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Italian Pages 195 Year 2013
L’ALCHIMIA E LE ARTI
La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
I MAI VISTI XII
CAPOLAVORI DAI DEPOSITI DEGLI UFFIZI
sillabe
© 2012 Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze © 2012 s i l l a b e
Prima edizione digitale Dicembre 2013 ISBN 978-88-8347-728-7
Quest’opera è stata acquistata su www.sillabe.it Questa pubblicazione è protetta dalla Legge sul diritto d’autore e pertanto è vietata ogni duplicazione, commercializzazione e diffusione, anche parziale, non autorizzata Sillabe declina ogni responsabilità per ogni utilizzo dell’ebook non previsto dalla legge
direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare coordinamento: Barbara Galla progetto grafico: Ilaria Manetti redazione: Nicola Bianchini layout e coding dell’ebook: Saimon Toncelli
L’ALCHIMIA E LE ARTI La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
i mai visti XII
capolavori dai depositi degli uffizi
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze
GALLERIA DEGLI UFFIZI
S op ri n te n d e n za Sp e cial e p e r i l Pat ri mon i o Stori co, A r ti sti co e d Etn oan t rop ol og i co e p e r i l Pol o Mu s eal e d e lla ci tt à d i F i re n ze
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Presidente Maria Vittoria Colonna Rimbotti Vice Presidente e AD Emanuele Guerra
Consiglieri Patrizia Asproni Giovanni Gentile Michele Gremigni Fabrizio Guidi Bruscoli Antonio Natali Elisabetta Puccioni Maria Oliva Scaramuzzi
Ha contribuito alla realizzazione della mostra
Collegio Sindacale Enrico Fazzini, Presidente Francesco Corsi Corrado Galli
L’ALCHIMIA E LE ARTI
La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie I MAI VISTI XII capolavori dai depositi degli Uffizi
Soprintendente per il Patrimonio Artistico, Storico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Cristina Acidini
Galleria degli Uffizi Sala delle Reali Poste 15 dicembre 2012 - 3 febbraio 2013 Direzione della mostra Antonio Natali Mostra e catalogo a cura di Valentina Conticelli
Progetto di allestimento Luigi Cupellini con Carlo Pellegrini Squadra tecnica per l’allestimento Marco Fiorilli, Michele Murrone, Demetrio Sorace con Ivana Panti Progetto e produzione grafica Stampa in Stampa Realizzazione dell’allestimento Ditta Galli
Segreteria scientifica Giusi Fusco, Marica Guccini con Rosaria Aversana Direzione amministrativa Silvia Sicuranza Direzione del personale Isabella Puccini Dipartimento di Architettura Antonio Godoli Responsabile per la sicurezza Michele Grimaudo Ufficio Tecnico Mauro Linari Coordinamento tecnico Antonio Russo e Claudia Gerola con Maurizio Crisante e Giuseppe Russo Responsabile del decoro Caterina Campana Segreteria Francesca Montanaro, Patrizia Tarchi, Rita Toma, Barbara Vaggelli Ufficio Stampa per gli Uffizi Francesca de Luca, Barbara Vaggelli
Impianto Illuminotecnico Atlas e Livelux Segreteria Amministrativa Gerlando Barbello, Stefania Santucci Coordinamento del personale Laura Baroni, Antonella Brogioni, Alberto Crescioli, Daniela Formigli, Roberto Rocciolo, Lucia Silvari, Fabio Sostegni Controllo termoclimatico Daniele Borsetti Elettricisti Eugenio Brega, Luigi Finelli, Andrea Marchi Didattica e guide Assistenti museali del Polo Museale Fiorentino; Associazione “Mercurio”; Laboratorio Didattico “La chiave magica della Fonderia”, a cura di Federica Chezzi e Claudia Tognaccini; Sezione Didattica del Polo Museale Fiorentino Ufficio Stampa Marta Paini – CLP Relazioni Pubbliche
Saggi in catalogo Gaspare Baggieri Fausto Barbagli Valentina Conticelli
Prestatori Firenze Accademia della Crusca Archivio di Stato Biblioteca degli Uffizi Biblioteca Marucelliana Schede Biblioteca Medicea Laurenziana Lucia Aquino, Gaspare Baggieri, Fausto Barbagli, Silvia Ciappi, Valentina Biblioteca Nazionale Centrale Conticelli, Giusi Fusco, Mino Gabriele, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Galleria Palatina, Palazzo Pitti Maria Cristina Guidotti, Simone Museo dell’Opificio delle Pietre Dure Giordani Marica Guccini, Marino Marini, Annamaria Massinelli, Francesca Museo del Bargello Montanaro, Rosario Ruggiero Terrone, Museo di Storia Naturale dell’Università di Arnaldo Zonca Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola” Museo Egizio Referenze fotografiche Museo Galileo Archivio Fotografico dell’Accademia Officina Profumo Farmaceutica di Santa della Crusca: Nicolò Orsi Battaglini; Maria Novella Museo Storico Nazionale dell’Arte Roma Sanitaria: Melissa Baggieri e Giovanni Museo Storico Nazionale dell’Arte Boccassini; Biblioteca Marucelliana, Sanitaria Firenze; Biblioteca Medicea Laurenziana, Istituto Nazionale per la Grafica Firenze; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; Biblioteca Universitaria di Trasporti Bologna; Marco Crivellin; Gabinetto Dafne Disegni e Stampe degli Uffizi: Roberto Palermo; Gabinetto Fotografico della Assicurazioni SPSAE e per il Polo Museale della città Fondiaria di Firenze: Francesco Del Vecchio; Istituto Nazionale per la Grafica, Roma; Laboratorio Fotografico del Museo Galilei, Firenze; Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Catalogo Zoologia “ La Specola”: Saulo Bambi; Sillabe - Livorno Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, Firenze; Museo Egizio, Firenze Ringraziamenti Paolo Angelli, Eugenio Alphandery, Restauri Archivio del Museo Galileo, Francesco Rita Alzeni Del Vecchio, Amelio Fara, Rodolfo Roberto Buda Galleni, Piero Marchi, Anna Maria Nistri, Antonio Casciani Angela Pintore, Giorgio Strano, Marilena Marina Ginanni Tamassia, Rosario Ruggero Terrone, Elena Prandi Stefano Vanni Cristina Samarelli
Indice
Presentazioni Cristina Acidini Maria Vittoria Colonna Rimbotti
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Cose rare e preziose
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Antonio Natali Una storia di storie. La fonderia del Granduca: laboratorio, Wunderkammer e museo farmaceutico
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Valentina Conticelli 35
Il laboratorio Gaspare Baggieri
Le produzioni naturali della fonderia medicea: dalla Wunderkammer al Museo illuminista 41 Gaspare Barbagli Catalogo Sezione I.
La pratica dell’alchimia
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Sezione II.
Fonderia Medicea
80
Sezione III.
Ritratti di medici, speziali e alchimisti
126
Sezione IV.
Laboratorio e stanza delle meraviglie
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Appendice documentaria
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Bibliografia 182
All’abituale attrattiva delle mostre della serie “I mai visti” presso le Reali Poste degli Uffizi, quella di quest’anno unisce il fascino dell’argomento: la rievocazione della “Fonderia” medicea, laboratorio del Rinascimento maturo che nei termini odierni definiremmo multidisciplinare, avanzato, dedito tanto alla ricerca scientifica quanto alle applicazioni tecnologiche. Nell’anno in cui la Tribuna degli Uffizi, creazione di Bernardo Buontalenti splendidamente restaurata, riporta alla ribalta la figura del committente il principe Francesco, indagatore della Natura e sperimentatore di materie e di tecniche, nell’anno in cui una sapiente illuminazione della Grotta Grande nel giardino di Boboli, progettata per Francesco dal medesimo Buontalenti, trae infinite suggestioni notturne dall’architettura rustica e dagli apparati artistici, cade quanto mai a proposito la ricomposizione di quell’universo segreto di saperi e di saper fare che è fino a qualche tempo fa si sarebbe fin troppo rapidamente inquadrato tra le manifestazioni dell’“antirinascimento”, mentre ora sempre più si tende a scorgere in esso il vivaio delle scienze moderne. Grazie alla mostra col suo catalogo – mostra voluta da Antonio Natali con la cura di Valentina Conticelli e l’apporto di numerosi collaboratori, esperti e operatori, mostra che gli Amici degli Uffizi hanno reso possibile con il consueto contributo finanziario, erogato nel segno della generosità e della fiducia – ritrova il suo posto nella storiografia e nella storia delle arti della Firenze medicea uno straordinario insieme di percorsi investigativi e di processi produttivi, in cui s’impegnavano risorse ingenti a occuparsi di erboristeria, farmacologia, cosmetica, alchimia e altro ancora. Che questa congerie di discipline, poi, venisse esercitata e testimoniata con i linguaggi e le tecniche delle arti, non sorprende chi abbia qualche familiarità con la storia di Firenze e della Toscana, dove fin dal più remoto passato un’alta qualità di progetto e di esecuzione ha caratterizzato la filiera della creatività, dal capolavoro all’oggetto d’uso. Mentre il progetto “Nuovi Uffizi” procede a grandi tappe con risultati visibili e godibili anche dal pubblico internazionale entro l’edificio vasariano, la mostra ci trasmette una rinnovata consapevolezza dell’originaria valenza universale di questo “primo museo dell’Europa moderna”, e restituisce ai luoghi e alle cose l’ulteriore, invisibile spessore delle storie vissute tra le sue mura. Cristina Acidini Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze
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Quest’anno il valore della nuova edizione de “I Mai Visti” unisce al consueto, e qui rinnovato, felice augurio di buone feste alla città, ai fiorentini e ai visitatori, un’offerta di “bellezza e conoscenza” davvero curiosa e preziosa. Questa volta non siamo andati a rovistare solo nelle stanze segrete dei Depositi, ma nella lunga storia della Galleria degli Uffizi, tra le pagine di vicende poco conosciute legate alla nascita del museo. Quando il sapere era uno, e magia, scienza, arte, filosofia, alchimia non erano discipline distinte, ma il mare magnum della conoscenza – di cui si dilettavano a corte i granduchi, alla ricerca di ricette di eternità e meraviglie – le stanze che oggi occupano una parte della Galleria erano un laboratorio di arti, di prodigi e invenzioni che dovevano svelare misteri naturali e soprannaturali. L’esposizione che gli “Amici degli Uffizi” offrono alla città quest’anno esplora questi inizi, quel magma di artifici un tempo studiati e sperimentati nel terzo Corridoio degli Uffizi, prima che fosse adibito dai Medici a esposizione delle loro collezioni di quadri e marmi. Sono quindi grata al direttore della mostra Antonio Natali e alla curatrice Valentina Conticelli per aver ideato e allestito con entusiasmo e professionalità la mostra “L’alchimia e le arti”, che documenta appunto questo particolare periodo storico. E ringrazio inoltre i nostri soci per la loro abituale e generosa fedeltà, nonché l’Ente Cassa di Risparmio e Fondiaria Sai che ci sono stati ancora vicini. Infine, insieme a tutto il Consiglio degli Amici degli Uffizi, formulo i più sentiti auguri per un sereno e proficuo 2013.
Maria Vittoria Colonna Rimbotti Presidente Amici degli Uffizi e Friends of the Uffizi Gallery
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COSE RARE E PREZIOSE
La mostra che in quest’anno 2012 entra nel novero della collana “I mai visti” si configura agli Uffizi come un corollario della riapertura, nel mese di giugno, della Tribuna restaurata e riordinata. Quel vano magnifico si offre oggi in una veste capace di restituire le sembianze primitive solo nell’assetto architettonico e nel rivestimento prezioso delle sue pareti, con quel velluto cremisi che le carte tramandano. Quanto invece v’era collocato in origine è finito quasi tutto altrove. E però a connotare la nobiltà preziosa della Tribuna erano giusto le rarità che vi s’affollavano. Le voci antiche, infatti, ragionando del luogo sognato dal granduca Francesco I de’ Medici e disegnato da Bernardo Buontalenti (architetto consentaneo di quel principe estroso e colto), lo descrivono come un “ricetto di cose rare, e preziose”1; e anche innumerevoli, se prima di parlarne s’avvisa il lettore che saranno soltanto “alcune poche cose”2 quelle di cui sarà fatta menzione. “Intorno alla Tribuna girano dentro certi palchetti d’Ebano, pieni di statue e di arnesi rarissimi, e sopra ogni stima senza fallo preziosi. E perché sia la vista più nobile, e più sovrana, sotto alle finestre d’ognintorno è coperto il muro di velluto rosso, quasi insino al piano: onde gran numero di picciole statue di marmo, di bronzo, di argento, di agate, di diaspro, di turchino così ben dentro vi campeggia, cosi con magnificenza riluce ogni altro ornamento, che è di diversa specie, che né veder l’occhio sembiante più regio, né pensar puote l’animo ornamento più pregiato”3. Si prosegue in questa citazione giacché, secondando la memoria di quest’affidabile nostro cicerone – ch’è poi Francesco Bocchi, cui si deve una letteraria descrizione della Tribuna, vergata a pochi anni dalla sua nascita –, non solo si assumono informazioni di prima mano riguardo al corredo della Tribuna, ma anche si fa per noi più perspicua l’immagine di quell’ambiente davvero inusitato: “Io non dico delle figure de’ quadretti, che sono maravigliose, né de’ bassi rilievi, che sono rari, né de’ coltelli alla Domaschina, né delle guaine di gioie preziosissime, che sono messe sotto ad ogni gocciola del palchetto da basso, perché troppo diffuso non sia il ragionamento: ma pur dirò di alcune cose, che più di tutte straordinariamente sono meravigliose”4. E si rammenta “una testa di un Giulio Cesare di una pietra preziosa, che è turchina, la quale per artifizio è bellissima”5. Si dice di “una palla di avorio” “dentro ad una palla d’Ebano… rara per artifizio”6. E altro ancora. Comprese molte cose straordinarie di natura7. Ma soprattutto si tramanda il ricordo – ed è qui il caso di sottolinearlo – di “un monticello di perle, e di gioie di ricca vista, e mirabile, fabbricato dalla mano del Gran Duca Francesco: il quale per signoril diporto col suo nobile intelletto dopo le gravi occupazioni in simili affari era usato d’impiegarsi”. Anche chi non avesse nozione della personalità di Francesco e conoscesse della Galleria degli Uffizi (sua creatura) unicamente la funzione di stanze deputate alle opere di pittura e dei marmi antichi, troverebbe nelle parole della guida cinquecentesca, che s’è presa a viatico, i dati
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essenziali e incontrovertibili di un uomo e di un luogo fuori dell’ordinario. Entrambi lontani dall’idea di principe e di museo che la più parte s’è fatta. Prendendo conoscenza degl’ideali, delle curiosità, delle ambizioni e, sì, anche delle bramosie, di Francesco si può meglio capire cosa lui intendesse fare all’ultimo piano dell’edificio che il padre Cosimo aveva costruito per amministrar meglio uno Stato che prendeva forma moderna. Sono solo indizi quelli che qui, ora, si possono raccogliere. Se però il desiderio d’accostarsi maggiormente a Francesco esigesse pagine più folte, non rimarrebbe che tornare a un libro di Luciano Berti, sapiente e poetico insieme, uscito ormai quarantacinque anni fa e ancora tuttavia strumento insuperato per comprendere la personalità del principe e la cultura non soltanto figurativa del secondo Cinquecento fiorentino9. Pagine dense di notizie. Pagine belle, che fluiscono come in un romanzo di gran piglio. Anche perché Berti era storico affidabile e al contempo scrittore fine. Ma era soprattutto legato d’empatia a Francesco (di un’indole pur tanto differente dalla sua). Ne guardava con benevolenza quasi paterna le trasgressioni, ne ammirava i voli della mente e del cuore, ne comprendeva – anzi ne condivideva – le insofferenze per gli affanni che il ruolo ineluttabilmente comportava, e infine se ne sentiva quasi un servitore fedele, per via di quel suo incarico di direttore che lui adempiva con trasporto e senza risparmio. Berti si dilunga sugl’interessi eccentrici di Francesco (ma non poi così estravaganti come verrebbe di pensare). Interessi che – s’è visto or ora – si concretavano in personali realizzazioni e trovavano un luogo espositivo nella Tribuna: camera di prodigi e splendori, scrigno di capi d’opera d’artefici insigni che del Granduca erano coevi (e sarebbe – anche questa – materia di riflessione per noi fiorentini d’oggi, sovente ostili all’espressioni della stagione che siamo chiamati a vivere, immemori di quanto i nostri padri, invece, coltivassero e favorissero la loro contemporaneità: gli Uffizi, in principio, museo d’arte antica e contemporanea). Il terzo capitolo del libro di Berti è titolato Il principe in fonderia. I pensieri che in quelle pagine si svolgono costituiscono la premessa ideale della mostra odierna, curata con appassionata competenza da Valentina Conticelli, ch’è peraltro conosciuta anche per le sue indagini proprio sulla materia su cui quest’impresa verte. Nel catalogo che accompagna l’esposizione si troveranno saggi e schede da cui il lettore trarrà notizie utili alla conoscenza di un’epoca che sperimentò disposizioni contrapposte: da una parte la fantasia sbrigliata della cultura, e dall’altra l’austerità intransigente della pratica religiosa. Reputo probabile (e, anzi, lo auspico) che dalla mostra e dal catalogo sortano anche deduzioni connesse alla lettura delle opere d’arte del passato. Credo insomma che, imparando tutto ciò che può esser sotteso a un’immagine dipinta e ricreando le relazioni di pensiero che corrono fra un’immagine e un’altra, sia facile convincersi di quanto sia parziale uno studio vòlto a indagare soltanto gli aspetti linguistici di un’opera, trascurandone per converso i contenuti e le trame; la cui decifrazione è assolutamente indispensabile per comprenderne il significato e apprezzarne appieno la poesia. Basterebbe leggere la descrizione che nel catalogo si dà dell’affresco nella tredicesima campata del corridoio di levante degli Uffizi (allusivo proprio all’alchimia praticata nelle stanze che s’affacciavano sul corridoio dirimpettaio). Poco o nulla si potrà capire di quella figurazione se non si sa cosa rappresenti (a principiare da chi ne siano i protagonisti); se non si sa quale sia il ruolo che i protagonisti stessi recitano su quella ribalta; e, infine, se non si capisce quale sia (e se ci sia) un nesso che leghi quella figurazione medesima alle altre volte del corridoio. 10 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 1 - Antonio Tempesta, Affresco, 15801581, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio di Levante, volta numero 13 Fig. 2 - Domenico Poggini, Ritratto di Francesco I, Firenze, Galleria degli Uffizi
Senza darsi ragione di quest’interrogativi è inevitabile che l’affresco sia guardato alla stregua d’una decorazione raffinata, poco più d’una geometrica greca che impreziosisce il soffitto. E così si finisce per avvilirne le virtù; che non sono soltanto formali, ma anche (forse soprattutto) concettuali. Il valore di un’opera d’arte, come quello di qualsiasi componimento poetico, non può esser mai ridotto alla pratica linguistica. E una prova viene giustappunto dal ragguaglio iconologico che il catalogo offre dell’affresco eseguito per celebrare l’alchimia. È da quel rendiconto ideologico che discende la sua comprensione e con essa l’apprezzamento pieno delle sue qualità. Il monito che se ne desume è in questo caso chiaro perché le immagini in questione si offrono in sembianze misteriose e il contenuto si prefigura criptico; sicché la necessità di un’esplicazione si fa impellente e financo ambìta. Ma quante sono le immagini su cui invece si sorvola reputandole a torto di piana intelligenza? Quanti sono i quadri di carattere religioso che paiono mere illustrazioni di vicende bibliche e che al contrario celano significati ai limiti, per esempio, dell’ortodossia? Quanti sono – per farla breve – i dipinti di storie sacre su cui si posa lo sguardo come fossero ‘santini’ rimasti su una panca di sagrestia? E un quadro letto così – invero si dovrebbe dire: guardato così – può muovere le corde del cuore e sollecitare la mente? Ragionando dunque d’alchimia (ch’è argomento capace d’eccitare la curiosità per le sue pieghe di segreti e di misteri) siamo pervenuti al segno di riconoscere la necessità – sempre – di vedere in un’opera d’arte un testo che, al pari d’ogni altra composizione poetica, dev’esser compreso nella sua essenza. Lo stesso vale anche per la Tribuna, che qui s’è voluto prospettare come un luogo congeniale alla materia della mostra odierna: stanza, ch’è sì, di cose mirabili, rare e preziose; ma che cela – al di là delle apparenze – pensieri e affetti non a tutti accessibili, neppure ai tempi della sua realizzazione. E dunque stanza che per esser intesa ha bisogno d’applicazione e indagini storiche. Applicazione e indagini che appunto sono alla base di questa mostra e del suo catalogo; parimenti curato da Valentina Conticelli. La quale s’è avvalsa della generosa disponibilità di amici impegnati in altri Istituti: Gaspare Baggieri (del Museo dell’Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria di Roma), Fausto Barbagli (del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, sezione di zoologia), Cristina Guidotti (del Museo Egizio di Firenze), Carla Pinzauti (della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). Con loro e grazie a loro, anche quest’anno un’edizione dei ‘mai visti’ – come sempre fortemente voluta e finanziata dagli Amici degli Uffizi, vicini ognora alla Galleria – può essere offerta ai fiorentini e agli ospiti di Firenze come pensiero di Natale. Antonio Natali Direttore della Galleria degli Uffizi
Bocchi, Cinelli 1677, p. 106. Ibidem. 3 Ivi, p. 107. 4 Ibidem. 5 Ibidem.
Ivi, p. 108. Sugli ‘oggetti’ conservati in Tribuna si veda Gaeta Bertelà 1997. 8 Bocchi, Cinelli 1677, pp. 107-108. 9 Berti 2002.
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Cose rare e preziose • 11
Una storia di storie. La fonderia del granduca: laboratorio, Wunderkammer e museo farmaceutico Valentina Conticelli
Fino alla seconda metà del Settecento1 la Galleria degli Uffizi è stata un museo di musei, un teatro di molteplici saperi, in cui discipline artistiche, tecniche e scientifiche, unite da un comune tessuto filosofico e concettuale, esaltavano la lungimirante magnificenza dei granduchi di Toscana. Le raccolte di antichità, le immagini degli illustri della storia antica e moderna, i dipinti più famosi, gli strumenti scientifici, i vasi in pietra dura e le armi, erano affiancati da abili ebanisti, maestranze eccellenti del commesso fiorentino, orefici, orologiai, liutai e confettieri che lavoravano nelle botteghe della Galleria2. Il nucleo originario di questo lungo processo di accumulo di oggetti e di conoscenze è la Tribuna, favolosa caverna di tesori erede dello Studiolo di Palazzo Vecchio, in cui l’esposizione di naturalia, mirabilia e pretiosa celebrava il mecenatismo collezionistico di Francesco I de’ Medici (1547-1587). Fu proprio il cantiere per la decorazione della Tribuna, principiato nel 1582, a far sì che artisti e artigiani prendessero posizione lungo il corridoio del secondo piano degli Uffizi e con loro il granduca che, in una stanza appositamente allestita per lui, lavorava al suo ‘banco di gioie’ sovrintendendo alla produzione artistica delle botteghe e all’allestimento della sua ‘spelonca’. Vicino alla sua stanza Francesco fece predisporre un ambiente per permettere al figlio Antonio di giocare non troppo discosto, affinché egli, fin da bambino, potesse dedicarsi alle arti predilette dal padre all’insegna del virtuosismo principesco3. In fondo al corridoio, dove alcuni dei soffitti a grottesca celebrano il suo amore per Bianca Cappello, Francesco ordinò l’allestimento di un camerino con opere d’arte4 per l’amatissima consorte, ove la granduchessa potesse “riposare l’esate” vicino al marito e al figlio. In questo panorama in cui l’eccellenza artistica si intreccia con la vita familiare del granduca, che “tramette li piaceri nelli negozi, e nelli negozi li piaceri”5, non poteva mancare un luogo in cui egli potesse dedicarsi alla sua attività d’elezione, quella che meglio incarnava la sua passione per la ricerca dei ‘segreti di natura’: l’alchimia.
Le fonderie fiorentine Nel Cinquecento l’alchimia era un’attività comune in molte corti italiane6, questa disciplina, oltre che mirare alla trasmutazione dei metalli in oro, si interessava a tutti i processi di trasformazione della materia e comprendeva, di conseguenza, ambiti di sperimentazione protochimica che agli occhi moderni paiono estremamente eterogenei. L’alchimia poteva coniugarsi, nei suoi aspetti tecnici, con prassi artigianali e artistiche di diverso genere7 quali l’oreficeria, la ceramica8, la lavorazione del vetro, della porcellana9 e della scultura in porfido10. L’aspetto medico farmaceutico era assai rilevante nella sperimentazione alchemica di questo periodo, perché la ricerca della trasmutazione 13
andava di pari passo con quella dell’‘elixir’, il farmaco universale che poteva purificare non solo i metalli, ma anche l’uomo dalle impurità e dunque dalla malattia. Nel XVI secolo le applicazioni dell’alchimia in medicina consistono principalmente in due tecniche che non si escludono l’un l’altra: una più orientata verso distillazione dei semplici, l’altra verso la distillazione di materiali diversi, quali i metalli e altre sostanze di origine naturale11, esercitata quest’ultima, soprattutto grazie all’influenza di Paracelso (1493-1541). A partire dalla fine del Cinquecento infatti, anche a Firenze e proprio nell’ambito della fonderia, si risentì fortemente l’influenza dello scienziato tedesco che intese l’alchimia soprattutto in senso medico e terapeutico. Le radici teoriche della sperimentazione alchemica risalgono alla teoria dei quattro elementi12, alla teoria umorale, alla tradizione aristotelica e pseudo aristotelica e all’alchimia araba, trasmesse nel Medioevo da un’ampia produzione letteraria. Inoltre l’alchimia è caratterizzata da un linguaggio simbolico che esprime in immagine le metamorfosi delle sostanze che avvengono nell’alambicco, nel forno o nel crogiolo. A tal fine ricorre all’uso di figure meravigliose e mostruose – talvolta elaborate con intento retorico o mnemotecnico – in cui elementi dell’iconografia mitologica e cristiana danno vita a straordinari sincretismi iconici13 (vedi cat. nn. I.5, I.10) L’alchimista, che indaga i recessi più segreti della natura e che cerca la purificazione della materia deve compiere un processo di ascesa e affinamento intellettuale e spirituale per potersi avvicinare alla rivelazione dei segreti (vedi cat. n. I.9). Francesco I ereditò sicuramente dal padre l’interesse per le scienze e per le dottrine spagiriche e una vivida testimonianza degli interessi alchemici di Cosimo (1519-1574) si conserva nelle ricette scritte di suo pugno14, nei manoscritti e nei ricettari redatti da alcuni protagonisti della sua corte15. Prima del 1554, anno in cui cominciarono i lavori di Vasari in Palazzo Vecchio, non si conosce esattamente la collocazione della fonderia ducale16, mentre a Firenze erano già attive le farmacie di San Marco e di Santa Maria Novella17. Inoltre proprio a Firenze, già nel 1498, era stato dato alle stampe il primo ricettario volgare che sarà riedito con importanti modifiche nel 1550 con una dedica a Cosimo I. A partire dal 1556 l’officina alchemico-farmaceutica ducale doveva essere situata al pianterreno della Torre di Nembrot, in Palazzo Vecchio, sotto la stanza di Clemente VII18. Nel 1558 l’architetto aretino avrebbe voluto spostarla perché minacciava gli affreschi che aveva appena finito di dipingere, ma il duca si oppose19. L’ambasciatore veneziano Vincenzo Fedeli osservava amminato, nel 1561, la produzione farmaceutica della fonderia, descrivendo il sovrano affaccendato in quell’“infinita varietà di fuochi, di fucine, di fornetti, e lambicchi”, dove si reca “spesso e vi sta e vi lavora di sua mano con grandissima sua dilettazione” non disdegnando “eziandio la investigazione de’ metalli”20. Sodale di Cosimo e Francesco nell’interesse per l’arte aurifera, la porcellana21 e le gioie false fu Antonio Altoviti (1521-1573)22, arcivescovo di Firenze. Egli condivise con i granduchi il rapporto con due figure di rilievo: Sisto da Norcia e Sebastiano Manzone. Vetraio, vasaio e alchimista, Sisto da Norcia dedicò a Cosimo23 un importante manoscritto d’alchimia in volgare, mentre Sebastiano servì i Farnese e la corte pontificia24 come distillatore, e infine si recò a Firenze dove allestì e sovrintese ai laboratori di distillazione e d’investigazione metallurgica del Casino di San Marco. 14 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 1 - Raimondo Lullo, Opera, 1579-1581, BNCF, Magl. II. III. 28, cc. 1v-2r
Con Francesco I le officine alchemiche subirono sicuramente una forte espansione, ed è probabilmente per questo motivo che i laboratori della fonderia furono trasferiti da Palazzo Vecchio al Casino di San Marco, dopo la morte di Cosimo. Il granduca, andava ogni giorno al Casino e praticava personalmente, insieme ai suoi artefici, come e più del padre, le arti del vetro, della porcellana, dell’oreficeria e dell’alchimia25: gli oggetti d’arte e i rimedi farmaceutici prodotti in quell’officina venivano poi condotti quotidianamente nei camerini delle sue residenze granducali26. Proprio nel Casino di San Marco Francesco accolse tra il 1579 e il 1581 un gruppo di tre ‘compagni’27, legati tra loro da un giuramento di fedeltà e perseguitati dal duca di Mantova. Essi dovevano operare la trasmutazione e copiare per lui alcuni codici, attribuiti a quel tempo a Raimondo Lullo, di cui sostenevano di essere gli unici possessori28 (fig. 1). Uno di loro osò proporre al sovrano l’istituzione di una confraternita alchemica segreta presso il Casino di San Marco29: questa sembra paragonabile a un’accademia occulta descritta nei libri di segreti di Alessio Piemontese30. I temi legati alle arti praticate al Casino trovano grande spazio nella decorazione della parete del fuoco dello Studiolo di Palazzo Vecchio, dove compaiono il vetro, la distillazione, la fusione dei bronzi e l’oreficeria e dove era prevista un’immagine dedicata alla porcellana. Una storia di storie. La fonderia del granduca • 15
Alcune di queste scene sono ambientate nel cortile degli Uffizi, quasi a presagire il trasferimento delle botteghe che avverrà a partire dal 1582 e che, oltre alle necessità derivanti dal cantiere della Tribuna, sembra fosse motivato anche dalla volontà del granduca di allestire un’abitazione degna di un principe per suo figlio don Antonio al Casino di San Marco31.
Il principe medico L’attenzione di Cosimo de’ Medici per le attività farmaceutiche si spiega anche in relazione al suo nome di battesimo, quello di un santo medico e, ovviamente, al nome della famiglia. Per questo motivo la distribuzione liberale di farmaci da parte dei granduchi – che sarà una delle ragioni d’essere della Fonderia degli Uffizi – rappresentava un gesto celebrativo della loro stessa stirpe32. Non a caso Baccio Baldini, medico di Cosimo I, ricorda la generosità con cui il granduca elargiva olii preziosi e medicamenti33, mentre il grande naturalista Ulisse Aldrovandi – che trovò in Francesco I un regale compagno di investigazioni scientifiche – ne elogia ammirato la capacità di provvedere “a tutte le cose che spettano alla sanità”34, distribuendo i rimedi sperimentati personalmente, quali il suo celebre olio di contravveleno35. Nella decorazione ad affresco del corridoio Galleria, condotta da Antonio Tempesta e da Alessandro Allori con la sua bottega nel 1581, la volta numero 13 è dedicata proprio al tema della salute. Essa ha per protagonisti Esculapio36, il dio della medicina – che qui compare con bastone, cappello sacerdotale e serpente – e sua figlia Hygeia37 che indossa una corona e reca una bacchetta e una patera. Nella scena di distillazione al centro della campata alcuni artefici lavorano con il mantice, il mortaio o la macina presso un forno con alambicchi e al cospetto di un maestro seduto su uno scranno che presiede alle operazioni (fig. 2). L’immagine si ispira in modo evidente agli Alchimisti dello Studiolo di Francesco e all’incisione di Giovanni Stradano, che ne deriva (cat. n. II.11), ma ne semplifica l’aspetto tecnico per la minore presenza di strumenti. Innovative sono invece le quattro scene poste agli angoli in cui compaiono una bottega di speziale e tre diversi momenti della preparazione di medicinali raffigurati secondo modalità stabilite nel Ricettario fiorentino38. Nella prima scena si pesano i rimedi per la confezione delle medicine, nella seconda si macinano ingredienti duri con uno strumento che compare anche nell’incisione di Stradano, nella terza si arrostiscono o si friggono gli ingredienti (figg. a p. 34) e infine nell’ultima, è rappresentata invece, la distillazione tramite feltri39 (figg. 3, 4). 16 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 2 - Antonio Tempesta, Distillazione, 1580-1581, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio di Levante, affresco della volta numero 13, dettaglio
Fig. 3 - Antonio Tempesta, Affresco, 1580-1581, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio di Levante, volta numero 13, dettaglio con strumenti per la distillazione tramite feltri
Fig. 4 - Sisto da Norcia, Opera, Athanor e distillazione per feltro, 1560-1570, BNCF, Pal. 901, cc. 71v-72r
La dea della salute con la patera, il serpente e l’asta, si rintraccia anche in una delle prime medaglie di Cosimo I con il motto salus publica40. Quest’iconografia, tratta dai rovesci di monete antiche41, rinvia alla dea romana Salus che intreccia le sue caratteristiche con la greca Hygea e protegge la sicurezza dello Stato più che la salute personale dell’individuo. Nel Cinquecento Igea godette di una certa fortuna iconografica42: la dea svetta per esempio sulla sommità della Loggetta del Casino di Pio IV, dove richiamava proprio le virtù del papa Medici/medico43. Anche in Galleria, come nello Studiolo di Palazzo Vecchio, l’immagine della distillazione è inserita in un contesto più ampio in relazione al quadro concettuale in cui nel Rinascimento si esercitavano le attività alchemiche e medico farmaceutiche. Le volte numero 11 e 12, che precedono il soffitto dedicato alla salute, presentano richiami al macro e al microcosmo, con i quattro elementi, la musica delle sfere e le allegorie del Giorno e della Notte. Nella campata seguente invece, oltre al carro del cielo, si nota un evidente rimando alla teoria umorale, che dominava la medicina antica, medievale e rinascimentale per la presenza dei quattro temperamenti44. In un dettaglio del fregio a grottesche dello stanzino delle matematiche dipinto da Giulio Parigi45 tra il 1599 e il 1600, si incontra un’altra immagine che fa riferimento all’espressione “lambiccarsi il cervello” declinata in senso positivo e ironico. Vi compaiono due figure maschili sedute una di fronte all’altra davanti ad una sfera celeste: uno dei due osserva un cerchio inserito in un quadrato, mentre l’altro contempla una lucerna. Entrambi indossano sul capo un alambicco del tipo detto “cappello”46. Gli alambicchi stillano un liquido che ricade sui quaderni di due personaggi seduti alle loro spalle dove sono raffigurati disegni geometrici che in un caso corrispondono al teorema di Pitagora. La distillazione è interpretata dunque come metafora dell’intelligenza: questa è raccolta nel cervello-alambicco che distillando concepisce l’espressione geometrico-matematica contenuta nei quaderni, favorita dalla meditazione sulla quadratura del cerchio e dalla luce della fiaccola, simbolo della sapienza che disperde le tenebre. Una storia di storie. La fonderia del granduca • 17
La fonderia nuova Dal gennaio 1586 i libri di conti della galleria testimoniano la presenza di un alchimista chiamato Michael Geber fiammingo47 tra le botteghe del corridoio. Con il suo arrivo, l’attività di distillazione e di investigazione metallurgica principiò anche agli Uffizi nella cosiddetta “fonderia nuova”48. Di Geber si conosce solo il breve periodo di attività presso la Fonderia degli Uffizi terminato con la morte di Francesco avvenuta nell’ottobre del 158749. Lo “stillatore” nella sua officina aveva dei forni per la coppellazione50, un procedimento utilizzato fin dall’antichità per saggiare i minerali auriferi e argentiferi e affinarne i relativi metalli51, e veniva provvisto regolarmente di grandissime quantità di carbone che denotano un notevole impegno in questa attività. Meno di un mese dopo la scomparsa di Francesco I, il 16 novembre 1587, Ferdinando interruppe bruscamente le attività trasmutatorie praticate dal fratello in Galleria52: i forni di Geber furono distrutti per lasciare spazio alla fucina di un tal Guglielmo francese maestro di lima53. Come registra il Pigafetta, il nuovo granduca “vieta nondimeno a quei ministri che per niuna maniera dieno opera dell’alchimia e alle prove di trasmutar metalli in oro”54. Tuttavia, in merito all’alchimia, l’atteggiamento di Ferdinando era tutt’altro che univoco, infatti durante il suo granducato nell’orto botanico di Pisa diretto da Giovanni Casabona – già attivo per Francesco I – il granduca agiva in modo diverso. All’orto era annessa una fonderia, già in funzione nel 1596, dove sicuramente si effettuavano esperimenti sui minerali55, come attestato dai pagamenti di braci per “attachare miniere”. Inoltre, durante il cardinalato, Ferdinando aveva ospitato a Roma un esperimento che ebbe grande risonanza: ne fu protagonista il poliedrico medico paracelsiano Leonhard Thurneysser56 (vedi cat. n. II.14) che effettuò la trasformazione della metà inferiore di un chiodo di ferro di cavallo in oro57. Come racconta Targioni Tozzetti il celebre chiodo – spesso nominato tra i curiosa più singolari dai viaggiatori – era custodito in Tribuna “nella parte inferiore del magnifico stipo di Ferdinando”58. Esso era anche accompagnato da un biglietto autografo del granduca che testimoniava la sua presenza all’esperimento59. Il chiodo, oggi perduto, si è conservato in Tribuna fino al 1772, quando fu consegnato all’abate Felice Fontana che lo desiderava per il Regio Gabinetto di Fisica e Scienze Naturali60. Durante il granducato di Ferdinando I nella Fonderia degli Uffizi operarono Pietro Bertola da Bergamo e Niccolò Sisti61. Il primo sostituì Michael Geber fino al 1591, mentre il secondo – figura ben più rilevante – era il figlio di Sisto da Norcia, l’alchimista attivo per l’arcivescovo Altoviti e per 18 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 5 - Giulio Parigi, Figure che si lambiccano il cervello, 1599-1600, Firenze, Galleria degli Uffizi, Stanzino delle Matematiche
Fig. 6 - Giuseppe Ruggeri, Pianta della Galleria degli Uffizi con le stanze della fonderia, 1742, BNCF, Pal. 3. B. 1. 5, c. 9r
Cosimo I. Niccolò, stipendiato della corte fin dal 1571, fu protagonista, dagli inizi, dei felici tentativi di Francesco di realizzare vasellame in porcellana. Si noti che in questo periodo anche la lavorazione della porcellana fu trasferita dal Casino di San Marco in ambienti adiacenti alla Galleria, alla Zecca e alla Loggia dei Lanzi62 e non si può escludere che la nomina di Niccolò alla fonderia sia dovuta proprio a questa sua duplice veste di distillatore e di artefice di vetri, maioliche e porcellane. All’arrivo di Pietro Bertola da Bergamo nel 1588, la fonderia (fig. 6) venne arricchita di circa un migliaio di vetri per la distillazione63, provenienti dal Casino e di molti altri strumenti e anche l’inventario del 1591, redatto alla morte di Pietro Bertola64, in cui si sancisce il passaggio di consegne a Niccolò Sisti, testimonia ancora la presenza di testi relativi al trattamento di metalli, oppure a segreti alchemici65. Anche don Antonio (1576-1621), il figlio che Francesco ebbe da Bianca Cappello, al quale procurò il titolo di marchese di Capestrano, continuò a interessarsi di alchimia e a praticarla assiduamente al Casino di San Marco66, il palazzo scelto – certo non casualmente – dal padre come residenza per colui che considerava suo erede. Don Antonio raccolse i segreti esercitati nella fonderia in un codice in quattro volumi67 che riunisce le ricette di tutti coloro che vi praticarono, Francesco compreso. Come dimostrato dai testi contenuti nella sua amplissima biblioteca68, egli era interessato alle dottrine paracelsiane e quindi alle applicazioni medico farmaceutiche dell’arte spagirica. Oltre a ciò, il marchese di Capestrano coltivò anche un intenso rapporto di amicizia e di discepolato con una figura di primo piano della cultura scientifica fiorentina del Seicento: Antonio Neri (1578-1614). Questo prete, della cui vita si conosce pochissimo, dedicò a don Antonio il primo trattato in volgare sulle tecniche del vetro, ma Neri praticava anche ricerche sulla trasmutazione dei metalli, connesse al magistero di Paracelso e espresse ermeticamente in formule criptate. Purtroppo la morte gli impedì di svelare i suoi segreti e don Antonio si spese in tutti i modi per riuscire a decrittare la sua formula per la trasmutazione, detta Donum dei ad rubrum69 (fig. 7). Un segno di queste ricerche si può cogliere, forse, in un dipinto di Filippo Napoletano legato al Casino di San Marco, dove due personaggi puntualmente caratterizzati osservano perplessi un rovente oggetto rosso, mentre un terzo tiene in mano una ricetta (cat. n. II.17). Nel 1670 una versione della formula fu trovata tra gli oggetti dell’eredità di Giulio de’ Medici, figlio di don Antonio, insieme a flaconi di medicamenti paracelsiani. Tutto questo materiale fu consegnato a Giacinto Talducci, figura di spicco della fonderia durante il Seicento, allevato nel Casino di don Antonio e successore di Niccolò Sisti. Ferdinando II volle unire questa copia della formula Donum dei a quella da lui posseduta in modo che entrambe fossero conservate in fonUna storia di storie. La fonderia del granduca • 19
deria70. Sembra inoltre che il granduca radunasse tutti gli strumenti e i segreti ricercati da don Antonio, nella Fonderia degli Uffizi71, al cui ingresso fece porre un ritratto dell’avo accompagnato da un’iscrizione celebrativa (cat. n. II.16).
Doni farmaceutici Ferdinando I (1549-1609) continuò a incrementare l’elargizione di rimedi che celebrava il nome di famiglia secondo la tradizione inaugurata dal padre e dal fratello72 infatti, durante il suo granducato, la fonderia degli Uffizi cominciò a produrre sistematicamente cofanetti di medicinali73. Confezionati in legno di noce o d’ebano, essi contenevano 8, 10, 18 o 24 flaconi di medicamenti accompagnati da ricette manoscritte o a stampa74. Le cassette venivano distribuite ai membri della corte, regalate agli ambasciatori o ai nobili di tutta Europa: i tipi più ricchi con 18 o 24 farmaci erano riservati a principi e a sovrani. I cofanetti più prezioni, detti ‘tamburini’, erano decorati a intarsio, a mosaico o impreziositi con pietre dure e avorio, dagli abilissimi lavoranti della Galleria. Tra i medicamenti più famosi della fonderia si annovera sicuramente il cosiddetto olio di contravveleno, raccomandato anche in tempi di peste75: per confezionarlo si impiegavano abitualmente migliaia di scorpioni76. I rimedi prodotti sembrano derivare principalmente dalla distillazione di piante77, come testimoniato dai ricorrenti rifornimenti di erbe, ma si continuano a praticare anche ricerche nell’ambito della medicina chimica paracelsiana78. Proprio a questo scopo Niccolò Sisti acquistò molti testi di medicina e di alchimia79, tra i quali spicca la Basilica Chimica di Croll80 che doveva servire, per espresso volere di Cosimo II81 (1590-1621), per nuovi medicamenti a base d’oro. Più tardi invece, nel 1624, si proveranno farmaci secondo le ricette di Giuseppe Quercetano82 – altro celebre medico paracelsiano francese – e si acquisteranno ancora testi rilevantissimi d’alchimia e di metallurgia, quali il Teatrum chemicum83 e il Lexicon alchemiae di Martin Ruland. Nello stesso anno, Niccolò Giugni scriveva, per ordine delle reggenti al Cardinal Carlo, in relazione alla biblioteca della Fonderia degli Uffizi, accennando alla presenza di molti libri proibiti di Paracelso “et altri chimici attenenti alle distillazione e medicine”84, per l’utilizzo dei quali era stata chiesta una speciale licenza all’inquisitore. Giugni sollecitava un intervento del cardinale, in modo da poter permettere a Niccolò Sisti di continuare la preparazione quotidiana dei rimedi. Niccolò, noto soprattutto per la sua produzione ceramica e vetraria, era anche un abile alchimista che proseguiva la tradizione paterna85 e quella degli artefici attivi al Casino di San Marco, culminata nella figura di Antonio Neri. 20 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 7 - Antonio Neri, Donum Dei, XVII secolo, in BNCF, Variorum opuscola clinica, Targioni Tozzetti, 2, cc. 14v-15r
Nel 1620 Maddalena d’Austria ordinò che non si donassero medicamenti della Fonderia senza un ordine esplicito e che tutti gli ordini fossero annotati. Nel 1633 quest’ordine veniva ribadito da Ferdinando II (1609-1670) e ne conseguì la produzione di una serie di registri, di cui si conservano solo tre esemplari che contengono i nomi di tutti coloro che ricevevano singoli rimedi o cassette tra il 1633 e il 165886. Contestualmente il granduca richiamava alla riservatezza che doveva caratterizzare quegli ambienti, per cui nessuno avrebbe dovuto oltrepassare la prima stanza, dove si consegnavano i medicamenti e si comandava ai distillatori di non esercitare altrove la loro arte87. L’elenco dei doni farmaceutici è sconfinato, ma si possono citare, tra i più rilevanti nel solo anno 1643, il Pascià d’Alessandria, il cardinale Mazzarino, la duchessa di Guisa, il re di Polonia, don Giovanni d’Austria, il cardinale Trivulzio e Ferdinando Cospi88. Rari, ma assai significativi, gli invii fuori dall’Europa, come quello di 18 scatole di medicamenti mandati da Francesco Redi, soprintendente alla fonderia sotto Ferdinando II, a Francesco Urea a Madrid, affinché egli potesse inviarli in Messico89.
Le rarità naturali La fonderia raggiunse il suo massimo splendore sotto Ferdinando II90, quando vi operavano Francesco Redi, come soprintendente (tra il 1666 e il 1680), e Giacinto Talducci come maestro distillatore (cat. nn. II.1, II.2). Nel corso del Seicento, le attività distillatorie presero piede anche a Pitti negli appartamenti di Giovan Carlo, di Ferdinando II e nella Spezieria di Boboli che, un secolo dopo, erediterà le funzioni dell’antica officina degli Uffizi91. Una vivida testimonianza sulla fonderia in questo periodo si deve a Giovanni Cinelli che la descrive in dettaglio92. Due stanze con forni imponenti, cui si accedeva da un ingresso completamento rivestito di ampolle e alambicchi, erano altrettanto ricolme di vasi, campane, recipienti e storte di vetro e, ancora, sopra gli armadi che foderavano le pareti, c’erano vetri fino a toccare il soffitto. Seguiva un terrazzo per l’evaporazione e poi due stanze con i ‘circolatori magni’, maestosi apparecchi per la distillazione che arrivavano a muovere dodici fiaschi contemporaneamente, mentre altri strumenti potevano distillare mantenendo il fuoco per tre giorni di seguito, dimostrando così, il livello d’efficienza tecnica raggiunto dall’officina93. Cinelli osserva con curiosità la grande quantità di rarità naturali – di cui in precedenza non si era riscontrata alcuna notizia – riunite nelle ultime due camere della fonderia e la sua descrizione rievoca il “cielo di oggetti appesi”94 tipico delle wunderkammern seicentesche. Sopra gli alti armadi che contenevano innumerevoli rimedi farmaceutici95 erano collocati animali tassidermizzati di diverse specie: scimmie, pavoni, zibetti, corni di rinoceronte, uova di struzzo, coralli e pesci, insieme alla mano di una sirena e altri “scherzi naturali”. In un’altra stanza, “tutta di pesci stravaganti e rari e con cose impietrite ornata”, si conservavano mummie egizie e nuovi curiosa. Inoltre all’ingresso della fonderia – nella cosiddetta ‘stanza dei vetrai’ (fig. 10) – si trovava la pelle di un elefante retta da un’ossatura di legno. L’antica officina con i suoi laboratori e medicamenti era ora affiancata a delle vere stanze delle meraviglie, dove la presenza di naturalia era giustificata, oltre che dallo studio e da uno scopo dimostrativo, anche dal loro effettivo utilizzo a fini farmaceutici96. Secondo Targioni Tozzetti fu Ferdinando II a riunire le “produzioni naturali” esistenti nei suoi palazzi alla Galleria degli Uffizi. Il granduca acquistò una collezione di fossili da Niccolò Una storia di storie. La fonderia del granduca • 21
Stenone, il grande scienziato danese vissuto a Firenze tra il 1666 e il 1672, e gli affidò la cura delle sue raccolte97. Ferdinando II possedeva anche una meravigliosa raccolta di conchiglie, custodita in due stipi e catalogata da Jacopo Mariani98, ma finora non è emerso alcun riscontro documentario certo sull’esatta collocazione dei campioni di Stenone e dei nicchi di Ferdinando II99. In proposito si può solo notare una generica corrispondenza tra le categorie di fossili elencate dal danese e le “cose mpietrite” notate da Cinelli, tuttavia non si può escludere che, data la quantità di naturalia presenti nell’officina degli Uffizi, vi fossero conservati anche parte dei cimeli di Stenone, delle conchiglie di Ferdinando e di altre successive celebri raccolte naturalistiche100. 22 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 8 - Ritratto di Georg Eberhard Rumph detto Plinio delle Indie, in G. E. Rumph, D’amboinsche Rariteitkamer, Amsterdam 1705, c. 3r Fig. 9 - Georg Eberhard Rumph, D’amboinsche Rariteitkamer, Amsterdam 1705, tav. 49 (la tavola illustra alcune conchiglie possedute da Ferdinando II, vedi nota 98)
Fig. 10 - Giuseppe Bianchi, Pianta della Galleria degli Uffizi, 1768, in BU, ms 67, Catalogo dimostrativo, c. 4r Fig. 11 - Giuseppe Bianchi, Stanzino dei Nicchi, 1768, in BU, ms 67, Catalogo dimostrativo, c. 34r
Con Cosimo III (1642-1723) le attività della fonderia furono probabilmente concentrate nella spezieria di Boboli: come notato da Piccardi, infatti nel corso del Settecento le maestranze operanti agli Uffizi diminuirono sempre più101, fino a interrompersi del tutto nel 1765. Altre fonti sembrano porre la decadenza dell’officina, verso la fine del regno di Cosimo III: nel 1703 infatti, il naturalista tedesco Breyne, rimarcò la presenza di eccezionali monstra sotto spirito nella wunderkammer della Fonderia degli Uffizi102. Il sovrano, seguendo l’esempio paterno, incrementò notevolmente le collezioni medicee e giunse a obbligare il celebre naturalista olandese Georg Eberhard Rumph, a vendergli il suo eccezionale cabinet di naturalia103 (figg. 8, 9), ma, anche in questo caso, non è ancora chiaro dove questa stupefacente collezione, giunta a Firenze nel 1682, fosse ubicata. Giuseppe Bianchi, custode infedele, ladro, piromane e al contempo fonte primaria per la storia della Galleria degli Uffizi nel Settecento104, fornisce in proposito qualche indizio: egli narra della volontà del granduca di riunire in un gabinetto della Galleria le sue rarità naturali, progetto che non fu portato a termine causa della morte del sovrano. Su questo argomento Bianchi è piuttosto ambiguo, poiché in due occasioni afferma che il nuovo cabinet avrebbe avuto luogo nella “stanza dei vetrai”105 (fig. 10), un ambiente che aveva stretta relazione con la fonderia, in quanto posto al suo ingresso e dove, all’epoca di Cinelli, si trovava la pelle d’elefante106. In un altro passo del suo manoscritto, Bianchi assegna invece questa funzione alla stanza dell’Arsenale107, dove, effettivamente, si trovava il famoso ippopotamo della galleria, mentre nell’adiacente “stanzino dei nicchi” (fig. 11) erano collocate molte produzioni naturali, tra cui alcune celebri conchiglie del Rumph108. In ogni caso, a riprova della destinazione di una parte assai rilevante della raccolta amboinense alla Galleria, vi si può constatare la presenza del cosiddetto “centone rumphiano”, l’eccezionale stipo composto da cento diverse essenze di legni orientali, inviato a Cosimo III dal naturalista olandese. Sembra infatti di poterne individuare una descrizione in un passo di Giuseppe Bianchi relativo alla stanza delle Arti o degli stipi109. Un mesto ritratto dei naturalia di fonderia lo offrono alcuni documenti del 1771 quando, dopo la dismissione dell’officina avvenuta nel 1765110, i cimeli vengono consegnati prima alla guardaroba e in seguito all’abate Fontana per il Regio Museo di Fisica e Scienze Naturali. In quegli elenchi compaiono solo i campioni sopravvissuti al tempo e all’incuria degli ultimi decenni, tarmati ormai per la maggior parte e in “pessimo grado”, ma pur sempre rispondenti alle tipologie descritte da Cinelli. Una storia di storie. La fonderia del granduca • 23
Antichità egizie
La notizia dell’esistenza di mummie egiziane nella wunderkammer della fonderia del Granduca è trasmessa puntualmente da Cinelli: “Usciti da questa in un’altra si giugne tutta di pesci stravaganti e rari, con cose impietrite ornata. Nelle due testate son due mummie per ciascheduna, quelle da mano manca entrando son cadaveri interi a diacere: il primo in una cassa scoperta, ed una rete di sopra tutto nelle fasce […] avvolto. Di sopra è tutto dipinto in quella rozza maniera da loro adusata e su le 4 cantonate della cassa di legno sono altrettanti animali di rilievo amovibili di legno ingessato e dipinto […]. Dall’altra parte è una mummia simile, ma con differente cassa, la quale è tutta di legno grosso ben custodita e da’ piedi del cadavero aprendosi, il fantoccio fasciato interamente dimostra, avendo nel disopra dello stesso ancorché rozzamente la forma e la figura espressa. Nell’altra parete son due mummie più piccole, ma situate in piedi ed in casse di cristallo collocate, nelle quali la quantità grande delle fasce e l’ordine di esse si considera”111. Il primo a menzionare queste rare antichità fu Giovanni Battista Nardi, medico, di Cosimo II, appassionato d’alchimia e figura di spicco della Fonderia degli Uffizi112, che trattando dei riti funebri egizi illustrava le mummie appartenenti alla sua collezione e quelle del granduca113. In seguito ad una specifica richiesta di Athanasius Kircher – che avrebbe dedicato a Ferdinando II la sezione sull’alchimia egizia dell’Oedipus (vedi cat. n. II.23) – Nardi inviava al gesuita i rami da lui utilizzati114 (figg. 12, 13), ai quali Kircher aggiungeva un’altra grande tavola dove compaiono tre sarcofagi medicei. Dalle lettere di Nardi apprendiamo anche interessanti notizie sull’origine di queste rarità: esse furono donate a Ferdinando II da Louis Bertier, un mercante francese vissuto lungamente al Cairo, dove aveva raccolto uno straordinario cabinet di antichità egizie, un serraglio di animali esotici e molti curiosa115. Nel tornare in Francia, Bertier si fermò a Firenze, dove portò “un saggio di tutte le curiosità d’Egitto e delle vicine provin24 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 12 - Niccolò Balatri, Mummie del granduca, in A. Kircher, Opedypus Aegyptiacus, Romae, 1652-1564, III, p. 412
Fig. 13 - Niccolò Balatri Mummie del granduca, in A. Kircher, Opedypus Aegyptiacus, Romae, 1652-1564, III, p. 417
cie”116. In conseguenza di un qualche favore ricevuto dal sovrano, Bertier lasciò a Ferdinando II tutte le sue mummie e Nardi testimonia che nel 1643 esse furono inviate in fonderia. La mummia era un elemento raro, ricercato e apprezzatissimo della farmacopea medievale e rinascimentale: esse erano descritte come ingrediente nel Ricettario fiorentino117 e utilizzate anche nella medicina paracelsiana118. Grazie alle incisioni pubblicate da Nardi e Kircher è stato possibile rintracciare uno dei sarcofagi della fonderia nei depositi del Museo Egizio di Firenze (vedi cat. n. IV.10): l’opera, che presenta un elegante volto maschile intagliato nel legno, appare riprodotta in un’illustrazione delle mummie granducali, dove è riconoscibile anche una rottura nella parte frontale del sarcofago (fig. 12). Nell’elenco degli oggetti usciti dall’officina degli Uffizi dopo la sua dismissione del 1765119, si possono individuare i reperti egizi descritti da Cinelli: una mummia dentro un sarcofago di sicomoro (corrispondente con quello illustrata da Nardi e Kircher, vedi cat. n. IV.10) viene destinata all’abate Fontana120, e altre tre – di cui una con sarcofago decorato e due mummie “di ragazzi” senza sarcofago – che vengono inviate alla Spezieria e da qui passano alla Specola121. Tutte questi reperti dal Museo della Specola, nel 1873, vengono mandati al Museo di Antropologia e solo dieci anni dopo, in seguito a una lunga trattativa tra Ernesto Schiapparelli e Paolo Mantegazza122, una parte dei cimeli egiziani poterono rientrare nelle collezioni archeologiche fiorentine e tra questi anche il sarcofago in legno di sicomoro. Un riflesso della fama delle mummie granducali era presente anche nell’affresco dedicato alla Medicina nel ciclo decorativo del Corridoio di Ponente della Galleria degli Uffizi, eseguito per volere di Ferdinando II (vedi cat. n. II.22), dove è raffigurata la mummia, l’apertura di un sarcofago e altri rimedi tipici della farmacopea antica, quali il corno di unicorno e il veleno dei serpenti. Una storia di storie. La fonderia del granduca • 25
Bianchi, Ruggeri e il furto del cosiddetto “rotone del Buontalenti” Se dobbiamo credere alle parole proferite da Giuseppe Bianchi, durante il suo processo nel 1768123, parrebbe che il meccanismo necessario all’approvvigionamento idrico dei laboratori situati – in modo assai poco funzionale – al secondo piano della Galleria, fosse opera di Bernardo Buontalenti124. Giuseppe Bianchi fu accusato insieme a Giuseppe Ruggeri, ingegnere delle regie fabbriche e autore di puntualissime piante delle residenze mediceo lorenesi (figg. 6, 14), di aver distrutto questo strumento idraulico125 per rubare e rivendere tutti i metalli di cui era composto (vedi Appendice documentaria, n. 2). Bianchi e Ruggeri furono anche incolpati di aver rubato le chiavi idrauliche di ottone e bronzo che distribuivano l’acqua ai diversi piani dell’edificio: tra queste la più importante era quella “antichissima”, maggiore e più pesante delle altre, realizzata – secondo i testimoni chiamati in giudizio – dal Giambologna, e collocata nella cosiddetta stanza dei vetrai della fonderia126 (fig. 10). Non è chiaro quando effettivamente questi condotti fossero stati costruiti, né si sa se Buontalenti ne abbia effettivamente progettata la realizzazione: di certo si tratta di una tipologia di strumento in cui Bernardo eccelleva, tanto da aver richiesto e ricevuto uno speciale privilegio in proposito nel 1579127. Il ‘rotone’ della fonderia potrebbe forse corrispondere a una delle macchine descritte nel privilegio, grazie alla quale si poteva alzare l’acqua ad altezze di duecento passi, “senza trombe, né altro aiuto alcuno”. Secondo le fonti coeve questo congegno avrebbe utilizzato il moto perpetuo e Bernardo lo avrebbe davvero messo in opera per alzare le acque, in collaborazione con il granduca Francesco128. Il tema fu oggetto di una diatriba che vide Domenico Mellini affermare l’impossibilità della sua realizzazione, mentre Bernardo, dichiarò in veementi annotazioni manoscritte, di averlo effettivamente realizzato129. In realtà questa macchina idraulica utilizzava la forza del salto dell’acqua130 ed era già stata studiata da Francesco di Giorgio Martini nei suoi studi sui mulini di ricircolo131, mentre Buontalenti aveva avuto modo di analizzarne le applicazioni nei complessi congegni idraulici dei giochi d’acqua ideati per Pratolino. Lo strumento che portava l’acqua alla fonderia doveva essere un congegno antico (perché le maestranze chiamate a testimoniare affermano più volte che le dimensioni dei tubi erano diverse da quelle che si producevano all’epoca del processo) e di dimensioni tali da attrarre la cupidigia dei due infedeli servitori di Pietro Leopoldo132. Le canne dovevano essere lunghe 210 braccia e pesare all’incirca 3.000 libbre, esse arrivavano fino al tetto dove l’acqua si raccoglieva in una conserva di piombo (anch’essa rubata) che è probabilmente quella visibile nella pianta dei camini della Galleria disegnata, appunto, da Giuseppe Ruggeri133 (fig. 14). Può darsi che l’impossibilità di far funzionare questo strumento per far arrivare l’acqua necessaria alla fonderia, sia una delle ragioni del decadimento dell’officina nel Settecento. La presenza e l’importanza della fonderia degli Uffizi pone ancora una volta l’accento sulla straordinaria natura della Galleria e sul rapporto tra botteghe, laboratori e raccolte d’arte: una prerogativa del collezionismo enciclopedico fiorentino che in origine, oltre a Francesco, aveva avuto sostenitori in Bernardo Vecchietti e Niccolò Gaddi134. La volontà di strutturare in modo razionale e geometrico la collezione come theatrum mundi, così forte e perspicua nello Studiolo 26 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 14 - Giuseppe Ruggeri, Pianta dei Camini della Galleria degli Uffizi, 1762, ASF, Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, 1973, fasc. 37
di Francesco I e già disarticolata nella dimensione aperta, ma ordinata, della Tribuna viene via via sgranandosi come un’immagine che perde definizione nel corso del Seicento e del Settecento. Alla struttura si sostituisce l’accumulo, che segue una più semplice separazione tipologica degli oggetti in armi, strumenti scientifici, idoli antichi, dipinti, medicamenti: ma la divisione non è mai netta e le categorie finiscono sempre per mescolarsi tra di loro. Con una regolare e ricorrente mise en abîme, gli oggetti delle diverse raccolte sono disposti all’interno di studioli, a loro volta chiusi in cabinets che già singolarmente assumono la dimensione di musei. Questi convivono con le botteghe e con la grande officina della fonderia e tutti insieme, quali membra di un solo corpo, compongono la figura della Galleria come fosse un gigantesco stipo135, dove, seguendo la spirale a ritroso, ogni cassetto apre la porta di un mondo. Questa continua e seducente spirale collezionistica durata circa due secoli implode a metà Settecento: ce lo dimostrano proprio le scorrerie ladronesche di Giuseppe Bianchi – perpetrate anche grazie al disordine nella disposizione e alla quantità degli oggetti – che spaziano dai minerali, ai tubi, alle cannelle, fino ai metalli pregiati e ai vasi in pietra dura e che segnano la fine di quel cosmo e l’inizio del nuovo ordine lorenese. Una storia di storie. La fonderia del granduca • 27
Tra il 1770 e il 1780 ebbe inizio il riordinamento lorenese, cfr. da ultimo Spalletti 2010. Sulle botteghe cfr. a titolo d’esempio, gli elenchi di lavoranti del 1606-7 e del 1608-12, in Collezionismo 2002, II, pp. 609-617, 637-641. 3 Sul tema della ‘spelonca’ e sulle stanze di don Antonio e Francesco, Conticelli c.s.a. 4 Collezionismo 2002, p. 73. Sui soffitti del corridoio cfr. De Luca 2012, con bibliografia e Conticelli c.s. 5 La frase è dell’ambasciatore veneto Gussoni che descrive Francesco mentre negozia affari di Stato o di giustizia al Casino di San Marco, cfr. Relazioni 1916, III, I, pp. 226, 227, cat. II.9. 6 Cfr. tra gli altri Carbonelli 1925, Secret 1973, Secret 2002-2003. 7 Lo statuto dell’alchimia nei confronti delle arti meccaniche nel Rinascimento è assai complesso. Secondo il medico svizzero Theodor Zwinger, per esempio, l’alchimia è un’arte al servizio di altre arti (oreficeria, metallurgia, arte del vetro e medicina), mentre il suo aspetto teorico è in relazione alla filosofia occulta della natura di cui essa è maestra e allieva. Zwinger sostiene che si tratta di un’arte ‘Vulcanica’ che si occupa degli elementi, vivifica il fuoco, fonde le pietre, imita le perle e le pietre preziose copiando la natura, depura i metalli separandoli e portandoli alla perfezione, produce e trasforma le piante, feconda e guarisce gli animali, essa è un’arte alimentare e terapeutica insieme. Gerolamo Cardano e Leonardo Fioravanti affermano che dall’alchimia hanno avuto origine altre arti, quali la lavorazione del vetro, la fabbricazione dei colori, l’artiglieria, la farmacopea e la distillazione, cfr. Mandosio 1990-1991, pp. 250-264. 8 In proposito di veda per esempio Piccolpasso 1976. 9 Spallanzani 1994. 10 Del Riccio 1996, p. 89; Pelli Bencivenni 1779, pp. 84, 85; Butters 1996, I, pp. 214-267; Perifano 1997, p. 57, nota 1. 11 Ivi 1997, pp. 57-58. 12 Gabriele 2008, pp. 63-64. 13 Cfr. per esempio, Van Lennep 1985, Venezia 1986, Gabriele 2008, pp. 26-40 e passim. 14 Butters 1996, I, p. 244; Perifano 1997, pp. 50-55. 15 Perifano 1997, Conticelli 2007, pp. 150-164 con bibliografia. 16 Frey 1923-1930, I, pp. 464, 466-67, lettera del 26 dicembre 1556, Piccardi 2005, pp. 198-199. 17 Vedi cat. nn. II.4, IV.3-5. 18 Lensi (1929, pp. 174-175) afferma che fino a poco tempo prima se ne potevano ancora vedere i forni, cfr. anche Piccardi 2005, p. 199. 19 Frey 1923-1930, I, pp. 502-503, 12 maggio 1558. 20 Relazioni 1916, III, I, p. 152; Collezionismo 2002, I, p. 221. Sulle fonderie di Palazzo Vecchio e del Casino cfr. Piccardi 2005 e Conticelli 2007, pp. 78, nota 11, 150-151, 324 nota 35, 325, 331-338. 21 Sulla passione di Francesco per la porcellana cfr. Spallanzani 1994, pp. 59-87. 22 Conticelli 2007, pp. 334-335, 396-397 con bibliografia. 23 Vedi cat. n. II.2. 24 Su Sisto e Sebastiano cfr. Conticelli 2006 e Conticelli 2007, pp. 334-336, 347-348, 395-400, 401-402. 25 Cfr. il celebre passo dell’ambasciatore veneto Gussoni in Relazioni 1916, III, parte I, pp. 226, 227, citato in cat. n. II.9 26 Cfr. gli ambasciatori Michiel e Tiepolo in Relazioni 1916, III, I, p. 250. 27 Il carteggio tra Francesco e questi alchimisti è pubblicato in Conticelli 2006, pp. 215, 231-251 e note. 28 Uno dei codici con le opere pseudo lulliane copiate dai “compagni” per Francesco I corrisponde assai probabilmente al BNCF, II. III. 28, (fig. 1) cfr. Conticelli 2006, pp. 266-267 e, sul manoscritto, Pereira 1989, passim. 29 Del Fante 1982, pp. 189-190, Conticelli 2006, pp. 240-241. 30 Eamon, Paheau 1984 e Eamon 1999, pp. 222-242. Secondo Butters (1996, I, p. 252) le lavagne dello Studiolo di Francesco I evocano già tale somiglianza. 1 2
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Come notato giustamente da Piccardi (2005, pp. 200-201), cfr. Buonrizzo in Relazioni 1916, III.II, p. 19. Sul trasferimento delle botteghe agli Uffizi cfr. Butters 2000, pp. 163-166. Sul Casino di San Marco, Covoni 1892 e Fara 1995, pp. 59, 294. 32 Come dimostra anche il frontespizio del Ricettario fiorentino, dove lo stemma mediceo è circondato da alambicchi, vedi cat. n. II.3. 33 Baldini 1578 p. 86. 34 Tosi 1989, pp. 238-247, lettera del 27 settembre 1577. 35 Sull’olio di contravveleno che fu uno dei rimedi più celebri della storia della fonderia cfr. Perifano 1996, pp. 53-55 e infra nota 75 e cat. II.9. 36 Sull’iconografia del dio nell’antichità Holtzmann 1981. 37 Baldini 1565, pp. 34, 70; Croissant 1990, Ripa-Maffei 2012, p. 519. 38 Ricettario fiorentino1567, pp. 81, 84, 91, cat. n. II.3. 39 Questo procedimento compare anche in un’illustrazione del manoscritto di Sisto da Norcia, cfr. BNCF, Pal. 901, c. 72 (fig. 3, cat. n. II.2). Agli angoli della volta si trovano inoltre quattro medaglioni: di cui due mostrano figure maschili che rappresentano rispettivamente Mercurio e un giovanetto nudo, senza attributi, identificabile con il Genio. Negli altri due invece compaiono Cleopatra e Lucrezia, la prima con un serpente in mano, mentre l’altra rivolge un pugnale verso di sé. Mercurio e il Genio possono considerarsi propizi alla salute, mentre le figure femminili alludono al veleno e alle ferite mortali. 40 La medaglia risale all’incirca al 1537, cfr. Pollard 1985, p. 658, Vannel, Toderi 2003, pp. 79-80. Anche Leone X aveva posto in relazione la dinastia medicea con i temi della Salute associando la propria figura con l’iconografia del Cristo Medico, cfr. Shearman 1972, pp. 15, 17, 77-78. 41 All’epoca si conoscevano i coni di Antonino Pio e di Marco Aurelio, cfr. per esempio Ripa-Maffei 2012, p. 809 con bibliografia. 42 Essa compare per esempio a Villa d’Este, cfr. Tosini 2005, p. 53, fig. 17; Occhipinti 2009, pp. 177, 184 nota 75, 382, mentre Esculapio si mostra associato alla distillazione sia nello Studiolo di Francesco I (Conticelli 2007 pp. 321-325), che nella sala del disegno di Palazzetto Zuccari a Roma, cfr. Acidini 19981999, II, pp. 202-208. 43 Fagiolo, Madonna 1972, pp. 388-389 e note; Coffin 2004, p. 41 e in generale Casina di Pio IV 2010. 44 Per un’analisi dettagliata dei temi delle volte cfr. Conticelli c. s. 45 Camerota 2008, Lamberini 1991, Galluzzi 1989, Bacci 1983. 46 Cfr. cat. n. IV.5. 47 Si noti che Geber è il nome di uno dei più importanti autori di alchimia del Medioevo arabo e fu usato per conferire autorità anche a testi anonimi latini. Cosimo I aveva assoldato molte maestranze fiamminghe e tedesche nelle sue miniere, che erano specializzate proprio nei tentativi di fusione dei minerali, cfr. Fabretti, Guidarelli 1980. 48 Così chiamata nei documenti ASF, GM, 113, cc. 103, 107v, 120v. 49 Il suo nome si ricorda anche nelle ricette della fonderia medicea raccolte da Don Antonio, BNCF, Magl. XVI, 63, III, cc. 529-705. 50 Cfr. l’incisione n. 4 di Beccafumi dove è raffigurata la coppellazione, cat. n. I.2. 51 Biringuccio 1540, 54v-59r. 52 Butters 2000, p. 145, 175 n. 20; Del Fante 1982, pp. 86-87. 53 ASF, GM 119, cc. 95r. 54 Pigafetta in Collezionismo 2002, I, p. 371, Butters 2000, pp. 145, 166. 55 Sbrana, Tongiorgi Tomasi 1980, pp. 554-555, nota 11. 56 Sul personaggio cfr. Ferguson 1906, II, pp. 450-455; Berlino 1996, Schumacher 2011. 57 Galluzzi 1982, p. 34, n. 9; Del Fante 1982, p. 86, Heikamp 1983, p. 535, nota 186. 58 BNCF, Pal., Targioni 189, IX, ff. 47-48 e Pelli Bencivenni 1779, p. 444. Il chiodo è descritto da John
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Evelyn (1664-1665), cfr. Collezionismo 2005, II, p. 700, e poi da Lassels (1670, p. 171, il cui viaggio avvenne dopo il 1635, cfr. Collezionismo 2005, I, p. 407). In seguito anche Skippon (1746, p. 650) lo nota nel 1664 e Ray nel 1663-1666 (1738, p. 286) e ancora Monconys negli stessi anni (1665-1666, I, p. 110, II, p. 477). Cfr. anche poi Lana 1670, p. 112, Pakenius 1679, c. 467. 59 Tachenio 1671, p. 177. L’oggetto era contrassegnato dal n. 2352, cfr. Heikamp 1983, p. 353, nota 186. 60 AGU, 1771, filza IV, ins. 20 e 21 maggio 1772. Fino al 1793 se ne trova traccia negli inventari del Regio Gabinetto, cfr. ASF, IRC, 5268, c. 49: “166. Un chiodo di ferro per metà dorato contrassegnato con un antico numero della guardaroba 2156”. 61 Su Niccolò Sisti cfr. Guasti 1902, pp. 371-373; Cora, Fanfani 1986, pp. 16-19, 27-39; Spallanzani 1994, pp. 64-68; Collezionismo 2002, I, pp. 414-415, 476-480; Conticelli 2007, pp. 335-337, 347-348. La maggiore importanza di Sisto si individua nel salario del 1588 quasi doppio (8 scudi), rispetto a quello di Pietro (4 e mezzo), cfr. Spallanzani 1994, p. 193. 62 Spallanzani 1994, pp. 67-68. 63 ASF, GM 112, c. 76s/d. Vi si portano anche vetri, strumenti e oggetti provenienti sia da palazzo Medici di via Larga, abituale residenza di Ferdinando a Firenze, sia da Roma cfr. ASF, GM 149, cc. 13r, 21r, 22r, 45r, 83r. 64 Inserto sciolto in ASF, GM, 463, cfr. Piccardi 2005, p. 201; l’inventario è parzialmente pubblicato in Grieco, Sandrini (1989, pp. 45-47), ma con l’erronea ubicazione della fonderia in Palazzo Pitti. 65 Tra altri testi di medicina vi si trovavano la Pirotechnia Biringuccio, il Tesauro di Euomomo Filatro di Conrad Gesner, un libretto “de rimedi secreti et stillatione” e otto carte “anno di mezo altre cose per l’archimia”, ASF, GM, 463, inserto sciolto. L’inventario descrive otto ambienti caratterizzati e soprattutto dalla presenza di utensili (strettoi, mortai, pestelli, tamburlani, imbuti, spatole) e di armadi che contenevano nasse di vestro e fiasche, 29 cassetti di droghe e erbe, oli e polveri medicinali. A quella data lo strumento principale per la distillazione era un bagno di rame con 13 bocche, c’erano poi forni sul terrazzo e bagni di rame più piccoli. Nella fonderia era compresa la stanza da letto del maestro distillatore e del suo garzone, mentre al piano superiore si conservavano strumenti d’argento, quali spatole, imbuti, orinali da distillazione, padelle e cucchiai. Tra i libri si trovava ancora qualche vestigia dei tempi di Francesco, come un erbario in folio in carta azzurra con lo stemma Medici Cappello. 66 Covoni 1892, passim, Grazzini 1983-1984, pp. 174-251, cat. nn. II.15-16. 67 BNCF, Magl. XVI, 63. 68 Cfr. Galluzzi 1982a, Grazzini 1983-1984, pp. 174-251. 69 BNCF, Targioni Tozzetti, 2, cfr. Grazzini 1983-1984, pp. 221-251. Donum dei è uno dei nomi della pietra filosofale secondo una tradizione medievale, cfr. Donum dei 1988. 70 ASF, GM 779, cc. 171v-172r; Covoni 1892, p. 173. 71 Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 126-127. 72 Cfr. Pigafetta in Collezionismo 2002, I, p. 371. 73 Nell’inventario del 1591 si citano 22 cassette, cfr. ASF, GM, 463, inserto sciolto. Le prime attestazioni risalgono forse al luglio 1588, cfr. ASF, GM 149, cc. 83r, 184r, 190v, 209v. 74 Ne venivano ordinate a migliaia, cfr. per esempio ASF, GM, 403, cc. 234r, 258r, Collezionismo 2002, I, pp. 473, 476. In un caso si cita un libretto in carta d’oro, cartapecora e nastro di seta rosso, per una cassetta destinata al papa, ASF, GM 403, c. 625r. 75 Sull’olio di controveleno, cfr. supra nota e i testi citati in note 34 e 35 e Jacopo Nardi in Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 29-30. Giacinto Talducci descrive la preparazione degli scorpioni e la posologia del medicamento, cfr. BRM, ms. Bigazzi 166, cc. 6, 37-38. 76 Cfr. per esempio ASF, GM, 183, cc. 5r, 28r; GM 124, c. 238r, GM, 403, c. 224r. 77 Sull’acquisto di erbe per la fonderia, ibidem, cc. 224r, 234r, 258r, 292r, 512r; Collezionismo 2002, pp. 475479. 30 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Cosimo II insieme a don Antonio fu l’altro sostenitore delle dottrine paracelsiane in Toscana, poiché dette rifugio e protezione a due medici scozzesi a Pisa, cfr. Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 51-52, Del Fante 1982, pp. 87, 88, Galluzzi 1982, pp. 56-58. 79 Questi gli autori di alchimia: Geber, Pseudo Lullo, Ruggero Bacone, Riccardo Anglico, Cristoforo Parigino, Carlo Pietralba, Ulstadius, Gabriele Falloppio, Leonardo Fioravanti, Giambattista della Porta, Martin Ruland, cfr. ASF, GM, 335, c. 678 r-v; e GM, 413, c. 605r, cfr. anche Piccardi 2005, p. 202. 80 ASF, GM 335, cc. 889r, 899r. L’opera era presente anche a Pisa, cfr. Sbrana, Tongiorgi 1980, pp. 555-565. 81 La tempra cagionevole di questo granduca fece sì che favorisse nuove ricerche farmaceutiche. Sui progressi della fonderia sotto Cosimo II, cfr. Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 18-19, 28-30. 82 ASF, GM 403, cc. 258r, 292r. Le opere di Quercetano si trovavano anche a Pisa, cfr. Sbrana, Tongiorgi 1980, p. 563. 83 L’opera, in cinque volumi, raccoglie i più importanti testi di alchimia dell’epoca e fu edita per la prima volta nel 1602 e poi nel 1613, essa fu acquistato nel 1624 insieme al De re metallica di Agricola, ASF, GM, 403, c. 216r. 84 Collezionismo 2005, p. 265. 85 Vedi supra note 61, 62. 86 ASF, GM, 483, 586, 626; cfr. Heikamp 1983, p. 530, nota 159; Piccardi 2005, p. 203. 87 Piccardi 2005, p. 202. 88 ASF, GM, 586, passim. Sui doni farmaceutici cfr. per esempio Pelli Bencivenni 1779, p. 209, Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 128-129; Collezionismo 2007, p. 4, nota 5, p. 279, nota 993; Collezionismo 2011, pp. 61 nota 127; pp. 356-357, 385. 89 BNCF, Pal. Serie Targioni, XI, c. 261; Redi 1778, pp. 44-45; Pelli Bencivenni 1779, p. 199. 90 Targioni Tozzetti 1780, III, pp. 126-129. 91 Baldini Giusti 2005 e Piccardi 2005a, 2007 e 2009 con bibliografia. 92 Giovanni Cinelli (1625-1706) pubblicò nel 1677 una nuova edizione delle Bellezze della città di Firenze di Achille Bocchi (1591), tuttavia alcune note restarono manoscritte, cfr. Cinelli in Heikamp 1983. Per accedere alla Fonderia (ivi, pp. 507-509) era necessario un permesso del granduca: i viaggiatori abitualmente non la potevano vedere a meno che non avessero qualche interesse scientifico. Ne trattano dunque: Fracassati in Malpighi 1669, pp. 149, 155; Breyne 1703, pp. 456-457; Labat 1731, pp. 201-202; Bianchini 1741, p. 120; Keysler 1756, I, pp. IX, X, 443. 93 Sulla strumentazione tecnica della fonderia, cfr. Piccardi 2005, pp. 207-209. 94 Lugli 2005, p. 95. 95 Il contenuto di questi armadi passò alla Spezieria di Boboli, che, dopo la dismissione della fonderia, ricevette 655 vasi di medicamenti, vedi infra appendice n. 1(ASF, IRC, 3395, 28 febbraio 1771, cc. 129v-130r). 96 Nelle spezierie si conservavano spesso rarità naturali, che non mancavano di suscitare la curiosità dei viaggiatori (cfr. per esempio Ray 1738 e Skippon 1746), la loro presenza è spesso attestata anche nella pittura fiamminga (cfr. cat. n. I.6 e Lugli 2005, pp. 86-87, fig. 118). Nelle farmacie e nei laboratori era infatti necessaria un’esperienza diretta del fenomeno naturale, e ciò in Toscana avveniva anche nella fonderia di Pisa (cfr. Pisa 1980, e Tongiorgi Tomasi 1988, p. 35). 97 Di cui si conservano alcuni elenchi scritti dallo stesso Stenone, cfr. Produzioni naturali, I, cc. 3v-4r; IV, cc. 38v-66v; Targioni Tozzetti, 1780, III, p. 80, Rodolico 1955, p. 2 nota 3, Pisa 1980, pp. 595-596, Tongiorgi Tomasi 1988, pp. 42-43; De Rosa in Firenze 1986, pp. 62-81, Cipriani 2011, pp. 4-6. Fu probabilmente lo stesso Stenone a vendere la sua collezione al granduca. 98 Gli elenchi di conchiglie stesi da Jacopo Mariani sono citati da Targioni Tozzetti (1780, III, pp. 81-83; cfr. Tosi 1989a, pp. 1029-1030). Queste conchiglie sono illustrate da Buonanni nel Musaeum Kircherianum (1709, pp. 405-406) e, in alcuni casi, anche da Rumph (1705), come indicato da Targioni Tozzetti in
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Produzioni naturali I, cc. 18-23. Sulla tavola 49 (fig. 9) cfr. ivi, c. 21. Heikamp (1983, pp. 531-532, note 159-162) sostiene che i più celebri naturalia della Galleria quali l’ippopotamo, l’alce e l’elefante fossero tutti nella fonderia, ma ciò non è dimostrabile. L’unico elemento certo è che la pelle d’elefante si trovava nella stanza dei vetrai dalla quale si accedeva alla fonderia (fig. 10) e che l’ippopotamo nel 1739 era già nella stanza dell’Arsenale. Inoltre Targioni nel 1763 descrive le “produzioni” ancora conservate in fonderia, come non catalogate (cfr. Produzioni naturali, I, cc. 194-195; III, c. 285). Invece per quanto riguarda la presenza di naturalia nella spezieria di Boboli, l’inventario del 1678 cita un unico grande coccodrillo che regge uno stemma mediceo con le palle di vetro e due corni di rinoceronte (ASF, GM, 779, c. 952v). Nell’inventario del 1732 si nota qualche animale in più, ma in quantità sempre inferiore a quella della fonderia (ASF, GM, 1379, c. 8v). 100 Penso soprattutto alla raccolta rumphiana. Si noti che nel 1749 si gettarono via tra gli scarti un considerevole gruppo di circa un centinaio di conchiglie di diverse dimensioni (ASF, IRC 3390, c. 115v). 101 Piccardi 2005, pp. 204-205. 102 Breyne fu corrispondente della Royal Society di Londra e descrisse, in una lettera inviata a Hans Sloane, animali con due teste (Breyne 1703, pp. 456-457), conservati in fonderia. Sull’officina sotto Cosimo III cfr. anche Bianchini 1741 in cat. n. II.20 e Collezionismo 2011, p. 273, nota 722. 103 Martelli 1903, Van Veen, Mc Cormick 1985, p. 36 nota 338 con bibliografia, Tosi 1989a, p. 1031, nota 9 con bibliografia; Rumph 1999. 104 Heikamp 1983, pp. 480-481; Barocchi-Gaeta Bertelà 1990. Sulle sue descrizioni della Galleria, Barocchi, Gaeta Bertelà 1986 e Bocci 1994. 105 BU, ms. 20, c. 95: “Nicchi. Stanza delle cose naturali […] Avanti il 1716 questa collezione era ricchissima e Cosimo terzo avea fatto fare espressamente una stanza per ordinarli quale stanza è quella che oggi si chiama de’ vetrai”; c.113r “stanza detta de vetrai questa è quella stanza creata da Cosimo III per distendervi le cose naturali”. 106 Vedi supra. 107 BU, ms. 67, c. 85r-v, “la stanza de vetrai era destinata per la collezione di disegni del cardinale Leopoldo e le mura doveano essere coperte da disegni”, 119r, pp. 228-230. 108 Per l’Arsenale e i Nicchi, cfr. BU, ms. 67, cc. 112-114, ms. 20, c. 94. 109 BU, ms. 20, c. 191: “scrigno composto di legni orientali commessi di [diversi] colori. Legni che hanno la proprietà che quando più invecchiano induriscono perché son questi non ne […] Il piano che regge questo stipo è fatto di legno italiano ed è tutto tarme. Questo e di un olandese morto 1727”. Nel grafico delle pareti che accompagna la descrizione della stanza (stipi n. IV)l’oggetto è descritto come: “legni orientali commessi di olandese”. 110 Piccardi 2005, p. 205. 111 Heikamp 1983, pp. 508-509, nota 163. 112 Targioni Tozzetti 1780, I, p. 353; III, pp. 18-19, 29-30, 166-173. Nel regolamento della fonderia del 1633, Nardi sembra avere il ruolo di soprintendente, cfr. ASF, GM, 403, c. 120r. 113 Nardi 1647, pp. 633, 639. 114 Whitehouse 1992, pp. 66-67; Lumbroso 1876, p. 233. 115 Coppin 1686, pp. 181-182. 116 Giovanni Nardi a Cassiano dal Pozzo in Lumbroso 1876, p. 232. Secondo Coppin (1686, p. 182), Bertier “se retira avec toutes ses raretes chez le granduc de Toscane qui lui donnoit une pension de 200 ducats ou j’ai sceu depuis qu’il mourut peu d’année après”. 117 Schnapper 1988 pp. 96-97; Ruggeri Tricoli 2004, pp. 386-387; Ricettario 1567, p. 50. 118 Una mumia paracelsii è citata nell’elenco di medicamenti appartenuti a don Antonio che Ferdinando II invio alla fonderia degli Uffizi, vedi nota n. 70 e Grazzini 1983-1984, p. 181. 119 Vedi appendice, n. 1. Sulle mummie, cfr. Del Francia 2001. 99
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Per il Reale Gabinetto di Fisica e Storia Naturale: come si apprende da una lettera di Raimondo Cocchi, Fontana avrebbe voluto trasportarvi tutte le mummie, cfr. Fileti Mazza, Tomasello 1999, p. 25. Negli inventari del Reale Gabinetto del 1792-1793 si elencano sommariamente le antichità egiziane: due mummie si trovano nel terzo “stanzone degli animali grossi”, mentre “quattro rottami di mummia egiziana” sono collocati nella prima stanza, cfr. AMSN, Sezione di Zoologia, Regno Animale. Stanzoni di Animali grossi, f. 7, n. 250; Regno Animale. Stanza I dopo la Galleria, f. 58. 121 In un elenco datato 1802-1803, si menzionano la “cassa di mummia di sicomoro che rappresenta a basso rilievo una testa umana ornata alla maniera egiziana”, due “mummie egizie” e due “mummie egizie minori”, per un totale di due mummie di adulti e di due mummie di giovani: una quantità identica a quella dei corpi imbalsamati usciti dalla fonderia nel 1771 (Ivi, Appendice XII all’Inventario generale del Regio Museo per l’anno 1802-1803, ff. 1-2). La mummia che era dentro al sarcofago di sicomoro è ora probabilmente compresa nel gruppo delle due “Mumia Aegyptia”, mentre quelle di giovani sembrano corrispondere alle due mummie di ragazzi dell’inventario di fonderia, vedi appendice 1. Nel 1843 (ivi, Catalogo dell’Antropologia e della Zootomia 1843, nn. 537-541) ritroviamo due “mummie egizie minori” con il n. 535 e due “mummie egizie” (una giovane e una adulta aperta per metà) con i nn. 537, 538: questi corpi insieme al sarcofago di sicomoro (n. 541: “cassa da mummia fatta di sicomoro con testa umana a bassorilievo ornata alla maniera egiziana”) vengono inviati ‘per studio’ al professor Mantegazza nel 1873. 122 ASSBAT, Museo Egizio inserto III, Carteggio della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze, dal 1879 al 1890, sottoinserto 3, 1881, fascicolo 7; sottoinserto 5, 1883, fascicolo 7; sotto inserto 6, 1884, fascicolo 1. Altri documenti in ASMA, Carteggio del Museo di Antropologia e etnologia, Verbali di trasferimento di consegna e di ritiro, 1. 2-7. L’accordo tra Mantegazza e Schiapparelli fu raggiunto con l’acquisto da parte del ministero della collezione Bove per il Museo di Antropologico e con la cessione da parte dell’archeologico di 2 scheletri. Infine, nel 1974 altri reperti del museo antropologico tornarono nelle collezioni archeologiche fiorentine tra i quali la mummia aperta per metà proveniente, come notava del Francia (2001), dalla Specola (dove nell’inventario del 1803 aveva il n. 538) e che corrisponde con ogni probabilità ad una di quelle provenienti dagli Uffizi, forse proprio a quella del sarcofago di sicomoro. Infatti anche la datazione e il sesso della mummia paiono coerenti col sarcofago (vedi cat. n. IV.10) 123 Sul processo cfr. Heikamp 1983, pp. 480-481 e Barocchi, Gaeta Bertelà 1990. 124 Cfr. anche Heikamp 1983, p. 530, nota 159. 125 Vedi appendice n. 2. 126 ASF, Supremo tribunale di giustizia, archivio segreto 2209, c. 258v. 127 Neri 1886; Fara 1988, pp. 204-207; Fara 1995, pp. 24-27. Ringrazio Amelio Fara per le sue preziose indicazioni su questo argomento. 128 Cfr. Borghini 1584, p. 501, Fara 1988, p. 206, Fara 1995, p. 24. 129 Mellini 1583 e BNCF, Rari. Postill. 131. Si noti che in Galleria diverse macchine idrauliche di Buontalenti furono dipinte da Giulio Parigi nello Stanzino delle matematiche, cfr. nota n. 45 130 Nella descrizione dello strumento, Giuseppe Bianchi non è in grado di ricordare quale fosse la forza che spingeva su l’acqua (vedi appendice n. 2) e ciò potrebbe forse indicare che fosse un salto d’acqua a mettere in azione il meccanismo. 131 Cfr. per esempio Firenze 1996, 25-37, pp. 136-140, Milano 1991. 132 Ne resta traccia in alcuni condotti rintracciati di recenti in ambienti posti sull’ala del Lungarno Archibusieri, cfr. Godoli 2005. 133 Cfr. Funis in Firenze 2011. 134 Borghini 1584, p. 14; Ruggeri Tricoli 2004, pp. 394-395. 135 Sul museo-armadio cfr. Lugli 2005, p. 99. 120
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Il laboratorio Gaspare Baggieri
Le tecniche
Farmacia portatile della fonderia del granduca (cat. n. II.20)
Per comprendere le pratiche di un laboratorio alchemico e farmaceutico in epoca moderna facciamo riferimento al trattato di Antonio de Sgobbis da Montagnana del 1667 (riportato in Conci 1934, p. 139), che descrive le principali tecniche cui le sostanze venivano sottoposte: la triturazione, che, a seconda del prodotto che si voleva ottenere, era distinta nei trattamenti di levigazione, sezione, rasione, limazione, cribrazione, frizione, despumazione, chiarificazione, colazione, svaporizzazione, coagulazione, cristallizzazione; l’imbibizione a sua volta corredata da specifiche applicazioni quali la nutrizione, la conditura, l’aromatizzazione, la colorazione, l’amollizione, la condurazione; la distillazione praticata col metodo dell’ascenso – se destinata alla filtrazione di erbe, di aromi, di semi, del miele – oppure per descenso – se finalizzata alla distillazione di legni secchi, guaiaco, ginepro, bosso, cedro –; e ancora col metodo lato (detto anche per inclinazione), che veniva utilizzato per distillare i legni, i grassi, le ossa, il sangue, le resine, le gomme etc., ricorrendo alla filtrazione, alla rettificazione o alla coobazione, tecniche adottate per isolare le essenze, le tinture e gli spiriti; la circolazione, altra variante della distillazione, forse la più importante, sottoponeva due sostanze al calore per farle evaporare e subito dopo condensare, procedimento che durava quaranta giorni e dal quale si sperava di ottenere la quinta. Con la pratica della sublimazione invece, si preparavano i sali mercuriali. La pratica dell’estrazione era mediata da diverse procedure (espressione, lozione, umettazione, dissoluzione, deliquio, liquazione, macerazione, infusione, fermentazione, putrefazione, digestione, cozione, elissazione, assazione); e altrettanto quella della calcinazione (cinefazione, reverberazione, calcinazione fusoria, calcinazione immersoria o precipitazione, calcinazione illinitoria, calcinazione vaporosa, fumigazione, amalgamazione, combustione, torrefazione, estinzione). Calcinare aveva preciso intento di togliere l’acqua o l’umidità da un materiale e renderlo polveroso. Per questo motivo si ricorreva al fuoco naturale o al fuoco potenziale. La calcinazione a fuoco naturale era conosciuta fin dall’antichità, la cinefazione rendeva in cenere le droghe che potevano derivare dai minerali dai vegetali e dagli animali. La cenere, miscelata ad acqua, e successivamente filtrata e purificata, nonché fatta evaporare, lasciava depositati sul fondo del recipiente i sali delle originarie sostanze. L’incinerazione vera e propria, invece, avveniva a fuoco scoperto. La riverberazione, altra procedura per rendere i metalli polvere, utilizzava fornelli particolari. Mentre la fusione si riconduceva alla calcinazione fusoria, che si protraeva sino a quando il metallo non era liquefatto. Diversa era la calcinazione a immersione o corrosione che, anziché il fuoco, utilizzava acidi (cloridrico, nitrico, solforico) o reagenti (acqua ragia, olio di tartaro), che sciogliendo i metalli lasciavano sul fondo
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i sali residui. La calcinazione illisoria prevedeva l’aggressione acida a delle lamine metalliche, le quali incrostate nel tempo venivano lavate e sottoposte nuovamente agli acidi. Le preziose incrostazioni erano quindi recuperate dopo evaporazione dell’acqua. La calcinazione vaporosa prevedeva che i metalli fossero sottoposti ai propri vapori. La fumigazione dei metalli avveniva necessariamente dai vapori di mercurio, assumendo così la caratteristica amalgamazione. La combustione consisteva nel bruciare un corpo senza arrivare all’incinerazione. La torrefazione rendeva, con una quantità di calore moderata, l’essiccazione della sostanza, consentendo di procedere con più facilità all’influenza dei propri vapori e all’eventuale triturazione-macinazione oppure aveva la funzione di attenuare i principi attivi delle sostanze (Conci 1934, pp. 141-144).
Di alcune attrezzature Una fonderia attiva tra il XVI-XVII secolo disponeva di strumenti che rimarranno in uso anche nei secoli successivi, ma che avevano un’origine antica, soprattutto romana e altomedievale. Primo fra tutti era il mortaio che poteva essere un recipiente in pietra, legno, vetro, marmo, porfido, agata, granito, serpentino, piombo, ferro, stagno, porcellana o bronzo. Per la macinazione (fig. 1) si utilizzavano anche lastre circolari in porfido delle quali una sola ruotava, la macinella, imprimendo un’elevata compressione tale da polverizzare la sostanza. La frittura (fig. 2), invece, avveniva per mezzo di padelle e di tegami, mentre l’arrostimento veniva praticato su graticole 36 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 1 - Antonio Tempesta, Macinazione delle sostanze medicinali, 1580-1581, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio di Levante, affresco della volta 13, dettaglio Fig. 2 - Antonio Tempesta, Frittura di sostanze medicinali, 1580-1581, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio di Levante, affresco della volta 13, dettaglio
e schidioni. La colatura si avvaleva di tessuti di lana, lino, canapa che, trattenendo le impurità, lasciavano colare il liquido depurato. Per la filtrazione si ricorreva alla carta, alla bambagia, o alla spugna, adattate agli imbuti, con annesso separatorio (boccia fiorentina) che divideva la parte pulita dei liquidi distillati e dalle essenze galleggianti. Successivamente, la filtrazione avveniva attraverso un collegamento di tessuto tra due storte che, imbibito della sostanza, faceva transitare e filtrare la sostanza stessa per capillarità (Conci 1934, pp. 134-144). I fornelli, di svariate tipologie, erano il fulcro delle attrezzature in dotazione. Le loro dimensioni e le loro caratteristiche di adattabilità esercitavano nella pratica della fusione e della distillazione le fasi più articolate e di maggior sollecitazione dei recipienti utilizzati. Due tipologie sono fondamentali nella fonderia: il fornello riverberatore e il fornello filosofico o athanor (Conci 1934, p. 189). Nei fornelli venivano a collocarsi, il kerotachis, (una sorta di adattatore) per l’alloggio delle cucurbite, delle fiale, delle vesciche, degli lambicchi, o fiasche, del serpentino con rostro, di campane o capitelli: e secondo le sostanze da manipolare, con l’aggiunta di raccordi si potevano creare collegamenti con ulteriori recipienti o sistemi in grado di integrarsi per sviluppare un sistema più efficace. Uno di questi era la botte piena d’acqua dove il serpentino transitava immerso, fungendo così da refrigerante consentendo una più rapida condensazione del vapore. La storta che presentava il tubo flesso in uscita si collegava alla campana che conteneva la sostanza da distillare attraverso un apposito rubinetto d’ingresso. Una variante di fornello era costituita dalla botte con all’interno del letame, combustibile che una volta in accensione produceva calore controllato per riscaldare i vasi affusolati, le ampolle o i bulbi poggiati su un treppiede per consentire una più agile manipolazione. Per la preparazione delle dosi era utilizzata la bilancia, di piccole e grandi dimensioni. In aggiunta all’attrezzatura base, vanno ricordati tutti quegli strumenti manuali, come grattugie, spatole, bisturi, mestoli, mestoli misuratori, cucchiai dosatori, specilli, pestelli, raschiatoi, tenaglie, forbici, lime, pentole, stufe, siringoni, mantici, otturatori, e tanti altri ancora che agevolavano la pratica manuale (Conci 1934, pp. 186-189).
Le ricette Le ricette che fanno parte del corredo della farmacia portatile del Museo storico nazionale di Storia dell’arte Sanitaria (Roma, cat. n. II.20), provenienti dalla fonderia di Ferdinando II de’ Medici, sono un’esclusiva rarità che testimonia la specificità d’uso di ciascun medicamento. Questi foglietti illustrativi rendono straordinariamente chiara ed evidente la condizione di alcune delle malattie diffuse all’epoca. Dalla ricetta dell’elixervite, si apprende che la medicina era destinata a rafforzare l’organismo come tonico, ma anche che era ritenuta utile o per i frequenti disturbi dovuti alla renella o gastrici, per il cuore (in questo caso appoggiando sul torace delle pezzette imbibite), o instillando alcune gocce nelle orecchie. Di conseguenza, variando le dosi e aggiungendo acqua, vino, miele o altri sciroppi, si generava un utilizzo molteplice, in base ai disturbi manifestati. Niente di meglio per curare gli sputi [espettorati] di sangue, o le febbri maligne, le dissenterie o gli avvelenamenti, della terra sigillata. Questa poi, distribuita in pastiglie (vedi cat. n. II.21), poteva essere ingoiata, sciolta in acqua o nel vino, oppure assimilata sotto forma Il Laboratorio • 37
di polvere di pappa. Per gli avvelenamenti era indicata polvere di contro i veleni, che ingerita provocava il vomito immediato. Se questo effetto questo non accadeva, occorreva proteggere le parti non corrose ingerendo strutto, olio comune, orzate. Mentre per la nausea, il vomito, o migliorare la digestione o riavere l’appetito e contro le dissenterie l’olio di stomaco era ideale, da sei a otto gocce con dieci gocce di elixervite, si riscaldava e si ungeva la pelle dell’addome adagiando un panno caldo, e gli erano attribuite anche proprietà cardiotoniche. Per le ferite o tutte le lesioni a carico della cute, quali ulcere, fistole, bubboni, piaghe, orticarie, scottature, si ricorreva al balsamo Innocenziano al quale erano attribuite virtù miracolose nel recupero e nella cicatrizzazione delle ferite cutanee. Era un rimedio valido anche nel caso di emorroidi o di infiammazioni di gengive e di carie di denti. Sulla ferita andava versato il balsamo; a seconda della grandezza e della gravità della lesione, erano poste poche gocce o si praticavano dei veri e propri bagni a immersione nel farmaco con tanto di medicazione attraverso bombace (garze), queste erano poi inzuppate del medicamento e avvolte poi da altre asciutte. Inoltre, era fatto divieto di bagnare prima la ferita con vino o con acqua, perché il balsamo sarebbe andato incontro ad agglutinazione. La polvere da renella veniva somministrata per curare i calcoli renali, e andava sciolta in un bicchiere colmo di vino, lontano dai pasti e presa più volte. L’acqua da colica, utile nei dolori colici era somministrata come purgante nella dose di due dramme in vino o acqua. Il balsamo o olio per le ferite, da somministrare per sanare le ferite e calmare i dolori, andava applicato caldo sulla lesione dopo averla lavata con vino tiepido, adagiando successivamente una pezza di lino bagnata di olio, ed ancora pezze asciutte per coprire. L’olio di spasimo per eliminare le convulsioni o i dolori dei nervi, era somministrato caldo, umettando intorno alla ferita, oppure detergendo il torace contro il freddo e il catarro. Il giulebbe perlato, contro le febbri maligne e per il cuore, era sciolto versandolo nel brodo o nello sciroppo o in acqua cordiale da 20 a 40 gocce. Contro le dissenterie, le perdite di sangue, e nei mestrui copiosi si ricorreva alla tintura di corallo, 12-15 gocce in 2 once di vino di melograno. Acqua da petecchie era somministrata contro la peste e i veleni, unita a brodo di pollo senza grassi e se necessario con polvere di terra sigillata. Il balsamo o unguento per percosse o ammaccature, da spalmare umettando i gonfiori da trauma, leniva i dolori da contusione. L’olio o balsamo per bachi, medicamento per bocca, era utile contro i vermi allo stomaco, ma utilizzato anche contro le morsicature degli scorpioni. Nei fanciulli, andava somministrato umettando le narici, la fontanella dello stomaco e l’ombelico. Il modo di fare liquore per dissenteria, per fermare le emorragie, la gonorrea, i mestrui era distribuito da 8 a 10 gocce in 2 once di vino di melograno. Nelle avvertenze era annotato di prestare attenzione a prenderlo solo dopo il quarto giorno dai flussi.
Mummia farmaceutica Nella fonderia degli Uffizi si conservavano alcune mummie egizie (cat. n. IV.10) e la mummia è attestata come ingrediente per medicamenti nella farmacia rinascimentale. La mumia era un estratto del cadavere imbalsamato, resinoso, nero e lucente, e aveva un sapore amaro e odo38 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
roso. Nel complesso si trattava di parti di cute miscelate a essenze aromatiche (Benedicenti 1947, p. 298, Donzelli 1704, p. 480). I medicamenti di mummia più pregiati e destinati a una ristretta élite erano quelli della mumia egizia, invece per fasce meno abbienti era utilizzata la mumia officinale. Non solo, esisteva anche la mummia artificiale o chimica, preparata con le carni di un uomo perito di morte violenta (G.B. Capello, Trattato delle Droghe, in Lessico FarmaceuticoChimico, Venezia 1775 citato in Conci 1934, p. 93). Inoltre nel XVII secolo era diffuso il liquore di mummia, miscelato con vino, olio di oliva e d’iperico, che assumeva il nome di Balsamico di Cristo, ritenuto utile ricostituente che, pure veniva preparato con carne di uomo, giovane e sano, morto in modo violento. Per la cura dei dolori ossei e articolari, si ricorreva alla polvere di ossa di mummia, in svariati casi estratta specificatamente in corrispondenza delle parti da curare. Per i dolori della testa, ad esempio contro l’epilessia, erano privilegiate le ossa craniche, per i dolori alle gambe le ossa tibiali o del perone, per i dolori della coscia si ricorreva all’osso del femore e così via. Le ossa craniche venivano raspate, triturate e miscelate con sostanze vegetali, acque, estratti di animali ecc. Infine Giulio Conci (Conci 1934, p. 93), ci informa che in un listino prezzi di preparati farmaceutici del XX secolo in uso a Vienna, si rintraccia ancora la Mummia artificialis pulv. (Corone 5,75 al kg), Mummia vera tota (Corone 30), Mummia vera subtil. pulver (Corone 40).
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Le produzioni naturali della fonderia medicea: dalla Wunderkammer al Museo illuminista Fausto Barbagli
Tra i fenomeni culturali che caratterizzarono il Cinquecento, quello del collezionismo di curiosità naturali è senz’altro uno dei più affascinanti. Anche i Medici a Firenze si dedicarono a questa pratica formando, nel tempo, ricche e pregiate serie di naturalia e di mirabilia, che trovarono collocazione in diversi stabilimenti granducali dei quali la fonderia fu uno dei principali per qualità, singolarità e pregio degli oggetti che vi si radunarono. Il momento in cui essa ebbe origine coincise con l’alba della stagione delle Wunderkammern e della ampia trattatistica sulla storia naturale: due fenomeni strettamente correlati con artefici in buona parte comuni. Furono infatti operosi eruditi, tra i quali Conrad Gesner, Ulisse Aldrovandi, Ferrante Imperato, Ole Worm, che, prendendo le mosse dallo studio di Aristotele, Dioscoride, Plinio e di altri classici, ne compendiarono i contenuti con molteplici informazioni e scoperte, frutto della personale osservazione resa possibile dall’attività collezionistica. Nel Cinquecento e nel Seicento fiorirono in tutta Europa numerose “camere delle meraviglie”, progenitrici dei futuri musei, ma appannaggio solo di facoltose personalità del clero, della cultura e della vita politica del tempo. In poche stanze, lontano dalla vista della gente comune, venivano raccolti e ordinati, in appositi arredi o appesi al soffitto e alle pareti, produzioni naturali e cimeli esotici a fianco di curiosi artefatti e oggetti artistici (Violani e Barbagli 1999, p. 13). Un suggestivo quadro degli intriganti allestimenti che caratterizzavano questi luoghi è dato dalle straordinarie vedute che adornano le descrizioni delle raccolte di Ferrante Imperato a Napoli (Imperato 1599), Basilio Besler a Norimberga (Besler 1616), Francesco Calzolari a Verona (Ceruti e Chiocco 1622), Ole Worm a Copenaghen (Worm 1655), Manfredo Settala a Milano (Terzago e Scarabelli 1666) (fig. 5), Ferdinando Cospi a Bologna (Legati, 1677) e Atanasio Kircher a Roma (Kircher 1678). Esemplificativo per la comprensione della multiforme natura e provenienza degli oggetti che si ammassavano in questi luoghi è l’“Inventario et descrizione somaria dello Studio et Museo del già eccell.mo sig.re Ulisse Aldrovandi” redatto nel 1610, cinque anni dopo la morte del naturalista bolognese. Esso riporta: “Nel vestibulo in capo alle scale, voltando a man sinistra si trovano alcuna ossa di ballena et d’altri monstri marini, […]. A mano sinistra poi della saletta si entra nel Museo, che guarda a mezodì sopra il cortile, stanza bislonga con scaffe et armarii pieni, et sotto, et sopra diverse, et infinite pietre, pesci, animali, et altre cose naturali et minerali, distinte et regolatamente collocate secondo l’ordine et descrittione degli inventarii et repertorii del medesimo signor Aldrovando esistenti nelle infrascritte librerie […]”. Tra i materiali disposti negli arredi figurano poi: “Una ramma grande di Corallo rosso con sua matrice […] un corallo bianco fungoso falso da Genovesi chiamato dente di vecchia […] Porfido con machie di color 41
viola […] Alabastro codognino in forma di pera […] Idolo Indiano in figura di maschera […]Due lucerne antiche di figura rotonda […] capo del castoro […] Due sorci esicati […] Denti maxilari dell’elefante petrificati [etc]”. Tra gli oggetti appesi alle pareti e al soffitto: “Due case grandi di testudine marina […] Vitello con duoi capi […] Un cocodrilo grande con la su tavola dove sta sopra […] Un quadro con un ritratto d’una donna todescha barbuta […] un galo mostrifico con 3 piedi [etc.]” (Scappini e Torricelli 1993, p. 93). Grazie ad alcuni passi della descrizione che Giovanni Cinelli dà della fonderia nel 1677, è facile comprendere come la raccolta di naturalia presenti in essa fosse perfettamente assimilabile a quelle delle coeve Wunderkammern: “Sono gli armari nel sommo di questa come dell’altre due stanze di vari scherzi naturali ornati, come molti corni di rinoceronte, ovi di struzzo, varie bertucce, e scimmiotti dalle lor custodie di cristallo coperti, paoni, iene odorate, e diverse sorte di pesci fra gli quali è curiosissima una mano d’una serena; varie cose impietrite, con più branchie di lapis spongia, coralli e bianchi e rossi similmente si veggono […]”. E ancora: “Usciti da questa in un’altra si giunge tutta di pesci stravaganti e rari, con cose impietrite ornata. Nelle due testate son due mummie per ciascheduna, quelle da mano manca entrando son cadaveri interi a diacere […]” (Heikamp 1983, p. 508). Pur elencando un’ampia gamma di reperti, Cinelli non fornisce mai indicazioni sulle modalità conservative e, a differenza di molti che descrissero gabinetti di curiosità, non specifica mai se gli oggetti fossero essiccati o preparati diversamente. Sebbene ancora scarsamente diffusa, stava entrando in uso in quegli anni la preservazione in liquido mediante l’utilizzo del cosiddetto “spirito di vino”. Si ritiene che il primo a utilizzare questa modalità sia stato Robert Boyle tra il 1660 e il 1662, ma tra i più precoci utilizzatori figura anche l’olandese Ian Swammerdam (Duris e Gohau 1999, p. 14). Poiché è documentato che quest’ultimo ebbe diretti contatti con Cosimo III e che il Granduca assistè personalmente a suoi esperimenti, assume un significato particolare un disegno, tratto dalla volta dedicata alla Medicina nel terzo corridoio degli Uffizi. L’affresco originale da cui è ricavato risale al 1675 ed è andato distrutto in un incendio, ma la sua riproduzione permette di notare la presenza di alcuni vasi patologici in vetro, dove si distinguono chiaramente dei serpenti e dove l’aspetto della chiusura è compatibile con quelle usate nelle prime preparazioni in liquido. Non possiamo avere la certezza che siano esemplari immersi in alcol, perché potrebbe anche trattarsi di vipere vive, dal momento che spesso questi rettili erano mantenuti in cattività per produrre la teriaca, un diffuso quanto rinomato medicamento dalle presunte virtù miracolose, facilmente associabile anch’esso alla professione medica del tempo. Le coincidenze storiche e cronologiche sopra esposte, tuttavia, invitano ad approfondire l’argomento, dal momento che non esistono raffigurazioni di preparati in alcol antecedenti al 1706, anno in cui fu pubblicata la descrizione del Museo di Vincent Levin, corredata di eleganti incisioni che raffigurano armadi carichi di vasi contenenti preparati zoologici in alcol di ogni genere (Levin 1706). Ad ogni modo la presenza in fonderia di campioni in spirito è testimoniata per lo meno sin dal 1703, quando il medico e viaggiatore tedesco Johanne Philip Bryene vi osservò alcuni esemplari teratologici: “Praeter hoc laboratorium Florenitae quoq; habetur M. Ducis Pharmacopoeia, in qua inter rariora Monstrosi aliquod foetus in Spiritu Vini servati, ut Lepus octipes, Caniculus biceps, Caniculus monophtalmos in fronte, & alii mihi demonstrabatur.” (Bryene 1703, p. 456) (fig. a p. 38 e fig. 1). 42 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 1 - Veduta del Museo di Vincent Levin, in V. Levin, Wondertooneel der Natuur […], Amsterdam 1706-1715
Dalla descrizione del Cinelli emerge il valore prettamente documentario degli oggetti naturalistici e la mancanza di collegamento dei reperti esposti sopra gli armadi con le attività laboratoriali che vi si conducevano, probabilmente anche su cose di identica natura. Sebbene fatta per sommi capi, anche l’enumerazione degli oggetti ci permette di riscontrare numerose corrispondenze con le già ricordate testimonianze verbali e non verbali relative a stanze delle meraviglie, ma balza all’occhio fra le diciture molto generiche quella precisa di “iene odorate”. Si riferiscono allo zibetto, un mammifero della famiglia dei Viverridi dalle cui ghiandole perianali viene estratta l’omonima sostanza odorosa impiegata in profumeria. A proposito della popolarità di questo animale, Carlo Taglini narra che il Granduca Cosimo III e il fratello cardinale Francesco Maria profondevano abbondanti mezzi per assicurare grandi quantità di questa sostanza per la fonderia. A detta dello stesso, a Firenze non vi era Cavaliere, Dama o persona di buongusto che non portasse addosso guanti odorosi, pelli muschiate o vasetti di zibetto, e a suo dire tali desideri sarebbero stati il motivo del fiorire a Firenze e in Italia di numerose fonderie (Taglini 1747, p. 253). Gli zibetti erano anche allevati nei serragli granducali per “antico e real costume”, come testimonia Francesco Redi che vi aveva condotto osservazioni sui parassiti cutanei (Redi 1668, p. 205). Inoltre un individuo di questa specie, evidentemente ritratto vivente dal vero, è raffigurato in un disegno di ambito di Jacopo Ligozzi che si conserva presso il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi (fig. 4). Le produzioni naturali della fonderia Medicea • 43
Nel febbraio 1771, “due pelli ripiene di Gatti di Zibetto interi, con coda lunga entro due Custodie di Noce, alte B.a 1 larghe B.a 2 con tre facce di vetri per ciascuna, con mensolatura sotto” (vedi appendice, n. 1), erano ancora presenti in fonderia e furono passate alla Real Galleria. Stando alla testimonianza di Ottaviano Targioni Tozzetti, tuttavia lo stato di conservazione non doveva essere buono: “Si vedevano nelle stanze dell’antica fonderia, due di questi animali impagliati, ma che avevano perduto il pelo (Ciampi 1833, p. 129). La fonderia contribuì anche alle ricerche sperimentali di Francesco Redi, che ne fu sovrintendente, ma non per i rari reperti naturalistici che ospitava, bensì grazie ai prodotti che vi si realizzavano e che erano impiegati dallo scienziato aretino per i suoi esperimenti sui lombrichi (Redi 1684, p. 100). In particolare Redi faceva uso dell’olio da bachi e dell’olio contro veleni, quest’ultimo forse uno dei medicamenti più noti anche ben oltre i confini del Granducato. Per ricavare il prezioso preparato venivano fatti macerare, in olio ed essenze vegetali, alcuni scorpioni vivi. Tali artropodi erano importati in grandi quantità e ne veniva fatto a Firenze un larghissimo uso, stimato dal Redi stesso in oltre 400 libbre all’anno (Piccardi 2005, p. 207). Poco dopo la sua ascesa al trono, nel 1766, Pietro Leopoldo di Lorena nominò il naturalista trentino Felice Fontana Fisico di S.A.R il Granduca di Toscana e Soprintendente dei Reali Gabinetti di Fisica, con l’ordine di prendere in custodia “tutti gli strumenti di fisica e matematica che si trovano nella Reale Guardaroba, Galleria, Palazzo de’ Pitti ed in qualunque altro luogo”. Di lì a pochi anni, nel 1771, lo stesso ordine fu dato relativamente agli oggetti pertinenti la storia naturale (Contardi 2009, p. 20). 44 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 2 - Collezione zoologica francese della prima metà Settecento con preparati in alcol, in E. F. Gersaint, Catalogue Raisonne D’Une Collection Considérable De Diverses Curiosités En Tous Genres, Contenues Dans Les Cabinets De Feu M. Bonnier De La Mosson, Paris 1744
Fig. 3 - Manucodiata seu avis paradisea: l’uccello del Paradiso, collezione di tavole di Ulisse Aldrovandi, seconda metà del XVI secolo, BUB, Ulisse Aldrovandi, Tavole di animali, vol. II, c. 67 Fig. 4 - Ambito di Jacopo Ligozzi, Zibetto, seconda metà del XVI secolo, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Orn. 2002
Il compito affidato a Fontana di prendere in carico e organizzare tutti gli strumenti scientifici e le collezioni naturalistiche fino ad allora dispersi nei vari stabilimenti granducali fu il primo passo verso la fondazione dell’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, che ebbe luogo nel contesto di un progetto illuministico di acculturazione popolare. L’idea traeva ispirazione dalla “Nuova Atlantide”, un racconto incompiuto di Francesco Bacone, pubblicato postumo nel 1627. In esso un’utopistica comunità vive sotto la guida di scienziati che si avvalgono del proprio sapere, costantemente in crescita, per sviluppare una società ideale. Contribuiscono al progresso anche 12 “Mercanti di Luce”, ossia viaggiatori che da tutto il mondo riportano oggetti, libri e notizie tecniche, riponendoli nella “Casa di Salomone”, il luogo dove si conserva tutto ciò che è relativo al sapere (Bacone 1627). Quello che l’I.R. Museo di Fisica e Storia Naturale doveva incarnare era proprio l’ideale della casa di Salomone, e quindi il palazzo dove radunare i reperti e le testimonianze relative a tutte le scienze (Contardi 2002, p. XI). Nel 1771, per dare una sede alla nuova istituzione, il Granduca acquistò e fece ristrutturare Palazzo Torrigiani in Via Romana, sul quale venne innalzato il Torrino per l’osservatorio astronomico. Tra gli oggetti che formarono il nucleo originario c’erano quelli appartenuti a Galileo Galilei e ai suoi allievi e gli apparati scientifici dell’Accademia del Cimento. Tra le collezioni naturalistiche spiccavano quelle di Niccolò Stenone e Giorgio Everardo Rumph. La prima, a carattere mineralogico, conteneva i campioni che erano serviti allo stesso Stenone per le sue osLe produzioni naturali della fonderia Medicea • 45
servazioni sugli angoli diedri a cui può essere ricondotta la nascita della cristallografia; la seconda, quasi completamente zoologica e botanica, era famosa in tutta Europa come testimonianza naturalistica delle tanto rinomate Indie Orientali (Barbagli 1999, p. 58). Di queste collezioni non sono ancora stati ricostruiti l’esatta collocazione e gli spostamenti prima del loro arrivo alla Specola, quindi non è dato di sapere se alcuni dei reperti abbiano mai transitato dalla fonderia. Il museo venne inaugurato il 22 febbraio 1775 e fu il primo a carattere scientifico aperto al pubblico. Tutti potevano essere ammessi alla visita dalle 8 alle 13 dietro presentazione di appositi biglietti d’ingresso, chiamati “polizzini”, di colore nero per il primo turno, alle 8 di mattina, e rosso per il secondo, alle 10.30. Poche, ma all’insegna dell’ordine, erano le regole: esse prevedevano che “il popolo di città e contado potrà esserci introdotto purché pulitamente vestito”, sotto la sorveglianza di “4 guardie palatine senza armi che procureranno inoltre che le persone del basso popolo ammesse nelle stanze sopra citate restino pienamente soddisfatte alle 10 per lasciare il luogo alle persone intelligenti e studiose” (Baccetti 1984, p. 860) Il percorso espositivo seguiva una direzionalità dalla terra al cielo, iniziando con le scienze della terra al piano stradale e terminando con l’astronomia nel Torrino (Barsanti 2009, p. 5). L’esposizione si prefiggeva di rendere a tal punto manifesto il sistema della natura da consentirne l’apprendimento in maniera semplice e diretta, senza l’ausilio di guide o docenti. I preziosi materiali scientifici, che dagli Uffizi furono trasferiti alla Specola, contribuirono a caratterizzare l’aspetto e la ricchezza delle raccolte dell’I.R. Museo di Fisica e Storia Naturale. Vi erano reperti di grande spettacolarità che pochi musei potevano vantare. Tra essi un ippopotamo intero imbalsamato, un cranio di narvalo, con relativo dente, e un elefante asiatico, in origine mantenuto vivo nei serragli granducali e morto alla metà del Seicento, le cui spoglie consistevano in uno scheletro completo montato e nella relativa pelle poggiata su un telaio di legno. La pelle di elefante, che secondo il Cinelli era mantenuta in un andito della fonderia, dopo essere stata trasferita al Museo di Fisica e Storia Naturale, fu eliminata intorno al 1820 perché in cattivo stato. Con questa eccezione, le altre antiche rarità sono tutt’oggi conservate nella sezione di Zoologia del Museo di Storia Naturale dove si trovano in esposizione. Il destino dei suddetti reperti è noto perché essi sono facilmente individuabili anche nelle spesso troppo generiche descrizioni sui cataloghi, ma di molti dei campioni meno caratteristici pervenuti alla Specola non sappiamo più nulla. È il caso di tutti gli oggetti della fonderia elencati nella “Nota delle appresso Robe consegnate alla Real galleria e per essa al Sig. Canonico Querci Direttore della medesima, e sono Porzioni di quelle ritrovate nella fonderia Vecchia della Real Galleria. A dì 29 [sic!] Febbraro 1771” (AGU, filza IV, 1771, ins. 21 e vedi appendice, n. 1). Fra essi figurano numerosi animali i cui esemplari non sono corredati di informazioni, come ad esempio: “Uno scheletro di Struzzo, alto fra gambe e Schiena B.a 2 con collo lungo retto da fusto di ferro posa sopra base di legno”; vari campioni elencati alla voce cumulativa “Otto parti di diversi Animali, che due Corni credonsi di Gazzella, tre spoglie di Pesci Marini, un aculeo di Pesce Sega, un corno d’Alce, ed uno Scheletro di una mano di Scimiotto”; “Cinque ramificazioni di Piante Marine di diverse specie, che posano sopra base di legno tornita”. 46 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
Fig. 5 - Il Museo di Manfredo Settala a Milano, in P.M. Terzago, P.F. Scarabelli, Museo ò galeria adunata dal sapere, e dallo studio del sig. canonico Manfredo Settala nobile milanese, Tortona 1666
A renderne difficile il riconoscimento, oltre alla descrizione sommaria, concorre il fatto che le etichette e i piedistalli originari sono stati sostituiti nel tempo a vantaggio dell’uniformità dei supporti del Museo. Inoltre, restauri e rimaneggiamenti hanno spesso cambiato l’aspetto primigenio dei preparati, modificandone significativamente la forma e rendendoli simili a campioni più recenti. Un cenno particolare merita “Uno scheletro di Scimiotto, con fusto di ferro, alto B.a 1. soldi 11 posa sopra base di legno tinta” (vedi appendice, n. 1); che, potrebbe coincidere con lo scheletro di bertuccia (Coll. Gen. Mamm. n. 1557) ancora presente alla Specola. Sebbene la certezza si possa avere solo con ulteriori riscontri, è un dato di fatto che è l’unico scheletro di primate giunto al Museo di Storia Naturale nel Settecento. Il riconoscimento sicuro di questo e di altri esemplari appartenuti al corredo della fonderia, oltre a dare un piccolo contributo alla ricostruzione delle vicende della rinomata istituzione medicea, permetterebbe alle collezioni naturalistiche fiorentine di riappropriarsi di un valore storico che pochi musei possono vantare. Le produzioni naturali della fonderia Medicea • 47
CATALOGO sezione i. La pratica dell’Alchimia sezione ii. Fonderia medicea sezione iii. Ritratti di Medici, Speziali e Alchimisti sezione iv. Laboratorio e stanza delle meraviglie
Teodoro Filippo di Liagnio, detto Filippo Napoletano, La bottega dell’alchimista (cat. n. II.17)
I.1 - David Teniers il Giovane (?) (Anversa 1610-Bruxelles 1690) L’alchimista 1660-1670 olio su tela; cm 44 × 58 Firenze, Galleria Palatina, Inv. 1890 n. 1067 Il dipinto è descritto nella Guardaroba di Palazzo Pitti del 1761 (ASF, Guardaroba Medicea Appendice 94, c. 671r), in una stanza delle soffitte, come: “Uno detto simile [quadro in tela] alto braccia _ ¾ largo braccia 1 dipintovi cantimbanco a sedere vestito con pelliccia e barba lunga bianca, e collana armacollo con libri aperti davanti et una boccia nella mano sinistra, et attorno diversi attrezzi, con adornamento scorniciato liscio e tutto dorato segnato di n. 1415”. Decade quindi l’ipotesi del suo acquisto, come quadretto fiammingo creduto di David Teniers, nel 1778, riportata nella breve letteratura che lo riguarda a partire da Bodart (1977, p. 288, scheda n. 128). Il vocabolo “cantimbanco”, curiosamente usato nel documento, è sinonimo, in questo caso, di cerusico o ciarlatano, una sorta di medico itinerante specializzato in interventi di poco conto. Dall’essere ritenuta copia tratta da un soggetto di David Teniers il Vecchio (Zacchiroli 1783, II, p. 138, n. 204), la tela è passata ad essere considerata un’opera originale del pittore fiammingo (Jahn Rusconi 1937, p. 295, n. 1067), conservando nei cataloghi successivi la medesima attribuzione. Bodart (1977), pur inserendola tra le opere di Teniers il Giovane presenti nelle collezioni pubbliche fiorentine, ha pensato piuttosto alla maniera di David Rijckaert il Giovane o di Matteheus van Helemont, due pittori fiamminghi pressoché suoi contemporanei. Nel recente catalogo di Galleria (M. Chiarini in, Chiarini, Padovani 2003, II, p. 439, scheda n. 726) Marco Chiarini ha accettato, seppure interrogativamente, il riferimento a Teniers il Giovane. L’artista, infatti, dipinse varie volte questo soggetto, inserendosi in un filone assai frequentato dai pittori suoi conterranei, a partire dalla metà del Cinquecento. Eclettico rappresentate della scena artistica fiamminga, Teniers rappresentò numerose scene d’osteria e cabinet d’amateur, ma si dedicò anche a temi religiosi e mitologici, a quadri satirici con animali antropomorfizzati, trattandoli tutti come motivi di genere. Nel 1651 si stabilì a Bruxelles, dove fu al servizio dell’arciduca Leopoldo Guglielmo, governatore dei Paesi Bassi, ricoprendo l’importante ruolo di conservatore della sua raccolta di dipinti, della quale nel 1658 redasse un catalogo inciso con il titolo “Theatrum pictorium” (Bodart 1977, p. 280). In un laboratorio buio e modesto, appena rischiarato da una flebile fonte luminosa sul primo piano, uno speziale, seduto, preziosamente paludato di pelliccia e decorato da una collana con medaglia – chiaro segno di onorificenza – esercita il suo magistero esaminando il liquido contenuto nella boccia che tiene nella mano sinistra. Che si tratti della quintessenza, l’acqua miracolosa che secondo Paracelso può essere estratta da qualsiasi sostanza presente in natura, al fine di guarire le malattie, nutrire e accrescere la vita, oppure dell’urina, che darebbe una connotazione medica all’intera rappresentazione, poco importa. La presenza dei libri in cartapecora, insieme ai vasi di terra, ai cocci e ai bacili di rame costituisce una straordinaria, caotica natura morta: sono questi i veri protagonisti del dipinto. Tali oggetti, accanto alla loro funzione pratica, ne assolvono anche una spirituale, capaci di connettere l’alchimista con l’energia creativa. Sul fondo bruno si scorgono appena due operatori intenti in chissà quali faccende, circondati da oggetti d’uso comune in siffatto tipo di laboratorio. Sulla parete, appesi ai chiodi, un vassoio di rame, uno schizzo su un foglio e un bucranio connotano lo spazio alchemico, ma il camino spento, ridotto a deposito di oggetti, allude probabilmente a un’attività in dismissione. Lucia Aquino Bibliografia: Bodart 1977, p. 288, scheda n. 128 (con bibliografia precedente); M. Chiarini, in Gli Uffizi 1980, p. 538; M. Chiarini, in Chiarini, Padovani 2003, II, p. 439, scheda n. 726
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SEZIONE I. LA PRATICA DELL’ALCHIMIA • 51
I.2 - Domenico Beccafumi, detto il Mecherino (Siena 1484-1551) Illustrazioni alchemico metallurgiche 1530-1535 Secondo Vasari, Beccafumi, negli ultimi anni vita, fu preso dalla passione per l’alchimia, diretta non tanto alla trasmutazione dei metalli, quanto all’arte fusoria, per cui si affaticava “tutto solo il giorno e la notte a getti di metallo”: il risultato di questo fervore operativo furono gli angeli portacandelabro in bronzo eseguiti per il Duomo di Siena tra il 1548 e il 1550. L’interesse per le attività metallurgiche nell’artista senese è testimoniato anche da questa serie di xilografie realizzate, presumibilmente, secondo la convincente ipotesi di Mino Gabriele, per illustrare un testo fondamentale per la metallurgia e l’alchimia nel Cinquecento, la Pirotechnia di Vanoccio Biringuccio (cfr. cat. n. I.3), e poi, per motivi sconosciuti, non utilizzate. Le illustrazioni si possono dividere in due gruppi, le prime cinque sono dedicate alla cattura dei metalli che, rappresentati come divinità planetarie, vengono fatti prigionieri da Vulcano e dalla figura del filosofo, la guida teorica dell’alchimista. Gli altri cinque fogli sono invece dedicati alle attività di laboratorio, quali fusione, distillazione, e la lavorazione di oggetti in metallo. Si tratta di temi che presentano una forte rispondenza con i soggetti della parete dedicata all’elemento fuoco nello Studiolo di Francesco I, e che dimostrano il nesso assai stringente che legava l’alchimia alle pratiche artigianali e artistiche nel Rinascimento. La forte rispondenza tra le immagini e il testo di Biringuccio, nonché la somiglianza tra le xilografie e le opere di questo torno d’anni, rilevata da De Marchi (che nota soprattutto la vicinanza tra il ladrone della Discesa di Cristo al Limbo e la postura di Saturno nel V foglio), fa supporre che siano state incise tra il 1530 e il 1535 cioè nello stesso periodo in cui Vanoccio componeva la sua opera. Vasari racconta che Beccafumi “stampò con acquaforte alcune storiette molto capricciose d’archimia, dove Giove e gli altri Dei volendo congelare Mercurio, lo mettono in un crogiuolo legato, e facendogli fuoco attorno Vulcano e Plutone, quando pensarono che dovesse fermarsi, Mercurio volò via e se n’andò in fumo”. Non è chiaro se le opere di cui riferisce il Vasari corrispondano a quelle esposte in mostra, sia perché l’aretino accenna ad acqueforti e non a xilografie, sia perché i soggetti non sembrano corrispondere precisamente. Tuttavia, come ha notato Mino Gabriele, tra i punti comuni con le parole di Vasari, si può notare la presenza delle divinità planetarie intese come metalli e la preminenza di Mercurio tra i protagonisti. Non si conosce la sequenza originale delle incisioni e si ripropone quella ipotizzata da Mino Gabriele che si basa su un raffronto puntuale con le varie parti dell’opera del Biringuccio.
I. Vulcano e il Maestro nel laboratorio xilografia, mm 180 × 120 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86552 I due protagonisti sono un artefice cencioso e seminudo, in cui si riconoscono le caratteristiche attribuite a Vulcano-artefice dalla mitografia cinquecentesca, e un uomo ben vestito che rappresenta il “filosofo”, sua guida teorica. In tutte le illustrazioni il filosofo osserva attentamente le operazioni dell’allievo e, ponendosi alle sue spalle, gli indica le operazioni da compiere, secondo un rapporto allievo-maestro proprio delle illustrazioni medico-alchemiche dal Quattrocento in poi. I due sono raffigurati all’interno del laboratorio, intenti a operare col fuoco, mentre all’esterno, tra le rocce, sono nascosti i metalli rappresentati come figure mito-planetarie. Vi si riconoscono Mercurio, per il caduceo e il petaso alato, e Giove per la folgore. Secondo Gabriele, la vicinanza tra il laboratorio e i metalli illustra alcuni passi della Pirotechnia in cui Biringuccio raccomanda di costruire capanne e officine in prossimità delle miniere, per maggiore comodità dei lavoranti. 52 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
I.
II.
II. Vulcano e il Maestro si accingono a raccogliere i metalli xilografia, mm 177 × 122 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86559 I due protagonisti si avvicinano alle rocce per raccogliere i metalli, come mostra il martelletto impugnato fermamente da Vulcano. Sopra le rocce è rappresentata una figura femminile nuda che con la destra raccoglie l’influsso benefico dal cielo e con la sinistra lo distribuisce sulla terra: è la Natura dispensatrice che alimenta i metalli. Infatti secondo Biringuccio tutte le cose create dalla Natura in questo mondo dipendono dalle influenze celesti. In cielo sono raffigurati il Sole, la Luna e nuvole che riversano pioggia. I due astri esprimono il ciclico alternarsi dei giorni e delle stagioni, mentre la pioggia fa riferimento alla teoria aristotelica sull’origine dei metalli, condivisa anche da Biringuccio, secondo cui questi nascerebbero dalle acque e dai vapori nascosti sotto terra. Tra i metalli si riconoscono Giove-stagno e Mercurio-argento vivo, ma anche Saturno-piombo per la falce, Marte-ferro per l’elmo e Venere-rame per la colomba. SEZIONE I. LA PRATICA DELL’ALCHIMIA • 53
III. La sublimazione: ovvero la fuga dei metalli xilografia, mm 178 × 117 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86558 L’immagine di Vulcano che costringe alla fuga i metalli incalzandoli con i propri strumenti e con il fuoco – del quale egli stesso è simbolo – esprime i processi di purificazione e sublimazione a cui i metalli vengono sottoposti una volta catturati. Il Maestro osserva e medita nascosto tra le rocce, secondo un topos della letteratura alchemica che vede l’alchimista operare ritirato dal mondo. Tra i metalli si riconoscono Saturno-piombo, Venere-rame e Mercurio-argento vivo che vola più alto di tutti, grazie ai caratteri di volatilità e inafferrabilità che giustificano l’associazione della divinità con quel metallo. IV. La cattura dei metalli xilografia, mm 174 × 120 iscrizione, in basso a destra: Mecherinus De Senis. inventor. s[culpsit] Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86551 Vulcano lega un gruppo di metalli a una roccia, dietro la quale spuntano le teste di altri loro compagni incatenati. Il maestro osserva poco discosto e alle sue spalle s’intravede il laboratorio con il mantice. La presenza di due gruppi distinti di metalli incatenati potrebbe alludere, secondo Mino Gabriele, a un particolare procedimento illustrato da Biringuccio: la coppellazione, utilizzata nella raffinazione dei metalli preziosi. Quest’attività era esercitata, nella seconda metà del Cinquecento, anche nella Fonderia degli Uffizi, dall’alchimista Michael Geber, al servizio di Francesco I.
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III.
IV.
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V. La fissazione xilografia, mm 175 × 121 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86556 I metalli catturati devono ora essere fissati e per questo sono condotti in catene alla lavorazione, rappresentata dall’incudine. Tra di essi si riconoscono Saturno-piombo, qui individuato da un bastone e non dalla falce, Venere-rame, Marte-ferro e Mercurioargento vivo che si distingue sempre per la sua maggiore volatilità. VI. Il fallimento xilografia, mm 175 × 114 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86557 Dopo la cattura dei metalli-pianeti, le restanti illustrazioni sono dedicate alle attività di laboratorio ed hanno come esclusivi protagonisti l’artefice e il suo maestro. Il forno distrutto, presente in questa scena, testimonia un’operazione sbagliata che è forse terminata con una piccola esplosione. Vulcano, seduto a terra, osserva afflitto la fornace diroccata che un altro lavorante sta finendo di distruggere. Sul pavimento si trovano vi sono due fusti di cannoni: forse l’operazione non riuscita poteva concernere proprio queste artiglierie che ritroviamo anche nell’immagine successiva. Sullo sfondo il maestro volta le spalle alla scena per dichiararsi estraneo al fallimento, avvenuto evidentemente per la mancata applicazione dei suoi consigli. Nel proemio al sesto libro della sua opera Biringuccio raccomanda agli artefici la massima pazienza e attenzione, poiché anche un piccolo sbaglio può mandare in fumo il frutto di molte fatiche.
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V.
VI.
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VII La fusione di artiglierie e campane xilografia, mm 175 × 116 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86555 Il forno prima distrutto è ora ricostruito e operante e, mentre l’artefice cola il metallo nella forma, il maestro si china su di lui guidandone i gesti. L’illustrazione è ancora una volta accostabile al sesto libro di Biringuccio dedicato alla fusione di artiglierie e di campane, qui visibili sopra il forno. Sulla parete di fondo invece sono appesi il compasso, la bilancia e la squadra, presenti anche in una illustrazione di Biringuccio, in quanto strumenti utilizzati per stabilire con precisione il peso e le misure del batacchio delle campane. VIII La fusione di piccoli oggetti xilografia, mm 175 × 117 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86554 L’incisione è caratterizzata dalla presenza di diversi piccoli oggetti, quali bacili, brocche e staffe. Per terra invece, tra il martello e la tenaglia, si trova una staffetta ovvero una forma di legno o di metallo in cui si pressa l’argilla per ottenere la forme per fondere: tutta la scena fa riferimento all’ottavo libro di Biringuccio in cui si tratta della “piccola arte del gitto”.
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VII.
VIII.
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IX La distillazione xilografia, mm 179 × 116 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86553 L’incisione fa riferimento al nono libro del De la pirotechnia, dedicato interamente all’arte distillatoria. La fornace è occupata da numerosi alambicchi dotati di collettore, a uno dei quali l’artefice sembra in procinto di agganciare una cucurbita sotto gli attenti consigli del maestro. La distillazione delle erbe serviva alla realizzazione di prodotti cosmetici, alimentari e farmaceutici, ma era anche un momento fondamentale dei processi alchemici trasmutatori miranti a trasformare i metalli in oro e a realizzare l’elisir di lunga vita. X Artiglierie e fuochi artificiali xilografia, mm 174 × 116 Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, F. C. 86560 L’ultima immagine è dedicata all’uso della polvere da sparo di cui si tratta nel decimo e ultimo libro di Biringuccio. L’artefice, seduto a cavalcioni di un cannone, mostra al Maestro, esultante e meravigliato, i vari utilizzi della polvere, tanto nelle artiglierie, quali mine e palle di fuoco, quanto nei fuochi artificiali rappresentati in cielo. Valentina Conticelli Bibliografia: Vasari 1906, V, pp. 653-654; C. Pizzorusso in Firenze 1980b, p. 343; Gabriele 1988, con bibliografia precedente; De Marchi 1990, pp. 502-504, con bibliografia precedente
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IX.
X.
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I.3 - Vanoccio Biringuccio (Siena 1480-Roma 1537) De la Pirotechnia Libri X, Venetia, per Venturino Roffinello, 1540 in 4° Firenze, Biblioteca degli Uffizi, N-2-Inv. 11569 L’opera di Biringuccio costituisce uno dei caposaldi della mineralogia e della metallurgia cinquecentesca e precede di sedici anni l’altro testo fondamentale sull’argomento, il De Re Metallica di Giorgio Agricola. Biringuccio si era formato nell’ambiente culturale senese e proveniva da una famiglia che aveva forti relazioni con uno dei massimi protagonisti della tecnologia quattrocentesca quale Francesco di Giorgio Martini. Egli fu attivo fin dai primi anni del Cinquecento come fonditore di armi da fuoco a Siena e la sua cultura resterà sempre essenzialmente pratica e basata sull’esperienza personale, cionondimeno la scelta della lingua volgare, oltre che il ricco apparato illustrativo e la vasta conoscenza dei problemi trattati espressi in un linguaggio gustoso, efficace e chiaro saranno una delle chiavi della fama e della larga diffusione della sua opera. La sua esperienza poté arricchirsi di numerosi viaggi in Italia e in Germania e di incarichi quali quello di soprintendente alle miniere del ferro di Boccheggiano e di capitano delle artiglierie e fonditore di papa Paolo III. Il testo inizia con la descrizione dei metalli principali e delle loro miniere per poi passare all’illustrazione delle operazioni metallurgiche quali l’assaggio dei metalli, la fusione, la coppellazione, la descrizione dei forni e l’uso degli acidi minerali. Il sesto, settimo e ottavo libro sono dedicati all’arte del getto e della fusione di artiglierie, armature e oggetti diversi, mentre nel nono libro si affrontano i temi più strettamente connessi all’alchimia, come i procedimenti di distillazione e sublimazione. L’ultima parte del testo tratta dei vari usi della polvere da sparo nelle artiglierie e nei fuochi artificiali. L’autore della Pirotechnia crede che la natura sia maestra assoluta dei suoi processi e che l’uomo non possa con l’arte intervenire nello sviluppo delle sue attività. L’opinione del Biringuccio nei confronti dell’arte alchemica pare dunque piuttosto contraddittoria. Egli infatti, nei capitoli dedicati all’oro, all’argento vivo e alla distillazione, opera una distinzione tra alchimia e falsa e vera, tipica della letteratura sull’argomento, affermando più volte di non credere alla trasmutazione dei metalli in oro. Il senese apprezza invece gli aspetti tecnici dell’arte, quali la preparazione di colori, profumi, medicine etc. che gli paiono molto utili agli uomini e per questo motivo incita gli artefici a “provare la possibilità de l’arte più per esempli che per ragioni”. Valentina Conticelli Bibliografia: Duveen 1965, p. 79; Tucci 1968, pp. 8-9; Bibliotheca Magica 1985, p. 209; Perifano 1996; Chironi 2000, pp. 103-104; Ciappi 2001
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I.4 - Codice plumbeo XIV secolo piombo inciso; cm 9,5 × 7,5 Firenze, Archivio di Stato, ex Sala Mostra, 9 Nel settembre 1859 vennero offerte alla “Soprintendenza generale degli Archivi” di Firenze “nove tavolette di piombo unite insieme a foggia di libro, e scritte per la massima parte d’ignoti caratteri” (Guasti 1896). Provenivano dal mercato antiquario e furono acquistate “affinché l’Archivio Diplomatico, che possiede scritture in tavolette cerate, in foglie e in scorza d’albero, in papiri, in membrane, in carte di varia specie, ne avesse almeno da mostrare una in metallo” (Guasti 1896). La sua unicità nell’intero panorama della letteratura alchemica occidentale lo rende un documento storico eccezionale. Si tratta di nove sottili lamine plumbee, forate in due punti al margine e accompagnate da un bastoncello, anch’esso di piombo, a cui dovevano in origine essere legate, sì da comporre le pagine di un libretto. Il testo è inciso a bulino su entrambe le facce di ogni tavoletta (in totale 18 pagine); le patine di carbonati e ossidi e la corrosione del metallo testimoniano l’antichità del codice, i caratteri e la lingua lo collocano nel XIV secolo. Ciascuna pagina porta da un lato, nel margine superiore, il proprio numero in cifre romane e presenta ai quattro margini una linea che la riquadra e incornicia il testo. Tranne il disegno di un triangolo equilatero nella prima laminetta e alcune scritte in latino in questa e altre, il testo è inciso in caratteri criptati, ma alla pagina 18, sotto la scritta hic est via veritatis, viene esposto su quattro colonne un alfabeto occulto in 24 segni, la cui decrittazione in ordine e corrispondenza a quello latino permette di decodificare l’intero libretto. Ne emerge un trattatello di contenuto alchemico operativo, scritto – eccetto qualche frase latina – in volgare, con alcune ma non esclusive assonanze toscane. La patina che oggi copre il metallo fa sì che tanto le parole che i segni criptografici e simbolici incisi sulle tavolette risultino di non immediata intesa e decifrazione. Pertanto, al fine di una corretta comprensione dell’intero testo (eccetto le due pagine restaurate e restituite alla lettura in occasione della mostra, e di cui si ringrazia la dott.a Cristina Samarelli), è d’obbligo una lettura al microscopio. Sul recto della prima laminetta si legge “Benedicta lapide / prima materia est”, al di sotto vi è un triangolo equilatero con singole lettere agli angoli interni ed esterni, che unite compongono la parola “ANTIMONIUM”, termine che nell’alchimia medievale indica appunto la prima materia. Sotto al triangolo si legge: “Ego sum Ambagasar / quo dabo tibi verissimum / secretum secretissimum / noster”. Ambagasar dovrebbe corrispondere all’antico filosofo greco Anaxagoras, secondo un’interpretazione e oscillazione semantica di questo nome nella tradizione alchemica latina di derivazione araba: si veda Amacaras nella Turba philosophorum (Ruska 1931) e Ambadagesir, Ambagadasis, Ambagasir e Ambagasar nelle opere di Bernardo Trevisano (Khan 2003, Trevisano 1567, Trevisano 1747). Trevisano, celebrato maestro della tradizione alchemica e vissuto nel XV secolo, inserisce il nome Ambagasar in una sequenza di mitiche e fabulosae auctoritates dell’ars aurifera: “Phitonissa, Rebecca, Ambagasar, Salomon, Philomacedon, Thessarinus”. Dal verso di questa iniziale laminetta si comincia a esporre l’attività dell’alchimista per estrarre la prima materia (reductio in primam materiam) tramite polverizzazione, distillazione e sublimazione degli elementi. Segue l’unione, secondo un certo dosaggio, di tale materia con il mercurio sì da generare una soluzione; poi quest’ultima, esposta a fuoco leggero, produce il lac virginis e quindi, grazie a una fiamma più intensa, la tintura universale. Dopo ulteriori operazioni in cui la materia viene sottoposta a diversi gradi di fuoco (al principio diviene nera e ‘putrefatta, poi bianca e infine rossa come il sangue) si ottiene la “benedetta pietra che commuta tutti i metalli imperfetti in oro purissimo e cura da qualsivoglia male incurabile”. Perduto è un altro codice plumbeo di 18 tavolette (36 pagine) del secolo XIV, illustrato da alcune immagini e con la stessa scrittura criptata del nostro e medesima chiave di decrittazione, di cui dette notizia Marinelli nel 1910. Le coincidenze e analogie tra i due, pur nelle non poche differenze, lasciano supporre una reciproca derivazione da una tradizione comune. Mino Gabriele Bibliografia: Trevisano 1567; Trevisano 1747; Guasti 1896; Marinelli 1910; Carbonelli 1925, pp. 15-18; Khan 2003
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I.5 - Giovan Battista Nazari (XVI secolo) Della tramutazione metallica sogni tre, Brescia, Pietro Maria Marchetti, 1599 in 4° Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Ald. 2. 6. 5 Di questo autore, che fiorì nella seconda metà del XVI secolo e fu originario di Saiano, oggi Rodengo Saiano (Brescia), non conosciamo né data di nascita né di morte, benché fosse assai stimato presso i contemporanei per la sua vasta cultura “nelle lettere, nelle scienze sacre e profane, nelle antichità” come pure in quanto “diligente raccoglitore delle patrie memorie” (Peroni 1816-1823), in particolare scrisse sulla storia e sulle glorie antiquarie della città di Brescia. Ma il titolo che gli conferirà imperitura fama è il Della tramutazione metallica sogni tre, già menzionata in autorevoli opere alchemiche dei secoli XVI e XVII (dalla Vera dichiaratione di Evangelista Quattrami del 1587 al Mondo magico degli Heroi di Cesare della Riviera del 1605, al Proteo metallico di Fulvio Gherli del 1721), e tutt’oggi oggetto di studi. L’edizione del 1599, qui presentata, è quella più completa e curata (anche perché arricchita di altri testi alchemici come la Canzone di Rigino Danielli e la Concordantia de filosofi) rispetto alla prima edizione del 1564 e alla seconda del 1572, entrambe apparse presso i Fratelli Marchetti a Brescia. Due improbabili traduzioni in francese e in latino degli anni 1561 e 1563, che non trovano riscontro bibliografico, sono menzionate da Lenglet Du Fresnoy (1742). Il viaggio onirico del Della tramutazione ha per modello quello della celebre Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (Venezia, Aldo, 1499), di cui ricalca l’inizio aurorale e veritiero del sogno e a cui si ispira per le antiquarie invenzioni di architetture, di epigrafi, di sepolcri e di fontane come per certe figurazioni simboliche: la Sfinge, il labirinto, il ponte, il Dragone dell’isola di Geber, le sepolture di Platone e quello di Hermete, la piramide, la personificazione sapienziale della “donzella”, etc. Queste tuttavia sono proposte, sia per le varianti e novità formali che esibiscono sia per l’originalità dei significati, in modo del tutto autonomo rispetto al modello ovvero in chiave alchemica, come dimostra l’inserimento nel racconto del maestro Bernardo Trevisano, depositario della vera tradizione di Hermes. L’opera è ornata da numerose xilografie di ottima fattura, che illustrano le principali tappe del viaggio onirico-alchemico caratterizzato da una struttura mnemonica e immaginale. Attraverso parabole e simboli, si espone il percorso e la pratica del “divino magistero” dell’aurea metamorfosi. A p. 146 dell’opera si trova una delle più fortunate immagini fabulose, quella del mostro o “Dracone” mercuriale/solare/lunare (vedi cat. n. II.10), figurazione simbolica proteiforme che riunisce in sé le componenti e le fasi del processo di trasformazione metallica, sposando figurativamente (oltre al sole, alla luna e al mercurio stretti in alto dalla coda serpentina) diversi animali del bestiario degli alchimisti: gallo, gallina, serpente, corvo, cigno, pavone. Notevoli sia la presenza alle pp. 135-144 di una accurata bibliografia di autori e opere alchemiche (la prima del genere), sia alle pp. 121-124 di un sistema arboreo mnemonico che, con intento didascalico, espone l’articolato processo delle fasi alchemiche. Una copia di questa edizione faceva parte della Biblioteca di Don Antonio de’ Medici (Galluzzi 1982). Arnaldo Zonca Bibliografia: Cozzando 1685, p. 115; Lenglet Du Fresnoy 1742, I, pp. 313-315; Peroni 1816-1823, II, pp. 302-303; Ferguson 1906, II, pp. 131-32; Duveen 1949, p. 426; Gabriele 1980, pp. 43-49; Galluzzi 1982, p. 42; Van Lennep 1985, p. 162; Perifano 2006
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I.6 - Gérard Thomas (Anversa 1663-1720) Studio d’un alchimista 1680-1700 olio su tela; cm 73 × 88 Firenze, Palazzo Pitti, Inv. OdA 1911 n. 705 Il dipinto è stato identificato (Chiarini 1975, pp. 89, 205 nota 254) tra quelli presenti nell’inventario del 1713, redatto alla morte del Gran Principe Ferdinando di Toscana, dove è descritto come una fonderia “con un vecchio a sedere con orinale in mano, con libri aperti, globo, testa di morto et altro sopra di un tavolino, et altra figura in atto di accendere il fuoco con il soffietto, con più strumenti da stillare et altro”. Secondo Marco Chiarini (1993, p. 222, n. scheda II.6) è possibile che la tela provenga da Vienna, alludendo, forse, alla raccolta di quadri realizzata dal Gran Principe con opere provenienti dalle corti europee, emblema di una passione e di un impegno durati tutta la vita (cfr. Strocchi 1975, p. 115). Nell’inventario dei beni della corona di Palazzo Pitti (1911) è indicato come opera del Thomas (Chiarini 1993, p. 222) e sotto questo nome compare nei più recenti cataloghi di Galleria (Idem in La Galleria Palatina II, 2003, p. 440, scheda n. 728). Il soggetto s’inserisce in un tipico filone della pittura fiamminga del XVII secolo; un tema che divenne una specialità per questo petit maître cui il dipinto è assegnato. Gérard Thomas s’iscrisse alla Gilda dei pittori di Anversa nel 1688-1689. Molti dei suoi dipinti riflettono una peculiare tendenza della pittura fiamminga della fine del Seicento, tesa a riproporre spunti dai grandi esempi di personalità come Rubens, Van Dyck e Jordaens. Thomas è noto anche per le sue rappresentazioni di studi di artisti, a tal proposito ci sembra probante il confronto tra il nostro dipinto e una tela passata sul mercato antiquario (Londra, Sotheby’s 1999, p. 163 n. 126) che raffigura, appunto, lo Studio di un artista, con allievi che dipingono, disegni e statuette. La presenza del gruppo di persone sullo sfondo a sinistra, intente a curare il piede di un uomo seduto, indica che ci troviamo nella bottega di uno speziale-medico. Ancora nel Seicento le pratiche chirurgiche tradizionali, come incisioni di ascessi, suture e cauterizzazioni di ferite, erano affidate a questo tipo di dottori, a motivo della scarsa presenza della medicina ufficiale, oltretutto anche molto costosa. Lo speziale osserva il liquido dentro la bottiglia mentre consulta un grande libro, sulla cui pagina destra è scritto “Galeno”, il medico greco dell’antichità, che insieme a Ippocrate, ha influenzato l’arte della Medicina fino all’era moderna. È evidente che il medico sta praticando l’uroscopia, una pratica rimasta in uso per tutto il Settecento, grazie alla quale si pensava di poter diagnosticare tutte le malattie. Una curiosa tensione si coglie nello sguardo della madre e del ragazzo che porta con sé il tipico contenitore delle urine, lo stesso che ritroviamo nella celebre formella del Campanile di Giotto, raffigurante l’Arte della Medicina, dove un gruppo di persone aspetta il proprio turno per far analizzare al medico il contenuto di questi recipienti. I vasi di vetro e di terra sugli scaffali contengono unguenti da somministrare ai pazienti; alle pareti, oggetti d’uso comune come una lanterna, il bacile di rame e delle chiavi, assumono una chiara valenza simbolica, nel palesare il fine del medico: trovare le giuste risposte ai quesiti. Un attendente soffia sul fuoco per scaldare il contenuto del vaso; a sinistra un alambicco è in piena distillazione e a terra si scorgono gusci di mitili da cui si ricavava la corallina o muscus maritimus, utile a distruggere e ad espellere i vermi intestinali (Fumagalli 2000, p. 65). La scena sembra contenere tutti gli elementi che connotano scientificamente questo tipo di spazi: sul tavolo un teschio, una clessidra e un globo; un camino; un pesce che pende dal soffitto, la cui presenza iconografica va ricercata in quelle stampe che riproducevano le stanze delle meraviglie o Wunderkammern, dove l’animale appeso al soffitto assumeva valenza di rarità naturale. Lucia Aquino Bibliografia: Bodart 1977, p. 341; M. Chiarini, in Chiarini, Padovani 1993, p. 222, scheda n. II.6; M. Chiarini, in Chiarini, Padovani 2003, II, p. 440, scheda n. 728
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I.7 - da Philips Galle (Haarlem 1537-Anversa 1612) su disegno di Pieter Bruegel il Vecchio (Breda 1525 circa-Bruxelles 1569) L’alchimista post 1558 incisione a bulino; mm 220 x 296 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, stampe in volume 7388 iscrizioni: in alto a sinistra “Brueghel Inuē”. Nel margine inferiore due righe in due colonne “Die. Ignorantelÿck. dē steēder. philosophen. soekē. En die secretē. der naturē. niet. wel. en. verstaen./ Narstich. soekende. den steē. in. alle. hoekē. ē. boekē. Sÿ. moeten. toch. alleghelÿck. spaeÿ. oft. vrouch. naer. gasthuÿs. gaen // Souffles. mes. treschers. enfans. ie. vous. sblie. En. cherchēt. la. riche. pierre. philosophal. / Car. la. noble. science. de. lart. qui. nest. mie. Est le. vrai. et brief. chemin. de. lhospital.” L’alchimista vestito di stracci è seduto vicino al focolare dove sta lasciando cadere una moneta in un recipiente: l’artefice armeggia anche con altri strumenti, ma riesce a ottenere solo del fumo. Alle sue spalle la moglie mostra il borsellino vuoto, mentre i loro tre figli cercano invano del cibo dentro alla dispensa esaurita, dove trovano solamente una pentola che uno di loro usa come copricapo (motivo ricorrente in Bruegel che lo inserisce anche nella Lotta tra il Carnevale e la Quaresima, e a sua volta già presente in un’opera di Hieronymus Bosch, l’Inferno del trittico del Giardino delle delizie). Al centro della scena, un personaggio che indossa il cappello dei folli dalle orecchie d’asino, alimenta la fiamma all’interno di un bacile (con un mantice sul quale si legge “Spes”), incitando metaforicamente le vane operazioni dell’alchimista. Alla scrivania siede il “Doctor” che punta il dito sul libro aperto alla parola “ALGHE MIST”, vocabolo che in fiammingo assume il duplice significato di alchimista e di al ghemist ossia “tutto fallisce” (Wied, in Casalmaggiore 2003, III.01, p. 119). Una finestra sullo sfondo, spartiacque tra presente e futuro, mostra l’intera famiglia avviarsi verso un ricovero per poveri. La stampa è una copia di quella incisa da Philips Galle per Hieronymus Cock, che deriva dal disegno di Pieter Paul Brueghel il Vecchio datato 1558 e conservato al Kupferstichkabinett di Berlino (inv. 4399. Münz 1961, n. 139, p. 227). L’incisione di Galle ebbe ampia diffusione e già Vasari nel 1568 la descrisse nella Vita di Marcantonio Raimondi (Freedberg 1989, p. 132; Wied, in Casalmaggiore 2003, p. 119) dando un giudizio aspro nei confronti dell’alchimista che in diversi modi “stillandosi il cervello, getta via ogni suo avere, tanto che al fine si conduce allo spedale con la moglie e con i figliuoli” (Vasari 1906, V, p. 439). L’immagine ideata da Bruegel, insistendo sulla rovina economica e morale cui la famiglia andrà incontro, prende di mira la vanità della pratica alchemica e le sue funeste conseguenze secondo un topos letterario consolidato. Dante, infatti, colloca gli alchimisti Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena nella bolgia dei falsari (Inferno, 29, vv. 73-139), mentre Petrarca nel De remediis utriusque fortune (I.111) tratteggia l’alchimia come una pratica che porta alla follia e alla povertà. Essa è inoltre vista come esempio morale negativo in uno dei Canterbury Tales (The Canons’s Yeoman’s Tale. Frammento VIII.II) di Geoffrey Chaucer e, come tale, compare anche in Sebastian Brant, Erasmo da Rotterdam, Agrippa di Nettesheim, che pur essendo alchimista, ne accenna nel De incertitudine et vanitate scientiarum (cap. XC). Nell’incisione di Galle alcuni oggetti sono accompagnati da didascalie: sul sacco in basso a sinistra compare la scritta “drogery”, nei contenitori appoggiati sull’asse di legno in basso a destra “sulfer” e “keue”, nel foglio appeso sul focolare si legge la parola “misero”. L’ignoto incisore che realizza la copia incrementa notevolmente le scritte e con esse il valore didattico della stampa, ora non più unicamente legata a una satira moralizzante, ma anche strumento per rendere più comprensibili materiali e strumenti utilizzati dall’alchimista. Infine sulla scrivania del “Doctor” sono incisi i nomi di quattro padri della pratica alchemica: “Hermes” (Ermete Trismegismo), “Geber”, “Albertus” (Alberto Magno) e “Raijmōdus” (Raimondo Lullo). Marica Guccini Bibliografia: Lebeer 1969, p. 82; Lari 1973, n. 159; Hollstein 1949-2010, Pieter Bruegel the Elder, n. 40, p. 98. Sull’incisione di Philips Galle: Klein 1963, n. 38, pp. 171-173; Lennep 1966, pp. 230; Leeber 1967, n. XXI; Lebeer 1969, n. 27, pp. 80-84; M. Winner, in Berlino 1975, n. 67, pp. 60-64; Vallese 1979, n. 48; Freedberg 1989, n. 27, p. 132; Hollstein 1949-2010, Galle, III, n. 391, p. 79; Roberts-Jones 1997, pp. 36-37; Orenstein 2001, n. 61, pp. 170-172 70 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
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I.8 - Pieter Cool (+1590 circa) da Maarten de Vos (Anversa 1532-1603) L’alchimista seconda metà del XVI secolo incisione a bulino, mm 221 × 292 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, stampe sciolte 13589 iscrizioni: in basso a sinistra “M. de Vos inuent”, in basso al centro “Pet. Cool sculp.”, in basso a sinistra “Ioan. Baptista Vrints excud”. Nel margine superiore “PAVPERTATVM ALIVS FVGIT, AST HIC ADVOCAT IPSAM”, nel margine inferiore sei linee in francese e sei in tedesco su due colonne “Voi comme ce folastre en ses fioles distille / Le sang de ses enfans, ses tresors, et ses sens; / Voy comme il cherche apres la recherche inutile / Du Mercure, son pain auecque ses enfans. // Den Alcomist,, seer veel verquist,, aen goet en tÿt / Ghelt, goet, en sehat,, heest hÿ ghehat,, maer ist nu quyt / Hÿ vint int vier,, gans niet een sier,, dan syn bederuen / In d’eynde dan,, moet hÿ erm man,, int gasthuys steruen.” L’alchimista, dall’aspetto trasandato e vestito di stracci, siede al banco di lavoro dove soffia energicamente su alcuni strumenti arroventati. La moglie, dietro di lui, ha il volto solcato dai patimenti dovuti alla povertà e gli volge uno sguardo di disapprovazione mentre si dirige verso l’uscita della baracca con i due figli, anch’essi coperti di indumenti laceri. Sulla sinistra essi vengono accolti presso un ricovero per poveri dove, all’interno di un clipeo posto sopra al portale d’ingresso, s’intravede l’immagine di un serpente attorcigliato a forma di otto con una doppia testa, simile all’oggetto che uno dei due bambini sta raccogliendo da terra. In basso a sinistra giacciono le essenze erbacee che l’alchimista distillerà grazie ai fornelli e agli alambicchi descritti in primo piano. L’incisione realizzata da Pieter Cool è tratta da un disegno preparatorio di Maarten de Vos conservato presso l’École des Beaux-Arts di Parigi (inv. M642. Parigi 1985, n. 83, p. 163). L’artista prende spunto dalla celebre incisione di Philips Galle tratta dal disegno di Pieter Paul Bruegel il Vecchio del 1558 (vedi cat. n. I.7), come denuncia anche la scelta di rappresentare l’alchimista privo di un calzare. Maarten de Vos semplifica la scena e riduce la minuzia descrittiva di Bruegel nel ritrarre gli strumenti dell’alchimista, alcuni di questi ora risultano rotti o danneggiati a testimoniare l’inefficacia degli esperimenti. De Vos non rinuncia, tuttavia, a fare del protagonista il bersaglio della sua satira morale. La condanna della praticata alchemica intrapresa da chi intende perseguire un arricchimento personale, esercizio che anche la Chiesa non vedeva di buon occhio (Del Torre Scheuch 2003, p. 51), è resa esplicita dalle iscrizioni in doppia lingua apposte nel margine inferiore del foglio e da quella alla sommità: “PAVPERTATVM ALIVS FVGIT, AST HIC ADVOCAT IPSAM”. Maarten de Vos descrive minuziosamente alambicchi e strumenti utilizzati per la distillazione e per la preparazione di medicamenti in una delle Sette opere di Misericordia incise da Crispijn de Passe il Vecchio attorno al 1590 (Franken 1881, n. 1052, p. 194; Hollstein 1974, XV, pp. 185, 186). Nella fascia che incornicia la scena dedicata alla cura degli infermi, infatti, de Vos connota positivamente la pratica dell’alchimia per la sua funzione curativa. Marica Guccini Bibliografia: Parigi 1985, n. 83, p. 163; Hollstein 1949-2010, Maarten de Vos, text, n. 1285, p. 257; A. Wied, in Casalmaggiore 2003, p. 119
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I.9 - Heinrich Khunrath (circa 1560-1605) Amphitheatrum Sapientiae Aeternae Solius Veræ, Christiano-Kabalisticum, divino-magicum, nec non Physico-Chymicum, Tertriunum, Catholicon, Hanoviae, Guilielmus Antonius, 1602 in fol. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 1.2.206 Di questo celebre testo di Khunrath, “amante fedele della teosofia e dottore nell’una nell’altra medicina” com’egli scrive sul frontespizio, ma anche fisico e ‘teo-alchimista’, sono specialmente note le nove tavole che lo ornano: quattro quadrangolari e quattro circolari. Solo quest’ultime decoravano la prima edizione dell’opera pubblicata ad Amburgo nel 1965: vennero incise tra l’aprile e il settembre dello stesso anno da Paul van der Doort, incisore di Anversa; soltanto la quarta, con l’immagine del “laboratorium-oratorium” fu firmata dall’artista Hans Vredeman de Vries. Nato a Lipsia e laureatosi in medicina a Basilea nel 1588, Khunrath caratterizza i suoi scritti, e specialmente l’Amphitheatrum, di un sentito misticismo cristologico unito alla magia naturale e alla cabbala cristiana: la sua theosophia affonda le radici nei principali elementi della filosofia ermetica rinascimentale, come nel pensiero paracelsiano e in quello di Valentin Weigel (1533-1588), teologo e mistico tedesco. La visione pansofica di Khunrath godette di grande reputazione da parte dei primi Rosacrociani come in seguito, anche in considerazione delle successive riedizioni dell’Amphitheatrum, testo che non a caso conobbe vari commentatori, persino nell’ambiente occultistico francese tra il XIX e il XX secolo. La tavola del ‘laboratorium-oratorium’, ora in mostra, è una chiara sintesi del rapporto teoria/pratica che deve guidare l’alchimista secondo il medico di Lipsia. Come chiariscono le svariate scritte che corrono nell’incisione, i vari strumenti e la meticolosa ambientazione, soltanto una coesa compartecipazione tra il divino, l’uomo e la natura può guidare la prassi alchemica. Significativa è la distribuzione degli spazi: simmetrici sono la tenda oratoria e il laboratorio, tra questi e in primo piano sta il tavolo con gli strumenti musicali, a sottolineare l’importanza dell’armonia e della “musica sancta” nel compiere il magistero. Nel suo trattato De igne magorum del 1608 Khunrath dichiara che Dio è presso coloro che lo invocano in spirito, in verità e senza orgoglio, ma umilmente, ricevendo così quant’essi chiedono. Significativo il motto dormiens vigila che campeggia sull’arco all’antica in fondo alla sala, al centro dell’incisione. L’ossimoro rinvia alla funzione della facoltà immaginativa, di grande importanza nell’attività interiore dell’alchimista: facoltà che appunto opera con efficacia e chiarezza (vigila) quando i sensi sono acquietati (dormiens) e non disturbano più l’elevazione spirituale tesa alla gnosi ermetica e filosofica. Arnaldo Zonca Bibliografia: per l’ampia bibliografia si rinvia a Gilly-Hertum 2002, n. 43; Hanegraaff 2006, p. 662-663
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I.10 - Janitor Pansophus, in Musaeum Hermeticum Reformatum et Amplifactum, omnes sopho-spagyricae artis discipulos fidelissimè erudiens… Continens tractatus chimicos XXI. Praestantissimos, quorum nomina & seriem versa pagella indicabit Francofurti, Hermannus à Sande, 1678 in 4° Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 15.1.146 Si tratta della seconda stampa (di fatto impressa alla fine del 1677) di una delle più importanti raccolte di testi alchemici, accresciuta rispetto alla prima edizione del 1625, che era apparsa sempre a Francoforte da Lucas Jennis (1590-1630), all’epoca il maggior editore tedesco di testi alchemici e rosacrociani, spesso illustrati, come in questo caso, dalle splendide e raffinate incisioni di Johann Theodor de Bry (1561-1623), Lucas Jennis (1590-post 1630) e Matthäus Merian (1593-1650). L’ultimo trattato del Musaeum è lo Janitor Pansophus, con le sue grandi quattro tavole rappresentanti la pansofica filosofica alchemica, probabilmente realizzate dalla scuola di de Bry e da Merian (che firma proprio la quarta, incisa intorno al 1618) e già riprodotte nelle edizioni nel Dyas Chymica Tripartita del 1625. La Figura IV, la più complessa e pregevole, illustra la Tabula Smaragdina attribuita a Ermete Trismegisto, ovvero uno dei testi fondanti la tradizione alchemico-ermetica occidentale. La composizione iconografica è costruita secondo una specularità tra macrocosmo e microcosmo, visualizzando quanto recita appunto la prima norma della stessa Tabula, per la quale ciò che è in alto è come ciò che è in basso e viceversa, in una interrelazione e universale da cui ha origine e si compie ogni cosa. L’incisione di Merian riflette un simile concento, coniugando realtà superiori e inferiori in un unico scenario cosmico. In cima si stagliano i simboli della Trinità cristiana (agnello, nome di Dio e colomba contornati da angeli), mentre nei circoli concentrici sottostanti (dall’esterno all’interno) i segni zodiacali e quelli dei cinque pianeti/metalli (Saturno/piombo, Giove/ stagno, Marte/ferro, Venere/rame, Mercurio/mercurio), poi sono indicati l’anno e le stagioni, i tre principi alchemici paracelsiani (sale, solfo, mercurio) e, al centro, il ‘mercurio filosofico’, l’artefice teorico e operativo del processo alchemico. Nella semicorona circolare sono invece figurate le fasi alchemiche attraverso cinque animali, dal nero corvo alla risorgente fenice, simbolo del lapis philosophorum. Nel registro inferiore della stampa si dispiega l’opus alchemicum: più in basso i quattro elementi (aria e fuoco, terra e acqua) sotto le ali della fenice e dell’aquila, al di sopra si ergono il Sole/giorno e la Luna/notte con i rispettivi attributi del leone e di Atteone/cervo (in riferimento al mito di Artemide, personificazione della Luna): si noti che i due luminari sono incatenati alla ciclicità diurna/notturna per evidenziarne la benefica azione fecondante su tutta la natura e sulla stessa prassi alchemica. Tra i due astri la montagna, simbolo dell’athanor/alambicco, dove operano il ‘fuoco’ e l’‘acqua’ che vi fuoriescono e il ‘mercurio’ (il leone mostruoso). Al centro sta l’alchimista-filosofo, abbigliato con veste stellata (come le due asce che impugna) a sottolineare che la sua arte rispetta le influenze astrali e soli-lunari. Costui, per così dire, sa ‘tagliare’ (trasformare) con il fuoco (le asce) gli alberi/metalli del giardino alchemico, ovvero prendere e coniugare opportunamente i vari ‘ingredienti’ metallici, cuocerli, fonderli, amalgamarli, purificarli etc. per conseguire l’opus. La montagna come metafora dell’athanor/alambicco deriva dai primi testi arabi tradotti in latino nei secoli XII-XIII. Arnaldo Zonca Bibliografia: Ferguson 1906, II, pp. 119-120; Duveen 1949, pp. 418-419; Trenczak 1965; Frick 1970; Neugebauer 1993; Gilly-Heertum 2002, II, n. 57
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I.11 - Giovanni Domenico Valentini (Roma 1639-1715) Bottega dell’alchimista ante 1708 olio su tela; cm 73 × 97 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 5569 Il dipinto è ricordato per la prima volta, insieme al suo pendant, nell’inventario dei quadri del reale Palazzo Pitti del 1697-1708 (C. Caneva, in Firenze 1993a, pp. 100-101). La tela, definita “una cucina da stillare” in contrapposizione a una “cucina di robe mangiative” (oggi al Museo della Natura Morta di Poggio a Caiano, inv. 1890 n. 7175) è descritta in maniera puntualissima e attribuita alla mano di Monanno Monanni, modesto pittore fiorentino ricordato da Filippo Baldinucci come allievo di Cristofano Allori, ma noto soprattutto per essere stato importante figura di guardaroba del granduca Ferdinando de’ Medici a Roma (M. Chiarini, in Firenze 1998a, p. 175). Successivamente, i due quadri sono citati, anche se con alcune imprecisioni nella descrizione, nell’inventario dell’appartamento del Gran Principe Ferdinando redatto nel 1713. A partire dalla Quintavalle (in Parma 1964), la critica ha ritenuto l’attribuzione a Monanni un errore di compilazione, preferendo, per vicinanza stilistica, assegnare l’opera a Giovanni Domenico Valentini, la cui produzione pittorica è incentrata prevalentemente sulla raffigurazione di interni di cucine, spezierie, magazzini di rigattieri e laboratori alchemici (M. Chiarini, in Firenze 1998a; C. Caneva, in Firenze 1993a 1993; Chiarini 1998). Recentemente è stata ipotizzata una diversa interpretazione, che ritiene Monanni una trascrizione sbagliata del cognome Bonanni dovuta ad un fraintendimento del compilatore dell’inventario mediceo che deve aver confuso tra due poco conosciuti artisti propendendo per quello a lui più familiare, perché fiorentino. È stato così proposto di riferire La Bottega dell’alchimista alla mano di Andrea Bonanni, di origini napoletane ma attivo a Roma, dove era noto per essere “bravissimo” nel dipingere “soggetti inanimati” e dove, stando ai documenti, ebbe tra i suoi discepoli Giovanni Domenico Valentini (G. Bocchi, in Imola 2005). Ma la sostanziale identità di repertorio e l’assenza di opere riferibili con certezza a Bonanni non aiutano a individuare le differenze stilistiche tra i due pittori e a chiarire in modo definitivo la paternità del dipinto in esame. L’ambiente in cui si svolge la scena è immerso nella penombra e rischiarato solo da un debole fascio di luce proveniente da sinistra che va a illuminare alcuni recipienti colmi di erbe e frutti per la distillazione e strumenti tipici dei laboratori alchemici tra cui un cappello di stagno e un fiasco della tipologia di quelli presenti in mostra (cfr cat. nn. IV.3, IV.5). Anche la figura dell’anziano uomo al centro del dipinto è rappresentata secondo la più diffusa tradizione iconografica dell’alchimista, solitamente ritratto nell’atto di consultare libri e ricette. La scelta del soggetto, raro nella tradizione pittorica italiana, ma frequente in quella nordica, è probabile dimostrazione di un interesse e di un excursus del pittore all’interno della congiuntura italo-fiamminga; egli lo alterna ripetutamente col tema delle cucine, in singolare accostamento di due aspetti caratteristici e concomitanti del costume dell’epoca. Francesca Montanaro Bibliografia: Ghidiglia Quintavalle, in Parma 1964, p. 96; Chiarini 1974, p. 74; C. Caneva, in Firenze 1993a, pp. 100-101; I. Della Monica, in Chiarini 1997, pp. 279-282; M. Chiarini, in Firenze 1998a, p. 175; Bocchi, Bocchi 2005, pp. 447-452; G. Bocchi, in Imola 2005, pp. 196-197; V. Conticelli, in Firenze 2006, pp. 84-85; E. Fumagalli, in Casciu 2009, pp. 166-167, n. 58
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SEZIONE I. LA PRATICA DELL’ALCHIMIA • 79
II.1 - Bernardo Buontalenti (Firenze 1523-1608), progetto Lorenzo Latini (Firenze prima metà XVII secolo), esecuzione (Firenze 1523-1608) (Firenze prima metà XVII secolo) Testa raffigurante il Granduca Cosimo I de’ Medici 1603-1607 marmo rosso dei Conti; cm 47 × 34 Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, Inv. 1905, cat. III, n. 2061 Dell’imponente busto policromo ideato da Bernardo Buontalenti, che ne affidò l’esecuzione al suo collaboratore Lorenzo Latini, ci è pervenuto soltanto il presente frammento, completato nel volto, finito nei dettagli e lucidato, ma mancante dei baffi che insieme a barba, capelli e particolari descrittivi degli occhi, dovevano essere realizzati con pietre di variate cromie. A questo scopo nel Luglio 1607, lo scultore Cristofano Istati aveva procurato e portato da Roma “sette pezzi di alabastro cotognino del color de’ capelli… da servire alla capelatura e barba alla istatua del Serenissimo Granduca Cosimo” (ASF, GM 284, ins. 3 c.126; Fara 1995, p. 178). Il ritratto doveva essere completato dalla corona granducale, probabilmente metallica, di cui però non abbiamo menzione nei documenti. L’opera, condotta sulla base di un perduto modello di gesso policromo, era destinata alla decorazione interna della Cappella dei Medici in San Lorenzo. Ne trattava l’ormai anziano Buontalenti in un carteggio del 2 novembre 1606 intercorso con il Granduca Ferdinando I (Sanpaolesi 1951a, p. 280), da cui si evince che, a quella data, la testa era già avviata da tempo ma che il Latini la stava conducendo con estrema lentezza, senza dare un idea del tempo necessario al completamento, inoltre il compenso preteso appariva eccessivo al granduca che ordinò di sospendere il lavoro. Il Buontalenti cercava di ottenere il consenso per rimetter mano all’opera, chiedendo garanzia di pagamento al provveditore di Galleria. Nonostante la sua intenzione, il lavoro non progredì molto se, a distanza di poco più di un anno, nell’inventario redatto nel maggio 1608, poco prima della scomparsa dell’architetto, il busto e relativo modello sono così descritti: “Un modello del busto e testa del Granduca Cosimo fatto di stuccho e colorito per fare di pietre et tutto fatto di pezzi per accomodarsi con le pietre alto b.1 e largo b.1”, di seguito: “Una testa di pietra cavata dal suddetto modello fatta a grandezza conforme a che a essere alla Cappella e fattili il collo con un poco di spalle di cartone e due mane per detta statua, alta la testa b.3/4 le mane lunghe b. 3/5” (ASF, GM 245 c. 454, in Sanpaolesi 1951, p. 44). Latini avrebbe dunque concluso solo le parti dei carnati ‘a vista’, il volto e le mani (di cui non mi è nota l’ubicazione) in marmo “incarnato” secondo la definizione usata dal Buontalenti nei documenti, riferendosi all’uso di un blocco di marmo di colorazione adatta a simulare il colore delle carni. Di fatto il marmo rosso impiegato, proveniente dalla cava di Sassorosso dei Conti di Castelvecchio in Garfagnana, alla lucidatura finale, aveva rivelato ampie zone di un colore troppo intenso, mostrandosi meno adeguato dei rosati calcedoni carnicini della zona di Volterra che consentivano risultati assai più veritieri, come si può osservare nelle figure degli Evangelisti realizzati negli stessi anni nella Galleria dei Lavori su modelli di Orazio Mochi (Firenze, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, nn. 50, 513, 621, 765; Przyborowsky 1988, pp. 134-137). Non è dato sapere quanto il giudizio espresso dal Giambologna, a cui la testa fu portata in visione (ASF, GM 280, ins. 2, c. 129; Fara 1995, p. 178), abbia influito nella definitiva sospensione del lavoro dopo la morte del Buontalenti. La testa dell’Opificio, tra i ritratti postumi del Granduca Cosimo I, è quello di maggiore intensità e aderenza iconografica, fortemente suggestivo anche per l’impiego di un marmo colorato e per lo stato di incompletezza in cui ci è pervenuto. Anna Maria Massinelli Bibliografia: Giusti, Pampaloni, Martelli 1978, p. 353 n. 6 63; Sanpaolesi 1951; Sanpaolesi 1951a; Langedjik 1971, p. 576; Przyborowsky 1988, pp. 134-137; Fara 1995, p. 178
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II.2 - Sisto de Boni Sexti da Norcia (XVI secolo) Opera manoscritto cartaceo, mm 206 × 140, cc. 81 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Palat. 901 Il testo, probabilmente autografo e scritto negli anni Sessanta del Cinquecento, è dedicato a Cosimo de’ Medici duca di Firenze. L’opera, divisa in quattro libri, tratta della teoria e soprattutto della pratica dell’alchimia: nei primi tre si spiegano i modi per produrre l’oro potabile in laboratorio e per “componere lo elixir”, si parla della preparazione del mercurio, si illustrano i vari tipi di distillazione come i diversi procedimenti per ottenere la pietra filosofale. Il quarto libro è invece dedicato alla forma dei forni “necessarii al’arte distillatoria et alchimica” e a riguardo, fra le cc. 69r e 78r, compaiono diverse figure di forni e vasi distillatori, disegnate a penna e acquerellate, a dimostrazione con le loro puntuali caratteristiche tecniche della non comune competenza di Sisto de Boni. Il codice è dunque un prezioso documento sulle attività alchemiche nella Firenze dell’epoca, in particolare sulle lavorazioni che si andavano sperimentando. Nell’aprile 1563 Paolo Gori, agente mediceo a Venezia, indirizzava a Cosimo una mostra della perizia di “Sisto de Bonsisti”, esperto nel contraffare pietre preziose, attività peraltro praticata tanto dal Duca quanto dal principe Francesco. Nel maggio dello stesso anno l’artefice inviava al Duca un campionario di “gioie factitie” accompagnato dall’appello a disporre dei suoi servizi (per notizie biografiche su Sisto cfr. Guasti 1902, pp. 371-373 e Conticelli 2007, pp. 394-398). Ancorché sia ignoto il responso di Cosimo, sappiamo che Sisto giunse a Firenze fra il 1563 e il 1564 e fu al servizio sia dell’arcivescovo Antonio Altoviti, peritissimo alchimista tanto da essere definito “princeps alchymistarum”, sia della corte medicea. Testimonianza dei rapporti con il più intimo seguito ducale è fornita, oltre che dalla citata dedica a Cosimo, dal “ricettario” di Bartolomeo Concino, potente segretario del duca in cui si leggono infatti una decina di ricette di alchimia, di medicina e di colori “di messer Sisto de Bonsistis da Norcia medico” (Conticelli 2007, p. 335). A partire dal 1571 compare negli elenchi dei salariati di corte il nome del figlio di Sisto (Spallanzani 1994, p. 160), Niccolò, che arriverà a direigere la Fonderia degli Uffizi sotto Ferdinando I (vedi pp. 18-20). Valentina Conticelli Bibliografia: Perifano 1990-1991, pp. 81-146; Perifano 1997, pp. 113-125; Conticelli 2007, pp. 334
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II.3 - Ricettario Fiorentino. Dell’Arte et Universita de Medici et Speziali della città di Firenze Fiorenza, nella stamperia delle eredi di Bernardo Giunti, 1567 in 2° Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 19.__.75 Il Ricettario Fiorentino, giunto nel 1567 alla terza ristampa, dopo la prima edizione del 1498 e quella del 1550, divenne il primo testo di farmacopea ufficiale al quale gli speziali del Granducato dovevano attenersi per l’impiego dei medicamenti e la composizione delle ricette. La finalità imposta dal Collegio dei Medici di Firenze era, come enuncia esplicitamente il Proemio, quella che il trattato “si purgasse di alcune macchie [e] si arricchisse di molte composizioni” al fine di evitare errori dovuti alla cattiva interpretazione delle proprietà terapeutiche delle piante medicinali, “i semplici”, dell’impiego degli antidoti ricavati dai veleni, della composizione dei “composti” affidati allo “Speziale che produce, e compone i medicamenti che sono di bisogno al Medico”. Inoltre si evitavano i fraintendimenti legati alle diversità lessicali. Per questi motivi era necessario uniformare e disciplinare le pratiche di preparazione dei composti. I riformatori del Ricettario dedicavano il codice farmaceutico, nell’edizione del 1567, a Cosimo e Francesco I de’ Medici, meritevoli di aver dato rilievo agli studi botanici, come conseguenza dell’attenzione rivolta dal casato fiorentino alla scienza e alla sperimentazione condotta sia sullo studio dei testi antichi sia attraverso l’indagine sulle proprietà medicinali delle piante, degli estratti animali e dei minerali. L’interesse per la botanica, che aveva appassionato Cosimo I e Francesco I, aveva dato avvio alla creazione degli orti botanici, prima di Pisa (1544) e poi di Firenze (1545), e si era esteso allo studio analitico delle piante provenienti dai paesi di recente scoperta, verso le quali era necessaria una reiterata sperimentazione sulle proprietà curative. Il vivace interesse naturalistico si esplicava nella classificazione delle materie prime e nell’illustrazione scientifica. Di fatto, già la seconda edizione del Ricettario (1550) si presentava radicalmente rinnovata rispettto alla prima poiché faceva riferimento non più ai tratti arabi ma alla terminologia greco-latina e in particolare al trattato De materia medica libri sex di Dioscordide, pubblicato edizione latina a Firenze nel 1518 e in volgare nel 1547, con dedica a Cosimo I. Di conseguenza il Ricettario Fiorentino diveniva un valido strumento di propaganda dell’immagine del casato mediceo attento a “la nobiltà dell’arte della Medicina, di cui il su detto Ricettario è stromento d’importanza non piccola”. Nel frontespizio dell’edizione del 1597 è raffigurata l’immagine della Madonna in trono con Bambino, protettrice dell’Arte dei Medici e Speziali, come indica il motto sub tuum praesidium riportato nel timpano del frontone, sorretto da due erme-cariatidi adornate da festoni di frutti e fiori, fonte principale per l’estrazione dei medicamenti e dei remedia. La Vergine, posta su un alto piedistallo su cui è inciso il titolo Ricettario Fiorentino MDLXVII, è circondata da due figure maschili: lo speziale che sorregge un erbario e il medico che tiene in mano un bisturi, simboli delle pratiche mediche. Sul frontone e nella parte inferiore dell’immagine, ai lati dello stemma mediceo, sono raffigurati quattro putti alati, intenti a compiere operazioni alchemiche utilizzando, con destrezza e rapidità, fornelli in terra refrattaria, mortai in rame, alambicchi, bocce, pellicani, circolatori e serpentine e canne di raccordo in vetro, impiegate nella fase finale del processo di distillazione, che illustrano, con precisione didascalica, la forma dei contenitori e degli strumenti e la funzione degli utensili in uso nelle spezierie e nei laboratori alchemici. Silvia Ciappi Bibliografia: Ricettario Fiorentino 1567, pp. 101-102; P. Galluzzi, L. Crocetti in Galluzzi 1980, pp. 196-197 nn. 7.1; 7.2; 7.3; 7.6; 7.8; n. 7.7; Cingolani 1994; Lucarella 1995; Perifano 1997; M. L. Migliore, in Lazzi-Gabriele 2000, n. 3 pp. 131-132, fig. 6, n. 41, p. 195, fig. 4; Ciappi 2001, pp. 205206, fig. 4; Ciappi 2010 pp. 196-200, fig. 10; Ciappi in c.s.
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II.4 - Ritratto di Console Testa Francesco di Orazio Mochi (?-1648) Roma, ottavo decennio XVI secolo porfido Busto Firenze 1626 marmo bianco statuario; h. cm 78 Firenze, Galleria degli Uffizi, 1914 n. 3 Inventario sculture 1881 n. 307; Inventari Galleria: 1704, n. 214; 1753 n. 279; 1769 n. 264; 1784 n. 63; 1825 n. 218 Negli inventari della Galleria degli Uffizi viene riconosciuto come ritratto di Pompeo Magno solo dal 1825, in precedenza è definito ‘incognito’. In seguito e stato identificato come Giulio Cesare (Delbrueck 1932, Di Castro Moscati 1987) e considerato una derivazione dalla testa bronzea degli Uffizi (Mansuelli, p. 44, n. 32) da cui il nostro si differenzia però nei lineamenti più pesanti e nella capigliatura più fluente. Tali caratteri sembrano alludere alla solida impalcatura del volto e alla ciocca ribelle di capelli ricordata dalle fonti e talvolta esasperata nei ritratti antichi di Pompeo Magno, come nella testa di Copenaghen (Ny Carlsberg Glyptotek). Occorre osservare che la definizione fisionomica nella ritrattistica in porfido è assai più difficoltosa rispetto al marmo o al bronzo a causa della durezza del materiale, a questo potrebbe attribuirsi la non perfetta aderenza iconografica di questo busto con i ritratti noti del console Pompeo Magno (106 a.C.- 48 a.C.). L’ipotesi di una esecuzione da parte di Francesco del Tadda (1586) non trova riscontro nei documenti medicei tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII dove sono ben riconoscibili altre opere dell’artista come i nove bassorilievi di porfido con i profili a rilievo dei personaggi di Casa Medici (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). I documenti menzionano anche il rilievo con Madonna e quello con il Cristo (Di Castro Moscati 1987, pp. 22-23), realizzato in più versioni, di cui una portata da Francesco I in dono all’imperatore Massimiliano II insieme ad altre ‘anticaglie, in occasione della sua visita a Vienna (lettera del 1 novembre 1565, ASF, MdP 5923 f. 158). Frequenti nel sesto decennio le note sull’arrivo di blocchi di spoglio, colonne giunte come dono papale o per conto di famiglie romane (ASF, Mdp 223, c. 71; 225, cc. 14, 16 ) e Baccio Bandinelli da Roma, già nel 1539, suggeriva: “che la faccia d’haver quei dua vasi di porfido come cosa molto rara” (ASF, MdP 3 p. 95). Un’ingente quantità di materiale che raggiungeva Firenze via mare, non senza difficoltà, se una fregata contenente una di dette colonne fu sequestrata nei mari di Grosseto nel 1566 (ASF, MdP 521a, c. 828), per essere accatastato nella apposita stanza dei porfidi in Palazzo Vecchio. A questi materiali si dovette attingere per l’esecuzione della monumentale statua della Giustizia fatta da Francesco del Tadda con il figlio Romolo (1570-1581) (Di Castro Moscati p. 24), unica scultura a tutto tondo documentata all’artista insieme al perduto busto di Savonarola (Zobi 1853, pp. 108-109). Al frenetico susseguirsi di spedizioni da Roma non corrisponde negli inventari delle residenze una consistente presenza di sculture di porfido. Dalla Guardaroba romana del Cardinal Ferdinando arrivava, nel 1588, l’unica testa di porfido ricordata in quegli anni (ASF, G.M. ms. 79 c. 44). Si tratta verosimilmente della presente testa, che solo a qualche decennio di distanza veniva fornita di un busto di marmo realizzato da Francesco di Orazio Mochi, stipendiato a corte per lavori di pietra dura e restauro di sculture antiche, pagato nel 1626 “per fattura di un busto di marmo quale vi è sopra una testa di porfido nominato Pompeo consolo romano”. La scultura dopo il completamento fu collocata in Galleria: “consegnata a m. Bastiano Bianchi quale si è messa sul terrazzino” (ASF, GM 403, ins. 7 c. 603, in Bocci Pacini 1999 p. 301). Qui si può già riconoscere in un elenco risalente al 1676 (SBAS Ms.74, Inventario di medaglie, statue e cammei, 1676 nn. 88, 90, 102) e intuiti i successivi inventari della galleria. La tipologia del busto marmoreo con la toga che scende in morbide ricadute si ritrova in altri esemplari, come in quello con testa di ignoto (De Luca Savelli 2010, p. 91 n. 214 ) a Palazzo Pitti dove si è potuto individuare anche un gesso chiaramente desunto dal nostro busto (De Luca Savelli 2010, p. 44, n. 59) Anna Maria Massinelli Bibliografia: Delbrueck 1932, pp. 129; Di Castro Moscati 1987 pp. 24-25; Bocci Pacini 1999 pp. 259, 301; De Luca Savelli 2010
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II.5 - Ambito di Jacopo Ligozzi (Verona 1547-Firenze 1627) La Fortuna fine del XVI secolo olio su tavola centinata; cm 46 × 27 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 8023 Il dipinto, caratterizzato da accenti stilistici tardo manieristi, rappresenta la Fortuna instabile, in bilico sul globo terrestre. Essa ha ali rosse al piede sinistro, simbolo della sua veloce transitorietà, ed è ritratta di profilo mentre avvicina la mano sinistra ai capelli dove un campanello sembra essere legato all’acconciatura. A sinistra cadono a terra i simboli della sua fragile prosperità appartenenti a ogni professione (Ripa ed. 2012, p. 207): una corona, uno scettro, un borsellino con delle monete, una penna con il suo calamaio, alcuni libri e un regolo. Essa volge le spalle al vassoio su cui stanno una clessidra e dei fiori, memento mori introdotto da una figura alata tagliata che la Meloni Trkulja ipotizza essere una raffigurazione del Tempo o della Morte (S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, P1522). Tra i dati più singolari che la caratterizzano si notano il campanello, forse utilizzato per destare gli animi a ragionare sulla sua transitorietà, e le monete che cadendo dal borsellino vengono raccolte nel vaso e ne escono trasformate in farfalle. Inoltre della figura laterale s’intravede solamente parte dell’ala, nonostante l’opera non risulti alterata o ridimensionata lungo il profilo. Il prezioso vaso vitreo che la protagonista sorregge con la mano destra dimostra l’interesse dei granduchi per la realizzazione di vetri preziosi, attività che aveva forti punti di contatto con la pratica alchemica (Conticelli 2007, p. 346 e vedi pp. 88) e che con grande probabilità fu praticata dallo stesso Francesco I (Conticelli 2007, p. 342 e vedi p. 13). La corte medicea incaricò alcuni artisti tra cui lo stesso Jacopo Ligozzi, pittore di corte dal tempo di Francesco I, d’ideare preziosi vetri dalle forme svariate e intessute di reminiscenze provenienti dal mondo naturalistico (Heikamp 1986, in part. pp. 133-144; Kieffer 2007), come testimoniano i molti disegni dell’artista conservati presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Tra questi ve ne è uno che ricorda da vicino la tipologia di vaso ritratta nella tavola (Heikamp 1986, pp. 136-137). La rottura che esso presenta nell’estremità inferiore sottolinea la fragilità dell’oggetto, metafora della fragilitas e dell’incostanza della fortuna stessa (Per quanto riguarda il topos vetrofragilitas si veda Colonna 1998, nota 1, p. 727). Carlo Gamba nel 1922 inserisce il dipinto tra quelli di mano del Ligozzi, in quanto lo riteneva vicino ai medaglioni dipinti a finto bronzo nella decorazione della Tribuna attribuiti al veronese (Gamba 1922, p. 13). Nel 1963 Mina Bacci rifiuta l’attribuzione optando piuttosto per la cerchia ligozziana sulla base del modesto fare pittorico del dipinto (Bacci 1963, p. 84), mentre nel 1980 Silvia Meloni Trkulja ascrive più prudentemente la tavola a una generica scuola italiana del XVI secolo. La studiosa ritiene inoltre che la cornice di noce intagliato e filetti d’oro sia originale, e che le due strisce di ferro fissate sul retro del dipinto terminanti in anelli da incardinare indichino che la tavola fosse l’anta di un mobile oppure la coperta di uno specchio (S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, P1522). Tuttavia, a una recente analisi, si è notato che in età antica è stata aggiunta, sul retro dell’opera, la tavola con i cardini, ed è pertanto probabile che originariamente essa avesse una funzione diversa. L’erronea attribuzione a Ligozzi è dovuta a un fraintendimento in alcuni passaggi d’inventario. Essa compare nelle collezioni medicee almeno dal 1649 quando è inventariata alla Petraia senza indicazione dell’autore (ASF, Guardaroba medicea 628, c. 6r. Citato in S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, P1522). In seguito fu erroneamente identificata con una Fortuna del Ligozzi entrata agli Uffizi dalla guardaroba medicea nel 1771 (AGF, filza III a 27, n. 1029), opera che però era dipinta su rame e presentava misure e soggetto diversi (S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, P1522). Sul retro del dipinto compaiono undici numeri antichi in vari colori. L’opera fu esposta alla Galleria dell’Accademia dal 1912 al 1925 e successivamente entrò agli Uffizi. Marica Guccini Bibliografia: Gamba 1922, p. 13; Poggi 1926, n. 8023, p. 65; Venturi 1934, nota 1, p. 481; Amsterdam 1955, n. 75, p. 76; Salvini 1956, n. 8023, p. 77; Bacci 1963, p. 84; S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, P1522.
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II.6 - Crespina con stemma Medici Firenze fine del XVI secolo maiolica; diam. cm 33,5, h. cm 11,5 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Inv. 418 Maioliche provenienza: acquisto da Galleria Sangiorgi, Roma, nel 1910 Crespina ricoperta da un candido smalto di spessore consistente, con vasca modellata a pressione su uno stampo e alto piede; al centro è un emblema mediceo sormontato dalla corona granducale. Il decoro accessorio si limita a un serto di piccole foglie in bicromia giallo-azzurro vicino all’orlo mentre sul verso disadorno, all’interno del piede, compare la scritta a caratteri capitali “FIR.ZA”. Osservando la maiolica non si può non ricordare simili prodotti faentini, i cosiddetti “bianchi”, che nella seconda metà del Cinquecento conquistavano i mercati italiani e non solo; questi erano contraddistinti da una spessa e nivea smaltatura sulla quale risaltano le divise araldiche degli aristocratici committenti. La prima testimonianza del successo di quella tipologia presso la corte fiorentina si data al 1568, quando Francesco, già principe reggente, commissiona al vasaio Leonardo Bettisi di Faenza, noto come “Don Pino”, un intero servito. Si tratta di ben 307 pezzi (fra piatti di varie misure, scodelle, tazze, fiasche, bacili, catini, rinfrescatoi e saliere) elencati nei documenti d’archivio. Le ordinazioni continuano copiose nel tempo e nell’inventario dei beni al Casino di San Marco, passati nel 1588 a Don Antonio de’ Medici quale eredità del granduca Francesco, vengono censiti più di 3.200 esemplari di “Terra di Faenza” (Spallanzani 1994, pp. 191-192). Alla morte di Francesco I il cardinal Ferdinando eredita le raccolte di famiglia e poco dopo il ritorno a Firenze come nuovo sovrano, tutto quanto egli aveva riunito nella propria residenza romana viene a confluire nella Guardaroba di corte. Fra le centinaia di vasellami elencati (ceramiche di varie provenienze, maioliche, porcellane medicee e orientali, etc.) compaiono anche “Centocinquantatre piatti fra grandi e piccoli di terra bianca di Faenza…”, “Centocinquantasette pezzi di terra bianca di Faenza di più sorte…”, “Dugentocinquanta piatti di terra bianca di più grandezze, lisci…”. Inoltre, espressamente ordinati per il cardinale de’ Medici, risultano nell’inventario del 1574 “Piatti et c(i)otole di terra bianca co l’arme di S. E. S. ... Bacini e mescirobe di terra bianca d’ogni sorte… Brocchette e catinelle di terra bianca con arme di S.E.S… Saliere et oviere di terra bianca con arme di S.E.S… Tazze et candellieri di terra bianca con arme di S.E.S…” (Spallanzani 1994, pp. 187 e 169-170). L’apprezzamento di Ferdinando verso i prodotti di Faenza continua anche dopo la nomina a Granduca, come rivela l’ordinativo di una credenza di maioliche, sempre del tipo dei “bianchi”, al vasaio faentino Antonio Bettisi nel 1589, per un totale di 374 pezzi. Al sovrano inoltre si deve il merito di aver proseguito con entusiasmo nel promuovere “l’esercitio delle maioliche alla faentina e le porcellane… in Fiorenza et poi in Pisa”, grazie alla presenza nelle botteghe granducali di vasai originari della cittadina romagnola. In effetti già dal 1574 si ha notizia di un tale tipo di lavorazione nei laboratori medicei, come si evince dalla somma di dieci fiorini che il granduca Francesco elargisce quell’anno a “maestro Jacopo di Filippo da Faenza, maestro de’ bianchi”, attivo al Casino di San Marco (Spallanzani 1994, p. 172). Sulla fabbrica pisana, avviata alla fine del Cinquecento da Niccolò Sisti, si dispone di notizie più dettagliate, mentre per Firenze esse sono in verità scarse (Cora 1964; Cora, Fanfani 1986; Spallanzani 1994). Come plausibile riscontro per una produzione di “bianchi” alla faentina nella capitale del Granducato, si ricordano, oltre a quella in mostra (senza dubbio l’esemplare più convincente), altre due crespine simili nell’impianto, candidamente smaltate e siglate sul verso con grafia per tutte quasi identica, indicante il luogo di origine: “FIORENZA”; “FIREZA” (Ravanelli Guidotti 2010, p. 40). Recentemente è stato attribuito alla stessa produzione un piatto frammentario con emblema del cardinal Ferdinando emerso dagli scavi effettuati presso la villa medicea di Cafaggiolo (Marini 2012, p. 23). Marino Marini Bibliografia: M. Spallanzani, in Firenze 1980, p. 178, n. 326; Spallanzani 1994, p. 116, tav. 46; G. Mancini, in Firenze 2005, p. 116 n. I.62; Marini 2012, p. 24 e fig. 9
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II.7 - Orciolo da farmacia Montelupo seconda metà del XVI secolo maiolica; h. cm 33,5, diam. piede cm 11,5 Firenze, Galleria degli Uffizi, donazione Contini Bonacossi, Inv. CB 135 provenienza: Galleria Sangiorgi, Roma; Alessandro Contini Bonacossi L’orciolo ha un corpo ovoidale con piede a disco, versatore a tubetto impostato subito sotto il collo e anse conformate a drago (sono presenti alcuni restauri). La faccia anteriore è pervasa da un’ampia ghirlanda di foglie, fiori e frutti, legata da nastri, che racchiude uno scudo araldico con stemma mediceo sovrastato dalla corona granducale. Il decoro di contorno alla “palmetta persiana evoluta”, che si distribuisce nella restante superficie, è quello peculiare nella produzione apotecaria di Montelupo della seconda metà del Cinquecento (cfr. Berti 1999, tavv. 108-121). Questo tipo di contenitori era adibito alla conservazione di “acque”, cioè distillati vegetali fluidi ottenuti con erbe medicinali essiccate, frutti macerati e l’aggiunta di elementi minerali, sciroppi o pozioni più elaborate, spesso a base zuccherina. I medicamenti usati per la terapia dei malanni, preparati secondo le conoscenze farmacologiche dell’epoca, venivano conservati in recipienti di vetro e ceramica (albarelli, orcioli, caraffe, bottiglie) sugli scaffali delle spezierie e delle farmacie, sia esse private o situate all’interno di istituzioni assistenziali e religiose. In questo caso la presenza di un emblema Medici, realizzato con estrema cura, induce a riflettere se il vaso sia da rapportare a una committenza in qualche modo relazionata alla famiglia regnante. Mentre sono scarse le notizie che ricordano due esercizi di spezieria posti in Firenze “all’insegna dei Medici” (Berti 1999, p. 146), più dettagliate invece appaiono le cognizioni sul laboratorio farmaceutico, sorto per volere di Cosimo I all’interno della “Fonderia Medicea”, per il quale si deve ipotizzare una dotazione vascolare pertinente. Nell’officina, già in uso alla metà del 1500 in alcuni locali di Palazzo Vecchio, i medicinali prodotti non venivano posti in commercio, bensì erano dispensati a illustri personaggi o bisognosi che ne avessero fatta richiesta, dimostrandosi così per il principe un importante strumento propagandistico. In pochi anni l’opificio svolse una rilevante attività e lo stesso Cosimo spesso vi si recava per sperimentare personalmente distillati d’erbe e di fiori necessari alla preparazione dei medicamenti. Dopo il trasferimento della Reggia a Palazzo Pitti anche l’officina venne aggregata alla nuova residenza e il Granduca teneva aperta la “reale spezieria di Boboli per servizio della corte” come ricorda Targioni Tozzetti (Piccardi 2005). Numerosi sono comunque i vasi da farmacia superstiti con emblema Medici, fra loro diversi per epoca e caratteristiche tipologiche, da far supporre che almeno alcune delle residenze di proprietà della famiglia ospitassero al loro interno un presidio farmaceutico ad uso privato, con relativi corredi vascolari. Nei registri della Guardaroba di Ferdinando I sono ricordati fra gli altri “quattro alberelli di terra da spezziali”, e più avanti “vasi da unguenti di terra fioriti con arme nel capo de’ Medici e Rovere” fino agli elenchi del XVIII secolo dove, fra molti, si riconosce “Un vaso a morsa di terra turchesca con due manichi tinto di turchese e verniciato di colore di rame, entravi da una parte arme di palle, e dall’altra impresa del Diamante” (ora al British Museum di Londra; Marini, Piccardi 2009). Come per molti altri manufatti artistici, la prima consistente diaspora delle maioliche da farmacia ebbe luogo con la soppressione dei conventi e in seguito dilagò con il diffondersi del collezionismo antiquariale nel corso del XIX secolo; risulta quindi molto difficile ricondurre oggi esemplari superstiti a contesti originari, pur in presenza di simbologia araldica. Marino Marini Bibliografia: A. Paolucci, in Uffizi 1980, p. 1109, C14; M. Spallanzani, in Firenze 1980, pp. 177-178 n. 325; Marini 2004, p. 134 fig. 5; G. Mancini, in Firenze 2005, p. 114, I.60; M. Marini, in Budapest 2008, p. 319, n. 198; Marini, Piccardi 2009, p. 62, n. 2 e fig. 2
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II.8 - Medaglione con l’effigie di Francesco I Firenze (manifattura medicea) 1585 porcellana a pasta tenera; cm 12,8, h. cm 9,4 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Inv. 180 Maioliche provenienza: dalla Galleria degli Uffizi nel 1881 Il medaglione del Bargello con l’effigie del granduca Francesco I, come recita l’iscrizione “FRANC .MED. MAG. DUX. ETRURIAE. II”, è datato 1585. La lettera P impressa sulla spalla destra indica l’artefice dell’ovale, ovvero Pastorino Pastorini da Siena, medaglista e incisore negli opifici medicei, stabilitosi a Firenze nel 1576. L’interesse della famiglia Medici per il vasellame esotico di importazione prende avvio già con le prime porcellane cinesi raccolte da Piero di Cosimo il Vecchio per accrescersi poi in modo esponenziale fino metà del Cinquecento, quando, negli inventari di Cosimo I, si registrano oltre quattrocento esemplari provenienti dall’Estremo Oriente. L’ammirazione verso prodotti così tecnicamente superiori alle maioliche prodotte in Italia determinò un forte coinvolgimento verso nuove sperimentazioni scientifiche, alle quali peraltro gli stessi granduchi si dedicavano con entusiasmo; presero così il via intorno al 1570 circa le ricerche per ottenere una porcellana “nostrana” ad imitazione di quella cinese, poi nota come “porcellana medicea” (Cora, Fanfani 1986; Spallanzani 1994). Il laboratorio installato nel Casino di San Marco impegnava numerosi addetti che operarono alla realizzazione della prima porcellana europea a pasta tenera; fra costoro compaiono, oltre a Bernardo Buontalenti, il vasaio urbinate Flaminio Fontana, lo “stillatore” Niccolò Sisti, il vasaio Pier Maria detto il Faentino. Il repertorio di riferimento per i ceramisti dei laboratori medicei rimane quello delle porcellane cinesi in bianco e blu ma su alcuni manufatti si riscontrano contaminazioni ben riconducibili alla coeva maiolica urbinate. In particolare ci si riferisce alla mezzina con “manichi a staffa” dell’Institute of Arts di Detroit, forse progettata dal Buontalenti e decorata da quel Flaminio Fontana di Urbino che dal 1573 al 1578 fu attivo a Firenze. Si possono far confluire in questo gruppo pure la brocca del Museu de Arte Antigua di Lisbona (con “manico d’una sfinge e boccuccio a drago”), una fiasca del Victoria and Albert Museum di Londra e due grandi piatti, uno al Metropolitan Museum di New York e l’altro in collezione privata. Risulta comunque estremamente complesso riconoscere nelle fonti documentarie i circa sessanta esemplari superstiti, oggi nei musei o in raccolte private. In genere gli elenchi dell’epoca non precisano la natura dei vasellami e così con “porcellana” si intendono sia i prodotti importati dall’Oriente che quelli realizzati a Firenze; non molti sono i vasi indicati come porcellana “nostrale”, “grossa” o “fatta in Firenze”. Solo in un inventario redatto dai guardarobieri di Ferdinando II, su un totale di 640 pezzi, si distinguono nettamente i due diversi tipi ceramici chiarendo il rapporto quantitativo nettamente favorevole agli esemplari medicei (538) su quelli cinesi (90) (Spallanzani 1994, pp. 83-84). Come si evince dall’inventario redatto nel 1588, dopo la morte di Francesco I, la raccolta di corte comprendeva, fra la Guardaroba e il Casino di San Marco, più di mille porcellane, fra cinesi e “medicee”, oltre a circa centocinquanta maioliche di Urbino “a figure” e “grottesche” e ben 3.200 esemplari di “bianchi” faentini. Purtroppo i fatti che si succedettero dal tempo di Cosimo II a tutta l’età lorenese portarono alla quasi completa alienazione delle raccolte ceramiche. Episodio emblematico fu l’ingente vendita di circa 7.000 pezzi (fra porcellane europee e orientali, maioliche, buccheri messicani, etc.) avvenuta il 4 settembre 1772 nel Salone dei Duecento in Palazzo Vecchio. Fra le centinaia di lotti destinati all’asta alcuni sono direttamente riferiti alle porcellane fiorentine: “Centoquara[n]ta piatti di porcellana fatta in Firenze turchini e bianchi, che n. 40 grandi di diverse grandezze e cento piccoli… Dieci fiasche di porcellana bianca grossa, che sei quadre, e quattro tonde… Una mezzina di porcellana suddetta bianca e turchina con manichi a staffa… Due catinelle di porcellana grossa fatte in firenze… Due vasetti di porcellana grossa con due beccucci per ciascuno con mascheroncini nel corpo… Un Boccale, o sia mesci roba, simile con manico d’una sfinge, e boccuccio a drago… Undici tondini di porcellana nostrale rotti”. Marino Marini Bibliografia: Firenze 1939, p. 141; U. Middeldorf, in Firenze 1980, p. 183, n. 339 94 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
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II.9 - Pittore di scuola fiorentina della seconda metà del Cinquecento Ritratto di Francesco I 1570 circa olio su tavola; cm 112 × 84,5 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 2226 Il dipinto documenta il segaligno aspetto del principe Francesco di Cosimo I de’ Medici intorno ai trent’anni, ma la sua paternità non è stata ancora chiarita definitivamente. Se il tentativo di ascrivere l’opera a Tommaso Manzuoli detto Maso da San Friano (Cannon Broooks 1966) non è risultato convincente agli studi dedicati al pittore successivamente (Pace 1976), non ha trovato seguito neppure la proposta di identificarla con il ritratto che Santi di Tito eseguì nel 1586 (Langedijck 1983); e ciò sia per ragioni stilistiche che per l’incongruenza con l’aspetto notevolmente appesantito che il granduca aveva negli ultimi anni della sua vita secondo quanto tramanda, ad esempio, il ritratto di Scipione Pulzone (Firenze, Galleria degli Uffizi). Ultimamente il dipinto è stato assegnato a Domenico Buti (L. Goldenberg Stoppato, in Budapest 2008), ma anche questa ipotesi non ha convinto del tutto (cfr. Nesi 2009). Infatti, sebbene un po’ schematico, il sorvegliato disegno e la minuzia descrittiva impiegata in questa effige mal s’accorda con la scrittura di Domenico, che talvolta è libera al punto di essere corsiva. Come suggerimento per ulteriori approfondimenti si potrebbe proporre invece il nome del pittore fiammingo, ma naturalizzato fiorentino, Jan van de Straet detto Stradano. In ogni caso è probabile che l’autore del dipinto facesse parte del gruppo di artefici, nel quale si contavano anche il Manzuoli, Santi di Tito e il Buti, che tra la fine del 1570 e il 1573 partecipò alla decorazione del celebre studiolo di Palazzo Vecchio, la prima impresa artistica per la quale Francesco è ricordato. Ed è proprio tra i pannelli realizzati per la decorazione di quel superbo “stanzino”, sulla parete dedicata all’elemento del Fuoco, che si trova la testimonianza figurativa più suggestiva della passione del principe per le pratiche alchemiche. Nella tavola del 1570 in cui lo Stradano illustrò un’officina affollata di alchimisti, è possibile riconoscere Francesco mentre lavora ad uno “strettoio” assistito da un esperto maestro (cfr. Conticelli, 2007, pp. 331-338). Il suo interesse per i misteri degli elementi naturali era sorto frequentando la fonderia e laboratorio farmaceutico di Cosimo I a Palazzo Vecchio, che per volere del suo successore fu trasferita al Casino di San Marco (vedi p. 15). Visitando Firenze nel 1576 l’ambasciatore veneto Andrea Gussoni scrisse infatti che Francesco “sopra tutto ha gran diletto di lavorare di lambicchi, formando molte acque, e ogli sublimati atti al medicamento di molte infermità , che ce n’ha quasi per ognuna. E fra gli altri fa un olio di sì eccellente virtù, che con ongersi di fuori li polsi, il cuore, lo stomaco la gola, guarisce e difende da ogni sorte di veleno, sana gl’infettati, preserva li sani, ed è attivissimo rimedio alle petecchie, e ad febbre maligna; e m’ha detto averne voluto fare esperienza del veleno in persone che aveva a far morire per giustizia facendo loro bere del veleno, e con quest’oglio suo, ungendoli li ha del tutto guariti. Del quale oglio ha voluto farmene parte di una piccola ampollina.” “(…) e ha un luogo che lo chiama il Casino, ove, a guisa di un picciol arsenale, in diverse stanze, ha diversi maestri che lavorano di diverse cose, e quivi tiene li suoi lambicchi e ogni sorte d‘artifizio. A questo luogo va la mattina, e vi sta fino ad ora di desinare, e doppo desinare torna a starvi sino alla sera, e poi va un poco per la città a spasso. Qui si spoglia e vi sta facendo lavorare ora questo artefice, ora quell’altro, facendo sempre qualche esperienza e molte cose di sua mano; ma tuttavia però mentre si intertiene in simili esercizi, negozia con i segretari delle cose di stato, dando spedizione anco a molte suppliche così di grazia come di giustizia; in maniera che senza perdita di tempo tramette li piaceri nelli negozi, e nelli negozi li piaceri” (Relazioni 1916, III.I, pp. 226-227). Simone Giordani Bibliografia: Cannon-Brooks 1966, pp. 563-564, nota 14; Pace 1976, p. 93; S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, p. 756, Ic 1017; Langedijck, 19811987, II, 1983, pp. 870-871, n. 42; L. Goldenberg Stoppato, in Budapest 2008, p. 235, n. 135; Nesi 2009, p. 43; L. Goldenberg Stoppato, in Parigi 2010-2011, p. 128, n. 39; S. Giordani, in Santo Stefano di Sessanio 2012, p. 52, n.4
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II.10 - Miscellanea XIV-XVI secolo manoscritto cartaceo; mm 215 × 145 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 89 sup. 35 Questa miscellanea riunisce scritti diversi, anche di contenuto alchemico, magico e astrologico. Vi si trova infatti l’oroscopo di Francesco I de’ Medici per il 1568, compilato da Giovanni Battista Guidi da Cerreto (1524-1592), alchimista (Arrighi 1999, p. 297) e astrologo di fiducia del Granduca (Firenze 1980, pp. 380-381, 401) e Guardaroba Maggiore dal 1572. Una singolare incisione alchemica compare alla c. 8v: in alto, sopra la xilografia, corre una breve scritta tratta dal Rosarium philosophorum di Arnaldo da Villanova e inerente il modo in cui lo “zolfo bianco” diviene “rosso” (Ascendens superius est sulphur albissimum quod accipere possunt Alchimisti ut ex eo faciant argentum.Quod vero remanet inferius est sulphur rubi cundissimum tinctum ut scarlatta, quod accipere possunt ut ex eo faciant verum aurum. Hec Arnald de Villanova; cfr. in J. J. Manget. Bibliotheca Chemica Curiosa, I-II, Genevae, 1702, I, p. 671, cap. XVII; la prima ed. del Rosarium è del 1571). La raffigurazione pare indipendente dallo scritto secondo un rapporto testo/immagine abbastanza comune nella tradizione didascalica alchemica, dove l’uno e l’altro servono a mostrare su diversi piani espressivi ed eloquenti il contenuto da spiegare, specialmente nella dinamica teoria/prassi. Se qui la prassi sembra affidata alle parole, all’iconografia è lasciato il compito di esibire simbolicamente la teoria. Infatti, nella raffigurazione, secondo topoi consolidati, vediamo raffigurato l’intero processo secondo l’immagine teriomorfa e nel contempo antropomorfa del dragone alato, che si ritrova, pur con varianti formali, anche nel Nazari (vedi cat. n. I.5). Rispetto a quest’ultimo abbiamo qui tre livelli iconici: il liquido in basso è allusivo della materia sciolta nel crogiolo, da cui nascono le successive metamorfosi metalliche (il proteico e multiforme dragone alato: acqueo, greve e volatile) su cui agiscono gli agenti cosmici, il Sole e la Luna, e il mercurio che scioglie e purifica i metalli nobili (tecnica dell’amalgama, ben nota fin dall’antichità). Tale triplicità è personificata dalla figura, appunto tricipite, che si erge sul dragone, in atto di ‘domarlo’ al fine di raggiungere l’aurea perfezione alchemica della stessa materia. Notevole, a proposito, il doppio gesto del ‘domatore’, che con la mano destra tiene aperta la bocca del mostro, mentre con la sinistra ne afferra la coda, lasciando intendere che sta per porre questa in quella e dar vita al simbolo dell’ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo di eternità e di ciclica perfezione dell’“unità del tutto” fin dai più antichi trattati alchemici greco-egizi, esprimendo così anche il volgere al compimento dell’opus secondo il suo naturale moto trasmutatorio. Ma l’ouroboros nell’iconografia alchemica medievale e rinascimentale diviene, per analogia con il suo variabile mutamento circolare, anche figurazione del mercurio e della sua instabile volatilità. Significativo che ancora in questo manoscritto, alla c. 9r, sia rappresentato Hermes Trismegisto che impugna una spada con la quale colpisce il dragone ouroboros ai suoi piedi. Si tratta di una sintetica allegoria della scienza alchemica, personificata da Hermes e dai due elementi essenziali del magistero alchemico: il fuoco e la materia mercuriale. Infatti la spada è simbolo dell’azione distruttrice e trasformante del fuoco fin dai trattati di Zosimo di Panopoli (alchimista egiziano della fine del III-inizi IV sec. a.C.), mentre il serpe che si mangia la coda allude, come si è detto, alla materia metallica e al mercurio, all’intima unità pur nell’incessante metamorfosi delle cose, che la forza ignea ‘uccide’, modifica e rinnova (Gabriele 2008²). Arnaldo Zonca Bibliografia: G. Ernst, in Firenze 1980b, p. 401; Gabriele 2008², pp. 27-28, 82-84, 88
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II.11 - Philips Galle (Haarlem 1537-Anversa 1612) da Giovanni Stradano (Bruges 1523-Firenze 1605) Distillatio 1590 circa incisione a bulino; mm 200 × 270 Firenze, Biblioteca Marucelliana, stampe in volume LXXXIV, n. 14 iscrizioni: in basso a sinistra “Ion. Stradanus Invent”, al centro in basso “Phls. Galle excud.” Nel margine inferiore al centro “DISTILLATIO.” Sotto in due colonne “In igne succus omnium, arte, corporum // Vigens fit vnda, limpida et potissima.” Distillatio è la settima delle venti stampe della serie Nova Reperta (Hollstein 1949-2010, Johannes Stradanus, III, p. 8; McGinty 1974, pp. 10-20; Baroni Vannucci 1997, n. 697, pp. 397-398; Van der Sman, in Bruges 2012, pp. 304-306) commissionata a Stradano dal nobile ed erudito fiorentino Luigi Alamanni, membro dell’Accademia degli Alterati. Le stampe incise da Jan Collaert, Theodor e Philips Galle e pubblicate da quest’ultimo, illustrano le maggiori invenzioni e scoperte conseguite utilizzando virtù e intelligenza (Baroni Vannucci 1997, p. 398). Nova Reperta tocca quattro temi principali con il fine di dimostrare come l’uomo abbia saputo trovare un modo per controllare la natura sostituendosi a essa grazie a nuovi strumenti tecnologici. I temi sono: la scoperta dell’America, la conquista della materia e del movimento, ambito di cui fa parte Distillatio, la razionalizzazione dell’attività agricola e infine la meccanizzazione delle arti visive grazie all’invenzione della stampa (McGinty 1974, pp. 19-20; Baroni Vannucci 1997, p. 398; Van der Sman, in Bruges 2012, p. 305). All’interno di un laboratorio alcuni artefici sono occupati nelle diverse fasi della distillazione delle erbe che vengono pestate con un mortaio da un garzone in primo piano. Alla sua sinistra e alle sue spalle si trovano vari forni per la distillazione, dei quali quello centrale, il più grande, viene alimentato con un mantice da un altro garzone. A sinistra un maestro è intento nella lettura di un libro che viene indicato dall’uomo in piedi dietro di lui. Alle sue spalle intravediamo una bilancia, sul fondo della scena a destra un uomo aziona uno strettoio per ottenere un estratto vegetale, mentre oltre due archi intravediamo un altro forno e una fucina. Dell’immagine ideata da Giovanni Stradano e tradotta in stampa da Philips Galle resta uno schizzo a penna e inchiostro marrone conservato presso il Cooper Hewitt Museum di New York (inv. 1901-39-305. Baroni Vannucci 1997, n. 472, p. 286). La distillazione si prestava a svariate applicazioni, dalla realizzazione di prodotti farmaceutici, cosmetici e alimentari, fino ai tentativi di trasmutazione de i metalli in oro (Conticelli 2007, p. 332): attività, queste, che erano svolte anche all’interno della Fonderia Medicea (vedi pp. 13, 14). Del resto Stradano nel 1570 aveva già eseguito per lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio un dipinto raffigurante un laboratorio alchemico (Baroni Vannucci 1997, p. 139; Conticelli 2007, n. 5, pp. 331-338), nel quale il principe è raffigurato intento a distillare. Da questo dipinto prende spunto l’incisione esposta che, come il quadro e come gli altri fogli della serie, è caratterizzata da un’attenta descrizione della strumentazione e delle tecniche distillatorie in uso all’epoca. Il topos dello studioso seduto col libro in mano che richiama ancora il dipinto, è un probabile rimando alla tradizione iconografica della coppia maestro/allievo frequente nelle illustrazioni rinascimentali di carattere medico-alchemico o farmaceutico (Conticelli 2007, p. 333). Infine, appesa alla parete sinistra del laboratorio vi è un’immagine raffigurante due commensali seduti ad un tavolo imbandito, elemento che potrebbe sottolineare ulteriormente i benefici dell’arte distillatoria utile per perseguire il benessere umano, in decisa antitesi con la tradizione che accentuava l’esito di povertà nelle raffigurazioni della pratica alchemica (cat. nn. I.7-8). Marica Guccini Bibliografia: Hollstein 1949-2010, Johannes Stradanus, III, n. 7, p. 9; McGinty 1974, pp. 99-104; Baroni Vannucci 1997, n. 697, pp. 397-398; Conticelli 2007, p. 332
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II.12 - Jacopo Ligozzi (Verona 1547-Firenze 1627) Digitalis purpurea 1583 circa tempera su carta bianca; mm 667 × 458 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Orn. 1954 iscrizioni: in basso a sinistra in grafia ottocentesca “Digitalis purpurea, con farfalla denominata Papilio Paphia”, in alto a destra “77”. Jacopo Ligozzi, artista di corte del granduca Francesco I de’ Medici, ritrae con grande meticolosità la digitalis purpurea prestando attenzione alla descrizione delle sue caratteristiche botaniche. Il ramo fiorito realizzato a tempera si staglia con grande evidenza sul foglio bianco, mentre una piccola farfalla, la “Papilo Paphia”, si posa su una delle campanule del fiore. La digitalis purpurea giunse a Firenze assieme ad altre essenze inviate dal naturalista Ulisse Aldrovandi al granduca il 26 aprile 1583, come documenta la lettera che accompagnava gli esemplari e dove la pianta è indicata come “Digitalis maior” (AFS, MdP 760, cc. 555r-556r, in Tosi 1989, n. 25, pp. 276-278; vedi anche Firenze 1961, pp. 16, 26; Antonino 2003, p. 51). Un cospicuo carteggio testimonia i rapporti intrattenuti tra il bolognese e Francesco I che condivideva i medesimi interessi scientifici sovente culminanti in scambi di essenze, piante, animali e altre rarità che potessero arricchire entrambe le collezioni. Secondo quanto riportato nel catalogo della mostra fiorentina del 1990, la digitalis purpurea sarebbe stata citata per la prima volta nel 1561 da Luigi Anguillara nel suo Semplici dell’Eccellente M. Luigi Anguillara (p. 222. Firenze 1990, n. 55, p. 81). Essa compare, tuttavia, almeno in una pubblicazione precedente. Infatti, nel De Historia Stirpium (cap. LXXXVIII) di Leonart Fuchs, stampato la prima volta nel 1542, l’autore, spiega l’etimologia delle piante e ne indica le proprietà purgative, benefiche per i polmoni e altre qualità già delineate da Galeno. Solamente dopo gli studi di William Withering del tardo XVIII secolo verranno alla luce i benefici della digitalis purpurea per l’attività cardiaca (Wood Krutch 1976, pp. 27-29). Le illustrazioni naturalistiche realizzate a tempera o acquerello furono, nel XVI secolo, uno strumento indispensabile per osservare e classificare le essenze vegetali e il mondo animale. Una volta tradotte in stampa divennero inoltre un necessario sussidio per la comprensione dei testi naturalistici (Tongiorgi Tomasi 1982, p. 10; Tongiorgi Tomasi 1984, p. 41). All’arrivo a Firenze Jacopo Ligozzi fu subito apprezzato per le sue capacità nell’ambito della raffigurazione scientifica, dove poté mettere a frutto quanto appreso dalla tradizione grafica e miniaturistica nordica che, nel Veneto del XVI secolo, acquisì nuova evidenza in seguito al viaggio di Dürer e alla circolazione delle stampe d’oltralpe (Firenze 1961, p. 14). Ligozzi riuscì inoltre a captare le più minute peculiarità degli animali e delle piante, che ritraeva (Tongiorgi Tomasi 1984, pp. 52-53) creando immagini di grande efficacia e diffusione. L’ammirazione per il pittore fu condivisa anche da Aldrovandi, che per la prima volta lo documenta a Firenze in una lettera del 19 settembre 1577 nella quale, inviando alcune essenze a Francesco I, invitava il granduca a farle ritrarre dal suo “celebre pittore” (Tosi 1989, p. 225). Inoltre in un’altra lettera rivolta a Monsignor Paleotti, egli descrive Ligozzi raccontando come “giorno e notte non attende ad altro che a dipingere piante, animali di tutte le sorti […] ai quali non manca se non lo spirito” (BUB, Ms. 6, Aldrovandi, Lettere e discorsi, tomo II, c. 111v, citato in Firenze 1961, p. 19). Il Gabinetto Disegni e Stampe di Firenze conserva un cospicuo nucleo d’immagini di piante e animali attribuibili al solo Ligozzi (Tongiorgi Tomasi 1982, p. 18; Tongiorgi Tomasi 1984, p. 54). Lucia Tongiorgi Tomasi descrive la tecnica dell’artista che era solito tracciare a matita o a punta di metallo il disegno entro il quale stendeva poi le campiture di colore con una tempera piuttosto liquida. Sottilissime pennellate successive marcavano contorni, nervature e i particolari più minuti. Una patina di chiara d’uovo fissava infine i colori conferendogli la lucentezza che tuttora conservano (Tongiorgi Tomasi 1984, p. 54; Firenze 1990, n. 55, p. 81). Marica Guccini Bibliografia: Giglioli 1924, p. 562; Firenze 1931, p. 162; Firenze 1940, n. 30, p. 177; Firenze 1961, n. 3, pp. 25-26; Firenze 1980b, n. 595, p. 295; Firenze 1990, n. 55, p. 81; Antonino 2003, p. 51
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II.13 - Pittore fiorentino della cerchia di Alessandro Allori Ritratto del cardinale e granduca Ferdinando I de’ Medici 1588 olio su tela; cm 195 × 122 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 3198 Ferdinando I de’ Medici (1549-1607), figlio secondogenito di Cosimo I, divenne cardinale all’età di quattordici anni. A partire dal 1574 si trasferì a Roma e vi risiedette fino al 1587 quando, alla morte del fratello Francesco ereditò il titolo di Granduca di Toscana. Appassionato di antichità, ma anche di rarità esotiche e curiosità naturali (sui suoi interessi per l’alchimia vedi Conticelli supra, p. 16), già a partire dai primi anni del suo regno Ferdinando volle allestire in Galleria, accanto ai capolavori dell’arte, anche quelli della scienza, commissionando la creazione di due ambienti specificamente pensati per ospitare gli strumenti scientifici che il padre Cosimo aveva raccolto in Palazzo Vecchio e quelli che lui stesso aveva collezionato durante il periodo romano. La Sala dedicata alla Cosmografia, ricavata dal Terrazzo su via dei Castellani, venne realizzata nel 1589 sotto la direzione di Alfonso Parigi e affrescata da Ludovico Buti con rappresentazioni cartografiche dei domini medicei. La Sala dell’architettura militare, meglio nota come Stanzino delle matematiche, il cui allestimento fu progettato nel 1599 dal diplomatico mediceo Filippo Pigafetta, doveva ospitare strumenti scientifici, trattati che ne illustravano il funzionamento, carte geografiche, piante di città e modelli lignei di macchine da guerra e fortificazioni. Il dipinto qui presentato ritrae Ferdinando a figura intera, seduto su un seggiolone il cui rivestimento è decorato con il motivo delle palle medicee, nel momento in cui, non ancora svestita la porpora cardinalizia, è già divenuto Granduca, ruolo simboleggiato dalla presenza sul tavolo della corona granducale toscana. Il preziosissimo oggetto, realizzato tra il 1577 e il 1583 da Jacques Bilivert per Francesco I e purtroppo perduto, è noto, oltre che da alcune fonti figurative, anche dalla minuziosa descrizione contenuta nell’inventario del 1591 (Fock 1970). In passato la tela è stata considerata copia del Ritratto di Ferdinando in abito cardinalizio citato da Raffaello Borghini e Giovanni Baglione come opera mirabile di Scipione Pulzone (Langedijk 1981-1987). Studi più recenti hanno dimostrato invece la sua stretta dipendenza da un dipinto su tavola, conservato presso il Museo di Palazzo Reale di Pisa, prima identificato con il ritratto perduto commissionato da Francesco I a Battista Naldini per la serie aulica e in seguito definitivamente assegnato ad Alessandro Allori grazie al ritrovamento di una nota di pagamento presentata dal pittore stesso il 22 gennaio 1588 (De Marchi 1997). Rispetto al ritratto pisano, il dipinto degli Uffizi offre delle varianti significative, che includono l’ampliamento a figura intera del soggetto, la diversa posizione della mano sinistra, il paesaggio (che qui rimanda a modelli nordici) e la presenza, sul tavolo, della corona granducale. Vista la buona qualità formale e tecnica, il dipinto può essere riferito a uno dei pittori della cerchia di Alessandro Allori che lo eseguì entro il novembre 1588, data in cui Ferdinando svestì ufficialmente la porpora cardinalizia. Francesca Montanaro Bibliografia: M. Chiarini, in Firenze 1969, p.11, n.1; Fock 1970, pp. 197-209; Langedijk 1981-1987, II, pp. 720-721, n. 37; De Marchi 1997, p. 338; Providence 1999, pp. 26-27; C. Caneva, in Firenze 2001a, pp. 38-40; C. Caneva, in New York 2004, pp. 30, 31, n. 5
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II.14 - Leonhard Thurneysser zum Turm (1531-1596) Historia siue descriptio plantarum omnium, tam domesticarum quam exoticarum: earundem cum virtutes influentiales, elementares, & naturales, tum subtilitates, necnon icones etiam veras, ad viuum artificiose expressas proponens: atque vna cum his, partium omnium corporis humani vt externarum ita internarum picturas, & instrumentorum extractioni chymicae seruientium delineationem vsumque, ac methodos denique pharmaceuticas quasuis, ad curam valetudinis dextre tractandam necessarias complectens, Berolini, Michael Hentzske, 1578. in 2°, acquerellato Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Pal. 7.1.6.7 Questo dotto e singolare personaggio, medico e ciarlatano, nato a Basilea nel 1531 e morto a Colonia nel 1596, fu celebre per le sue conoscenze alchemiche, magiche, botaniche, astrologiche e mediche e fu stampatore e autore di libri splendidamente illustrati (Schumacher 2011). Tra le opere più belle della sua produzione grafica si possono ricordare le otto tavole con astrolabi che accompagnano il testo dell’Archidoxa del 1575 (Spitzer 1996, pp. 75-77, tav. 10). L’alta stima e considerazione di Francesco I de’ Medeici nei confronti di Thurneysser viene dichiarata nel privilegio ch’egli concesse, su richiesta dello stesso autore, all’edizione dell’Historia siue descriptio plantarum del 1578 (Spitzer 1996), dove il granduca lo chiama “Artium et medicinae Doctor insignis” e ne loda mirabilmente l’opera. Il vivo interesse di Francesco per questo trattato dovette risiedere nella stretta correlazione che vi si stabilisce tra ogni singola pianta e i suoi poteri astrologici e medici, nonché nel rapporto operativo tra i tempi della raccolta e le modalità di estrarne alchemicamente l’essenza, sempre stabilita secondo puntuali sinergie astrologiche, che tengono conto che le essenze vegetali sono divise in maschi, femmine e infanti. Dunque un testo che valorizzava nessi ‘pratici’, ‘tecnici’ per agire sperimentalmente sul mondo naturale, tema assai caro al Granduca, che tanto si spendeva a “stillare” nei suoi laboratori. Thurneysser fu al servizio di Ferdinando del Tirolo tra il 1560 e il 1570 e poi, come medico, dell’elettore di Brandeburgo dal 1570 al 1584. Francesco I si recò a Innsbruck da Ferdinando del Tirolo nel 1565, prima di sposarne la sorella Giovanna (Berti 1967, p. 279) e può darsi che abbia incontrato Thurneysser in quell’occasione. Inoltre l’alchimista fu protagonista di un sensazionale esperimento di trasmutazione avvenuto a Roma presso il cardinal Ferdinando (vedi p. 18 e, sul soggiorno romano del nostro, cfr. Secret 1973, p. 215). L’interesse di Francesco e del figlio Don Antonio per quest’erbario astrologico è documentato inoltre da due manoscritti cinquecenteschi: uno con la traduzione dal latino in volgare, ossia la Historia overo descrittione di tutte le piante tanto domestiche quanto forestiere…, e l’altro con un Breve compendio e transunto della stessa dovuto a Iacopo Carpi cappellano fiorentino. Entrambi i manoscritti, oggi custoditi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (segnati Magl. XIV.8 e Magl. XIV.9), facevano parte della biblioteca di Don Antonio de’ Medici (Galluzzi 1982, pp. 41, 42). L’utilizzo dei testi del Thurneysser nella pratica alchemica del Casino emerge anche dalle lettere di Emanuele Ximenes ad Antonio Neri (Grazzini 1983-1984, p. 197). Valentina Conticelli Bibliografia: P. Galluzzi in Firenze 1980b, p. 202; Spitzer 1996, pp. 84-89
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II.15 - Theodor Krüger (Amburgo 1575-Roma 1624) Ritratto di Don Antonio de’ Medici 1618 incisione a bulino Firenze, Museo Galileo, SD B 384 iscrizioni: lungo l’ovale PRINCEPS. / ANTONIVS.MEDICES.FRANCISCI / MAGNI DVCIS ETRVRIAE FILIVS. – AETAT. SVE / XLI; in basso: ILL.MO ET EXCELL.MO PRINCIPI ET D. D. SVO CLEM.MO OMNIVM VT SINGVLARIVM ART. ET SCINT. PERITISS.MO SIC PATRONO / EARUNDEM MUNIFICO, HANC ILL.MAE EXC. SVAE EFFIGIEM. Hunilimè dicat et offert Teodorus Kruger 1618 Il busto di Don Antonio (1576-1621) è raffigurato al centro, in una nicchia ovale inserita tra due cartigli e appoggiata a un parapetto, oltre il quale, svettano aste, tamburi, cannoni e bandiere, tra cui sola si distingue quella a sinistra con la croce dell’Ordine dei cavalieri di Malta. La croce si ripete sul petto del Medici, che indossa un’armatura da mostra con spallacci decorati da girali e centauri. Minerva, protettrice delle arti, lo incorona d’alloro, mentre sulla destra stanzia il volatile Mercurio con ai piedi alambicco, pinze e soffietto. Sul pavimento poggiano, disordinati, altri strumenti da guerra. Langedijk (1981-1987) accosta l’incisione ad una stampa del ritratto di Don Antonio registrata nell’inventario del 1670 del figlio Don Giulio. Da par sua Matteoli (1994) ipotizza che essa derivi da un ritratto perduto di Don Antonio in armatura citato nell’inventario del Casino di San Marco del 1621. L’incisione è immagine degli interessi di Don Antonio che fu uomo d’arme, collezionista d’arte ed esperto alchimista. Figlio naturale di Francesco I e Bianca Cappello, Don Antonio ottenne, grazie al padre, la legittimazione e il titolo di principe di Capestrano, divenendo ben presto l’unico erede al trono. A seguito della morte improvvisa dei genitori, nel 1587, il granducato spettò però allo zio Ferdinando I che confezionò falsi documenti attestanti la sua nascita da una coppia di popolani. Per essere riconosciuto come membro della famiglia Medici, Antonio accettò di arruolarsi nell’Ordine dei cavalieri di Malta, svolgendo con entusiasmo gli incarichi diplomatico-militari assegnatigli dallo zio, come la guerra in Ungheria combattuta contro i turchi nel 1594 (cfr. Luti 2006). Dal 1597 elesse come propria residenza il Casino di San Marco, edificio destinato da Francesco I alle botteghe granducali. Suo scopo era di porsi in continuità culturale con il padre, dal quale aveva ereditato, oltre al gusto per il collezionismo, la passione per l’alchimia e la predisposizione verso gli aspetti tecnico-artigianali. Nei suoi laboratori, forgiava armi e munizioni, sovrintendeva alla produzione di manufatti in ceramica, porcellana, argento e vetro, ma soprattutto sperimentava ricette alchemiche e rimedi chimici che raccolse in “libri di secreti” (cfr. Luti 2008). Principi e cardinali, tra cui Francesco Maria Del Monte, gli scrivevano per procurarsi medicamenti o scambiare ricette di varia natura. Una sincera stima e amicizia lo legava, inoltre, a Galileo Galilei, che ospitò più volte alla villa di Marignolle e del quale difese sempre le teorie, premurandosi si assicurargli una buona accoglienza a Roma nel 1611 (Covoni 1892, pp. 150-153). La partecipazione di Don Antonio alla nascente scienza moderna non passava, tuttavia, attraverso le teorie galileiane, ma vedeva la sua adesione alla “filosofia chimica” di Paracelso integrata nella tradizione del pensiero rinascimentale. La notevole biblioteca scientifica del Casino di San Marco, che fu uno dei principali centri di diffusione delle teorie di Paracelso in Italia, presentava così al suo interno, accanto agli scritti del medico svizzero e dei suoi divulgatori, testi fondamentali di alchimia medievale ed araba, di mineralogia, di fisiognomica o di chiromanzia (cfr. Galluzzi 1982). Si capisce così la ragione della dedica a Don Antonio dell’Arte vetraria, pubblicata nel 1612 da Antonio Neri, profondo conoscitore delle teorie di Paracelso. L’Arte vetraria era il primo testo a carattere scientifico che codificava tecniche sino ad allora gelosamente custodite dalle botteghe artigiane. La novità era nel metodo, basato sulla ricerca e sulla sperimentazione, ma anche nello scopo. Esso voleva essere la divulgazione, in un linguaggio chiaro e distinto, di un tecnica come forma di conoscenza della natura e del cosmo, attraverso la quale anzi arrivare a modificare e perfezionare la natura stessa (cfr. Grazzini 1983/84, pp. 34-42). Il Neri fu anche autore di un trattato sulla trasmutazione dei metalli in oro che conteneva una formula in cifra ermetica detta Donum dei (Ibidem, pp. 189-220). Giusi Fusco Bibliografia: Langedijk 1981-1987, I, n. 7.10, p. 305; Matteoli 1994, p. 111
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II.16 - Domenico e Valore Casini, attr. (Firenze 1588-1660) (Firenze 1590-1660) Ritratto di Don Antonio de’ Medici 1610-1615 olio su tela; cm 202 × 117,5 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 2327 Il dipinto raffigura il ritratto di Don Antonio de’ Medici (1576-1621), riconoscibile dagli occhi cerulei e dall’orecchino di perla a pera che soleva portare quale singolare rimedio per una malattia agli occhi (Covoni 1892, pp. 100, 147). Sul “colletto” nero risalta la bianca croce dell’Ordine dei Cavalieri di Malta. I calzoni neri, corti e larghi, presentano tagli verticali che lasciano intravedere un tessuto ricamato in oro e argento, con minuti fiori alternati al segno dello scorpione. Lo stesso disegno si ripete nelle maniche del “giubbone”, indumento che insieme al “colletto”, erede in stoffa della corazza, rientrava in un codice vestimentario di stampo militaresco diffusosi a Firenze sotto l’influsso della moda spagnola del secondo Cinquecento (cfr. Lazzi 1993, pp. 31-32). Il “ferraiolo”, portato come di regola su una spalla sola, è nero, come le calze e le scarpe. La mano sinistra, impreziosita da un semplice anello d’oro, cinge l’elsa di una spada “da lato”, mentre sul fianco destro, spunta un pugnale. Concorre a creare un’ambientazione lussuosa, il prezioso velluto rosso a frange dorate che costituisce il tendaggio sulla destra e ricopre il tavolo a sinistra, su cui posa un elmo con cresta piumata. Il ritratto potrebbe essere identificato con quello ricordato sulla porta della biblioteca dalla quale si accedeva alla fonderia del Casino di San Marco, residenza di Don Antonio. Egli vi era raffigurato “vestito di velluto nero alla spagnola, colla croce bianca di cavaliere in petto; […] in tutta calza” e con ai piedi “i seguenti versi: Ingens consilio factis Antonius ingens. / Heic mira insigna quem colit arte locus: / Par Phebo medicas quo vires traxit ab herbis / Aeternum fama unum lumen ab igne tulit” (Covoni 1892, pp. 145-146). L’iscrizione esalta gli interessi farmaceutici di Don Antonio, pure allusi dallo scorpione dell’abito, animale che era ingrediente principale dell’“Olio contra veleni del Granduca”. Nel 1729 il ritratto, con l’iscrizione latina, veniva ricordato nella fonderia degli Uffizi dal viaggiatore inglese Keysler (1756, I, pp. X-XI e 443). Giuseppe Bencivenni Pelli nel 1779 (pp. 213-214), e dopo di lui Targioni Tozzetti (BNF, PAL. Serie Targioni 189, VIII, p. 138) e il Lastri nel 1799 (VI, pp. 33-36) ipotizzarono invece che il ritratto, a quelle date comunque non più presente in fonderia, vi fosse giunto a seguito di un probabile accorpamento dei laboratori di San Marco alla Fonderia degli Uffizi dopo la morte di Don Antonio, nel 1621. Le osservazioni degli eruditi toscani cadono in anni in cui Pietro Leopoldo aveva già provveduto allo smantellamento della fonderia degli Uffizi, per destinarne i locali all’ampliamento della Galleria (Piccardi 2005, p. 205): venuta meno la stretta connessione del ritratto con la fonderia, il dipinto fu dunque rimosso. Tra i ritratti a noi noti di Don Antonio, due presentano le caratteristiche descritte dal Covoni, ma se il nostro proviene dalla Galleria, l’altro reca l’inventario Imperiale rosso (n. 936) e ne è anzi ritenuto una variante (Covoni 1892, p. 146; Langedijk 19811987, I, 7.6, p. 302; Matteoli 1994, p. 110). Registrato come “figura di gentiluomo” di pittore ignoto negli inventari ottocenteschi di Galleria (1882 Corridoio, n. 68; 1890), il dipinto è stato catalogato come Ritratto di Don Antonio di Scuola fiorentina del Seicento da Silvia Meloni Trkulja (in Uffizi 1980). Anna Matteoli (1994) e, in maniera ipotetica, Lisa Goldenberg Stoppato (2004) – che qui ringrazio per preziosi consigli di ricerca – hanno proposto i nomi dei ritrattisti Domenico (1588-1660) e Valore Casini (1590-1660). Appoggio l’ipotesi delle studiose notando nel quadro la stesura chiaroscurata del volto e delle mani, di solito riconosciuta a Valore, e l’analitica descrizione dei minuti disegni delle stoffe, spettante forse a Domenico, o ancora il leggero molleggiamento delle gambe che conferisce vivezza all’effigiato (cfr. Gregori 2000). Ma anche le frettolose e corpose lumeggiature sui velluti e la linea del pavimento piuttosto alta. L’età dimostrata da Don Antonio, che si direbbe di poco inferiore a quella del ritratto inciso dal Krüger nel 1618 (cat. II.15), farebbe propendere per una datazione che si aggira intorno al 1610-1615 (cfr. Matteoli 1994, p. 112). Giusi Fusco Bibliografia: S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, p. 754, Ic 1006; Langedijk 1981-1987, I, n. 7.7., p. 302; Matteoli 1994, pp. 109-112; Goldenberg Stoppato 2004, p. 198, nota 39
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II.17 - Teodoro Filippo di Liagnio detto Filippo Napoletano (Roma 1589-1629) La bottega dell’alchimista 1619 olio su tela; cm 95 × 137 Firenze, Palazzo Pitti, depositi delle Gallerie fiorentine, Inv. Poggio Imperiale 1860 n. 1237 Attribuito all’artista per via stilistica da Marco Chiarini (1996, pp. 60-61), il dipinto è stato in seguito rintracciato dallo stesso studioso (Idem, 2007, p. 274) nell’inventario generale dei beni della Guardaroba (ASF, Guardaroba Medicea 373, c. 148sx), insieme a numerosi altri esemplari su tela, rame e pietra, che Filippo Napoletano consegnò ai Medici tra il 1618 e il 1620. Cosimo II e suo fratello Carlo ebbero una speciale predilezione per la pittura di genere e in questo contesto s’inserisce la presenza di Filippo a Firenze, chiamato a operare per la corte medicea, dal 1617 al 1621, su intercessione del cardinal del Monte (Fumagalli 2001, pp. 243-245). Il dipinto, citato nella fonte come “la bottegha del archimista del Casino”, venne consegnato da Filippo Napoletano, insieme ad un pendant raffigurante la Conversione di San Paolo (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina), il 14 agosto 1619; accanto ad esso lo troviamo citato nell’inventario topografico di Palazzo Pitti, che risale al 1638 (ASF, Guardaroba Medicea 525, c. 43v), nella loggia della galleria, dove avevano trovato posto altri dipinti del pittore stesso, quali la Fiera dell’Impruneta e il Trionfo di Nettuno (ancor oggi in Palazzo Pitti), insieme a tanti altri, tra cui sono degne di nota quattro tavole provenienti dallo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, luogo ispirato dalla passione del principe per l’alchimia (Conticelli 2007, pp. 65-66). Non si conoscono altri dipinti del Napoletano con un siffatto soggetto, tuttavia sappiamo da Giovanni Baglione (1642, p. 335) del suo dilettarsi nel collezionare “bellissime bizzerrie d’ogni sorte, degne d’esser vedute” (Della Volpe 2000, p. 25). Il pittore ha saputo cogliere in questa tela tutto il realismo dell’ambiente, attraverso una materia pittorica spessa ma rischiarata da accenti cromatici fatti d’azzurri e rossi squillanti. Così l’alchimista, identificabile forse con quel vecchio vestito di nero che incede da destra, introduce nella scena un nano claudicante che tiene per una pinza una boccetta incandescente, mentre un assistente è intento presso la fornace; a seguire, un altro collaboratore è affaccendato di spalle allo strettoio e un apprendista a terra pesta in un mortaio; l’addetto alla compilazione dei ricettari, infine, è al tavolo, d’appresso a un paio di sacchi, su cui campeggiano le scritte “vitriolo” e “zolfo”, due sostanze utilizzate in molte preparazioni (Il Ricettario Medici 2004, p. 116). La stanza è disseminata di oggetti d’uso in tali botteghe: alambicchi, bacili di rame, brocche di terracotta, forni, incudine, barile; il tutto in un’atmosfera rischiarata dalla luce artificiale e da quella naturale. Non possiamo affermare con certezza che Filippo si sia ispirato davvero alla fonderia situata nel Casino di San Marco, tuttavia in questo luogo, fin dal tempo di Francesco I, tutta una fila di stanze terrene era destinata a officina alchemica ove lo stesso principe conduceva ogni tipo di esperimenti, dalla lavorazione del cristallo di montagna all’intaglio di gioie, dai medicamenti alla trasmutazione dei metalli (Heikamp 1986, p. 68). Negli anni in cui Filippo risiedette a Firenze, il Casino era l’abitazione del figlio di Francesco I e di Bianca Cappello, Don Antonio de’ Medici (Fumagalli 2008, p. 207) e non, come è stato sovente ripetuto, del cardinal Carlo, il quale ne venne in possesso solo dopo la morte di Don Antonio, avvenuta nel 1621. Egli aveva ereditato dal padre la passione per gli esperimenti alchemici (Perifano 1997, p. 48) e si circondava della presenza di addetti al mestiere, come Antonio Neri, singolare figura di alchimista, autore di un fortunato e importantissimo trattato, L’arte vetraria (Heikamp 1986, pp. 267-268), o Giovanni di Niccolò Talducci, che continuò la sua attività anche dopo la morte del principe (Piccardi 2005, p. 205). Proprio l’inventario redatto in morte di Don Antonio (Covoni 1892, pp. 206-207) ci dà la misura della quantità di strumenti e utensili utilizzati in questi ambienti, molti dei quali presenti proprio nel nostro dipinto. Lucia Aquino Bibliografia: Chiarini 1996, pp. 60-61; Chiarini 2007a, pp. 100, 274, scheda n. 44; Chiarini 2007b, p. 34, scheda n. 22; M. Chiarini in Napoli 2008, p. 256, scheda n. 91; Fumagalli 2008, p. 207 figg. 58, 208; S. Pasquinucci, in Parigi 2010, p. 199, scheda n. 103
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II.18 - Giusto Suttermans (Anversa 1597-Firenze 1681) Ritratto di Ferdinando II de’ Medici 1658 olio su tela; cm 144 × 119 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 2249 Ferdinando II de’ Medici (1610 - 1670) divenne Granduca di Toscana all’età di soli undici anni sotto la tutela della madre Maria Maddalena d’Austria e della nonna Cristina di Lorena. Appena raggiunta la maggiore età prese possesso a pieno titolo della guida dello Stato. Durante tutta la sua vita, Ferdinando si dedicò con passione alla protezione delle arti e delle scienze. Allievo di Galileo Galilei e dei suoi discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, fondò nel 1642 la Sperimentale Accademia Medicea con sede a Palazzo Pitti e successivamente fu protettore, insieme al fratello Leopoldo, dell’ Accademia del Cimento, la prima società scientifica d’Europa, nata nel 1657, che si prefiggeva di seguire il metodo dell’indagine sperimentale introdotto da Galilei. Tra i protagonisti dell’Accademia, che si siolse nel 1667 dopo soli dieci anni di attività, ricordiamo, oltre al già citato Viviani, Francesco Redi (cfr. cat. n. III.2), Lorenzo Magalotti, il messinese Giovanni Alfonso Borelli e lo scienziato danese Niccolò Stenone. Il Granduca non si limitò al ruolo di solo mecenate, ma prese parte attiva agli esperimenti condotti dall’Accademia, i cui risultati vennero pubblicati da Lorenzo Magalotti nei celebri Saggi di Naturali Esperienze del 1667. Ferdinando dette anche nuovo impulso alla Fonderia, acquistando importanti testi di medicina e emanando nel 1633 un nuovo regolamento per migliorarne la gestione. Sotto il suo regno venne incrementata la produzione e circolazione dei preparati medici che venivano inviati in tutta Europa (Piccardi 2005). Stando ai documenti d’archivio il dipinto, appartenente alla serie aulica di ritratti dei membri della famiglia Medici, fu realizzato nel 1658 da Giusto Suttermans e consegnato alla Guardaroba medicea il 19 giugno di quell’anno assieme al suo pendant, il Ritratto di Vittoria della Rovere. I due quadri vennero immediatamente affidati al custode Giovanni Bianchi, per essere esposti in Galleria (L. Goldenberg Stoppato, in Firenze 2004). Ferdinando, che all’epoca del ritratto aveva 48 anni, è rappresentato di tre quarti, secondo l’iconografia della serie aulica. Indossa un’armatura sulla quale si distingue la croce dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e regge con la mano destra il bastone del comando. Sul tavolo al suo fianco sono posati un elmo, i guanti e una lettera. Come ricorda Filippo Baldinucci, Ferdinando si fece ritrarre dal Suttermans con un grande cappello piumato in testa, dettaglio che due anni dopo la morte del granduca venne cancellato forse perché il nuovo Granduca Cosimo III, molto attento a ristabilire a corte una rigida etichetta, lo riteneva inappropriato al rango del personaggio. Fu Suttermans stesso, nel 1672, a eseguire il ritocco, le cui tracce sono ancora chiaramente visibili sulla tela. La versione originale del dipinto è testimoniata dall’incisione che ne fece François Spierre nel 1659 e da varie copie realizzate antecedentemente alla modifica del 1672, alcune delle quali eseguite nella bottega del pittore stesso dove il dipinto fu “portato per copiare “almeno in tre diverse occasioni, nel 1660, nel 1664 e nel 1667 (Goldenberg Stoppato 2009). Francesca Montanaro Bibliogafia: Baldinucci 1681-1712, ed. 1845-1847, vol. IV, p. 500; S. Meloni Trkulja, in Uffizi 1980, Ic642, p. 702; Langedijk 1981-1987, II, 1983, n. 36, pp. 783-786; S. Meloni Trkulja, in Firenze 1983, n. XIX, p. 97; L. Goldenberg Stoppato, in Firenze 2004, pp. 160- 161; Piccardi 2005, pp. 202-203; F. de Luca, in Firenze 2007a, pp. 144-145, n. 10; Goldenberg Stoppato 2009, pp. 181-186
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II.19 - Fra Donato d’Eremita (+ 1630) Dell’elixir vitae libri quattro Napoli, Secondino Roncagliolo, 1624 in 4°, acquerellato Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 1.2.149 Il converso domenicano Fra Donato d’Eremita, nativo di Rocca d’Evandro (Caserta), dedicò il suo Elixir vitae a Ferdinando II de’ Medici, in segno di sincera riconoscenza verso questa nobile famiglia, avendo servito per molti anni nella “fonderia” del Granduca Cosimo II. Qui infatti aveva formato e affinato, com’egli stesso narra, le sue competenze distillatorie e le sue conoscenze mediche, botaniche e alchemiche. Oltre all’Elixir vitae, ci rimangono l’Antidotario apparso a Napoli da Roncagliolo nel 1630, poco dopo la sua morte, e alcuni manoscritti con figure di semplici e di forni, vasi e fornelli, oggi conservati a Montpellier e a Londra, mentre frequente è la sua menzione nel Carteggio Linceo, specialmente nelle lettere dell’illustre botanico Fabio Colonna. Nell’insieme ne emerge un personaggio di non comune competenza nella farmacopea e nella capacità di preparare farmaci, teriache ed elisir, come pure se ne percepisce una molteplice erudizione, specifica nella medicina e nella botanica greca, latina e araba. A Napoli, dove si era trasferito da Firenze, mise in opera nel 1611 una spezieria, che diresse per quasi vent’anni, presso il convento di Santa Caterina a Formello. Nella città partenopea strinse rapporti e amicizia con Lincei napoletani come Giovan Battista della Porta, letterato e ‘mago’, Col’Antonio Stigliola, ingegnere e con il suddetto Colonna. Tramite essi entrò in contatto anche con i Lincei romani quali Federico Cesi, istitutore e principe dell’Accademia, Giovanni Faber, medico, semplicista e direttore dell’orto pontificio, e Pietro Castelli, medico e botanico di chiara fama, autore della Pharmaceutica, cioè arte della spetiaria pubblicata nel 1622 un’altra opera, rimasta inedita, intitolata Il perfetto speziale. Nel testo dell’Elixir vitae si espongono i modi per produrre l’acquavite o quintessenza alchemica, esaminando i numerosi ingredienti minerali, vegetali e animali della ricetta dell’elixir, di cui, a p. 5, propone anche singolari paraetimologie, per cui il termine vorrebbe dire “renovatio vitae elixir ab elixando, cioè dal cuocere”, oppure deriverebbe dalla felicità della vita che “permette e cagiona, quasi dir volessero per questo nome Elisi, cioè i campi Elisi descritti da’ Poeti, ove si favoleggia che riposino dopo morte gli uomini felici e beati”. L’elenco degli autori antichi e moderni citati da Fra Donato nell’Elixir vitae va dalle auctoritates classiche e medievali (Dioscoride, Ippocrate, Galeno, Plinio, Avicenna, etc.) ai contemporanei come i già ricordati Colonna e Della porta, Ferrante Imperato e i medici napoletani Masullo, Sgambato e Zuccaro. Non mancano i maestri dell’alchimia occidentale: Geber, Rasis, Arnaldo, Cristoforo Parigino, Rupescissa, Ulstad, Gesner, il Croll e, tra gli italiani, il Gratarolo, il Fioravanti e il Cardano etc.). Va annotato infine che il medico e anatomista danese Thomas Bartholinus, che viaggiò in Italia e fu a Napoli nel 1664, nelle sue Epistolae medicinales del 1663, attribuisce l’Elixir vitae al su ricordato Pietro Castelli: ‘nuova’ paternità, che allo stato delle ricerche non trova riscontri. Arnaldo Zonca Bibliografia: Gabrieli 1989
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II.20 - Farmacia portatile della fonderia del granduca XVII secolo legno di noce, serramenti in metallo, cm 21 × 35 × 15 Roma, Museo Storico Nazionale di Storia dell’Arte Sanitaria, Inv. 757 A forma di bauletto, la farmacia portatile della fonderia del granduca Ferdinando II di Toscana presenta sotto il coperchio, 16 foglietti esplicativi di altrettante ricette. Nel cofanetto si trovano due cassetti (uno superiore e uno inferiore) divisi in diversi scomparti. All’interno di questi sono alloggiati i farmaci: si tratta di 25 medicinali, su alcuni dei quali è indicato il contenuto: “Elixirvite…”; “Tintura di coralli…”; “Acqua da colica…”; “Essenza triacale…”; “Elisir Proprietatis…”; “Olioda spasimo…”; “Acciaio potabile…”; “Acqua da petecchie…”; “Acqua petecchiale…”; “Olio contro i veleni…”; “Acquerello Elixir…”; “Olio da spasimo”; “Olio da spasimo…”; “Polvere da flussi”; “Polvere contro i veleni…”. I flaconi presentano tutti la medesima indicazione di provenienza con la dicitura, “di fonderia di Sua Altezza Serenissima (oppure di Sua Altezza Reale)”
L’utilizzo della farmacia portatile appare in genere come una prerogativa esclusiva delle dotazioni dei medici al seguito degli eserciti. In realtà, essa poteva anche seguire gli aristocratici nei loro lunghi spostamenti da una dimora all’altra o accompagnare il medico e lo speziale nella pratica del loro “mestiere”. Non mancano testimonianze del suo utilizzo in epoca imperiale romana, come le cassette del medico che contenevano principalmente strumenti utili alla preparazione di rimedi terapeutici. Questi erano custoditi all’interno di ampolline, unguentari, pillolari e flaconcini, avvolti in tessuti o inseriti in contenitori di legno. All’interno, in ulteriori cassettine, si trovavano: una lastrina di ardesia, utilizzata come piano di stesura e di lavorazione dei medicamenti; spatoline di varie dimensioni per mescere, spezzettare e stendere gli ingredienti di provenienza animale, vegetale o minerale; scatole tascabili contenenti amuleti, e ancora astucci, barattoli, anelli, catenine ed altro. Si tratta quindi di concrete testimonianze del modo in cui i medicamenti venivano custoditi. Esempi di tali contenitori si possono ammirare al Museo Nazionale Archeologico di Napoli o a Pompei (Roma 1993). Le farmacie portatili post-rinascimentali, come riferisce il Conci, rientrano in quelle che si definiscono “farmacie domestiche”. La destinazione d’uso non ne variava la natura di contenitore di medicamenti ad uso casalingo. Lo stesso vale per le farmacie portatili di produzione granducale medicea, a bauletto, in legno e di preziosa fattura, in genere donate ad illustri membri dell’alta aristocrazia europea (vedi pp. 20-21). Ce lo testimonia il Bianchini in una lunga annotazione che vale la pena riportare per intero: “Procurò altresì il Granduca [Cosimo III] che la sua Real Fonderia si mantenesse nel pristino splendore, confermandone la soprintendenza al Redi suo archiatro con provvisione volle di più accrescerne la riputazione col regalare cassette di preziosi medicamenti ivi fabbricati ai personaggi di distinzione che passavano, per Firenze ed a quelli d’altri anche remotissimi paesi, come notai sopra parlando del viaggio a Costantinopoli del Dottor Michelangelo Zilli. Per l’uso da farsi di essi medicamenti secondo i paesi dove erano mandati si costumava d’includere nella cassetta un libretto stampato in Italiano, o in Latino, o in Francese, o in Spagnolo, o in Tedesco, ed io ne ho veduti in tutte queste lingue. La distinzione del regalo, respettivamente alle persone, consisteva nella maggior quantità de’ medicamenti, o nella cassetta più o meno ricca, avendone io vedute di semplici assicine di noce nostrale, di altre di noce d’India, o d’ebano, altre d’ebano intarsiate d’avorio; altre finalmente lavorate in Galleria a mosaico di pietre dure, e queste erano per i Principi grandi. Benché alla fine del Regno del Granduca Giovan Gastone la Real Fonderia restasse serrata, nientedimeno i suoi medicamenti si mantennero in riputazione in paesi lontanissimi, e mi ricordo che il Sigr. Generale di Salen, fu richiesto da un grosso signore di Transilvania a mandargliene diversi, fra i quali mi sovviene dell’olio controveleno da spasimo, delle prese da Benedetto e dalla terra sigillata dell’elba” (Bianchini 1741, p. 120). La farmacia da viaggio, come già detto, poteva seguire il suo proprietario e la famiglia nei lunghi trasferimenti da una dimora all’altra, oppure essere utilizzata come strumento di ausilio al medico o al farmacista, per le visite o gli interventi ai pazienti. Destano meraviglia i foglietti con le indicazioni trascritte ed annesse alla farmacia portatile del granduca Ferdinando II: una rarità che testimonia del contenuto della farmacia, ma anche e soprattutto della specificità d’uso di ciascun medicamento. Grazie a questi foglietti illustrativi, risulta straordinariamente tangibile la tipologia di alcune delle malattie diffuse all’epoca. Tutti i medicamenti contenuti nella farmacia portatile si ritrovano nei foglietti illustrativi annessi al nascondiglio della farmacia; solo due contengono residui, ormai seccati, di rimedi che non sono citati nei foglietti: si tratta dell’acciaio potabile della fonderia di Ferdinando II e della polvere da flussi. 118 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
L’acciaio potabile veniva prodotto, come rivela il Donzelli nel 1675, utilizzando quattro libbre di acciaio limato che, dopo essere stato lavato, veniva fuso al forno a riverbero. Successivamente, veniva pestato e immerso in aceto per ventiquattro ore. L’aceto colorato veniva recuperato e messo da parte. Nel frattempo altro aceto bagnava l’acciaio pestato che si colorava nuovamente. Il procedimento andava avanti sino a quando l’aceto non assumeva più colore. Tutto l’aceto veniva quindi disposto per essere filtrato e per far evaporare un terzo del volume. Il resto, conservato in vasi di vetro, era pronto per essere somministrato nella quantità di una o due dramme per quaranta giorni associato al brodo o al vino. Per rendere gradevole la medicina si poteva aggiungere zucchero o altro dolcificante, suggerito come ricostituente nei soggetti deboli di forza o debilitati. Gaspare Baggieri Bibliografia: da l’Horto 1597; Donzelli 1675, p. 33; Bianchini 1741; Capparoni 1924, p. 2; Conci 1934; Benedicenti 1947; E. De Carolis in, Roma 1993, pp. 59-62 SEZIONE II. FONDERIA MEDICEA • 119
II.21 - Scatola con pastiglie in terra sigillata XVII secolo all’interno: 15 pastiglie di circa cm. 2 di diam. gran parte frammentate diam. cm 7, h. cm 2,5 Roma, Museo Storico Nazionale di Storia dell’Arte Sanitaria, Inv. 812 Il piccolo contenitore di legno e forma circolare risale al XVII secolo e contiene al suo interno sedici minuscoli dischetti, quasi tutti frammentari, di terra sigillata. La superficie superiore del coperchio presenta un’accurata lavorazione a intarsio con varianti di colore paglierino. La decorazione configura una geometria a raggiera che, partendo dalla periferia, descrive principalmente due cerchiature: una nastriforme, la più esterna, e subito dopo l’altra, costituita da minuti intarsi impilati tra loro. Ne risulta una psudo-tramatura a sacco. Entrambe le cerchiature sono inoltre perimetrate, lungo la circonferenza, da ulteriori rinforzi ad intarsio. Una cerchiatura a raggiera dispone gli intarsi interni, muovendo da quelli periferici, aggregati a triangolo, a quelli subito dopo alternati in diverse gradazioni di giallo e tagliati da una poligonale di intarsi di colore nero, creando un effetto ottico di tipo prismatico. Lungo il bordo del coperchietto, sulla parte esterna a chiudere la scatola, e nella parte sottostante, si ripresenta la medesima decorazione con la poligonale che intercala intarsi scuri. Le pastiglie presentano stemmi in rilievo: da un lato è rappresentata l’arme del granduca Cosimo III racchiusa da una corona di foglie di quercia e sormontata dalla corona granducale con l’iscrizione: “CO.M.D.E.VI” (Cosimus Medices Etruriae Dux Sextus). Dall’altro invece è l’arme con i fiordalisi degli Orléans (che fa riferimento alla moglie di Cosimo III, Marguerite Louise), anch’essa dominata dalla corona granducale. La produzione delle pastiglie di terra sigillata nella fonderia granducale risale già al XVI secolo: essa è testimoniata, ad esempio in una nota d’archivio del 1598, relativa all’invio a Francesco Rosselli, speziale di Galleria, di due sigilli d’ottone dell’orefice di corte, Michele Mazzafirri. I sigilli con lo stemma mediceo servivano proprio per imprimere l’arme sulle pastiglie realizzate da Niccolò Sisti (vedi pp. 18-19), maestro della fonderia durante il granducato di Ferdinando I (ASF, GM 112, c. 232, foglio sciolto). Le terre in pastiglie che costituiscono questi sigilli vengono dette “terre sigillate” ed hanno origini antichissime. I sigilli si presentano di colore bianco grigiastro, di consistenza friabile e del peso di 3 grammi, simili per grandezza ad una moneta di cinque centesimi. Data la loro friabilità (prevalenza cretacea), si può supporre che siano costituite principalmente da magnesio, allume, ferro, rame, calcina, arsenico, sale ammoniaco o simili. Questa terra, come ci dice il Capparoni (1924, p. 8-15), proveniva dall’isola d’Elba e, sottoposta ai trattamenti della fonderia, veniva trasformata in compresse dette “trochisci”, “orbicoli” o “pastelli”. A proposito delle pastiglie dell’epoca di Cosimo III, il Bianchini ricorda: “dalla terra sigillata dell’Elba, la quale o bianca, o cenerina si trova nelle miniere di ferro di quell’isola, e si soleva quella frantumarsi, depurarsi e ridurre in rotule o pasticche e sigillare coll’Arme del Granduca e altri contrassegni, ed io ne conservo alcune varietà nel mio museo, e questa era comunemente usata per succedaneo della terra lemnia degli Antichi” (Bianchini 1741). Gaspare Baggieri Bibliografia: Bianchini 1741, p. 120; Capparoni 1924, pp. 8-15 120 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
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II.22 - Giuseppe Menabuoni (Firenze 1708-post 1745) Volta della Medicina del Terzo Corridoio della Galleria disegno preparatorio dell’incisione di Pietro Antonio Pazzi, in Azioni gloriose 1745, tav. XIII matita nera su carta; mm 297 × 411 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Orn. 1371 iscrizioni: in basso al centro, “Joseph Menabuonj del. MEDICINA.” Il disegno ritrae la campata della Medicina del corridoio di Ponente della Galleria degli Uffizi. Affrescata da Jacopo Chiavistelli nel 1675, su progetto iconografico di Lorenzo Panciatichi (Ringressi 2010/2011), la volta venne danneggiata a seguito dell’incendio che divampò in Galleria nel 1762 e fu ridipinta, con qualche variante, in epoca lorenese (cfr. Caneva 1980, p. 1147, S86; Bastogi 2007, p. 79). Gli affreschi dei corridoi di Ponente e di Mezzogiorno furono promossi da Ferdinando II, a completamento della decorazione dei corridoi di Galleria, affidando ai soffitti la celebrazione degli Uomini Illustri fiorentini che nel corso della storia si erano distinti nel campo delle scienze e delle “arti liberali”. Iniziati nel 1656, essi furono conclusi, per la parte del corridoio di Ponente, nel 1679 (cfr. Caneva 1980, pp. 1117-1118; Bastogi 2007, pp. 76-94). Il foglio è contenuto nel secondo di due album che raccolgono i Disegni delle volte degli della R: Galleria (GDSU, I, Orn. 13011354; II, Orn. 1355-1401) eseguiti da Giuseppe Menabuoni su richiesta di Ignazio Orsini, che li fece incidere per il volume delle Azioni gloriose degli uomini illustri fiorentini espresse co’ loro ritratti nelle volte dell’Imperial Galleria di Toscana, pubblicato nel 1745, con la descrizione delle campate affidata a Domenico Maria Manni (cfr. I. Orsini, in Azioni gloriose 1745; Meloni Trkulija 1981, p. 9; Baroni 2011, pp. 76 e 183 n. 2). Le scarse notizie su Giuseppe Menabuoni lo dicono fiorentino, allievo di Tommaso Redi e vicino ad Anton Francesco Gori, per il quale disegnò, nel 1734, i reperti delle collezioni toscane per il Museum etruscum (1734-1743) (Borroni Slavadori 1982, p. 33), collaborando al Museum Florentinum (1731-1762). Poco dopo preparò le illustrazioni dell’Index Testarum Conchyliorum di N. Gualtieri (1742) (Thieme-Becker 1907-1950, XXIV, p. 380). Il carro di Apollo, protettore delle arti e della medicina, irradia il cielo sotto il quale si eleva al centro, su un altare, la Medicina. È figura femminile abbigliata d’antiche fogge e coronata d’alloro, che con la sinistra regge il bastone di Esculapio, dio della salute. La sua iconografia deriva da Hygiea figlia appunto di Esclulapio (vedi p. 16). Voltata verso destra, essa guida il medico che risana un giovane infermo. Alla sua sinistra una donna è condotta presso di lei, per affidarle il proprio figlio. Altre figure sulla destra raccolgono erbe medicinali, mentre al loro fianco alcuni bambini vengono curati con suffumigi. Da qui iniziano i ritratti di medici toscani famosi: Torrigiano Valori, Taddeo del Garbo e Guido Guidi. Proseguendo si trova l’unicorno, cercato in favolose terre d’Oriente, qui alluse sullo sfondo, e il cui corno si riteneva avesse virtù antivelenifere (vedi cat. n. IV.2, IV.13). Un “corno unicorni” è registrato tra i medicamenti del Casino di San Marco confluiti nel 1670 nella fonderia di Ferdinando II (ASF, GM 779, ins. 2, n. 65, c. 171). Sul lato lungo, due figure danzanti inscenano l’incantesimo con cui erano catturate le vipere, le stesse che appaiono all’interno di contenitori vitrei sui ritratti di Guido Conti e Antonio Benivieni e che alcuni uomini a destra afferrano per estrarvi il veleno da cui ricavare la triaca. Pratiche e credenze che Francesco Redi, archiatra di Ferdinando II e membro dell’Accademia del Cimento, aveva rivelato essere inefficaci e infondate, raccogliendo i risultati dei suoi esperimenti nelle Osservazioni sulle Vipere del 1670 (Targioni Tozzetti 1780, ed. 1967, I, pp. 253-254). Proseguendo, si vede l’apertura di un sarcofago da cui esce una mummia egizia: altro ingrediente esotico dei laboratori farmaceutici. La sua fasciatura ricorda una delle mummie della fonderia Medicea raffigurate nell’Oedipi aegyptiaci di A. Kircher (1654, p. 417, vedi fig. 13, p. 23, e cat. n. II.23). Seguono i ritratti di Tommaso del Garbo, di Bruno suo nonno e del padre Dino. All’angolo destro, in fine, sono figure che alludono alle virtù terapeutiche del latte, tra cui quello d’asina. Giusi Fusco Bibliografia: D.M. Manni, in Azioni gloriose 1745, tav. XIII 122 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
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II.23 - Athanasius Kircher (Geisa 1602-Roma 1680 Athanasii Kircheri e Soc. Iesu, Oedipus Aegyptiacus. Hoc est Vniuersalis Hieroglyphicae Veterum doctrinae temporum iniuria abolitae instauratio. Opus ex omni orientalium doctrina & sapientia conditum, nec non viginti diuersarum linguarum authoritate stabilitum… Romae, ex typographia Vitalis Mascardi, 1652-1654, III in fol. Firenze, Biblioteca Marucelliana, 1.HH.III.1 L’erudito gesuita, figura emblematica dell’enciclopedismo secentesco, è lo sconfessato iniziatore dei moderni studi egittologici. Kircher dedicò alla civiltà dell’antico Egitto otto pubblicazioni, dal Prodromus coptus sive aegyptiacus (Roma 1636) alla Sphynx mystagoga (Roma 1676). Le opere del tedesco forniscono una documentazione grafica pressoché completa dei monumenti egiziani noti nella prima metà del XVII secolo. Apparsi tra il 1652 e il 1654, i tre tomi dell’Oedipus Aegypticus, magnum opus del gesuita, testimoniano l’esito di una ricerca ventennale. Nella prima parte dell’Oedipus è prolungata l’investigazione della civiltà egizia inaugurata con l’Obeliscum Pamphilus. Nel secondo tomo Kircher esponeva la “dottrina geroglifica” anche attraverso lo studio comparativo delle tradizioni esoteriche di altre nazioni. L’ultimo volume accoglieva un repertorio grafico delle iscrizioni geroglifiche interpretate dall’erudito tedesco. “La saggezza geroglifica degli egiziani non fu niente altro” – presumeva Kircher – “che la conoscenza della Divinità e della Natura rappresentata sotto diverse favole e immagini allegoriche d’animali e di altre cose naturali”. La lettura simbolica dei geroglifici, di impronta neoplatonica, le immaginifiche traduzioni dei segni impressi sulle antichità egiziane sarebbero state rigettate senza appello in seguito alle scoperte di Champollion. I legami del gesuita con la corte granducale sono segnalati da diverse carte della corrispondenza kircheriana: il 25 aprile 1655 l’autore indirizzava a Ferdinando II i tre tomi dell’Oedipus accompagnati da una lettera di presentazione dell’opera. Nel giugno del medesimo anno il cardinale Leopoldo, dedicatario con il fratello Mattias del VII capitolo del terzo tomo dell’Oedipus, comunicava al gesuita l’applauso suscitato dalle “dotte lucubrazioni”. Kircher avrebbe ricoperto, intorno al 1659, l’incarico di Lettore di filosofia presso il fiorentino Collegio di San Giovanni e in tali circostanze avrebbe concepito l’edizione di un Itinerario Hetrusco destinato a non vedere la luce. La tavola in esposizione, pertinente al terzo tomo dell’Oedipus, va con alcuni passi del Syntagma XIII De Mumijs, earumque conditorijs, & hieroglyphicorum, quibus inscribuntur, significatione dedicato a Giovanni Nardi, medico di Ferdinando II. Intendente alla stelleria e fonderia del granduca, Nardi, corrispondente di Kircher almeno fin dal 1644, pubblicava a Firenze nel 1647 una Paraphrastica explanatio del De Rerum Natura di Lucrezio. Il commento al poema didascalico latino era arricchito da una digressione sui riti funerari del popolo egizio, corredata di nove incisioni di Giovan Battista Balatri, alcune delle quali raffiguranti reperti dell’Ergasterio Granducale e della collezione privata del Nardi. In una lettera indirizzata nel 1652 a Cassiano dal Pozzo, il medico fiorentino dichiarava di aver fornito al Kircher i rami del suo Lucrezio, riadoperati giustappunto nel terzo tomo dell’Oedipus. Nella medesima lettera Nardi anticipava l’imminente spedizione al gesuita di “nuove curiosità copiate dal S.re Balatri sopraintendente della Galleria di S.A.S”. L’incisione in mostra reca in alto un cartiglio che avvisa dell’ubicazione dei sarcofagi raffigurati e individua in Barthold Nihus e Giovanni Nardi le fonti del Kircher. Le immagini dei reperti fiorentini corrispondono probabilmente alle “nuove curiosità copiate dal S.re Balatri” citate dal Nardi nella lettera a Cassiano dal Pozzo. Nella sezione inferiore della tavola sono riprodotti un sarcofago di proprietà del mercante olandese Hieronymus van Werle, considerato secondo quattro differenti punti di vista, e la relativa arca interna. In alto si descrivono in successione: due pezzi ex Magni Ducis Hetruriae Museo; alla lettera C una serie di segni desunti dal dorso del sarcofago B; la mummia contenuta nei sarcofagi van Werle, e infine un’arca appartenuta al borgomastro di Harderwick, Ernest Brinck, identica per ornamenti e iscrizioni a un ulteriore esemplare mediceo. Nel testo Kircher “scandiva” i simboli incolonnati sul coperchio del sarcofago A della collezione granducale: un serpente, un’ara tra due scettri, un occhio, quattro coppe unite dalle quali sgorga un fluido, un segmento con falco, appostato su una verga papiracea, seguito da uno scettro con testa caprina, cratere cycloide, capreoli che cingono tre rami, un doppio segmento, corona e piramide. Il gesuita forniva una traduzione dei geroglifici di intonazione solenne e divinatoria: “Vitale providi Numinis dominium, quadruplicem, Mundani liquoris substantiam dominio confert Osiridis, cuius una cum Mendesio foecundi Numinis dominio, benefica virtute influente, omnia quae in Mundo sunt, vegetantur, animantur, conservantur”. Rosario Ruggiero Terrone Bibliografia: Lumbroso 1876, p. 233; Le opere dei discepoli 1984, p. 229; Mirto 1989, pp. 127-165; Whitehouse 1992, pp. 63-79; Stolzenberg 2001, pp. 115-125; Bresciani 2005, pp. 87-107 124 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. 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III.1 - Seguace di Giusto Suttermans (?) Ritratto di Giacinto Talducci, maestro di fonderia ultimo quarto del XVII secolo olio su tela; cm 79 × 61 Firenze, Galleria Palatina, Inv. 1890 n. 4271 iscrizione: sulla pagina sinistra del libro “DIACINTO / TALDVCI”; sulla pagina destra “THEOPHRASTI / PARACELSI / Operiem / Medico / Chim[…]” Antonio Giacinto Talducci della Casa (1601-1700) fu “maestro di fonderia” di Ferdinando II e Cosimo III, sotto la supervisione dell’archiatra di corte Francesco Redi. Un’annotazione nel diario di Francesco Bonazzini (in Targioni Tozzzetti 1780, ed. 1967, III, p. 127) informa che Giacinto “ne’ primi albori fu Uomo di Don Antonio de’ Medici, assieme con Ottavio suo fratello”, apprendendo proprio dal Medici, che “si dilettava assai di Chimica, e ne era Eccellente Professore”, i primi rudimenti della sua professione. Alla morte di Don Antonio, nel 1621, Ferdinando II decretò il trasferimento della dotazione tecnica della fonderia di San Marco in quella degli Uffizi, includendovi il ritratto del nipote (vedi cat. n. II.16) e forse anche parte del personale, come lascerebbe intuire Bonazzini quando afferma che in quell’occasione Ottavio fu posto al servizio del granduca. Nel frattempo Giacinto era stato nominato pievano di Ripoli dall’arcivescovo di Firenze Niccolini “per benemerenza d’averlo egli assistito e curato d’una sua infermità”. Un regolamento amministrativo della fonderia del 1634 registra come “Ministri” entrambi i fratelli. Giacinto risulterà poi maestro di fonderia ancora nel 1661 e di nuovo nel 1689, mentre dal 1692, pur figurando nell’organico della fonderia, non ne sarà più direttore (cfr. Piccardi 2005, p. 206). La notizia della formazione di Giacinto presso il Casino di San Marco potrebbe trovare conferma in un possibile grado di parentela con quel Giovanni Talducci che fu maestro della fonderia di Don Antonio (Covoni 1892, p. 248), ma soprattutto dà nuova sostanza all’iscrizione che compare in questo ritratto. Il pievano vi è raffigurato a mezzo busto, mentre indica un testo su cui il suo nome è affiancato a quello di Teofrato Paracelso, scienziato svizzero che aveva trovato proprio in Don Antonio uno dei suoi maggiori promotori in Italia (vedi cat. n. II.15). Il nome di Paracelso è citato come fondatore e simbolo dell’arte chimica, ma si fa anche testimonianza di un metodo ancora imperante nelle fonderie granducali, al tempo dell’Accademia del Cimento e dello stesso Redi (vedi cat. n. III.2). Non per questo il Talducci fu un retrogrado, anzi “si guadagnò nome in tutte le parti del Mondo, venendo richiesto il SereniSs. Granduca delle di lui Operazioni” (in Targioni Tozzzetti 1780, ed. 1967, III, p. 127). Di tali “operazioni” egli ha lasciato un “libro di secreti” e cioè un ricettario (BRM, ms. Bigazzi 166) in cui, nonostante l’impostazione sperimentale e la chiarezza espositiva, non viene messa in dubbio la validità di ricette alchemiche quali l’“Elisir Vitae” e l’“Olio contra veleni del Granduca”. Un ritratto di Talducci “vestito di nero, con collare”, identificabile con il nostro, era esposto nel 1774 nella prima stanza della Farmacia di Boboli (in Piccardi 2005, p. 206, ASF, IRC, 4560, c. 2v), dov’è ricordato anche da Targioni Tozzetti nel 1780 (ed. 1967, III, p. 127) e ancora nel 1789 da Soldini (ed. 1976, p. 62), il quale lo annovera tra gli oggetti degni di ammirazione che erano nella farmacia prima che questa fosse trasferita in piazza San Felice. Nel 1809 il dipinto viene infine consegnato a Palazzo Pitti (in Piccardi 2005, p. 206). L’autografia del ritratto a Justus Suttermans proposta da Silvia Meloni Trkulija (Firenze 1980), in parte conferma l’attribuzione a “scuola di Sustermans” dell’Inventario di Galleria del 1890, ed è stata accettata da Marco Chiarini (Palazzo Pitti 1988) e Giovanna Giusti (2001), per esser poi contestata da Stefano Casciu (Chiarini, Padovani 2003) che riporta il parere avverso di Lisa Goldenberg Stoppato. Casciu propende piuttosto per un seguace del pittore fiammingo, e per i dati stilistici e per una datazione che, vista l’età avanzata dell’effigiato, sarebbe da presumersi prossima alla morte (1700) e quindi troppo distante dalla scomparsa di Suttermans (1681). La tela probabilmente ispirò Massimiliano Soldani per il ritratto di Talducci in medaglia (Museo del Bargello, inv. 9258) da lui eseguito nel 1677, prima della partenza per Roma (Vannel-Toderi 1987, p. 65, n. 7). Giusi Fusco Bibliografia: S. Meloni Trkulija, in Firenze 1980a, p. 42, n. VI.16; S. Meloni Trkulija, in Firenze 1983, p. 113, n. LXV; M. Chiarini, in Palazzo Pitti 1988, p. 10; Giusti Galardi 2001, pp. 82-83; S. Casciu, in Chiarini, Padovani 2003, II, p. 436, n. 719 126 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
SEZIONE III. RITRATTI DI MEDICI, SPEZIALI E ALCHIMISTI • 127
III.2 - Pier Dandini (Firenze 1646-1712) Ritratto di Francesco Redi 1708 olio su tela; cm 60 × 45 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 286 iscrizioni: in alto “FRANC:S / REDI”; sul dorso del libro a sinistra “O:e di F:o Redi” Il medico Francesco Redi (1626-1698) ha sguardo acuto, un volto rasato e magro, incorniciato da una grande parrucca riccioluta e illuminato da una sciarpa bianca legata al collo. Il gilet verde è lasciato a vista dal “giustacuore” aperto, di tessuto bigio damascato d’oro e foderato rosa. Il suo nome è scritto in alto a caratteri d’oro ed è ripetuto a sinistra, sull’ultimo di una pila di libri sormontati da un calamaio. “Magro, secco, allampanato e strutto” si descrive egli stesso rispondendo al conte Lorenzo Magalotti che scherzosamente lo aveva definito “Mummia d’Egitto […] che un dì vedrassi, in fede mia, / Fra le miscele più strane in Galleria” (in Viviani 1924, p. 84). Il gioco tra cruscanti meglio si gusta se si considera che il Redi fu convinto sostenitore del metodo sperimentale galileiano, tramite il quale avviò un sistematico smantellamento dell’antica fede nei mirabilia, quali potevano essere le mummie egizie della Fonderia degli Uffizi (cfr. Heikamp 1983, pp. 469, 471 e 509). La sua adesione alla filosofia galileiana va letta alla luce della politica di mediazione attuata dai Medici che, dopo la condanna di Galileo da parte della Chiesa (1633), tentarono, con l’Accademia del Cimento (1656-1667), di rilanciare le scoperte dello scienziato, riducendo la sperimentazione a metodo di indagine capace di demolire false credenze e antichi pregiudizi, ma non di condurre alla piena comprensione delle verità di natura, che rimanevano precluse all’ingegno umano. La conseguenza era l’impossibilità di formulare teorie perentorie, cercando una conciliazione tra aristotelici e la nuova filosofia naturale (cfr. Galluzzi 2001, pp. 20-21). Molte delle sue ricerche furono promosse da Ferdinando II per comprendere la natura e i meccanismi interni dei “Corpi organici”, come per dimostrare l’inefficacia di discutibili rimedi farmacologici (cfr. Targioni Tozzetti 1780, ed. 1967, I, pp. 251-260). Ne sortirono testi che divennero modello di lavoro sperimentale in campo biologico, come le Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi (1684), fondamento della parassitologia, o le Esperienze intorno alla generazione degl’insetti (1668), con cui dimostrò l’infondatezza della generazione spontanea degli insetti. La stima di Ferdinando II fu confermata nel 1666 con la nomina ad archiatra di corte e sovrintendente alla fonderia e spezieria granducali. Incarichi che gli vennero confermati dal granduca Cosimo III, fino ai primi anni ottanta, quando gli fu revocata la soprintendenza della fonderia (Piccardi 2005, p. 206). Essa fonderia, è bene notarlo, era la stessa in cui operava Giacinto Talducci, convinto sostenitore della medicina chimica, strenuamente avversata invece dal Redi (cfr. Targioni Tozzetti 1780, I, ed. 1967, p. 260). La sua fama di medico, naturalista e letterato gli valse l’onore di comparire tra gli Uomini illustri della serie gioviana degli Uffizi. Il ritratto fu pagato da Cosimo III a Pier Dandini nel 1708 (Spinelli 1991). Il nome dell’artista è poi stato dimenticato dalla critica moderna che a lungo ha attribuito il ritratto ad ignoto pittore fiorentino del XVII secolo (Viviani 1924, tav. VI; E. Micheletti, in Uffizi 1980; L. Guerrini, in Firenze 2001). Dopo Spinelli (1991, pp. 37 e 45), che aveva suggerito di riconoscerne il modello in un ritratto a bulino di Domenico Tempesti, Casciu e Matteoli ne hanno ravvisato la notevole somiglianza con un ritratto di Redi proveniente dalla Fraternita dei Laici di Arezzo, ritenuto a sua volta copia di Pier Dandini dal secondo dei tre ritratti di Redi eseguiti dal Suttermans (Viviani 1924, pp. 88, 91-95; Casciu 1999, pp. 265, 267) e, se pur non più ritracciabile, oggi noto da fotografie e riattribuito da Matteoli ad Anton Domenico Gabbiani (Matteoli 2007). A conferma della derivazione della gioviana dal ritratto aretino, si noti che l’iscrizione sul libro a sinistra nella versione degli Uffizi appare, se pur con diversa punteggiatura, anche nel ritratto della Fraternita; non percepibile dalla fotografia da cui oggi ci è noto, ma riportata in una descrizione del Salmi: “Nel fondo marrone scuro, si intravedono alcuni libri ammassati ove è scritto: «Opere di Fr.esco Redi»” (1908, p. 5). Giusi Fusco Bibliografia: Viviani 1924, p. 88; Firenze 1929, p. 34 o 128; E. Micheletti, in Uffizi 1980, p. 652, Ic385; Spinelli 1991, pp. 45-47, note 55 e 60; Casciu 1999, p. 267; L. Guerrini, in Firenze 2001, p. 71, IE3; Matteoli 2007, pp. 57-60 128 • L’ALCHIMIA E LE ARTI. La Fonderia degli Uffizi da laboratorio a stanza delle meraviglie
SEZIONE III. RITRATTI DI MEDICI, SPEZIALI E ALCHIMISTI • 129
III.3 - Pittore fiorentino del XVIII secolo Pala di Folco Rinuccini il “Lambiccato” prima metà del XVIII secolo olio su tavola; cm 69 × 38 Castello (FI), Accademia della Crusca Sebbene precedente, il dipinto è riconducibile allo stile di Cesare Dandini, per le tonalità cromatiche e la brillantezza dei colori smaltati. La pala si riferisce a Folco Rinuccini (accademico dal 1737) che scelse il soprannome “lambiccato” in accordo con l’impresa che raffigura un alambicco per la distillazione atto a trasformare la farina in acquavite (“acqua arzente”), sostanza alla quale allude la scritta, Che poi discese in preziosa pioggia, a completamento di quella sintesi concettuale che caratterizza i soggetti raffigurati nelle oltre 150 pale conservate dell’Accademia della Crusca. Nell’opera è evidente la costante attenzione del pittore alla ricerca tecnica e alla sperimentazione, se pur applicata a metodologie tradizionali. Il fornello quadrangolare, all’interno del quale era posta una caldaia di rame, è munito di apertura per l’alimentazione a legna secca per evitare il fumo ed è poggiato su piedi quadrangolari per facilitare la raccolta della cenere di combustione. Sul piano è posto un alambicco composto da un’ampia boccia con corto collo cilindrico, ampio corpo globulare, fondo apodo definita “dalli distillatori” simile all’orinale, strumento per la diagnostica clinica e di un cappello di forma globulare munito di un globetto per facilitare la presa. Questo doveva aderire perfettamente alla bocca della boccia, in modo “che debba suggellare benissimo il che si fa mettendo fra la gola della boccia, o dell’imboccatura del cappello carta, ò pezza bagnata”, come suggeriva il Ricettario Fiorentino del 1567. Un lungo becco laterale consentiva di convogliare la sostanza distillata, salita verso l’alto per effetto del calore, in un’altra boccia di raccolta, inclinata e appoggiata su una ciambella di paglia o di terra refrattaria, a sua volta posata su uno sgabello. Nel dipinto la boccia è poggiata su una balaustra di legno sulla quale è posato un panno di velluto rosso per rendere la raffigurazione più scenografica. Una puntuale testimonianza grafica dell’uso di questi recipienti è offerta dal trattato De la Pirotechnia compilato da Vanoccio Biringuccio, edito a Venezia nel 1540, e due secoli più tardi da Leonardo Fioravanti ne I capricci medicinali pubblicato a Venezia nel 1665 che descrive la boccia come: “Questo vaso si addimanda boccia dal collo lungo […] overo nel latino cucurbita […] è un vaso commune molto adoperato da quei che distillano […] tanto per cose medicinali, quanto ancora per lavorar di alchimia […]. Si che si può dire questo essere il vaso principale nell’arte distillatoria” unito al cappello poiché “senza di questo saria impossibile poter distillare cosa niuna […]” e il becco “bisogna che sia lungo, & che venghi ad entrare assai nel recipiente percioche entrando dentro assai, la distillatione, e gli spiriti, che dalla bocca escono, non saranno cosi atti ad uscire fuori del recipiente”. Sullo sfondo del dipinto, che allude con la precisione realistica che distingue le pale, alle strutture di una spezieria: è visibile un armadio di legno con scaffalature a vista e sui ripiani sono poggiati recipienti di ceramica e di maiolica per contenere medicamenti già pronti per la vendita. Si distinguono tre fiasche dal corpo ovoidale chiuse con coperchio mobile e il corpo decorato in azzurro, un boccale con cannello piegato con funzione di versatoio e un vaso di forma ovoidale, con anse, di colore ocra di rame stagnato. Sono visibili altri due vasetti di forma globulare per contenere medicamenti già preparati per la vendita. La pala dell’Accademia della Crusca, sebbene sommariamente, offre una testimonianza pittorica degli arredi descritti negli inventari della prima metà del XVII secolo della spezieria di Santa Fina di San Gimignano e di Santa Maria Novella che riponevano su palchetti a più ordini vasi in vetro, orcioli di ceramica e scatole di legno. Silvia Ciappi Bibliografia: Biringuccio 1540, c. 126r-v; Ricettario Fiorentino 1567, pp. 97, 98; Fioravanti 1665, pp. 289, 290-291; Vannini 1981, p. 43, nota 30; pp. 38-39, 48, 52-53; Ciardi-Tongiorgi Tomasi 1983, pp. 448-449 Parodi 1983, n. 640; Bellesi 1996, n. 11, pp. 189-190; Ciappi 2001, pp. 206-207; 213-214; Ciappi 2006, pp. 195-196; n. 65, pp. 230-231; Ciappi 2010, pp. 195-196
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SEZIONE III. RITRATTI DI MEDICI, SPEZIALI E ALCHIMISTI • 131
III.4 - Filippo Bernardino Cioci (attivo nel XVIII secolo) Lo speziale o Ritratto di Padre Antonio Ceri 1747 olio su tela; cm 86 × 69 Firenze, Galleria degli Uffizi, Inv. 1890 n. 4236 Il dipinto raffigura Antonino Ceri, speziale della Farmacia di San Marco a Firenze, annessa all’omonimo convento e alla chiesa domenicana, istituita nel 1436 da Frate Antonino per volontà di Cosimo de’ Medici, artefice dell’intero assetto del “quartiere mediceo” che comprendeva il palazzo di via Larga e la basilica di San Lorenzo. La spezieria fu aperta al pubblico beneficio nel 1450. L’attività farmaceutica svolta dai frati si distinse per l’attenzione rivolta alla preparazione di medicamenti, ricavati dalla distillazione dei semplici, che alleviavano soprattutto le malattie legate all’apparato digerente e ai disturbi neurologici ed emozionali. L’opera di Filippo Bernardino Cioci, datata 1747, raffigura Antonio Ceri ritratto nell’atto di indicare con l’indice della mano destra uno strumento in vetro, comunemente denominato “pellicano” per la somiglianza con il volatile, formato da un solo pezzo diviso in due corpi: uno piriforme e l’altro globulare, comunicanti attraverso uno stretto canale. L’unica apertura era posta nella parte superiore. Un raro esemplare integro di pellicano è conservato nell’antica spezieria del Monastero di Camaldoli. Il termine dei recipienti con la denominazione di animali si deve a Giovan Battista della Porta che nel trattato De Stillatione, edito a Roma nel 1608, elogiava l’arte distillatoria e descriveva vasi e recipienti. La funzione era quella di circolatore per le quintessenze, la parte più pura delle sostanze ottenuta dopo cinque procedimenti di distillazione, che seguiva un processo continuo di ebollizione e di ricaduta e le doppie anse vuote favorivano il processo. Oggetto fondamentale nella pratica farmaceutica e alchemica è raffigurato nei trattati tecnici come il Nuovo et universale theatro farmaceutico, di Antonio de Sgobbis, edito a Venezia nel 1682 e il precedente, ma sempre in uso De la Pirotechnia di Biringuccio, sicuramente presente nella farmacia di San Marco. Nel dipinto il globo inferiore, più grande, è poggiato entro un cesto di paglia intrecciata a cordicelle orizzontali identica a quella dei fiaschi da vino e da spezieria (cfr. cat. n. IV.3), mentre quello superiore, di dimensioni ridotte, sostiene un altro strumento in vetro, con ogni probabilità un cappello di alambicco. Si tratta di strumenti comuni nelle spezierie, ampiamente descritti nei tattati del XVI e XVII secolo e ancora in uso nel XVIII secolo come dimostrano le illustrazioni del libro poggiato su tavolo, ossia il Corso di Chimica di Nicolò Lemery [Nicolas Lémery, 1645-1715], edito per la prima volta nel 1675 e pubblicato nella traduzione italiana a Venezia nel 1700. Nel 1867 il dipinto proveniente dal Convento di San Marco passò al Corridoio Vasariano, nel settembre del 1949 al deposito degli Occhi di Palazzo Pitti e dal 7 novembre 1990 è conservato nei depositi della Galleria degli Uffizi. Un cartiglio poggiato sul volume, che sulla costola riporta la scritta “Corso di Chimica di Lemery”, riferisce la dedica “Al Rev.° dec so Prete [colendissimo] F. Antonino Ceri Spez.e: nel conv.to di S. Marco. Firenze”. Sul retro della cornice è segnato, a inchiostro nero, “questo ritratto fece Filippo Cioci che era mutulo quest’anno 1747”, e un’etichetta in carta posta riporta l’indicazione “N. 13 Estratto dalla Farmacia annessa al Convento di S. Marco di Firenze nel febbraio 1867”. L’inventario del 1890, n. 4236 annota che il dipinto è collocato nel “Corridoio Passaggio G” e che raffigura il “Ritratto del frate Antonino Ceri a mezza figura di fronte con una gran boccia in mano posata su di una tavola con coperta rossa sulla quale posa un libro con suvvi scritto: Al Rev ° Colen. mo Prete Antonino Ceri Speziale nel Convento di San Marco”. Silvia Ciappi Bibliografia: Biringuccio 1540, f. 128v; De Sgobbis 1682, figura prima; Arezzo 1994, n. 153, p. 140; Laghi 1998, p. 128; Ciappi 2001, pp. 206, fig. 7-209; Stiaffini 2004, pp. 26, 70; Ciappi 2006, p. 352; Ciappi 2010, pp. 196-202, fig. 7; n. VI.3.8, pp. 538-539
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SEZIONE III. RITRATTI DI MEDICI, SPEZIALI E ALCHIMISTI • 133
IV.1 - Athanor XVII secolo I. Cupola superiore terracotta e metallo; diam. cm 27,5 iscrizioni: “F.V” II. Cilindro terracotta; diam. sup. cm 16,5, diam. inf. cm 19,00, h. cm 25 ca III. Alambicco di piccole dimensioni a becco lungo vetro, cm 30 Roma, Museo storico Nazionale dell’Arte Sanitaria, Inv. n. 3836 Questo particolare fornello era costituito da tre elementi. A un tamburo di base, spesso assimilato ad una torre, si adagiava ad incastro una parte chiamata cupola, generalmente in terracotta, assolutamente refrattaria e di spessore consistente. Superiormente si trovava un recipiente in vetro che poteva essere un alambicco, un’ampolla, un bulbo etc., collegato, se necessario, con un raccordo cilindrico sempre in terracotta. L’intento dell’Athanor è quello di diffondere uniformemente il calore al suo interno. La distribuzione del calore è conseguenza di un fuoco che si trova sul pavimento del tamburo, che viene alimentato dal combustibile immesso da una finestrella. La funzione del fornello è dipendente dalle bocche o finestrelle di accesso all’aria. Questo principio di entrata ed uscita dell’aria fa assumere al fornello le caratteristiche dei fornelli a riverbero dove il calore è in circolazione. Si ritiene che l’avvio del calore dell’Athanor sia dato dalla immissione di brace già preparata in altro forno o in un caminetto, dato che il ridotto volume all’interno del tamburo e della cupola non poteva consentire l’avvio del fuoco con i tradizionali combustibili dell’epoca: si potrebbe configurare un’accensione direttamente all’interno dell’Athanor solo se ricorressimo a carburanti o di facile accensione. Una volta che l’Athanor è acceso e ha assunto il calore uniforme su tutta la superficie interna, il suo mantenimento non è difficoltoso. Si può addirittura regolare la quantità di calore, una sorta, come dice il Conci, di termometro regolatore in quattro gradi: calore blando, forte, gagliardo, sgagliardissimo (Conci 1934 p.189). Con molta probabilità, come combustibile si ricorreva anche al letame di erbivori che, opportunamente essiccato prende subito fuoco ed è di facile immissione, con alta resa di calore, ma anche a carboni accesi pronti per arroventare, pece, olii, vinacce (Conci 1934, p. 186). Alla finestra di immissione poteva corrispondere non necessariamente una di svuotamento della cenere, la stessa poteva avere la duplice funzione. All’Athanor veniva attribuita una simbologia rappresentativa legata al corpo umano ed alla pietra filosofale, tanto da essere chiamato anche il fornello dei filosofi, come avviene nel manoscritto di Sisto da Norcia dedicato a Cosimo I (vedi p. 15, fig. 4 e cat. n. II.2). Gaspare Baggieri Esposizioni: Casalmaggiore 2003, p. 128, Conci 1934, pp. 186, 189
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SEZIONE IV. LABORATORIO E STANZA DELLE MERAVIGLIE • 135
IV.2 - Mortaio Italia centrale, fine XV-inizio del XVI secolo bronzo; h. cm 15, diam. cm 16 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Inv. 707 Bronzi provenienza: acquisto dall’antiquario Pedulli, Firenze, nel 1914 Il mortaio presenta un corpo a profilo troncoconico rovesciato, piede rialzato, orlo aggettante con collare ben marcato e presa ad ansa tortile con anello. Subito sotto il collare un fregio continuo a festoni viene sorretto da quattro colonne di tipo classico arricchite da ghirlande. Nelle spaziature fra le colonne campeggia in leggero rilievo un busto virile, collocato di profilo a sinistra e affiancato da due liocorni. Su tutta la superficie è stata applicata una patinatura di tonalità bruna che nei riquadri figurati si è poi consunta maggiormente. Il liocorno (o unicorno), animale fantastico e mitizzato, veniva solitamente raffigurato come un cavallo bianco dal lungo corno avvolto a spirale sulla fronte (l’alicorno). Questa peculiare prominenza era considerata un potente rimedio contro i veleni e per questo, sin dalla tarda antichità, dallo storico e medico Ctesia in poi, si moltiplicarono le citazioni del valore curativo del corno nei trattati di medicina, nei ricettari farmaceutici e nei libri dedicati all’argomento. A partire dal Medioevo numerose furono anche le rappresentazioni di caccia all’unicorno quali scene centrali di pitture, arazzi, miniature. Come prevedibile, trattandosi di una creatura prodotta dalla fantasia umana, e crescendo in modo esponenziale la richiesta di alicorni da utilizzare negli antidoti per i veleni, sul mercato furono immessi rari denti di Narvalo, corna di Orici o abili falsificazioni, create con l’assemblaggio di ossa di animali diversi, da propinare come l’attributo originale dell’unicorno, in cambio di lauti guadagni. Nel 1569 Cosimo I trattava l’acquisto di un unicorno per la cifra di ben 10.000 scudi, mentre nel 1573, Andrea Bacci, medico del granduca, scrisse un trattato sull’argomento dedicato a Francesco I, dove prendeva in esame i diversi esemplari del rarissimo oggetto presenti nelle corti italiane e nella guardaroba di Palazzo Vecchio (cfr. da ultimo Conticelli 2007, p. 146 con bibliografia). Il mortaio faceva parte dello strumentario utilizzato da speziali e farmacisti per la preparazione dei medicinali, assieme a bilance, arnesi per dosare e miscelare, caldaie e alambicchi in vetro o metallo per distillare, contenitori di vetro e ceramica, come talvolta è rappresentato nei trattati di farmocopea. Sin dal XIV secolo il mortaio solitamente viene realizzato in bronzo, pur se si conservano ancora esemplari in marmo o pietra dura (porfido, etc), e diviene nel tempo, oltre che oggetto d’uso quotidiano nelle spezierie e nelle officine farmaceutiche, anche suppellettile d’arredo domestico. Non è poi raro trovare figurazioni nelle quali compare in primo piano questo essenziale strumento farmaceutico; ecco quindi che il mortaio si colloca a fianco di alambicchi e strumenti di vario tipo nel frontespizio del celebre “Ricettario Fiorentino” (vedi cat. n. II.3), revisionato e stampato nel 1567 su richiesta di Cosimo I de’ Medici, e nel dipinto di Giovanni Stradano, Il laboratorio dell’alchimista, realizzato intorno al 1570 per lo studiolo del principe Francesco de’ Medici in Palazzo Vecchio . Alcuni mortai di probabile origine fiorentina mostrano insegne di spezierie e farmacie, da ipotizzare come riferibili a botteghe apotecarie cittadine. Due in particolare manifestano il loro stretto legame con la corte medicea: un esemplare con stemma Medici e corona granducale in collezione privata (A. Bruschi, in Tokyo-Kyoto 2004-2005, pp. 255-256 n. 113) e due mortai settecenteschi del Museo di Storia della Scienza di Firenze con le sagome a rilievo dei santi medici Cosma e Damiano; questi ultimi, assieme a un nucleo di vasi in maiolica con la stessa figurazione, rimangono a testimoniare un antico esercizio farmaceutico da porre direttamente in relazione con la famiglia Medici (Marini, Piccardi 2009, pp. 68-69). Marino Marini
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IV.3 - Fiasco manifattura toscana, XVII secolo vetro verde e paglia; h. cm 30, diam. cm 22 Firenze, Museo dell’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella Il fiasco, realizzato a soffio libero in vetro verde chiaro, presenta orlo arrotondato ed estroflesso, corto collo cilindrico, corpo globulare, caratterizzato dal fondo convesso. Il rivestimento in paglia, più esattamente un’erba palustre essiccata al sole, sbiancata e intrecciata, è realizzato a cordicelle intrecciate che formano tre file di losanghe nella parte superiore e di cordicelle disposte in senso orizzontale nella parte inferiore, mentre la base è rinforzata da doppio intreccio per consentire una maggiore stabilità al recipiente apodo e convesso. L’orlo estroflesso facilitava la chiusura con un ciuffetto di paglia o con un cappuccio di carta oleata chiuso con una cordicella. Questo raro oggetto attesta la consuetudine di utilizzare nelle spezierie fiaschi parzialmente rivestiti, rispetto a quelli da vino chiusi sino al collo, ampiamente documentati dalle testimonianze pittoriche, per poter agilmente controllare la densità, il livello e le eventuali alterazioni del contenuto liquido, oleoso o anche in forma di sciroppo e di acqua odorosa. I fiaschi, contenitori capienti (da lt 2,8 a 5,7), erano allineati su mensole poste dietro il bancone di vendita, pronti per riempire bottigliette distribuite insieme al medicamento. Oltre la forma del raro fiasco della spezieria di Santa Maria Novella esistevano anche varianti, generalmente di dimensioni ridotte, con il collo cilindrico più lungo, fasciato da cordicelle orizzontali e con impagliatura sul corpo centrale più rada e composta da più ampie losanghe destinate a contenere elisir liquorosi o più spesso sostanze profumate. Una testimonianza è offerta dal coevo dipinto di Jacopo Ligozzi, Memento Mori, conservato nella collezione di Lord Aberconway a Bodnant, che allude alla vanitas, in cui è evidente il riferimento al contenitore per essenza profumata. Numerosi fiaschi di identica fattura sono presenti nei numerosi dipinti di Gian Domenico Valentini che illustrano i laboratori di distillazione (cfr. cat. n. I.11) Allo stato attuale della conoscenza del vetro prodotto a Firenze nel XVI-XVII secolo non è possibile individuare quali fornaci rifornissero la spezieria di Santa Maria Novella di oggetti e strumenti in vetro e se i “fornimenti” avvenissero nelle vetrerie dell’area empolese, o a Firenze dove erano attive officine in grado di realizzare recipienti adatti alle esigenze delle spezierie come risulta da due inventari cinquecenteschi – conservati nel fondo Pupilli del Principato ed Adulti dell’Archivio di Stato di Firenze – che elencano un’ampia varietà di tipologie vetrarie. L’inventario dei beni della bottega di Lorenzo d’Orlando, residente in via Palazzuolo e con bottega ubicata in via Strozzi, compilato tra il 1546 e il 1547, enumera utensili e strumenti idonei all’attività distillatoria, alla preparazione e alla conservazione di sostanze medicamentose: “orinale da stillare”, “veste”, “lanbichi”, “ampolle da siloppi”, “alberegli da pomatta”, fiaschi, oltre a recipienti destinati alla diretta distribuzione dei medicinali o di oggetti atti ad aiutare l’ammalato come “bichieri da medicina” e “anpollle da malati”, ma anche orinali e “chanterelle con manicho”, che, con ogni probabilità, erano vasi da notte. Ugualmente l’inventario delle fine del Cinquecento relativo a una fornace da vetro con annessa bottega di vendita, ubicata in via Condotta di proprietà di Baccio di Giusto Rustichelli elenca “alberellonj da speziali”, o in versione più piccola “alberelletti”, ampolle sigillate (“nasse”), “storte”, “orinali da stillare”, un “capello grande da stillare”, oltre a coppette da salasso (“ventose”) e “cornetti da sangue”, utilizzati per una pratica medica che era solitamente svolta nelle spezierie. Silvia Ciappi Bibliografia: ASFI, Pupilli del Principato 2649, cc. 220r-225v e cc. 503r-506r; Cantini Guidotti 1983, pp. 45-47; 107-129; Arezzo 1994, p. XXVI, fig. 14; Giovannini 1994, pp. 138-139, fig. 50; Ciappi 1995, pp. 63-67; Laghi 1998, pp. 65-66, 79; Ciappi 2001, nn. 1/2. 4, pp. 216-217; Villa 2006; Ciappi 2010, pp. 192-195
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IV.4 - Ampolla (Bottiglia fiorentina) manifattura toscana XVII secolo vetro verde chiaro; h. cm 47,5, diam. cm 25 Firenze, Museo dell’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella L’ampolla, non comune per le dimensioni, è alta quasi 50 centimetri, è ottenuta a soffio libero e presenta orlo arrotondato ed è munita di beccuccio, lungo collo cilindrico, corpo globulare schiacciato, su cui è posizionato il sottile beccuccio ricurvo e piegato a “C”. Il fondo è apodo con fondo rientrato e segno dello stacco del pontello (canna di supporto). Il vetro tende alla colorazione verde chiara (verdino) con sfumature di giallo che indicano un vetro non di pregio e non depurato con manganese, ma adatto a un recipiente da spezieria che necessitava di una gradazione cromatica chiara per poter osservare in trasparenza la sostanza contenuta, la sua consistenza, il colore e l’eventuale alterazione organica. L’uso di vetro comune e non di pregio era idoneo ai recipienti da farmacia soggetti a facile rottura e da sostituire con frequenza per i danni provocati dal calore, dall’acidità o da incrostazioni. Come nel caso del fiasco impagliato a losanghe, ugualmente conservato nella spezieria di Santa Maria Novella (cfr. cat. n. IV.3), non è possibile individuare l’officina vetraria che abbia realizzato l’ampolla, destinata insieme ad altre, non tanto alla funzione di versatoio di sostanze medicinali, quanto di essenze odorose, coltivate nell’orto attiguo al convento, da travasare in bottigliette più piccole destinate alla vendita. Tuttavia la dimensione dell’ampolla lascia supporre che si trattasse di un’officina specializzata in questa particolare tipologia, che implicava una notevole abilità tecnica da parte del maestro vetraio. Questi doveva calcolare in tempi brevi, a causa del rapido raffreddamento che caratterizza il vetro toscano, la temperatura della bottiglia abbozzata alla quale unire con veloci gesti il bolo di vetro da trasformare in beccuccio e, eventualmente, l’ansa di presa. La raffinatezza della forma dell’ampolla induce a ritenere appropriata la datazione intorno alla metà del XVII secolo – dopo che la spezieria era stata nominata Fonderia di Sua Altezza Reale nel 1659 sotto il granducato di Ferdinando II – quando l’officina farmaceutica era diretta da Fra’ Angiolo Marchissi, speziale che si distinse per l’attenzione rivolta alla sperimentazione di nuove soluzioni o di miscele. È probabile che il frate, proprio per la fervida attività della spezieria, avesse fatto ordinazione di frequenti “fornimenti” di strumenti e di recipienti di vetro dei quali è andata perduta la testimonianza archivistica. Ampolle simili, che giustificano il termine “fiorentina”, sono conservate nelle spezierie del monastero di Camaldoli, in quello di San Vincenzo a Prato e al Museo Galileo, di identica forma ma di minori dimensioni. Silvia Ciappi Bibliografia: Giovannini-Mancini 1987, p. 25, fig. 31; Abbri 1991, nn. 7-8, p. 348; Arezzo 1994, n. 147, p. 136; Giovannini 1994, pp. 25-29; Mancini 1994, p. 146, fig. 51; Laghi 1998, pp. 126; Ciappi 2010, n. VI,1.6, pp. 422, 535-536
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IV.5 - Cappello da alambicco manifattura toscana XVIII secolo stagno e rame; h. cm 68, diam. cm 66 Firenze, Museo dell’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella Il cappello, realizzato in stagno all’interno e in rame all’esterno, ha forma conica ed è munito di lungo becco. Lo strumento costituisce la parte superiore di un alambicco che poggia sopra la caldaia o cucurbita di forma globulare o cilindrica. L’oggetto svolge la duplice funzione di coperchio e di raccoglitore dei vapori di distillazione che salivano verso l’alto ed erano trasformati in stato liquido e poi raccolti in un recipiente di vetro o in una serpentina refrigerante, qualora fosse stata necessario un procedimento di ulteriore raffreddamento. La forma e la dimensione dei cappelli realizzati in metallo, ma anche in vetro, era variabile e poteva raggiungere anche grandi dimensioni che necessitavano di strutture fusorie altrettanto imponenti poiché dedite alla distillazione di grandi quantitativi di semplici, specie di consistenza vegetale. Le illustrazioni del trattato De la Pirotechnia di Vanoccio Biringuccio, edito a Venezia nel 1540 (vedi cat. n. I.3) rappresentano forni di varie dimensioni sui quali sono poggiati alambicchi metallici, muniti di rostro. Una delle incisioni illustra con estrema chiarezza il becco che penetra in una serpentina, posta su una mezza botte piena d’acqua, che termina nella bocca di raccolta di una bottiglia globulare apoda, poggiata su un panchetto e sorretta da una ciambella di paglia – per consentirle una più sicura stabilità – dove andrà a confluire l’acqua arzente, ossia l’alcol. Talvolta, al pomello posto sulla cima del cappello, di forma sferica o forato a formare un occhiello, era attaccato un filo per sostenere il peso della bottiglia, sebbene di piccole dimensioni, sospesa al becco, come illustra una tavola del Ricettario Fiorentino che illustra Del modo di distillare l’acque per istufa humida, specificando che “al rostro del quale si attacca il recipiente, appiccato con un cappietto di spago alla palla del cappello: & perché il recipiente per la gravezza dell’acqua che stilla, no [non] tiri à terra il cappello; si mette un’altro cappelletto alla medesima palla”. Alcune testimonianze pittoriche di area fiorentina, riconducibili all’ambiente mediceo, offrono puntuali raffigurazioni del cappello da alambicco. Una delle immagini più dettagliate riguardo alla strumentazione alchemica, oltre il celebre dipinto su lavagna di Giovanni Stradano nello studiolo di Francesco I, del 1570 è un’incisione (VII) della raccolta Nova Reperta, databile dopo il 1589, che raffigura, con la precisione propria di un artista di origine fiamminga, un laboratorio di distilleria (vedi cat. n. II.11). Nello Stanzino delle Matematiche, ubicato nell’ala di levante degli Uffizi, opposta ai locali occupati dalla spezieria granducale, Giulio Parigi, tra il 1599 e il 1600, per volere del granduca Ferdinando I affrescò il soffitto con scene che raffiguravano le più importanti scoperte scientifiche. Alcuni personaggi, seduti su scanni e intenti a studiare voluminosi trattati, indossano un copricapo a forma di cappello di alambicco munito del rostro dal quale esce, sotto forma di gocce e di spruzzi, l’essenza distillata, metafora della sapienza che, cadendo su altri testi scientifici, rinnova la continuità della conoscenza scientifica e il costante e biunivoco scambio tra teoria e applicazione pratica (vedi pp. 17-18, fig. 5). Ha un aspetto più ludico e scherzoso l’affresco opera di Michelangelo Cinganelli realizzata tra il 1625 e il 1628, nella cosiddetta Loggetta dei Mestieri, nel mezzanino tra il piano terra e il primo piano dell’ala sinistra di Palazzo Pitti, oggi parte del Museo degli Argenti, che raffigura un puttino alato che sostiene un cappello dal cui rostro fuoriesce in gocce del liquido distillato. Silvia Ciappi Bibliografia: Ricettario Fiorentino 1567, pp. 97-100; De Sgobbis 1682, Figura prima; Heikamp 1970; Caneva 1980, II, p. 1157; Giovannini, Mancini 1987, p. 26, fig. 32; Beretta 1991, p. 333; Biringuccio 1540, f. 126r, f. 128v; Ciappi 2006, p. 137; Conticelli 2007, pp. 331-33, tav. 89, tav. XXIX; Camerota 2008, p. 249; n. IV.3-1, p. 356; Ciappi in c.s.
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IV.6 - Strumento per distillazione manifattura toscana XVIII secolo vetro trasparente, con incrostazioni rossastre; h. cm 21,5, diam. cm 7 Firenze, Museo Galileo, Inv. Chimica Applicata 117 Lo strumento, realizzato in vetro soffiato tendente al giallino, presenta bocca sigillata a caldo, lungo collo cilindrico, corpo globulare. L’intera superficie è rivestita di uno strato di incrostazione rosso-iridiscente formatosi per ossidazione, la base è apoda e convessa. Il recipiente era comune nelle spezierie e nei laboratori di alchimia come vaso idoneo per ricevere il prodotto finito nelle varie fasi di distillazione. Sono i trattati tecnici a fornire utili indicazioni: un recipiente simile è raffigurato nell’Opera di Sisto de Bonisistis da Norcia, dedicata a Cosimo I (vedi cat. n. II.2), che illustra i diversi procedimenti di distillazione in atto nella fonderia del Casino di San Marco. Le testimonianze iconografiche forniscono utili indizi per visualizzare la forma degli strumenti da spezieria, ma soprattutto sono indispensabili per riconoscerne l’esatta funzione. Nel noto dipinto di Giovanni Stradano, Gli alchimisti, nello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio a Firenze, opera del 1570, si individuano bocce simili, se pur di apparente dimensione maggiore, poste sul piano del grande forno sullo sfondo, poggiate su sostegni circolari, di paglia intrecciata o di terra refrattaria, per consentire una stabilità momentanea, nella cui bocche si infilava il becco del cappello degli alambicchi inseriti dentro la struttura fusoria e, per questo, non visibili. È identica la bottiglia sorretta dal giovane in primo piano che, con attenzione, sostiene il collo nel punto più delicato e soggetto a frattura mentre l’altra mano è posta aperta a sostegno del corpo arrotondato. Evidentemente la bottiglia conteneva un liquido, di cui sui scorge il livello, da aggiungere nel recipiente in primo piano – strumento per la distillazione ideato nel XIII secolo da Taddeo Alderotti – per un’ulteriore lavorazione, attentamente osservata dall’alchimista esperto, che non casualmente indossa abiti di pregio (cappello, giacca bordata di pelliccia maculata, occhiali da vista segno di acume intellettivo oltre che supporto visivo), ed è ritratto nell’atto di suggerire indicazioni, accompagnate da un inequivocabile gesto della mano. Recipienti simili, quando non erano utilizzati, venivano appesi alle pareti in posizione sopraelevata, non diversamente dalle storte, per difenderli dagli urti e dalle frequenti, inevitabili rotture. Una puntuale testimonianza è offerta da Pietro Longhi nel dipinto Il cavadenti, del 1752, conservato a Venezia alle Gallerie dell’Accademia, che mostra un recipiente appeso orizzontalmente al muro sorretto da anelli circolari. Inoltre il dipinto, di area veneziana, conferma come i recipienti e gli strumenti da farmacia mantenessero un’assoluta omogeneità formale, senza significative differenze regionali, che dipendeva dalla loro specifica funzione. Silvia Ciappi Bibliografia: Perifano 1997, pp. 113-125; Ciappi 2001, n. II719, p. 222; Casalmaggiore 2003, n. I.25, p. 86, V. Conticelli, in Casalmaggiore 2003; Conticelli 2007, p. 151, nota 204; pp. 331-338
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IV.7 - Recipiente per distillazione manifattura toscana XVIII secolo vetro verdolino-giallino, con incrostazioni brune; h. cm 30, l. cm 16 Firenze, Museo Galileo, Inv. 1911 La bottiglia, realizzata in vetro soffiato di colore verdolino tendente al giallo, con diverse impurità dovute all’impiego di modesta qualità della miscela vetrosa (granelli di sabbia) e bolle di soffiatura, presenta un corto collo cilindrico con orlo appena arrotondato. Il corpo ha forma cilindrica con due rigonfiamenti nella parte superiore e inferiore. La base è apoda con fondo convesso e segno dello stacco del pontello. Nella parte centrale si diparte un beccuccio (spezzato) che doveva avere dimensioni imponenti, considerata l’ampia apertura di attacco alla parete del corpo centrale. La sostanza chimica è andata perduta a seguito dei danni subiti dalle collezioni dell’Istituto e Museo della Scienza, con l’alluvione dell’Arno nel 1966. Non è nota la reale funzione del recipiente, tuttavia è probabile che servisse da raccordo tra il forno di fusione vero e proprio e la boccia finale di raccolta del liquido distillato. Il beccuccio laterale doveva collegarsi a un altro recipiente e sul corto collo cilindrico era inserito un cappello o un imbuto o una serpentina, mentre il corpo centrale, qualora fosse stato necessario sottoporlo a ulteriore calore, era inserito in una cavità dentro la quale erano posti orinali di rame o di terracotta per evitare il contatto diretto con la fiamma. Il Ricettario Fiorentino del 1567 nel descrivere “Del modo di stillare l’acque per istufa humida” illustra un forno a tre piani. Nella zona inferiore “si fanno tante buche tonde […] “dentro alle quali siano orinali di rame sottile” […] e “dentro a’ quali si mettono le bocce di terra cotta che regga al fuoco”. È evidente come i processi di distillazione non fossero sostanzialmente mutati attraverso i secoli. Ugualmente fu lento il mutare delle tecniche alchemiche adottate e applicate alla scienza chimica. Il recipiente in oggetto non presenta confronti iconografici né sono noti recipienti identici, fatto che lascia supporre, con cautela dubitativa, che si tratti di oggetti sperimentali, volti a trovare soluzioni in grado di facilitare il lento processo di distillazione. Potrebbe anche trattarsi, è in tal caso la cautela è ancora più netta, di oggetti riprodotti da maestri vetrai delle fornaci presenti a Firenze e attivi per conto del Museo lorenese, che interpretavano modelli tratti da disegni di recipienti in uso in Europa e visionati da Felice Fontana e dal naturalista Giovanni Fabbroni durante i viaggi compiuti, dopo l’apertura del Museo di Fisica e di Storia Naturale, con il preciso intento di apprendere tecniche più avanzate e prendere contatti con costruttori e laboratori (cfr. cat. n. IV.9). Silvia Ciappi Bibliografia: Ricettario Fiorentino 1567, pp. 97-100
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IV.8 - Bottiglia (matraccio) manifattura toscana XVIII secolo vetro verde chiaro; h. cm 22, diam. cm 5 Firenze, Museo Galileo, Inv. 1913 La bottiglia, denominata anche matraccio, presenta un’imboccatura con orlo arrotondato è realizzato con vetro di spessore più grosso e l’interno è smerigliato per consentire la perfetta aderenza di un tappo di vetro (perduto). Il collo è troncoconico e il corpo piriforme, il fondo apodo e convesso. La bottiglia aveva conservato tracce della sostanza contenuta, andata dispersa a seguito dell’alluvione dell’Arno dl 1966 che arrecò ingenti danni alle collezioni dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza, oggi Museo Galileo. Il recipiente, per l’accorgimento della bocca con orlo rinforzato e l’abrasione interna, è riferibile alla produzione del XVIII secolo, anche se la forma non si differenzia da analoghe tipologie prodotte nel XVI-XVII secolo di cui sono conservati rari esemplari nelle farmacie storiche. La tappatura, che spesso consisteva in un sughero o in carta oleata chiusa con una cordicella, fa ritenere che l’oggetto non appartenga alle tipologia di oggetti da distillazione, ma sia un recipiente utilizzato nei laboratori farmaceutici, come contenitore del prodotto finito ma anche per la preparazione di soluzioni da diluire secondo la quantità prestabilita che, nei moderni matracci, è indicata con scala graduata o con taratura. Talvolta, nella pratica di adattamento dei contenitori idonei con appositi accorgimenti, a più funzioni, il matraccio munito di bocca rinforzata era utilizzato per ricevere liquidi attraverso l’uso di imbuti o, più raramente, anche come sostegno di un cappello da alambicco, divenendo uno strumento da distillazione se pur desueto, almeno che il vetro non fosse di grosso spessore e in grado di sopportare temperature elevate. La bottiglia, riconducibile alle collezioni lorenesi, fu forse realizzata ma non se ne ha certezza documentaria, dalle vetrerie attive a Firenze, ubicate nella zona di Santo Spirito. Le fornaci fiorentine, infatti, rifornivano abitualmente il Museo Fisica e Storia Naturale della necessaria strumentazione e provvedevano alla manutenzione degli arredi in vetro, in particolare delle lumiere, di Palazzo Pitti. Silvia Ciappi Bibliografia: Ciappi 2001, n. I/5, p. 217; Ciappi 2004, pp. 81-84; Ciappi 2008, pp. 79-86
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IV.9 - Storte Manifattura Josiah Wedgwood (GB) seconda metà del XVIII secolo terra refrattaria; h. cm 19, lungh. cm 48, h. cm 24, lungh. cm 58 Firenze, Museo Galileo, Inv. 1753, 1754 La storta è uno strumento utilizzato nella spezieria, munito di un corpo ovoidale e di un lungo collo cilindrico piegato. Non ha mutato nel corso dei secoli la forma, definita dalla funzione, ma erano previste, sia per quelle realizzate in terra refrattaria, particolarmente resistente alle temperature elevate, che quelle in vetro incolore o tendente al giallino, varianti nel corpo globulare più o meno allungato e talvolta munito di un piccolo cannello esterno per l’introduzione delle sostanze da distillare e nella piegatura del becco. I testi di farmacopea pubblicati nel XVIII secolo, tra i quali Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, alla voce Chimica, o il Corso di Chimica di Nicolas Lémery del 1675 e pubblicato in traduzione italiana nel 1700 (cfr. cat. n. III.4 ) forniscono precise indicazioni, come i trattati del XVI e XVII secolo, sulla forma dei recipienti da laboratorio e sulla loro funzione. Le due storte del Museo Galileo sono entrambe segnate a impressione all’estremità del becco “Wedgwood” poiché furono acquistate dal Museo insieme ad altri 12 esemplari dalla manifattura del celebre ceramista inglese specializzato nella strumentazione per i laboratori chimici di oggetti e strumenti realizzati con l’uso di terre e argille che erano la conseguenza di una lunga osservazione naturalistica su campioni provenienti dalla campagna dello Staffordshire e di sperimentazione sull’amalgama delle terre. La finalità era di creare prodotti seriali, realizzati in stampo o con appositi macchinari, in grado di rendere manufatti qualitativamente migliori ma anche più economica la dotazione strumentaria. Nella “Filza di conti dell’anno 1793”, conservata nell’Archivio del Museo Galileo, è indicato il pagamento in data 30 aprile 1793 di una fattura della Manifattura Josiah Wedgwood Sons – Byerly inoltrata a Felice Fontana per la somma di 5 lire e 9 schellini per la fornitura di “12 crooked Tubes” oltre a altri strumenti (tubi, canne con chiusura al centro) da versare a un corrispondente di Livorno che faceva da tramite nell’importazione di materiale proveniente dall’Inghilterra. È inoltre noto che Josiah Wedgwood junior nel novembre del 1787 avesse personalmente consegnato al Museo alcuni campioni di terracotta. Le storte appartengono alla collezione lorenese e facevano parte del corredo strumentario del Museo di Fisica e di Storia Naturale, ubicato nella sede di Palazzo Torrigiani, e inaugurato nel 1775. Felice Fontana, nominato direttore, fu impegnato in lunghi viaggi in Europa, insieme all’assistente Giovanni Fabbroni, per visitare laboratori scientifici e fabbriche in cui erano realizzati gli strumenti da laboratorio secondo moderni procedimenti tecnici. La finalità era di corredare il museo fiorentino di una strumentazione aggiornata alle scoperte della scienza chimica per giungere a un ammodernamento delle manifatture toscane. La scienza, secondo i principi sostenuti dalla politica lorenese, doveva avere una funzione speculativa ma anche assumere una nuova connotazione utilitaristica. Nella seconda metà del XVIII secolo i laboratori chimici conservano la strumentazione scientifica in maniera più razionale, entro armadi e teche, dando un ordine al caotico disordine delle fucine alchemiche dove le storte, come documentano le testimonianze pittoriche del XVI-XVII secolo, erano appese alle pareti o alle travi di supporto per mezzo di chiodi sporgenti o di cordicelle strette intorno alla strozzatura che separa il corpo dal lungo collo. La posizione elevata le difendeva dagli urti e dalle rotture accidentali, ma permetteva anche una rapida asciugatura e una costante aerazione (cfr. cat. nn. I.11, II.17), secondo una consuetudine che era ancora in uso nel XVIII secolo, illustrata nel noto dipinto di Pietro Longhi Gli alchimisti del 1757, conservato al Museo del Settecento di Ca’ Rezzonico a Venezia. Silvia Ciappi Bibliografia: Pasta 1989, pp. 119-120; Londra 1995; Ciappi 2001, n. II/20, p. 223; III714, p. 224; Contardi 2002, p. 227; Ciappi 2006, p. 195; Beretta 2010, pp. 278, 281-283, fig. 10; Miniati 2010
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IV.10 - Sarcofago egizio anonimo Epoca Tarda, XXV-XXVI dinastia legno intagliato con trattamento in superficie; lungh. cm 182,5, largh. cm 56, h. ai piedi cm 39 Firenze, Museo Egizio, Inv. n. 5772 Il sarcofago, di forma antropoide, è formato da una cassa e da un coperchio composti da numerose assi di legno assemblate mediante piccoli perni, anch’essi di legno; sono visibili le connessioni dei vari pezzi, con alcune lacune e frammentazioni. Il coperchio si univa alla cassa mediante otto tenoni, perduti, che s’incastravano in fori ricavati nello spessore della cassa. La superficie esterna del sarcofago è completamente ricoperta da una patina scura, probabilmente applicata in epoca moderna; non vi è traccia di decorazione dipinta o incisa su tutta la superficie. Sul coperchio, il defunto indossa una parrucca tripartita, che lascia scoperte le orecchie rese con particolare cura nei più piccoli particolari, e sul mento è applicata la barba posticcia terminante a ricciolo, che assimila il defunto a Osiride, dio dei morti, e che indica che probabilmente il sarcofago era destinato a un uomo. I tratti del volto, morbidamente delineati, sono resi con cura; è da notare che anche nella parte inferiore del corpo del defunto è delineata impercettibilmente la forma delle gambe e dei ginocchi. Sull’inventario originale manoscritto conservato presso il Museo Egizio di Firenze, il sarcofago è indicato come proveniente dal Museo Antropologico fiorentino (vedi p. 25 e note relative). Nel 1884, infatti, Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio, ottenne di trasferire dal Museo Antropologico tutto il materiale relativo alla civiltà egizia; si trattava di alcune mummie umane con sarcofago, di un notevole numero di tele e frammenti di tessuto, nonché del ricco corredo della defunta Takerheb, che comprendeva anche la mummia, il cartonnage dorato e il sarcofago. I documenti che attestano il trasferimento sono conservati presso l’archivio del Museo Egizio di Firenze. Altre due mummie sono state trasferite dal Museo Antropologico in un secondo tempo, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso (Del Francia 2001, p. 9); è possibile che una di queste due mummie fosse collocata in origine all’interno del sarcofago, arrivato invece nel 1884. Si tratta della mummia appartenente a un individuo adulto di sesso maschile, morto a un’età riportabile fra i 35 e i 45 anni (lungh. cm 160, largh. cm 39), la cui bendatura è stata sezionata lungo il corpo fino a metà della larghezza, per mettere allo scoperto il corpo del defunto, operazione effettuata nel 1838 presso il Museo di Fisica e Storia Naturale. La mummia era presente presso tale Museo già nel 1792, come riportato nel Catalogo del R. Museo di Fisica, che reca questa data (Del Francia 2001, p. 9), ed è arrivata al Museo Egizio di Firenze alla fine degli anni Settanta, come cessione del Museo Antropologico. La mummia presenta le braccia stese lungo i fianchi, con le mani appoggiate sulle cosce; i piedi sono staccati dal resto del corpo, che si mostra in mediocri condizioni di conservazione. Dalle radiografie effettuate si rileva che il cranio non ha subito lo sfondamento dell’etmoide e non conserva materiale all’interno, pratica che invece era adottata dal popolo egiziano per ottenere un’imbalsamazione e conservazione ottimale del corpo del defunto; dalla radiografia è stata anche individuata la presenza di un tampone rettale. La mummia non presenta pertanto un procedimento di imbalsamazione di alta qualità, che nell’antico Egitto si potevano permettere solo personaggi di buone condizioni economiche, e non risulta inserito fra le bende nessun gioiello o amuleto. Il corpo comunque ha subito un trattamento, e soprattutto una bendatura di buon livello. La bendatura è composta da numerosi strati di bende di lino larghe circa cm 5 e dietro la testa sono conservati due frammenti di una legatura esterna, sempre in lino, larga circa cm 2; sulla superficie superiore è presente del materiale resinoso nero, usato in Egitto dall’Epoca Tarda in poi, che potrebbe dare un’indicazione della datazione della mummia, coerente con quella del sarcofago. Maria Cristina Guidotti Bibliografia: sarcofago inedito; mummia: Saleh Ali 1999, p. 235, n. 70; Guidotti 2001, p. 59, n. 17
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IV.11 - Ferrante Imperato (Napoli 1525?-1615?) Dell’historia naturale di Ferrante Imperato napolitano. Libri 28. Nella quale ordinatamente si tratta della diuersa condition di miniere, e pietre. Con alcune historie di piante, & animali; sin’hora non date in luce, Napoli, stamparia à Porta Reale per Costantino Vitale, 1599 in fol. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. II. 1. 85 Quest’opera è un trattato di storia naturale che integra le fonti bibliografiche più autorevoli disponibili al tempo in materia con osservazioni personali dell’autore. Particolare attenzione dedica ai prodotti che rivestono specifiche utilità, cosicché gli oggetti naturali sono considerati in funzione del loro uso in farmacopea, mentre l’aria è trattata in funzione della salute umana. Sebbene nel volume Imperato non accenni mai al suo museo, vi include una grande incisione, di autore ignoto, con la veduta d’insieme della sua raccolta. Si tratta della più antica raffigurazione di una Wunderkammer, che rappresenta i canoni estetici tipici dei musei tardorinascimentali: uno stanzone con numerosi reperti appesi alle pareti o posizionati su scansie, tra cui un grosso coccodrillo, un rostro di pesce sega, conchiglie, crostacei, stelle marine, pesci essiccati, animali impagliati e numerosi volumi di erbario; il tutto sotto gli occhi di alcuni gentiluomini intenti a osservare le preziose curiosità. Ferrante Imperato fu un erudito farmacista napoletano che per tutta la vita collezionò piante, animali, fossili e altre curiosità in relazione con il mondo della natura, grazie anche alla collaborazione del figlio Francesco. Grazie alle sue raccolte costituì il suo celebre museo privato che intorno alla metà degli anni Sessanta del Cinquecento ebbe una primo assetto e in seguito varie sistemazioni. Il suo gabinetto lo portò in stretto contatto con i membri dell’Accademia dei Lincei, impegnati nello studio della natura basato sull’osservazione. Delle collezioni naturalistiche di Imperato rimane oggi solo un volume dell’erbario, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Fausto Barbagli Bibliografia: Ciarallo 1981, 1986; Findlen 1994, p. 38; Stendardo 2001; Lugli 2005
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IV.12 - Coccodrillo (Crocodylus niloticus) XVIII secolo cm 90 × 220 × 32 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. Gen Rett. n. 40324 Fra gli innumerevoli reperti che costituivano le collezioni di naturalia e mirabilia, quello che può essere eletto a loro simbolo è senza dubbio il coccodrillo, il cui sembiante, impagliato e appeso al soffitto, evoca immediatamente l’immagine della Wunderkammer. La presenza del robusto rettile era praticamente costante anche nelle fonderie del tempo, come attestano gli esemplari che ancora si conservano, in buono stato, in quella di San Marco a Firenze e in ciò che resta di quella del convento di Camaldoli in Casentino. Un esemplare si trovava anche nella Guardaroba di Palazzo Vecchio, dove alcuni locali prendevano il nome di “Sale del coccodrillo”. In realtà spoglie di questi animali in epoca rinascimentale figuravano anche in chiese ed edifici religiosi. Il coccodrillo infatti, così come il drago, era considerato la personificazione del demonio e il legarlo alla volta del soffitto di una chiesa era un modo per tenere sotto controllo le forze del male. La spoglia imbalsamata acquisiva così valenza apotropaica contro l’inclinazione al peccato. Grazie alla pelle spessa e alla scarsa vulnerabilità agli insetti infestanti dei musei, i coccodrilli sono in molti casi le uniche testimonianze zoologiche di antiche collezioni che sono riuscite a sopravvivere al tempo e giungere fino ai nostri giorni. L’esemplare qui raffigurato, per caratteristiche conservative e stile di preparazione è riconducibile ad un’epoca non successiva al XVIII secolo e potrebbe provenire dalla Galleria degli Uffizi. Fausto Barbagli Bibliografia: Lugli 2005; Barbagli 2009
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IV.13 - Cranio di Narvalo (Monodon monoceros) ante 1763 cm 265 × 45 × 35 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. Gen Mamm. n. 870 Il narvalo è un peculiare cetaceo che popola i mari settentrionali. Simile a un grosso delfino, è caratterizzato nel maschio dall’enorme sviluppo di uno dei denti incisivi superiori che assume forma spirale e fuoriesce dal labbro superiore, potendo raggiungere i tre metri di lunghezza. È all’origine della leggenda dell’unicorno: un fantastico animale, endemico dei bestiari medievali e dei trattati naturalistici cinque e seicenteschi, che aveva l’aspetto di un equino selvaggio e indomito, con zoccoli bifidi e un lungo corno sulla fronte ritorto a spirale. Inafferrabile per chiunque, poteva essere catturato solo facendolo addormentare sul grembo di una vergine. Imperatori, re, ricchi ecclesiastici pagavano a peso d’oro i suoi corni d’avorio; ne ricavavano boccali con poteri antiveleno oppure, grattugiati, venivano utilizzati dagli speziali per produrre costosi medicinali. A far nascere la fascinosa leggenda, devono aver contribuito le prime sommarie descrizioni del rinoceronte indiano, animale con un vistoso corno sulla fronte e della taglia comparabile con quella di un cavallo. La vera natura del corno di unicorno fu chiarita solo alla metà del XVII secolo quando lo studioso danese Olao Worm, nella celebre veduta del suo museo che apre il “Museum Wormianum” (1655), raffigurò anche il cranio del narvalo con il tipico dente. Tra le pagine del libro, compare anche una rozza rappresentazione dell’intero animale, con tanto di sbuffanti sfiatatoi, che caratterizzò il narvalo come cetaceo, svelando definitivamente il plurisecolare mistero. L’esemplare del Museo di Storia Naturale di Firenze proviene dallo Stanzino dei Nicchi della Galleria degli Uffizi, dove è stato descritto nel 1763 da Giovanni Targioni Tozzetti nel Catalogo delle produzioni naturali che si conservano nella Galleria Imperiale di Firenze (vedi fig. 11, p. 21). Fausto Barbagli Bibliografia: Magalotti 1779; Schnapper 1988; Fisiologo 2011
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IV.14 - Rostro pesce sega (Pristis sp.) XVII secolo ? cm 145 × 25 × 7 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. gen. Pes. 6040 Nella nomenclatura volgare degli animali in generale e dei pesci in particolare ricorre spesso l’assimilazione di specie a oggetti di uso comune (spada, martello, palla, violino, etc.) o ad altri animali (cane, gatto, istrice, ecc), per richiamare forme tipiche dell’esperienza umana. Uno dei nomi più caratterizzanti è proprio quello del pesce sega, con cui vengono indicati i rappresentanti di varie specie appartenenti alla famiglia dei Pristidi. Si tratta di pesci cartilaginei, affini alle razze, che vivono nei bassi fondali delle acque tropicali e temperate del globo. La loro denominazione è dovuta al tipico rostro che li caratterizza, un prolungamento del capo costeggiato da entrambi i lati da scaglie modificate, che hanno l’aspetto simile a denti. Il rostro di pesce sega è uno dei tipici reperti che affollavano i gabinetti di curiosità in virtù della sua provenienza esotica e del suo curioso aspetto simile all’omonimo utensile. Almeno uno di essi è raffigurato nelle vedute dei musei di Ferrante Imperato a Napoli (1599), di Basilio Besler a Norimberga (1616), Francesco Calzolari a Verona (1622), Ole Worm a Copenaghen (1655), Manfredo Settala a Milano (1666), Atanasio Kircher a Roma (1678); in pratica in tutti quelli per cui esista una documentazione, indipendentemente dall’epoca e dalla localizzazione. Anche la facilità di conservazione, che consiste nella semplice essiccazione, determinò il successo di questi oggetti nel collezionismo, così come la non particolare sensibilità ai fattori di degrado ha facilitato la loro sopravvivenza dalle antiche collezioni naturalistiche. Nella collezione ittiologica del Museo di Storia Naturale sono presenti diversi di questi reperti risalenti per lo meno al XVIII secolo e alcuni dei quali è verosimile provengano dalla Galleria degli Uffizi. Fausto Barbagli Bibliografia: Lanza 1982; Findlen 1994; Lugli 2005
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IV.15 - Pesce palla (Arothros hispidus) prima metà del XIX secolo cm 40 × 47 × 30 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. Gen. Pes. 17444 I pesci palla, così come i pesci istrice e i pesci scatola, erano probabilmente i reperti ittiologici più frequenti nelle collezioni rinascimentali. Provenienti da mari esotici e peculiari nella forma, così da suscitare curiosità, e di facile preparazione e conservazione, avevano tutti i requisiti idonei a renderli una singolare attrazione per il pubblico scelto cui era riservata la visita. Ferrante Imperato, Basilio Besler, Francesco Calzolari, Ole Worm, Manfredo Settala, Ferdinando Cospi erano tutti possessori di questi animali e non sono rari gli esemplari del XVI e XVII secolo sopravvissuti al tempo, come quelli che si conservano a Bologna a Palazzo Poggi e a Milano alla Pinacoteca Ambrosiana, rispettivamente provenienti dai musei di Aldrovandi e Settala. È quindi possibile che anche esemplari originariamente in Fonderia possano esistere ancora nelle collezioni del Museo di Storia Naturale, dove potrebbero essere riscoperti solo attraverso mirate ricerche archivistiche. L’esemplare qui presentato è stato acquisito dal Museo di Storia Naturale nel XIX secolo ed evoca la moltitudine di singolari specie di pesci esotici che si conservavano nella Fonderia, citati da Giovanni Targioni Tozzetti nel “Catalogo delle produzioni naturali che si conservano nella Galleria Imperiale di Firenze” (1763). Fausto Barbagli Bibliografia: Aimi et alii 1984; Tega 2001; Lugli 2005
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IV.16 - Scheletro di scimmia bertuccia (Macaca sylvanus) XVIII secolo cm 85 × 40 × 30 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. Gen. Mam.1557 Tra i numerosissimi reperti naturalistici presenti in fonderia, la presenza di scimmie imbalsamate o scheletri di esse è documentata in varie epoche. Il Cinelli, nel 1677, descrive fra gli “armari nel sommo” delle stanze vari “scherzi naturali”, fra i quali “varie bertucce, e scimmiotti dalle lor custodie di cristallo coperti”. Dopo quasi un secolo, nel 1771, dalla fonderia vennero passati alla Reale Galleria “due scheletri di scimiotti o sieno Micchi piccoli, che uno carnificato con coda lunga intignato, che una posa sopra base tornita filettata d’oro, e l’altra sopra base piana con fiore, con campana sopra di vetro per ciascuna”. Lo scheletro di bertuccia qui raffigurato è citato nei cataloghi del Museo di Storia Naturale del 1792 e fa parte quasi sicuramente delle collezioni provenienti dalla Galleria degli Uffizi. Pur senza l’evidenza delle prove, è lecito ipotizzare che possa trattarsi proprio di uno dei reperti originariamente conservati in Fonderia, leggermente rimaneggiato nel XIX secolo con la sostituzione del piedistallo, l’aggiunta delle cartilagini costali ricavate in legno e il rimodellamento della postura in una posizione la cui plasticità rimanda alla seconda metà dell’Ottocento. Fausto Barbagli Bibliografia: Veracini et alii 2010
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IV.17 - Zibetto (Civettictis civetta) seconda metà del XIX secolo cm 55 × 85 × 35 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. gen. Mamm. 12476 Lo zibetto è un mammifero africano carnivoro della Famiglia dei Viverridi, dalle cui ghiandole perianali viene estratta una sostanza odorosa impiegata in profumeria che prende anch’essa il nome dell’animale. Si tratta di una schiuma vischiosa biancastra che solidificandosi si scurisce e cambia odore. Non si scioglie in acqua ma nell’alcol, grazie al quale assume un gradevole profumo di antico ampio utilizzo. Le modalità di prelievo della secrezione sono descritte da Alessandri e Scattaglia (1771): “Quei che alimentano zibetti in casa per trarne profitto, sogliono tenerli in una gabbia; e tirandoli pella coda verso l’inferriata, con un cucchiaio estraggono la preziosa pomata dal serbatoio. Questa operazione si fa due, tre volte la settimana”. In virtù di tale particolarità questo animale è stato spesso allevato in serragli ed era sempre presente sia nei gabinetti di curiosità, sia nei musei cartacei rinascimentali, come quelli di Cassiano Dal Pozzo e Ulisse Aldrovandi, sotto il nome di zibetto o hyena odorata. La localizzazione della preziosa sostanza è raffigurata, insieme all’animale intero, in due accurate xilografie dell’incisore Emanuele d’Alfio che corredano la monografia “Hyena odorifera” di Pietro Castelli (1638). Carlo Taglini, professore di filosofia nello studio pisano riferisce di quanto lo zibetto fosse apprezzato e ricercato anche dai Medici e in particolare da Francesco che “per rendere molto doviziosa la sua Fonderia, profondeva tanta copia di simili materie, e spezialmente di zibetto, che taluno rimaneva sorpreso dallo stupore, e maggiormente perch’egli aveva dato espresso comando a chi presiedeva a tal ministero, ch’essendovi andate Dame, o Cavalieri, tanto della città che Forestierie, ch’esso dispensasse generosamente loro qualche sorta d’odore più delicato”. Le qualità odorifere di questo animale sono celebrate anche nella pittura, come nel caso della serie di dipinti sui cinque sensi, opera di Jan Brueghel il Giovane che lo ritrae nell’Allegoria dell’olfatto conservato a Ginevra nella collezione Diana Kreuger. L’esemplare qui raffigurato è stato acquisito dal Museo di Storia Naturale nel XIX secolo ed evoca le “due pelli ripiene di Gatti di Zibetto interi, con coda lunga” presenti nella Fonderia degli Uffizi fino al 1771. Fausto Barbagli Bibliografia: Castelli 1638; Taglini 1747; Alessandri, Scattaglia 1771; Solinas 1993; Gaddi, Lurie 2012, p. 111
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IV.18 - Bezoar XVIII secolo ? cm 12 × 12 × 12 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, v.n.c. 650 I bezoar sono ammassi di fibre vegetali o peli che si formano nelle vie digerenti di vari animali, ma soprattutto dei ruminanti, in seguito all’ingestione eccessiva di tali elementi che finiscono per aggrovigliarsi e consolidarsi mescolandosi con muco, residui di cibo e cellule. Il nome deriva dal persiano ”pad zahr” che indica un qualcosa che protegge dal veleno. Sono da sempre stati considerati talismani e sono stati loro attribuiti poteri curativi e potentissimi effetti antiveleno, tanto da far ritenere che il solo aver contenuto un bezoar conferisse a qualsiasi recipiente la proprietà di neutralizzare l’azione di un eventuale veleno che vi venisse versato. In virtù dei loro poteri, i bezoar erano particolarmente ricercati tanto da medici e farmacisti che da uomini facoltosi. Di Bazahr si parla nel Canone di Avicenna e nell’“Interpretatio arabicorum nominum que in hisce Avicennae libris continentur” di Andrea Alpago dove il termine è ricondotto a qualsiasi cosa che offra resistenza ai veleni. A metà Cinquecento il medico senese Pietro Andrea Mattioli, nel suo celeberrimo commento ai Discorsi di Dioscoride, parla della “Pietra Bezahar” sulla scorta di testimonianze di studiosi arabi, essendo tale prodotto sconosciuto ai medici greci. La definisce che ne fornisce ben rappresenta le mal riposte aspettative dei medici del tempo nei confronti dei bezoar: “è antidoto infallibile per sua spetial virtù contra tutti i veleni, che si ritrovano al mondo; imperoche gli supera, et gli vince tanto tolta per bocca, quanto portata addosso in luogo, che tocchi la carne nella sinistra parte del corpo”. Tali supposti poteri conferivano a questi oggetti un valore tale da spingere alla loro falsificazione; lo testimoniano, tra gli altri, Terzago e Scarabelli nella descrizione del Museo Settaliano dove figuravano esemplari di provenienza fiorentina: “Nell’India Orientale si falsificano quasi tutti talmente, che ingannano chiunque anche diligentemente gli osserva. Gli anni andati uno di questi Orientali con molti altri a pena generati furono donati dal Serenissimo Gran Duca di Firenze”. Nelle collezioni del Museo di Storia Naturale si conservano diversi bezoar di differente forma e natura, la quasi totalità dei quali era già presente negli inventari settecenteschi dove figurano sotto questa denominazione anche calcoli di varia genesi. L’indicazione in tali cataloghi di uno di essi estratto dalla vescica dell’Elettore Palatino, sebbene non più ritrovato ai nostri giorni, permette di ipotizzare che molti di essi siano stati trasferiti alla Specola dagli Uffizi al momento della fondazione dell’I.R. Museo di Fisica e Storia Naturale. Fausto Barbagli Bibliografia: Mattioli 1563, p. 698; Terzago e Scarabelli 1677, p. 146; Avicenna 1991, p. 147
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IV.19 - Paradisea minore (Paradisea minor) prima metà XX secolo cm 50 × 12 × 5 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. gen. Ucc. 8593 Le paradisee o uccelli del paradiso sono i rappresentanti delle circa 40 specie ascritte ai Paradiseidi, una Famiglia di uccelli passeriformi che vivono nelle foreste tropicali della Nuova Guinea, delle Molucche e dell’Australia nord-orientale. I primi esemplari furono portati in Europa da Antonio Pigafetta e approdarono a Siviglia nel 1522 a bordo della “Victoria”, unica nave superstite della spedizione di Magellano. Alcune pelli di questi uccelli dai colori sgargianti, prive di zampe e parte del corpo, erano state donate a Magellano dal sultano di Batjan, un’isola dell’arcipelago delle Molucche. I primi naturalisti che esaminarono tali reperti furono tratti in inganno dalla modalità conservativa e credettero di trovarsi di fronte a creature prive di peso che discendessero dal paradiso e vivessero nell’atmosfera nutrendosi di sola rugiada (fig. 3 e p. 43). Tale leggenda sopravvisse a lungo e le spoglie di questi uccelli, ritenute preziosissime sia per la mistica origine, sia per il magnifico piumaggio e i colori appariscenti, furono ambitissime e pagate grosse cifre da facoltosi collezionisti di curiosità naturali. Nel XVII secolo Lorenzo Magalotti si fa portavoce di tali improbabili conoscenze: “[…] si trova non altrimenti che morto, e col becco fitto in terra; ma di dove ei vi venga, per diligenze fatte, di questo non se ne sa un zero. Io n’ebbi una volta uno, e ne ho veduti molti: sono della grandezza d’un tordo, e hanno pochissima carne addosso. […] Corre opinione, che questi uccelli da che nascono a che muoiono volino sempre senza posarsi mai, fondata forse sul non essersi mai scoperto, che avessero piedi. […] Intorno poialla loro generazione dicono, che il mastio abbia un buco sepra l’impennatura della coda, dove senz’altronido, la femmina deponga le uova. E quivi le covi, e rallevi i figliuli, finché sieno atti a volare: strana soggezione in vero, e maraviglioso amore de’ genitori, se ella sta così”. Tuttavia il conte fiorentino non è convinto di tali informazioni e conclude: “Di tutto questo però mi protesto di non volerne star mallevadore, e di lasciarne il pensiero al relatore; io la vendo come l’ho compra” (Magalotti 1779, pp. 24, 25). A sfatare il mito fu, come nel caso dell’unicorno, lo studioso danese Olao Worm alla metà del Seicento nella sua opera “Museum Wormianum” dove rivelò essere la mancanza di zampe un artefatto dovuto alla semplificazione delle operazioni conservative. Oltre un secolo più tardi il naturalista Carlo Linneo, ideatore della moderna sistematica binomia, pur ben conscio della reale natura di questi uccelli, volle comunque attribuire alla specie più nota di uccelli del paradiso il nome di Paradisea apoda, aiutando a mantenere viva la memoria della fantasiosa leggenda. Fausto Barbagli Bibliografia: Worm 1655; Forshaw 1979; Cattabiani 1990
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IV.20 - Mandibola di Squalo bianco (Carcharodon carcharias) seconda metà del XIX secolo cm 63 × 72 × 35 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Coll. Gen Pes. n. 6032 “Glossopetra” cm 6 × 5,5 × 2 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia “La Specola”, Mag. 4724 I denti fossilizzati di squalo furono a lungo indicati con il termine di glossopetre (ossia lingue di pietra) e hanno per secoli suscitato grande interesse in virtù del loro ampio utilizzo nella farmacopea popolare. Ridotte in polvere erano utilizzate come dentifricio oppure erano assunte con le bevande per prevenire l’epilessia infantile o annullare l’effetto del morso dei serpenti. Era inoltre attribuito loro l’effetto generico di preservare la salute di chi le indossava e per tale ragione erano spesso incastonate in anelli e ciondoli e non mancavano mai nelle collezioni di curiosità naturali e nel corredo dei laboratori di farmacisti e medici. L’origine delle glossopetre, così come quella di tutti i fossili, le cosiddette “pietre figurate”, è stata ampiamente dibattuta sin dall’antichità. Già nel VI secolo, Talete riconosceva in esse i resti di animali di epoche passate, ma fu proprio il presunto valore terapeutico che portò a tralasciarne lo studio e l’osservazione, a vantaggio di una lettura in chiave taumaturgica ed esoterica. Il contributo decisivo alla loro interpretazione fu dato nel Seicento da Fabio Colonna e Niccolò Stenone. Il primo dimostrò sperimentalmente l’origine organica delle glossopetre bruciandone alcune e riscontrando che si riducevano in carbone, contrariamente a quanto accadeva alla matrice che le conteneva che si vetrificava o calcinava. Stenone pochi decenni più tardi, esaminando la testa di uno squalo bianco catturato nei pressi del porto di Livorno, evidenziò la forte somiglianza fra le glossopetre e i denti di squalo sostenendone l’identità nel Canis Carchariae dissectum caput (1667). In quest’opera fece raffigurare la testa del vorace animale, il particolare dei denti e alcune glossopetre, in una felice incisione che fu riprodotta da P. Assalti nella Metallotheca del Mercati (vedi ca. n. IV.21). Fausto Barbagli Bibliografia: Stenone 1667; Mercati 1717; Cavallaro e Barbagli 2003; Agnelli et alii 2009
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IV.21 - Michele Mercati (San Miniato 1541-Roma 1593) Michaelis Mercati Samminiatensis Metallotheca opus posthumum, auctoritate, & munificentia Clementis undecimi pontificis maximi e tenebris in lucem eductum; opera autem, & studio Ioannis Mariae Lancisii archiatri pontificii illustratum, Romae, ex officina Io. Mariae Salvioni Romani in Archigymnasio Sapientiae, 1717 in fol. Firenze, Biblioteca Marucelliana, 1.L.II.37 Michele Mercati, medico e naturalista di Pio V, Clemente XII e Sisto V, organizzò la Metalloteca Vaticana, una cospicua collezione di minerali, fossili, marmi e statue, distribuita in 19 armadi secondo l’ordine della collezione mineralogica di Johannes Kentmann. Allo stesso tempo si dedicò alla stesura di una grande opera figurata, destinata a far conoscere tale raccolta e che fosse un vero e proprio trattato sui minerali e le rocce, rappresentando la risposta italiana al De re metallica di George Bauer (Giorgio Agricola). Purtroppo il progetto non fu portato a termine per la morte di Mercati che poté descrivere solo il contenuto di 9 armadi e sovrintendere alla realizzazione di parte delle tavole. Dopo vari fallimenti di colleghi ed eredi perché il manoscritto e le illustrazioni fossero dati alle stampe, il proposito fu portato a termine in preziosa veste editoriale solo nel 1717, grazie all’archiatra pontificio Giovanni Maria Lancisi, nell’ambito di riscoperta dei classici della medicina romana. Pietro Assalti arricchì l’opera di note nell’arduo tentativo di sopperire alla fisiologica arretratezza del testo. Nel corredo iconografico dell’opera figura anche la riproduzione della celebre tavola utilizzata da Stenone per dimostrare l’identità delle glossopetre e denti di squalo. Il catalogo è aperto alla pagina che illustra la bocca dello squalo, dove compare un’incisione utilizzata in precedenza da Niccolò Stenone (vedi cat. n. IV.20). Fausto Barbagli Bibliografia: Findlen 1994, pp. 233-235; Lugli 2005; Andreatta 2009
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APPENDICE DOCUMENTARIA
1 Spartizione del patrimonio della fonderia degli Uffizi dopo la sua dismissione 1
ASF, IRC 3395, cc. 129r-131v 2 [c. 129r] Adì 28 febbraio suddetto (1771) [D 169] Dalla vecchia spezieria situata nelle stanze della Regia Galleria Un armadio di noce lungo braccia 11 alto braccia 3 ½ con otto sportelli, con armature scorniciate che fanno quattro armadi, con quatto palchetti dentro per armadio, con otto palle di ottone ai suddetti sportelli, con 4 toppe di ferro 1 e due chiavi comuni Una tavola di marmo di giallo di Siena lunga e larga braccia 1 e 3/5 con suo 1 piede fermo di noce Due busti di terra cotta che uno rappresenta Cosimo II con collarone al collo ed armatura e l’altro Cosimo III con capelli sparsi sulle spalle e panneggiamento attorno al busto posano sopra due basi di legno tornito e tinte che una filettata d’oro 2 [D171] A Giuseppe Magni maestro del disegno, per uso della sua nuova stanza nella Real Galleria con ricevuta. Dalla vecchia spezieria suddetta Un armadio di noce che forma due facciate a squadra alto braccia 3 3/5 largo braccia […] sono suoi sportelli con armature scorniciate che fanno tre armadi con quatto palchetti denoto per ciascuno con sue palle di ottone con toppe e chiavi 1 Una seggiola di noce braccioli ritti con spalliera, sedere, balze di vacchetta 1 intagliata con bullette d’ottone in foglia [D171] Ad Andrea Scacciati direttore della scuola del disegno con ricevuta. 3
[D 170] Dalla vecchia spezieria suddetta Una pelle di scimiotto intera spelata che sta a sedere entro ad uno scarabattolo con intelaiature di noce con quattro facce di vetri in numero di 48, posa sopra un piano di tavola di noce con quattro piedi torniti, con balze simili traforate 1 Uno scheletro scimiotto con fusto di ferro alto braccia 1 e soldi 11, posa sopra 1 base di legno tinta Una pelle di micco alta soldi 11 ripiena. Il tutto spelato con coda lunga, il 1 tutto intignato, posa sopra base ottangola Due scheletri di scimiotti o sieno micchi piccoli, che uno carnificato con coda lunga intignato, che uno posa sopra base tornita filettata d’oro e l’altro sopra 2 base piana con fiore, con campana di vetro sopra per ciascuna Uno scheletro di struzzo alto, fra gambe e schiena, braccia 2, con collo lungo 1 retto da fuso di ferro, posa sopra base di legno Due pelle di gatti di zibetto ripiene e intere con coda lunga, entro due custodie di noce alte braccia 1 larghe braccia 2, con tre facce di vetri per ciascuna, con 2 mensole sotto Cinque ramificazioni di piante marine di diverse specie che posano sopra base di legno tornita Un vaso di osso di balena ad uso di bicchiere grande alto braccia ½ in tutto 1 ed alla bocca largo di diametro ½ con piede simile tornito Un botticino di terra indiana con bocca stretta simile, con quattro vacui attaccati ad essa, che formano manichi l’uno braccia ½ ed alto 1/3 1 Una pelle d’animale rettile in forma di lucertolone, ripiena con ugna lunghe, 1 in cattivo grado
Una pelle di pesce credesi pesce topo, ripiena, lunga braccia 1 incirca 1 Tredici frutti di noce d’India pieni con suo buccio, di più grandezze 13 Otto parti di diversi animali che due corni,credonsi di gazzella, tre spoglie di pesci marini, un aculeo di pesce sega, un corno d’alce e uno scheletro di una 8 mano di sicimiotto Una pelle di pesce ripiena, credesi pesce sega, lungo braccia 3 soldi 8 compresa 1 la lancia che spunta dal naso Una mummia egiziana alta braccia 2 5/6 tutta fasciata di panni e legature egiziani, entro ad una cassa di legno detto sicomoro con suo coperchio simile, 1 posa sopra due basi di noce fatte a mensola con intaglio [D 147] Al signor canonico Querci direttore della Real Galleria con ricevuta [D 169] Dalla spezieria vecchia sudetta Una mummia egiziana alta braccia (in 182) tutta fasciata di panne e legature egiziane con geroglifici egiziani di carte consunti, fermi sopra lo stomaco, con collo rotto, entro ad altra cassa anzi il tutto entro una cassa di noce con una fila d’archi che formano coperchio intelaiato, con una striscia di cuoio per 1 coprire il tutto con mensole di noce sotto [D 169] Dalla vecchia spezieria suddetta Numero Seicento cinquanta cinque vasi di […] vetro di diverse specie e gran655 dezze da medicamenti Undici vasi di terra usati da medicine 11 Nove detti di majolica da medicamenti 9 Otto scatole di truciolo di più grandezze entrovi pietre e medicine guaste 8 Undici palle di vetro grosse che formano l’arme della real casa Medici 11 Due cerchi di legno che formano la corona dell’arme suddetta ornati di diverse bocce ed altri vasi di vetro con un giglio in mezzo composto di bocce e vasi simili2 2 Due bastoni ad uso di gruccia di legno dipinti a serpe Un pestello di porfido con manico di legno lungo 1 Cinque vasi di terra ordinaria mezzani per porre a fornelli 5 Due mummie egiziane di ragazzi con fasciature egiziana, che una alta braccia 1 soldi 9 e l’altra braccia 1 e 5/6, che una fasciata di nastro ed una rotta in mezzo entro a due custodie di noce con sportelli simili ed una rete di filo di 2 ferro dentro per ciascuna e sue mensole sotto per reggerle 2 Due teschi di morto che uno rotto Due vasi di vetro a campana per coprire li suddetti teschi 2 Due caldaie di rame con un cannone in bocca e suo coperchio simile traforata cannoni che ognuna ha una cannella di ottone pesano in tutto libbre 160 2 Uno stromento per stillare acqua vite composto di cinque cilindri di stagno che uno rotto e n. … [sic] bocce di vetro a corpo collegate entro una l’altra ed in piedi sua caldaia di rame che nel coperchio di essa posano i suddetti cinque cilindri e due cannelle che una riceve e l’altra rende lo stillato, che nel corpo di essa caldaia vi sono due chiavarde o cannelle di ottone che una di esse mancante della chiave che in tutto pesa compreso l’ottone […], stagno e rame il tutto attaccato libbre 200, con una statuina di terra cotta rappresentante un Bacco che nel mezzo di essa passa un cannello proveniente dalla suddette 1 cannelle ove passa lo stillato perfetto Un armadio di noce, lungo braccia 2 soldi 1 alto braccia 2 ½ da petto a rene soldi 18, con due sportelli con cornice e due palle di ottone e palchetti dentro q ineguali
APPENDICE DOCUMENTARIA • 177
Una mezza palla di porfido con manichetto di ferro divisa in due pezzi = inservibile 1 Una noce di cocco grande vuota 4 Quattro vasi di maiolica tutti vuoti ed alcuni rotti [D 34] Alla reale spezieria di Boboli e per detta a Monsieur Hoefer direttore della medesima con ricevuta
2 Il ‘rotone del Buontalenti’: stralci dagli interrogatori del processo contro Giuseppe Bianchi e Giuseppe Ruggeri ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, Archivio Segreto, 2209 (carte solo parzialmente numerate) Dall’interrogatorio di Gaetano Piattoli, custode del cancello della Real Galleria, 27 giugno 1768, c. 258v Nei bagni antichi di Santa Felicità vi erano quattro chiavarde d’ottone che servivano alle cannelle e potevano essere 18 o 20 libbre l’una. Circa a 9 mesi sono, veddi che mancavano queste chiavi sicché io lo dissi al signore Andrea Scacciati suo amico e parente, perché lo dicesse al Bianchi ed il Bianchi mi chiamò nel suo stanzino e mi fece una solenne strapazzata e mi minacciò di farmi mandar via. Nella stanza de vetrai vi doveva essere una chiave di bronzo ossia una bocca fatta a vite che chiudeva, con un chiave mastia, parimente a vite antichissima e di una bona mole, che serviva per uso della fonderia, che era annessa a detta stanza. Nell’ottobre passato in occasione di dover levare tutti i condotti della fonderia e tutte le altre cose annesse ai medesimi, fra i quali detta bocca, vennero i muratori e il Bianchi ordinò che li scostassero certi armadi e poi se ne andò via. Scostato che se ne fu uno, lo Scacciati che era lì presente disse che là dietro vi doveva essere una cannella fatta a serpe di Giambologna e che l’aveva vista 15 anni prima e allora non ce la vedeva più. Vi erano presenti il Bastianelli e il de Santi e tutti si ristrinsero nelle spalle. Io chiamai il Bianchi che era ne’ corridori e venuto là gli si disse quel che mancava e lui rispose che l’aveva presa il Ruggieri un giorno di festa, ma il Bastianelli sentendo questa cosa chiamò da parte il Bianchi e gli disse che non doveva dar questo discorso, ma piuttosto doveva dire che non c’era mai stata e l’avrebbe difeso lui in tutto e per tutto. Dall’interrogatorio di Pietro Bastianelli, primo aiuto del custode Bianchi, c. 296r/v, 11.6.1768 Si passò alla stanza detta de vetrai, dove remosso dal Piattoli uno scaffale che restava accanto al muro destro, mi fu fatto dal medesimo osservare un armadino. In questo armadino asserì il Piattoli che vi era la cannella o sia quadro con suo sportello di legno cavato nella grossezza del muro. Nella parte superiore interna di detto armadino si affaccia un condotto di piombo, dalla parte di sotto vi è una pila parimente di piombo che ha un cannello simile che attraversa ed esce fuori dal muro e, nella parte di mezzo parimente interna, si vede una buca restatavi per la remozione di qualche cosa che vi era. In questo armadino asserì il Piattoli che vi era la cannella o sia vite di bronzo opera di Giambologna, ricercata dallo Scacciati e supposta passata in mano dell’ingegner Ruggeri.
Dall’interrogatorio di Giuseppe Bianchi, c. 443v, 1 luglio 1768 In cantina al piano d’Arno v’era un rotone fatto da Bernardo Bontalenti per mezzo del quale girando un rotone saliva l’acqua sulla fonderia all’altezza di 44 braccia. A detto rotone intorno al cerchio che era di ferro, vi erano diversi pani credo io di rame per tenerlo in equilibrio. Il suddetto istrumento, adunque, che era già guasto, fu disfatto e portata via il materiale a casa Ruggieri. Dall’interrogatorio di Francesco Piombanti, Segretario delle Reali Fabbriche, c. 445 Avendo veduto che nel medesimo quartiere esistevano varie canne di piombo le quali antiche portavano l’acqua alla Fonderia per mezzo di uno istrumento che era nei sotterranei e che mancò fino dal 1740, che avendo veduto dico che vi erano queste canne di piombo, [Ruggeri] aveva pensato di farle levare pesarle e combinando il valore di queste col valore del lavoro, che si faceva nel quartiere del Bianchi, aveva creduto bene di venderle e di pagare col ritratto i manifattori. Dall’interrogatorio di Giuseppe Ruggieri, 18 luglio 1768, cc. 462v-463v 4 D: Se oltre le canne di piombo delle quali parlò in altro suo esame, sappia se precedentemente fosse stata levata veruna altra quantità di simil piombo e altro dal medesimo quartiere del custode della Galleria. R: So che vi era un certo strumento il quale doveva mandare l’acqua alla fonderia, per quanto ho sentito dire, ma so altresì che detto strumento era guasto ed era mancante fino da moltissimi anni in qua. D: Che vi faccia miglior riflessione poiché alla giustizia è stato rappresentato diversamente. R: Io, per sentita dire, so che il suddetto strumento fu levato fino al tempo dell’inondazione del 1740 nella quale occasione, essendo stati mandati degli uomini a ripulire le cantine della Meletta, venne a mancare detto istrumento. D: Se oltre all’istrumento suddetto sappia se in tale occasione mancassero ancora i condotti fino al punto in cui furono ritrovati l’anno scorso. R: Quando si parla dell’istrumento si comprendono ancora i suoi condotti. D: Che per deposto non solo di Giuseppe Bianchi, ma di due altre persona ancora che levarono detto istrumento e condotti, ha posto in chiaro la giustizia che la remozione del medesimo non è così antica ma assai più moderna e si suppone essere la medesima seguita d’ordine di [2 abbr.] R: (dopo aver pensato un pezzo) mi ricordo che il Bianchi mi disse che non poteva servirsi dell’acqua del pozzo, mi ricordo che fu mandato a visitare e fu trovato che lungo la gola del pozzo vi erano dei legni quali furono fatti levare. Può essere che in tale occasione fosse trovato qualche cosa altro e levato, ma io non me ne ricordo bene e se ne ricorderanno più quelli che lo levarono che io. D: Che oltre Giuseppe Bianchi, depose maestro Giuseppe Balenchi ed un suo manovale che all’istanze di detto Bianchi fu riconosciuto che l’acqua di
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detto pozzo veniva a guastarsi, perché ci cadevano dentro dei pezzi di legno che erano fissi lungo la gola per tener le canne di piombo che vi erano, onde Sua Eccellenza ordinò che con detti legni fossero levate le canne e disfatto l’istrumento che faceva salir l’acqua alla fonderia.
che le levò fino al piano del mio quartiere con l’istrumento di cantina con tutto questo non mi faceva il lavoro sicché io gli stavo d’intorno, perché me lo facesse e finalmente sulla fine d’aprile del 1767 mando a levare il resto delle canne […].
R: Come lo dicono loro sarà vero, ma sappia che detto istrumento era guasto e non era più in stato d’operare onde era inutile che stasse lì, anzi veniva con tempo a perdersi ogni cosa.
D: In che cosa precisamente consistesse detto istrumento.
[….] c. 464r D: Se almeno si rammenti di che materia e come fosse formato detto istrumento. R: L’istrumento io non l’ho visto, solamente so che v’era una rota di ferro coi denti tutti corrosi, del resto poi non so come fosse fatto né di qual precisa materia. Dall’interrogatorio di Giuseppe Bianchi, 19 luglio 1768, c. 471v-474r D: In quanti tempi fosse levato l’instrumento e canne di piombo di che ha parlato in altri suoi esami dal quartiere che finora ha abitato. R: In due tempi fu levato il piombo che io altre volte gli ho detto. La prima volta, che fu nel dicembre 1766, fu levato l’istrumento di cantina e le canne di piombo fino al piano del mio quartiere, l’altra volta, che fu tra l’aprile e il maggio susseguente 1767, furono levate il resto delle canne fino sopra il tetto unitamente con una conserva di piombo che vi era, qual conserva fra l’altre cose nel levarla che fece il muratore gli cadde e sfondò la stoia e un armadio, può dire il signore Andrea Scacciati. D: Che mastro Giuseppe Balenci ed un suo manovale asseriscono che la prima partita delle canne unitamente con l’istrumento fu levato circa 5 anni sono che però veda di farci miglior riflessione. R: Io non mi posso ingannare nel tempo in cui furono levate la prima volta le canne con l’istrumento ed eccogli la ragione. Nel 1762 io tornai in quel quartiere che ho presentemente. Nel 1764 Monsieur Groterb lasciò il quartiere che aveva sotto di me e con esso mi lasciò la cantina che per l’avanti non avevo. In questa cantina non c’ero mai sceso, quando essendo convenuto ad Antonio Bettini legnaiolo di andare in cantina non mi ricordo per qual motivo, mi domandò perché io non facevo levare quelle canne di piombo e quello istrumento che vi era per rimborsarmi della spesa che avevo fatto nel murare in quel quartiere, ed io lo richiesi a dirmi che cosa era questo istrumento ed egli me lo disse, ma gli rispuosi che non volevo toccar niente. Passò il tempo e si arrivò all’anno 1766 e, comecché il canapo di pozzo ad ogni poco si veniva a strappare perché si attaccava quelle canne ovvero a certi legni che erano lungo la gola, con certo Lancino, garzone del Bracci, più volte è venuto a ripescare i bigonciuoli come da esso può sentirsi, e di quel tempo sicuramente vi erano dette canne. Si diede poi il caso che io chiesi a Ruggeri che mi facesse accomodare quella stanza e gli proposi, per compensar la spesa, dette canne dicendogli che queste non facevano altro che aiutare ai topi a salire in casa e mi impedivano l’attinger l’acqua. Dunque il Ruggeri mandò il Balenci a levar dette canne,
R: L’istrumento di cantina consesteva in una gran rota di ferro con sette raggi, che non puntavano tutti nel medesimo centro, ciaschedun raggio aveva al di fuori un mozzo o sia pane che pareva di rame, quattro più grandi fatti a mostacciolo, tre più piccoli che erano distribuiti sulla superficie della rota due dei più grossi un piccolo un grosso due piccoli e un grosso. Detta rotta posava sopra due forche -credo io di ferro- e attaccava con un altro istrumento che non mi sovvengo come fosse ed andava a finire nell’acqua. Vi era dentro all’acqua una grossa canna con sei cannelle -o vogliamo dir bocche d’ottoneche introducevano l’acqua dentro a detta canna, e questa era [spinta in là] non mi ricordo per mezzo di qual forza. La verità è che attaccata a detta canna vi erano altre tre canne di piombo una più grossa in mezzo, le altre due più piccole, che direttamente salivano su per la gola fino al piano della fonderia. Costì si diramavano in tre altre canne traverse una delle quali traversava dette stanze due altre servivano per gettare fuori l’acqua. Le medesime canne maestre seguitavano poi fino sopra il tetto e posavano l’acqua nella conserva che gli ho nominato. Dalla medesima conserva si partiva un’altra canna che portava l’acqua nella stanza de vetrai. Tutte queste canne furono come ho detto levate a indicazione mia dal Ruggeri. D: Di che peso veramente potesse esser veramente tutta la roba predetta. R: Io gli ho detto un’altra volta e torno ora a confermargli che avrei preso quel piombo, ottone, ferro per 7000 libbre, perché la canna di mezzo era molto grossa di modo che io la giudicai in 5 libbre il braccio e le altre due libbre 10 il braccio di modo che il piombo levato fra l’aprile, e il maggio quando fu levato lo giudicai in massa libbre 2000, e questo conto lo feci per vedere se poteva ricattare la spesa dei lavori che domandavo. Da questo che era circa un terzo di quello che era stato levato precedentemente, ne tirai la mia illazione che il resto fosse stato 5000 libbre, considerata l’altezza e la gran roba che formava detto istrumento e, secondo il conto che fo io, la bracciatura di dette canne per lo meno doveva essere braccia 210. Dall’interrogatorio di Giuseppe Balenci, 20 luglio 1768, c. 476v-477v D: Che Giuseppe Bianchi asserisce che detto istrumento e canne furono levate nel dicembre 1766 ed un testimone che è stato esaminato dice che circa a due anni sono le vedde, di più,asserisce detto Bianchi che tre e non due erano le canne maestre che si partivano dal pozzo. R: Il Bianchi non se ne ricorda […] Le canne maestre torno a dirgli che erano due e non potevano esser di più, perché due erano le trombe e queste trombe stavano fisse nell’acqua mediante un lastrone forato in quella parte nella quale erano incassati i due corpi delle trombe, quel lastrone esiste ancora. Cosa importerebbe a me il dire che erano tre le canne, quando realmente fossero state, ma se sia ha a dire la verità erano due.
APPENDICE DOCUMENTARIA • 179
D: Se secondo il suo giudizio creda che il materiale di detto istrumento con dette le canne, come sopra levate, potessero arrivare al peso di libbre 2746. R: Secondo il mio giudizio fra ferro piombo e ottone il peso doveva esser maggiore e per stare sul sicuro dico che passava le 3000 libbre, perché le canne come gli ho detto erano grosse e non come quelle che si fanno oggi. Da un successivo interrogatorio di G. Ruggeri, 1 luglio 1768, 479v D: Se sappia come fosse composto l’istrumento che faceva salir l’acqua alla fonderia. R: Io questo istrumento quando era in piedi non l’ho veduto e perciò non posso dire per l’appunto come fosse fatto, bene è vero che dal di lui materiale posso credere sicuramente che non fosse altro che una tromba doppia all’inglese a pignere. Dall’interrogatorio di Andrea Luder, trombaio, 22 luglio 1768, c. 484v D: In che cosa consistesse detto piombo vecchio e se sappia in che maniera detto Ruggeri l’avesse avuto. R: Erano pezzi di canne antiche di due diverse grossezze che una di una [crazia] di braccio di vuoto e con mezzo quattrino di grossezza e l’altra di 4 quattrini parimente di vuoto e un po’ più scarsa della prima di grossezza.
R: Le canne maestre che venivano su per la gola del pozzo erano due e mi pare fossero dell’istessa grossezza, cioè di circa due soldi di braccio in tutto e queste canne arrivano fin su al tetto e qui si diramavano in diverse parti, che adesso non mi ricordo. Quale uso poi fosse fatto di queste canne dopo che si levarono io non lo so e me ne andai che c’era il Campi manuale. D: Se fosse levata anche la cassetta di piombo nominata di sopra e se oltre al piombo vi fosse annessa veruna quantità di ottone. R: Fu levata anche la cassetta di piombo che la levai io, ma non mi ricordo che vi fusse ottone, gli dirò bene che ci dovevano essere delle canne di ottone, ma non me ne ricordo. D: Che descriva detta cassetta di piombo. R: Detta cassetta era alta 1/3 di braccio e larga o soldi e sarà stata di peso in circa 20 libbre. D: Se le suddette canne maestre seguitassero anche il loro corso dal quartier del Bianchi in giù. R: No signore non vi erano ma per l’addietro ci dovevano essere state a voler che l’acqua salisse in su.
D: Di che peso al braccio fossero dette canne. R: La prima compreso il getto sarà stata circa le 20 libbre il braccio e la seconda circa libbre 113, ma non mi disse in che maniera l’avesse né io glielo ricercai. Dall’interrogatorio di Antonio Bellucci muratore, 22 luglio 1768, cc. 486r-486v D: Se ha stato giammai a lavorare in Galleria o nel quartiere del custode Bianchi. R: Si signore […]. D: In che cosa consistesse detto lavoro. R: Si fece una stoia a una sala, si tirò addietro un mattone sopra mattone, si chiuse la gola di un pozzo e si levarono certe canne di piombo che dal piano della sala del Bianchi mezzo di detta gola salivano fin sopra il tetto della fonderia, dove vi era una cassetta di piombo che credo io servisse per sfiatatoio delle medesime canne. D: D’ordine di chi facesse detto lavoro e levasse dette canne. La trascrizione è conservativa con interventi sulla punteggiatura, sulle maiuscole e sulle abbreviazioni. 2 A margine tra parentesi quadra rinvii ad altri documenti. 3 Questa parte dell’inventario è trascritta in modo identico in AGU, filza IV, 1771, ins. 21. 4 D indica la domanda, R la risposta. 1
R: Quel lavoro l’ordinò il Balenci come pure che io levassi le canne ed il Bianchi vi assisteva e ci insegnava di dove si avessero a levare. D: A quanti ordini fossero dette canne che giro facessero e che uso fosse fatto delle medesime dopo essere state levate.
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