione vel aquisitione amicorum è un elenco, non troppo lungo, di citazioni tratte da diverse auctoritates, prevalentemente romane. Vincenzo di Beauvais cita il Libro dei proverbi, le Lettere di Seneca a Lucillo, il Laelius di Cicerone, il Bellum Iugurthinum di Sallustio, i Saturnalia di Macrobio; le opere di Teofrasto e Plauto,
Valerio Massimo e Svetonio, ma anche quelle di Gerolamo e Agostino. Come già detto, non cita l’Etica Nicomachea. Il De
49 Vd. EN, VII, 1161b 10-1162b 33, pp. 345-347. Come nota Lambertini (Lambertini, A proposito della «costruzione» dell’Oeconomica in Egidio Romano,
cit.), il De regimine principum fornisce il primo esempio di trattazione dell’oeconomica in cui il paradigma aristotelico esercita un’influenza decisiva: quando Egidio Romano affronta il tema dei rapporti interni alla comunità domestica, egli attinge a piene mani alla Politica e all’Etica Nicomachea, non essendo ancora disponibile all’Occidente latino l’Oeconomica erroneamente attribuita ad Aristotele.
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officis è presente e fa da sfondo alle analisi, ma non è una fonte privilegiata come accadrà invece nelle riflessioni sull’amicizia degli autori quattrocenteschi: anche questo è un dato da tenere presente. Le citazioni di Vincenzo di Beauvais evidenziano alcuni topoi relativi all’amicizia, che diventeranno canonici: non si deve iniziare ad amare l’amico che poi si potrebbe odiare; l’amico non va cercato nei banchetti, bensì nelle occupazioni oneste; non si devono amare gli amici dopo averli giudicati, ma bisogna giudicare gli amici dopo averli amati; l’amicizia è una relazione suavissima, che si basa sulla vis vetustatis et consuetudinis, ed è rara; il vero amico è un altro se stesso; l’amico deve cercare un amico
simile a lui nell’animo; i veri amici non costringono con le armi e non chiedono di obbedire col denaro; bisogna comportarsi con l’amico pensando che potrebbe anche diventare un nemico; si devono amare gli amici che sono già stati messi alla prova, ma non si devono mettere alla prova quelli che si amano; non si può stringere amicizia con un uomo malvagio...50, Questi ed altri topoi si affiancano gli uni agli altri in modo ripetitivo e apparentemente casuale. Poiché alcune delle citazioni fatte invitano ad amare l’amico in modo totale e disinteressato,
mentre altre suggeriscono di essere prudenti e persino diffidenti nei suoi confronti, esse sembrano in contraddizione tra loro. Si
deve inoltre considerare che i topoi evidenziati non vengono spiegati, né commentati: Vincenzo di Beuvais sembra spinto solo dal desiderio di raccogliere tutte le testimonianze più significative. Nella sezione sull’amicizia del De morali principis institutione, che non è un’opera compilativa, ma un trattato, l’autore sviluppa una riflessione più approfondita. Poiché il manuale di consigli scritto da Vincenzo di Beauvais ha la forma di un sermone®5!, per
SO Vincentii
Belvacensis,
Speculum
Doctrinale,
cit., libro VI, cap. XIV, pp.
490-491. 51 De morali principis institutione, p. XXXVI: «The De morali principis institutione is a a didactic treatise belonging to the type that enjoined a renewed popularity during the later middle ages; the handbook for princes. As a tractate by a member of the Order of Preachers it also reflects both the intellectual and the evangelizing interests of the author’ mendicant community. The originality of his treatise lies not in its contents
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sostenere che il principe deve scegliere dei collaboratori di provata fiducia, fedeli, leali ed onesti, le citazioni dei classici sono intercalate con quelle tratte dai libri dell’Antico (i Proverbi, i Salmi, l’Ecclesiaste) e del Nuovo Testamento (la Lettera ai Corinzi, il
Vangelo di Matteo). I topoi raccolti nel Doctrinale valgono anche per il principe. Questi deve scegliere uomini che sono già stati messi alla prova, non deve mettere alla prova quelli che ha già scelto; deve scegliere con cura i propri amici per non iniziare ad amare chi poi potrebbe odiare; quando è diventato amico di qualcuno deve fidarsi di lui, ma prima di fidarsi deve aver giudicato...52. Come afferma Cicerone nel Laelius, l'amicizia trae forza
dalla consuetudine e dalla frequentazione; come mostra la vita di
Augusto narrata da Svetonio, da una parte non si deve diventare
amico di qualcuno troppo facilmente, dall’altra si deve mantenere la relazione con grande tenacia e costanza53. Testi classici e testi sacri concordano nel sostenere che gli amici, i consiglieri e gli ufficiali non possono essere molti54. Tutti questi testi sono citati per dimostrare che gli amici devono avere caratteristiche precise: devono essere persone mature e sapienti, discrete e fedeli, prudenti e sollecite, lente all’ira e poco impulsive5S. Tali caratteristiche sono particolarmente importanti perché Vincenzo di Beauvais sostiene che il principe non può occuparsi personalmente di tutto, ma deve avvalersi di collaboratori, cioè di amici fedeli e prudenti. A questo proposito mi sembra importante precisare che il principe è sì esortato a prestare attenzione per non essere ingannato, ma è
anche invitato a fidarsi degli amici senza dare troppo ascolto alle
voci riguardanti congiure e tradimenti59.
— its subject matter is common to the gendre — but in its composition and form. Vincent abandoned the gendre he had specialized in, the compilatio, and compose a tractatus, using the new homiletic form, the thirteenth-century “scholastic” sermon [...]». 52 De morali principis institutione, cap. XII, pp. 64-65. S3 Ivi, p. 65. 54 Ibid.
SS Ivi, pp. 66-67. 56 Ibid.
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Ricorrendo ai luoghi comuni che contraddistinguono la riflessione sull’amicizia, consapevole che il principe non può fare a meno di servirsi di collaboratori, Vincenzo di Beauvais descrive la relazione tra il principe ed i suoi ufficiali sottolineando che è un rapporto che deve basarsi sulla fiducia, la reciprocità, la capacità di giudizio, la stima e la lealtà. Viene spontaneo pensare che accosti i consiglieri ed i funzionari agli amici credendo che il principe stringa con loro un rapporto intimo e personale, alimentato da quella frequentazione assidua che diventa, con il passare del tempo, consuetudine ed abitudine. Tuttavia non è in gioco solo la natura intima e personale del rapporto di amicizia, perché nel Doctrinale si è visto che questa è una delle relazioni che costituiscono la famiglia. È come se, accostando gli ufficiali e i consiglieri agli amici, Vincenzo di Beauvais dicesse che queste persone appartengono alla corte e sono a tutti gli effetti dei membri della famiglia del principe. La riflessione sull’amicizia proposta nel De morali principis institutione non mi pare significativa solo per il contenuto dei topoi proposti, ma anche, e soprattutto, per l'accostamento degli amici ai consiliares ed agli officiales del principe. Le citazioni che alimentano la riflessione di Vincenzo di Beauvais permettono, infatti, di iniziare ad intravedere il tema degli amici principis. Come anticipato, anche per gli autori delle raccolte di consigli per i principi esaminate nella seconda parte del saggio, non solo per Vicini, che è l’autore più influenzato da Vincenzo di Beauvais, gli amici saranno i consiglieri e gli ufficiali del principe. Per loro, così come per Vincenzo di Beauvais, l’amicizia è una relazione politicamente rilevante perché è un rapporto intimo e familiare con chi detiene il potere. Prima di essere un rapporto professionale, è un vincolo morale: se l’amicizia non fosse una relazione intrinsecamente dotata di caratteristiche morali, non potrebbe svolgere la funzione politica che le è attribuita. Per Vincenzo di Beauvais termini quali amici, consiglieri e ufficiali sono quasi sinonimi. Petrarca e gli autori degli specula quattrocenteschi che riflettono sugli amici del principe cercando di individuare le caratteristiche di questa nuova figura della scena politica, invece problematizzeranno la loro riflessione. Si porranno
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domande diverse da quelle cui cerca di rispondere l’autore del De morali principis institutione: mentre Vincenzo di Beauvais insiste sulla scelta di consiglieri diversi per le questioni temporali e per quelle spirituali57, gli autori degli specula che saranno esaminati nei prossimi capitoli non hanno la preoccupazione di evitare le ingerenze dei «consiglieri temporali» nella sfera spirituale e quelle dei «consiglieri spirituali» nella sfera temporale®8. Sembrano preoccupati soprattutto di essere scelti come amici del principe, come consiglieri e funzionari di corte. Vi è un’altra
differenza, forse ancor più rilevante: la sapienza che contraddistingue gli amici del principe non sarà più l’analogo o l’immagine della sapienza di Dio: identificherà il possesso della cultura classica, con il sapere. In assenza del modello trinitario, attraverso
un uso più consapevole delle citazioni dei classici, il tema degli amici principis assumerà, dunque, nuovi e diversi significati, che possono però emergere dagli stessi topoi presenti nel De morali principis institutione.
Parva vel potius nulla est amicitia tyranni et subditi: il rappor to tra il principe e i sudditi nel De regno di Tommaso d’Aquino
Riscoprendo la filosofia aristotelica, Tommaso riconosce l’esistenza e la dignità di quella sfera naturale e razionale di valori etici che porta alla giustificazione ed alla rivalutazione della dimensione politica dell’esistenza umana. Non solo sostiene che il peccato non invalida ipsa principia naturae, ma afferma anche che la natura non repugnat gratiam. Come nota Passerin d’En57 Ivi, pp. 67-68. 58 Ivi: «Quia vero princeps habet tractare de diversiis negociis, debet habere consiliarios unicuique negocio aptos, ut scilicet de hiis qui ad salutem animae pertinet non tractent cum illis qui religionem oderunt nec de temporalibus negotiis aut bellis aut huiusmodi cum illis qui in talibus inesperti et imperiti sunt [...]».Questa è la mia traduzione del passo: «Poiché in verità il principe deve occuparsi di diverse attività, egli deve avere consiglieri adatti a ciascuna di esse, affinché appunto non tratti delle questioni che riguardano la salvezza dell’anima con coloro che odiano la religione né degli affari temporali o delle guerre, o di attività di questo tipo con coloro che non ne hanno esperienza e non sono pratici nè esperti in tali faccende [...]».
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trèves se è vero che l’ordine naturale è una condizione e un mezzo per realizzare un fine più alto, è altrettanto vero che è proprio l’ordine naturale a legittimare l’autorità politica in quanto espressione del diritto umano5?. Per questo, le istituzioni politiche non sono viste come un rimedio inevitabile e necessario per arginare la corruzione morale dovuta al peccato: sono inevitabili e necessarie perché senza di esse non può realizzarsi e trovare compimento la natura dell’uomo, aristotelicamente inteso quale animale sociale e politico. Tommaso si interroga sul valore della dimensione politica dell’esistenza umana in tutta la sua riflessione politica, che è organica, ma frammentata in opere diverse90. Tra queste vi è anche un opuscolo sull’origine del regno, i compiti che secondo le Scritture sono propri del buon sovrano, i rapporti tra potere temporale e potere spirituale: il De regimine principum ad regem Cypri, meglio conosciuto come De regno®!. Tommaso scrive il De regno intorno al 1266. Probabilmente è sollecitato alla stesura dell’opera da Tommaso Agni da Lentini, il frate domenicano da poco diventato vescovo di Gerusalemme
59 A. Passerin d’Entrèves, Introduzione, in Tommaso D’Aquino, Scritti Politici, Milano, Massimo, 1985, pp. 7-29, in particolare pp. 11-12. Sul pensiero politico di Tommaso vd. almeno: S. Vanni Rovighi, San Tommaso d’Aquino, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali. Il Medioevo, Torino, UTET, 1983,
pp. 463-491.
60 Oltre al De regimine principum ad regem Cypri, le opere più importanti in cui Tommaso espone la propria filosofia politica sono i Commenti all’Etica e alla Politica, il Commento alle Sentenze di Pier Lombardo, le due grandi Summae. 61 Per l’edizione latina dell’opera vd. Tommaso, De regimine principum ad regem Cypri, in Divi Thomae Aquinatis doctoris angelici De regimine principum ad regem Cypri et De regimine Judeorum ad ducissam Brabantiae Politica opuscola duo, Joseph Mathis curante, Torino, Marietti, 1971 (19481), pp. 1-101. L’unica traduzione italiana
è Tommaso d’Aquino, Il governo dei principi. Al re di Cipro, in Opuscoli politici, a cura di L. Perotto, Bologna, ESD, 1997, pp. 27-398. In nota, rimando a quest'edizione, che d’ora in poi chiamerò semplicemente Al re di Cipro, quando mi riferisco in generale ad alcuni passi dello speculum di Tommaso. Traduco personalmente i passi che cito nel testo per dare risalto ai riferimenti all’amicizia. In questo caso, riporto in nota il testo latino ed indico tra parentesi le pagine della traduzione di Perotto. Per evitare di confondere lo speculum di Tommaso con quello di Egidio Romano, riferirò all’edizione latina citata con l'abbreviazione Ad regem Cypri.
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a cui deve l’inserimento nell’Ordine dei Predicatori. Come molti altri specula principum, anche quello di Tommaso nasce per far fronte ad una situazione storica e politica precisa: nel 1253 muore Amalrico di Lusingano, il sovrano favorevole ad un concentramento di forze cristiane in Oriente. Grazie all’appoggio di papa Innocenzo III, questi era riuscito ad unire in suo potere sia il regno di Cipro sia il regno di Gerusalemme. La morte di Amalrico pone il problema della successione al trono: diviso il regno, a Cipro, sale al potere Ugo II, il figlio di Amalrico92. È a questo principe ancora adolescente che Tommaso rivolge le proprie considerazioni sul governo e sulla monarchia, probabilmente con l’intento di formarlo e prepararlo a regnare: come molti altri specula principum, anche il De regno ha una chiara impronta pedagogica. Sebbene la questione sia nota, forse non è del tutto inutile ricordare che Tommaso non ha terminato il De regno, interrompendo le sue analisi al quarto capitolo del secondo libro. Gli altri capitoli del secondo libro, così come il terzo ed il quarto libro, sono stati composti da Tolomeo da Lucca intorno al 1300. Una delle ragioni dell’interruzione potrebbe essere trovata nella prematura scomparsa di Ugo II, morto nel 1267, a soli quindici anni di età. Diversamente dal De morali principis institutione, il De regno non ha sezioni specificatamente dedicate all’amicizia. Tuttavia, Tommaso accenna più volte a questo tema nel corso delle sue riflessioni$3. Se si pensa allo spazio che viene dato a questa relazione nella Summa theologiae8*, la presenza di questi accenni 62 Per la genesi e la datazione del De regno vd. L. Perotto, Introduzione, in Tommaso d'Aquino, Opuscoli politici, cit., pp. 9-24. Si noti, però, che Flieler ha proposto una data di composizione più tarda, sostenendo che Tommaso avrebbe composto il De regno tra il 1271 e il 1273, scrivendo per Ugo III invece che per Ugo II, già morto in questi anni: C. Flieler, Rezeption und Interpretation der aristotelischen Politica im spéiten Mittelalter, Teil 1, Amsterdam-Philadelphia, Griiner, 1992, pp. 27-29. 63 Si noti che Perotto intitola la sezione dell’opera da cui sono presi i passi relativi all’amicizia «Amicizia e autorità»: Al re di Cipro, p. 70. 64 Tommaso affronta il tema dell’amicizia due volte nella Summa theologiae: la prima discussione è parte delle quaestiones note come «trattato sulle passioni» (ST, Ia Iae, qq. 22-48, in particolare qq. 26-28); la seconda discussione si trova inserita nella dettagliata analisi della virtù teologica della carità (ST, I-II, qq. 23-27): Tommaso d'Aquino, La summa teologica, trad. e commento a cura dei domenicani italiani,
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non stupisce affatto: l’amicizia è un concetto chiave della filosofia tomista. Per comprendere il significato dei riferimenti all’amicizia presenti nel De regno credo che si debbano prendere in considerazione alcuni degli argomenti affrontati in quest'opera, seguendo più da vicino il ragionamento di Tommaso. Il De regno si apre con una domanda sul significato del termine re. Per rispondere, Tommaso chiarisce che il fine dell’uomo consiste nell’intelligenza. Evidenzia inoltre che l’uomo ha bisogno di qualcuno che lo indirizzi e lo guidi verso il proprio fine6S. Il ragionamento assume, quindi, sin dall’inizio un’evidente impronta teleologica. Muove da una premessa aristotelica particolarmente importante: l’uomo, unico essere vivente dotato di ragione e parola, è per natura un animale politico, che non può vivere isolato e non riesce a sopravvivere senza l’aiuto degli altri. Tommaso aggiunge alla premessa un assunto molto significativo, di carattere vagamente aristotelico: essendoci un principio di governo nei cieli, nell’anima e nel corpo, deve esserci una guida ed un principio unificante anche là dove c’è una moltitudine di uomini6*. Solo dopo aver chiarito che per vivere associati gli uomini devono essere governati, Tommaso precisa che il re è tale solo se esercita il suo potere in vista del bonum commune multitudinis. Questo concetto di derivazione aristotelica orienta la riflessione sulla miglior forma di governo, permettendo di distinguere i governi giusti da quelli ingiusti67. Secondo il particolare testo latino dell’edizione leonina, Bologna, ESD, 1984, II, qq. 26-28, vol. IX, pp. 76-113; I-Iae, qq. 23-27, vol. XV, pp. 24-181. D'ora in poi citerò questa edizione
dell’opera con l’abbreviazione ST. Mentre il trattato del cistercense Aelredo (Aelredo di Rievaulx, Amicizia spirituale, introd. trad. e note a cura di M.P. Gasparotti, Siena,
Cantagalli, 1994) è la più importante opera medioevale sull’amicizia d’impronta ciceroniana, queste quaestiones sull’amore e la carità sono la più importante opera medioevale sull’amicizia d’impronta aristotelica: dopo la Bibbia, l’Etica Nicomachea è il testo
più citato da Tommaso, che non menziona mai esplicitamente Cicerone. Sull’amicizia in Tommaso, oltre a I. Sciuto, Amore e amicizia nel pensiero di Tommaso d’Aquino, Milano, Vita e pensiero, 2002, si veda almeno il più recente, e più ampio, studio di Schwartz: D. Schwartz, Aquinas on Friendship, Oxford, Oxford UP, 2007. 65 Al re di Cipro, p. 32. 66 Ivi, pp. 33-34. 67 Ivi, p. 37.
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punto di vista assunto da Tommaso, il governo migliore è quello di uno solo perché raggiunge il proprio fine meglio di quanto non faccia il governo di molti: chi governa da solo riesce a realizzare più facilmente l’unità e la pace del corpo politico®8. Dopo aver dimostrato che la monarchia deve essere preferita alle altre forme di governo con un ragionamento che verrà ripreso anche in alcuni specula quattrocenteschi69, Tommaso oppone la monarchia alla tirannide. È una contrapposizione fondamentale per comprendere il significato politico attribuito all’amicizia. La tirannide per Tommaso non è solamente la forma di governo peggiore, come nella classificazione aristotelica?°, ma è il contrario della monarchia. Infatti, quanto più persegue il fine dell’unità, tanto più il tiranno si allontana dal bene comune. L’analisi della tirannide segue da vicino la Politica di Aristotele7!. Tommaso descrive il tiranno come un individuo schiavo delle proprie passioni: è un uomo avido e sanguinario, che non persegue il bene comune, ma 68 Ivi, p. 39. 69 Ivi, pp. 39-40: l’unità può essere più facilmente realizzata quando il principio è uno in sé; i molti hanno origine dall’uno; come mostrano anche numerosi fatti storici, l’unità di una comunità retta da un solo uomo è maggiore dell’unità delle comunità rette da molti uomini, che sono spesso travolte da lotte e discordie intestine; la guida naturale che la ragione esercita sull’anima irascibile e sull’anima concupiscibile, ma anche il governo dell’ape regina sulle altre api e, soprattutto, il governo di Dio sulle creature mostrano che il governo di uno solo uomo è più naturale del governo di molti uomini. Si noti che Tommaso sviluppa il proprio ragionamento richiamandosi al principium unitatis, parte da premesse metafisiche non immediatamente aristoteliche per mostrare che l’istituzione monarchica è quella più affine all’ordine creaturale posto in essere da Dio e ricorre all’esperienza solo per confermare le proprie deduzioni. Come si chiarirà in seguito, gli argomenti di Tommaso a favore della monarchia vengono ripresi nel De regimine principum di Egidio Romano e, come nota Ferraù, attraverso di esso, anche nel De principe di Platina, nel De optimo statu libellus di Beroaldo e nel De regno di Patrizi (Platina, De principe, cit., p. 54). 70 Al re di Cipro, p. 42. 71 Per descrivere la tirannide, Tommaso si riferisce soprattutto al V libro della Politica: P, V, 1310b 1-1316b 29, pp. 461-499. Oltre a questi passi vd. anche P, V, 1311a 2-8, p. 463 (la guardia del re è fatta da cittadini, quella del tiranno da mercenari); P, V,1313b 1-9, pp. 479-480 (il tiranno proibisce le associazioni tra i sudditi); P, V, 1314a 1-29, pp. 483-485 (il tiranno mantiene il potere creando un clima di sfiducia tra i sudditi). Come indica nella premessa, anche nell’Etica Nicomachea Aristotele sostiene che il tiranno non ha amici, affermando che non può esserci amicizia nella tirannide: EN, VII, 1161a 30-35, p. 343.
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cerca esclusivamente di soddisfare il proprio interesse personale. Agendo in questo modo, non priva i propri sudditi solo dei beni materiali (bona corporalia), ma anche dei beni spirituali72. Tra i bona spiritualia di cui sono privi i sudditi del tiranno vi è anche l’amicizia. Tommaso afferma, infatti, che: I suddetti tiranni cercano, dunque, di fare in modo che i loro sudditi, diventati virtuosi, non concepiscano idee di magnanimità e non sopportino più la loro dominazione iniqua, e si sforzano affinché ron siano stretti tra i sudditi patti di amicizia ed essi non godano reciprocamente dei vantaggi della pace, così che, mentre uno non si fida dell’altro, essi non possano tramare qualcosa contro il loro potere. Perciò, i tiranni seminano discordie tra i sudditi, ed alimentano quelle che sono sorte, e proibiscono tutto ciò
che favorisce il sorgere di legami tra gli uomini, per esempio i matrimoni, i banchetti ed altre cose di questo tipo, grazie alle quali suole nascere la fiducia
e la familiarità tra gli uomini?3.
Come si evince dal passo citato, il tiranno impedisce la nascita di patti di amicizia (foedus amicitiae) tra i sudditi, alimentando discordie e divisioni per evitare il sorgere di sommosse e congiure che rischierebbero di privarlo del fragile potere di cui dispone. Aristotele sostiene tesi analoghe nella Politica. Non dice espressamente che il tiranno impedisce il sorgere dell’amicizia tra i cittadini. Tuttavia, quando spiega che la polis non è una comunità politica solo perché i cittadini vivono nello stesso luogo, ma anche e soprattutto perché hanno come fine comune una vita indipendente e perfetta, egli afferma che questo fine non può essere realizzato se i cittadini non contraggono matrimoni. Aggiunge
inoltre che devono soregere nella città «parentadi e fratrie» e «modi per trascorrere la vita in comune». Chiarisce, infine, che 72 Al re di Cipro, p. 44. 73 Ad regem Cypri, p. S (Al re di Cipro, p. 75): «Conantur igitur praedicti tyranni, ne ipsorum subditi virtuosi effecti magnanimitatis concipiant spiritum, et eorum iniquam dominationem non ferant, ne inter subditos amicitiae foedus firmetur, et pacis emolumento ad invicem gaudeant, ut sic dum unus de altero non confidit, contra eorum dominium aliquid moliri non possint. Propter quod inter ipsos discordias seminant, exortas nutriunt, et ea quae ad foederationem hominum pertinent, ut connubia et convivia, prohibent, et caetera huiusmodi, per quae inter homines solet familiaritas et fiducia generari». Il corsivo è mio.
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«tutto ciò è opera dell’amicizia», perché essa è la «preferenza per una vita in comune»74. Sembra che Tommaso abbia presente questo ragionamento aristotelico, da cui emerge il valore politico dell’amicizia, e lo rielabori. La philia aristotelica, infatti, non è
mai descritta come un patto. Visto e considerato che la tirannide è il contrario della monarchia, sembra lecito formulare la seguente ipotesi: mentre il tiranno è colui che fa di tutto per evitare che si crei un clima di familiarità e di fiducia tra i sudditi, ostacolando il sorgere di amicizie tra loro, il re è colui che dovrebbe favorire la nascita di questo tipo di legami. In una monarchia, il rapporto tra i sudditi sarebbe dunque una forma di amicizia. Questa ipotesi viene confermata dal passo in cui Tommaso torna sul tema dell’amicizia, chiarendo che la ricom-
pensa che spetta a chi si assume la responsabilità di governare bene non è la gloria terrena di cui parla Cicerone, bensì la felicità eterna”S. Dopo aver spiegato quale sia la ricompensa che spetta al buon re, chiarisce che i vantaggi e i beni (commoda) che il tiranno cerca di ottenere sono molto più accessibili per chi segue la via della giustizia76. Tra questi vantaggi annovera anche l’amicizia. Come sostenuto da Aristotele, questa relazione è il più importante tra i beni terreni”. In tale contesto, l’amicizia è descritta con
chiari riferimenti alle analisi svolte nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea, che risulteranno particolarmente significativi non appena si ricorderà che Tommaso commenta quest’opera
di Aristotele poco dopo aver scritto il De regno?8. L'amicizia è la 74 P, II, 1280b 30-40, pp. 268-269, ma vedi anche P, V, 1314a 1-29, pp. 483-485. 75 Al re di Cipro, pp. 59-67 ed anche p. 70, dove Tommaso sottolinea che il re «offre anche la più vivida somiglianza con Dio perché egli compie nel regno ciò che Dio fa nel mondo» ed insiste sull’idea del principe come imago dei citando un famoso passo della lettera di Paolo agli Efesini. 76 Al re di Cipro, cit., p. 74. 77 Ad regem Cypri, cit., p. 13 (Al re di Cipro, p. 74): «Primo namque inter mundana omnia nihil est, quod amicitiae digne praeferendum videatur»; da confrontare con EN, VIII, 1555a 5-6, p. 311, dove Aristotele sostiene che nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni. 78 Vd. E. Franceschini, Tommaso e l’Etica Nicomachea, in «Rivista di filosofia neoscolastica», XXVIII, 1936, pp. 313-328 e J. Owens, Aristotele and Aquinas, in J. Kretzmann (ed. by), The Cambridge Companion to Aquinas, Cambridge, Cambridge
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relazione che unisce gli uomini virtuosi (virtuosos in unum conci-
liat), il legame che conserva e promuove la virtù; è quel rapporto che si basa sulla somiglianza (similitudo), l’unione e la condivisione (communio), e richiede conformità nello stile di vita (convenientia). Non ha solo un evidente valore morale, ma anche un chiaro signficato esistenziale: poiché qualsiasi piacere si trasforma in noia senza amici, per Tommaso come per Aristotele, l’amicizia è una condizione indispensabile per raggiungere la felicità. Il valore che ha l’amicizia per l’esistenza degli uomini è palese anche quando Tommaso afferma che tutti hanno bisogno del sostegno degli amici, sia nella buona sia nella cattiva sorte??. Il senso della riflessione di Tommaso appare più chiaro quando si riferisce ad un famosissimo tiranno del passato, Dionigi di Siracusa89, raccontando un aneddoto che verrà riproposto anche in molti specula quattrocenteschi. Tommaso vuole mostrare che il tiranno è un uomo profondamente ed inevitabilmente infelice, UP, 1993, pp. 38-59. Per il commento di Tommaso all’Etica Nicomachea: Tommaso d'Aquino, In decem libros ethicorum Aristotelis ad Nicomachum, cura et studio P.F Raymundi et M. Spiazzi, Torino, Marietti, 1964, in particolare pp. 407-508. Il commento è composto intorno al 1269. 79 Ad regem Cypri, p. 13: «Ipsa [amicitia] namque est, quae virtuosos in unum conciliat, virtutem conservat atque promovet. Ipsa est, qua omnes indigent in quibuscumque negotiis peragendis, quae nec prosperis importune se ingerit, nec deserit in adversis. Ipsa est, quae maximas delectationes affert, in tantum ut quaecumque delectabilia in taedium sine amicis versantur». Traduco il passo: «essa [l'amicizia], infatti, è la relazione che unisce gli uomini virtuosi, promuove e conserva la virtù. Essa è ciò di cui tutti hanno bisogno, qualunque siano le attività da compiere; l’amico non si fa avanti in modo inopportuno nella buona sorte, né ti abbandona nelle avversità. È l'amicizia che procura il piacere più grande, e ne è un segno il fatto che qualunque divertimento ad un certo punto diventa noioso se non ci sono amici per condividerlo». 80 AI re di Cipro, pp. 74-75. Per l’esempio proposto da Tommaso vd. V. Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di R. Faranda, Torino, UTET, 1971, libro IV, Dell’amicizia, pp. 349-363, in particolare pp. 359-361. Il tiranno di Siracusa decide di uccidere uno dei due famosi amici pitagorici che vivono nella sua città: affinché Damone possa: tornare a casa per prepararsi alla morte, Finzia si offre volontariamente come ostaggio dando prova di una fedeltà così grande che Dioniso non concede solo la grazia al condannato. Quando vede che l’amico si presenta al momento stabilito per andare incontro al suo destino, infatti, chiede anche di poter essere ammesso nel cerchio della loro amicizia. Poiché Tommaso sottolinea che è la fedeltà dei due amici a suscitare nel tiranno il desiderio condividere l’amicizia, il valore politico della relazione sembra dipendere soprattutto dalla lealtà.
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non solo perché non può sperare di ottenere la felicità eterna, ma anche perché non può godere di un bene fondamentale per la felicità terrena come l’amicizia. Da una parte, infatti, benché sia un essere crudele e spietato, il tiranno, essendo un uomo, non
può non desiderare di avere degli amici. Dall’altra, però, non può soddisfare il proprio naturale desiderio d’amicizia proprio perché è un tiranno: non può avere amici per definizione, perché è una
persona che antepone il perseguimento dell’interesse personale alla ricerca del bene comune, e si priva così della possibilità di condividere qualcosa con i sudditi. L’amicizia è possibile se, e solo se, si fonda su quell’unione intima e quella condivisione profonda che Tommaso chiama «communio». Egli, infatti, precisa che: In verità, i tiranni non possono ottenere questo tesoro che è l’amicizia, sebbene lo desiderino. Dal momento, infatti, che cercano non il bene comune, ma il proprio bene, hanno poco o niente in comune con i sudditi. In verità, ogni amicizia si fonda su una forma di comunione. Vediamo, infatti, che l'amicizia congiunge coloro che sono uniti per natura dalla nascita, coloro che sono uniti perché hanno abitudini di vita simili, coloro che sono uniti da qualsiasi tipo di legame in cui vi sia una certa comunione. Per questo, tra tiranno e sudditi esiste un'amicizia ridotta al minimo, o meglio, non esiste affatto; infatti, finché i sudditi sono oppressi dall’ingiustizia del tiranno, e sentono di non essere amati, ma disprezzati, a loro volta non lo amano in nessun modo8!.
È un ragionamento molto complesso. Per prima cosa, si deve notare che l’amicizia sembra concettualemte legata all’idea di bene comune. In latino questa connessione suona quasi come un gioco di parole: se non si persegue il bonum comune, non c'è communio e, quindi, senza communio, non c’è amicitia. Si deve
81 Ad regem Cypri, p. 13: «Hoc autem amicitiae bonum, quamvis desiderent
tyranni, consequi tamen non possunt. Dum enim commune bonum non quaerunt, sed
proprium, fit parva vel nulla communio eorum ad subditos. Omnis autem amicitia super aliqua communione firmatur. Eos enim qui conveniunt, vel per naturae originem, vel per morum similitudinem vel per cuiuscumque societatis communionem, videmus amicitia coniungi. Parva, igitur, vel potius nulla est amicitia tyranni et subditi; simulque dum subditi per tyrannicam iniustitiam opprimuntur, et se amari non sentiunt, sed contemni, nequaquam amant». Il corsivo è mio. Per la traduzione di Perotto, vd. Al re di Cipro, p. 75.
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inoltre considerare che la communio su cui si fonda l’amicizia non indica solo legami di sangue o vincoli di parentela, che esistono per natura, ma anche unioni basate sulla condivisone del medesimo genere di vita, sull’amore reciproco e su una scelta. Pertanto, non è solo il fine, ma anche il fondamento dell’amicizia, a mettere in luce la dimensione etica della relazione. Sebbene emerga già alla fine del passo citato, nel punto in cui Tommaso spiega che i sudditi non possono essere amici del tiranno perché si sentono disprezzati invece che amati, questa idea diventa più chiara in seguito. Ricorrendo ad un linguaggio diverso, ma sempre di matrice aristotelica, Tommaso sostiene infatti che il rapporto tra il tiranno e i sudditi è simile a quello che unisce l’artigiano al suo strumento, l’anima al corpo, il padrone allo schiavo82. Queste similitudini mostrano che il rapporto tra il tiranno e i sudditi non può essere una forma di amicizia perché è un legame strumentale, che implica subordinazione e soggezione, non una relazione tra eguali che mira al bene comune: parva vel potius nulla est amicitia tyranni et subditi. Il passo citato mi sembra particolarmente interessante anche perché mostra che Tommaso tende a sovrapporre amore ed amicizia e sembra usare questi due termini come se fossero equiva-
lenti. Questo aspetto si riscontra ancora più chiaramente quando Tommaso spiega che chi governa in vista del bene comune ama i propri sudditi ed è a sua volta amato da loro83. Non si limita a contrapporre l’amore che circonda il buon re all’assenza di amici che caratterizza il tiranno, ma precisa anche che è proprio questo amore a rendere più sicuro il regno84. Per sottolineare la stabilità del governo basato sull'amore, Tommaso propone due esempi tratti dalle Vite di Svetonio: Giulio Cesare, che volle così bene
82 Al re di Cipro, p. 75 ed EN, VIII, 1161a 30-35, cit., p. 343. 83 Al re di Cipro, p. 76, ma si veda anche il testo latino: «Sed boni reges, dum communi profectui studiose intendunt, et eorum studio subditi plura comoda se assequi sentiunt, diliguntur a plurimis, dum subditos se amare demostrant» (Ad regem
Cypri, p. 13). . 84 Ivi: «Ex hoc amore provenit, ut bonorum regum regnum sit stabile, dum pro ipsis se subditi quibuscumque periculis exponere non recusant».
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ai propri soldati da farsi cresce la barba in segno di lutto per la loro morte, ed Ottaviano Augusto, che fu così amato dai sudditi che essi, in punto di morte, decisero di sacrificare in suo onore le
vittime che avrebbero dovuto tenere per sé85. L'amore si sovrappone all’amicizia, fino a coincidere con essa, anche in un altro
passo. Tommaso afferma infatti che: Ciò appare chiaramente se si considera come si conservi il dominio del tiranno. Infatti, non si conserva con l’amore, dal momento che, come si è detto in precedenza, è poca o inesistente l'amicizia dei sudditi nei confronti del tiranno. Inoltre il tiranno non deve confidare nella fiducia dei sudditi. [...] Pertanto, si deve concludere che il governo del tiranno è sostenuto solamente dal timore e dalla paura, perciò i tiranni si preoccupano in ogni modo di essere temuti dai sudditi89.
Come si dovrebbe evincere da questa citazione, l’opposizione tra tirannide e monarchia appare ora come l’opposizione tra governo dell’amore e governo della paura. Poiché Tommaso riprende quasi alla lettera la tesi secondo la quale non può esservi nessuna forma di amicizia tra il tiranno e i sudditi, il governo dell'amore è anche, allo stesso tempo, il governo dell’amicizia. Ancora una volta, amore e amicizia sembrano sinonimi. Un breve
accenno alla Summa può essere utile per fare un po’ di chiarezza sull’uso di questi termini. Non essendo possibile proporre un’analisi dettagliata di tutte le quaestiones in cui Tommaso si sofferma sull’amicizia, mi limito ad evidenziare gli aspetti che ritengo più significativi. Tommaso riflette sull’amicizia quando prende in esame la passione dell’amore e la virtù della carità87. Nella sua riflessione
85 Ibid. 86 Ivi, pp. 13-14 [corsivo mio]: «Hoc etiam manifeste patet, si quis consideret, unde tyranni dominium conservatur. Non enim conservatur amore, cum parva vel nulla sit amicitia subiectae multidunis ad tyrannum, ut ex praehabitis patet. De subditorum autem fide tyrannis confidendum non est. [...] Restat ergo ut solo timore tyranni regimen sustentetur, unde et timeri se a subditis tota intentione procurant». Per la traduzione di Perotto vd. Al re di Cipro, p. 77. 87 ST, HI, qg. 26-28, vol. IX, pp. 76-113.
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non cita mai Cicerone88, perché il suo punto di riferimento non è il Laelius, bensì l’Etica Nicomachea. Nella Summa Tommaso distingue tra amor concupiscientiae ed amor amicitiae, considerando l’amicizia come una forma di
amore8?. Mentre l’amor amicitiae è quell’amore in cui ciò che si ama è amato direttamente e per se stesso (simpliciter et per se), in
modo assoluto ed incondizionato, l’amor concupiscientiae è un amore secundum quid, vale a dire un amore limitato, con cui non
si vuole bene a qualcosa o a qualcuno per se stesso, ma per ciò che si ricava dalla relazione?0. Questa distinzione tra amare per se ed amare secundum quid dovrebbe apparire più chiara notando che l’amor amicitiae coincide con la tipologia aristotelica dell’amicizia basata sulla virtù, mentre le amicizie in vista dell’utile e del
piacere di cui parla Aristotele rientrano nella categoria dell’amzor concupiscientiae?!. Amare qualcuno per sé, quindi, non significa solo volergli bene, ma volere il suo bene. L’amicizia non è solo amore, ma anche carità. Infatti, per Tommaso, questa virtù teologica è sia «amore di Dio», sia
«amicizia dell’uomo con Dio»?. Con quest’ultima definizione, egli mostra che la carità non è solo e semplicemente una forma di amore, bensì «amore scambievole», «comunicazione reciproca», e «comunione con Dio»?3. Dall’analisi di Tommaso si
88 In ST, I-II, q. 29, a. 3, vol. XV, p. 20.
89 ST, III, q. 26, a. 4, vol. IX, pp. 84-88. 90 Ivi, p. 84. 91 Ivi, p. 86. 22 ST, I-II, q. 65, a. 5, vol. IX, pp. 284-287, in particolare p. 287: «La carità non dice soltanto l’amore di Dio (amorem Dei), ma anche una certa amicizia verso di lui (amicitiam quandam ad ipsum); amicizia che aggiunge all’amare un riamarsi scambievole (mutua redamatio), con una comunicazione reciproca (mutua communicatione)
come spiega Aristotele». Vd. anche ST, IMI, q. 23, a. 1, vol. IX, p. 26: «poiché Dio rende l’uomo partecipe della sua beatitudine, c’è una certa comunanza (communicatio) dell’uomo con Dio e questa comunanza, che non è altro che carità, si fonda sull’amicizia». Benché si riferisca al filosofo greco pensando al rapporto dell’uomo con Dio in termini di amicizia, Tommaso si distanzia significativamente dal pensiero di Aristotele, che afferma espressamente che non può esservi amicizia tra l’uomo e Dio (EN, VIII, LRS9: 5) pi 331).
93 ST, II, q. 65, a. 5, vol. X, p. 287.
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deduce che la carità è il fondamento e il modello per ogni vera amicizia umana?4. Questa relazione è il supremo perfeziona-
mento dell’amore, e porta ad attribuire il massimo valore a ciò che si ama”. Nella Summa Tommaso non fornisce nessuna definizione dell'amicizia: indica i suoi aspetti fondamentali, che sono anche le componenti fondamentali della carità?. L'amicizia è così connotata: è un tipo di amore caratterizzato dalla benevolenza (amor cum benevolentia); non è un moto dell’appetito sensitivo, ma un moto della volontà; è una forma d’amore (l’amor amicitiae) con cui l’amico è amato per se stesso, in modo incondizionato e assoluto; è reciprocità (mutua amatio), non è tanto un sentimento quanto, piuttosto, una sua realizzazione ed attuazione,
uno scambio effettivo di amore?7. L’amicizia si basa sull’unità, la comunanza, la condivisione?8, quella communicatio o communio che Tommaso pone a fondamento della relazione anche nel De regno”.
94 ST, I-II, q. 23, a. 1, vol. XV, p. 28. 95 ST, HI, q. 23, a. 3, vol. IX, p. 82. Si noti che Tommaso dice che «la carità aggiunge una perfezione all’amore» con l’intento di precisare il significato di «quattro termini che si riferiscono alla medesima cosa»: amore, dilezione, carità, amicizia. 96 ST, I-II, q. 23, a. 1, vol. XV, p. 26, ma vd. anche le cinque proprietà fondamentali dell'amicizia che sono individuate in ST, I-II, qg. 25, a. 7, vol. XV, p. 106, a partire dall’Etica Nicomachea: l’amico vuole che l’amico esista e viva, l’amico desidera il bene dell’amico, l’amico compie del bene a vantaggio dell’amico, l’amico ha piacere di vivere con l’amico, l’amico concorda con l’amico gioendo e rattristandosi per le
medesime cose. 97 ST, IHII, q. 23, a. 1, vol. XV, p. 26 («amicus est amico amicus») e ST, HI, q.
28, a 2, vol. IX, p. 104.
98 ST, IL-II, q. 23, a. 1, vol. XV, p. 26: l’amore scambievole degli amici si fonda su una qualche comunanza, e ST, IH, q. 27, a. 2, vol. XV, p. 164: la benevolenza è solo l’inizio dell'amicizia perché chi ama considera la cosa amata come un’unica cosa con se stesso, o come una cosa che gli appartiene. 99 ST, II, qg. 23, a. 1, vol. XV, pp. 24-29. I termini communio e communicatio sono la traduzione latina del termine greco, e aristotelico, goinonia. Come nota Sciuto, Tommaso ricorre ampiamente a questi termini. Benché non li usi in modo tecnico, quando si serve del termine communio sembra voler indicare la situazione statica di un’unione stabile, intima e permanente tra le persone, quando utilizza il termine communicatio pare, invece, voler indicare la condizione attiva e dinamica del rapporto (vd. Sciuto, Amore e amicizia nel pensiero di Tommaso, cit., pp. 299-300). Si noti che i
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Questi pochi cenni alla riflessione sviluppata nella Summa dovrebbero bastare per chiarire che l’amicizia è un tipo di amore disinteressato ed incondizionato. Essendo carità, essa è qualcosa di più del semplice voler bene: essere amici non significa tanto volersi bene quanto, piuttosto, desiderare e volere il bene dell’altro, considerare l'amato come un’unica cosa con se stessi. Dovrebbe allora essere più chiaro che il rapporto tra il principe e i sudditi, in quanto forma d’amicizia, è orientato al bene comune ed è basato sulla communio. Visto che l’amicizia è amore e la carità è amicizia, si dovrebbe comprendere meglio anche perché Tommaso contrapponga l’amore che circonda il re all’amicizia di cui è privo il tiranno. Volendo essere corretti, per definire il tipo di rapporto che unisce il re ai sudditi, dopo aver preso in considerazione la Summa, non si dovrebbe parlare né di amore né di amicizia,
ma di amor amicitiae o di carità. Indipendentemente da questa questione terminologica, vorrei mettere in evidenza un aspetto che mi pare particolarmente rilevante: anche gli autori delle raccolte di consigli per i principi che saranno prese in esame nei prossimi capitoli si riferiranno all’amicizia descrivendo il rapporto d’amore che deve regnare tra il re e i sudditi. Inoltre, sebbene il rapporto tra il principe e i sudditi non sia sempre esplicitamente concepito come una forma di amicizia, proprio quando sarà ripreso il topos del tiranno senza amici, l’amicizia comparirà sulla scena, insieme al tema degli amici principis. Occorre però precisare che negli specula principum di Vicini, Pontano, Platina, e Patrizi il governo dell'amore sarà contrapposto al governo del timore a partire da un passo del De officiis, che cita anche Petrarca, senza alcun riferimento al concetto tomista di bene comune. Come si
vedrà meglio in seguito, inoltre, il termine caritas non sarà usato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, ma per denominare l’affetto che caratterizza i rapporti di amicizia: fatta eccezione per due termini sono usati anche per descrivere il rapporto d’amicizia esistente tra l’uomo e Dio. Sulla valenza teologica di questi due termini, non solo in Tommaso, si veda almeno: J.-M.R. Tillard, Communion, in Dictionnaire critique de theologie, publié sous la direction de J.-Y. Lacoste, Paris, PUF 1998, pp. 236-242.
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Petrarca, l’amicizia non troverà il proprio fondamento nella virtù teologica della carità e non sarà più una sua espressione. Poiché Tommaso contrappone il governo dell’amicizia al governo della paura, l’amicizia non è solo una delle relazioni che possono esistere tra i sudditi, un tipo di rapporto che il tiranno ostacola e cerca di impedire, un legame presente in quella che, con un linguaggio diverso da quello usato da Tommaso, si potrebbe chiamare società civile. Nella monarchia, l’amicizia è anche la forma del rapporto che unisce i governanti e i governati: è la relazione che, per così dire, indica e risolve il problema del consenso. Nel De regno Tommaso nota, infatti, che i sudditi
sono pronti ad affrontare qualsiasi pericolo per difendere un re da cui si sentono amati. Sottolinea inoltre che, se dovesse venir
meno l’amore/amicizia che deve regnare tra i governanti ed i governati, i sudditi sarebbero pronti a sottrarsi al loro dovere di obbedienza in ogni momento: il legame che il tiranno cerca di stringere con i sudditi, facendo leva sull’odio e la paura, è davvero fragile. Il valore politico dell’amicizia si gioca dunque sia su un piano orizzontale, cioè nell’ambito delle relazioni che si realizzano tra i sudditi, sia su un piano verticale, cioè nell’ambito del rapporto che unisce chi governa a chi è governato. Sono i due piani attorno a cui si costituisce il legame sociale. Essendo basato sull’amore e sull’amicizia, è anche un legame morale. Visto che l’amicizia è il più grande dei beni terreni, è un legame che contribuisce alla realizzazione della felicità umana. Infine, poiché non può esservi amicizia senza communio, questo legame
produce unità, realizzando il fine che appartiene per natura ad ogni governo. Emerge così in tutta la sua forza il valore e il significato politico dell’amicizia. Concludendo questo paragrafo, vorrei ricordare alcune delle parole che Erasmo da Rotterdam rivolge a Carlo V. Non cito l’Institutio principis christiani solo perché, come ho accennato in precedenza, è un caso esemplare di speculum principis umanistico. Cito quest'opera soprattutto per mettere in luce che, da Tommaso ad Erasmo, la moralizzazione della figura e della funzione del principe passa anche attraverso il riconoscimento
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del valore politico dell’amicizia. Anche Erasmo, infatti, pensa al rapporto che unisce il governante e i governati, o meglio alla relazione che unisce le diverse parti di cui è composto il corpo politico, come ad una forma di amicizia. Prendendo spunto da Aristotele, ma non dai medesimi passi cui si riferisce Tommaso,
egli dichiara che: Poiché lo stato è un corpo composto da varie membra, fra le quali il principe stesso, sia pure nel luogo più eccelso, bisogna contemplare l’insieme in modo tale che il bene sia diffuso tra tutte, non che ve ne sia qualcuna che goda e prosperi a danno delle altre. Se il principe ha felicità e prosperità a danno dello stato, non è parte dello stato né è vero principe, è in realtà un predone. Aristotele ha affermato che il servo è parte viva del padrone se questi è veramente tale. Fra la parte e il tutto vige infatti amicizia. Se questo è vero per i rapporti tra il padrone e il servo, comprato, come suol dirsi, «dalla pietra», quanto più ciò non avverrà per i rapporti fra popolo cristiano e principe cristiano?190
Amicabilitas: l’amicizia e le virtù del principe nel De regimine principum di Egidio Romano Oltre al De regno di Tommaso, vi è un altro speculum principis del XIII secolo che permette di contestualizzare meglio la riflessione sull’amicizia presente nelle raccolte di consigli per i principi che saranno esaminate nella seconda parte del saggio: il De regimine princibum di Egidio Romano. Questo esponente della nobile famiglia romana dei Colonna, che ha studiato arti e
teologia all’università di Parigi, dove è stato allievo di Tommaso (1269-1272) ed è diventato il primo magister di teologia apparte-
100 E. da Rotterdam, L'educazione del principe cristiano, a cura di M. Isnardi Parente, Napoli, Morano, 1977, p. 95. Per altri riferimenti all’amicizia presenti nello speculum di Erasmo vd.: ivi, pp. 164-165 (il tiranno, a differenza del re, ostacola l’amicizia tra i sudditi), pp. 234-235 (il principe è circondato da amici, il tiranno da adulatori, con riferimento al De discernendo amico et adulatore di Plutarco), pp. 256-257 (il principe deve essere educato sin da bambino in mezzo ai suoi futuri sudditi, perché nasca tra loro l’amicizia), pp. 308-309 (nessuno è meno amico del principe di chi lo adula distogliendolo dall’onesto), pp. 316-321 (le relazioni tra principi virtuosi sono relazioni di amicizia).
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nente all’Ordine degli Eremitani agostiniani (1285), ha composto
il proprio speculum tra il 1277 ed il 1280. Il De regimine è scritto subito dopo la condanna delle posizioni aristoteliche eterodosse, voluta dal vescovo di Parigi Tempier nel 1277, ma prima che Egidio decida di recarsi in Italia, lasciando la città in cui non può più insegnare proprio per aver difeso alcune delle tesi condannate!%. Questo speculum indirizzato al futuro re di Francia, quel Filippo il Bello che allora aveva appena dieci anni, è un’opera che ha goduto di uno straordinario ed eccezionale successo in tutta Europa: come afferma Miethke, il De regimine principum è stata «una delle opere di teoria politica più lette di tutto il Medioevo»!02, Tradotto in varie lingue e conservato nell’originale versione latina in più di trecento manoscritti, lo speculum di Egidio ha continuato ad essere conosciuto sino al Cinquecento!9. Ristampato a Roma nel 1482, fungerà da modello per il De principe di Platina, ma anche per il De regno di Patrizio. Molto probabilmente, gran parte del successo dell’opera dipende dall’eleganza formale, dalla coesione e dall’ampiezza del trattato. Il De regimine, infatti, è il primo speculum principis ad 101 Per queste informazioni sulla vita di Egidio mi sono riferita a R. Lambertini, Giles of Rome, in E.N. Zalta (ed. by), The Stanford Encyclopedia of Philosophy: http://plato. stanford.edu/entries/giles. Per l’edizione dello speculum egidiano vd. E. Romano, De regimine principum libri tres recogniti et una cum vita auctoris in lucem editi per E Hieronymum Samaritanum, rist. anastatica dell’ed. Romae 1607, Aalen, Scientia Verlag, 1967. D'ora in poi questo testo verrà citato semplicemente come De regimine principum.
102 J. Miethke, Politische Theorien im Mittelalter, in H.-J. Lieber (hrsg. von), Theorien von den Antiken bis zum Gegenwart, Bonn, Bundeszentrale fir Politische Bildung, 1991; trad. it. Le teorie politiche nel Medioevo, con prefazione di R. Lambertini, Genova, Marietti, 2001, pp. 94-104, in particolare p. 94. 103 Sulla diffusione dell’opera si veda C.F. Briggs, Giles of Rome’ «De regimine principum». Reading and Writing Politics at the Courts and Universities, Cambridge, Cambridge UP, 1999: Briggs riprende la tesi di dottorato relativa ai manossccritti inglesi dell’opera, ma non fornisce indicazioni solo sull’Inghilterra. Per un elenco dei manoscritti italiani vd. E. Romanus, Opera omnia, a cura di F. Del Punta e C. Luna, Firenze, Olschki, 1993. 104 G. Ferraù, Introduzione, in Platina, De principe, cit., p. 19. Si noti che oltre all'edizione romana appena ricordata Ferraù segnala anche un’edizione tedesca: nel 1479 il De regimine principum è stampato ad Augusta.
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essere diviso in libri secondo un preciso criterio: il primo libro tratta del regimen ipsius, cioè del comportamento e della condotta che si addice al principe; il secondo riguarda il regimen familiae, ossia l’amministrazione della casa; il terzo verte sul regimen regni,
vale a dire sull'ordinamento dello stato in tempo di pace e di guerra!05. Questa suddivisione è una distinzione tra ethica, oeconomica e politica, chiaramente basata sulla sistematica aristotelica delle scienze. La riflessione comincia con l’etica e termina con la politica perché Egidio segue il percorso dello sviluppo naturale, muovendo dall’imperfetto verso il perfetto. Infatti, sebbene sia già di per sé un’unità, l’individuo ottiene la forma compiuta e perfetta del proprio essere solo quando diventa parte di un’unità maggiore, qual è quella della famiglia e del regno. Si deve inoltre considerare che l’unità da realizzare è quella del principio finale. Occorre pertanto precisare che esiste una gerarchia di fini, che non ha carattere teleologico: secondo Miethke, l’articolato tentativo attuato da Tommaso per rendere stabile l’equilibrio tra grazia e natura, autonome l’una rispetto all’altra, si trasforma con Egidio nell’elaborazione di un sistema «monadico» che tende a raggiungere livelli di unità sempre maggiori106, Non deve stupire che l’impronta aristotelica dell’opera risulti evidente non appena si esamini la sua struttura: come sottolinea Lambertini, il De regimine costituisce uno degli sforzi meglio riusciti per la mediazione e la diffusione del linguaggio etico e politico di Aristotele nel mondo latino!07. L’Etica Nicomachea, la Politica e la Retorica sono continuamente citate. Egidio non si limita a riportare le tesi del filosofo greco, ma le fa proprie e le rielabora in modo originale!98, Oltre ad Aristotele, esercita un’in105 De regimine principum, libro I, pars I, cap. II, pp. 4-7. 106 Miethke, Le teorie politiche nel Medioevo, cit., pp. 100. 107 R. Lambertini, I/ re e il filosofo. Aspetti della riflessione politica, in L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle università, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 345-385, in particolare pp. 355-356. 108 Già Scholz e Berges sottolineano nei loro studi che Egidio non segue pedissequamente Aristotele (R. Scholz, Die Pubblizist zur Zeit Philipps des Schònen und Bonifaz VIII. Beitrag zur Geschichte der Politische Anschauungen des Mittelalters, Suttgart, Enke, 1903, pp. 96-119) e mettono in evidenza che la presunta coincidenza tra tesi
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fluenza decisiva sul suo pensiero anche l’innominato Tommaso
d'Aquino. Com'è noto, infatti, la classificazione delle virtù che
è proposta nel primo libro dell’opera dipende profondamente dalla Summa theologiae. Inoltre, la tesi della monarchia quale miglior forma di governo è sostenuta con riferimenti al De regno piuttosto che con argomenti strettamente aristotelici!°’, Nel De regimine, il lessico aristotelico ed i concetti tomistici convivono e si fondono con la tradizione antica ed alto-medioevale secondo la quale il re è l’immagine di Dio: Egidio sottolinea più volte la natura divina del re, ripetendo che non è solo l’incarnazione della legge (rex lex animata), ma anche un essere quasi divino (rex quasi semideus)!!°, Ciò non significa soltanto che il principe deve sforzarsi di somigliare sempre di più a Dio, quanto piuttosto che, essendo al vertice del potere e possedendo tutte le virtù, è l’uomo più simile a Dio che esista sulla terra. La riflessione procede figuraliter et typo, vale a dire in senso
egidiane ed aristoteliche è spesso inesistente (Berges, Die Fiirstenspiegel des hohen und spàten Mittelalters, cit., pp. 211-228). 109 De regimine principum, libro II, pars II, capp. -XIV, pp. 451-490. In questi capitoli Egidio non si limita a riprendere dal De regno i quattro argomenti con cui Tommaso sostiene che la monarchia sia la miglior forma di governo ma smette anche di seguire l’ordine della Politica di Aristotele, contrapponendo monarchia e tirannide come Tommaso: vd. R. Lambertini, Philosophus videtur tangere tres rationes. Egidio interprete della «Politica» nel terzo libro del «De regimine principum», in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medioevale», I, 1990, pp. 277-325, in particolare pp.
296-297.
110 Sul re come incarnazione e personificazione della legge: De regimine principum, libro I, pars II, cap. XII, p. 79: «Est enim rex sive princeps quaedam lex et lex est quidam princeps. Nam lex est quidam inanimatus princeps: princeps est vero quaedam animata lex». Sul re come essere quasi divino si veda, per es.: De regimine principum, libro I, pars I, cap. XXXI, p. 143: «Quare sic decet reges et principes esse quasi semideos et habere virtutes perfectas, quia perfecte una virtus sine aliis haberi non potest». Si noti anche che la legge è espressione della volontà del re, che può modificare o abrogare le norme esistenti: il re è mediatore tra Dio e l’uomo e realizza nel concreto dei rapporti sociali la giustizia divina (De regimine principum, libro II, pars II, cap. XXIX, p. 532). Per la concezione egidiana della legge (De regimine principum, libro II, pars II, capp. XXV-XXI, cit., pp. 520-541), una concezione molto diversa da quella tomista, si veda almeno: D. Taranto, Mutazioni concettuali nel paradigma degli specula. Egidio Romano e la «modernità» del Medioevo, in G. Carletti (a cura di), Prima di Machiavelli. Itinerari e linguaggi della politica tra il XIV e il XVI secolo, Pescara, ESA, 2006.
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metaforico, attraverso esempi, con un metodo retorico. Egidio
è infatti consapevole dell’impossibilità di ricavare conseguenze ultime e definitive dalle considerazioni sull’agire umano. Inoltre, non mira al raggiungimento della verità, ma al perfezionamento morale dell’uomo!!!. Come già sottolineato, anche le riflessioni proposte negli specula quattrocenteschi procederanno in modo analogo, seppur per motivi diversi. Il perfezionamento morale dell’uomo è un tema fondamentale dell’opera di Egidio anche perché essere principe non significa. soltanto ricoprire una certa carica istituzionale, quanto piuttosto vivere in modo virtuoso, controllarsi, essere padroni di sé, posse-
dere la virtù della prudenza!!2, Per questo, il De regimine non è scritto solo per chi effettivamente possiede il titolo regale, ma per tutti gli uomini: indipendentemente dalla stirpe più o meno nobile cui appartengono, essi devono essere capaci di controllare se stessi e di comportarsi in modo tale da risultare degni di essere i principi della loro vita!!3, Proprio perché essere principe non è una questione di titoli, ma una missione etica, prima di governare gli altri, il principe deve saper governare se stesso ed essere capace di amministrare bene la propria casa. Pertanto il regimen familiare ed il regimen regni, le due diverse forme del processo di socializzazione del principe e di ogni uomo, sono l’ambito in cui si mostra la virtù. Essendo l’uomo virtuoso per eccellenza, che funge da modello ed esempio per tutti gli altri uomini, il principe è al vertice del sistema sociale!!4. Ovviamente, secondo la prospettiva egidiana, il sommo grado di virtù non può essere raggiunto senza l’aiuto di Dio1!5. Non è altrettanto ovvio che il principe non sia solo posto 111 De regimine principum, libro I, pars I, cap. I, pp. 2 sgg.; Miethke, Le teorie politiche nel Medioevo, cit., p. 99.
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112 De regimine principum, libro I, pars II, cap. VII, pp. 63-65. La prudenza è una virtù particolarmente importante per l’esercizio del governo, tant’è che analizzando il De regimine Berges parla di «Poitik als klugheitslehre»: Berges, Die Fiùrstenspiegel des hohen und spiten Mittelalters, cit., p. 216. 113 De regimine principum, libro I, pars I, cap. II, pp. 9-10. 114 De regimine principum, libro I, pars I, cap. XXXI, pp. 139-143.
‘115 De regimine principum, libro I, pars I, cap. II, p. 10 e cap. XII p. 139.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
al vertice del sistema sociale, ma ne sia anche l’incaranzione: come
nota Miethke, «nel principe si risolvono per così dire i diversi livelli subordinati e i diversi piani in cui si articola la società»!!5. Questa concezione; che non deriva da assunti aristotelici, consente di spiegare perché la descrizione della persona e delle funzioni del principe non sia seguita da una dottrina degli uffici pubblici volta a definire il posto che ciascuno dovrebbe occupare nella scala sociale. Nel De regimine Egidio non si sofferma neppure sul rapporto esistente tra potere temporale e potere spirituale.
Questo tema così importante per il dibattito politico dell’epoca, sarà esaminato in un’altra opera: il De potestate ecclesiastica!!7. L’accento etico delle analisi di Egidio risulterebbe evidente anche se ci si limitasse a sfogliare il suo speculum: la trattazione del tema della virtù delineata nel primo libro è molto estesa, più ampia della somma delle pagine dedicate alla felicità, alle passioni ed ai mores. Dopo aver stabilito che la felicità dei re e dei principi non dipende dai piaceri, dalle ricchezze, dagli onori, dalla fama e dalla potenza, né dai beni del corpo, bensì dall’amore di Dio, Egidio propone un’analisi molto accurata di numerose virtù, sottolineando l’importanza che ciascuna può avere per il principe. Questa sezione del De regimine è ricca di riferimenti all’Etica Nicomachea, soprattutto al quarto libro dell’opera!!8. Egidio procede in modo sistematico, secondo un elaborato ed originale schema di distinzioni che non è di derivazione aristote-
116 Miethke, Le teorie politiche nel Medioevo, cit., pp. 100-101. 117 Come è noto, il De potestate ecclesiatica, è un trattato scritto nel 1302, quindi prima della redazione della bolla papale Unam sanctam, in cui Egidio sostiene la tesi della plenitudo potestatis papale; dà un fondamento teorico alla pretesa del papa di esercitare la sovranità sul mondo identificando la chiesa con la società; stabilisce la priorità del potere spirituale su quello temporale. Vd. E. Romano, Il potere della Chiesa, a cura di G. Dotto e G.B.M. Marcoaldi, Roma, Città Nuova, 2000 e G. Briguglia, La questione del potere: teologi e teoria politica nella disputa tra Bonifacio VIII e Filippo il-Bello, Milano, Franco Angeli, 2010. 118 R. Lambertini, Il filosofo, il principe e la virtà. Note sulla ricezione e l’uso dell’«Etica Nicomachea» nel «De regimine principum» di Egidio Romano, in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medioevale», I, 1990, pp. 239-279, in particolare p. 241: il quarto libro dell’Etica Nicomachea è citato quaranta volte, il terzo sette.
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lica, a differenza dal contenuto dell’analisi1!9, Secondo la classificazione proposta, tra le virtutes annexae trova posto una virtù molto particolare che sembra etimologicamente affine all’amicizia: l’amicabilitas. Sebbene sia una delle virtù minori, l’amicabilitas non è poco importante. Infatti, per potere essere davvero felice, il principe deve possedere tutte le virtù!20, Egidio fornisce questa definizione: «l’amicabilitas, o affabilità, che intendiamo qui definire, non è nient’altro che la virtù che permette di comportarsi
in modo giusto con gli uomini, di ordinare le azioni e le nostre parole in modo appropriato alla conversazione»!21, Insieme alla veritas e alla iocunditas, l’amicabilitas o affabilitas è la virtù della buona conversazione. È un comportamento ed un atteggiamento intermedio tra l’adulazione e la litigiosità: essere affabili o amichevoli significa sia evitare di essere eccessivamente ben disposti nei confronti dell’interlocutore, blandendolo ed adulandolo, sia evitare di essere eccessivamente mal disposti, mostran-
dosi poco socievoli, rozzi e disculi!22. L’amicabilitas quindi è una 119 Ivi, pp. 257-258: Egidio riprende la distinzione tra virtù principali o cardinali e virtù secondarie. Tuttavia, mentre Tommaso (Sententia) usa la coppia concettuale principalis | secondaria ed Alberto Magno (commento all’Etica) ricorre alla contrapposizione principalis | adiuncta, Egido distingue tra virtus principalis e virtus annexa. Le virtù cardinali sono, ovviamente: prudentia, iustitia, fortitudo e temperantia, mentre le virtutes annexae sono, secondo l’ordine con cui procede Egidio: liberalitas, magnificentia, magnanimitas, bumilitas, mansuetudo, amicabilitas, veritas e iocunditas. Egli riprende anche la distinzione tra virtutes politicae, virtutes purgatoriae, virtutes animi purgati e virtutes exemplares (De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXIII, p. 147), che, come si vedrà in seguito, si trova anche nella Vita civile di Palmieri. Come sottolinea Lambertini (ivi, pp. 272-273), mentre nella Summa di Tommaso questa quadripartizione delle virtù è ricondotta alla distinzione tra virtù acquisite, virtù infuse e virtù di Dio, nello speculum di Egidio le virtù politiche sono proprie dei perseveranti, quelle purgatorie sono proprie dei continenti, quelle anizii purgati sono proprie dei temperati, quelle esemplari sono proprie degli uomini divini e perfetti, raggiunti dalla grazia di Dio (De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXIII, pp. 147-148). 120 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXXI, pp. 139-143. 121 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXVIII, p. 131: «Nihil est ergo amicabilitas, sive affabilitas, de qua hic determinare intendimus, nisi recte conversari cum hominibus et ordinare opera, et verba nostra ad debitam conversationem». La
traduzione è mia. 122 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXVIII, p. 133: «Uterque autem
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virtù perché è aristotelicamente intesa quale giusto mezzo tra due comportamenti estremi, negativamente connotati per eccesso 0 per difetto di socialità, cordialità e gentilezza!23. Se così si può dire, sembra una via di mezzo tra l’amicizia estrema, che degenera nell’adulazione, e l’assenza di amicizia, che diventa litigiosità o rifiuto della relazione con l’altro. Del resto, si è detto che
Aristotele sostiene che la philia «è una virtù o è connessa alla virtù» nell’Etica Nicomachea!?4. Probabilmente Egidio non usa il termine amicitia per denominare la virtù che chiama, invece, amicabilitas per delle ragioni precise: è difficile concepire l’amicizia come giusto mezzo tra due estremi; non è certo più facile individuare il vizio opposto ad essa. Utilizzando il termine amicabilitas Egidio, però, sembra volersi comunque riferire all’amicizia. Le sue intenzioni si chiariscono se si considera che essa è la stessa virtù senza nome descritta nel quarto libro dell’Etica Nicomachea, che Aristotele riconosce simile, ma non identica, alla philia!?5. Questa virtù, esaminata
dopo la generosità, la magnificenza, la fierezza, la giusta ambizione e la mitezza, riguarda «le frequentazioni umane, la vita in comune e le relazioni costituite dal conversare e dall’agire», ed è
a recta ratione deficiunt, quia nec quis se debet tantum aliis ostendere socialem, ut videatur placidus et blanditor: nec se debet tantum a societate subtrahere, ut videatur discolus, et litigiosus». 123 Ivi: «Cum igitur virtus sit quid medium inter superfluum et diminutum, in conversatione hominum circa quam contingit abundare et deficere, oportet dare virtutem aliquam reprimentem superabundantias et moderantem defectus. Huiusmodi autem amicabilitas, sive affabilitas est». Si noti che poco dopo aver dato questa definizione dell’amicabilitas, Egidio cita espressamente EN, II, 1107a 1-26, pp. 63-65, il passo in cui Aristotele presenta la propria teoria della virtù come mesotes.
124 EN,VII, 11562 1-5, pp. 311.
125 EN, IV, 1126b 10-15, p. 157: «Nelle frequentazioni umane, la vita in comune e le relazioni costituite dal conversare e dalle azioni, alcuni sono ritenuti compiacenti, quelli che lodano tutti per far piacere e non contraddicono mai, sono convinti di non essere mai sgraditi a chi incontrano; altri, al contrario dei primi, si oppongono a tutti e non si preoccupano affatto di essere sgraditi: vengono detti misantropi, litigiosi. È chiaro che tali stati abituali sono biasimevoli, e che quello intermedio tra essi è lodevole, quello secondo il quale noi accettiamo o condanniamo le cose che si deve, e nel modo corretto. Esso non ha nome, ma somiglia principalmente all’amabilità». La parola italiana amabilità è la traduzione proposta per il termine greco philia.
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presentata quale stato intermedio tra l’adulazione e la litigiosità, la compiacenza e la misantropia. Egidio segue quasi alla lettera il testo aristotelico. Tuttavia, diversamente da Aristotele, non mette in luce la differenza che distingue questa virtù dall’amicizia vera e propria. Non chiarisce, infatti, che l’amicabilitas è priva di quell’intimità che caratterizza, quasi per definizione, il rapporto di amicizia. Non precisa neppure che le persone verso cui si deve essere amichevoli sono degli estranei e degli sconosciuti!26, Sembra che ad Egidio interessi soprattutto sottolineare che l’amicabilitas è la virtù della buona comunicazione e della buona conversazione. Subito dopo averla definita, egli afferma, infatti,
che: «comunicando con gli altri, dunque, se vogliamo comportarci bene, dobbiamo essere piacevoli, sinceri, ed amichevoli»!27. L’insistenza sulla comunicazione (communicatio) permette di
mostrare che esiste un ulteriore, e più profondo legame tra l’amicabilitas e l’amicizia. Mettendolo in luce, si dovrebbe comprendere meglio quale rapporto sussita tra questa virtù egidiana e la philia aristotelica!28. 126 EN, IV, 1162b 21-25, p. 157: l’amabilità differisce dall’amicizia perché è priva della passione e dell’affetto che legano gli amici e perché si è amabili nei confronti di persone che non si conoscono, che sono estranee. Si noti che per Aristotele non ci si può prendere cura nello stesso modo degli amici, dei conoscenti e degli estranei. 127 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXVIII, p. 132: «Communicando igitur cum alijs, si bene conversari volumus, debemus esse debite iocundi, veraces et amicabiles [...]». 128 Pur con un significato diverso, privo delle valenze teologiche che assume nella riflessione di Tommaso, communicatio sembra essere un termine chiave anche per la concezione egidiana dell’amicizia. Credo allora sia importante considerare che, nella versione latina dell’Etica Nicomachea tradotta da Grossatesta (la versione che Egidio e, prima di lui, Tommaso conoscevano) il termine communicatio è usato al posto del vocabolo greco koinonia, generalmente tradotto in italiano con comunità. Si prenda, per esempio, il passo in cui Aristotele, dopo aver ripetuto che l’amicizia e la giustizia hanno per oggetto le stesse cose e le medesime relazioni, e dopo aver precisato che ogni comunità è caratterizzata da una sua peculiare forma di giustizia e di amicizia, identifica amicizia e comunità riferendosi al famoso proverbio pitagorico secondo il quale le cose degli amici devono essere comuni (EN, VII, 1159b 25-33, pp. 335-337). La versione latina del passo, data da Grossatesta, è la seguente: «Et proverbium, Communia que amicorum, recte; in communicacione enim amicicia» (Aristotele, Ethica Nicomachea, translatio Roberti Grosseteste Lincoliniensis, sive Liber ethicorum, recensio pura, edidit Renatus Antonius Gauthier, Aristoteles Latinus, Leiden, Brill, 1972, XXVI,
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Quando descrive l’amicabilitas, Egidio cita espressamente la Politica per ricordare che homo est naturaliter animal sociale!29, Questo assunto aristotelico è ripetuto più volte anche in altri passi per sostenere che l’uomo è un animal politicum et communicativum!39. Comunicando, l’uomo mostra la sua natura di animale
politico e di essere socievole, che ha bisogno degli altri per vivere e può vivere con gli altri proprio perché è il solo essere vivente capace di usare il linguaggio. Comunicare non significa, allora, solo parlare ed esprimersi, ma anche e soprattutto socializzare, essere capaci di entrare in relazione con gli altri. L’amicabilitas è qualcosa di più dell’abilità nello scegliere le parole giuste e nell’assumere un atteggiamento adeguato nei confronti dell’interlocutore: è la virtù che permette all’uomo di vivere nella comunità politica, di essere socievole nella giusta misura. A questo proposito, può essere utile precisare che il verbo latino conversari, che Egidio utilizza per definire l’amicabilitas, significa anche «avere dimestichezza con qualcuno, vivere insieme a lui». Come sostiene Egidio: «pur dovendo essere amichevoli ed affabili tutti gli uomini che desiderano vivere politicamente, tuttavia non tutti devono essere amichevoli (amzicabiles) nel medesimo
modo»131. Commentando il passo citato, si potrebbe sottolineare il rispetto della gerarchia sociale mostrato nel raccomandare a
3, p. 311; ma anche p. 316). Un altro esempio particolarmente rilevante è costituito dal passo in cui Aristotele introduce l’analisi della comunità politica, la comunità che racchiude in sé tutte le altre comunità, annunciando il confronto tra i tipi di costituzione che sono stati individuati e le forme di amicizia ad esse corrispondenti (EN, VIII,
1160a 29-30, p. 399 e 1161a 10-1161b 10, pp. 341-345). Grossatesta traduce così il passo: «Omnes utique communicaciones videntur particule politice esse. Consequuntur autem, tales amicicie, talibus communicacionibus» (Aristotele, Ethica Nicomachea,
Aristoteles Latinus, cit., pp. 29-30). 129 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XXVIII, p. 132: «Si enim homo est naturaliter animal sociale, ut probari habet I. Politicorum, oportet circa verba et opera in quibus communicat cum aliis, dare virtutem aliquam per quam debite conversetur». Egidio si riferisce a P, I, 1253a 7-17, pp. 76-78. 130 De regimine principum, libro II, pars I, cap. I, pp. 214-215. 131 De regimine principum, libro I, pars II, cap. XVII, pp. 132-133: «Licet omnes homines volentes vivere politice debaeant esse amicabiles et affabiles, non tamen omnes eodem modo amicabiles debeant esse». La traduzione è mia.
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tutti gli uomini di essere amichevoli e affabili. Credo però che sia più rilevante considerare altri passi in cui è descritto il processo di socializzazione umana. Nella prima parte del secondo libro del De regimine, Egidio spiega che l’uomo è per natura non solo un animal politicum et communicativum, ma anche e prima di tutto un animal coniugale!82. Proprio in questa sezione dell’opera, si trovano quasi tutti i riferimenti alla concezione aristotelica della philia!33. Ricorrendo alla mediazione di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino, quando parla della famiglia, Egidio si riferisce all’ottavo e al nono libro dell’Etica Nicomachea. Non è una collocazione inaspettata per l’amicizia, perché si è già visto che la propone anche Vincenzo di Beauvais. Tuttavia, la posizione di Egidio appare molto più articolata di quella dell’autore del De morale principis institutione. Usa, infatti, espressioni come
amicitia secundum naturam ed amicitia naturalis per descrivere la relazione tra marito e moglie ed il rapporto tra genitori e figli!34, Inoltre, costruendo la propria oeconomica, sviluppa gli spunti presenti nel primo libro della Politica!35 di Aristotele con un ragionamento complesso, che merita di essere seguito da vicino. 132 De regimine principum, libro II, pars I, cap. I, pp. 214-215 e cap. VII, p. 239. 133 Mi riferisco ancora una volta a Lambertini, I/ filosofo, il principe e la virtù, cit., in particolare p. 243. Come mostrano i numerosi parallelismi istituiti in questo articolo tra i passi del De regimine, quelli del Super ethica commentum di Alberto Magno e quelli della Summa theologiae e della Sententia libri ethicorum di Tommaso, i riferimenti di Egidio all’opera aristotelica sono spesso mediati. Tali mediazioni valgono anche per i pochi riferimenti all’ottavo e al nono libro dell’Etica Nicomachea presenti nello speculum egidiano. Queste sono le citazioni più significative di questa opera di Aristotele: De regimine principum, libro II, pars II, cap. VI, pp. 239-240; cap. VII, pp. 241-242; cap. IX, p.
244. Altri riferimenti alla concezione aristotelica dell’amicizia in De regimine principum, libro I, pars II, cap. VIII, p. 119, dove Egidio affronta il tema della consolatio amicorum seguendo la Summa di Tommaso; De regimine principum, Libro II, pars I, cap. X, pp. 425-426, dove Egidio riprende le critiche aristoteliche al comunismo platonico. 134 De regimine principum, libro II, pars I, cap. VI, pp. 239-240; cap. VII, pp. 241-242; cap. IX, p. 244. Si noti che Aristotele descrive i rapporti che costituiscono la famiglia come delle forma di philia (EN, VIII, 1161b 10-1162a 30), ma la distinzione tra amicizia naturale e amicizia politica cui si riferisce Egidio non è una distinzione aristotelica: è stata introdotta dal commentatore greco Aspasio. Per la fonte usata da Egidio si veda Lambertini, I/ filosofo, il principe e la virtù, cit., p. 255. ° 135 Lambertini, A proposito della «costruzione» dell’Oeconomica in Egidio Romano, cit., pp. 315-370.
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Esso poggia su delle premesse chiaramente aristoteliche. 1) Per Egidio, esistono quattro generi di commnunitas umana: la famiglia, il villaggio, la città e il regno. 2) Per ordine naturale, la communitas domestica precede tutti gli altri generi di comunità: il vicus, la civitas ed il regnum non potrebbero esistere se non esistesse già la famiglia. 3) La communitas domestica è composta da tre diverse comunità: la communitas maris et foeminae, ossia il rapporto trai i genitori; la communitas servi et domini, cioèla relazione tra i servi ed il capofamiglia, e la communitas patris et filii, vale a dire il legame del padre con i figli. 4) La communitas maris et foeminae, chiamata anche regimen coniugale o coniugium, è la prima di tutte le comunità perché, senza l’unione dell’uomo e della donna in vista della riproduzione non potrebbe esistere nessuna famiglia, nessuna domus!3%. Partendo da queste premesse mi sembra possibile dedurre che il processo della socializzazione umana comincia con la famiglia, che è la prima di tutte le comunità formate dagli uomini ed è fondata sul rapporto tra uomo e donna. Questo assunto si fonde con un’altra tesi aristotelica, che Egidio fa propria: «si deve dunque saper che il Filosofo, volendo mostrare nell’ottavo libro dell’Etica quale amicizia ci sia tra l’uomo e la donna, mostra che quella amicizia è secondo natura»!57. Il rapporto tra uomo e donna su cui si fonda la comunità domestica è aristotelicamente considerato come una forma d’amicizia: non è un rapporto d’amore, ma un’amicizia naturale. Questa tipologia di amicizia caratterizza anche il rapporto con i figli perché Egidio chiarisce che «l’amore e la cura nei confronti della prole rendono più grande l’unione dei coniugi»: amando i figli e prendendosi cura di loro, i genitori rafforzano il legame d’amicizia che li unisce!38. Sembra dunque
136 Per le premesse del ragionamento di Egidio, vd. rispettivamente De regimine principum, libro II, pars I, cap. VII, pp. 238, 237-240, 237, 238.
137 De regimine principum, libro II, pars I, cap. VII, p. 238: «Sciendum ergo quod . Philosophus 8. Ethic. volens ostendere qualis amicitia sit viri ad uxorem, probat amicitiam illam esse secundum naturam»; da confrontare con EN, VII, 1162a 16-29, pp. 346-349. La traduzione è mia. 138 De regimine principum, libro II, pars I, cap. IX, p. 243: «amor et diligentia circa
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possibile sostenere che la famiglia è un insieme di relazioni e di rapporti di amicizia, l’amicizia naturale. Se è la relazione su cui si fonda la famiglia, l'amicizia è anche la relazione con cui inizia il processo di socializzazione dell’uomo. Dovrebbe allora essere più chiaro quale sia il nesso concettuale esistente tra l’amicabilitas, la virtù che mostra la natura sociale e politica dell’uomo, e l’amicizia,
la relazione che è posto alla base del processo di socializzazione dell’uomo, ossia del processo che porta all’istituzione delle comunità politiche. La tesi secondo la quale l’amicitia naturalis è il fondamento della famiglia è particolarmente rilevante anche per comprendere il passo in cui è ripresa la contrapposizione tra monarchia e tirannide formulata da Tommaso nel De regno!39. In questa sezione dell’opera Egidio afferma che il tiranno non ha amici, proibisce le amicizie tra i sudditi, e non è amato da loro!49, Il valore e il significato politico dell’amicizia emergono in modo più debole rispetto al De regno, perché non è riproposto il nesso tra amore, amicizia e carità che stringe Tommaso. Tuttavia, per Egidio, l’amicizia è la relazione su cui deve essere modellato il rapporto tra il principe ed i sudditi. Infatti, sebbene indichi anche altri mezzi per rendere stabile e sicuro il potere del principe, seguendo Tommaso, Egidio contrappone il governo dell’amore e dell’amicizia al governo della paura e del timore!4!. Se, come sembra, è lecito considerare l’ami-
prolem facit maiorem unionem coniugum»; traduzione mia. Inoltre, ivi, pp. 242-243: «Immo eo ipso quod aliqui sunt amici unius ut sint amici inter se parentes, qui naturaliter diligunt suam prolem, ex dilectione naturali quam habent ad ipsam, augmentatur eorum amicitia naturalis [...]». 139 De regimine principum, libro II, pars II, capp. IX-XIV, pp. 474-493, in particolare: «Sexta cautela tirannica est non solum non permittere fieri sodalitates et amicitias, sed etiam amicitias iam factas et sodalitates turbare et pervertere. Volunt enim tiranni turbare amicos cum amicis [...]. Vident autem quod quamdiu cives discordant a civibus et divites a divitibus tamdiu non potest aeque de facile eius potentiae resisti: nam tunc quaelibet partium timens alteram neutra insurgit contra tirannum. Verus autem rex e contrario non procurat turbationem existentium in regno, sed pacem et concordiam. Aliter non esset verus rex, quia non intenderet commune bonum». 140 De regimine principum, libro III, pars II, cap. X, pp. 478-479 e cap. XII, p. 484. ° 141 De regimine principum, libro III, pars II, cap. XV, pp. 490-493. L’amore è solo il settimo dei modi individuati per rendere stabile il potere, perché Egidio insiste, prima,
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cizia che deve regnare tra il principe e i sudditi come una prosecuzione dell’amicizia naturale su cui si fonda la famiglia, tutte le relazioni sociali dell’uomo, non solo quelle che si realizzano tra i membri della famiglia, ma anche quelle che uniscono i membri comunità politica, possono essere ricondotte all’amicizia. Questa tesi sarà sostenuta con più forza, perché sarà arricchita da riferimenti ciceroniani al Laelius e al De officiis, anche in alcune delle raccolte di consigli per i principi: come si vedrà nei prossimi capitoli, l’amicizia è il modello per tutte le relazioni sociali dell’uomo, quelle tra familiari, quelle tra governati,
quelle tra governanti e governati. Inoltre, la vita sociale e politica descritta nella Vita civile può essere pensata come una serie di cerchi di amicizia: cerchi concentrici che si irradiano dall’individuo sino ad includere la famiglia e la città. Infine, e credo sia questo il dato più rilevante, nonostante l’amicabilitas non compaia nei cataloghi di virtù proposti negli specula che saranno analizzati in seguito, si vedrà chela riflessione sull’amicizia e sugli amici del principe si trova proprio nelle sezioni di queste opere in cui sono esaminati le virtù e i comportamenti che si addicono al
buon principe. Da questo punto di vista, il De principe di Platina costituisce un caso esemplare. Tra il De regimine principum e gli specula del Quattrocento non vi sono solo importanti linee di continuità, ma anche signifi cativi punti di rottura. Come si vedrà meglio nel corso dell’analisi, infatti, il valore politico dell’amicizia non è più connesso alla tesi aristotelica secondo la quale l’uomo è un animal politicum et communicativum. Inoltre, se è vero che dietro ai consigli con cui gli umanisti suggeriscono al principe di comportarsi in modo affabile e disponibile, esortandolo ad essere gentile e amichevole con i sudditi, è possibile scorgere la virtù dell’amicabilitas,
su altre necessità: evitare anche le più piccole trasgressioni, coinvolgere i cittadini nel governo, spostare verso l’esterno le sedizioni con la guerra, evitare le contestazioni dei nobili, dare poteri e cariche solo ad uomini buoni e virtuosi, non dare troppo potere a nessuno. Sottolinea altresì che il re deve avere la potentia civilis necessaria per far rispettare la giustizia, e deve essere buono, virtuoso, capace di capire cosa rafforzi o danneggi il suo regno.
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tuttavia è altrettanto vero che l’affabilità sarà identificata con la comitas. Sotto l’influenza di Cicerone, essa diventerà un segno della bumanitas del principe o, come nel De principe di Pontano, una delle possibili manifestazioni della maiestas. Le linee di continuità che uniscono gli specula principum medioevali alle raccolte di consigli per i principi scritte nel Quattrocento possono dunque essere, allo stesso tempo, anche dei punti di rottura. Ciò non deve essere dimenticato, se si vuole comprendere quale valore e quale funzione politica sia attribuita all’amicizia. 2.3 La lettera di Petrarca a Francesco da Carrara: un nuovo
spazio per l’amicizia La lettera nota come De republica administranda, che circa un anno prima di morire Petrarca scrive al signore di Padova Francesco da Carrara, è generalmente considerata uno dei primi esempi di speculum principis umanistico!42, In effetti, i consigli 142 F, Petrarca, Ad magnificum Franciscum de Carraria Padue dominum, qualis esse debeat qui rem publicam gerit, in Id., Le Senili, cit., pp. 760-837. D’ora in poi citerò questa lettera semplicemente come A/ magnifico signore di Padova, nella traduzione di Dotti. Come nota lo studioso (ivi, p. 760): «datata Arquà, 28 novembre 1373, a meno di un anno di distanza dalla morte del poeta, questa lunghissima lettera scritta per soddisfare un desiderio del signore di Padova, Francesco da Carrara, è in realtà un vero e proprio trattato sul governo dei principi, uno «specchio dei principi» modello dei tanti che verranno composti in età umanistica». Anche Ferraù è dello stesso parere (G. Ferraù, Petrarca e la politica signorile, in AA.VV., Petrarca Politico, Atti del Convegno Roma-Arezzo 19-20 Marzo 2004, a cura del Comitato nazionale per il VII centenario della nascita di Petrarca, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 2007, pp. 43-79, in particolare, p. 72): «la lettera, una delle più corpose raccolte petrarchesche, è più di un documento epistolare: nel discorso materiato di suggerimenti ai fini del consenso e di concrete proposte di buona amministrazione, è in nuce uno speculum principis, un genere destinato a moltissima fortuna tra Umanesimo e Rinascimento, uno speculum, tuttavia, dimidiato rispetto alla formula che sarà poi canonica, dato che manca della dimensione della maiestas rituale, in qualche misura per altro affidata ad una precedente familiare de principe, quella diretta a Nicolò Acciaiuoli per l’institutio di Luigi d'Angiò». Inoltre, come già sottolineato, si ricorderà che Berges conclude il suo studio sugli specula principum del Medioevo proprio con l’esame della lettera di Petrarca a Francesco da Carrara (Berges, Die Fiirstenspiegel des hòben und spéten Mittelalters, cit., pp. 273-287).
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che il poeta rivolge al principe non sono esortazioni influenzate dalla cultura scolastica dell’età medioevale, ma ammonimenti che contribuiscono alla diffusione di quegli «studi trascurati da tempo» che Petrarca è consapevole di aver riscoperto ed introdotto anche al di fuori dell’Italia!43. Tutta la lettera è pervasa da quell’ethos romano e ciceroniano che sembra essere la cifra caratteristica degli specula principum quattrocenteschi. Gli accenni e i riferimenti all’amicizia presenti in essa mi sembrano particolarmente significativi perché consentono di individuare quale sia il nuovo spazio in cui si gioca il valore politico dell’amicizia.
Gli amici del principe
Non trovando le parole adatte per esprimere la gratitudine che deve al signore di Padova, Petrarca comincia la lettera dicendo che «è sicuramente diffusissimo e sacro il costume di ringraziare gli amici dei doni ricevuti, soprattutto se si tratta di principi»!44. Il De republica administranda inizia, quindi, nel segno dell’amicizia: Petrarca sta cercando di ricambiare il principe per gli innumerevoli favori ricevuti in passato. La presenza di questo topos di origini classiche, che invita a ringraziare gli amici per la loro generosità!4, suggerisce di pensare al rapporto dell’umanista con il principe come ad una forma di amicizia: Francesco da Carrara è l’amico cui il poeta deve riconoscenza e gratitudine. Ripensando alla vita di Petrarca, si potrebbe davvero considerare il rapporto del poeta con la famiglia da Carrara come una relazione intima e personale, caratterizzata da sentimenti di affetto e di amicizia! Questo accenno all’amicizia, però, non è solamente 143 Per questa consapevolezza vd., per es., la seconda lettera del diciassettesimo libro delle Seniles. 144 Al magnifico signore di Padova, p. 761. 145 Vd, per es. EN, IX, 1164b 25-1165a 35, pp. 362-367 ed Of, I, XV, 46 sgg., pp. 40 sgg. 146 Per quanto concerne la biografia di Petrarca, oggetto di numerosi e continui contributi, oltre agli studi di Billanovich (per es. G. Billanovich, Petrarca e il primo
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un dato biografico. È anche, e prima di tutto, un dato storico: come si è già accennato nel primo paragrafo di questo capitolo, Petrarca è uno dei primi letterati che pensano al principe come ad un amico!47. Non ho intenzione di affrontare un problema così complesso quale è quello della sofferta dipendenza di Petrarca dalle corti e dai centri di potere della sua epoca!#8. Vorrei limitarmi a mettere in evidenza la sproporzione che caratterizza il rapporto tra il poeta ed il signore di Padova. Petrarca sembra consapevole di tale asimmetria quando afferma che: Da un lato la tua estrema e frequente generosità nei miei confronti spinge la penna al ringraziamento, ed è sicuramente diffusissimo e sacro il costume di ringraziare gli amici dei doni ricevuti, soprattutto se si tratta di principi; né talora io mancai di farlo con te, sennonché, continuando ed aumentando di giorno in giorno i tuoi benefici e gli onori nei miei riguardi, e vergognandomi io di restituire ai fatti parole, preferii abbracciare col pensiero e misurare in
umanesimo, Padova, Antenore, 1996) ed a quelli, non meno noti, di Wilkins (E.H. Wilkins, The Life of Petrarch, Chicago, Chicago UP, 1961; trad. it. La vita del Petrarca e la formazione del canzoniere, nuova ed., Milano, Feltrinelli, 2003; Id., Petrarch*s Eight Years in Milan, Cambridge Mas., Medioeval Academy of America, 1958; Id., Petrarch’s Later Years, Cambridge Mas., Medioeval Academy of America, 1959) mi limito a ricordare U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 2004 perché l’autore è particolarmente attento al tema politico. Sul rapporto tra Petrarca e i signori di Padova, vd. G.M. Varanini, Francesco Petrarca e i da Carrara, signori di Padova, in AA.VV. Petrarca Politico, cit., pp. 81-97. Anche Jacopo da Carrara, il padre del dedicatario della lettera presa in esame, fu uno dei protettori di Petrarca, tant'è che nel 1394 gli fece assegnare un canonicato nella cattedrale della città. Tuttavia, i rapporti di Petrarca con la signoria padovana diventano molto stretti soltanto dopo il 1368, negli anni in cui il poeta risiede stabilmente tra Arquà e Padova. Sono così forti che, a conclusione della guerra tra Padova e Venezia, ossia pochi mesi prima di scrivere il De republica administranda, Petrarca è inviato come ambasciatore a Venezia, e pronuncia l’orazione ufficiale per chiedere la pace. Come esempio dell’amicizia di Petrarca per i signori di Padova si possono leggere la seconda e la terza lettera del XI libro delle Familiari, in cui il poeta piange la morte di Jacopo da Carrara, assassinato il 19 dicembre del 1350.
147 Vd. Dell’Aquila, Dalla fedeltà all’amicizia: l'aspirazione rinascimentale ad un nuovo rapporto del letterato col principe, cit., p. 533. 148 Oltre ai già citati studi di Ferraù e Varanini, per una riflessione più approfondita sul pensiero politico di Petrarca e sul suo rapporto con i centri di potere e i potenti dell’epoca si veda anche: U. Dotti, Petrarca civile. Alle origini dell’intellettuale moderno, Roma, Donzelli, 2001, in particolare: La missione del dotto, pp. 115-232.
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un memore silenzio anziché con inutili parole quella tua munifica grandezza che non posso raggiungere con l’eloquenza!*?,
Sebbene il principe sia considerato come un amico, che deve essere ringraziato per i doni ricevuti, leggendo il passo citato si ha l’impressione che il rapporto col principe non possa essere concepito come una vera e propria forma di amicizia, perché non
è un rapporto tra pari, né una relazione disinteressata. Inutile dire che, senza uguaglianza e gratuità, sembra difficile che possa esservi una relazione di amicizia. Più utile, forse, evidenziare che
uguaglianza e gratuità non sono caratteristiche del rapporto col principe perché Petrarca chiarisce che il riconoscimento richiesto è qualcosa di diverso dalla pura e semplice gratitudine: è qualcosa di necessario e di dovuto, di obbligatorio e di obbligato. Il principe non si ringrazia come un amico, ma molto più di un amico,
perché è una persona potente. L’asimmetria che caratterizza il rapporto tra l’umanista e il signore di Padova affiora insieme alla vergogna che Petrarca prova rendendosi conto che ha solo parole per ricambiare gli innumerevoli benefici che ha ricevuto. Più il poeta considera la grandezza di questi doni, più la distanza aumenta. Cresce così tanto che il poeta è costretto al silenzio non appena comprende che tutte le sue parole non basterebbero per contraccambiare il principe. La scelta di restare in silenzio ha il sapore amaro di una dichiarazione di impotenza perché sembra la sola possibile. Si deve tuttavia considerare che rende Petrarca molto più potente di quanto non appaia: il silenzio è l’artificio retorico con cui riesce abilmente a sottrarsi ai pericoli della lode e dell’adulazione insiti nella lettera che il signore di Padova gli ha chiesto di scri149 Al magnifico signore di Padova, p. 760; il corsivo è mio. Riporto anche il testo in latino, perché emergono più chiaramente che nella traduzione, che ho leggermente modificato, i riferimenti all’amicizia: «Hinc crebra nimis in me liberalitas tua ad agendas gratias stilum vocat, et est sane mos percelebris, susceptis amicorum et maxime principum muneribus, grates agere, quem aliquamdiu ipse tecum tenui, donec perpetuis et in dies auctis beneficiis atque honoribus tuis pressus, et pro rebus verba remittere ingenuo pudore probibitus, munerum magnitudine quam sermone non assequor, mente complecti, memorique silentio metiri potius quam verbis inanibus consilium cepi».
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vere. Scegliendo il silenzio, infatti, Petrarca rifiuta un costume
così diffuso qual è quello di ringraziare gli amici dei doni ricevuti, ma assai meno degno di rispetto: l’abitudine di adulare i principi!5. Tale rifiuto non è particolarmente significativo solo perché Petrarca riconosce che la lode degenera inevitabilmente nell’adulazione poco prima di ammettere di aver lodato i principi, ma anche perchè, quando afferma di non voler lodare nessuno, dichiara di voler seguire la via della verità e della virtù!5!. Percorrendo questa strada, riesce ad elevarsi da quella posizione di inferiorità che lo ha lasciato senza parole, apparendo superiore persino allo scrittore antico che più ama, quel Cicerone che ora accusa di incoerenza per aver prima elogiato, e poi biasimato, Cesare ed Ottaviano Augusto!52,
La critica a Cicerone muta inaspettatamente l’equilibrio della relazione tra il poeta e il principe, senza generare alcuna contraddizione. Quando giudica Augusto superiore a Cesare in qualità di imperatore e Cesare superiore ad Augusto in qualità di comandante dell’esercito, Petrarca chiarisce infatti che inferiorità
e superiorità non sono dati assoluti, ma aspetti relativi a certi ambiti ed a certe abilità!53. Alla luce di questa considerazione, si potrebbe pensare che Petrarca sia inferiore al principe perché ha solo parole per ricambiare i favori ricevuti, ma anche superiore a lui per il modo in cui sa usare queste parole. Sebbene non sia ancora chiaro se il rapporto con il principe possa essere considerato una forma di amicizia, è evidente che è una relazione instabile e mutevole: che Petrarca occupi la posizione più bassa, trovandosi solo con le sue inutili parole, oppure quella più elevata, superando persino Cicerone, il rapporto col principe deve essere continuamente bilanciato. Il punto di equilibrio sembra difficile da raggiungere perché Petrarca ammette di non sapere come comportarsi: da una parte, se vuole continuare
150 Ivi, p. 761. 151 Ivi, pp. 761-763. * 152 Ivi, p. 763. 153 Ibid.
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a seguire la via della verità e della virtù, deve ridurre la distanza che lo separa da Francesco da Carrara senza mai abbassarsi sino ad adularlo; dall’altra, se desidera continuare ad essere ascoltato,
non deve elevarsi troppo trasformando inopportunamente le sue parole in biasimi e rimproveri!54. Petrarca supera l’împasse dopo aver sottolineato la grandezza delle virtù del principe, quando riconosce che se intende continuare a scrivere, può solo consi-
gliarlo!55. Lo spazio del consiglio, dunque, è il solo spazio in cui il poeta può muoversi per rendere meno asimmetrico il rapporto col principe. È anche lo spazio in cui si colloca la riflessione sull’amicizia che Petrarca propone alla fine della sua lunga lettera, introducendo il tema degli amici principis!56. A questo punto della lettera, il problema non sarà più quello dell’inferiorità del poeta nei confronti di Francesco da Carrara, bensì quello della superiorità del principe nei riguardi dei cortigiani. Prima di esaminare questa riflessione, credo che siano opportune alcune precisazioni relative ai temi affrontati nel De republica administranda, perché molti di essi si trovano anche negli specula quattrocenteschi che saranno esaminati nei prossimi capitoli. Nonostante l’iniziale dichiarazione di impotenza, Petrarca non rimane in silenzio: procede nell’analisi descrivendo le qualità che il buon principe deve possedere per essere effettivamente tale, senza seguire un ordine preciso. Tutto il ragionamento poggia su una premessa fondamentale: la tesi secondo la quale gloria e virtù non sono incompatibili. «La gloria segue la virtù come l’ombra il corpo»!57: questa giustificazione ciceroniana, o senecana, 154 Ivi, p. 765.
155 Ivi, p. 769: «Essendo quindi cosa di poco conto tesser su di te con più gloria quelle lodi che nascono spontaneamente dalle tue gesta, ritengo anche superfluo biasimarti; d'altra parte, dal momento che ho cominciato il discorso, mi parrebbe brutto troncarlo a mezzo. Parlerò allora di ciò che ho in mente; argomento certo a te notissimo; ma giova talora anche a chi sa l’esser da altri stimolato a ricordare quei principi che egli pure accolse in se stesso ed esercitò, e l’esser confortato dallo sprone della voce altrui a continuare su quella strada sulla quale egli si è messo spontaneamente. Esporrò dunque ciò che deve possedere chi regge il governo della sua patria». 156 Ivi, pp. 811 sgg. l 157 Ivi, pp. 763-765.
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della gloria terrena evidenzia la profonda distanza che separa lo speculum di Petrarca da quelli di Tommaso ed Egidio, ma anche dall’opera di Martino Garati da Lodi che, come già accennato, a metà Quattrocento consigliava al principe di agire solo per la gloria di Dio!58. Petrarca pensa che la gloria terrena raggiunta servendo la patria con amore e virtù sia la via che conduce verso la gloria divina. Inoltre, cerca di convincere il signore di Padova a cercare la felicità eterna citando il passo del Somnium Scipionis in cui Cicerone ricorda il premio divino che spetta a chi difende la respublica con amore e sollecitudine!5?, Questo passo gioca un ruolo chiave per la valorizzazione umanistica della dimensione politica dell’esistenza umana: come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, sarà ripreso anche da Palmieri nella Vita civile. Ponendo l’accento sulla virtù, Petrarca mostra al principe come modello da imitare ottimi cittadini romani quale Scipione. Per far luce sulla presenza di questi esempi, che si affiancano a quelli di imperatori come Augusto ed Alessandro Severo, è sufficiente ricordare le riflessioni relative al linguaggio degli umanisti esposte nel primo paragrafo del capitolo. Per chiarire perchè il termine cives sia usato per nominare i sudditi, si deve notare che i consigli dati a Francesco da Carrara indicano le caratteristiche di quella che Varanini non esita a definire come «signoria cittadina»!90, Poiché gloria e virtù non sono incompatibili, il ricordo delle gesta del signore di Padova posto all’inizio della lettera si trasforma gradualmente in una celebrazione dell’umanità, della magnanimità e dell'amore per la pace che contraddistinguono il principe. Petrarca legittima il potere di cui gode di fatto il signore di Padova mostrando che non è un tiranno: per usare le sue 158 Come nota Dotti, questa definizione della gloria mutuata dalle Tusculanae disputationes di Cicerone, oppure dalle Epistolae ad Lucilium di Seneca, è ripetutamente citata da Petrarca: Dotti, Petrarca civile, cit., p. 106. Per la concezione della gloria nel Quattrocento si veda almeno C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento: da Petrarca a Machiavelli, Milano, Mondadori, 1998. 159 AI magnifico signore di Padova, cit., pp. 771 e 781. Per la citazione del Somnium Scipionis (III, 13 e 15) vd. Cicerone, Il sogno di Scipione, a cura di F. Stock, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 45 e 47. 160 Varanini, Francesco Petrarca e i da Carrara signori di Padova, cit., p. 97.
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stesse parole, è un rector piuttosto che un dominus!6!. Già molto importante nel De regimine di Egidio Romano, il tema delle virtù del principe diventa cruciale con la riflessione di Petrarca. Questi inizia a declinarlo come sarà articolato negli specula della seconda metà del Quattrocento, perché insiste sulla securitas della patria e sulla capacità di difendere i cives. Sembra dunque che quanto più garantisca sicurezza e pace con le sue virtù, tanto più il principe
rafforzi e legittimi il potere di cui dispone!*2. Con il procedere della riflessione sulle qualità del principe, Francesco da Carrara assume i tratti del vir virtutis e del pater patriae che è amato dai cittadini come il padre è amato dai figli!63, Le principali qualità morali che il buon principe deve possedere per farsi amare dai cittadini sono la giustizia, la parsimonia, la clemenza, la generosità, l’umiltà e la magnanimità!94. Questo catalogo delle virtù è completato da un elenco dei vizi che devono essere evitati: sono esaminate con particolare attenzione soprat-
tutto l’avarizia, la crudeltà e la cupidigia. Come si evince dalla presenza di consigli di carattere decisamente più pragmatico, relativi alla riscossione di imposte e alla costruzione di strade, le
161 AI magnifico signore di Padova, pp. 767-769. 162 Ivi, p. 823: «Se ben ti conosco — e in tanti anni credo proprio di averti potuto conoscere = sono certo che tu il titolo di signore sei costretto a sopportarlo più che a gloriartene. Ti ho udito più di una volta affermare solennemente che la signoria (dominium) non ti dava piacere alcuno e che saresti stato pronto a deporre il primato se non avessi temuto che altri avrebbe potuto usurpare la repubblica ed opprimerla con giogo forse più grave e costringere anche te a servire; se così non fosse tu avresti preferito essere libero che signore (dominus), essendo più che sufficientemente ricco del tuo [...]». 163 Ivi, pp. 777 e 799, in particolare: «Non c’è infatti un cittadino —parlo di quelli che ti sono riconoscenti per la pace e la tranquillità che hai dato loro — che non ti veda e non ti pensi se non come un padre. [...]. Vuoi davvero essere il padre dei cittadini? Ciò che desideri per tuo figlio desideralo anche per i tuoi cittadini». 164 Per quanto concerne la clemenza del principe è decisiva l’influenza del De clementia di Seneca (Seneca, De clementia, a cura di C. Campanini, Milano, Mondadori, 2004): vd. P. Stacey, Roman Monarchy and The Renaissance Prince, Cambridge, Cambridge UP, 2007, in particolare pp. 119-144. Mentre il terzo capitolo di questo studio è interamente dedicato a Petrarca, negli altri capitoli sono presi in considerazione anche Vergerio, Salutati, Panormita, Manetti, e Bracciolini: Stacey concentra la sua analisi soprattutto sulla Milano viscontea e sulla Napoli aragonese. Non mancano, tuttavia, significativi riferimenti agli specula principum di Erasmo e Machiavelli.
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virtù del principe devono concretizzarsi in azioni capaci di gene-
rare il consenso dei sudditi!65, Il principe deve essere amato da chi è buono e temuto da chi è malvagio: questa non è soltanto la prima qualità che Petrarca consiglia al principe di possedere, ma anche il leit-motiv della lettera, il perno attorno a cui ruotano tutte le riflessioni dell’umanista!66, Sin dall’inizio, infatti, Petrarca sposa la tesi del De officiis secondo la quale è meglio per chi è al potere essere amato (diligî) piuttosto che temuto (metui)!7. L'origine di questa tesi distingue lo speculum di Petrarca da quelli di Tommaso ed Egidio, anche se entrambi questi autori sostengono che il potere del principe è stabile e sicuro solo quando si fonda sull’amore!$8, La differenza sembra ridursi quando Petrarca assimila la benevolentia che Cicerone oppone al metus alla caritas cristiana per ribadire che il principe deve governare col consenso dei sudditi!9?. Tuttavia, bisogna anche considerare che tale
identificazione ha una natura molto particolare: Petrarca menziona il precetto senecano che suggerisce di amare per primi se si vuole
essere amati (si vis amari ama) prima del comandamento evangelico che invita ad amare il prossimo come se stessi (diliges proximum tuum sicut te ibsum) e sembra confondere l’uno con l’altro!70, Si deve altresì notare che mentre descrive il rapporto tra principe e sudditi come una forma di amore, Petrarca sottolinea con tratti 165 AI magnifico signore di Padova, pp. 791, 799 e 823. 166 Ivi, pp. 773 sgg. 167 Ivi, p. 773, dove Petrarca cita Of, II, VII, p. 143. 168 Cfr. Al magnifico signore di Padova, p. 773; Ad regem Cypri, pp. 13-14; De regimine principum, libro II, pars II, cap. XV, pp. 490-483. 162 Al magnifico signore di Padova, p. 779: «Ora devi sforzarti a far sì che la ragione che ti procurò un nome tanto bello [il nome di padre della patria] duri e continui, e so bene che lo farai. [...]. Sappi comunque che questo potranno darti solo la giustizia (iustitiam) e l’amore (caritatem). Vuoi davvero essere padre dei cittadini? Ciò che desideri per tuo figlio desideralo anche pet i tuoi cittadini. Non dico di amare tutti i tuoi cittadini quanto un figlio, ma come un figlio. Infatti anche il supremo legislatore Iddio non ci comandò “ama il prossimo tuo” quanto te stesso, ma “come te stesso”; ossia
con purezza, senza infingimenti, senza calcoli di interessi o sg ma per schietto e gratuito spirito di amore (nuda ac gratuita caritate)». 170 Ivi, p. 777 e p. 779. Come si vedrà in seguito, il precetto senecano del si vis amari ama sarà ripreso anche nel De principe di Pontano che, pur essendo lo speculum che risente maggiormente dell’influenza della lettera di Petrarca, è anche il più laico.
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più marcati di quelli usati da Tommaso ed Egidio la reciprocità dell'amore che deve regnare tra governanti e governati. Dimostra così che la caritas è mutua caritas: è l'affetto che deve regnare tra governanti e governati, di cui parla Cicerone, piuttosto che l’espressione dell’amore di Dio per l’uomo. Il modello di ottimo principe che il signore di Padova deve imitare è Augusto!7!. Poiché Petrarca cita Svetonio per ricordare che l’imperatore morì circondato non da guardie del corpo e da uomini in armi, ma da «cittadini amici» (amicos cives) e si addormentò serenamente «tra i discorsi degli amici» (inter sermones
amicorum)!?2, l’ottimo principe è il principe capace di avere amici. Petrarca insiste su questo aspetto anche quando propone un altro modello di principe da imitare: l’imperatore Alessandro Severo. Citando la Historia augusta per proporre questo esempio, il poeta
introduce il tema degli amici principis. Chiarisce quali sono le caratteristiche che devono avere gli amici del principe dicendo che: Ed Alessandro, infatti, fu un buon principe non solo per la sua virtù, ma anche perché, come scrive sempre lo storico, «ebbe amici probi e venerandi, non maliziosi, non rapaci, non ipocriti, non astuti, non proni al male, non
nemici dei buoni, non rotti a libidine, non crudeli, non soverchiatori del loro signore per beffarlo e irriderlo, ma probi, venerandi, continenti, religiosi, amanti del loro principe, incapaci sia di prendersi gioco di lui sia di tollerare
che se ne prendessero altri; ed infine non abituati a mercanteggiare o a mentire o a comprare con l’inganno la stima e l’affetto del loro signore». Fin qui lo storico. Ed ecco, invero, gli amici che il principe deve desiderare e cercare di avere attorno a sé!73, 171 Al magnifico signore di Padova, p. 821: «Cesare Augusto massimo e ottimo tra i principi».
172 Ivi, p. 781. 173 Ivi, p. 807; corsivo mio. Riporto anche il testo latino, perché emergono più
chiaramente che nella traduzione, che ho modificato solo in parte, i riferimenti all’ami-
cizia: «Idcirco idem Alexander bonus princeps fuit, quod preter insitam animo virtutem amicos, ut ibidem scribitur “sanctos et venerabiles habuit, non malitiosos nec furaces nec fictiosos non callidos non ad malum consentientes non bonorum inimicos non libidinosos non crudeles non circumventores sui non irrisores non qui illum quasi fatuum
circumducerent sed sanctos, venerabiles, continentes, religiosos, amantes principis sui,
et qui de illo nec ipsi riderent, nec eum risui esse vellent, qui nichil venderent nichil mentirentur nichil fingerent numquam deciperent exstimationem principis sui, ut se amarent”. Et hec quidem ille. Tales ergo amici optandi principibus querendique». l’uso
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Sebbene l’amicizia non sia una delle virtù che contraddistinguono l’ottimo principe, questo passo dimostra che il bonus princeps deve saper scegliere amici virtuosi come lui. L’ottimo
principe si riconosce, dunque, anche per gli amici che lo circondano. Non a caso, poche righe dopo aver indicato le caratteristiche degli amici di Alessandro Severo, Petrarca descrive Francesco da Carrara come «integerrimo e fedelissimo cultore delle amicizie»!74. Gli amici del principe devono essere probi e venerandi, sinceri, temperanti, pietosi, continenti, religiosi, obbedienti
e fedeli come gli amici di Alessandro Severo perché sono i cortigiani e i consiglieri del principe. Sono le persone che collaborano all’esercizio del potere, a cui il principe deve poter affidare le missioni e gli incarichi che non può svolgere personalmente. La funzione politica dell'amicizia emerge con particolare evidenza quando Petrarca mette in guardia il signore di Padova dai cattivi consiglieri e dai cattivi cortigiani: lo invita soprattutto a non affidare mai incarichi di governo ad uomini malvagi, che potrebbero diventare signori al suo posto!75. La polemica contro gli aulici dimostra che il potere del principe si basa su una trama di rapporti personali e richiede il favore di determinate persone, che dovranno poi essere ringraziate per la loro lealtà. Quando Petrarca suggerisce al signore di Padova di mostrare la riconoscenza dovuta a chi lo appoggia cedendo beni materiali («cavalli, vesti, armi, vasi, danaro, case, campi») anziché onore!76, mostra che il potere del principe è molto massiccio della Historia augusta — l’opera più citata insieme a quella di Svetonio, tanto da sostituire il De officiis di Cicerone come fonte di esempi — è una caratteristica peculiare della lettera: Ferraù, Petrarca e la politica signorile, cit., p. 76. 174 Al magnifico signore di Padova, p. 815. 175 Ivi, p. 811: «A questo proposito è bene che ti avverta di non affidare mai il governo della patria, che è compito tuo, ad uno di costoro [i cortigiani cattivi]; sembrerebbe che il signore sia lui e non tu. Furono molti i principi che per elevare i propri cortigiani abbassarono se stessi, rendendosi venduti e derisi proprio da quelli che avevano innalzato, odiosi e disprezzati dal popolo». 176 Al magnifico signore di Padova, p. 813: «Tu forse dirai, e già forse lo pensi: costui mi spinge all’ingratitudine; come infatti potrei escludere coloro che mi hanno aiutato a giungere a una posizione così prospera? Ma non è questo che si vuole. [...] Ma vi sono molte altre grandi cose con le quali rimeritare chi ne è degno: cavalli, vesti,
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precario. Gli consiglia di rafforzarlo facendo in modo che i cortigiani non diventino potenti (potentes), ma restino sottomessi a lui (missi) e siano suoi subalterni: dovranno tornare ad essere privati
cittadini non appena avranno svolto il compito che è stato loro affidato!77. Tale consiglio mostra che il rapporto tra il principe e i cortigiani non è un rapporto professionale, ma un vincolo personale molto debole perché la linea che separa politico e privato non è tracciata in modo netto. Senza questa concezione personale ed individualistica del potere, non vi sarebbe alcuno spazio politico per l’amicizia. Inoltre, se i cortigiani e i consiglieri del principe fossero dei pubblici ufficiali e dei funzionari piuttosto che delle persone cui il principe deve riconoscenza e favori, Petrarca non
avrebbe motivo di contrappone gli aulici agli «altri amici» del
principe: i veri amici, quei cortigiani che non vogliono imposses-
sarsi delle ricchezze del principe, ma desiderano solo accrescere il suo onore!?8. La contrapposizione tra buoni amici e cattivi cortigiani è
seguita da una summa della concezione ciceroniana dell’amicizia, che fornisce i criteri per distinguere tra vera e falsa amicizia!”?. armi, vasi, danaro, case, campi e simili. Bada soltanto, come è scritto, di non commettere ad altri il tuo onore [...]». 177 Ivi, p. 815: «Te solo, dunque, riconoscano tutti come signore, te solo onorino, amino e infine temano; gli altri li considerino non come dei potenti, ma come dei tuoi funzionari, che, adempiuto che abbiano il loro servizio, tornino nello stato di privati cittadini, senza alcun titolo o potere speciali». Riporto anche il testo latino, perché le parole usate da Petrarca sono particolarmente significative: «Unum te igitur dominum sciant omnes, unum colant, unum diligant, unum denique vereantur: reliquos now wt potentes, se ad te missos aspiciant, qui ubi iussus tuos executi fuerint, privati sint, nulla prediti dignitate aut potestate». Il corsivo è mio, per sottolineare che il termine «funzionari» è inserito nella traduzione del passo, ma non ha un equivalente nel testo latino.
178 Ibid. 179 Ivi, pp. 815-817: «Negli affetti umani, nulla è più dolce dell’amicizia, nulla vi è di più santo dopo la virtù, e coloro che per potenza e valore sono preposti a tutti, sono proprio coloro che più hanno bisogno di amici, con i quali dividere la prospera e l’avversa fortuna. Nulla bisogna chiedere all'amico che non sia bello, nulla che non sia bello bisogna fare in suo favore, ma tutto, quando sia onesto. Su queste basi tutte le cose degli amici debbono essere in comune, ed essi devono costituire un animo e una volontà sola, senza distrazioni che possano venire da speranze, da timori o da pericoli. L’amico bisogna amarlo come un altro se stesso, uguagliando ogni disparità di condizione, ed insomma bisogna sforzarsi in ogni modo perché si adempia il comando di
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Sebbene non manchino dei riferimenti al De officiis, la relazione è descritta seguendo da vicino il Laelius. Per Petrarca, infatti,
l’amicizia è tale solo se è virtuosa ed è stretta in nome del bello e dell’onesto. L'amico è un altro se stesso: essere amici significa, da due, diventare uno, avere un’unica anima ed una sola volontà. Sono chiamati a stringere amicizia soprattutto gli uomini che eccellono per virtù e potenza. La relazione che Petrarca descrive non è solo un’amicizia ciceroniana, ma anche un’amicizia cristiana.
Oltre ad essere un legame che non conosce conflitto, adulazione e dissimulazione ed un rapporto puro, santo e assolutamente sincero, infatti, l'amicizia è una relazione che trova il suo ultimo fondamento in Cristo. Nelle raccolte di consigli per i principi che saranno esaminate nei prossimi capitoli, incluso il De principe di Pontano, che sembra risentire maggiormente dell’influenza della lettera di Petrarca, non vi sarà più traccia di questa tesi. Del resto, prima di specificare che la vera amicizia non è impossibile da realizzare per l’uomo, è lo stesso Petrarca a sottolineare che trova Pitagora: che dai più si faccia un unico. E non son forse espressi questi stessi concetti nei libri sacri, dove negli Atti degli Apostoli si legge: “uno solo era il cuore, una sola era l’anima di quella moltitudine che credeva e amava in Cristo, né vi era alcuno che diceva proprie le cose che possedeva, ma tutte erano in comune?”. E se qualcuno mi obiettasse che era quella un’amicizia di fedeli che amavano in Cristo, rispondo che anche io parlo di questa amicizia, e che ritengo che sia l’amicizia sia un qualsiasi altro affetto non possono mai essere fermi e stabili se non in Cristo. Del resto anche i filosofi pagani ritennero che la vera amicizia non può esistere senza il fondamento della virtù e della sapienza, né essa deve intendersi secondo quel rigore per il quale, con sofisticata ridicolaggine, qualcuno sentenziò che non vi fu mai alcun sapiente. Noi non andiamo in cerca dell’impossibile, ma siamo contenti di quello che ci porge la condizione umana, e in quest'ambito è l’amicizia della quale parlo. Sebbene di un’altra e perfetta amicizia ci siano rarissimi esempi — splendono in queste coppie di amici i nomi di Lelio e dell’Africano minore — pure anche l’amicizia ordinaria e comune tra i buoni ha una sua dolcezza e una sua serenità, non ammette adulazione, non consoce offesa e disprezzo, non viene mai a discordia e a divergenza, non si preoccupa che del bene dell’amico, vive in una pace reciproca e in un reciproco conforto. Nulla vi è dunque in essa di finto, di ambiguo, di simulato, ma tutto è puro, semplice, schietto. Con un tale amico direi che tutto va diviso in comune: le decisioni, le azioni, gli onori, le ricchezze e, alla fine la vita e il proprio sangue». Il corsivo è mio. Petrarca cita Of, I XVII, p. 49 ed A, V, 18, p. 91; A, VII, 28, pp. 103-105; A, IX, 3, p. 107. Non insisto sul fatto che il topos dell’amico come altro sé e quello della condivisione delle cose tra amici sono presenti anche nell’Etica Nicomachea perché ciò è stato già evidenziato esaminando il quarto libro della Famiglia.
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fondamento in Cristo perché si basa sulla virtù. I buoni cortigiani e i buoni consiglieri sono gli amici del principe proprio perché l’amicizia è una relazione basata sulla virtù e sulla fiducia, un legame che trae la sua forza dalla condivisione e dalla consonanza di idee, un rapporto che non degenera nell’adulazione e nel conflitto. La natura morale del rapporto personale che lega i cortigiani al principe mette il dominus al sicuro dai pericoli che correrebbe scegliendo dei cattivi consiglieri, e dai rischi in cui si imbatterebbe se i missi diventassero potentes. Chiamare «amici» i collaboratori del principe, come fa Petrarca prendendo a modello l’amicizia fondata sulla virtù, significa allora tentare di rendere più stabile e sicuro il loro rapporto col principe. Per Petrarca, gli amici dei principi sono soprattutto gli intellettuali. Nelle ultime pagine della lettera, dopo aver messo in luce l’importanza della modestia nel vestire e nel parlare che il principe deve offrire al popolo come specchio in cui riflettersi, l’umanista si sofferma sull’affabilità e sulla familiarità che il principe deve mostrare nei confronti degli uomini illustri!8°, Come si vedrà meglio in seguito, questi consigli saranno ripresi anche dagli autori degli specula del Quattrocento, diventando un segno della maiestas del principe. Inoltre, come si è visto esaminando la virtù dell’amicabilitas, anche Egidio Romano consigliava al principe di essere gentile, cortese, affabile e amichevole. Occorre ora precisare che Petrarca suggerisce al principe di trattare con particolare familiarità quei viri egregi che si distinguono dagli altri per giustizia, santità, esperienza nell’arte militare e, soprattutto, per «profonda conoscenza della vita culturale». Questi non sono altri che gli «homines literati», i giuristi di cui si gloria lo Studium padovano, i medici e i maestri delle arti liberali!8!. Accostando il mecenatismo di Francesco da Carrara a quello di Augusto, Petrarca ricorda il sodalizio stretto da questo imperatore romano, che è il modello dell’ottimo principe, con uomini di cultura quali Cicerone, Pollione, Messala, Varo, Ovidio, Varrone, 180 A/ magnifico signore di Padova, p. 827.
181 Ivi, p. 829.
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Livio e, soprattutto, con poeti quali Virgilo ed Orazio!82, Non credo sia un caso che l’umanista ricordi le lettere familiares che il dominus mundi ha scritto a Virgilio ed Orazio: quando scrive la propria lettera, è già stato incoronato magnus poeta ed è anche
già stato insignito del privilegium laurae!83. Dopo aver evidenziato che la nobiltà dei due amici dell’imperatore dipendeva solo dall’ingegno, Petrarca chiarisce anche che Augusto non considerava i due poeti come suoi pari, ma li reputava superiori a lui!84: probabilmente, sostenendo ciò, sta ancora cercando di riportare in equilibrio il suo rapporto con il signore di Padova. Si spinge persino sino a dichiarare che la fama di Augusto dipese dall’amicizia con Virgilio, non dalla fedeltà di tutte le legioni. Trova così il pretesto per ricordare a Francesco da Carrara che la gloria che i literati procurano è immortale, mentre l’aiuto che fornisce l’esercito è effimero!85. Questa precisazione fa emergere ancora una volta il tema della gloria. Diventa chiaro soltanto adesso, però, che il principe non può raggiungere la grandezza a cui aspira
182 Ivi, p. 831. Il termine latino usato da Petrarca per descrivere il circolo di Augusto è sodalitio. In questa descrizione ricorrono con una certa frequenza anche termini quali familia, comitas, familiaritas e familiares, per sottolineare la natura intima ed affettuosa del rapporto esistente tra il principe e gli intellettuali. Petrarca prende come esempio l’amicizia di Augusto con Orazio e Virgilio anche nelle lettera scritta a Roberto d’Angiò, in quella indirizzata a Carlo IV ed in quella rivolta a Urbano V. Come chiarisce Dotti, questi esempi non sono tentativi di adulazione, bensì richiami all’autorità politica, cui l’umanista indica il preciso dovere di proteggere e favorire la cultura umanistica nella speranza che sapere e potere possano convergere nel riproporre l’ethos romano al culmine del suo splendore. Confrontandosi fin dall’inizio con il dato storico dell’affermarsi delle signorie, mentre idealizza la figura del principe sullo sfondo della Roma augustea, Petrarca dà vita al sogno di poter intervenire in concreto nella vita civile: Dotti, Petrarca civile, cit., pp. 192-196. 183 [incoronazione è avvenuta 1’8 aprile del 1341. 184 AI magnifico signore di Padova, p. 831: «Costituirono il suo cerchio anzitutto Marco Tullio Cicerone, e poi Asinio Pollione, Valerio Messala, Pario Geminio, oratori eccellenti; ed anche quegli egregi poeti che furono Virgilio ed Orazio, cui lo stesso Augusto indirizzò lettere familiari che ancora si conservano e che documentano come quel supremo signore del mondo considerasse quei due venuti dalle campagne di Mantova e di Venosa non solo come suoi pari, ma in qualche modo persino a lui superiori, insegnando anche a non arrossire di un amico di rango plebeo fatto nobile dall’intelletto e dalla dottrina». 185 Ivi, p. 833.
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senza circondarsi di uomini di cultura, che lo appoggino e lo sostengano. Anzi, quanto più desidera gloria, tanto più il principe ha bisogno di amici. La lettera può dirsi conclusa!86 con questa riflessione sul rapporto tra potere e sapere in cui Petrarca paragonail signore
di Padova ad Augusto, suggerendo di pensare a se stesso come a Virgilio. Dal momento che l’ottimo principe è chiamato ad essere promotore e difensore della cultura, riaffiorano i temi emersi quando il poeta si chiedeva come ringraziare il signore di Padova per i benefici ricevuti. Il rapporto col principe è ancora descritto come una forma di amicizia, e continua ad essere un’amicizia asimmetrica. Ad essere amico, però, questa volta non è il poeta, ma Augusto: un principe che riconosce immediatamente la superiorità dei letterati. Alla fine della lettera, non vi è traccia dell’im-
barazzo che ha lasciato Petrarca senza parole, anche perché è
stato Augusto stesso a non vergognarsi dei suoi amici poeti. Le
ultime righe del De republica administranda mostrano i principi possono essere amici degli uomini di lettere, e che gli uomini di lettere possono essere amici dei principi. Se Francesco da Carrara seguirà l’esempio dell’imperatore romano che è chiamato ad imitare, Petrarca non avrà più remore: in qualità di literatus e di poeta potrà essere considerato a pieno titolo come uno degli
amici principis.
L'amore con cui sono amati i principi e l'amicizia
Come si è cercato di mostrare analizzando la lettera a Francesco da Carrara, il valore politico dell’amicizia emerge in un contesto tutto interno alla corte, quello del rapporto tra il principe e i cortigiani: si gioca in uno spazio ristretto come quello del consiglio, che non è ancora pubblico e impersonale, ma non è neppure del tutto intimo e privato. Come si vedrà meglio in 186 La lettera finisce con una digressione relativa alla celebrazione dei funerali nella città di Padova (ivi, pp. 833-837), ma a mio parere la vera conclusione è quella in cui Petrarca sostiene che la fama di Francesco da Carrara dipende da quella dei poeti.
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seguito, anche gli autori degli specula che saranno esaminati nella seconda parte del saggio collocano l’amicizia in questo contesto ed in questo spazio, quando indicano al principe quali amici scegliere. La novità dello spazio in cui Petrarca gioca il valore politico dell’amicizia emerge con particolare evidenza se si considera un altro passo della lettera composta per il signore di Padova. Mentre indica al principe quale sia il modo per procurarsi l’amore dei sudditi, Petrarca afferma infatti che: l’altro mezzo efficace a guadagnarsi l’amore dei cittadini è per il principe, oltre l’essere giusto, l’essere benefico; e se non è possibile usare beneficenza verso i singoli, la usi verso i cittadini nel loro complesso; è difficile infatti che si ami una persona dalla quale non si speri qualche bene pubblico o privato. Parlo naturalmente dell’amore col quale sono amati i principi. L'amore degli amici, infatti, è un’altra cosa, nulla chiede e nulla aspetta, del
tutto disinteressato!87,
Questo passo è particolarmente controverso perché in altre parti della lettera, come sì visto, Petrarca suggerisce di pensare alla relazione tra il principe e i sudditi come ad una forma di amicizia. Qui, invece, distingue l’amore con cui sono amati i
principi dall’amore con cui sono amati gli amici. Mette così in luce una caratteristica fondamentale, che di solito si riconosce
alla amicizia: il suo essere una relazione gratuita e disinteressata. S’insinua così il dubbio che il rapporto tra il principe e i sudditi non sia quella relazione gratuita e disinteressata che dovrebbe essere in quanto espressione dell’amor e della caritas, ma sia invece un rapporto basato sulla ricerca dell’interesse e dell’utile personale. Eppure, come si è visto, quando Petrarca sostiene che
il principe deve essere un pater patriae, spiegando al signore di Padova che deve seguire il precetto di Seneca e il comandamento ‘ 187 Ivi, p. 785; corsivo mio. Riporto anche il testo latino: «Illud praeterea ad amorem civium promerendum efficax, si rector populi non iustus modo sed beneficus sit in suos, quod si non possit in singulos, ut saltem in universos: vix est enim qui diligat a quo boni nichil vel pubblice vel privatim speret. De amore illo loquor quo amantur priricipe. Amicorum enim alius quidam amor est sese contentus, nichilque vel postulans vel expectans».
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di Cristo, l’amore che il principe deve cercare di procurarsi per rendere meno precario il suo potere sembra essere una forma di amicizia!88, Poiché nel passo appena citato è anticipata la distinzione tra amore del principe in singulos ed in universos che emergerà più chiaramente quando la caritas sarà identificata con la benevolentia di cui parla Cicerone nel De officiis, occorre seguire la riflessione di Petrarca con particolare attenzione. Per chiarire come sia possibile per i principi essere amati anziché odiati, subito prima di citare il precetto senecano del si vis amari ama, Petrarca precisa che l’amor publicus, cioè l’amore che unisce governante e governati, ha le stesse radici dell’amzor privatus. Lo stesso amore vale, quindi, sia nelle relazioni politiche sia nei rapporti interpersonali. Esso è un amore onesto, gratuito e disinteressato proprio perché è caritas!89. Inoltre, nel passo in cui invita il principe a comportarsi come se fosse il padre dei cittadini, poco prima di citare il Vangelo di Matteo, l’umanista fa una precisazione importante: il principe non deve amare tutti i cittadini quanto i suoi figli, ma deve amare i cittadini come i suoi figli. Specifica, infine, che li
deve amare tutti insieme, perché non può amarli uno per uno. Domandandosi come sia possibile amare molte persone in una sola volta, sfiora uno dei problemi che caratterizzano la riflessione sull’amicizia sin dall’antichità: quanti amici si possono avere? È possibile essere amici di molte persone?!9° Non trova facilmente una risposta perché, quasi senza rendersene conto, deve affrontare un ostacolo pressoché insuperabile. Da una parte, infatti, la radice dell’amore pubblico è la stessa dell'amore privato perché entrambe queste forme di amore sono caritas. Dall’altra, l’amore 188 Ivi, pp. 773-779. 189 Ivi, p. 777. Si noti che è Petrarca stesso ad usare termini quali amor publicus, amor privatus ed amor honestus. 190 Aristotele si chiede quanti amici si possono avere in EN, IX, 1170b 20-1171a 20, pp. 392-395. Anche Plutarco si domanda se si possano avere mali o pochi amici in uno degli opuscoli iscritti nel Corpus delle sue opere, il De amicorum moltitudine: Plutarque, De la pluralité d’amis, in Id., Oeuvres Morales, texte établi et traduit par R. Klaerr, A. Philippon et J. Sirinelli, tome I, part II, Paris, Les Belles Lettres, 1989, 93a-97b, pp. 213-228.
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pubblico, che regna tra il governante ed i governati, anche se è una forma di caritas, non è un rapporto individuale, intimo e personale. Questo amore, infatti, è il legame che unisce un individuo, il principe, alla totalità dei sudditi che costituiscono il corpo politico della respublica; e tale totalità non è concepibile semplicemente come l’insieme o la somma di singoli individui. Petrarca cerca di aggirare l’ostacolo insistendo sulla qualità del sentimento che unisce il principe ai sudditi piuttosto che sulla quantità dei soggetti coinvolti nella relazione. Evidenziando l’intensità di questo amor-caritas, lo colora delle sfumature della iustitia, della
pietas e della magnitudo animi!9!. Si deve altresì considerare che il rapporto tra il principe ed i sudditi è descritto anche come una forma di amicizia: come si è visto nella prima parte del paragrafo, proprio in questo contesto della sua riflessione Petrarca propone l’esempio di Alessandro Severo, indicando le caratteristiche che devono avere gli amici principis!?2. Per mostrare che il rapporto tra il principe e i sudditi non è solo un rapporto d’amore, ma anche, ed allo stesso tempo, un legame di amicizia, credo sia utile considerare un’altra lettera di Petrarca, indirizzata al Gran Siniscalco di Sicilia, che è nota come Institutio regia. Solitamente, questa lettera è accostata a quella scritta quasi vent'anni dopo per il signore di Padova perché è considerata anch’essa uno speculum principis!9. Petrarca esorta l’amico a cui sta scrivendo a diventare la guida politica e spirituale di Luigi di Taranto, nuovo e giovanissimo re di Napoli. Gli ricorda che un buon principe non deve solo venerare Dio, amare la patria, osservare la giustizia, seguire la virtù e fuggire i vizi, 191 AI magnifico signore di Padova, p. 779. 192 Ivi, p. 781. 193 FE. Petrarca, Ad Nîcolaum Azarolum, magnum regni Sicilie senescallum, Institutio regia, in Pètrarque, Lettres familières, Livres XII-XV, notices et notes de U. Dotti; mises en francais par F. La Brasca et A. Segonds, Paris, Les Belles Lettres, 2004, XII, 2, pp. 21-39. D’ora in poi citerò questa edizione semplicemente come Institutio regia. La lettera è datata 20 febbraio 1352 ed è stata scritta ad Avignone. Sull’Institutio regia come speculum principis, oltre al parere di Ferraù (Ferraù, Petrarca e la politica signorile, cit., p. 72), vd. anche il giudizio espresso da Dotti: Dotti, Petrarca civile, cit.,
p. 205.
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ma anche amare i sudditi!?4, Subito dopo aver sottolineato che il principe deve essere amato anziché temuto dai sudditi, Petrarca descrive questo amore come una forma di amicizia. Afferma, infatti, che: Allora pensi di essere felice, di esaudire i propri desideri, di essere veramente re se avrà dissipato le preoccupazioni introdotte dai vizi altrui con la propria virtù, se avrà riparato i danni, se avrà ricostruito le rovine, se
avrà ristabilito la pace, se avrà oppresso la tirannide e restituito la pace; si persuada ad amare coloro su cui governa, infatti si cerca di ottenere l’amore amando e nessun regno è più stabile di quello in cui il re governa su chi vuole essere governato. La famosa opinione di Sallustio sui regni non lasci mai l’animo del tuo re: «non gli eserciti, non i tesori sono i presidi del regno», ma «gli amici», ed essi «non si procurano con armi o con denaro, ma con
fedeltà e lealtà»; ed anche questo segue nella stessa sentenza: bisogna vivere nella concordia perché «per la concordia si accrescono le cose più piccole, per la discordia vanno in rovina quelle più grandi»; il tuo re debba di più a questa sentenza che all’esempio di Menenio Agrippa, in modo da essere un buon fratello, un buon socio, un buon amico e un buon re. Niente abbia più a cuore degli amici dopo Dio e la virtù; non allontani in alcun modo da nessuna decisione chi ha stimato degno della sua amicizia, seguendo sempre il consiglio di Seneca secondo cui «si deve giudicare tutto con l’amico, ma si deve giudicare prima di tutto l’amico»; si fidi molto, ma non di molti; distingua con attenzione il vero amico dal nemico che lo adula; accolga le lodi sincere come stimolo per la virtù, aborrisca le lusinghe come un veleno. Stringa amicizia lentamente, e ancor più lentamente la sciolga e, se è possibile, non la rompa mai; non faccia questo precipitosamente, ma gradualmente, e, come dice l’antico proverbio: «non rompa l’amicizia ma la allenti». Speri che gli altri abbiano la stessa disposizione d’animo che mostra egli stesso, non finga di essere amato da chi non ama: questo è l’errore dei potenti; ma gli affetti sono molto liberi, non sopportano alcun giogo, non conoscono padrone; mai l’amore si ottiene se non con l’amore; l’amore non può essere ottenuto con la forza. Non pensi assolutamente nulla di male dell’amico, non tema niente dall’amico di cui si fida: allontani i sospetti, non dia ascolto ai delatori, biasimi chi lo assilla in modo molto ostinato, e punisca quelli che
non smettono di farlo!95, 194 Institutio regia, pp. 25-27. 195 Ivi, pp. 27-29; corsivo e traduzione mia. Riporto anche il testo Pier «Tunc se felicem, tunc se voti compotem, tunc se vere regem putet quando criminibus alienis invectas miserias propria virtute discusserit, damna restituerit, ruinas erexerit, pacem reformaverit, tyrannidem oppresserit, reddiderit libertatem; inducat in animum amare
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Come si evince da questa lunga citazione, Petrarca non indica ancora Augusto quale modello da imitare, ma sottolinea già che il buon principe è il principe capace di amicizia. Inoltre, quando ricorda che il principe è davvero tale solo se agisce secondo virtù, ripara i torti, ristabilisce la pace, evita la tirannide e restituisce la libertà, cita lo stesso passo di Sallustio che sarà ripreso anche nella Vita civile e in alcuni degli specula che saranno esaminati dopo quest'opera: ron exercitus neque thesauros presidia regni esse,
sed amicos!?. Grazie a questa citazione, il rapporto d’amore che deve esistere tra il principe e i sudditi è identificato con l’amicizia. Non a caso, dopo aver citato il Bellum Iugurthinum, Petrarca
inserisce un breve excursus sull’amicizia, ispirato al Laelius di Cicerone oltre che alle Lettere di Seneca a Lucilio, che è volto a
confutare l’errore di quei potenti che s’illudono di essere amati dai sudditi che fingono di amare. Sono già formulati qui alcuni dei quos regit, nam et amando amor queritur et nullum certius regnum est quam preesse volentibus. Sallustium illud dogma regium numquam exeat ex animo regis tui: “70n exercitus, neque thesauros presidia regni esse” sed “amicos” eosque nec “armis cogi” nec pecunia “parari” sed “officio et fide”, et que in eandem sententiam sequuntur: concorditer vivendum esse cum suis, “concordia” enim “parvas crescere, discordia maximas res dilabi”; exemplo Menenii Agrippe plurimum huic sententia debeat, per quam et frater et socius et amzicus et rex bonus fiat. Amiciis post Deum, post virtutem, nichil carius habeat; quem semel amicitia dignum duxerit, nulla consilia parte submoveat sequensque Senece consilium: “omnia cum amico deliberet, sed de illo prius”; multum fidat sed non multis, et insistat verum amicum a blando hoste discernere, veras laudes accipias ut virtutum stimulum, blanditias horreat ut venenum. Tarde eat in amicitiam, tardius discendat inde discedat et si fieri potest numquam; id ipsum non precipitanter sed pedetentim faciat, et, ut est in antiquo proverbio, “dissuat amicitiam non discindat”. Qualem prestat, talem ab aliis animum speret, nec a quoquam diligi sibi fingat quem ipse non diligit: error iste potentum est; liberrimi autem sunt affectus, ingum non ferunt, dominum non agnoscunt, numquam amor nisi amore cogitur, numquam amore cogitur.
De amico sane nichil mali cogitet, nichil temere cuiquam credat: pellat suspitiones, delatoribus aures neget, pertinacius instantes arguat, non desinentes puniat». 196 Vd. Sallustio, Bellum Iugurthinum, in Id, Opere, a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino, UTET, 1991, X, 3-6, p. 196. Nel passo citato Petrarca si riferisce anche al Laelius: A, XXI, 85, p. 153 ed A, XXI, 76, p. 145. Cita, inoltre, in modo evidente la terza lettera di Seneca a Lucilio: Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, con pref. di C. Carena, Milano, Mondadori, 1995, libro I, lettera III, p. 9. Il precetto senecano del si vis amari ama (ivi, lettera IX, pp. 34-35) non è espressamente citato,
ma può essere ricavato dal concetto espresso quando Petrarca afferma che l’amore si ottiene solo con l’amore.
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topoi sull’amicizia che si troveranno anche nella lettera per Francesco da Carrara: Petrarca afferma che l’amicizia è la cosa più cara al mondo dopo Dio e la virtù; evidenzia che bisogna fidarsi molto del proprio amico, ma non bisogna fidarsi di molti amici; sottolinea che si devono accettare le lodi dei veri amici, anche se si
devono temere gli adulatori; raccomanda di non avere fretta nello stringere e nello sciogliere le amicizie; ricorda che l’amicizia non si può ottenere o imporre con la forza perché è una relazione che ha bisogno di libertà!?7. L’amicizia sembra dunque essere una parola chiave della riflessione di Petrarca sull’ottimo principe, tanto nell’Institutio regia quanto nel De republica administranda. Vi è però una differenza tra le due lettere che mi pare particolarmente rilevante. Nella prima, infatti, Petrarca descrive le caratteristiche dell’amicizia quando riflette sul rapporto d’amore che deve esistere tra il principe e i sudditi, giocando il\valore politico della relazione nello spazio del consenso o, se si vuole usare un termine più sallustiano,
della concordia. Come si è visto, è lo stesso spazio che il De regno di Tommaso ed il De regimine principum di Egidio riservano all’amicizia. Nella seconda lettera, invece, Petrarca descrive le
caratteristiche dell’amicizia mentre riflette sul rapporto che deve unire il principe ai cortigiani, giocando il valore politico della relazione nello spazio del consiglio. Come si vedrà nei prossimi capitoli, è lo spazio in cui si colloca la riflessione sull’amicizia che sarà sviluppata negli specula principum quattrocenteschi che saranno esaminati.
Credo che le perplessità emerse sottolineando ‘la natura controversa del passo della lettera a Francesco da Carrara in cui Petrarca distingue l’amore con cui sono amati i principi dall’amicizia possano essere sciolte almeno in parte. Considerando la differenza appena messa in luce, infatti, è possibile supporre che Petrarca stia già distinguendo gli amici del principe dai sudditi: egli sta parlando dei buoni consiglieri e dei buoni cortigiani, degli
197 Institutio regia, p. 39.
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homines literati che alla fine della sua riflessione arriverà ad identificare con i veri amici del principe. A conferma di questa interpretazione, si può notare che l’accento di Petrarca non cade sulla natura gratuita e disinteressata dell'amore che deve unire il principe ai sudditi, ma sulla natura gratuita e disinteressata dell’amicizia. Inoltre, nel passo in cui contrapporrà i veri amici ai cattivi cortigiani l’umanista insisterà proprio sul fatto che gli amici che Francesco da Carrara dovrà scegliere come consiglieri e funzionari non dovranno avere a cuore le sue ricchezze, ma il suo onore!?8. Si deve infine costatare che dopo aver distinto l’amore con cui sono amati i principi dall’amicizia Petrarca non sembra affatto intenzionato a dimostrare che il rapporto tra il principe e i sudditi sia strumentale, interessato ed
egoistico, perché continua la propria riflessione raccomandando al signore di Padova di essere parsimonioso, sollecito, attento ai bisogni dei sudditi, disponibile a conversare con loro, moderato nell’imporre tasse, sempre clemente e generoso, mai crudele ed avido!9. Sostenendo che è proprio il possesso di queste virtù ciceroniane e senecane a rendere stabile e sicuro il potere del principe, dimostra che tale potere è basato sull'amore e sul consenso dei sudditi. Bisogna altresì notare che quando affronta il tema delle spesa pubblica Petrarca fa coincidere l’utile e l’onesto, partendo da assunti ciceroniani?9 Pertanto, anche se non è un rapporto totalmente gratuito e disinteressato come la vera amicizia, il legame che unisce il governante ai governati non può essere meramente egoistico ed utilitaristico.
Dovrebbere allora essere chiaro che nel De republica administranda l’ambito in cui si gioca il valore politico dell’amicizia non è quello del rapporto tra governante e governati, ma quello del rapporto tra principe e cortigiani. È come se si contraesse
lo spazio politico che è riservato all’amicizia nell’Institutio regia. Sebbene continui a sostenere che il principe debba essere amato da tutti i sudditi colorando il rapporto tra il principe e i sudditi 198 Al magnifico signore di Padova, p. 815. 199 Ivi, pp. 787-806. 200 Ivi, pp. 807-811.
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delle sfumature
dell’amicizia,
Petrarca
riconosce,
infatti, che
possono essere amici del principe solo alcuni sudditi: i viri egregit e i poeti che gli procurano gloria eterna, quei missi di cui si può fidare senza rischiare di perdere potere. Uso volutamente il verbo contrarre perché intendo mostrare che la amicizia passa dallo spazio del consenso allo spazio del consiglio attraverso un movimento continuo, che genera tensione anche perché può essere più o meno accentuato, più o meno consapevole. È possibile percepire questo movimento anche negli specula pricipum che saranno presi in esame nella seconda parte del saggio. Come si comprenderà meglio nel corso dell’analisi, anche Vicini, Pontano e Platina ritengono che non siano veri amici tutti i sudditi che il principe deve amare, ma solo quei sudditi che deve scegliere come consiglieri e collaboratori per la loro virtù e la loro cultura. Inoltre, esaminando il De regno, si vedrà che la vera amicizia sarà proiettata fuori dello spazio del consiglio, e giocherà il proprio valore politico in un ambito diverso da quello interno alla corte: per Patrizi potranno essere veri amici del principe solo altri principi. La contrazione dello spazio politico in cui, dalla riflessione di Petrarca in poi, si giocherà il valore politico dell’amicizia è massima nel Principe. Per questo, come già anticipato nella premessa, quest'opera di Machiavelli costituisce il termine ad quem del percorso delineato in questo saggio.
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Capitolo terzo L’amicizia civile: l’amicizia nella Vita civile di Matteo Palmieri
3.1 Nel segno dell’amicizia: impegno politico e produzione letteraria di Matteo Palmieri
Matteo Palmieri gode di grande notorietà nella Firenze di metà Quattrocento: oltre all'amico Leonardo Dati, anche Vespasiano da Bisticci racconta la vita di questo illustre cittadino fiorentino che, nell’orazione funebre composta da Alamanno Rinuccini, è salutato come «dilettissimo figlio della repubblica»!. La fama che circonda Palmieri non deriva solo dall’impegno con cui si è dedicato alla vita politica, o dal successo delle opere che ha scritto: è soprattutto la sua straordinaria eloquenza a renderlo così conosciuto tra i fiorentini del tempo. Palmieri è molto famoso anche per le sue grandi qualità morali: i concittadini lo considerano un uomo onesto, saggio, altruista, integerrimo e incorruttibile; vedono in lui un vero e proprio modello di vita. E forse è anche per questo motivo che, quando sarà un uomo politico di primo
1 La biografia scritta da Leonardo Dati, un personaggio di primo piano dell’epoca, vescovo di Massa dal 1466, molto legato alla corte papale, soprattutto a Paolo II e a Leon Battista Alberti, è stata pubblicata per la prima volta in A.M. Brandini, Catalogus codicum manuscriptorum Bibliothecae Medicae Laurentianae, Firenze, ex tipis Caesareis, 1774-1778; è ora leggibile in traduzione italiana come appendice del saggio di Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit. Per l’orazione In funere Mathei Palmieri (15 aprile 1475): A. Rinuccini, Lettere e orazioni, a cura di V.R. Giustiniani, Firenze, Olschki, 1953, pp. 78-85, in particolare p. 78. Inoltre: V. da Bisticci, La vita di Matteo Palmieri fiorentino, in Le vite di uomini illustri del secolo XV, Firenze, Olschki, 1970, vol. I, pp. 563-567.
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piano, sarà scelto come interlocutore nel De miseria bumanae conditionis?, il dialogo composto nel 1455 da Poggio Bracciolini.
Eloquenza e virtù morali: usando le parole di una celebre definizione di Cicerone, si potrebbe dire che Palmieri è un orator, cioè un vir bonus dicendi peritus. Un accenno alla vita di Palmieri? può essere utile per comprendere meglio il pensiero di questo cittadino fiorentino che, nonostante fosse così famoso nel Quattrocento, è poco noto ai giorni
nostri. Palmieri non ha solo esaltato il valore teorico della vita activa nella sua opera più importante e più conosciuta, la Vita
civile, ma è stato anche uno dei protagonisti della vita politica di Firenze. Le sue riflessioni sul vivere civile sono strettamente
connesse al contesto storico-politico in cui ha ricoperto alcune importanti cariche istituzionali. Come si vedrà meglio in seguito, anche il valore politico attribuito all'amicizia nella Vita civile si radica in concrete esperienze di vita dell’autore. Palmieri nasce nel gennaio del 1406, lo stesso anno in cui muore Salutati. Non si sa con certezza se appartenesse ad una famiglia
di umili origini, come induce a credere la biografia di Vespasiano da Bisticci, oppure ad una ricca famiglia della borghesia fiorentina, come lascia supporre l’orazione funebre pronunciata da Alamanno Rinuccini. Sicuramente non era membro di una delle grandi famiglie patrizie: come hanno mostrato gli studi più recenti, i Palmieri sono giunti a Firenze, dove diventano membri dell'Arte dei Medici e degli Speziali, dal Mugello alla fine degli anni Settanta del Trecento. Raggiungono presto una posizione di
primo piano, ottenendo alcune delle più prestigiose cariche politiche: Francesco Palmieri siede tre volte tra i Priori e due volte tra
2 P. Bracciolini, De miseria humanae conditionis (1455), in Id., Opera Omnia, a cura di R. Fubini, Torino, La bottega di Erasmo, 1964-1969, pp. 88-131. Palmieri è parente per parte di madre di Bracciolini: vd. Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, cit., pp. 10-12. 3 Per la ricostruzione della vita di Palmieri non mi sono avvalsa solo del saggio di Finzi citato nella nota precedente (ivi, pp. 1-62), ma anche del più recente e più documentato studio di Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit.
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i Dodici Bonomini, una volta tra i Gonfalonieri di Compagnia, ed è scelto come Podestà di Prato e Capitano di Volterra4. La fortuna politica della famiglia non viene scalfita quando Cosimo è esiliato da Firenze5. Ed è ereditata dall’autore della Vita civile: per potersi dedicare totalmente agli uffici pubblici, verso la fine degli anni Quaranta, Palmieri dà in gestione ai nipoti la bottega affidatagli dal padre. Non ha, infatti, avuto figli dal matrimonio con una donna della famiglia dei Serragli, sposata nel 1433. Sebbene sia
4 A. Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit, pp. 22 sgg. Come spiega Mita Ferraro, dopo la grande riforma del 1328, l’accesso alle cariche era regolato da norme molto complesse: prima era necessaria la qualificazione dei candidati alla cariche, poi si passava al sorteggio. Stilavano tre liste diverse di cittadini in possesso dei requisiti adatti a ricoprire le cariche tre commissioni elettorali separate: la Signoria in carica, ampliata di circa trenta cittadini, scelti dalla Signoria stessa, che erano detti arroti; iCapitani di parte Guelfa con i loro arroti, i Cinque Cancellieri della Mercanzia, ossia i rappresentanti delle corporazioni. Riunite le tre liste, se si era presenti anche in una sola di esse, si aveva diritto ad accedere al sorteggio o squittinio. Un’assemblea composta da quasi un centinaio di persone tra imembri della Signoria e i suoi arroti, i Collegi e i due rappresentanti di ciascuna delle dodici Arti, esprimeva la propria preferenza, votando sui nomi. Per avere il proprio nome iscritto in una polizza inserita nelle borse era necessario il consenso di due terzi dell'assemblea. Secondo lo statuto del 1415, lo squittinio doveva avvenire ogni cinque anni. Quando una carica diventava vacante, si procedeva con la tratta, ossia con l’estrazione dalle borse dei nomi dei cittadini qualificati agli uffici. Essi potevano entrare in carica solo se non sussisteva alcun impedimento causato dall’età (per ricoprire qualsiasi carica si dovevano avere più di 25 anni, per essere tra i Dodici, gli Otto di Guardia, i Priori, i Capitani, i Podestà e i Vicari si dovevano avere più di 30 anni, per essere Gonfaloniere di Giustizia si dovevano avere più di 45 anni), da eventuali debiti col fisco, da legami di parentela con altri detentori di uffici, dall’intervallo di tempo intercorso tra una carica e l’altra. Non venivano sorteggiati, ma eletti, gli Otto di Guardia, i Dieci di Balia, gli Ufficiali del Monte, gli ambasciatori e il personale diplomatico, il Podestà e il Capitano (entrambi forestieri). Le cariche più importanti erano quelle dei Tre Maggiori, che riguardavano la Signoria: gli Otto Priori, il Gonfaloniere di Giustizia, e iDue Collegi composti dai Sedici Gonfalonieri di Compagnia e dai Dodici Bonomini. Lo scrutinio per questi uffici, generalmente, si teneva in tempi diversi da quelli in cui si procedeva allo scrutinio per gli uffici intrinseci ed estrinseci, che si occupavano dell’amministrazione interna e di quella territoriale. 5 Cosimo è mandato in esilio da una Balìa composta da 250 membri, eletta dal Parlamento il 9 settembre del 1433. La Balia è un Consiglio straordinario, che viene eletto dall’Assemblea del Popolo riunito in piazza, il cosiddetto Parlamento, oppure dagli stessi Consigli statuari cui subentra per fronteggiare rivolgimenti politici o periodi di particolare difficoltà. Mi sembra rilevante ricordare che la Balìa che esilia Cosimo era composta anche da uomini che non erano legati né a i Medici né agli Albizzi, come lo zio dell’autore della Vita civile.
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difficile fornire una stima precisa dei benefici ricavati dal coinvolgimento nella vita politica fiorentina, pare che Palmieri abbia avuto molti vantaggi economici, se non altro perché è stato anche membro delle commissioni di imposta introdotte dai Medici in seguito all’abolizione del catasto?. Come molti altri uomini politici dell’epoca, Palmieri è stato educato agli studia humanitatis. È lo stesso umanista a parlare della propria formazione: negli Annales dichiara di aver studiato retorica con Giovanni Sozomeno. Secondo quanto si legge nella Vita che gli ha dedicato Vespasiano da Bisticci, il sacerdote pistoiese è stato maestro anche di Pandolfo Pandolfini, Bartolomeo
di Palla Strozzi, Francesco Vettori ed «altri dei principali della città»7. Palmieri impara la lingua latina grazie a Carlo Marsuppini, umanista e celebre cancelliere di Firenze, di cui si definisce discepolo e per cui pronuncia l’orazione funebre nel 1453. Ad insegnare la lingua greca a Palmieri è Ambrogio Traversari, il generale dell’ordine dei monaci camaldolesi che è l’anima delle riunioni tenute nel chiostro di Santa Maria degli Angeli tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta del Quattrocento®. Queste riunioni, in cui si diffonde il culto degli studia bumanitatis 6 È possibile tentare una valutazione perché Palmieri ha scritto anche un libro di ricordi fiscali: M. Palmieri, Ricordi fiscali (1424-1474), a cura di E. Conti, Roma, Isti-
i tuto storico italiano per il Medioevo, 1988. 7 V. da Bisticci, La vita di meser Zembino Pistoiese, in Le vite di uomini illustri del secolo XV, cit., p. 561. Sull’attività del sacerdote pistoiese come maestro vd. L. Cesarini Martinelli, Sozomeno maestro e filologo, in «Interpretes», XI, 1991, pp. 7-92. Nella Vita civile, Pandolfini riporta un rimprovero di Sozomeno, «maestro del fiore della fiorentina gioventù»: M. Palmieri, Vita civile, ed. critica a cura di G. Belloni, Firenze, Sansoni, 1982, p. 37. D’ora in poi citerò l’opera semplicemente come Voc. 8 Su Ambrogio Traversari vd. Ch.L. Stinger, Ambrogio Traversari and the «Tempio degli scolari» at S. Maria degli Angeli in Florence, in S. Bertelli e G. Ramakus (a cura di), Essays Presented to M.P. Gilmore, Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. I, pp. 271-286, ma anche C. Vasoli, La cultura fiorentina al tempo di Traversari, in G.C. Garfagnini, Ambrogio Traversari nel sesto centenario della nascita, Convegno Internazionale di Studi, Camaldoli-Firenze, 15-18 settembre 1986, Firenze, Olschki, 1989, pp. 69-93. Si noti che a Traversari (e a Piccoli) si deve anche la raccolta e la traduzione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio che, come si è visto analizzando i libri della Famiglia di Alberti, e come si vedrà meglio analizzando lo speculum di Patrizi, è una fonte importante per la riflessione quattrocentesca sull’amicizia.
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e si rinnova il messaggio politico di Salutati, hanno un’importanza pari agli incontri organizzati nel convento agostiniano di Santo Spirito ai quali aveva partecipato la prima generazione di umanisti fiorentini. Nello scriptorium camaldolese, sotto la guida di Traversari, non si ritrovano solo degli umanisti che si erano formati alla scuola di Salutati e Crisolora come Niccolò Niccoli, Leonardo Bruni, Palla Strozzi e Poggio Bracciolini, ma anche degli esponenti della famiglia dei Medici ed alcuni artisti, tra cui Beato
Angelico, Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. Prendono parte alle riunioni anche alcuni amici di Palmieri: Giannozzo Manetti, Leonardo Dati, Alamanno Rinuccini, Neri di Gino Capponi, Adovardo Acciaioli, Luigi Guicciardini, Franco Sacchetti e Paolo
del Pozzo Toscanelli. Scopritore delle Vite di Attico e Catone di Cornelio Nepote, di trentanove omelie di Origene tradotte da San Girolamo e del Chronicon di Eusebio di Cesarea, favorevole
all’unità della Chiesa latina e di quella greca, Traversari influenza soprattutto la terza generazione degli umanisti fiorentini.
Palmieri completa la propria formazione nello Studium fiorentino. Come sottolinea Mita Ferraro richiamandosi alle ricerche di Fubini, Viti e Vasoli gli orientamenti culturali e politici di questa istituzione non devono più essere considerati opposti a quelli diffusi nei circoli privati o nelle riunioni del chiostro di Santa Maria degli Angeli?. Negli anni in cui Palmieri frequenta lo Studio, Marsuppini insegna retorica, poetica, filosofia e lingua greca, mentre Filelfo tiene delle «lezioni straordinarie» sul Bellum Iugurthinum di Sallustio e sul De civitate Dei di Agostino, e dei corsi sulle Tusculanae ed i Rethorica di Cicerone, a cui partecipano più di duecento giovani appartenenti all’oligarchia cittadina. Non sono meno affollate le sue letture pubbliche della Commedia di Dante, che si tengono in Santa Maria del Fiore. È assai probabile che le abbia ascoltate anche Palmieri. Inoltre, sembra lecito supporre che il corso di filosofia morale sull’Etica Nicomachea, iniziato da Filelfo il 30 dicembre del 1431, abbia esercitato una certa influenza sulle riflessioni sviluppate nella 9 Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., pp. 59 sgg.
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Vita civile. Palmieri non ricorda Filelfo tra i suoi maestri, ma il
suo silenzio può essere facilmente spiegato: Filelfo è sempre stato schierato a fianco della famiglia Albizzi; spodestato da Marsuppini nello Studio, e costretto a riparare a Siena subito dopo il ritorno di Cosimo de’ Medici dall’esilio, si è opposto con forza al regime che l’autore della Vita civile ha sostenuto durante tutta la sua carriera politica.
Diversamente da altri umanisti che hanno ricevuto la stessa educazione, Palmieri non conosce la lingua greca così bene da non aver bisogno di traduzioni né si impegna nella ricerca di codici perduti, trasformando la passione per la cultura classica in erudizione filologica. Per comporre le sue opere, ricchissime di citazioni di autori greci, si avvale di traduzioni latine. In particolare, quando cita Aristotele, utilizza la traduzione dell’Etica Nicomachea (1416-1417) e della Politica (terminata nel 1439,
ma iniziata già nel 1435) di Leonardo Bruni!0. Mentre i primi scritti di Palmieri sono influenzati soprattutto da Aristotele, Cicerone, Quintiliano e Sallustio, gli ultimi scritti sono caratterizzati
dall’emergere di un sentimento religioso, che è coniugato insieme alla sapienza antica secondo l’insegnamento di Traversari. Palmieri non è un letterato ma un politico. Quando si affaccia sulla scena politica, la città di Firenze, guidata da un’alleanza di casati cittadini raccoltisi intorno agli Albizzi sin dalla fine del Trecento, è divisa da una forte faziosità!!. Il conflitto è esacerbato 10 Sulle traduzioni di Leonardo Bruni, oltre a L. Bruni, Humanistische-philosophi-
sche Schriften, a cura di H. Baron, Wiesbaden, Sandig, 1969 (prima ed. Berlino-Lipsia 1928) ed al già ricordato Garin, Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo XV,
cit., vd. E. Franceschini, Leonardo Bruni e il «vetus interpres» dell’Etica a Nicomaco, in AA.VV., Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 297-319. Come sottolinea Finzi, la conoscenza delle traduzioni bruniane è attestata dalle Sententiae ad civilitatem, una raccolta di massime riportate negli Anrales di Palmieri. Alcune delle sententiae riguardano proprio l’amicizia: Palmieri cita EN, " VII, 1, 1155 nella traduzione latina fatta da Bruni. 11 Per una ricostruzione più dettagliata della situazione politica di Firenze vd. G. Brucker, The Civic World of Early Renaissance Florence, Princeton NJ, Princeton UP, 1977; trad. it. Dal comune alla Signoria. La vita pubblica a Firenze nel primo Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1977 e G. Guidi, Il governo della città-repubblica di Firenze del primo Quattrocento, Firenze, Olschki, 1981. .
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da una distribuzione diseguale della ricchezza, che fa sì che vi sia un’esigua minoranza di cittadini ricchissimi, una classe media poco numerosa che ha entrate modeste, ed una maggioranza di residenti poveri. Inoltre, la struttura socioeconomica della città è sconvolta da un diffuso processo di impoverimento dovuto a due diversi fattori: la pesante tassazione imposta per sostenere i costi delle guerre che permettono a Firenze di allargare la propria influenza sul territorio regionale; il minor rendimento delle attività commerciali rispetto alle attività bancarie, concentrate nelle mani di pochissime famiglie. Come emerge dall’esame delle Tratte e dall’analisi dei registri delle Consulte e delle Pratiche, le discordie civili raggiungono un livore mai visto verso il 1426, quando gli aristocratici si oppongono alla «gente nuova» ed ai «meccanici», ossia ai membri del Consiglio del Popolo, cittadini di basso ceto sociale e modesta condizione, contrari all’introduzione di sgravi fiscali anche perché esentati dal pagamento delle tasse. Nel 1429 la situazione diventa così tesa che è creata la magistratura dei Conservatori delle Leggi, che ha il compito di vigilare su coloro che non avevano prestato fede al giuramento di pace e l’incarico di escludere dal governo i funzionari che avevano partecipato a compagnie segrete. Alla fine dell’anno inizia anche la sfortunata campagna contro Lucca, che ha costi insostenibili per la città, e dura sino al 1433 (pace di Ferrara)!2. La carriera politica di Palmieri non è seconda a quella dei giovani delle grandi famiglie patrizie. Il primo ufficio pubblico risale al 1432: Palmieri è uno degli Otto Sindaci del Podestà
12 Firenze è quasi sempre in guerra. Ecco alcuni degli avvenimenti bellici più rilevanti: conclusa una pace con Milano a fianco di Venezia e del Papa, nel 1435 Firenze accetta la richiesta di aiuto di Genova, liberatasi dal dominio visconteo, e si impegna nella difesa di Pietrasanta, assalita dalle truppe Milanesi; lo stesso anno comincia la conquista di Lucca, voluta da Cosimo per emulare la presa di Pisa realizzata dagli Albizzi; nel 1440 l’esercito Milanese è sconfitto ad Anghiari; nel 1441 c’è la pace di Cremona che Milano stringe con Firenze, Venezia e Genova; nel 1445-1446 Firenze soccorre Bologna, minacciata da Filippo Maria Visconti, ed i domini delle Marche; poco dopo la morte di Filippo Maria Visconti (1447) inizia la guerra con Alfonso d'Aragona, che impegna Palmieri in importanti missioni diplomatiche: Firenze è alleata con Milano contro Napoli e Venezia.
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che entrano in carica l’ultimo giorno di servizio del Sindaco per vagliare il suo operato. L’anno dopo è eletto tra i Sette Ufficiali di Torre per il quartiere di San Giovanni, per occuparsi del demanio, degli uffici pubblici e delle imposizioni dirette. Il 1433 è un anno cruciale per Firenze, perché è l’anno in cui Cosimo de? Medici è bandito dalla città. Eletta la Signoria che entra in carica il primo settembre del 1434, la situazione politica si rovescia all’improvviso: si forma un consiglio speciale con pieni poteri e una Balìa composta da 385 membri, tra cui vi è lo stesso Palmieri/3,
richiama Cosimo dall’esilio, mettendo al bando Rinaldo degli Albizzi e altri membri della sua famiglia, ma anche alcuni cittadini che l’avevano sostenuta, tra cui vanno menzionati almeno Palla, Noefri e Matteo Strozzi.
La carriera politica di Palmieri prosegue nel 1437, l’anno in cui l’umanista è eletto Gonfaloniere di Compagnia. Ha solo 31 anni. Da questo momento in poi l’umanista ricopirà incarichi molto diversi tra loro, senza più interruzioni. Ne indico solo alcuni, che mi sembrano particolarmente significativi. Nel 1440, l’anno dopo che il Concilio è stato trasferito da Ferrara a Firenze su pressione di Cosimo de’ Medici, oltre ad essere nuovamente Gonfaloniere di Compagnia, Palmieri è tra i cinque Ufficiali del Monte, che amministrano l’insieme dei debiti fruttiferi assicurati
dal Comune, e tra gli Sgravatori, che si occupano della diminuzione delle imposte. Nel 1441 è uno dei cinque Ufficiali dello Studio fiorentino che nominano i lettori, i dottori e i maestri
responsabili dell’educazione scolastica. Tra i Dodici Bonomini
13 La Balìa, istituita dal Parlamento il 18 settembre 1434, rimane in carica sino a dicembre. Sono le relazioni sviluppate in seguito con la famiglia dei Medici a far ipotizzare che Palmieri abbia votato a favore per il ritorno di Cosimo, non essendo possibile documentare l’adesione al partito mediceo sin dall’inizio della sua carriera politica. Per un quadro dettagliato della situazione politica di Firenze ai tempi della Balìa; vd. N. Rubinstein, The Government of Florence under the Medici (1434 to 1494), London, Oxford UP, 1997 (19661); trad. it. Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), Firenze, La Nuova Italia, 1999 (19711), in particolare cap. I: pp. 1-39. Per le modifiche all’assetto istituzionale della città, attuate attraverso un sistema di controlli elettorali sempre più stretti oltre che mediante la strumentalizzazione degli scrutini da parte di Cosimo de’ Medici: ivi, cap. II, pp. 71-90.
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nel 1443, nel 1444, oltre ad essere uno dei 250 membri della
Balìa istituita dal regime mediceo per ridurre gli eleggibili alla Signoria e promulgare il confino per i fuoriusciti del 1434, Palmieri è Ufficiale della Torre, Ufficiale Impositore e Segretario dello Scrutinio. Capitano di Livorno nel 1445, nel 1446 è ancora Ufficiale del Monte. Nel 1447 è Conservatore delle Leggi. Proprio in questi anni inizia a partecipare alle sedute delle Consulte, che sono diventate la sede deputata all’effettivo esercizio del potere. Nel 1448 è Impositore di nuovi balzelli e gravezze. Nel 1449 è tra gli Approvatori degli Statuti delle Arti e poi tra gli Otto di Guardia, i sei rappresentanti delle arti maggiori e i due rappresentanti delle arti minori incaricati di procedere contro i nemici politici per difendere la sicurezza della città. Nel 1550 è tra gli Ufficiali delle Esazioni. Secondo Finzi, la Vita civile!* è composta nei tre anni in cui Palmieri non ebbe cariche, tra il 1434 e.il 1437, in un arco di tempo non molto diverso da quello precedentemente suggerito da Baron!5. Mentre questi due studiosi concordano sulla datazione dell’opera, hanno una interpretazione discordante del pensiero dell’autore: per Baron, Palmieri è il campione dell’Umanesimo
14 La Vita civile circola manoscritta nel Quattrocento: per i codici dell’opera si veda l’Introduzione di Belloni in Palmieri, Vita civile, cit., pp. HLXXXV. Nel XV secolo è stampata due volte: oltre all’edizione fiorentina fatta dai fratelli Giunta nel 1529, vi è un’edizione anonima, forse leggermente posteriore. Esiste anche un’edizione francese, pubblicata a Parigi nel 1559: si intitola La vie civile de Maistre Mathieu Palmier, è tradotta da C. de Roisiers e curata da C. Gruguet. Nella prima metà del Cinquecento l’opera è conosciuta anche in Inghilterra ed ha una qualche influenza su The Book Named The Governor di Sir Thomas Elyot (Londra, 1531): vd. E. Garin L’educazione in Europa 1400-1600. Problemi e Programmi, Bari, Laterza, 1966, p. 54. Nel secolo
scorso, prima dell’edizione critica cui si fa riferimento, vi è stata anche l’edizione curata da Battaglia nel 1942, a cui ho accennato nel secondo capitolo, che riporta anche il De optimo cive di Platina. 15 Cfr. Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, cit., p. 40 e Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano: Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e tirannide, cit., pp. 356-357 e pp. 366-367. Per una discussione critica delle tesi storiografiche di Baron vd. J. Hankins, The «Baron Thesis» after Forty Years and some Recent Studies of Leonardo Bruni, in «Journal of the History of Ideas», XLVI, 1995, pp. 309-338. Per un quadro più generale: Id. (ed. by), Renaissance _ Civic Humanism. Reappraisals and Reflections, Cambridge, Cambridge UP, 2000.
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civile ed è un repubblicano; per Finzi, è un cittadino fiorentino schierato con il partito filo-mediceo, che avrebbe scritto la Vita civile per dar voce alla speranza di vedere finire le lotte e gli odi tra le fazioni grazie al governo dei Medici!5. Scioglie ogni dubbio l’analisi di Mita Ferraro che, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, suggerisce anche di anticipare la data di composizione della Vita civile ai primi anni Trenta del Quattrocento!7. Secondo quanto sostenuto dalla studiosa attraverso un’attenta ricostruzione della carriere politica di Palmieri, la sua appartenenza al reggimento mediceo è indiscutibile, ma diventa palese solamente nei primi anni Quaranta: non solo perché Palmieri sarà presente alle Balfe e alle consulte cui i Medici ricorreranno sempre più spesso per eludere le votazioni dei consigli ordinari, ma anche perché egli sottoscriverà la petizione del maggio del 1449 ed inizierà a ricoprire la carica di Accoppiatore.
Tra le Balìe cui partecipa Palmieri è particolarmente importante quella del 1444: in qualità di Segretario dello Scrutinio, egli deve inserire nelle borse i biglietti con i nomi dei cittadini precedentemente selezionati come eleggibili per ricoprire una carica. Si tratta di un compito molto delicato, che può essere svolto solo da un uomo di fiducia dei Medici, vicino al governo. Dà prova della sua fedeltà ai Medici anche nel 1449, essendo uno dei sessanta-
quattro firmatari della petizione con cui i sostenitori di Cosimo si oppongono alla chiusura delle borse. È un momento molto delicato della vita politica di Firenze, perché i partigiani dei Medici non riescono a convincere i concittadini della necessità di preservare i controlli elettorali che hanno garantito la sopravvivenza del regime. La Balìa creata nel marzo del 1449 rifiuta addirittura di prorogare i poteri degli Accoppiatori, portando così alla chiusura delle borse.
16 Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, cit., pp. 160-162: la Vita civile è il «manuale» e il «manifesto» del governo di Cosimo. 17 Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., pp. 69-90, in cui è ricostruita l’attività politica di Palmieri sino al 1450.
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Gli Accoppiatori sono un’istituzione fondamentale per l’evoluzione di Firenze verso il principato oltre che per il consolidamento del potere dei Medici. A loro era da tempo affidato l’incarico di scegliere direttamente (a mano) gli individui adatti a ricoprire le cariche più alte dello stato, di fatto non più estratte a sorte come avrebbe voluto la tradizione repubblicana. Il potere degli Accoppiatori aumenta già nell’ultimo decennio del Trecento, quando il patriziato cittadino degli Albizzi cerca di garantire un controllo oligarchico del sistema di governo. Tuttavia, è solo con l’affermarsi del potere mediceo che gli Accoppiatori diventano lo strumento politico con cui si controllano complessi meccanismi elettorali. Attraverso gli Accoppiatori, infatti, i Medici evitano che abbiano accesso alle cariche più importanti i nemici e gli oppositori politici, e riescono, quindi, ad attribuire gli uffici più strategici ad amici, sostenitori e uomini di fiducia. Come nota Rubinstein, anche grazie agli Accoppiatori, i Medici rafforzano il loro potere in modo graduale e sperimentale, senza compromettersi ed esporsi troppo!8. In uno studio sulle trasformazioni del linguaggio della politica, Viroli utilizza il termine politics of friendship proprio per chiarire come i Medici riescano a mantenere il controllo del governo e dei centri di potere attraverso uomini di fiducia, clienti e patroni!?. 18 N. Rubinstein, Gli Accoppiatori, in Id., Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), cit., pp.41-70: gli Accoppiatori restano in carica dal novembre del 1434 al settembre del 1441, sette anni in cui i Signori sono eletti a mano, anziché estratti a sorte,
con le borse aperte anziché chiuse, quindi in modo diverso dalla prassi costituzionale. Le borse sono chiuse dal gennaio del 1441 all’ottobre del 1443, ma nuovi Accoppiatori hanno l’incarico di eleggere a mano, per tre anni, il Gonfaloniere di Giustizia e i tre Priori del borsellino, restano in carica sino al 1449, l’anno in cui è ripristinato il tradizionale sorteggio della Signoria. Gli Accoppiatori riprendono le loro funzioni dal 1452 al 1455 e poi dal 1458 al 1494. Sul ruolo di Palmieri come Accoppiatore: ivi, pp. 36, 166, 186, 191. Non deve stupire che Palmieri detenga la stessa carica più volte, perché il ruolo di Accoppiatore è svolto da un ristretto numero di cittadini che di fatto ne detengono il monopolio. Per un’analisi più approfondita dei modi e dei tempi con cui si consolida il potere mediceo nella seconda metà del Quattrocento vd. anche N. Rubinstein, Le istituzioni del regime mediceo da Lorenzo il Magnifico agli inizi del principato, in Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienza e arti nella Firenze dei Medici, cit., pp. 29-45. 19 M. Viroli, From Politics to Reason of State: the Acquisition and Transformation of the Language of Politics (1250-1600), Cambridge, Cambridge UP, 1992, in parti-
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Prima di firmare la petizione, insieme ad altri sostenitori dei Medici, Palmieri difende pubblicamente le prerogative degli Accoppiatori: si dichiara contrario alla proposta di reintrodurre il metodo tradizionale del sorteggio delle cariche in nome della sicurezza del popolo e della stabilità del governo?0. Sicurezza del popolo e stabilità del governo non sono solo le parole d’ordine della lotta politica di Palmieri a sostegno dei Medici, ma anche, come si vedrà meglio in seguito, i termini chiave della riflessione che sviluppa nella Vita civile per proporre un ideale di ordine e concordia, pace e unità. Sebbene non si possa considerare la Vita civile come il manifesto politico di Palmieri, vi è continuità tra la riflessione teorica sviluppata negli anni in cui non è ancora un uomo di fiducia dei Medici e la successiva attività politica. Inoltre, come si vedrà nei prossimi paragrafi, lo spazio politico che Palmieri riserva all’amicizia è delimitato dalle idee di ordine e concordia che sono elaborate nella Vita civile. La carriera politica di Palmieri raggiunge l’apice negli anni Cinquanta,
quando
inizia ad essere impegnato
in importanti
missioni diplomatiche che saranno sempre più frequenti: il fiorentino tratterà con i papi, il re di Napoli e i duchi di Milano per conto di Cosimo, di Piero e di Lorenzo de’ Medici2!. Queste missioni non gli impediranno di essere Gonfaloniere di Giustizia, ricoprendo la carica suprema della Repubblica fiorentina a soli 57 anni, nel 1453. Negli anni successivi siederà nuovamente tra colare pp. 92-96. Mi riferisco a questa edizione perché nella traduzione (Dalla politica alla ragion di stato: la scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma, Donzelli, 1994) non compare il termine «politica dell'amicizia». Anche i saggi di Rubinstein più volte citati insistono sul ruolo svolto dagli «amici» di Cosimo e di Lorenzo per il consolidamento del potere dei Medici a Firenze. 20 Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), cit., pp. 35-36. Queste sono le parole con cui Palmieri si oppone alla chiusura delle borse: «Nec dubium esse securius fore marsupia esse aperta quam clausa. Et quamvis videatur magis populare ut claudantur, tandem illi popularitati securitatem anteponendam». Oltre a Palmieri, firmano il patto per la conservazione del «presente reggimento» e la difesa di tutti i suoi «fautori, amici e seguaci», nove dei venti Accoppiatori in carica (Ibid.). 21 Per una ricostruzione più precisa degli eventi vd. Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., pp. 90-116, dove viene ricostruita l’attività politica di Palmieri dal 1450 sino alla morte. . i
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i Bonomini, gli Otto di Guardia e i Conservatori delle Leggi. Nel 1458 sarà Accoppiatore insieme ad Alessandro degli Alessandri, l’amico cui aveva dedicato la Vita civile, e Luigi Guicciardini, uno dei protagonisti dell’opera scritta più di dieci anni prima. Essi sono impegnati a rafforzare il potere dei Medici in un anno cruciale per Firenze, in cui si crea una Balìa favorevole al potere dei Pitti. Matteo Palmieri, Alessandro degli Alessandri e Luigi Guicciardini trasformano la loro amicizia in impegno politico anche nel 1465, quando il Gonfaloniere di Giustizia Niccolò Soderini tenterà di attuare una riforma dell’assetto politico e costituzionale di Firenze, approfittando della morte di Cosimo e del conseguente passaggio del potere nelle mani di Piero de’ Medici. Si unisce a loro un altro personaggio della Vita civile: Franco Sacchetti, amico e compagno di studi di Palmieri. Sono tutti favorevoli al rinnovamento dei poteri speciali attribuiti agli Otto di Guardia, cui si oppongono, invece, i nemici di Piero de’ Medici. Quando è messa in discussione l’idea di tornare ad estrarre tutti gli uffici ed è presa in esame la proposta di introdurre un nuovo scrutinio per distruggere il sistema elettorale che aveva sostenuto il potere dei Medici, Palmieri difende lo status quo, sottolineando con forza la necessità di preservare la concordia civica e di evitare il periculum tempestatis?2. Anche quando sarà evidente che l’ordine instaurato dai Medici si mantiene attraverso il controllo e l’uso strumentale del sistema elettorale, questi continuerà a credere che la stabilità del governo debba essere preferita alla lotta tra le fazioni. Con la morte di Cosimo, la fortuna politica di Palmieri cresce: amico di Piero de’ Medici, cui dedica anche una delle sue opere,
l’umanista diventa così di Lorenzo de’ Medici due si sono scambiati. incarichi di primissimo grazie alla presenza dei
importante da poter influenzare il giudizio sulle questioni trattate nelle lettere che i Negli ultimi anni della sua vita svolgerà piano: piegata l’opposizione di Soderini, soldati (pagati da Piero) mandati in piazza
22 Gli interventi di Palmieri nelle Consulte del 1465 sono riportati sia da Finzi (Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla città di Vita, cit., pp. 44-51) sia da Mita Ferraro (Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., pp. 127-132).
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della Signoria, una volta esiliati i firmatari del patto antimediceo del 27 maggio del 1469, Palmieri sarà inviato a Bologna e Milano per annunciare la fine della crisi politica e rafforzare la fedeltà degli alleati del nuovo governo. Oltre ad essere membro della Balìa voluta da Lorenzo per consolidare il proprio potere, nel 1470 Palmieri sarà ancora una volta tra gli Accoppiatori. Morirà nel 1474, senza poter portare a termine l’ultimo mandato ricevuto come membro degli Otto di Custodia. La sua morte è celebrata con pubbliche esequie in San Pier Maggiore, un onore che sino ad allora è stato concesso solo a tre Cancellieri: Salutati, Bruni e Marsuppini.
Mentre l’impegno politico di Palmieri è costante e coerente, la produzione letteraria dell’umanista non è continua né omogenea. Oltre alla Vita civile, l’unica opera propriamente politica che Palmieri scrive è il Protesto?3. Si tratta dell’orazione sulla giustizia pronunciata, come di consueto, entrando in carica come Gonfa-
loniere di Compagnia. Sebbene non sia un’opera storica, e sia scritta in latino, può essere accostata alla Vita civile anche la Vita di Niccolò Acciaioli: è la biografia di un fiorentino che incarna l’ideale del perfetto cittadino?4. Niccolò Acciaioli, il Gran Siniscalco del Regno di Sicilia cui Petrarca aveva indirizzato l’Irstitutio regia, è un illustre antenato di quell’Adovardo Acciaioli che è stato Gonfaloniere di Compagnia insieme a Palmieri. Pertanto, è assai probabile che la biografia sia stata ideata nel 1437, e scritta negli anni immediatamente successivi.
Prima che Palmieri componga altre opere passano circa dieci anni, che come si è visto sono densissimi di impegni politici. Sia 23 G. Belloni, Il Protesto di Matteo Palmieri, in «Studi e problemi di critica testuale», XVI, 1978, pp. 41-48: Protesto fatto per Matteo Palmieri gonfaloniere di compagnia innanzi a’ Signori e Collegi e altri Ufizi. 24 La biografia di Niccolò Acciaioli circola attraverso un discreto numero di manoscritti ed è pubblicata per la prima volta nel 1588 a Firenze, in appendice a una storia della famiglia Ubaldini, nella traduzione italiana di Donato Acciaioli, con una lettera di Benedetto Varchi. Oltre all’edizione latina curata da Muratori (Rerum Italicarum scriptores, XII, Milano 1728) e all’edizione critica curata da G. Scaramella (Rerum Italicarum scriptores, vol. XIII, parte II, Bologna 1918-34) vd. M. Palmieri, La vita di Niccolò Acciaioli, a cura di A. Mita Ferraro, Bologna, il Mulino, 2001.
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il De temporibus che il De captivitate Pisarum sono scritti tra il 1448 e il 145025. Gli interessi letterari di Palmieri si spostano dalla morale alla storia: la prima opera, dedicata all’amico Piero de’ Medici, è una cronologia universale che sembra ispirarsi al Chronicon del maestro Sozomeno piuttosto che all’omonima opera di San Girolamo; la seconda è un resoconto delle vicende che hanno portato Firenze alla conquista di Pisa. Si basa sul racconto scritto dal protagonista dell’impresa: Neri di Gino Capponi, e risente dell’influenza delle Historiae bruniane. Non sono un’opera storica gli Annales, che Palmieri redige dal 1432 al 1474, annotando ad usum sui, in una sorta di diario, gli avvenimenti politici e storici che ritiene più importanti. L’ultima opera è la Città di vita26, un poema teologico denso di simboli ed allegorie che riprendono in modo molto erudito il tema dantesco del viaggio ultraterreno. Palmieri si concentra solo ed esclusivamente sul problema teologico della salvezza dell’anima, senza riprendere gli aspetti politici della Commedia. Cerca di fondere temi neoplatonici, pitagorici ed origeniani con la teologia cristiana: temendo di aver sostenuto tesi eterodosse, affida la prima versione dell’opera, conclusa nel 1464, all’amico Leonardo Dati, cui chiede di commentare lo scritto e di chiarire i punti più facilmente soggetti a fraintendimento. Come si è visto nel primo capitolo, il vescovo di Massa è stato anche uno dei revisori della Famiglia di Leon Battista Alberti. Per cogliere la distanza che separa la prima e l’ultima opera di Palmieri si deve considerare che il viaggio nell’aldilà descritto nella Città di vita ha un significato molto diverso dal viaggio ultraterreno che è posto a conclusione della Vita civile. Infatti, venuto meno lo sfondo ciceroniano che caratterizza quest’opera, la beatitudine eterna non spetta più ai buoni cittadini e agli 25 Le edizioni critiche di queste due opere sono curate da Scaramella per la nuova serie dei Rerum italicarum scriptores. 26 La Città di vita è rimasta inedita fino agli inizi del Novecento: M. Rooke, Libro del poema città di vita composto da Matteo Palmieri Fiorentino, North Hampton, Smith College Studies in Modern Languages, 1926-28; non esiste ancora un’edizione critica dell’opera.
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uomini che si sono dedicati alla vita politica dando prova della loro straordinaria virtù, bensì a chi ha scelto di raggiungere la santità e la bontà, seguendo l’esempio di Maria e di Giovanni Battista. Sebbene la vita activa non perda del tutto la sua rilevanza, la dimensione
fondamentale
dell’esistenza umana
non
è più quella politica: Palmieri crede che la perfezione umana si realizzi solo nella vita religiosa. Non è facile trovare una spiegazione per il mutare degli interessi di Palmieri. Secondo Finzi, le difficoltà incontrate nel cercare di dare un assetto più stabile alla città di Firenze, l’esilio imposto ai parenti della moglie per aver appoggiato gli Albizzi e l’allontanamento di alcuni amici, in rotta con la cerchia medicea, sono alcuni dei motivi che potrebbero aver indotto Palmieri a volgere lo sguardo sulle sofferenze e i tormenti dell'anima. Secondo Mita Ferraro, invece, l’avvicina-
mento alle problematiche religiose ed alle tematiche teologiche deve essere letto alla luce dei nuovi orientamenti culturali, platonici e neoplatonici, che si impongono nella Firenze della seconda metà del Quattrocento grazie a Marsilio Ficino?7. 3.2 Struttura e caratteristiche della Vita civile
Attraverso il confronto con le opere di Bruni e le orazioni della scuola di Filelfo, Mita Ferraro ipotizza che la Vita civile sia stata scritta da Palmieri tra il 1433 e il 1434. Anticipando di qualche anno la composizione di quest'opera «molto degna e necessaria», che insegna «a governare la famiglia e la repubblica» — come spiega efficacemente Dati nella biografia dell’amico — la studiosa mette in evidenza la vicinanza di Palmieri al milieu albizzesco e strozziano. Si deve tuttavia considerare che la Vita civile in origine era un trattato, che è stato trasformato in dialogo: come
27 Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., p. 354. Per l’affermarsi di problematiche religiose e teologiche, di temi platonici e neoplatonici, a Firenze vd. almeno C. Vasoli, Movimenti religiosi, in Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienza e arti nella Firenze dei Medici, cit., pp. 47-82.
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ammette lo stesso Palmieri quest’opera è stata rivista più volte?8. È proprio Mita Ferraro a sostenere che i nomi degli interlocutori del dialogo, cittadini fiorentini impegnati nella vita politica a fianco dell’umanista, siano stati aggiunti nel 1438 per dotare Palmieri di «un passaporto per il nuovo e non ancora sicuro
reggimento mediceo»??. l’opera consta di quattro libri, il primo dei quali riguarda l’educazione dei figli, come il primo libro della Famiglia di Leon Battista Alberti. Il secondo e il terzo libro vertono sull’honestum, concetto ciceroniano che racchiude in sé tutte le virtù: la
prudenza, la temperanza e la fortezza sono esaminate nel secondo libro insieme ai loro corollari; la giustizia è analizzata nel terzo libro insieme all’amicizia e agli altri suoi corollari. Il quarto libro è dedicato all’utile, ossia alla «copia, allo ornamento, alle facoltà
et abbondanti ricchezze del corpo civile», ed è stato aggiunto all’opera pochi mesi dopo i primi tre. Concentrandosi
sui concetti
di onesto
ed utile, Palmieri
riprende da vicino le riflessioni del De officiis di Cicerone, citando alla lettera molti passi. La stessa struttura della Vita civile ricalca quella di quest'opera ciceroniana89. È noto il giudizio di Baron3!,
28 Ve, pp. 149-150: all’inizio del quarto libro Palmieri dichiara di aver discusso una parte dell’opera con «certi studiosi» formatisi agli studi liberali insieme a lui, e di aver emendato ogni suo detto in base al loro giudizio prima di rendere pubblici i libri. 29 Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., p. 249, ma anche pp. 236-237 e pp. 181-215. Sul passaggio dell’opera da trattato a dialogo vd. anche G. Tanturli, Tradizione di un testo in presenza dell’autore. Il caso della «Vita civile» di Matteo Palmieri, in «Studi Medioevali», XXIX, 1988, pp. 277-315. Molti dei confronti tra la Vita Civile, le opere di Bruni e le orazioni di Filelfo proposti da Mita Ferraro per datare l’opera di Palmieri dipendono da G. Tanturli, Sulla data e la Genesi della «Vita civile» di Palmieri, in «Rinascimento», XXVI, 1996, pp. 3-48. 30 Le citazioni del De officiis sono presenti in tutta la Vita civile, che attinge soprattutto dai primi due libri dell’opera ciceroniana. L’analogia strutturale risulta più chiara se si considera il primo libro dell’opera come una premessa di carattere pedagogico, seguito da due libri sull’onesto, in cui sono esaminate le virtù, e dall’ultimo libro
sull’utile. 31 H. Baron, The Memory of Cicero’'s Roman Civic Spirit in the Medieval Centuries and in the Florentine Renaissance, uno dei saggi del volume In Search of Florentine Civic Humanism, Princeton NJ, Princeton UP, 1988, pp. 94-157, in particolare p. 125.
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secondo cui la Vita civile sarebbe un adattamento del De offictis alla realtà storica e politica di Firenze agli inizi del Quattrocento. Lo studioso non esita a paragonare la rilettura dell’opera ciceroniana che Palmieri propone ai suoi concittadini a quella che Ambrogio aveva offerto, molti secoli prima, agli esponenti del clero. Benché il debito lessicale e concettuale nei confronti di Cicerone sia indiscutibile, non si deve pensare che la Vita civile sia una pura e semplice traduzione del De officiis. Come si vedrà meglio nel corso dell’analisi, infatti, appropriandosi di alcuni passi del De officiis, Palmieri segue una via diversa da quella di Cicerone, mostrando autonomia di pensiero e capacità di rielaborazione. Prendendo come modello il De officiis, Palmieri è vicino a quegli umanisti del primo Quattrocento che vedono in Cicerone l'incarnazione del cittadino romano esemplare, che ha saputo conciliare otium e negotium. È Bruni a sostenere per primo questa
tesi. Nella Vita di Cicerone (1415)32 il Cancelliere fiorentino propone, infatti, un’interpretazione del rapporto tra impegno politico e dedizione alla filosofia che si discosta molto dal giudizio espresso dagli autori medioevali e dallo stesso Petrarca. Non solo non vede più alcuna contraddizione tra la carriera politica e l’attività intellettuale di Cicerone, ma considera anche politica e filosofia quali frutti inscindibili di quell’unico amore per la patria che ha reso il cittadino romano un modello da imitare. Capace di coniugare attività politica e attività intellettuale, Cicerone mostra ai fiorentini come servire la patria.
La Vita di Cicerone non è l’unica opera di Bruni ad influenzare l’autore della Vita Civile. Nell’opera, Palmieri riconosce il Cancelliere fiorentino come proprio maestro ricordando che Bruni è «padre et ornamento delle lettere»34. Oltre ad avvalersi delle sue
32 L. Bruni, Vita di Cicerone, in Id., Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino, UTET, 1996, pp. 398-499. i 33 Vd. ancora Baron, The Memory of Cicero’s Roman Civic Spirit, cit., pp. 120-122.
34 Vc, p. 44: dopo aver condannato la trascuratezza che ha colpito gli «studi liberali» dimenticati dal mondo per più di ottocento anni, prima di paragonare lo splendore raggiunto a Firenze dagli studia bumanitatis a quello dell’età greca e romana in
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traduzioni dell’Etica Nicomachea e della Politica, utilizza anche
l’Isagogicon moralis disciplinae (1421-1424), i primi sei Historiarum florentini populi libri (resi pubblici nel 1429), la Difesa contro i riprensori del popolo di Firenze nella impresa di Lucca (1430), l’orazione tenuta dal cancelliere fiorentino per la morte
di Giovanni Strozzi (1428) e quella per Niccolò da Tolentino (1433), il condottiero che si era distinto nella difesa della città
contro Filippo Maria Visconti?5. Per cogliere la vicinanza della Vita civile a queste opere può essere utile ricordare che l’orazione
funebre è un vero e proprio panegirico della città di Firenze, scritto sulla scia della Laudatio: Cancelliere da pochi mesi, Bruni coglie l’occasione per celebrare la gloria di Firenze. Conclude l’orazione ricordando il premio che spetta a tutti i cittadini che si sono impegnati per difendere la libertà di Firenze, quella gloria eterna che anche per Palmieri potranno raggiungere solo i cittadini che hanno servito la città. Per mostrare quale vita spetti ai cittadini dopo la morte, Palmieri termina le proprie riflessioni raccontando il sogno leggendario riferito a Dante da un compagno d’armi, sopravvissuto alla battaglia di Campaldino, che ha compiuto un misterioso viaggio nell’aldilà35. Il sogno conferma la centralità dei riferimenti alla storia di Firenze che, come si vedrà meglio in seguito, sono sempre presenti sullo sfondo delle riflessioni proposte nella Vita civile. Mostra inoltre che Dante è il cittadino fiorentino per antonomasia, l’uomo che ha incarnato i più alti valori civili, il modello che i lettori della Vita civile devono seguire al pari di Cicerone e degli altri grandi uomini romani. Sottolineando che il cui fiorivano poeti e oratori, filosofi e storici, Palmieri afferma per bocca di Pandolfini che «Oggi veggiamo per padre et ornamento delle lettere essere mandato nel mondo el nostro Leonardo aretino per rendere agli uomini la dolcezza della lingua latina». Nel passo, forse, un’allusione alle traduzioni bruniane. 35 Per le Historiae e le altre opere di Bruni cui si è fatto riferimento, vd. Bruni,
Opere letterarie e politiche, cit. L’Isagogicon è un’introduzione alla filosofia morale in cui Bruni indica a Galeotto Ricasoli la via che conduce alla felicità, ossia l’arte della bene vivendi cura. 36 Ve, pp. 201-208. Si noti che è lo stesso Palmieri ad indicare la Repubblica e il Somnium Scipionis come fonti della sezione escatologica che conclude la Vita civile.
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«poeta e teologo» non è venuto meno ai doveri verso la famiglia e la città37, Palmieri propone una nuova immagine dell’autore della Divina commedia, simile a quella delineata da Filelfo. L’esaltazione dell’impegno politico e civile del poeta raggiunge l’apice nella Vita di Dante, composta da Bruni nel 1435 o nel 143638. Il sogno che conclude la Vita civile è un’imitazione del mito di Er, che si trova alla fine della Repubblica di Platone, e del sogno
di Scipione con cui termina il De republica di Cicerone. Non è raccontato solo perché corona il percorso proposto per indicare i costumi e le virtù che i cittadini devono seguire dalla nascita alla morte, ma anche perché l’opera di Palmieri è un de republica. Come evidenzia Tanturli, infatti, il modello cui si ispira la Vita civile è il perduto De republica di Cicerone: Palmieri conosce indirettamente questo dialogo, tramite i passi del Commento al Somnium Scipionis di Macrobio e quelli del Polycraticus di Giovanni di Salisbury, in cui si accenna anche al mito di Er. Non avendo a disposizione il dialogo ciceroniano, che sapeva essere caratterizzato da un taglio pratico e non speculativo, l’autore si avvale del De officiis come succedaneo del De republica. Appartiene a pieno titolo al de republica di Palmieri anche il primo libro della Vita civile, nonostante si richiami soprattutto all’Institutio oratoria. Quest'opera di Quintiliano, infatti, non tratta dell’educazione dell’uomo in generale, ma dell’educazione del vir civilis, assimilato all’orator3?. L’Institutio oratoria potrebbe essere la fonte del titolo che Palmieri sceglie di dare alla Vita civile, 37 Ve, pp. 5-6. 38 L. Bruni, Vita di Dante e Petrarca, in Id., Opere, cit., pp. 536-560: poiché la battaglia di Campaldino è ricordata anche nelle Historie, non è necessario che la Vita
di Dante e Petrarca, considerata quale termine ad quem per la composizione della Vita civile, sia una delle fonti di Palmieri. Anche Manetti ritiene Dante superiore a Petrarca e Boccaccio per aver saputo coniugare azione e contemplazione, dedicandosi agli studi senza trascurare i doveri di cittadino: G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio
(1440), a cura di S.U. Baldassarri, Palermo, Sellerio, 2003. Per un’analisi più approfondita della figura di Dante, vd. Baron, In Search of Florentine Civic Humanism, cit. pp. 129 sgg., ma anche E. Garin, L’Umanesimo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1994 (19521), pp. 73 sgg. 39 Tanturli, Sulla data e la genesi della «Vita civile» di Matteo Palmieri, cit., in particolare pp. 37-48.
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ma è altrettanto probabile che l’ispirazione sia venuta da un passo del Polycraticus, da una delle orazioni di Porcari o da una delle opere di Bruni che Palmieri riprende per sviluppare le proprie riflessioni. Come è noto, inoltre, il titolo della Vita civile è opposto e simmetrico a quello di una famosissima opera di Petrarca, il De vita solitaria, che descrive la vita del monaco dedito alla contem-
plazione, a cui avrebbe voluto rispondere Salutati scrivendo il De vita associabili et operativa. Per comprendere il significato del titolo dell’opera di Palmieri si deve infine considerare che la traduzione bruniana dell’Etica Nicomachea e della Politica utilizza il termine vivere civile al posto dell’espressione vivere politicum che è adottata nella traduzione di Guglielmo di Moerbecke. Non è allegorica solo la conclusione della Vita civile. L’opera comincia, infatti, con l’immagine di una non meglio documen-
tata pestilenza4!, che avrebbe colpito la città di Firenze nel 1430, costringendo i protagonisti del dialogo, tutti cittadini fiorentini, a recarsi nel Mugello per sottrarsi al contagio. Quest’epidemia, che richiama alla mente la famosa peste del Decameron e sembra un tributo letterario a Boccaccio, può essere considerata una metafora della corruzione morale che Palmieri vuole curare con la sua riflessione. La Vita civile è dedicata ad Alessandro degli Alessandri4, ed è ambientata nella terra d’origine dei Palmieri. Partecipano al dialogo come interlocutori Franco Sacchetti e Luigi Guicciardini43. Anche se l’autore è presente sulla scena, il pensiero di 40 Baron crede che la Vita civile sia la risposta all’opera di Petrarca progettata, ma non realizzata, da Salutati: Baron, La crisi del primo rinascimento italiano: umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e tirannide, cit., pp. 89-90. sLiVexpsli.
42 Alessandro degli Alessandri (1391-1460) è uno dei cittadini più in vista della Firenze di inizio Quattrocento. Frequentatore della scuola di Roberto de’ Rossi, viene educato agli studia humanitatis insieme ai giovani eredi della nobiltà fiorentina. Prima di essere dedicatario dell’opera del Palmieri, è stato uno dei Conservatori delle Leggi. Compagno di Franco Sacchetti nelle battaglie politiche che lo vedono coinvolto, è l’erede spirituale degli ideali civili di Agnolo Pandolfini. Nel 1450, partecipa con Palmieri, Giannozzo Manetti e Donato di Leonardo Bruni ad un’ambasceria presso l’imperatore Federico. 43 Franco di Niccolò Sacchetti nasce nel 1400 in una delle più eminenti famiglie fiorentine. Come si è visto, è stato alunno di Marsuppini insieme a Palmieri. Ha iniziato la
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Palmieri è espresso dall’illustre e saggio Agnolo Pandolfini, che è il protagonista dell’opera44. Come si è visto nel primo capitolo, questo cittadino modello che è scelto da Alberti come interlocutore dei Profugiorum ab aerumna, è anche il protagonista dei rifacimenti del terzo libro della Famiglia. Nella Vita civile Pandolfini è la canuta auctoritas che insegna ai suoi giovani amici «l’ordine et virtuoso vivere degli approvati civili». Ascoltano la lezione di Pandolfini anche altri ragazzi presenti nella villa, fatti chiamare dal maestro, come se Palmieri volesse così sottolineare
l’universalità del suo insegnamento?#*. Visto che in origine l’opera era un trattato, Pandolfini parla a lungo, esponendo il suo ragionamento senza essere mai interrotto e senza dover mai rispondere ad eventuali obiezioni degli interlocutori: la Vita civile è un dialogo molto diverso dalla Famiglia. Come spiegato nel proemio, l’opera è una raccolta di precetti di autori antichi, greci, ma soprattutto latini, tra cui si ricordano carriera politica nel 1420, impegnandosi a difendere l’unità di Firenze sulla scia dell’indirizzo aristocratico moderato di Alessandro degli Alessandri. Nel 1450 e nel 1461 è stato Gonfaloniere di Giustizia. Piccolo mecenate, non apre la sua casa solo nella finzione del dialogo: il greco Argiropulo, i fratelli Acciaioli, vari membri della famiglia Pandolfini ed anche Vespasiano da Bisticci hanno effettivamente beneficiato più volte della sua ospitalità. Omonimo del più famoso Gonfaloniere che è stato deposto durante il tumulto dei Ciompi, Luigi di Piero Guicciardini nasce nei primissimi anni del Quattrocento in
una delle più importanti famiglie di Firenze. Difensore dell’ideale aristocratico moderato come Sacchetti e Palmieri, ricopre importanti cariche insieme all’autore della Vita civile nel 1434, nel 1438, nel 1443, nel 1458, nel 1463 e nel 1471. Per un’analisi più dettagliata dell’attività politica dei due amici di Palmieri, vd. Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici, cit., pp. 32, 125, 129, 134, 166, 185-86, 193, 198-199, e 234-237.
44 Il nome di Agnolo Pandolfini, nato nella seconda metà del XIV secolo, è strettamente legato alla trattatistica civile fiorentina anche perché è ricordato da Benedetto Pitti e dalle Commissioni Albizzi. Nato nel 1360, appartiene alla generazione di Bruni, di cui è intimo amico: il cancelliere affida a lui la lettura delle sue opere. La sua fama di uomo integro e severo lo rende gradito sia alla fazione albizzesca sia a quella medicea: «Amato universalmente da tutta la città», come sottolinea Vespasiano da Bisticci, si dedica alla attività politica «in favore del bene comune». Impegnato in diverse missioni diplomatiche, è uno di coloro che si oppongono alla creazione della Balìa del 1433 che decreta l’esilio di Cosimo. Imparentato con la famiglia degli Strozzi da parte della moglie, quando Cosimo torna dall’esilio, cerca di convincere i parenti a non schierarsi con Rinaldo Albizzi. 45 Vc, p. 7. 46 Vc, p. 15.
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all’inizio Cicerone, Livio e Virgilio4”. Nel dialogo sono citati anche dei passi evangelici ed è lo stesso Palmieri a dichiarare di essere stato incitato a scrivere da San Gerolamo oltre che da Cicerone*8. Tuttavia, l’influenza del secondo sembra decisamente
più rilevante di quella del primo: l’ispirazione e i toni dell’opera sono classici, piuttosto che religiosi, perché la vita umana ha una dimensione meramente mondana e terrena‘. I precetti degli autori antichi, che Palmieri riporta, non sono suddivisi per argomento, ma si trovano mischiati insieme nel corpo del testo: si
sovrappongono alle parole di Pandolfini, compaiono più volte ed in contesti diversi, senza che venga mai esplicitata la fonte. Per questo, la Vita civile sembra un collage di citazioni. Palmieri scrive la sua opera in volgare, sottolineando che sono poche le persone che conoscono il latino. Spiega la sua scelta notando anche che le traduzioni latine delle opere degli storici e dei filosofi greci sono rozze e approssimative. Pur riconoscendo la grandezza della tradizione letteraria fiorentina, sostiene che Dante è meno chiaro dei poeti latini, mentre Petrarca sviluppa in modo troppo sintetico i temi morali della sua dottrina, e Boccaccio è troppo lascivo5®. Alla luce di queste critiche, la scelta del volgare trova una giustificazione nell’impegno civile dell’opera: non essendoci autori «atti a inviare il bene vivere di chi si volesse sopra agli altri fare degno», Palmieri ha deciso di comporre i suoi libri per «giovare il bene diritto proposito de’ beni disposti civili». Proponendosi come educatore dei fiorentini, a cui vuole insegnare quale sia il tipo di vita migliore, nonostante decida di scrivere in latino le opere più tarde, ricorre al volgare per rendere le sue riflessioni accessibili ad un pubblico 47 Ve, p. 5. 48 Ve, p. 150: Tullio e Geronimo sono due «singularissimi amici» di Palmieri.
49 Nello studio citato, Finzi insiste più volte sul carattere «piagnone» di Palmieri e sui toni pre-savonaroliani del pensiero dell’autore (per esempio, Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, cit., p. 58). A suo giudizio, vista la concezione della volontà che emerge dalle opere di Palmieri, l’autore della Vita civile andrebbe collocato sulla stessa linea di pensiero che va da Salutati a Savonarola passando per Bernardino da Siena (ivi, p. 67).
SO Vc, pp. 5-6.
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che sia il più vasto possibile. Egli intende presentare la lezione dei classici sul «bene vivere» e il «vivere civile» ai suoi concittadini: la Vita civile è un’opera pedagogica, l’opera di un fiorentino per i fiorentini. L’amicizia è un tema chiave di quest’opera: si intreccia e si sovrappone a molti degli argomenti affrontati nei primi tre libri, anche se è analizzato con particolare attenzione soprattutto nell’ultimo. Come si è visto, infatti, Palmieri torna più volte sulle
stesse tesi: le sviluppa di pagina in pagina, arricchendole di nuove citazioni e di diversi significati a seconda del contesto in cui sono inserite e del punto di vista da cui sono osservate. Per questo
motivo, credo sia utile soffermarsi su alcuni temi cruciali della
Vita civile, in modo da poter meglio contestualizzare la riflessione sull’amicizia. Come si evince dal titolo dell’opera, la vita migliore per l’uomo è quella del cives, definita riecheggiando i toni elevati con cui inizia il De oratore di Cicerone: si tratta della vita civile e politica di chi, vivendo con ordine e virtù in una «optima repubblica», conduce i propri affari senza nuocere agli altri, meritando pubblica stima anche nel privato5!. Il vivere bene che Palmieri vuole insegnare ai concittadini è il sommo fine delle azioni umane. Non si raggiunge solo imparando a tenere a freno le passioni, comportandosi in modo virtuoso, seguendo il lume naturale che Dio ha seminato in ogni uomo, ma anche ricoprendo le cariche pubbliche a cui si è chiamati: vivere bene e vivere civile coincidono52. L’uomo buono è il cittadino capace di «sprezzare ogni particolare commodo per salute della repubblica», e di anteporre il bene della città all’in51 Ve, p. 4; Questo passo va confrontato con Cicerone, De Oratore, a cura di E. Narducci, Milano, BUR, 1994, I, 1, p. 121: «Cogitanti mihi saepenumero et memoria vetera repetenti perbeati fuisse, Quinte frater, illi videre solent qui in optima republica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria florerent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine pericolo vel in otio cum dignitate esse possent». 52 Vc, pp. 15-16. Sulla concezione di vita civile delineata da Palmieri vd. E. Garin, La vita civile, in Id., L’Umanesimo italiano, cit., pp. 47-93, in particolare pp. 80-89. Quando chiarisce che non si deve aver cura di vivere, ma di vivere bene e onestamente,
Palmieri cita quasi alla lettera l’incipit dell’Isagogicon moralis discipline di Bruni: cfr. Ve, p. 49 con L. Bruni, Isagogicon, in Id., Opere, cit., p. 200.
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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teresse personale. Questa volta Palmieri non cita direttamente Cicerone, ma una famosa orazione che Porcari ha pronunciato nel 1427 in Piazza della Signoria in qualità di Capitano del Popolo, lodando l’amore degli antichi per la patria5*. L’insistenza sul primato del bene comune è continua e costante. Non risente solo dell’influenza diretta del pensiero aristotelico e ciceroniano, ma anche di quella delle teorie politiche comunali, in particolare del De bono comuni di Remigio de’ Girolami5S. Proprio perché nella Vita civile è esaltato l’ideale del cives, colpisce la scelta di realismo fatta da Palmieri. Rifiutando la perfezione morale e la sapienza straordinaria dei cittadini immaginari inventati da Platone e da altri filosofi, infatti, nel proemio Palmieri dichiara di voler indirizzare la propria opera ad uomini in carne ed ossa5*. Indipendentemente dal possibile pre-machiavellismo57
53 Ve, p. 126, ma anche Voc, p. 99, e Vc, pp. 131-132 sgg., in cui Palmieri cita alla lettera Of, I, XXV, p. 70. Per la radice aristotelica del concetto di bene comune proposto da Palmieri vd. P, III, 1279a 21-1279b 10, pp. 258-261.
54 L'influenza di Porcari su Palmieri è stata evidenziata per la prima volta in Baron, In Serach of Florentine civic Humanism, cit., vol. I, pp. 16-17 e 126-127. Secondo Baron, le orazioni di Porcari costituiscono un ulteriore esempio dell’adattamento quattrocentesco del De officiis al contesto fiorentino. SS Vd. E. Panella, Dal bene comune al bene del comune. I trattati politici di Remigio de’ Girolami nella Firenze dei Bianchi e dei Neri, in «Memorie domenicane», XVI, 1988, pp. 123-182. Mita Ferraro sostiene che Palmieri conosce e utilizza l’opera di questo magister artium domenicano vissuto tra fine del XII e gli inizi del XIV secolo: Mita Ferraro, Matteo Palmieri. Una biografia intellettuale, cit., pp. 279 sgg. Non fa riferimento al tema dell’amicizia, anche se esso è presente nei trattati di Remigio de’ Girolami, come emerge in F. Bruni, La città divisa: le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 40-47. 56 Vc, p. 7: «Et acciò che ne possa seguire fructo maggiore, deliberai non volere fingere la immaginata bontà de’ non mai veduti in terra cittadini, i quali, da Platone et più altri nobilissimi ingegni considerati et fincti di virtù e sapientia perfecti, più tosto son per specie et figura dipinti che mai in carne veduti». 57 Il passo citato nella nota precedente è considerato come un’anticipazione del celeberrimo passo del Principe in cui Machiavelli polemizza contro i molti che hanno immaginato repubbliche e principati che «non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» (N. Machiavelli, I/ principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi, 1995, p. 102). Oltre a Finzi (Finzi, Matteo Palmieri. Dalla Vita civile alla Città di vita, cit., pp. 67-68), per questa interpretazione del passo: A. Buck, Matteo Palmieri als Reprisentant des Florentiner Biirgerhumanismus, in «Archiv fùr Kulturgeschichte», XLVII, 1965, pp. 77-95. Senza entrare nel merito del possibile pre-machiavellismo di Palmieri, credo sia
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che si è visto in questa critica alla «immaginata bontà dei non mai veduti in terra cittadini», credo sia rilevante notare che si rivolge espressamente agli abitanti di Firenze, ai suoi concittadini, agli uomini che saranno concretamente impegnati nella vita politica della città come i personaggi del dialogo. La riflessione proposta nella Vita civile ha una dimensione empirica e pratica che non va dimenticata, soprattutto se si vuole comprendere la funzione politica attribuita all’amicizia. Inoltre, l'esaltazione del cives romano e
la scelta di scrivere per i propri concittadini non sono in contraddizione tra loro: come molti altri umanisti della sua epoca, Palmieri è convinto che non vi sia niente di più attuale della lezione dei classici. Fatta questa dovuta precisazione, mi sembra opportuno chiarire che la scelta di realismo fatta dall’autore della Vita civile dipende da precisi assunti antropologici, che sono esplicitati nel proemio. Palmieri constata, infatti, che: Molte volte pensando meco medesimo, mio Alexandro amatissimo, in che modo si possa optimamente vivere nella carne mortale, niuna stabilità né costante fermezza d’alcuno stato humano ho potuto conoscere. Per questo, non sperando poter trovare in terra alcuna vita in ogni parte perfecta, disposi quanto le mie inferme forze valevano, tanto di fatica et tempo attribuire in ricercare se none la perfecta, almeno la meno maculata vita de° mortali98.
Per comprendere il passo citato, si deve considerare che l’uomo non è solo un essere dotato di natura razionale??, ma
anche un essere mutevole e instabile. È la consapevolezza della
rilevante notare che, nel passo in questione, Palmieri si riferisce anche alla sapienza, suggerendo un parallelismo con un famosissimo passo del Laelius di Cicerone: «Sed hoc primum sentio, nisi in bonis amicitiam esse non posse. Neque id ad vivum reseco, ut illi, qui haec subtilius disserunt, fortasse vere, sed ad communem utilitatem parum. Negam enim quemquam esse virum bonum nisi sapientem. Sit ita sane. Sed eam sapientiam intrepretantur, quam adhuc mortalis nemo est consecutus, nos autem ea, quae sunt in usu vitaque communi, non ea quae finguntur aut optantur, spectare debeamus» (A, V, 18, p. 90). Se, come sembra, questo parallelismo è lecito, il realismo mostrato da Palmieri nel rifiutare la perfezione assoluta degli uomini immaginati dai filosofi potrebbe trovare una delle sue radici nello sforzo attuato da Cicerone per mitigare il rigore dello stoicismo. S8 Vc, p. 4; corsivo mio. 59 Per la natura razionale dell’uomo, vd. per es. Vc, pp. 14 e 17.
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contingenza e della fragilità dell’esistenza umana ad impedire a Palmieri di mirare alla perfezione assoluta. Per questo, la vita che egli propone come modello da imitare non può che essere la «meno maculata vita de’ mortali»: è la vita migliore tra quelle possibili, la sola che l’uomo può effettivamente vivere. Credo sia esagerato parlare di pessimismo antropologico per un autore che scrive un’opera sulla vita civile proponendosi come precettore dei propri concittadini. Ritengo, invece, che sia possibile considerare le ambivalenze della natura umana che emergono dalla Vita civile come un riflesso di quella sensibilità tipicamente umanistica che esalta la grandezza delle attività e delle opere dell’uomo, ma sottolinea anche, ed allo stesso tempo, la forza
delle passioni che lo abitano. L’uomo del Quattrocento non è, infatti, solo l’essere divino descritto nel De dignitate hominum di Manetti, ma anche l’essere infelice descritto da Bracciolini nel De miseria humanae conditionis®. Se si volesse far riferimento alle opere di Alberti, si potrebbe dire che è l’uomo-dio della Famiglia, ma anche l’uomo-lupo del Theogenius. l’uomo è l’animale più nobile che Dio abbia mai creato, ma per Palmieri è anche un essere contingente ed imperfetto, diviso nell’anima dalla lotta tra ragione e passioni6!: ha bisogno 60 Cfr. G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, edidit E.R. Leonard, Patavini, in Aedibus antenoreis, 1975 e P. Bracciolini, De miseria humanae conditionis, in Id., Opera Omnia, cit., pp. 88-131. Come è noto, Manetti è uno dei primi umanisti
che celebrano la dignità dell’uomo: a differenza di Pico e Ficino, egli non pone l’accento sul significato cosmico e metafisico della superiorità umana. L’esaltazione delle opere mondane e delle attività umane proposta dall’umanista può essere accostata alla Vita civile perché Manetti riconduce l’intelligere all’agere con toni simili a quelli usati da Palmieri per rivendicare il primato della vita attiva sulla vita contemplativa: per entrambi gli autori, il pensare e il conoscere non sono forme di contemplazione, bensì produzione di quelle scienze e di quelle arti con cui l’uomo governa la natura. Il De miseria huumanae conditionis può essere accostato alla Vita civile perché Bracciolini insiste sulla temperanza e sulla padronanza di sé senza negare l’importanza delle passioni, come Palmieri. Come già evidenziato, questi è anche uno degli interlocutori del dialogo. 61 Vc, pp. 77-80, in particolare: «Queste quattro passioni sono state date alla vita nostra come furie, con stultitia commoventi ogni ordinato modo di vivere: pertanto
debbe a esse con tutte su’ forze risistire chi vuole temperatamente vivere, in tal modo contraponendosi che ogni nostro detto et ogni nostro facto manchi di vitio e di tutto
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dell’educazione e della filosofia per frenare i desideri, sottomettere gli appetiti, mostrare la sua natura razionale, ed essere capace di avere amici62, La contingenza e la mutevolezza che caratterizzano l’esistenza umana segnano, dunque, anche l’amicizia. Come si vedrà nel corso dell’analisi, questa relazione non è priva di ambivalenze, anche se esse non inficiano la sua forza morale e la sua
rilevanza politica. Per tentare di chiarire i punti di tensioni interni alla riflessione di Palmieri, non solo a quella sull’amicizia, si deve
tener presente che lo sguardo realistico sull’uomo è orientato da una profonda fiducia nella possibilità di educarlo. Si deve, inoltre, tener presente che la vita civile che Palmieri propone come modello non è solo la vita di chi si dedica alla politica in nome del bene comune, ma anche azione, vita attiva. Se vivere bene e vivere civile coincidono, vita civile e vita activa
convergono, perché «il vivere bene» è «il sommo grado delle opere humane»63. Palmieri non si limita a rifiutare con decisione il primato della vita contemplativa riconoscendo, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, una superiorità assoluta alle virtù civili. Crede anche che la superiorità della vita attiva sulla vita contemplativa dipenda dalla preminenza dell’«operare» sull’«intendere»64. Questa tesi risuona come un vero e proprio
Leitmotiv in molte pagine dell’opera, soprattutto in quelle in cui Palmieri loda le capacità pratiche dell’uomo, la sua «industria» e il suo «acume». Pur essendo un essere fragile e mutevole, l’uomo è capace di imprese grandissime: pratica l’agricoltura, sa costruire quello facciano si possa rendere probabile ragione. Dilecto, speranza, dolore e timore sono i principii donde procede et a’ quali si riferisce ogni bene et male di nostra vita». Il corsivo è mio. 62 Ve, pp. 60-61. 63 Vc, p. 13. ; 64 Ve, p. 14: «Io non credo che il leggere vi faccia meglio vivere, né anche più virtuosi, però che il fine d’ogni bene è non quello intendere, ma secondo quello operare», ma anche Vc, pp. 15-17: «[la natura] ha fatto gli uomini desiderosi e atti a imparare e prompti a exercitare lo ingegno»; Vc, p. 96: «Mirabile è vedere quanta forza abbino le mani in significare nostre intentioni, in modo che non solo dimostrino, ma quasi parlino, et siano potenti a exprimere tutti nostri concetti [...]» e Vc, pp. 153-154, dove Palmieri propone una vera e propria classificazioni delle arti umane, lodando quelle che concorrono al raggiungimento dell’utile comune.
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case e ponti, riesce a navigare e ad allevare gli animali, ha imparato a lavorare pietre e metalli e così via. Secondo Palmieri, sono queste le arti che hanno reso civile la vita dell’uomo. La vita attiva coincide con la vita civile e con la vita politica proprio perché, tra le arti e le industrie che hanno reso l’uomo superiore agli altri animali, vi è anche la capacità di fondare città e promulgare leggi. L’esaltazione dell’industria e dell’operosità dell’uomo presente nella Vita civile può essere accostata a quella delineata nei libri della Famiglia, perché gli uomini diventano signori della natura plasmandola ed agendo in vista dell’utilità comune. La vicinanza tra Palmieri e Alberti non è evidente solo quando si legge che «la vera lode di ciascuna virtù è posta nell’operare», ma anche quando è riportata questa sentenza, che è attribuita agli stoici: «ciò che era in terra essere stato da Dio creato et facto per uso et commune comodità degli uomini, e gli uomini per utilità et subsidio degli atri uomini essere stati generati». Tuttavia, non si devono ignorare alcune differenze profonde: per Palmieri l’instabilità della natura umana non è un riflesso della mutevolezza di tutte le cose, e Dio non coincide con la forza produttrice e creatrice della natura. Inoltre, nella Vita civile l'esaltazione della natura attiva dell’uomo non si trasforma in una celebrazione della sua natura divina. 3.3 Il valore politico dell’amicizia Verso una pedagogia delle relazioni: l'amicizia come dovere civile dei cittadini
Anche se è trattato in modo specifico solo in una sezione del quarto libro, il tema dell’amicizia è presente sin dall’inizio sullo sfondo delle riflessioni della Vita civile. Il primo libro dell’opera si apre, infatti, sotto il segno dell’amicizia: sono «i pari costumi degli onesti exercitii», che uniscono gli animi degli interlocutori del 65 Cfr. Vc, pp. 153-155 ed LdF, pp. 157-164.
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dialogo, a permettere di superare la differenza di età che divide i giovani dal «maestro» Pandolfini. Inoltre, quando Sacchetti riconosce di essere lodato in modo eccessivo da Pandolfini, nota che
questi si comporta come un amico. Egli chiede al vecchio di spiegare il significato del vivere bene proprio in nome dell’affetto che li unisce$6, Pertanto, come, molte altre opere di umanisti, tra cui lo stesso Isagogicon moralis disciplinae di Bruni, anche l’opera di Palmieri è un dialogo tra amici. Per spiegare ai suoi giovani amici in che cosa consista la vita civile, Pandolfini si concentra inizialmente sull’educazione
che è necessaria per diventare dei buoni cittadini. Le riflessioni esposte da Palmieri tramite il suo portavoce sono molto vicine a quelle proposte nei trattati pedagogici della prima metà del Quattrocento”. Nella Vita civile si trovano, infatti, molti dei topoi presenti in essi: il rifiuto del ricorso alla violenza da parte dell’educatore, l’idea che il rapporto tra maestro e allievo debba essere basato sulla libertà e la reciprocità, la necessità di bilanciare natura e fortuna per creare armonia ed equilibrio nell'uomo. Spesso le parole dell’Institutio oratoria di Quintiliano e quelle del De liberis educandis di Plutarco si mischiano a quelle dell’autore per sostenere tesi tipicamente umanistiche relative all’importanza degli studia hbumanitatis, alla centralità della retorica, al bisogno di un’educazione permanente dell’uomo, che inizi col padre nella famiglia e continui con i concittadini nella città68. Mentre sono sviluppati questi argomenti, è riconosciuta 66 Vc, pp. 12 e 13; all’inizio del terzo libro Alexandro è detto «amicissimo»: Ve,
p. 102.
67 C.W. Kallendorf (edited and translated by), Humanist Educational Treatises, Cambridge Mas.-London, Harvard UP, 2002: Petri Paoli Vergeri ad Ubertinum de Carraria De ingenuis moribus et liberalibus adulescientiae studiis liber (1402-1403);
Leonardus Aretinus De studiis et litteris ad Baptistam de Malatestis (tra 1422 e 1429, forse in 1424); Aeneas Sylvius Piccolominaeus De liberorum educatione (1450); Baptista Guarinus ad Maffeum Gambaram Brixianum adulescentem generosum discepulum suum De ordine docendi et studendi (1459). Questi trattati di Vergerio, Bruni, Piccolomini e Guarino, insieme al trattato di Maffero Vegio (M. Vegio, De educatione liberorum et eorum claris moribus libri sex, in AA.VV., Testi di pedagogia, Urbino, Argalia, 1940), costituiscono la più alta espressione delle teorie umanistiche sull’educazione. 68 Voc, p. 44.
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la priorità della filosofia morale sulla filosofia naturale: la filosofia morale è la «guida degli uomini», la «maestra delle virtù», l’«amica del bene vivere». Questa definizione è molto simile a quella proposta da Bruni nell’Isagogicon®?. Nelle riflessioni pedagogiche di Palmieri si trovano anche dei precetti relativi all’amicizia. Egli, infatti, chiarisce che: Seguendo dunque l’ordine nostro, i giovani in tutte le loro operationi piglino il più comune modo del più approvato vivere di loro città. Conversino moderatamente, sì che non solo agevole, ma dilectoso sia sopportagli a coloro con chi usano. Ubbidiscano ciascuno nell’opere honeste, ron sieno altieri con gli amici, né contrarii a quelli, e portinsi sì che agevolmente acquistino loda con buona amicitia?0.
Per esser virtuosi, i giovani devono essere educati alla vita di relazione: imparando a comportarsi in modo amichevole con chi li frequenta, eviteranno di risultare spiacevoli e di apparire superbi, riuscendo ad essere amati da tutti. L’obiettivo principale di quest’educazione alle relazioni è lo sviluppo di quella capacità di stringere buone amicizie che migliora la reputazione degli uomini e li rende degni di lode. Come si è visto, la tesi che l’amicizia generi fama e gloria è formulata anche nel primo libro della Famiglia, quando Lionardo espone la propria pedagogia delle relazioni. Palmieri torna sull’idea che l’amicizia sia causa di lode anche quando propone l’esempio di Panfilo: grazie alla buona educazione ricevuta e alla cultura filosofica appresa, il giovane romano ha saputo unirsi a uomini dai buoni costumi, procurandosi amicizie che lo hanno reso degno di lode senza suscitare l’invidia altrui7!. Considerando che questo esempio viene proposto nella sezione del secondo libro in cui sono analizzate le virtù civili, e serve per mostrare cosa significhi in concreto essere temperanti, è possibile supporre che la lode procurata dalle buone amicizie sia generata dalla virtù che la relazione promuove e contribuisce a realizzare. 69 Cfr. Ve, pp. 29-30 e Bruni, Opere, cit., p. 200. 70 Ve, pp. 47-48; corsivo mio. 71 Ve, p. 88. L’esempio di Panfilo è tratto dall’Andria di Terenzio.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
La pedagogia dell’amicizia non è delineata solo nel primo libro della Vita civile perché Palmieri insiste più volte sui doveri di amicizia dei giovani interlocutori di Pandolfini e, più in gene-
rale, di tutti i cittadini. Nella sezione dedicata all’analisi dei
costumi civili, mentre Palmieri dà prova del suo conservatorismo politico e morale invitando i cittadini ad adeguarsi alle consuetudini, l’amicizia è descritta come un vero e proprio dovere civile che i giovani devono assolvere. Questi, infatti, non devono limi-
tarsi solo ad onorare gli anziani o ad ubbidire ai magistrati, ma devono anche «con tutta la compagnia civile amichevolmente conversare in unione et concordia di salute pacifica»72. Anche i vecchi hanno il medesimo dovere civile d’amicizia: vista l’età, è
meglio che si dedichino più all’anima che al corpo, senza abbandonarsi all’ozio e alla pigrizia, mettendo la loro prudenza e la loro saggezza a servizio dei giovani, degli amici e, soprattutto, dello stato73. Come si evince da queste considerazioni, l’amicizia è un dovere che spetta ad ogni buon cittadino, giovane o vecchio che sia. Se tutti i cittadini lo assolvono, la coesione della società aumenta, nel rispetto delle gerarchie sociali esistenti. Vista la centralità attribuita all’amicizia nel quarto ed ultimo libro della Vita civile, la presenza di questi precetti pedagogici può sembrare scontata. Tuttavia, questa prima impressione risulta ingannevole se si considerano con più attenzione i princi-
pali trattati pedagogici della prima metà del Quattrocento. Oltre
a Palmieri, infatti, solo Vergerio accenna all’amicizia nel De inge-
nuis moribus et liberalibus adulescientiae studiis liber. Nel De studiis et litteris di Leonardo Bruni, così come nel De liberorum educatione di Enea Silvio Piccolomini e nel De ordine docendi et studendi di Battista Guarino, non compare alcun riferimento né all'amicizia né, tanto meno, agli amici del giovane educando. L’ultima delle opere citate, quella più tarda (1459), ha un carattere molto tecnico ed è priva dell’afflato retorico e morale
72 Ve, PIIS ._73 Vo, p. 99. Il riferimento a Cicerone, in questo caso, è più esplicito rispetto al passo citato prima: vd. Of, I, XXXIV, p. 99.
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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che caratterizza i primi trattati. Richiamandosi alla lezione del padre, famoso insegnante di una delle prime e più importanti scuole umanistiche, dopo aver sottolineato che la vera nobiltà consiste nella virtù, Guarino si preoccupa soprattutto di indicare come studiare e quali autori conoscere. Neppure quando sottolinea il valore didattico dello studio di gruppo, apprezzato perché consente di imparare dagli errori favorendo la nascita di un sano spirito di competizione e di emulazione, Guarino parla degli amici del giovane educando: si riferisce con termini vaghi e generici ai compagni di studio. Pur menzionando il Laelius di Cicerone tra i libri dei filosofi da studiare, nemmeno Piccolomini fa alcun riferimento all’amicizia nella sua opera, che è dedicata ad un principe proprio come il trattato di Guarino. È un assenza significativa, perché il De liberorum educatione segue da vicino una delle opere iscritte nel Corpus plutarcheo, il De liberis educandis, in cui vi sono alcuni riferimenti all’amicizia”. Mentre Plutarco sostiene che la filosofia insegni ad amare gli amici e consiglia di tenere i ragazzi lontani dagli adulatori, considerati falsi amici e commedianti dell’amicizia, Piccolomini non parla di amici neppure quando affronta un tema centrale in molti degli specula princibum composti nel Quattrocento: invita il principe a circondarsi
di giovani sinceri e ben educati anziché di adulatori, ma non lo consiglia sulla scelta degli amici7°. Anche nel De studiis et litteris di Bruni non si menziona l’amicizia, né si chiamano in causa gli
amici. Nonostante quest’opera si collochi cronologicamente tra il
74 Plutarco, De liberis educandis, in Moralia, a cura di G. Pisani e L. Citelli, Pordenone, Biblioteca dell'immagine, 1990, vol. II. Come evidenziato nel secondo capito-
lo, quest'opera erroneamente attribuita a Plutarco, il solo testo greco dell’antichità espressamente dedicato all’educazione, ha una grande diffusione nel Quattrocento, a partire dalla traduzione latina di Guarino (1411), di cui si avvale Piccolomini. Influenza Alberti nel primo libro della Famiglia, ma anche Erasmo (De pueris statim ac liberaliter instituendis) e Montaigne (Essaîs, I, XXV-XXVI).
75 Per l’identificazione degli adulatori con i falsi amici si deve prendere in considerazione un’altra opera iscritta nel Corpus plutarcheo, cui si è già fatto riferimento più volte nel corso dell’analisi: Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall'amico, cit.; l'edizione dell’opera curata da A. Lukinovic e M. Rousset riporta anche la parafrasi latina di Guarino Veronese.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
De ingenuis moribus e la Vita civile, le argomentazioni di Bruni sono lontane sia da quelle di Vergerio sia da quelle di Palmieri. Il cancelliere fiorentino si rivolge ad un’istruita nobildonna della casata dei Montefeltro di Urbino: si sente un ammiratore più che un maestro quando le ricorda l’importanza che possono avere gli studia bumanitatis, filosofia morale e religione prima di tutto, ma anche storia e poesia”0. Come dovrebbe emergere da queste considerazioni, gli accenni e i riferimenti all’amicizia presenti nell’opera di Vergerio costituiscono un’eccezione, che è particolarmente significativa
perché sembra anticipare il pensiero di Palmieri. Quando elenca i comportamenti che si addicono ai giovani ben educati, Vergerio chiarisce infatti che:
Essi devono anche essere istruiti sul modo in cui è bene accogliere chi arriva e sul modo in cui è bene salutare chi si allontanano, devono sapere che è opportuno salutare le persone più anziane con verecondia, trattenere quelle più giovani con umanità, comportarsi con familiarità con gli amici e gli uomini che si mostrano benevoli7.
Come Palmieri, anche Vergerio sembra pensare ad un’educazione alla vita di relazione, riconoscendo che i giovani, soprattutto i principi, devono essere educati non solo per imparare a comportarsi in modo adeguato con chi è loro superiore o inferiore, ma anche per imparare come trattare gli amici. L'amicizia, 76 La centralità dell’amicizia emerge nell’Isagogicon moralis disciplinae, in cui si legge che: «In vita autem atque et conversatione multa peccantur. Nam reperiuntur quidam contentiosi, displicentes, duri, difficiles, inhumani, contraque alii adulatores,
placendi studio omnia assentantes, hec utraque vitanda sunt. Media vero inter hec virtus est amicitia similis, procul ab assentatione, procul a contentios asperitate»; corsi-
vo mio (Bruni, Opere, cit., p. 228). Nel passo bruniano è evidente il richiamo a quella
virtù intermedia tra l’adulazione e la litigiosità che, come si è visto analizzando il De regimine principum, è ricondotta alla philia nel quinto libro dell’Etica Nicomachea, ed è chiamata amicalbilitas da Egidio Romano. 77 P. Vergerio, Petri Pauli Vergerii ad. Ubertinum de Carraria de ingenuiis moribus et liberalibus adulescientiae studiis liber, in Kallendorf (edited and transleted by), Humanist Educational Treatises, cit., p. 26: «Insituendi sunt praetera quo pacto deceat admittere venientes, quo abeuntes dimittere, ut oporteat verecunde salutare maiores, minores humaniter colligere, amicos benevolosque familiariter convenire». La traduzione è mia.
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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dunque, è una regola di comportamento fondamentale per la pedagogia delle relazioni abbozzata nel De ingenuis moribus. La valenza pedagogica dei rapporti di amicizia emerge anche quando Vergerio propone che i giovani siano educati extra civitatem aut extra domum apud cognatos amicosve, cioè fuori dalla città e dalla famiglia in cui sono nati, presso parenti e amici del padre. L’umanista crede, infatti, che parenti e amici possano essere più autorevoli dei genitori e meno indulgenti?8. Sia Vergerio sia Palmieri abbozzano quella che si potrebbe definire come una pedagogia dell’amicizia. Tuttavia, la distanza che li separa è maggiore di quanto non appaia a prima vista. Si deve, infatti, considerare che il contesto di riferimento del
De ingenuis moribus è molto diverso da quello della Vita civile: l’amicizia di cui parla Vergerio non è una relazione che si realizza partecipando alla vita politica della città, bensì una relazione che si manifesta a corte. Inoltre, nonostante cerchi di conciliare
vita attiva e vita contemplativa sottolineando il piacere che gli studi liberali portano agli uomini impegnati nell’attività politica, Vergerio non rivendica il primato dell’agire sull’intendere come Palmieri. Infine, sebbene la vita attiva coincida con l’essere impegnati nelle proprie faccende e con l’occuparsi di quelle degli amici (versari in amicorum negotiis), il riferimento di Vergerio all’ami-
cizia e ai doveri verso gli amici sembra più che altro un luogo comune. Forse è l’eco di qualche passo latino che l’umanista cita, o tiene presente, per sviluppare la propria analisi. La differenza tra la pedagogia dell’amicizia di Vergerio e quella di Palmieri non dipende solo dal pathos con cui questi rivendica il primato dell’operare sull’intendere, ma anche dal valore politico che attribuisce a questa relazione. L’amicizia è così importante per l’educazione dei giovani perché ha una connotazione politica: come si comprenderà meglio alla fine del paragrafo, l’amicizia è uno dei doveri dei cittadini perché è un concetto chiave della concezione della vita civile delineata nell’opera. Semplificando e trascurando momentaneamente il valore esistenziale di questa 78 Ivi, p. 28.
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relazione, capace di rendere più piacevole la vita dell’uomo,
si potrebbe forse dire che la valenza pedagogica dell’amicizia dipende dall’intrinseca valenza politica della relazione. Questa caratterizzazione dell’amicizia mostra la profondità della connessione tra pedagogia e politica, due livelli d’analisi che si sovrappongono e s'intrecciano continuamente nella Vita civile, rafforzandosi a vicenda. È la forza di questo nesso a distinguere la Vita civile, che resta comunque un’opera di natura pedagogica”?, dai trattati della prima metà del Quattrocento relativi all’educazione dell’uomo, anche dal De ingenuis moribus di Vergerio. L'amicizia e le virtù civili
La natura politica dell'amicizia emerge con chiarezza alla fine del primo libro, quando sono analizzate le virtù civili. Qui Palmieri sottolinea la forza del legame esistente tra amicizia e giustizia, definendo questa virtù nel modo seguente: La giustitia civile solo conserva a ciascuno quello che è suo, punisce i
rei, gli innocenti exalta, rimunera i virtuosi, conserva, acresce et mantiene le
parentele, amicitie et concordie dell’humana moltitudine89.
Alla luce di tale definizione, l’amicizia sembra essere uno dei
corollari della giustizia, un suo effetto, o una sua conseguenza*8!. Poiché la giustizia è la «imperadrice di tutte le virtù»82 civili, la
79 A conferma della natura pedagogia della Vita civile, oltre a quanto sostenuto in
E. Garin, Educazione umanistica in Italia, Bari, Laterza, 1953, può essere utile ricorda-
re che l’opera di Palmieri è riportata a fianco dei trattati pedagogici di Vegio e Vergerio in AA.VV., Testi paedagocici, cit.
80 Ve, p. 52.
81 Sulla connessione tra amicizia e giustizia vd. anche Vc, p. 64. 82 Vc, p. 104. Quando prende in esame la giustizia nel terzo libro, Palmieri formula la seguente definizione: «Solo questa virtù è principale imperadrice di ogni altra virtù: conserva a ciascuno quello che è suo, a tutto il corpo della republica insieme provede e ministra, ciascuno membro conserva, la pace unione et concordia della civile multitudine unitamente congiunge et serra, onde insieme sana et vigorosa la città non vagilla, ma potente et gagliarda valentemente resiste et difendesi da qualunque accidente nascesse di fuori o drento».
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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connotazione politica dell’amicizia dovrebbe essere evidente. Ritengo, tuttavia, che un’analisi più approfondita della teoria delle virtù proposta nella Vita civile possa chiarire meglio quale funzione politica sia attribuita a questa relazione. Dopo aver dimostrato che l’educazione proposta è quella che guida l’uomo lungo la strada della virtù, per rispondere alla domanda di uno degli interlocutori, Pandolfini decide di esaminare le virtù cardinali, cioè la prudenza, la fortezza, la temperanza
e la giustizia. Come è noto, si tratta della classificazione platonica delle virtù che è formulata nella Repubblica ed è ripresa anche da Cicerone nel De officiis83. Queste quattro virtù sono analizzate seguendo da vicino l’Etica Nicomachea. Sono considerate da quattro diversi punti di vista. Palmieri distingue, infatti, tra virtù civili e politiche, virtù purgatorie, virtù degli animi purgati, e virtù divine o esemplari. Le virtù esemplari sono le virtù di Dio, ossia la prudenza, la temperanza, la fortezza e la giustizia presenti nella mente divina, e fungono da modello per ogni altra forma di virtù. Le virtù purgatorie sono la prudenza, la temperanza, la fortezza e la giustizia che sono possedute solo da chi ha raggiunto la beatitudine eterna. Le virtù degli animi purgati sono le virtù di coloro che si mondano dal peccato dedicandosi totalmente alla contemplazione delle cose divine per giungere alla beatitudine eterna. Le virtù civili sono la prudenza, la temperanza e la fortezza che possono essere raggiunte da «buoni uomini» che conducono un'esistenza onesta84. Proponendo questa distinzione, Palmieri riprende la quadripartizione delle virtù che Macrobio ha mutuato da Plotino o da Porfirio, e reso canonica nel Commento al Somnium Scipionis85. 83 Rep, IV, 427d sgg., da p. 421; Of, I, V, pp. 16-17. Sulla connessione tra amicizia e giustizia in Cicerone vd. anche Of, I, VII, pp. 20-23. 84 Vc, pp. 52-53. 85 Ve,pp. 51-52. Per la distinzione tra virtù politiche, virtù purgatorie, virtù degli animi purgati e virtù divine, vd. Macrobio, Commento al Somnium Scipionis, testo, trad. e commento a cura di M. Regali, Pisa, Giardini, 1983, I, VII, pp. 9-12. Come è noto, questa opera erudita della prima metà V secolo d.c. è un commento al Somnium Scipionis di Cicerone, in cui Macrobio crede di poter trovare tutte le principali dottrine neoplatoniche. Si tratta di un compendio delle arti del trivio e del quadrivio prope-
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Tuttavia, la decisione con cui Palmieri condanna la vita solitaria
e la santità eremitica degli uomini che si dedicano alla contemplazione occupandosi solo della salvezza individuale priva la quadripartizione del significato tradizionale8®. Le virtù cardinali sono le virtù civili: per Palmieri conta solo ed esclusivamente questa tipologia di virtù, necessaria agli uomini che si preoccupano della «utilità del vivere comune», e si dedicano attivamente alla vita politica, fuggendo l’ozio e la solitudine della contemplazione delle cose divine. Nel terzo libro della Vita civile, prima di esaminare nel dettaglio la virtù della giustizia, lodando l’amore per la patria e per i figli Palmieri sostiene che questo amore è l’unico sentimento naturale che consenta all’uomo in generale, e al vîr civilis in particolare, di sopravvivere dopo la morte®7. È questa eternità tutta terrena la ragione per cui la politica è la più degna tra le attività umane. Poiché l’attività politica si «esercita per acrescimento et salute della patria et optimo stato d’alcuna bene ordinata repubblica», la giustizia è la più importante delle
‘ virtù civili, la virtù senza la quale «niuna città, né alcuno stato o
publico reggimento può perdurare»88. deutico allo studio della filosofia, diviso in varie parti che trattano argomenti molto diversi (dalla sezione sull’aritmologia per il calcolo degli anni di Scipione ai trattati di cosmologia, astronomia, geografia, musica), partendo da spunti e frasi del testo di Cicerone. Il riferimento ciceroniano all’eterna beatitudine riservata ai benefattori dello stato funge da base per il trattato sull’anima in cui si trova anche la classificazione delle virtù ripresa da Palmieri. L’opera di Macrobio ha avuto una grandissima diffusione nel Medioevo, da Boezio a Petrarca, passando per i filosofi della Scuola di Chartres, Giovanni di Salisbury e Tommaso d’Aquino. Nella seconda metà del Quattrocento Marsilio Ficino riprende da Macrobio la distinzione tra vita contemplativa, vita attiva e vita voluttuosa, per sostenere che la vita virtuosa è la somma di queste tre vite, non
l’esclusione di qualcuna di esse. 86 Vc, p. 53: gli uomini dediti alla vita contemplativa «sono uomini ociosi, viventi in solitudine et rimossi da ogni pubblica actione, sanza alcuna utilità del vivere comune degli altri mortali, solo intenti alla propria salute». Poco dopo aver detto ciò, Palmieri sostiene anche che «la semplice santità solo a sé fa pro», riprendendo un’affermazione che si trova anche in alcune lettere di Salutati. Il primato della vita attiva sulla vita contemplativa emerge con particolare evidenza quando Palmieri afferma che «la vita solitaria è posposta a questa [la vita civile], e le altre dua [le virtù degli animi purgati e le virtù exemplari], come cose superne, non sono proprie degli uomini» (VC, p. 54).
87 Vc, p. 103. 88 Voc, p. 104.
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La giustizia genera amicizia e concordia nella vita civile e politica: questa tesi, che affiora tra le righe del passo citato, è sostenuta anche in un passo del Commento di Macrobio®9. È probabile che Palmieri si riferisca a questo passo quando formula la definizione della giustizia. Tuttavia, se si pensa all’impegno con cui Palmieri ha difeso gli ideali dell’ordine e della stabilità durante tutta la sua attività politica, il nesso istituito tra giustizia, amicizia
e concordia acquisisce un significato del tutto diverso. Nella Vita civile, amicizia e concordia non possono, infatti, essere genericamente considerate delle conseguenze della giustizia, come sostiene, invece, Macrobio, perché tendono a coincidere con essa.
Questo non dipende solo da ragioni attinenti alla vita dell’autore, ma anche da motivazioni intrinseche alla riflessione sviluppata nell’opera: come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, Palmieri sostiene che è l’amicizia a tenere unite le città. Esiste, dunque, una connessione strettissima tra amicizia e concordia; questi termini
vanno pensati come un’endiadi. L’amicizia non è una relazione capace di generare coesione
sociale e concordia solo perché è uno dei doveri civili cui devono essere educati tutti i cittadini. Per comprendere quale sia il suo valore politico, si deve innanzitutto considerare che l’amicizia è il risultato del possesso di tutte e quattro le virtù civili, in un circolo virtuoso che unisce governo di sé (prudenza, fortezza e temperanza) e governo degli altri (giustizia). L’amicizia è infatti annoverata, insieme all’amore per la virtù ed alla difesa per la patria, tra le cose giuste e oneste in se stesse?0, È così ricondotta alla cate-
82 Si confronti il passo di Palmieri con quello di Macrobio che funge da riferimento: «Spetta alla giustizia conservare a ciascuno ciò che gli appartiene: dalla giustizia derivano l’innocenza (innocentia), l’amicizia (amicitia), la concordia (concordia), il sentimento del dovere (pietas), l'osservanza scrupolosa (religio), l’amore (affectus) e l’umana simpatia (humanitas)» (Macrobio, Commento al Somnium Scipionis, cit., p.
101).
90 Ve, pp. 55-58: Pandolfini include l’amicizia tra le cose oneste e giuste in se stesse, rispondendo ad una domanda di Guicciardini, curioso di sapere dal maestro se si debba sempre obbedire ai padri. L'analisi della prudenza, della fortezza e della temperanza è una sintesi di posizioni aristoteliche derivate dall’Etica Nicomachea e di assunti ciceroniani, mutuati soprattutto dalla Rbetorica ad Herennium e dal De officiis. Citazioni
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
goria dello bonestum, come tutte le altre virtù. Questo spiega la presenza di accenni all’amicizia nell’analisi della prudenza, della temperanza e della fortezza. In questa sezione della Vita civile, in cui Palmieri sostiene che per essere cittadini onesti e virtuosi si devono possedere tutte le virtù, l’amicizia dipende dal possesso di tutte le virtù civili, non solo dalla giustizia. Forse è possibile considerare l’amicizia come una virtù civile. Mi sembra più rilevante mettere in luce un altro aspetto della riflessione di Palmieri, da cui emerge il valore politico della relazione: sia nel passo citato sia nel passo in cui l’amicizia è presentata come una conseguenza del
possesso di tutte le virtù, l’amicizia è posta sulla linea di confine che separa e unisce la famiglia e la città. Si legge, infatti, che:
Da queste [le virtù civili] procede la pietà ne’ padri, l’amore ne? figliuoli,. la carità de’ parenti, la defensione degli amici et ultimamente il pubblico governo et universale salute della civile unione et concordia?!.
La posizione attribuita all’amicizia in questo passo è particolarmente degna di nota. Posta tra l’oikia e la polis, l'amicizia sembra mediare il passaggio dalla sfera privata e personale delle relazioni con i padri, i figli e i parenti, alla sfera pubblica e politica del governo, in cui si realizza la «civile unione e concordia». È come se una serie di cerchi concentrici generati dal possesso
delle virtù civili indicasse relazioni via via più estese ed universali, che comprendono sia i rapporti famigliari sia i rapporti politici, e sono i legami da cui è costituita la società. Questa immagine che descrive la vita sociale dell’uomo con una serie di cerchi concentrici più o meno ampi torna, con sfumature diverse, anche nei passi
paoline ed evangeliche venano di sfumature religiose queste riflessioni di Palmieri. Non insisto sui debiti dell’analisi delle virtù nei confronti di Aristotele e Cicerone perché essi emergono chiaramente sia dalle note critiche del secondo e del terzo libro della Vita civile, sia dall'analisi di Mita Ferraro: Mita Ferraro, Matteo Palmieri: una biografia intellettuale, cit., pp. 259-275. Prima di proporre una tavola sinottica di confronto tra il terzo libro della Vita civile e il primo libro del De officiis, per chiarire come sia definita la giustizia, la studiosa sottolinea che l’analisi della prudenza riprende Of, I, V-VI, ma anche EN, VI, 1140b, ed evidenzia che l’analisi della fortezza è «un amalgama di passi ciceroniani ed aristotelici». 2iVG\p259:
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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iniziali del secondo libro, in cui Palmieri paragona l’uomo agli altri animali per descrive la genesi della vita civile. Spinto ad unirsi ai propri simili dall’istinto di autoconservazione che lo porta a perpetuare la specie, l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è il solo essere vivente dotato di una natura razionale. Infatti, sono la
ragione e la capacità di esprimere concetti a permettere all’uomo di procurarsi ciò che è utile per la sopravvivenza, consentendogli di valutare il presente e di preoccuparsi per il futuro’. Queste qualità specificatamente umane rendono possibile la nascita della società. Indipendentemente dal fatto che Palmieri sottoscriva e rielabori la tesi aristotelica della natura razionale e socievole dell’uomo,
credo sia rilevante notare che sono le stesse qualità razionali, che distinguono l’uomo dall’animale, a generare le «coniunctioni delle amicitie», le parentele, le «conversazioni et ministerii della vita
umana». Si crea così quella «unione di ragunata moltitudine», che porta a vivere sotto la guida delle leggi nelle città?3. Sostenendo questa tesi, Palmieri attribuisce all’amicizia una posizione diversa. Essa non è più posta tra l’oikia e la polis: non è la relazione che media il passaggio dalla sfera privata alla sfera pubblica, ma il primo dei cerchi concentrici che indicano i rapporti interumani. Pertanto, l'amicizia sembra essere la relazione che sta alla base dello stesso processo di socializzazione dell’uomo ed il legame su cui si fonda la vita politica. Come si è visto nel primo capitolo, anche Alberti attribuisce questa posizione all’amicizia, quando mostra che è fondata sui bisogni naturali che spingono gli uomini ad unirsi gli uni agli altri?4. Il confronto tra la Vita civile e la Famiglia è possibile 22 VC, pp. 62-63, in particolare: «Dicono che infino da principio ogni animale come è nato, di fatto s'accomoda a cercare la propria conservazione», ma anche: «quello in che gli uomini avanzano maximamente tutte le bestie è la ragione dello intelletto e la potentia del poter exprimere ogni concetto, delle quali cose niuna bestia partecipa». 93 Vc, p. 62: «Da così facta commodità [la possibilità di procurarsi le cose necessarie alla vita grazie alla ragione] nascono le coniunctioni dell’amicitie, le le parentele et unioni degl’huomini, le conversationi e ministerii della vita humana, onde quasi stretti gli uomini si sono conciliati in unione di ragunata moltitudine. Quinci hanno avuto principio le città [...]».
94 Cfr. LdF, pp. 162-163 e Vc. pp. 62-63.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
anche perché tanto Palmieri quanto Alberti insistono sulla ricerca dell’utile e sull’istinto di autoconservazione come moventi della socializzazione umana.
A differenza di Alberti, però, Palmieri
chiarisce quale sia il valore politico dell’amicizia nella città: come cercherò di mostrare, l’amicizia non è solo il fondamento
del processo di socializzazione, ma anche il modello del legame sociale che unisce governanti e governati. 3.4 L'utilità politica dell’amicizia L’amicizia tiene unite le città
Il valore politico dell’amicizia è chiaramente esplicitato nel quarto libro della Vita civile, in cui Palmieri esamina il concetto di utile. Per sostenere l’assenza di contraddizione e la correlazione esistente tra utile ed onesto, segue quasi alla lettera la lezione di Cicerone?5. L’utile è diviso in quattro categorie: la prima include le cose utili in quanto buone in sé; la seconda riguarda le cose
sia buone sia utili; la terza è la categoria delle cose utili in sé; la
quarta annovera le cose comode e belle. L'amicizia rientra nella seconda di queste categorie, insieme ai legami di parentela, alla gloria, ed alla salute, ed è oggetto di un’ampia analisi’. Per la prima ed unica volta, questo tema riceve una trattazione autonoma e specifica. L’utilità politica dell'amicizia discende logicamente dal nesso che Palmieri ha istituito tra amicizia e giustizia. Per cogliere sino in fondo il valore politico attribuito all’amicizia, credo sia opportuno precisare che la riflessione sul concetto di utile è preceduta dalla rivendicazione del primato dell’agire e del fare. Non si tratta 95 In alcuni punti Palmieri
sembra
discostarsi
dall’insegnamento
ciceroniano,
perché evidenzia l'autonomia pratica dell’utile. Per esempio, in Vc, pp. 151-152, è ambiguo nell’esporre le sue tesi: non si capisce se utile e onesto debbano essere sempre uniti, come sostengono i filosofi, oppure possano essere separati, come credono i più. D'altra parte, l'ambiguità potrebbe dipendere dallo stesso De officiis di Cicerone: Of, URINE
palo4a
96 Vc, pp. 152-153.
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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di un ulteriore approfondimento del rapporto posto in essere tra vita attiva e vita contemplativa. Questa volta, infatti, è evidenziata la dimensione eminentemente sociale delle virtù: dopo aver sottolineato che «la vera loda di ciascuna virtù è posta nell’operare», Palmieri chiarisce che la virtù non potrebbe essere perseguita in solitudine, affermando che l’uomo raggiunge la perfezione morale se, e solo se, vive insieme ad altri uomini?7. Per cogliere la funzione politica dell’amicizia, si devono esaminare alcuni riferimenti all’amicizia presenti nella sezione in cui sono analizzati i legami di parentela. Palmieri svolge questa riflessione avvalendosi del De officiis, ma anche dell’Oeconomicus®8,
un trattato sui doveri della moglie e del marito e sulla vita nella
famiglia, annoverato tra le opere di Aristotele anche agli inizi del Quattrocento. Riferendosi ad un passo di questo trattato pseudoaristotelico, Palmieri consiglia che i rapporti tra coniugi siano modellati sull’amicizia: «El parlare et ragionamenti loro sieno amichevoli et honesti et di cose domestice et piacevoli»??. È solo un accenno, ma è importante per diversi motivi, tra loro collegati.
Non insisto sul fatto che l’amicizia, in particolare l’aristotelica amicizia secondo virtù, sia il modello e la forma del legame coniugale perché ciò è già emerso, considerando la disputa tra Battista e Lionardo presente nel secondo libro della Famiglia. Non mi soffermo neppure sulle radici aristoteliche della concezione dell’amicizia come fondamento delle relazioni tra i membri della famiglia, perché sono già state evidenziate analizzando il
97 Vc, pp. 153-154: nessuna virtù può essere perseguita in solitudine perché non può essere giusto e forte «chi in solitudine viverà»; la «temperantia non è di chi rimoto non conversa fra i diletti mondani, ma di chi travagliandosi in quelli si contiene». 98 Of, II, XX, p. 189 e Aristotele, L’amministrazione della casa, trad. it. di R. Laurenti, a cura di C. Natali, Roma-Bari, Laterza, 1995, libro III, IV, pp. 115-116. Per un confronto tra l’Economico senofonteo e l’Economico pseudo-aristotelico, vd. anche C. Natali, Introduzione, ivi, pp. 5-55. Sulla traduzione bruniana dell’Economico pseudo-aristotelico, composta prima del 1429 e dedicata a Cosimo de’ Medici, la traduzione di cui si avvale probabilmente Palmieri, vd. R. Laurenti, Studi sull’Economico attribuito ad Aristotele, Milano, Marzorati, 1968, in particolare pp. 83-124.
99 Ve, p. 158.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
De regimine principum di Egidio Romano. Mi limito a richiamare l’immagine dei centri concentrici, che Palmieri utilizza per descrivere la dimensione sociale dell’esistenza umana: posta all’origine del processo di socializzazione, l’amicizia può mediare il passaggio dalla sfera personale e privata delle relazioni a quella politica e pubblica perché non vi è nessuna opposizione tra oikia e polis. Questi due ambiti della vita sociale dell’uomo non sono separati, ma contigui, grazie all’amicizia: lo stesso legame che unisce la famiglia unisce anche la città. Subito dopo aver analiz-
zato i rapporti interni alla famiglia, Palmieri sostiene, infatti,
che: L’amicitia è il solo legame che mantiene le città, né può non solo una città ma una piccola compagnia durare sanza questa; et donde è tolta, disgrega e guasta ogni unione; per questo si dice che i componitori delle leggi più tosto debbono riguardare alle unione et concordia che alla iustitia, però che la vera amicitia sempre è per se stessa giusta!00,
Questo è un passo chiave, perché mostra più chiaramente di altri quale sia il valore politico che è attribuito all’amicizia nella Vita civile. Sostenendo che sia l’amicizia a tenere unite le città,
Palmieri dimostra che è la relazione politica per eccellenza: è la relazione su cui si basa «ogni unione». L’amicizia è posta a fondamento della società umana anche nel De avaritia, un dialogo scritto da Bracciolini e inviato all'amico Francesco Barbaro il 13 dicembre del 1428. Uno dei protagonisti del dialogo sostiene, infatti, che «soppresse la benevolenza e l’amicizia, gli uomini combatteranno tra loro, e tutto sarà messo a soqquadro da rapine e da stragi»101, Se viene meno l’amicizia, gli uomini vivono in balia di lotte e rapine, perché l’amicizia è uno dei «vincoli della società umana» (bumanae societatis vincula) insieme alla benevolenza. Non è tanto importante che a sciogliere questo vincolo sia
100 Ve, p. 162. Corsivo mio. 101 P. Bracciolini, De avaritia, in E. Garin (a cura di), I prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 248-302, in particolare p. 252; riporto anche il testo latino: «sublatis benevolentia et amicitia digladiabuntur homines inter se, rapinasque ac caedibus omnia permiscebuntur».
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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l’avarizia, il desiderio illimitato di denaro, la smisurata brama di ricchezze caratteristica del clero, che è contrapposta ad un altro tipo di desiderio, la cupidigia, il naturale e misurato desiderio di utile e benessere che è presente in ogni uomo. Né, ora, interessa
particolarmente che i protagonisti dell’opera si chiedano ripetutamente se l’avaro possa o meno avere amici, cercando di trovare una risposta nella definizione ciceroniana della giustizia. Mi pare che sia molto più importante notare che Palmieri non è il solo a sottolineare il valore politico dell’amicizia in quanto relazione capace di evitare divisioni e discordie. Sostenendo che la vera amicizia sia il legame e il vincolo che mantiene unita la città, Palmieri mostra che l’amicizia non è un
bene utile e necessario all’uomo solo per il suo valore esistenziale, solo perché rende più piacevole la vita di ogni individuo grazie alla condivisione di gioie e dolori: l’amicizia è un bene utile e necessario all’uomo perché è una relazione politica. Nel passo citato, il valore politico dell’amicizia è evidenziato fondendo il tema ciceroniano della vera amicizia con l’idea aristotelica secondo la quale i legislatori dovrebbero occuparsi dell’amicizia prima che della giustizia!02. Dal Laelius deriva l’equazione tra amicizia e vera amicizia, dall’Etica Nicomachea l’assimilazione di amicizia
e concordia. Il nesso tra amicizia e concordia è esplicitato anche in un altro passo della Vita civile, in cui compaiono parole simili a quelle usate da Bracciolini. Palmieri dice, infatti, che: Sopra ogni altra cosa l’amicitia mantiene le comodità et ornamenti del mondo, però che, tolta di terra, niuna famiglia si truova sì stabile, né sì potente et ferma republica che non fusse brevissimamente con ruina in ultimo sterminio disfacta, però che per la concordia le cose piccole sempre crescono et per la discordia le grandissime si distruggono!03., 102 Per la definizione di vera amicizia vd A, VI, 22, p. 96; per il nesso tra amicizia e concordia vd. EN, VII, 1, 1155a 22-26, pp. 312-313: «A quanto pare l’amicizia tiene unite le città, e i legislatori si preoccupano di essa più che della giustizia, infatti si ritiene che la concordia sia qualcosa di simile all’amicizia e i legislatori perseguano soprattutto questa, mentre tengono fuori dalla città soprattutto l’inimicizia come una nemica». 103 Vc, p. 164; corsivo mio. L'inizio del passo è una citazione di A, VII, 23, p. 98: «Id si minus intellegitur, quanta vis amicitiae concoridaeque sit, ex dissensionibus atque discordiis percipi potest. Quae enim domus tam stabilis, quae tam firma civistas
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Come si dovrebbe evincere dal passo appena citato, dopo essersi riferito al Laelius per sostenere che l’amicizia è la relazione su cui si fonda ogni società, Palmieri si riferisce al Bellum Iugurthinum di Sallustio per chiarire così che l’amicizia è il vincolo sociale che genera concordia. Non si avvale solo di Aristotele e gli autori Cicerone, ma anche degli storici romani, come se tutti l’utilità confermare e sostenere a chiamati fossero del passato duplice: è dell’amicizia politico valore Il politica dell'amicizia. essa è il vincolo che unisce le città e le repubbliche, ma anche la relazione che permette loro di espandersi e rafforzarsi, generando concordia. Queste due funzioni politiche dell’amicizia sono l’una conseguenza dell’altra: l’unità del corpo politico che l’amicizia genera, impedendo che le città siano distrutte dalle discordie, crea le premesse necessarie alla loro espansione. L'antica Roma e Firenze: gli amici sono la miglior difesa del regno La seconda funzione politica dell'amicizia emerge chiaramente
est, quae non odiis et discidiis funditus possit everti»; corsivo mio. La fine del passo della Vita civile citato nel testo è tratto dal Bellum Iugurthinum: «Nunc, quoniam mihi natura finem vitae facit, per hanc dexteram, per regni fidem moneo obtestorque te, uti hos, qui tibi genere propinqui, beneficio meo fratres sunt, caros habeas neu malis alienos adiungere quam sanguine coniunctos retinere. Non exercitus neque thesauri presidia regni sunt, verum amici, quos neque armis cogere neque aures parare queas:
officio et fide pariuntur. Quis autem amicior quam frater fratri? Aut quem alienum
fidum invenies, si tùis hostis fueris? Equidem vobis regnum trado firmum, si boni eritis, sin mali, imbecillum. Nam concordia parvae res crescunt, discordia maxume dilabuntur». (Sallustio, Bellum Iugurthinum, X, 3-6, in Id., Opere, a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino, UTET, 1991, p. 196; corsivo mio). Come evidenzia Skinner (Q. Skinner, Pre-humanist origins of repubblican ideas, in G. Bock, Q. Skinner and M. Viroli, edited by, Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge UP, 1990, pp. 121-142), questo passo del Bellum Iugurthinum ha una rilevanza notevole per l’origine e lo sviluppo del pensiero repubblicano, dal Tesoro di Brunetto Latini sino ai Discorsi di Machiavelli: insieme a Cicerone, Sallustio è la fonte cui dicatatores e teorici del governo repubblicano si riferiscono per connettere la grandezza della città alla concordia e all'unità del corpo politico. Il passo del Bellum Iugurthinum potrebbe anche essere la fonte della tesi formulata in Vc, p. 129, dove Palmieri sostiene che gli amici sono la migliore difesa del regno.
3. L'AMICIZIA CIVILE: L'AMICIZIA NELLA VITA CIVILE DI MATTEO PALMIERI
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attraverso alcuni riferimenti alla storia di Roma. Pur essendo presenti sullo sfondo di tutte le riflessioni della Vita civile, risultano particolarmente significativi soprattutto nel terzo libro, dedicato alla giustizia. La riflessione sviluppata da Palmieri si concentra intorno a due ambiti fondamentali, che distinguo e separo solo per essere più chiara: il tema dell’ingiustizia e quello della giustizia nella guerra. Dopo aver precisato che è chiamato giusto solo chi vive rispettando le leggi, Palmieri si concentra sulle cause che spingono gli uomini ad agire ingiustamente. Trattando il tema dell’ingiuria, distingue tra leggi naturali e consuetudini. A conferma del carattere pratico e pragmatico della Vita civile, credo sia rilevante notare l’analogia esistente tra queste considerazioni e le tesi sostenute nel Protesto, l’orazione pronunciata in occasione dell’elezione a Gonfaloniere di Compagnia!04. Rientra nel primo ambito d’analisi anche l’esame delle caratteristiche del buon magistrato, e della giustizia distributiva, che è strettamente correlata alla liberalità e alla magnificenza. Devono, infatti, evitare di commettere ingiustizia sia coloro che sono magistrati, sia coloro che distribuiscono onori e ricchezze. Lunghe considerazioni sulla guerra spezzano l’unità del ragionamento, ponendo in primo piano alcuni casi di ius în bello e di ius ad bellum, che sono esaminati con numerosi esempi storici.
Prima di mettere in luce alcuni degli episodi della storia romana, in cui l’amicizia è opposta alle divisioni e alle discordie che mandano in rovina le città, vorrei sottolineare che il tema dell’amicizia affiora in superficie anche quando Palmieri si concentra sul primo dei due ambiti d’analisi individuati. Nell’ennesima definizione di giustizia che formula, infatti, afferma che: Chi più possiede, occupa o toglie, sarà rapace violatore dell’ordine della humana coniunctione, la quale, secondo piace a’ sapientissimi philosophi, si debbe accerscere et inviolata mantenere, però che il principio, l’origine et
104 Nel Protesto, però, Palmieri non fa alcun riferimento all'amicizia quando analizza la virtù della giustizia.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
nascimenti nostri non sono per noi soli ma parte alla patria, parte a’ nostri parenti, parte agli amici, ne debba essere convenientemente diputato!05,
Chiarito ciò, riprende quasi alla lettera un famoso passo del De officiis1%, per specificare il secondo dei precetti in cui è possibile racchiudere il significato della giustizia: oltre a prescrivere che non si faccia del male a nessuno, lasciando che siano i giudici a punire, la giustizia richiede che si usino in comune certi beni. Per giustificare ciò non si richiama solo al famoso topos aristotelico secondo il quale le cose degli amici devono essere comuni!0, ma anche alla tesi sostenuta da Cicerone per provare l’esistenza di quel reciproco sentimento di benevolenza che unisce tutti gli uomini tra loro: essendo stati generati per il bene degli altri esseri umani, gli uomini devono aiutarsi tra loro, condividere i beni di comune utilità, rafforzare il sacro e naturale legame della società!°8, Questo spiega perché l’uomo non debba vivere solo per sé, ma per la patria e per gli amici. Palmieri non'è il solo ad esaltare il valore politico dell’amicizia, ricordando che l’uomo è nato per gli amici e la patria, perché si è già visto che questa tesi è sostenuta anche da Alberti nella Famiglia. Come si vedrà meglio in seguito, sarà ripetuta anche in alcuni degli specula principum esaminati nei prossimi capitoli. Sono decisamente più significativi di questi riferimenti ciceroniani, che sottolineano comunque il valore politico dell’amicizia,
gli accenni all’amicizia presenti nella trattazione del tema della guerra. Affinché l’impresa militare sia giusta, ed effettivamente 105 Vc, p. 106; corsivo mio.
106 Of, I, VII, p. 21: «Sed quoniam ut preclare scriptum est a Platone, non nobis solum nati simus, ortusque nostri partem patria vindicat, partem amici».
107 Per es. EN, VIII, 1159b 30-33, pp. 335-336, ma il topos è ripreso anche in Of,
I, XVI, p. 45.
108 Ve, pp. 106-107: «Et come piacque agli Stoici quello che nella abondante et feconda terra è per natura o per arte generato, tutto è creato et fructifica per uso et commune utilità degli huomini; gli huomini per loro stessi, cioè per cagione degli altri huomini sono stati generati et facti acciò che tra loro caritativamente i necessarii ufficii commutando possino giovare et fare pro alla propria conservatione. In questo adunque doviàno seguire la natura come guida et duce della humanità nostra, comunicare insieme qualunque utilità, dando et ricevendo alternativi benefici; con opera, studio, industria et commodo, coniungere, crescere et mantenere questo sancto legame et naturale debito alla unione et conviventia umana». Evidente, nel passo, il rimando a Of, I, VII, pp. 21-22.
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sostenibile, affinché l’esercito si comporti in modo degno d’onore,
non si devono solo considerare la natura del campo di battaglia o le forniture di armi e vettovaglie, ma anche le forze e le attitudini di ciascuno. Per Palmieri, infatti, la forza non dipende solo dal possesso di ricchezze, ma anche dal numero di amici!0?, Forse perché i rapporti di amicizia potrebbero trasformarsi in alleanze e patti militari. È più chiaro ed esplicito il secondo riferimento all’amicizia, proposto in un passo in cui la giustizia appare nella veste di virtù militare. Palmieri sostiene che i cittadini nobili e virtuosi debbano combattere solo per amore della patria ed in vista del bene comune, non per cercare di ottenere guadagni e vantaggi personali, seguendo il nobile esempio dei Fabi, dei Torquati, dei Decii, dei Marcelli e di tutti i romani che agivano «per somma gloria e immortal fama»!!9, Abbandonando i toni realistici che contraddistinguono certe sue riflessioni, egli constata che quando Roma era all’apice della propria potenza: Ciascuno cercava assai fare et di sé nulla dire, et i suoi facti lasciare agli altri lodare: la concordia tra loro era grandissima, la spezialità da tutti lungi; la ragione, il dovere et ogni bene da loro più tosto per naturali virtù che per timore di leggi erano servate. Ogni contesa, divisione et discordia era co’ loro nemici: i cittadini tra loro solo di virtù contendevano, temperati tutti nel vivere, fedeli agli amici, pì tutti et amplisimamente magnifici nelle venerande
celebrità de’ culti divini!!!.
I cittadini romani sono un esempio da seguire anche perché sono stati amici fedeli. Non deve stupire che siano l’incarnazione della virtù, della pietà e dell’amicizia, perché Palmieri ha una concezione fortemente idealizzata della storia di Roma!!2, Basta il solo passo citato per mostrare che Roma è il modello della perfetta concordia ed unione civile che Firenze deve imitare. 109 110 111 112
Vc, p. 119. Vc, p. 126.
Vc, p. 127; corsivo mio. Per un’analisi della concezione della grandezza di Roma da Bruni a Machiavelli si può vedere: J.G.A. Pocock, Barbarism and Religion. The First Decline and Fall, Cambridge, Cambridge UP, 2003, vol. III, in particolare la parte terza: The humanist construction of decline and fall, pp. 153-235.
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Tutti i gradi di inimicizia tra gli uomini sono esterni a Roma, caratterizzano la politica estera e si verificano solo nei rapporti coi nemici, perché la vita interna alla città è una vita all’insegna della ragione, della temperanza, dell’amicizia, della pietà e della magnificenza. Il significato di questo passo, mutuato dal De coniuratione Catilinae di Sallustio1!3, diventa ancora più chiaro ponendo sullo sfondo delle riflessioni di Palmieri le contese e le lotte che hanno lacerato la città di Firenze. Prima della citazione di Sallustio ritorna la distinzione ciceroniana tra le guerre che sono combattute per «la signoria e la gloria della onorata victoria» e le guerre in cui si dà battaglia per decidere chi debba rimanere al mondo. Le lotte tra Guelfi e Ghibellini appartengono a questa seconda tipologia e, proprio per questo motivo, sono
ritenute più violente delle guerre combattute da Firenze contro le città nemiche!!4. Gli esempi proposti per illustrare «le guerre di gloria» riguardano sia eroi romani (Quinto Fabio Massimo, Orazio Coclite, Numa Pompilio) sia eroi fiorentini (Farinata e
Vieri de’ Cerchi). Il parallelismo tra Farinata e Quinto Fabio Massimo, istituito per mostrare la grandezza degli uomini che hanno restituito la repubblica al loro popolo, è la prova più significativa dell’intreccio tra la storia di Roma e la storia di Firenze: la prima città deve essere il modello della seconda. Dato che Firenze è l’erede della gloria e della virtù di Roma, nonostante le divisioni che in passato hanno lacerato la città, i fiorentini potranno essere amici: l’amicizia e la concordia regneranno anche nella città di Palmieri. Condannando le guerre interne alla città, Palmieri insiste più volte sulla concordia, attingendo largamente dal De officiis
113 Sallustio, De coniuratione Catilinae, IX, cit., p. 15: «Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minima avaritia erat. Ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. Iurgia, discordias, simulates cum hostibus
exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. In suppliciis deorum magnifici, domi parci, in.amicos fideles erant». 114 Vc, p. 120. Per tale distinzione vd. Of, I, XI, p. 35. Si noti che Cicerone collega la distinzione tra guerre di gloria e guerre di sopravvivenza a quella tra nemico personale ed avversario politico, attenuando così la violenza della scena politica.
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per sostenere che «lo stato et fermamento di ogni republica è posto nella unione civile». Chiarisce anche che per l’unità della città è necessario mantenere «la compagnia et convenienza cittadinesca», l’amicizia tra cittadini!!5. Chi non si preoccupa della coesione sociale e della concordia, privilegia gli interessi di alcuni cittadini a discapito del bene comune, «semina nella città scandali et discordie gravissime, donde, spesso, divisi i cittadini, nascono divisioni et guerre intrinseche»!!6. Questo è proprio quello che è successo a Firenze: per gli spargimenti di sangue, gli incendi e le devastazioni procurate dalla lotta tra due «inimicissime parti», la città non ha potuto mostrare tutta la sua gloria e la sua virtù estendendo i confini del proprio dominio. È stata anche costretta a «servire alle barbere et sfrenate generazioni», le potenze straniere chiamate in aiuto dall’una o dall’altra fazione, ed ha così
rinunciato ad essere governata dai propri cittadini»!!7. Quando la concordia di Roma è indicata come modello da seguire per riscattare Firenze, emerge il rammarico di Palmieri, profondo e sincero, per la storia della sua città. l’amicizia non regola solo i rapporti tra cittadini di Roma, garantendo l’unità e la concordia della città, ma anche i rapporti tra gli antichi romani e i nemici. Si legge, infatti, che: Sempre cercorono più tosto con benificii che per paura et accrescere et ritenere lo imperio; per questo le ricevute ingiurie più spesso furono dimenticate che perseguitate da loro, dicendo che la signoria agevolmente con le medesime arti si ritiene colle quali è da principio acquistata, et che non i sudditi che per forza si teneano, ma gli amici che per amore et per fede ubbi-
divano, erano la difesa del regno!!8.
Gli amici sono la miglior difesa del regno: non la forza o la paura, ma l’amore e la fiducia consentono di conservare e aumentare il potere di Roma. Sostenendo che i rapporti tra vincitori e vinti debbano essere rapporti di amicizia piuttosto che rapporti
115 Vc, p. 132. 116 Ve, p. 134. 117 Ve, pp. 134-135. 118 Voc, p. 129; corsivo mio.
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di forza, Palmieri riprende il tema della modestia e della clemenza dei romani!!9, topos umanistico che fa da corollario all’immagine idealizzata della grandezza di Roma proposta nella Vita civile. Inutile sottolineare che la storia di Roma sembra un blocco monolitico di armonia assoluta, in cui si perde ogni distinzione: politica estera e politica interna si sovrappongono, età repubblicana ed età imperiale si confondono. Mi sembra più rilevante mettere in evidenza un altro aspetto: Palmieri ripete che gli amici sono la miglior difesa del regno anche quando cita un passo famosissimo del De officiis per sostenere che bisogna essere amati anziché temuti per conservare il potere. Così facendo, chiarisce quale sia
la seconda funzione politica dell’amicizia: non è solo la relazione che deve regnare tra i cittadini di Firenze, ma anche il legame che deve unire chi governa e chi è governato. Amicizia e conservazione del potere: ancora nel segno di Cicerone?
È preferibile che chi è al potere sia amato o temuto? Come si vedrà con maggior precisione in seguito, questa domanda, che Cicerone si pone nel De officiis!20, è il centro della riflessione politica del Quattrocento, dagli autori dei primi specula principum sino a Machiavelli. Vista la rilevanza del tema, che è rielaborato in modo originale e significativo da Palmieri, credo sia utile confrontare i passi del De officiîs con quelli della Vita civile, mettendo in evidenza analogie e differenze. Palmieri afferma che: Sempre l’odio s’è trovato essere attissimo strumento a gittare per terra e a combattere qualunque ben fermo stato e l’amicitia è il presidio, la difesa et fermo stabilimento di ogni regno. Tremolante fondamento degli stati poco durabili è l’odio: l’amicitia, pel contrario è attissima a molto tempo perpetuare et difendere i regni. Niuna cosa più vale alla propria difesa che l’essere
119 La fonte potrebbe essere Of, I, XXVI, p. 72, ma anche Sallustio, De coniuratione Catilinae, IX, cit., p. 15. 120 Of, II, VI-VII, pp. 147-153.
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amato, l’essere temuto genera odio; né può nelle città libere alcun cittadino avere offesa peggiore che essere temuto!?!.,
L’assunto ciceroniano, secondo il quale è meglio essere amati piuttosto che temuti, viene inserito nella sezione del quarto libro della Vita civile in cui Palmieri mostra quale sia l’utilità politica dell’amicizia. Il passo appena citato, infatti, si legge poche righe dopo il passo in cui Palmieri si richiama al Laelius ed al Bellum Iugurthinum per chiarire il nesso che unisce amicizia e concordia. Mi sembra degno di nota che Palmieri affermi che l’amicizia sia «attissima a perpetuare e difendere i regni» proprio in questo contesto, perché Cicerone non parla mai esplicitamente di amicitia nei passi del De officiis in cui si interroga su come è possibile mantenere il potere: dichiara solo che essere amati (diligi) è il modo migliore per conservare il potere, essere temuti (timeri) quello peggiore. Anche se l’uso del verbo diligo indica che si tratta di un sentimento diverso dall’amore erotico, di un sentimento affine all’amicizia, le parole chiave della riflessione ciceroniana sono benevolentia e caritas, non amicitia. Questi due
termini chiave, generalmente tradotti con la parola «amore», sono contrapposti al timore (metus) e all’odio (odium). Poiché l’odio sembra essere una conseguenza del timore generato nei governati dai cattivi governanti, Cicerone contrappone l’amore al timore. L’amicizia non è chiamata in causa neppure nelle sezioni iniziali del secondo libro del De officiîs in cui Cicerone ritorna sull’alternativa tra amore e timore. In questo contesto, mostrando
che non vi è contraddizione tra l’utile e l’onesto, indica nell’opera e nel lavoro dell’uomo la fonte principale dell’utile. L'assenza di riferimenti all'amicizia è significativa soprattutto perché Cicerone insiste sulla necessità della convivenza umana (hominum coetus) e sull’utilità della cooperazione tra gli uomini (conspiratio hominum atque consensus), due obiettivi che possono essere
raggiunti solo grazie alla virtù. Si deve inoltre considerare che la
121 Ve, pp. 164-165; corsivo mio.
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virtù è intesa con un’accezione particolare: non è la conoscenza
delle cause e delle proprietà delle cose, né il freno delle passioni, ma quel modo di comportarsi che consente di vivere con gli altri godendo di reciproci benefici!22, L’amicizia compare tra le righe del ragionamento del De officis solo quando Cicerone evidenzia l’infelicità e l'angoscia della vita dei tiranni, che governano scegliendo di essere temuti invece che amati, e ricorda la violenza delle guerre civili che hanno devastato Roma. In questo contesto, egli individua nella stima (honor) e nella fiducia (fides) i mezzi che consentono di ottenere benevolenza e affetto (benevolentia e caritas). Per essere onorati e stimati è necessario, «avere sicura e fedele dimestichezza con amici che
ci amino e ci tengano in grande considerazione». Questo vale sia per gli uomini grandi, cioè per i protagonisti della scena politica, sia per i comuni cittadini!23. È l’unico riferimento all’amicizia, o meglio agli amici, presente nei passi del De officiis presi in esame: Cicerone rimanda esplicitamente al Laelius per una trattazione più specifica dell'argomento, concentrandosi sull’analisi della gloria!24. Palmieri rielabora significativamente la fonte ciceroniana che utilizza. Non si limita a sostenere che l’amicizia sia uno dei mezzi con cui riesce ad ottenere benevolenza e affetto chi è al potere, ma identifica l’amore di cui parla Cicerone con l’amicizia che ha posto a fondamento di ogni società. L'alternativa ciceroniana tra amore (benevolentia-caritas) e timore (metus-odium) si trasforma
nell’opposizione tra amicizia e discordia, amicizia e odio, perché l’amicizia è la relazione che mantiene unita la città, generando quella concordia che le permette di espandersi. Non è solo una questione semantica. Credo, infatti, che questa riformulazione del topos ciceroniano costituisca un momento chiave per la storia del concetto di amicizia e del suo valore politico: nessuno degli 122 Of, II, II-V, pp. 136-143. 123 Of, II, VII, p. 152, in particolare: «certum igitur hoc sit idque et primun et maxime necessarium familiaritates habere fidas amantium nos amicorum et nostra mirantium». i 124 Of, II, IX, p. 154.
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autori delle opere che saranno esaminate in seguito legge l’alternativa ciceroniana tra amore e timore come contrapposizione tra amicizia e discordia in modo così esplicito come Palmieri. Poiché Palmieri ammette che non esiste offesa peggiore per i cittadini che essere temuti, è chiaro che nel passo citato non sta parlando dei rapporti tra stati, ma della relazione esistente tra governanti e governati. Si capisce ancora più chiaramente che lo spazio politico in cui è posta l’alternativa tra odio e amicizia
è quello del consenso leggendo ancora qualche riga della Vita civile. Seguendo il De officiis infatti, Palmieri afferma che i tiranni sono costretti a temere chi teme loro: è una citazione letterale del passo in cui Cicerone spiega che è l’amore (caritas) dei governati
a rendere stabile il potere di chi governa!?5, Essendo già state evidenziate alcune caratteristiche del linguaggio politico degli umanisti, non deve stupire che Palmieri parli di regni e tiranni per mostrare quale sia la funzione politica dell’amicizia in una «città libera» come Firenze. Per rendersi conto del modo in cui Palmieri rielabora le tesi ciceroniane non basta sottolineare che cita i passi del De officiis come conseguenza di premesse aristoteliche e sallustiane. Occorre altresì evidenziare che non segue fedelmente la struttura del ragionamento ciceroniano. Menziona i tiranni per chiarire che l’amicizia è la relazione che genera il consenso dei governati, ma non cita gli esempi proposti da Cicerone. Infatti, invece di menzionare Falaride e Demetrio, ricorda in termini molto generici le discordie che hanno mandato in rovina i grandi imperi del passato e quelle che hanno lacerato l’Italia. Afferma di riferirsi solo all’esempio di Roma per essere sintetico («a noi per non esser lunghi solo l’exemplo di Roma basti»), come se volesse riassumere i passi del De officiis!26. I passi di quest'opera di Cicerone non sono solo sintetizzati, ma anche fusi insieme a quelli del Laelius. Infatti, tra il passo in cui Palmieri afferma che l’amicizia è il legame che mantiene unita la città e il passo in cui sostiene che i cittadini di 125 Ve, p. 165: Palmieri cita alla lettera Of, II, VII, p. 149. 126 Ve, p. 165.
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una città libera devono essere amati invece che temuti, si trovano
gli esempi di Damone e Finzia ed Oreste e Pilade!27, La prima coppia di amici è menzionata prima degli esempi come modello di vera amicizia, come se il De officiis e il Laelius fossero un’unica
opera. Mentre l’accostamento di questi esempi poggia su di un’evi-
dente analogia, perché sono entrambi esempi di un’amicizia così profonda da essere pronta al sacrificio della vita, la fusione di altri passi tratti dal De officiis e dal Laelius non è sempre chiara. Per esempio, quando Palmieri collega il tema della scelta dell’amico, che deriva dal Laelius, al tema del crollo dei grandi imperi, che è tratto dal De officiis, e si pone così il problema dell’estensione dell’amicizia!?8, il ragionamento perde coerenza: sostiene che la vera amicizia è un’amicizia «ristretta», che si realizza solo tra
due persone e non può essere estesa ad altre, subito dopo aver menzionato quella «benivolentia di carità diffusa in tutti», che unisce tutti gli individui che sono in relazione tra loro. Non sono fusi insieme solo passi tratti dal De officiis e dal Laelius, ma anche passi provenienti da libri diversi del De officiis: immediatamente prima di proporre l’esempio di Damone e Finzia, Palmieri menziona quei passi dell’opera ciceroniana che dimostrano la necessità della convivenza umana e l’utilità della coope‘razione tra gli uomini, collocandoli in un contesto che attribuisce loro un significato diverso, teso a valorizzare la funzione politica attribuita all’amicizia!29. Non insisto sulla sintesi, la nuova
posizione, e la fusione dei passi del De officiis perché intendo analizzare quale sia il debito di Palmieri nei confronti di Cicerone. Vorrei semplicemente mostrare che è proprio l’uso particolare delle fonti ciceroniane a dare all’opposizione tra amore e timore un significato diverso da quello originario, e da quello 127 Ve, pp, 162-163: il primo esempio è tratto da Of, II, X, p. 238; il secondo da A, VII, 24, p. 99. 128 Ve, pp. 165-166. La «benevolenza universale di carità diffusa» è quella descritta in Of, II, VIII, 30-31: il passo ciceroniano genera contraddizioni e tensioni solo quando è inserito nel ragionamento di Palmieri perché Cicerone distingue la caritas e la benevolentia dall’amicizia (Of, I, XVI-XVII, pp. 44-49). 129 Ve, p. 162, da confrontare con Of, II, II-V, pp. 136-143.
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che emergerà nei prossimi capitoli, esaminando alcuni specula principum del Quattrocento. Infatti, sebbene sostengano che il principe debba essere amato anziché temuto e riprendano la tesi secondo la quale gli amici sono la miglior difesa del regno, gli autori di queste opere non giocano il valore politico dell’amicizia nello spazio del consenso. Come anticipato sin dalla premessa, l’amicizia tiene uniti i regni oltre che le città perché gli amici sono le persone di cui si serve il principe per amministrare e gestire il potere, non perché l’amore di cui parla Cicerone è identificato con l’amicizia che deve regnare tra il principe e i sudditi: lo spazio politico dell’amicizia è quello petrarchesco del consiglio. 3.5 Luci e ombre dell’amicizia: alcuni punti di tensione nella riflessione di Palmieri
Dopo aver mostrato quale sia la funzione politica dell’amicizia, Palmieri propone una sintesi di alcuni passi del Laelius139, Individua, così, alcune caratteristiche essenziali del rapporto. Egli insiste sull’origine naturale dei legami di amicizia, perché è la natura ad unire i simili, e sulla virtù come fondamento dei
rapporti d’amicizia, perché la vera amicizia è l’amicizia tra i buoni. Evidenzia anche la limitata estensione dell’amicizia, distinguendo questa relazione che si realizza solo tra pochi da un più generico ed universale sentimento di benevolenza, che può essere rivolto a tutti. Individua nell’onestà e nella virtù i criteri da preferire nella scelta degli amici, mostrando che l’amicizia non deve dipendere dall’utile, ma l’utile dall’amicizia. Consiglia, inoltre, di evitare ogni menzogna e dissimulazione: gli amici devono essere così uniti da avere un’unica volontà. Ricorda, infine, che il vero amico si giudica nella cattiva sorte. Non si limita a sostenere che difendere l’amico nei momenti di bisogno è un dovere, ma afferma anche che l’ingratitudine è uno dei peggiori vizi degli uomini!5!.
130 A, IV-IX, pp. 90-108. 131 Ve, pp. 166-168.
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L’amicizia,
un legame radicato nella natura
dell’uomo
e
fondato sulla virtù, è ora definita come «vero consentimento di
tutte le cose divine et humane, con carità et amore in optimo fine diritto». Essa è la «consolatrice delle nostre miserie» e il «sicuro rifugio d’ogni nostro decto et fatto però che nulla è nella vita più dolce che avere con chi ogni cosa conferire come teco medesimo»132. Sono chiari riferimenti ad altri temi ciceroniani,
che Palmieri utilizza per sottolineare il valore esistenziale dell’amicizia. Alla fine della sua riflessione, invita a cercare la benevo-
lenza, la carità e l’amicizia prima di ogni altro bene umano!39. Mi sembra rilevante sottolineare l’affinità esistente tra questo consiglio ed i precetti pedagogici sull’amicizia più volte ricordati nella Vita civile, per mostrare ancora una volta il moto circolare dei ragionamenti di Palmieri. La relazione descritta attraverso i riferimenti al Laelius di Cicerone, sembra avere qualcosa di sublime per la natura pura e virtuosa che possiede. Tuttavia, questa perfezione è offuscata da alcuni punti di tensione interni all’analisi di Palmieri, che evidenziano le ambivalenze e le ambiguità della relazione. Pur sottolineando la funzione politica dell’amicizia, in alcuni passi della Vita civile Palmieri sembra consapevole dei rischi e dei limiti intrinseci ad una relazione che non consente sempre una chiara distinzione tra la ricerca dell’interesse personale e la difesa del bene comune. Il primo punto di tensione emerge durante l’analisi del consiglio, uno dei corollari della virtù civile della prudenza. Secondo Palmieri, l’uomo prudente deve essere capace di dare consigli sinceri, adatti alle circostanze, validi e realizzabili!3*. Ci si aspetterebbe che l’amicizia sia chiamata in causa come esempio di relazione in cui si può parlare con verità e franchezza, o che l’amico incarni il modello del buon consigliere, ma non è affatto così. La «speranza di amicitia», insieme al «timore di odio» e al «terrore di potentia», è addirittura annoverata tra i fattori che distolgono 132 Ve, pp. 163 e 165.
133 Vc, p. 168. 134 Ve, pp. 68-69.
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i consiglieri dalla verità!55. L’idea che l’amicizia distolga dalla verità, e sia un pericolo per chi si occupa di politica, affiora tra le righe del ragionamento anche quando Palmieri racconta l’aneddoto su Metello: il romano si è comportato in modo esemplare perché, violentemente insultato da un tribuno della plebe, non si è lasciato accecare dall’ira, ignorando i sentimenti di amicizia o inimicizia nutriti per l’avversario!36. Palmieri propone questo esempio mentre affronta il tema della moderazione nel parlare, in un contesto che è molto vicino a quello delle riflessioni sull’adulatore. A differenza degli autori degli specula principum che saranno esaminati nei prossimi capitoli, ma anche di Alberti, per indicare quali siano le caratteristiche del buon consigliere Palmieri non contrappone l’adulatore al vero amico. Il tema dell’amicizia è declinato con un’accezione negativa anche nelle sezioni del terzo libro in cui Palmieri riflette sulla giustizia distributiva, seguendo da vicino il De officiis: per conservare l’unione civile e la concordia, è necessario saper distribuire onori e ricchezze, facendo in modo che l’accesso alle cariche pubbliche più importanti dipenda dalle qualità morali dell’individuo, non dalle sue origini né dalla sua ricchezza. Questi argomenti classici delle dispute umanistiche sulla vera nobiltà si uniscono a reminiscenze aristoteliche per sostenere che è meglio e più virtuoso donare che ricevere benefici!37, In questo contesto, Palmieri sottolinea inaspettatamente che l’eccessiva liberalità solitamente riservata agli amici potrebbe minare le basi del giusto vivere, come se l’amicizia fosse una relazione che genera favoritismi ed alimenta il clientelismo dei tiranni e dei potenti corrotti. Se l’amicizia fosse una relazione di natura clientelare, verrebbe meno ogni sua funzione politica. Questo non accade perché l’osservazione di Palmieri non è nient'altro che un lampo di consapevolezza. Basta, però, per 135 Ve, p. 89. 136 Vc, p. 89: l'esempio è tratto dalle Noctes Atticae di Gellio. 137 Per una ricostruzione di temi della disputa sulla nobiltà vd. F. Tateo, La disputa sulla nobiltà, in Id., Tradizione e realtà dell'’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1974, pp. 355-421. Per i riferimenti ad Aristotele: EN, VII, 1159a 25-34, p. 333; EN, IX,
1166b 30-1167a 21, pp. 373-375; EN, IX, 1167b 18-1168a 25, pp. 379-381.
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comprendere che la linea di confine che separa interesse personale e bene comune è molto sottile. Gli altri riferimenti all’amicizia proposti durante l’esame della liberalità continuano ad evidenziare gli aspetti positivi della relazione. Palmieri sottolinea, per esempio, che la benevolenza mostrata nel distribuire benefici genera amore e amicizia tra i giovani!38, Il nesso tra liberalità e amicizia sembra quindi mediato dalla benevolenza e si esplicita attraverso il richiamo alla condivisione che caratterizza i rapporti di amicizia. Torna così in primo piano il tema che segna l’inizio delle riflessioni sull’amicizia nel terzo libro!39. In questi passi ritorna anche l’immagine dei cerchi concentrici che indica le relazioni sociali dell’uomo. Questa volta, i cerchi si estendono fino a comprendere tutta l’umanità, unita e connessa da un naturale vincolo d’amore. Viene qui delineata una precisa gerarchia, che sancisce la priorità dei doveri verso la patria, la famiglia, i parenti, gli amici, i vicini e gli abitanti della città!40. Palmieri menziona anche il dovere dei «dolci parlari, consigli, conforti, consolationi, almonimenti et riprehensioni» che non si
esercita solo verso gli amici, ma anche verso gli «ignoti»: l’amicizia sembra essere una relazione universale, potenzialmente capace di estendersi all’infinito. Tale espansione non riduce la forza del legame: l’amicizia e la benevolenza sono come una luce che si propaga accendendo altri lumi!4!, Basta questa semplice similitudine per risolvere un problema così delicato come quello della limitata estensione della relazione. Rimane quindi nell’ombra un punto di tensione che sembra particolarmente rilevante proprio perché l’amicizia è la relazione che consente di mantenere unita la città. Nelle sezioni che precedono il racconto del sogno con cui si conclude la Vita civile, emergono altri punti di tensione. Gli accenni più significativi si trovano nell’analisi della gloria, nella digressione sull’età di Saturno con cui Palmieri spiega l’origine del
138 Ve, p. 146, con riferimenti a Of, I, XV, pp. 40-42. 139 Vc, p. 146. 140 Ibid.
141 Ve, p. 147.
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denaro e dei commerci, nelle considerazioni sull’utilità pubblica che fungono da pretesto per una nuova trattazione dei doveri del magistrato e delle punizioni previste per i trasgressori delle leggi. Questi accenni confermano l’utilità politica dell’amicizia, ma mostrano altre ambivalenze della relazione. Annoverando l’amicizia tra i mezzi con cui si ottiene buona fama!4, Palmieri sembra attenersi fedelmente alla lezione di Cicerone. Quando dice che l’uomo ha bisogno di amici per conservare o aumentare la propria reputazione, sembra avere una concezione più realistica dell'amicizia e del mondo delle relazioni umane di quella che emerge in altri momenti della sua analisi. Il realismo è subito mitigato dalla preoccupazione di evitare qualsiasi forma di dissimulazione: Palmieri invita ad essere autentici nella relazione, rifiu-
tando di apparire diversi da come si è. Questo consiglio, però, non basta a togliere l'impressione che si perda qualcosa della purezza e della sublimità della relazione descritta riprendendo le definizioni del Laelius: se l’uomo si comporta con benevolenza ed amicizia solo per avere gloria, se si impegna a difendere la patria e gli amici solo per ottenere consensi e riconoscimenti!#, l’amicizia non sembra
affatto quel rapporto gratuito e disinteressato che dovrebbe essere. L’ambivalenza dell’amicizia emerge con maggior evidenza quando la relazione è considerata come uno dei possibili ostacoli per l’equa distribuzione di benefici e pene. Palmieri ricorda ‘ che si devono premiare gli uomini solo per la loro virtù, senza lasciarsi influenzare dall’intimità del rapporto che si ha con loro. Sostiene inoltre che si devono punire senza farsi suggestionare da affetti e passioni, siano essi sentimenti di odio o di amicizia!4.
Ripete infine che l’amicizia potrebbe distogliere i consiglieri dalla verità, sostenendo una tesi che potrebbe mettere in discussione la funzione politica dell’amicizia. Palmieri sembra muoversi in questa direzione quando evidenzia i limiti del governo di molti e i difetti del governo di pochi, senza mai chiarire se sia migliore la
142 Vc, p. 171. 143 Vc, p. 172. 144 Vc, p. 188.
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democrazia o l’aristocrazia!45: non sapendo resistere alle richieste degli amici né alle pressioni dei potenti, i governanti agiscono in maniera incoerente, prendendo provvedimenti in cui non credono sino in fondo con l’ingenua speranza che il popolo intervenga per mutare gli esiti delle loro decisioni. Ben lungi dall’essere sinonimo di concordia, questa volta, l'amicizia sembra addirittura la causa
di un’azione che genera instabilità politica. La relazione sembra ritrovare la purezza e la sublimità originaria mediante il riferimento all’economia del dono che vige nell’edenica età di Giano: non conoscendo ancora la proprietà privata e l’uso del denaro, gli uomini vivono solo della sponta-
neità della natura, ricevendo «amichevolmente in dono» ciò di
cui hanno bisogno!46. Non sorprende la condivisione dei beni che viene realizzata in questa età perché, come si è visto più volte, le cose degli amici devono essere comuni. Colpisce molto, invece, la durata effimera di questa età di amicizia, subito interrotta dall’arrivo di Saturno: quando inizia la vita politica, introdotte le arti e il denaro, l’uomo si corrompe diventando avido ed invidioso. Sembra che l’ambivalenza dell’amicizia non si possa eliminare, ma solo momentaneamente attenuare, come se la relazione potesse manifestarsi nel tempo con maggior o minor purezza. Si potrebbe pensare che le ambivalenze e le ambiguità
emerse non siano una proprietà intrinseca dell’amicizia e dipendano, invece, dall’accostamento di diversi passi ciceroniani 0
dal collage di citazioni che caratterizza la Vita civile. I punti di tensione emersi, infatti, non sono sciolti: spesso inconsapevole della tensione generata dalle sue affermazioni, Palmieri si limita ad utilizzare metafore e similitudini, senza fornire chiarimenti.
Forse, però, è possibile proporre anche un’altra spiegazione: le ambivalenze e le ambiguità che caratterizzano l’amicizia potreb145 Vc, p. 190. Nella breve discussione sulle forme di governo Palmieri non parla
mai del governo di un solo uomo, anche se ci sono alcune riflessioni sul tiranno, e non
utilizza mai espressioni «tecniche» quali democrazia e aristocrazia. Sembra preoccuparsi solo di chiarire che nessun governo è privo di difetti, senza voler riflettere sulle caratteristiche costituzionali delle diverse forme di governo. 146 Vc, p. 174.
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bero dipendere dalla complessità della concezione della natura umana che traspare dalla Vita civile. È come se Palmieri osservasse l’uomo con gli occhi pieni di speranza dell’educatore e, allo stesso tempo, con lo sguardo più disincantato del politico, senza scegliere in modo definitivo uno dei due punti di vista. 3.6 Quale amicizia civile?
Palmieri è il solo autore delle opere esaminate in questo saggio a citare i passi dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele sostiene che i legislatori dovrebbero preoccuparsi dell'amicizia prima ancora che della giustizia. L'amicizia civile è un’amicizia aristotelica, ma è senza dubbio anche un’amicizia ciceroniana. Infatti, la valenza politica della relazione emerge attraverso citazioni e rielaborazioni dei passi del De officiis. Inoltre, l’amicizia ha delle caratteristiche che dipendono strettamente dalla riflessione proposta da Cicerone nel Laelius. L’amicizia che tiene unite le città, infatti, è una relazione che si dà solo tra gli uomini virtuosi, tra i boni viri. Poiché deriva da quel vincolo naturale che unisce tutti gli uomini in una comune societas, diventando più intimo e
più profondo mano a mano che si riduce il numero degli amici, si potrebbe pensare che l’amicizia abbia una funzione politica proprio perché si fonda su questo sentimento di benevolenza universale. Attraverso l’amicizia, inoltre, si manifesta la natura razionale e virtuosa, sociale e politica, dell’uomo. Per questo, è il
bene più grande da desiderare, un bene che racchiude in sé molti altri beni, e dà senso e significato alla vita dell’uomo nella buona e nella cattiva sorte. Essendo basata sull’onestà, l’amicizia non
implica solo reciprocità, benevolenza, affetto profondo, spontaneità e sincerità. Essa è anche un rapporto che richiede il reciproco riconoscimento delle qualità morali di ciascuno: specchiandosi nell’amico, ognuno trova la parte migliore di sé. L'amicizia sembra quindi dotata di una dimensione etica intrinseca, da cui dipende anche il suo valore politico.
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Nonostante sia potenzialmente infinita, l'amicizia è una relazione rara, per pochi, per i grandi. Diversamente da Cicerone, Palmieri non approfondisce questo tema, probabilmente perché è assai problematico pensare che un legame così esclusivo possa
essere il vincolo che tiene unita la città. Inoltre, sebbene accenni al
pericolo che finzione e dissimulazione possano intaccare la purezza della relazione, Palmieri sembra avere più fiducia nell’uomo di quanta non ne abbiano altri umanisti. Non mi riferisco solo ad Alberti che, com’è emerso nel primo capitolo, sottolinea più volte l’insondabilità e l’inconoscibilità della natura umana nel quarto libro della Famiglia. Penso anche agli autori degli specula principum che saranno esaminati nei prossimi capitoli. Come si vedrà nel corso dell’analisi, infatti, quando affrontano il tema dell’adulazione, essi si interrogano anche sulla falsa amicizia, esaminando una tipologia di amicizia sconosciuta a Palmieri: l'amicizia descritta nella Vita civile non può che essere vera amicizia. Un altro elemento che differenzia la riflessione sull’amicizia sviluppata nella Vita civile da quella di Vicini, Platina, Pontano e Patrizi è la poca attenzione che Palmieri riserva al problema della scelta degli amici. Questa diversità dipende dal fatto che il valore politico dell'amicizia non si gioca nello spazio del consiglio, ma in | quello del consenso. Come dovrebbe essere emerso nelle pagine precedenti, per Palmieri l’amicizia è amicizia politica. Il significato e il valore politico della relazione si collocano su tre diversi livelli, complementari e correlati, che distinguo solo per fare chiarezza. L’amicizia è una relazione politicamente rilevante perché è il legame che tiene unite le città: è assimilata alla concordia che dovrebbe regnare nelle repubbliche, e quindi contrapposta alle lotte che le mandano in rovina. A questo primo livello, la valenza politica della relazione è fortissima, soprattutto se si tiene presente l’immagine a cerchi concentrici che descrive le relazioni sociali dell’uomo, cui si è più volte accennato. Posta a fondamento del processo di socializzazione umana, l’amicizia è anche il punto di incontro tra l’oîkia e la polis. Come già detto, la casa e la città non sono ambiti separati, né separabili, nella Vita civile: la sfera
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pubblica e la sfera privata dei rapporti, i contesti in cui si realizza la vita attiva e civile dell’uomo, sono uniti dall’amicizia. Vista
questa continuità, per cui il privato si apre al pubblico e il politico è visto come una prosecuzione del personale, il termine amicizia sembra quasi un sinonimo del termine società. L'amicizia è una relazione politica perché essa è la forma del rapporto che deve esistere tra governanti e governati. Questo è il secondo livello in cui si gioca il valore politico dell’amicizia, ed è il livello del consenso. Come si è visto, infatti, chiedendosi se sia più sicuro per chi detiene il potere essere amato piuttosto che temuto, Palmieri trasforma l’alternativa ciceroniana tra amore e timore in un’alternativa tra amicizia e odio, amicizia e discordia. Questo fa sì che il rapporto tra governanti e governati non sia genericamente descritto con i toni e le sfumature dell’amicizia, come accade nelle opere di Vicini, Platina, Pontano e Patrizi che saranno esaminate
in seguito, ma che sia esso stesso una forma di amicizia. Come si è mostrato, ciò non dipende solo dal fatto che l’amicizia è la relazione che tiene unita la città, ma anche dal fatto che l’amicizia
è opposta alle discordie e alle divisioni che la mandano in rovina: poiché l’amicizia genera concordia, è la relazione che rende stabile e sicuro il potere. Basando il proprio ragionamento su premesse aristoteliche e sallustiane, ed utilizzando in modo originale alcuni passi ciceroniani, Palmieri attribuisce un significato diverso ai luoghi del De officiis che sono citati negli specula quattrocenteschi per sostenere che il principe non deve essere temuto, ma amato. Assume un significato diverso anche la tesi secondo la quale gli amici sono la miglior difesa del regno, che è presente anche in alcune delle raccolte di consigli per i principi che saranno esaminate nei prossimi capitoli: per Palmieri, il valore politico che ha l’amicizia nello spazio del consenso non è una conseguenza dell’assenza di amici che contraddistingue il tiranno. L’amicizia è uno dei doveri civili dei cittadini, giovani o vecchi che siano: questo è il terzo livello in cui si articola il valore politico della relazione. Palmieri accenna più volte a questo dovere, chiarendo fin dall’inizio che l’educazione del buon cittadino deve essere anche una pedagogia delle relazioni. Come già evidenziato,
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l'amicizia ha un ruolo chiave nell’educazione alle relazioni dei giovani perché ha una connotazione politica. La centralità riconosciuta all’amicizia distingue il primo libro della Vita civile dalle altre opere pedagogiche dell’epoca, mostrando quanto sia forte il nesso tra pedagogia e politica istituito nella Vita civile. Come si vedrà nei prossimi capitoli, anche negli specula principum si trovano precetti e regole di comportamento relative all’amicizia, rivolte al buon principe invece che al buon cittadino: il concetto di amicizia è un concetto versatile, che può essere ed è adattato al contesto della corte. Solo nella Vita civile, però, i doveri di
amicizia cui sono richiamati i cittadini consentono di pensare anche al rapporto tra i governati come ad una forma di amicizia.
La relazione, infatti, si articola secondo due assi: un asse verti-
cale, perché l’amicizia funge da modello per il rapporto tra governanti e governati, ed un asse orizzontale, perché i buoni cittadini devono essere amici tra loro. Proprio per questo l’amicizia è il modello del legame sociale, la relazione che tiene unita la città. Nessun altro degli autori esaminati articola il valore dell’amicizia in questo modo. Nemmeno Patrizi, anche se, come si vedrà
nell’ultimo capitolo, nel De regno questi riflette sull’amicitia civilis e descrive la relazione esistente tra governati ricorrendo a diverse tipologie, aristoteliche e ciceroniane, di amicizia. Nonostante la scelta di realismo fatta da Palmieri quando dichiara di volersi rivolgere a cittadini in carne ed ossa, la relazione descritta nella Vita civile è un’amicizia fortemente idealizzata, che sembra possibile trovare nelle pagine dei classici piuttosto che nella vita quotidiana. Si deve inoltre considerare che l'amicizia civile sembra avere tanto più valore politico quanto più è idealizzata mediante i riferimenti alla storia di Roma o alle lotte tra i Guelfi ed i Ghibellini. Questo non impedisce che emergano le ambiguità e le ambivalenze sottolineate. Esse danno toni più realistici all’analisi di Palmieri. I punti di tensione interni alle analisi sviluppate nella Vita civile mostrano, infatti, che l'amicizia non è la relazione gratuita e disinteressata che dovrebbe essere perché è uno dei mezzi necessari per ottenere la fama ed accre-
scere la propria reputazione. Questa connessione tra amicizia e
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gloria è emersa anche esaminando i libri della Famiglia, ma credo sia più rilevante ricordare che l’amicizia, per Palmieri, è anche quel rapporto che può distogliere i consiglieri dalla verità. Inoltre, quando sono menzionate le pressioni esercitate dagli amici sui
magistrati e su coloro che detengono cariche politiche, l’amicizia rischia di essere identificata con la trama di rapporti clientelari sottesa a questo tipo di relazioni. Il valore politico dell’amicizia sembra messo in discussione anche quando Palmieri sostiene che la liberalità con cui si concedono benefici agli amici potrebbe generare ingiustizie e favoritismi tali da minacciare la concordia e l’armonia della vita politica. Palmieri mostra che l’amicizia può essere una relazione di natura clientelare, ma non approfondisce questo aspetto della sua riflessione. Così come non si sofferma sulle caratteristiche che potrebbero privare l’amicizia della funzione politica che le è stata attribuita. Per questo, non ritengo che sia possibile sostenere che la descrizione dell’amicizia che emerge in alcuni passi della Vita civile sia un riflesso della politics of friendship attuata dai Medici per consolidare il loro potere. La presenza di punti di tensione interni all’analisi di Palmieri mi sembra particolarmente rilevante per un’altra ragione. Mostra infatti che non è problematico attribuire valore politico all’amicizia solo a corte: l’amicizia rischia di trasformarsi in un legame di natura clientelare anche in un città come Firenze, una realtà politica molto diversa da quelle descritte da Piero nel quarto libro della Famiglia. La natura clientelare dei rapporti di amicizia emergerà più chiaramente nel prossimo capitolo, analizzando il De institutione regiminis dignitatum di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano.
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Capitolo quarto De electione amicorum: l’amicizia nel De institutione regiminis
dignitatum di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano
4.1 Cenni biografici Il De institutione regiminis dignitatum! è l’unica opera rimasta e, presumibilmente, l’unica opera composta da Giovanni Tinto Vicini. Non è certamente studiata quanto le opere di Leon Battista Alberti, ma i codici superstiti attestano che il De institutione ha avuto «notevole fortuna» nel Quattrocento?. Non è questo il solo motivo che mi ha spinto ad esaminare questo speculum principis. Nell’opera di Vicini, infatti, è delineata una riflessione sugli amici del principe che mi sembra particolarmente interessante e significativa per la ricchezza delle tipologie di amicizia individuate. Nonostante non si conosca molto della vita di Vicini3, è assai probabile che questi abbia composto il suo speculum principis nei 1 G. Tinto Vicini, De institutione regiminis dignitatum, testo inedito a cura di P. Smiraglia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977. D’ora in poi citerò questa edizione dell’opera semplicemente come De institutione. Traduco i passi che cito, riportando in nota anche il testo latino. Traduco i passi citati in nota solo se sono particolarmente significativi per la caratterizzazione dell’amicizia. 2 P. Smiraglia, Introduzione, in G. Tinto Vicini, De institutione, pp. XVI-XVII, in
particolare p. XVIII: si sono conservati cinque codici, due nella Biblioteca della Cattedrale di Burgo de Osma in Spagna, uno nella Biblioteca Nazionale di Parigi, uno nella Biblioteca comunale di Siena ed uno — il codice autografo — nella Biblioteca Apostolica Vaticana; si sa che un sesto codice dell’opera è andato perduto. 3 La prima ricostruzione della vita e della produzione letteraria dell’umanista fabrianese è stata realizzata da Novati, in un articolo (FE Novati, Un umanista fabrianese del XIV secolo. Giovanni Tinti, in «Archivio storico per le Marche e per l'Umbria»,
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primissimi anni del Quattrocento, nello stesso periodo in cui era in contatto epistolare con un umanista ben più famoso di lui, il fiorentino Coluccio Salutati4. Il De institutione è dedicato a Battistachiavello, ultimo e giovane erede della famiglia dei Chiavelli, che regna a Fabriano, la città in cui Vicini è nato. Scrivendo questa raccolta di consigli per il principe, che è anche un trattato pedagogico, l’autore spera di assicurarsi la protezione di cui ha bisogno e di ottenere un incarico ufficiale, riuscendo ad entrare a corte.
Diversamente da quanto si è ipotizzato per anni, infatti, pare che Vicini non abbia composto il De institutione in qualità di precettore del giovane principe cui rivolge i propri consigli, bensì per cercare di diventare responsabile dell’educazione morale ed intellettuale del futuro signore di Fabriano. Non sembra che l’opera abbia garantito a Vicini la posizione di prestigio che sperava di ottenere presso la famiglia dei Chiavelli: le fonti disponibili attestano che, poco dopo aver composto il De institutione, Vicini presterà servizio per Pandolfo III Malatesta, signore di Fano e Brescia. L’umanista sarà il suo cancelliere per quasi dieci anni, dal 1407 al 1416. II, 1885, pp. 103-155) che risale alla fine dell'Ottocento. Oltre a questo articolo, c’è solo l'introduzione di Smiraglia, il curatore dell’edizione del De institutione che è stata pubblicata nel 1977. Da questa introduzione sono ricavate le informazioni relative alla biografia di Vicini riportate nel presente paragrafo. 4Le lettere di Vicini a Salutati rappresentano il primo contatto dell’umanista fabrianese con la città di Firenze. La datazione è incerta e va collocata tra la fine del XIV e gli inizi del XV, ma sia per Novati (Novati, Un umanista fabrianese del XIV secolo. Giovanni Tinti, cit., pp. 104-107) sia per Smiraglia (Smiraglia, Introduzione, cit., pp. IX-X) il termine ante quem è costituito dalla data della morte di Salutati, avvenuta nel 1406. Vi è una sola lettera di risposta di Salutati che attesta il carteggio con Vicini, in cui il Cancelliere discute dei dubbi dell’umanista fabrianese relativi alla virtù della prudenza: C. Salutati, Epistolario, a cura di E Novati, Torino, Bottega di Erasmo, 1968-1969 (ripresa facs. dell’edizione: Roma, Fozani e C. Tipografi del Senato, 1896), vol. II, pp. 657-661. Alla fine della lettera, Salutati invita Vicini a recarsi a Firenze per prendere contatti con la famiglia del podestà del Chianti (ivi, p. 661), confermando così ) l'ipotesi dei legami di Vicini con la città toscana. 5 Si vedano a riguardo sia la lettera scritta a Vicini da Pietro Turchi, che è ricordata e citata da Novati (Salutati, Epistolario, cit., p. 657) sia le ricerche di archivio condotte da Massera (A.F. Massera, Appunti per la storia della letteratura umanistica nelle corti malatestiane, in «Annuario del Regio Istituto tecnico R. Valturio di Rimini», II, 192425, pp. 55-57). Massera ricostruisce alcuni momenti della vita di Vicini: tra il 1407 e
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Quando muore Pandolfo III, si conclude uno dei periodi più felici della vita di Vicini. Avendo perso la protezione di cui godeva ed il prestigio derivato dal servizio ricoperto, questi si mette nuovamente alla ricerca di un incarico ufficiale. L’impresa è documentata dalle lettere che Vicini scrive nel 1421 da Firenze,
città in cui si trova in qualità di ufficiale dell’arte della lana6. In una di esse l’umanista offre a Corrado Trinci quella stessa fedeltà che aveva promesso poco prima anche al fratello del signore di Foligno, sperando di essere accolto a corte”. Il desiderio di tornare ad essere cancelliere di qualche signore non si realizzerà mai: l’umanista sarà impegnato per tutta la vita a cercare la prote-
zione di cui ha bisogno, animato dalla vana speranza di ottenere incarichi ufficiali in una delle corti della penisola italiana. Vicini, infatti, non riesce a coronare il suo sogno neppure quando diventa cancelliere del legato di Bologna: il cardinal Condulmer non conferma l’incarico nonostante Vicini abbia svolto l’attività diplomatica necessaria per contrastare la potenza dei Visconti con così tanto successo da meritare la cittadinanza fiorentina (1423)8. È molto probabile che non potendo più essere a servizio
del cardinal Condulmer, Vicini abbia ripreso contatto con i
il 1416 risiede a Fano, non a Pesaro o a Rimini come ipotizzato da Novati, e si sposta
frequentemente per svolgere gli incarichi affidatigli da Pandolfo III. Vicini non è solo
cancelliere di Pandolfo III, ma anche «ufficiale dei danni dati». Per conto di Pandolfo II, nel 1415, compie un’importante ambasceria a Venezia.
6 Vicini si definisce officialis lanificum nella lettera scritta ad Antonio Morici, che si è conservata nel cod. Vat. Lat., 6531, f. 14va. Questa lettera del 15 febbraio 1421 è inviata da Vicini come accompagnamento della copia di una lettera consolatoria scritta in quegli stessi giorni per il signore di Foligno, Corrado Trinci: questi aveva perso da poco entrambi i fratelli, vittime di in un delitto d’onore (cod. Vat. Lat., 6531, f. 14va1Srb). 7 Cito lo stesso passo della lettera consolatoria scritta per il signore di Foligno che riporta anche Smiraglia: «Mihi autem, qui gloriose memorie virum colui primotem germanum tuum, cuius nomen heret in faucibus pre dolore, propositum esse dinoscito, si meam fidem in servitium suscicpere diganberis, te itidem diligere. Cuius fidei, si verba factis adegeris, non penitebit. Vale» (Smiraglia, Introduzione, cit., p. XII). Il corsivo è
mio. 8 Si veda V.C. Guasti, Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze dal MCCCXCIX al MCCCCXXXIII, Firenze, Cellini, 1867-1873, vol. I, pp. 511, 514 e 519; vol. II, p. 33.
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signori di Fabriano e sia tornato nella sua città natale in cerca
di sicurezza e protezione. In questi anni, Fabriano è governata
da Battistachiavello, il principe per cui aveva composto il De institutione. Non si sa con precisione quando Vicini sia arrivato a Fabriano,
né quale ruolo abbia svolto nella corte di Battistachiavello. Di questo periodo della vita dell’umanista rimangono solo due lettere, che Vicini scrive all’amico Giorgio Begna, quando si trova già ad Ancona. In entrambe le lettere accenna più o meno esplicitamente al tragico evento che è accaduto a Fabriano: il 25 maggio del 1435, durante una celebrazione religiosa tenutasi nella Chiesa di San Venanzio, sono stati uccisi tutti i membri
della famiglia Chiavelli?. Battistachiavello è la vittima designata di questa congiura: sembra che il principe abbia attirato su di sé l'odio e il risentimento del popolo, governando senza seguire i consigli che Vicini aveva formulato nel De institutione per fare di lui un uomo onesto e virtuoso. Sulla base delle lettere indirizzate a Begna, si può ipotizzare che Vicini sia tornato nella sua città natale per beneficiare della protezione di Battistachiavello dopo il periodo trascorso a Firenze, e che abbia abbandonato Fabriano non appena sia avvenuta la strage. Tra il periodo in cui Vicini lascia Firenze e la strage del 1435 trascorrono più di dieci anni, relativamente ai quali non vi sono notizie certe, ma solamente alcune ipotesi. 9 Le due lettere si sono conservate nel ms. di Oxfod (Can. Pat. Lat. 223, f. 296 rv
e 296v-297r). La datazione di queste lettere e la loro connessione alla strage avvenuta a Fabriano è quella ipotizzata da Smiraglia, che le considera entrambe successive al maggio del 1435. Pensa, infatti, che Vicini si sia trasferito da Firenze a Fabriano per avere la protezione dei Chiavelli, non l’abbia ottenuta, e si sia poi trovato costretto a fuggire (Smiraglia, Introduzione, cit., pp. XII-XV). Se la datazione di Smiraglia è corretta, la vita dell’umanista si spinge ben oltre il primo quarto del XV secolo, diversamente da quanto generalmente ipotizzato. Nel manoscritto di Oxford si è conservata anche una terza lettera per Giorgio Begna, che Vicini ha scritto da Fabriano (ms. di Oxford, f. 297 r-v). Questa lettera mostra che gode di una certa influenza alla corte dei Chiavelli; ma non conferma l’ipotesi di Smiraglia relativa al trasferimento di Vicini da Firenze a Fabriano: la sua data di composizione è così incerta che potrebbe anche essere stata scritta durante il primo soggiorno a Fabriano, dunque in un periodo vicino alla ; composizione del De institutione.
4. DE ELECTIONE AMICORUM: L'AMICIZIA NEL DE INSTITUTIONE REGIMINIS DIGNITATUM
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Si può spiegare solo con un'ipotesi anche la decisione di lasciare Fabriano: è probabile che Vicini abbia deciso di lasciare la città sentendo di essere in pericolo. Infatti, più o meno stretti e più o meno ufficiali che fossero i sui rapporti con i signori di Fabriano, egli era legato da tempo alla famiglia dei Chiavelli, a Battistachiavello in particolare. Vedendo ancora una volta andare in fumo la speranza di inserirsi definitivamente nella corte di un principe, trovandosi costretto per l’ennesima volta a cercare un altro incarico, Vicini è in preda allo sconforto: quando scrive all’amico Begna, l’umanista si sente un profugo!°. Le tracce di Vicini si perdono durante la fuga da Fabriano: non si sa perché sia andato proprio ad Ancona, per quanto tempo sia rimasto in questa città, dove e come abbia trascorso l’ultima parte della sua vita, se abbia finalmente trovato la protezione di qualche signore. La fuga da Fabriano è l’ultima prova della fragilità che ha contraddistinto il rapporto di Vicini con il potere, il segno più evidente dell’instabilità delle relazioni che l’umanista ha stretto con i principi e i signori che ha servito. Questa fragilità e questa instabilità non possono essere ignorate, perché aiutano a comprendere più chiaramente quale sia la funzione politica che il De institutione attribuisce all’amicizia. Non si devono nemmeno ignorare i legami che l’umanista ha stretto fin da giovane con l’ambiente fiorentino, quei legami che hanno portato Vicini a trascorrere un periodo della sua vita a Firenze: la città è il centro
di propagazione di quella nuova cultura basata sugli studia humanitatis che cerca di trasmettere a Battistachiavello nel De institutione.
10 Queste le parole di Vicini: «Te igitur, mi Georgi, hortor ut itsac taranquillitate et ocio uti scias, quod facies si profugorum casus fortunasque cum tua sepissime mecieris. Multa mihi tecum pro distancia nostra et contingentibus dicenda forent, que
si prosequerer dicere me ut molestum querolum fastidires, tanta et private rei tedia et impendencia patrie mala presagia ac presencia indicia augurantur» (Smiraglia, Intro-
duzione, cit., p. XII.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
4.2 Struttura e temi del De institutione regiminis dignitatum
Per cogliere la novità e l’importanza della riflessione di Vicini sugli amici del principe bisogna chiarire qual è la struttura del De institutione, indicando i temi principali che sono affrontati nell’opera. Il De institutione inizia con due lettere: la lettera che Vicini scrive al suo signore, il «dominus» Battistachiavello, mettendo in luce che è molto importante per il principe ricevere una formazione ed un’educazione di alto livello, e la breve lettera di risposta con cui il principe si dichiara interessato ad approfondire l’argomento propostogli dall’umanista!!. Come indicato nel prologo, e come ulteriormente precisato anche nel primo capitolo, l’opera è la trascrizione del colloquio nato da questo scambio epistolare!2. Molto probabilmente, sia il carteggio, sia la discussione tra il futuro signore di Fabriano e l’umanista sono solo una finzione retorica, volta a sottolineare l’intimità e la finalità pedagogica della relazione esistente tra gli interlocutori del De institutione. Questo espediente permette di spiegare la natura dialogica dello speculum. Nel corso del dialogo, Vicini e Battistachiavello si scambiano battute in modo serrato, lasciando affiorare molti punti di tensione, particolarmente rilevanti soprattutto nella riflessione sull’amicizia. Vicini e Battistachiavello iniziano il dialogo cercando di definire le caratteristiche e le qualità dell’ottimo principe, ponendo al centro della riflessione il problema dell’educazione. Poiché, per fornire tale definizione, esaminano cos'è necessario che il principe sappia (quid eum sapere opus sit)!3, l’analisi non verte sull’istituzione del principato, ma sull’institutio del principe. Emerge, COSÌ,
11 De institutione, Epistola et Responsiva, pp. 7-8. 12 De institutione, Prologus, p. 9: «Et sicuti concertatio nostra fuit querendo et respondendo, ita per dyalogum proponantur». 13 De institutione, cap. I, p. 12: «Ba: Ergo in primis de principe disseramus ut ab inicio intelligam quid sit princeps, deinde quid eum sapere opus sit». Come si dovrebbe ricordare, anche Tommaso inizia il De regno cercando di definire chi sia il principe: Tommaso, Al re di Cipro, p. 32.
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quel profondo intreccio di pedagogia e politica che sembra essere una cifra caratteristica del pensiero politico del Quattrocento. La lettera con cui inizia il dialogo tra Vicini e Battistachiavello chiarisce subito perché l’educazione del principe è così importante. Adducendo argomenti vagamente tomistici ed egidiani per sostenere che la monarchia è la miglior forma di governo, Vicini sostiene, infatti, che il principe è come la testa per il corpo: è la guida morale e intellettuale del corpo politico!4. Ciò che il principe deve sapere per svolgere la propria funzione politica e morale non è qualcosa di nuovo: Vicini e Battistachiavello ammettono sin dall’inizio che, nella loro analisi, seguiranno
le riflessioni del «principe dei filosofi», Aristotele, e dalla massima «fonte dell’eloquenza», Cicerone!5. Quando nomina queste due insigni auctoritates, Vicini dichiara esplicitamente che la sua opera si ispira all’Ethica Nicomachea ed al De officiis. Sono le stesse opere di cui si avvalgono anche gli autori degli specula princibum che saranno esaminati nei prossimi capitoli e, come
dovrebbe essere emerso nelle pagine precedenti, sono anche le stesse opere cui si riferisce Palmieri nella Vita civile. Come nota Smiraglia, sfogliando il De institutione, ci si trova davanti ad uno dei primi tentativi compiuti dagli umanisti per ricondurre la formazione politica ed intellettuale dell’uomo, ed in particolare del principe, al fondamento su cui l’ha collocata l’età clas-
14 De institutione, Epistola, p. 7: «Omnium quibus nitimur rationem corpusque tuemur et alimus disciplinam; sicuti princeps natura nos docuit, ita nostrum scire est ab eaque discere singula per se animantia duce indigere vel principe. Nec potest alterum sine altero, utpote sine auriga currus, esistere; quemadmodum in corpore humano caput, totius corporis et singulorum membrorum regimen habens, non sola vi agere consulit, sed providentia etiam et intellectu defensat et dirigit». Corsivo mio. Per i toni tomisti del passo vd. Tommaso, Al re di Cipro, pp. 33-34 e pp. 39-40. Come già sottolineato nel secondo capitolo, Egidio Romano riprende queste argomentazioni nella seconda parte del terzo libro del suo speculum: De regimine principum, pp. 451-490. 15 De institutione, Prologus, p. 9: «Iussisti, magnifice et generose adolescens, collata et disputata invicem de quibusdam spectantibus ad regimen principatus in formam libelli redigere, ut sepe fruereris iocunditate illa perlegendo quam, ut ais, supremam in ipsa collatione habuisti. Scis ipse quod precipis, non cui. Alterim enim fuit hoc, peritioris ingenii et capatioris industrie committendum. Hanc ipsam farraginem philosophorum princeps in Ethicis et summus eloquentie fons Cicero in Officiis habuere».
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sica!6. Non è solo il ricorso a fonti comuni, ma anche e soprattutto la struttura dialogica delle opere a suggerire di accostare il De institutione alla Vita civile. Diversamente da quanto accade nell’opera di Palmieri, però, il dialogo tra Vicini e Battistachiavello non assume mai la forma del trattato morale: gli interventi di Vicini sono molto più brevi e assai meno didascalici di quelli di Pandolfini. Inoltre, le domande che il principe pone all’umanista sembrano decisamente più costruttive e più efficaci di quelle cui risponde il protagonista della Vita civile. Il dialogo tra Vicini e Battistachiavello occupa tutti i quindici capitoli di cui è composto il De institutione. Se si escludono il primo e l’ultimo capitolo, che fungono rispettivamente da introduzione e da conclusione, è possibile dividere l’opera in due parti!”. Nella prima parte, che è più lunga della seconda, le riflessioni dell’autore si concentrano intorno al tema delle virtù cardinali e della maiestas del principe. Vicini analizza le caratteristiche della prudenza, della giustizia, della forza d’animo e della temperanza; dopo aver indicato qual è il modo di parlare e il modo di vestire che si addice al principe dotato di queste virtù, sottolinea l’importanza della sapienza e del tipo di vita che da essa deriva!8. Svolgendo questa riflessione, egli dedica particolare attenzione al pudore, inteso quale istintiva e naturale repulsione verso tutto ciò che è turpe e immorale!9. Per questo, nel De institutione non si trova solo un catalogo delle virtù, ma anche un breve elenco dei vizi che il principe deve evitare: adulazione, cortigianeria e maldicenza in particolare20. Visto che anche il De regimine principum di Egidio Romano inizia con un catalogo delle virtù e dei vizi del 16 Smiraglia, Introduzione, cit., p. XV. 17 Per la prima parte: De institutione, capp. II-XI, pp. 14-57; per la seconda parte: De institutione, capp. XII-XIV, pp. 58-71.
18 De institutione, capp. VII-IX, pp. 42-49. . 19 De institutione, cap. X, pp. 50-52. 20 De institutione, cap. XI, pp. 53-57: Vicini consiglia a Battistachiavello di evitare (sussursia l’adulazione (adulatio), sia la cortigianeria (assentatio) sia le chiacchiere ione, rum), ma questi ultimi due vizi sono entrambi riconducibili al vizio dell’adulaz perché Vicini contrappone i veri amici non solo agli adulatori, ma anche ai leccapiedi ed ai calunniatori.
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principe, si potrebbe ipotizzare che, mentre componeva la prima parte della sua opera, Vicini avesse in mente la struttura di questo speculum principis che, come si è visto nel secondo capitolo, era molto diffuso all’epoca?!. Questa prima parte del dialogo, che verte sulle virtù che fondano e legittimano il potere del principe, è seguita da una seconda parte, più breve ed apparentemente più tecnica, che riguarda l’esercizio del potere. In conformità a quanto sostenuto in precedenza, Vicini e Battistachiavello riflettono sulla scelta degli amici e dei collaboratori del principe, si interrogano sulla natura del rapporto che unisce il principe ai sudditi, cercano dei criteri adatti per la distribuzione delle cariche?2. Mentre lo speculum di Egidio Romano potrebbe essere il modello di riferimento della prima parte del De institutione, la seconda parte dell’opera di
21 Si veda quanto sostenuto nel secondo capitolo di questo saggio, nel paragrafo in cui il De regimine principum è indicato come modello degli specula quattrocenteschi non tanto perché in essi sono citate o riprese alcune delle tesi di Egidio Romano, quanto piuttosto perché la struttura dell’opera egidiana diventa quella canonica. Non è mia intenzione sostenere che Vicini abbia effettivamente letto lo speculum di Egidio, ma credo sia importante mettere in luce almeno due aspetti. 1) Nell’epistola al Cardinale Alfonso Carrillo che accompagna il De institutione, Vicini parla della sua opera in questi termini (De institutione, p. 3; corsivo mio): «Fuit namque mihi propositum illi a quo iniunctum fuit, in quanto facultas suppeteret, morem sue gerere voluntati, et obsequendo illi aliquid prodesse, dum ostendere qualiter vel in rei familiaris vel in rei pubblice gubernatione, circa agende vite seriem, opus fore preferre quoddam magisterium principatus». Come si evince da questo passo, il De institutione è un’opera sul principato che Vicini ha scritto per esaudire i desideri di Battistachiavello ed offrirgli i consigli richiesti. La riflessione sviluppata in essa riguarda sia il governo della famiglia sia il governo dello stato. Questa bipartizione, che è anche una separazione tra sfera privata e sfera pubblica, richiama alla mente la distinzione egidiana tra regimen ipsius, regimen familiae e regimen regni: è come se Vicini avesse unificato i primi due tipi di regimina individuati da Egidio. 2) Come già sottolineato, tanto i capitoli iniziali del De regimine quanto i capitoli iniziali del De institutione forniscono un catalogo dei vizi e delle virtù del principe. L’analisi di Vicini è molto meno articolata di quella di Egidio Romano e molto diversa, perché le virtù descritte nel De institutione sono virtù ciceroniane piuttosto che aristoteliche. Tuttavia, quando introduce le virtù cardinali, Vicini distingue la prudenza, la giustizia, la forza d’animo e la temperanza dalle virtutes annexae che concorrono al raggiungimento della perfezione morale (De institutione, cap. I, pp. 12-13), usando una terminologia egidiana. 22 De institutione, cap. XII: De electione amicorum; cap. XII: De principis consideratione in subditos; cap. XIV: De Officiis conferendis, pp. 58-71.
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Vicini potrebbe essere avvicinata al De morali principis institutione di Vincenzo di Beauvais. Non suggerisco di accostare questi due specula principum solo per l'evidente somiglianza del titolo, ma anche perché il dodicesimo capitolo di entrambe le opere è dedicato all’amicizia e agli amici del principe. Come Vincenzo di Beauvais invitava il principe ad essere sapiente nella scelta degli amici, dei consiglieri, e degli ufficiali (quod debet esse sapiens in amiciis et consiliariis et officialibus eligendis), così Vicini riflette sulla scelte degli amici (de electione amicorum)3. Mi sembra che
sia possibile accostare il De institutione regiminis dignitatum al De morali principis institutione anche perché in entrambe le opere si insiste sulla sapienza del principe quale fondamento e limite etico del potere di chi governa, e si riconosce che questo potere viene da Dio?4. Non si può, però, ignorare che per Vicini 23 Cfr. De morali principis institutione, cap. XII: Quod debet esse sapiens in amicis electione et consiliariis et officialibus eligendis, pp. 64-68 e De institutione, cap. XI: De di più amicorum, pp. 58-63. Gli elementi di somiglianza tra le due opere che colpiscono sono i seguenti: 1) in entrambe le opere, il capitolo dedicato all’amicizia è il dodicesimo; di Beauvais 2) come già sottolineato in precedenza, il capitolo del Doctrinale che Vincenzo elecusa come fonte per il XII capitolo del De morali principis institutione si intitola De del a sull’amicizi capitolo del titolo stesso lo quindi, ha, ed amicorum aquisitione tione vel da p. De institutione (Vincentii Belvacensis, Speculum Doctrinale, cit., libro VI, cap. XIV, prin490); 3) in entrambe le opere il tema della sapienza è un tema centrale (cfr. De morali 42-49); pp. VII-IX, capp. , institutione De e 54-84 pp. X-XVI, cipis institutione, cit., capp. aver 4) sia Vincenzo di Beauvais sia Vicini riflettono sulla distribuzione delle cariche dopo cap. cit., , institutione principis morali De (cfr. amici degli scelta della tema il affrontato di XII, pp. 68-74 e De institutione, capp. XII-XIV, pp. 64-71). Si tratta di somiglianze forma più che di contenuto, perché Vincenzo di Beauvais considera la sapienza del princicredo pe in analogia con la sapienza divina ed il principe come immagine di Dio. Inoltre, De che per comprendere meglio la concezione della sapienza delineata da Vicini, i passi del Vincenzo di speculum dello quelli con solo confrontati essere dovrebbero non institutione di Beauvais, ma anche con alcuni passi del Laelius. Infatti, provando ad attenuare l’austenella rità della tradizione stoica per consentire la realizzazione della sapienza e della virtù Lelio di sapienza la che mostra Cicerone 90-92), pp. 18, V, A, vita quotidiana (vd. per es. del non è solo saggezza radicata nella natura e nei mores, né esperienza in molti campi e cultura cioè doctrina, anche ma vita, della dolori dei one sopportazi di capacità sapere, o consapevolezza filosofica della superiorità della virtù. 24 Per Vicini il potere del principe viene da Dio e ha solo limiti morali, perché non è frenato da altro se non dalla sapientia e dalla dignitas di chi governa. Vd. De institum tione, cap. IX, p. 47: «Ti: Advertet sapiens princeps et meditabitur se dei ministeriu sibi quanta et est, deo domino a scribitur, uti , potestatem omnem et agere gubernandi
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la sapienza non è ciò di cui parlano le Scritture, né l’analogo della sapienza divina, bensì sapere e cultura umanistica che si raggiunge mediante un’educazione morale basata sulla conoscenza di sé, il
controllo delle passioni, lo studio degli esempi della storia greca e romana?!. Poiché non ho intenzione di affrontare un tema tanto complesso ed inesplorato, qual è quello delle fonti e dei modelli del De institutione, sospendo il confronto tra lo speculum di Vicini e quello di Vincenzo di Beauvais per sottolineare un aspetto che mi pare assai significativo: il modo in cui il principe esercita il potere è una conseguenza del possesso delle virtù, un’espressione della dignitas e della maiestas?6. Tra le parti che costituiscono il De istitutione non vi è, quindi, nessuna cesura: poiché seguire
la via della sapienza significa non solo imparare a disporre della vita in modo retto (recte vitam costituire), ma anche imparare a
mantenere l’ordine della comunità (communitatis continentiam), la formazione morale del principe è anche, e allo stesso tempo, formazione politica?7.
La riflessione sugli amici del principe funge da raccordo tra la prima e la seconda parte del De institutione. Infatti, nonostante il valore e la funzione politica dell'amicizia emergano chiaramente sit diligentia divertendum ne quid a ratione destituat, vidente summo rerum arbitrio, cui nichil, neque cordis cogitatio est occulta. Ceterum advertet nichil sibi amplius licere in proprio quam privato fastu, vel arrogantia dignitatis et ita se in rebus omnibus componere, ut ab eius vita et moribus exemplum reliquis bene et honeste vivendi sit necessario et salubre». Inoltre, proprio all’inizio del IX capitolo (ivi, p. 45), Vicini ha ricordato a Battistachiavello che per vivere bene non bisogna solo liberare la mente dalle passioni, coltivando l’onestà e la pietà,ma anche «legem sibi imponere nocere nemini omnibusque prodesse». 25 De institutione, capp. VII-IX, pp. 42-49. 26 Per es. De institutione, cap. IX, p. 45: «Ti: Monui te actentum et id iterum dicere
non desisto, quia nemo poetst recte per eius preceptorum tramitem iam 27 Per es., De institutione, cap. bulorum naturam dinnoscere, nec
vitam constituere qui non sit sapientia preditus vel ingressus». IX, p. 42: «Ti: Delectat te, ut video, reum et vocainiuria quidem. Nam, nisi reum causas et naturas
dinoscimus, non possumus modum recte innteligentie observare. Sapere equidem est sapientiam habere, cui ab effectu et sapore sapientie nomen est. Que sapientia, ut dixi, principi necessaria est et ad digniatatem coneservandam et ad rei pubblice emolumentum èt honeste vite et communitatis continentiam». Il corsivo è mio.
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solo nella seconda parte del dialogo, il tema dell’amicizia affiora già quando Vicini riflette sui vizi che il principe deve evitare, consigliando a Battistachiavello di circondarsi di amici fedeli, cioè di uomini di provata fiducia e di sincera virtù, anziché di adulatori28. L’amicizia non è solamente il punto di contatto tra la prima e la seconda parte dell’opera, ma anche uno dei punti di convergenza di morale e politica: come si vedrà meglio in seguito, scegliendo dei buoni amici come consiglieri, il principe dà prova della sua capacità di governo oltre che della sua virtù. La dimensione morale della politica è evidente sin dali’inizio dell’opera, nei passi in cui Vicini sostiene che il principe deve essere il custode della giustizia e il difensore dell’equità. Riprendendo quanto detto da Isidoro nelle Origines, chiarisce che il principe è il primo tra gli uomini ed è davvero tale se, e solo se, possiede quella superiorità morale (digritas) che lo rende effettivamente degno della carica che ricopre??. Mentre cerca di dare un fondamento etico al potere politico, Vicini gioca sul duplice significato del termine latino dignitas, che indica sia la dignità conseguita per meriti morali, sia la carica ricoperta da chi abbia una qualche funzione politica. Sostenendo che il potere del principe dipende dalla sua dignità morale (omnis principatus est dignitas), fornisce una legittimazione etica del principato che è
m? Ti: 28 De institutione, cap. IX, p. 45: «Ba: A quibus est tale consilium expetendu fideles, A probatis viris experimento fidei et virtutis. Ba: Qui sunt hi probati? Ti: Amici virtutis officio diligentes». ut sapientior 29 De institutione, cap. I, p. 12: «Ti: Princeps est ex multis unus, equitatis, uens perconseq et iusticie, r conservato us, potentialib auctoritate assensu et
Prima vero aliorum tutele et regimini constitutus; quia prima capiat dictus pinceps. et dignitas capit qui percipiendi et dominandi fungitur dignitate. Ba: Quid? Principatus Ba: Cur contra. e non dignitas, est s principatu omnis Nam idem sunt? Ti: Differunt. assumti, dignitas nuncupatur? Ti: Quia dignos ad regimina assumi expediat, vel quod Insistenoperatione secundum virtutes, dignos se faciant principatu». Il corsivo è mio. e che è do sulla dignitas, Vicini riprende e rielabora un topos della tradizione medioeval Isidoro di Sivipresente, tra l’altro, anche nel De morali principis institutione, e risale a Torino, glia. Vd. Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, a cura di A. Valastro Canale, r et UTET, 2004, vol. I, libro IX, II 21, p. 742: «Princeps et dignitatis modo significatu pro Turno” lampada coniecit ardentem “Princeps m: Vergilanu illud est sicut ordinis, [...]». capaiat primus quod one, significati primus. Dictus autem princeps a capiendi
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anche, indirettamente, una giustificazione del governo dei Chia-
velli su Fabriano. Non insisto su questo punto perché, dopo aver analizzato la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara, dovrebbe
essere chiaro che Vicini non è certo il primo né il solo autore di specula principum a proporre giustificazioni morali per un potere
che esiste di fatto. Mi sembra più rilevante notare che la dignitas non è solo una conseguenza del possesso delle virtù cardinali, ma tende ad identificarsi con esse30. Dignità morale, virtù e sapienza (dignitas, virtus, sapientia) sembrano sinonimi perché il ragionamento di Vicini ha un andamento circolare: per essere degno di essere principe, il principe deve essere un principe virtuoso;
per conservare la propria dignità morale, e quindi essere degno di ricoprire la carica che detiene, il principe deve possedere la sapienza3!. Sostenendo che il buon principe deve essere un principe virtuoso, vale a dire prudente, magnanimo, giusto e temperato, Vicini sembra riproporre quanto è sostenuto anche negli specula non umanistici. Tuttavia, l'accordo è molto meno profondo di quanto non sembri in apparenza. Se è vero, infatti, che il principe deve possedere le virtù cardinali, è altrettanto vero che esse sono definite in termini ciceroniani (ab Arpinate definite) piuttosto che aristotelici*2. Inoltre, quando propone il catalogo delle virtù che si 30 De institutione, cap. I, pp. 12-13. 31 De institutione, cap. VIII, p. 43. 32 Vd. De institutione, cap. II, p. 14; cap. III, p. 18; cap. IV, p. 26; cap. V, p. 46, in cui Vicini si riferisce a De inventione II, LI-LIV: Cicerone, De inventione, introd. trad. e note a cura di M. Greco, Galatina, M. Congedo Editore, 1998, pp. 300-305. Si tratta dell’esame delle virtù con cui Cicerone indica i luoghi ed i precetti dell’argomentazione
per il genere deliberativo e dimostrativo. Come ricorda Greco (ivi, pp. 47-53), il De inventione ha molta influenza durante il Medioevo, dal primo commento di Teodorico di Chartres alle chiose alla Rettorica di Brunetto Latini ed oltre. Insieme alla Rbetorica ad Herennium, quest'opera è uno dei principali libri di testo dell’Università di Bologna e diventa il «testo fondamentale della retorica latina tra il 1000 e il 1150» (ibdem, p. 50). Anche se la retorica umanistica è influenzata soprattutto dalla Retorica di Aristotele e dalla Institutio oratoria di Quintiliano (scoperta da Poggio Bracciolini presso il Monastero di San Gallo nel 1416), il De inventione continua ad essere oggetto di gran. de attenzione anche perché, nel 1421, è trovato un importante manoscritto che contiene altre quattro opere retoriche di Cicerone: la Rbetorica ad Herennium, il Brutus, l’Oràtor e la prima versione completa — mai posseduta — del De oratore.
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addicono al principe, Vicini non si riferisce quasi mai alle scritture, nemmeno come fonti di esempi33. Cita pochissimo anche l’Etica Nicomachea, prospettando un catalogo di virtù prevalentemente ciceroniano che, contrariamente a quanto indicato nel prologo, è modellato sul De inventione piuttosto che sul De officiis94. La scelta di questo modello distingue il De institutione dagli specula principum che saranno esaminati nei prossimi capitoli.
Un'altra peculiarità dell’opera è costituita dalla riflessione sull’ozio posta a conclusione del dialogo*. L'autore del De institutione mostra di essere vicino alla sensibilità medioevale perché sostiene che l’uomo diventa simile a Dio grazie all’intelletto ed alla contemplazione, riconoscendo in qualche modo il primato dell’otium sul negotium36. Precisa, però, sin dall’inizio della sua
p. 43 33 Le Scritture sono citate solo in questi luoghi: De institutione, cap. VII, Matth., (Vulg., Sap., 1, 4); cap. IX, p. 47 (Vulg., Rom., 13, 1); cap. XIV, p. 69 (Vulg.,
5,45) e cap. XV, p. 75 (Vulg., Phil., 1,23).
e, 34 L’Etica Nicomachea è ripresa solo per definire la prudencia (De institution definire cap. II, pp. 14-16) e la temperantia (De institutione, cap. V, pp. 27-30). Per cita EN la prudenza Vicini cita EN, VI, 1140b 6-8, p. 231; per definire la temperanza bonarum II, 1107a 15-18, p. 65. La prudenza è aristotelicamente definita quale virtus
pariter ac finem, malarumve reum, utramque discretio, inicia reum metiens, medium
il modello ma è da subito distinta in memoria, intelligentia e providentia secondo ciceroniano di riferimento. La temperanza sembra racchiudere in sé la dottrina aristotelica del giusto mezzo perché è definita medium quarumlibet actionum, ma, ponendo riflessione la questione della medietà delle azioni malvagie, Battistachiavello sposta la di questa e ciceronian i component tre le modestia, la e clementia la , continentia sulla espliriferimenti sono ci non e institution De del virtù. Nel terzo e nel quarto capitolo citi ad Aristotele: vd. De institutione, capp. III-IV, pp. 17-22. La giustizia è definita e giustizia regina di tutte le virtù, ed è distinta in giustizia civile, giustizia naturale alla verità, legale. In tali passi, questa virtù è connessa alla religione, alla pietà ed secondo il modello ciceroniano di riferimento. Vicini non sottolinea il legame esistente all’amitra amicizia e giustizia rifacendosi all’Etica Nicomachea. Si riferisce, invece, Finzia. cizia quando descrive la virtù della fortitudo, citando l’esempio di Damone e o riferiment l’unico anche trova si 23) p. IV, cap. e, institution (De In questo contesto alle virtù esplicito al De officiis che è presente nella sezione del De instututione relativa II, XXXI, cardinali: l’esempio di Manlio Torquato proposto da Vicini è preso da Of, pp. 294-296. 35 De institutione, cap. XV, pp. 72-75. et 36 De institutione, cap. XV, pp. 75: «BA: Homone deo dignus solo intellectu querunt scientie speculatione perficitur? Ti: Scientia et intellectu speculativo homines deo et indagant bonos fieri, sed complemento quod est in operatione virtutum fiunt proximi et affines». Il corsivo è mio.
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analisi che per diventare simili a Dio non basta conoscere, ma bisogna mettere in pratica quanto si è appreso vivendo in modo
virtuoso. Chiarisce inoltre con degli esempi che la conoscenza non deve essere fine a se stessa e deve, invece, mirare all’azione.
Invitando il proprio interlocutore ad imitare uomini quali Scipione l’Africano e Cicerone, mostra che la vita dedita all’ozio non deve essere intesa come rifiuto del mondo o inattività, bensì
come introduzione e complemento della vita politica?7. L’ocium esaltato nell’ultimo capitolo dell’opera, infatti, non è altro che l’ozio dei sapienti (ocium sapientum) e di chi si dedica alle arti liberali (ocium liberale), ossia quella stessa formazione morale da cui dipende sia il possesso della virtù sia la capacità di governare bene: anziché contrapporre ocium e negotium, vita attiva e
vita contemplativa, Vicini cerca di identificare ozio e sapienza88. Per questo, anche se l’umanista fabrianese non esalta il valore della vita attiva come Palmieri, le riflessioni svolte nel De institutione non sono molto lontane da quelle delineate nella Vita civile né dalle riflessioni di quegli umanisti di inizio Quattrocento che negano il primato della vita contemplativa??. Identificando ozio e sapienza, Vicini termina il dialogo rimarcando con forza l’ispirazione stoica dell’ideale etico proposto al principe come modello di vita. Vivere nell’ozio, infatti, non significa altro che imparare a vincere le passioni, sopportare la cattiva sorte, e conservare la moderazione anche quando si
37 De institutione, cap. XV, p. 76. Si noti che l’esempio di Scipione, che non è mai stato così attivo come quando si è dedicato all’ozio letterario e non è mai stato meno solo di quando si è isolato per studiare, è tratto da Of, III, I, pp. 294-296, ed è citato spesso dagli umanisti che rivendicano il primato della vita attiva. Come molti altri umanisti, Vicini propone al principe come modello un cittadino della Roma repubbli-
cana. 38 De institutione, cap. XV, pp. 72-73, ed in particolare: «Ba: Ocium quid hoc est? TI: Quod sapientie studium idem est, humane mentis refugium, consiulium et levamen». 39 Sul dibattito relativo al rapporto tra vita attiva e vita contemplativa vd. E. Garin, Le origini dell’Umanesimo: da Petrarca a Salutati e «La vita civile», in Id., L’Umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1952, pp. 27-102. La posizione di Vicini dovrebbe essere confrontata con quella di Salutati.
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trae beneficio dal favore della fortuna‘. L’ozio può coincidere con lo studio e l’amore per la sapienza (studium sapientiae) proprio perché la sapienza che Vicini ha consigliato al principe di perseguire è stata socraticamente definita quale conoscenza di se stessi, ed è una conoscenza tesa a mantenere la mente libera
dai vizi e dalle passioni4!. Per riuscire a seguire la via morale e politica della sapienza, il principe deve conoscere la storia greca e, soprattutto, quella romana, imitando la grandezza morale di cui hanno dato prova Cincinnato, Fabrizio, Emilio, Scipione, Scauro, Pericle, Anassagora e Senofonte*. l’idea tipicamente umanistica della storia come maestra di vita poggia su un preciso
assunto di carattere teologico. Quando riconoscono di vivere in un’epoca che non è caratterizzata dalla presenza di principi illustri o ingegni brillanti, Vicini e Battistachiavello sostengono che l’insegnamento e l’esempio di uomini come Catone, Livio, Sallustio, Cicerone, Seneca ed Orazio continua ad essere valido perché
i vizi e le virtà non cambiano nel tempo. Chiariscono, poi, che la corruzione morale dell’uomo non dipende dall’epoca in cui vive, ma da quella malvagità d’animo (malignitas) che spinge a cercare i piaceri piuttosto che le virtù43. Mi sembra che in questa afferma40 Per quanto riguarda il significato della vita oziosa, vd. De institutione, cap. XV, p. 72: «Ti: Eo studio doceberis turpe et inconcessum fore faustu potentie vel divitiarum tenepetulantia non servare in re qualibet honestatem et medium in rebus singulis non re. In adversis verum portume sese tutissimum et tranquillum adversus omnes fortune anche: et humanorum casuum impetus et furores et adversus paupertatem [...]», ma «Ti: Satis supra expressimus quibus modis posset animus fragilitatem mentis advincere operam et paxiones eiusdem ratione et consilio amovere. Nam qui ei studio solertem dedit inventi propugnacola potentia adversus quascumque animi paxiones, exemplis certissima et doctrina». 41 De institutione, cap. VIII, p. 42: la sapienza è conoscenza di se stessi; De institudi tione, cap. VIII, p. 44: per essere sapienti bisogna avere la mente libera dal desiderio non Vicini se Anche cupidigia. dalla e one dall’ambizi voluttà, dalla ricchezze, poteri e la attribuisce a Socrate il precetto del mosce te ipsum cui si richiama quando definisce sapienza, la definizione della sapienza è comunque una definizione socratica: identifiche ha cando ozio e sapienza, Vicini indica Socrate come esempio dell’uomo ozioso,
alle saputo andare incontro alla morte con serenità, dominando le passioni e resistendo avversità (De institutione, cap. XV, p. 72). 42 De institutione, cap. XIV, p. 73. 43 De institutione, cap. IX, p. 48: «Ti: Recte quidem inquis; verum, ut tibi respon-
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zione dei protagonisti del dialogo si senta l’eco della tesi secondo la quale la natura umana è corrotta dal peccato originale. Imitando le gesta e le virtù dei grandi uomini del passato, il principe diventa, a sua volta, modello ed esempio di vita per tutti gli altri uomini, che si vedono riflessi in lui come in uno specchio44. Come se volesse sottolineare che istruendo il principe si educa l’intero corpo politico, Vicini ricorre all’immagine dello specchio alla fine del dialogo, mentre propone una definizione della vita felice che, come si vedrà tra breve, include anche l’ami-
deam, non opinor bonis et compositis ac studiosis viris seculum aliquod caruisse, tametsi nos, illecebri et malis moribus referti, iniqua de aliena vita iudicia proferamus, sive dissimilitudinis odio sive ignorantia faciamus. Nam studiis et virtutibus intentos, si re careant humiliterque vivant vulgo, ignominie causa, appellamus fantasticos et amentes, eo quia videantur in vita que ipsi colunt negligere et, secus ab aliis, temporalia non curare. At non inficior priores etates magis hac calrissimis principibus et celeberimis ingeniis abundasse, quorum memorabilium gestorum ac operum veteres posteris auctiores memoriam reliquere. Quamvis videatur quadam astrorum coiniunctione, uno eodemque tempore, celi potius benignitate quam studii solertia, ut obmictam clarissimos imperatores exercituum eisudem temporis, celeberimorum ingeniorum copiam exstitisse. Nam circa aetatem Ciceronis, Terentius Varro philosphus et poeta, Sallustius Crispus, Virgilius Maro, Marcus Portius Cato philosophus, Oartius Flaccus Venusinus, Titus Livius Patavinus, Ovidio Naso, Seneca Cordubensis, Lucanus poeta,
et quam plurimi alii claruerunt oratores, philosophi et poete, quibus eternitas nomini non esset, nisi tales fuissent, quales in tot voluminibus predicantur. Quorum vitam, mores ac studium, imitari non puto negatum evo nostro, si que illis familiaria nostris sint». Il corsivo è mio. Non ho citato questo lungo passo solo perché Vicini menziona i più famosi filosofi, oratori e poeti della storia romana, fornendo un elenco che ha un corrispettivo nell’elenco dei grandi uomini greci e romani formulato nell’ultimo capitolo del De institutione, ma anche perché Vicini cita gli stessi filosofi, oratori e poeti che ricorda anche Petrarca: Al magnifico signore di Padova, cit., p. 831. Il riferimento alla congiunzione astrale che spiegherebbe la straordinaria abbondanza di uomini illustri vissuti ai tempi di Cicerone non deve stupire: come evidenzia Rubinstein richiamandosi a noti studi di Garin, sin dall’inizio del Trecento si fa ricorso a teorie astrologiche per spiegare i più importanti cambiamenti ciclici della società, della politica e della religione (E. Garin, Età buie e Rinascita. Un problema di confini, in Id., Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 19762, pp. 5-47, in particolare pp. 12-14; N. Rubinstein, Le dottrine politiche nel Rinascimento, in M. Boas Hall (a cura di), Il Rinascimento: interpretazioni e problemi, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 183-237, in particolare p. 197. Sulla malignitas dell’uomo vd. anche De institutione, cap. IX, pp. 48-49, in particolare: «Ba: Aut etas nostra imbecilliores non tulit ingenio, aut insita nobis est aliqua nature malignitas, qua sumus voluptatibus quam virtutibus proniores [...]».
44 De institutione, cap. XV, pp. 76 e 77.
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cizia. immagine del principe come specchio dei sudditi compare per la prima volta quando Vicini e Battistachiavello riflettono sulla maestà del principe. La maiestas, infatti, non è solo il segno esteriore della dignità morale e della sapienza del principe, ma anche, e soprattutto, un atteggiamento teso a rendere i sudditi più virtuosi: i sudditi si specchiano nella moderazione, nel decoro, nella solennità e nell’eleganza del principe (continentia, decentia, gravitas, venustas), una sorta di speculum vivente capace di riflettere e diffondere la luce delle virtù espresse dalla sua maestà”. Declinando in questo modo la metafora dello specchio, Vicini pone l’accento su un argomento che sarà ampiamente esaminato
negli specula principum composti nel Quattrocento. Accennato nello speculum di Egidio Romano, il tema della maiestas diventa il fulcro della «piccola ma compatta teoria del potere» formulata da Pontano nel De principe*6. Sebbene non sia questo il luogo adatto per confrontare la riflessione di Vicini con quella di altri umanisti, credo sia rilevante notare che la maiestas del principe dipende soprattutto dall’uso del linguaggio. Citando il De oratore, invece del De inventione e del De officiis cui si riferisce solitamente, Vicini sostiene che il discorso (oratio) del principe 45 Sulla maiestas come riflesso della virtù e della dignitas del principe vd. De institutione, cap. VI, pp. 32-33. Per la metafora dello specchio si veda quanto detto a p. 32: «Ti: Quia in principem homines tamquam in speculum intuentur, in èo decet esse venustus et continens ad uttamque partem se, cum res exgerit, habitus». Il corsivo è mio. Si noti inoltre che, in questi passi, Vicini usa verbi come perlucere, che fanno pensare alla virtù come ad una luce che dal principe si irradia e si propaga su tutti i sudditi. La metafora dello specchio è presente anche nella lettera di Petrarca a Francesco da Carrara: Al magnifico signore di Padova, p. 771. Vicini, però, la declina in modo diverso: per Vicini è il principe ad essere lo specchio dei sudditi, specchiandosi a sua volta nei grandi uomini del passato, per Petrarca è la lettera scritta al signore di Padova a fungere da specchio. Come si vedrà nei prossimi capitoli, anche Pontano e Platina si avvalgono dell’immagine del principe come specchio, attribuendole sfumature di significato diverse, a seconda delle fonti cui si riferiscono. 46 Sull’importanza del concetto di maiestas nel De principe di Pontano vd. G.M. Capelli, Introduzione, in Pontano, De principe, cit., pp. XCIII-CVI, in particolare pp. XCVI e CVII: il concetto romano di maiestas entra a far parte del lessico politico medioevale per indicare la superiorità del rex e del principes, diventando poi un concetto chiave del lessico politico quattrocentesco. Per la presenza del tema in Egidio Romano vd. De regiminis principum, libro I, pars I, capp. V-XII, pp. 14-40.
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deve essere ornato da giudizi saggi, abbellito da parole solenni (sapientibus sententiis gravibusque verbis ornata et polita). Non è esclusivamente una questione di stile. Vicini chiarisce, infatti, che il principe può riuscire a placare il furore del popolo e ad ottenere il consenso di cui ha bisogno solo se sa parlare in questo modo”. L'attenzione riservata ai discorsi del principe fa da corollario all’esaltazione del valore e della funzione civilizzatrice dell’eloquenza: continuando a riferirsi al De oratore, Vicini sottolinea che è stato il linguaggio (sermo) ad unire gli uomini in società, trasformando la loro vita ferina e selvaggia nella vita civile e politica48. Emerge così la profonda sensibilità umanistica che anima le riflessioni svolte nel De institutione. 4.3 Gli amici del principe: la fenomenologia dell’amicizia delineata da Vicini
Avendo chiarito qual è la struttura del De institutione, ed avendo analizzato alcuni dei temi chiave dell’opera, ora è possibile esaminare la riflessione sull’amicizia che Vicini propone. Si deve innanzitutto sottolineare che l’ideale di vita buona (bere et honeste vivere) indicato a Battistachiavello come modello da seguire comprende anche l’amicizia. Questo si evince sin da quando Vicini esamina le caratteristiche delle virtù che deve possedere per essere un buon principe. Infatti, la fortezza d’animo (fortitudo animis) non è solo la virtù che permette di vincere le passioni e di rimanere liberi e giusti, ma anche la virtù che custodisce l’amicizia*?. Per caratterizzare questa virtù, Vicini propone un esempio 47 De institutione, cap. VII, p. 39; Vicini cita alla lettera Cicerone, De oratore, I, XXXI, cit., pp. 139-141. 48 Cfr. De institutione, cap. VII, pp. 40-41 e Cicerone, De oratore, I, XXXIIIXXXIV, cit., pp. 141-143. Si noti che Crasso conclude l’intervento con cui esalta la forza del linguaggio umano nel segno dell’amicizia: incita i giovani interlocutori del dialogo a impegnarsi nelle loro attività per dare onore a se stessi, vantaggi agli amici, giovamento allo stato.
49 De institutione, cap. IV, p. 23: «Ba: Que animi? Ti: Qua quis, ut leges impleat, ut honestatem et amiciciam custodiat, iusticiam libertatemque servet, expugnat et superat omnes animi passiones et etiam immoderatos comprimit appetitus». Il corsivo è mio.
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tipico della riflessione sull’amicizia: quello di Damone e Finzia. Come si è evidenziato analizzando il De regno di Tommaso, tale esempio è generalmente utilizzato per sottolineare la fedeltà assoluta degli amici. Vicini insiste, però, sulla grandezza morale che Damone e Finzia dimostrano, essendo disposti a mettere la vita l’uno nelle mani dell’altro in nome del fortissimo legame che li unisce. Il valore morale dell’amicizia affiora anche nel passo in cui Vicini sostiene che la vita del principe deve essere libera dai vizi e dalle passioni, ma non priva di ricchezze, piaceri e relazioni.
, L’umanista attenua lo stoicismo che caratterizza la sua analisi
affermando che il principe deve possedere ricchezze sufficienti per poter ricompensare gli amici?!. Il valore dell’amicizia traspare,
infine, con particolare evidenza, a conclusione del dialogo, nel
passo in cui Vicini sostiene che il principe è lo specchio in cui possono e devono riflettersi i sudditi. Includendo il rispetto dei doveri e dei patti di amicizia tra i precetti da rispettare per vivere bene, egli afferma infatti che: otterrà la | Grazie ad un ozio di questo tipo [l’ozio liberale], il principe
seguire queste testimonianza di tutte le virtù e la conoscenza di tutti vizi, per
, dei loro ed evitare quelli. Nondimeno, avrà esperienza delle cose naturali costumi e buoni dei regola la rà conosce come così danni, benefici e dei loro , e dei amicizie delle patti i e doveri i gono manten si cui con onesta, vita della queste sapere di solo otterrà matrimoni e le associazioni tra gli uomini. Non vita quale esempio suo il con altri agli e insegnar cose, ma anche di farle, di suo il lui in troverà e specchio uno in come lui in vedrà si chi debba vivere modello.
da Valerio Massi50 Ibid. L'esempio di Damone e Finzia potrebbe essere tratto sia cura di R. Farana li, memorabi fatti e Detti Massimo, mo sia da Cicerone: vd. Valerio ed Of, III, X, p. 239. da, Torino, UTET, 1987 (19711), libro IV, 7, ext. 1, pp. 359-361 vd. Al re di Cipro, pp. Per la presenza di questo esempio nel De regno di Tommaso e Finzia è lo stesso Damone di vicenda alla ce 74-75. Il significato che Vicini attribuis 162. p. Vc, vd. Palmieri: da anche essa ad o attribuit è che opes prin51 De institutione, cap. IX, p. 46: «Nichil enim pulcrius quam honestas libus quidem cipem possidere, amicis et familiaribus pro meritis erogandas. Delectabi et decenti». La frui, nulla vetat ratio honestatis, si delectetur delectatione laudabili EN, X, 1177b a rimanda passo, questo riflessione sul piacere, che si trova subito dopo 1-5, pp. 431 sgg. in latino: 52 De institutione, cap. XV, p. 77; corsivo mio. Riporto anche il passo
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I doveri ed i patti di amicizia (amiciciarum iura ac federa), che Vicini annovera tra i precetti su cui si basa la vita onesta (honeste vite formula), richiamano alla mente il patto di amicizia (foedus amicitiae) che il tiranno descritto da Tommaso vieta ai sudditi insieme ai matrimoni (connubia). È una somiglianza significativa, anche se non è sufficiente per stabilire una connessione diretta tra il De institutione e il De regno. Nel passo citato si sente anche l’eco di alcune tesi presenti nel De officiis53. Forse è più utile precisare che, quando afferma che i precetti della vita onesta concorrono al mantenimento dei vincoli amicali, familiari
e sociali (amiciciarum et connubiorum iura ac federa et societates mortalium), Vicini non sottolinea solo la continuità esistente tra morale e politica. Mostra altresì che il passaggio dalla dimensione individuale alla dimensione sociale dell’esistenza umana avviene proprio mediante la sfera delle relazioni, quella in cui si trovano i matrimoni e le amicizie. Collocando l’amicizia sulla linea che divide, ed allo stesso tempo collega, l’ambito della vita privata e quello della vita pubblica, come Palmieri, Vicini evidenzia la continuità esistente tra i rapporti privati ed individuali e quelli sociali e politici*4. Poiché l'amicizia è parte integrante dell’ideale di vita proposto al principe come modello, Vicini e Battistachiavello si domandano quali amici debba scegliere di avere il principe. La loro riflessione risulta particolarmente interessante perché gli interlocutori del dialogo mostrano che l’amicizia non è solo uno dei comportamenti che attestano l’onestà e l’integrità morale di chi governa, ma anche, e soprattutto, una relazione indispensabile per l’esercizio e la gestione del potere. Per comprendere che la scelta degli amici «Eisudem ociii beneficio princeps capiet, documentum virtutum omnium ac viciorum notitiam et cautelam, ut alias sequatur, alia devitet. Nec minus nauturalium rerum peritiam et earum iuvamentum ac nocumentum similiter ac etiam morum et honeste vite formulam, quibus amiciciarum et connubiorum iura ac federa et societates mortalium continentur, et non modo scire ea, sed facere, docere alios exemplo sui qualem vitam agere debeant qui in eum sunt tamquam in eorum exemplar et speculum prospecturi». 53 Tommaso, Al re di Cipro, p. 44. Per quanto riguarda gli echi del De officiis che si sentono nel passo, vd. Of, I, XVII, pp. 46-47. 54 Il passo citato può essere confrontato con Vc, p. 53.
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non riguarda solo la vita privata del principe, ma ha un significato politico, bisogna prendere in considerazione l’esito della riflessione sui vizi. Le battute che Vicini e Battistachiavello si scambiano dopo aver precisato che il principe non deve chiedere consiglio agli adulatori mostrano chiaramente che l’amicizia è una relazione dotata di un preciso valore politico. Si legge, infatti, che: Ba: A chi si deve chiedere queste consiglio? Ti: Ad uomini che sono stati messi alla prova nella pratica della virtù e della fedeltà. Ba: Chi sono costoro? Ti: Gli amici fedeli, scrupolosi nell’esercizio della virtù?!.
Il principe deve scegliere i suoi amici con attenzione perché gli amici non sono altro che i consiglieri del principe. Contrapponendo gli amici fedeli e virtuosi agli adulatori, Vicini riprende un topos plutarcheo che, come si è più volte sottolineato, sembra essere una cifra caratteristica della riflessione sull’amicizia presente negli specula quattrocenteschi. Identificando gli amici del principe con i suoi consiglieri, mostra di seguire idealmente la via indicata da Petrarca perché colloca la propria riflessione sull’amicizia nello spazio del consiglio, giocando il valore politico della relazione nel contesto della vita di corte, a livello del rapporto personale col principe. L’amicizia non è presentata come la relazione che funge da modello del legame sociale, ed appare immediatamente come una relazione ed un rapporto di potere: è il rapporto intimo e personale che si stringe con chi detiene il potere. Anche Vincenzo di Beauvais chiamava amici i consiglieri del principe. Tuttavia, la riflessione de electione amicorum di Vicini è molto diversa da quella proposta nel De morali principis institutione, sia per le finalità che per i contenuti. Vicini, infatti,
non si limita a citare gli auctores e le auctoritates del passato per descrivere l’amicizia. Propone, invece, una ricca e articolata fenomenologia della relazione, e problematizza così la propria
55 De institutione, cap. XI, p. 57. Riporto anche il passo in latino: «Ba: A quibus est tale consilium expetendum? Ti: A probatis viris experimento fidei et virtutis. Ba: Qui sunt hi probati? Ti: Amici fideles, virtutis officio diligentes».
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analisi. Collocando l’amicizia nello spazio del consiglio, anziché in quello del consenso, come faranno anche Platina, Pontano e Patrizi, Vicini individua diverse figure di amici, che animano la scena politica svelando nuove dinamiche di potere. Come cercherò di mostrare, sono proprio le tensioni e le ambiguità che attraversano la fenomenologia dell’amicizia delineata nel De institutione a mostrare che l’amicizia assume nuove caratteri-
stiche e nuove valenze politiche. Consiglieri, boni cives e clientes In linea con quanto sostenuto nel passo citato, la prima tipologia di amici che viene individuata nel capitolo De electione amicorum è quella dei consiglieri: Vicini invita Battistachiavello a scegliere come amici consiglieri liberi e retti, uomini capaci di parlare sempre e solo in nome dell’interesse comune (communis utilitas), persone fedeli e prudenti sia nella buona sia nella cattiva sorte, cittadini che non pretendano favori in cambio del servizio svolto per la salvezza della patria56. Indicando le caratteristiche che devono avere gli amici-consiglieri, l’umanista non si stanca mai di ripetere che il principe deve essere sicuro del loro amore per la giustizia, certo della loro virtù e dei loro buoni costumi7. Sono luoghi comuni della riflessione sull’amicizia. Sono gli stessi consigli che Petrarca rivolse al signore di Padova, quando gli raccomandò di scegliere amici che avessero le stesse caratteristiche di quelli scelti dall’imperatore Alessandro Severo®*8. Non sono raccomandazioni banali: ponendo l’accento sulla franchezza, sulla fiducia, sulla gratuità, sul disinteresse e sulla lealtà che, quasi per definizione, caratterizzano ogni rapporto di amicizia, Vicini individua le premesse morali senza le quali l’amicizia non potrebbe svolgere la funzione politica che le viene attribuita. Se gli amici non fossero gli amici leali, fedeli, sinceri, 56 De institutione, cap. XII, p. 58. 27 De institutione, cap. XII, p. 59.
S8 Al magnifico signore di Padova, cit., p. 807.
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disinteressati ed onesti che sono, infatti non potrebbero essere i consiglieri e gli uomini di fiducia del principe. Chiamando amici i consiglieri del principe, Vicini cerca di sottoporre a vincoli morali i rapporti personali attraverso cui il principe gestisce il proprio potere. Mostra inoltre che tali rapporti non hanno ancora natura professionale ed istituzionale. Indicando le caratteristiche dei consiglieri, Vicini propone una tesi particolarmente originale e interessante. Sostiene, infatti, che gli amici che il principe deve scegliere come consiglieri non devono essere dei cittadini stranieri bensì dei concittadini, dei
cives5?. È Battistachiavello a proporre cittadini stranieri come consiglieri del principe, riferendosi probabilmente ad una consue-
tudine diffusa sin dall’età comunale, quando, come è noto, si
sceglievano podestà e magistrati forestieri per evitare che l’interesse particolare dei detentori di una carica prevalesse sul bene comune®?, Vicini rifiuta la proposta di Battistachiavello appellandosi alla storia di Roma. Constata, inoltre, con un certo realismo
che la fedeltà e l’onestà dei consiglieri stranieri dipendono solo dalla speranza di guadagni e ricompense. Nota, infine, con non poco disincanto, che la predilezione per i consiglieri stranieri dipende solo dalle passioni segrete e dalle ambizioni nascoste dei principi6!. L’affiorare di questo momentaneo disaccordo tra gli
59 De institutione, cap. XI, p. 58: «Ba: Cur non alienigene sicut cives, dummodo
prudentes et optimi viri sint? Ti: Licet quandoque peritiores alienigene reperiantur, non tamen eis ab natura vis insita est dilectionis patrie aliene. Hi salutem patrie semper
respiciunt, semper meditantur et cupiunt; illi mercedem secuntur et premia, quibus deficientibus, torpescunt diligentia atque fides». 60 Per un quadro generale del fenomeno vd. per esempio: M. Ascheri, Istituzioni medioevali, in particolare parte III, cap. XIII: Dentro la grande espansione: l’Italia comunale, pp. 274-292. Per un’analisi più dettagliata: E. Artifoni, I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, in «Quaderni storici», XXI, 1986, pp. 687-719. 61 Ibid. Vicini gioca con l’improbabile etimologia della parola latina senatores, che, stando a quanto sostenuto nelle Origini (Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, vol. I, libro IX, VI, 8, cit., p. 754), avrebbe la stessa radice di senex. Si noti, inoltre, che l’umanista usa indifferentemente termini quali cives e subditi: per Vicini, così come per Pontano, Platina e Patrizi, i cittadini non sono solo gli abitanti di una repubblica, ma anche coloro che sono governati da un re.
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interlocutori del dialogo mi sembra particolarmente interessante: sostenendo che i consiglieri del principe debbano essere dei cives, Vicini mostra che amicizia non significa solo lealtà e fedeltà, ma anche senso di appartenenza. Visto che Vicini è nato a Fabriano, e si rivolge al principe di cui vuole essere il precettore, sembra lecito supporre che egli stia anche cercando di proporsi come uno dei possibili consiglieri di Battistachiavello. Vicini ritrova l’accordo con il proprio interlocutore non appena precisa che i concittadini sono da preferire ai consiglieri stranieri perché il rapporto tra governanti e governati è un rapporto basato sull’amore reciproco: i cittadini non possono non amare il principe che li ama, li protegge e li mantiene uniti nella giustizia e nell’amoref2. Vicini affronta più estesamente questo tema — il tema della mutua caritas che regna tra principe e sudditi — nel capitolo successivo del De institutione, quando paragona il principe al buon pastore che custodisce ed ama tutte le pecore del gregge, mostrando che il rapporto tra governante e governati ha una dimensione affettiva ed una natura morale®3. Anche se è breve, questa descrizione del rapporto tra il principe e i sudditi come legame basato sull’amore e sull’affetto è particolarmente significativa: grazie ad essa Vicini individua le condizioni di possibilità della scelta degli amici, specificando quale tipo di amicizia è in questione. Le condizioni di possibilità: il principe deve scegliere i suoi amici tra i sudditi per avere consiglieri fedeli e leali proprio perché è legato ai sudditi da vincoli di natura affettiva e morale. Il tipo di amicizia: poiché il principe è un buon principe, amato per la sua bontà, un modello e uno specchio di virtù per tutti i sudditi, e visto che gli amici che l’ottimo principe deve scegliere come consiglieri sono i cittadini buoni (boni cives), l'amicizia tra il principe e i sudditi è l’amicizia tra i buoni.
62 De institutione, cap. XII, p. 59, in particolare: «Ti: Boni cives non possunt non
diligere eum qui eos amet, tueatur et contineat in iusticia et amore. Nam nusquam aberit amicitia inter bonos». Il corsivo è mio.
63 De institutione, cap. XIII, p. 66.
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Non mi soffermo ora sul tema della mutua caritas evidenziando le caratteristiche del rapporto che unisce il principe ai sudditi, perché preferisco sottolineare che l’amicizia tra buoni non è l’unica amicizia esistente né l’unica amicizia che il principe debba stringere. Infatti, quando sostiene che il principe deve scegliere i boni cives come amici e consiglieri, Vicini porta Battistachiavello a riflettere sulla polisemia della parola amicizia, indicando nuove e diverse tipologie di amici. La tesi che l’umanista vuole dimostrare suona quasi come un gioco di parole: il principe deve scegliere cittadini buoni per avere buoni amici e buoni consiglieri, ma non ha bisogno solo di buoni amici. Questa tesi viene formulata attraverso uno scambio di battute che è particolarmente interessante. Si legge, infatti, che: Ba: Non è forse vero che l’amicizia è necessaria al principe anche in cose diverse dal prendere una decisione? Ti: Certamente. Ba: E c’è bisogno di uomini di ogni genere, a seconda delle diverse attività, a seconda della autorità e delle capacità di ciascuno? Ti: Non devono essere chiamati amici tutti coloro che servono il principe. Ba: Perché non meritano il nome dell’amicizia coloro che eseguono fedelmente i suoi ordini e sono sempre disponibili verso gli incarichi dati dal principe? Ti: Benché siano chiamati così dai principi secondo il significato comune della parola amicizia, non sono tra coloro a cui spetta la parola amici, ma sono sostenitori benevoli e clienti.
di Ba: Codesta benevolenza non nasce dall’amore e con animo libero servire? Ti: Sì, ma vi sono parecchi generi di quelle che generalmente chiamano amicizie, tuttavia è una sola la vera e perfetta amicizia che deve essere custoaltre dita come una cosa divina, come una divinità sacra e inviolabile. Che le e la prova lo za l’esperien amicizie abbiano in sé qualche azione lodevole, ragione non lo nega. di Ba: perché, se gli effetti di queste amicizie sono lodevoli, sono indegne
essere chiamate amicizie?9*
in latino: 64 De institutione, cap. XII, p. 59. Il corsivo è mio. Riporto anche il passo Ba: Et «Ba: Nonne principi in aliis quam in consulendo amicicia opus est? Ti: Certe. facultate? et potentia sua pro negotia, diversa secundum hominum, generis cuiuslibet semper Ti: Non sunt amici omnes qui principi deserviunt nominandi. Ba: Quare? Qui
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Come mostra questo scambio di battute, sia Battistachiavello sia Vicini sono d’accordo nel sostenere che il principe non ha bisogno d’amici solo quando deve prendere qualche decisione, ed ha bisogno di amici diversi dai consiglieri e dai boni cives a seconda del tipo di attività che deve svolgere. Battistachiavello e Vicini, però, non hanno la stessa opinione quando si tratta di decidere se tutti i collaboratori del principe debbano essere considerati amici. Infatti, mentre Battistachiavello vorrebbe chiamare amici tutti coloro che aiutano il principe mostrandosi sempre disponibili ed obbedienti, Vicini distingue i veri amici dai clienti e dai sostenitori (clientes et sequaces benivoli). Pertanto, oltre all’amicizia tra buoni, che è identificata con la vera e perfetta amicizia (vera et optima amicitia), fondata sulla virtù, esistono delle amicizie improprie, che sono considerate amicizie solo in senso lato. Si
tratta di rapporti clientelari, parziali e interessati, che si basano su favoritismi e scambi di piaceri. Vicini chiama amicizie questi rapporti, ma chiarisce che la parola amicizia indica diversi tipi di relazioni (plura genera) perché può essere usata con un’accezione comune e generale, oppure nel suo significato più stretto. Sostiene, quindi, che è possibile chiamare amici anche i clienti e i sostenitori del principe, ma solo se si tiene presente che non sono veri amici. La distinzione tra amici e veri amici mostra che l’amicizia si
dà e si dice in molti modi, e che il modo più consono è proprio quello aristotelico-ciceroniano: nel passo citato e, in altri passi del dialogo, Vicini chiarisce che la vera e perfetta amicizia coincide con l’amicizia in vista della virtù descritta da Aristotele nell’Etica Nicomachea e con la vera amicizia di cui parla Cicerone nel Laelius$5. La vera e perfetta amicizia è diversa dalle amicizie in mandatis principis prompti sunt iussaque fideliter peragunt nomen amicicie non merentur? Ti: Licet publico vocabulo amicicie tales a principibus nominentur, non sunt de quibus sermo est amici, sed sequaces benivoli et clientes. Ba: Istec benevolentia non provenit ab amore et libero animo serviendi? Ti: Ita sed earum quas amicicias vulgo dicunt plura sunt genera, unica tamen vera et optima que ut res divina custodienda est ut numen inviolabile sacrumque. Reliquas habere in se aliquas laudabiles actiones, experientia probat et ratio non retorqueat. Ba: Quare, si earum luadabiles sunt effectus, indigne sunt amicicias appellari?». 65 De institutione, cap. XII, pp. 59-60. La vera amicizia, quella che è paragonata
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senso lato, dai rapporti clientelari basati sullo scambio di favori,
chesono impropriamente chiamate amicizie, perché è una relazione
gratuita e disinteressata, intrinsecamente dotata di valore morale. È evidente che sono proprio queste caratteristiche a rendere la vera e perfetta amicizia politicamente rilevante: scegliendo amici veri e perfetti, il principe avrà consiglieri fedeli e leali. Vicini è il solo autore degli specula esaminati ad annoverare i clienti ed i sostenitori tra gli amici del principe (clientes et sequaces), rendendo così ricca e articolata l’analisi dell’amicizia. Delinea una fenomenologia ciceroniana, perché la distinzione tra la vera amicizia e le relazioni che si chiamano amicizia solo
perché si usa l’accezione generale e comune della parola potrebbe dipendere da un passo del Laelius, in cui Lelio dichiara di non voler parlare delle amicizie volgari e mediocri, ma della vera e perfetta amicizia. È una fenomenologia problematica, perché la distinzione tra amici e veri amici non è sempre chiara: a volte Vicini ripete che il principe ha bisogno d’amici diversi dai buoni cittadini ed accosta amici e clienti sostenendo che sia le amicizie sia le clientele sono relazioni necessarie al principe, altre volte si contraddice lasciando intendere che i clienti e i sostenitori non possono essere considerati né veri amici né amici del principe®”. Questi punti di tensione affiorano anche nel passo citato: Vicini alla luce emessa dal globo del sole, è un’amicizia aristotelica perché è una relazione «in medio costituta, in se perfecta agit nichil superflue, nichil parum, vere virtuti per naturae similitudinem coniugata». Poiché è definita come amicicia inter bonos, è l’amicizia in vista della virtù, l’aristotelica teleia philia: vd. EN, VII, 1156b 6-1158a 35, pp. 319-329. Anche Cicerone crede che «nisi in bonis amicitiam esse non posse»: per es. A, V, 18, p.91. 66 A, VI, 21, p. 97: «Neque ego nunc de vulgari aut de mediocri, quae tamen ipsa et delectat et prodet, sed de vera et perfecta loquor, qualis eorum, qui pauci nominantur, fuit». Il corsivo è mio. Si noti che questa affermazione, con cui Lelio distingue la vera e perfetta amicizia dalle amicizie volgari o mediocri, è generalmente considerata una rielaborazione della tripartizione aristotelica delle amicizie in vista della virtù, del piacere e dell’utile: M. Bellincioni, Cicerone, Aristotele e gli stoici, in Ead., Struttura e pensiero del «Laelius» ciceroniano, cit., pp. 91-146, in particolare p. 116. 67 De institutione, cap. XII, pp. 62-63: alla fine del capitolo, Vicini e Battistachiavello tornano a riflettere sui clientes (ora accostati ai familares), continuando a considerarli amici del principe, e cap. XIII, p. 64: l'amicizia e la clientela sono necessarie al principe.
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critica l’abitudine di chiamare amici anche i sostenitori e i clienti del principe, ma non la rifiuta e vi si adegua. Sembra intenzionato ad orientare il principe verso un tipo particolare di amicizia, l’amicizia vera e perfetta, piuttosto che ad escludere clientes e sequaces dal novero degli amici del principe. Nel passo citato c’è un altro punto di tensione, che emerge con evidenza tutte e due le volte che Battistachiavello chiede a Vicini di spiegarsi meglio. Non solo il principe non riesce a capire perché non si possano chiamare amici tutti coloro che, a diverso grado e a diverso titolo, collaborano lealmente con chi governa. Egli è anche curioso di sapere perché l’amicizia dei clienti e dei sostenitori non può essere considerata una forma di vera amicizia nonostante sia una relazione dagli effetti lodevoli. La tensione è forte perché è lo stesso Vicini ad ammettere che le amicizie diverse dalla vera amicizia possono avere effetti lodevoli, riconoscendo di non poter negare un dato di esperienza che è evidente alla ragione. Non è mia intenzione sciogliere la tensione provo-
cata dalle concessioni che Vicini fa all’esperienza o al linguaggio, né desidero provare a risolvere le perplessità di Battistachiavello. Mi sembra, però, opportuno sottolineare che sono proprio queste concessioni e queste perplessità a rendere particolarmente interessante la fenomenologia dell’amicizia delineata nel De institutone. Sostenendo che la clientela può essere, e solitamente è considerata come una forma di amicizia, Vicini mostra che il confine tra
questi due tipi di rapporto, che dovrebbero essere molto diversi tra loro, è molto sottile. Così labile da indurre il sospetto che l’amicizia sia una relazione molto meno pura, e molto meno disinteressata di quanto non suggerisca l’esaltazione della vera amicizia che affiora dalle righe del dialogo. Sia o non sia vera amicizia, infatti, si ha l’impressione che l’amicizia abbia la rilevanza politica che le viene riconosciuta proprio perché il principe impone e conserva il suo potere attraverso una trama di rapporti personali e di relazioni clientelari, che si basano su scambi di favori e benefici. Per essere ancora più chiari, si potrebbe dire che
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il principe non avrebbe affatto bisogno della fedeltà dei veri amici se non avesse bisogno dell’appoggio dei sostenitori e dei clienti.
Forse, Vicini decide di chiamare amici i sostenitori, i clienti e
i consiglieri del principe perché cerca di formalizzare, e di rego-
lare, quei rapporti con il principe che non sono ancora relazioni
professionali e istituzionali. Probabilmente, insiste sulla vera amicizia perché la durata e l’affidabilità del rapporto tra il principe e quelle che si potrebbero definire le sue «persone di fiducia» dipendono quasi esclusivamente dalla buona volontà dei soggetti coinvolti nella relazione. Se questo è vero, l’amicizia è un rapporto personale e morale prima che un rapporto politico e diventa un rapporto politico perché è un rapporto personale e morale con chi è al potere. Come si è già detto, Vicini non è certo il primo autore di specula principum a chiamare amici i collaboratori e i consiglieri del principe, né il solo a sostenere che i consiglieri del principe debbano avere le caratteristiche dei veri amici. Vale la pena ripetere che è l’unico. ed il solo autore ad accostare amici e clienti, svelando alcune delle dinamiche di potere sottese alla riflessione sull’amicizia. Facendo emergere la componente clientelare dell’amicizia, una componente che né Aristotele né Cicerone riconoscono, Vicini adatta la concezione aristotelico-ciceroniana alla realtà della corte, mostrando che l’amicizia è una delle rela-
zioni di cui si serve il principe per esercitare ed amministrare il proprio potere.
Se non è un caso che sia proprio il futuro signore di Fabriano ad insistere nel chiamare amici tutti i collaboratori del principe, non solo i consiglieri, ma anche i clienti e i sostenitori, il dialogo potrebbe essere più costruito di quanto non sembri. Che Vicini sia meno sincero di quanto voglia far credere quando esalta le caratteristiche aristoteliche e ciceroniane della vera amicizia? Sarebbe esagerato sostenere che privando la vera amicizia della patina classicheggiante e moralistica che la ricopre, si troverebbero solo le clientele e i favoritismi che alimentano il potere personale del principe. Tuttavia, non credo si possa ignorare che è lo stesso Vicini ad ammettere questa tesi: «la ragione dimostra e l’espe-
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rienza conferma che le amicizie e le clientele saranno necessarie
al principe»88, I veri amici e le amicizie radiali
Riflettendo sulla polisemia della parola amicizia, Vicini non individua solo la tipologia dei clienti e dei sostenitori, ma anche quella degli amici radiali (amici radiales). Questa forma di amicizia evidenzia un’altra caratteristica della relazione, che non sembra riconducibile all’aristotelica teleia philia né alla vera amicitia ciceroniana: pare che l’amicizia non abbia solo una componente
clientelare, ma anche una dimensione passionale6?. Per cogliere la natura passionale della relazione descritta da Vicini, bisogna
68 De institutione, cap. XIII, p. 64: «Principi necessariam fore amiciciam ac clientelam, ratio probat et experimento constat». 62 Aristotele sostiene che l’amicizia è passione in EN II, 1105b 22, p. 59, ma, in EN, VII, 2, 1555b, 26-34, p. 314. distingue tra philia e philesis, differenziando l'amicizia dall’attaccamento verso oggetti inanimati e dall’affetto. Inoltre, in EN VII, 1157b, 25-34, p. 325, Aristotele chiarisce che la philesis è affetto (pathos), mentre la philia è uno stato abituale (hexis): «Parrebbe che il sentimento d’affetto sia una passione, così come l’amicizia è uno stato abituale: si hanno sentimenti di affetto per le cose inanimate non meno che per le persone, ma si ricambia l’amicizia sulla base di una scelta che deriva da uno stato abituale». Anche quando sottolinea che l’amico è amato per se stesso, Aristotele non fa cadere l’accento sui sentimenti, ma sulla virtù, perché l'amicizia è espressione della natura razionale dell’uomo: vd. Stern-Gillett, Aristotle’s Philosophy of Friendship, cit., in particolare: capp. I, Selfhood, e II, Selves and Other Selves, pp. 1-58. Nel Laelius Cicerone descrive l’amicizia come un sentimento e un affetto, ma non come un affetto ed un sentimento che implica violentia e furor, come ritiene Vicini. Si potrebbero citare molti passi per mostrare questo, ma mi limito ad indicare la famosa definizione di amicizia data da Lelio: «Est enim amicitia nihil alium omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio» (A, VI, 20, p. 92); il passo in cui Lelio sostiene che l’amicizia si fonda sull'amore: «Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniungendam» (A, VII, 27, p. 101); la riflessione sull’intensità dell'amore richiesto dall’amicizia (A, XI, 36, da p. 110) e quella sui confini e i limiti dell’affetto (A, XVI, 56, da p. 128). Come nota Narducci (B. Narducci, Introduzione, in A, p. 42), la relazione descritta nel Laelius è «un’amicizia razionale, un intreccio equilibrato di affezione e rispetto». Ricordo, infine, che l'amicizia non porta alla morte, ma consente di superare la morte: è il tema della recordatio amicorum con cui si apre il dialogo.
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seguire l’andamento del dialogo, lasciando affiorare ancora una volta i punti di tensione presenti in esso. Per spiegare a Battistachiavello che i clienti e i sostenitori del principe non sono i suoi veri amici, Vicini ripropone la distin-
zione tra l’amicizia in senso stretto e le amicizie in senso lato contrapponendo virtù e passione, non più virtù e interesse. Sostiene, infatti, che le amicizie in senso lato, o amicizie impro-
prie, non dovrebbero essere chiamate amicizie, perché l’amicizia non tollera né la violenza (violentia) né il furore (furor) della passione. Arriva così a contrapporre le amicizie radiali, cioè le amicizie basate sulla passione, alla vera e perfetta amicizia”0. Il piano del ragionamento cambia all’improvviso, spostandosi così velocemente che non si capisce affatto se le amicizie passionali coincidano con le relazioni con i clienti e i sostenitori del principe, oppure siano un’altra tipologia di amicizia che rientra nella categoria delle amicizie improprie. I punti di tensione aumentano anche perché Vicini introduce la tipologia delle amicizie radiali con una similitudine insolita e poco chiara. Dice, infatti, a Battistachiavello: Cercherò di mostrarti con una similitudine la varietà di questo nome di amicizia e la natura dell’amicizia, considerando che si usa uno stesso vocabolo. Credo che l’amicizia possa essere paragonata al globo del sole, che offre la stessa luce necessaria al mondo, ma non offre la stessa luce a tutte le cose incessantemente e nella medesima quantità, a causa dell’allontanamento e dell’opposizione del sole, illuminando in modo diverso e ineguale. La massima forza di questa luce si trova dentro l’ambito definito del sole, che diffonde intorno a sé la potenza dei raggi, la luminosità e il fulgore dei quali non risplende egualmente per tutte le cose con pari proporzione di luce, a motivo della causa detta prima o di un’altra. Così la vera amicizia è luce che risplen-
70 De institutione, cap. XIII, pp. 59-60: «Ba: Quare, si earum luadabiles sunt effectus, indigne sunt amiciciae appellari? Ti: Amicicia res est ita cum honesta benevolentia comparata, ut non patiatur aliquam violentiam vel furorem, que quomodo ab aliis differat, non erit inutile audire». Il corsivo è mio. Traduco: «Ba: Per quale motivo, se sono degni di lode gli effetti di quelle amicizie, non sono degne di essere chiamate amicizie? Ti: L’amicizia è una relazione che si acquisisce insieme ad una onesta benevolenza così che non sopporta alcuna violenza o furore, e non sarà inutile ascoltare ‘quanto questa si discosti dalle altre amicizie».
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de con eguale splendore su tutto ciò che abbraccia da eguale distanza e con la stessa intensità, non si incendia di più per un calore più grande, né illumina di meno per una perdita di luce. Come i raggi sprigionano dal sole, così dalla vera amicizia sprigionano gli affetti, che possiamo chiamare amicizie radiali, lodevoli e piacevoli a seconda della cosa per cui servono”!.
La parola amicizia denomina sia la vera amicizia, sia le amicizie
radiali. Dal passo citato si evince chiaramente che la vera amicizia è quella relazione virtuosa che risplende di una luce costante e perfetta, priva di aumenti o diminuzioni di intensità come la luce interna al globo del sole, mentre le amicizie radiali sono quelle relazioni che illuminano con una luce instabile e mutevole come quella dei raggi solari. È chiaro che Vicini contrappone le variazioni di luminosità e calore dei raggi che sprigionano dal sole alla luce e al calore costante del globo solare, per mostrare che la vera amicizia è un rapporto tra eguali, che non contempla l’aumentare o il diminuire della distanza che separa gli amici, e non conosce gli eccessi positivi o negativi del desiderio e della passione.
Le amicizie
radiali sono,
invece,
caratterizzate
da
continue variazioni di intensità e di luminosità proprio perché non sono basate sulla virtù: esse scaturiscono da un non meglio qualificato istinto d’amore (instinctum amoris), un impulso che è provocato dalla familiarità (familiaritas), dal piacere (libido),
dall’utilità (vtilitas) e dalla simpatia (convenientia)”2. Poiché 71 De institutione, cap. XII, p. 60. Riporto anche il passo in latino: «Conabor per similitudinem tibi ostendere, sub eodem vocabolo, varietatem huius nominis amicicie
et naturam. Quam globo solis posse censeo comparari, qui necessarium mundo lumen idem prebet, non tamen omnibus identidem et tantundem propter remotionis et oppositionis causam dispariter et inequaliter contingentem. Cuius summa vis consistit intra ambitum certum eius, effudens circiter potentiam radiorum, quorum iubar vel claritas non eque omnibus fulget pari luminis portione, cause premisse vel alterius ratione. Sic vera amicicia idem omnibus splendor est eguali conditione et distantia comprehensis, nec maiore fervore magis accenditur, nec minoris recipit lesionem; a qua tanquam
radii emicant affectus, quos appellare possumus amicicias radiales, secundum rem cui deserviunt laudabiles et incundas». Anche Cicerone usa l’immagine del sole per descrivere l’amicizia, ma il suo significato è molto diverso da quello attribuitole da Vicini: «O praeclaram sapientiam! Solem enim e mundo tollere videntur qui amicitiam e vita tollunt, qua nihil a diis immoratlibus melius habemus, nihil iucundius» (A, XII, 47, pad22). 72 De institutione, cap. XII, p. 61: «Ba: verum quid ab hac vera distet amicicia
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l’istinto d’amore è un sentimento ed una passione capace incendiare l’anima tanto da farle sopportare la morte, le amicizie radiali sono amicizie estreme, violente e furiose, rapporti che tendono all’eccesso anziché all’equilibrio. Attraverso la similitudine proposta, Vicini riesce a sottolineare efficacemente alcune caratteristiche della vera amicizia quali la costanza, la proporzionalità, l’eguaglianza e l'equilibrio, ma non riesce a caratterizzare in modo altrettanto efficace le amicizie radiali73. La similitudine cui ricorre induce, infatti, a credere che
vi sia continuità tra virtù e passioni perché le amicizie radiali sprigionano dalla vera amicizia come i raggi che si propagano dal sole. È lo stesso Battistachiavello a sollevare il problema, mettendo in luce l'ambiguità della similitudine quando afferma che è molto problematico pensare che ciò che è onesto e lodevole (honestum et laudabile) generi furore (furor) e rovina (labes)?4. Il paragone con cui Vicini cerca di rispondere ai dubbi sollevati dal suo interlocutore non risolve il problema, ma lo complica ulteriormente. Infatti, l’umanista spiega che le amicizie che s’irradiano dalla vera amicizia sono come le scintille sprigionate da un ferro rovente: esse producono effetti mirabili quando colpiscono un’anima ardente, facendo divampare un incendio”*. Se il ferro rovente di radialis, velis quam potes certius aperire. Ti: Audisti quid vera exigat; hec autem quam vocito radialem habet quendam amoris instinctum, seu familiaritate, seu libidine, seu precipua utilitate, vel summa convenientia causatum, cuius causa pressuras corporis,
torturam, et se ultro morti obicere vel sua dextra conficere non orrentem». Il corsivo è
mio. Traduco: «Ba: Di sicuro vorresti mostrare nel modo più chiaro possibile quanto sia distante da questa vera amicizia l'amicizia radiale. Ti: Hai sentito di che cosa ha bisogno la vera amicizia; in vero, questa che definisco amicizia radiale possiede un certo istinto d'amore, causato dalla familiarità, o dal piacere, o da una particolare utilità, o da una grandissima simpatia, a causa del quale si getta spontaneamente incontro alla morte, alla tortura ed alle afflizioni del corpo o si uccide con la sua mano destra senza provare orrore». 73 De institutione, cap. XII, p. 61. 74 De institutione, cap. XII, p. 61: «Ba: Quomodo, si vere amicicie proprium est versari in laudabilibus et honestis, labe carentibus et furore, radiare posse effectus dissimiles et dispares?». Traduco: «Ba: Come è possibile, se è proprio della vera amicizia dedicarsi ad attività oneste e degne di lode, che questa possa irraggiare amicizie dagli
effetti così diversi?».
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75 De institutione, cap. XII, p. 62: «Ti: Ita ex vera amicicia, cuius est fervere in bene-
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cui parla Vicini fosse la vera amicizia, l’amicizia virtuosa avrebbe una componente passionale. Si potrebbe pensare che la differenza tra le amicizie radiali e l’amicizia virtuosa sia una differenza di intensità piuttosto che una differenza di genere, ma questo non fa luce sul rapporto esistente tra virtù e passione nell’amicizia. Sembra, allora, che non si possa fare altro se non costatare che Vicini non è interessato a chiarire la natura delle amicizie radiali. Cerca, invece, di porre l’accento sui loro effetti. Le amicizie radiali hanno effetti mirabili e lodevoli perché sono rapporti capaci di produrre imprese eroiche e gesta estreme. Due
esempi, tratti dal De dictis factisque memorabilibus di Valerio Massimo, chiariscono quale sia la forza delle amicizie basate sul fervor e la libido: Pomponio e Letorio furono pronti a difendere l’amico Caio Gracco anche a costo di essere uccisi dai suoi inseguitori; Volumnio decise di andare incontro alla morte per unirsi di nuovo all’amato Lucullo76. Con questi esempi, Vicini chiarisce che le amicizie radiali non sono un fuoco che produce una luce ed un calore costante come la vera amicizia, ma un incendio, perché sono amicizie sino alla morte. Vista la natura estrema ed eccessiva di queste amicizie, l’umanista sostiene che si tratta di un incendio inevitabilmente destinato a spegnersi: il fuoco si spegne quando l’eccesso della passione svanisce”7. Coerentemente con i fitiis liberalibus et honestis, desiliunt radiales, naturam aliqualiter divertentes, quemadmodum a bullienti ferro in diversum volantes fomites emictuntur, quarum si qua in arridam escam cadit, ignem accendit et flamas, turbine flante, educit aerias et minaces. Cuius similiter amicicie si sintilla heserit flagranti anime illam recipere sitienti, fervebit et estuabit et edet effectus mirabiles et insignes». Il corsivo è mio. Questa la traduzione del passo: «Così dalla vera amicizia, di cui è proprio ardere in servizi nobili ed onesti, scaturiscono le amicizie radiali, che sono in qualche modo diverse per natura, come da un ferro roven-
te vengono scagliate le scintille che volano in senso contrario, e se qualcuna di queste cade su un’esca secca, accende un fuoco e, mentre soffia la tempesta, produce fiamme alte e minacciose. Similmente, se una scintilla di questa amicizia si attaccherà a un’anima ardente e pronta ad accoglierla, arderà e brucerà e produrrà lodevoli e mirabili effetti». 76 De institutione, cap. XII, pp. 61-62. Come l’esempio di Damone e Finzia, gli esempi di Pomponio e Letorio ed anche quello di Volumnio sono tratti da Massimo, Detti e fatti memorabili, cit., pp. 353-357. 77 De institutione, cap. XII, p. 62: «Ba: Qua ratione ex huiusmodi amiciciis ferventiores effectus durioresque exitus concernimus quam ex vera? Ti: Quoniam excessu eodem quo rèéguntur et constant terminari necesse est». Traduco il passo: «Ti: Per quale motivo
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toni stoici che caratterizzano la riflessione sulla virtù e sulla vita che il principe deve realizzare, egli pone di nuovo l’accento sulla vera amicizia, che deve essere preferita ed anteposta alle amicizie radiali perché è una relazione che può essere mantenuta senza perturbazioni della mente. La vera amicizia deve essere preferita alle amicizie radiali anche perché è la relazione più duratura, più sicura e più affidabile?8. Queste caratteristiche spiegano la sua rilevanza politica: anche se non producono gesti eroici e grandiosi come quelli di Pomponio, Letorio e Volumnio, i veri amici sono i soli su cui il principe
può contare in ogni momento. Tuttavia, benché ponga l’accento sulla vera amicizia, Vicini non condanna le amicizie radiali, così
come non esclude sostenitori e clienti dal novero degli amici del principe. Lo sforzo fatto per includere diverse tipologie di relazione nella categoria dell’amicizia mostra che l’amicizia, tradizionalmente concepita quale espressione della natura virtuosa e razionale dell'animo umano e come rapporto che promuove il perfezionamento morale dell’individuo, è una relazione molto complessa: è un legame che non coinvolge solo i sentimenti e gli affetti, ma anche le passioni, un rapporto che non tende sempre all’equilibrio. Proprio perché l’amicizia non è solo virtù ma anche passione, proprio perché non vi è solo la vera amicizia ma vi sono anche le amicizie radiali, la relazione descritta da Vicini è diversa
dall’amicizia aristotelica e dall’amicizia ciceroniana. Vicini è il solo autore a cogliere la complessità della amicizia: negli altri specula esaminati (e anche nella Vita civile) non vi è traccia di
questa tipologia di amicizia passionale, né di una amicizia simile o affine alle amicizie radiali. Lo sforzo fatto per includere diverse tipologie di relazione nella categoria dell’amicizia genera tensioni soprattutto perché Vicini non chiarisce quali rapporti si instaurino tra i diversi tipi di
da amici di questo tipo possiamo vedere che abbiamo effetti più impetuosi edesiti più aspri che non dai veri amici? Vi: Poiché è necessario che trovino una fine a causa di quello stesso eccesso [di passioni] da cui queste amicizie sono composte e dominate». 78 De institutione, cap. XII, p. 62.
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amicizia individuati. Non fornisce neppure elementi sufficienti per capire se i rapporti con i sostenitori e i clienti del principe possano rientrare nella tipologia delle amicizie radiali. Nonostante la similitudine dei raggi del sole sia introdotta proprio per chiarire che i sostenitori del principe sono amici, ma non veri amici, e nono-
stante Battistachiavello torni a parlare dell’altra amicizia (alia amicitia), ossia dell’amicizia dei clienti, non appena Vicini spiega che la vera amicizia deve essere preferita alle pur lodevoli e mirabili amicizie radiali??, penso sia difficile credere che il legame che i clienti ed i sostenitori stringono con il principe possa essere un rapporto basato sul fervore della passione e sul piacere, o ritenere che sia un affetto così profondo da portare al sacrificio della vita. D’altra parte, che Pomponio, Letorio e Volumnio siano o non siano degli esempi di clienti e sostenitori del principe, leggendo gli esempi riportati da Vicini per descrivere le amicizie radiali, nasce un sospetto: forse, il principe non ha bisogno solo di amici veri, cioè di relazioni affidabili e sicure, ma anche di amici capaci di gesti estremi, e deve poter contare su rapporti da bruciare in un attimo per consolidare il proprio potere. Se così fosse, l’incendio provocato dalle amicizie radiali, per quanto sia inevitabilmente destinato a spegnersi, non sarebbe un fuoco fatuo. Si tratta solo di un sospetto, di una tesi che si legge tra le righe del dialogo, ma credo che non sia così azzardato ipotizzare che potrebbe esserci spazio politico sia per i consigli dei boni cives, sia per i favori dei sostenitori e dei clienti, sia per l’ardore degli amici pronti a morire in nome della loro amicizia con il principe.
79 De institutione, cap. XII, p. 62: «Ba: At principi nonne alia amicicia esse debet quam illa tam solida tantaque religione et studio conquesita? Ti: Que alia? Ba: Illorum quorum servitio et favore ad tutelam persone et dignitatis indiget et ad ceteras res necessario incumbentes. Ti: Hi familaires quotidiano vocabolo, seu clientes, ut supra relatum est, appellandi sunt [...]».
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
I servi e i sapienti
Tra gli amici del principe compaiono anche i familiares. Questa tipologia d’amici è introdotta da Battistachiavello non appena Vicini conclude la riflessione in cui mostra che la vera amicizia va preferita alle amicizie radiali. Battistachiavello dice, infatti, che: Ba: Ma il principe non deve forse avere un’amicizia diversa da quella, tanto stabile, ottenuta con così grande impegno e cura? Ti: Quale? Ba: L’amicizia di coloro del cui favore e servizio ha bisogno per la tutela della sua persona e della carica e per tutte le altre cose necessarie. Ti: Questi devono esser chiamati famziliares, come nel parlare quotidiano, oppure clienti, come si è detto sopra, non devono essere inclusi tra gli amici perché capita molto spesso che il principe sia loro avverso e loro lo odino apertamente, cosa che sarebbe sommamente empia nella vera amicizia, e non hanno un animo preparato alle vicissitudini né hanno qualcosa d’altro di comune. Infatti chi conoscerà la forza della vera amicizia che può esservi anche tra il principe e il suddito, penserà che la consonanza della volontà non deve essere richiesta scioccamente o abbandonata sconsideratamente. Ba: Quale uguaglianza e parità ci può essere tra loro, quando uno comanda e uno ubbidisce? Ti: Come tu saprai, né le ricchezze né le cariche possono procurare l’amicizia, se l'animo che può essere egualmente onesto, egualmente libero ed egualmente buono nel povero come nel ricco, nel principe come nel servo, non è lo stesso in entrambi. Per questo, sia chi comanda cose oneste sia chi le esegue sono eguali ed egualmente fanno a gara con eguale beneficio, e non importa cosa possano fare, ma cosa vogliano fare8°. 80 De institutione, cap. XII, pp. 62-63. Riporto il passo anche in latino: «Ba: At principi nonne alia amicitia esse debeat quam illa, tam solida tantaque religione et studio conquesita? Ti: Quae alia? Ba: Illorum quorum servitio et favore ad tutelam persone et dignitatis indiget et ad ceteras res necessario incumbentes. Ti: Hi familiares quotidiano vocabulo, seu clientes, ut supra relatum est, appellandi sunt, non amicicie includendi, quia sepissime accidit eis principem adversari eosque illum clam odire, quod esset in vera amicicia summum nephas, nec animos simul habent vicisittudini paratos, nec aliud quid commune; nam qui recte amicicie vires novit, que esse potest etiam inter principem et subiectum, equiperantiàm voluntatis non inconsulte petendam aut temere relinquendam putabit. Ba: Que esse potest equiperantia et paritas inter
ipsos, ubi alter imperat, alter paret? Ti: Ut scias, nec opes nec dignitates amiciciam parare posse, nisi animus, qui eque honestus, eque libere et optimum esse potest in paupere sicut in divite, in servo sicut in principe, idem in utroque sit. Quoniam et qui honesta precipit et qui illa exegitur pares sunt parique beneficio simul certant, nec quid
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Come si evince dal passo citato, mentre Battistachiavello cerca ancora una volta di estendere l’amicizia per includere in essa anche il rapporto del principe con i familiares, Vicini distingue i familiares dai veri amici, accostandoli ai clienti. Visto che i familiares sono coloro di cui il principe ha bisogno per la cura della propria persona, si potrebbe pensare che essi coincidano con i servi ed i domestici della corte. È come se Vicini moralizzasse,
nel segno dell’amicizia, non solo i rapporti interni alla «domus privata», ma anche quelli interni alla «domus publica»81, anticipando così la riflessione proposta da Della Casa nel De officiis inter tenuiores et potentiores amicos82. Tuttavia, si deve considerare che il termine familiares ha un’accezione molto più estesa ed è, quindi, difficilmente traducibile in italiano: i familiares sono tutte le persone che hanno familiarità con il principe. Per questo, nel passo citato essi sono accostati non solo ai clienti,
ma anche ai sudditi. È Battistachiavello a proporre questo avvipossint sed quid velint refert». Il corsivo è mio. Traduco il termine latino «subiectum» con suddito invece che con sottoposto basandomi sulle indicazioni fornite da Smiraglia nella nota in cui propone una variante del passo citato (ivi, p. 63): «post nephas add. ceterum et in amicitia constat id esse precipuum idem nolle et sine discrepatione [-ptione S] se alterum quod inter principem et subditum [-dictum S] non est». Non traduco in italiano il termine familiares per le ragioni spiegate nel testo. 81 È Vicini stesso a parlare di domus publica e di domus privata (De institutione, cap. XIV, pp. 65-66) sottolineando, così, la continuità esistente tra la famiglia del principe e la corte. 82 G. Della Casa, De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, in Id., Rime et prose. Latina Monimenta, a cura di S. Carrai, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 235-260. Come è noto, questa opera del 1541 è una delle pochissime che Della Casa decise di pubblicare: il De officiis circola manoscritto per una ristretta cerchia di lettori autorevoli, tra i quali si possono ricordare Benedetto Varchi e Pier Vettori a Firenze, Gregorio Cortese e Annibal Caro a Roma, Bernardo Tasso a Napoli. È proprio Pier Vettori ad insistere perché l’opera sia data alle stampe insieme ad altre opere latine: i Johannis Casae Latina Monimenta escono a Firenze presso i Giunti nel 1564, lo stesso anno in cui i tipografi fiorentini ripubblicano le opere volgari, aggiungendo alcune rime, il volgarizzamento del De officiis meglio noto come Trattato degli uffici comuni tra amici superiori et inferiori ed Il Galateo. Indicando i comportamenti e i doveri che si addicono al padrone ed ai suoi servi, Della Casa riflette su diverse tipologie di amicizia: l’analisi dell’amicizia in vista dell’utile e quella dell’amicizia tra diseguali dipende da alcune tesi sostenute da Aristotele nell’Etica Nicomachea (EN,
VII, 1158b sgg., da p. 329), che sono collocate nel nuovo contesto della casa e della famiglia.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
cinamento, cercando di capire perché la consonanza di volontà (equiperantia voluntatis) e l’uguaglianza (paritas) che contraddistinguono la vera amicizia si realizzino tra il principe ed i sudditi, ma non tra il principe ed i familiares. Domandando come possa esservi amicizia tra chi comanda e chi ubbidisce, il futuro signore di Fabriano evidenzia la natura squilibrata e asimmetrica delle amicizie che il principe può stringere. Si intravede, così, sullo sfondo del dialogo una nuova tipologia di amicizia, quella delle amicizie asimmetriche e delle amicizie tra diseguali. Non è una invenzione dell’autore del De institutione perché, come si è visto nella premessa, Aristotele dedica buona parte della sua riflessione sulla philia all'analisi delle relazioni che non sono basate sull’uguaglianza83. Solo nel De institutione, però, la disparità che caratterizza questa tipologia di amicizia viene percepita come
una differenza di potere. Ben lungi dal riuscire a spiegare a Battistachiavello quale uguaglianza di volontà possa esservi tra chi comanda e chi ubbidisce, Vicini si limita a sottolineare ancora una volta la natura
e il fine morale dell’amicizia. Precisa, inoltre, che l'uguaglianza non dipende dalla posizione sociale (pauper /dives) né dalle differenze di potere (princeps / servus), bensì dall’onestà di chi
comanda ed obbedisce. È evidente che si tratta di un ragionamento circolare, ma non si deve ignorare un dato importante: la circolarità del ragionamento di Vicini mostra che è proprio l'amicizia a colmare la distanza che separa il principe dai sudditi e dai familiares, riducendo la differenza di potere che divide chi governa da chi è governato. Per quanto possa sembrare paradossale, quanto più il rapporto tra il principe e i sudditi è percepito come un rapporto asimmetrico € squilibrato, tanto
più Vicini insiste sulla vera amicizia come relazione capace di riportare parità ed eguaglianza là dove vi è un’evidente differenza di potere. In questo paradosso si gioca il valore politico
83 EN,VIII, 1158 b sgg., da p. 329. Anche Cicerone riflette sulle amicizie tra diseguali: A, XX, 71-76, pp. 142-146.
4. DE ELECTIONE AMICORUM: L’AMICIZIA NEL DE INSTITUTIONE REGIMINIS DIGNITATUM
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dell’amicizia come relazione che può essere usata per ridurre differenze di potere e quindi per procurare consenso. Poiché il tema dei familiares funge da raccordo tra il capitolo De electione amicorum ed il capitolo De principis consideratione in subditos, sembra che Vicini voglia estendere i rapporti d’amicizia del principe sino ad includere tutti i sudditi, ponendo l’amicizia alla base di tutte le relazioni sociali: le relazioni interne alla famiglia (il rapporto d’amicizia del principe con i familiares), le relazioni interne alla corte (la vera amicizia del principe con i consiglieri ed i boni cives, ma anche l’amicizia del principe con i clienti ed i sequaces), le relazioni interne al regno (il rapporto tra il principe ed i sudditi). In effetti, come si è gia messo in luce, il rapporto che unisce il principe ai sudditi si colora delle sfumature dell’amicizia sin da quando Vicini invita Battistachiavello a scegliere i consiglieri tra i concittadini, accennando al tema della mutua caritas che riprenderà in seguito. Occorre, però, tener presente che Vicini parte dalla scelta dei consiglieri e dei collaboratori del principe, non dalla descrizione del rapporto d’amore che unisce il principe ai sudditi: il tema degli amici principis introduce e ingloba quello della mutua caritas. Per rendersi conto che Vicini non intende porre l’amicizia come base e fondamento del processo di socializzazione, e non concepisce questa relazione come modello e forma del legame sociale che unisce governanti e governati, per comprendere dunque che la posizione attribuita all’amicizia nel De institutione è molto diversa da quella assegnatale nella Vita civile, basta considerare più da vicino la riflessione sulla mutua caritas proposta nel dialogo84. Vicini e Battistachiavello arrivano ad identificare l’ottimo principe con il buon pastore che protegge tutte le sue pecore solo dopo aver chiarito che egli deve circondarsi di clienti, consiglieri e familiares di provata virtù, vigilando con attenzione sul loro
84 Cfr. Vc, pp. 158 sgg. e De institutione, cap. XII, pp. 64-65. Quando Vicini descrive il rapporto tra il principe ed i sudditi emerge con particolare evidenza la dimensione cristiana della sua riflessione.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
comportamento in modo da scegliere esclusivamente chi è effettivamente degno della sua amicizia. Appare, dunque, evidente sin dall’inizio che gli amici del principe non sono tutti i sudditi, ma solo dei sudditi particolari. Poiché Vicini invita il principe a cacciare dal gregge le pecore malate piuttosto che ad amare quelle sane, è altrettanto chiaro che il paragone del principe con il buon pastore non serve per risolvere il problema del consenso, che è generalmente connesso al tema della mutua caritas, ma per giustificare il potere repressivo e coercitivo che spetta al principe?5. A differenza degli autori degli specula che saranno esaminati nei prossimi capitoli, Vicini non contrappone il principe, che deve essere amato dai sudditi, al tiranno che è temuto da tutti e non
può fidarsi di nessuno. In linea con le premesse stoiche su cui poggia il De institutione, egli cerca, invece, di mostrare che il principe è il garante e il censore della moralità del corpo politico: avendo l’animo libero dai vizi e dalle passioni, deve controllare e «contenere» i sudditi, premiando i meriti e le virtù dei migliori, punendo i vizi e gli eccessi dei peggiori86. Pertanto, l’accento cade sul rispetto dei meriti piuttosto che sull’amore che il buon pastore dovrebbe nutrire nei confronti delle sue pecore. Vicini invita continuamente Battistachiavello a cercare l’affetto dei sudditi che si sono distinti per virtà e ingegno anche perché è pienamente consapevole che un principe non può chieder conto del compor85 De institutione, cap. XII, p. 66: «Ti: Civium omnium suorum curam sibi permissam princeps semper menti contineat et eque omnes tueri et diligere, pro cuiusque conditione et meritis oportere, more optimi pastoris, qui oves suas eque omnes pascit, custodit, tuetur er diligit et, si quas infectas habet, ne alias contagione inficiat; et taliter principi suorum diligentia est habenda». Il corsivo è mio.
86 De institutione, cap. XIV, p. 66, in particolare: «Ba: Impossibile est posse morum tot hominum exigere rationem. Vi: In eos est potissime advertendum qui extrema tenent et qui se faciunt aliqua egregia opera et virtute, vel indigno facinore notiores. Ali vero, qui per medium cum timore iusticie gradiuntur, facilius continentur». Il corsivo è mio. Vd. anche De institutione, cap. XIV, p. 65: parlando dei vizi e della malvagità dei servi, Vicini invita il principe a tenere loro e tutti gli altri sudditi lontano dalle passioni. Si noti che il potere repressivo del principe non deve essere esercitato soltanto verso i sudditi «indigno facinore notiores», ossia verso i sudditi più noti perché hanno commesso qualche crimine, ma anche verso i cattivi consiglieri, «prebentes perniciosa consilia».
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tamento di tutti i sudditi87. Sembra, infatti, che il principe riesca effettivamente ad influenzare il comportamento di tutti i sudditi solo se si circonda dei più virtuosi e punisce i più malvagi. Insistendo sul riconoscimento delle doti morali, intellettuali e
naturali degli uomini più capaci, Vicini non si limita a ricordare a Battistachiavello i doveri della giustizia distributiva88. Invitando il principe a scegliere gli amici separando le pecore sane da quelle malate, suggerendogli di scegliere come consiglieri, clienti, servi e domestici i sudditi degni della sua amicizia, egli mostra qual è il valore politico della relazione: l’amicizia svolge una funzione politica fondamentale perché è un criterio per la selezione dell’élite di governo8?. Come dovrebbe essere emerso nel corso dell’ana87 De institutione, cap. XIII, p. 66: «Ti: Ita studeat principes suorum vitam et mores prospicere et considerare, ut vel occurendo scandalis vel puniendo provideat eos in moribus, iustitia, civilitate retinere. Ba: Impossibile est posse morum tot hominum exigere rationem. Ti: In eos est potissime advertendum qui extrema tenetet qui se faciunt aliqua egregia opera et virtute, vel indigno facinore notiores. Alii vero, qui per medium cum timore iusticie gradiuntur, facilius continnetur. Ba: Quid deinde? Ti: Laude, honoribus et comodis prosequendo quos virtute et ingegno prestare cognoverit; fit enim virtus laudata vegetior. Ba: Plus alterum altero? Ti: Si singulos pro sua conditione ed ordine, secundum gradum ingenia et virtutes honoraverit, rem equam conficiet et laudabilem [...]». Traduco il passo: «Ti: Il principe deve sforzarsi di osservare ed esaminare la vita ed i costumi dei suoi sudditi, affinché riesca a mantenerli fermi nella giustizia, nei buoni costumi e nella condizione di buoni cittadini, ovviando agli scandali, oppure punendoli. Ba: È impossibile che possa chieder conto dei costumi di così tanti uomini. Ti: Deve aver considerazione soprattutto di coloro che occupano gli estremi, e si rendono più conosciuti per qualche buona azione e per la virtù o per un crimine indegno. Gli altri, invece, che avanzano tra le situazioni intermedie con il timore della giustizia, si contengono più facilmente. Ba: Che altro, poi? Ti: Deve avere considerazione dei suoi accompagnando con lode, onore e benefici chi saprà che supera gli altri per virtù ed ingegno; infatti diventa più vigorosa la virtù, se è lodata. Ba: Più di uno che dell’altro? Ti: Se onorerà ciascuno a seconda della sua condizione e della sua posizione, se onorerà la virtù e l’ingegno per gradi, farà una cosa giusta e degna di lode [...]». 88 De institutione, cap. XIII, pp. 64-67 e cap. XIV, p. 70. 89 In particolare, De institutione, cap. XIII, p. 65: «Ba: Haud videtur possibile habere familiares et domesticos sine labe, cum ut plurimum, servitiis principum incumbentes ea quadam maioris in rebus licentia qua fruuntur relinquunt propria, ut sectentur licentiosa aulica et desideria voluptatum. Ti: Eligendi sunt, si qui prestantiores virtute amicicia digni sint; reliqui, licet non possint eque ab omnibus arceri voluptatibus neque uniformiter contineri, erunt pro viribus ab inhonestis et improbis actibus et maxime detestabilibus cohercendi. Et inveteratis malis et oscenis moribus a domo et comertio abigantur». Il corsivo è mio. Traduco: «Ba: Non sembra possibile avere familiares e
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lisi, infatti, gli amici che il principe deve scegliere, sono i suoi
collaboratori nella gestione e nell’esercizio del potere. Alla luce della fenomenologia delineata nel dialogo, si può sostenere che il criterio di selezione è duplice: oltre a distinguere amici e non
amici, Vicini discrimina tra amici e veri amici. Sono amici del
principe i familiares, i sequaces ed i clientes. Sono veri amici del principe i consiglieri e i boni cives che all’inizio della sua riflessione contrappone agli adulatori. Tra i veri amici del principe devono essere annoverati anche gli uomini di cultura, i sapienti e i filosofi che compaiono tra le righe del dialogo alla fine del tredicesimo capitolo. Subito dopo aver detto che il principe deve amare soprattutto chi si distingue per virtù e ingegno rispettando le differenze naturali che portano alcuni sudditi ad eccellere sugli altri, in un esempio, Vicini si lascia
sfuggire i nomi di Socrate e Platone?0. Si capisce più chiaramente che i filosofi e i sapienti devono essere annoverati tra i veri amici del principe quando riflette sulla distribuzione delle cariche (de officiis conferendis), spiegando a Battistachiavello che il principe deve distribuire onori, ripartire favori e dividere benefici imitando Dio ex potentia ordinata e non, ovviamente, ex potentia absoluta?!. A questo punto del ragionamento, per rispondere alla domanda con cui Battistachiavello chiede chi siano gli uomini
si occupano domestici senza infamia, allorché, la maggior parte delle volte, coloro che ano di servire i principi con una libertà maggiore di quella di cui dispongono abbandon Ti: voluttà. di desiderio il ed corte della piaceri licenziosi i seguire i loro doveri per gli Devono essere cacciati via, se alcuni più eccellenti in virtù sono degni di amicizia; e non piaceri i tutti da lontani tenuti essere e egualment possano non sebbene altri, trattenuti possano neppure essere tenuti a freno nel medesimo modo, dovranno essere E siano con la forza lontano da azioni improbe e disoneste, e massimamente detestabili. ». persistono che quelli osceni costumi dai e malvagità dalle casa, allontanati dalla 90 De institutione, cap. XIII, pp. 66-67. male 91 De institutione, cap. XIV, pp. 68-69: l’uomo deve imitare Dio non facendo imitare la a nessuno, punendo i malvagi, dando a ciascuno ciò che è suo, ma non deve per i cattivi. misericordia e l’amore di Dio che fa splendere il sole sia per i buoni che da cui teorica lezione questa a interessato poco sembra Si noti che Battistachiavello semplice e affiora la cultura scolastica di Vicini, perché è animato da un desiderio più degni più concreto: vuole semplicemente capire chi siano, e come si trovino, gli uomini
dei benefici del principe (ivi, p. 70).
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più degni di ricevere benefici e quelli più adatti a ricoprire una carica, Vicini dice che: Ti: Ti devo una lode per la tua onestissima domanda, con cui ti unisci all’effetto di un bene così grande, e con giudizio non incerto giudico degno te, che degnamente conferisci cariche e che sei stato degnamente investito di una carica. Domandi come si possano trovare uomini degni di favore. Li troverà chi avrà disposto il suo animo così: vivere una vita onesta, vivere con persone oneste, ricevere e contraccambiare i favori; inoltre le persone degne di ciò verranno a chiedere parità di onestà e benefici. In verità in questo periodo chiunque può discutere secondo la sua opinione di chi siano, tra gli uomini, i più adatti alle cariche. Ma io credo siano superiori agli altri nel ricevere e distribuire benefici coloro che, istruiti negli onesti precetti della sapienza, sanno cosa sia onesto, cosa sia utile, cosa non lo sia.
Ba: Da dove sono ricavati precetti di tal genere? Ti: Dallo studio e dalle persone dedite allo studio onesto. Ba: Pertanto concludi che queste persone sono le più degne? Ti: Sì, è così?2.
Da questo scambio di battute, che è la premessa per l’esaltazione dell’ocium sapientum con cui termina il De institutione, si evince chiaramente che gli uomini più adatti alla vita politica, e dunque quelli più degni di ricoprire una carica, sono le persone istruite negli onesti precetti della sapienza, le sole in grado di 22 De institutione, cap. XIV, p. 70. Il corsivo è mio. Riporto il testo latino: «Ti: Honestissimi quesiti tui laudem tibi debeo, quo inheres effectui tanti boni, nec ancipiti iudicio reor te dignum, qui digne conferas et in quem beneficium conferatur. Quaeris quomodo possit dignos beneficio inveniri. Is eos inveniet qui ita animum sibi costituerit: honestam vitam ducere, cum honestis convivere, et honesta beneficia accipere et referre; huic ultro digni advenient etiam paritatem honestatis et beneficii quesituri. Verum qui hominum hoc tempore officiis habiliores sint, potest quilibet sua discretione discutere. Ego autem illos reor prestare ceteris in accipiendo et conferendo beneficium qui, honestis imbuti sapientie preceptis, sciunt quid bobnestum, quid utile, quid non sit. Ba: Unde praecepta hiusmodi vendicantur? Ti: Studio et ab honesti studii curiosis. Ba: Ergo ipsos asseris dignores? Ti: Ita». Si veda anche la continuazione del dialogo (ivi, p. 71), dove è ancora più chiaro che devono essere premiati soprattutto coloro che si dedi-
cano agli studi liberali: «Ba: Nescio an sint solo studio et scientia digniores; non enim omnia que studiosi legunt'et sciunt imitantur. Ti: Primo aspectu, qui precepta liberalium studiorum recta et honesta iubentia maximis laboribus et vigiliis, actentione assidua sectantura et magna incumbunt solertia, digni sunt beneficio iudicandi, quoniam eos tales fore concedimus, quale negotium est cui assidue se ingerunt et familiariter se
dedere [...]». Il corsivo è mio.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
distinguere ciò che è onesto da ciò che non lo è. Sono gli umanisti, gli uomini che conoscono i precetti delle arti liberali (precepta liberalium studium), quelli che noi chiameremmo
intellettuali
o filosofi, mentre Vicini, poco dopo il passo citato, definisce studiosi. Proprio perché deve essere educato alla sapienza ed alla
virtù, il principe deve avere amici sapienti e virtuosi: ecco qual è
la conclusione di una delle prime riflessioni umanistiche sull’educazione del principe. Si tratta, evidentemente, di una conclusione circolare. Terminando così la proprie considerazioni sull’educazione del principe, Vicini sembra seguire ancora una volta la via tracciata da Petrarca nella lettera scritta al signore di Padova: non solo riconosce il valore politico dell’amicizia quando riflette sugli amici del principe, ma cerca anche di riservare le cariche politiche più importanti a se stesso e agli uomini di cultura. Come Petrarca, anche Vicini è uno dei possibili amici del principe, un vero amico, non un cliens, o un familiares: uno studiosus. Credo che lo spazio politico che l’autore del De institutione cerca di riservare agli uomini di cultura risulti ancor più significativo se si ricorda che Vicini ha cercato per tutta la vita la protezione e il sostegno dei principi. Proponendo l’amicizia come criterio per la selezione dell’élite di governo, considerando l’amicizia come quella relazione che permette l’ascesa sociale e il riconoscimento del valore degli uomini che sanno cosa sia la virtù, questi cerca di aprire le porte della corte agli umanisti. Quanto più Vicini insiste sulla vera amicizia, vale a dire sull’amicizia tra buoni che è orientata alla virtù, tanto più gli studiosi sembrano essere i veri amici ed i migliori amici del principe. Sembra quasi un gioco di parole, perché studium in latino, non significa soltanto studio, cioè conoscenza dei precetti della vita onesta e formazione
morale, ma anche zelo e dedizione: sembra che la dedizione e
la devozione nei confronti del principe non siano altro che una conseguenza della cultura posseduta da chi è stato educato agli studia bumanitatis.
4. DE ELECTIONE AMICORUM: L’AMICIZIA NEL DE INSTITUTIONE REGIMINIS DIGNITATUM
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44 Conclusioni
Come si è cercato di mostrare, sebbene il De institutione non sia
un’opera molto conosciuta, la riflessione sull’amicizia proposta in questo speculum principis dei primissimi anni del Quattrocento è particolarmente significativa. Rielaborando con originalità il tema già medioevale degli amici principis, Vicini individua nuove e diverse tipologie di amici: i consiglieri, che sono tradizionalmente contrapposti agli adulatori; i clienti e i sostenitori; i servi e idomestici; i cives ed i boni cives; gli uomini di cultura (gli studiosi); gli
amici virtuosi e gli amici passionali o, se si vuole usare la terminologia del De institutione, gli amici radiali. Distinguendo tra i veri amici, gli amici in senso stretto, e gli amici in senso lato, quelli che sono definiti tali solo perché si utilizza la parola amicizia nella sua accezione più comune ma impropria, Vicini traccia una feno-
menologia articolata e complessa. Ciò che conta non è la chiarezza della analisi. Si è visto, infatti, che la distinzione tra amici e veri amici sembra trasformarsi nella contrapposizione tra amici e non amici. Inoltre, il rapporto esistente tra le diverse tipologie di amicizia individuate (quello tra gli amici radiali e i veri amici, ma anche quello tra gli amici radiali e i clienti) appare ambiguo ed oscuro. Ciò che conta - si diceva — è la ricchezza della analisi: le diverse tipologie di amici individuate lasciano emergere nuove caratteristiche della relazione, non immediatamente riconducibili
alla concezione aristotelico-ciceroniana della amicizia. Vicinimostra che l’amicizia non è solamente la relazione perfetta e sublime, che è descritta nell’Etica Nicomachea e nel Laelius: può anche essere un rapporto clientelare, una forma di subordinazione
e di dipendenza, un legame che richiede un profondo coinvolgimento emotivo, una relazione che non tende all’equilibrio e alla misura, un vincolo morale che denota un marcato senso di appartenenza alla comunità. Anche se l’accento di Vicini cade continuamente sulla vera e perfetta amicizia, la relazione descritta nel De institutione non coincide del tutto con la vera amicitia ciceroniana o con la teleia philia aristotelica: l'amicizia è una relazione complessa e articolata, che si dice e si dà in molti modi. Calata
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
nel contesto della corte, essa nomina con un nome antico rapporti nuovi: con i clientes ed i sequaces, con i familiares ed i domestici, con gli studiosi. Non da ultimo, infine, il rapporto che può ridurre la distanza che separa chi comanda da chi ubbidisce. Riprendendo e rielaborando la riflessione di Aristotele e Cicerone sull’amicizia, Vicini colloca l’amicizia nello spazio politico del consiglio piuttosto che in quello del consenso: questi non pensa ai sudditi come agli amici del principe, ma cerca soprattutto di individuare quei sudditi particolari che, per merito e virtù, sono i più degni di essere gli amici di chi governa. Anche se il rapporto tra il principe e i sudditi continua ad essere descritto come una forma di amicizia, il tema degli amici principis prende il posto del tema della mutua caritas, inglobandolo in sé: come si è visto, Vicini descrive il rapporto tra governanti e governati come un
rapporto basato sull’affetto e l’amore reciproco, ma identifica il principe con il buon pastore solo dopo aver consigliato al principe quali amici scegliere. Inoltre, proprio nei passi in cui sostiene che il principe deve amare e difendere tutte le pecore di cui è pastore, l’umanista cerca di orientare l’amore del principe verso dei sudditi particolari, insistendo sul riconoscimento dei meriti piuttosto che sulla universalità dell’affetto del principe. Mostra, così, che l'amicizia non è tanto la relazione che funge da modello del legame sociale, generando consenso, quanto lo strumento per la selezione dell’élite di governo, la chiave che apre la porte della corte agli umanisti. La riflessione sull’amicizia delineata nel De institutione svela più chiaramente di altre le dinamiche su cui si regge il potere del principe sia perché Vicini accosta amici e clientes sia perché Battistachiavello insiste nel considerarli amici: se il potere del principe non fosse un potere personale, basato su una trama di rapporti intimi e clientelari, non vi sarebbe nessuno spazio politico per l’amicizia. Come si è già detto: se il principe non avesse bisogno dei sostenitori e dei clienti, probabilmente non avrebbe nemmeno bisogno dei veri amici. Il principe deve avvalersi di amici e di veri amici perché non può che servirsi di collaboratori leali, sinceri, onesti e fedeli. Mettendo in primo piano caratteristiche
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quali l’uguaglianza, la reciprocità o la consonanza di volontà, che quasi per definizione connotano l’amicizia, Vicini cerca di moralizzare e di formalizzare i rapporti attraverso cui il principe esercita ed amministra il proprio potere. Si tratta di relazioni che non hanno ancora una funzione istituzionale definita né una fisionomia professionale certa. Proprio per questo, l’amicizia non è solamente un rapporto privato, ma è anche, e soprattutto, un rapporto politico: è un rapporto di potere ed un rapporto con chi detiene il potere. E nella corte, il valore politico dell’amicizia si gioca a livello del legame personale col principe. Le tipologie d’amicizia individuate da Vicini, soprattutto le amicizie di natura clientelare, come le amicizie tra il principe ed i sequaces, e quelle contraddistinte da evidenti differenze di potere, come quelle tra il principe ed i servi, mostrano che la concezione aristotelica e ciceroniana dell’amicizia si adatta al nuovo contesto politico della corte. Questo aspetto è emerso anche dall’analisi del racconto di Piero posto all’inizio del quarto libro della Famiglia. Vorrei pertanto evidenziare alcune analogie ed alcune differenze che possono essere individuate confrontando le riflessioni di Vicini e di Alberti. Non credo sia superfluo ricordare che il De amicitia albertiano è scritto più di trenta anni dopo lo speculum di Vicini. L’elemento che accomuna in modo più evidente il racconto di Piero alla riflessione di Vicini è la natura empirica dell’analisi, quell’orientamento pratico e pragmatico della riflessione che fa emergere la dimensione clientelare dell’amicizia. Il De amicitia di Alberti e lo speculum di Vicini, inoltre, sembrano sviluppare analisi speculari: nel quarto libro della Famiglia è un cortigiano, Piero, a raccontare che è diventato amico di tre famosi principi della sua epoca usando tutta la sua astuzia ed il suo ingegno, nel De institutione è il principe che un aspirante cortigiano sceglie come protagonista della sua opera a sottolineare che non vi è bisogno solo di buoni amici. Come Alberti, anche Vicini prova a conciliare gli aspetti non aristotelici e non ciceroniani dell’amicizia con la vera e perfetta amicizia. La sua analisi, però, è decisamente meno sottile: come si è cercato di mostrare, nel De institutione i
rapporti del principe con i sequaces ed i clientes sono ricondotti
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
all’amicizia tra buoni. Ciò che distingue maggiormente la riflessione di Vicini da quella di Alberti è il fine dell’analisi: Piero non insiste sull’amicizia per cercare di aprire le porte della corte agli umanisti ed ai sudditi più virtuosi. Non cerca neppure di educare i principi di cui è amico: dà sfoggio della propria cultura solo per compiacerli o per soddisfare i loro desideri. Inoltre, visto che Piero insiste spesso sull’industria e sulle astuzie cui è dovuto ricorrere per entrare nelle grazie dei principi di cui è diventato amico, sembra che lo sguardo di Alberti sulla corte sia più disincantato di quello di Vicini. Questi crede davvero di potere educare il principe con i propri consigli: non sa ancora che Battistachiavello non sarà affatto un buon principe. Non immagina neppure che i principi potrebbero non apprezzare la dedizione e il servizio degli uomini di cultura, costringendoli a vagare come profughi di corte in corte.
Capitolo quinto Tra mutua caritas e comitas: l'amicizia nel De principe di Giovanni Pontano
5.1 Coordinate biografiche e bibliografiche Non credo sia necessario ricostruire nei dettagli la vita di Pontano, il nume tutelare dell’Umanesimo meridionale. Può, tuttavia, essere utile ricordare che l’umanista è nato nel 1429 a
Cerreto, un paese vicino a Spoleto, da una famiglia attiva in politica da diverse generazioni. Arriva a Napoli nel 1448, quando ha circa vent'anni. Qui diventa in poco tempo uno dei funzionari più in vista del Regno!. Ad introdurlo a corte, negli anni in cui completa la propria formazione studiando soprattutto greco ed astrologia, è Antonio Beccadelli, meglio noto come Panormita,
che Pontano segue anche in importanti missioni diplomatiche sin dal 14512. Oltre ad essere un importante funzionario a servizio 1 Sulla vita di Pontano si vedano i seguenti studi, che evidenziano anche il contributo dato dall’autore allo sviluppo dell’Umanesimo meridionale: C. Vasoli, Giovanni Pontano, in AA.VV., Letteratura italiana. I minori, Milano, Marzorati, 1961, vol. II, pp. 597-625 e F. Tateo, L’Umanesimo meridionale, in C. Muscetta (a cura di), Letteratura italiana, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 6-62. Per quanto riguarda la data di nascita dell’umanista, collocata prima di questo studio tra il 1422 ed il 1426, si veda L. Monti Sabia, Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Gioviano Pontano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XII, 1963, pp. 255 sgg. Pontano inizia a ricevere una formazione umanistica a Perugia, dove studia con Guido Vannucci; prima di incontrare Panormita, studia anche con Trapezunzio e Lorenzo Buonincontri. 2 Sul mecenatismo culturale di Panormita e gli incarichi politici svolti dall’umanista durante il regno di Alfonso e di Ferrante d'Aragona vd. J.H. Bentley, Panormita, in Id., Politics and Culture in Renaissance Naples, Princeton NJ, Princeton UP, 1987,
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di Alfonso d’Aragona, Panormita è un umanista impegnato a diffondere il culto delle humane litterae. Questi cerca di istituire anche a Napoli il «mecenatismo illuminato» che ha sperimentato nella Firenze medicea: come è noto, raduna intorno a sé alcuni
promettenti studiosi ed alcuni nobili eredi delle più importanti famiglie napoletane, dando vita all’accademia che prende il nome di Porticus Antoniana? Quando muore, la Porticus Antoniana si trasformerà nell’Academia Pontaniana (1471): Pontano diventa
la guida e l’ispiratore degli umanisti di Napoli*. Entrato
come
scriba nella cancelleria reale nel 1452, nel
1458, l’anno in cui muore Alfonso d'Aragona, Pontano diventa prima precettore di Carlo di Navarra, poi consigliere dell’erede al trono Ferrante d’Aragona, ed infine segretario di quest’ultimo (1466). Ottenuta la cittadinanza napoletana nel 1471, nel 1474
l’umanista riceve l’incarico di presiedere la Regia Camera della Sommaria, uno dei più importanti organismi fiscali del Regno. Da questo momento, prendendo il posto di Panormita come precettore, Pontano inizia anche ad essere a servizio del duca Alfonso
di Calabria: questi è l’erede al trono del Regno, cui è dedicato il De principe. L’umanista segue il futuro re di Napoli anche nella guerra di Ferrarra contro Venezia, durante la quale cura i negoziati con il papa che portano a stipulare la pace di Bagnolo (1484). Le missioni diplomatiche in cui è coinvolto Pontano sono
assi significative: si pensi, per esempio, che è l’artefice del trattato con il papa (1486) che pone fine al conflitto causato dalla seconda congiura dei baroni. Con questa espressione si è soliti riferirsi alla opposizione dell’aristocrazia feudale del Regno, che aveva cercato l’appoggio di Innocenzo VIII per indebolire il potere aragonese. La carriera politica di Pontano culmina nella nomina a Segretario reale, ottenuta nel 1487, l’anno in cui cade
in disgrazia, per accuse di tradimento, il precedente segretario pp. 84-100. 3 Vasoli, Giovanni Pontano, cit., p. 598.
4 G.M. Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del
Quattrocento, in Pontano, De principe, cit., pp. XII-XIII; d’ora in poi citerò questa
edizione dell’opera di Pontano semplicemente come De principe.
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di Ferrante, Antonello Petrucci. Pontano è Segretario reale di Ferrante per circa otto anni. Dopo la morte del sovrano, avve-
nuta nel gennaio del 1494, l’influenza e il prestigio dell’umanista non declinano affatto: Pontano sarà il Segretario reale e l’uomo di fiducia del duca di Calabria, salito al trono con il nome di Alfonso II. Per evitare l’invasione dell’esercito francese, mette tutta la propria esperienza ed intelligenza politica a servizio di Alfonso II, ma, come è noto, dovrà consegnare le chiavi di Napoli a Carlo VIII, entrato in città il 22 febbraio del 1495. Non credo vi sia esempio migliore di questo per evidenziare l’importanza politica che l’umanista ha raggiunto. La straordinaria carriera politica di Pontano è una prova evidente della politica culturale attuata dai sovrani aragonesi nel Regno di Napoli. Dopo essersi impadronito di tutti i domini catalano-aragonesi, per cercare di dare un nuovo assetto politico ed istituzionale al suo regno, Alfonso d’Aragona (1442-1458)
si propone, infatti, come mecenate e patrono degli umanisti che gravitano intorno alla sua corte. Oltre a Pontano, a Panormita e ad altri umanisti che sono stabilmente inseriti a corte, per esempio Valla, Facio e Manetti, tra quanti hanno beneficiato della generosità e della ospitalità di Alfonso si devono ricordare almeno Pier Candido Decembrio, Flavio Biondo, Filelfo e Giorgio di Trebisonda. Oltre a finanziare e sostenere l’attività intellettuale di molti umanisti con una generosità tale da fargli guadagnare l’appellativo di Magnanimo, Alfonso d’Aragona investe ingenti somme di denaro per lo sviluppo della Biblioteca reale, che diventa sempre più ricca di volumi. Durante il suo regno iniziano a lavorarvi anche copisti, illustratori e rilegatori. A poco a poco, la Biblioteca si trasforma in una verae propria scuola, destinata a formare i funzionari ed i ministri del regno. È Bentley a collegare esplicitamente il mecenatismo culturale di Alfonso d’Aragona al bisogno di legittimare il potere che questo principe esercita: contestato da Giovanna II e da Eugenio IV, il sovrano aragonese cerca di otte-
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nere consenso mobilitando le risorse intellettuali utili alla causa politica della nuova dinastia regnante’. Sebbene non sostenga gli umanisti con la stessa generosità del padre, Ferrante d’Aragona non interrompe affatto la politica culturale intrapresa da Alfonso il Magnanimo. Non appena riesce a consolidare il proprio potere, infatti, questo sovrano educato agli ideali della cultura umanistica da Panormita e da Facio, non si limita ad acquistare nuovi volumi per la Biblioteca. Continua, invece, a fare della corte del regno di Napoli un polo che attrae letterati di spicco come i fiorentini Lorenzo Bonincontri e Francesco Pucci. A differenza di Alfonso d'Aragona, però, suo figlio Ferrante chiede servizi e favori in cambio della protezione che offre e del salario che elargisce agli umanisti. Per questo affida sempre più spesso ai letterati del regno importanti incarichi amministrativi e diplomatici. La necessità di avere amministratori e burocrati preparati lo spinge persino a riaprire lo Studium di Napoli (1465). Il re esercita così un controllo diretto sui corsi
e sui professori, garantendosi la possibilità di avere una “classe dirigente” specializzata e fedele alla dinastia aragonese. Riconoscendo sin dall’inizio le opportunità politiche offerte dalla stampa, inoltre, Ferrante decide di appoggiare i primi stampatori attivi nel regno e di sostenere i negozi di libri fioriti con la riapertura dello Studium®.
5 J.H. Bentley, Alfonso The Magnanimus and Renaissance Culture, in Id., Politics and Culture in Renaissance Naples, cit., pp. 51-62, in particolare pp. 60-61. 6 ].H. Bentley, Patronage and Policy under Ferrante, in Id., Politics and Culture in Renaissances Naples, cit., pp. 62-80. Oltre allo studio di Bentley, sulla politica culturale di Alfonso e Ferrante d'Aragona, vd. anche G. Resta, Introduzione, in Antonii Panhormitae, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1968, pp. 5-58. Per comprendere le caratteristiche dell’Umanesimo napoletano mi sembrano particolarmente significative queste parole di Tateo (F. Tateo, L'Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Lecce, Milella, 1972, pp. 140-141): «L’Umanesimo napoletano quale appare nel suo periodo di splendore, alla fine del Quattrocento, non fu un movimento autoctono, ma il frutto di una feconda importazione culturale, che corrisponde al grande tentativo di inserimento del Regno nella dialettica della politica italiana. Esso significò, insomma, l’abbandono di una cultura che gravitasse verso la Francia medioevale e l’accettazione dei motivi della riscossa civile, laica, classicheggiante dell’Umanesimo prevalentemente fiorentino. Tuttavia, il
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Con la discesa di Carlo VII la carriera politica di Pontano volge velocemente verso il declino. L’umanista prova a mettere la propria esperienza e la propria intelligenza politica a servizio dei francesi, ma non riesce ad ottenere incarichi importanti. Secondo Vasoli, la scelta di collaborare con gli invasori deve essere vista come una prova della «spregiudicata mentalità politica» di Pontano: «educato umanisticamente alla pura considerazione pragmatica dei fatti», l’umanista si arrende subito alla «necessità delle cose» ed alla «fortuna degli eventi»7. Tuttavia, come ricorda Cappelli, sin dai tempi di Guicciardini, la scelta di collaborare con i francesi fatta da Pontano è stata considerata una sorta di tradimento8. Sia stato o meno infedele, Pontano sarà messo in disparte quando gli aragonesi torneranno a regnare su Napoli con Ferrandino (luglio 1495). Abbandonata la scena politica,
impegnerà tutte le proprie energie nell’attività letteraria, cui si era dedicato anche negli anni precedenti. Secondo la classificazione proposta da Vasoli, le opere letterarie scritte da Pontano possono essere divise in tre gruppi: 1) opere poetiche come, per esempio, i giovanili Amorum libri, il poemetto sulla vita di corte intitolato Lepidina ed il poema astrologico noto come Urania; 2) opere storiche e filosofiche, tra cui si possono ricordare almeno il De bello neapolitano ed il De principe; 3) opere grammaticali e filologiche come il De aspiratione?. Tali opere affrontano temi molto diversi tra loro: carattere cortigiano che assunse l’Umanesimo napoletano risponde ad una precisa tradizione, quella della corte angioina, che sotto Roberto aveva visto prosperare all’ombra della monarchia, in un eletto ambiente mondano, i primi segni di una cultura aperta ai valori della classicità, e svilupparsi un ideale di grandezza fastosa e di potenza. A questa tradizione si ricollega, con una visuale più larga, Alfonso I il Magnanimo, che concepì gli umanisti come l’ornamento maggiore del suo trono e ad essi richiese la celebrazione della sua persona e del suo regno». 7 Vasoli, Giovanni Pontano, cit., p. 599. 8 Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., p. XIII.
9 Vasoli, Giovanni Pontano, cit., pp. 597-625. La classificazione proposta da Vasoli può essere così schematizzata: 1) scritti poetici: Amorum libri, versi giovanili che imitano la lirica elegiaca latina e sono rivisti dall’autore quasi sino alla morte; Lepidina (1496), un poemetto in esametri che è la trasfigurazione letteraria della vita di corte;
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Pontano celebra gli affetti famigliari; compone versi che descrivono una società libertina dedita al piacere; s'impegna in violente polemiche contro i religiosi corrotti ed i grammatici chiusi nei loro inutili specialismi; riflette sul rapporto esistente tra poesia e storia; si interroga su questioni teologiche e metafisiche ponendosi domande sul libero arbitrio e la fortuna; analizza le virtù del principe e quelle del corpo sociale; propone una teoria della conversazione faceta e così via L’elenco potrebbe continuare ancora per molto, ma credo sia più rilevante notare che la molteplicità dei temi affrontati non è affatto sinonimo di eterogeneità. Tutta la riflessione di Pontano si articola, infatti, intorno a temi etici, poli-
tici e sociali. Intrecciando attività politica ed attività letteraria molto più profondamente di qualsiasi altro umanista, secondo Doglio, Pontano personifica «un tipo di Segretario che non trova riscontro nelle corti italiane di metà Quattrocento»!0.
La riflessione morale e politica è presente in tutte le opere di Pontano, ma è sviluppata ed approfondita soprattutto nelle opere di carattere più marcatamente filosofico. Oltre al De principe, lo speculum principis sui doveri ed i compiti del sovrano preso in Baiarum Libri (1490-1500), endecasillabi latini che descrivono una società libertina dedita al piacere; Lyra (1488-1499), raccolta di sedici liriche; De amore coniugali, tre
libri di versi ispirati dall’affetto per la moglie ei figli; Versus jambici, Eridani e Tumuli (post 1499), poesie in cui inizia ad affiorare il sentimento della morte; Ecloghe (1490),
dove il tema della morte è collegato a quello dell’amore in una fittizia cornice pastorale;
De hortis Hesperidis (ante 1501), tardo esperimento georgico; Urania, poema astrologico in cinque libri iniziato nel 1456 e rielaborato fino al 1501, che è generalmente associato ad un’opera in prosa, il De rebus coelestibus (post 1494). 2) Scritti filosofici e storici: De obedientia (1470-1484), De fortitudine (1481), De liberalitate (1493), De beneficentia (1493), De splendore (?1493), De convivio (1493), De magnificentia (post 1494), De prudentia (ca. 1496), De magnanimitate (1499), De fortuna (1501) De immanitate (1501); i dialoghi latini dedicati agli amici dell’Accademia: Asinus (14861490), Antonius (?21487-1488), Actius (1499) ed Aegidius (1501); il De bello neapolitano (post 1494) ed il De principe (1468). 3) Scritti grammaticali e filologici: De aspiratione (1461-1464) e De sermone (1502-1503). Le date qui indicate sono quelle proposte da Vasoli, ma, come ricorda Cappelli (Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l'Umanesimo politico del Quattrocento, cit., p. XII), si deve tener presente
che «la cronologia pontaniana è piuttosto intricata e complessa». 10 M.L. Doglio, Lettera come manifesto. Il «dichiarar per lettera» del Pontano, in Id., L’arte delle lettere: idee e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 29-48, in particolare p. 32.
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esame in questo capitolo, si devono ricordare: il De obedientia (1472), un trattato sui doveri e i compiti del corpo sociale, che può essere visto come un completamento dello speculum di Pontano insieme all’analisi della virtù militare proposta nel De fortitudine (1481); il De liberalitate, il De magnificentia, il De splendore e il De conviventia, ossia i quattro trattati sulle virtù sociali preposte all’uso della ricchezza, che Pontano ha composto prima del 1493. Vista la sensibilità mostrata da Ferrante nei confronti della stampa, non è irrilevante notare che tutte queste opere sono state pubblicate a Napoli tra il 1490 e il 1498: nel 1490 esce un volume che contiene il De principe e il De fortitudine; nel 1491 è pubblicato il De obedientia; nel 1498 sono dati alle stampe i quattro trattati sulle virtù sociali!!. Forse è eccessivo pensare a Pontano come
ad uno scrittore militante, ma è proprio Tateo a sottolineare che le opere appena ricordate sono strettamente collegate alle attività che l’umanista ha svolto in quanto «precettore, consigliere e sostenitore dell’ideologia del principato»!2. Negli scritti più tardi, non vi sarà più traccia dell’ottimismo che le ispira. Nonostante non si possa parlare di pessimismo, nelle opere composte dopo l’abbandono della scena politica, i toni della riflessione etica e morale di Pontano appaiono decisamente mutati: la diversa situazione politica in cui si trova la città di Napoli, e l’Italia intera, porta l’autore del De principe ad interrogarsi sull’applicabilità delle virtù precedentemente proposte come modello di vita. Nel De prudentia (1496) lo sforzo fatto per conciliare gli ideali del passato con la situazione creatasi in seguito all’invasione di Carlo VII diventa evidente: Pontano continua a credere che la prudenza sia la virtù principe dell’azione politica, ma tende ad identificarla con la perspicacia (perspicacia) e la lungimiranza (previdentia), piuttosto che ad assimilarla alla solennità (gravitas) ed alla umanità (humanitas). La funzione civilizzatrice degli studi classici,
11 Per la data di composizione e di pubblicazione delle opere di Pontano mi riferisco allo studio di G.M. Cappelli, citato più volte. 12 F, Tateo, Introduzione, in G. Pontano, I libri delle virtà sociali, a cura di E. Tateo, Roma, Bulzoni, 1999, p. 10.
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i bonarum litterarum studia, continua ad essere esaltata anche nel De immanitate (1501), ma sembra difficile credere ancora che i
precetti della sapientia possano riuscire ad assoggettare la fortuna. In quest’opera, infatti, Pontano non propone più dei modelli di virtù, bensì degli esempi che illustrano i comportamenti bestiali e crudeli che reputa caratteristici della propria epoca.
5.2 Struttura e temi del De principe Nel corso dell’analisi mi concentrerò esclusivamente sul De principe. Non prendo in considerazione quest'opera di Pontano soltanto perché, secondo Skinner, può essere considerata un esempio «tipico e notevole» del genere degli specula principum quattrocenteschi!3, ma anche e soprattutto perché vi sono significativi riferimenti all'amicizia. Essi permettono di mostrare che questa relazione non è tanto il modello che regola il rapporto tra governanti e governati, quanto piuttosto la relazione con cui il principe amministra ed esercita il proprio potere. Poiché nel De principe non si trova una sezione appositamente dedicata all’amicizia o agli amici del principe, credo sia opportuno chiarire qual è la struttura dell’opera, mettendo in luce alcuni temi chiave. Il De principe è una summa di virtù scritta quando Pontano diventa precettore del duca di Calabria, il giovane erede al trono che servirà anche come ambasciatore e segretario. Si tratta, quindi, di un’opera d’impronta pedagogica. È la prima opera di Pontano ad essere scritta in prosa. Con tutta probabilità, infatti, il De principe è composto tra il 1464 ed il 1465, vale a dire nel periodo in cui, come nota Cappelli, è in atto la «ricostruzione morale»
13 Skinner, Virtà rinascimentali, cit., p. 176. Secondo Bentley, oltre al De principe di Pontano, ai Memoriali di Diomede Carafa ed al De maiestate di Maio cui si è accennato
nel secondo capitolo, anche il De dictis et factis Alphonsi di Panormita, ed alcune lettere scritte da Elisio Calenzio tra il 1463 e il 1476 devono essere annoverati tra gli specula principum d’area aragonese; Bentley sottolinea inoltre che questi specula devono essere confrontati con le orazioni epidittiche scritte per celebrare le virtù dei sovrani aragonesi: Bentley, Politics and Culture in Renaissance Naples, cit., pp. 202-208.
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e la «legittimazione
ideologica
della dinastia
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vittoriosa»!4.
Pontano scrive il suo speculum non appena Ferrante riesce ad
impadronirsi del potere, sedando la lunga e violenta rivolta antimonarchica che i baroni, gli esponenti della feudalità del regno, organizzano dopo la morte di Alfonso di Aragona, schierandosi con l’erede al trono angioino. Il De principe si inscrive quindi appieno nel processo di ricostruzione politica, economica e cultu-
rale del Regno messo in atto subito dopo la sconfitta dei baroni: mostrando la via della virtus e della maiestas al duca Alfonso,
che è appena stato designato come futuro sovrano del Regno di Napoli da Ferrante, Pontano esalta ed idealizza la funzione politica del principe, provando ad allargare il consenso di cui gode la dinastia aragonese. Tuttavia, per comprendere il significato delle riflessioni svolte nel De principe non si deve considerare solo la situazione politica interna al Regno di Napoli, ma anche quella dell’intera penisola italiana. Il processo di ricostruzione economica, politica, e culturale voluto da Ferrante può, infatti, essere attuato perché s’instaura un periodo di relativa stabilità: dalla pace di Lodi (1454) fino alla discesa di Carlo VIII (1495), nonostante vi siano vari conflitti in cui è coinvolto anche il Regno di Napoli, i rapporti di forza esistenti tra le maggiori potenze italiane rimangono pressoché invariati!S., Se non si fosse creata
questa «pace inquieta», Pontano non sarebbe così convinto che
14 Mi attengo alla datazione proposta da Cappelli (Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., pp. XVII-XVII): questi considera il 1468, la data di composizione del De principe indicata anche da Vasoli, come termine ad quem e propone come termine a quo il 1463. La proposta sembra convincente perché non viene esaminata solo la tradizione manoscritta:
riprendendo l’analisi di Monti (L. Monti Sabia, Ricerche sulla cronologia dei Dialoghi di Pontano, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», X, 1962, pp. 1-59), Cappelli esamina anche i riferimenti interni al testo: nel De principe sono menzionate sia la battaglia di Sarno (luglio 1460) sia la battaglia di Troia (agosto 1462). , 15 Per la situazione italiana dopo la pace di Lodi, oltre ad A. Tenenti, L'Italia nel Quattrocento. Economia e società, Roma-Bari, Laterza, 1996 si veda anche Hay and Law, L'Italia del Rinascimento 1380-1530, cit., in particolare pp. 185-364. Per la situazione del regno di Napoli, rimando a G. Calasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino.e aragonese, Torino, UTET, 1992.
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è possibile educare il principe agli ideali della cultura umanistica. Se non scrivesse la propria opera quando gli eserciti stranieri sono
ancora lontani da Napoli, l’umanista non spiegherebbe al duca di Calabria che la virtù non è solo il fine dell’agire umano, ma anche il criterio guida dell’azione politica. Seguendo l’esempio di Petrarca (e di Piccolomini)!9, Pontano sceglie di dare al proprio speculum principis la forma della lettera precettistica. Non è una scelta dettata solo da preferenze di stile, perché si è detto che inizia effettivamente a scrivere il De principe proprio quando si accinge a sostituire il Panormita come precettore del duca di Calabria. Inoltre, il riferimento a Petrarca è più di un’analogia formale: all’inizio del De principe si trova una citazione quasi letterale dell’Institutio regia. Pontano ha ben presente sia questa lettera sull’educazione di Luigi di Taranto, sia la lettera a Francesco da Carrara: come si ricorderà, sono state
esaminate nell’ultimo paragrafo del secondo capitolo di questo saggio. Il loro punto di contatto più significativo con lo speculum principis di Pontano è costituito dalla descrizione del rapporto che unisce il principe ai sudditi: per sostenere che il principe non deve essere temuto ma amato, Pontano cita il precetto senecano del si vis amari amaa cui si riferiva anche Petrarca. Come tenterò di mostrare nei prossimi paragrafi, anche il riconoscimento del valore politico dell’amicizia e la descrizione delle qualità che devono avere gli amici del principe sono ulteriori e rilevanti punti di tangenza tra le riflessioni dei due umanisti. Per educare il futuro sovrano del regno di Napoli, Pontano propone una serie di precetti che derivano soprattutto dal De officiis. Secondo Cappelli, quest'opera di Cicerone funge da vera e propria «ossatura ideologica» del De principe!?. Pontano si
16 Cfr. De principe, par. 2, pp. 2-4 ed Institutio regia, p. 24. Cappelli pone il «vix dum annos pubertatis egressum» di Pontano in relazione al «regem animo senem, annis adolescentem» di Petrarca, ricordando anche il «non egressus ab adoelscentia» con cui Barbato da Sulmona glossa l’espressione usata nella Institutio regia (De principe, p. 3, nota). 17 Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., pp. XLVI sgg. Pontano cita anche altre opere di Cicerone: le orazioni
cesariane, l’epistola Ad Quintum fratrem, il De oratore.
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pone, però, in un rapporto «critico» e «dialettico» con il pensiero di Cicerone. Infatti, rielabora le tesi e gli assunti dello scrittore romano con più consapevolezza di quanta non ne abbia Palmieri. Si potrebbero fare molti esempi, ma credo sia sufficiente ricordare che Pontano introduce un tema fondamentale come quello della maiestas sapendo di dover integrare la teoria del decoro articolata da Cicerone nel primo libro del De officiis!8. Inoltre, riprendendo il pensiero ciceroniano per descrivere le virtù e icomportamenti
che si addicono all’ottimo principe, si riferisce continuamente all’Etica Nicomachea. Aristotele e Cicerone: quasi sessanta anni dopo lo speculum di Vicini, e per di più in una situazione storica e politica molto diversa da quella in cui si era trovato l’autore del De institutione, anche Pontano cerca di educare il principe conciliando l’etica aristotelica con l’etica ciceroniana. Per avere un’idea più completa delle fonti più importanti della riflessione pontaniana, ad Aristotele e Cicerone bisogna aggiungere anche il nome di Seneca. Secondo Tateo, infatti, Aristotele influenza Pontano per l’impegno teoretico, Cicerone per l’intento pratico, Seneca per l’atteggiamento parenetico!?. Non si deve aggiungere, invece, il nome di Platone: il filosofo è menzionato una sola volta in tutto il De principe, con l'evidente mediazione del De finibus di Cicerone?0. Questa assenza risulta particolarmente significativa,
18 De principe, par. 75, p. 87: «E vedo, o duca Alfonso, che questa parte relativa al conservare e accrescere la maestà, che sto ora trattando, è stata completamente tralasciata dagli antichi filosofi, poiché nessuno a questo riguardo fornisce qualche precetto che sia giunto fino a noi, o che io conosca. Infatti, delle cose che Cicerone dice con saggezza e precisione intorno al decoro, molte riguardano i privati e le magistrature che da privati sono gestite in un tempo stabilito, non i re, sebbene si possano mutuare
di lì». Il corsivo è mio. Riporto i passi nella traduzione italiana curata da Cappelli nell’edizione citata del De principe, segnalando le eventuali modifiche che propongo; indico il testo latino solo se mi sembra particolarmente significativo ai fini dell’analisi. Sul rapporto «critico» e «dialettico» di Pontano con il pensiero di Cicerone, vd. L. Miele, Tradizione letteraria e realismo politico nel «De principe» di Pontano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXII, 1983, pp. 301-321. 19 E. Tateo, Le virtù sociali e l’immanità, in «Rinascimento», V, 1965, pp. 119-154. 20 De principe, par. 20, p. 25: «Plato dicit et Cicero refert».Vd. anche De principe, parr. 62-63, pp. 73-75, in cui il dovere del principe di prendersi cura di tutto il corpo sociale è fatto risalire a Platone attraverso una citazione del De officiis.
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se si ricorda che le raccolte di consigli per i principi scritte nel XV secolo (in particolare il De principe di Platina ed il De regno di Patrizi) sono generalmente considerati degli specula platonici. Per spiegare la presenza di temi aristotelici nel De principe non basta rinviare a quanto è stato messo in rilievo nella premessa e nel secondo capitolo di questo saggio, ricordando in termini generici che la riflessione etica di Aristotele ha fortemente influenzato la riflessione politica e morale del Quattrocento?!. Si deve altresì ricordare che nella Biblioteca della corte aragonese erano presenti almeno due copie dell’Etica Nicomachea: la traduzione di Leonardo Bruni e quella offerta ad Alfonso d'Aragona da Giannozzo Manetti a metà degli anni Cinquanta?2. Non essendo facile sapere se Pontano abbia usato la traduzione di Bruni oppure quella di Manetti, lascio agli specialisti il compito di sciogliere il dubbio. Visti i fini dell’analisi, vorrei porre in primo piano un altro dato che potrebbe sembrare banale, ma non dovrebbe passare inosservato: la presenza delle traduzioni di Bruni all’interno della corte aragonese mostra chiaramente che le idee che circolano nella repubblica di Firenze sono diffuse anche nel Regno: di Napoli23. Pertanto, non ci si deve stupire se all’inizio del De principe compare il nome di Scipione: confrontando la giovane età del duca di Calabria, che è appena stato nominato Vicario del Regno, a quella che aveva Scipione quando è diventato edile, Pontano paragona il futuro re di Napoli al cittadino romano per eccellenza, il modello del nobile e disinteressato servitore della
respublica?4. Come è stato messo in evidenza più volte, e come
21 Per la diffusione dell’Etica Nicomachea nel Quattrocento, rimando a quanto indicato nella premessa. 22 Dopo aver offerto ad Alfonso d'Aragona una copia della sua traduzione della Politica, Manetti dona ad Alfonso d’Aragona anche la traduzione dell’Etica Nicomachea, dell’Etica Eudemia e dei Magna Moralia: Bentley, Politics and Culture in Renaissance Naples, cit., pp. 162-163. i 23 Per la presenza di testi politici degli umanisti fiorentini nella Biblioteca aragonese vd. T. De Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d'Aragona, Milano, Hoepli, 1952, vol. II. 24 De principe, par. 1, p. 3; par 13, p. 15. Cappelli non esita a definire l'esempio di Scipione «un prestito fiorentino abilmente ri-contestualizzato» (Cappelli, Il De princi-
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si vedrà più chiaramente analizzando le opere di Platina, le virtù dell’ottimo cittadino e le virtù dell’ottimo principe tendono a coincidere. Lo speculum di Pontano è più aristotelico di quelli di Platina e Patrizi. Tuttavia, bisogna considerare che l’aristotelismo del De principe è molto particolare. I riferimenti all’Etica Nicomachea, infatti, sono quasi sempre mediati. A volte la mediazione è ciceroniana, come nel passo in cui Pontano tratta della liberalità del principe, accostando la religione, definita come culto divino (divini cultus), alla giustizia?5. Altre volte è senecana: quando invita il principe a perseguire sobriamente i piaceri del bere e del mangiare, Pontano unisce la dottrina aristotelica della moderazione, o continentia, ai precetti del De ira26. Altre volte ancora, Pontano non si riferisce tanto ad Aristotele quanto piuttosto ai
suoi commentatori medioevali: l’idea di uguaglianza davanti alla legge formulata nel De principe, per esempio, dipende in modo palese dalla lezione egidiana?7. Come si deduce da questi esempi, Pontano tende a sovrapporre ed incrociare riferimenti ad autoric-
| tates molto diverse tra loro per sostenere le proprie tesi. Anche la riflessione sull’amicizia è frutto di questi incroci e di queste sovrapposizioni: come si vedrà tra poco, Pontano riprende pe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., p. LXI), ricor-
dando che la figura di Scipione è rivalutata già da Petrarca nell'Africa ed è poi presa a modello dagli umanisti fiorentini. Nella polemica tra Poggio Bracciolini e Guarino Veronese, Scipione è il campione della repubblica, Cesare quello della monarchia. 25 De principe, par. 6, p. 85 par. 36, p. 41 e par. 60, p. 71: per definire la liberalità, Pontano fonde EN, IV, 1119a 14-15, pp. 121-123 ed Of, I, XIV-XV, pp. 38-43. Vd. inoltre De principe, parr. 3-4, pp. 5-7, in cui Pontano si richiama ad EN, V, 1129a1130b, pp. 171-181 ed a Of, I, VII, pp. 20-22. Si noti che Pontano non raccomanda al principe di praticare i culti riservati a Dio e di essere giusto, ma di dare questa impressione: «Infatti, niente vale tanto ad accattivarsi gli animi dei sudditi quanto una reputazione di giustizia e di religiosità praticante» (De principe, par. 6, p. 8). Il testo latino è più chiaro, perché Pontano usa l’espressione «iustitiae ac cultus divini opinio». 26 De principe, parr. 65-66, pp. 77-78: Pontano si riferisce ad EN, II, 1118b, pp. 120-121 ed EN, VII, 1148a, pp. 271-272; cita anche Seneca, De ira, introd. trad. e note di C. Ricci, Milano, BUR, 2006, II, 20, pp. 117-119. 27 De principe, parr. 49 sgg., da p. 59: Pontano fonde l’idea aristotelica del giudice come iustum animatum (EN, V, 1132a, pp. 184-187) con quella egidiana del princeps come lex animata (De regimine principum, libro I, pars II, cap. XII, p. 79).
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
la riflessione aristotelica sulla philia svolta nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea, richiamandosi allo stesso tempo anche alla Ciropedia di Senofonte. Quest’opera è una delle fonti più importanti del De principe perché Ciro è più volte indicato come modello di ottimo principe al duca di Calabria. Credo sia rilevante ricordare che è stato Poggio Bracciolini a restituire al mondo latino questa storia della vita e dell'educazione del sovrano persiano, che è considerato un modello di ottimo principe anche da Platina, Patrizi e Machiavelli?8. Bracciolini ha dedicato la sua traduzione, fortemente voluta da Panormita, ad Alfonso d’Ara-
gona nel 1446, dunque solo pochi anni prima della stesura del De principe??.
Oltre alle Ciropedia, si devono ricordare almeno tre delle numerose opere di cui si è avvalso Pontano per comporre il suo speculum principis: il Panegiricus ad Traianum di Plinio il Giovane, che fa da sfondo alla descrizione del principe come padre della patria; le orazioni De regno di Dione Crisostomo, che influenzano alcune delle considerazioni relative all’aspetto esteriore del principe, e l’Institutio oratoria di Quintiliano, che
funge da presupposto per la riflessione sul linguaggio e le abilità retoriche del principe30. Per dare maggior risalto alle proprie tesi, Pontano cita con una certa frequenza anche dei poeti, Virgilio, Ovidio e Giovenale in particolare. Trae la maggior parte dei
28 De principe, par. 4, p. 7: all’inizio della lettera Pontano specifica che Ciro non è solo un esempio di giustizia, ma di tutte le virtù. Platina propone Ciro come esempio sin
dall’inizio del suo speculum: Platina, De religione principis, in De principe, cit., p. 57; Patrizi cita Ciro tantissime volte nel De regno: Patrizi, De regno et regis institutione, cit., pp. 1, 30, 31, 61, 91, 94, 187, 288, 297, 380. D’ora in poi citerò queste edizioni
degli specula di Platina e Patrizi semplicemente come Platina e Patrizi. Per la presenza di Ciro come esempio nel Principe di Machiavelli, vd. Machiavelli, Il principe, cit., p. 101, dove le virtù di Ciro sono accostate a quelle di Scipione. Come è stato evidenziato nel primo capitolo, anche Alberti si riferisce alla Ciropedia nel suo De amicitia: quando racconta come sia diventato amico del re di Napoli, Piero descrive il principe come Ciro (LdF, pp. 335 sgg.). 29 Vd.P.O. Kristeller et alii, Catalogus translationum et commentarium, Washington, The Catholic University of America, 1992, vol. VII, pp. 116-121 ed Anthonii Panhormitae, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, cit., p. 237. 30 De principe, par. 50, pp. 60-61; par. 66, p. 78; parr. 77-80, pp. 88-93.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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suoi esempi da opere di storici romani quali Livio e Sallustio, ma propone anche esempi moderni, menzionando parenti, amici, o eminenti personalità del tempo come Lorenzo Valla. Inoltre, indica più volte al duca di Calabria sia Alfonso d’Aragona sia Panormita come modelli da imitare3!. Poiché il De principe è molto più noto e studiato degli altri specula esaminati, soffermandomi sui temi principali che sono affrontati da Pontano, vorrei provare a sottolineare le analogie e le differenze più significative rispetto alle opere di Vicini, Platina e Patrizi.
Il De principe è l’unico degli specula principum presi in considerazione a non essere diviso in capitoli ed è anche il più breve. Quando propone la propria summa delle virtù etiche e politiche necessarie per educare il duca di Calabria ad essere un buon principe, Pontano procede nell’analisi muovendo dall’interno all’esterno, passando dal generale al particolare: descrive prima le virtù più strettamente morali del principe, poi esamina quelle esteriori, riflettendo sul comportamento e sul linguaggio. Fornisce | delle definizioni generali e teoriche delle singole virtù che il principe deve possedere, per poi mostrare come possano essere applicate a dei casi concreti. La riflessione di Pontano comincia con un breve catalogo delle virtù del principe per poi articolarsi intorno a tre nuclei tematici fondamentali: la riflessione sulla sapienza (sapientia), che costituisce la vera e propria sezione pedagogica dell’opera; la descrizione del rapporto tra il principe e i sudditi come relazione che deve essere basata sull’affetto e sull'amore reciproco
(mutua
caritas); la formulazione
della teoria della
maestà (maaiestas) con cui si conclude il De principe32. Pontano non fa alcun accenno a questioni e problemi militari, ma si è già
31 De principe, par. 8, p. 11; par. 24, p. 27; par. 35, p. 41; par. 43, p. 51; par. 44, pp. 51-53; par. 61, p. 71; parr. 63-64, pp. 73-75: il re Alfonso d’Aragona è indicato come esempio per ben sette volte nel De principe. Quando lo indica come modello da imitare, Pontano propone alcuni topoi della propaganda aragonese come quello dell’ora del libro. 32 De principe, parr. 1-19, pp. 1-25; parr. 20-34, pp. 25-39; parr. 31-45, pp. 33-55; parr. 46-81, pp. 55-95.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
detto che è lo speculum di Platina ad essere un’eccezione sotto questo aspetto33. La peculiarità più evidente del De principe è costituita dall’ampia analisi della maiestas del principe. Anche se nelle opere di Vicini e di Platina non mancano considerazioni relative agli atteggiamenti e ai comportamenti che si addicono al buon principe e ne attestano la superiorità politica e morale, come già accennato nei capitoli precedenti, solo Pontano riesce a trasformare queste considerazioni in una «piccola ma compatta teoria
del potere». Secondo Cappelli, l’analisi della maiestas è «la nuova cifra teorica ed assiologica» attorno cui Pontano articola tutta la propria riflessione34. Riprendendo alcuni assunti ciceroniani relativi al decoro, rielabora, infatti, il catalogo di virtù che ha
precedentemente proposto al principe: la maiestas è una combinazione articolata e complessa di affabilità (comitas), solennità (gravitas), costanza (constantia), disponibilità (facilitas), docilità (mansuetudo), umanità (bumanitas), familiarità (familiaritas), capacità nel mostrarsi degni di ammirazione (admiratio), non
troppo severi e giusti (Pontano invita il principe a fuggire da una eccessiva severitas ed a rispettare l’aequitas). Quindi, la maestà non è altro che quell’atteggiamento umano, amichevole, affabile, autorevole, ponderato, e coerente che deve contraddistinguere il principe in ogni situazione35. Non credo sia inutile evidenziare che le virtù di cui consta la maiestas sono affini alle virtù leriores che hanno permesso a Piero di diventare amico di tre principi:
33 Platina, libro II, da p. 151. 34 Vd. De institutione, pp. 31-32 (è il capitolo De maiestate et habitu); Platina, pp. 84-87 (è il capitolo De maiestate et felicitate principis), ma anche pp. 95-98 (sono i capitoli De cibo et ornatu principis, De somno principis, De ludo et iocis principis). Nel De regno di Patrizi non vi sono capitoli esplicitamente dedicati alla maestà, ma nel terzo libro si ttovano dei consigli analoghi a quelli di Platina sui giochi che si addicono al principe: Patrizi, pp. 122-127. Dal confronto di questi passi si evince che la posizione di Pontano è meno distante da quella di Vicini, il quale insiste sulla gravitas, che da quella di Platina, il quale descrive la maiestas preoccupandosi di evitare che il principe si mostri troppo disponibile ed affabile. 35 De principe, par. 11, p. 15; par. 46, pp. 55-57; par. 48, p. 59; par. 60, p. 71.
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la riflessione proposta nel De principe può essere accostata alla descrizione della grazia delineata nel De amicitia di Alberti86. Pontano riflette sulla maestà riferendosi sia alla sfera pubblica, sia alla sfera privata della vita del principe: prima analizza il rapporto tra il principe e gli ambasciatori della città (urbium legati); poi considera il rapporto tra il principe e i sudditi (populus) ed il rapporto tra il principe e i singoli cittadini (privati, subiecti, familiares e aulici); infine esamina il rapporto del principe con se stesso37. Sia quando accenna ai problemi relativi all’amministrazione della giustizia ed alla retribuzione dei funzionari, sia quando riflette sulla considerazione che il principe deve riservare ai cortigiani ed agli stranieri, ma anche quando fornisce indicazioni dettagliate sul modo di vestire e sul modo di parlare del principe, l’umanista sembra
anticipare la trattatistica rinasci-
mentale sul comportamento. Se si volesse usare la celebre definizione di Persico, si potrebbe dire che quest'opera di Pontano è il «galateo dei principi»38. Credo che basti menzionare il De maiestate di Maio per ricordare che la riflessione di Pontano influen‘ zerà profondamente gli intellettuali della corte aragonese. La densità concettuale dell’analisi relativa alla maiestas spiega la brevità della sezione relativa alle virtù con cui si apre lo speculum di Pontano. Il catalogo proposto nel De principe è quello canonico, basato sul De officiis, ma anche sul De inventione. Diversamente dagli autori degli altri specula esaminati, quando elenca le virtù che contraddistinguono il buon principe, Pontano non ricorre a nessuna classificazione: non parla di virtù cardinali, né distingue tipi diversi di virtù. Non integra neppure il catalogo delle virtù con un elenco dei vizi che il principe deve evitare. Sfiora
36 Cfr. De principe, parr. 46-81, pp. 55-95 e LdE, pp. 325-345. 37 De principe, par. 48, pp. 57-59 e par. 52, p. 63; ma anche parr. 64-74, pp. 75-87.
38 T. Persico, Gli scrittori politici napoletani dal ’400 al ’700, rist. anast. ed. 1910, Bologna, Forni, 1974, pp. 46-49. Per indicazioni bibliografiche più recenti relative al rapporto tra il De principe e la successiva trattatistica rinascimentale sul comportamento si veda quanto indicato in Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., pp. XCVI sgg.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
appena il tema dell’adulazione, che, come si è visto, attraversa la
fenomenologia dell’amicizia delineata da Vicini e, come si vedrà nei prossimi capitoli, è ampiamente approfondito sia da Platina sia da Patrizi39. Anche se annovera la giustizia, la pietà, la liberalità e la clemenza nel proprio catalogo, analizza solo la giustizia, che ha come corollario la religione e la fedeltà alla parola data. Inoltre, esamina insieme la liberalità e la clemenza‘°. Sottolineata
l’importanza dell’affabilità, si concentra sulla la temperanza, che
è identificata con la mancanza di passioni (vacuitas affectibus), senza distinguere chiaramente tra continenza e moderazione?!.
Passa, infine, ad esaminare la sapienza. L’ordine dell’esposizione di Pontano ricorda vagamente quello di Vicini: come si è visto nel precedente capitolo, anche l’umanista fabrianese conclude il catalogo delle virtù proposto nel De institutione analizzando la sapienza‘. La brevità del catalogo di Pontano fa da contrappunto all’ampiezza di quello di Patrizi, che occupa ben quattro dei nove libri che compongono il De regno*3. Quando riflette sulla virtù della sapienza, Pontano sembra l’autore più radicale tra tutti quelli esaminati. Infatti, sostiene che 39 Cfr. De principe, par. 7, p. 11; De institutione, cap. XI, pp. 53-57; Platina, pp. 75-77; Patrizi, pp. 137-151. L’analisi dell’adulazione e dei temi ad essa connessi occupa
metà del III libro e dà inizio al catalogo di virtù, vizi e passioni proposto da Patrizi nel De regno.
°
40 De principe, parr. 3-6, pp. 5-11. La descrizione di questa virtù risente dell’influenza del De clementia di Seneca, un’opera che sembra giocare un ruolo chiave soprattutto nella corte aragonese: vd. P. Stacey, Roman Monarchy and the Renaissance Prince, Cambridge, Cambridge UP, 2007. 41 De principe, parr. 13-19, pp. 15-25. L’analisi risente della dottrina del terzo libro delle Tusculanae, in cui Cicerone si concentra sulla temperantia e sulla fortitudo per mostrare che il sapiente deve essere libero dalle perturbazioni dell’animo. 42 De institutione, pp. 18-44. 43 Patrizi, pp. 137-357. Oltre ad una serie di vizi, passioni e virtù minori, il catalogo proposto in questi quattro libri del De Regno include nell’ordine: adulazione, delazione, calunnia, maldicenza, indigenza, ira, amore, affetto, letizia, diletto, ambizione, pigrizia, pudore, terrore, timore, misericordia, invidia, emulazione, angoscia, tristezza, sollecitudine, disperazione, prudenza, ragionamento, intelligenza, previdenza, docilità, cautela, sagacia, callidità, equità, temperanza, modestia, verecondia, astinenza, castità, moderazione, parsimonia, sobrietà, fortezza, magnanimità, fiducia, sicurezza, magnificenza, costanza, tolleranza, pazienza, giustizia, amicizia, ospitalità, concordia, pietà, religione, umanità, affabilità.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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il principe deve identificarsi con i sapienti, ossia con gli umanisti e gli uomini di cultura, senza difendere la tesi proposta*4. Se si considera la politica culturale attuata dai sovrani aragonesi, si capisce perché Pontano non abbia bisogno di argomenti di difesa. Se si ricorda che questi è stato appena nominato precettore del duca di Calabria, si comprende anche perché basti solo un esempio per convincere il futuro re di Napoli dell’importanza dell’educazione. È l’esempio di Alfonso di Aragona, descritto secondo lo stereotipo del rex litteratus45. Visto che il legame tra cultura e potere è molto più stretto a Napoli di quanto non lo sia a Fabriano, nel De principe la riflessione sulla sapienza è molto meno problematica che nel De institutione: a differenza di Vicini, Pontano non ha bisogno di aprirsi le porte della corte. La riflessione di Pontano è molto diversa anche da quella proposta da Platina, sebbene anche questo umanista sia stato il precettore del principe a cui scrive: Pontano è l’unico degli autori delle raccolte per i principi esaminate a vivere tutta la vita nella realtà istituzionale, il solo a comporre la sua opera per sostenere la poli‘ tica culturale consapevolmente messa in atto dai principi della corte in cui è inserito. Per questo l’autore del De principe non ha bisogno di giustificare in modo esplicito la missione pedagogica degli umanisti, portando altri esempi o nuovi argomenti a sostegno della propria tesi‘. Chiarita questa differenza, vorrei evidenziare una delle analogie più evidenti che uniscono la riflessione di Pontano a quella di Vicini, Platina e Patrizi (ma anche di 44 De principe, par. 23, p. 27: «La prima cosa, infatti, è che il giovane si abitui a rispettare i sapienti. Secondo è che di buon animo porga orecchio alle loro parole. Terzo che abbia desiderio di essere il più possibile simile a loro (ut eorum se quam maxime similem esse velit), dei quali deve sforzarsi di imitare non solo le azioni ma anche le parole. Basandosi su questi principî vittorioso otterrà la saggezza cui aspira». Il corsivo è mio. La sezione pedagogica del De principe inizia al par. 21: a Pontano bastano due brevi paragrafi per sostenere che i principi devono essere educati sin da giovani, ed un solo paragrafo per mostrare che la cultura deve rendere il principe simile al sapiente che lo educa. 45 De principe, par. 24, p. 27: è il famoso esempio dell’ora del libro, che Alfonso d’Aragona non ha mai sacrificato agli impegni politici, pur di ascoltare le letture di Panormita. 46 Cfr. De principe, par. 23, p. 27; Platina, pp. 69-75 e pp. 136-137; Patrizi, pp. CMASSTT
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Palmieri): la sapienza non deve essere mera erudizione, tende ad
essere identificata con l’educazione morale, ed è un sapere finalizzato all’azione”. Poiché Pontano non distingue chiaramente tra sapientia e prudentia, ma accorpa le due virtù, conciliando vita attiva e vita contemplativa, la sua posizione appare molto vicino
a quella di Platina*8. Il De principe può essere distinto dagli altri specula quattrocenteschi anche perché è ritenuto più laico. In effetti, Pontano dedica alla religione molta meno attenzione di quanto non facciano Platina e, soprattutto, Patrizi. Inoltre, non menziona
quasi mai Dio e non ricorre alla lezione delle Scritture per sostenere le proprie tesi*?. La laicità dell’opera di Pontano è indiscutibile, ma occorre precisare che la distanza che separa il De principe dalle altre raccolte di consigli per i principi del XV secolo varia a seconda dello speculum in questione. Infatti, tanto per Pontano quanto per Platina e Patrizi la religione non è fede, ma rito (divini cultus): un insieme di culti che non deve sfociare nella
superstizione. Inoltre, èconcepita come fondamento del potere (instrumentum regni)5°. È vero che Pontano non crede che il prin-
47 Come Palmieri, anche Pontano fa il nome di Cicerone, l’esempio per eccellenza dell’uomo che ha saputo conciliare otium e negotium ed è stato chiamato alla vita politica proprio in virtù della sapienza: cfr. De principe, par. 21, p. 25 e par. 30, p. 33 con Vc, p. 138. 48 De principe, par. 27, p. 29: la sapienza consiste nel sapere molte cose sia nel campo della conoscenza della natura e delle cose occulte, sia in quello della storia e degli esempi degli uomini illustri. La definizione di Patrizi è molto simile a questa, ma più influenzata dalle Tusculanae: Patrizi, pp. 237-238. Per un confronto tra la posizione di Platina e Pontano vd. Platina, pp. 102-107 (è il capitolo De prudentia). 49 Sulla laicità dell’opera non insiste solo il curatore dell’edizione citata del De principe (Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., p. LV), ma anche Tateo (Tateo, Le virtà sociali e l’immanità, cit., p. 131) e Miele (Miele, Tradizione letteraria e realismo politico nel De principe di Pontano, cit., p. 321). Dio è menzionato solo cinque volte nel De principe, due delle quali in De principe, par. 17, p. 21. In quest’ultimo passo potrebbe esserci una vaga citazione dell’ Apocalisse o dell’epistola pseudo-paolina agli Ebrei, ma le tesi espresse da Pontano si trovano anche nel De providentia di Seneca. Il nesso tra moderator e rector che l’autore propone sembra, invece, avere ascendenze ciceroniane. i 50 Cfr. De principe, parr. 3-5, pp. 5-9; Platina, pp. 56-66, in cui si dice espressamente che la religione è «principatus potissimum fundamentum»; Patrizi, pp. 390-391.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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cipe debba essere venerato come un Dio, come afferma invece Patrizi. È altrettanto vero che non sostiene che la monarchia sia la miglior forma di governo perché è la più conforme alla legge divina e naturale, come ritiene Platina. Tuttavia, ripete più volte che la clemenza e la liberalità rendono il principe simile a Dio5!. La laicità dell’opera di Pontano emerge soprattutto dal confronto con il De institutione perché, come si è già sottolineato nel precedente capitolo, oltre a citare le Scritture per sostenere le proprie tesi, Vicini riprende la distinzione scolastica tra potentia ordinata e potentia absoluta per mostrare al principe come ripartire cariche e benefici2. Può essere utile anche un breve confronto con l’Institutio regia e con la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara: solo Pontano cita il precetto senecano del si vis amari ama a cui si richiama anche Petrarca, ma diversamente da questi, non intreccia tale precetto con passi evangelici, non identifica l’amore di Seneca con l’amore di Cristo, né assimila la clemenza
del principe alla misericordia di Dio53. In conclusione, vorrei considerare brevemente altri due temi ‘ che avvicinano il De principe agli altri specula quattrocenteschi: l’idea che il principe sia immagine e specchio della virtù dei sudditi e la contrapposizione tra il principe virtuoso e il tiranno. All’inizio del De principe Pontano ricorda al duca di Calabria che gli occhi di tutti i sudditi convergono su di lui perché è stato scelto come vicario del Regno solo ed esclusivamente in virtù delle sue straordinarie qualità morali. Questa tesi, la tesi dell’exemplar regis, costituisce una variante dell’idea del principe come specchio
S1 Patrizi, pp. 29-31, in cui si dice che i re sono stati dati agli uomini da Dio; Platina, pp. 53-56. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, Platina cita Agostino, Gerolamo, Lattanzio, Cipriano ed Ambrogio, e propone esempi tratti dall’Antico Testamento (Davide, Mosè). Sulla clemenza del principe vd. De principe, par. 3, pp. 5-7; Platina, p. 121; Patrizi, p. 53. Si noti che secondo Cappelli, in questo passo del De principe, Pontano non starebbe citando il De clementia di Seneca, ma un’opera di Claudiano che usa come fonte anche nel De immanitate. 52 De institutione, p. 69. 53 Cfr. Institutio regia, pp. 27-29; Al magnifico signore di Padova, pp. 777-779; De principe, parr. 34-36, pp. 39-41. Per le tesi di Petrarca si veda quanto sostenuto nell’ultimo paragrafo del secondo capitolo.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
dei sudditi. L'immagine dello specchio compare all’inizio della riflessione sulla maestà, quando Pontano sostiene che il principe deve essere modello ed esempio di virtù proprio perché occupa una posizione illustre che lo espone allo sguardo di tutti i sudditi. Anche Platina e Patrizi sostengono che la virtù dei sudditi sia un riflesso della virtà del principe, insistendo sul convergere del loro sguardo verso il principe5*. Come si è visto nel precedente capitolo, inoltre, già Vicini connette la superiorità morale del principe, che è specchio e modello dei sudditi, alla maiestas nel De institutioneSS. Come Vicini, Platina e Patrizi, dunque, anche Pontano
crede che il potere del principe si fondi sulla virtù, abbia limiti e finalità etiche, e porti al perfezionamento morale dei sudditi. Queste idee fungono da premessa per la contrapposizione tra il principe ed il tiranno. Sviluppando questo tema, Pontano segue un topos che è presente nel De regno di Tommaso, nel De regimine di Egidio Romano ed in tutti gli specula che saranno presi in esame, ma non nel De institutione di Vicini. Il De principe
sembra particolarmente vicino al De regno di Tommaso perché il tema dell’amicizia è introdotto dal confronto che oppone Alfonso d’Aragona a tiranni incapaci di avere amici quali Alessandro di Fere e Dionigi di SircausaS. Quando Pontano distingue il prin54 Cfr. De principe, par. 2, pp. 3-5 («Hai attirato su di te gli occhi di tutti quanti», ma il testo latino è più chiaro: «Regni oculos in te unum converteris») e par. 46, pp. 53-55 («E ad essa [la virtù] nulla li [i sudditi] stimolerà maggiormente della tua stessa virtù, proposta loro a modello, e di una condotta morale il più possibile eccellente. Molto saggiamente, dunque, Claudiano, dice: “Il mondo si regola ad immagine del re” [...]»); Patrizi, p. 272; Platina, p. 62. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, Platina non ricorre solo a questa immagine, perché riprende anche la tesi platonica secondo la quale le virtù dei cittadini sono un riflesso di quelle dei governanti. L'immagine che descrive il convergere dello sguardo dei sudditi verso il principe, del resto, è molto diffusa nel Quattrocento: come nota Vasoli, nell’Apologus et argomentum civilis, anche Ficino sostiene che tutti volgono i loro occhi verso il principe (C. Vasoli, Filosofia e religione nella cultura del Rinascimento, Napoli, Guida, 1988, p. 132). 55 De institutione, pp. 31-36. 56 Cfr. De principe, parr. 37-43, pp. 43-51. Alessandro di Fere e Dionigi di Siracusa sono esempi canonici di tiranni: sono menzionati anche nel De officiis (Of, II, VII, p. 149) per spiegare che chi governa non deve essere temuto, ma amato, nel De regno di Tommaso (Al re di Cipro, pp. 74-75) e nel De regno di Patrizi (Patrizi, p. 49). Come Platina, Pontano propone anche un esempio di tiranno moderno: si tratta di un cardi-
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cipe dal tiranno, la somiglianza tra il De principe e gli altri specula esaminati è quasi letterale: l’umanista sostiene che il principe ha bisogno di amici piuttosto che di armi e ricchezze, come Platina (e Palmieri); cita il precetto senecano del si vis amari ama cui si
richiama anche Petrarca; si riferisce allo stesso passo del De officiis che è richiamato nella lettera a Francesco da Carrara, e sarà
ripreso nel De principe da Platina, per sostenere che la disumanità e la superbia sono cattive custodi della vita del principe. Il significato politico dell’amicizia emerge proprio a questo punto della riflessione di Pontano. 5.3 La funzione politica dell’amicizia I sudditi del principe e gli amici di Ciro Avendo chiarito qual è la struttura del De principe, ed avendo messo in luce alcuni dei temi affrontati in quest’opera, è possibile . vedere quale funzione politica sia attribuita all’amicizia. Come si è appena accennato, l’amicizia affiora tra le righe della riflessione di Pontano quando egli descrive il legame tra il principe e i sudditi come un rapporto basato sull’amore e l’affetto reciproco. Contrapponendo l’ottimo principe al tiranno, l’umanista chiarisce, infatti, che il tiranno non ha amici perché non può fidarsi nale sgozzato da un servo per la sua crudeltà. 57 Cfr. De principe, par. 38 sgg., da p. 43; Al magnifico signore di Padova, pp. 772-782; De institutione, pp. 64-67; Platina, p: 72; Patrizi, pp. 326-335; ma anche Vc, pp. 74-76 e pp. 202 sgg. La stessa idea anche in F. Beroaldo, De optimo statu libellus, in Id., Opuscola, cit., f. 133 r («melius enim tuatur principem amor civium quam ferrum»). Cfr., inoltre, De principe, par. 42, p. 49 e Bracciolini, De infelicitate principum, cit., pp. 36-38: l’immagine della virtus formidolosa proposta da Pontano proviene dal De coniuratione Catilinae di Sallustio. È un’immagine che ha una storia molta lunga (Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 158), che include anche il De regno di Tommaso ed i libri della Famiglia di Alberti. Si consideri, infine, De principe, par. 35, pp. 39-41 e par. 39, p. 45: quando dice che la disumanità e la superbia sono entrambe cattive custodi sia della vita del principe sia del principato, Pontano cita quasi alla lettera un passo del De officiis (Of, II, II, pp. 146-147), ripreso anche negli specula di Petrarca (Al magnifico signore di Padova, p. 772) e di Platina (Platina, p. 69).
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di nessuno58. La tesi per cui il rapporto tra il principe e i sudditi deve essere un rapporto d’amore basato sull’affetto e la fiducia reciproca non è certo una novità introdotta da Pontano: molti umanisti riprendono alcuni passi del De officiis per sostenere che non debba essere temuto, ma amato, chi governa. Questa
tesi è declinata in modo diverso: come si è visto, Petrarca integra l’alternativa ciceroniana tra amore e timore richiamandosi alle Lettere a Lucillio di Seneca, mentre Palmieri rielabora i passi del De officis riferendosi all’Etica Nicomachea di Aristotele oltre che al Bellum Iugurthinum di Sallustio; come si vedrà in seguito,
Platina sostiene che il principe debba essere amato anziché temuto riferendosi all’orazione Ad Nicoclem di Isocrate e ad una delle orazioni De regno di Dione Crisostomo. Secondo quando sostiene
Cappelli, le diverse declinazioni dei passi del De officiis in cui è posta l’alternativa tra amore e timore trasformano il tema della mutua caritas in un vero e proprio «significante culturale», che svolge un ruolo centrale nel pensiero politico del Quattrocento. Si configura, infatti, come un «tertium tra l’autoritarismo dispotico fondato sulla forza o la nobiltà di sangue e ciò che noi chiameremmo democrazia, uguaglianza reciproca, e parità formale dei diritti»®?,
Il rapporto tra il principe e i sudditi è un rapporto di mutua caritas, cioè un rapporto basato sull’affetto reciproco, perché il principe deve amare i sudditi per essere a sua volta amato da loro. Sebbene questa tesi non sia immediatamente resa esplicita, essa costituisce la premessa su cui si fonda l’intero ragionamento di Pontano. Questi rielabora in modo originale il tema della mutua caritas, perché non contrappone l’amore al timore, ma si schiera immediatamente a favore dell’amore. Dice, infatti, che: Ma prima di ogni cosa è necessario che tu ti sforzi di essere amato soprattutto da coloro cui avrai affidato la cura del tuo corpo e dei tuoi beni: così facendo vivrai più sicuro e quando tale amore avrà messo profondamente le
58 De principe, parr. 34-44, pp. 39-53. 59 Cappelli, Il De principe di Giovanni Pontano e l’Umanesimo politico del Quattrocento, cit., pp. LKXX-LXXXII.
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radici tra coloro con cui hai un rapporto familiare, allora poi, estendendosi largamente, si diffonderà non solo tra i concittadini e i sudditi, ma anche tra 60 gli stranieri9®.
Pontano non si concentra sul rapporto esistente tra il principe
e i sudditi sin dall’inizio, e non invita nemmeno il principe ad essere amato da chiunque: gli consiglia prima di tutto e soprattutto di essere amato da chi gli è vicino. Prima di amare i sudditi, il principe deve amare i familiares, termine latino che non indica solo i membri della famiglia, ma anche le persone con cui il principe ha un rapporto intimo e quotidiano, e gli uomini che vivono a corte: possono essere i parenti, i servi, i cortigiani o gli amici. Dopo i familiares, Pontano menziona i concittadini e i sudditi usando il termine populares per sottolineare l’appartenenza al medesimo corpo politico, il termine subiectos per evidenziare la differenza di potere che separa chi governa da chi è governato.
Menziona
per ultimi gli stranieri
(externos)
pensando,
forse, agli ambasciatori ed ai mercanti che vivono nel Regno di : Napoli senza essere sudditi del principe. Mostrando in questo modo quali siano le persone che il principe deve amare, propone una variante dell’immagine a cerchi concentrici con cui Palmieri descrive la sfera della socialità umana, l’insieme rapporti e delle relazioni dell’uomo®!. A prescindere dal riferimento agli stranieri, segno della natura sempre meno locale e territoriale della politica aragonese, colpisce il fatto che i familiares siano menzionati prima dei sudditi. I rapporti con i familiares sembrano, infatti, includere tutti i rapporti personali del principe. Menzionando i familiares 60 De principe, par. 35, pp. 39-41. Riporto anche il passo in latino: «Omnium primo studere oportet ut ab iis potissimum amere quibus corporis ac rerum familiarium curam permiseris; quod faciens vives securior et amor iste, cum inter familiares altius egerit radices, latius postea evagatus, non modo inter populares subiectosque, sed externos quoque diffundetur». Il corsivo è mio. Ho modificato la traduzione proposta da Cappelli, per mettere in luce la presenza del termine familiares: i familiares sono tutte le persone che fanno parte della casa e della corte del principe, non solo le persone a cui il principe è legato da vincoli di parentela. Sul significato del termine familiares si veda anche quanto sostenuto nel precedente capitolo. 61 Per es. Vc, p. 158.
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prima dei sudditi, Pontano non pare intenzionato a descrivere il legame sociale che unisce governanti e governati come una forma d’amore. Si mostra, invece, desideroso di provare che l’amore
riversato sui familiares si diffonde e si propaga tra i sudditi e gli stranieri. Sembra che il principe ami chi è lontano, amando chi gli è più vicino. Pertanto, il principe ha un rapporto indiretto con i sudditi, un rapporto mediato dai familiares. L'amore del principe pare, inoltre, diffondersi per moto proprio dalla casa al regno ed oltre, trasformandosi: da sentimento intimo e personale, di natura privata, diventa un sentimento pubblico e generale, di natura politica. Per questo, il legame sociale, vale a dire
il rapporto che unisce il principe ai sudditi, sembra essere una prosecuzione ed una continuazione dei rapporti intimi e perso-
nali del principe. Proprio perché tende a considerare i rapporti politici come una prosecuzione dei rapporti personali, Pontano colora la relazione che unisce il principe ai sudditi delle sfumature dell’amicizia. Tale tendenza sembra essere strettamente collegata al tema della sicurezza
(securitas) del potere. Il passo citato mostra,
infatti, abbastanza chiaramente, che il principe deve essere amato dai sudditi per poter vivere al sicuro. La subordinazione del problema del consenso a quello della sicurezza è più evidente nel passo in cui è citato il precetto senecano ripreso anche da Petrarca. Infatti, quando Pontano invita il principe ad amare per essere amato, dice che: Chi ama qualcuno, infatti, desidera che questi, se è possibile, viva in perpetuo e nessuno ha meno bisogno di un esercito [di chi è profondamente amato], sebbene non so se vi sia qualcuno che possiede truppe più numerose di colui che è profondamente amato. [...] Per conservare poi, e accrescere ogni giorno di più l’amore di coloro con cui tu hai stretto rapporti di familiarità e di coloro che hai come amici intimi vale moltissimo il fatto che essi sentano di essere amati da te. Questo, infatti, è un detto antico e prudente: «Se vuoi essere amato, ama». Crederanno di essere amati soprattutto
se sentiranno che tu gioisci delle loro fortune e ti addolori assai delle loro avversità92, 62 De principe, par. 35, p. 41. Il corsivo è mio. Ho modificato la traduzione propo-
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Il principe deve amare i sudditi perché il suo potere è stabile solo se si fonda sull’amore: questo passo potrebbe essere citato a conferma della tesi di Skinner secondo la quale l’insistenza sulla sicurezza del principe è una delle caratteristiche che distinguono gli specula quattrocenteschi dagli specula medioevali63. Poiché Pontano non invita il principe ad amare, ma ad amare per essere amato, l’affetto, o caritas, che deve regnare tra il principe ed i sudditi non è gratuito e disinteressato: è un sentimento finalizzato all’ottenimento del consenso. Quando, infatti, sostiene che il principe che ama i suoi sudditi ed è a sua volta amato da loro non ha bisogno di nessun esercito, l’amore di cui parla Pontano non sembra tanto un dovere morale, quanto piuttosto una strategia politica suggerita dalla prudenza®4. Consigliando al principe di essere amato prima di tutto dalle persone che gli sono più vicine e dalle persone che considera più intime, Pontano introduce sulla scena la figura degli amici del principe. Per comprendere quale sia la funzione politica dell’amicizia, si deve considerare che gli amici mediano il rapporto del | principe con i sudditi e rendono più stabile il suo potere. Nel passo appena citato, Pontano sembra riprendere le parole con cui Palmieri sostiene che gli amici sono la miglior difesa del regno. L’assonanza tra il De principe e la Vita civile si percepisce ancora
più chiaramente quando Pontano propone Ciro come esempio da
sta da Cappelli, per gli stessi motivi messi in evidenza nella nota 60. Questo il testo latino del passo citato: «Quem enim quisque amat, eum, si fieri possit, vivere in perpetuo expetit nullique minus exerictus opus est, quamquam haud scio an illi maiores sint copiae quam ei qui plurimum ametur. [...] Ad conservandum autem et magis indies augendum familiarium et eorum quos intimos habeas amorem illud maxime valet, ut amari se abs te intelligant. Vetus enim est et prudens: “Si vis amari, ama”, quod ex eo potissimum iudicabunt, si secundis rebus suis senserint te laetari, dolere plurimum adversis». Pontano cita la nona lettera di Seneca a Lucilio: Seneca, Lettere morali a Lucilio, cit., pp. 34-35. Per quanto riguarda la tesi secondo la quale il principe non ha bisogno di eserciti, se è amato dai sudditi, come nota Cappelli, Pontano potrebbe riferirsi al Bellum Iugurthinum di Sallustio, al De regno di Dione Crisostomo, all’orazione Ad Nicoclem di Isocrate, al Panegirico a Traiano di Plinio, oppure al De clementia di Seneca: è una tesi assai diffusa e molto comune. 63 Skinner, Le origini del pensiero moderno, cit., pp. 221-222. 64 Il precetto di Seneca è definito «prudens».
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imitare al duca di Calabria. Riferendosi alla Ciropedia di Senofonte, infatti, dice che: Quel Ciro, che vorrei tu imitassi più di tutti, in un periodo in cui non poteva esercitare la sua liberalità a causa della povertà, cercava di ottenere con la propria umanità la benevolenza dei suoi: infatti, nel lavoro era accanto a loro come aiuto e compagno di fatiche. E invero, dopo che si fu impadronito del regno di Assiria, non trascurò di esercitare alcuna forma di liberalità verso di loro, poiché riteneva che i suoi tesori fossero non il denaro ma gli amici, per i quali aveva raccolto un cumulo di ricchezze. Peraltro non solo gioiva dell’abbondanza delle persone con cui aveva stretto rapporti di familiarità e di quella degli amici, ma anche dell’abbondanza di ciascuno dei suoi sudditi, al punto che diceva che è dovere di un buon re, anzi una necessità, rendere felici anche le popolazioni.
Ciro è indicato come modello dell’ottimo principe in virtù dell’umanità che mostra nei confronti delle persone con cui ha rapporti intimi e familiari oltre che nei confronti degli amici. Come Petrarca, Vicini, Platina e Patrizi, in questo passo, Pontano
mostra che il buon principe è il principe che ha degli amici, il principe che si comporta in modo benevolo e generoso perché sa che l’amicizia è un tesoro più prezioso delle ricchezze e più importante degli eserciti. Sostenendo che un buon principe non deve preoccuparsi solo della felicità degli amici, Pontano colora delle sfumature dell’amicizia il rapporto che unisce il principe ai sudditi. Commentando il passo citato, Cappelli sostiene che «Pontano fonde il concetto della mutua caritas verso i familiares con quello dell’amicizia verso i soggetti più vicini al principe, subendo l’influsso della teoria aristotelica della philia»$9. Non 65 De principe, par 38, p. 43. Il corsivo è mio. Ho modificato la traduzione di Cappelli per le ragioni precedentemente indicate. Riporto anche il passo in latino: «Cyrus hic, quem imitari te maxime cupio, qua tempestate ob inopiam liberalitate uti minime poterat, benivolentiam suorum hbumanitate conabatur assequi, quippe quibus etiam in faciundo opere adiutor adesse ac laborum socius. Nam postea quam Regno Assyriae potitus est, nullum in eos liberalitatis genus exercere praetermisit, cum non pecunia sed amicos quibus ipse plurimum contulisset divitiarum, suos esse thesauros duceret; quamquam non modo familiares et amicos, sed e subiectis unumquemque, adeo laetatur copia rerum abundare ut boni regis proprium officium, quin et opus esse, diceret etiam civitates beatas efficere». 66 De principe, p. 41, nota.
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bisogna, però, ignorare che Pontano, ancora una volta, menziona
gli amici prima dei sudditi: come già sottolineato, il rapporto d’amore che lega il principe ai sudditi è un rapporto mediato e indiretto, una prosecuzione e una continuazione dei rapporti che il principe stringe con i familiares e gli intimi piuttosto che una vera e propria forma di amicizia.
Per fare un po’ di chiarezza, vorrei provare a mostrare perché la relazione tra il principe e i sudditi non può essere una vera e propria forma di amicizia. Credo, infatti, che si debba tener presente che
l’influsso della teoria aristotelica della philia si sovrappone a quello esercitato dalla Ciropedia. L'amicizia sembra una relazione più intima e personale di quella descritta nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea proprio perché gli amici di cui parla Pontano sono i compagni con cui Ciro ha condiviso le fatiche della guerra, i cavalieri più fedeli e più coraggiosi a cui è legato da un affetto sincero. Nonostante il rapporto d’amore esistente tra il principe e i sudditi si colori delle sfumature dell’amicizia, questa relazione non ha valore politico perché è il fondamento e il modello del legame sociale. Mi sembra, infatti, che la posizione di Pontano sia molto diversa da quella di Palmieri, sebbene sostengano entrambi che gli amici sono la miglior difesa del regno: nel De principe l’amicizia non è la relazione che unisce il principe ai sudditi, ma il legame che unisce il principe a quei sudditi particolari che sono intimi e vicini a lui come gli amici di Ciro. Leggibile tra le righe della riflessione sin da quando è citato il precetto di Seneca che invita il principe ad amare gli intimi e i familiares per poter essere amato da tutti i sudditi, la contrazione dello spazio politico dell'amicizia diventa particolarmente evidente quando Pontano parla degli amici di Ciro come dei suoi, chiamandoli socîi. La funzione politica degli amici del principe sembra essere chiarita dalla contrapposizione tra principi e tiranni: mentre il buon principe personificato da Ciro considera gli amici un tesoro più prezioso delle ricchezze, i tiranni non possono fidarsi neppure dei parenti più stretti, dei loro figli e delle loro mogli. Menzio-
nando tiranni antichi che le opere di Cicerone e Valerio Massimo hanno reso esempi canonici, Pontano ricorda che Massinissa affi-
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dava la custodia del suo corpo ai cani, Alessandro di Fere faceva perquisire la stanza della moglie alle guardie del corpo, mentre Dioniso di Siracusa si faceva radere con un carbone ardente per la paura che le figlie potessero sgozzarlo*”. Questi esempi mostrano che il tiranno non è solo il principe disumano, avido, superbo e crudele che fa vivere i sudditi nell’angoscia e nella paura, ma anche e soprattutto il principe che non può stringere con nessuno rapporti basati sulla fiducia98. A differenza di Tommaso (e di Platina), Pontano non sostiene espressamente che il tiranno non può avere amici, ma è chiaro che le guardie armate con cui i tiranni girano per la città sono l’opposto dell’esercito di cui non ha bisogno l’ottimo principe. Un buon principe non si distingue da un tiranno solo perché può fidarsi delle persone con cui è in relazione ed è circondato da amici, ma anche perché premia le persone più virtuose. Questa differenza tra il principe e il tiranno rivela il valore politico dell'amicizia, permettendo di chiarire meglio chi siano gli amici del principe. Per invitare il duca a riconoscere i meriti dei sudditi come si conviene, Pontano riprende l’immagine sallustiana della virtus formidolosa, e dice che: È certo opinione antica, e non priva di autorità né di conferma, che l’altrui virtù è sempre fonte di timore per i re. E se la loro cura per la virtù fosse grande quanto le ricompense con cui talvolta premiano individui poco raccomandabili, certo gli stati dei re vivrebbero più pacificamente e non dovremmo assistere a sovvertimenti dell’ordine e persino al frequente passaggio dei regni stessi a degli sconosciuti, con la cacciata dei legittimi signori. Ragion per cui, giacché spetta a te la successione del Regno, ti esorto caldamente a imparare a seguire fin da bambino l’esempio di tuo padre e di tuo nonno, e ad avvezzarti a frequentare gli uomini più stimati e dotati di virtù.
67 De principe, par. 41, pp. 47-49: nel proporre questi esempi Pontano segue l’ordine del De dictis factisque memorabilibus di Valerio Massimo (Massimo, Detti e fatti memorabili, cit., pp. 348-363). 68 Per quanto riguarda la disumanità, l’avidità, la superbia e la crudeltà del tiranno vd. De principe, parr. 38-39, pp. 43-45. 69 De principe, par. 42, p. 49. Il corsivo è mio. Riporto anche il passo in latino: «Vetus etiam sententia est nec auctoritate carens nec eventu: alienam virtutem regibus semper esse formidolosam. Quibus, si tanta esset cura virtutis quantis praemis
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Ponendo ancora una volta l’accento sulla sicurezza e la stabilità del potere, Pontano invita il principe che salirà sul trono del Regno di Napoli a seguire l’esempio del padre e degli antenati, scegliendo di frequentare gli uomini più stimati e più dotati di virtù. Se si volessero usare le parole di Vicini, si potrebbe dire che gli amici del principe sono i boni viri. Visto che il paragrafo da cui è preso il passo citato si conclude con il racconto di un aneddoto relativo al Panormita teso ad esaltare il valore della virtù, continuando ad usare le parole di Vicini, si potrebbe anche affermare che gli amici del principe sono gli studiosi7°. È scontato che il principe debba frequentare i boni viri e gli intellettuali di corte per diventare più virtuoso, perché si è detto più volte che gli umanisti sono animati dalla speranza di potere educare i principi. Non è altrettanto banale, invece, che il principe riconosca i meriti degli uomini più stimati e più virtuosi frequentandoli. È ancora meno evidente, poi, che il principe non debba frequentare gli uomini più stimati e più virtuosi solo per riconoscere il loro valore, ma anche per veder pubblicamente riconosciuto il proprio potere. Segno del rapporto esistente tra cultura e potere, il circolo virtuoso che si crea attraverso questo duplice riconoscimento emerge ancor più chiaramente quando Pontano farà il nome di un umanista famosissimo. Ricorda, infatti, al suo educando che Lorenzo Valla è riuscito a procurare al pontefice Niccolò V la fama di uomo amante della virtù con lo studio del greco. Poco prima di fare il nome di Valla, ma dopo aver già fatto il nome di Panormita, Pontano afferma, inoltre, che:
minus bonos interdum prosequuntur, profecto regum res quietius haberent nec misceri eas cerneremus aut regna ipsa, pulsis iustis dominis, ad ignotos non raro transferri. Quamobrem, quoniam regni Neapolitani et ampli et opulenti successio ad te pertinet, hortor ac moneo uti, paterna avitaque vestigia, eum te a puero instituas, ut probatissi-
mos quosque et virtute praeditos complecti assuescas». Per quanto riguarda il rispetto della meritocrazia, oltre a De institutione, pp. 68-71, vd. anche Platina, pp. 72-75, in cui, come si vedrà nel prossimo capitolo, Platina identifica nobiltà e virtù per spiegare chi sia degno dell’amicizia del principe. 70 De principe, par. 42, p. 51.
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La prima speranza, pertanto, che devi far sorgere al popolo sul tuo conto (e questo senza dubbio lo fai) deve essere che tu ti diletti della consuetudine degli uomini più valenti: vedendo ciò spererà che tu sia colui nel quale sono riposte le ricompense per la virtù, e questa aspettativa nei tuoi riguardi la stimolerai e l’accrescerai di giorno in giorno, se il popolo constaterà che quanto più uno avrà fama di possedere la virtù, in tanto maggior pregio sarà tenuto da te?!
Mostrando al duca che un buon principe deve far credere alla gente di dilettarsi della compagnia degli uomini più valenti per avere fama di uomo amante della virtù presso il popolo, Pontano descrive il rapporto tra il principe e gli uomini migliori (prestantissimi) come un rapporto di amicizia. Credo, infatti, che possano essere considerati elementi caratteristici dell’amicizia sia il piacere che deriva dalla frequentazione (dilectari) degli uomini più virtuosi, sia la consuetudine del rapporto (consuetudo) che il principe stringe con loro. Si chiarisce così che gli amici del principe non sono tutti i sudditi, ma i sudditi più virtuosi e più saggi: i funzionari di corte e gli umanisti, come Valla e Panormita. Invitando il giovane erede al trono a trattare questi sudditi come amici e ad ammetterli nella cerchia dei familiares per avere la fama di principe amante della virtù, Pontano spiega perché l’amore del principe si rivolge a pochi, ma si diffonde su tutti: il rapporto intimo e personale del principe con i boni viri e gli studiosi media il rapporto coi sudditi generando consenso, consolidando il potere del principe. Per questo, anche se i funzionari e gli umanisti di corte sono pochi e intimi come i soldati amici di Ciro, il rapporto tra il principe e tutti i sudditi può essere descritto, ed è descritto, con i toni e i colori dell’amicizia. Ponendo l’accento sulle aspettative e sulle speranze che l’amicizia tra il principe e gli uomini più meritevoli genera nel popolo 71 De principe, par. 43, pp. 51-53. Il corsivo è mio. Riporto anche il passo in latino: «Prima igitur spes quam polliceri de te populis debes (quod quidem facies) illa sit, ut delectari te praestantissimorum nomine consuetudine intelligant; quod cernentes sperabunt futurum te eum in quo sint reposita virtutibus praemia, quam tui expectationem magis magisque in dies et concitabis et augebis siguo maiorem quis virtutis opinionem praebuerit, hoc illum in honore maiore haberi abs te cognoverint». Valla è menzionato come esempio alla fine di questo paragrafo.
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piuttosto che sul valore effettivo della relazione, Pontano non consiglia al principe di stringere rapporti utilitaristici e strumentali. Credo, infatti, che lo iato tra apparenza e realtà che emerge dal passo citato non sia un invito alla dissimulazione, bensì un segno della consapevolezza con cui l’autore del De principe sostiene la politica culturale attuata dai sovrani aragonesi. Pontano consiglia al futuro re di Napoli di frequentare gli uomini più virtuosi e più saggi perché sa che i principi del Regno hanno rafforzato e consolidato il loro potere affidando incarichi politici agli umanisti, scegliendo i sudditi più virtuosi e più saggi come funzionari. Mentre espone questi consigli al duca di Calabria, sa anche di essere uno degli amici del principe: il suo nome potrebbe essere aggiunto come esempio accanto a quelli di Valla e di Panormita. Pontano insiste sul merito molto meno di quanto non abbia insistito Vicini e di quanto non farà Platina nella sua riflessione sulla nobiltà, perché non deve convincere il principe a scegliere come consiglieri e collaboratori gli umanisti e gli uomini di cultura, ma solo ricordargli di continuare a seguire l’esempio dei predecessori. Il valore politico dell'amicizia non è per questo più debole. Per rendersene conto, basta rileggere con attenzione il passo in cui Pontano mostra che non premiando e non riconoscendo i meriti dei sudditi più virtuosi, il futuro re di Napoli rischia di perdere non solo la pace, ma il regno intero”. Si tratta di un pericolo notevole, perché incombe anche sui sovrani legittimi (iusti domini), se non rispettano il merito e non frequentano gli uomini più sapienti e più virtuosi. Ricordando che il De principe è stato scritto non appena Ferrante d'Aragona ha difeso l’ordine del regno dagli attacchi dei baroni e degli angioini, ed è rivolto a colui che è stato appena designato come legittimo erede al trono, dovrebbe essere chiaro che è anche molto attuale. Come si dovrebbe evincere da queste considerazioni, quando invita il principe a riconoscere i meriti dei migliori e lo esorta a cercare la compagnia degli intellettuali, Pontano non pronuncia 72 De principe, par. 42, p. 49.
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un appello retorico alla virtù: lancia, invece, un monito in difesa dell’aristocrazia intellettuale e della classe dirigente del regno. Così facendo, mostra che l’amicizia ha valore politico perché è la relazione con cui il principe deve esercitare ed amministrare il potere. Quasi sessanta anni dopo il De institutione, l'amicizia non è più la relazione mediante la quale avviene la selezione dell’élite di governo, ma il rapporto con cui si difende la funzione politica che è riconosciuta agli umanisti del Regno. Amicizia e maiestas: la comitas del principe Come si è visto analizzando il passo in cui Pontano colora il tema della mutua caritas delle sfumature dell’amicizia, invitando il
principe ad imitare la liberalità e l’umanità di Ciro verso i soldati, l’ottimo principe deve essere un principe umano, disponibile, liberale e benevolo. Si è gia evidenziato che insieme al contegno (gravitas) ed alla fermezza (constantia) che generano l’ammira-
zione del popolo (admiratio), la disponibilità (facilitas), l’affabilità (comitas), la benevolenza (benignitas) e la liberalità (liberalitas)
sono componenti fondamentali della maiestas: l’atteggiamento che il principe deve avere nei confronti dei sudditi tanto in pubblico quanto in privato?3. Si deve ora evidenziare che quando Pontano completa il ritratto dell’ottimo principe consigliando al futuro re di Napoli come mostrare tutta la sua maestà, invita il duca di Calabria ad essere un paterfamilias, un giudice, un moderatore, ed un protettore (patronus) per i cittadini74. Sostenendo ciò, continua
73 De principe, parr. 46-47, pp. 55-57; par. 48, p. 59; par. 52, p. 63; parr. 54-55, p. 64; par. 60, pp. 69-71; par. 62, p. 73.
74 De principe, par. 50, p. 61: «Quando sei presente ti comporterai verso i cittadini in modo che essi avvertano che nelle loro necessità tu sei un capofamiglia, nell’applicazione del diritto un giudice, nelle controversie e nelle discordie civili un moderatore: rallegrandoti delle loro fortune, dolendoti delle loro avversità e sforzandoti di respingere con tutte le forze i pericoli e la violenza; infine comportati in modo che essi comprendano che tu, sia assente sia presente, hai a cuore le loro fortune, affinché ti rispettino come loro signore e ti amino come loro protettore».
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a descrivere il rapporto tra il principe e i sudditi come un rapporto basato sull’affetto e sull’amore. Tale descrizione è caratterizzata da continui richiami alla affabilità o comitas, con cui Pontano raccomanda al principe di essere affabile e amichevole verso tutti: sudditi, familiares, cortigiani (aulici), ospiti, ambasciatori e stranieri; sia in pubblico sia in privato”5. Questi consigli non sembrano degni di nota solo perché declinano il tema della mutua caritas dal punto di vista della maiestas, ma anche perché mostrano che l’amicizia nei confronti dei sudditi è semplicemente un atteggiamento amichevole. Per rendersi conto che l’amicizia che si nasconde dietro alla comitas è una forma di gentilezza e di cortesia ben diversa dall’amicizia che unisce il principe ai sudditi più virtuosi, può essere utile volgere lo sguardo verso il De sermone. Pontano compone quest’opera nel 1498, quando si è ormai
ritirato dalla scena politica, mentre guarda, sconvolto da numerosi lutti privati, gli eserciti stranieri che vagano per l’Italia76. Il De sermone è un trattato sulla conversazione arguta e l’institutio dell’uomo faceto: Pontano analizza le virtù e i vizi della conversazione civile ed urbana, il discorso teso a creare piacere e sollievo dagli affanni, rielaborando il mito dell’ozio e della vita perfetta nell’orizzonte di un’armoniosa ed eletta vita associata”. Non 75 De principe, par. 48, p. 58: il principe deve mostrarsi docile e disponibile con gli ambasciatori; par. 50, p. 61: il principe deve prendersi cura dei sudditi per essere amato da loro; par. 52, p. 64: il principe deve essere disponibile e benevolo con gli stranieri; par. 54, p. 65: il principe deve essere benevolo e affabile con gli ospiti; par. 60, p. 71: il principe deve essere affabile con i familiares e gli aulici; par. 62, p. 73: il principe deve dedicarsi a tutti i sudditi, non solo ad uno. 76 Per la datazione dell’opera ed il contesto in cui è stata scritta vd. A. Mantovani, Introduzione, in G. Pontano, De sermone, Roma, Carocci, 2004. D’ora in poi, citerò
questa opera di Pontano semplicemente come De sermone. 77 Vd. quanto dice Pontano nella lettera dedicatoria dell’opera (De sermone, pp. 71-73): «Pertanto, mentre gli eserciti francesi percorrono, per non dire devastano, l’Italia e da una parte proprio i francesi, dall’altra gli spagnoli occupano il regno di Napoli, abbiamo del tutto distolto animo e mente dalle grandissime sofferenze che ci fanno a ragione vacillare e, cosa che forse può stupire, ci siamo rivolti a scrivere delle virtù e dei vizi che si danno nel discorso; non però quello oratorio o poetico, ma quello che persegue la ricreazione dell'animo e le cosiddette facezie, cioè il rapporto per così dire civile e urbano e le riunioni private degli uomini quando si raccolgono non solo per un
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intendo esaminare in modo dettagliato un’opera così complessa e anomala, che ha suscitato pareri critici discordanti qual è il De sermone?8. Tuttavia, per mostrare quale tipo di amicizia si nasconda dietro alla comitas del principe, bisogna almeno precisare che nei primi tre libri sono aristotelicamente definite le virtù della conversazione festevole e domestica che saranno poi illustrate con gli esempi di sermo faceto proposti negli ultimi tre libri. Tutta la riflessione di Pontano poggia su due premesse: una, di chiara derivazione aristotelica, che evidenzia il legame intrinseco tra parola, ragione e società; l’altra, di natura antropologica, che pone in evidenza la necessità del gioco (iocus) e del riposo (requies), due caratteristiche del linguaggio civile ed urbano??. Attraverso
progressive precisazioni terminologiche,
basate su
analogie e sovrapposizioni, Pontano arriva a definire l’ambito che è proprio delle arguzia (lepos) e della verità (veritas).
Tra l’arte della conversazione faceta e la parola veridica, garante di civiltà, vi è spazio per una terza virtù, un abito morale intermedio tra l’adulazione servile e la polemica gratuita. È la virtù senza nome che Aristotele assimilò alla philia ed Egidio Romano chiamò amicabilitas8°. Come nota Pontano: Che però questa virtù non sia amicizia, benché non sia molto dissimile da essa, lo dimostra il fatto che l’attenzione dell’amico è verso l’amico e che
tra amici l’amore è reciproco, reciproca anche l’affezione, reciproco il contributo all’utilità di entrambi e il desiderio di farsi cosa gradita e che l’amico è — come tutti ammettono — un altro se stesso. Ma costui, che abbiamo detto
fine pratico ma per il piacere e il ristoro dalle fatiche e dagli affanni». 78 Oltre al celebre giudizio di Burckhardt, che pur riconoscendo lo sforzo teorico di Pontano metteva in luce sia l’insufficienza speculativa sia l’incoerenza strutturale di quest'opera (J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1980, pp. 151 sgg.) si vedano anche il parere espresso da De Robertis, che considerava il De sermone un esempio poco originale dell’eclettismo stoico-aristotelico dell’etica pontaniana (R. De Robertis, L'esperienza poetica del Quattrocento, in E. Cecchi e N.
Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1966, vol. III, pp. 678 sgg.). Tateo riconosce, invece, la coerenza metodologica del De sermone, accostando quest’opera ai trattati sulle virtù sociali composti da Pontano: Tateo, L’Umanesimo etico di Giovanni Pontano, cit., pp. 94-108 e 150-155. 73 De sermone, pp. 74-83. 80 Mantovani, Introduzione, cit., p. 20.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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è senza un suo nome, non è spinto nei confronti dello straniero di passaggio, del concittadino più illustre o infimo, noto o sconosciuto, da benevolenza e dallo stesso amore reciproco, bensì da un moto naturale dell’animo, e dal fatto che è stato plasmato così dalla natura e si è formato da sé attraverso l’abitudine in modo da essere gradito a tutti, molesto invero a nessuno,
evitando di opporsi agli altri con sfacciataggine e ostinazione, anzi, come non vuole adulare e rifiuta di litigare e seminare discordie, così si sforza di esercitare in mezzo a tutti uffici intermedi tra i due estremi, memore in primo
luogo dell’umanità e amante della stirpe degli uomini e del vincolo sociale e dell’obbligo reciproco instillato dalla natura. Da ciò deriva che quest'uomo sia, al tempo stesso, cittadino probo, amico dell’uomo, gradito e piacevole sia alla collettività in situazioni pubbliche che ai singoli nel privato, molesto invero a nessuno, e sarà tale nelle relazioni e nella vita sociale da rendersi ugualmente gradito agli indulgenti e ai severi, agli allegri e ai tristi, a chi è mansueto e ugualmente a chi è un po’ più rigido [...]8!.
Dando prova chiara del proprio eclettismo etico, Pontano fornisce una descrizione del vincolo sociale che lega tutti gli esseri umani che ha echi stoici, e si riferisce, allo stesso tempo, a quel passo del quarto libro dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele sostiene che c’è una virtù senza nome che è simile, ma non iden-
tica, all'amicizia. Richiamando alla mente la descrizione della philia che Aristotele espone nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea sottolinea che questa virtù senza nome non è iden81 De sermone, pp. 151-153. Il corsivo è mio. La traduzione di questo e degli altri passi citati è quella di Mantovani. Riporto anche il passo in latino: «Virtutem vero hanc non esse amicitiam, quamvis sit ei non parum similis, illud docet, quod amici officium est in amicum, quodque mutuus inter amicos est amor, mutuum etiam studium, mutua
utilitatum collatio expetitioque gratificandi, quodque amicus est alter ego, ut omnes consentiunt. At hic ipse, quem sine nomine esse dicimus, non movetur in peregrinum advenam, summum vel infimum civem, notum ignotumve, benevolentiae atque amoris mutuique ipsius gratia, sed naturali quadam commotione, quodque ita suapte natura institutus sit eumque se ipse assuescendo comparaverit, ut qui gratus esse omnibus velit, molesto vero nulli aut imprudenter contentioseque adversari, quin ut assentari minime vult recusatque altercari ac rixas serere, sic media inter utrumque officia inter omnes exercere nititur, humanitatis precipue memor generisque hominum studiosu eorumque societatis et insiti natura officii. Quo fit, idem bonus ut sit vir, civis probus, homo hominis amicus, gratus ac iucundus et simul cunctis publice et privatim singulis, molestus vero nemini; quique în conversationibus vitaque sociabili cum se geret, ut lenibus pariter gratus sit ac severis, iucundis aeque ac tristibus, mansuetus item ac duriusculis [...]». Si confronti questo passo con EN, IV, 1126b 10-1127a 13, pp. 156-159 e con De regimine principum, libro I, pars II, cap. XVII, pp. 132-133.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
tica all’amicizia perché essa è un rapporto intimo e personale che
porta a considerare l’amico come un altro se stesso, non un’inclinazione naturale che spinge ad essere graditi a tutti gli uomini, siano essi stranieri e sconosciuti, protagonisti della vita della città oppure infimi cittadini. Segue fedelmente Aristotele nel descrivere questa virtù senza nome come uno stato intermedio tra l’adulazione e la litigiosità, che deve mirare a compiacere l’interlocutore. Tuttavia, identifica questa virtù senza nome con l’affabilità, o comitas, in modo molto più chiaro di quanto non faccia Aristotele. Pontano dice, infatti, che: Peraltro a chi indaga e ricerca con conveniente penetrazione quali siano
gli uffici e i doveri di questa virtù, apparirà forse che essa sia quella affabilità di cui abbiamo parlato a lungo non molto tempo addietro, poiché l’affabilità, nella sua essenza, riguarda tutti, non pochi: stranieri e sconosciuti, non
solo cittadini e conoscenti e familiari, né solo gli uguali e quelli dello stesso rango, ma anche la gente comune e chi si trova ai più alti livelli; essa si manifesta nelle parole e nelle conversazioni e cerca di dilettare e compiacere e non arrecare alcun fastidio, ma non si discosta dall’onesto e dall’utile82.
Amicizia e comitas appaiono strettamente legate tra loro, ma
il passo citato mostra chiaramente che la comitas non rimanda alla philia descritta nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea, bensì a quella virtù simile alla philia, ma non identica ad essa, che è descritta nel quarto libro. L'amicizia che si nasconde dietro all’affabilità ed alla comitas del principe, allora, è una relazione più estesa e più superficiale della philia, meno intima e meno
82 De sermone, p. 157. Il corsivo è mio. Riporto anche il passo in latino: «Coeterum recte inquirenti ac perscrutanti acutius, quae virtutis huius partes sin hac munera,
apparebit fortasse eam esse comitatem, de qua non pauca haud multo ante dicta sunt a nobis, quando comitas ipsa communis est ad omnes, non ad paucos: ad exteros et ignotosque, non tantum ad cives ac cognitos ac familiares, neque modo ad aequales atque eiusdem ordinis, verum ad ignobiles atque in excelso gradu constitutos; versataque in verbis ac collocutionibus, studetque oblectare atque in gratiam loqui, minimique molestiam afferre, neque ab honesto recedit atque utili». Ricordo che l’identificazione tra questa virtù senza nome, simile ma non identica alla philia, e l’affabilità non è introdotta da Aristotele, ma dai commentatori dell’Etica Nicomachea. Come si è visto analizzando il De regimine principum, anche Egidio Romano parla di amicabilitas sive affabilitas.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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profonda. È un’amicizia fatta di gesti e di parole, che non mira al perfezionamento morale dei soggetti coinvolti nella relazione. Più che una vera e propria amicizia, sembra essere semplicemente
un atteggiamento amichevole e cordiale. Non è la teleia philia aristotelica (né la vera amicizia ciceroniana che, come si è visto, è riconducibile ad essa), ma una forma di cortesia e di gentilezza.
Prima di identificare la virtù senza nome di cui parla Aristotele con la comitas, Pontano si riferisce ad alcuni passi delle Satire di Giovenale, mostrando così che è la virtù che rende capaci di usare misura e prudenza nel parlare agli uomini di potere83. Sembra, quindi, che il contesto in cui si manifesta la comitas sia soprattutto quello della corte. Nel De Sermone l’uomo affabile è il cortigiano che non deve eccedere nel compiacere e nell’elogiare il principe né nel pronunciare parole che possano generare indignazione ed odio. Sembra possibile accostare il principe, che dà prova della sua maiestas mostrandosi gentile e amichevole, all’uomo affabile, che è descritto nel De sermone, perché Pontano presenta la persona capace di praticare la virtù della comitas anche con i tratti del cittadino benevolo (cives benevolus), del consigliere prudente, dell’uomo onesto (vir bonus), del censore (cersor) e del maestro (institutor)84. L’umanista propone, inoltre, esempi che sono analoghi all’esempio di Ciro con cui invitava il duca di Calabria a trattare con umanità e liberalità gli amici. Dice, infatti, che: Anche Livio, per non citare altri scrittori, ci dimostra con sufficiente
chiarezza e in moltissimi luoghi che l’uomo affabile è dolce nelle relazioni e nell’intimità familiare e assai condiscendente e mite e attento a conciliarsi coloro con cui ha rapporti di familiarità, per penetrare, se così si può dire, nei loro animi. Vediamo dunque di grazia, che cosa dice lo stesso Livio di Marco Valerio Corvino: «Mai altro capitano fu in maggior dimestichezza con i soldati; si sottoponeva volentieri a tutte le fatiche tra i gregari più umili, prendeva parte cameratescamente ai giochi militari quando si facevano gare
83 De sermone, p. 155. Si noti che i versi di Giovenale citati da Pontano riprendono il topos del tiranno senza amici; consigliano inoltre a chi si trova ad essere amico di un tiranno di «non remare contro corrente». 84 De sermone, pp. 156-158.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
di velocità e forza; vincitore o vinto, manteneva la stessa serenità, né disdegnava alcun avversario che gli si presentasse. Riconosci la sua disponibilità a cedere, l’espressione del volto che non rivelava alcuna alterazione al di là di quanto potesse darne segno e anche quali parole usava e oltre a ciò, un
cameratismo così sincero che non disprezzava, lui che era il comandante, la
sfida di un qualsiasi soldato nel lancio del giavellotto, nella equitazione, nella corsa8!.
Questi esempi mostrano chiaramente che la comitas coincide con l’atteggiamento amichevole che il superiore deve mostrare nei confronti di chi è inferiore, ed è un insieme di gesti e di parole che denotano familiarità e disponibilità, benevolenza e confidenza. Come si è già detto, dietro alla comitas non si nasconde un’amicizia intima e profonda, ma un’amicizia che si addice ai colloqui, agli incontri e alle conversazioni, alle viste e ai saluti, alle chiacchiere ed alle cene, ai matrimoni e agli spettacoli, oltre
che a tutte le occasioni giocose e rilassanti86. Mentre il sostrato aristotelico su cui si basa il De regimine principum consente di vedere nell’amicabilitas di cui parla Egidio Romano una virtù che esprime la natura politica e sociale dell’uomo, animal politicum et communicativum8”, la comitas che Pontano descrive è
un comportamento ed un atteggiamento esteriore molto simile alla «cortigiania», la virtù al centro delle riflessioni proposte da
85 De sermone, pp. 157-158. Il corsivo è mio. Riporto anche il testo latino, che è ancora più chiaro: «Livius quoque, alios ut praeteream scriptores, satis aperte pluribus
in locis nobis ostendit comem virum suavem esse in consuetudinibus ac familiaritatibus et facilem admodum ac lenem dantemque operam ut, quibuscum familiaritatem exercet atque consuetudinem, gratiam sibi eorum sic conciliet, ut tamquam influat in ipsorum animos. Itaque videamus, obsecro, quid ipse Livius de Marco Valerio Corvino loquatur: “Non alius militi familiarior dux fuit omnia inter infimos militos haud gravate munia obeundo. In ludo praeterea militari cum velocitatis viriumque aequales certamina ineunt, comiter facilis; vincere aut vinci vultu eodem nec quenquam aspernari parem qui se offertet”. Agnosce facilitatem eius ad cedendum minimeque esse conten-
tiosum vultum inusper qui indicio esse potest, quibus etiam uteretur verbis, ad haec et communitatem tantam illam quidem, ut dux ipse militem non aspernaretur quenquam concertatorem in iaculando, equitando, in cursu se exercendo».
86 De sermone, p. 163.
87 De regimine principum, libro I, pars Il, cap. XXVIII, p. 132 e libro II, cap. I, pp. 214-215.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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Castiglione nel Libro del cortegiano88. Come sottolineato nel secondo capitolo, le linee di continuità che sembrano unire gli specula quattrocenteschi agli specula medioevali sono anche, ed allo stesso tempo, dei punti di rottura: dal De regimine principum di Egidio Romano al De principe di Pontano l’amicizia continua a colorare con le sue sfumature il rapporto che deve regnare tra il principe ed i sudditi, ma non è più la relazione che funge da modello del legame sociale, perché è solamente una forma di cortesia e di gentilezza.
Volgendo lo sguardo al De sermone per capire quale amicizia si nasconda dietro alla comitas che deve contraddistinguere l’ottimo principe emerge un dato fondamentale: quanto più il valore politico dell’amicizia si gioca nello spazio del consiglio e a livello del rapporto intimo e personale con il principe, tanto più si
indebolisce il suo valore nello spazio del consenso, a livello del rapporto tra il principe ed i sudditi. Se questo è vero, sembra possibile individuare qual è la strada da percorrere per cercare di sciogliere uno dei punti di tensione presenti nella Vita civile. Come si è visto, infatti, Palmieri sembra rendersi conto che l’ami-
cizia è un rapporto intimo e personale, una relazione che non può essere facilmente estesa così tanto sino ad includere tutti i cittadini8?. Sembra, allora, che l’amicizia si sdoppi: da una parte vi è quel rapporto intimo e personale con il principe, che ha valore politico perché è un rapporto di potere e un rapporto con chi detiene il potere; dall’altra vi è la cortesia, la gentilezza e l’af-
fabilità che il principe deve mostrare a tutti i sudditi, siano essi familiares, cortigiani, ospiti della corte, ambasciatori o stranieri, tanto in pubblico quanto in privato. Questa amicizia consiste in
quell’atteggiamento amichevole che si identifica con la comitas. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, questo sdoppiarsi dell’amicizia, che è connesso al tema della maiestas, sarà più esplicito nel De principe (e nel De optimo cive) di Platina.
88 Per l’accostamento tra cortigiania e comitas vd. Mantovani, Introduzione, cit., pp. 21-22. 89 Voc, p. 147.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
5.4 Conclusioni
Come si è cercato di mostrare, Pontano descrive il rapporto
che unisce il principe ai sudditi con i toni e i colori dell’amicizia. Riprende, infatti, la riflessione aristotelica sulla philia presente nell’ottavo e nel nono libro dell’Etica Nicomachea quando sviluppa il tema della mutua caritas, contrapponendo il principe al tiranno. Gioca, però, il valore politico dell’amicizia nello spazio del consiglio piuttosto che in quello del consenso, mostrando che il principe non è amico di tutti i sudditi, ma solo di alcuni sudditi particolari: i più sapienti ed i più virtuosi, gli umanisti e gli intellettuali di corte, quelli che Vicini chiamerebbe boni viri e studiosi. Come si è cercato di mettere in luce, questa concezione dell’amicizia dipende da diversi fattori. Nel regno di Napoli, il rapporto tra cultura e potere è più articolato e più definito di quanto non fosse nella città di Fabriano. Inoltre, i sovrani aragonesi mettono in atto una precisa politica culturale per consolidare il loro potere, affidando incarichi e missioni politiche agli umanisti: come è stato evidenziato, Pontano è uno dei funzionari
e degli intellettuali di corte. Sebbene sia meno problematica ed articolata di quella proposta da Vicini, la riflessione si Pontano sull’amicizia è altrettanto significativa. Scrivendo il De principe quasi sessanta anni dopo il De institutione, l’umanista non vede nell’amicizia il criterio per la selezione dell’élite di governo. Non crede neppure che questa sia la relazione che apre le porte della corte agli umanisti permettendo la loro ascesa sociale. Pontano si spinge oltre con la propria analisi: attribuisce valore politico all’amicizia perché invita il principe ad essere intimo amico degli intellettuali e dei funzionari di corte, difendendo il ruolo dell’aristocrazia intellettuale del
Regno e la cultura della sua “classe dirigente”. Riconosce il valore politico dell’amicizia soprattutto quando mostra che il rapporto tra il principe ed i sudditi è indiretto e mediato da quello con i familiares e con gli intimi: è l’amore che il principe deve riversare sulle persone con cui stringe relazioni di natura intima e personale a generare il consenso necessario per rafforzare il suo potere.
5. TRA MUTUA CARITAS E COMITAS: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI GIOVANNI PONTANO
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Questo amore si diffonde tra i sudditi quasi per moto proprio, facendo guadagnare al principe la fama di uomo amante della virtù. Come si è anticipato analizzando il De republica administranda di Petrarca, lo spazio politico dell’amicizia si contrae: il principe non deve amare tutti i sudditi per essere amato, ma solo alcuni di loro. Diventa, inoltre, uno spazio più intimo e personale, perché i familiares e gli intimi sono legati al principe da un rapporto che ha le caratteristiche della philia senofontea, non solo della philia aristotelica. Proprio perché lo spazio politico riservato all’amicizia si contrae, e la relazione è dotata di valore politico in quanto rapporto intimo e personale con chi detiene il potere, l’amicizia tende a sdoppiarsi. Il legame che unisce il principe ai suoi amici appare, infatti, molto diverso dal comportamento amichevole e affabile che il principe deve mostrare a tutti i sudditi ed a tutte le persone che entrano in relazione con lui, sia in pubblico sia in privato, dando così prova della propria maiestas. Come si è cercato di mostrare esaminando
brevemente il De sermone,
dietro alla comitas del principe si nasconde un’amicizia che non ha le caratteristiche della philia senofontea né quelle della philia aristotlelica. Si tratta di quella virtù senza nome di cui parla Aristotele nel quarto libro dell’Etica Nicomachea, che Egidio Romano definì amicabilitas. È un’amicizia superficiale ed esteriore, che può essere estesa sino ad includere tutti i sudditi, non un rapporto intimo e personale come quello che unisce il principe ai suoi amici. Non essendo più espressione della natura politica dell’uomo, questa amicizia non è altro che cortesia e gentilezza: è quella affabilità che Castiglione indicherà con il termine «cortigiania». Si tratta inoltre della stessa forma di cortesia e di gentilezza che ha premesso a Piero di diventare amico di tre principi. Come è emerso analizzando il quarto libro della Famiglia, a corte l’amicizia tende, infatti, ad esteriorizzarsi, a diventare un’arte e un codice di comportamento. Pontano colloca la propria riflessione sull’amicizia tra mutua caritas e comîtas, perché sostiene che l’ottimo principe deve essere amichevole con tutti i sudditi, ma mostra il valore poli-
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
tico dell’amicizia quando indica chi siano gli amici del principe. Come gli autori degli altri specula presi in esame in questo saggio, l’umanista riprende la concezione aristotelica della amicizia, ma la adatta alla realtà politica in cui vive, integrandola, o meglio sovrapponendola, a quella senofontea. A differenza dagli autori degli altri specula quattrocenteschi presi in considerazione, però, Pontano non si riferisce mai esplicitamente al Laelius di Cicerone per descrivere
l’amicizia.
Segue un percorso
prevalentemente
aristotelico. Arriva, comunque, ad identificare gli amici del principe con i sudditi più virtuosi, come ha fatto Vicini. Riesce altresì a mostrare che gli amici sono meglio degli eserciti per i principi, come farà anche Platina. Non assimila, però, la vera amicizia cice-
roniana all’amicizia in vista della virtù. Non menziona neppure l’amicizia di Lelio e Scipione come modello che il principe deve imitare, ma individua tipologie di amici del principe affini a quelle proposte nel De institutione. Inoltre, quando sviluppa il tema della maiestas, anticipa le tesi che sosterrà Platina nel De principe, mostrando che il principe non può essere amico di tutti i sudditi, anche se deve essere amichevole e affabile con tutti. Mi
sembra un dato particolarmente interessante: la via aristotelica e quella ciceroniana per il riconoscimento del valore politico dell’amicizia non devono necessariamente coincidere, e possono persino essere l’una alternativa all’altra. Tuttavia, sono strade che indicano la stessa meta.
Capitolo sesto Quales sint amici principum: l'amicizia nel De principe di Bartolomeo Sacchi detto Platina
6.1 Vita e opere di Platina Come nota Mitarotondo, la personalità, gli studi e le opere di Platina hanno un valore paradigmatico, anche se questi non è di certo un personaggio simbolo del Quattrocento come Alberti!. Nato nel 1421, a Piadena, un piccolo borgo del cremonese da cui deriva il nome Platina, l’umanista è noto soprattutto per aver scritto una raccolta di biografie di pontefici e per essere stato il bibliotecario di Sisto IV. Prima di diventare prefetto della Biblioteca vaticana, Platina ha avuto una vita abbastanza avventurosa: si è trasferito da Mantova a Firenze, da qui a Roma, la città in cui
è stato imprigionato per ben due volte. Poiché sia il De principe sia il De optimo cive non sono opere giovanili, credo che sia utile ricostruire alcuni momenti della vita del loro autore. Della giovinezza si sa solo che, dopo essere stato soldato di ventura per quasi quattro anni a servizio di Francesco Sforza e 1 L. Mitarotondo, Virtà del principe e virtù del cittadino. Umanesimo e politica in Bartolomeo Platina, Bari, Adriatica editrice, 2005, p. 82. Insieme al sesto volume de I prosatori latini del Quattrocento (E. Garin (a cura di), I prosatori latini del Quattrocento: Il Platina, Cristoforo Landino, Giovanni Pico della Mirandola, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952), il primo capitolo dello studio di Mitarotondo è la fonte principale dei cenni biografici proposti in questo paragrafo. Sulla vita e la produzione letteraria di Platina si veda anche L. Mitarotondo, Il profilo politico di un umanista: Bartolomeo Sacchi detto il Platina, in G. Carletti (a cura di), Prima di Machiavelli. Itinerari e linguaggi della politica tra il XIV e il XVI secolo, Pescara, ESA, 2007, pp. 197-213.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Niccolò Piccinino, Platina ha compiuto un prestigioso apprendistato sui classici, studiando con il maestro Ognibene da Lonigo. Questi era subentrato a Vittorino da Feltre, uno dei più famosi e apprezzati pedagogisti del Quattrocento, alla guida della Cà’ Giocosa, la scuola fondata a Mantova con l’aiuto di Francesco I Gonzaga (1423)?. Ricevuta un’adeguata formazione umanistica,
come Vittorino da Feltre e come Ognibene da Lonigo, anche Platina diventa precettore dei Gonzaga. Intorno al 1453 inizia ad educare agli studia humanitatis i figli del Marchese Ludovico: il giovane Federico, che è destinato a succedere al padre alla guida della città, e suo fratello Francesco, che intraprenderà, invece, la
carriera ecclesiastica. Proprio negli anni in cui è precettore dei figli del signore di Mantova, Platina inizia a comporre le proprie opere. Si tratta di scritti storici ed encomiastici, volti a celebrare la casata dei Gonzaga, come il Divi Ludovici Mantuae Marchionis Somnium, che termina nel 1456. La Historia mantuana (1469) e lo stesso De principe (1471) attestano che rimarrà legato per
tutta la vita alla potente famiglia mantovana, a cui si rivolgerà per ottenere aiuto e protezione nei momenti di bisogno.
I Gonzaga sostengono l’attività intellettuale di Platina: grazie all’impegno della moglie del Marchese, l’umanista riesce persino ad ottenere il salvacondotto necessario per recarsi in Grecia, a studiare la lingua dei poeti e dei filosofi antichi. Cambia la meta del proprio viaggio non appena viene a sapere che Giovanni Argiropulo ha abbandonato Costantinopoli ed è tornato a Firenze: Platina rimane nella città toscana dal 1457 al 1462, per imparare 2 Nonostante sia più conosciuta la biografia composta da Vespasiano da Bisticci
(V. da Bisticci, Le vite, ed. critica con intr. e commento di A. Greco, Firenze, Olschki, 1970), Platina è l’autore della prima biografia del fondatore della scuola mantovana: B. Platina, Vita di Vittorino da Feltre, a cura di G. Biasuz, Padova, Liviana, 1948. In
questa opera composta tra il 1462 e il 1465, Platina non si limita a ricostruire la vita del fondatore della Ca” Giocosa, ma espone anche i principi educativi che hanno ispirato l'insegnamento di Vittorino da Feltre ed indica i suoi più illustri discepoli. Sulla scuola mantovana di Vittorino da Feltre vd. N. Giannetto (a cura di), Vittorino da Feltre e la sua scuola: Umanesimo, pedagogia, arti, Firenze, Olschki, 1981, in particolare: Vittorino e il suo tempo: Umanesimo e pedagogia, pp. 13-150 e Vittorino e i suoi discepoli: incontri, vicende, fortuna, pp. 235-379.
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
379
il greco e frequentare le lezioni universitarie del dotto bizantino. Come è noto, infatti, nel 1457 Argiropulo accetta la cattedra di greco, letteratura e filosofia che gli era stata offerta più volte dalla famiglia de’ Medici3. Secondo Garin, Argiropulo è il fondatore del platonismo fiorentino. Sappiamo, però, che le sue lezioni universitarie avevano come oggetto la filosofia aristotelica: convinto che Aristotele fosse riuscito a ordinare le discipline trattate da Platone, Argiropulo tiene corsi sulla logica, la dialettica e l’etica aristotelica, per poi passare alla filosofia naturale ed alla metafisica. Tra gli studenti che ascoltano le sue lezioni vi sono personaggi ben più noti di Platina, tra cui si possono menzionare Lorenzo de’ Medici e Poliziano. Molti dei suoi studenti diventeranno membri dell’ Accademia platonica di Ficino®. Durante gli anni trascorsi nella città toscana, Platina non stringe legami solo con gli allievi di Argiropulo, ma riesce a conoscere e frequentare anche Cosimo e Piero de’ Medici. Entra, 3 Verso il 1457 Giovanni Argiropulo torna a Firenze, la città in cui si era tenuto il Concilio per l’unione della Chiesa latina e ortodossa a cui aveva preso parte insieme ad altri intellettuali bizantini. Alla fine degli ani Cinquanta Argiropulo è molto noto e conosciuto in Italia: dopo il Concilio, tra il 1441 e il 1444, vive a Padova, ospite dell’esule fiorentino Palla Strozzi, insegnando privatamente retorica greca e filosofia. La paga ingente che riceve accettando la cattedra di greco, letteratura e filosofia, che gli era stata proposta da tempo, grazie al sostegno di Donato Acciaioli e della stessa famiglia dei Medici, conferma la sua fama: con 400 fiorini l’anno, il dotto bizantino è l’umanista meglio pagato di tutto il Quattrocento. Le sue prime lezioni universitarie vertono sulla logica, la dialettica e l’etica di Aristotele; dall’autunno del 1458 insegna filosofia naturale concentrandosi sulla Fisica, il De anima, ed i Metereologica di Aristotele; passa poi alla Metafisica. Per informazioni più dettagliate, oltre a G. Cammelli, I dotti bizantini e le origini dell’Umanesimo II. Giovanni Argiropulo, Firenze, Le Monnier, 1942, vd. anche A. Field, The Origin of the Platonic Academy of Florence, Princeton NJ, Princeton UP, 1988, in particolare Part two: The Florentine Lyceum, pp. 53-122: Field mette in luce la sistematicità dell'approccio di Argiropulo alla filosofia aristotelica e valuta la portata dei temi platonici presenti nel suo insegnamento. 4 Per il giudizio di Garin su Argiropulo, vd. almeno i seguenti studi: Donato Acciaiuoli cittadino fiorentino, in E. Garin, Medioevo e Rinascimento: studi e ricerche, Bari, Laterza, 1973 (1954!), pp. 199-267; Platonici bizantini e platonici italiani, in Id., Studi sul platonismo medioevale, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 155-190; La rinascita di Plotino, in Id., Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, cit., pp. 89-129. S A. Field, The Students of John Argyropoulos, in Id., The Origin of the Platonic
Academy of Florence, cit., pp. 55-76.
380
L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
inoltre, in contatto con Marsilio Ficino. Si è creduto a lungo che avesse insegnato il greco a questo importante filosofo del Quattrocento, ma l’ipotesi è stata abbandonata in seguito agli studi di Kristeller. Tuttavia, i legami che Platina ha stretto con il circolo degli umanisti filomedicei non sono mai stati messi in discussione®. Andrebbero approfonditi con particolare attenzione, per valutare l’influenza che il platonismo esercita sugli scritti dell’umanista, in particolare sul De optimo cive?. Non si tratta, però, di una un’impresa facile, perché si pone immediatamente il problema della struttura e dell’organizzazione dell’Accademia platonica. Non essendo possibile dar conto dell’ampio dibattito sorto per cercare di risolvere una questione così controversa, mi limito a sottolineare gli esiti degli studi più recenti. Sembra che l'Accademia platonica non sia solo un mito, come ritiene Hankins. Tuttavia, come ha mostrato Field, non è più di una libera associazione di studiosi, uniti dal comune interesse per il pensiero di Platone, interpretato e spiegato da Ficino8. Si deve altresì considerare che
6 Oltre a Della Torre (A. Della Torre, Storia dell’Accademia platonica di Firenze, Firenze, Carnesecchi, 1902, pp. 536-537), anche Cammelli crede che Ficino abbia
imparato il greco da Platina: cfr. Cammelli, I dotti bizantini e le origini dell’Umanesimo
II. Giovanni Argiropulo, cit., pp. 97-98 e 134. Kristeller, però, ha mostrato che Platina
non è stato il maestro di greco di Ficino: P.O. Kristeller, Per la biografia di Marsilio
Ficino, in «Civiltà moderna», X, 1938, pp. 277-298.
7 Sul platonismo del De optimo cive si veda quanto sostenuto nell’ultimo paragrafo del presente capitolo. 8 Oltre al già citato volume di Field (Field, The Origin of the Platonic Academy of Florence, cit.) vd. anche il più recente A. Field, The Platonic Academy of Florence, in M.J.B. Allen, V. Rees and M. Davies (ed. by), Marsilio Ficino: His Theology, His Philosophy, His Legacy, Leiden-Boston-Ké6In, Brill, 2002, pp. 365-372. Field riprende alcune tesi di Kristeller (P.O. Kristeller, Renaissance Thought and Arts, Princeton N], Princeton UP, 1990; trad. it. Il pensiero e le arti nel Rinascimento, Roma, Donzelli, 1998, pp. 97-110: è il capitolo intitolato L'Accademia platonica fiorentina, in origine un articolo pubblicato in «Renaissance News», XIV, 1961, pp. 147-159) e rivede la propria posizione confrontandosi criticamente con le tesi di Hankins (J. Hankins, Cosimo de’ Medici and the Platonic Academy, in «Journal of Warburg and Courtauld Institutes», LIII, 1990, pp. 144-162 ed Id., The Myth of the Platonic Academy, in «Renaissance Quarterly», XLIV, 1991, pp. 429-475). Per Field, l'Accademia platonica non è una scuola o un'istituzione organizzata, ma una libera associazione di studenti, interessati all’interpretazione del pensiero di Platone proposta da Marsilio Ficino. Secondo il parere dello studioso, il termine Accademia non è la metafora usata da
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Platina lascia Firenze quando l'Accademia platonica è in via di formazione, e non è ancora una realtà consolidata.
Platina si trasferisce a Roma nel 1462, per raggiungere Francesco Gonzaga, che è stato nominato cardinale a soli diciassette anni d’età. Poiché litiga violentemente con Paolo II, e rimane coinvolto nella congiura che gli amici di Pomponio Leto ordiscono nel 1468 contro il pontefice, il momento romano è stato,
ed è tuttora, il momento più studiato della sua vita. Platina è in ottimi rapporti con Pio II, il papa umanista celebrato nella dedica del De laudibus bonarum artium (1463). Non appena sale al soglio pontificio Paolo II (1464), i suoi rapporti con il papato diventano invece molto tesi. Questo pontefica desta le ire di Platina perché decide di sciogliere il prestigioso collegio degli Abbreviatori Apostolici del Parco Maggiore, il cenacolo degli umanisti favoriti da Pio II, di cui è membro. Per difendere la
«libertà intellettuale» degli umanisti privati della carica di scrittori della cancelleria papale, Platina non si limita a contestare la decisione del pontefice, scrivendo una lettera firmata con lo pseudonimo - facilmente riconoscibile — di Ognibene da Lonigo, ma arriva persino a minacciare la convocazione di un Concilio. Per
comprendere le ragioni della sua reazione, non basta precisare che lo scioglimento del collegio è una delle prime decisioni prese da Paolo II. Si deve altresì ricordare che, contrariamente a quanto ipotizzato in precedenza, Platina non è il segretario del cardinal Francesco Gonzaga: contestando la decisione di Paolo II, vuole evitare di perdere quell’incarico ufficiale che gli aveva garantito sicurezza e protezione? Ficino per indicare le traduzioni e icommenti dei dialoghi di Platone, ma l’espressione con cui il filosofo — che è convinto di essere il miglior interprete del pensiero di Platone dell’ultimo millennio — indica il circolo creatosi intorno a lui. Field riconosce inoltre che Cosimo de’ Medici ha avuto un’importanza maggiore di quanto non credesse per la nascita dell’Accademia. Infatti, la Villa di Careggi donata a Ficino per tradurre in tranquillità i dialoghi di Platone potrebbe essere uno dei luoghi in cui il filosofo ha effettivamente insegnato e diffuso la sua interpretazione del pensiero di Platone. Si noti che, secondo Field, Ficino entra in possesso della villa tra 1462 e il 1463, e dunque proprio negli anni in cui Platina è in procinto di partire per Roma o ha già lasciato Firenze. ? D.S. Chambers, I/ Platina e il Cardinal Francesco Gonzaga, in A. Campana e
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
In seguito alle proteste, Platina è rinchiuso nella prigione di Castel Sant'Angelo. La sua reclusione dura pochi mesi, dall’ottobre del 1463 al gennaio del 1464, perché Francesco Gonzaga interviene, convincendo Paolo Il a perdonare il suo protetto. Quando ritrova la libertà, i rapporti col pontefice non migliorano affatto: l’umanista diventa membro dell’Accademia romana di Pomponio Leto, che ha ereditato la cattedra di eloquenza occupata da Lorenzo Valla presso lo Studium di Roma. I sodales di Leto sono umanisti, letterati, storici, archeologi e filologi, attivamente impegnati nell’esaltazione e nella celebrazione della romanità classica, di cui riprendono anche i riti paganeggianti. La profonda ammirazione che nutrono per la Roma repubblicana suscita i sospetti di Paolo II: nel 1468, il papa deciderà di arrestare i pomponiani, accusandoli di congiura. Subito dopo l’arresto, si configura un ampio retroscena di trame politiche che coinvolgono Maometto II e Ferrante d’Aragona. Le accuse formali rivolte ai congiurati si assestano, però, su un livello meramente dottrinale:
Platina e gli altri sodales di Leto sono incolpati di neopaganesimo,
eresia, immoralità e rifiuto della autenticità della donazione di
Costantino!0, È probabile che Paolo II abbia voluto far arrestare i congiurati per il timore delle accuse che gli umanisti iniziavano a muovere contro l’autorità morale e politica della chiesa, contestando la natura autocratica del potere pontificio. Forse, però, ha
P. Medioli Masotti (a cura di), Bartolomeo Sacchi. Il Platina (Piadena 1421-Roma 1481), Atti del convegno di studi internazionale per il quinto centenario, Cremona, 14-15 novembre 1981, Padova, Antenore, 1986, pp. 9-21: secondo quanto sostenuto
da Chambers, il segretario del cardinale è un certo Giovanni Pietro Arrivabene. 10 Per quanto riguarda la congiura del 1468 rimando all’ampia bibliografia fornita in Mitarotondo, Virtà del principe e virtù del cittadino, cit., pp. 51-52, limitandomi a citare i seguenti studi: E. Tateo, Platonismo cristiano e rinascimento pagano: il cardinal Bessarione, l’Accademia di Pomponio Leto e il Platina, in Id., I centri culturali dell'Umanesimo, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 124-129; P. Medioli Masotti, L’Accademia romana e la congiura del 1468, in «Italia Medioevale e Umanistica», XXV, 1982, pp. 189-202. Per quanto riguarda la figura di Pomponio Leto, oltre a V. Zabughin, Giulio Pomponio Leto: saggio critico, Grottaferrata, Tip. italo-orientale S. Nilo, 1910, si veda il più recente G. Lovito, Pomponio Leto politico e civile: l'Umanesimo italiano tra storia e diritto, Salerno, Laveglia, 2005.
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inciso sulla scelta anche il ricordo della insurrezione repubblicana organizzata nel 1453 da Stefano Porcari!!, Dopo solo quattro anni, Platina si trova quindi nuovamente agli arresti. Durante la seconda prigionia alterna momenti di violenza e di rabbia feroce nei confronti dell’odiato pontefice a momenti di cieca sudditanza. Rischia di diventare il capro espiatorio della vicenda, ma riesce ad ottenere il perdono di Paolo II come gli altri umanisti coinvolti nella vicenda (1469). Tornato
in libertà, riacquisterà la sicurezza ed il prestigio sociale di cui godeva solo quando sarà nominato prefetto della Biblioteca vaticana da papa Sisto IV, nel 1475. Il conferimento di un incarico così importante si iscrive in un progetto politico preciso: come nota Tateo, con il suo mecenatismo, il papa riesce a ridurre a
«docilità cortigiana» anche il più ribelle degli umanisti che avevano minacciato il potere del suo predecessore!2. La nomina di Platina sembra legata alla composizione dell’opera più famosa, e forse più importante, dell’umanista: la silloge di biografie nota come Liber de vita Christi ac omnium pontificum, composta tra il 1474 e il 1475. Sisto IV è l’ultimo papa descritto nell’opera: Platina lo loda e lo adula tanto quanto denigra e critica Paolo II, che è rappresentato come il più crudele dei tiranni!3. 11 Podestà di Bologna, Siena e Orvieto, umanista appassionato dei classici, fervente ammiratore della Roma repubblicana, Stefano Porcari è noto per aver cercato di sollevare il popolo romano contro il papato durante il conclave che si era riunito alla morte di Eugenio IV. In seguito al fallimento dell’insurrezione, è confinato a Bologna da Niccolò V. Non rinuncia ai suoi progetti rivoluzionari, perché è convinto di essere il «Cavaliere d’Italia» evocato con toni profetici da Petrarca. Pertanto, il 26 Dicembre del 1452, Porcari cerca ancora una volta di instaurare la repubblica a Roma. Scoperto, è condannato a morte e impiccato a Castel Sant Angelo il 9 Gennaio 1453. Machiavelli non è il solo a ricordare la vicenda di Porcari nelle Istorie fiorentine (cap. XLII): come è noto, Alberti stende una cronaca degli avvenimenti successivi alla congiura che si intitola appunto De porcaria coniuratione. 12 E. Tateo, Gli stati territoriali, i principati e l’Umanesimo, in C. Muscetta (a cura di), La letteratura italiana: storia e testi, Bari, Laterza, 1971, pp. 5-36 ed in particolare p. 21. Come è noto, in un dipinto conservato nei musei vaticani, Melozzo da Forlì ha rappresentato il momento della nomina di Platina. 13. Platina, Liber de vita Christi ac omnium pontificum, a cura di G. Gaida, in Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori, II, Città di Castello, Lapi, 1913-32. Questa raccolta contiene anche la Historia mantuana.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Le principali opere politiche di Platina, il De principe e il De optimo cive, sono scritte quando la vicenda della congiura si è ormai conclusa. L’umanista gode già dell’appoggio di Bessarione, ma non ha ancora ottenuto nessun incarico ufficiale, ed ha quindi bisogno di consolidare e di rafforzare la propria posizione. Con il De principe cerca di stringere i legami che lo uniscono ai Gonzaga, sperando invano di essere invitato a tornare nella città governata dal marchese che ha celebrato nella Historia mantuana, appena terminata. Con il De optimo cive prova, invece, a rafforzare i rapporto che lo unisce ai Medici!4. Ferraù ha mostrato che il De principe è composto nell’arco del 1470 ed è presentato a Federico Gonzaga nel 1471. In questo stesso anno, Platina inizia anche a comporre il De optimo cive. In precedenza, si era ipotizzato che il De optimo cive fosse stato scritto intorno al 1461, e dunque nel periodo in cui Platina si trovava a Firenze. Una lettera di Donato Acciaiuoli dimostra,
invece, che l’opera è stata presentata a Lorenzo de? Medici solo nel 147456, Gli accurati e precisi confronti istituiti da Rubinstein provano, inoltre, che il De optimo cive è un «rifacimento» del trattato sulle virtù del principe: Platina ha trasformato il De principe in un dialogo sul perfetto cittadino, eliminando la sezione sull’arte della guerra, riducendo il numero degli esempi, sostituendo il termine princeps con la parola cives!7.
14 Sulla finalità e la genesi del De principe vd. Chambers, I/ Platina e il Cardinal Francesco Gonzaga, cit., p. 16. Per la finalità del De optimo cive si consideri, invece,
il proemio del dialogo in cui Platina dice espressamente di essere uno dei clienti dei Medici: F. Battaglia (a cura di), Della vita civile di Matteo Palmieri e De optimo cive di Bartolomeo Sacchi detto il Platina, Bologna, Zanichelli, 1944, p. 180; d’ora in poi citerò questa edizione del De optimo cive semplicemente come Oc. 15 G. Ferraù, Introduzione, in Platina, De principe, cit., p. 13; continuo a citare questa edizione del De principe semplicemente come Platina. 16 A Battaglia sfugge la lettera di Donato Acciaioli (3 maggio 1474), anche se è edita in Della Torre, Storia dell’Accademia platonica di Firenze, cit., p. 534. 17 Vd. N. Rubinstein, Il «De optimo cive», in Campana e Mejdigli Masotti (a cura di), Bartolomeo Sacchi. Il Platina (Piadena 1421-Roma 1481), cit., pp. 137-144, in particolare p. 138 e N. Rubinstein, The «De optimo cive» and the «Da principe» by Bartolomeo Platina, in R. Cardini (a cura di), Letteratura e tradizione umanistica. Per Alessandro Perosa, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 375-389.
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Non deve stupire che Platina scelga di dedicare a Lorenzo de’ Medici le stesse riflessioni politiche scritte per l’erede del ducato di Mantova, di cui era stato precettore. Come sottolinea Mitarotondo, infatti, l’umanista compone le sue opere proprio per cercare di costruire «un dialogo duraturo con le forme del potere costituito», scegliendo e cambiando i destinatari con una certa disinvoltura!8. Per comprendere come Platina adatti il suo pensiero alle contingenze politiche, facendo spesso scelte di convenienza, può essere utile precisare che il De optimo cive è persino incluso nella silloge di dialoghi morali raccolta tra il 1479 e il 1480 per ringraziare Sisto IV della sua magnanimità: le medesime riflessioni etiche e politiche vanno bene per signori come i Gonzaga, cittadini come i Medici, papi come Sisto IV. Non si tratta, comunque,
solo di piaggeria ed opportunismo. Come molti altri umanisti, infatti, anche Platina è animato da una profonda fiducia nella possibilità di educare chi detiene il potere. Sembra che anche per lui non contino tanto gli assetti politici e costituzionali quanto le virtù di chi è al potere, governino i principi, i cittadini, 0 i papi. Chiarito il rapporto cronologico esistente tra il De principe e il De optimo cive, vorrei precisare sin d’ora che Platina non adatta
al contesto della corte l’idea di amicizia civile, il tipo di amicizia che Palmieri celebra nella sua opera. Rende invece conforme alla realtà politica di Firenze l’idea di amicizia emersa dalla riflessione sugli amici del principe che è stata analizzata nei capitoli precedenti. Dicendo questo, non intendo sostenere che Platina non sia in alcun modo influenzato dall’idea di amicizia civile elaborata a Firenze nella prima metà del Quattrocento, ma più semplicemente sottolineare che pensa sin dall’inizio all'amicizia come ad un rapporto di potere e ad un rapporto con il potere, siano al potere i Gonzaga oppure i Medici. Inoltre, poiché, negli anni in cui compone il De principe ed il De optimo cive, Platina non è 18 Mitarotondo, Virtà del principe e virtù del cittadino, cit., p. 49. L’emblema della disinvoltura con cui Platina cambia i destinatari delle sue opere a seconda delle contingenze politiche è il Contra amores: Platina scrive questa opera, originariamente intitolata De amore, tra il 1465 e il 1466, dedicandola prima a Jacopo dal Piombo, poi a Lodovico Agnelli, infine a Lodovico Stella (ivi, p. 47).
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ancora riuscito a stabilirsi in una corte e ad avere un incarico ufficiale, la riflessione sull’amicizia delineata in queste due opere sembra più vicina a quella proposta nel De institutione regiminis dignitatum di Vicini che non a quella presente nel De principe di Pontano. Nei passi in cui sottolinea il valore politico dell’amicizia, Platina cerca infatti di aprire le porte della corte agli umanisti, provando a riservare loro incarichi e funzioni di rilievo. Come si vedrà nel corso dell’analisi, la riflessione di Platina è molto
meno problematica di quella di Vicini, ma non è priva di punti di tensione. Alcuni sono il riflesso delle vicende in cui è stato coinvolto. Non bisogna, infatti, dimenticare che ha fatto esperienza di uno dei possibili esiti politici dell'amicizia: indipendentemente dal ruolo effettivamente avuto nella congiura, quando rifletterà sull’amicizia si ricorderà che il sodalizio con i pomponiani gli è costato la prigione. La riflessione sviluppata nel De principe e nel De optimo cive può essere confrontata con quella proposta nel De institutione anche per un’altra ragione: Platina non riesce a diventare amico di Federico Gonzaga né di Lorenzo de’ Medici. Come già anticipato, egli non troverà la protezione di cui ha bisogno a Mantova o a Firenze, bensì a Roma, città in cui rimarrà fino alla fine della
sua vita in qualità di bibliotecario di Sisto IV!9. Prima di morire
compone un trattato di gastronomia, il De honesta voluptate et
valetudine, che ha goduto di grande successo ed è stato stampato sia a Roma (1474) sia a Venezia (1475)?°. Decisamente più importante di questa summa del sapere gastronomico in cui confluiscono temi stoici ed epicurei, è il De vera nobilitate. Si tratta di un dialogo ricco di suggestioni stoiche, composto intorno al 1475, in cui Platina riprende le tesi già esposte nel De principe e nel De
19 Platina muore di peste a Roma, il 21 settembre del 1481 ed è sepolto con cerimonia di pubblico lutto in Santa Maria Maggiore; nel 1482 Pomponio Leto pronuncia un’orazione funebre per commemorare la sua scomparsa. 20 Platina, I/ piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1985, ma anche Platina, On Right Pleasure and Good Health. A Critical Edition and Translation of De honesta voluptate et valetudine, by E. Milham, Tempe (Arizona), Medieval & Renaissance Texts and Studies, 1998.
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
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optimo cive per sostenere che la vera nobiltà consiste solo nella virtù?!. Come l’omonimo e precedente dialogo di Poggio Bracciolini, che Platina prende come modello, il De vera nobilitate è un’opera fondamentale per ricostruire il dibattito quattrocentesco sulla nobiltà e per comprendere sino in fondo il tentativo di dare fondamento e legittimazione etica al potere. 6.2 Struttura e temi del De principe
Secondo Ferraù, il De principe di Platina è uno degli specula princibum
quattrocenteschi
più tipici e rappresentativi
di
questo genere letterario. Dipingendo il ritratto dell’ottimo principe Platina si sofferma, infatti, sulla institutio del sovrano in modo completo e sistematico: il primo libro del trattato si occupa delle virtù private del principe, il secondo verte sulle virtù sociali, il terzo affronta le problematiche del governo e della pratica bellica considerando quid agendum foris. Meno ampie, ma più organiche delle analisi sviluppate da Patrizi nel De regno, le riflessioni di Platina hanno una struttura tipizzata e canonica, che richiama alla mente il De regimine principum di Egidio Romano. Benché non si possano individuare dei riferimenti diretti, per Ferraù, lo speculum egidiano è il modello a cui Platina si è ispirato per comporre il De principe?3. Non è solo 21 Vi sono solamente edizioni cinquecentesche di questa opera di Platina. Esistono, invece, edizioni recenti di altre due opere di Platina che non ho ancora menzionato: Platina, De falso e vero bono, a cura di M.G. Blasio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1999; Platina, Ad Paulum II P.M. de pace Italiae componenda atque de bello Turcis inducendo, in W. Benziger, Zur Theorie von Krieg und Frieden in der Italienischen Renaissance: die «Disputatio de pace et bello» zwischen Bartolomeo Platina und Rodrigo Sanchez de Arévalo und andere anlissiche der Pax Paolina (Rom 1468), entsttandene Schriften mit Edition und Ùbersetzung, Frankfurt am Mein, Lang, 1996. La prima opera è un dialogo in tre libri, che Platina ha composto durante la prima carcerazione (ca. 1465) per allontanare le accuse di paganesimo, e rivisto dopo la seconda prigionia, sostituendo la dedica a Paolo II con quella a Sisto IV. La seconda è l’orazione scritta nel 1468 per celebrare il pontefice che ha sconfitto i turchi. 22 Ferraù, Introduzione, cit., p. 13. 23 Vd. quanto sostiene Ferraù parlando delle fonti del De principe: «Inoltre occorre rilevare che il De regimine principum di Egidio Colonna, di cui non è possibile
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la struttura tripartita del trattato a far pensare al De regimine principum, perché Platina procede nell’analisi seguendo l’ordine del filosofo medioevale: prima esamina le qualità morali del principe, poi definisce le sue funzioni di governo. Passa così dall'esame della sfera privata della vita del principe all’esame della sfera più strettamente politica. La riflessione sull’amicizia è sviluppata soprattutto in due capitoli del primo libro del trattato, che sono intitolati Quales sint amici principum? e De nobilibus amicitia principum dignis?4. Platina introduce il tema dell’amicizia dopo essersi occupato della pietà che il principe deve mostrare ai genitori ed ai fratelli (de pietate erga parentes et fratres). Colloca, quindi, l’amicizia al confine tra la sfera privata e familiare delle relazioni e quella pubblica e politica. Come si è visto nel terzo capitolo, questa è la stessa posizione che Palmieri attribuisce all’amicizia nei passi della Vita civile in cui descrive la vita sociale dell’uomo attraverso una serie di cerchi concentrici sempre più ampi, che si irradiano sino ad includere tutta l’umanità?5. La riflessione sull’amicizia non si esaurisce in questi due capitoli: dopo aver indicato chi siano le persone degne dell’amicizia del principe, Platina mette in guardia il principe dai falsi amici, inserendo nella categoria gli adulatori, i delatori e gli ambiziosi?9. Sebbene rischi di scegliere falsi amici anziché veri amici, per Platina, però, il principe non deve affatto rinunciare alla amicizia, perché senza di essa non potrebbe raggiungere la felicità. Emerge così il valore esistenziale di questa relazione, capace di rendere più
dimostrare un’incidenza precisa, deve essere stato tenuto presente almeno come modello generale, dal momento che la struttura delle due opere trova una perfetta corrispondenza nella struttura in tre libri» (ivi, p. 19). Per quanto riguarda la diffusione quattrocentesca dello speculum egidiano, rimando a quanto evidenziato nel secondo capitolo del saggio, limitandomi a ricordare che, nel 1482, il De regimine principum è stampato anche a Roma. 24 Platina, pp. 69-73, 72-75.
25 Vd. Vc, p. 158. 26 Platina, pp. 75-77, 77-79, 90-91: sono i capitoli Contra assentatores, Contra delatores et maledicos, Contra ambitionem et elationem.
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sopportabili le miserie del potere (imperium)?7. Persino quando consiglia al principe come mangiare, dormire e giocare, Platina
fa qualche cenno all’amicizia, rendendo esplicito quanto rimane in ombra nella ben più articolata e complessa analisi pontaniana della maiestas: come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, l’amicizia è un elemento costitutivo dell’affabilità (comitas), la virtù
che deve contraddistinguere il principe in ogni relazione?8. Non mancano significativi richiami all'amicizia nemmeno nel secondo libro del De principe, perché essa è chiamata in causa per definire la giustizia, caratterizzare i consiglieri ed i magistrati, condannare l’avarizia??. Non si trovano, invece, riferimenti all’amicizia nel terzo libro del trattato, che ruota esclusivamente intorno al tema della guerra.
Platina è il solo degli autori quattrocenteschi che scrivono raccolte di consigli per i principi ad occuparsi di questioni e problemi militari in modo dettagliato. Il suo contributo non deve, però, essere sopravvalutato. Infatti, sebbene sia stato un soldato, Platina non propone riflessioni particolarmente acute: si limita a
riproporre le analisi di Vegezio e Frontino, due autori conosciuti anche nel Medioevo; non rielabora le fonti da cui attinge, come farà, invece, Machiavelli39; non coglie le novità della pratica 27 Platina, pp. 79-91, 84-87, 92-93: sono i capitoli intitolati Caveant a solitudine principis, De maiestate et felicitate principis, De infelicitate principum, De premio principis optime gubernantis civitatem.
28 Sui giochi e il sonno del principe: Platina, pp. 94-100. Per quanto riguarda il nesso tra amicitia e comitas, vd. Platina, pp. 81-84: è il capitolo De comitate et hbumanitate principis.
29 Per il nesso tra amicizia e giustizia, e per l’identificazione dei consiglieri e dei magistrati con gli amici del principe, si veda quanto detto nel prossimo paragrafo. Sull’assenza di amicizia che caratterizza l’avaro si consideri, invece: Platina, pp. 128-134, in particolare p. 130: «Tollit praeterea enim amicitiam et sanctam societatem avarus, cum nemini prosit et multis noceat». Si noti che anche Bracciolini sostiene una tesi analoga nel De avaritia (P. Bracciolini, De avaritia, in E. Garin (a cura di), I prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, pp. 248-301): sembra che oltre al topos del tiranno senza amici, esista anche quello dell’avaro. 30 Platina, pp. 158-189, in particolare pp. 159, 166, e pp. 188-189: sono i capitoli De re militari, De imperatoris exercito, De legendo milite, De exercitatione tyronum, De armatura militum, De itinere militari, Locus castrorum, Disciplina militaris, Statagemata, De pugna, De instrumentis belliciis. Sulla presenza di Vegezio e Frontino tra
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bellica quattrocentesca. Inoltre, mentre consiglia al principe quando muovere guerra e come combattere, Platina si preoccupa quasi esclusivamente di sottolineare l’importanza della umanità (bumanitas), una virtù che il principe non deve dimenticare nemmeno sul campo di battaglia e nelle relazioni con i nemici: il tema della guerra è affrontato perché è parte integrante della institutio del principe3!. Per comprendere la centralità della riflessione sull’amicizia delineata da Platina, è opportuno soffermarsi brevemente sul capitolo che funge da introduzione al De principe. Con una tesi di ascendenza egidiana, che Platina rafforza citando in modo esplicito la Politica di Aristotele, la monarchia è descritta come la miglior forma di governo32. Quando sottolinea che la moltitudine non può auto-governarsi e che il governo di un solo uomo è il più conforme alla legge naturale, l’umanista riprende alcuni topoi della propaganda viscontea. A questo punto della analisi, mostra che la repubblica è causa di infiniti mali, perché è la patria dell’avarizia e dell’ambizione33. Assimila, inoltre, la repubblica
alla tirannide, trasformando la contrapposizione tra il governo di
Medioevo ed Umanesimo vd. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci nei
secoli XIV e XV, Firenze, Sansoni, 1905, pp. 14 sgg. Sull’uso di Vegezio e Frontino nel Principe e nelle altre opere di Machiavelli vd. almeno F. Gilbert, L'Arte della guerra,
pubblicato per la prima volta nel 1943 e raccolto in Gilbert, Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, cit., pp. 192-229.
31 Platina, pp. 159, 166 e 188-189.
32 Platina, pp. 53-56. Per mostrare che il potere spetta ad una sola persona Platina
si riferisce a P, IV, 1294a, 1-3, p. 353. Per quanto riguarda le ascendenze egidiane del capitolo, impossibili da individuare con esattezza, Ferraù rimanda alla distinzione tra il rex iustus, che governa in vista del bene comune, e il tyrannus, che governa in vista del proprio bene riferendosi a De regimine principum, libro II, pars II, cap. IX, p. 474; sottolinea anche che questa distinzione è ripresa da Patrizi. Inoltre, come nel De
principe, anche nel De regno (Patrizi, p. 29) si dice che il governo di uno è migliore di quello di molti perché il mondo, l’anima, e il corpo sono governati da un unico principio: queste affermazioni ricordano quelle con cui Tommaso giustifica il primato della monarchia (Al re di Cipro, pp. 33-34). 33 Platina, p. 55: «Non profecto refert unum pluresve tyrannos proponas, quales olim in multis civitatibus, maxime autem Athenis, nunc vero Bononiae ac Florentiae cernuntur. Horum enim cura est, cum virtute nequaquam muniti sint, et arma civibus suis adimere ac optimum quemque opprimere aut ex urbe pellere eandemque vacuam habitatoribus reddere [...]».
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un solo uomo ed il governo di molti nella contrapposizione tra il potere instabile e corrotto della repubblica ed il potere stabile e sicuro del principato34. Come Pontano, anche Platina pone l’accento sulla sicurezza, chiarendo che il potere del principe è stabile solo se questi governa in nome della propria dignità morale (dignitas) e della propria virtù35. Non vi sarebbe nessuno spazio per il riconoscimento del valore politico dell’amicizia, se il potere del principe non avesse una legittimazione morale ed una finalità etica. E non avrebbe senso parlare degli amici del principe, se il principe non fosse quell’ottimo principe che effettivamente è quando governa ut viva lex, avendo a cuore solo il bene comune dei sudditi3*. Per sostenere che la monarchia è la miglior forma di governo, Platina paragona il principe a Dio, il motore che muove il cielo con straordinaria sapienza37. Questo è un paragone molto diffuso negli specula princibum quattrocenteschi, ed è presente anche nel De regno di Patrizi8. Sembra avere ascendenze egidiane, ma si deve considerare che Platina parla di Dio come se fosse Giove: è il re degli dei e degli uomini (rex deorum et bominum), il Dio ottimo massimo (Deus optimus maximus)??. In linea con questa
34 Platina, pp. 53 e 56. 35 Platina, p. 54: «Tota enim principatus inventio in una integritate fundata est, hanc siquidem peperit aut dignitas aut propria vel generis virtus aut beneficia consilio et armis in populos collata». Si noti che termini quali regno e principato, re e principe, sono usati come sinonimi. 36 Platina, p. 56: «Optimum principem quaerimus, qui, ut viva lex, merito omnibus imperet. [...] Sapientissmum igitur et optimum principem quaerimus, non otio sed negotio, non somno sed vigiliis deditum, qui circumspiciat, consideret, intueatur quid ad communem hominum utilitatem pertineat». Il corsivo è mio. 37 Platina, p. 54: «Unus esto princeps et rex unus, quem Deus optimus maximus sibimet similem, quoad fieri potest, instituit. Hunc enim mundum, quod et coelum alio nomine licet appellare, unus rex idem deorum et hominum pater movet et gubernat tanta sapientia et perpetuitate ut ne momento quidem temporis coelestia corpora ab officio vacent». Il principe viene paragonato a Dio anche per la sua clemenza, secondo un fopos'presente anche nel De principe di Pontano: cfr. Platina, p. 121 e De principe, par 5, pp. 9-11. 38 Patrizi, De regno cit., pp. 29-31, dove si sostiene che «reges hominibus a deo dari». 39 De regimine principum, libro I, pars IV, cap. I, p. 191 (ma anche pp. 19, 28, 130,
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
descrizione di Dio, Platina contrappone la religione, intesa come vero culto divino (cultus dei), alla superstizione, secondo lo schema formulato da Cicerone nel De natura deorum. Definisce, inoltre,
la religione come «potentissimo fondamento del principato (principatus potissimum fundamentum)»*%: come si è già accennato riflettendo sulla laicità dello speculum di Pontano, Platina è l’autore più esplicito nel riprendere la concezione romana della religione come instrumentum regni. Questo emerge con particolare evidenza sia quando cita la Politica di Aristotele per ricordare che gli uomini non si ribellano facilmente ad un principe devoto, sia quando invoca la Trinità per celebrare le vittorie ottenute dai Gonzaga contro i Visconti e gli Scaligeri, interpretandole in chiave provvidenzialistica. Non ci si deve allora stupire, notando che nel De principe si trovano pochissimi riferimenti ad autori cristiani quali Agostino, Gerolamo, Lattanzio o Ambrogio4!. Non mancano, invece, riferimenti biblici: Platina affianca spesso i personaggi della storia sacra ai personaggi della storia romana, proponendoli come esempi‘. Visto che il potere del principe si fonda sulla virtus e sulla dignitas, il principe deve essere il padre dei sudditi e il custode della loro moralità43. Come molti altri umanisti impegnati a dare consigli ai principi, Platina definisce la natura pedagogica della propria missione di precettore fornendo una legittimazione etica del potere. Diversamente da altri umanisti, però, egli pone questa giustificazione sotto il segno di Platone: «come dice Platone, 143, 149, 213, 310 e 373).
40 Platina, p. 56: la tesi della religione come potentissimo fondamento del principato apre il capitolo De religione, il secondo del De Principe. Per la contrapposizione tra religione e superstizione vd. Platina, pp. 61-66. Oltre a De principe, parr. 3-5, pp. 5-9, sulla religione come strumento per la conservazione del potere si veda anche il De regno di Patrizi, dove la religione non è solo contrapposta alla superstizione con toni ciceroniani, ma anche connessa all’astronomia con toni neoplatonici (Patrizi, pp. 89-93). 41 Sulla scarsità di riferimenti ad autori cristiani, vd. Ferraù, Introduzione, cit., p. 18:.in tutto il De principe Agostino, Gerolamo, Lattanzio e Cipuapa sono citati solo una volta, Ambrogio due. 42 Platina,pp. 83, 91, 93, 108, 129. 43 Per il principe come pater familias vd. Platina, p. 87; per il principe come custode della moralità dei sudditi vd. Platina, p. 128: questi passi vanno confrontati con De. principe, par. 50, pag. 61; De institutione, cap. XII, pp. 64-65; Patrizi, pp. 365-369.
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
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nella repubblica gli altri cittadini sono soliti essere così come è il principe»4. La correlazione platonica tra virtù del principe e virtù dei cittadini è ribadita anche alla fine del secondo libro, nel
passo in cui Platina sostiene che il principe sia colui che rappresenta (subit personam) l’intero corpo politico. Dice, infatti, che: «In verità, queste virtù, benché debbano essere osservate da tutti, tuttavia devono essere osservate soprattutto dal principe, che non rappresenta solo se stesso, ma tutta la cittadinanza, ed è la persona a cui tutti gli altri cittadini sono soliti conformarsi, secondo la massima di Platone». Mostrando il circolo virtuoso che è generato dalle qualità morali possedute dal principe, a conclusione della propria riflessione sulla virtù Platina propone una variante platonica della metafora dello specchio, presente anche negli specula di Vicini e Pontano*S. Si potrebbe sottolineare che usa le stesse parole di Pontano per dire che lo sguardo dei sudditi converge verso il principe, ma credo sia più opportuno mettere in luce il significato del riferimento a Platone. Nei passi in cui sostiene che le virtù dei cittadini sono un riflesso delle virtù del principe Platina non cita nessun dialogo platonico in particolare. Tuttavia, sembra assai probabile che stia pensando alla tesi dei re filosofi esposta nella Repubblica. Si richiama, infatti, esplicitamente a questa tesi, che come si è già detto nel secondo capitolo del saggio è espressione della fiducia umanistica nella possibilità di educare i principi, nei passi in cui descrive la virtù della prudenza. Afferma, infatti, che «sarebbero felici le repubbliche se iniziassero a governare uomini dotti o sapienti»47.
44 Platina, p. 60: «ut ait Plato, tales solent esse reliqui cives qualis est in republica princeps», ma sulla corrispondenza tra qualità del principe e qualità dei cittadini si veda anche Platina, Vita di Vittorino da Feltre, cit., p.11. 45 Platina p. 150: «Quae quidem virtutes, etsi ab omnibus observandae sunt, tum vel maxime a principe id fieri debet, qui non unius tantum, sed totius civitatis personam subit, ad quam reliqui cives, ex sententia Platonis, sese accomodare solent». La traduzione di questo e degli altri passi citati è mia. Traduco respublica con repubblica, ma questo termine è sinonimo di città o stato: non indica una particolare forma di governo. 46 Cfr. De principe, par. 2, pp. 3-5 e par. 46, pp. 53-55; De institutione, pp. 31-36. 47 Platina, p. 104: «beatas fore res publicas, si aut docti et sapientes homines eas regere coepissent». Il riferimento è a Rep., IV, 428a-428e, pp. 422-424 oppure a Rep.,
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Sembra, quindi, che l’ottimo principe sia un principe platonico, un re-filosofo. Occorre, però, precisare che è anche, ed allo stesso tempro, un principe aristotelico. Infatti, nel catalogo di virtù proposto nel De principe si trovano molti riferimenti all’Etica Nicomachea. Inoltre, Platina risente dell’influenza del
pensiero di Argiropulo. Quando definisce la giustizia, cita alla lettera un’opera del dotto bizantino, il De institutione eorum qui in dignitate costituti sunt, dicendo che questa virtù «è necessaria alla società umana come l’anima per gli esseri viventi»48. Non insisto su questo solo perché Argiropulo è stato maestro di Platina, ma anche per un altro motivo: nella prefazione alle traduzioni delle opere di Aristotele dedicate ai Medici, il dotto bizantino identifica Cosimo con il re-filosofo che il divino Platone avrebbe voluto a capo della città proprio perché lo considera l’incarnazione dell’uomo felice descritto da Aristotele nell’Etica Nicomachea*?. Credo che questa tesi sia valida anche per l’ottimo principe descritto da Platina. Forse, il principe può avere tratti platonici ed aristotelici proprio perché i riferimenti ad Aristotele e a Platone sono indiretti: Platina si avvale molto spesso della mediazione di Cicerone, ma ricorre anche a quella di Seneca e
VI, 484 sgg., pp. 501 sgg.
48 Platina, p. 112: «iustitiam in humana societate necessariam esse ut in animante anima». Si noti che Platina introduce la citazione parlando della «sententia doctoris nostri». La sentenza di Argiropulo rimanda al parallelismo istituito tra città e anima in Rep, IV, 434d-445e, pp. 433-450. Oltre che alla Repubblica, la più citata delle opere platoniche, Platina si richiama anche alle Leggi (Platina, p. 102), al Politico (Platina, p. 111) ed al Timeo (per es., Platina, pp. 101-102). L’influenza del trattato di Argiropulo — parzialmente pubblicato in Garin, Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, cit., pp. 121-129 — è segnalata in Rubinstein, The «De optimo cive» and the «De principe» by Bartolomeo Platina, cit., p. 379. 49 A.M. Brown, The Humanist Portrait of Cosimo de’ Medici, Pater Patriae, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXIV, 1961, pp. 186-221, ma vd. soprattutto le prefazioni di Argiropulo alla Fisica ed all’Etica Nicomachea riportate alla fine dell’articolo, in particolare p. 215: «Atque si vera fatenda sunt, livorque atque invidiorum hominum stultorumque temeritas nihil pendenda esse videtur, te palam profitendum est talem hominem profecto iam evasisse, qualem divinus ille Plato civitatibus praeesse rebus pubblicis voluit» e p. 221: «Quibus efficitur ut re vera te talem ante oculos habeamus, qualem Aristoteles hoc in libro perfectissimum felicem verbis descripsit».
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
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Diogene Laerzio®®. Inoltre, cita Aristotele e Platone solamente con brevi apoftegmi, come se le tesi di questi due filosofi fossero dei proverbi. Nonostante ponga i suoi consigli per il principe sotto l’insigne autorità di Socrate, Platone, Aristotele e Cicerone?!, Platina si ispira soprattutto a quest’ultimo per comporre il catalogo delle virtù che si addicono all’ottimo principe, integrando i riferimenti all’Etica Nicomachea con continue ed ampie citazioni del De officiis. Non mancano, inoltre, riferimenti al De natura deorum, al
Laelius, al De finibus ed alle Tusculanae disputationes, un’opera che influenza in modo evidente soprattutto l’analisi della temperanza. Il catalogo di virtù proposto da Platina dopo una riflessione introduttiva sugli officia del principe e del popolo non è molto originale53: accanto alle tradizionali virtù cardinali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza, si trovano virtù come la clemenza, la liberalità e la magnificenza. Come evidenziato analizzando la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara, queste qualità morali sono parte integrante del ritratto dell’ottimo principe sin dalla fine del Trecento54. Il debito del catalogo nei confronti del De officiis emerge chiaramente nei passi in cui Platina pone in correlazione prudenza e
sapienza, citando quasi alla lettera quest'opera di Cicerone. Essendo 50 Ferraù, Introduzione, cit., pp. 17-18. 1 Platina, p. 51: «auctoritate Socratis, Platonis, Aristotelis, Ciceronis motus». 52 Come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, il Laelius di Cicerone influenza l’intera riflessione sugli amici del principe. Gli influssi del De finibus sono evidenti soprattutto nel proemio del trattato: Platina, pp. 49-52. Per i riferimenti alle Tusculanae disputationes vd. Platina, pp. 146-150. 53 Platina, pp. 101-102 (è il capitolo De officio principis et populi): come il primo capitolo del primo libro, anche il primo capitolo del secondo ha valore introduttivo. 54 Sulla prudenza vd. Platina pp. 102-107, 107-111, 119-121: questi sono i capitoli De prudentia, De consilio, De magistratibus civitatum. Sulla giustizia vd. Platina, pp. 112-116, 116-119: questi sono i capitoli De iustitia e De fide. Sulla fortezza, vd. . il capitolo De fortitudine: Platina, pp. 142-146. Sulla temperanza vd. il capitolo De modestia: Platina, pp. 146-150. Per quanto riguarda le altre virtù — clemenza, magnificenza e liberalità — si vedano i capitoli ad esse dedicati in Platina pp. 121-124, 134-142. I capitoli Contra causidicos, De quaestoribus, publicanis et foeneratoribus, Contra avaritiam (Platina, pp. 124-134) possono essere considerati come una continuazione delcapitolo sui magistrati della città.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
definita come recta ratio rerum gerendarum, come ragione pratica e politica che si raggiunge grazie alla filosofia ed agli studi liberali (studia artium), la prudenza è la virtù che giustifica l’attività pedagogica di Platinas5. È anche la virtù da cui dipende la capacità di scegliere quei consiglieri e quei magistrati che sono identificati con gli amici del principe, insieme ai filosofi ed ai precettori?®. Fatta eccezione per la citazione di Argiropulo, la descrizione della giustizia èmolto comune: aristotelicamente identificata con la virtù tout court come nella Vita civile, è connessa al rispetto della parola data, alla clemenza, alla liberalità ed alla magnificenza, secondo
il modello ciceroniano di riferimento97. Appare decisamente più interessante l’analisi della liberalità: descrivendo le caratteristiche di questa virtù, Platina sottolinea che il principe non ottiene vera gloria sperperando le sue ricchezze, ma solo raggiungendo la sapienza (vera scientia). Mentre loda la bontà esemplare che Francesco Gonzaga ha mostrato verso Vittorino da Feltre invitando il signore di Mantova ad essere altrettanto generoso con lui, Platina mostra che il principe deve proteggere precettori e filosofi per essere davvero liberaleS8. Sia la descrizione della fortezza, che non è tanto la virtù del coraggio militare, quanto piuttosto quella del controllo delle passioni, sia l’analisi della temperanza, che è la virtù del contenimento degli appetiti sensibili, lasciano affiorare le sfumature stoiche che colorano l’intera riflessione di Platina®?. I capitoli del primo e del secondo libro del De principe hanno la medesima struttura: Platina enuncia il tema che sta per affron-
55 Cfr. Platina, p. 103 ed Of, I, XLIII, pp. 120-123, in cui è spiegato il rapporto esistente tra la sapienza (sophia) e la saggezza morale (phronesis). Per l’importanza della filosofia, invece, vd. Platina, p. 105. La definizione della prudenza come retta ragione si trova in Platina, p. 106.
56 Platina, pp. 107-111, 119-121. 57 Rispettivamente: Platina, p. 112, pp. 116-118, 121-125 e 135-142; per l’identificazione della giustizia con la virtù si veda EN, V, 1130a 9-14, p. 177 e Vc, p. 104. 58 Platina, p. 136. 59 Platina, pp. 143, 146-147. Per quanto riguarda l’ispirazione stoica delle analisi del De principe, si veda anche Platina, p. 101: «Quantum melius stoici qui, ut in aliis causas proponunt, sic quoque nec fieri mundum potuisse affirmant nec constare posse, nisi summa ratione regetur!».
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tare integrando la lezione ciceroniana con richiami ad Aristotele e Platone; sostiene le sue tesi con una lunga serie di esempi classici e ‘con qualche esempio relativo ai tempi moderni; conclude l’analisi esortando Federico Gonzaga a seguire i consigli e i precetti che ha esposto®0. Gli esempi classici sono tratti soprattutto dal De dictis factisque memorabilibus di Valerio Massimo, ma non mancano significativi riferimenti alla storiografia dell’impero, in particolare alla Historia Augusta. Platina attinge spesso anche dalla Ciropedia di Senofonte: come si è visto analizzando lo speculum di Pontano, questa non è un’opera fondamentale solo per dipingere il ritratto dell’ottimo principe, ma anche per definire la funzione politica dell’amicizia. Gli esempi moderni del De principe sono delle auto-citazioni perché Platina si richiama alla Historia mantuana per celebrare le gesta dei Gonzaga: quest’opera è la più citata del trattato. Tra le fonti quattrocentesche del De principe bisogna, infine, ricordare il De vera nobilitate ed il De infelici tate principum di Bracciolini, che Platina segue molto da vicino mentre riflette sulla nobiltà e sulla infelicità del principe®!. Per concludere questo breve, e certamente non esaustivo, accenno alle fonti del De principe82, vorrei menzionare altre due opere che Platina tiene ben presente quando dipinge il ritratto dell’ottimo principe: l’orazione Ad Nicoclem di Isocrate, ed i 60 Ferraù, Introduzione, cit., p. 16. 61 Per es. Platina, pp. 73 e 75. Come nota Ferraù, Platina si riferisce alle stesse auctoritates (Aristotele, Metrodoro, Diogene Laerzio e Cicerone) a cui si richiama anche Bracciolini nel De nobilitate, ma mostra maggior radicalità nel sostenere che è solo la virtù a rendere nobili («sola enim virtus est quae nobiles facit»). L’individuazione di diversi tipi di nobiltà, una caratteristica che può dipendere dalla nascita da genitori illustri, dalla discendenza da antenati che si sono distinti nella vita militare e politica, oppure dal possesso della sapienza («preclara doctrina»), risale al Teeteto di Platone ed è anche in Oc, p. 198. Platina riprenderà molte delle tesi esposte in questi passi del De principe per comporre il De nobilitate. Per il debito di Platina nei confronti del De infelicitate prinicpum di Bracciolini vd. soprattutto Platina, p. 78. 62 Oltre che a Platone, Aristotele e Cicerone, Platina si richiama anche a Diogene Laerzio, a Plutarco (le Vite piuttosto che i Moralia), a Sallustio (Bellum Iugurthinum) ed a Seneca (Ad Lucillum); la descrizione delle magistrature e dell’esercito romano proposta nel De principe si basa, invece, su fonti giuridiche che avvicinano Platina all’antiquaria pomponiana.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
discorsi De regno di Dione di Prusa$3. Come già anticipato nel precedente capitolo, anche Pontano si riferisce ad esse, ma la loro influenza è significativa soprattutto per la caratterizzazione dell’amicizia che propone Platina. Non intendo impegnarmi in un’analisi erudita per individuare le citazioni di Isocrate e Dione di Prusa presenti nel De principe, anche perché è assai probabile che Platina si sia servito di summae e florilegi64. Vorrei più semplicemente mettere in luce alcuni punti di tangenza che si possono trovare tra il De principe, l’orazione di Iscorate e i discorsi di Dione di Prusa. L’Ad Nicoclem è un manuale del buon sovrano, composto tra il 373 e il 370 a.c per educare uno degli allievi di Isocrate, diventato signore di Cipro. Tra i consigli che Isocrate formula cercando di educare il futuro sovrano ad essere un principe virtuoso, capace di amare gli uomini e la patria, si leggono anche delle raccomandazioni riguardo all’amicizia. Il retore greco, infatti, invita il signore di Cipro a scegliere con cura degli amici che siano degni del suo valore, leali e fedeli, capaci di accrescere la sua fama con la loro virtù, schietti e sinceri nel consigliare, pronti ad eseguire i compiti che saranno loro affidati5. Come si vedrà nei prossimi paragrafi, sono consigli molto similia quelli che Platina rivolge prima a Federico Gonzaga e poi a Lorenzo de’ Medici: più diventa evidente la funzione politica che è attribuita agli amici del principe, più l’amicizia si colora di sfumature diverse da quelle aristoteliche e ciceroniane. Anche Dione Crisostomo evidenzia il valore politico dell’amicizia nei discorsi che scrive per celebrare la grandezza dell’im63 L’opera di Dione di Prusa è sullo sfondo delle analisi svolte in Platina, p. 45 e p. 130; l’opera di Isocrate funge da riferimento per le considerazioni che si trovano in Platina, p. 72. 64 Mitarotondo, Il profilo politico di un umanista: Bartolomeo Sacchi detto il Platina, cit., p. 206. 65 Isocrate, A Nicocle, in Id., Opere, a cura di M. Marzi, Torino, UTET, 1991, vol. I, pp. 105-127, in particolare p. 117. Sull’importanza del pensiero di Isocrate nel Quattrocento e nel Cinquecento, si veda almeno L. Gualdo Rosa, La fede nella paideia. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1984.
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
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peratore Traiano, facendo rivivere l’ideale isocrateo di cultura$9. Riconosce il valore morale della relazione, considerando l’unità
di desideri e pensieri che si realizza nell’amicizia il più utile e il più piacevole dei beni dell’uomo®. Sottolinea il valore politico dell’amicizia, sostenendo una tesi precisa: se vuole essere padre dei sudditi e pastore dei popoli, il re deve essere amico dei propri compagni, dei propri soldati e dei propri cittadini68. Il valore politico della relazione emerge con evidenza anche nei passi in cui Dione contrappone il re, che considera l’amicizia il bene più sacro, al tiranno, che è incapace di avere amici, secondo un topos che, come si è visto, è anche aristotelico e tomista. Inoltre, sembra
che l’amicizia sia politicamente così rilevante perché è la relazione che rende più stabile e più sicuro il potere del re: per Dione, più amici fedeli e leali avrà il re, più avrà occhi per vedere, orecchie per sentire, mani per agire e teste per pensare*?. Anche Platina ricorre ad un’immagine analoga per descrivere chi siano gli amici del principe. Riesce così ad integrare ed adattare la concezione aristotelica e ciceroniana dell’amicizia alla realtà in cui vive.
66 Per un’edizione critica dei quattro discorsi sul regno di Dione Crisostomo vd. J.W. Cohoon (ed. by), Dio Chrysostom, Cambridge Mas., Harvard UP, 1949, vol. I, pp. 1-234. Esiste anche una traduzione italiana del quarto discorso sul regno di Dione, il dialogo tra Diogene il Cinico ed Alessandro Magno: Dione Crisostomo, IIEPI BAZIAEIAS, introd., trad. e commento a cura di D. Ferrante, Napoli, Ardia, 1975. 67 Cohoon (ed. by), Dio Chrysostom, cit., pp. 145-157. 68 Dione Crisostomo, ITEPI BAZIAEIA, pp. 57-61 e Cohoon (ed. by), Dio Chrysostom, cit., pp. 13, 17-22, 99, 145, 157. La funzione politica attribuita alla amicizia (philia) in quanto relazione che regola il rapporto d’amore tra il re e i sudditi emerge più chiaramente nel testo greco: il re che ama i compagni, i cittadini e i soldati è il re philetairos, philopolites e philostratiotes; il pastore dei popoli e il padre dei sudditi è il re philanthropos. Si noti che il re non deve essere amico solo dei compagni e dei cittadini, ma anche di Zeus, la personificazione divina dell’ordine morale e razionale che governa il cosmo cinico-stoico di Dione. Platina, però, non sente il fascino di questa suggestione. L’immagine del re come pastore di popoli è proposta anche da Vicini nel suo speculum (De institutione, cap. XIII, p. 66). Ha un’origine molto antica, che risale ad Omero (Iliade II, 243). Anche Platone utilizza questa immagine nella Repubblica (Rep, I; 345 b-e, pp. 295-296) e nel Politico, come si vedrà analizzando lo speculum
di Patrizi. 62 Cohoon (ed. by), Dio Chrysostom, cit., pp. 19, 145, 151, 153.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
6.3 Il valore politico dell’amicizia: tot aures, tot manus, tot animos quot amicos
Il capitolo sugli amici del principe comincia con una citazione dei discorsi De regno di Dione Crisostomo, in cui Platina sostiene che gli amici sono le orecchie, le mani e l’animo del re. Questa citazione si fonde con il topos ciceroniano presente in tutti gli specula quattrocenteschi presi in esame: anche per Platina, il principe che vuole conservare il proprio potere deve essere amato anziché temuto. Per spiegare al futuro signore di Mantova chi siano gli amici del principe, egli infatti afferma che: Il famoso Dione di Prusa, che è tanto amico di Traiano [...], scrivendo sul regno, dice: «la benevolenza degli amici supera tutte le armi, tutte le guardie del corpo, tutte i tipi di protezione». Infatti, si hanno tante orecchie, tante mani, tante anime quanti amici. Inoltre, di tutte le cose, nessuna è più adatta a mantenere e difendere il principato dell’essere amato, nessuna più inopportuna dell’essere temuto”0.
La tesi ricavata dal De officiis si colora di nuove sfumature perché la scelta tra amore e timore è associata alla presenza di amici, che sono considerati come le orecchie, le mani e la mente
del principe. Come Pontano?!, anche Platina pone l’accento sulla sicurezza, sostenendo che il principe amato dagli amici non ha bisogno di guardie del corpo né di eserciti. In questo modo, propone una variante della tesi sostenuta nel passo della Vita civile in cui Palmieri afferma che gli amici sono la miglior difesa del regno”?2. Sostenendo che gli amici sono come le mani e le 70 Platina, p. 69: «Dion ille Prusiensis, qui adeo Traiano familiaris [...], de regno scribens “superat” inquit “omnia arma, omnes satellites, omnem custodiam amicorum benevolentia” Tot enim aures, tot manus, tot animos quot amicos. Rerum autem
omnium nec aptius est quicquid ad principatum tuendum et tenendum quam diligi, nec alienus quam timeri». Il corsivo è mio. Per il riferimento a Dione, vd. Cohoon (ed. by), Dio Chrysostom, cit., pp. 19, 145, 151 e 153. La tesi per cui il principe non deve essere temuto, ma amato, viene invece da Of, II, VII, pp. 147-151. Come si vedrà in seguito, è ripresa anche nel De optimo cive, proprio nel passo in cui Cosimo dice a Lorenzo che avrà tanti occhi e tante mani quanti amici: Oc, p. 252. 71 De principe, par. 35, p. 41 e par. 38, p. 43. 72 Ve, p. 129.
6. QUALES SINT AMICI PRINCIPUM: L'AMICIZIA NEL DE PRINCIPE DI PLATINA
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orecchie del re, Platina gioca il valore politico dell’amicizia nello spazio del consiglio. Lascia inoltre intuire sin dall’inizio della sua riflessione che gli amici di cui il principe deve circondarsi sono i consiglieri, i segretari e i magistrati. Mi sembra importante notare che, nel passo citato, Platina non
si riferisce soltanto a Dione di Prusa ed a Cicerone. Riprendendo quanto ho già sottolineato nel secondo capitolo del saggio per dar conto dei diversi linguaggi che confluiscono nella riflessione politica degli umanisti, vorrei mettere in luce che anche Aristotele sostiene che i monarchi si procurano molti occhi e molte orecchie, condividendo il potere con gli amici. Nella Politica, infatti, si legge che: Ma sembrerebbe strano che si decidesse meglio giudicando con due occhi e due orecchi e agendo con due mani e due piedi piuttosto che con molti di questi organi, mentre ora anche i monarchi si procurano molti occhi, molte mani, e molti piedi, rendendo i propri amici e sostenitori compartecipi dell’autorità. Pertanto coloro che non sono amici non operano secondo gli intenti del monarca, ma se sono amici suoi e del suo potere, e l’amico è uguale e simile all’amico, il sovrano, se crede che gli amici debbano condividere il potere, pensa che coloro che sono uguali e simili debbano governare in modo simile?3.
la sovrapposizione di citazioni tratte da autori diversi consente a Platina di mettere in luce il valore politico dei rapporti di amicizia in modo più esplicito e più immediato di quanto non facciano gli autori degli altri specula principum presi in esame. Questi, infatti, chiarisce immediatamente che la difesa e il mantenimento del potere dipendono dal numero degli amici su cui il principe può contare. Precisa, inoltre, sin dall’inizio che l’amicizia serve a «conservare e mantenere il principato (ad principatum
tuendum et tenendum)». Se si volesse ricorrere ad un linguaggio diverso da quello di cui si serve l’umanista, forse, si potrebbe dire che gli amici del principe sono l’élite di governo, la classe dirigente del principato, i funzionari del principe. Come nota Ferraù, riflettendo sugli amici principis Platina individua le persone che 73 P, III, 1287b 25-35, p. 313. Il corsivo è mio.
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il principe può coinvolgere nel governo, facendo luce su «quella alleanza di fatto tra signore e ceti feudali, e neo-feudali, che in effetti è storicamente rilevabile negli stati italiani»?4. La descrizione degli amici del principe sembra mettere in ombra il tema della mutua caritas, che è solo sfiorato nel passo citato. Infatti, l'amicizia non è chiamata in causa in quanto modello del rapporto d’amore che deve regnare tra il principe ed i sudditi, bensì in quanto relazione attraverso cui il principe amministra ed esercita il potere. In altri passi, però, Platina descrive il legame tra il principe e i sudditi come un rapporto che è basato sull’affetto reciproco, ed è connesso a sentimenti di amicizia. L’umanista tende, infatti, a concepire i rapporti politici come una prosecuzione ed una continuazione dei rapporti privati, come Pontano”. Nei passi in cui riflette sulla pietà, per esempio, invita il principe ad essere benevolo non solo nei confronti dei genitori e dei fratelli, ma anche degli amici e dei cittadini. Mostra così che la pietas, e l’affetto (caritas) che da essa deriva, non regolano solo i rapporti interni alla familia, ma anche quelli interni alla civitas”. Il tema della mutua caritas affiora in superficie anche poche righe dopo il passo citato: subito dopo aver menzionato Dione, Platina descrive il rapporto che deve regnare tra il principe e i sudditi contrapponendo l’ottimo principe, che dovrebbe avere tanti amici quanti sono le mani e le orecchie di cui ha bisogno, a tiranni ciceroniani quali Dionigi di Siracusa ed Alessandro di Fere, ed a tiranni moderni, quali Giovanni Visconti e Cabrino Fondulo”7. A questo punto della propria riflessione, propone
74 Ferraù, Introduzione, cit., p. 22.
75 De principe, par. 35, pp. 39-41. 76 Platina, pp. 66-67, per la connessione tra pietà e affetto e Platina, p. 69: «Audi, quaeso, quid principem instituens dicat Zenophon Socraticus: fidi amici non vi sed beneficio comparantur. Si igitur tibi comparare fidos regni custodes instituis, a nullo prius quam a fratre incipiendum est. Cives insuper tibi coniunctores sint quam externi». Il corsivo è mio. 77 Platina, pp. 69-70. Come nota Ferraù, l’esemplarità negativa di Giovanni Visconti è un topos della storiografia padana, che Platina riprende anche nella storia di Mantova. Il signore di Cremona — Cabrino Fondulo — è considerato un tiranno anche nel De varietate fortuna di Poggio Bracciolini. |
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una tesi analoga a quella sostenuta da Tommaso nel De regno. Dichiara, infatti, che nella vita del tiranno non vi è nessuno spazio per l’amicizia: «l’intera vita del tiranno è tale che non può esservi nessuna fiducia, nessun affetto, nessuna stabile benevolenza basata sulla fedeltà, perché ogni cosa è sempre fonte di preoccupazione e sospetti e non vi è nessuno spazio per l’amicizia»?8. Il rapporto d’amore che unisce il principe ai sudditi sembra riconducibile ad una forma di amicizia anche quando Platina chiarisce che: Che cosa c’è di più stolto, come dice il Lelio di Cicerone, per raggiungere il più alto grado di ricchezza, di possibilità e di risorse che accaparrarsi tutte le altre cose che ci si procura, denaro, vestiti, servi, gloria, vasi preziosi e non, invece, gli amici, che sono il più prezioso e il più bell’ornamento della vita? Infatti, un’esistenza trascurata e priva di amici non può essere lieta. Bisogna quindi cercare l’affetto di tutti i cittadini, con umanità, clemenza, affabilità e cortesia”?.
Platina si richiama al Laelius di Cicerone per porre l’accento sul valore morale ed esistenziale dell’amicizia proprio mentre invita il principe a cercare l’amore di tutti i cittadini. Leggendo il passo citato, si ha l’impressione che l’affetto (caritas) che deve
regolare il rapporto tra il principe e i sudditi non dipenda solo dall’umanità, dalla clemenza, dall’affabilità e dalla gentilezza, ma sia una forma di amicizia. Inoltre, l’amicizia sembra essere il modello non solo del rapporto che unisce il principe ai sudditi,
78 Platina, pp. 70-71: «Huius erat tota vita tyrannica in qua nulla fides, nulla charitas, nulla stabilis benevolentia, omnia semper suspecta atque sollicita sunt, nul/lus locus amicitiae». Questo passo va confrontato con Al re di Cipro, p. 75. Platina sta chiaramente citando, quasi alla lettera, un passo del Laelius (A, XV, 52, p. 127): «Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentia, potest esse fiducia: omnia semper suspecta ateque sollicita, nul/lus locus amicititae». Il corsivo è mio. 79 Platina, p. 71: «Quid autem stultius est, ut ait Laelius Ciceronis, quam, ut plurimum copiis, facultatibus, opibus, valeas cetera parare qua parantur, pecuniam, vestes, famulos, gloriam, vasa pretiosa, amicos non parare optimam et pulcherrimam suppelletilem.. Vita enim inculta et deserta ab amicis non potest esse incunda. Quaerenda igitur civium omium charitas est, bumanitate, clementia, comitate et gratia». Il corsivo
è mio. Lo stesso consiglio sarà dato anche a Lorenzo de’ Medici: Oc, p. 196.
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ma anche del legame che i sudditi stringono tra loro. Infatti, quando definisce la virtù della giustizia, Platina consiglia al principe di rafforzare con il suo amore i rapporti intimi e personali (familiaritates) che lo uniscono ai cittadini con nodi tanto stretti
quanto lo sono i vincoli creati dalle leggi, dai legami di parentela e dall’educazione80. Sostenendo ciò, cita quasi alla lettera un famoso passo del De officiis, che sarà ripreso anche da Patrizi, come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, per descrivere una delle tipologie di amicizia civile. Platina ricorda così che «I cittadini hanno in comune tra loro molte cose: il foro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i suffragi, inoltre la familia-
rità e l'amicizia». Aggiunge alle cose condivise «i matrimoni e le parentele, da cui è unita la città come da strettissimi nodi». Specifica, inoltre, che da ciò deriva «il propagarsi e l’origine delle città, la cui cura spetta all’ottimo principe». Dopo aver mostrato che i cittadini sono legati da vincoli di amicizia, a conclusione del proprio ragionamento, invita ancora una volta il principe a pren-
dersi cura dei sudditi, sottolineando l’affetto che li lega: «non può esservi affetto reciproco tra te e i tuoi cittadini, se non avranno
compreso che tu abbracci tutti i cittadini con un solo amore e ti preoccupi che vivano tutti nel modo più felice». Seguendo la riflessione di Platina, viene in mente il passo dell’Etica Nicomachea a cui si riferisce Palmieri, come si è visto
nel terzo capitolo, per mostrare che l’amicizia tiene unite le città8!. Poiché sembra essere il rapporto che unisce i sudditi tra loro, e la relazione che lega il principe ai sudditi, si è portati a supporre
80 Platina, p. 116: «Multa sint enim civibus inter se communia, ut ait Cicero, quae societatem humanam confirmant: forum, phana, porticus, viae, leges, iura, suffragia, consuetudines, praeterea et familiaritates. Addo etiam connubia et affinitates quibus, tamquam firmissimis nodis, civitas inter se colligatur. Hinc est propagatio sobolis et origo civitatum, cuius procuratio non aliena est ab optimo principe: quo magis simul nectantur voluntates civium quoque numerosior tuus fiat populus. Fieri enim non potest ut mutua sit benevolentia inter te et cives tuos, nisi intellexerint te una charitate omes cives complexum esse curareque ut omnes quam beatissime vivant». Il corsivo è mio. Platina sta citando quasi alla lettera Of I, XVII, pp. 47-49. Lo stesso passo anche in Oc, p. 218, in cui, al posto di «optimus princeps», si legge «optimus cives». 81 EN, VII, 1155a 22-29, pp. 311-313, ripreso in Vc, p. 164.
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che l’amicizia sia il fondamento del legame sociale tanto nel De principe quanto nella Vita civile. Questa ipotesi, però, non trova conferma in altri luoghi dello speculum. Platina, infatti, mostra con notevole chiarezza che l’amicizia non può essere la relazione che mantiene unita la città. A differenza di Palmieri, egli è pienamente consapevole che l’amicizia è una relazione tra pochi, che non può essere estesa oltre ad un certo limite. Subito dopo aver esaltato il valore morale ed esistenziale dell’amicizia celebrata da Cicerone, infatti, afferma che: In verità, poiché il principe non può essere in rapporti amichevoli con tutti a causa della maestà della sua autorità, devono essere scelti coloro che possono esser ritenuti degni della tua amicizia per sapienza, virtù e integrità d’animo e coloro che per il loro valore si possono chiamare uomini
buoni82,
Come si evince chiaramente dal passo citato, Platina sostiene che il principe non può essere amico di tutti i sudditi, ma solo di alcuni sudditi particolari: quei sudditi che possono essere ritenuti degni della sua amicizia per la loro virtù e la loro sapienza. È una tesi simile a quella sostenuta da Pontano quando invita il duca di Calabria a seguire l’esempio di Alfonso d'Aragona, frequentando gli uomini più virtuosi e più saggi83. Lo speculum di Pontano deve essere chiamato in causa anche perché nel passo citato Platina fa riferimento alla maiestas per sostenere che il principe può avere pochi amici. Platina, però, si rende conto con molta più consapevolezza di quanta non ne abbia mostrata Pontano che l’amicizia è un privilegio di pochi proprio per la posizione che il principe occupa e per la carica che ricopre (ob maiestatem dignitatis).
82 Platina, p. 71: «Verum quia non cum omnibus ob maiestatem dignitatis vivere familiariter princeps potest, deligendi sunt qui ob sapientiam, virtutem et integritatem animi amicitia tua digni habeantur quique merito boni viri appellari possint». Il corsivo è mio. Un passo analogo, ma non identico, si trova anche in Oc, p. 197: «Verum quid ad amicitiam fortunati civis multi confluere solent, deligendi a te sunt, qui ob sapientiam, virtutem et integritatem, amicitia tua digni habebantur, quique merito boni viri appellari possint». 83 Per es. De principe, parr. 46-47, pp. 55-57.
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Nella riflessione di Platina il movimento di contrazione dello spazio dell’amicizia — il movimento che è emerso analizzando la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara — è particolarmente evidente: la relazione gioca il suo valore politico a livello del rapporto intimo e personale con il principe, nello spazio del consiglio, non in quello del consenso. Inoltre, per la prima volta, si comprende chiaramente che tale contrazione è una conseguenza della superiorità morale e politica del principe: quanto maggiore è la forza e il potere del principe, tanto minore è il numero degli amici che può avere. Per questo, l’amicizia non è il modello del legame sociale, ma un rapporto di potere ed un rapporto con il potere. Il passo citato mi sembra particolarmente rilevante anche perché mostra chiaramente che la riflessione sviluppata nel De principe non è molto lontana da quella proposta nel De institutione. Sostenendo che il principe deve scegliere i propri amici tra i boni viri, infatti, Platina consiglia a Federico Gonzaga quello che Vicini aveva già suggerito a Battistachiavello. Si noti che, oltre ai sudditi eccellenti per la loro virtù e la loro integrità morale, il principe deve scegliere come amici i sudditi che si distinguono per la loro sapienza: come si è già visto nel quarto capitolo del saggio, sono quei sudditi che Vicini chiama studiosi. Platina sembra persino più radicale di Vicini, perché menziona la sapienza prima della virtù, dell’integrità d’animo e del merito dei sudditi da scegliere come amici. Questo non dovrebbe suscitare alcuna perplessità, perché è chiaro che Platina sta cercando di invitare il principe a riconoscere il valore di chi, come lui, ha ricevuto una formazione improntata agli studia bumanitatis: lo sta esortando ad affidare agli umanisti incarichi politici e privilegi. Il fine della riflessione di Platina si comprende più chiaramente quando suggerisce a Federico Gonzaga di essere tanto generoso con lui quanto lo è stato il padre con Vittorino da Feltre84. Tuttavia, sin
84 Platina, pp. 136-137, ma anche p. 139: poco dopo aver menzionato Vittorino’ da Feltre, Platina ricorda che la liberalità deve essere esercitata soprattutto nei confronti degli amici.
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dall’inizio della riflessione sugli amici del principe si capisce che l’amicizia è la chiave che apre le porte della corte agli umanisti, per Platina come per Vicini. L’amicizia che il principe deve stringere con i boni viri e gli studiosi è la vera amicizia (vera amicitia), ossia l'amicizia fondata sulla virtù, come il rapporto che ha unito Lelio e Scipione, Oreste e Pilade, Damone e Finzia85. Essendo vera amicizia, gli amici del principe non possono non essere collaboratori «sicuri, coerenti e costanti (firmi, stabiles, constantes)»86. Se si volessero usare
altre parole, si potrebbe dire che il valore politico dell’amicizia dipende dalla natura intrinsecamente morale della relazione: gli amici possono essere le orecchie e le mani del principe perché sono leali e fedeli per definizione. Dopo aver messo in luce le qualità morali che contraddistinguono gli amici del principe, Platina ribadisce qual è la funzione politica dell’amicizia con un esempio molto significativo. Sostiene, infatti, che: «è verissimo quel famoso detto che Ciro ha riferito a Cambise, vale a dire che non l’oro degli scettri, ma la ricchezza dei buoni amici, procura sicurezza e difese ai re». Si riferisce, dunque, alla Ciropedia di
Senofonte: come per Pontano, così anche per Platina il sovrano persiano è il modello dell’ottimo principe. Proponendo Ciro come esempio, Platina sembra sostenere una tesi analoga a quella che sostiene Palmieri nel passo della Vita civile in cui cita il Bellum Iugurthinum di Sallustio per affermare che gli amici sono la miglior difesa del regno87. Calata nell’ambito della corte, però, questa affermazione non serve per sottolineare
85 Platina, p. 71: «Neque enim aliter vera amicitia dici poterit, nisi fuerit in virtute constantia ac perpetuitate fundata, qualis fuit illa Scipionis et Lelii, Orestis et Pyladis ac duorum Pytagoreorum Damonis et Pythiae». Questo stesso passo si trova anche in
Ge pal 97 86 Platina, p. 72; Platina si riferisce espressamente ad A, XV, 55, p. 129, citando un passo che si legge anche in Oc, p. 197. Sembra inoltre che abbia in mente la definizione di vera amicitia data in A, VII, 22, pp. 95-97. 87 Platina, p. 72: «verum profecto illud Cyri ad Cambisem est, non tam aureum sceptrum salutem atque tutelam prestare regibus quam bonorum amicorum copiam»; da confrontare con De principe, par. 38, p. 43 e Vc, pp. 129 e 164. Si noti che nel passo parallelo a questo del De optimo cive Ciro non è proposto come esempio.
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l’importanza della concordia che consente alle città unite di espandersi, bensì per ribadire che il principe deve scegliere amici buoni, a cui poter affidare con sicurezza le attività politiche che non può svolgere personalmente. Platina è molto esplicito a riguardo: «se avrai buoni amici, le attività che non potranno essere portate a termine da te nella repubblica, saranno affidate alla loro integrità con la massima sicurezza»88. Subito dopo aver chiarito questo, sottolinea ancora una volta il valore esemplare dell’amicizia che ha unito Lelio e Scipione, quasi volesse far intendere che questa relazione può svolgere la funzione politica che le è appena stata attribuita solo se è la vera amicizia che unisce un uomo dedito alla politica (Scipione) ad un uomo amante delle lettere (Lelio)?9.
I sapienti sono i migliori amici che il principe potrebbe avere perché nobiltà e virtù coincidono. La nobiltà, infatti, non è nobiltà di nascita o di sangue, ma vera nobilitas, che si fonda sulla virtù come la vera amicizia?°. Il nesso che Platina istituisce tra (vera) amicizia e (vera) nobiltà è molto profondo e molto significativo:
sostenere che il principe deve scegliere amici nobili significa affermare che deve scegliere amici veri, perché in entrambi i casi si tratta di scegliere le persone più virtuose. Vera amicizia e vera nobiltà non sembrano sinonimi solo perché si fondano entrambe sulla virtù, ma anche per un altro motivo: nella nobiltà sono incluse tutte le caratteristiche morali dell’amicizia, tutti gli aspetti che trasformano questa relazione personale in un rapporto politico, consentendo agli amici del principe di essere collaboratori integri, stabili e costanti?!.
88 Platina, p. 72: «si [amici] boni erunt, quae per te geri in re publica non poterunt, horum integritati tutissime commitentur». Dopo aver detto questo, Platina riprende un passo di Isocrate (Isocrate, A Nicocle, cit., p. 117), a cui si riferisce anche in Oc, p. 12970
À
89 Platina, p. 72: «Parumne profuisse Scipioni in tantis rebus gestis Lelii sapientis amicitiam putas?».
90 Platina, p. 71 e p. 72: «Sed quondam ex nobilitate dixi eligendos esse, quos in amicitiam reciperes, quae sit vera nobilitas inspiciamus».
91 Platina, pp. 73-75, in particolare p. 75: «Sola enim virtus est quae nobiles facit quaeque posteros in nobilitate retinet. Ex his igitur, ut ex generosa stirpe, tibi amicos delige quorum opera et presentia ad virtutem et gloriam excitere». In queste pagine
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La riflessione sulla nobiltà delineata nel De principe è oggetto di diversi ed importanti studi, che prendono in considerazione anche il De nobilitate??2. Benché il confronto tra queste due opere di Platina sia molto interessante, io vorrei sottolineare solo uno
degli aspetti che meriterebbero analisi più approfondite: è la correlazione istituita tra nobiltà ed amicizia a permettere di identificare gli amici con i magistrati e i consiglieri del principe. Secondo Platina, infatti, i magistrati non devono essere scelti «tra ogni
genere d’uomo, ma in base alla vera nobiltà (non ex quovis genere hominum, sed ex vera nobilitate)»?3, proprio come gli amici. La vera nobiltà è il solo criterio di selezione perché costoro devono essere «buoni, modesti, moderati, giusti, forti, del tutto estranei ad ogni malvagità (boni, modesti, continentes, iusti, fortes, prudentes,
abstinentes et a quovis flagitio alienii)»*4. Le caratteristiche che rendono nobili i magistrati appartengono anche ai consiglieri: per Platina, anche costoro devono essere prudenti, saggi, ricchi di esperienza, liberi dall’avarizia e dall’ambizione, sagaci ma non
astuti, sinceri. Inoltre, proprio come gli amici che il principe deve scegliere, devono essere buoni e sapienti”. Come si evince da queste considerazioni, il ragionamento di Platina sembra avere un andamento circolare, ma è proprio questa circolarità a mostrare che l’amicizia è la relazione che consente di selezionare l’élite di governo e la classe dirigente del principato.
Platina si riferisce sia alla Politica di Aristotele sia al Teeteto di Platone, ma non con
citazioni dirette: come evidenziano gli ampi raffronti proposti in nota da Ferraù, la fonte della riflessione sulla nobiltà è il De vera nobilitate di Bracciolini. 22 Oltre a quanto sostenuto in Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., in particolare pp. 161-165, si veda anche Ch.E. Trinkaus, Adversity's Noblemen. The Italian Humanists on Happiness, New York, Octagon Book, 1965, pp. 50-60 sgg. e F. Tateo, La disputa della nobiltà, in Id., Tradizione e realtà dell’Umanesimo italiano, cit., pp. 355-421. 93 Platina, p. 119. 94 Platina, p. 121. 95 Platina, pp. 109-111. Segnalo un punto di tensione interno alla riflessione di Platina che affiora da questi passi: l’umanista consiglia al principe di scegliere i consiglieri tra i concittadini, ma gli raccomanda di avere pretori stranieri. Non vi è, invece, nessuna contraddizione nella descrizione dei consiglieri del principe ed in quella dei | magistrati della città perché civitas e principatus sembrano essere sinonimi.
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Platina sottolinea l’importanza politica dell’amicizia anche quando contrappone gli adulatori ai veri amici, ossia agli amici che sono degni dell’affetto del principe in virtù della loro nobiltà d’animo, e sono buoni consiglieri e buoni magistrati proprio perché sono buoni amici. Distinguendo gli amici dagli adulatori, ripropone un topos caratteristico degli specula medioevali e quattrocenteschi, che è presente anche nel De regno di Patrizi, come si vedrà in seguito, e nel De institutione di Vicini, come
si è mostrato nel quarto capitolo?. Platina delinea una fenomenologia del falso amico più articolata e complessa di quella proposta da Vicini perché fa riferimento alla sua personale esperienza di uomo di corte, introducendo la tipologia dei delatori. Dietro all’invettiva scagliata contro i sicofanti e i calunniatori, dietro alla rabbia per i traditori e le malelingue che si aggirano a corte, s’intravedono le ferite che la vicenda della congiura ha aperto nell’animo dell’umanista?”. Accennando alle sofferenze patite a Roma, dimostra che l’amicizia può essere pericolosa. Se non è vera amicizia, infatti, non genera solo pettegolezzi e chiacchiere, ma espone persino al rischio della vita. Anche per questo, Platina ripete più volte che il principe dovrebbe saper distinguere i veri amici dai i falsi amici, cacciando e punendo tutti i tipi di adulatori?8. Quando segue Bracciolini ponendo le ambizioni degli amici (ambitio amicorum) tra le cause dell’infelicità del principe accanto agli inganni degli adulatori (fraus adulatorum), Platina sembra addirittura negare ogni valore politico all’amicizia. La contraddizione, però, è solo apparente. È evidente, infatti, che gli
96 Cfr. Platina, pp. 75-77; De institutione, pp. 53-57
e Patrizi, pp. 111-150. Come
è già stato più volte sottolineato, si tratta di un topos aristotelico (EN, IV, 1126b 10-1127a 11, pp. 157-159) ripreso da Plutarco (Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, cit.) che si trova anche nella A Nicolcle di Isocrate e nei discorsi sul regno
di Dione di Prusa. Secondo Ferraù, però, tutto il capitolo Contra assentatores del De principe dipende da affermazioni ciceroniane. 97 Platina, pp. 77-79. Si noti che il riferimento alla congiura pomponiana è abbastanza esplicito perché Platina inizia la polemica contra delatores et maledicos dicendo: «Hac in re optimus sum testis, qui istorum fallaciis et maledicentia in maximum discrimen adductus sum». La stessa affermazione si legge anche in Oc, p. 200. 98 Platina, pp. 77 e 79.
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amici a cui si riferisce in questi passi sono i falsi amici?9. Pertanto, sembra che l’amicizia non abbia valore politico solo se è privata della dimensione morale che la contraddistinguerebbe. Declinando il tema degli amici principis quasi settanta anni dopo Vicini, Platina propone una fenomenologia dell’amicizia meno problematica di quella che è emersa nel quarto capitolo del saggio, analizzando il De institutione regiminis dignitatum: individua gli amici del principe tra i boni viri e gli studiosi, identificandoli più esplicitamente di quanto non faccia Vicini con gli umanisti, i filosofi, i magistrati e i consiglieri; considera (vera) amicizia e (vera) nobiltà quasi come sinonimi, mostrando che
l’amicizia è la chiave che apre le porte della corte agli umanisti, garantendo loro prestigio e riconoscimento sociale; contrappone i veri amici ai falsi amici, ma non distingue tra amici e veri amici. Sebbene Platina non parli di sequaces e di clientes, la natura personale e clientelare dei rapporti su cui si basa il potere del principe non è meno evidente rispetto al De institutione. Come si è visto, infatti, questi ha tante orecchie e tante mani quanti
amici: usando questa metafora Platina mostra più chiaramente di quanto non facciano gli altri autori degli specula esaminati che il principe amministra e gestisce il potere attraverso una rete di rapporti intimi e personali. Avendo esaminato la riflessione sugli amici del principe elaborata da Platina, vorrei tornare brevemente sul tema della mutua
caritas. Credo, infatti, che sia possibile mostrare che il rapporto tra il principe e i sudditi non è una forma di vera amicizia, ma un’espressione della affabilità, o comitas, del principe. Del resto, la relazione tra il principe e i sudditi si configura come una forma di cortesia e gentilezza sin da quando Platina consiglia al principe di evitare la solitudine: per essere gradito a tutti senza perdere la dignità morale e la solennità (gravitas) che lo contraddistinguono, il principe deve evitare di avere atteggiamenti troppo familiari nei
99 Platina, pp. 88-89: Platina riprende alcune tesi del De infelicitate principum di . Bracciolini, a cui si riferisce usando la formula «nescio quem».
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confronti dei sudditi!°. Ciò diventa ancora più chiaro quando Platina afferma che: Non c’è niente, infatti, che renda il principe ugualmente caro a tutti e così popolare che non la stessa affabilità, che ècertamente connessa alla bontà d’animo, alla generosità ed all’amicizia, con le quali soprattutto si suole ottenere la benevolenza degli uomini, mentre la si perde con la scontrositàe la durezza. [...] Non sarà inoltre disdicevole per il principe se anche lui inviterà cittadini e amici ai banchetti, imitando Cesare, o non disprezzerà le loro tavole se sarà invitato a pranzo qualche volta [...]. Platone esalta i banchetti pubblici come mezzo per conciliare la benevolenza reciproca tra gli uomini [...]. Per questo accade cheiprincipi protetti dall’affetto e dalla benevolenza dei cittadini non hanno bisogno di armi, di una scorta, di custodi e di guardie del corpo. Accade di solito il contrario, se avranno allontanatoi loro cittadini in modo arrogante, superbo, scortese e insolente!0!,
Il passo citato mostra abbastanza chiaramente che dietro alla comitas, o affabilità, che il principe deve saper mostrare a tutti i sudditi si nasconde un’amicizia che non è altro che un ‘atteggiamento esteriore, una forma di cortesia e disponibilità. È un’amicizia molto diversa da quella che unisce il principe ai boni viri ed ai sapientes. Sebbene non sia vera amicizia, questo tipo di comportamento improntato alla gentilezza ed all’affabilità è un’amicizia importante, capace di produrre consenso e di rendere superflue le armi e le guardie del corpo. Visto il riferimento alla scortesia (acerbitas) ed all’arroganza (duritas) che si legge nel
100 Platina, pp. 79-81, in particolare: «Fac igitur ut civibus tuis et amicis, quibus certe quam servis carior es, ad te opportune tamen pateat aditus. Volo dignitatem serves et gravitatem, ne, ut ait comicus, nimia familiaritas contemptum pariat». 101 Platina, p. 82: «Nihil est enim quod aeque principem charum omnibus et popularem faciat, quam ipsa comitas, cui certe bonitas, liberalitas, amicitia connexae sunt,
quibus ex rebus maxime conciliari hominum benevolentia solet ut contra duritate et acerbitate amittitur. [...] Non erit praeterea a principis alienum si aut ipse ad imitationem C. Caesaris amicos et cives in convivium adibheat, aut illorum mensas invitatus non aspernetur interdum. Laudat commissationes pubblicas ad conciliandam hominum benevolentiam inter se Plato [...]. His rationibus fit ut non armis, non satellitibus, non excubiis et custodiis indigeant benevolentia et charitate civium muniti principes. Quod contra evenire solet, si contumaciter, superbe, arroganter, contumeliose suos repulserint». La traduzione e i corsivi sono miei. L’inizio del passo si trova anche in Oc,
pp. 201-202, dove al posto di «principem» si legge «civem».
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passo citato, considerata la preoccupazione espressa sottolineando che il principe deve sempre mantenere un certo contegno (la dignitas e la gravitas), credo che Platina stia consigliando al principe di conservare quella maiestas che gli impedisce di essere vero
amico di tutti i sudditi. Consapevole che il principe può essere amico solo di quei sudditi particolari che eccellono per virtù e sapienza, Platina invita il principe a mostrarsi comunque amichevole e affabile nei confronti di tutti i cittadini, in modo da per poter conservare l’amore e il favore del popolo. Come Pontano, ma in modo ancora più chiaro, anche Platina tende, dunque, a sdoppiare l’amicizia!°; da una parte vi è la vera amicizia, il rapporto intimo e personale che unisce il principe ai suoi collaboratori, la relazione mediante la quale il principe amministra ed esercita il potere; dall’altra vi è l’amicizia superficiale ed esteriore che il principe deve manifestare a tutti sudditi, mostrandosi affabile e gentile, ma non troppo cortese e amichevole. Quanto più il tema degli amici principis assume una fisionomia concreta e definita, tanto più l’amicizia tra il principe e i sudditi diventa una questione di buona educazione e di forma, identificandosi con la comîtas. Quanto più l’amicizia gioca il suo valore politico nello spazio del consiglio, tanto più si indebolisce il valore politico dell’amicizia che unisce il principe ai sudditi: l'amicizia non può essere il modello del legame sociale perché tra il principe e i sudditi non c’è vera amicizia, ma solo cortesia e gentilezza. 6.4 Uno sguardo al De optimo cive: gli amici del principe e gli amici di Lorenzo de’ Medici Come sostiene Rubinstein, il De optimo cive si «colloca a metà strada tra il trattato repubblicano di Palmieri sulla Vita civile e
le opere sul governo del principe»!03. Sebbene Platina adatti la 102 De principe, par 38, p. 43; parr. 46-47, pp. 55-57; par. 48, p. 59; par. 52, p. 63; parr. 54-55, p. 64; par. 60, pp. 69-71; par. 62, p. 73. 103 N. Rubinstein, Le dottrine politiche nel Rinascimento, in Boas Hall et alii, Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi, cit., pp. 214-215.
MA
L’AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
propria opera ad un contesto politico molto diverso da quello mantovano, nel De optimo cive non propone una riflessione radicalmente diversa da quella sviluppata nel De principe: come già accennato, l’umanista riprende abbastanza fedelmente il primo e il secondo libro della raccolta di consigli che ha scritto per i Gonzaga. Si limita a sostituire qualche esempio, a tagliare i passi in cui metteva l’accento sull’infelicità del principe. Modifica anche le premesse sui cui poggia il proprio ragionamento: al posto del capitolo in cui dimostrava che la monarchia è la miglior forma di governo, scrive un proemio in cui l’amicizia appare come una delle componenti fondamentali della vita civile: subito dopo aver detto che Platone e Aristotele non hanno lodato solo la vita privata (vitam privatam) e la contemplazione (rationem contemplandi), in cui hanno posto la felicità umana, ma anche la vita civile (vitam
civilem), si richiama ad un famoso precetto ciceroniano per affermare che non siamo nati solo per noi stessi, ma anche per la patria e per gli amici!04, Il valore della vita attiva emerge in modo particolarmente chiaro quando sostiene che i doveri nei confronti degli amici e della patria non possono essere compiuti in solitudine!05, Mostra così, sin dall’inizio della sua analisi, che la vita attiva è
vita politica, ed è basata su relazioni e rapporti interpersonali. La contrapposizione tra vita civilis e solitudo si trasforma, a poco a poco, nella contrapposizione tra res publica e res rustica. Questa è l’occasione per una prima lode della saggezza e dell’esperienza politica di Cosimo de’ Medici, che ha la stessa funzione della legittimazione etica del potere del principe proposta nel De principe. Cosimo non è esaltato solo nel proemio dell’opera, perché Platina compone il De optimo cive immaginando che sia proprio «colui che ha sempre onorato la repubblica fiorentina (qui rem publicam florentinam semper coluit)» ad insegnare al nipote Lorenzo «cosa si addice all’ottimo cittadino nel governo della 104 Oc, p. 179. 105 Oc, pp. 179-180: «Non enim solum nobis nati sumus, ut ait M. Tullius, verum ortus nostri partem patria vindicat, partem amici, quibus certe satisfacere illi nequaquam possunt, qui in solitudines secedentes, sese ab hominibus ut a toto corpore separantur». Platina sta citando Of, I, VII, p. 21.
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città (quid optimum civem in gubernanda civitate deceat)». Si tratta di una finzione letteraria, perché Platina scrive il dialogo negli anni in cui Cosimo è già morto ed è gia stato pubblicamente insignito del titolo di pater patriae!%. Tuttavia, è una finzione particolarmente efficace: Cosimo non rivolge i suoi consigli solo al nipote Lorenzo, cui è dedicato il De optimo cive, e a Platina, che pone se stesso tra gli interlocutori del dialogo, bensì a tutti i cittadini fiorentini, che sono così idealmente chiamati a seguire il suo esempio!0. Considerando che il De optimo cive è stato scritto per rafforzare i legami con i Medici, in un momento di bisogno, la scelta compositiva di Platina sembra particolarmente efficace: Lorenzo è presentato come l’erede politico dell’insegnamento morale del più virtuoso dei cittadini di Firenze, mentre l’umanista si propone come suo discepolo. Essendo la prima, e quasi diretta, testimonianza dell’ascesa al potere dei Medici, il De optimo cive ha goduto di una certa fortuna a Firenze, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Secondo Dionisotti, pare sia stato conosciuto persino da Machiavelli108, 106 Oc, p. 184. Su Cosimo come pater patriae vd. Brown, The Humanist Portrait of Cosimo de? Medici, Pater Patriae, cit., pp. 186-221. Analizzando un codice di scritti in lode di Cosimo raccolti da Bartolomeo Scala — le Collectiones Cosmianae — Brown mostra che Cosimo è celebrato da tre diverse generazioni di umanisti a partire da tre diverse tradizioni letterarie: è lodato da Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, Carlo Marsuppini e Ambrogio Traversari, Antonio Pacini e Francesco Filelfo come il più virtuoso e patriottico dei cittadini romani; è esaltato da Donato Acciaioli, Alamanno Rinuccini, ed Argiropulo come re-filosofo che possiede tutte le virtù (aristoteliche); è elogiato come generoso mecenate e redivivo Augusto dai poeti in cerca di patroni
che frequentano la scuola lirica fondata da Carlo Marsuppini e Cristoforo Landino. Brown evidenzia, inoltre, che Ficino è l’unico a descrivere Cosimo come immagine
dell’idea platonica della virtù oltre che come re-filosofo e patrono. La studiosa non si occupa del De optimo cive, perché il dialogo di Platina non è incluso nelle Collectiones Cosmianae. Tuttavia, anche alla luce di quanto sostiene in un articolo successivo (A.M. Brown, Platonism in Fifteenth-Century Florence and Its Contribution to Early Modern Political Thought, in «The Journal of Modern History», XLVII, 1996, pp. 383-416, in particolare pp. 393-395), è chiaro che le lodi di Platina vanno accostate a quelle di Acciaioli, Rinuccini ed Argiropulo. 107 Oc, p. 180 e pp. 192-193. 108 C. Dionisotti, Machiavellerie II, in «Rivista storica italiana», LKXXII, 1971, riveduto e ristampato con il titolo Dalla repubblica al principato, in Id., Machiavellerie. . Storia e fortuna di Machiavelli, cit., pp. 227-263.
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Il dialogo fittizio tra Cosimo, Lorenzo e Platina si svolge nella Villa di Carreggi, il locus amoenus più mediceo che Platina potesse scegliere. Gli interlocutori del De optimo cive affrontano gli stessi temi che sono trattati nel De principe e proseguono nelle loro riflessioni con lo stesso ordine con cui procedono le analisi dello speculum: il primo libro del De optimo cive verte sulla religione, l’amicizia, la nobiltà, l’adulazione e la maestà; il secondo propone
un catalogo di virtù dell’ottimo cittadino. Sono le stesse virtù che contraddistinguono l’ottimo principe: la prudenza, che è anche la virtù che rende capaci di scegliere i consiglieri; la giustizia, che è connessa alla fides ed alla capacità di scegliere i magistrati; la fortezza; la temperanza; la liberalità; la clemenza.
Cosimo inizia a dipingere il ritratto dell’ottimo cittadino partendo dalla religione, che non è più descritta come «potentissimo fondamento del principato», bensì come «singolare fondamento della repubblica (reipublicae singulare fundamentum)»!92. Il tema dell’amicizia è introdotto come approfondimento ed estensione dell’analisi dei vincoli di parentela, ed è immediatamente posto sotto il nome di Cicerone!!9, La relazione è collocata al confine tra la sfera privata della familia e quella politica della civitas, fungendo da connettore tra questi due ambiti come nel De principe. Tuttavia, visto che a parlare è Cosimo de’? Medici in persona, la posizione dell’amicizia sottende in modo più chiaro una gestione personale e familiare del potere. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, l’amicizia continua ad essere la relazione che distingue il buon governo dalla tirannide. Infatti, quando identifica l'amor di patria con l’amore per la libertà di Firenze, Cosimo mette in guardia Lorenzo dai tiranni interni, che generano discordia nella città impedendo che i cittadini stringano amicizie ed entrino in relazione tra loro!!!. Platina 109 Oc, p. 186. 110 Oc, p. 196. 111 Oc, pp. 192-193: Lorenzo non deve solo bandire dalla città i tiranni interni, ma deve anche stare attento ai tiranni esterni, che simulano amicizie con patti e accordi cercando in realtà di sconfiggere e sottomettere i popoli vicini. Si veda anche Oc, pp. 193-194: diversamente da quanto avviene nel De principe, nel De optimo cive Platina
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adatta la sua breve riflessione sulle forme di governo al contesto politico fiorentino e si richiama, come aveva fatto anche Palmieri, alle lotte tra le fazioni che hanno lacerato Firenze per spiegare l’instabilità politica della città. Quando invita Lorenzo a distinguersi dai tiranni, cercando di essere amato piuttosto che temuto, Cosimo afferma che: In verità, un’esistenza del tutto priva di amici non può essere piacevole. Bisogna, dunque, o Lorenzo, che tu cerchi l’affetto di tutti i cittadini con la dolcezza, con la cortesia e con la compiacenza. Di tanti occhi, di tante mani e di tanti animi potrai disporre quanti saranno i tuoi amici. Di tutte le cose, infatti, come dice Cicerone, nessuna è più adatta a tutelare e mantenere
la supremazia tra i cittadini dell’essere benvoluto, niente più inopportuna dell’essere temuto!!2,
Il passo citato mostra chiaramente che la presenza di amici non contraddistingue solo il buon principe, ma anche l’ottimo cittadino: Lorenzo deve avere tanti occhi e tante mani quanti amici, come Federico Gonzaga. Il riferimento al luogo del De officiis, in cui Cicerone contrappone amore e timore, dovrebbe essere palese: Lorenzo non è invitato solo a riconoscere il valore morale ed esistenziale dell'amicizia, ma anche a cercare l’affetto ed il consenso dei concittadini attraverso la sua umanità,
la sua dolcezza, e la sua cortesia. Dopo aver detto che Lorenzo non deve essere temuto ma amato, per bocca di Cosimo Platina contrappone il rampollo dei Medici a tiranni ciceroniani quali Dionigi di Siracusa, Alessandro di Fere e Falaride di Agrigento1!3. Mi sembra inutile ribadire che sono gli stessi tiranni menzionati nel De principe, perché leggendo il passo citato dovrebbe essere
usa la parola amicizia anche per indicare alleanze e intese militari. Si tratta, però, solo di un accenno. 112 Oc, p. 196: «Vita enim inculta et deserta ab amiciis non potest esse iucunda. Tibi igitur, Laurenti, quaerenda civium omnium charitas est, humanitate, mansuetudine, comitate et gratia. Tot enim oculos, tot manus, tot animos habebis quot amicos. Rerum autem omnium (ut ait Cicero) nec aptius est quicquam ad principatum inter cives tuendum atque tenendum quam diligi, nec alienus quam timeri». Il corsivo è mio. Sono mie anche le traduzioni dei passi del dialogo che cito. 113 Ibid.
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chiaro che Platina si è limitato a sostituire il termine principem con il termine civem. Forse, è più significativo sottolineare che il potere di Lorenzo è presentato come principatum inter cives. Definendo Lorenzo come il primo tra i cittadini, Platina sembra non rendersi conto che il potere di cui dispongono iMedici non è del tutto compatibile con la forma di governo repubblicano in vigore a Firenze. Il fatto stesso che Platina rivolga a Lorenzo i medesimi consigli che ha rivolto al signore di Mantova, suggerisce di pensare ai Medici come a dei principi. Inoltre, contrapponendo Lorenzo a dei tiranni, Platina sottolinea, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente, la natura autocratica del
potere esercitato dai Medici sui loro concittadini. La funzione politica che è attribuita all’amicizia nel De optimo cive è identica a quella riconosciutale nel del De principe. Gli amici di Lorenzo, infatti, non sono altri che i concittadini
più stimati, gli uomini più fedeli, leali, integri e virtuosi, a cui il primo dei cittadini fiorentini può affidare se stesso e la respublica in tutta sicurezza!!4. Identificata con la vera amicitia come nel De principe!!5, l'amicizia è una relazione dotata di valore politico perché è un rapporto intimo e personale, ed è basato sulla fedeltà, la lealtà e l’integrità, qualità indispensabili per ricoprire le cariche politiche ed amministrare il potere. Inoltre, le caratteristiche morali che rendono l’amicizia politicamente rilevante sono raccolte sotto la categoria della nobiltà, che è identificata con la virtù, come nel De principe. Di conseguenza, come l’ottimo principe descritto nello speculum di Platina, così anche Lorenzo deve scegliere i cittadini che saranno suoi amici in base «alla loro nobiltà (ex nobilitate)»!!6. Come il signore di Mantova, anche Lorenzo non deve commettere errori nella scelta degli amici: deve evitare di circondarsi di adulatori e di delatori, scegliendo persone 114 Oc, p. 197: «Dilige ex civibus tuis qui ob virtutem, firmi amici, stabiles, et constantes futuri sint [...]. Praeterea vero si boni erunt, horum integritati te ac rempu-
blicam nostram tutissime committes [...]». 115 Oc, p. 197: «Neque enim aliter vera amicitia dici poterit, nisi fuerit in Virtute, constantia ac perpetuitate fundata: quales fuit illa Scipionis et Lelii [...]».
116 Oc, pp. 197-198.
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in grado di incitarlo nel raggiungimento della virtù e di aiutarlo nell’esercizio delle sue funzioni politiche. Per chiarire che Lorenzo deve scegliere amici saggi ed esperti sono menzionati Donato Acciaioli ed Alamanno Rinuccini!!7, Nel De optimo cive Platina non insiste sulla sapienza come qualità fondamentale degli amici con la stessa forza usata nel De princibe perché non cerca di rafforzare i suoi legami con i Medici proponendosi come precettore di Lorenzo. Quasi sapesse di non poter competere con amici come Acciaioli e Rinuccini, si annovera direttamente tra i clienti della famiglia de’ Medici sin dal proemio del dialogo!!8. Se si volessero usare le parole di Vicini, si potrebbe dire che gli amici di Lorenzo sono soprattutto i boni cives e i clientes, mentre gli amici del principe sono i boni cives e gli studiosi. Visto che si è appena fatto riferimento alle analisi di Vicini, è importante sottolineare un altro aspetto: quando annovera se stesso tra i clienti dei Medici, Platina non sente il bisogno di giustificarsi. Pertanto, non distingue gli amici dai veri amici come l’autore del De institutione. Tuttavia, è chiaro che l’amicizia
può essere un rapporto clientelare, che si tratti dell'amicizia con i principi o dell’amicizia con un ottimo cittadino qual è Lorenzo de’ Medici. l’amicizia tende a sdoppiarsi in vera amicitia e comitas tanto nel De principe quanto nel De optimo cive. Cosimo spiega, infatti, a Lorenzo che l’ottimo cittadino deve mostrarsi amiche-
vole ed affabile con tutti, soprattutto quando detiene una carica pubblica!!?. Per mostrare che la comitas rende il primo dei cittadini più amato e più popolare, Cosimo indica a Lorenzo dei
117 Oc, p. 199. Si noti che quando condanna la adulazione (adulatio) e i vizi ad essa connessi (blanditio e assentatio), Platina si riferisce espressamente ad Aristotele: EN, VII, 1158a 29-1159b 4, pp. 327-329, e più in generale, secondo quanto sostenuto
da Battaglia, al quinto libro della Politica. 118 Oc, p. 180: «Multum enim patriae isti tuae florentissimae debeo, quae me licet externum tot annis non modo aluit, verum etiam eruditivit. Multum preaterea avo ac patri.tuo, viris certe clarissime, quorum benignitate et gratia in clientelam familiae vestrae susceptus sum». Il corsivo è mio. _119 Oc, p. 201.
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principi che si sono distinti per la loro umanità!20. Non potrebbe esserci un esempio più chiaro di questo per mostrare che, per gli umanisti, le virtù contano più degli assetti costituzionali. Poiché Lorenzo vuole sapere perché l’umanità (humanitas) è una prova della maestà (maiestas) di chi governa, Platina riesce a sfiorare
tutti i temi proposti nel primo libro del De principe, dalla polemica contro gli ipocriti e gli ambiziosi ai consigli sul sonno, continuando ad esaltare le qualità del perfetto cittadino. Emerge così dalle righe del dialogo il movimento di contrazione che sposta l’amicizia dallo spazio del consenso, in cui si trova la comîtas, a quello del consiglio, in cui si trovano gli amici principis e gli amici di Lorenzo. Questo movimento è tanto più accentuato quanto
più è definito il potere di chi comanda, siano al potere i Gonzaga oppure i Medici. Per rendersi conto che Platina tende a sdoppiare l’amicizia anche nel De optimo cive, distinguendo la vera amicizia, che è il criterio per la selezione dell’élite di governo, dall’atteggiamento amichevole e affabile che il perfetto cittadino deve mostrare a tutti, può essere utile mettere in luce un altro aspetto della riflessione: le caratteristiche degli amici di Lorenzo coincidono con quelle dei consiglieri e dei magistrati della città!2!. Quando sostiene che i magistrati devono essere scelti in base alla loro vera nobiltà, come gli amici di Lorenzo, Cosimo afferma che: Hai ragione. E poiché, come il corpo è costituito dalle membra, così la città è costituita dai suoi magistrati, tu dovrai considerare con la massima diligenza chi scegliere di preferenza tra i cittadini per reggere la repubblica. Infatti, se non ci fosse il padre della famiglia, che ne regolasse di tanto in tanto l’andamento, senza dubbio l’amministrazione della casa non esisterebbe affatto. E questo succede di certo ancora di più nella repubblica, che ha bisogno di più persone che la governino: e non bisogna scegliere costoro tra uomini di qualsiasi genere, anche se è vero che il nostro è uno stato di popolo, ma tra la vera nobiltà di cui abbiamo parlato sopra!22.
120 Oc, p. 202. 121 Oc, pp. 214-215 e 219-220. 122 Oc, p. 220: «Probe quidam sentis. Et quoniam ut corpus membris, ita etiam suis magistratibus civitas constat: videndum profecto quam diligentissime erit, quos
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L’analogia tra i magistrati e le membra del corpo politico richiama alla mente l’immagine degli amici che sono come gli occhi e le orecchie di Lorenzo, perché riprende la medesima metafora organicistica. Questa corrispondenza mostra in modo
particolarmente chiaro che gli amici di Lorenzo sono i magistrati della repubblica di Firenze, ossia i cittadini chiamati a ricoprire le cariche politiche più importanti. Come si evince dal passo citato, proprio quando propone un criterio meritocratico per la selezione dell’élite di governo, qual è quello della vera nobiltà, Platina mette in luce che i Medici godono del favore e dell'appoggio popolare e precisa che la repubblica di Firenze è uno «stato di popolo». Per essere più chiari si potrebbe dire che, essendo il bonus cives ciceroniano, il moderator rei publicae ed il conservator patriae, il primo dei cittadini di Firenze è un optimus cives, non uno degli optimates.
Per quanto possa apparire paradossale, sembra che la vera nobiltà sia proposta come criterio per la selezione degli amici di Lorenzo e dei magistrati della città proprio per far sì che il potere non si concentri nelle mani di pochi. Leggendo il passo citato, tuttavia, non si può non pensare che Platina inviti Lorenzo potissimum ex civibus ad gubernandam rempublicam deligatis. Nisi enim paterfamilias, qui interdum eius vices gerat, habuerit, nulla erit proculdubio oeconomiae ratio: quod certe multo magis in civitate cadet, quae pluribus curatoribus indiget: qui 0 ex quovis genere hominum, licet popularis sit status noster, sed ex vera nobilitate, de qua antea diximus, deligendi sunt [...]». Il corsivo è mio. È mia anche la traduzione. Traduco «respubblica» con «repubblica» anziché con «stato» — che è il termine a cui ricorre Battaglia — perché mi sembra che Platina abbia in mente una precisa forma di governo. Nel passo citato, l’umanista ricorre, infatti, all’espressione popularis statu per descrivere il governo dei Medici. Come indica Rubinstein (Rubinstein, Le dottrine politiche nel Rinascimento, cit., p. 209), questo termine si trova già nella In libros politicorum expositio di Tommaso, in cui è usato per indicare quella forma di governo che, nella traduzione della Politica di Guglielmo di Moerbecke, è chiamata demokratia, ossia la degenerazione della politeia. Si deve però tener presente che nella lettera all’imperatore (1413) Bruni, incoraggiato forse dalla Orazione Panatenaica di Aristide, utilizza il termine popularis status per descrivere la tertia speties gubernandi legitima, ossia la stessa politeia. Poiché Rubinstein spiega il diverso significato dell’espressione popularis status ricordando che, secondo la tradizionale terminologia politica, il regime costituzionale di Firenze era uno stato di popolo, ho scelto di non utilizzare espressioni come «governo democratico» o «stato democratico», mantenendo la traduzione il più . vicino possibile al testo latino.
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de’ Medici a scegliere con cura i magistrati della città come se stesse continuando a rivolgersi a Federico Gonzaga. Da una parte Platina attribuisce a Cosimo e Lorenzo i tratti dell’optimus cives descritto nel De oratore!23, dall’altra li descrive in modo simile
a dei principi piuttosto che ai cittadini più virtuosi di Firenze. Questo accade non solo perché Lorenzo ha il potere di scegliere chi reggerà le cariche più alte della respublica tra i suoi amici, ma anche e soprattutto perché Cosimo ricorda al nipote quella «sentenza di Platone» secondo la quale «gli altri cittadini sono soliti essere tali quali sono coloro che governano la repubblica (tale solere esse reliquos cives quales sunt qui rempublicam gubernant)»!24: come esortava i sudditi dei Gonzaga a specchiarsi nelle virtù del principe, così Platina consiglia ai cittadini fiorentini di riflettersi nelle virtù di Lorenzo. È un invito che suona scontato, perché nel corso dialogo è già stato chiarito che sono felici solamente le repubbliche governate da uomini dotti e sapienti!25. Tuttavia, non si può ignorare che questa volta è lo stesso pater patriae a sottolineare che il primo cittadino di Firenze deve diventare un re-filosofo, imparando a conciliare potere e saggezza. Non è mia intenzione sciogliere i punti di tensione che presenta il De ottimo cive. Vorrei, però, provare a spiegare perché i Medici sono simili ai principi anche se Firenze è una respublica popu123 Oc, p. 180. Per quanto riguarda il controllo effettivamente esercitato da Lorenzo de’ Medici sulle magistrature fiorentine nel periodo in cui è stato composto il De optimo cive rimando ancora una volta a Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), cit., pp. 220-225.
124 Oc, p. 236. La sentenza di Platone deve essere ricondotta all’insegnamento di Argiropulo, perché la lezione del dotto bizantino fa da sfondo anche alle riflessioni del De optimo cive: in Oc, p. 217, Platina ripropone la «aurea sententia» secondo la quale la giustizia è necessaria alla società umana come l’anima agli esseri viventi. 125 Oc, p. 212: «Tum denique beatas fore respublicas si aut docti et sapientes homines eas regere coepissent, aut ii qui regerent, omne suum studium in doctrina ac sapientia collocassent». Dopo aver ricordato che Ficino era il sommo interprete del concetto platonico del filosofo alla guida dello stato, Rubinstein nota che le parole che Platina fa pronunciare a Cosimo sono identiche a quelle che Landino attribuisce ad Alberti nelle Disputationes Camaldulenses ed a quelle che si trovano a conclusione del panegirico di Lorenzo attribuito al Poliziano: N. Rubinstein, Il «De optimo cive», in Campana e Medioli Masotti (a cura di), Bartolomeo Sacchi il Platina (Piadena 1421Roma 1481), cit., pp. 143-144.
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laris. Non credo sia sufficiente ricordare che Platina non è un filosofo politico impegnato ad esaminare gli assetti costituzionali del governo fiorentino, bensì un umanista in cerca di protezione. Bisogna, invece, prendere in considerazione le analisi con cui Brown prova a mettere in luce alcune caratteristiche del platonismo fiorentino!26. Secondo il parere della studiosa, questa corrente di pensiero gioca un ruolo cruciale per legittimare la posizione assunta dai Medici a Firenze. Come è noto, essi non hanno preso il potere per via ereditaria, né perché potevano vantare un nobile lignaggio, bensì grazie alla loro ricchezza. Inoltre, hanno governato la città senza rispettare le leggi statuarie, ed hanno trasferito il potere nelle mani di un gruppo molto ristretto di cittadini. Non è la teoria politica di Aristotele o Cicerone, ma quella di Platone, a fornire gli argomenti più rilevanti per giustificare la loro supremazia politica ed il loro modo di condurre la città: il potere è legittimo quando è accompagnato alla saggezza, il governo di un uomo virtuoso è preferibile ai rigidi codici delle leggi, le cariche pubbliche devono essere distribuite secondo le capacità e i meriti di ciascuno, non in modo ereditario, né in base al censo o allo
staus dei cittadini. A partire dagli anni Sessanta del Quattrocento, diverse opere contribuiscono alla diffusione di queste tesi, che incoraggiano le richieste di poteri più liberi e più forti, e di forme di governo più efficaci, consentendo di sostenere che i Medici non sono dei mercanti e possono governare modificando le leggi proprio in virtù della loro saggezza ed esperienza politica. Il De optimo cive è una di queste opere: come dovrebbe essere emerso nel corso delle analisi, Platina identifica la vera nobiltà con il possesso della virtù e descrive Cosimo come uno dei re filosofi della Repubblica di Platone: è la stessa immagine che emerge anche nel Dialogus de legibus et iudiciis di Bartolomeo Scala ed in alcune lettere di
126 Brown, Platonism in Fifteenth-Century Florence and Its Contribution to Early Modern Political Thought, cit., pp. 383-413.
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Ficino!?7. Inoltre, nel De optimo cive Cosimo e Lorenzo sono
paragonati non solo ad eroi repubblicani, ma anche a personaggi biblici come Mosé e Davide, a imperatori come Cesare, a grandi legislatori quali Licurgo e Solone!?8. Secondo Brown, attraverso la teoria politica di Platone, Platina trova gli argomenti necessari per conciliare «autocrazia» e «repubblicanesimo»!22. 6.5 Conclusioni
Nonostante la consideri una componente fondamentale della vita civile, nel De optimo cive Platina non si serve dell’amicizia per descrivere il rapporto che unisce governanti e governati, proponendo la relazione come modello del legame sociale. Di questa tipologia di amicizia non rimangono, infatti, che la cortesia, la gentilezza e l’affabilità che un cittadino importante e potente come Lorenzo de’ Medici deve mostrare nei confronti di tutti. Per usare le parole di Palmieri, si potrebbe dire che gli amici sono la miglior difesa del regno, ma l’amicizia non tiene unite le città. Tra la Vita civile e il De optimo cive vi è, infatti, la riflessione
sull’amicizia proposta da Platina nel De principe: il valore politico dell'amicizia non si gioca nello spazio del consenso, ma in quello del consiglio. Gli amici non sono i sudditi o i cittadini, ma i consiglieri e i magistrati, la classe dirigente, l’élite di governo che gestisce e amministra il potere, sia esso il potere di Lorenzo de’ Medici o il potere di Federico Gonzaga. Emerge così una differenza profonda che allontana il dialogo di Palmieri e quello di Platina. Generalmente accostati perché ritenuti entrambi una summa di vita civile, essi attribuiscono all’amicizia una funzione 127 Ivi, p. 391. Per quanto riguarda le lettere di Ficino, in cui emerge una nuova immagine di Cosimo, rimando alle considerazioni svolte nel prossimo capitolo, in particolare al terzo paragrafo. Per quanto concerne la nuova immagine di Cosimo, che si diffonde dopo la sua morte, si veda invece quanto indicato nella nota 106. 128 Per il paragone dei Medici con Davide, Cesare, Licurgo, e Solone vd. Oc, pp. 183, 204-205, 212, 220 e 236. 129 Brown, Platonism in Fifteenth-Century Florence and Its Contribution to Early Modern Political Thought, cit., p. 395.
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politica molto diversa: come dovrebbe essere emerso dalle analisi svolte in questo capitolo, la «politics of friendship» dei Medici emerge dalle righe del De optimo cive, non da quelle della Vita civile. La riflessione di Platina mette in luce un aspetto cruciale: quanto più si chiarisce e si definisce la funzione degli amici principis, tanto più l’amicizia che caratterizza la relazione esistente tra governanti e governati non è un rapporto profondo e intimo,
ma una questione di gentilezza e di buona educazione. Come si è già visto quando si è cercato di mostrare quale amicitia si nasconda dietro alla comitas nel De principe di Pontano, l’amicizia tende a sdoppiarsi: da una parte vi è la vera amicizia, che unisce il principe ai suoi collaboratori, dall’altra l’affabilità, che il principe deve mostrare a tutti i sudditi. Platina mostra più chiaramente di Pontano che il movimento di contrazione che sposta l’amicizia dallo spazio del consenso, in cui è collocata la comitas, a quello del consiglio, in cui si trova la vera amicizia, è tanto maggiore quanto più è definito il potere di chi comanda. Inoltre, come si vedrà analizzando il De regno, quanto più si rafforzerà e si definirà la funzione politica di chi governa, tanto più la vera amicizia diventarà una relazione esclusiva e per pochi, un rapporto dall’estensione così limitata che potrà realizzarsi solo tra i principi. L’amicizia può svolgere la funzione politica che Platina le attribuisce perché è l’amicizia di Scipione e di Lelio, la vera amicitia di Cicerone: gli amici sono gli occhi e le orecchie di Federico Gonzaga e di Lorenzo de’ Medici perché sono per definizione onesti, leali, e sinceri. Come dovrebbe essere emerso dalle considerazioni svolte nel presente capitolo, Platina integra la concezione ciceroniana dell’amicizia riferendosi ad opere diverse dal Laelius e dal De officiis. Le riflessioni di Isocrate e Dione Crisostomo sulla philia sembrano esercitare un’influenza notevole. Platina, infatti, sostiene che l’amicizia è la relazione attraverso cui il principe amministra e gestisce il potere richiamandosi alla orazione Ad Nicoclem ed ai discorsi De regno. Tuttavia, se è vero che la descrizione degli amici come orecchie e mani del principe si
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trova anche dalla Politica, l’influsso di Aristotele non deve essere
sottovalutato. È attestato anche dai frequenti richiami all’Etica Nicomachea che si leggono tanto nel De principe quanto nel De optimo cive. Credo che l’amicizia di Platina continui ad essere un’amicizia aristotelica, come quella descritta nel De principe di Pontano. Tuttavia, come dovrebbe essere emerso anche dalle
analisi del precedente capitolo, sembra che col passare del tempo la via per il riconoscimento del valore politico dell’amicizia non sia una via solo aristotelica e ciceroniana.
Sebbene adatti la concezione aristotelica e ciceroniana dell’amicizia al contesto in cui vive, riferendosi alle opere di Dione di Prusa ed Isocrate, Platina non propone tesi diverse da quelle di Vicini. Come si è messo in luce, infatti, gli amici del signore di Mantova sono i boni viri ed i sapientes, quelli di Lorenzo de’ Medci i boni cives ed i clientes. Però, la fenomenologia dell’amicizia delineata nel De principe e nel De optimo cive è molto meno problematica di quella che si trova nel De institutione: Platina si limita a contrapporre veri amici e falsi amici, senza distinguere gli amici
dai veri amici. Sembra che la dimensione clientelare dell’amicizia e quella personale del potere siano ormai date per scontate e non abbiano più bisogno di giustificazione: con il passare del tempo la via che porta al riconoscimento del valore politico dell’amicizia diventa sempre meno tortuosa.
Capitolo settimo De civili seu sociali amicitia: l'amicizia nel De regno et regis institutione di Francesco Patrizi da Siena
7.1 Vita e opere di Francesco Patrizi da Siena
Francesco Patrizi da Siena non deve essere confuso con l’omonimo filosofo neoplatonico che è nato quasi cento anni dopo (1529), quel Francesco Patrizi da Cherso che ha scritto opere
come La città felice o la Nova de universis philosophia!. L'autore del De institutione reipublicae e del De regno et regis institutione nasce, infatti, nel 1413 in una nobile e ricca famiglia senese appartenente all’Ordine dei Nove2. Oggi quasi sconosciuto, è stato un
1 Francesco Patrizi da Cherso è nato in Dalmazia nel 1529, ha studiato la filosofia aristotelica nell’università di Padova (1547), ha insegnato la filosofia platonica nelle università di Ferrara (dal 1578) e di Roma (dal 1592), la città in cui è morto nel 1597. In gioventù ha scritto La città felice (1553), che è generalmente associata alle opere degli utopisti e dei riformatori del Cinquecento. È noto soprattutto per le critiche rivolte ad Aristotele nelle Discussiones peripateticae (1571), in cui paragona il pensiero di Aristotele e di altri filosofi antichi senza assumere posizioni conciliatorie. Sono famose anche le sue traduzioni delle opere di filosofi neoplatonici come Proclo, e le sue edizioni di alcuni importanti trattati ermetici. L’opera più significativa del chersino è la Nova de universis philosophia (1591), che è divisa in quattro sezioni, intitolate rispettivamente Panaugia, Panarchia, Pampsychia e Pancosmia: per mostrare che il mondo fisico deriva dall’Uno, Patrizi combina la filosofia della luce con l’ontologia neoplatonica e la dottrina ficiniana dell’animia mundi. Per notizie più dettagliate sul pensiero di questo filosofo, che deve essere messo a conforto con quello di Ficino, Telesio e Bruno, si veda almeno E Purnell, Francesco Patrizi, in http://plato.stanford.edu/entries/patrizi. 2 Come nota Battaglia, i due personaggi sono confusi soprattutto perché, ad un certo punto della sua vita, Francesco Patrizi da Cherso inizia a vantare origini nobiliari senesi: E.Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del
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importante uomo politico del Quattrocento, in contatto con gli umanisti più famosi dell’epoca. Per comprendere meglio la riflessione sull’amicizia sviluppata nelle opere appena menzionate, può essere utile sapere qualcosa di più preciso sulla sua vita. Patrizi riceve una formazione letteraria, filosofica, e giuridica
nello Studium di Siena, in cui ha l’opportunità di ascoltare le lezioni di Niccolò de? Tedeschi e di Mario Sozzini: il primo è un canonista benedettino molto famoso nella seconda metà del Quattrocento, il secondo un altrettanto noto giureconsulto senese. La cultura giuridica acquisita in questi anni, lascerà tracce profonde nelle opere di Patrizi: come si vedrà meglio nei prossimi paragrafi, nel De regno l’umanista senese affronta alcuni temi che sono ignorati, o solo sfiorati, dagli autori degli altri specula principum presi in esame. Si deve inoltre considerare che risalgono agli anni giovanili i primi contatti con i protagonisti della vita culturale e politica della seconda metà del XV secolo. Sembra, infatti, è
assai probabile che Enea Silvio Piccolomini abbia frequentato lo Studium senese insieme a Patrizi: i due resteranno legati per tutta
la vita da una profonda e sincera amicizia, che darà prova di tutta la propria forza nelle situazioni avverse. Nello Studium di Siena Patrizi entra in contatto anche con Filelfo, che è in cattedra dal
1435 e quasi certamente è stato il suo maestro di greco. Sia nel De institutione reipubblicae sia nel De regno et regis institutione, Patrizi, unico tra gli autori degli specula analizzati in questo saggio, utilizza con una certa frequenza termini greci: è la prova più evidente della influenza che la cultura classica esercita sul suo pensiero. Come attestano le lettere scritte tra il 1448 e il 1465, Patrizi rimarrà legato a Filelfo anche quando sarà un uomo politico affermato. Sebbene siano meno profondi dell’amicizia stretta con Piccolomini, non si devono ignorare i rapporti epistolari che Quattrocento, Firenze, Olschki, 1936, p. 78. Per ricostruire la vita di Francesco Patrizi da Siena mi sono basata su questo saggio, cheè ripreso anche in FC. Nardone, Francesco Patrizi umanista senese, Empoli, Ibiskos, 1996. Fatta eccezione per il contributo di Schiera: P. Schiera, L'amicizia in Francesco Patrizi, senese, in A. Angelini e M. Tesoro (a cura di), De amicitia. Scritti dedicati ad Arturo Colombo, Milano, Franco Angeli, 2007, non sono a conoscenza di altri studi e saggi sulla vita e il pensiero dell’autore.
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Patrizi ha stretto con Panormita, già menzionato per aver intro-
dotto Pontano alla corte aragonese, e con Battista Guarino, il più giovane dei figli del celeberrimo maestro di Vittorino da Feltre. Questi contatti
con
alcuni tra i più importanti
umanisti
dell’epoca si possono facilmente spiegare considerando che Patrizi ha fama di essere un grande retore ed un elegante poeta?. Pare, inoltre, che abbia intrapreso una brillante carriera politica, arrivando a ricoprire cariche molto importanti: eletto più volte Magistrato supremo (maggio-giugno 1440, marzo-aprile 1446, marzo-aprile 1452), ottiene il cancellierato della città di Siena già nel 1447. Questa nomina merita particolare attenzione, perché a Siena, diversamente che a Firenze, la carica di cancelliere non era ancora appannaggio degli umanisti. Appena è eletto cancelliere, Patrizi si reca da papa Niccolò V per far presente la difficile situazione della sua città, che è pericolosamente minacciata dalle truppe inviate in Toscana da Alfonso d’Aragona. Tre anni dopo, nel 1450, è a Firenze per risolvere la contesa sorta tra la comunità di Lucignano e quella di Forano. È l’anno in cui intercede perché il papa dia un nuovo vescovo a Siena, contribuendo
così alla nomina dell’amico Piccolomini. Nel 1452 accompagna Federico III a Roma per l’incoronazione. Tra il 1453 e il 1454, svolge importanti incarichi politici per conto del duca di Calabria. Come si ricorderà, questi è il dedicatario del De principe di Pontano. Occorre ora precisare che è anche il destinatario del De regno. La brillante carriera politica di Patrizi attraversa un momento di crisi quando rimane coinvolto nelle lotte tra le fazioni che lacerano la città di Siena, ed è addirittura arrestato e torturato con l’accusa di essere tra gli organizzatori di una congiura. Non si hanno infor3 Oltre alle testimonianza di Enea Silvio Piccolomini, Francesco Filelfo, e Flavio Biondo, che sono riportate da Battaglia (Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del Quattrocento, cit., p. 80), per avere un’idea dell’abilità
retorica di Patrizi si veda anche: F. Patrizi, Orazione per le nozze di Alfonso duca di Calabria e Ippolita Maria Sforza, trad. e note di Rosa e Francesco Tateo, Bari, Safra, 1990. La produzione poetica di Patrizi è attestata dagli Epaenetica, una raccolta di endecasillabi curata da Piccolomini che si è conservata in vari codici: Nardone, Frarcesco Patrizi umanista senese, cit., pp. 45-48.
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mazioni molto dettagliate in merito a questa vicenda: probabilmente la congiura è opera di alcuni nobili appartenenti al Monte dei Nove, che avevano appoggiato Alfonso d’Aragona e Jacopo Piccinino sperando così di impadronirsi del potere da cui l'Ordine del Popolo li aveva esclusi. Anche se non si conosce quale sia stato il ruolo effettivamente svolto da Patrizi, il suo nome compare in alcuni documenti dell’epoca, incluso l’elenco degli attentatori. È Piccolomini a salvare la vita dell’umanista senese, scrivendo una lettera da Roma (1457) per ricordare alla Balìa della città i meriti
civili, e letterari, dell'amico. Nonostante naggio così influente, Patrizi non riesce donata Siena, soggiorna prima a Pistoia, Verona. In questa città, in cui pare abbia
l’intervento di un persoad evitare l’esilio: abbanforse a Rimini, ed infine a svolto l’attività di precet-
tore, consoce Battista Guarino, che scrive per lui la Consolatio
exilii. Il periodo trascorso a Verona permette a Patrizi di osservare più da vicino la realtà politica di Venezia, la città che loda per la sua costituzione nel De institutione reipublicae. Quando rimane vedovo, su consiglio dell'amico Piccolomini, Patrizi decide di indossare l’abito talare (circa 1459). Diventa
vescovo di Gaeta il 23 marzo 1461: non appena sale al soglio pontificio, Piccolomini si preoccupa dell’amico, riuscendo ad ottenere anche la revoca dell’esilio. Grazie all’appoggio del pontefice, nel maggio del 1461 Patrizi diventa governatore di Foligno. Amministra la città per oltre tre anni, ma è costretto alla fuga per lo scoppio di una violenta sommossa, dovuta al suo cattivo governo. Quando morirà Piccolomini, Patrizi avrà più fortuna di Platina. Infatti, nonostante gli sforzi compiuti da Paolo II per sostituire gli amici e i parenti favoriti da Pio II, continuerà a godere della sicurezza e dei vantaggi connessi alla carica di vescovo. Trascorre gli ultimi trenta anni della sua vita a Gaeta, lasciando la città solo per adempiere pubbliche incombenze: nel 1465 accompagna Ferdinando d’Aragona a Milano, dove pronuncia il discorso in occasione del matrimonio del duca di Calabria con Ippolita Maria Sforza; nel 1484 si reca a Roma per l’elezione di papa Innocenzo VIII. Dedica tutto il resto del tempo alla cura della
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diocesi affidatagli, ma anche allo studio ed alla attività letteraria. Si spegne nel 1492, quasi ottantenne. Come Platina, anche Patrizi scrive le sue opere politiche dopo l’arresto*. Il De institutione reipublicae è iniziato durante l’esilio, continuato a Foligno, terminato tra il 1465 e il 1471. È
un trattato in nove libri, dedicato sia “al papa Sisto IV” sia al popolo e al senato di Siena. Pare che sia stato proprio il pontefice ad invitare Patrizi a mandare l’opera Siena, ma i toni della Epistula ad Senatum Popolumque Senesem che è posta all’inizio del De institutione reipublicae fanno pensare ad uno scritto d’occasione, composto per cancellare il ricordo del coinvolgimento nella congiura. Anche il De regno et regis institutione, scritto tra il 1481 e il 1484, sembra legato ad una particolare situazione storica e politica in cui Patrizi si è trovato coinvolto. Come già accennato, quest'opera è dedicata al duca di Calabria, che nel proemio del primo libro è ricoperto di elogi per aver combattuto a fianco dei senesi, sconfiggendo i fiorentini nella battaglia di Poggio Imperiale (1479)6. Patrizi non mette in luce le conseguenze della 4 Come già segnalato, cito l’opera semplicemente come Patrizi, riferendomi alla seguente edizione: Francisci Patricii Senensis, Pontifici Caietani, Enneas de regno et regis institutione, opus profecto et historiarum variegate et sententiarum gravitate commen-
dandum, cum titulorum, vocabulorum, factorum, dictorumque memorabilium indicibus debito literarum ordine dispositis, Parisiis, venundatur in aedibus Ioanni Parui, 1531. I riferimenti al De institutione reipublicae, che d’ora in poi cito semplicemente come Ir, sono presi dalla seguente edizione: Francisci Patricii Senensis, De institutione reipublicae libri nouem, historiarum sententiarumque varietate refertissimi, cum annotationibus margineis, indiceque vocabulorum, factorum, dictorumque memorabilium copiosissimo, alphabetica serie digesto, Parisiis, apud Aegidium Gorbinum, 1575. 5 Nella prefazione dell’opera, mentre celebra le gesta del duca di Calabria, Patrizi accenna al recupero di Otranto dalle mani dei Turchi (settembre 1481), ma non alla guerra di Venezia del 1484: Patrizi, pp. 3-5. 6 Sdegnato per le vendette e per le rappresaglie cui furono sottoposti coloro che avevano partecipato alla congiura dei Pazzi, dopo aver scomunicato Lorenzo de? Medici, Sisto IV si allea con Ferdinando I e con la Repubblica di Siena contro Firenze, che è schierata al fianco di Milano e Venezia. Le truppe di questa coalizione sono sconfitte a Poggio Imperiale, ma Lorenzo de’ Medici tratta la pace riuscendo ad ottenere da Fernando I il ritiro delle truppe aragonesi dalla Toscana: per questo, è celebrato dai fiorentini come salvatore della patria. Poiché gli accordi tra Lorenzo e Ferdinando I pongono fine all’alleanza tra il papa ed il sovrano aragonese, nel 1480 Sisto IV offre la pace a Firenze.
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vittoria, limitandosi a dire che i senesi sono stati liberati dal giogo della servitù”. Tuttavia, è lecito supporre che scelga di dedicare l’opera allo stesso dedicatario del De principe di Pontano per un motivo ben preciso: al fine di rafforzare la propria posizione, nel 1480, il duca appoggia la congiura senese che rimette al potere la fazione di Patrizi. Si forma così il Monte degli Aggregati, l’organismo politico in cui confluiscono i membri delle famiglie escluse dal Monte dei Nove e dal governo del 1456. Oggi poco conosciuti, sia il De institutione reipublicae sia il De regno et regis institutione hanno avuto una grandissima fortuna
tra la fine del Quattrocento e gli inizi Cinquecento, non solo in Italia ma anche in altri paesi europei, in cui pare fossero usati come manuali scolastici. Stampato per la prima volta a Parigi nel 1494, il trattato sulla repubblica ha visto ben nove edizioni pari-
gine tra il 1519 e il 1585. Si deve inoltre notare che nella biblioteca comunale di Siena si è conservata un’edizione del De institutione
reipublicae risalente al 1608. Dopo la prima edizione parigina del 1519, il De regno è stato dato alle stampe per ben quattro volte a Parigi, tra il 1531 e il 1578. L'ultima edizione documentata dell’opera è del 1594. Per dar conto della grande fortuna di tali opere si devono considerare anche i compendi latini, i volgarizzamenti, e le traduzioni. Non credo sia inutile ricordare che il De institutione reipublicae e il De regno sono volgarizzati in italiano nel 1545 e nel 1547: è il fiorentino Giovanni Fabrini da Figline a tradurre le due opere, peraltro in modo poco fedele all’originale8. 7 Patrizi, p. 5: «Tu enim fortitudine, solertia atque industria, eandem non modo a formidabili bello verum a dirae servitutis iogo liberasti. Sed tamen nemo tibi eripiet hoc dignitatis, gloriae famae premium [...]». 8 De discorsi del reverendo monsignor Francesco Patritij Sanese vescovo Gaiettano, sopra alle cose appartenenti ad una città libera, e famiglia nobile, tradotti in lingua toscana da Giovanni Fabrini fiorentino, libri nove, Venezia, presso gli eredi di Aldo Manuzio, 1545; Il sacro regno del gran’ Patritio del vero reggimento, e de la vera felicità del principe, e beatitudine humana, Venezia, per Comin de Trino di Monferrato, 1547, ma vedi anche: Il sacro regno del vero reggimento, e de la vera felicità del principe, composto dal reverendo Patritio vescovo di Gaeta, Dove si disputa del principato secondo Platone, Aristotile, Zenone, Pittagora, e Socrate, ed altri principi di filosofi, e scrittori, che hanno trattato di tal materia, pieno di storie greche, e latine, diuiso in nove libri, tradotti da Giovanni Fabrini da Figline in lingua toscana, e da lui
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Il De institutione reipublicae è integralmente tradotto in francese nel 1520, in un’edizione che è stata ristampata anche nel 1532. Pare che sia stato tradotto in francese, nel 1557, solo il primo libro
del De regno ma esiste una miscellanea delle due opere politiche di Patrizi, intitolata Le livres de la police bumaine: tradotta da un precedente compendio latino, è stampata nel 1544, nel 1546, nel 1549 e nel 1554. Sono miscellanee anche la versione tedesca,
che esce a Mainz nel 1573 e quella spagnola, che è pubblicata a Madrid nel 1591. Vi è, infine, un’epitome in inglese di entrambe le opere di Patrizi, tradotta dal latino nel 1576, che è nota come A Moral Methode of Civil Policy. Secondo il giudizio di Battaglia, Sir Thomas Elyott avrebbe utilizzato anche questa epitome per comporre il The Book Named The Governor (1531), l’equivalente inglese del Libro del cortegiano di Castiglione’. Nel corso delle analisi mi concentrerò esclusivamente sul De regno, per due diversi motivi, tra loro collegati. A differenza dal De institutione reipubblicae, questa opera è un trattato sull’edu-
cazione e i doveri dell’ottimo principe che rientra chiaramente nel genere degli specula principum quattrocenteschi. Inoltre, nel trattato che delinea il modello della perfetta repubblica, non vi sono capitoli espressamente dedicati all’amicizia: per quanto possa sembrare paradossale, Patrizi si interroga sulle caratteristiche dell’amicizia sociale e civile nell'opera de regno, non in quella de republica!9. proprio nuovamente ricorretti, Venezia, presso i fratelli Domenico e Giovan Battista Guerra, 1569. Poiché Fabrini traduce il De regno con molta libertà, corregendo il testo ed aggiungendo commenti ed esempi, ho preferito non avvalermi delle sue traduzioni: le traduzioni dei passi che cito sono mie. 2 Vd. Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del Quattrocento, cit., pp. 104-105, da cui ho ricavato anche le informazioni relative alle edizioni a stampa del De institutione reipublicae e del De regno et regis institutione. 10 I libri del De institutione reipubblicae non hanno tituli attinenti all’amicizia, fatta eccezione per il fitulus tertius del quarto libro: De connubio maritali, veram amicitiam inter coniuges esse (Ir, pp. 110a-117b), in cui Patrizi espone alcune tesi che
riprenderà anche nelle sezioni sul matrimonio del suo speculum principis. Il tema della vera amicizia come modello dell’unione coniugale, e più in generale il tema delle res familiares, è trattato con maggior ampiezza nel De institutione reipublicae che nel De regno. Inutile dire che l’amicizia tra i coniugi non ha nulla a che vedere con la amicizia
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7.2 Struttura e temi del De regno Il De regno è un’opera molto ampia, che consta di nove libri come il De institutione reipublicae. I primi sei iniziano con una
epistola, che celebra la grandezza del duca di Calabria, mentre gli altri riportano solo una dedica. Sin dal proemio, Patrizi chiarisce le finalità pedagogiche della propria riflessione. Specifica, infatti, che compone il De regno non per celebrare le gesta del duca, ma per aiutarlo a bene imperare!!. Nonostante discenda da re che sono l’incarnazione stessa della virtù, il duca ha bisogno di consigli perché, secondo Patrizi, «non vi è nulla di più difficile del governare bene». Questa tesi, che è il leit-motiv dell’opera, dà coerenza e coesione ad analisi molto eterogenee e non sempre ben articolate. Dopo aver chiarito nel primo libro, ed in buona parte del secondo, quali siano le premesse antropologiche e metafisiche da
civile. Più utile, forse, notare che l’amicizia è annoverata tra le virtù connesse alla giustizia anche nel De institutione reipublicae. Si tratta, però, solo di un accenno, perché il titulus secundus del quinto libro — il libro in cui Patrizi dipinge il ritratto dell’optimus cives — consta di poche pagine. Come indicato dai titoli, gli altri capitoli vertono De civili viro, De concordia civium, De animi ratione, De civilibus virtutibus, De fortitudine et eius comitibus, De iustitia et eius comitibus (Ir, pp. 152-156). Inoltre, non vi sono accenni significativi all’amicizia in generale, né all’amicizia civile in particolare, in nessuno degli altri libri dell’opera: nel primo Patrizi sostiene che la democrazia è la miglior forma di governo ed indica le caratteristiche della optima respublica, prendendo come modello sia la kallipolis platonica, sia la repubblica «aristocratica» di Venezia; nel secondo espone un dettagliato programma dell’educazione, delle attività fisiche e degli svaghi che si addicono ai reggitori della città; nel terzo presenta un elenco delle virtù necessarie a chi ricopre le cariche della città e fornsice una dettagliata descrizione delle sue magistrature; nel quarto riflette sui doveri della moglie e del marito; nel sesto analizza i ceti presenti nella città e si intrerroga sulla nobiltà (dei cognomi); nel settimo e nelll’ottavo spiega qual è la collocazione geografica migliore e la struttura architettonica perfetta della città; nell’ultimo libro si occupa di questioni militari. 11 Patrizi, pp. 1-5, in particolare: «Nihil enim difficilius esse potest quam bene imperare, quodquidem quamvis a doctrinae monitis plurimum adiuvatur et decorem quemdam, ac splendorem accipit, tamen longe maiores vires nanciscitur a naturali quadam ac propre divina syderum infusione et deinde ad vernacula atque domestica institutione, et ab assiduo usu, ac consuetudine magnarum rerum, quae quotidie geruntur, cum in pace atque ocio tum in bello et: tumultu quam ab omnium disciplinarum praeceptis et eruditissimis sapientiae documentis». Il corsivo è mio.
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cui muove", Patrizi inizia ad occuparsi dell’educazione del principe: parte dalla nascita, dando consigli persino sull’allattamento; si sofferma sulla scelta dei precettori e dei pedagoghi degli eredi al trono; propone un percorso didattico basato sulla retorica, la matematica, la musica e l’astronomia; sottolinea l’importanza della geografia e della pittura; indica i libri che devono essere letti; non tralascia di dare indicazioni relative all’attività fisica che il principe deve svolgere cavalcando e cacciando; si occupa persino delle attività ludiche con cui potrebbe intrattenersi!3. Vista l’ampiezza dei temi affrontati, l’ultima parte del secondo libro e tutto il terzo libro del De regno possono essere considerati un vero e proprio trattato sull'educazione del principe, in cui Patrizi dà sfoggio della propria erudizione. Nella seconda parte dell’opera si trova un elenco dei vizi che il principe deve evitare, adulazione, delazione, calunnia e maldicenza in particolare, ed un dettagliato catalogo delle passioni (berturbationes) che devono essere contenute o sradicate (leniri aut evelli). Patrizi esamina l’indigenza e l’avarizia, l’ira e l’iracondia, l’amore, la voluttà, la malevolenza, il diletto, la vanità,
lo scherno, la prodigalità e l’ambizione!4. Prosegue, nel quinto libro, con un’ampia e dettagliata rassegna degli stati d’animo che possono turbare l’animo del principe: la pigrizia, il pudore, la misericordia, il terrore, la paura, l’invidia e la disperazione. Tali sentimenti sono descritti in modo molto sottile, distinguendo il terrore dal timore, l’invidia dall’emulazione, la tristezza dalla
disperazione!S. Non è meno acuta l’analisi delle virtù che si addicono al principe, che inizia non appena Patrizi distingue i quattro
gradi della foelicitas contemplativa!6 per spiegare in che cosa consista la vita felice. Il catalogo di virtù proposto nel De regno è molto articolato e complesso: si estende dal sesto all’ottavo libro, ed occupa quindi 12 13 . 14 15 16
Patrizi, Patrizi, Patrizi, Patrizi, Patrizi,
pp. pp. pp. pp. pp.
8-60. 65-123. 135-164. 188-227. 228-234.
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la maggior parte dell’opera. Patrizi individua, infatti, diverse parti costitutive, o species delle virtù cardinali tradizionalmente presenti negli specula quattrocenteschi: la prudenza è connessa al raziocinio, all’intelligenza, alla circospezione, alla previdenza, alla docilità, alla cautela, alla sagacia, alla callidità ed all’im-
parzialità!7; la temperanza è associata alla modestia, al pudore, all’astinenza, alla castità, alla moderazione, alla parsimonia ed alla sobrietà!8; la fortezza, cui è dedicato tutto il settimo libro, è
identificata con la capacità di resistere al dolore ed alla disperazione per poi essere accostata alla magnanimità, alla fiducia, alla serenità d’animo, alla costanza ed alla pazienza!9; la giustizia,
cui è dedicato tutto l’ottavo libro, è distinta in giustizia divina, naturale, civile e giudiziale ed è connessa all’amicizia, all’ospitalità, alla concordia, alla pietà, alla religione, alla affezione ed all’umanità?0. Mi sembra particolarmente importante notare che Patrizi non
descrive solo le virtù che si addicono ad un buon principe, ma anche quelle proprie dei cives, termine con cui indica i sudditi. Il nono libro del De regno contiene, infatti, anche un catalogo delle qualità morali necessarie per essere governati: Patrizi pone
l’accento soprattutto sulla obbedienza e sulla benevolenza?!. Conclude lo speculum una riflessione sulla gloria, terrena e divina, che spetta al principe virtuoso, in cui si trovano anche consigli ‘ relativi alla successione al trono ed alla sepoltura?2. Come si evince da questa approssimativa sintesi dell’opera, il trattato segue tutta la vita del principe, dalla nascita alla morte. La riflessione procede con un ordine ascendente, che porta dal corpo allo spirito, dalle passioni alle virtù, dalla vita terrena alla vita ultraterrena. Servono più di quattrocento pagine per indicare la via che conduce il principe verso la perfezione morale. 17 Patrizi, pp. 227-253.
18 Patrizi, pp. 254-274. 19 20 21 22
Patrizi, Patrizi, Patrizi, Patrizi,
pp. pp. pp. pp.
275-313. 314-358. 363-393. 395-405.
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Per questo, prima di concentrarmi sulla fenomenologia dell’amicizia proposta nell’ottavo libro del De regno, ritengo opportuno mettere in luce alcune caratteristiche dell’opera, che doverebbero consentire di comprendere meglio quale funzione politica sia attribuita a questa relazione. Per cogliere il senso della riflessioni di Patrizi, si deve innanzituuto tener presente quanto ha indicato Chiarelli: in uno dei pochi articoli espressamente dedicati al De regno, lo studioso indica il De regimine principum di Egidio Romano come modlello dello speculum dell’umanista senese23. Le analogie tra il De regimine principum e il De regno riguardano la struttura e la successione degli argomenti piuttosto che i contenuti: come nel De principe di Platina, così anche nell’opera di Patrizi non si leggono citazioni o riferimenti espliciti allo speculum di Egidio. Si deve altresì considerare che Patrizi, come si vedrà meglio nel corso dell’analisi, sostiene tesi platoniche e neoplatoniche che non hanno nessun riscontro nel De regimine principbum di Egidio Romano, né negli altri specula quattrocenteschi presi in esame in questo saggio?4. Bisogna infine, notare che il percorso pedagogico che Patrizi
23 G. Chiarelli, Il De regno di Francesco Patrizi, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XII, 1932, pp. 716-738. Questo articolo è citato in nota anche da Gilbert, per sostenere che è «possibile rintracciare l’influenza diretta di Egidio sulla letteratura quattrocentesca intorno al principe, specialmente su due scritti che affrontano appieno l’argomento: il De vero principe di Platina e il De regno di Francesco Patrizi» (F. Gilbert, Il concetto umanistico di principe e Il principe di Machiavelli, in Id., Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, cit., p. 123). 24 Sul platonismo ed il neoplatonismo del De regno, oltre a Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del Quattrocento, cit., pp. 110-111, si veda anche G. Saitta, L'educazione dell’Umanesimo in Italia, Venezia, La Nuova Italia, 1929, pp. 255-256. Saitta non si sofferma con particolare attenzione sul De regno di Patrizi, perché crede che sia un’opera «noiosa e moralistica», in cui sono presenti «tutti i motivi dell’educazione umanistica, ma annegati e diluiti in un’erudizione incomposta». Pertanto, si limita a sottolineare che lo speculum di Patrizi è «sotto l'influsso del neoplatonismo, specialmente ficiniano», affermando che le tesi sull’amore, sull’infinità dell’uomo, sulla poesia come prima filosofia e sulla virtù civile come vera a perfetta sapienza sono «attinte dai neoplatonici contemporanei» senza chiarire meglio queste fonti. Come le considerazioni di Battaglia, anche le considerazioni di Saitta non sono dunque particolarmente approfondite. Il debito di Patrizi nei confronti
di Ficino meriterebbe ulteriori chiarimenti.
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propone al principe sembra dipendere dalle Leggi di Platone, piuttosto che dallo speculum di Egidio. Non sembra riconducibile al De regimine principum nemmeno la posizione della riflessione sull'amicizia. Come accennato, infatti, a differenza di Platina,
Patrizi non si occupa di questa relazione quando esamina le virtù personali del principe, bensì quando analizza la giustizia. Come è stato messo in luce nel terzo capitolo, analizzando la Vita civile, anche Palmieri attribuisce alla amicizia la medesima posizione, riprendendo alcune tesi aristoteliche. Vista la connessione stabilita tra amicizia e giustizia nel De regno, si potrebbe pensare che la riflessione aristotelica sulla philia proposta nell’Etica Nicomachea influenzi anche Patrizi?6. Le analisi svolte nel prossimo paragrafo confermeranno questa ipotesi solo in parte perchè Patrizi pone la propria riflessione sull’amicizia sotto il segno di Platone. La peculiarità del De regno emerge con particolare evidenza se si considera la riflessione di Patrizi sulla miglior forma di governo. Egli giustifica la scelta di scrivere un’opera de regno dopo aver scritto un’opera de republica ponendo realtà politiche così diverse come la repubblica ed il regno sotto il comune denominatore della virtù. Sottolineando che non conta chi è al governo, ma come questi governa, mostra di non essere partico-
larmente sensibile agli assetti costituzionali del potere, come gli autori degli specula esaminati nei precedenti capitoli?7. Diversamente da Vicini, Pontano e Platina, però, propone un’analisi delle forme di governo di chiara derivazione aristotelica, che non ha 25 Nel del De regno la caccia è esaminata subito dopo l’astronomia, ed è preceduta dalla geometria e dalla matematica, come nell’ottavo libro delle Leggi, in cui, peraltro, sono menzionati anche i sacerdoti egizi cui si richiama Patrizi: cfr. Patrizi, pp. 80-97 con Platone, Le leggi, in Id., Opere complete. Minosse, Leggi, Epinomide, Roma-Bari, Laterza, 1982, libro VII, 817e-824b, pp. 245-253; d’ora in poi citerò questa edizione semplicemente come Leg. Per altri riferimenti alle Leggi vd. anche Patrizi, p. 93.
26 EN, VIII, 1159b 24-1160a 30, pp. 335-339.
27 Patrizi, p. 7: «Nam si vir unus optime imperat tunc regnum nuncupabitur: sin vero plures tunc optimatum respublica. Nihil enim de ratione ac virtute admonebitur, unusne, an plures multitudinem gubernent». Si noti che questa tesi è introdotta da un riferimento al quarto libro de civili societate del divinus praeceptor Plato: Patrizi si riferisce così al quarto libro della Repubblica subito dopo aver ricordato i suoi nove volumi sulla civilis institutio, ossia il De institutione reipublicae.
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un corrispettivo in nessuna delle raccolte di consigli per i principi analizzate sino ad ora. Non si limita a contrapporre il regno (regnum), l’aristocrazia (aristocratia) e la democrazia (politia) alle corrispondenti degenerazioni, ma individua altre forme di governo: il dominio della plebe (plebeimm dominatum), il governo caratterizzato dall’uguaglianza davanti alla legge (isonomia) ed il governo del popolo (popularis status)?8. Considera il il governo di molti la principale casua della discordia, come Platina nel De principe, e lo contrappone alla monarchia, la forma di governo che realizza al meglio la concordia e la giustizia??. Si noti che la contrapposizione tra il governo di molti — la respublica o la forma di democrazia non degenerata — ed il governo di uno solo — la monarchia — non è statica, ma dinamica e ciclica: Patrizi sostiene
che la discordia trasforma le città in un corpo senza cuore e in un’anima senza mente, generando quella tirannide da cui le civitates e le respublicae si liberano trasformandosi nuovamente in
28 Patrizi, pp. 11-14. La classificazione delle forme di governo rimanda a P, I,
1159a 36-1159b 19, pp. 121-125 ed EN, VII, 1161a 10-1161b 10, pp. 341-345, dove la monarchia è associata al. rapporto tra il padre e i figli, l'aristocrazia al rapporto tra il marito e la moglie, la polizia al rapporto tra fratelli. Patrizi integra queste analisi con la teoria del Digesto (il giureconsulto Caius) menzionando anche l’eforato spartano e la tirannide di Pisistrato. Come si ricorderà anche Platina utilizza il termine status popularis per descrivere la respublica di Firenze. Beroaldo distingue invece tra status popularis, status paucorum e status unius: vd. FE. Beroaldo, De optimo statu libellus, in Id., Opuscula, cit., 11r e f, 12v. Secondo Rubinstein, l’uso del termine status nella
classificazione dei tipi di governo descritti da Aristotele dipende da Tommaso d’Aquino, perché in alcune versioni della Expositio della Politica si parla delle oligarchie come status paucorum e del governo del popolo come status popularis. Criticando Rubinstein, invece, Skinner sostiene che questo uso del termine status sia un merito da
ascrivere a Patrizi e ad altri umanisti della sua epoca: Q. Skinner, Dallo stato dei prìncipi alla persona dello stato, in Id., Virtà rinascimentali, cit., pp. 271-329, in particolare pp, 279-280. 29 Patrizi, p. 39: «Cernimus enim civitates quae a pluribus gubernantur, seditionibus et intestino odio plaerunque laborare. Illas autem quae ab uno reguntur concordes esse, ut quae iuste legitimeque imperanti, aequo animo pateant, ultroque obsequantur,
sui aemulatione, aut obtrectatione aliqua. [...] Quin etiam civitates atque respublicae ipsae cum bellorum calamitatibus, aut maximis difficultatibus premuntur, ad unitatis remedium se conferunt, nullaque ratione alia facilius evadunt, quam si res omnis ad unius arbitrium redigatur».
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
monarchie30, Tali cambiamenti sono descritti da due diversi punti di vista: prima Patrizi propone una sintesi della storia di Roma, in cui spiega il passaggio dalla repubblica all’impero enfatizzando il ruolo della magistratura della dittatura; poi sostiene che «i re sono stati dati agli uomini da Dio» e mostra come è nato il principato nello stato di natura3!. Con il racconto della vita dell’uomo nello stato di natura viene in primo piano la componente platonica e neoplatonica delle riflessioni svolte nel De regno. Per Patrizi, i re ed i principi sono esseri quasi divini perché sono un dono che Dio ha dato alll’uomo32. Né buono né cattivo, capace di fare il bene, ma incline al male, l’uomo è l'essere più
fragile che esista: si nutre a fatica dei frutti della terra; vive
nudo ed indifeso, in balia di una natura che non è madre, ma
«matrigna»; è tormentato da passioni che gli altri animali non conoscono, perchè è ambizioso e si preoccupa per il futuro; soffre più di tutti gli altri.viventi perché è l’unico animale ad uccidere i membri della propia specie e così via33. La condizione umana nello stato di natura migliora solo quando Dio - «dio ottimo massimo, che è la prima causa e il primo principio delle cose che sono (deus optimus maximus qui prima rerum est causa et princeps eorum quae sunt)» — dona agli individui la ragione (mens, anima o animus), rendendoli simili a lui oltre che signori
del mondo e di tutti gli altri animali84. Grazie alle scintille celesti ed ai semi delle virtù (igriculos quosdam coelestes et semina quaedam virtutum) che Dio pone nella mente dell’uomo, questi può raggiungere la felicità: riesce a procurarsi tutto ciò di cui la natura l’ha privato, controlla le passioni che lo tormentano, 30 Patrizi, p.
58: «Sed haec diversarum urbium convenientia et quali harmonia
raro diuturna, stabilis ac firma, esse solet, verum discordia et seditione facile corrum-
pitur. Et plerumque tyrannidem patitur. Sunt enim eisumodi civitates veluti membra sine corde, aut partes reliquae animi sine mente. Proinde expedit, ut ad unitatem illam redeant de qua paulo ante diximus regisque pareant, qui iuste imperat et uno pro omnibus vigilit». 31 Cfr. Patrizi, pp. 29-31 e 39-49. 32 Patrizi, p.21. 33 Patrizi, pp. 23-24. 34 Patrizi, p. 25, in cui Patrizi sostiene che l’uomo è un «microcosmo».
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impara a vivere con altri uomini*5. Patrizi sovrappone a questa descrizione dello stato di natura un’altra rappresentazione, che è modellata sulla Pro Sestio di Cicerone, e risente della influenza del mito di Prometeo ed Epimeteo narrato nel Protagora di Platone36. Intrecciando queste fonti mostra che la nascita dello stato è artificiale: la vita civile e politica degli uomini non è un dato naturale, ma una creazione umana. Prima di mostrare quale sia l’origine e l’evoluzione della vita associata degli uomini, Patrizi fa una precisazione importante. Si riferisce, infatti, a Plotinus Platonicus per ricordare che il mondo è retto da un dio che lo istituisce e da un Dio che lo governa. Chiarisce, inoltre, che un’anima forma il corpo dell’uomo, l’altra lo dirige®7. Sottolinea così il legame esistente tra l’anima dell’uomo e l’anima del mondo. Ripete, infine, che la vita associata è possibile proprio perché Dio ha dato all’uomo una mente o un’anima divina. Uniti dal linguaggio oltre che dal bisogno di scambiarsi beni e dalla necessità di difendersi, gli uomini vivono come un gregge senza pastore e pensano solo all’utile personale, finché non scelgono qualcuno superiore a tutti per virtù, eloquenza, forza e integrità, che li guidi verso il bene comune?8. Per Patrizi,
35 Patrizi, p. 20: Patrizi riconduce genericamente la teoria delle scintille e dei semi divini presenti nella mente dell’uomo sia a Platone sia ad Aristotele. 36 Si veda in proposito Stocchi, Il pensiero politico degli umanisti, cit., pp. 17-24: Patrizi è fedele solo in apparenza al modello ciceroniano della Pro Sestio perché dilata i tempi dello stato di natura, distinguendo e separando il momento in cui gli uomini si associano da quello in cui formano lo stato; mostra così che lo stato non è un prodotto naturale, bensì un prodotto culturale. Per l’influenza del Protagora sul De regno, vd. anche il capitolo dell’ottavo libro relativo alla giustizia divina, in cui Patrizi sostiene che Dio ha posto nella mente dell’uomo l’idea di giustizia rendendo possibile la vita associata poco dopo aver menzionato Prometeo: Patrizi, p. 314.
37 Patrizi, p. 27. 38 Patrizi, pp. 28-29: «Sic coniuncti deinde societates mutuis officiis homines dando, accipendo, commodando, mutuando inter se facilius victitare coeperunt, et ferarum incursum communi munimento propulsare: sed cum naturaliter quisque magis
sibi ac suis cum a reliquis studeat, unusquisque rem suam agebat, proximique commodo sequebatur, nec erat quispiam qui pro communem utilitatem laboraret, nec qui curam multitudinis ageret. Errabantque veluti sine pastore greges. Id circo cogitandum fuit ut esset aliquis qui aliis praesset, cunctos regeret, pro omnibus excubaret, communi utilitati ac commodo studeret. Elegerunt igitur virum aliquem virtute, sermone, ac
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questo rector è il primo principe della storia dell’umanità. Poiché sostiene che «il governo degli uomini sugli altri uomini è stato concesso dalla provvidenza divina e dal volere di Dio (imperium in homines divina providentia divinoque nuto concessum esse)» ed afferma che «può governare giustamente ed a lungo solo chi ha ricevuto il potere da Dio (nec posse quempiam iuste, aut diuturno tempore imperare nisi eum cui deus imperium permi-
serit)», la scelta del rector dipende sia dalla volontà dell’uomo sia dalla volontà di Dio3?. Per questo il governo di un solo uomo è il governo più naturale ed allo stesso tempo il più divino. A questo punto della propria analisi, per mostrare che la monarchia è la miglior froma di governo, Patrizi afferma che: La ragione naturale insegna che ogni moltitudine comincia dall’uno. In tutte le cose, infatti, la natura conduce ciò che è ottimo e perfetto secondo la specie delle singole cose. Ma la stessa unità, che viene detta pévag, è di questo tipo da cui i sapienti pensarono che fossero fatte tutte le cose e in cui pensarono che tutte le cose si risolvessero. [...] Così anche Pitagora di Samo, che credeva che l’unità fosse il principio di tutte le cose, che da quelle venisse un’infinita dualità, che la materia si offrisse all’unità come all’artefice e vi fosse del tutto soggetta. Per questo possiamo dire con una similitudine che l’unità governa, gli altri numeri obbediscono. Dunque diciamo che il governo di un uomo solo è di gran lunga meglio di quello di molti*0.
La monarchia è la miglior forma di governo perché realizza un’unità che è qualcosa di più della concordia politica: è l’unità
fortitudine praestantem, et probitate ac moribus integrum, quasi pastor omnium esset». Il corsivo è mio. Visto lo sfondo platonico della riflessione di Patrizi, il paragone del rector con il pastore potrebbe derivare da Platone, Politico, trad. e intr. di P. Accattino, Roma-Bari, Laterza, 1997, 267a-267d, pp. 33-35.
39 Patrizi, p. 31. 40 Patrizi, p. 39: «Naturae ratio edocet omnem multitudinem ab uno incipere. Agit enim in omnibus natura quod optimum perfectumque fit secundum singulorum speciem. Sed unitas ipsa quae dicitur pévag eiusmodi est ut ex ea omnia fieri et in eam omnia resolvi veters sapientes putaverint. [...] Sic et Pythagoras Samius principum omnes-rerum omnium unitatem esse arbitratus est. Et ex ea infinitam dualitatem, veluti materiam auctori unitati praebere, subiectamque ei omnino esse. Hinc dicere per similitudunem possumus unitatem imperarare, reliquos autem numeros parere. Proinde dicimus unius viri principatum longe prestantiorem esse quam multorum». Il corsivo
è mio.
.
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metafisica del principio che governa tutte le cose, l’unità dell’uno. Il principe governa sui sudditi non solo come dio governa sul mondo, la mente sulle parti dell’anima, il cervello (o il cuore) sulle membra del corpo, ma anche come l’uno governa su tutti i numeri di cui è il principio. Poiché nel passo citato Patrizi sostiene che tutto origina dall’uno e tutto si risolve nell’uno, la ciclicità dei mutamenti costituzionali, il passaggio dalle repubbliche - corpo senza cuore e anima senza mente — alla monarchia non deve essere considerato solo come una fase della storia umana o un segno della provvidenza divina: è anche un esito della metafisica neoplatonica di Patrizi. Il fondamento metafisico del pensiero politico di Patrizi è molto forte, perché è esplicito e consapevole. L’umanista senese, infatti, non si limita a paragonare il re all’uno, mostrando così che il principe è il principio della realtà politica, ma sostiene anche che il re è la personificazione e l’immagine dell’idea platonica del bene. Affermando ciò, formula una tesi analoga a quella proposta nella lettera in cui Ficino loda Cosimo perché vede in lui l’immagine dell’idea platonica della virtù4!. Nel secondo libro 41 Come nota Brown (Brown, The Humanist Portrait of Cosimo de’ Medici, Pater Patriae, cit., pp. 202 sgg.), all’inizio, Ficino idealizza Cosimo in modo analogo ad Argi-
ropulo: descrive la sua relazione con il signore di Firenze come quella tra un principe e un filosofo, ed interpreta il suo lavoro di traduzione come una continuazione di quello affidato al dotto bizantino. Col passare del tempo, però, Ficino inizia a considerare le sue traduzioni come una missione divina, voluta da Cosimo stesso, e a lodare il signore di Firenze soprattutto come patrono. Morto Cosimo, negli anni in cui la famiglia Valori subentra a quella dei Medici nel ruolo di patrona del filosofo, Ficino inizia a proporre Cosimo come esempio di straordinaria grandezza morale. Nella lettera per Arrigo Benci, sostiene che le azioni degli eroi infiammano le virtù degli uomini più ardentemente delle dispute dei filosofi antichi sull’etica. Nella lettera per Niccolò Melozzi ammette di non riconoscere in Cosimo virtù umane, ma virtù eroiche. In quella per Cavalcanti dichiara di aver sperimentato che i filosofi sono rigenerati dall’amore degli eroi. Vi è poi la lettera per Lorenzo de Medici, in cui Ficino paragona Cosimo a Cristo ed a Socrate,
due uomini che hanno insegnato con l’esempio molto più dei filosofi e dei retori. In tale lettera confessa, inoltre, di dovere a Cosimo tanto quanto deve a Platone, perché il pater patriae ha praticato ogni giorno quell’idea di virtù che gli ha mostrato l’autore della Repubblica. Infine, quando invita Lorenzo a prendere come modello l’immagine di Cosimo, Ficino dice che: «Laudo igitur te, mi Laurenti, qui lectionem quidem mortalem non spernas. Lectioni tamen imitationem tanquam rem vivam longe praeponat: presertim cum senem illum, senatusconsulto Patrem Patriae iudicatum, tibi iampridem
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
del De regno, dopo aver ripreso la dottrina platonica delle idee, intese quali forme assolute e immutabili che esistono in mente Dei, infatti, Patrizi dice che: Noi che stiamo per parlare del potere o del governo di un solo uomo, se vogliamo discutere in questi libri ragionevolmente ed ordinatamente, riconduciamo il nostro discorso all’ultima forma e specie del suo genere. E immaginandola nell’ottimo principe, formiamolo tale quale forse nessuno mai fu. Non ci deve infatti essere chiesto chi fu mai così, ma bisognerà vedere come deve essere chi decidiamo che sia l'ottimo re o principe*2.
Diversamente da Palmieri, che dichiara di voler scrivere la Vita
civile per uomini in carne ed ossa, Patrizi decide di proporre un modello di principe ideale, che non è mai esistito43. Deve, quindi,
essere annoverato tra colro «che si sono immaginati repubbliche e principati che non sono mai visti né conosciuti essere in vero»,
ossia tra gli autori di raccolte di consigli per i principi da cui
Machiavelli, nel Principe, prenderà consapevolmente e volonta-
riamente le distanze per andar dietro alla «verità effettuale della
proposueris imitandum, Magnum Cosmum dico avum tuum, patronum meum, virum ante alios prudentem, erga Deum pium, erga homines iustum, atque magnificum, in se
ipso tempertaum: in re familiari almodum diligentem, ac multo accuratius in republica circumspectum, qui non sibi solum sed Deo et patriae vixit, cuius animo nihil inter homines humilius, nihil rursus excelsius. [...]. Multum equidem Platoni nostro debeo, sed Cosmo non minus debere me fateor. Quam enim virtutum ideam Plato semel mihi monstaraverat, cam quotidie Cosmus agebat. [...] Vale et sicut Deus cosmum ad ideam mundi formavit, ut a te ipse quemadmodum coepisti, ad ideam Cosmi figurae» (M. Ficino, Opera, Ivry sur Seine, Phénix Éditions, 2000, sous la dir. de S. Toussaint, reprise de l’édition Henricpetrina, Bale, 1576, pp. 648-649; corsivo mio). Oltre a questo passo, che ho citato per mostrare che Cosimo è l’immagine dell’idea platonica delle virtù come il principe descritto da Patrizi è l’immagine dell’idea platonica del bene, a conferma di quanto sostenuto da Brown, vd. almeno Ficino, Opera, cit., pp. 1965, 1836, 15 37-38,
1128-1130, 896-897, 807, 843-844, 728-729, 646-647,624, 622 e 609.
42 Patrizi, p. 61: «Nos igitur de unius viri dominatu aut imperio dicituri, in his libris si ratione, ac via disserere volemus, ad ultimam sui generis formam ac speciem sermonem nostrum redigamus. Atque in optimo principe fingendo talem formemus qualis fortasse nemo umquam fuit. Non enim quaerendum a nobis est, quis eiusmodi fuit, sed videndum erit qualis debet esse ille quem optimum regem, aut principem esse statuimus». Il corsivo è mio. Si trovano chiari riferimenti alla dottrina platonica delle idee anche in Patrizi, p. 222. 49. Vespa
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cosa»44. Per giustificare la scelta di collocare la propria riflessione sul piano del dover essere anziché su quello dell’essere, Patrizi dichiara di seguire l'esempio della Repubblica, in cui Platone: «non descrisse la vita politica delle città d di Atene o di Sparta, ma imaginò ed inventò una città perfetta, contemplando quella idea che mai fu e mai sarà». Il principe descritto da Patrizi sembra, dunque, perfetto perchè non è un principe reale, ma un principe ideale. Ed è un modello tanto più valido quanto più è vicino alla perfezione dell’idea che incarna. Si potrebbe sottolineare che Patrizi ottiene il modello dell’ottimo principe attribuendo ad un’unica persona tutte le virtù che appartengono a principi diversi, seguendo la tecnica di Zeusi, il pittore che ha dipinto il ritratto di Elena ricavando l’immagine della perfetta bellezza femminile dalle forme di molte fanciulle49. Preferisco, invece, evidenziare che egli crede che il principe sia l’incarnazione dell’idea del bene: l’ultima forma cui fa riferimento nel passo citato. Patrizi è l’unico autore degli specula esaminati ad aver compreso che la Repubblica è il dialogo in cui Platone non espone solo la tesi dei re filosofi articolando un dettagliato programma per l’educazione dei cittadini, ma anche la dottrina delle idee, ponendo l’idea del bene al di sopra di tutte le altre. Credo che la capacità di comprendere la dimensione metafisica delle tesi sostenute nella Repubblica derivi da una conoscenza più estesa delle opere di Platone: Patrizi si riferisce continuamente al filosofo nel De regno citando, più o meno direttamente, più o meno esplicitamente, oltre alle Leggi, anche il Cratilo, il Simposio e il Liside, lo Ione, il Politico, il Timeo, il Filebo, nonché alcuni dialoghi probabilmente spuri come il Teage ed il Minosse. Poiché ritiene che il principe sia l’incarnazione dell’idea del bene,
44 Machiavelli, Il principe, cit., p. 102. 45 Patrizi, p. 61: «non Atheniensium rempublicam seu Lacedaemoniorum scripsit sed novam commentitiam finxit civitatem perfectam, illam Ideam respiciens quae numquam fuit et numquam futura est».
46 Patrizi, p. 62. 47 Senza contare i riferimenti impliciti, Platone viene espressamente nominato in Patrizi, pp. 7, 16, 34, 47, 48, 62, 80, 93, 98, 154, 164, 201, 233, 236, 385, 402.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
nei passi in cui sostiene che «gli altri cittadini sono soliti essere come sono i principi (tales reliquos cives solere esse quales principes), formula una tesi diversa da quella che è espressa, per altro con parole quasi identiche, anche nel De principe di Platina#8, Il platonismo di Patrizi si fonde con temi neoplatonici che ritornano in superficie quando è introdotto il catalogo delle virtù che si addicono al buon principe. La riflessione sulla felicità umana che precede l’elenco delle virtù, infatti, è posta sotto l’autorità di Plotino*?. Patrizi si richiama a questo filosofo per indicare i quattro gradi della felictà contemplativa (foelicitas contemplativa), distinguendo tra virtù civili, virtù purgatorie, virtù degli animi purgati e virtù divine o esemplari9°. Come è stato messo in luce nel terzo capitolo di questo saggio, questa quadripartizione delle virtù si trova anche nei passi della Vita civile in cui Palmieri riprende il commento di Macrobio al Somnium Scipionis. La differenza tra la Vita civile e il De regno non dipende solo dal fatto che Palmieri non si riferisce espressamente a Plotino, ma anche dal fatto che riflette sulla felicità dell’uomo con toni molto diversi da quelli usati da Patrizi5!. Infatti, nonostante citi Platone per sottolineare i doveri che si hanno verso i familiari, gli amici, i concittadini e l’intero genere umano, sebbene sostenga che l’uomo è per natura un animale sociale e politico menzionando Aristotele, questi non si concentra sulle virtù civili. Inoltre, subito dopo aver nominato il Somnium Scipionis per ricordare che non c’è
nulla di più gradito a Dio della vita politica, sembra subordinare le virtù civili alle virtù contemplative. Precisa altresì che il viaggio attraverso i terreni della virtù conduce l’uomo in cielo: sembra che le virtù civili siano esaltate solo perché rendono l’uomo simile a-Dio?2,
48 49 50 S1
Patrizi, p. 318; da confrontare con Platina, p. 150. Patrizi, pp. 230-235. Cfr. Patrizi, pp. 233-235 e Vc, pp. 51-53. Patrizi, p. 233.
52 Patrizi, p. 234: «His igitur verbis consecutus.est, ut per terrenos virtutis actus
iter etiam ad superos nobis pateat, ut illis quoque patet, qui contemplationi intenti videtur, quasi naturam humanam exuisse et hominem ex nomine extrassisse». Inoltre,
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La conclusione della riflessione sulla felicità umana è particolarmente significativa perché consente di capire meglio come porceda l’analisi delle qualità morali necessarie al principe. Patrizi spiega, infatti, che «dall’ambiguo insegnamento di Socrate» sono nate dodici scuole filosofiche:
l’accademia
antica di Platone,
quella media di Arcesilao, quella nuova di Lacide, quella di Aristippo di Cirene, di Focione ed Euclide, la scuola megarica di Antistene, quella stoica di Zenone, quella peripatetica di Aristotele e quella epicurea. Dichiara che seguirà gli stoici, ed in particolare Cicerone, nel definire le virtù, e che riprenderà le sentenze degli antichi accademici e dei peripatetici nelle sue analisi93. In effetti, le virtù del principe sono descritte con citazioni tratte dal De finibus bonorum et malorum, dalle Tusculanae disputationes, dal De inventione e dal De officiis di Cicerone. Inoltre, tali citazioni si mischiano con i riferimenti tratti dall’Etica Nicomachea e dai dialoghi di Platone. Sono seguite da numerosissimi esempi, ricavati soprattutto dalle Vite e dagli Apophtegmata di Plutarco, dal De dictis factisque memorabilibus di Valerio Massimo, dalle opere di Senofonte, mai dalla storia recente o contemporanea. La varietà delle fonti del De regno non dipende solo dall’erudizione di Patrizi. Questi, infatti, si riferisce a Cicerone e Platone, Plotino e Senofonte, Pitagora e Isocrate, Dione di Prusa ed i
Caldei, Quintiliano e Omero, Stratone di Lampsaco ed i sacer-
doti Egizi, Plutarco ed i poeti antichi, che rtiene si siano occupati della «sapienza morale o civile» molto prima dei filosofi*, anche Patrizi, p. 237: «Virtutes enim tantae sunt ut vel si solae vitam beatam effimere possint, nulla quidem alia ratione foelicitatis nomen nanciscimur, nisi per virtutes ipsas quae et nos deo optime conciliant eique simillimos reddunt et ex mortalis immortalibus efficiunt». Il corsivo è mio. 53 Patrizi, p. 234, da confrontare con quanto detto a p. 237. S4 Patrizi, p. 10 per la sapienza dei poeti; per i riferimenti ad Omero vd. Patrizi
pp. 13, 33, 37, 46, 55, 63, 79, 80, 101-102, 118, 123, 128, 132, 138, 339; per l’impor-
tanza dell’orazione Ad Nicoclem di Ioscrate e dei discorsi De regno di Dione di Prusa ‘vd. il titolo del primo libro, dedicato a questi due autori: Patrizi, pp. 13-15; oltre alle Vite, che sono fonte di numerosissimi esempi, Patrizi cita spesso anche gli Apophtegmata di Plutarco (per es. Patrizi, p. 72); Senofonte è presente soprattutto con la Ciropedia: (vd. Patrizi, pp. 1, 7, 30, 31, 61, 91, 134, 135, 139, 188, 239, 382, in cui Ciro è il modello dell’ottimo principe), ma anche con gli Oeconomica (per es. Patrizi, p. 121)
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perché ha una precisa conecezione del sapere. È una concezione neoplatonica, che andrebbe confrontata con quella di Ficino. Essa emerge con particolare chiarezza nel capitolo dedicato all’astronomia. Dopo aver citato il Cratilo per ricordare che gli antichi egizi adoravano il sole e la luna ed i greci consideravano teologi gli astronomi, Patrizi comincia una delle numerose digressioni che si trovano nel De regno: sottolinea che Socrate non avrebbe pouto conoscere le cose umane ignorando quelle divine; si riferisce a Diodoro Siculo per mostrare che Orfeo, Museo, Dedalo, Omero, Solone, Pitagora, Platone, Eudosso e Democrito si erano
recati in Egitto per conoscere la disciplina dei sacerdoti; menziona «l’antica disciplina dei Caldei»; connette la «sapienza di Mosè» ai versi di Orfeo che avrebbe mostrato, molti secoli prima delle opere di Platone, che «Dio è uno, ha creato tutte le cose e può essere visto solo con gli occhi della mente»55. Precisa, infine, che
la sapienza di Orfeo e di Mosè è la stessa sapienza di Omero e di Esiodo, di Democrito e di Epicuro, di Arato e di Pindaro,
di Epicarmo e di Talete, di Pitagora e di Cicerone, ed è identica ad ogni pensiero su Dio precedente a quello di Cristo, «che ha svelato agli uomini tutti i misteri divini con la luce della verità». Patrizi sembra convinto che quasi tutti i filosofi e i poeti antichi abbiano anticipato i misteri rivelati da Cristo, quegli stessi misteri che raccomanda di osservare al duca di Calabria57. Nel De regno la poesia di Orfeo è unita al messaggio di Cristo dalle tesi di Platone, Aristotele, Cicerone e degli altri filosofi appena menzionati proprio perché l’umanista è convinto che la (vera) filosofia
e, probabilmente, con il trattato sulla caccia e con i Memorabilia. Cicerone è indicato anche come esempio: Patrizi, p. 215. Per Stratone di Lampsaco vd., per es., Patrizi, p. 95. Per Quintiliano, vd. per es. Patrizi, p. 48. SS Patrizi, pp. 89-90; quando Patrizi sottolinea che Mosè è l’unico ad aver visto Dio, lo definisce «senem chaldeo sanguine oriundum». 56 Patrizi, p. 90, ma vd. anche p. 24, in cui è sottolineata la continuità esistente tra il precetto delfico del «nosci te ipsum», che invita a conoscere la divinità che è nell’uomo, e la «vera salvatoris nostri Christi sapientia» mediante un riferimento all’insegnamento di Orfeo, Museo ed Ermete Trismegisto. Patrizi attribuisce a quest’ ultimo la definizone della pietas come «notio dei». 57 Patrizi, p.91.
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sia una sola, rimanga sempre identica a se stessa come la (vera)
sapienza, si basi sui medesimi principi, non muti per la varietà degli argomenti o dei discenti58. Chiarita qual è la concezione del sapere su cui poggiano le riflessioni del De regno, vorrei indicare alcune caratteristiche del principe di Patrizi che appartengono anche ai principi descritti negli altri specula esaminati nel saggio. Il principe non è solo l’incarnazione dell’uno e dell’idea platonica del bene, ma anche il vir bonus di cui parla Cicerone nel De oratore e nel De inventione. È un buon principe perché governa sui popoli e sulle città «in nome della superiorità morale» o «per legittima elezione», unificando in sé tutte le magistrature ed essendo la personificazione della legge9?. «Custode di ciò che è buono e giusto e, per così dire, legge vivente (custos boni et equi et quasi ius animatum)», il principe non si preoccupa per sé,
ma per gli altri90. Non assoggetta nè intimorisce i sudditi, perché governa «con la ragione e la virtù (virtute et ratione)», anziché «con la forza e la potenza (vi et potentia)» che sono caratteristiche del tiranno. Si preoccupa della felicità dei sudditi che ama e cerca di rendere migliori6!. Queste tesi, che sono emerese anche nei capitoli precedenti del saggio, mostrano che il potere del principe ha
S8 Patrizi, p. 95: «Eius libri [i libri di Stratone di Lampsaco] indicem multi admirati sunt, ut qui dicerent philosophiam semper unam atque tandem sapientiam, quae numquam a se ipsa discederet, sed semper eisdem praescriptis sibi constaret, nec mutaretur auditorum aut discentium varietate: quibus quidem respondendum fuit veram esse philosphiae constantiam, ut asserunt, sed cum profiteatur divinarumque humanarumque rerum cognitionem discendendum aliquando est ab infinita illa cogitatione quaestioneque quae Theoresis Greci appelatur [...]». Si noti che dopo aver sostenuto l’immutabilità della vera filosofia e della vera sapienza, citando Stratone di Lampsaco, Patrizi (ivi, p. 95) afferma che, secondo gli astronomi, Saturno muove l’intelligenza, Giove l’azione, Marte l’ardore, il Sole l'opinione, Venere il desiderio, Mercurio la parola e l’interpretazione, la Luna il corpo. Inoltre, ricorda che secondo gli antichi poeti lo spirito nasce dal Sole, il corpo dalla Luna, il sangue da Marte, l’ingegno da Mercurio, il desiderio da Giove, la passione da Venere, l’umore da Saturno ed ogni pianeta influenza un’età dell’uomo. Sono ulteriori ed evidenti prove del neoplatonismo che anima le riflessioni del De regno.
S? 60 di EN, 61
Patrizi, p. 47. Patrizi, p. 49. Si noti che in questo passo la giustizia è alienum bonum, con echi V, 1130a 4-9, p. 175. Patrizi, pp. 47-48.
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natura, giustificazione e finalità etica. Il principe è il cuore, la mente e l’anima del corpo politico perché è il garante della moralità dei sudditi, su cui deve vigilare come un padre, amando soprattutto i migliori, come sostiene anche Vicini62. L’ottimo principe di Patrizi deve essere liberale, magnanimo, clemente e sincero come i principi descritti nel De principe di Pontano e di Platina93. Inoltre, come il principe di Platina, il principe di Patrizi deve scegliere i magistrati in base alla loro virtù$4. Infine, come il principe di Pontano, deve saper distinguere la superstizione dalla religione, considerata quale fundamentum regni anche nel De regno”. Patrizi propone tesi analoghe a quelle di Vicini, Pontano e Platina, e riflessioni affini a quelle di molti altri umanisti. Quando connette indissolubilmente la felicità alla virtù per mostrare che potrebbe essere felice solo il principe virtuoso, mette in luce i rischi connessi all’esercizio del potere con una analisi che andrebbe confrontata con quella proposta da Bracciolini nel De infelicitate principum$6. Mentre in alcune pagine del De regno pone in primo piano la miseria e la debolezza della condizione umana, in altre Patrizi esalta la natura divina dell’uomo: come si è già accennato l’uomo è l’unico essere vivente capace di parlare e di vivere in società, è il signore del mondo e della natura, ed è chiamato a farsi simile a Dio97. Poiché non sottolinea il valore della vita attiva, le 62 Patrizi, pp. 240, 246, 383-385, 389; da confrontare con De institutione, pp. 64-71.
63 Cfr. Patrizi, pp. 138, 303-308, 325; Platina, pp. 121-125, 135-142; De principe, par. 6, p. 11; parr. 46-63, pp. 55-75.
64 Patrizi, pp. 383-384; da confrontare con Platina, pp. 72-75. 65 Patrizi, pp. 92-93: «His igitur rationibus et exemplis concludendum est, religionis pietatisque cultum deum optimum maximum regibus principibusve optime conciliare et eorum actiones foeliciores reddere. Atqui mortales reliqui exinde eos observant tamquam divina quaedam numina inter homines. At contra impietatis fama omnia difficiliora reddit et principem ipsum omnibus criminibus obnoxium». Segue un riferimento esplicito al De natura deorum di Cicerone, da cui deriva la distinzione tra religione e superstizione proposta in Patrizi, pp. 90, 250-251. Questi passi del De regno
andrebbero confrontati con Platina, pp. 56 e 61-66; De principe, parr. 3-5, pp. 5-9. 66 Patrizi, pp. 20-23. 67 Patrizi, p. 25, in cui si dice che Dio dà all’uomo una mente simile alla sua; Patrizi, pp. 27-29, il capitolo in cui è descritta l’origine del regno; Patrizi, pp. 54-55, il capitolo che si intitola Statuendum est Deum summum esse bonum, finem hominis
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pagine del De regno in cui è mostrata la grandezza dell’uomo sono più simili a quelle del De dignitate hominis di Pico della Mirandola (1486) che non a quelle della Famiglia o della Vita civile. Tipicamente umanistica è anche la riflessione sulla fortuna, che Patrizi distingue dal fato ed identifica con l’instabilità e la mutevolezza della condizione umana, ponendo l’accento sul potere della libertà e sulla forza della virtù. Se la mutevolezza e l’instabilità della fortuna non fossero anche contrapposte all’eternità ed all’immutabilità della vera filosofia, si potrebbe pensare ad un confronto con le tesi di Alberti68. Come Vicini, anche Patrizi loda
la storia, che è ciceronianamente descritta quale magistra vitae, ed è la lux veritatis necessaria ai principi6?. Come Palmieri, infine, anche Patrizi si richiama al mito di Er ed al sogno di Scipione per mostare che il principe virtuoso sarà premiato non solo con la
vita eterna, ma anche con la gloria, che è considerata ombra della virtù come nella lettera di Petrarca a Francesco da Carrara?0. Come nelle raccolte di consigli che Vicini, Pontano e Platina inidrizzano ai principi, anche nel De regno è proposta l’immagine dello specchio: subito dopo aver sostenuto che il principe è l’incarnazione dell’idea del bene, mentre cerca di giustificare lo sforzo fatto per scrivere la propria opera, Patrizi dichiara di voler lodare l’ottimo principe e di «voler mostrare ai posteri ed agli altri principi, come con uno specchio, la luce da seguire»71. Si deve, però, considerare che il principe non può essere lo specchio similem deo fieri, quem per solam virtutem pervenitur; Patrizi, pp. 96-105, in cui si dice che l’uomo ha una posizione eretta per poter contemplare il cielo. 68 Patrizi, pp. 23-28. 69 Patrizi, p. 72, in particolare: «Proxima poetarum cognitioni historia accidit, quam Cicero testem temporum, vitae magistra, vitam memoriam, veritatis lucem, et
vetustatis nunciam appellat». Nel percorso didattico proposto da Patrizi, l’importanza della storia emerge anche dalla posizione che occupa, perché questa disciplina è collocata subito dopo la poesia. i 70 Patrizi, p. 302, in cui il mito di Er raccontato nell’ultimo libro della Repubblica è la «fabella» del soldato nato in Panfilia, che anticipa il messaggio di Cristo; ma vd. anche Patrizi, pp. 395-399. Per la gloria come ombra della virtù cfr. Patrizi, p. 399 e AI magnifico signore di Padova, pp. 763-765. 71 Patrizi, p. 65: «lodare vero optimum principem ac per hoc posteris velut e speculo lumen quod sequantur aliis ostendere»; ma vedi anche Patrizi, p. 153.
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dei sudditi, perché le virtù di chi governa sono diverse da quelle di chi è governato. Si è già accennato che le virtù dei sudditi sono analizzate nel nono libro del De regno, in cui Patrizi insiste sull’obbedienza e sulla benevolenza con cui devono essere venerati i re”? Occore ora precisare che la differenza tra le virtù dei privati (privatorum virtutes) et le virtù dei re (regum virtutes) è
proposta per la prima volta nel primo capitolo del terzo libro. Patrizi interrompe la riflessione sulle attività fisiche che si addicono al principe, sostenendo che la parsimonia dei re non è lodata e apprezzata come quella dei cittadini: il principe, a differenza dei sudditi, deve essere munifico?3.
Presente sullo sfondo di tutte le riflessioni svolte nel De regno, la distinzione tra le virtù dei principi o dei re e le virtù dei privati o dei cittadini è stata posta in evidenza da Skinner. Lo storico delle idee la reputa, infatti, una significativa anticipazione della «dicotomia» machiavelliana tra «la forza straordinariamente creativa» che appartiene al sovrano e la «tendenza alla passività benevola» che è propria del popolo7. Credo che questa distinzione possa essere considerata anche come una embrionale, ed elementare,
teoria dell’obbligo politico. Descrivendo le virtù che spettano ai sudditi, infatti, Patrizi mostra «per quale motivo tutti privati cittadini debbano obbedire al re», contrapponendo il governo del padre, o imperium paternum, al governo del padrone, o imperium dominicum?*. Inoltre, sviluppa questa distinzione attraverso una sintesi degli argomenti con cui ha dimostrato che la monarchia è la miglior forma di governo. Sostiene infine che vi sia un obbligo naturale, che vincola l’uomo e tutti gli altri animali ad amare chi li governi”6. Il dovere di obbedienza dei sudditi sembra, 72 Patrizi, pp. 371-373. 73 Patrizi, pp. 95-96. 74 Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 225. 75 Patrizi, pp. 375-379. 76 Patrizi, p. 373: «Altera pars quae regi a civibus debetur benevolentia est. Et per
honestas actiones hi qui parent, eorum qui imperant gratiam assequuntur. Est siquidem naturalis quaedam obligatio omnium mortalium, ut eos diligant a quibus gubernantur, quod non modo in hominibus cernitur, qui rationis compotes sunt, verum in mutis animalibus, quae nullum cum ratione habent». Traduco il passo, perchè mi sembra particolar-
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dunque, fondato sulla natura. Viene anche legittimato con un argomento di tipo politico: Patrizi spiega che è meglio obbedire ad un solo uomo perché servirne molti significa acconsentire a volontà discordanti”. Credo che la presenza di queste tesi possa spiegare almeno in parte un aspetto che distingue il De regno dagli altri specula esaminati: Patrizi non sottolinea che il principe deve essere amato anziché temuto con la stessa insistenza mostrata da Vicini,
Pontano e Platina. Contrappone il principe, che deve essera amato, al tiranno, che fa vivere i sudditi nella paura, ma non risolve il problema del consenso sul piano etico, riprendendo l’alternativa
ciceroniana tra metus e benvolentia per spiegare come deve essere il rapporto tra il principe e i sudditi78: risolve il problema del consenso sul piano giuridico, spiegando le ragioni per cui i sudditi devono obbedire al principe che governa con virtù e giustizia. La distinzione tra le virtù del principe e le virtù dei sudditi non deve essere interpretata come una contrapposizione ha virtù politiche e virtù private. Mi sembra, invece, che sia una tesi coerente
con le premesse metafisiche da cui muove la riflessione di Patrizi: è una conseguenza dell’idea secondo la quale il principe è l’incarnazione dell’idea platonica del bene. In un passo del De regno che non deve passare inosservato, Patrzi mette in luce la natura sublime (sublimitas) del principe. Cerca inoltre di giustificare l’obbedienza a cui sono tenuti i sudditi con una tesi molto particolare: diversamente da costoro, i re non sono invidiosi perché non
mente rilevante: «Un°altra specie di benevolenza che deve essere data al re dai cittadini è quella benevolenza che i re si procurano solamente attraverso la virtù. E grazie ad azioni oneste, coloro che obbediscono ottengono il favore di coloro che comandano. Ed in verità in tutti gli uomini vi è un qualche obbligo naturale ad amare coloro da cui si è governati, e questo non si vede solo negli uomini, che sono capaci di ragionare, ma anche negli animali che non hanno il linguaggio e non possiedono la ragione». 77 Patrizi, p. 286. 78 Patrizi, pp. 48-49: quando contrappone il re al tiranno, che fa vivere i sudditi nella paura, Patrizi non paragona il metus e la benevolentia seguendo il modello ciceroniano, ma distingue l’imperium domini, il potere del tiranno che governa sui sudditi come se fossero servi, e l’imperium regis, il potere del principe che governa sui sudditi con giustizia.
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hanno dei pari da emulare??. Mi sembra inutile evidenziare che il dovere di obbedienza dei sudditi è tanto più forte quanto più è evidente la natura sublime e divina del principe. Forse, è più utile anticipare che la presenza di una embrionale ed elementare teoria dell’obbligo condiziona anche la riflessione sull’amicizia civile: come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, infatti, il rapporto che unisce i sudditi tra loro non è la stessa forma di amicizia che si addice ai principi. Concludendo, vorrei sottolineare che Patrizi propone riflessioni realistiche e disincantate, anche se si rivolge ad un principe che non è mai esistito e non esisterà mai. Credo sia eccessivo e
fuorviante parlare di premachiavellismo, come propone invece Battaglia8°. Tuttavia, ritengo che il De regno non sia affatto un’opera lontana dalla realtà. Si pensi, per esempio, che subito dopo aver menzionato l’obbligo naturale che spinge ad amare chi governa, Patrizi precisa che l’uomo è l’animale più ingrato nei confronti di chi comanda8!. Inoltre, suggerisce al principe, che incarna l’idea del bene, di stare sempre in guardia, di inviare spie e di prendere opportune misure di polizia per controllare i cittadini che deve amare82. Gli consiglia persino di non trattare gli alleati come amici e di sospettare dei nemici anche se è stata stipulata la pace: un buon principe non si deve mai dimenticare che «la freccia dell’ingiuria penetra nell’animo umano più a fondo della riconoscenza»83. Giustifica, infine, l’astuzia e la furbizia del prin-
cipe, a patto che siano indirizzate a buon fine84. Non legittima la menzogna, ma ammette l’inganno e la dissimulazione85. Se è vero che rifiuta le guerre di conquista e che condanna la brama di dominio con la stessa forza con cui esalta le virtù militari, è
79 Patrizi, p. 207, ripreso anche a p. 367. 80 Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del Quattrocento, cit., p. 154.
81 82 83 84 85
Patrizi, Patrizi, Patrizi, Patrizi, Patrizi,
p. 423. pp. 96-97, 145-146, 292, 389. p. 300. pp. 251-253. p. 199.
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altrettanto vero che invita il principe a pensare alla guerra anche quando c’è la pace, ricordandogli che non avrà sempre a che fare con uomini retti8*, Credo che la presenza di tesi idealiste e realiste sia l’esito dell’intreccio delle diverse linee di pensiero che confluiscono nel De regno. Inoltre, come sottolineato analizzando gli altri specula principum, ed in particolare quello di Vicini, la fiducia nella possibilità di educare i principi non esclude che si possa avere uno sguardo disincanatato sulla realtà. Come si vedrà meglio nel prossimo pargarfao, questa tensione tra idealismo e realismo caratterizza anche la riflessione sull’amicizia. 7.3 Dall’amicizia tra i sudditi all'amicizia tra i principi Amicizia e giustizia Come accennato, Patrizi riflette sull’amicizia nell’ottavo libro
del De regno, in cui esamina la virtù della giustizia. Visto che non si limita a sottolineare che Dio ha posto i semi della giustizia nella mente dell’uomo, ma spiega anche qual è il posto che occupa nello Zodiaco e ricorda che Omero e gli altri poeti antichi la consideravano una virtù celeste, l’analisi della giustizia ha una evidente cornice neoplatonica. La riflessione si sviluppa, però, secondo coordinate aristoteliche e ciceroniane. Dopo aver identificato la giustizia con la pietà per Dio e con l’amore fraterno per gli uomini, Patrizi distingue, infatti, tra giustizia divina, giustizia
naturale, giustizia civile e giustizia giudiziale: segue da vicino il quinto libro dell’Etica Nicomachea, oltre che il De officiis, a cui si riferisce esplicitamente87. La giustizia divina è la virtù che conduce l’uomo a contemplare ed imitare Dio, artefice del mondo e principio vitale di tutti gli esseri viventi88. La giustizia naturale è il precetto universale che spinge 86 Patrizi, pp. 259-269. 87 Patrizi, pp. 324-325. 88 Patrizi, p. 325.
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l’uomo a preoccuparsi della conservazione della specie, nutrendo e curando i suoi figli come tutti gli altri animali, ma anche prendendosi cura dei propri simili per mostrare la sua bumanitas. L'influenza dell’Etica Nicomachea è evidente soprattutto nel passo in cui Patrizi definisce la giustizia naturale come alienum bonum. Inoltre, per Patrizi come per Aristotele, la giustizia è tota atque integra virtus8?. La giustizia civile deve essere posseduta da tutti coloro che ricoprono una carica, perché è la virtù che porta a pensare solo al bene comune, a dare a ciascuno il suo rispettando meriti, e ad obbedire alla legge divina e a quella umana. Pertanto, è la virtù politica per eccellenza. Essa trasforma il principe nell’ottimo principe che è capace di rendere migliori i sudditi. Nei passi in cui descrive la giustizia giudiziale, Patrizi ripete che il principe è la legge vivente (ius animatum) e il custode del buono e del giusto (custos boni et
iusti). Solamente questa volta, però, identifica il governo del principe con il governo della legge?0. Inoltre, a questo punto del proprio ragionamento, propone una nuova descrizione del prinicipe: questi è il primo magistrato, «che governa non in quanto uomo, bensì in virtà della ragione»?!. Proprio perché il governo del principe è il governo della legge ed il governo della ragione, chi è al potere deve fare leggi buone come quelle dei romani, scegliere magistrati virtuosi, essere severo nel giudicare senza mai diventare crudele. Si crea così l’ennesima occasione per ricordare che il principe è quasi un dio tra i mortali”. Dopo aver aristotelicamente e ciceronianamente quadripartito la giustizia, Patrizi connette «platonicamente» questa virtù ad altre sette virtù, tra cui vi è anche l’amicizia: per invitare il principe che vuole essere giusto ad osservare le leggi e a seguire i precetti degli
89 Patrizi, pp. 326-327. Come si ricorderà, la tesi aristotelica secondo la quale la giustizia non è parte della virtù, benesì tutta la virtù (EN, V, 1129b 11-1130a 14, pp. 175-177), è proposta anche da Palmieri (Vc, p. 104) e da Platina (Platina, p. 112). 90 Patrizi, pp. 319-320, in particolare: «Quarta iustitiae pars iudicialis sive legitima dicitur, quae in iure dicendo precipue versatur. Haec primum per leges discernit quid iustum aut iniustum sit [...]». 91 Patrizi, p. 310.
92 Patrizi, pp. 322-325.
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uomini buoni e dei sapienti (i doctî e gli optimi viri), l’autore del De regno riporta il parere di quei filosofi platonici secondo i quali la giustizia è connessa all’innocenza, all’amicizia, alla concordia,
alla pietà, alla religione, all’affetto ed all’umanità?8. L’amicizia è la virtù più importante di tutte perché l’innocenza, la concordia, l’affetto e l’umanità possono essere ricondotte ad essa. L'innocenza è
la disposizione d’animo del cittadino virtuoso che obbedisce a chi governa legittimamente, del giudice che dirime le liti e concilia le discordie, del re che si rende simile a Dio giovando a tutti senza nuocere a nessuno. Dopo aver dato questa defininizione, Patrizi sottolinea che questa è anche la virtù che fa dell’uomo un animale sociale, capace di vivere insieme ad altri uomini e, quindi, di strinegere amicizia”. La concordia è affine all’amicizia perché non è solo eunomia, ossia buon governo, ma anche una forma di benevolenza che si distingue dall’amicizia vera e propria solo perché non si realizza in un rapporto a due, bensì tra tutti i cittadini”. L’affetto (affectus o affectio) è connesso all’amicizia sin dalla definizione: è quell’attaccamento naturale ed istintivo per i membri della propria specie in assenza del quale non nascerebbe nessuna forma di amicizia’. L'umanità coincide con la philanthropia, cioè con quella forma di amicizia che include tutti gli uomini”. Sembra
93 Patrizi, p. 327: «Sed ne ulterius vagetur sermo, iustitiam reges ac principes colant omni studio omnique diligentia, quam mansuetudine, humanitate atque clementia moderentur, permittantque ea sibi persuaderi a doctis atque optimis viris, quae iustitiae sunt. [...]. Platonici spetem virtutum speciem iustitiam praestare aiunt, videlicet innocentiam, amicitiam, concordiam, pietatem, religionem, affectum, humanitatem». Patrizi aggiunge, poi, a questo elenco anche la facilitas e la fides. 94 Patrizi, pp. 327-329, in particolare p. 328: «Eiusmodi iustitiae sponsio homines a solitudine evocavit, et in multitudinis coetum pagos, villas, oppida, urbesque induxi, ut securi a ferarum incursu et ab omni alia vi essent, nemoque eis nocere posset, innocentia et praecipue in genus suum naturae munus est». 95 Patrizi, p. 344. 96 Patrizi, p. 333: ciò che Patrizi chiama affectus o affectio è un sentimento molto vicino alla compassione; si passa dall’affetto all’amicizia mediante un percorso aristotelico che prevede la scleta (electio) degli amici, e la trasformazione della relazione in uno stato abituale (actus e habitus). 97 Patrizi, p. 354.
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dunque che siano forme di amicizia, o meglio, una sua variante,
tutti i rapporti tra gli uomini. La riflessione di Patrizi non è difficile da seguire solo perché il termine amicizia indica rapporti molto diversi tra loro, ma anche perché si sviluppa secondo il metodo che Patrizi ha dichiarato di
voler seguire: questi si richiama all’ottavo e al nono libro dell’Etica Nicomachea, cita il Laelius e il Liside, sovrappone le tesi degli accademici, dei peripatetici e degli stoici perché è convinto che esista una sola, vera, filosofia. La linea platonica è seguita per tripartire l'amicizia in amicizia naturale, amicizia civile o sociale ed amicizia ospitale, quella aristotelica per legare l’amicizia alla giustizia e descrivere la tipologia dell’amicizia civile, quella stoica per collocare l’amicizia a metà tra l’attaccamento ai membri della stessa specie e la filantropia. Il sovrapporsi di diversi piani d’analisi genera inevitabilmente punti di tensione: in alcuni passi Patrizi sembra addiruttuta contraddirsi. Nonostante non sia sempre chiara, la riflessione sull’amicizia presente nel De regno è molto importante. Essa conclude il percorso intrapreso analizzando la Vita civile perché mostra che l’amicizia civile, lodata da Palmieri quale legame capace di tenere unite le città, trova posto in una raccolta di consigli in cui si dipinge il ritratto dell’ottimo principe. Come si vedrà alla fine di questo capitolo, non è affatto una conclusione circolare. Infatti, Patrizi non inverte la rotta seguita dagli autori delle altre opere esaminate: non gioca il valore politico dell’amicizia nello spazio del consenso, a livello del rapporto tra principe e sudditi. Viste le premesse metafisiche da cui muove l’analisi di Patrizi, la distinzione tra virtù dei sudditi e virtù dei principi, e la presenza di una embrionale teoria dell’obbligo politico, è evidente che l’amicizia non potrebbe essere concepita come modello e fondamento del legame sociale. Questa relazione continua, dunque, ad avere valore e funzione politica nello spazio del consiglio. Come cercherò di mostrare, il tema degli amici principis emerge anche dalle pagine del De regno: l’amicizia è il rapporto di cui il principe si serve per esercitare e gestire il potere. Tuttavia, tra il principe e i suoi amici non può realizzarsi la forma della vera amicizia:
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questa tipologia di amicizia, che può esistere solo tra i principi, si colloca in un nuovo sapzio politico. Amicizia naturale, amicizia civile ed amicizia ospitale
Dopo aver identificato il governo del principe ed il governo della legge, non appena ha implicitamente ripreso la tesi aristotelica dell’uomo come animale politico per definire l’innocenza, Patrizi indica le caratteristiche dell’amicizia. Il valore morale della relazione emerge attraverso diverse definzioni, riporate una in seguito all’altra. La prima è quella degli antichi accademici, secondo i quali l’amicizia è la virtù che unisce con reciproca benevolenza persone eguali e simili per costumi. Dopo la definizione di Pitagora, per cui l’amicizia è simmetria, si leggono due definizioni ciceroniane: la prima, ricavata dal Laelius, per cui l’amicizia è un accordo nelle cose umane e divine che si basa sull’affetto e porta a volere il bene dell’amico; la seconda, mutuata dal De finibus,
secondo la quale l’amicizia è quell'amore che non chiede niente in cambio. Dopo aver messo in evidenza la natura gratuita e disin-
teressata dei rapporti amicali, Patrizi riporta anche la definizione di Aristotele: l’amicizia è possibile solo tra i buoni e si fonda sulla virtù. Dalla virtù dipendono non solo l’uguaglianza, la reciprocità e la stabilità della relazione, ma anche quei sentimenti d’affetto he crescono di giorno in giorno con la consuetudine?8,
98 Patrizi, pp. 331-332: «Amicitia est virtus reciprocae benevolentiae, aequitate quadam similes inter se moribus ac virtute concilians. Haec diffinitio a veteribus Academicis manat. Sed Pythagoras brevis exponens dixerat amicitiam esse aequalem congruentiam. Cicero autem voluntatem esse ait, erga aliquem rerum bonarum illius causa, quem diligit, cum eius pari voluntate. Et alio in loco dicit amicitiam esse divinarum humanarumque summa cum benevolentia et charitate consensionem. In libro vero secondo de felicitate et miseria ait: quid autem est amare, ex quo nomen amicitiae ductum est, nisi velle bonis aliquem affici quam maximis, etiam si ad se ex his
nihil redeat? Optime Aristoteles perfectam amictiam non nisi inter bonos viros posse esse affirmat. Similitudo enim virtutis efficit, ut mutua benevolentia inter se homines
teneantur, quandoquidem boni sunt. Proinde diutius permanet. Virtus enim constans et perpetua est, optimaque fundamenta charitatis iacit, et ex quotidiano usu virtutis maius semper incrementum accipit, et mutuis animis, mutuisque officiis in dies arctius
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Senza seguire un ordine preciso, come se volesse semplicemente fornire un elenco completo, Patrizi mette in luce altre caratteristiche che contraddistinguono anche la vera amicitia di Cicerone e la teleia philia di Aristotele. Ricorda che l’amicizia non tollera dissimulazioni, nè inganni o segreti, perché richiede verità. Ribadisce che l’amicizia è quel vincolo che porta a volere, e non volere, le stesse cose, insistendo sull’unità e l’accordo che si realizza tra
gli amici. Sottolinea che l’amicizia, quando è fondata sulla virtù, è immutabile ed indistruttibile. Identifica poi l’amicizia che si basa sulla virtù con l’amicizia tra i sapienti di cui parlano gli stoici. Chiarisce con toni vagamente agostiniani che tra i malvagi non può esservi amicizia, ma cospirazione e congiura. Dimostra così che
questa relazione deve rendere più virtusoi gli amici e contribuisce al loro perfezionamento morale??. L'ultima precisazione sembra
nectitur, firmaturque amicitia, quam naturae munere, iureque ipso naturali». Traduco il passo: «L'amicizia è la virtù della benevolenza reciproca, che unisce con una certa eguaglianza persone simili tra loro per virtù e costumi. Questa definizione proviene dagli Accademici antichi. Ma Pitagora aveva detto brevemente che l’amicizia è simmetria ed eguaglianza. Inoltre, Cicerone afferma che è il desiderio di cose buone nei confronti della persona che è amata per se stessa, ricambiato dal suo stesso desiderio. E in un altro passo sostiene che l’amicizia è il sommo accordo delle cose umane e divine, accompagnato dall’affetto e dalla benevolenza. In verità, nel secondo libro sulla felicità e l’infelicità dichiara: Che cosa vuol dire amare, parola da cui deriva il termine amicizia, se non volere che qualcuno disponga dei più grandi beni, anche se da questi beni non si ricava nulla per sé? Ottimamente Aristotele sostiene che la perfetta amicizia non può esistere se non tra uomini buoni. La somiglianza nella virtù, infatti, fa sì che sia mantenuta la reciproca benevolenza tra gli uomini, giacché sono buoni. Pertanto l’amicizia dura più a lungo. La virtù è infatti costante e perpetua, e getta le fondamenta migliori per il sorgere dell’affetto; inoltre l'amicizia riceve sempre maggior incremento dalla pratica quotidiana della virtù, e con reciproci sentimenti e reciproci favori è legata più strettamente ed è rafforzata dallo stesso diritto naturale, quasi per un dono della natura». 99 Patrizi, pp. 332-333, in particolare: «ut nihil simulatum, nihil fictum nihil occultum in amicitia fit, sed omnia aperte in veritatem ac virtutem dirigantur [...]. Amicitia in primis haec praestare debet, ut inter amicos voluntatum, studiorum, sententiorumque magna sit consensio. Idem enim velle, atque idem nolle optimum vinculum benevolentiae habetur»; «Vera enim virtus non incerta, labilis, caduca, aut mutabilis est, sed altissimis infixa radicibus nulla vi labefactari, dirui, avelli, locove dimoveri potest [...]. Prudenter stoici veram amicitiam sapientum nexum, ac vinculum esse arbitran-
tur, firmum ac stabile et omnino indissolubile [...]. Consuetudo inter malos amicitiae nomen usurpat, cum sit conspiratio vel coniuratio quaedam utilitatis, aut voluptatis
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particolarmente interessante: Patrizi contrappone l’amicizia, che risponde alla logica del dono perché è una relazione disinteressata e gratuita per definizione, alla mercatura, cioè ai rapporti basati sulla ricerca dell’utile e dell’interesse personale. Spiega altresì che «le associazioni e le unioni di cittadini» sorte «in vista dell’utile comune» non sono amicizie vere e proprie, ma associazioni con fini economici e commerciali. Tuttavia, come si vedrà tra poco,
la terza forma di amicizia civile riguarda proprio questo tipo di unioni: è la relazione che unisce i cittadini che svolgono la stessa professione e partecipano alle medesime attività economiche. Definita l’amicizia in termini prevalentemente aristotelici e ciceroniani, Patrizi riprende la linea platonica indicata all’inizio della riflessione. Richiamandosi a Platone, individua tre diverse
tipologie di amicizia: l'amicizia naturale, l’amicizia civile o sociale e l’amicizia ospitale. Sebbene si riferisca al Liside per caratterizzare l’amicizia naturale come pietà verso Dio ed affetto verso i figli ed i parenti, questa classificazione non deriva da questo né da altri dialoghi di Platone. È invece mutuata dalla Vita di Platone di Diogene Laerzio, a cui Patrizi si rferisce implicitamente!00, causa, quae ex bene agendo ex cem adiuvando is non amicum
improbis eos assiduo usu deterrimos nefarisoque facit. Ut enim boni mutua consultatione meliores fiunt, sic mali male agendo se seque invideteriores semper evadunt [...]. Nam qui sua causa boni alicuii cupit, diligere, sed utilitatem suam quaerere videtur. Si enim amicitiam ad
fructum ac commodum nostrum referamus, non erit ita amictia, sed mercatura quedam
utilitatum nostrarum [...]. Hominum autem benevolentia et amicitia gratuita semper esse debet. Civilis praeterea institutio, atque coniunctio non recte amicitia dicitur sed societates communis utilitatis gratia instituta». 100 Patrizi, p. 333: «Plato tres amicitiae species in primis facit, naturalem, civilem, ospitalem», da confrontare con Diogene Laerzio, Platone, in Id., Vite dei filosofi, vol. I, libro II, cit., p. 126: «Dei beni dunque tre sono le specie: quelli dell'anima, quelli del corpo, quelli esterni. Tre anche le specie dell’amicizia: la naturale, la sociale, la ospitale: chiamiamo naturale quella che i genitori hanno verso i figli ed i parenti tra loro: questa è stata ereditata anche dagli altri animali. Chiamiamo sociale quella che deriva dalla consuetudine e non dalla consanguineità: esempio tipico l’amicizia di Pilade per Oreste. l’amicizia ospitale si attua con gli stranieri, ed è dovuta o a raccomandazioni o a corrispondenza epistolare». La stessa tripartizionedell’amicizia si anche il LdF, p. 349, come già sottolineato nel primo capitolo del saggio. Come si vedrà nel corso dell’analisi, Patrizi non segue ciecamente la sua fonte. Inoltre, non sembra influenzato solo dal Liside, ma anche dalle Leggi, soprattutto per la descrizione dell’amicizia ospitale: cfr. Patrizi, pp. 341-344 e Leg, IV, 716c-718d, cit., pp. 134-135 e Leg, V, 728d-730a, cit.,
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La fenomenologia dell’amicizia proposta da Patrizi è incentrata sulla vera e perfetta amicizia come quella delineata da Vicini. A differenza di quanto accade nel De institutione, però, nel De regno sono individuati diversi tipi di relazione piuttosto che diversi tipi di amici!0!. Mentre l’amicizia naturale è il sentimento che lega l’uomo ai membri della propria famiglia, l’amicizia civile o sociale (civilis seu socialis amicitia) è un rapporto basato sulla virtù, una relazione stabile e duratura, quel reciproco desiderare il bene dell’altro che dipende da una scelta, si basa sulla somiglianza di costumi, è rafforzato dalla consuetudine e richiede eguaglianza!02, Sembra che la civilis seu socialis amicitia coincida con la vera e prefetta amicizia, ma Patrizi sembra contraddirsi: la vera amicizia è anche una delle tre parti di cui consta l’amicizia civile. Nonostante
le tensioni interne alla riflessione di ‘Patrizi, è
abbastanza chiaro che l’amicizia civile è un rapporto affettivo che si fonda sulla scelta, richiede eguaglianza, mira al bene dell’altro, comporta condivisione di valori e abitudini. Per iniziare a comprendere quale sia il valore politico di questa forma di amicizia, occorre chiarire il significato dei due aggettivi che
pp. 145-147. Si noti anche che nell’epitome del Liside, Ficino rimanda espressamente alle Leggi e ad altri dialoghi per comprendere la riflessione di Platone sull’amicizia: Ficino, Opera, cit., pp. 1372-1374, in particolare p. 1371: «Quae vero sit amicitia et amor Platonis sententia, ex hoc libro coniicere, sed ex libris de legibus aliisque multis comprehendere possumus».
101 De institutione, pp. 58-63. 102 Patrizi, p. 313: «Secunda amicitiae species est, quae civilis, vel socialis, dicitur. Haec voluntas est erga aliquem rerum bonarum illius causa quem diligimus, cum pari eius quoque voluntate. Quae quidem in primis ab electione perfici scitur ex similitudine bonorum morum. Conciliatur autem assidua consuetudine. [...] Proinde rursus concludendum erit, solam virtutem veram amicitiam prestare et eamdem quoque diutius
conservare, reliqua omnia ficta et caduca sunt et parvo momento rapiuntur». Traduco il passo: «La seconda specie di amicizia è quella che è detta civile o sociale. Questa è desiderio di cose buone verso qualcuno, a cui vogliamo bene per se stesso, ed è ricambiata con eguale desiderio di bene. Senza dubbio questa amicizia nasce inizialmente dalla scelta e si sa che è resa perfetta dalla somiglianza dei buoni costumi. Inoltre, è resa gradita da una assidua frequentazione. [...] Si dovrà, infine, concludere che solo la virtù garantisce la vera amicizia e la conserva il più a lungo possibile, mentre tutte le altre cose sono effimere e caduche, svaniscono in un attimo».
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la definiscono. Il termine «sociale» indica che è la relazione che consente di vivere inisieme ad altri uomini e di stringere rapporti con le persone a cui non si è legati da vincoli di parentela. Patrizi chiarisce che sono rapporti basati sulla benevolenza, notando che i legami di amicizia si distinguono dai legami di sangue perché non sopravvivono al venire meno di questo sentimento!93, Il termine «civile» non ha un corrispettivo nella riflessione di Diogene Laerzio: è Patrizi ad introdurre il secondo aggettivo, chiarendo così che questa tipologia ha una funzione politica perché è quella forma di amicizia che si realizza tra i cittadini. Il valore politico dell’amicizia civile emerge con particolare chiarezza nel passo in cui Patrizi nota che la differenza tra l’amicizia naturale e l’amicizia civile è maggiore di quella tra l’amicizia civile e l’amicizia ospitale. La prima, infatti, si distingue dalla seconda solo perché si rivolge ai concittadini anziché agli stranieri ed ai viaggiatori!04, Credo che l’aggettivo «civile» non sia un sinonimo dell’aggettivo «sociale», ma che il primo termine specifichi il significato del secondo: esso indica che l’amicizia in questione non denota tutte le relazioni che non sono basate sui legami di sangue, ma solo le relazioni politiche che uniscono i cives tra loro. Alla luce delle differenze individuate tra le tipologie di amicizia descritte da Patrizi, la tripartizione potrebbe sembrare una bipartizione: da una parte vi è l’amicizia naturale, dall’altra l’amicizia politica. Si deve, però, considerare che l’amicizia naturale ha anche una certa rilevanza politica. Il valore politico di questa
103 Ibid.: «Praestat haec amicitiae species propinquitati. Ex propinquitate enim benevolentia tolli potest. Saepe accidit, ut ex diversitate morum affines male inter se conveniant, et tamen inter se affines vel consanguinei sunt. Ex amicitia autem benevolentia si tollitur, amicitia ipsa corruit. At propinquitas ipsa remanet, etiam si inter se propinqui illi digladiarentur». Come già sottolineato nel sesto capitolo, anche nel De optimo cive Platina confronta amicizia e parentela: Oc, pp. 195-196. 104 Ibid.: «tertia hospitalis amicitia vocatur, quae a supetiore non differunt, nisi quod illa inter concives est, qui civili quedam societate coniuncti esse videntur. Haec autem inter peregrinos et hospites, qui nullo nisi humanitatis iure nobiscum teneantur». Si noti che Patrizi non dice che l’amicizia civile unisce i concittadini in società, ma in un certo tipo di società: non è l’amicizia che lega tutti i cittadini tra loro, ma
l’amicizia che esiste tra alcuni cittadini.
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forma di amicizia, che indica i rapporti interni alla famiglia, affiora dalle righe del De regno in cui Patrizi sottolinea la connessione esistente tra amicizia e amore. A questo punto della riflessione, l’umanista riprende quanto ha già sostenuto nel quarto libro, in cui ha contrapposto l’amore coniugale all’amore passionale e lo ha identificato con la vera amicizia basata sulla virtà105,
Mi sembra importante soffermarsi sulla connessione esistente tra amore e amicizia virtuosa per tre diversi motivi. 1) Quando 105 Patrizi, pp. 323-324: «Stoici et Academicorum nonnulli his tribus speciebus amorem addunt eumque cognatum amicitiae esse affirmant. [...] Amorem ab amicitia
optimo intellectu fecerint Catulli poetae querula, cum ait: cogit amare magis, sed bene velle minus, ut ostendat amorem violentiae esse, amicitiam autem benevolentiae. Et
alterum insanae cupiditatis, alterum vero prudentis voluntatis. Sed de amore satis nobis dictum est supra, cum de animi perturbationibus libro quarto diximus, in quo omnes eius affectus expressimus». Questo passo va confrontato con Patrizi, pp. 168-174. In questi passi del De regno si trova un’ampia riflessione de amoris affectu. Patrizia inizia la sua analisi facendo riferimento ai quattro tipi di furore divino descritti nel Simposio (Patrizi, p. 162). Riporta, poi, la tesi stoica secondo la quale l’amore è l’inizio dell’amicizia, e nasce per la bellezza della forma, non per l’attrazione fisica («amorem esse conatum amicitiae, firmamentumque benevolentiae: quodquidem ex formae venustate, non ex amplexu corporis»). Specifica anche, citando Crisippo, che l’amore non è vizioso quando è un vincolo d’amicizia («amorem amicitiae esse vinculum») che nasce dalla bellezza della virtù (Patrizi, p. 163). Avendo connesso amore e amicizia precisa altresì che l’amore è legato soprattutto alla terza specie di amicizia, quell’amicizia che i peripatetici definiscono «equitas reciprocae benevolenitiae», identificano con l’amicitia amatoria — l’amicizia che dipende dalla bellezza — e distinguono dalla «necessitudo» e dalla «hospitalitas». Patrizi evidenzia l’importanza della bellezza (pulchritudo o venustas), ma spiega anche che l’amore nato dalla bellezza si trasforma, grazie alla virtù, in quella perfetta amicizia che rimane anche se la bellezza viene meno: «Cum deinde hic amor mutuis beneficiis et studio virtutis innititur, plerumge in optimam amicitiam evadit, quae etiam discendente forma remanet» (Ibid.). Propone, infine, una lunga serie di esempi che descrivono l’amore come «insatiabilis cupiditas et libido» ed «insanus furor»: l’amore è turbamento, una malattia dell'anima che genera crimini e discordie (Patrizi, pp. 172-173). Gli esempi addotti servono per mostrare che al principe non si addice la passione erotica, ma l’amicizia che unisce i coniugi (Patrizi, p. 173): «Sed iam concludendum erit principis amores absque libidine si fieri potest esse oportere et sine alicuius iniuria, soloque aspectu venustatis et formae delectari, nullius cupiditati illecebris excitari, nulloque ardore torreri. Cupiditas enim cupiditate acceditur, quae nisi per continentiam superetur, numquam sedatur, sed latius serpens in insaniam furoremque
convertitur. [...] Continens igitur sit princeps, nihilique corporeis voluptatibus illecitus praeter rationem agat. Legitimo connubio contenus sit, cuius fide et amicitia nulla maior, nullaque iucundior inter mortales esse cernitur: sit per affinitatem potentior cum sui similem uxorem ducit, nec posteritatem suam materni generis nota obscuriorem
reddit. Fili quoque integri, fratres non dimidi erunt [...]».
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Patrizi colloca la vera amicizia nella familia oltre che nella civitas, riprende un topos comune a molti altri umanisti, su cui mi sono soffermata nel primo capitolo. Pertanto, mi limito a ricordare che la contrapposizione tra amore passionale e amicizia coniugale è presente anche nel secondo libro della Famiglia di Alberti!06. 2) Considerando i rapporti tra i membri della famiglia come delle forme di amicizia, Patrizi colora di sfumature platoniche una tesi che, come si è visto nel secondo capitolo, è presente anche nel De regimine di Egidio Romano!07. La descrizione dell'amore come furore platonico che si legge in questi passi del De regno non modifica il significato della tesi egidiana. Serve, infatti, a Patrizi solo per ribadire che il principe deve osservare i doveri della continenza e della castità, e quindi per sottolineare l’importanza politica della fedeltà nel matrimonio. 3) La presenza della vera amicitia nella sfera della familia e nella sfera della civitas mostra che la distinzione tra virtù del principe e virtù dei cittadini non può essere considerata una distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, né una distinzione tra rapporti personali e rapporti politici. Tutti i rapporti sociali sono, infatti, forme di (vera) amicizia. Questa rela-
zione sembra dunque occupare l’area di intersezione che si crea tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’esistenza umana, ponendo in continuità i rapporti personali e quelli politici. Sono gli esempi proposti per descrivere la pietas che caratterizza l’amicizia naturale a mostare che Patrizi concepisce i rapporti politici come una
prosecuzione dei rapporti personali del principe, come Pontano e Platina e, come loro, tende a sovrapporli e ad identificarli!98, Mentre conisglia al principe di amare i parenti ed i familiari per evitare le congiure ed i tradimenti, Patrizi mostra inoltre che la
106 Vd. LdF, pp. 104-118; rimando inoltre al paragrafo del primo capitolo in cui ho analizzato la disputa tra Lionardo e Battista in cui l’amore venereo è contrapposto alla vera amicizia. 107 Vd. De regimine principum, libro II, pars I, cap. VII, pp. 237-240 e cap. IX, p. 243; libro III, pars II, cap. X, pp. 478-479 e cap. XII, p. 484; rimando inoltre al paragrafo del secondo capitolo in cui ho analizzato lo speculum principis di Egidio Romano.
108 Platina, pp. 66-67 e 69; De principe, par. 35, pp. 39-41.
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familia del principe è già civitas. Mette così in luce la natura familiare e personale del potere del principe e chiarisce che l’amicizia natuarle, ossia l’affetto del re verso i familiari ed i parenti, è già
una forma di amicizia politica. Dopo aver esaminato l’amicizia naturale, Patrizi introduce la tipologia dell’amicizia civile, chiarendo che è possibile pensare ad essa come se fosse composta da tre diversi tipi di amicizia: l’amicizia che unisce gli abitanti della stessa città, la vera amicizia che si basa sulla virtù ed è difficilissima da realizzare per i principi, l’amicizia sociale, vale a dire il legame che esiste tra i membri delle associazioni artigianali o commerciali e tra icommilitoni!02, Vista questa tripartizione dell’amicizia civile, si potrebbe pensare che l’amicizia sia il modello e il fondamento del legame sociale, ma vorrei sottolineare sin d’ora che l’amicizia civile tiene unita la città in un modo molto particolare. Diversamente da Vicini, Pontano e Platina, infatti, Patrizi non parla dei cittadini in modo
indistinto e indifferenziato. Per comprendere quale funzione politica sia attribuita all’amicizia in generale, e all’amicizia civile in particolare, non bisogna mai dimenticare che la fenomenologia dell'amicizia proposta nel De regno indica relazioni più o meno estese, che non coinvolgono sempre i medesimi soggetti, ed assumono caratteristiche diverse a seconda della loro posizione sociale e politica.
109 Patrizi, p. 336 («Secunda amicitiae species est illa quam civilem sive socialem appellat Plato de hac quidem tribus modis cogitandum erit. Primo enim dicemus civilem amicitiam esse illam, qua singularum civitatum cives patrio quodam iure inter se coniunguntur»); p. 337 («Alter huius civilis amicitiae pars est cuius fundamenta virtus et similitudo morum iacit, consuetudo vero assidua perficit. Haec cum recte congruit, perfecta amicitia dicitur») e p. 339 («tertia huius civilis amciitia cogitatio est ea, quae socialis appellatur. [...] Multi quidem per sese inutiles essent, nihilique agerent, coniuncti vero aliis, et sibi illis et reipublicae plurime prosunt. Haec in pace mercatoriam, naviculariam, institoriam, relinquarumque artium comercia adiuvant»).
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L’amicizia comune e l’amicizia sociale
Il primo tipo d’amicizia civile individuato da Patrizi è quel «grande vincolo di benevolenza (magnum benevolentiae vinculum)» che unisce chi ha le stesse leggi, abita entro le stesse mura, parla la stessa lingua, riceve la stessa educazione, pratica la stessa religione!!0. Per descrivere questo tipo di amicizia, che è essenzialmente senso di appartenenza alla medesima comunità politica, l’autore del De regno si riferisce allo stesso passo del De officiis che cita anche Platina per mostrare che i cittadini hanno molte cose in comune tra loro!!!, Sosetndo ciò, Patrizi chiarisce
che l’affetto che c’è tra i cittadini dipende dalla condivisione dei luoghi e degli spazi pubblici della città: i cittadini sono uniti tra loro perché frequentano gli stessi templi e gli stessi tribunali, perché passeggiano sotto gli stessi portici, perché vanno negli
stessi teatri. Proprio perché è un legame che nasce dalla frequentazione di luoghi e spazi comuni, il primo tipo di amicizia civile non è chiamato solo benevolentia, ma anche communis amicitia. È come se Patrizi usasse l’aggettivo communis per sottolineare l’estensione di questa relazione che è capace di unire tra loro tutti i cittadini. Inoltre, Patrizi sembra rendersi conto che l’amicitia communis è diversa dalla vera amicitia proprio perché non è una relazione così esclusiva ed elitaria come la forma di amicizia basata sulla virtù!!2,
110 Patrizi, p. 356: «Magnum benevolentiae vinculum esse eiusdem coeli aerisque spiritum haurire, eiusdem terrae fructibus atque alimentis vesci, eandem potare aquam,
ab eiisdem preceptoribus erudiri, eundem sermonem audire ac reddere, eisdem artibus ac studiis consuescere, eisdem lusionibus oblectari, eisdem legibus gubernari, eisdem sacris initiari, eandem religionem tueri». 111 Ibid.: «Multa quoque communia inter se habent cives, ut tengla; fora, theatra, porticus et complura alia, quae ad communem omnium usum sunt costituta et mirifica quadam charitate inter cives se connectunt»; da confrontare con Oc, p. 218. Sia Platina sia Patrizi citano Of, I, XVII, p. 47. 112 Patrizi, p. 336, da confrontare con Platina, p. 71 e Oc, p. 197. La distinzione tra la vera amicizia, che è per pochi, e la amicizia che unisce tutti i cittadini è chiara, ma Patrizi complica il proprio ragionamento. Infatti, mentre sottolinea l’esclusività della vera amicizia, accenna alla mancanza di amici che caratterizza i sapienti. Introduce così un tema che non sembra avere nessun collegamento con quello evidenziato citando il
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
Leggendo alcuni passi del De regno, si ha l’impressione che l'amicizia comune si addica anche ai principi ed ai re!!, Tuttavia, Patrizi non descrive il rapporto tra il principe e i cittadini come un legame basato sull’affetto reciproco e sull’amicizia, bensì come un vincolo basato sul rispetto della giustizia. Si potrebbe dire che l’accento cade sulla dimensione giuridica anziché sulla natura affettiva della relazione esitente tra governante e governati. Questo aspetto della riflessione di Patrizi si percepisce chiaramente soprattutto nel passo in cui l’affetto del re verso i sudditi è paragonato a quello del padre verso i figli. Questa similitudine, che si trova anche in altri specula principum, assume, infatti, un
significato diverso: Patrizi non si limita a sottolineare la natura e la finalità etica del potere del principe, ma distingue il governo o potere regio (imperium regium) dal governo o potere paterno!!4. Pertanto, il re non è simile al paterfamilias solo perché si preoccupa dei sudditi e vuole bene a ciascuno di loro, ma anche e
soprattutto perché governa in vista del bene comune ed esercita un potere che non è dispotico. Patrizi sostiene, inoltre, che: Il re deve preoccuparsi che coloro che sono governati da lui abbiano ogni cosa nel modo migliore, sebbene debba giovare a tutti nel distribuire onori e ricchezze, tuttavia deve mantenere la differenza di merito, attribuendo più onore ai più eccellenti, più vantaggi ai più deboli. La virtù, infatti, è il premio dell’onore, mentre il guadagno è il premio dell’indigenza. [...] Il re sia senza dubbio egualmente giusto con tutti nel giudicare e nell'attribuire a ciascuno il suo. Così anche nel tenere lontano chiunque dall’ingiuria e dall’offesa. Questa è quell’amicizia che, connessa alla benevolenza dei cittadini, suole essere la più sicura custode e compagna dei re e dei principi, e in verità, quan-
De officiis. 113 Ibid.: «Communis haec amicitia, quae inter plurimos celebratur, regis praeter ceteras omnes convenit». 114 Ibid.: «Similitudinem namque cum paterfamilias aliqua ex parte tenet, qui liberos, nepotes, coniugem, totamque domum generali quadam benevolentia complecitur, omnibusque cupit bene esse et singulos quosque beneficiis afficiit. [...] Rex in eadem civitate quasi paterfamilias est: regnum autem paternum imperium habetur, quandoquidem ad amicitiae utilitatem gubernatur». Il corsivo è mio. La prima parte della citazione gioca il significato della similitudine sul piano affettivo, la seconda sul piano giuridico. Per rendersi conto del diverso significato che ha la similitudine nello speculum di Patrizi e nelle altre opere esaminate: cfr. De principe, par. 50, p. 61 e Oc, p. 220.
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do saranno difesi da questa non temeranno né le armi straniere né le armi interne. Giustamente Teopompo re dei Lacedemoni rispose a chi gli chiese in che modo sarebbe stato stabile il regno: «Lo sarà se i re comunicheranno la loro volontà ai loro amici e non permetteranno che nessuna ingiuria colpisca i cittadini»!!°,
Come si evince dal passo citato, la benevolenza che unisce il re ai cittadini non è solo affetto, ma anche e soprattutto esercizio delle funzioni di governo che spettano al re in quanto incarnazione della giustizia: il re mostra di voler bene ai cittadini rispettando il merito, attuando i principî propri della giustizia distributiva, giudicando ed applicando le leggi in modo corretto, dando a ciascuno il suo per evitare le ingiustizie. Pertanto, il rapporto tra governante e governati non sembra tanto una forma di amore o di mutua caritas, quanto piuttosto una relazione regolata dalla giustizia. Richiamando alla mente la teoria dell’obbligo politico abbozzata da Patrizi per spiegare che i sudditi devono obbedire al re perché è giusto, non stupisce affatto che il nesso istituito tra amicizia e giustizia sia così forte da poter considerare la benevolenza verso i sudditi come una forma di giustizia. Anche il sentimento di benevolenza che unisce i cittadini tra loro è connesso alla giustizia perchè sin dall’inizio della descrizione dell’amicizia civile, Patrizi chiarisce che gli abitanti della medesima città sono legati dal rispetto delle leggi della patria, da un certo patrio iure. La benevolenza che regna tra i cittadini non sembra, quindi, solo affetto, ma anche diritto. Per questo anche se riporta il detto di Teopompo per sostenere che l’amicizia 115 Patrizi, pp. 326-327: «Regis cura est, ut qui ab eo reguntur optima quaequae habeant, ir distribuendo vero quamvis omnibus prosit, meritorum tamen servat discrimen, et excellentioribus plus tribuit honoris, tenuioribus autem plus utilitatis, virtutis enim premium est honor, indigentiae lucrum [...]. Rex profecto aeque omnibus par sit in iure dicundo ac etiam in suo cuique tribuendo. Sic quoque in prohibendo quosque ab iniuria ac violentia. Haec est illa amicitia quae conixa civium benevolentia tutissima custos ac comes regibus principibusque esse solet, qua quidem dum muniti fuerint, neque externa neque intestina arma formidabuntur. Recte Theopompus Lacedemoniorum rex roganti quidam, quo pacto regnum stabile futurum esset, respondit: si reges voluntates suas cum amicis comunicabunt et civibus nullam inuiriam afferri permittent». Il corsivo è mio. È assai probabile che l’esempio di Teompompo sia tratto dagli Aphophtegmata Laconica di Plutarco.
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difende i re dalle armi straniere e dalle rivolte intestine, nel passo citato Patrizi non formula una tesi analoga a quella che, come si è visto nei precedenti capitoli del saggio, si trova anche nella Vita civile e negli specula di Platina e Pontano!!6. Proponendo il re spartano come esempio, infatti, l’autore del De regno non pone l’accento sugli amici, ma sulla necessità di evitare che i cittadini subiscano delle ingiustizie. La amicizia sociale mi sembra strettamente collegata alla benevolenza reciproca che unisce i cittadini che vivono entro le stesse ‘ mura ed obbediscono alle medesime leggi. Per questo procedo nella analisi senza seguire l’ordine del De regno. Come sottolinea Patrizi non appena inizia a descrivere questa tipologia di amicizia, l’amicizia sociale è un’amicizia minima, vale a dire un’amicizia
meno intensa delle altre perché nasce in vista di una qualche utilità
comune: non è un rapporto disinteressato e gratuito, né una rela-
zione basata esclusivamente sull’affetto. Questo si sviluppa col tempo, grazie alla frequentazione e alla consuetudine che consentono al rapporto di rimanere in vita anche quando si è raggiunto lo scopo prefissato. Patrizi dichiara, infatti, che: Il terzo modo di pensare questa amicizia civile è quello dell’amicizia sociale. Questa amicizia è quella meno intensa tra le tre. Infatti, non cerca la benevolenza di una sola persona, ma si rivolge per lo più a molti. La cerchiamo dapprima in vista dell’utilità, poi col passare del tempo, per la frequentazione e la consuetudine, diventa più grande al punto che, messa da parte l’utilità, rimane di solito un senso di benevola gratitudine ed un’amicizia. Con maggior frequenza, questa unione si realizza tra molti, poiché in molti possiamo essere utili tutti insieme. Questa unione sembra essere utile tra i cittadini, cosa che si capisce per una ragione evidente. Molti, infatti, pur essendo inutili singolarmente e non potendo fare nulla, se uniti ad altri, sono davvero molto utili a sé, agli altri, ed alla patria. Queste amicizie in tempo di pace aiutano le attività commerciali dei mercanti, degli armatori, dei vendi-
tori al dettaglio e degli altri commercianti!!7.
116 Cfr. Patrizi, p. 337; Platina p. 69; De principe, par. 38, p. 43; Vo, p. 129. 117 Patrizi, p. 339: «Tertia huius civilis amicitiae cogitatio est ea, quae socialis appellatur. Haec harum trium habetur minima. Nec unius tantum benevolentiam quaerit, sed complures plerumque adhibet. Eam primum utilitatis causa expetimus, deinde in dies usu ac consuetudine accumulatior fit adeo ut remota etiam plerumque
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Come si evince dal passo appena citato, l’amicizia sociale si realizza tra i mercanti, gli armatori, e gli artigiani ed ha, quindi, un carattere prevalentemente economico e commerciale. Poiché per Patrizi sono forme di amicizia sociale anche i rapporti che si creano tra i soldati che combattono le stesse battaglie e fanno
parte del medesimo esercito!!8, questa relazione sembra essere quel tipo di legame che unisce i cittadini che svolgono la stessa attività e la stessa professione. Credo si tratti di un’amicizia aristotelica piuttosto che di un’amicizia platonica, perché nell’ottavo libro dell’Etica Nicomachea Aristotele indica le forme di philia che sono proprie delle diverse comunità che formano la polis. Come indicato nella premessa, quando sottolinea che tali relazioni nascono in vista di un utile personale e parziale, o di un interesse particolare, il filosofo greco menziona l’amicizia che unisce i membri dello stesso demos e i membri della stessa tribù,
quella che si realizza tra i tiasoti e gli eranisti, ma anche l’amicizia che nasce tra i naviganti e i commilitoni ricordati da Patrizi nel De regno!9, Introducendo il terzo tipo di amicizia civile, Patrizi mostra che i cittadini non sono uniti solo dalle leggi, dall’educazione o dalla condivisione di luoghi e spazi pubblici, ma anche dalle relazioni commerciali e dai rapporti professionali. Per questo, sembra avere una visione della vita politica molto più complessa ed articolata di quella degli autori degli specula principum che ‘sono stati esaminati nei capitoli precedenti. Credo sia suggestivo, ma forzato, pensare di trovare la società civile dietro all’amicizia sociale descritta nel De regno. Tuttavia, nei passi in cui indica le caratteristiche dell’amicizia che unisce i cittadini che svolgono la utilitate grata benevolentia et amicitia remanat. Celebratur haec societas frequentius inter plures, quia multi simul utiles esse possumus, usui inter cives esse societas haec videtur, quod manifesta ratione cernitur. Multi quidem per sese inutiles essent, nihilique agerent, coniuncti vero aliis, et sibi illis et reipublicae plurimum. Haec in pace mercatoriam, naviculariam,
institioriam, relinquarumque artium commercia
adiuvant». Il
corsivo è mio. Traduco «respublica» con «patria» perché preferisco non usare il termine «stato».
118 Ibid. 119 EN, VII, 1160a 9-24, p. 337.
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
stessa attività e le stessa professione, Patrizi mostra che politica non significa solo governo, potere o giustizia, ma anche relazione.
Chiarisce altresì che sono in gioco relazioni diverse: relazioni che
possono avere natura affettiva, giuridica, economica, commer-
ciale o militare; relazioni che possono essere paritarie, come quelle tra commercianti e armatori, o gerarchiche, come quelle tra il re, che è il capo dell’esercito, e i soldati.
L’amicizia sociale è legata alla amicizia comune perché è un’amicizia tra molti e soprattutto perché è un’amicizia che individua diversi gruppi di cittadini, in base al ruolo e alla posizione sociale che essi ricoprono nella città. Mi sembra rilevante notare che il principe non appartiene a tutti questi gruppi. Patrizi, infatti, mette in luce che non può esservi amicizia sociale tra il principe e i commercianti, né tra il principe e gli artigiani: il principe non deve essere mercator né artifex, ma soltanto iustitiae aequitatisque dispensator, vale a dire dispensatore di giustizia ed equità!20. Invece, può e deve esservi amicizia sociale tra il principe ed i soldati (commi litones). Oltre ad essere il detentore del potere legislativo e giudiziario, infatti, il principe è anche il capo dell’esercito!21, Quando Patrizi ricorda che un buon principe deve seguire l’esempio di Alessandro Magno, mostrandosi benevolo con i soldati, e quello di Giulio Cesare, premiando i militari più meritevoli, dà dei consigli
analoghi a quelli di Pontano e Platina!?2, Credo, però, che sostenga una tesi molto diversa. Non si limita, infatti, ad esortare il principe a non dimenticarsi della virtù nemmeno nelle stuazioni di guerra. Mostra, invece, che l’amicizia richiede eguagliana di posizione ed interssi comuni: i sudditi che non hanno nulla in comune con il principe, come i mercanti e gli artigiani, non possono essere consi-
derati suoi amici.
120 Patrizi, p. quaestuarium ulla 121 Patrizi, p. singulis quibusque 122 Patrizi, p.
339: «Nolo equidem regem mercatorem, institiorem, artificem aut ex parte esse. Sed iustitiae aequitatis dispensator». 339, in particolare: «In bello vero regem socialem esse affectu, ut societatis militaris non solo intersit, verum etiam praesit». 340.
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La vera amicizia: gli amici del principe e l'amicizia tra i principi Come già accennato, la seconda tipologia d’amicizia civile individuata da Patrizi è la vera e perfetta amicizia: è basata sulla virtù e la somiglianza dei costumi, richiede una frequentazione assidua, e può esistere solo tra uomini buoni!23, È l’amicizia che ha unito Oreste e Pilade, Lelio e Scipione. Patrizi evidenzia la rarità e l’esclusività di questo tipo di rapporto, che si può stringere con al massimo tre o quattro persone nell’arco di tutta una vita, ripren-
dendo la distinzione aristotelica tra l’amicizia in vista della virtù e le più comuni amicizie in vista dell’utile e del piacere!24. Precisa, inoltre, che i principi, anche se sono degli ottimi re, non stringono facilmente questa tippologia di amicizia. Afferma, infatti, che: Questa grande amicizia capita difficilmente all’ottimo re. Questi, infatti, supera gli altri cittadini a tal punto che nessuna eguaglianza, nessuna analogia o somiglianza si può pensare se non attraverso la somma virtù di qualche uomo, grazie alla quale egli sarà sempre legato all’ottimo re. [...] Mancheranno di questa più perfetta amicizia coloro che comandano, dal momento che si tratta di un rapporto tra pari e tra eguali. Tuttavia, se il re desiderasse qualcosa di simile ad un’amicizia di tal genere, scelga qualcuno eccellente nella virtù e lo frequenti quando sarà libero da occupazioni importanti e serie. Come abbiamo detto, è preferibile che l’amicizia del re sia comune, affinché sembri disponibile non con una persona soltanto, ma con tutti gli
uomini sapienti!25, 123 Patrizi, p. 328: «Altera huius civilis amicitiae pars est cuius fondamenta virtus, et similitudo morum iacit, consuetudo vero assidua deinde preficit. Haec cum recte congruit perfecta amicitia dicitur: nec nisi inter bonos viros et similtudines morum, ac vitae convenientes esse potest. Hi ut simul verserentur, simulque vivant opus est, ut
de se et Scipione apud M. Tullium loquitur Laelius, nec pluribus unumquempiam esse amicum ex iure huius perfectae amicitiae datur. [...] Idcirco raro almodum haec amicitia esse cernitur. Nam in omni hominum aevo vix tria aut quatuor amicorum paria cum magna admiratione a graecis scriptoribus celebrantur. [...] Quin etiam amicitiae iam vulgo non virtute sed utilitate aut voluptate probantur». 124 EN, VII, 1156a 6-1156b 30, pp. 315-321.
125 Patrizi, pp. 337-338: «Sed haec magna amicitia in optimum regem vix cadere potest adeo enim reliquos cives excedit ut nulla aequalitas excogitari possit, neque comparatio, aut similitudo, nisi per summam alicuius hominis virtutem, per quam quidem bono regi optimo conciliatus erit. [...] Carebunt itaque hac perfectiore amicitia, qui imperant, quando inter pares aequalesque agitur. Eiusmodi amicitiae tamen similitudinem si optaret rex, virum aliquem virtute prestantem eligat, cuius consuetu-
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Il passo appena citato chiarisce che il principe non può essere amico di tutti i sudditi, ma solo di alcuni sudditi particolari, che
sono dotati di grandissima virtù. Affiora così il tema degli amici principis, nascosto tra le righe del De regno. Prima di mostrare che questo argomento emerge anche in altre parti dell’opera, in cui Patrizi propone tesi analoghe a quelle degli autori degli specula esaminati nei precedenti capitoli, vorrei evidenziare un aspetto che mi sembra particolarmente importante: il re non può essere amico di tutti i sudditi perché non ha pari né eguali. Patrizi insiste cosi tanto sulla superiorità del re che la vera amicizia sembra esclusa dal novero delle relazioni che questi può stringere: il rapporto tra il re e il più virtuoso dei sudditi — il suddito più uguale a lui — è simile alla vera amicizia, ma non è vera amicizia.
Ponendo l’accento sulla superiorità del principe, Patrizi gioca il valore politico dell’amicizia nello spazio del consiglio, anziché in quello del consenso. Mostra, infatti, che il principe non può essere amico di tutti i sudditi,. ma solo dei sudditi più virtuosi e più sapienti. Sostiene così una tesi analoga a quelle di Vicini, Pontano e Platina!26. Diversamente da loro, però, non descrive il
rapporto che il principe stringe con i boni viri e i sapientes come una forma di vera amicizia. Nel passo citato sembra addirittura identificare il rapporto con gli uomini più virtuosi e sapienti con la communis amicitia, rendendo ancora più oscuro il significato della tripartizione che ha proposto. Si potrebbe pensare che i sudditi più sapienti e più virtuosi non siano identificati con i veri amici del principe perché Patrizi non ha bisogno di aprirsi le porte di nessuna corte, essendo un vescovo. Questa ipotesi,
però, non spiega perché i sapientes ed i boni viri continuino ad essere chiamati amici. Si deve altresì considerare che Patrizi attribuisce a costoro le stesse funzioni politiche che sono riconosciute
dine fruatur, cum a rebus magnis ac seriis ocium erit. Praestat enim, ut diximus, regis amicitiam communem esse, ut non uni tantum, sed omnibus doctis viris faciles esse videatur». Il corsivo è mio.
126 Si confronti il passo citato con Platina, p. 71; De principe, parr. 46-47, pp.
55-57; par. 52, p. 63; parr. 54-55, p. 64; par. 60, pp. 69-71; par. 62, p. 73; e con De institutione, p. 59.
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agli amici del principe negli altri specula presi in esame. Infatti, quando mette in guardia il principe dagli adulatori, invitandolo a cercare il parere e il consiglio degli amici, identifica gli amici del principe con i consiglieri, come Platina e Vicini!27. Inoltre, mentre consiglia al principe di scegliere persone degne della sua amicizia, lo invita a frequentare i sapienti e ad essere loro amico con parole quasi identiche a quelle usate da Pontano e Platina!?8. Chiarisce persino che i sudditi dotti e saggi che il principe deve scegliere come amici sono i magistrati!??, Infine, quando contrappone il re al tiranno, sostiene che non ha bisogno di guardie del corpo nè di eserciti, ma di amici: come per Pontano e Platina, anche per
Patrizi gli amici sono la miglior difesa del regno!59. 127 Patrizi, pp. 55 e soprattutto 141-143, in cui la contrapposizione tra veri amici ed adulatori dipende da una citazione di Isocrate: «Isocrates vir sapientia et eloquentia peritissimus affirmat nullam principibus pestem adulatore perniciosorem esse, regemque suum monet ut omnes illos evitet qui quaecumque fecerit aut dixerit laudat, illis autem auscultet atque obtemperet qui eum monere audent et errata placide ac sine contumelia castigare. Hi enim amici sunt, vereque diligunt, illi autem assentatores atque adulatores, qui mendaci premium expectant». Il corsivo è mio. Il passo va confrontato con De institutione, pp. 53-57 e Platina, pp. 75-77. Vd. inoltre Patrizi, p. 211: il principe è invitato a stare alla larga anche dagli amici invidiosi e petulanti. 128 Patrizi, pp. 127-128, in particolare: «Nimia enim familiaritas contemptum parit, raritas autem admirationem conciliat, ut est in veteris sententia [Isocratis]. Sed
eos eligat, quos per virtutem amicitia ac consuetudine dignos esse putaverit. Nec illis
utantur a quorum congressu delectetur propter sermonis festivitatem facilesve mores, sed illis quorum opera atque consilio res magna optime gerere possit. Et hoc in primis sibi persuadeat, se tali ingenio talique natura ab omnibus iudicari, quali praedicti fuerint illi, quos assidua consuetudine et amicitia coniunctos habebit. Nulla certe armonia gratior, nulla consuetudo iucundior, nulla exercitatio utilior ea, quae quotidianis sermonibus cum prudentissimis atque doctissimuis viris habetur». Il corsivo è mio. Il passo va confrontato con Platina, p. 72 per l’insistenza sulla scelta di persone degne dell’amicizia del principe; con De principe, par. 43, pp. 51-53 per l’importanza delle conversazioni quotidiane con gli uomini più dotti e più prudenti. 129 Patrizi, pp. 333-334, da confrontare con Platina, pp. 109-111 e 121: Patrizi riconosce il valore del merito, ma non identifica nobiltà e virtù, a differenza di Platina. 130 Patrizi, p. 43: «Quid quod corporis suis custodiam non necessariis non civibus credunt tyranni: sed servis peregrinis ac Barbaris satellitibus et illis precipue, quorum opera in conciliandis toris turpibusque voluptatibus ministrandis arbitruntur? Isocrates tutissimam regum custodiam non turribus, propugnaculis, moenibus, satellitibus aut armis contineri inquit sed amicorum praesidiis, civium benevolentia, propria virtute. Quibus quidem opibus regna ac imperia non modo servari verum in dies augeri ac propagari asserit». Il corsivo è mio. Questo passo va confrontato con Platina, p. 69;
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Come dovrebbe emergere da queste considerazioni, l’amicizia non è solamente uno dei beni esteriori e degli onesti piaceri che sono necessari al principe per essere felice!31, ma è anche la relazione attraverso la quale esercita ed amministra il potere. Il valore politico dell’amicizia emerge con particolare evidenza in un passo in cui Patrizi insiste sul merito quale criterio per la selezione dell’élite di governo. Per spiegare che il principe ama alcuni cittadini più di altri, si riferisce all’Etica Nicomachea ricordando che vi sono amicizie sproporzionate ed asimmetriche, ossia relazioni
in cui si ama più di quanto si è amati perché l’affetto deve essere proporzionale alla condizione sociale ed ai meriti dei soggetti coinvolti nel rapporto!32. Queste considerazioni di carattrere aristotelico sono seguite da una similitudine piuttosto insolita: Patrizi paragona il re al sole, che illumina con la stessa luce tutti gli edifici, ma fa risplendere soprattutto quelli dotati di finestre più larghe. Non serve sottolineare che l’immagine del sole mostra la superiorità del re. Forse, è più utile mettere in evidenza che, proprio perché è come la luce del sole, l’amore del principe non è solo un sentimento vitale e ineguagliabile, ma anche un senti-
De principe, par. 38, p. 43; Vc, p. 129. Si noti che nel passo citato Patrizi distingue la benevolenza dei cittadini dall’amicizia vera e propria, mostrando così più chiaramente che in altri passi del De regno che l'amicizia gioca il suo valore politico nello spazio del i consiglio anziché in quello del consenso. 131 Patrizi, p. 53: «Exterioribus etiam ut opibus, amicis, optima patria, generis claritate, aliisque eiusdem generis. Nemo enim inficiari potest omnem bonum cum alio bono iniunctum expetibilius esse, quam per se solum, qua ratione utuntur illi qui honestam voluptatem virtuti addunt. Sequamur modo in hoc volumine hanc mitiorem opinionem, quae aliquid nostris mollioribus moribus indulget». Visto che l’amicizia serve a mitigare lo stoicismo che caratterizza le analisi del De regno, questo passo va confrontato con De institutione, p. 46. 132 Patrizi, p. 385: «Quaerentur nonulli cives quod cum summa observantia principes suos venerentur, ab illistamen minus diligantur. Quibus fortasse satis esset rispondere ex Aristotelis sententia dicentis in re amatoria non numquam quaeritur, non intelligens forsitan se nihil in se habere quod dignum sit. Sed possumus etiam mitius rispondere, dicentes regem se habere ad cives suos veluti solem habet ad subiecta aedificia, quae quidem eodem lumine pariter, sed ea illustriora videri, quae plures ac patentiores habent finestras. Sic rex subiectos omnes pari studio complecitur, illi autem clariores esse videntur, quorum ingenia per virtutem ad res gerendas magis idonea esse cernuntur». Per il riferimento ad Aristotele vd. EN, VIII, 1158b 1-1159a 33, pp. 329-333.
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mento naturale, che si propaga in modo involontario. Detto con altre parole, non è il re a fare differenze, ma la virtù dei sudditi,
che sono più o meno amati, più o meno amici, a seconda della loro capacità di riflettere la luce di chi li ama. L’amicizia tra il re e i sudditi non appare, dunque, sproporzionata ed asimmetrica
solo perché alcuni cives sono meno meritevoli di altri, ma anche e soprattutto perché nessuno sarà mai capace riflettere con la sua virtù una luce tanto intensa quanto quella del sole. Per fare un po’ di chiarezza, si potrebbe dire che il principe è amico dei sudditi più sapienti e più virtuosi, ma non è vero amico di nessuno dei sudditi, nemmeno di quelli che sceglie come consiglieri e funzionari. Il valore politico dell’amicizia continua ad essere giocato nello spazio politico del consiglio, perché si è visto che i consiglieri e i funzionari sono gli amici del re. Inoltre, avendo mostrato che il rapporto tra il principe e i sudditi è basato sulla giustizia anziché sull’affetto reciproco, Patrizi non sembra intenzionato a situare l’amicizia nello spazio del consenso. Si devono altresì considerare le premesse metafisiche su cui poggia la riflessione sviluppata nel De regno: esse non negano il valore politico dell’amicizia, ma proiettano la vera amicizia in un nuovo spazio politico. Infatti, essendo l’incarnazione dell’idea del Bene, il re non ha pari nemmeno tra i sudditi più istruiti e più virtuosi. Del resto, il re non è contraddistinto solo dalla maiestas, ma anche dalla sublimitas, e deve essere venerato come un Dio. Sembra che il principe possa essere vero amico solo di persone sublimi e divine come lui. Per comprendere perché possano essere veri amici dei principi solo altri principi, occorre analizzare la terza ed ultima tipologia di amicizia individuata da Patrizi: l’ospitalità (bospitalitas o xenia). Si tratta della benevolenza riservata agli stranieri ed ai viaggiatori, una forma di gentilezza e cortesia che Patrizi considera una vera e propria virtù. Questa tipologia
di amicizia, più simile alla amicizia civile e sociale dell’amicizia naturale, è una relazione tra pochi e per pochi. Tra un esempio
che mostra come essere gentili ed un proverbio che spiega quanti ospiti avere, Patrizi afferma infatti che:
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L'AMICIZIA CIVILE E GLI AMICI DEL PRINCIPE
E tuttavia non è proprio di tutti i cittadini, ma solo di quelli più ricchi e più famosi, ricevere ospiti. L'ospitalità, infatti, ha bisogno di ingenti spese, grande splendore, sontuosi corredi, case molto ampie e molto luminose, servi eleganti e raffinati: ma noi parliamo del re, la cui magnificenza e magnanimità è lodata, non di un comune capofamiglia, che è apprezzato per la sua
frugalità e la sua parsimonia [...}133.
Come si evince dal passo citato, l’ospitalità non si addice a tutti i cittadini, ma solo a quelli più ricchi e più illustri. Contrapponendo la magnificenza e la magnanimità, che contraddistinguono i re, alla frugalità ed alla parsimonia, che caratterizzano i padri di famiglia, Patrizi mostra che la terza tipologia di amicizia è una prerogativa dei principi, una virtù regia. Afferma, inoltre, che: «in verità, per lo più, l’ospitalità suole prendere il posto della vera amicizia tra i principi»!34. Pensando che la vera amicizia possa esistere solo tra i principi, Patrizi è l’unico degli autori
delle opere esaminate a spingere questa forma di amicizia fuori dalle mura della civitas ed oltre i confini del regnum. Adotta così una prospettiva più ampia: non si concentra solo sul rapporto
che unisce i governanti ed i governati, ma anche sulle relazioni che stringono i principi tra loro. Probabilmente, il riferimento a questo ultimo tipo di rapporti è frutto dell’esperienza personale di Patrizi: come accennato nel primo paragrafo, questi ha svolto importanti incarichi come ambasciatore. Poiché il De regno è scritto quando gli equilibri creati dalla pace di Lodi vacillano e gli eserciti stranieri iniziano a minacciare l’Italia, si potrebbe pensare che l’importanza più o meno consapevolmente riconosciuta a quelle che noi non chiameremmo amicizie tra i principi, ma relazioni diplomatiche o rapporti di politica estera, non sia solo un dato biografico. 133 Patrizi, p. 343: «Est tamen non omnium civium, sed divitium illustriumque virorum officium hospites accipere. Indiget enim hospitalitas ingenti sumptu, magno splendore, lauta suppellectile, clarissimis amplissimisque aedibus, et eleganti nitidaque familia: sed nos de rege loquimiur, cuius magnificentia, magnanimitasque laudatur, non de mediocri aliquo patrefamilias, cuius laus in frugalitate ac parsimonia versatur [...]». Il corsivo è mio. 134 Patrizi, p. 343: «hospitalitas quidem inter principes plaerumque perfectae 3 amicitiae locum tenere solet».
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Il tema dell’amicizia tra i principi è solo accennato. Tuttavia, quanto sostiene Patrizi basta per ipotizzare che il percorso iniziato esaminando la Vita civile potrebbe continuare prendendo in considerazione i trattati sui doveri dell’ambasciatore. Secondo Bazzoli, infatti, vi sono significative somiglianze tra la institutio principis e la institutio legati: nella prima fase della trattatistica sull’ambasciatore l’amicizia politica tra i principi è una forma di amicizia morale, e il perfetto ambasciatore è descritto non solo come messaggero di pace, ma anche come «congiuntor di amicizia» 5 . Il nuovo percorso da intraprendere per comprendere il valore politico dell’amicizia potrebbe cominciare con l’analisi del De officio legati di Ermolao Barbaro (1489), proseguire con l’esame del De legato libri duo di Ottaviano Maggi (1566) e del Messaggero di Torquato Tasso (1582), e terminare prendendo in considerazione il De legationibus libri tres di Alberico Gentili (1585). Quest’ opera inaugura, infatti, una nuova fase della rifles-
sione sui doveri delll’ambasciatore: il concetto di prudentia tende a diventare una funzione tecnica dell’interesse e della ragion di stato e l’ambasciatore non è più descritto secondo le forme e i valori propri della cultura umanistica.
135 M. Bazzoli, Ragion di stato e ragioni degli stati. La trattatistica sull’ambasciatore dal XV al XVIII secolo, in Id., Stagioni e teorie della società internazionale, Milano, LED, 2005, pp. 267-312, in particolare pp. 284-286. È Tasso a definire l’ambasciatore «congiuntor di amicizia». Tuttavia, già Barbaro sottolineava che l’ambasciatore dovesse preoccuparsi soprattutto della pace e lo definiva «amicissimo», sia del principe che dei cittadini: E. Barbaro, De coelibatu. De offcio legati, ed. critica a cura di V. Branca, Firenze, Olschki, 1969, p. 159. Su Ermolao Barbaro vd. anche M.L. Doglio, Ambasciatore e principe. L'Institutio legati di Ermolao Barbaro, in AA.VV., Umanesimo e Rinascimento. Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, vol. III,
Firenze, Olschki, 1989, pp. 297-310 e B. Figliuolo, Il diplomatico e il trattatista. Ermola0 Barbaro ambasciatore della Serenissima, Napoli, Guida, 1999. Per le edizioni delle altre opere: O. Maggi, De legato libri duo, Venetiis, 1585; T. Tasso, il Messaggero, in id. Prose, a cura di E. Mazzal, con una premessa di E. Flora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 3-73 (l’opera è dedicata a Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova e Monferrato); A. Gentili, De legationibus libri tres, NewYork, Oxford UP, 1924, in particolare il terzo libro, in cui sono analizzate le qualità necessarie ad un perfetto ambasciatore.
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7.4 Conclusioni
Come dovrebbe essere emerso dall’analisi condotta in questo capitolo, Patrizi individua diverse tipologie di amicizia, che hanno tutte valore politico perché sono connesse alla giustizia: l’amicizia naturale, l’amicizia civile o sociale, l’amicizia ospitale. La sua riflessione conclude il percorso iniziato esaminando l’opera di Palmieri, perché l’amicizia civile trova inaspettatamente spazio anche in uno speculum principis. Pertanto, questo tipo di amicizia non tiene unite solo le città, come è sostenuto nella Vita civile,
ma anche i regni, o meglio il regno descritto da Patrizi. Si deve, però, considerare che l’amicizia civile di Patrizi è un’amicizia molto particolare: denomina legami e rapporti che non trovano risocontro nelle opere esaminate nei capitoli precedenti, anche se continua ad essere un’amicizia aristotelica e ciceroniana. Per spiegare quale sia il vincolo che unisce gli abitanti della medesima città, infatti, solo Patrizi parla di amicitia communis, ossia
di quella relazione che nasce dalla condivisione e dalla frequentazione dei medesimi spazi pubblici. Inoltre, è l’unico autore ad includere nella categoria dell’amicizia i rapporti che si realizzano
tra icommercianti, gli armatori, i mercanti, gli artigiani, i soldati
ed i commilitoni. Queste tipologie di amicizia civile, di derivazione aristotelica, mostrano che Patrizi ha una visione molto complessa della vita politica, concepita come un insieme di rapporti che non hanno solo natura affettiva e giuridica, ma anche economica, commerciale e militare. Inoltre, questi rapporti non sono così estesi da includere tutti i cittadini, perchè coinvolgono solo quelli che hannoil medesimo ruolo e la medesima posizione sociale. Il corpo politico non è quindi descritto come un tutto omogeneo ed indifferenziato. Non sono solo i rapporti tra i sudditi ad essere presentati in modo più articolato rispetto alle altre opere esaminate, ma anche le legami esistenti tra il principe ed i sudditi. Il principe stringe, infatti, relazioni di tipo diverso, a seconda della funzione che
svolge e della posizione che occupa rispetto ai sudditi. Come si
è messo in luce, non è amico dei mercanti e degli artigiani, con
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cui non ha nulla in comune, ma solo dei membri dell’esercito che
comanda in qualità di detentore del potere militare. Inoltre, il principe non è amico di tutti i cittadini e di tutti i sudditi, ma solo dei cittadini e dei sudditi più virtuosi e più sapienti, che sceglie come consiglieri, funzionari e magistrati. Infine, visto che è l’incarnazione dell’idea del Bene, il principe può essere vero amico solo di altri principi, uomini sublimi e quasi divini come lui. Come dovrebbe essere emerso nel corso delle analisi, la rifles-
sione sull’amicizia proposta nel De regno presenta molti punti di tensione, perché non sono sempre mantenute le distinzioni tracciate tra le diverse forme di amicizia. Per fare chiarezza, occorre ricordare il modo particolare con cui Patrizi procede nel ragionamento: sovrappone citazioni di autori diversi, segue contemporaneamente linee di analisi platoniche, aristoteliche e stoiche. Si deve anche notare che tende a descrivere l’amicizia come se fosse la vera amicitia di Cicerone e la teleia philia di Aristotele: ogni forma di amicizia ha una evidente dimensione etica. Tuttavia, Patrizi sembra attribuire una funzione particolare ed una posi-
zione precisa alla vera e prefetta amicizia: come si è mostrato, questo tipo di amicizia fondata sulla virtù è una delle tre forme in cui può essere scomposta l’amicizia civile. Proprio perché l’amicizia basata sulla virtù è aristotelicamente e ciceronianamente concepita quale amicizia tra pari e tra eguali, essa non è il modello del legame che unisce il principe ai sudditi, né il fondamento della relazione che unisce il principe ai consiglieri ed ai funzionari: per Patrizi, la vera amicitia di Cicerone e la teleia philia di Aristotele si realizzano solo tra i principi, assumendo la forma dell’ospitalità. Il movimento di contrazione evidenziato analizzando la lettera di Petrarca a Francesco da Carrara appare dunque molto più accentuato nel De regno che negli altri specula principum presi in esame. Infatti, il valore politico della vera e prefetta amicizia non si gioca nello spazio del consenso, a livello del rapporto tra il principe e i sudditi, né nello spazio del consiglio, a livello del rapporto intimo e personale con il principe. Patrizi proietta la vera e perfetta amicizia in un nuovo spazio politico, che non non indica relazioni interne allo stato, bensì le relazioni tra gli stati:
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la vera e prefetta amicizia gioca il proprio valore politico come rapporto intimo e personale che unisce il principe ad altri principi. Come si è cercato di mostrare, il tema degli amici principis è presente anche nelle pagine del De regno e non è declinato in modo diverso rispetto alle altre raccolte di consigli per i principi che sono state esaminate, perché i consiglieri e funzionari del principe sono amici, che vanno scelti tra i sudditi più istruiti e più virtuosi. Tuttavia, gli amici del principe non sono veri amici: l’amicizia continua ad avere valore politico perché è un rapporto intimo e personale con chi è al potere, ed è ancora la relazione che permette al principe di selezionare l’élite di governo, ma non è più la vera e perfetta amicizia. Vista la contrazione dello spazio politico riservato all’amicizia, la riflessione proposta nel De regno pone fine al percorso intrapreso analizzando i libri della Famiglia. Patrizi dimostra, infatti, che il principe non\può avere veri amici tra i sudditi e non ne ha bisogno. Il principe non può avere veri amici per le premesse metafisiche su cui poggiano le analisi di Patrizi: come è stato messo in luce più volte, è l’incarnazione dell’idea del Bene,
un essere sublime e quasi divino. Il principe non ha bisogno di avere veri amici perché, coerentemente con le premesse da cui muove, Patrizi distingue le virtù dei cittadini dalle virtù dei principi ed elabora un’elementare ed embrionale teoria dell’obbligo: i sudditi devono obbedire ai principi perché vi è un vincolo naturale che spinge gli uomini ad amare chi li governa. Inoltre, il rapporto tra il principe ed i sudditi non è una relazione basata sull'amore reciproco o sull’affetto: piuttosto che una forma di mutua caritas, la benevolenza che unisce il principe ai sudditi è una forma di giustizia. O meglio, è l’esercizio delle funzioni di govermo che spettano al principe in quanto custos iusti e lex animata. Si deve inoltre considerare che la distanza che separa il principe dai sudditi non può essere colmata dalla vera amicitia, come proponeva Vicini per ridurre la differenza di potere notata dal suo interlocutore nel De institutione. Non può neppure essere ridotta a quella forma di amicizia debole e superficiale che è connessa alla comitas, come avviene nel De principe di Platina
7. DE CIVILI SEU SOCIALI AMICITIA: L'AMICIZIA NEL DE REGNO ET REGIS INSTITUTIONE
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e Pontano. Questo non solo perché la distanza tra il principe e i sudditi appare molto più accentuata, ma anche e soprattutto perché è definita in termini giuridici. Come si è cercato di mostrare, anche il rapporto tra i governati ha natura giuridica. I cives, infatti, sono uniti tra loro dal rispetto delle leggi della patria, oltre che dall’amicitia communis e dalle amicizie aristoteliche che sorgono tra gli uomini che svolgono la medesima attività o la medesima professione. Vista la natura giuridica del legame che unisce il principe ai sudditi, ed i sudditi tra loro, l’amicizia civile descritta da Patrizi è molto
diversa da quella di cui parla Palmieri nella Vita civile. Infatti, sebbene amicizia e giustizia siano strettamente legate in entrambe le opere, nel De regno amicizia e giustizia non possono essere considerati come sinonimi: diversamente da Palmieri, Patrizi non
utilizza più amicizia e giustizia per denomininare le medesime relazioni. Anche per questo, la riflessione sviluppata nel De regno conclude il percorso seguito nella seconda parte del saggio.
Note conclusive
Prima e dopo Machiavelli: alcune considerazioni
Avendo già messo in luce, nelle pagine finali della prima e della seconda parte del saggio, le analogie e le differenze che contraddistinguono le riflessioni sull’amicizia di Alberti, Palmieri, Vicini, Pontano, Platina e Patrizi, vorrei ora proporre alcune considera-
zioni di carattere più generale. Intendo intrecciare i fili dell’analisi svolta per vedere quale valore politico sia attribuito all’amicizia, cercando di mostrare che il percorso intrapreso può trovare un punto di arrivo nel Principe di Machiavelli, come già anticipato sin dalla premessa. Come dovrebbe essere emerso esaminando la Vita civile di Matteo Palmieri e gli specula principum di Vicini, Pontano, Platina e Patrizi, l'amicizia è sempre descritta prendendo come modello la vera amicitia ciceroniana e la teleia philia aristotelica. Questa relazione, però, assume valore politico non solo nella città, ma anche nelle corti dei principi. Nell’Etica Nicomachea e nel Laelius non vi sono elementi che lascino immaginare quale funzione politica possa essere attribuita alla amicizia in questo contesto: come si è visto nella premessa Aristotele gioca il valore politico dell’amicizia nella polis, sostenendo che la philia è la relazione da cui dipende la concordia della città; Cicerone esalta il
valore dell’amicizia pensando alla vita politica della respublica romana. É stata la lettura della Famiglia a suggerire di cercare l’amicizia in un contesto politico diverso dalla città, quello della corte. Alberti non sostiene solo che i giovani debbano imparare ad essere amati per aumentare l’onore e la fama della loro fami-
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glia stringendo rapporti di amicizia, non esalta solo la natura attiva dell’uomo indicando l’amicizia quale fine di tutte le attività umane, ma soprattutto — ed è questo l’aspetto più importante — inizia il libro dedicato all’amicizia raccontando in che modo Piero sia diventato amico di tre grandi principi. Non a caso, Piero è l’unico personaggio dei libri della Famiglia che non corrisponde ad uno dei protagonisti del De oratore di Cicerone. Come si è mostrato, inoltre, Piero cerca l’amicizia dei principi nel momento in cui non può contare sull’appoggio dei concittadini per accrescere il prestigio della sua famiglia. La collocazione della amicizia a corte rimanda in qualche modo alla situazione della penisola italiana, divisa in molteplici realtà politiche, governate da principi e signori piuttosto che da cittadini, oppure da cittadini molto potenti come i Medici. Nel corso dell’analisi la situazione storica dell’Italia non è stata ricostruita in modo dettagliato, anche perché non sarebbe stato possibile rendere conto della situazione di realtà così diverse tra loro come la Firenze dei Medici, la Fabriano dei Chiavelli, il
Regno di Napoli degli Aragonesi o la Mantova dei Gonzaga. Nei paragrafi in cui è stata presentata la vita degli autori, ed è stata analizzata la struttura delle opere prese in esame, sono stati messi in evidenza soltanto gli avvenimenti storici ed i processi politici necessari per contestualizzare la riflessione sull’amicizia sviluppata da Palmieri, Vicini, Pontano, Platina e Patrizi. Penso, per
esempio, al ruolo svolto dagli Accoppiatori per il consolidamento . del regime mediceo, ed alla politica culturale attuata da Alfonso e Ferdinando d’Aragona per rafforzare il loro dominio. Alcune precisazioni potrebbero essere utili per far luce sulla tematizzazione dell’amicizia in contesti politici molto diversi tra loro quali sono quelli a cui fanno riferimento le opere esaminate. Occorre innanzitutto considerare che l’amicizia gioca il proprio valore politico nella corte prima che nella città: si è visto che Vicini compone il De institutione, in cui si trova la prima formulazione sistematica del tema degli amici principis, più di trenta anni prima della Vita civile, in cui Palmieri sostiene che l’amicizia tiene unite le città. Come si è cercato di mostrare, l’amicizia tiene uniti
NOTE CONCLUSIVE
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sia i regni sia le città, ma svolge funzioni politiche diverse: per gli autori degli specula esaminati, è lo strumento per la selezione dell’élite di cui il principe si serve per amministrare il potere; per Palmieri, è il fondamento e il modello del legame sociale, la relazione che unisce i governanti ai governati. Per comprendere quale spazio politico sia riservato all’amicizia, credo si debba tenere ben presente un dato storico importante: a differenza di quanto accade in altri stati europei, soprattutto in Francia ed in Spagna, nel corso del Quattrocento in Italia non si assiste alla formazione di governi centrali. Ho ripetuto più volte che gli umanisti attribuiscono un significato nuovo alle tesi aristoteliche e ciceroniane relative all’amicizia, fondendo le citazioni tratte dall’Etica Nico-
machea, dal De amicitia e dal De officiis con quelle ricavate dal Bellum Iugurthinum di Sallustio, dalla Ciropedia di Senofonte, dall’orazione Ad Nicoclem di Isocrate, dai discorsi De regno di Dione di Prusa o dal De differentia veri amici et adulatoris di Plutarco. Ho anche sottolineato che, così facendo, adattano la
concezione aristotelica e ciceroniana dell’amicizia alla realtà politica in cui vivono. Ora vorrei chiarire che si tratta di una realtà
così complessa che la frammentazione della penisola italiana non può essere compresa contrapponendo con superficialità «comuni»
e «despoti», governi repubblicani e principati, città e corti. Si pensi, per esempio, al regno di Napoli. Come si è visto nel
quinto capitolo, nella seconda metà del XV secolo ha un’organizzazione politica più definita ed una struttura amministrativa più articolata di quella presente in altre realtà politiche. Tuttavia, persiste nel regno un forte senso di autonomia, che non
è espresso solo dalle grandi case baronali che si oppongono al dominio aragonese, ma anche dai comuni urbani. Per mantenere ed imporre il loro potere, i sovrani non si servono solamente di funzionari come Pontano, impegnandosi a creare una classe dirigente formata da quegli umanisti che devono essere in rapporti amichevoli col principe: fanno valere diritti feudali, assegnano terre e titoli ai nobili, stringono alleanze matrimoniali con i
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baroni, garantiscono privilegi alle città e sfruttano le lotte tra le fazioni da cui sono lacerate!. Si trovano aree dotate di una certa autonomia anche nelle «Terre di San Pietro». Con questo termine si è soliti indicare non solo i territori controllati dalle famiglie dei Caietani, degli Orsini,
dei Colonna, dei Di Vico o degli Anguillara, che hanno le loro roccaforti sulle colline intorno
a Roma, ma anche i comuni di
Bologna, Perugia ed Ancona. Queste città attraversano periodi di governo repubblicano molto instabile, a causa delle lotte scatenate dalle ambizioni egemoniche delle famiglie locali. Tuttavia, riescono a conservare una certa indipendenza. Nelle Terre di San Pietro si trovano, infine, dei territori controllati da dinastie che
si impongono per il favore di cui godono tra gli abitanti delle campagne, oltre che per la loro potenza militare. I casi più noti sono quelli dei Malatesta e dei Montefeltro, signori di Rimini ed Urbino, ma si potrebbero menzionare anche i Chiavelli: come si è visto nel quarto capitolo, all’inizio del XV secolo, sono i signori della città natale di Vicini. In Italia si trovano, dunque, forme di governo repubblicano all’interno di stati governati dai principi o dai papi, nonché diversi tipi di principi all’interno della stessa realtà politica. Come evidenzia John Law, rilevando le difficoltà incontrate dagli storici impegnati a descrivere le signorie dell’Italia del Nord, molti principi non sono affatto dei tiranni. I Visconti, gli Sforza ed i Gonzaga sovvertano gli statuti comunali delle città poste sotto il loro dominio. Cercano di consolidare il loro potere ottenendo riconoscimenti e titoli «regali» dai sovrani stranieri. In alcuni casi riescono persino ad imporre la successione dinastica nei territori che governano. In altri, non esitano ad assassinare gli avversari politici e ad usare la violenza per rimanere al potere. Tuttavia, non esercitano un potere meramente repressivo nei confronti dei sudditi. Sembra, infatti, che per mantenere il potere non conti solo
1 Per queste considerazioni sul regno di Napoli, ma anche per i riferimenti alle Terre di San Pietro, alle signorie del Nord Italia e gli accenni alla situazione di Venezia, rimando ancora una volta a Hay e Law, L'Italia nel Rinascimento, cit., pp. 185-365.
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la forza, ma anche la capacità di elargire protezione ai sudditi e la possibilità di assegnare loro onori e titoli, in modo da garantirsi il consenso dei governati.
Come dovrebbe essere emerso dall’esame dei cataloghi di virtù che contraddistinguono l’ottimo principe, esaltando la «bontà» del principe, gli autori degli specula analizzati legittimano sul piano etico un potere che esiste di fatto. Dalla riflessione sugli amici del principe proposta da Vicini, Pontano, e Platina in particolare, dovrebbe essere emerso anche un altro aspetto che è importante sottolineare: la distribuzione di quei favori e di quei benefici che rendono il principe più amato dai sudditi non avviene solo mediante il conferimento di feudi o il riconoscimento di privilegi ad individui, famiglie e comunità, ma anche attraverso la distribuzione di incarichi e la promozione di «uomini nuovi» a posizioni di fiducia. Sono gli umanisti, i literati e gli studiosi, i docti e i boni viri che il principe deve scegliere come amici. La riflessione sugli amici del principe mostra, quindi, che l’amicizia non è solamente la relazione mediante la quale avviene la selezione dell’élite di governo, ma anche, ed allo stesso tempo, la relazione mediante la quale è possibile l’ascesa sociale degli umanisti: mentre insegnano ai principi come scegliere gli amici, essi cercano di aprire le porte della corte e di ottenere incarichi di prestigio. Per questo, l’amicizia è un rapporto di potere oltre che un rapporto con il potere. Per cercare di comprendere meglio la situazione politica della penisola italiana nel Quattrocento non basta considerare che principi e signori non sono necessariamente dei tiranni, ma si deve anche riflettere più a fondo sulla contrapposizione tra repubbliche e signorie. Lo spirito repubblicano, che affonda le proprie radici nella tradizione delle autonomie comunali, sopravvive anche in realtà politiche che non sono affatto repubbliche, per esempio a Roma. Come accennato nel sesto capitolo, quando si è fatto riferimento alla congiura ordita da Porcari per spiegare l’origine dei sospetti di Paolo II nei confronti di Platina e dei pomponiani, i papi temono cospirazioni e complotti, anche se dispongono di un potere sempre più autocratico. Bisogna anche considerare che in Italia vi sono repubbliche molto particolari, come la repub-
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blica di Firenze, in cui il potere è di fatto controllato e gestito dai Medici attraverso uomini di fiducia, amici e clienti. Platina suggerisce il paragone tra i «signori» di Firenze e i signori di
Mantova, trasformando il De principe che ha dedicato a Federico Gonzaga nel De optimo cive che compone per Lorenzo de’ Medici. Tuttavia, sarebbe un errore considerare già a quel tempo i Medici come principi, al pari dei Gonzaga, perché il principato mediceo si afferma appieno solo nel XVI secolo?. D’altra parte, per comprendere meglio la situazione politica di Firenze, ma anche le ragioni per cui la città deve essere unita dall’amicizia civile, come
sostiene Palmieri, credo che non si
debbano sottovalutare «le ambizioni principesche» dei Medici, né le «tendenze potenzialmente signorili» del loro governoì. Ritengo, infatti, che l’amicizia sia così importante non tanto perché Firenze è più simile alla polis di Aristotele o alla respublica di Cicerone delle corti di Fabriano, Napoli e Mantova, quanto piuttosto, perché non è né una repubblica né un principato. Come dovrebbe essere emerso nel corso dell’analisi, sembra che l’amicizia trovi spazio politico nelle realtà in cui il potere non ha un assetto costituzionale stabile e definito, si trova sostanzialmente nelle mani di un individuo, e si basa su una trama di rapporti che sono relazioni personali prima di essere legami professionali e politici. Questa tesi vale anche per l’amicizia esaltata nella Vita civile quale modello e fondamento del legame sociale. Poiché Palmieri compone quest'opera quando è già impegnato in politica a fianco dei Medici, ma non è ancora diventato uno dei loro uomini di fiducia, come si è cercato di mostrare nel terzo capitolo,
la riflessione sull’amicizia proposta nella Vita civile è espressione 2 Vd. N. Rubinstein, Le istituzioni del regime mediceo da Lorenzo il Magnifico agli inizi del principato, in Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienze e arti nella Firenze dei Medici, cit., pp. 29-45, in particolare pp. 40 sgg.: sebbene si riscontrino forme di
governo principesco già dopo la caduta di Piero Soderini (1512), si può parlare di principato solo quando, capitolata Firenze (agosto del 1530), il 31 maggio del 1531 Carlo V emana l’editto imperiale che pone Alessandro de’ Medici a capo del governo, a conferma delle decisioni prese dalla Balìa di febbraio. Alessandro de’ Medici ha potere a vita, e lo trasmette per via ereditaria. 3 Ivi, rispettivamente p. 37 e p. 41.
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del bisogno di ordine e concordia che caratterizza Firenze. Dietro all’esaltazione della amicizia civile si intravedono l’instabilità politica e le lotte tra le fazioni che hanno lacerato la città piuttosto che la politics of friendship attuata dai Medici. Del resto, come dovrebbe essere emerso analizzando i punti di tensioni interni alla riflessione di Palmieri, nella Vita civile l’amicizia ha degli aspetti clientelari, ma il nesso tra amicizia e clientela non è tematizzato
e problematizzato: negli anni Trenta del Quattrocento, il sistema con cui i Medici controllano i centri di potere non si è ancora pienamente consolidato. Se il potere dei Medici fosse stabile, se i Medici non avessero bisogno di uomini di fiducia per controllare l’accesso alle cariche più importanti e vincere l’opposizione delle famiglie fiorentine alla guida della città, non credo che vi sarebbe spazio politico per l’amicizia. E l’amicizia non sarebbe concepita come relazione capace di porre fine alle lotte tra le fazioni, di generare unità e concordia. Per verificare l’ipotesi appena formulata, si dovrebbe iniziare un nuovo
percorso
di ricerca. Andrebbero,
infatti, esaminate
le opere quattrocentesche in cui è lodata, o presa a modello, la costituzione di Venezia. Nel corso dell’analisi ho accennato solo al De institutione reipublicae di Patrizi, mostrando che la riflessione de civili seu sociali amicitia sviluppata nel De regno non ha un corrispettivo nell’opera che esalta il governo veneziano. Oltre ad essa, si dovrebbero considerare tutte le opere che hanno creato il «mito» di Venezia4, dal De republica veneta di Pier Paolo Vergerio, degli inizi del 1400, al De magistratibus et republica veneta di Gasparo Contarini, redatta tra il 1523 ed il 1531. Venezia si è trovata in una situazione molto diversa da 4 Vista l’ampiezza della letteratura critica sull’argomento, oltre a E. Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXXII, 1961, pp. 548-575 e D. Robey and J. Law, The Venetian Myth and The «De republica veneta» of Pier Paolo Vergerio, in «Rinascimento», XXV, 1975, pp. 3-59, mi limito a citare il fondamentale, ed ormai classico, studio di Bouwsma: W.J. Bouwsma, Venice and the Defense of Republican Liberty: Renaissance Values in the Age of the Counter Reformation, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968; trad. it. Venezia e la difesa della libertà repubblicana: i valori del Rinascimento nell’età della Controriforma, Bologna, il Mulino, 1977.
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quella degli altri stati della penisola italiana: non solo non ha conosciuto le lotte intestine che hanno lacerato Firenze e le altre repubbliche della penisola, ma ha anche saputo resistere all’invasione straniera, salvaguardando la propria autonomia. Sin dai primissimi anni del Quattrocento, l’unicità di Venezia è stata spiegata ricorrendo alla teoria del governo misto: l’ordine e la stabilità che caratterizzano la città deriverebbero dalla compresenza
d’istanze
democratiche,
aristocratiche
e monarchiche,
rappresentate rispettivamente dal Maggior Consiglio, dal Senato e dal Doge. Mentre nelle opere de republica è analizzato l’assetto costituzionale del governo di Venezia, sia nella Vita civile sia nelle raccolte di consigli per i principi prese in esame mancano riflessioni approfondite relative alle forme di governo: Palmieri invoca l’ordine e la concordia senza interrogarsi sulla forma del governo fiorentino; Vicini, Pontano e Platina giustificando il potere dei principi, a cui rivolgono i loro consigli sull’amicizia, limitandosi a sottolineare la natura morale e le finalità etiche del loro governo. Se nelle opere di Vergerio e degli altri autori che descrivono le caratteristiche del governo veneziano non ci fossero riferimenti all’amicizia, si potrebbe trovare, per via negativa, una conferma
della tesi secondo la quale si attribuisce valore politico a questa relazione nei contesti in cui il potere non ha un assetto costituzionale stabile e definito. Avendo messo in luce alcune delle ragioni per cui l’amicizia gioca il proprio valore politico in realtà molto diverse tra loro, vorrei ricordare che il precorso di ricerca seguito in questo saggio ha preso le mosse dall’analisi dell’amicizia civile descritta nella opera di Palmieri ed ha portato all’esame dell’amicizia civile delineata in quella di Patrizi, mettendo a fuoco il tema degli amici del principe. Come ho cercato di mostrare nel secondo capitolo, questo percorso ha diversi termini a quo. Infatti, il tema dell’amicizia è presente negli specula medioevali di Vincenzo di Beauvais, Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano che fungono da modello per le opere di Vicini, Pontano, Platina e Patrizi che sono state
esaminate. Tuttavia, l’idea di educare il principe alla scelta degli amici è tipicamente umanistica: acquista una fisionomia pecu-
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liare con la riflessione di Petrarca. Nella lettera al Signore di Padova, infatti, l'amicizia gioca il proprio valore politico nello spazio del consiglio anziché in quello del consenso, perché non sono chiamati amici tutti i sudditi, ma solo dei sudditi particolari. Sebbene il rapporto tra il principe e i sudditi sia un rapporto basato sull’amore (mutua caritas), l'amicizia non ha valore poli-
tico in quanto fondamento e modello del legame sociale: per Petrarca l’amicizia ha valore politico perché è il rapporto intimo e personale che unisce il principe ai missi. Essi sono i letterati e gli umanisti su cui può contare chi governa per esercitare e
amministrare il potere, quei sudditi che sono chiamati amici anche perché non sono ancora funzionari o ministri. Il loro rapporto col principe non è meramente istituzionale e professionale: è una relazione dotata di valore politico perché ha natura intima e personale, si basa sull’affetto e sulla fiducia, e si fonda
sulla virtù. La strada intrapresa analizzando la Vita civile e gli specula di Vicini, Pontano Platina e Patrizi ha consentito di mostrare che
l’amicizia non tiene unite solo le città, ma anche i regni, perché gli amici sono le persone su cui il principe deve poter contare per esercitare il potere. Come anticipato sin dalla premessa, questa strada trova un termine ad quem in quello che, forse, è lo speculum principis più famoso della storia: il Principe di Machiavelli. Credo, infatti, che in quest’opera si trovino importanti riferimenti all’amicizia, che possono essere compresi solo se si pone
sullo sfondo la riflessione sugli amici principis sviluppata nelle opere che sono state prese in esame”. Il primo riferimento all’amicizia si trova nel XV capitolo del Principe, all’inizio della riflessione de his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur. Machiavelli, infatti, sostiene che:
5 Uso volutamente un termine generico come «porre sullo sfondo» perché non intendo sollevare una questione così complessa qual è quella relativa alle fonti usate da Machiavelli.
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Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ i sudditi o con li amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non esser tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini degli altrif.
Sono parole famosissime: esaminate le diverse tipologie di principato, Machiavelli prende volontariamente e consapevolmente le distanze da tutti gli altri autori di opere sui doveri e i comportamenti dell’ottimo principe, rivendicando con decisione la novità della propria riflessione politica. Contrapponendosi a tutti coloro che «si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero», non fa solo una
scelta di realismo politico. Propone anche una concezione radicalmente nuova del potere, della virtù e del rapporto esistente tra morale e politica. In poche pagine organizza la propria riflessione seguendo coordinate nuove: si attiene alle «realtà effettuale» delle cose, sottolinea l’abisso che separa il piano dell’essere da quello del dover essere e del sembrare, sostituisce la tradizionale contrapposizione tra vizi e virtù con la distinzione tra ciò che conserva e ciò che manda in rovina lo stato. Il ragionamento è svolto in modo così stringente e serrato che il lettore potrebbe non accorgersi di un dato particolarmente rilevante: la riflessione iniziata in questa parte del Principe verte sui «modi e governi di uno principe con i sudditi o con li amici». I sudditi e gli amici: se nei capitoli precedenti non fossero state analizzate alcune delle raccolte di consigli per i principi scritte nel XV secolo, questo accostamento potrebbe apparire inusuale e inaspettato. È evidente, infatti, che il modo con cui il principe entra in relazione con i sudditi è fondamentale per individuare i comportamenti più adatti per mantenere e rafforzare il potere. Non è, invece, altrettanto evidente che sia importante riflettere
sugli amici del principe. Lo stile volutamente contratto della prosa machiavelliana non consente di pensare che il termine «amici» sia 6 Machiavelli, I principe, cit., p. 102. Il corsivo è mio. D’ora in poi cito questa opera semplicemente come Principe.
7 Ibid.
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semplicemente un sinonimo di «sudditi». Non sembra neppure plausibile credere che Machiavelli usi una parola per un’altra dopo aver dichiarato di rifiutare ridondanze, artifici e ampollosità di ogni tipo8. Come suggerisce Rinaldi, trovando nei Discorsi una conferma per l’interpretazione che propone, è possibile sostenere che gli amici menzionati nel passo citato siano gli alleati del principe?. Questa ipotesi di lettura sembra molto convincente perché Machiavelli tende a riferirsi agli amici prevalentemente, sebbene non esclusivamente, quando riflette sulle guerre che il principe muove e sulle alleanze militari che stringe: in molte pagine del Principe la parola «amici» è usata come sinonimo di «soci» ed «alleati», in contrapposizione al termine «nemici»!0. Visto che 8 Principe, p. S: «La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e’ ornamento estrinseco, con e? quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata». Si noti la simmetria esistente tra la pretesa della novità stilistica del Principe, espressa con queste parole nella lettera dedicatoria dell’opera, e la rivendicazione di autonomia proclamata nel XV capitolo in cui, come appena visto, Machiavelli sottolinea la distanza che separa la sua riflessione sui doveri e i comportamenti del principe dalle riflessioni degli autori che hanno affrontato il medesimo argomento. Per le caratteristiche della prosa di Machiavelli, oltre a quanto sostenuto da Inglese nell’introduzione all’edizione citata del Principe (G. Inglese, Introduzione, in Principe, pp. XXXVIXLV) vd. anche F. Chiappelli, Nuovi studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze, Le Monnier, 1969. 2 N. Machiavelli, De principatibus, in Id., Opere, a cura di R. Rinaldi, Torino, UTET, 1999, vol. I, pp. 103-400, in particolare pp. 268-269. Per quanto riguarda il significato della parola amicizia nei Discorsi vd. per es. il cap. XI del libro II, intitolato Non è cosa prudente fare amicizia con uno principe che abbia più opinione che forze: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Id., Opere, cit., vol. II, pp. 798-801. Cito questa edizione dei Discorsi perché è quella curata da Rinaldi. 10 Principe, p. 121: il principe deve sapersi difendere sia dai sudditi che dai «potentati esterni», per questo gli servono buoni amici, cioè alleati, che si procura più facilmente se ha buone armi; p. 123: gli amici del principe sono i congiurati, perché chi sale al potere con una congiura non può essere solo; p. 130: Severo è stato capace di essere amico dei soldati; p. 143: gli amici sono i sudditi scontenti del precedente governo che favoriscono l’ascesa del principe nuovo; p. 149: il principe è stimato quando è vero amico o vero nemico, cioè quando evita di essere neutrale schierandosi chiaramente per l’una o per l’altra parte e così via. Non è un elenco completo delle occorrenze di termini quali «amici» e «amicizia», ma credo possa iniziare a mostrare che gli amici sono i soci e gli alleati che favoriscono l’ascesa al potere del principe, che il termine
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Patrizi proietta l’amicizia in uno spazio politico nuovo, che non riguarda le relazioni tra il principe e i consiglieri, né le relazioni tra il principe ed i sudditi, bensì i rapporti tra i principi, l’interpretazione di Rinaldi consente di collegare il Principe al De regno. Non si deve, però, dimenticare che in quest’opera, così come nelle altre raccolte di consigli per i principi esaminate nella seconda parte del saggio, oltre che nel quarto libro della Famiglia, gli amici sono contrapposti agli adulatori ed ai falsi amici, non ai nemici. È un primo, ma chiaro, segno della novità della riflessione machiavelliana. Per far luce sull’accostamento tra i sudditi e gli amici bisogna considerare anche il XVII capitolo del Principe, in cui Machiavelli si chiede se un buon principe debba essere amato o temuto. L’esame dei «modi e dei governi di uno principe con i sudditi o con li amici» inizia nel XV e prosegue sino al XXIII capitolo del Principe. In questi nove capitoli Machiavelli prende in esame le virtà della liberalità e della parsimonia, che costituiscono un tratto distintivo dell’ottimo principe; si interroga sulla crudeltà e sulla pietà, chiedendosi appunto se sia meglio per il principe essere amato o temuto; suggerisce al principe quando prestar fede alla parola data e come evitare l’odio e il disprezzo dei sudditi; lo esorta ad accrescere la propria stima e ad evitare gli adulatori nella scelta dei consiglieri e dei ministri. A prescindere dai problemi riguardanti la datazione, la composizione e la struttura del Principe, sui quali non è possibile soffermarsi!!, è noto che questi amicizia è usato in contesti militari e ha un significato determinato dall’opposizione amico/nemico anziché dalla distinzione vero/falso amico. 11 Secondo quanto sostenuto da Sasso, che riprende le tesi di Chabod e Meinecke per opporsi all’ipotesi dualista formulata da Martelli, nonostante sia stato composto per aggiunte successive, il Pricipe ha avuto un’unica redazione: Machiavelli si è dedicato alla stesura dell’opera dal luglio-agosto del 1513 fino al marzo del 1514, o al massimo fino al maggio del 1514, rivedendo ed ampliando il nucleo originario, vale a dire i primi undici capitoli de principatibus cui si riferisce la lettera a Vettori del 10 dicembre 1513. Aggiunge a questi capitoli, che sembrano fornire un’analisi in sé conclusa, i tre capitoli sulle armi proprie e le virtù militari, ed i capitoli concernenti le virtù e le qualità del principe che costituiscono la terza parte dell’opera (capp. XV-XXIII). Queste tre parti, facilmente riconoscibili e ben distinte, trovano la loro «complessa, ma non univoca conclusione», nei tre capitoli finali in cui Machiavelli
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capitoli costituiscono la sezione precettistica e morale dell’opera. Come emerge chiaramente dagli studi di Sasso, Machiavelli affronta molti dei temi presenti nelle raccolte quattrocentesche di consigli per i principi, «senza indulgere ad una tradizione di cui non è ignaro»!2,
prende in esame le ragioni della crisi italiana. Secondo Sasso, la seconda e la terza parte dell’opera sono un ampliamento dei primi undici capitoli: un ampliamento reso necessario dalla natura stessa della «materia» esaminata analizzando le diverse forme di principato, volto a chiarire i concetti di virtù e fortuna precedentemente introdotti. Secondo lo studioso, l’unità del Prircipe non deve essere cercata nelle forme di raccordo o nell’analisi stilistica, ma nella continuità dei temi analizzati: in quest'opera Machiavelli non propone solo una «teoria non formalistica del principato civile», ma anche, ed allo stesso tempo, una «teoria della virtù nel suo rapporto con la storia». Oltre a G. Sasso, Genesi e struttura del Principe, in Id., Niccolò Machiavelli, Bologna, il Mulino, 1993 (19581), vol. I, cap. V, pp. 327-477, vd. anche G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1986, vol. II, in particolare cap. V: Il Principe ebbe due redazioni?, pp. 197-258 e cap. VII: Del XXVI capitolo, della provvidenza e di altre cose, pp. 277-342. 12 Sasso, Genesi e struttura del Principe, cit., p. 422. Già Villari spiegava che quando Machiavelli polemizza coni «molti» che si sono immaginati repubbliche e principati mai esistiti «allude non tanto agli antichi, quanto agli scrittori del Medioevo, come Egidio Colonna e Dante Alighieri, agli eruditi del XV secolo come il Panormita, il Poggio, il Pontano ed altri molti, i quali avevano sostenuto che il sovrano deve avere tutte le virtù e ne avevano fatto un ritratto ideale di religione, di modestia, di giustizia e di generosità» (P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Firenze, Le Monnier, 1881, p. 385). Le linee di continuità e i punti di rottura che avvicinano e separano il Principe e gli specula medioevali ed umanistici sono state messe in luce dagli studi sui cosiddetti Machiavelli's forerunners cui si è fatto riferimento nel secondo capitolo di questo saggio per proporre l’elenco delle raccolte di consigli per i principi scritte nel XV secolo: oltre ad A.H. Gilbert, Machiavellis «Prince» and Its Forerunners. The «Prince» as a Typical Book De Regimine Principum, New York, Barnes & Noble, 1968 (19381), vd. F. Gilbert, The Humanist Concept of the Prince and «The Prince» of Machiavelli, in «Journal of Modern History», 1939; trad. it. Il concetto umanistico di principe e il Principe di Machiavelli, in Id., Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, cit., pp. 109-160. Mentre A.H. Gilbert, considerando il Principe un’opera de regimine principum, commenta il testo capitolo per capitolo, evidenziando passi analoghi a quelli proposti da Machiavelli per ricostruire l'atmosfera intellettuale in cui è nata l’opera, E Gilbert cerca di stabilire un nesso diretto tra Machiavelli e i suoi predecessori, distinguendo la letteratura medioevale sugli specula principum dalla forma specifica che l’Umanesimo ha dato a questo genere letterario. F. Gilbert non nota solo che Machiavelli usa il latino per i titoli dei capitoli della sua opera e si riferisce alla orazione Ad Nicoclem di Isocrate nella dedica, ma sostiene anche che Machiavelli avrebbe scritto parte dell’opera — i capp. XV-XIX - per fornire una nuova interpretazione dei cataloghi di virtù delineati negli specula quattrocenteschi. Per comprendere quale sia
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Riflettendo an sit melius amari quam timeri vel e contra, il Segretario fiorentino riprende un tema che caratterizza il pensiero politico degli umanisti. Come mostrato nel corso dell’analisi, infatti, questo topos non è presente solo nelle raccolte di consigli per i principi scritte da Vicini, Pontano, Platina e Patrizi, ma anche nella Vita civile, in cui Palmieri trasforma l’alternativa cice-
roniana tra amore e timore nella contrapposizione tra amicizia e discordia. Diversamente da Vicini, Pontano, Platina e Patrizi,
però, il Segretario fiorentino non invita chi governa ad essere amato. Inoltre, schierandosi a favore del timore, prende posizione contro l’amicizia e priva questa relazione del valore politico attribuitole dagli autori delle opere prese in esame. Dichiara, infatti, che: Nasce da questo una disputa, s’ e’ gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro, ma perché e? gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro esser temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e’ son tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, il debito di Machiavelli nei confronti degli autori degli specula quattrocenteschi vd. anche C. Dionisotti, Machiavellerie II, in «Rivista storica italiana», LXXXHI, 1971, pp. 227-263, riveduto e ristampato col titolo Dalla repubblica al principato, in Id., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, cit., pp. 101-153: quando ricostruisce il ruolo avuto dal Principe all’interno del dibattito relativo al miglior modo per governare Firenze, Dionisotti precisa che Machiavelli non avrebbe mai potuto leggere alcune delle opere citate da F. Gilbert, quali il De maiestate di Giuniano Maio, il De iciarchia di Leon Battista Alberti o il De regentis et boni principis officiis di Diomede Carafa, perché esse hanno avuto scarsissima circolazione nella città. Non avrebbe nemmeno potuto conoscere opere come il De regno di Patrizi, diffuso soprattutto all’estero ed in un periodo successivo alla stesura del Principe. Secondo Dionisotti, è probabile che Machiavelli abbia effettivamente conosciuto alcune opere di Pontano e il De optimo cive di Platina, ma non il De principe. La ricerca sulle fonti dovrebbe concentrarsi sull'ambiente mediceo, fiorentino e romano, prendendo in considerazione opere quali il De comparatione reipublicae et regni di Brandolini. Come già evidenziato nel secondo capitolo, confronta il Principe con gli specula quattrocenteschi anche Skinner: Q. Skinner, L'età dei principi, in Id., Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 207-224 e Q. Skinner, Virtà repubblicane in un’età di principi, in Id., Virtù rinascimentali, cit., pp. 155-205. Come è noto, lo storico delle idee ha dedicato a Machiavelli una monografia: Q. Skinner, Machiavelli, Oxford, Oxford UP, 1981.
ee
NOTE CONCLUSIVE
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quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà d’animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli
tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per esser gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non
ti abbandona mai!3.
Machiavelli prende una posizione diversa da quella degli altri autori coinvolti nella disputa, ossia da tutti coloro che consigliavano al principe di essere amato, perché sostiene che sia meglio — più sicuro — essere temuto. Scegliendo il timore al posto dell'amore, Machiavelli propone una tesi radicalmente nuova. Dovrebbe essere chiarita con analisi più approfondite perché il rapporto tra amore e timore è molto complesso: Machiavelli non sostiene che il principe debba essere temuto sempre e comunque, bensì che debba essere temuto se non può essere amato. Mi limito a rilevare che questa tesi poggia su alcune premesse di natura antropologica, evidenti anche nel passo citato: poiché gli uomini non sono virtuosi per natura, ma «tristi», ossia malvagi, il vincolo di riconoscenza generato dall’amore («uno vinculo di obligo») è un legame troppo debole e instabile. Pertanto, per essere sicuro e durevole, il rapporto tra il principe e i sudditi deve basarsi sul timore e la paura. L’amore sembra dunque poco rilevante — o addirittura insignificante — dal punto di vista politico. E l’amicizia è addirittura impossibile. Infatti, quando si schiera a favore del timore, Machiavelli mette in luce un aspetto molto impor-
13 Principe, pp. 110-111. Nel passo citato vi è probabilmente una reminiscenza tacitiana (Tacito, Historiae III, 86: «amicitias dum magnitudine munerum, non constantia morum contineri putat, [Vitellius] meruit magis habuit»), che spiegherebbe la presenza
di termini propri del linguaggio economico volti ad evidenziare la natura utilitaristica ed interessata del rapporto di amicizia. Come nota Inglese, riprendendo l’interpretazione proposta da Burd, forse vi è anche un’allusione a Soderini: eletto Gonfaloniere perpetuo della Repubblica fiorentina nel 1502, e costretto a seguire la via dell’esilio (31 agosto 1512) sotto la minaccia delle armi spagnole che riportarono i Medici al potere, questi aveva sperato invano nell’aiuto dei membri del Consiglio Grande.
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tante della sua riflessione: essendo ingrati e volubili, simulatori e dissimulatori, cupidi di guadagno ed interessati solo all’utile personale, gli uomini non possono essere amici sinceri e leali. Per questo, il principe che non vuole cadere in rovina, non deve solo essere temuto dai sudditi: deve anche evitare di fidarsi degli amici.
Sostenendo che il principe non dovrebbe fidarsi degli amici, Machiavelli chiude lo spazio politico riservato all’amicizia da Petrarca e dagli autori degli specula principbum che sono stati presi in esame. Per rendersi conto che la riflessione di Machiavelli costituisce un punto di rottura rispetto al percorso seguito in questo
saggio, può essere utile ricordare che il principe che non vuole cadere in rovina è l’ottimo principe: per Machiavelli, la virtù non è altro che la capacità di conservare e mantenere lo stato. Mentre Vicini, Pontano, Platina e Patrizi consigliano ai principi di scegliere amici virtuosi come loro, dotati delle qualità morali necessarie per poter ricoprire incarichi e missioni di governo, Machiavelli invita il principe che vuole essere virtuoso a non fidarsi degli amici. Non ho intenzione di dimostrare che Machiavelli avesse effettivamente conosciuto le opere composte da questi autori. Però, mi sembra
particolarmente significativo che l’amicizia compaia tra le righe del ragionamento di Machiavelli proprio nel momento in cui si interroga sul legame che unisce il principe e i sudditi, come negli specula di Vicini, Pontano e Platina e Patrizi. Mentre essi invitano
il principe ad amare alcuni sudditi, quelli cui affidare missioni ed incarichi di governo, Machiavelli gli consiglia di non fidarsi dell’amicizia di nessuno. Alla luce di queste considerazioni, credo che l’interpretazione di Rinaldi possa essere integrata e completata: gli amici menzionati all’inizio della riflessione sui «modi» edi «governi» del principe non sono semplicemente gli alleati del principe, ma anche i sudditi di cui non si deve fidare. Quei sudditi che appoggeranno il principe, e gli saranno amici, soltanto finché sarà favorito dalla fortuna. Continuando la propria riflessione sulle qualità dell’ottimo principe, Machiavelli sembra seguire con una certa coerenza la tesi secondo la quale il principe non deve fidarsi degli amici.
NOTE CONCLUSIVE
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Per esempio, non utilizza mai la parola «amici» nei passi in cui mostra come debbano essere scelti i collaboratori del principe: mentre agli inizi del Quattrocento, nel De institutione regiminis
dignitatum, Vicini consiglia il principe de electione amicorum, agli inizi del Cinquecento, nel Principe, Machiavelli si interroga sulla «elezione de’ ministri»!4. È uno slittamento semantico cruciale. Risulta ancor più significativo se si considerano le sezioni del Principe in cui è affrontato il tema della scelta dei buoni consiglieri: diversamente da Vicini, Pontano, Platina, e Patrizi, Machiavelli
mette in guardia il principe dagli adulatori, ma non contrappone gli adulatori agli amici e non identifica i buoni consiglieri con i veri amici!5. Viste le premesse antropologiche su cui poggia la riflessione del Principe, questo fatto non dovrebbe stupire: come è possibile distinguere i veri amici dai falsi amici e dagli adulatori se gli uomini sono «tristi» per natura? Forse, è più utile chiarire che il rapporto del principe con i ministri ed i consiglieri non è più una forma di amicizia, ma una questione di prudenza. Come sottolinea Machiavelli, infatti: «Non è di poca importanza a uno principe la elezione de’ ministri, e’ quali sono buoni, o no, secondo la prudenza del principe»!6. Precisa inoltre che: «Non voglio lasciare indreto uno capo importante e uno errore dal quale e’ principi con difficultà si difendono, se non sono prudentissimi, o se non hanno buona elezione. E questi sono li adulatori, de’ quali le corte sono piene [...]»17. Sostenendo questo, il Segretario fiorentino chiude lo spazio politico del consiglio che Petrarca, chiamando amici i missi del signore di Padova, aveva aperto all’amicizia. Il mancato riconoscimento del valore politico dell’amicizia da parte di Machiavelli nei capitoli del Principe emerge per contrasto, con particolare chiarezza, se si esaminano alcune pagine del Discours contre Machiavel di Innocent Gentillet!8. 14 Principe, cap. XXII, pp. 153-155. 15 Principe, cap. XXIII, pp. 156-159. 16 Principe, p. 153. 17 Principe, p. 156. 18 I. Gentillet, Discours contre Machiavel, a new edition of the original French text with selected variant readings, introduction and notes by A. D’Andrea and P.D.
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Come è noto, in quest'opera sono analizzate e confutate sessanta massime tratte dal Principe di Machiavelli. Nella terza parte del Discours, che verte sulla condotta e i comportamenti del principe (police), si trova una sezione dedicata all’amicizia!?. Subito dopo aver negato che sia meglio per un principe essere temuto anziché amato, infatti, Gentillet rifiuta la tesi machiavelliana secondo la
quale il principe non dovrebbe fidarsi degli amici (le prince ne se doit fier en l’amitié des hommes), considerandola tirannica. Per l’autore del Discours, infatti, sono tiranni come
Dionigi
e Commodo a non doversi fidare degli amici, non i principi?0. Prima di menzionare questi tiranni, Gentillet indica in modo chiaro quale sia la funzione politica dell’amicizia: gli amici che un Stewart, Firenze, Casalini libri, 1974; d’ora in poi citerò quest'opera semplicemente come Discours.
19 Facendo riferimento al Discowrs per comprendere, per contrasto, i passi del Principe citati non intendo ovviamente sostenere che sia possibile leggere l’opera di Gentillet ignorando il peculiare contesto storico e politico in cui è stata scritta: l’autore del Discours è un fervente sostenitore del duca d’Alencon, ed attacca Machiavelli anche per difendere la politica nazionale dai consiglieri «tirannici» e stranieri che hanno corrotto il governo della Francia. La polemica di Gentillet nei confronti dell’autore del Principe deve quindi essere collegata alle accuse di machiavellismo che sono rivolte ai consiglieri italiani di Caterina de’ Medici ed alla regina stessa, considerata responsabile della sanguinosa congiura antiugonotta della notte di San Bartolomeo. Deve essere inoltre analizzata senza sottovalutare gli influssi della tradizione contrattualista riscoperta in ambiente ugonotto quale fondamento della legittimità del potere monarchico. D’altra parte, però, non credo si possa ignorare che Gentillet confuta questa massima macchiavelliana facendo riferimento ad alcuni luoghi comuni della riflessione sull’amicizia che sono presenti negli specula principum quattrocenteschi e nella Vita civile. Per un’analisi più approfondita del contesto storico e politico in cui è stato scritto il Discowrs vd. A. D'Andrea, The Political and Ideological Context of Innocent Gentilletàs Anti-Machiavel, in «Renaissance Quarterly», XXIII, 1967, pp. 387-411. Sull’antimachiavellismo di Gentillet, si veda almeno S. Mastellone, Aspetti dell’antimachiavellismo in Francia: Gentillet e Languet, in AA.VV., Machiavellismo e antimachiavellici nel Cinquecento, Atti del Convegno di Perugia, 30 settembre-1 ottobre 1969, Firenze, Olschki, 1970, pp. 47-87. Per un primo inquadramento dell’antimachiavellismo in Francia: A.M. Battista, La penetrazione di Machiavelli in Francia nel secolo XVI, in Ead., Politica e morale nella Francia dell’età moderna, a cura di A.M. Lazzarino Del Grosso, Genova, Name, 1998, pp. 27-52. Segnalo inoltre, non solo per il confronto tra il Principe e il Discours, ma più in generale per la ricostruzione della fortuna di Machiavelli nel Cinquecento: S. Anglo, Machiavelli. The First Century: Studies in Enthusiasm, Hostility, and Irrelevance, Oxford, Oxford UP, 2005. 20 Discours, pp. 317-320.
NOTE CONCLUSIVE
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principe deve procurarsi per governare con bontà e giustizia sono
le persone di cui si può fidare, così da non aver bisogno di guardie del corpo?!. Fatta eccezione per gli antichi re di Francia, citati come esempio insieme ad imperatori quali Augusto e Traiano, i modelli di ottimo principe proposti da Gentillet sono gli stessi che sono ricordati negli specula quattrocenteschi in cui è affrontato il tema degli amici principis. Il valore politico dell’amicizia si gioca non solo nello spazio del consiglio, attraverso l’identificazione dei collaboratori e dei consi+ glieri del principe con gli amici, ma anche in quello del consenso, perché Gentillet pone la relazione a fondamento e modello del legame sociale. Poco dopo aver ricordato gli assunti antropologici machiavelliani da cui dipende il mancato riconoscimento del valore politico dell’amicizia, infatti, sostiene che gli amici sono la miglior difesa del regno. Riprende così il passo del Bellum Iugurthinum che aveva citato anche Palmieri per mostrare che l’amicizia tiene unite le città?22, Inoltre, come Pontano e Platina, Gentillet afferma che non sono gli eserciti potenti o i tesori, ma gli amici, i mezzi attraverso i quali un principe deve conservare e mante-
nere il suo potere (le moyen dequoy un Prince doit conserver et maintenir son estat). Diversamente da costoro, però, continua a
seguire il discorso pronunciato in punto di morte dal re Micipsa. Ricorda così che a causa della discordia vanno in rovina anche le cose più grandi, assimilando amicizia e concordia, come aveva fatto anche Palmieri?3. Richiamandosi alla autorità di Plutarco, 21 Discours, pp. 318: «L’amitié et les amis qu’un Prince se doit acquerir par bon et juste gouvernement, luy peuvent servir pour s’asseurer tellement de chascun en son estat, qu’il ne luy seroit besoin d’aucune garde ny satellites s’il s'en vouloit passer». Il corsivo è mio. 22 Sallustio, Bellum Iugurthinum, X, 3-6, in Id., Opere, cit, p. 196. Vc, pp. 162-164: come si è visto nel terzo capitolo, Palmieri fonde il riferimento al passo del Bellum Iugurthinum di Sallustio con la citazione di un passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele, mostrando che l’amicizia genera quella concordia che permette alla città di espandersi. 23 Discours, p. 318: «Bien estoit contraire à ceste doctrine de Machiavel, l’exhortation que fit le bon Roy Micipsa de Numidie peu devant qu’il mourust, à Jugurtha et à
ses autres enfans, les almonestant d’entretenir entr’eux bonne amitié et concorde. “Ce ne sont point”, disoit-il, “le puissans exercites et grosses armées, ny les grands thresors,
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Cicerone e ad altri «grandi filosofi», dichiara infine che l’amicizia è il vero legame di tutta la società umana: le vray lien de toute societé hbumaine?4. Il significato di questa affermazione si chiarisce soprattutto quando Gentillet riprende il passo del XVII capitolo del Principe in cui Machiavelli si schiera a favore del timore: per confutare la scelta «tirannica» del Segretario fiorentino, non contrappone
amore
e timore, come
Cicerone, ma
amicizia e
timore, come Palmieri. Il rapporto d’amore che deve regnare tra governante e governati, quindi, è una forma di amicizia”. Dopo aver esplicitato il duplice valore politico dell’amicizia, . Gentillet cerca di mostrare che questa relazione non è un legame meramente utilitaristico ed interessato, un’unione inevitabilmente instabile, o un rapporto necessariamente caratterizzato
da falsità ed ipocrisie. Ammette che si possano trovare molti amici simili a quelli descritti nel Principe, ossia persone pronte a tradire la fiducia degli uomini a cui dicono di voler bene non appena è conveniente. Tuttavia, crede che i buoni amici non debbano essere disprezzati a causa di quelli malvagi: per l’autore del Discours, il principe capace di scegliere buone amicizie può,
par le moyen dequoy un Prince doit conserver et maintenir son estat: ains ce sont les amis [...). Car par concorde petites choses croissent, mais par discorde les grandes se ruinent”. Voila une exhortation bien briefve, mais fort pondereuse, pour monstrer que vaut d’avoir bon amis et etntretenir bonne amitié [...]». Il corsivo è mio. 24 Discours, p. 319: «L’amitié (dit Ciceron) est le vray lien de toute societé humaine, et quiconque veut oster l’amitié d’entre les hommes (comme fait Machiavel d’entre les Princes) il s’efforce en oster tout le plasir, soulas, contentement, et asseurance qui peut estre entre les humains. Car l’amy est un autre nous mesmes avec le quel nous nous resjouissons en nostre prosperité et la joye en croist quand nous avons è qui la
comuniquer. Nous nous consolons aussi avec luy en nostre adversité, et nostre douleur et tristesse en diminiue de plus de la moitié, quand nous avron sur qui descharger par amiable communication l’amertume de nostre coeur. [...] Brief la vie humaine sans amitié ne semble autre qu’un triste veuvage, destitué de la principale douceur qu’on puisse recueillir en la societé humaine: comme Ciceron, Plutarque et autres grands philospohes l’ont doctemente discouru, ausquels je renvoye Ceux qui voudront plus amplement entendre le bien et utilité de amitié». Il corsivo è mio. 25 Discours, p. 317: «Parce que les hommes font moins de cas d’offenser gli qui se fait aimer, que celuy de qui ils ont crainte, d’autant que l’amitié est fondée seulement sur quelque obligation qui se peut aisément rompre, mai la crainte est fondée sur une peur de punition, qui ne abandonne jamais la personnne».
NOTE CONCLUSIVE
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e deve, fidarsi degli amici. Il ragionamento di Gentillet sembra degno di attenzione non solo perché chiarisce che Machiavelli non distingue i veri (vrais amis) dai falsi amici (simulez amis), ma anche perché evidenzia la connessione esistente tra le premesse
antropologiche su cui si basa la riflessione sviluppata nel Principbe ed il mancato riconoscimento del valore politico dell’amicizia: muovendo dall’assunto che gli uomini sono malvagi per natura, secondo Machiavelli non è possibile distinguere i buoni dai falsi amici con la stessa facilità con cui «si separano le erbe dalle erbacce», come invece pretende Gentillet. In questo modo, il Segretario fiorentino rifiuta una distinzione che gioca un ruolo chiave negli specula quattrocenteschi?6. Grazie alle considerazioni di Gentillet, la distanza che separa la riflessione di Machiavelli da quella di Vicini, Pontano, Platina e Patrizi dovrebbe, allora, apparire in tutta la sua radicalità. Il confronto con il Discours di Gentillet potrebbe forse essere ulteriormente approfondito. Tuttavia, ritengo che le osservazioni fatte consentano già di mostrare che Machiavelli chiude lo spazio politico che era stato riservato all’amicizia. Mi sembra una chiusura netta, che è interessante mettere in luce per cogliere appieno
la novità della riflessione machiavelliana. Tuttavia non è una chiusura definitiva. Come mostra lo stesso Discours, infatti, lo spazio politico del consiglio può essere riaperto, ed è stato riaperto da Gentillet, insieme allo spazio del consenso. La storia dell’amicizia, intesa come relazione che consente al principe di esercitare ed 26 Discours, p. 319: «Je ne veux pas nier qu’il ne se trouve beaucoup de tels amis que ceux dont parle Machiavel, qui feront semblant d’estre nos amis pendant qu’ils esperent tirer quelque grand profit de nous, et qui nous feront de belles offres quand ils verront que nous n’en aurons pas besoin, et qui nous tourneron le dos en notre necessité. Il n’y en a voirement que trop de tels, et nous n°y sommes que trop souvent trompez. Mais tant y a qu'il ne faut point desdaigner les bons pour les mauvais, ne descrier un espece, à cause de choses particulieres d’icelle qui ne valent rien. [...] Si ne faut-il pas pourtant rejetter chose tant necessaire que le froment, pour crainte de trouver de yvroye par dedans; ne le beaux et bons herbages, à cause des herbes venimeuses qui sont parmi. Mais, il faut tascher tant qu’on peut de savoir reconoistre et separer ce qui est mauvais de ce qui est bon». Il corsivo è mio. Per la contrapposizione tra veri e falsi amici cfr. Discours, p. 319; EN, IX, 1171a 21-1171b 29, pp. 394-399 e A, XVII, 64, pp. 134-137.
506
.
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amministrare il potere, ma anche come rapporto posto a fondamento e a modello del legame sociale, prosegue dunque ben oltre la data di composizione del Principe. La riflessione di Machiavelli costituisce, però, un punto di svolta rispetto al percorso tracciato in questo saggio. Seguendo il filone del machiavellismo e dell’antimachiavellismo, infatti, si esplorerebbero terreni nuovi e si percorrerebbero strade diverse. Studiando fenomeni come la nascita dello stato moderno; l’av-
vento dell’età della Riforma e la diffusione delle teorie della ragion di Stato, prenderebbero forma nuove domande anche per quanto concerne l’amicizia. Come è pensata questa relazione quando i
consiglieri ed i collaboratori di chi detiene il potere non sono più chiamati amici? Quali caratteristiche ha il legame che unisce il principe ai funzionari ed ai ministri, se non è un rapporto intimo e
personale o un vincolo di natura morale? Chi sono, se ci sono, gli amici del principe? Se non sono più i consiglieri e i ministri, sono altri principi? La relazione tra governanti e governati, o meglio,
il rapporto tra il corpo politico e le parti che lo compongono, può ancora essere descritto come una forma di amicizia quando il potere di chi governa non è più percepito come un potere individuale e personale? L’amicizia ha ancora valore politico oppure diventa un rapporto meramente privato? Quale valore politico può essere attribuito all’amicizia se la relazione non è più posta a modello ed a fondamento del legame sociale? Che cosa tiene uniti i cittadini e i sudditi, se non l’amicizia? Quali nuove caratteristiche sono attribuite all’amicizia ??7
27 Nei Six livres de la République di Bodin (1576) si legge, per esempio, che «gli Stati non hanno fondamento più sicuro, dopo quello che viene loro da Dio, che l’amicizia e la benevolenza reciproca dei loro membri e tale amicizia non si può mantenere altro che con alleanze, associazioni, stati, comunità, corporazioni corpi e collegi». Sembra quindi che sia riconosciuta all’amicizia una nuova funzione politica. Quando conclude il proprio ragionamento, notando che domandarsi se le comunità e i collegi siano parti essenziali dello stato equivale a chiedersi se lo stato possa reggersi senza «quell’amicizia senza di cui neppure il mondo può sussistere», Bodin suggerisce indirettamente che la relazione ha delle caratteristiche molto diverse da quelle considerate sino ad ora (J. Bodin, I sei libri dello stato, a cura di M. Isnardi Parente e D. Quaglioni, Torino, UTET, 1964-1977, vol. II, libro III, cap. VII, pp. 248-249).
NOTE CONCLUSIVE Ca
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DI
Lascio in sospeso queste domande, sperando di aver mostrato con queste considerazioni conclusive, ma soprattutto con l’analisi svolta nei capitoli del saggio, che l’amicizia è un concetto cruciale del pensiero politico. Un concetto che ha una storia molto lunga, prima e anche dopo Machiavelli.
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‘ade
vp
peri
Pei
cid
eo si suo dici sn |
vi ori
n
IRA
| Padre r°
Indice dei nomi
A
70, 85-86, 88n, 297-100, 103, 107109, 111-113, 136, 142, 145-146,
Accattino, Paolo 20n, 442n Acciaioli, Donato 228, 379, 384, 415, 419 Acciaioli, Niccolò 189,228 Acciaioli, Piero 51,236 Achille 152 Aelredo di Rievaulx 114n, 163n Alberti, Leon Battista 36-37, 43-107,
1210
125-132) 139, 144.
IA0MS50S21S218-229,231,236, 241, 243, 247, 255-256, 262, 273, 278, 283, 331-332, 346, 349, 355, 377, 383, 422, 451, 465, 485, 498
Albizzi, Rinaldo degli
44, 92, 217, 220-
PR, 230,236, 285, 287 Alcibiade 55, 92, 98, 103-106,
111, 121
Alessandri, Alessandro Alessandro Alfonso V nimo)
110-
Alessandro 227, 235-236 di Fere 354, 362, 402, 417 Severo 195,198, 207, 305 d'Aragona (Alfonso il Magna221n, 333n, 334-336, 337n,
341, 343-344, 346, 347, 351, 354, 405, 429, 430, 486 Alighieri, Dante 219, 233-234, 237, 239, 497 3 Allen, Michael 380n Angelini, Giovanna 428n Arfelli, Dario 74n Argiropulo, Giovanni 35, 236, 378380, 394, 396, 415n, 422, 443
Aristotele
14-24, 26, 28, 30, 34-35, 66,
OM Ia toA 16/0171, 1/5, 177-178, 182-186, 206, 220, 254,
UST, ISO BE PMI 309-310, 312, 313n, 321n, 322, 330, 343-345, 356, 368-371, 375, 390, 392, 394-395, 397n, 401, 409, 414, 419, 423, 426-427, 439n, 441, 446-
448, 456, 459-460, 471, 476, 481, 485, 490, 503, 509 306n Aulotte-Legay, Robert 126n, 133n Avramenko, Richard 14n Artifoni, Enrico
B Badhwar, Neera Kapur 14n Baldassari, Stefano 234n, 147n Barbaro, Ermolao 139, 479 Barbaro, Francesco 68,258 Bartolo da Sassoferrato 130, 134 Baron,
Hans
31n,
54n,
136n,
144,
220n, 223, 231, 232n, 234n, 235,
239n Bastia, Claudia
52n
Battaglia, Felice 384n, 421n
139n,
Battaglia, Franco 427n, 433n, 437n, 454n
Battaglia, Salvatore
13n
Bausi, Francesco 495 Bazzoli, Maurizio 479 Bejczy, Istavan 127
149n,
429n,
223n, i
433,
538
INDICE DEI NOMI
Bell, Dora M. 127 Bellincioni, Maria 26n,310n Belloni, Gino 218n, 223n, 228n Bentley, Jerry H. 333n, 335, 340n, 344n
Benziger, Wolfram Beretta, Giuseppe Berges, Whilhelm
387n 50n 124n,
Burdach, Konrad
C 336n,
Beroaldo, Filippo 126, 164n, 439n i Bertelli, Sergio 218n Bertolini, Lucia S1n, 93n, 114n Bianchi Bensimon, Nella 62n Bianchi, Luca 33n,177n Biasuz, Giuseppe 378n Billanovich, Giuseppe 190n Biondo, Flavio 47,335, 429n Blasio, Maria Grazia 387n
177n335n,
138n, 234n, 235,
237 Bock, Gisela 260n Bodin, Jean 506n Bolognani, Maria 52n Born, Lester K. Boschetto, Luca
124n,126n 44-4Sn, 47n, 48, 50n,
52
Bouwsma, William J. 491n Bracciolini, Giovanni Francesco 125 Bracciolini, Poggio 31, S1n, 77n, 138n, 139, 146, 147n, 196n, 216, 241, 258259, 295, 345-347, 387, 389n, 397, 402n, 409n, 410-411, 415n, 450 Branca, Vittore 479n Brettt, Annabel 145n
Briggs, CharlesE 176n Briguglia, Gianluca 180n Brown, Alison M. 394n, 415n, 423424, 444n Brucker, Geene 220n Brunelleschi, Filippo 47,219 Bruni, Francesco Bruni, Leonardo
Cabrini, Anna Maria 92n, 120n Cabrino Fondulo 402
Calasso, Giuseppe 127n,
179n, 189n
Boccaccio, Giovanni
32n
239n 31, 35, 46-47, 92-95,
125-126, 133, 136n, 146-147, 219220, 223n, 228-236, 238-239, 244248. 257, 263, 344, 415, 421n Buck, August 239n Burckhardt, Jacob 32, 368n
Calenzio, Elisio
341n 340
Cambiano, Giuseppe Cammelli, Giuseppe
239 379-380n
Campana, Augusto
381n,384n, 422n
Campanini, Carlo 196n Canfora, Davide 139n, 147n Canfora, Luciano
86n
Cappelli, Guido M.
338-339n,
125n, 334n, 337, 340-342, 344n, 348,
349n, 352-353n, 356, 359n, 360
Carafa, Diomede 125, 126, 135, 139, 340n, 348n, 498n Cardini, Roberto 121n,384n Carena, Carlo 209n Carletti, Gabriele 178n,377n Caro, Annibale 321n Carrai, Stefano 321n Cassirer, Ernst 32
Castiglione, Baldassarre 90-21AR59, 373, 375, 433 Catilina SSn, 92n, 98, 103-105, 110,
122, 264, 266n, 355n
Catone, Marco Porcio
70,219, 298
Cavallo, Guglielmo 127n Cellini, Benvenuto 139n Cesarini Martinelli, Lucia 121n,218n Chabod, Federico 32n, 496n Chambers, David S.
381-382n, 384n
Chiappelli, Fredi 495n Chiarelli, Giovanni 437 Chiavoni, Luca 52n, 90n, 117n Chittolini, Giorgio 153n Cicerone, Marco Tullio 24-32, 34-35, 45, 5On, 54-55, 58n, 61, 66, 70, 74-75, 85, 88, 92, 94n, 98, 100, 103, 105, 107-108, 112-113, 117, 136-137, 142, 145, 146n, 150-151, 156, 158, 163n, 189, 195, 197-198, 199n, 203, 206, 209, 216, 219-220,
231-234, 237-238, 246n, 251, 252n,
254n, 256, 260, 262, 264n, 2662723 275, 2787 2895029210982 04:
INDICE DEI NOMI
298, 299n, 301-302n, 309, 310n, 312-315n, 322n, 330, 342-343, 350, 352n, 361, 376, 392, 394-395, 397, 401, 403, 405, 416-417, 423, 429, 441, 447-449, 450, 460, 481, 485486, 490, 504 Ciriaco d’Ancona 35n,114n Ciro 93, 142, 346, 355, 359-361, 364, 366, 371, 397, 407, 447n Clericuzio, Antonio 33n Cohoon, James Wilfred 399-400n Colish, Marcia L. 26n Colombo, Arturo 428n Comparato, Vittore Ivo 128n Consolo, Rino 105n, 120n Conti, Elio 218n Cordie, Carlo 139n Cornelio Nepote S5n,219 Cranz, F. Edward 33, 35n Crisippo 73, 464n Crisolora, Manuele 136,219
136-138, 335 Della Casa, Giovanni Della Torre, Arnaldo Demolli, Fabio 511
90n, 139n, 321 380n,384n
Derrida, Jacques 13n Di Grado, Antonio 105n,118n, 121n Di Salvo, Lucia 209n, 260n Dilthey, Wilhelm 32n Diogene Laerzio
36, 395, 397n, 399n,
461, 463 Dione Crisostomo (o Dione di Prusa)
36,
113, 346, 359n, 398-402, 410n, 426, 447, 487
Dionigi di Siracusa
167, 354, 402, 417,
502
Dionisotti, Carlo 124n, 415, 498 Doglio, Maria Luisa 338, 479n Dotti, Ugo 126n, 203n, 207n
189n,
Duca
(Alfonso
di Calabria
191n,
195n,
II, re
di
Napoli) 125, 335, 340, 342, 344, 346-347, 351, 353, 360, 365-366,
D
371, 405, 429-431, 434, 448
D’Andrea, Antonio 502n D’Ascia, Luca 54-56, 120n Damone 167n, 270, 296n, 302, 317, 407 Danzi, Massimo
539
52, 53n, 61n, 76n
E Egidio Romano
38, 52, 59, 127, 130131, 133, 136, 149-150, 155n, 156,
161n, 164n, 175-189, 196-198, 202,
Dardano, Maurizio 50n 210, 248, 258, 289n, 290-291, 300, Dati, Leonardo 52n, 114n, 215, 219, 334, 368, 370, 372-373, 375, 387, 230 437-438, 465n, 492, 497n Erasmo da Rotterdam 68, 86n, 127Davanzati, Mariotto 48n,114-115n De Benedictis, Angela 127n 128, 130, 174-175, 196n, 274n De Marinis, Tammaro 344n Ermete Trismegisto 448n De? Rossi, Roberto 235n Esposito, Roberto 15n De’ Girolami, Remigio 145,239 Eusebio di Cesarea 219 De?’ Medici, Alessandro 490n E De’ Medici, Cosimo 46-47, 67, 131, Di 2002227257773797380-381n Faccioli, Emilio 386n 394, 413-424, 443n Fannio, Gaio 24 De’ Medici, Lorenzo 51,103, 144, 226Faranda, Rino 167n,302n 227, 379, 384, 386, 398, 403, 413Fauskevag, Svein-Erik_ 14n 416, 419, 422-425, 431, 490 — Ferlisi, Gianfranco 52n, 90n De?’ Medici, Piero 227,229, 379 Ferrante (I) d'Aragona 132, 333-336, De? Tedeschi, Niccolò 428 339, 341, 369, 382 Decembrio, Pier Candido 92, 125-126, Ferrante, Domenico 399n 131, 137-138 Ferrari, Franco 516 Decembrio, Uberto 125-126, 131, 133,
540
INDICE DEI NOMI
Ferraù,
Giacomo
124n,
126n,
134n,
164n, 176n, 189n, 191n, 199n, 207n, 384, 387, 390n, 392n, 395n, 397n, 401, 402n, 409-410n Ficino, Marsilio 34n, S1n, 66, 125, 131-133, 138, 144, 230, 241n, 252n, 354n, 379-381, 415, 422n, 424, 427n, 437n, 443-444, 448, 462n Field, Arthur 379-381 Figliuolo, Bruno 139n,479n Filelfo, Francesco 35n, 45-46, 125, 126n, 132n, 133, 219-220, 230-231, 234, 335, 415n, 428 Finzi, Claudio 149n, 216n, 220n, 223224, 227n, 230, 237n, 239n Finzia 167n, 270, 296n, 302, 317n, 407 -
Gentili, Alberico 479 Gentillet, Innocent 501-505 Geuna, Marco
145n
Ghiberti, Lorenzo 77n,219 Giamboni, Bono 146n Giannetto, Nella 378n
Gigante, Marcello 98n Gilbert, Allan H. 124n, 149n, 497n Gilbert, Felix
124n,
130, 131n,
139,
390n, 437n, 497-498n
Gilbhard, Thomas 32n Gilmore, Myron P. 218n Giorgio di Trebisonda (Trapezunzio) 35n, 335, 338n Giovanni di Salisbury 129, 134, 232, 252n
Giugurta 503n Giustiniani, Vito 215n Goggi Carotti, Laura 509
Firpo, Luigi 126n, 140n, 161n Flora, Francesco 479n
Fortenbaugh, William 26n Fraisse, Jean-Claude 14n, 16n Franceschini, Ezio 35n, 166n, 220n Francesco da Carrara 124, 127, 149, 189-190, 194-196, 199, 202-204, 299, 300n, 342, 353, 359, 395, 406,
451, 481
Gonzaga Ludovico 51,132 Gonzaga, Federico 125, 132, 144, 178, 378, 384, 386, 397, 398, 406, 414,
420, 422, 424-425, 490
Gonzaga,
417,425
Francesco
132,
381-382,
Frassinetti, Paolo 209n, 260n Fubini, Riccardo 120n,216n,219 Fumagalli Beonio Brocchieri, Maria Tere-
Gorni, Guglielmo 47n, 49n, 53-54 Grassi, Maria Vittoria 52n, 90n, 117n Grayson, Cecil 44n, 45, 48n, 52n, 54n,
sagels2D Furlan, Francesco
Greco, Aulo
73n, 118n
43n, 50, 54-55n
378n
Greco, Maria 295 Gregorio Tifernate
G Gabriel, Gottfried
35n Grunder, Karlfried 13n Gualdo Rosa, Lucia 398n Guarino Veronese 86n, 126n, 244, 247,
13n
Gaeta, Franco 126n, 491n Gaida, Giacinto 383n
Galasso, Giuseppe 126n Galli, Carlo 15n Gallo, Italo 137n Garati da Lodi, Martino
132, 134, 195
Garin, Eugenio
345 Guarino, Battista
125,
126n,
31n, 34, 35n, 37n, 43,
SIANO
ne
139n, 142, 149n, 152n, 220n, 223n,
234n, 238n, 258n, 297n, 299n, 377n, 379, 389n, 394n Gasparotti, Pietro 163n Gauthier, René Antoine 183-184n Gentile, Giovanni 31n
246, 429, 430
Guglielmino, Salvatore 516 Guicciardini, Francesco 337 Guicciardini, Luigi 219, 227, 236n Guidi, Guidobaldo 220n
235,
H Hankins, James 34n, 126n, 136, 138, 223n, 380 Hay, Denys 153n, 314n, 488n Hellegouarc’h, Jospeph 25n
INDICE DEI NOMI
541
Herlihy, David 53n Heyking, John 14n Huizinga, Johan 32n
Licurgo 424 Lieber, Hans 176n Lines, David A. 33, 35n
I
347, 371, 495 Lohr, Charles H. 33n Lovito, Giovanni 382n Luciano, di Samosata 35,100, 117n Luigi di Taranto 207, 342 Lukinovich, Alessandra 86n Lupis, Antonio 126n
Inglese, Giorgio
Livio, Tito
239n, 495n, 499n
Isidoro di Siviglia
156, 294n, 306n
Isnardi Parente, Margherita Isocrate
9=36;/
123,
175n, 506n
2356,
359,397.
398, 408n, 410n, 425-426, 447, 475, 487, 497
J
110n, 145, 203, 237, 298,
Lusignan, Serge
154n
M
Jacopo da Carrara 191n Jankelevitch, Sophie 14n
Machiavelli, Niccolò
34, 36, 124-125,
128, 131n,
14Sn,
148-149,
346, 377n,
383n, 389-390n,
178n,
195n, 196n, 212, 239n, 260n, 266,
K
Kallendorf, Craig W. 126n, 244n, 248n Kessler, Edmund 34n King, Preston 14n Klaerr, Robert 206n Klapisch-Zuber, Christiane 53n Knight, Sarah 139n Konstan, David 14n, 16n
Macrobio 156, 234, 251-253, 446 Maggi, Ottaviano 479 Maio, Giuniano
125-126, 349, 498n
Mancini, Girolamo Manetti, Giannozzo
73n 35,71, 196n, 219,
234-235n, 241, 335, 344
Kretzmann, Norman
166n
Marangoni, Michela
Kristeller, Paul Oskar 380
32-33, 144, 346n,
Marietti, Marina
Marsuppini,
Lambert, Madame de Lambertini, Roberto
14n 155-156,
176n,
178n, 180-181n, 185-186n
51n, 377n, 415n,
422n
Langer, Ullrich Latini, Brunetto
86-87n, 90n, 97 34n, 146, 269n, 295n
Laurenti, Renato 257n Law, John 153n, 341n, 488, 491n Lelio, Gaio 24-25, 29, 68-69, 105-106, 111, 115n, 201n, 292n, 310, 313n,
376, 403, 407-408, 425, 473 Leonard, Elizabeth R. 241n Leonardi, Claudio 127n Leushuis, Reinier 68n
Carlo
228, 235n, 415n
14, 15n 173n
Landino, Cristoforo
67n
49
Marolda, Paolo 120n Marsh, David 54n
EE La Boétie, Étienne Lacoste, Jean-Yves
415,
437n, 444-445, 452, 485, 493-507
46, S1n, 218-220,
Martelli, Mario 49, 115n, 496n Marzi, Mario 398n Massera, Andrea 284n Matarrese, Tina 92n Medioli Masotti, Paola 382n, 422n Meinecke, Friedrich 496n Menci Gallorini, Anna 120n Menestò, Enrico 127n
384n,
Merle, Jean Christophe 14n Michel, Paul-Henri 73n Micipsa 503 Miele, Lucia 343n, 352n Miethke, Jurgen 176-177, 179-180 Miglio, Massimo 117n Miham, Mary Ella 386n Mita Ferraro, Alessandra 52n, 215-
542
INDICE DEI NOMI
217n, 219, 224, 226-227n, 230-231,
387, 430, 489 Parenti, Marco
239n, 254n
Passerin
Monfasani, John 33n Montagnani, Cristina 92n Montaigne, Michel de
:
14-15, 19, 247n
Monti Sabia, Liliana 333n, 341n Mosè 353n, 424, 448
N 126n
Nardone, Francesca Cristina Narducci, Emanuele 25n,
428-429n 55n, 92n,
105n, 238n, 313 Natali, Carlo 16n,257n Nederman, Cary 127n Neri, di Gino Capponi 219,229 Niccoli, Niccolò 46,219 Novati, Francesco 283-285n
Alessandro
160-
161
Pastore Stocchi, Manlio
37, 67, 140-
141, 143n, 148, 441n
Patrizi, Francesco, da Cherso Patrizi, Francesco, da Siena 98,
Nardelli Petrucci, Franca Nardi, Bruno 35n,220n
S1n
D’Entrèves,
125-126,
427 36-40, 68,
125-126,
131-132,
135-136, 138-140, 143, 148, 150151, 164, 173, 176, 212, 216, 218,
278-290,
305-306,
344-348,
350-
486, 491-493,
496,
355, 360, 387, 390-392, 399, 404,
410, 427-483,
498, 500-501, 505 Paulmier Foucart, Monique Perosa, Alessandro 384n
154n
Perotto, Lorenzo 161-162n, 168n, 170n Persico, Tommaso 349 Petrarca, Francesco 31,34, 38-39, 124,
126-127, 132, 135, 147, 149, 152,
O
155, 159,173,
Ogilvie, Bertrand Oreste
14n
68-69, 270, 407, 461n, 473
Orfeo 448 Ottaviano Augusto
158,170, 193, 195,
198, 202-203, 209, 503
Owens, Jospeph
166n
P
1892122282923
234n, 237, 239, 252n, 293, 297n, 299-300n, 304-305, 328, 342, 345,
353, 355-356, 358, 360, 375, 383,
395, 406, 451, 481, 493, 500-501 Pettine, Emidio 86n
Philippon, André 206n Piccolomini, Enea Silvio (papaPioll)
94n,
125, 126n, 132-133, 147-148, 244n,
Pakaluk, Michael Palmieri, Matteo
16n 36-39, 48, 51, 52n,
54, 72, 111-116, 123, 133-134, 139140, 142-143, 148-149, 181, 195, 215-279, 290, 297, 302-303, 343,
352, 359, 361, 373, 384n, 388, 400, 404-405, 407, 413, 417, 424, 438,
444, 451, 456, 458, 480, 483, 485-
487, 490-493, 503-504 48, 218, 233, 235-
Pandolfini, Agnolo
237, 244, 246, 251n, 253n, 290
Panella, Emilio 239n Panezio 26 Panormita (Beccadelli, Antonio)
196n, 333-336, 340, 342, 346-347, 351, 363-365, 429, 497 Paoli, Michel 72 Paolo II (Pietro Barbo) 215n, 381-383,
246-247, 342, 381, 427n, 428-430, 433n, 437n, 451n
Pico della Mirandola, Giovanni
241, 377,451 Pilade 68-69, 270, 407, 461, 473
71, 73,
Pisani, Giuliano 61n, 134n, 247n Pissavino, Paolo 31n,131n Pitagora 13n, 98n, 200-201, 442, 447448, 459-460
Pizzani, Ubaldo 510 Pizzolato, Luigi 14n,25n Platina, Bartolomeo Sacchi, detto il 3640, 45, 58, 103, 124-127, 131-132, 135-136,
164, 279, 356, 431,
138-140,
144,
147-150,
173, 176, 188, 212, 223, 278300, 305-306, 344-348, 350362-363, 365, 373, 376-426, 437-439, 450-451, 453, 456,
INDICE DEI NOMI
463, 465-467, 470, 472, 474-475, 482, 485-486, 489-490, 492-493, 498, 500, 503, 505 Platone 14n, 22, 59n, 66, 70, 74, 97, 114, 118, 125, 131, 133-134, 136138, 234, 239, 262, 326, 343, 379381, 392-395, 397, 399, 409, 412, 414, 422-424, 432, 438, 441-443, 445-448, 461-462 Plotino 34, 251, 379n, 446-447 Plutarco 35, 61, 70, 86, 101, 115n,
Ritter, Joachim 13n Robey, David 491n Robin, Diana 126n Romano, Ruggero 43n Rondinini Soldi, Gigliola 126n Rossi, Giovanni 68n,100n Rousseau, Jean-Jacques
Pomponio Leto
44, 318-319, 381-382,
386 Pontano, Giovanni
36-39, 61, 91, 93n,
103, 125, 126-127n, 132, 135-136,
140, 142, 146-151, 173, 189, 197, 201, 212, 278-279, 300, 305-306, 333-376, 386, 391-393, 397-398, 400, 402, 405, 407, 413, 425-426, 429, 432, 438, 450-451, 453, 470, 472, 474-475, 483, 487, 489, 492493, 497-498, 500-501, 503, 505 Ponte, Giovanni
120n
14n, 15,19
Rousset, Madeleine 86n,247n Rubinstein, Nicolai 222n, 225-226,
236n, 299n, 384, 394n, 413, 421422n, 439n, 490n
126n, 133, 164n, 175n, 206n, 244,
247, 397, 410n, 447, 469n, 487, 503 Pocock, John Greville Agard 145, 263n
543
S Sabbadini, Remigio 390n Sacchetti, Franco 219, 227n, 235-236, 244 Saitta, Giuseppe
Sallustio, 146, 264, 397n, Salutati,
73n, 437n
Gaio Crispo 36, 104, 145, 156, 208-209, 219-220, 260, 266n, 298, 347, 355, 389n, 407, 487, 503n Coluccio 31, 34n, 76-77n,
301906117 252, 284, 297n
San Girolamo (Sofronio Eusebio Girola-
MO) MS
6924119) ZON
N97
Pontiggia, Carlo 104n Poppi, Antonino 530 Proclo 427n Pulcini, Elena 15n Purnell, Frederik 427n
Sandrelli, Carlo 516 Santaniello, Carlo 516 Sasso, Gennaro 496-497 Savonarola, Girolamo 237n Scala, Bartolomeo 415n, 423 Scevola, Quinto Mucio 24, 54
Q
Schiera, Pierangelo 428n, 431 Schmitt, Charles Bernard 14n, 33, 34n,
Quaglioni,
Diego
506n Quondam, Amedeo
37,
128,
130-131,
91n
R Ramakus, Giorgia 218n Rees, Valery 380n Regali, Mario 251n Resta, Gianvito 336n Ricci, Costantino
345n Rinaldi, Rinaldo 121n, 495-496, 500 Rinuccini, Alamanno 215-216, 219, 415,419
124n
Schneider, Robert 153-154 Schumacher, Bernard 14n Schwartz, Daniel 14n, 163n Scipione Emiliano 24-25, 29, 68-69, OSSA T42 1052340052) 297-298, 344-346, 376, 407-408, 425, 451, 473 Sciuto, Italo 163n, 172-173n Seager, Robin 25n Secci, Elisabetta 100n, 106, 109n Seneca, Lucio Anneo 70, 86-87n, 101, 136, 145, 156, 195-197, 205-206, 208-211, 298-299, 343, 345n, 352-
544
INDICE DEI NOMI
353, 358, 389, 394, 397, 397n
Senofonte
35-36,
70, 76n,
93,
110,
113, 156, 257, 298, 346, 360, 375376, 397, 407, 447, 487
Sére, Bénédicte
107n Sforza, Ippolita Maria 430 Sirinelli, Jean 206n Sisto IV (Francesco della Rovere)
377, 383, 385-387, 431
Skinner, Quentin
125,
34n, 37, 124n, 144-
148, 151n, 260, 340, 355n, 359,
409n, 439, 452, 498 Smiraglia, Pasquale 126n, 283n, 285-
287n, 289, 291n, 321
Smith Pangle, Loraine Smith, Graham 14n
Socrate
16n, 19n
35, 298, 326, 395, 443, 447-
Sozzini, Mario
Varanini, Gian Maria
17n,
23n,
222 222 218,219, 222, 313n
Francesco
273n,
147, 196, 244n, 246, 248-250, 491-
336n,
339, 343, 352, 368n, 382-383, 409, 429 Tenenti, Alberto 43-44n, 59n, 67n, 76n, 94n, 101n, 120n, 153n, 341n
Teodoro di Gaza 35n Teofrasto ‘26,70, 156 Tesoro, Marina
191n,195
Varchi, Benedetto 228, 321n Varotti, Carlo 195n Vasoli, Cesare 31n, 32n, 34n, 52n, 126, 130-131, 136, 139, 218-219, 225, 230n, 333-334n, 337, 341n, 354n, 490n
492
126n 333n,
161n
Vegetti, Mario 131n Vegio, Maffeo 86n, 147-148, 244n, 250n Vergerio, Pier Paolo 125-126, 131-132,
Tanturli, Giuliano 231n, 234 Taranto, Domenico 178n
Tarugi, Giovannangiola Tasso, Torquato 479
35n, 335, 347, 363-365, 382
Vanni Rovighi, Sofia
167n
II
Tateo,
V
362, 397, 447
Stern-Gillet, Susann 16n, 313n Stewart, Pamela 501-502n
Strozzi, Palla
Ugo Il 162-163 Ugo II 163n
Valla, Giorgio Valla, Lorenzo
Stacey, Peter 196n, 350n Steinmetz, Fritz-Arthur 26n
Strozzi, Matteo Strozzi, Noefri
U
Valerio Massimo
227 209n
428
Spiazzi, Raimondo
415n
Trinkaus, Charles 409n Tully, James. 145n
Valastro Canale, Angelo 294n 156, 302n, 317, 361-
448
Soderini, Niccolò Solinas, Fernando Solone 424, 448
129-131, 136, 149, 150, 160-178, 181, 183n, 185, 187, 195, 197-198, 210, 252n, 288-289n, 302-303, 354355, 362, 390n, 403, 421, 439n, 492 Toscanelli, Paolo 219 Traversari, Ambrogio 46, 218-220,
428n
Tignosi, Niccolò 35n Tolomeo da Lucca 130, 145, 162 Tommaso d’Aquino 14n, 35, 38, 127,
Vespasiano da Bisticci 215-216, 218, 236n, 378n Viano, Carlo Augusto 20n Vicini, Giovanni Tinto, da Fabriano 3640, 68, 69, 125, 126-127n, 132-133, 140, 142, 148, 150, 155, 159, 173, 212, 279, 281, 283-332, 343, 347, 348, 350-351, 353-354, 360-361, 365, 374, 376, 386, 393, 399, 406-407,
410-411, 419, 426,438, 450-451, 453, 455, 462,466, 474-475, 482, 485-486, 488, 492-493, 498, 500-501
INDICE DEI NOMI Villari, Pasqualé 497n Vincenzo di Beauvais 38, 52, 59, 127, PEEZOS149,
153- 160, 185, 292-293,
304, 492 Viroli, Maurizio 124n, 225, 260n Visconti, Filippo Maria 92n, 125, 221, (= VAFRSITÌ | Visconti, Gian Galeazzo 89, 92-93, Da 136
Viti, Paolo 219, 232n
Vittorino caFeltre 378, 393n, 396, 406,
4290
vi Ti Ernest dci
190-191n
545
Stampato nel mese di ottobre 2011
da Www.stampalibri.it BOOK
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DEMAND Macerata
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L'amicizia civile e gli amici del principe: lo spazio politico dell’amicizia nel pensiero del Quattrocento L'amicizia è un concetto chiave della storia del pensiero filosofico e politico. Questo saggio si concentra sul XV secolo. Analizza diverse forme di amicizia politica individuate da umanisti più e meno noti a partire dalla riflessione di Aristotele e Cicerone. Come suggerisce Leon Battista Alberti nei Libri della Famiglia, il significato politico dell'amicizia non emerge solo nella città di Firenze, ma anche nelle corti dei principi. L'autrice segue un percorso originale, che conduce dalla Vita civile di Matteo Palmieri alla riflessione de civili seu sociali amicitia proposta da Francesco Patrizi da Siena nel De regno, passando per gli specula principum di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano, Giovanni Pontano e Bartolomeo
Platina. Lo spazio politico dell’amicizia si riduce perché questa relazione non è solo il modello del legame sociale, ma diventa anche lo strumento per la selezione dell’élite di governo: da Petrarca a Machiavelli, gli amici sono i sudditi più sapienti e virtuosi che il principe deve scegliere come consiglieri e collaboratori per mantenere ed esercitare il potere.
Annalisa Ceron è assegnista di ricerca presso il Dipartimento Polis dell’Università del Piemonte Orientale (Alessandria). Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia della Filosofia presso l'Università degli Studi di Macerata nel 2009. Si è laureata in Filosofia all’Università deg Studi di Milano.
ISBN 978-88-6056-282
9 788860 562821 € 26,00