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Italian Year 2017
F. DI PORTO
Ricerche giuridiche Collana diretta da A. Celotto, F. Liguori, L. Zoppoli
LA REGOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI
LE SFIDE DELLE SCIENZE COGNITIVE E DEI BIG DATA
Fabiana Di Porto
LA REGOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI Le sfide delle scienze cognitive e dei big data
ISBN 9788893910958
euro 22,00
Editoriale Scientifica
Ricerche giuridiche 122 nuovissima serie
Ricerche giuridiche Collana diretta da A. CELOTTO, F. LIGUORI, L. ZOPPOLI
Comitato Scientifico Questo volume è stato soggetto a doppio referaggio anonimo. A. Antonucci, R. Bifulco, F. Capriglione, I. Caracciolo, R. Chiarelli, G. Di Taranto, L. Fernandez Del Moral Dominguez, L. Gatt, R. Giampetraglia, A. Guardiano, M. Iovane, R. Mastroianni, G. Montedoro, M. Pellegrini, C. Rossano, M. Sepe, V. Troiano, A. Zito
FABIANA DI PORTO
LA REGOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI INFORMATIVI LE SFIDE DELLE SCIENZE COGNITIVE E DEI BIG DATA
EDITORIALE SCIENTIFICA
Questo volume è stato pubblicato con il finanziamento del Dipartimento di Scienze dell’economia dell’Università del Salento, Lecce.
Proprietà letteraria riservata
© Copyright marzo 2017 Editoriale Scientifica s.r.l. via San Biagio dei Librai, 39 - 80138 Napoli www.editorialescientifica.com [email protected] ISBN 978-88-9391-095-8
a Noam ed Ester, il futuro
INDICE
Prefazione di Gustavo Ghidini
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Parte Prima - Il tema INTRODUZIONE. IL DATO FENOMENOLOGICO: UBIQUITÀ DELLA DISCLOSURE REGULATION
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CAPITOLO 1 LA DISCLOSURE REGULATION: FENOMENO NORMATIVO, STORIA E OBBIETTIVI 1.1. 1.2. 1.3. 1.4.
Il fenomeno: dove, quando nasce e per quali storici obbiettivi La disciplina dello squilibrio informativo nel diritto comune Gli obblighi informativi nella disciplina consumeristica La proliferazione degli obblighi informativi nella regolazione pubblica dei mercati 1.5. Un caso (quasi) a sé: l’informazione ambientale e la trasparenza amministrativa. Del buon cittadino
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CAPITOLO 2 RATIO E OBBIETTIVI DELL’OGGI (E DEL DOMANI): DELLE DIVERSE INTERPRETAZIONI RIMEDIALI RISPETTO ALLA ASIMMETRIA INFORMATIVA 2.1. Le asimmetrie informative come causa legittimante l’intervento della disclosure regulation 2.2. La disclosure regulation finalizzata alla prevenzione della maladministration e al controllo sociale 2.3. La disclosure regulation per la tutela della salute e dell’ambiente: tra paternalismo e obbiettivi economici 2.4. La disclosure regulation per il mantenimento di un equilibrio concorrenziale del mercato: parte debole vs parte forte
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CAPITOLO 3 LA DISCLOSURE REGULATION “TRADIZIONALE”: ALCUNI AMBITI TIPICI, GLI STRUMENTI SPECIFICI E I MODI DI FUNZIONAMENTO AFFERMATISI NELL’ESPERIENZA NAZIONALE 1.1. Salute e sicurezza alimentare 80 1.2. La disciplina dello squilibrio informativo nei mercati finanziari (know your customer, know your product e product governance) 83 1.3. Le utilities: comunicazioni elettroniche ed energia 93 1.4. Gli obblighi informativi precontrattuali nel codice del consumo 100 1.5. La trasparenza amministrativa e l’informazione ambientale 104 1.6. La disclosure regulation “tradizionale”: uno sguardo d’insieme 108 Parte Seconda – Il problema CAPITOLO 1 DATI DI ESPERIENZA ED OGGETTIVITÀ DELLA PROBLEMATICA 1.1. Il problema del no-reading 1.2. I costi della disclosure regulation: una carenza di dati
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CAPITOLO 2
L’IMPATTO DELLE SCIENZE COGNITIVE SULLA DISCLOSURE REGULATION 2.1. I bias e le euristiche che minano la disclosure regulation 126 2.2. Disclosure regulation, scienze cognitive e l’equivoco intorno al superamento della razionalità 130 2.3. Le (poche) verifiche empiriche sull’efficacia della disclosure regulation 134 CAPITOLO 3 L’IMPATTO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI E DELLA CD. RIVOLUZIONE BIG DATA SULLA DISCLOSURE REGULATION 3.1. Il prosumer. Ovvero del superamento della uni-direzionalità del flusso informativo dovuto all’impatto delle tecnologie digitali. Riflessi giuridici sulla disclosure regulation 140
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INDICE
3.2. Le piattaforme digitali dell’economia collaborativa: dei “pari”, ovvero dell’attenuarsi dei confini della parte debole 144 3.3. La rivoluzione big data. Di Pollicino, di profilatura e di aggravamento dell’asimmetria informativa 151 CAPITOLO 4 DISCLOSURE REGULATION. UN CASO DI FALLIMENTO REGOLATORIO? 4.1. Il “discorso” sul fallimento regolatorio 4.2. I limiti interni ed esterni della disclosure regulation tradizionale
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Parte Terza – La proposta CAPITOLO 1 RIPARTIRE DALLA PROPORZIONALITÀ DELL’INTERVENTO REGOLATORIO 1.1. Il rilievo del principio di proporzionalità nell’attività regolatoria 179 1.2. La “regolazione differenziata” come espressione del principio di proporzionalità 192 CAPITOLO 2 PRIMA PROPOSTA. PER UNA DISCLOSURE REGULATION PROPORZIONATA ALLA LUCE DELLE SCIENZE COGNITIVE 2.1. L’ingresso delle scienze cognitive nel procedimento regolatorio e nella selezione dello strumento di disclosure adeguato (a) Gli esperimenti cognitivi (b) I nuovi strumenti regolatori cognitive-based: nudge ed empowerment cognitivo 2.2. Il modello della disclosure regulation “differenziata” come espressione di proporzionalità 2.3. Il modello anglo-americano di targeted disclosure su base cognitiva
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INDICE
CAPITOLO 3 SECONDA PROPOSTA. PER UNA DISCLOSURE REGULATION DIFFERENZIATA ATTRAVERSO I BIG DATA 3.1. Il coté del regolatore. Ovvero fare disclosure regulation pubblica mirata, differenziata ed efficace attraverso i big data 221 3.2. Il procedimento regolatorio. Prospettive della regolazione algoritmica: ovvero rendere più efficienti le sperimentazioni mediante l’uso dei big data 226 3.3. Il coté dell’individuo. Riequilibrare le posizioni contrattuali mediante la “portabilità” dei dati personali e prospettive delle disclosure “personalizzate” 233 CONCLUSIONI
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Bibliografia
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Rapporti e Documenti
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PREFAZIONE GUSTAVO GHIDINI*
La vicenda normativa che Fabiana Di Porto ricostruisce in prospettiva sistematica e insieme con vigile attenzione ai profili effettuali (ulteriore, non frequente pregio nel panorama italiano degli studi sulla regolazione), rappresenta l’approdo di un lungo, storico percorso che ha registrato, negli ultimi due decenni, una rapida accelerazione. Un percorso che parte da una terra lontana dalla normativa pubblicistica. Parte dal contratto tra privati, e più precisamente dalle ‘trattative’: la sede in cui la disclosure emerge come pilastro centrale dei doveri di ‘correttezza’, ossia di buona fede in senso oggettivo, dunque, pure, come ‘dovere di protezione’ (Schutzpflicht) delle legittime aspettative della controparte. Tutto ciò è troppo noto per insistervi: se non per sottolineare il dato/dogma (cui mi riallaccerò poco più avanti) della parità delle parti, che fonda la tradizionale visione civilistica, della libertà contrattuale. Visione nella quale ha spazio il riconoscimento di situazioni di asimmetria di potere, e quindi di libertà, come nei cc.dd. contratti di massa. Un’asimmetria concentrata, tuttavia, sul profilo dell’informazione come ‘avvertenza’ (della riflessione informativa, potrebbe dirsi) di possibili squilibri: a rimediare ai quali è sufficiente un supplementare richiamo di attenzione su clausole onerose per il contraente individuale, la cui ‘doppia firma’ mette tutti tranquilli, e ‘liberamente’ alla pari. È la prospettiva (vetero) liberista del codice civile, artt. 1341 - 1342. Questa prima tappa del percorso è seguita da una che valorizza, ancora, l’informazione come fattore di riequilibrio: ma ora in un’ottica di ‘sostegno’, accrescendo tipi e mole di una informazione ‘di merito’ (e non solo di ‘avvertenza’, come nella prima fase) e vi affianca, sempre nel merito, divieti tout court di imporre (non solo l’obbligo di ‘comunicare’) condizioni ingiustificatamente onerose traducentesi in pratiche commerciali scorrette. È la fase, tipicamente legata all’affermarsi, nel secondo dopoguerra, nei paesi capitalistici avanzati, della cd. econo*
Professore di Diritto industriale nell’Università Statale di Milano e nella LUISS Guido Carli di Roma.
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PREFAZIONE
mia sociale di mercato (dall’America di Frank Delano Roosevelt alla Germania di Ludwig Erhard, all’Italia del ‘miracolo economico’), in cui crescono e si rafforzano le rivendicazioni ‘consumeriste’ (poi ampiamente manipolate) rispetto alla contrattazione di massa, in particolare nei confronti di banche, assicurazioni, produttori di beni di ‘largo consumo’, imprese erogatrici di servizi economici collettivi. È appena il caso di ricordare che il dovere di assicurare una informazione di contenuto, di sostegno, appunto, è certo un corollario saliente di quel comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, che demanda alla Repubblica, “per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, la rimozione degli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (corsivo mio). Si tratta di una prospettiva indubbiamente più avanzata, pur con vistose lacune, come quella della non equiparazione del subfornitore al consumatore (l’equiparazione fu proposta alla Commissione CEE dal Comitato Consultivo Consumatori della stessa Commissione già a fine anni Ottanta del secolo scorso, sulla base sia della evidente tipica asimmetria di potere negoziale dei subfornitori, sia della altrettanto tipica tendenza di costoro a trasferire sui consumatori/utenti finali, appunto, l’onere delle ‘vessazioni’ cui abbiano dovuto soggiacere. La proposta fu poi ‘bocciata’ per la netta opposizione di UNICE, l’associazione europea delle unioni industriali nazionali). Inoltre, come accennato, il potenziale pro-consumer di questa nuova tappa venne smorzato da due tipi di usi manipolatori della ‘nuova trasparenza’. Da un lato, quello per cui, attraverso una quantità alluvionale e defatigante di informazioni, si dissolve de facto la effettiva capacità critica del cittadino-consumatore-contraente. Profilo, questo, che Fabiana Di Porto felicemente recupera nel disegnare soluzioni proconsumer della regolazione pubblicistica nell’era digitale, del fast thought, ove il tempo ‘per accettare’ brucia quello ‘per riflettere’. Dall’altro, quello dell’uso in funzione di scarico di responsabilità: l’informazione come disclaimer rispetto ai rischi di product o service liability. Nei rapporti con la PA è storicamente il cittadino ad essere stato per primo soggetto ad oneri di disclosure per ‘chiedere’ l’attivazione della PA. Penso ad esempio agli oneri di veridica e completa informazione posti a carico di chi richieda l’autorizzazione alla messa in com-
PREFAZIONE
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mercio di farmaci. E penso anche a palesi incoerenze che continuano a quasi cinquant’anni dalla prima legge sulla cd. autocertificazione e a quasi venti dal dpr 445/2000, come l’onere di fornire alla PA dati personali che questa già possiede ex officio. Quando, comunque, la PA diviene soggetto di estesi obblighi informativi verso i cittadini? (Il quando dei fenomeni normativi è spesso altrettanto significativo del quomodo). Ritengo quando la rivendicazione consumerista estese il fronte dai servizi ‘privati’ delle imprese a quelli ‘pubblici’ – entrambi egualmente collettivi – forniti dalla, anzi dalle, pubbliche amministrazioni. (Non mi azzardo ad affermare che questa fase storica dell’economia abbia contribuito al progressivo ridimensionamento della dottrina dell’‘interesse legittimo’). Comunque, di questo si tratta in ultima analisi: il cittadino rivendica parità anche rispetto alla PA: e verso di lui la PA tende a ‘scendere’ al livello delle imprese private contraenti di massa, condividendone la soggezione ad estesi ed articolati oneri informativi – e condividendone altresì l’uso manipolatorio dei medesimi. Lieto fine Sì, ma… ‘Sì’, ovviamente, alla agnizione della parità e della conseguente ‘corrispettività’ di oneri informativi (ovviamente più estesi quelli della PA rispetto a quelli del cittadino, secondo il diverso patrimonio conoscitivo di ciascuno dei soggetti). ‘Ma’, soprattutto rispetto al rischio, già ben evidente, che la tecnologia digitale, e la sua dimensione ‘interattiva’ consentano usi ancor più gravemente manipolatori delle informazioni: questa volta, anche delle informazioni che il cittadino cede – deve cedere, se non vuole estraniarsi (ma perché no?!) dalla nuova socialità dei network. Informazioni che, variamente combinate e ‘profilate’ dalle grandi piattaforme che dominano la rete, e dunque sempre crescenti porzioni della conoscenza, rappresentano il volto economico, culturale e persino personale (si pensi alle preferenze sessuali o politiche) del cittadino. È questa una nuova prospettiva rispetto alla quale si propongono nuove e urgenti istanze di controllo sociale. Alla soluzione non velleitaria delle quali Di Porto contribuisce originalmente, specie là dove addita esigenze sia di semplificazione differenziata delle informazioni top-down, sia di ‘contrattazione sociale’ delle modalità tecnologiche di organizzazione e diffusione dei dati, anche di quelli acquisiti bottom up. ‘Un altro algoritmo è possibile’? Di Porto ritiene di sì, con argomenti che alleviano il pessimismo di noi non-nativi digitali. È certo che
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questa è una cruciale sfida di oggi e di domani: che se non verrà affrontata negli intelligenti modi progressive proposti da Di Porto, porterà al ‘punto zero’ – in senso proprio – il livello della vita democratica. Milano, 8 marzo 2017
PARTE PRIMA IL TEMA SOMMARIO: Introduzione. Il dato fenomenologico: ubiquità della disclosure regulation. – CAPITOLO 1. La disclosure regulation: fenomeno normativo, storia e obbiettivi. – 1.1. Il fenomeno: dove, quando nasce e per quali storici obbiettivi. – 1.2. La disciplina dello squilibrio informativo nel diritto comune. – 1.3. Gli obblighi informativi nella disciplina consumeristica. – 1.4. La proliferazione degli obblighi informativi nella regolazione pubblica dei mercati. – 1.5. Un caso (quasi) a sé: l’informazione ambientale e la trasparenza amministrativa. Del buon cittadino. – CAPITOLO 2. Ratio e obbiettivi dell’oggi (e del domani): delle diverse interpretazioni rimediali rispetto alla asimmetria informativa. – 2.1. Le asimmetrie informative come causa legittimante l’intervento della disclosure regulation. – 2.2. La disclosure regulation finalizzata alla prevenzione della maladministration e al controllo sociale. – 2.3. La disclosure regulation per la tutela della salute e dell’ambiente: tra paternalismo e obbiettivi economici. – 2.4. La disclosure regulation per il mantenimento di un equilibrio concorrenziale del mercato: parte debole vs parte forte. – CAPITOLO 3. La disclosure regulation “tradizionale”: alcuni ambiti tipici, gli strumenti specifici e i modi di funzionamento affermatisi nell’esperienza nazionale. – 3.1. Salute e sicurezza alimentare. – 3.2. La disciplina dello squilibrio informativo nei mercati finanziari (know your customer, know your product e product governance). – 3.3. Le utilities: comunicazioni elettroniche ed energia. – 3.4. Gli obblighi informativi precontrattuali nel codice del consumo. – 3.5. La trasparenza amministrativa e l’informazione ambientale. – 3.6. La disclosure regulation “tradizionale”: uno sguardo d’insieme.
Introduzione. Il dato fenomenologico: ubiquità della disclosure regulation L’ubiquità della regolazione degli obblighi informativi, di seguito per brevità espositiva indicata come disclosure regulation1, è ricono1
Per un inquadramento generale della disclosure regulation come strategia regolatoria “not heavily interventionist”, cfr. R. BALDWIN, M. CAVE, M. LODGE, Understanding regulation, 2a ed., Oxford, Oxford University Press, 2012, spec. ad p. 119126; si v. altresì A. OGUS, Regulation. Legal Theory and Economic Forms, Oxford University Press, Oxford, 1994, p. 121 ss.; S. BREYER, Regulation and its Reform, Cam-
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PARTE PRIMA
sciuta pressoché unamimentente. Si tratta di quella strategia regolatoria basata sulla imposizione ad imprese o ad amministrazioni pubbliche di obblighi di fornire informazioni ai consumatori, ai cittadini o al pubblico in generale. Secondo Ben-Shahar e Schneider «gli obblighi informativi sono ubiqui» 2 ; analogamente, Loewenstein, Sunstein e Golman definiscono gli «obblighi informativi»3 come «la più ubiqua e meno controversa forma di politica pubblica, spesso promossa come attraente alternativa alla cosiddetta hard regulation» 4, cui fanno eco Sibony e Helleringer, che parlano di «cornucopia di obblighi informativi»5. Anche la dottrina italiana è usa riconoscere tale carattere alla disclosure regulation. Già nel 1993 vi è chi ammonisce: «volendo redigere un elenco d[egli] “obblighi di informazione” esso sarebbe interbridge, MA, Harvard University Press, 1982, p. 161 ss.; A. LA SPINA e G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 73; G. MAJONE, The New Agencies: Regulation by Information, in 4 J. Europ. Pu. Pol., 2/1997, p. 262-275. 2 O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, The Failure of Mandated Disclosure, in 159 University of Pennsylvania L. Rev., 2011, p. 647-749, ad p. 647. 3 O anche “targeted transparency”, secondo la definizione di D. WEIL, M. GRAHAM e A. FUNG, Targeting Transparency, in 340 Science, 2013, p. 1410-1411, per i quali essa si differenzia dalle iniziative di right-to-know e di open government e open data intraprese dall’amministrazione Obama, in base alle quali «existing datasets [are made] readily available and easy to parse as an end in itself», come ad esempio, attraverso il Memorandum “Transparency and Open Government” del 21.1.2009 (Off. of the Presid., Fed. Regist. 74, 4685) e il Memorandum “Regulatory Compliance” del 18.1.2011 (Off. of the Pres., Fed. Regist. 76, 3825). Si v. altresì A. FUNG, M. GRAHAM e D. WEIL, Full Disclosure: The Perils and Promise of Transparency, New York, Cambridge University Press, 2007. 4 G. LOEWENSTEIN, C.R. SUNSTEIN e R. GOLMAN, Disclosure: Psychology Changes Everything, in Annual Review of Economics, 2013, p. 1 (in http://ssrn.com/abstract=2312708) (traduzione nostra). Dello stesso tenore le considerazioni di T.B. GILLIS, Putting Disclosure to the Test: Toward Better Evidence-Based Policy, in 28 Loyola Consumer L. Rev., 2015, p. 33-105, ad p. 35. 5 Lett. «cornucopia of mandatory information requirements»: A.-L. SIBONY e G. HELLERINGER, EU Consumer Protection and Behavioural Sciences: Revolution or Reform?, in A. Alemanno e A.-L. Sibony (a cura di) Nudge and the Law. A European perspective, Oxford, Hart publ., 2015, p. 209-233, ad p. 211; l’espressione è usata anche da O. BAR-GILL e O. BEN SHAHAR, Regulatory Techniques in Consumer Protection: A Critique of European Consumer Contract Law, in 50 Comm. Market L. Rev., 2013, p. 109-125. Si v. altresì le critiche di O BAR-GILL, Seduction by Contract, Oxford, Oxford University Press, 2012, spec. ad p. 13 e O. BAR-GILL e O. BOARD, Product-Use Information and the Limits of Voluntary Disclosure, in 14 Am. L. & Econ. Rev., 1/2012, p. 235-270.
INTRODUZIONE
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minabile»6. Con riferimento ai mercati finanziari, autorevole dottrina parla di «obblighi (...) che ormai sono diffusi in un variegato spettro di direttive e di regolamenti»7; analogamente, altri addebitano alla regolazione pubblica, fonte esterna al contratto, la «predisposizione di una serie di obblighi informativi sempre più pervasivi»8; così come al diritto europeo dei contratti si attribuisce il fatto di avere reso l’informazione oggetto «di obblighi sempre più estesi»9. Anche tra i giuspubblicisti, specie all’indomani dell’adozione del decreto legislativo n. 33/2013, le voci di quanti lamentavano una “alluvione” di obblighi di pubblicazione, indicati dal legislatore come strumento principe per l’inverarsi della trasparenza come “accessibilità totale” ai dati e documenti della p.a., si è fatto ben presto coro10: «ri6 Così V. ZENO-ZENCOVICH, Informazione (profili civilistici), in Dig. disc. civ., Torino, UTET, 1993: «basta volgere l’attenzione verso la copiosa normativa (in gran parte amministrativa) sulle attività economiche per rendersi conto di quanto essa incida anche sulla valida formazione di un atto giuridico o di un vincolo negoziale o sulla responsabilità delle parti: dalla disciplina delle etichette alle vendite di liquidazione; dai prospetti di offerta di valori mobiliari all’indicazione del peso netto; dai foglietti illustrativi dei medicinali alla composizione di prodotti tessili; dai tassi di interessi ed i costi dei servizi bancari ai prezzi negli esercizi pubblici». Si v. altresì ID., Profili di uno statuto dell’informazione economica e finanziaria, in F. Galgano e G. Visintini (a cura di) Mercato finanziario e tutela del risparmio, Tratt. Dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., dir. F. Galgano, vol IVIII, Padova, Cedam, 2006, p. 158-181, ad p. 162 che parla di «obblighi [di trasparenza] sempre più penetranti e diffusi» con riguardo ai mercati finanziari; in senso analogo F. SARTORI, Informazione economica e responsabilità civile, Padova, Cedam, 2011, ad p. 68. 7 G. ALPA, La trasparenza dei contratti bancari, Bari, Cacucci, 2003, si v. altresì ID., Quando il segno diventa comando: la “trasparenza” dei contratti bancari, assicurativi e dell'intermediazione finanziaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/2003, p. 465-491. 8 D. ROSSANO, Le “tecniche cognitive” nei contratti di intermediazione finanziaria. Valutazione dei rischi finanziari ed indicazioni delle neuroscienze, Napoli, ESI, 2011, ad p. 24. 9 F. RENDE, Le regole d’informazione nel diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. civ., 2/2012, p. 185-218, ad p. 187. 10 Specie G. GARDINI, Il codice della trasparenza: un primo passo verso il diritto all’informazione amministrativa?, in Giorn. dir. amm., 2014, 875-891; ID., Il paradosso della trasparenza in Italia. L’arte di rendere complesse le cose semplici, in Federalismi.it, 1/2017, il quale lamenta come gli obblighi di pubblicazione si siano tradotti in pesanti adempimenti formali per le amministrazioni e non abbiano migliorato i rapporti con la cittadinanza; CIVIT, Per una semplificazione della trasparenza. Esiti della consultazione sugli obblighi di pubblicazione previsti in materia di trasparenza e integrità, Roma, dicembre 2012, che segnala in particolare i costi organizzativi connessi all’adempimento da parte delle amministrazioni – specie di piccole dimensioni – degli obblighi informa-
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PARTE PRIMA
dondanti e disperse» sono, secondo taluni, le «previsioni in materia di pubblicazione» che «svariate decine di testi normativi» succedutisi nel tempo concorrono ad introdurre nel nostro ordinamento non meno di «duecentosettanta obblighi» informativi a carico di soggetti pubblici11. tivi; sulla stessa linea argomentativa si muovono A. NATALINI e G. VESPERINI (a cura di) Il big bang della trasparenza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015 nel saggio introduttivo: Le troppe trasparenze (p. 11-29), auspicando una diversificazione e semplificazione della trasparenza. Si v. altresì M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 5/2016, p. 593-603; con riferimento all’eccesso di informazioni di cui è richiesta la pubblicazione è nota la formula “opacità per confusione” coniata da E. CARLONI, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. pubbl., 3/2009, p. 779-812, ad p. 806. In generale sulla trasparenza nell’ordinamento italiano e sull’evoluzione che il principio ha avuto, nonché sulle disposizioni succedutesi nel tempo per il suo inverarsi, cfr., oltre alle voci enciclopediche già citate: G. ARENA, La funzione pubblica di comunicazione, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, 2a ed., Rimini, Maggioli, 2004, p. 31-83; B. PONTI, Il regime dei dati oggetto di pubblicazione obbligatoria: i tempi, le modalità ed i limiti della diffusione; l’accesso civico; il diritto di riutilizzo (artt. 4, 5, 7-9, 52 commi 2 e 3, 53), in B. Ponti (a cura di) La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, Maggioli, 2013, p. 75124; P. CANAPARO, La via italiana alla trasparenza pubblica: il diritto di informazione indifferenziato e il ruolo proattivo delle pubbliche amministrazioni, in federalismi.it, 4/2014; A. PAJNO, Il principio di trasparenza alla luce delle norme anticorruzione, in Rassegna Astrid, 2013, e in Atti del 59° Convegno di Studi Amministrativi su “Politica e amministrazione della spesa pubblica: controlli, trasparenza e lotta alla corruzione”, Varenna, Giuffrè, Milano, 2014, p. 331-366; M. CLARICH e B.G. MATTARELLA, La prevenzione della corruzione, in B.G. Mattarella e M. Pelissero (a cura di) La legge anticorruzione, Giappichelli, Torino, 2013, p. 59-70; B.G. MATTARELLA, La prevenzione della corruzione, in Giorn. dir. amm., 2/2013, p. 123-133; E. CARLONI, I principi del Codice della trasparenza, in B. Ponti (a cura di) La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n.33, Rimini, Maggioli, 2013, p. 29-56; A. SIMONATI, La trasparenza amministrativa e il legislatore: un caso di entropia normativa?, in Dir. Amm., 4/2013, p. 749-788; F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. Merloni (a cura di) La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2008, p. 3-28; A. BARTOLINI, Pubblicità delle informazioni e diritti di accesso, in B. Cavallo (a cura di) Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, Torino, Giappichelli, 2000, 200-250; M. SAVINO, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giorn. dir. amm., 8-9/2013, p. 795-805; E. CARLONI, L’amministrazione aperta. Regole, strumenti limiti dell’open government, Rimini, Maggioli, 2014. Per la teorizzazione dell’autonomizzazione della funzione amministrativa di informazione, nella duplice valenza interventista (o attiva) e astensionista (o passiva), rispetto alla sua mera strumentalità ad altre attività amministrative, cfr. F. MERLONI, Sull’emergere della funzione di informazione nelle pubbliche amministrazioni, in F. Merloni (a cura di) L’informazione delle pubbliche amministrazioni, Rimini, Maggioli, 2002, p. 15-93. 11 Così M. SAVINO, Il FOIA italiano, cit., ad p. 595. Sul numero esatto degli ob-
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Proprio l’ubiquità di questa tecnica regolatoria12 rende vano ogni tentativo di realizzare una rassegna completa ed esauriente degli obblighi attualmente vigenti nel nostro ordinamento giuridico. Né del resto una simile rassegna esiste in altri paesi. Ad esempio, Ben-Shahar e Schneider che hanno tentato l’impresa per gli Stati Uniti, hanno infine desistito, limitandosi a tre Stati e comunque contandone, pur limitatamente a queste realtà e a taluni settori merceologici, svariate centinaia13. blighi di pubblicazione non vi è concordia, né del resto il dato è dirimente, stante la possibilità che le amministrazioni hanno di prevedere nei Piani triennali della prevenzione della corruzione e della trasparenza obblighi di pubblicazione ulteriori rispetto a quelli imposti dalla legge. Si v. al riguardo M. D’ALBERTI (a cura di) Combattere la corruzione, Soveria Mannelli, Rubettino, 2016, ed ivi, in particolare N. RANGONE, Quale trasparenza per rendere il cittadino consapevole?, p. 195-213, ad p. 199 (la questione del numero esatto degli obblighi di pubblicazione è trattata a p. 205: la cifra dei 270 obblighi è quella prodotta dall’ANAC, Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012, 2013, ad p. 8). 12 Sull’origine delle tecniche di regolazione come funzione di governance autonoma rispetto a quella governativa negli ordinamenti anglosassoni, nata per effetto dell’affermarsi delle teorie del New Public Management, cfr. L.M. SALAMON (a cura di) Beyond Privatization: The Tools of Government Action, Washington DC, The Urban Institute Press, 1989; R. OSBORNE e T. GAEBLER, Reinventing Government: How the Entrepreneurial Spirit is Transforming the Public Sector, New York, Plume, 1993; C.E. POLLITT e G. BOUCKAERT, Public Management Reform: A Comparative Analysis, Oxford, Oxford University Press, 2000; J. PIERRE, The Marketization of the State: Citizens, Consumers and the Emergence of the Public Market, in B.G. Peters e D. Savoie (a cura di), Governance in a Changing Environment, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 1995, p. 55-81; C. HOOD, The Art of the State, Oxford, Oxford University Press, 1998 (spec. Cap. 9 “Contemporary Public Management: A New Global Paradigm?”); P. DUNLEAVY e C. HOOD, From Old Public Administration to New Public Management, in 14 Public Money and Management, 3/1994, p. 9-16; C. HOOD, Explaining Economic Policy Reversals, Buckingham, Open University Press, 1994 (spec. Cap. 7); C. HOOD, A Public Management for All Seasons?, in 69 Public Administration, 1/1991, p. 3-19; P. AUCOIN, Administrative Reform in Public Management: Paradigms, Principles, Paradoxes, and Pendulums, in 3 Governance, 2/1990, p. 115-137. 13 O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, The Failure of Mandated Disclosure, cit., p. 652 «we searched for statutes that mandate disclosures in three states (California, Michigan, and Illinois) and located several hundred of them. Less systematically, we looked for federal statutes, administrative regulations, and case law that mandate disclosures». I settori studiati sono: quello delle condizioni per ottenere prestiti, quello del consenso informato e quello della forma delle condizioni contrattuali (i.e. chiara, comprensibile, ecc.). Con minore approfondimento, gli Autori. trattano anche di disclosure regulation nei settori finanziario, delle assicurazioni e dell’etichettatura degli alimenti (p. 662 ss.). Degli stessi Autori si v. il più completo e discusso volume, More
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Abbandonata l’aspirazione enciclopedica – che per vero non è in nulla l’ambizione di questo scritto – il dato che ci restituisce la realtà è dunque che siamo circondati, subissati di informazioni che il legislatore, le autorità di regolazione, per non tacere delle amministrazioni nazionali e locali, obbligano imprese – compresi i professionisti – e soggetti pubblici a fornirci. L’assunto che fa da sfondo agli obblighi informativi è che fornire più informazioni equivalga di per sé a generare maggiore conoscenza e dunque a consentire un migliore funzionamento dei mercati, oppure una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica o ancora un maggiore controllo sociale sull’operato dei pubblici poteri. È esattamente su questo fatto incontestato, ovverosia dell’obiettivo che si riconnette all’obbligo informativo, che si intende porre l’attenzione. Già perché l’obbligo informativo non è nuovo nel panorama degli studi giuridici14, né è nuova l’esigenza che ne sta alla base, potendosi la stessa per sommissimi capi ricondurre – ma l’assunto si farà più esplicito nel prosieguo – ad esigenze di trasparenza15, ossia ad Than You Wanted to Know: The Failure of Mandated Disclosure, Princeton, Princeton University Press, 2014. 14 Gli studi dedicati al tema dell’informazione con prospettiva giuridica sono innumerevoli. Rinviando più oltre per indicazioni bibliografiche settoriali, si v. qui le trattazioni enciclopediche dedicate, ove approfonditi saggi o anche solo brani dedicati agli obblighi o ai doveri informativi. Con prospettiva giusprivatistica, ed in specie incentrata sui doveri di fonte codicistica: B. PASA, Forma informativa, in Dig. Disc. Civ., Torino, Utet, 2010; G. GRISI, Informazione (obblighi di), in Enc. Dir., Milano, Giuffrè, 2011, 595–627. Sempre in prospettiva giusprivatistica, per una ricostruzione della trasparenza contrattuale come espressione del principio di correttezza nei rapporti contrattuali: S. PAGLIARINI, Trasparenza contrattuale, in Enc. Dir., Milano, Giuffrè, 2012, p. 1280–1321. In ambito giuslavoristico: A. PERULLI, Informazione (diritti di), in Dig. disc. civ., Sez. Dir. Comm., Torino, UTET, 1992. Con prospettiva giuspubblicistica, si v. le fondamentali voci di: M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, in Enc. Dir., VI, Milano, Giuffrè, 1960; S. PUGLIATTI, Conoscenza, in Enc. Dir., IX, Milano, Giuffrè, 1961. In prospettiva costituzionalista; LOIODICE, Informazione (diritto alla), in Enc. Dir., XXI, Milano, Giuffrè, 1971; A. MELONCELLI, Pubblicazione (Dir. Pubbl.), in Enc. Dir., Milano, Giuffrè, XXXVII, 1988; P. COSTANZO, Informazione nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1993; A P. CARETTI, Comunicazione e informazione, in Enc. Dir., Milano, Giuffrè, 2007. Dedicata in generale al tema dell’informazione, e a come questa sia venuta gradualmente a formare oggetto di diritti, è altresì la voce di V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto di informazione e all’informazione, in Encicl. Italiana Treccani, XXI Secolo, Norme e idee, Roma, 2009, p. 301-310. 15 Trasparenza è effettivamente espressione brachilogica (Alpa), concisa ed ellittica che assume molteplici significati tutti vicini eppur varî in relazione agli ambiti giu-
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un controllo diffuso delle condotte contrarie ad interessi quali il buon funzionamento dei mercati16 e della pubblica amministrazione17. La trasparenza, infatti, assume oggi sempre più i caratteri di principio di derivazione costituzionale18 che informa il comportamento di un soggetto – sia esso imprenditore, professionista o la p.a. – di rendere edotta la controparte ovvero il destinatario di un atto, delle informazioni necessarie alla comprensibilità, adeguatezza e conoscibilità di quanto contenuto in detto atto – sia esso contrattuale o amministrativo – quando questo detti un regolamento di interessi soggetto a obblighi di pubblicità19. L’esigenza di trasparenza può altresì essere ricondotta al bisogno di conoscibilità (legale) degli atti pubblici20, ovvero essere condizione necessaria per il funzionamento di mercati efficienti21; opridici nei quali si colloca. 16 Rispetto ai rapporti tra gli obblighi informativi a favore dei consumatori e trasparenza, ad esempio, S. PAGLIARINI, Trasparenza contrattuale, cit. p. 1286 precisa che «ogni informazione ottimale al consumatore, accanto all’effetto principale di selezionare responsabilmente le migliori offerte commerciali, contempla pure quello indiretto di innescare un controllo diffuso sulle condotte imprenditoriali contrarie al mercato, diventa poi veritiero pensare che, attraverso un contratto trasparente, si possa avere (o realizzare) una trasparenza del mercato». (enfasi aggiunta) 17 Sulla trasparenza come principio informatore anche della disciplina generale del procedimento amministrativo, oltre agli Autori citati alla nota 10, si v. G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur. Treccani, XXXI, Roma, 1995, p. 1-13; P. TANDA, Trasparenza (principio di), in Dig. Disc. Pubbl., III Agg., Torino, Utet, 2008; A. BONOMO, Informazione e pubbliche amministrazioni, Bari, Cacucci, 2012. 18 Sul principio di trasparenza e la sua rilevanza come valore costituzionale: D. DONATI, Il principio di trasparenza in Costituzione, in F. Merloni (a cura di) La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2008, p. 83–131. 19 Cfr. L. LORENZONI, I principi di diritto comune nell’attività amministrativa, Tesi di dottorato in Diritto amministrativo XXVII ciclo, p. 207-208 (in http://dspaceroma3.caspur.it/bitstream/2307/5127/1/ Lorenzoni%20I%20principi%20di%20diritto%20comune%20nell'attivit%C3%A0%20am ministrativa.pdf). 20 M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, cit.; S. PUGLIATTI, Conoscenza, cit.; A. MELONCELLI, Pubblicità (dir. pubbl.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, Giuffrè, 1988 e M. DE BENEDETTO, Comunicazione pubblica, in Enc. Giur., Treccani, VII, Roma, 2001. 21 M. DE BENEDETTO, Istruttoria amministrativa e ordine del mercato, Torino, Giappichelli, 2008, p. 225-226: «È noto che una della condizioni del mercato pienamente concorrenziale è la condizione per cui le imprese operano nella “informazione perfetta”, ovvero la disponibilità di informazioni complete in merito ai costi di produzione, ai prezzi, al salario reale di equilibrio». Come ben evidenziato da G. PITRUZZELLA, Trasparenza, concorrenza e regolazione del mercato: una strada possibile per il rilancio dell'economia, in Dir. e soc., 4/2013, p. 759-771, quella tra trasparenza e con-
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pure ancora, assurgere a valore cardine di talune discipline speciali – prima fra tutte, ma non solo22, quella dei mercati finanziari23 – caratterizzate dalla previsione di estesi obblighi informativi attuativi del principio di trasparenza, imposti ad operatori economici pubblici o privati24, o gravanti su autorità pubbliche preposte al governo dell’economia25. La menzionata ubiquità della strategia regolatoria dell’obbligo informativo, nel nostro come in altri ordinamenti giuridici, tende a palesare una certa accettazione “acritica” dell’istituto. In particolare, nel dibattito interno, non sembrano sufficienti gli approfondimenti che affrontino il tema in maniera trasversale. Ponendosi invece nella prospettiva del regolatore, ovverosia dal lato di chi quegli obblighi produce26, essi si possono analizzare in ottica complessiva in termini di teoria della regolazione. Revocando in dubbio tale accettazione acritica, si sceglie di trattare correnza è generalmente una relazione virtuosa, mentre può assumere connotati controproducenti se realizzata artificialmente dalle imprese sotto il profilo delle intese restrittive della concorrenza (vietate ai sensi dell'art. 2, l. 287/90 e dell'art. 101, Tratt. Tfue). Nei rapporti tra imprese e consumatori, la trasparenza si palesa come particolarmente significativa, dal momento che essa consente agli individui di assumere decisioni commerciali consapevoli e, facilitando la comparazione tra prodotti, diviene fondamentale stimolo alla concorrenza "sui meriti" tra le imprese. 22 R. CHIEPPA, La trasparenza come regola della pubblica amministrazione, in Dir. dell’econ., 1994, p. 613-625, rammenta che la trasparenza rappresenta un momento unificante di regole di comportamento nel diritto pubblico come nel diritto privato, portando quali esempi le normative che disciplinano rapporti che, uscendo dalla sfera inter-individuale, sono dirette ad assicurare la trasparenza in settori quali l’editoria, il possesso di reti televisive o i rapporti societari. 23 Su cui diffusamente infra nel testo. 24 M. DE BENEDETTO, op. loc. ult. cit. 25 A. POLICE, La predeterminazione delle decisioni amministrative: gradualità e trasparenza nell'esercizio del potere discrezionale, Napoli, ESI, 1997, spec. ad p. 178 ss., il quale sottolinea come la «esigenza di prevedibilità dell’azione amministrativa [sia] fortemente sentita soprattutto nel settore del governo pubblico dell’economia. (...) Ben si comprendono, allora, le numerosissime previsioni legislative che impongono all’Amministrazione di fissare le proprie scelte di base e di renderle note prima dell’assunzione delle decisioni finali». 26 Lo sottolineava già G. ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti di investimento finanziario. Per l'armonizzazione dei modelli regolatori e per l'uniformazione delle regole di diritto comune, in Econ. e dir. terz., 3/2009, p. 395-421, ad p. 399. Con prospettiva giuspubblicistica, ma estesa alla più ampia tematica della “tutela del consumo” è l’opera di F. PIZZOLATO, Autorità e consumo. Diritti dei consumatori e regolazione del consumo, Milano Giuffrè, 2009.
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l’argomento in quanto disclosure regulation, collocando gli obblighi informativi nella più ampia categoria della strategia regolatoria che utilizza l’informazione come strumento di regolazione27, ossia come intervento mediante il quale i pubblici poteri ambiscono a modificare comportamenti di individui o istituzioni avvalendosi dell’informazione 28. Le strategie di regolazione sono infatti abitualmente classificate in ragione del grado di incisività sull’autonomia dei destinatari e vengono ricondotte all’interno di in un ideale continuum che va da modelli più pervasivi (come il command & control, fatto di divieti o di definizione di standard di prodotto o di processo) a modelli più rispettosi dell’autonomia individuale (come la regolazione incentivante o la soft law). In tale scala, la disclosure regulation si posiziona nel mezzo: essa è cioè considerata “moderatamente” interventista e paternalistica29. 27 L’inquadramento delle strategie regolatorie e degli strumenti (si parla in gergo di “toolkit” o cassetta degli strumenti) a disposizione del regolatore, oltre che nella manualistica citata alla nota 1, è presente, con diverse impostazioni in: J. BLACK, Proceduralizing Regulation: Part 1, in 20 Oxford J. of Legal St., 4/2000, p. 597-614; ID., Critical Reflections on Regulation, in 27 Australian J. of Legal Phil., 2002, p. 1-35; I. AYRES e J. BRAITHWAITE, Responsive Regulation: Transcending the Deregulation Debate, Oxford, Oxford University Press, 1995; N. GUNNINGHAM e P.N. GRABOSKY, Smart Regulation: Designing Environmental Policy, Oxford, Oxford University Press, 1998. Con prospettive più attente al dato giuridico si v.: T. PROSSER, The Regulatory Enterprise. Government, Regulation, and Legitimacy, Oxford, OUP, 2010 e B. MORGAN e K. YEUNG, An Introduction to Law and Regulation, Cambridge, Cambridge University Press, 2007 (spec. cap. 3). Pur nella eterogeneità delle posizioni, frutto anche della diversa formazione o predilezione metodologica degli Autori, è rinvenibile un sostanziale consenso sulla strategia regolatoria della disclosure regulation, su cui subito infra nel testo. 28 Tema al quale si è dedicato un primo sforzo ricostruttivo, ancorché limitato ad un settore, in F. DI PORTO, L’informazione come “oggetto” e come “strumento” di regolazione (il caso dei mercato energetici al dettaglio), in Riv. trim. dir. pubbl., 4/2011, p. 975-1010. 29 Secondo A. LA SPINA e G. MAJONE, Lo Stato regolatore, cit. p. 73, la mandatory disclosure (o regulation by information), consistente appunto in «obblighi di fornire informazioni sui beni o servizi offerti», si collocherebbe tra le tecniche di soft regulation, trovando l’intervento dello Stato giustificazione nell’esigenza di correggere il fallimento di mercato dell’asimmetria informativa. Sebbene la ratio dell’intervento rimanga la stessa, l’inquadramento attualmente prevalente è dunque mutato. La ragione di questo diverso inquadramento non deve stupire: gli Autori citati, infatti, scrivevano nel 2000, quando la riflessione teorica non conosceva ancora strumenti di “paternalismo libertario” (su cui si tornerà diffusamente nella Parte Seconda), che avrebbero scosso le classificazioni consolidate basate, appunto, sui rapporti tra intervento eteronomo e autonomia individuale.
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Se riguardata invece secondo la ripartizione oramai consolidatasi anche nella dottrina italiana, essa può ricondursi a forme di regolazione di tipo condizionale30, dal momento che si compone di interventi «che sono parte del mercato, nel senso che contribuiscono a conformarlo, stabilendo equilibri che attivano interessi»31, e prefigurano criteri di comportamento ai quali i destinatari si uniformano senza interferire sugli scopi, in tal senso si afferma che gli interventi di regolazione sono compatibili con sistemi di mercato in quanto pongono misure condizionali e non finalistiche32. Ed in effetti, l’imposizione di obblighi informativi a carico di imprese o di amministrazioni è compatibile con logiche di mercato ed anzi, come si avrà modo di approfondire nel prosieguo, è tra gli interventi regolatori quello che maggiormente lascia intatta l’autonomia dei destinatari dell’obbligo stesso di perseguire i propri interessi ed obiettivi. In secondo luogo, l’impiego della prospettiva teorica della regulation consente di trattare obblighi informativi affatto diversi per appar30
Il riferimento d’obbligo è a S. CASSESE, La nuova Costituzione economica, Roma-Bari, Laterza, 2a ed., 2000, spec. ad p. 29-30, cui si deve la distinzione tra r. finalistica e r. condizionale. Secondo l’Autore, la prima conforma l’attività dei privati ad un fine pubblico individuato dai pubblici poteri avvalendosi specialmente di strumenti vincolanti di comando e controllo. La seconda, invece, si limita a porre le regole del gioco, rifuggendo dalla definizione ex ante di finalità di pubblico interesse, stabilendo regole di comportamento cui i privati si adegueranno nel quadro di un agire libero nei fini, ma comunque consapevole quanto agli effetti (anche giuridici) prodotti dalle diverse possibili scelte. In tal caso, la regolazione non ha per scopo la realizzazione di uno specifico interesse pubblico definito a monte, bensì la definizione di regole che consentano il contemperamento di interessi privati con interessi – più che pubblici – collettivi. Secondo F. MERUSI, Democrazia ed autorità indipendenti, Bologna, Il Mulino, 2000, passim il ruolo del regolatore in questa dinamica è quello di soggetto terzo: egli non partecipa di un rapporto giuridicamente rilevante con i destinatari della regolazione, ma fissa (ex ante) la regola di conformazione e si fa garante (ex post) del rispetto delle regole volte a conciliare gli interessi dei soggetti regolati con quello dei terzi e con quello pubblico (ad esempio, il mantenimento degli equilibri di mercato). Si v. gli importanti contributi di L. TORCHIA, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, Cedam, 1992, cui si deve l’aver identificato i caratteri della regolazione, distinguendo tra: r. condizionale, conformativa, programmatoria e prudenziale; nonché G. VESPERINI, La Consob e l’informazione del mercato mobiliare. Contributo allo studio delle funzioni regolative, Padova, Cedam, 1993, p. 244 ss. per le declinazioni specifiche al tema dell’informazione nel settore finanziario. 31 S. CASSESE, Regolazione e concorrenza, in G. Tesauro e M. D’Alberti (a cura di) Regolazione e concorrenza, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 11-26, ad p. 12. 32 S. CASSESE, ibid.
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tenenza disciplinare, che tuttavia appaiono simili per struttura o obiettivi oppure per problematiche regolatorie che pongono. Ad esempio, le informazioni ambientali che le amministrazioni locali sono tenute a pubblicare e tenere aggiornate sui propri siti Internet ai sensi del d.lgs. 195/2005, al fine ultimo di consentire un controllo diffuso dei cittadini sull’ambiente, sebbene diversi quanto a struttura e destinatari, hanno la medesima finalità degli obblighi informativi imposti dal legislatore in capo ai fornitori di elettricità di divulgare ai propri clienti, nel materiale promozionale, «le informazioni sulla composizione del mix energetico utilizzato per la produzione dell’energia elettrica fornita nel periodo dei due anni precedenti e (...) le fonti informative disponibili sull’impatto ambientale della produzione utili al fine di risparmiare energia» (art. 1, co. 5, d.l. 73/200733). Entrambi gli obblighi informativi citati, infatti, aspirano a fare del “cliente” di energia un “buon cittadino”, strumento34 – al tempo stesso – di promozione e di attuazione di politiche ambientali. Inoltre, gli obblighi informativi di solito non si prestano a trattazioni scientifiche unitarie in quanto, ad esempio, sono posti da soggetti regolatori differenti (il legislatore o un’autorità amministrativa indipendente), insistono su momenti diversi della vicenda contrattuale (possono intervenire nelle trattative o durante l’esecuzione del contratto), oppure perché, pur inscrivendosi nel solco di un’unità di intenti (ad esempio, la protezione del consumatore), si indirizzano a soggetti diversi, ovvero variano in ragione dei contenuti informativi di cui si chiede la pubblicazione o la trasmissione. O ancora in quanto possono mutare le risposte che l’ordinamento ricollega alla violazione di siffatti obblighi (i rimedi, rispetto ai quali, l’impostazione dogmatica prescelta spesso condiziona la soluzione del caso singolo35). Di contro, l’impiego 33
Su cui diffusamente infra, Cap. 3, para. 1.3. O cittatino-collaboratore, nella visione della amministrazione condivisa di G. ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Bari-Roma, Laterza, 2011. 35 Ci si riferisce alla nota questione che ha diviso la dottrina civilistica in ordine alla configurabilità del cd. “terzo contratto” (B2b o tra professionisti di cui uno in posizione di debolezza, come il sub-fornitore o il franchisee), da affiancarsi ai tradizionali contratti B2B (business to business) e B2C (business to consumer): cfr. R. PARDOLESI, Prefazione a G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, Torino, Giappichelli, 2004, p. XIII-XIV; A. ZOPPINI, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., 5/2008, I, p. 515-541; G. GITTI e G. VILLA (a cura di) Il terzo contratto. L’abuso di potere contrattuale nei rapporti tra 34
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della metodologia di indagine basata sulla prospettiva regolatoria, che guarda cioè al contenuto regolatorio dell’obbligo, ci consente di cogliere la vicenda in maniera complessiva, posto che il “ciclo della regolazione”36 consta di momenti scadenzati secondo prassi procedimentali definite a livello europeo e internazionale37, e fatte proprie – seppur imprese, Bologna, Il Mulino, 2008 e i saggi ivi raccolti (tra cui oltre a R. Pardolesi e A. Zoppini, anche G. Amadio, G. Villa, M. Orlandi, P. Femia, F. Cafaggi, E. Navarretta). Contrario alla configurazione del “terzo contratto” e per la teorizzazione di una categoria unitaria di “contratto asimmetrico”: V. ROPPO, Regolazione del mercato e interessi di riferimento: dalla protezione del consumatore alla protezione del cliente, in C. Rabitti Bedogni e P. Barucci (a cura di) Venti anni di antitrust, Torino, Giappichelli, 2010, II, p. 1185-1199; V. ROPPO, Ancora su contratto asimmetrico e terzo contratto. Le coordinate sul dibattito, con qualche elemento di novità, in G. Alpa e V. Roppo (a cura di) La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a S. Rodotà, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 178-203 (in replica a A. ZOPPINI, Il contratto asimmetrico, cit.). Circa le ricadute di tipo rimediale che l’adesione all’una o all’altra delle due impostazioni produce, G. ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti di investimento finanziario. Per l’armonizzazione dei modelli regolatori e per l’uniformazione delle regole di diritto comune, in Econ. e dir. terz., 3/2009, p. 395-421, ad p. 421 che, con riguardo agli obblighi informativi, abbracciata la tesi del terzo contratto, finisce con sposare una impostazione “funzionalista” e, rinunciando a «rimanere prigionieri delle categorie ordinanti», ritiene «ormai necessitata l’adozione dell’ottica funzionale: ricorrere al rimedio più adatto per tutelare l’interesse pubblico e l’interesse del contraente debole». 36 Il concetto di “ciclo di vita” della regolazione, mutuato dalla public policy, è assai risalente e si deve all’opera di M.H. BERNSTEIN, Regulating Business by Independent Commission, Princeton, Princeton University Press, 1955. Successivamente, esso è stato ripreso da M. HOWLETT e M. RAMESH, Studying Public Policy: Policy cycles and policy subsystems, Oxford, Oxford University Press, 1995, trad. it., Come studiare le politiche pubbliche, Bologna, Il Mulino, 2003, spec. p. 16 ss., quindi esteso allo specifico della regulation, da A. LA SPINA e G. MAJONE, Lo Stato regolatore, cit., ad p. 103 ss. 37 Sulla procedimentalizzazione del “life cycle management of regulation” si v. OCSE, Report on Regulatory Reform, Parigi, 1997, ad p. 29. Negli Stati Uniti il dibattito sul “life-cycle” delle politiche pubbliche e delle regolazioni, in particolare, risale agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso (ed una compiuta e aggiornata definizione si può trovare nell’Executive Order, Improving Regulation and Regulatory Review, 2011, indirizzato a tutte le agenzie federali). In Europa, la formalizzazione dell’idea del ciclo regolatorio è invece più tarda, e si ritrova nel documento della Commissione europea, Smart regulation in Europe, 2010, COM(2010) 543 def. In sintesi, il ciclo della regolazione: (i) inizia con la “programmazione delle regole” che il rule-maker ritiene di adottare per un determinato periodo regolatorio; qui si definiscono gli obiettivi, i risultati attesi, le possibili opzioni regolatorie da comparare al fine di individuare quella più adatta e proporzionata allo scopo da perseguire (in termini di maggiori benefici e minori costi) e più sostenibile nel medio e lungo periodo. Esso prosegue (ii), quindi, con la “manutenzione delle regole”, la quale consta del monitoraggio (enforcement)
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con timidezza – dall’ordinamento nazionale 38 , che permettono l’apprezzamento tout court dell’opportunità dell’intervento di disclosure regulation. Procedendo di tal guisa, sarà possibile compiere valutazioni in termini di efficacia dello strumento sia ex ante (ad esempio, nella fase di istruttoria che conduce al disegno della regolazione), sia ex post (cioè a distanza di tempo dalla sua introduzione), che difficilmente si apprezzerebbero impiegando altre prospettive. Questo rilievo ci conduce all’ultima e forse determinante ragione dell’impostazione prescelta. È in corso un vivace dibattito a livello internazionale sollecitato dalla pubblicazione di un volume apparso nel 2014 ed anticipato qualche anno prima da alcuni saggi39, che costituidell’attuazione della regolazione e della compliance da parte dei destinatari diretti e indiretti della stessa; il disegno dei meccanismi di monitoraggio deve farsi al momento della definizione della regolazione, giacchè essi forniscono elementi informativi cruciali per la verifica della reale efficacia della regolazione e dunque circa il grado di conseguimento degli obiettivi avuti di mira con l’introduzione della regolazione nell’ordinamento giuridico. La terza fase del ciclo della regolazione (iii) è costituita dalla “manutenzione in senso stretto” delle regole, meramente eventuale, da realizzarsi nel caso in cui, in esito alla fase (ii), si rendesse necessario intervenire nuovamente per integrare, rivedere, abrogare o riformare una regolazione in essere per migliorarne l’applicazione o l’efficacia. Tratto comune a tutte le fasi descritte è che al procedimento regolatorio, specie nella fase istruttoria delle consultazioni, sia assicurata la raccolta sistematica e strutturata delle informazioni nel rispetto dei principi di trasparenza, proporzionalità, partecipazione, tempestività e accountability dell’operato del regolatore. I due tratti distintivi delle decisioni regolatorie basate sul ciclo di vita della regolazione sono dunque: l’essere «ampiamente informat[e] alla partecipazione degli interessati e basat[e] su dati empirici relativi alle ricadute delle diverse scelte»: così M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI e N. RANGONE, La qualità delle regole, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 48-52, ad p. 52; si v. altresì M. DE BENEDETTO, Maintenance of rules, in U. Karpen e H. Xanthaki (a cura di) Legislation in Europe. A Comprehensive Guide, Oxford, Hart Publ., 2017, p. 215-227. 38 Sui procedimenti regolatori delle autorità amministrative indipendenti si v. da ultimo E. BANI e G. MONTEDORO, Le autorità amministrative indipendenti, in M. Pellegrini (a cura di) Corso di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam, 2016, p. 243-272; M. CLARICH, Autorità indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, Bologna, Il Mulino, 2005. 39 Il volume è il già citato O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, More Than You Wanted to Know, cit.; mentre i lavori precedenti cui ci si riferisce nel testo sono: O. BEN-SHAHAR, The Myth of the “Opportunity to Read” in Contract Law, in Europ. Rev. of Contract L., 2009, p. 1-28; O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, The Failure of Mandated Disclosure, 2011, cit.; O. BAR-GILL e O. BEN SHAHAR, Regulatory Techniques in Consumer Protection: A Critique of European Consumer Contract Law, in 50 Comm. Market L. Rev., 2013, p. 109-125.
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sce il portato di studi risalenti di oltre sessant’anni e che possono ricondursi ai pioneristici scritti di Herbert Simon40, i quali pongono definitivamente in dubbio l’utilità di tutta la disclosure regulation. L’assunto di base è che essa, non considerando i limiti cognitivi degli individui e i bias cui questi vanno soggetti nel prendere le proprie decisioni, è destinata a fallire “in ogni e qualsiasi ambito”. Gli autori – i già citati Ben-Shahar e Schneider – pur comprendendo bene i motivi del “trionfo” della strategia regolatoria dell’obbligo informativo41, dinanzi all’insormontabile problema del sovraccarico e, specialmente, dell’accumulo informativo42, ne tratteggiano il superamento, anzi ne propongono provocatoriamente43 l’abbandono definitivo in favore del40
H.A. SIMON, A behavioral model of rational choice, in 69 Q. J. Econ., 1955, p. 99-100, e H.A. SIMON, Rational Decision Making in Business Organizations, in 69 Am. Econ. Rev., 1979, p. 493-513. Il tema sarà oggetto di specifico approfondimento nella Parte Seconda di questo scritto. 41 O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, More Than You Wanted to Know, cit., p. 5: «[m]andated disclosure is alluring because it resonates with two fundamental American ideologies. The first is the free-market principle. Markets work best when buyers are informed; disclosures inform them. Buyers fear sellers’ capacity and the perils of caveat emptor; disclosures protect them without distorting markets by specifying prices, quality, and terms. The second ideology is the autonomy principle. People are entitled as a matter of moral right and a practical policy to make decisions that shape their lives. Disclosures equip them to do so». 42 L’accumulo informativo si distingue dal sovraccarico informativo. Quest’ultimo, come noto, si riferisce all’eccesso di informazioni che caratterizza molti degli obblighi di cui si discute, il quale impedisce al ricevente di assimilarne adeguatamente i contenuti, determinando, di fatto, il fallimento della strategia regolatoria. L’accumulo informativo, invece, concerne l’effetto combinato della presenza di più obblighi informativi nello stesso come in diversi settori, i quali hanno tutti come destinatari gli individui. Ed ipotizza che tutte le disclosure presenti nell’ordinamento giuridico “concorrano” per accaparrarsi l’attenzione dell’individuo. Così ad esempio, le schede informative dei prodotti finanziari, seppure semplificate, dovranno essere consegnate all’investitore in numero pari ai prodotti che si intendono proporre per l’acquisto; ed esse “concorreranno” con ogni altro avviso ed informativa oggetto di obblighi di disclosure nel richiamare l’attenzione dell’individuo. Ma essendo quest’ultima, per definizione, una risorsa scarsa, ogni disclosure finisce per ridurre la capacità complessiva dell’individuo di recepire altre disclosure. Di conseguenza, il regolatore è destinato al fallimento non potendo intervenire complessivamente a regolare tutti gli obblighi informativi in ogni possibile settore, e perché l’effetto di accumulo sarebbe comunque insuperabile, considerata la quantità di disclosure presenti nell’ordinamento. O. BEN-SHAHAR, The Failed Reign of Mandated Disclosure, in Upenn RegBlog, 15.6.2015. 43 Tesi definita “iconoclasta” da V. ROPPO, I paradigmi di comportamento del con-
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la intermediazione. Secondo questi Autori l’intermediario informativo44 (ad esempio, il consulente, l’advisor, il sito di comparazione tra pari, le imprese di rating, ecc.) – dunque il mercato – sarebbe il miglior sostituto dell’obbligo informativo giacché egli “digerisce” e semplifica informazioni complesse e le dissemina tra il pubblico meno sofisticato45. La questione sollevata da Ben Shahar e Schneider – ancorchè non convincente poiché propone soluzioni à la carte che soffrono dei medesimi vizi del problema che vorrebbe risolvere – va dritta al fondo della questione, giacchè pone al centro il destinatario (mediato) dell’obbligo informativo, ovvero colui nel cui interesse esso è posto: cioè l’individuo, sia esso connotato come cittadino, come consumatore, o risparmiatore/investitore, assicurato, paziente, fumatore, e così via. A ben vedere, l’interesse finale che la disclosure regulation ha di mira non è neppure quello dell’individuo, ma, per il suo tramite, è un interesse superiore: essere un cittadino ben informato sull’uso delle risorse pubbliche è il mezzo per prevenire casi di maladministration46; essere un consumatore ben informato sui danni da fumo è lo strumento per perseguire (anche) la riduzione della spesa sanitaria; essere un investitore consapevole dei rischi di un’operazione finanziaria è idoneo a prevenire (altresì) il diffondersi di operazioni dannose per il sistema47; essere un consumatore ben informato sulle caratteristiche dei sumatore, del contraente debole e del contraente professionale nella disciplina del contratto, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, Roma, Roma Tre-press, 2014, p. 2545, ad p. 41. 44 L’espressione “informational intermediation” si deve a B. CAILLAUD e B. JULLIEN, Chicken & Egg: Competition among Intermediation Service Providers, in 34 RAND Journ. Econ., 2/2003, p. 309-328. 45 Tesi sostenuta, ad adiuvandum, da F. MAROTTA-WRUGLER, Even More Than You Wanted to Know About the Failures of Disclosure, in New York University L. and Econ. Working Papers, Paper n. 394, 2014, in http://lsr.nellco.org/nyu_lewp/394 (il tema sarà trattato nella Parte Seconda di questo scritto). 46 Sui problemi definitori della maladministration in ambito giuridico e politologico si v. S. CASSESE, «Maladministration» e rimedi, in Foro it., 1992, V, col. 243; G.E. CAIDEN, What Really Is Public Maladministration?, in 51 Pub. Adm. Rev., 6/1991, p. 486-493, ad p. 486; C. HOOD, Administrative Diseases: Some Types of Dysfunctionality in Administration, in 52 Pubilc Adm., 1974, p. 439-454. 47 A. PERRONE Servizi di investimento e regole di comportamento. Dalla trasparenza alla fiducia, in Banca, borsa tit. cred., 1/2015, p. 31-42, ad p. 34, parla espressamente di «impossibilità di scindere la tutela dell’investitore da quella dell’integrità del sistema
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prodotti è pure il mezzo per garantire il buon funzionamento dei mercati; e così via48. Come ben illustrato in dottrina, sta emergendo nel diritto pubblico una nuova conformazione di interesse pubblico, che coincide con il «mantenimento di un determinato equilibrio: nella concorrenza fra operatori economici, di disponibilità delle informazioni fra venditore e compratore, nell’appostamento di garanzie a fronte dell’assunzione di rischi»; il fine pubblico della disclosure regulation (rectius: «della regolazione pubblica») è quello di «livella[re le] differenze e asimmetrie che il mercato non è in grado di correggere e che nella realtà operano come ostacoli allo stesso buon funzionamento del mercato, (...) consentendo transazioni basate su asimmetrie informative»49. Ma l’assunto è più ampio, e va al di là dell’equilibrio del mercato, estendendo a configurare l’intervento regolatorio come diritto dell’uguaglianza. Eppure, affinchè l’individuo sia ingranaggio funzionante per il raggiungimento di questi molteplici interessi pubblici, ad alcuni dei quali è delegato dal legislatore – europeo in primis – è necessario che sia effettivamente, realmente, nei fatti capace di apprestarsi a divenire tale. Ma così non parrebbe, per capacità proprie e per sopraggiunte complessità della modernità tecnologica. *** Di qui l’esigenza di tornare alle origini dell’istituto dell’obbligo informativo (Parte Prima), ripercorrendone la genesi storica e le diverse forme (Cap. 1), il fondamento giuridico e la ratio (Cap. 2), nonché la struttura operativa e l’attualità della sua funzione (Cap. 3). E ciò al fine di testarne la ragion d’essere e le possibili evoluzioni, specie alla luce di due grandi rivoluzioni contemporanee, che paiono averne minato i finanziario». 48 Rispetto all’interesse pubblico della tutela ambientale, come ricordato da F. GIGLIONI, La sfida dell’innovazione sulla regolazione pubblica. Il caso delle smart grid, in Munus, 3/2013, p. 463496: «È oramai acquisito nella scienza giuridica che gli obiettivi di tutela ambientale implicano il coinvolgimento e la responsabilizzazione diretta dei cittadini e delle loro organizzazioni». 49 L. TORCHIA, La regolazione del mercato e la crisi economica globale, in F. Brescia, L. Torchia e A. Zoppini (a cura di) Metamorfosi del diritto delle società? Seminario per gli ottant’anni di Guido Rossi, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, p. 59-70, anche in http://www.irpa.eu/wp-content/uploads/2011/11/Torchia_Regolazione_mercato.pdf, ad p. 9-10.
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presupporti in fatto, e dunque rimesso in discussione l’operatività in diritto (Parte Seconda). Si allude, in primo luogo, agli apporti degli studi provenienti delle scienze cognitive (Cap. 2) e, in secondo luogo, all’avvento dell’era digitale e dell’economia collaborativa e, in special modo, alla cd. “rivoluzione big data” (Cap. 3). I primi hanno infatti decostruito il concetto di agente razionale quale perfetto “recettore” di illimitate moli informative e di massimizzatore della propria utilità; i secondi hanno reso l’individuo non più un passivo destinatario, ma anche un “produttore” di informazione, in qualche modo “superando” la uni-direzionalità tipica della disclosure regulation, oltre ad aver alterato i contorni della figura stessa di soggetto consumatore-utente e, dunque, parte icasticamente “debole”, relegato ad essere necessariamente “solo” utente (si pensi all’utilizzatore delle piattaforme digitali). Ci si domanderà quindi se ed in che misura la disclosure regulation, per come attualmente concepita nel nostro ordinamento, rappresenti un caso di fallimento regolatorio (Cap. 4). Nella Parte Terza, dedicata alla Proposta, si articolerà la pars construens partendo dal principio di proporzionalità, onde ricavarne un canone utile al fine di integrare nel procedimento regolatorio che porta al disegno della disclosure regulation, sia nella fase istruttoria sia in quella di selezione dello strumento più idoneo, tanto gli elementi conoscitivi sugli individui “reali” forniti dalle scienze cognitive, quanto le tecnologie intelligenti rese possibili dalla rivoluzione big data. La tesi che si intende sostenere è dunque che nel problema (Parte Seconda) vi sia, come per le proprietà antigeniche dei vaccini, opportunamente trattate, anche parte della soluzione (Parte Terza).
CAPITOLO 1 LA DISCLOSURE REGULATION: FENOMENO NORMATIVO, STORIA E OBBIETTIVI
1.1. Il fenomeno: dove, quando nasce e per quali storici obbiettivi Gli obblihi informativi oggetto di indagine sono stati selezionati o in ragione della loro storica rilevanza, o in quanto rappresentanti luogo di emersione e di sperimentazione di nuove forme di disclosure. Di alcuni di essi si fornirà una trattazione a motivo del dibattito che hanno suscitato in dottrina in relazione alla ricostruzione della ratio dell’istituto dell’obbligo informativo (Cap. 2). È questo ad esempio, il caso della copiosa produzione sviluppatasi in ambito giusprivatistico attorno al tema della trasparenza contrattuale. Di altri, invece, si procederà ad un approfondimento per gradi: fornendone in prima battuta (subito appresso), per esigenze di uniformità espositiva, una sommaria rassegna e quindi (nel Cap. 3) una indagine più dettagliata quanto a struttura e obbiettivi. Soltanto questi costituiranno l’oggetto vero e proprio di indagine nella prospettiva, più sopra menzionata, della disclosure regulation. Come si apprezzerà, gli obblighi informativi ivi raggruppati includono tanto quelli imposti nell’ambito di relazioni bilaterali tra privati, quanto quelli imposti nei rapporti tra pubbliche amministrazioni e cittadini e imprese. In particolare, quanto al primo ambito, costituiranno oggetto di approfondimento gli obblighi informativi precontrattuali imposti ai professionisti in base alla disciplina dal codice del consumo50; quelli atti a garantire la sicurezza alimentare51; nonché quelli imposti all’intermediario finanziario52 e quelli previsti dalla regolazione dei mercati dei servizi delle comunicazioni elettroniche e dell’energia53. Quanto invece al secondo ambito, va precisato che l’indagine, per ragioni di economia del lavoro, considera unicamente gli obblighi informativi imposti all’amministrazione dalla legislazione ambientale e
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Cap. 3, para. 1.4. Cap. 3, para. 1.1. 52 Cap. 3, para. 1.2. 53 Cap. 3, para. 1.3. 51
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sulla trasparenza amministrativa54, considerandoli esemplificativi di un tipo di intervento di disclosure che ambisce – al pari di quella tra soggetti privati – ad attivare una risposta in termini di un comportamento da parte dell’individuo. Ulteriormente, occorre dare conto del fatto che costituiranno oggetto di approfondimento unicamente gli obblighi informativi frutto di interventi regolatori ex ante, escludendo dall’indagine sia le discipline sia gli interventi di tipo rimediale (come ad esempio, quelli in materia di pratiche commerciali scorrette, di clausole vessatorie e di pubblicità ingannevole). Tale scelta, vale ripeterlo, è funzionale alla prospettiva adottata, consistente nell’analisi del momento genetico della regola contenente l’obbligo informativo, apprezzandone i profili trasversali.
1.2. La disciplina dello squilibrio informativo nel diritto comune Gli obblighi informativi abbondano nei moderni ordinamenti giuridici, anche se doveri informativi sono noti sin dall’antichità; ne parla, ad esempio, già il Talmud Babilonese (Chulin 94a), la cui redazione55 ha inizio attorno al III sec., il quale vietava e tuttora vieta il “Geneivat da’at” (ossia il travisamento o la mistificazione)56. Da tale divieto deriva l’obbligo in capo al venditore di “divulgare all’acquirente tutti i difetti dei propri prodotti che non siano visibilmente evidenti”57. La ratio si fa discendere alternativamente dal divieto di fonte divina “non rubare” (Levitico, 19:11; Esodo, 23:7, 13), o da fonti rabbiniche58; ed in en54
Cap. 3, para. 1.5. È noto che la tradizione ebraica si basa sino al II sec. unicamente su fonti tramandate oralmente. La prima opera di trascrizione della tradizione orale non è quella talmudica, sibbene quella della Mishnah, che si conclude con la fine del II sec. ad opera di R. Yehuda Ha Nassi. 56 Letteralmente il Geneivat da’at (furto della conoscenza) consta del divieto di rubare l’altrui mente, pensiero, saggezza o conoscenza, vale a dire ingannare qualcuno causando in questi una erronea valutazione, impressione o credenza. Esso va al di là della semplice menzogna ed include ogni parola o azione che possa ingenerare in altri una non corretta valutazione o anche diminuire l’altrui capacità di valutare adeguatamente situazioni, siano esse di natura commerciale ovvero interpersonali. 57 A. LEVINE, Supply-Side Economics, in M. Chernick (a cura di) Essential Papers on the Talmud, New York, New York University Press, 1994, p. 295 ss., ad p. 311. 58 H.H. FRIEDMAN, Geneivat Da'at: The Prohibition Against Deception in Today's World (http://www.jlaw.com/Articles/geneivatdaat.html). Non vi è concordia circa l’origine del divieto di Geneivat da’at. Secondo taluni (R. Eliezer di Metz nel Talmud 55
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trambi i casi essa è connessa all’idea della sottrazione dell’altrui pensiero, consapevolezza o conoscenza59. Doveri di informazione son presenti nel nostro ordinamento già nel codice civile del 1942, ossia ben prima che in economia fosse teorizzata l’asimmetria informativa60 come causa di fallimento del mercato legittimante un intervento regolatorio, avvenuta – come noto – negli anni Settanta del secolo scorso61. Si pensi all’art. 798 cc in materia di garanzia del donante sui vizi della cosa donata, o agli obblighi di informazione derivanti dai principi di correttezza e buona fede (artt. 1175, 1366, 1375), ovvero, specialmente, all’art. 1338 in materia di reticenza sulle cause di invalidità del contratto note o anche solo conoscibili, comportante il risarcimento del danno; o ancora agli obblighi informativi gravanti sul mediatore ai sensi dell’art. 1759, o a quelli posti in capo al contraente in materia di assicurazioni dagli artt. 1892 e 189362. Come si vedrà più oltre, il tema degli obblighi informativi ha Babilonese) deriverebbe dal divieto contenuto nella Torà, essendo lo stesso formulato differentemente in Levitico 19:11 (al plurale: “lo tignòvu”, “non ruberete”) rispetto ai Dieci Comandamenti declamati in Esodo 23:7 (al singolare: “lo tignov”, “non ruberai”). Secondo altri (R. Semak) il divieto sarebbe più tardo ed ascrivibile a fonti rabbiniche, attribuibile al talmudista Samuel di Nehardea vissuto tra il 165 e il 256 presso Babilonia. 59 La cogenza del diritto halachico per gli operatori economici di fede ebraica osservanti comporta l’attualità degli insegnamenti talmudici e dunque del divieto di geneivat da’at, il quale può concretizzarsi ad esempio, nel divieto di pubblicità ingannevole: «Deceptive advertising would be one way of dishonestly raising customers’ expectations regarding the quality of products. Selling products with misleading nutritional information, e.g., selling nutrition supplements as weight-loss, wrinkleelimination, or memory-improvement aids when there is no evidence that they have any such beneficial effect, would also fall under the prohibition of geneivat da'at» così H.H. FRIEDMAN, Geneivat Da'at: The Prohibition Against Deception in Today's World, cit. 60 Su cui diffusamente infra, para. 2.1. A. SCHWARTZ e L. WILDE, Intervening in Markets on the Basis of Imperfect Information: A Legal and Economic Analysis, 127 U. Penn. L. Rev., 1979, p. 630-682. 61 G.A. AKERLOF, The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in Quart. J. of Econ., 1970, p. 488-500. S.J. GROSSMAN e J.E. STIGLITZ, Information and Competitive Price System, in Am. Econ. Rev., 1976, p. 246-253; GROSSMAN e J.E. STIGLITZ, On the Impossibility of Informationally Efficient Markets, in Am. Econ. Rev., 1980, p. 393-408; S.J. GROSSMAN e J.E. STIGLITZ, Stockholder Unanimity in the Making of Production and Financial Decisions, in Quart. J. of Econ., 1980, p. 543-566. 62 I quali sarebbero giustificati, secondo P. GALLO, Asimmetrie informative e doveri di informazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 641-680 ad p. 655, dal rischio di sele-
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del resto animato un acceso dibattito circa il ruolo da attribuire all’informazione rispetto al regolamento contrattuale e, più in generale, rispetto all’autonomia privata63; dal momento che, pur se inquadrati nel farsi della vicenda contrattuale, in quanto funzionali a supportare il consumatore-investirore-utente nella ponderazione della bontà dell’affare e dipoi, una volta concluso lo stesso, a sostenerne la corretta esecuzione, tali obblighi hanno ontologiche “proiezioni esterne” alla vicenda inter partes, che investono le dinamiche di mercato, di cui il consumatore è parte integrante. A fronte di quanti riconoscono nella trasparenza contrattuale «null’altro che una puntuale espressione del principio di correttezza nei rapporti contrattuali»64 vi è invece chi rizione avversa (i.e. fenomeno di opportunismo precontrattuale derivante dalla asimmetria informativa che caratterizza la relazione assicuratore-assicurando), particolarmente diffuso nel settore assicurativo. 63 A. PARRELLA, La reticenza nei negozi giuridici, in Studi in onore di A. Ascoli, Messina, Imprenta, 1931, p. 371-405; G. VISINTINI, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, Cedam, 1972; P. PERLINGIERI, L’informazione come bene giuridico, in Rass. dir. civ., 1990, p. 326 ss.; G. GRISI, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, Jovene, 1990; V. SCALISI, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, in Riv. dir. civ., 1994, II, p. 167-195; A. MUSY, Il dovere di informazione, Saggio di diritto comparato, Trento, Coll. Università di Trento, 1999; D. VALENTINO, Obblighi di informazione, contenuto e forma negoziale, Napoli, ESI, 1999; A.C. NAZZARO, Obblighi d’informare e procedimenti contrattuali, Napoli, ESI, 2000; S. GRUNDMANN, L’autonomia privata nel mercato interno: le regole d’informazione come strumento, in Eur. dir. priv., 2001, p. 256-304; M. DE POLI, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, Cedam, 2002; A. JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in N. Lipari (a cura di) Trattato di diritto privato europeo, vol. III, Padova, Cedam, 2003, p. 3-132; G. VETTORI, Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2003, p. 241-254; P. GALLO, Responsabilità precontrattuale: la fattispecie, in Riv. dir. civ., 2/2004, I, p. 295-325, V. ROPPO, L’informazione precontrattuale: spunti di diritto italiano, e prospettive di diritto europeo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 747-764; M.C. CHERUBINI, Tutela del «contraente debole» nella formazione del consenso, Torino, Giappichelli, 2005; G. SCHIAVONE, La violazione degli obblighi di informazione tra «regole di comportamento» e «regole di validità», in Obbl. contr., 2007, p. 918-927; P. GALLO, Asimmetrie informative e doveri di informazione, 2007, cit.; L. DI DONNA, Obblighi informativi precontrattuali. 1. La tutela del consumatore, Milano, Giuffrè, 2008; R. ALESSI, Gli obblighi di informazione tra regole di protezione del consumatore e diritto contrattuale europeo uniforme e opzionale, in Eur. dir. priv., 2/2013, p. 311-356; G. ALPA, Il contratto in generale. Fonti, teorie, metodi, Milano, Giuffrè, 2014, spec. Cap. VI, p. 385-418. 64 S. PAGLIANTINI, Trasparenza contrattuale, cit., p. 1282. Cfr. altresì R. SACCO, Il consenso, cit., p. 404, secondo il quale il rimedio alla violazione del divieto di reticenza
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tiene gli obblighi informativi una categoria unitaria e vede nella trasparenza un autonomo principio normativo65. Così, sulla scia dei sempre più estesi e penetranti obblighi informativi di origine europea e dei “contenuti informativi” da trasferire alla parte contrattualmente – e strutturalmente – debole66, si fa strada l’idea di un diretto condizionamento del regolamento contrattuale, caratterizzato da squilibrio informativo, il cui inquadramento dogmatico, rispetto alle menzionate proiezioni esterne, prende due vie: una di tipo “efficientistico” ed una di stampo “equitativo” (su questi temi torneremo diffusamente nel Cap. 2).
1.3. Gli obblighi informativi nella disciplina consumeristica Un obbligo di portata generale, come noto, è oggi imposto in capo ai professionisti di fornire ai consumatori una lunga serie di informazione precontrattuali dagli artt. 48 ss. del Codice del consumo67, i quali hanno rafforzato la disciplina sul punto per adeguarla, da ultimo, alla direttiva consumatori 2011/83/UE, estendendola oltre i contratti negoziati fuori dei locali commerciali e i contratti a distanza (art. 49) – agli “altri contratti” – cui era in origine confinata68. A complemento, e precontrattuale ex art. 1337 cc (risarcimento del danno) sarebbe da intendersi come azione di annullamento in forma specifica ex 2058 cc e, dunque, importante la cancellazione del contratto stipulato in violazione del dovere informativo. E ciò a prescindere dal ricorrere dei presupposti dell’errore o del dolo (p. 410). 65 V. SCALISI, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, cit. Pure favorevole a qualificare il deficit informativo come causa di vulnus dell’atto (non già del regolamento) di tipo strutturale è D. VALENTINO, Obblighi di informazione, cit., spec. ad p. 249. 66 È il contratto asimmetrico di V. ROPPO, Regolazione del mercato e interessi di riferimento, cit., p. 1185-1199. 67 Cfr. L. ROSSI CARLEO (a cura di) Diritti dei consumi, Torino, Giappichelli, 2015, passim; G. DE CRISTOFARO, La disciplina degli obblighi informativi precontrattuali nel codice del consumo riformato, in Nuove Leggi Civ. Comm., 5/2014, p. 917-958; S. PAGLIANTINI, La riforma del codice del consumo ai sensi del d.lgs. 21/2014: una rivisitazione (con effetto paralizzante per i consumatori e le imprese), in Contratti, 2014, p. 796821; S. MAZZAMUTO, La nuova direttiva sui diritti del consumatore, in Eur. dir. priv., 2011, p. 861-909. 68 Come noto, l’obbligo informativo era pensato come rimedio allo squilibrio specifico che si riteneva sussistesse in particolare nei contratti conclusi al di fuori dei locali commerciali e a distanza rispetto “agli altri contratti”. Sempre più lievi, e viepiù irrilevanti, si sono fatti nel tempo gli argomenti a sostegno di una ontologica diversa asim-
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per garantire la completezza informativa del consumatore, un altrettanto generale divieto sanziona come pratica commerciale scorretta la “omissione informativa” (art. 22 codice consumo), anche quando questa non abbia69 – o secondo taluni solo se abbia70 – indotto il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti adottato, il cui enforcement è oggi rimesso all’autorità antitrust71. Rispetto a quella codicistica, la disciplina consumeristica di metria informativa nel caso di contratti stipulati fuori dei locali commerciali rispetto a quelli stipulati a distanza, al punto che la relativa disciplina è stata sostanzialmente uniformata (artt. 50 e 51 cod. cons.), mentre una specifica disciplina è stata introdotta per gli obblighi informativi relativi ai contratti stipulati per via telematica (art. 51, co. 2, 3 e 9) e telefonica (art. 51, co. 5 e 6). Sul punto, cfr. C. GIUSTOLISI, Il diritto alle informazioni precontrattuali, in L. Rossi Carleo (a cura di) Diritti dei consumi, 2015, p. 96-108, ad p. 102; G. DE CRISTOFARO, La disciplina degli obblighi informativi precontrattuali, cit., ad p. 494 e L. ROSSI CARLEO, Il diritto all’informazione: dalla conoscibilità al documento informativo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 349-375. In generale sul recepimento della Direttiva consumatori, cfr. S. PAGLIANTINI, La riforma del codice del consumo ai sensi del d.lgs. 21/2014, cit.; V. CUFFARO, Nuovi diritti per i consumatori: note a margine del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, in Corr. giur., 2014, p. 745-751; F. SCAVONE, Le modifiche apportate al Codice del consumo a seguito del recepimento della direttiva 2011/83/UE, in Contr. impr./Europa, 2014, p. 467-478; G. DE CRISTOFARO, I contratti a distanza e fuori dai locali commerciali: area di applicazione della disciplina, in Tratt. dei contratti dir. da V. Roppo, V, Mercati regolati, Milano, 2014, p. 59-76; A.M. GAMBINO e G. NAVA (a cura di) I nuovi diritti dei consumatori, Commentario al d.lgs. n. 21/2014, Torino, Giappichelli, 2014; L. ROSSI CARLEO, Il public enforcement nella tutela dei consumatori, in Corr. giur., 2014, fasc. 7S, p. 5-9; E. BATTELLI, L’attuazione della direttiva sui consumatori tra rimodernizzazione di vecchie categorie e «nuovi» diritti, in Europa dir. priv., 2014, p. 927-1015; A. ARGENTATI, Contrattazione a distanza e nuovi diritti dei consumatori: quale ruolo per il public enforcement? in Dir. merc. tecn., 2/2014, p. 29-47; E. MINERVINI, L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato e la violazione dei diritti dei consumatori nei contratti, in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, num. spec. di Conc e merc., 2016, p. 485-896. In generale sul diritto dei consumi, oltre al già citato L. ROSSI CARLEO (a cura di) Diritto dei consumi, si v.: G. ALPA e L. ROSSI CARLEO (a cura di) Codice del consumo. Commentario, Napoli, ESI, 2005 e G. VETTORI (a cura di) Codice del consumo. Commentario, Padova, Cedam, 2007. 69 E. MINERVINI, op. ult. cit., p. 493-494. 70 F. RENDE, Le regole d’informazione, cit., p. 198. Si noti tuttavia che l’A. scrive in un momento antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 21/2014. 71 Attenendo la disciplina della pubblicità ingannevole ai profili di intervento ex post sull’informazione, essa è, come detto, estranea a questa indagine, la quale approfondisce invece la vicenda regolatoria ex ante degli obblighi informativi. Per un inquadramento del tema si veda M. DE BENEDETTO, L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad p. 205 ss.; si v. altresì V. MELI, Pratiche
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origine europea, come si vedrà, si fa puntualissima nel dettagliare gli obblighi informativi a carico dei professionisti che “invitino all’acquisto”, affinché le informazioni siano rese in modo “chiaro e comprensibile” ad un rarefatto e tipologico consumatore “medio”72, ossia ad un soggetto mediamente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, dimodoché il suo acquisto avvenga effettivamente sulla base di una scelta ponderata, consapevole ed informata. Unica eccezione a questo ideal-tipo è quella del consumatore “vulnerabile”73 – pur sempre medio – che tale è per ragioni di “infermità mentale o fisica, età o ingenuità” (art. 20, co. 3 codice consumo). Nei confronti di costoro il professionista è tenuto a tenere in considerazione le particolari esigenze nel formulare le informazioni quando rivolge l’invito all’acquisto. Niente più, nessuna tutela specifica o diversificata, in termini di informazione, secondo i più, è da prevedersi per questa “classe” di individui74. commerciali scorrette e pubblicità ingannevole e comparativa, in Conc. e merc., 2014, p. 597-616. 72 Notoriamente, il cons. 18 della Dir. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette parla di consumatore medio come di “consumatore virtuale” alludendo al fatto che trattasi di categoria idealtipica e comunque “non statica”, da costruirsi caso per caso considerando l’incidenza di fattori culturali, sociali ed economici nei quali il consumatore si trova ad agire, quali, primo fra tutti, l’asimmetria informativa dovuta alla speciale complessità dei prodotti e servizi di cui trattasi, ovvero l’elevata tecnologicità degli stessi. Come suggerito, ad esempio, dal Tar Lazio, sent. 9831 del 18.9.2014, gli utenti medi dei servizi pubblicizzati a mezzo di pratiche commerciali scorrette sono spesso esattamente quelli meno avvezzi e più naïf, ai quali va pertanto assicurata una adeguata tutela. Cfr. S. PERUGINI, Le pratiche commerciali scorrette, in L. Rossi Carleo (a cura di) Diritto dei consumi, cit. p. 177-178. Sulla nozione di consumatore si v. altresì S. RODOTÀ, Persona - consumatore, in P. Stanzione (a cura di) La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, Napoli, ESI, 1999, p. 19 ss.; G. ALPA, Ancora sulla definizione di consumatore, in Contratti, 2001, p. 205-208; V. ROPPO, Il contratto del duemila, 3a ed., Torino, Giappichelli, 2011, spec. Cap. IV, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi sviluppi di un nuovo paradigma, p. 65-90 e E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale, Torino, Giappichelli, 2006, ad p. 38 ss. Sul tema si tornerà più volte nel corso della trattazione. 73 Cfr. cons. 34 della Dir. consumatori 2011/83/UE ripreso alla lettera dall’art. 5§3 della Dir. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette e quindi inserito nell’art. 20, co. 3 del cod. cons. 74 Secondo R. ALESSI, Gli obblighi di informazione tra regole di protezione del consumatore, cit., p. 323, l’efficacia dell’obiettivo della disclosure avuto di mira dalla Direttiva consumatori, e dunque «degli obblighi di informazione, si affida [specialmente] al rispetto di più stringenti prescrizioni di forma» essendo «sempre meno misurata in
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Le disposizioni richiamate non esauriscono certo il novero degli obblighi informativi pro-consumer vigenti nel nostro ordinamento, dal momento che numerosi altri se ne rinvengono in discipline speciali, spesso frutto del recepimento di normative europee, di cui si dirà subito appresso.
1.4. La proliferazione degli obblighi informativi nella regolazione pubblica dei mercati La disclosure regulation è così “leggera”, rientrando, come detto, tra gli strumenti di light touch regulation75, da ritrovarla in ogni area del vivere civile e ad ogni livello di fonte. Così, ad esempio, nel diritto alimentare76, i produttori sono tenuti ad informare circa l’utilizzo degli organismi geneticamente modificati77, così come sull’assenza di glutine negli alimenti78, oltre a dover fornire in etichetta una serie di dati stanrapporto alla capacità di intercettare le differenti caratteristiche dei destinatari e di raggiungere il suo obiettivo, vale a dire la formazione di una volontà compiuta». (enfasi aggiunta) In tal modo essa finisce col risolversi in un «beneficio di certezze del professionista (rectius di tutti i professionisti)». 75 R. BALDWIN, M. CAVE e M. LODGE, op. cit., p. 121. 76 Per un’interessante ricostruzione dell’autonomia scientifica del diritto alimentare si v. G. ROSSI, Diritto dell’ambiente e diritto dell’alimentazione, in Riv. quadrim. dir. amb., 1/2015, p. 3-14 (http://www.rqda.eu/?dl_id=87). 77 Cfr. il Regolamento UE n. 1829/2003 e la Direttiva 2015/412/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 2015 che modifica la direttiva 2001/18/CE relativa alla possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) sul loro territorio, su cui S. VISANI, Modelli normativi a confronto: regolamentazione degli Ogm tra UE e USA. Giurisprudenza in materia di brevettabilità degli organismi viventi , in Riv. dir. alim., 3/2015, p. 57-69. Cfr. altresì G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare: obblighi di informazione in etichetta, in Contr. e impr., 2014, p. 1084-1092 e E. BLASI, I nuovi margini del potere decisionale degli stati europei in materia di organismi geneticamente modificati, in Riv. quadr. dir. amb., 1/2015, p. 150-185. In generale sulla disclosure regulation nel settore alimentare cfr. A. GERMANÒ, M.P. RAGIONIERI e E. ROOK BASILE, Il diritto agroalimentare. Le regole del mercato degli alimenti e dell’informazione alimentare, Torino, Giappichelli, 2014, spec. cap. IV, p. 69-82 e L. COSTATO, P. BORGHI e S. RIZZOa LI, Compendio di diritto alimentare, 6 ed., Padova, Cedam, 2013, spec. ad p. 190 ss. 78 Cfr. Regolamento Delegato UE n. 1155/2013 della Commissione del 21 agosto 2013 che modifica il Regolamento UE n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori per quanto riguarda le informazioni sull’assenza di glutine o sulla sua presenza ridotta ne-
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dardizzati dal Regolamento UE n. 1169/2011 sull’informazione alimentare79. Parimenti armonizzate sono le informazioni che i produttori di elettrodomestici debbono indicare ai consumatori in relazione all’efficienza energetica degli apparecchi in base alla Direttiva 2010/30/UE80, o gli alimenti, in GUUE, L 306, 16.11.2013, p. 7. 79 Cfr. Regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25.10.2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva 1999/10/CE della Commissione, la direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 608/2004 della Commissione, in GUUE L-304, del 22.11.2011, p. 18-63, su cui specialmente P. BORGHI, Labelling and Obligations to Provide Information: the New Discipline, in V. Parisio (a cura di), Food Safety and Quality Law: a Transnational Perspective, Torino, Giappichelli, 2015, p. 57-81 e ID., Oggetto ed ambito di applicazione del Regolamneto (UE) n. 1169/2011, in V. Rubino (a cura di), Le informazioni sugli alimenti ai consumatori. Il Regolamento (UE) n. 1169/20111, Roma, Aracne, 2015, p. 11-25, per il quale lo «scopo dell’informazione fornita al consumatore di prodotti alimentari è più generale, che non quello della sola tutela della salute, volendo (...) garantire un adeguato supporto di dati (le “informazioni”, appunto) la cui conoscenza è generalmente avvertita come opportuna, per grantire he la scelta di acquistare, o di utilizzare, il prodotto sia compiuta consapevolmente e con determinazione». Si veda inoltre: F. ALBISINNI, Transparency, crisis and innovation in EU Food Law, in Riv. reg. merc., 1/2015, p. 97-115; A. JANNARELLI, La fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori nel nuovo reg. n. 1169/2011 tra l’onnicomprensività dell’approccio e l’articolazione delle tecniche performative, in Riv. dir. agr., 2012, p. 38-46; M. GIROLAMI, Etichettatura, informazioni e rimedi privatistici nella vendita di prodotti alimentari ai consumatori, in Nuove Leggi Civ. Comm., 1-2014, p. 139-168; L. COSTATO, Protezione del consumatore tra strumenti contrattuali e norme di carattere pubblicistico: il caso del diritto alimentare, in Riv. dir. agr., 2010, I, p. 35-46 e L. HEINZERLING, The Varieties and Limits of Transparency in U.S. Food Law, in 70 Food Drug Law J., 1/2015, p. 11-24. Sul caso Teekanne (Corte di Giustizia, Sez. IX, Causa C‑195/14 del 4.6.2015), per precisazioni sul concetto di “consumatore medio” in relazione alle etichette alimentari, cfr.: H. SCHEBESTA e K. PURNHAGEN, The Behaviour of the Average Consumer: A Little Less Normativity and a Little More Reality in the Court’s Case Law? Reflections on Teekanne, in 22 Europ. L. Rev., 4/2016, p. 590598; E. RUIZ CAIRO, Consumers May be Misled Despite the List of Ingredients Being Displayed on the Packaging of a Foodstuff, in Europ. J. of Risk Reg., 3/2015, p. 454-457; I. CANFORA, Informazioni sugli alimenti e pratiche ingannevoli. Quando l'elenco degli ingredienti non è sufficiente a tutelare il “consumatore medio”, in Riv. dir. agr., 3/2015, p. 196-204; E. THEBAUD, Arrêt Teekanne: la Cour précise les modalités pour réaliser un étiquetage clair et non trompeur, in Rev. europ. de dr. consom., 2015, p. 261-269. 80 Cfr. Direttiva 2010/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 maggio 2010, concernente l’indicazione del consumo di energia e di altre risorse dei prodotti connessi all’energia, mediante l’etichettatura ed informazioni uniformi relati-
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quelle (invero poche oramai) che i produttori di sigarette possono apporre sui pacchetti in base alla contestata Direttiva sui prodotti da tabacco81. Chiaramente in questi casi gli obiettivi avuti di mira dal regolatore saranno diversi82, ma lo strumento regolatorio impiegato il medesimo. In ambito finanziario, forse il terreno in cui più diffuso ed avanzato è il suo impiego83, gli intermediari sono soggetti ad una fitta serie di regole di comportamento che li obbliga, tra le altre, ad informare gli ve ai prodotti, in GUUE L-153, del 18.6.2010, p. 1-12 e relativi regolamenti delegati di attuazione, il cui elenco completo, aggiornato al 14.11.2016, è disponibile al seguente indirizzo: http://ec.europa.eu/energy/sites/ener/files/documents/lis t _of_enegy_labelling_measures.pdf). 81 Cfr. Direttiva 2014/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE, in GUUE L-127/1 del 29.4.2014, su cui: A. VANZETTI, Fumo o ginnastica?, in Riv. dir. ind., 3/2013, p. 137-147; A. ALEMANNO, Out of Sight, Out of Mind. Towards a New EU Tobacco Products Directive, in 18 Colum. J. Eur. Law, 2011-2012, p. 197-241; A. ALEMANNO, Nudging Smokers. The Behavioural Turn of Tobacco Risk Regulation, in 3 Euro. J. of Risk Reg., Spec. Issue on Nudge, 1/2012 p. 32-42; L. DI DONNA, La responsabilità del produttore per i danni provocati dal fumo, in Contr. e impr., 6/2012, p. 15271549; C. MORETTI, La tutela del marchio e la normativa australiana sui prodotti del tabacco nella giurisprudenza della High Court of Australia, in Dir. comm. intern., 4/2013, p. 1141-1159; G. DE CANDIA, Stima dei costi sanitari dovuti al fumo di tabacco, in Minerva medicolegale, 2/2014, p. 75-82. 82 Nel caso delle etichette alimentari e del packaging dei prodotti da fumo, come detto, l’obiettivo avuto di mira è, mediatamente, la salute dei cittadini e, per il suo tramite, il contenimento della spesa sanitaria; nel caso delle etichette degli elettrodomestici, invece, l’obiettivo finale è quello dell’efficienza – e dunque del risparmio – di energia. 83 La letteratura sugli obblighi di condotta degli intermediari finanziari connessi all’informazione è vastissima. Limitando il campo di indagine agli obblighi informativi derivanti specialmente dalla disciplina recata dalle Direttive MiFID I e II (su cui si tornerà diffusamente infra, al Cap. 2, para. 2.4 e al Cap. 3, para. 1.2), si v., in ordine cronologico: F. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II. (Tra aspettative degli investitori e realtà normativa), in V. Troiano e R. Motroni (a cura di) La MiFID II, Padova, Cedam, 2016, p. 171-212; V. RICCIUTO, La tutela dell’investitore finanziario. Prime riflessioni su contratto, vigilanza e regolazione del mercato nella c.d. MiFID II, ivi, p. 3-14; G.M. UDA, L’informativa alla clientela in relazione ai servizi di investimento, ivi, p. 27-55; C. COLOMBO, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione nell’offerta di servizi di investimento, ivi, p. 57-80; E. CAPOBIANCO (a cura di) I contratti bancari, Tratt. dei cont-ratti, dirr. P. Rescigno e E. Gabrielli, Milano, Utet, 2016; E. FRANZA, Gli obblighi dell’intermediario nella distribuzione di prodotti finanziari, alla luce degli orientamenti Esma e della comunicazione Consob del 22.12.2014, in Riv. dir. banc.,
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investitori in merito alla rischiosità dei prodotti finanziari prima di po3/2016; M. PELLEGRINI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari nella prestazione dei servizi di investimento, in F. Capriglione (a cura di) Manuale di diritto bancario e finanziario, Padova, Cedam, 2015, p. 547-583; A. URBANI, La “trasparenza” nello svolgimento dell’attività, ivi, p. 504-522; A. PERRONE, Servizi di investimento e regole di comportamento. dalla trasparenza alla fiducia, in Banca borsa tit. cred., 1/2015, p. 3142; F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, 7a ed., Torino, Giappichelli, 2014, spec. p. 499 ss.; F. CIVALE, La trasparenza bancaria, Milano, Giuffrè, 2013; A.A. DOLMETTA, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, Zanichelli, 2013; P. MONTALENTI, “Disclosure” e riservatezza nei mercati finanziari: problemi aperti, in AGE, 1/2013, p. 245-254; M. ONADO, «Smoke gets in your eyes». L’innovazione finanziaria e l’informazione: storie di «fallimenti» del mercato e dei regolatori, in AGE, 1/2013, p. 35-57; S. FINESI, Il nuovo regime informativo dei prodotti finanziari strutturati nell’Unione Europea, in Banca Impresa Società, 3/2012, p. 487-503; A. MIRONE, La trasparenza bancaria, Padova, Cedam, 2012; M.G. ROSSI, Informazione nel mercato finanziario, in Digesto disc. civ. – Sez. comm., ad vocem, 2012; E. BRODI, Dal dovere di far conoscere al dovere di far comprendere: l’evoluzione del principio di trasparenza nei rapporti tra impresa e consumatori, in Banca borsa tit. cred., 2/2011, pag. 246-273; D. ROSSANO, Le “tecniche cognitive” nei contratti di intermediazione finanziaria, Napoli, ESI, 2011; F. SARTORI, Informazione economica e responsabilità civile, Padova, Cedam, 2011; A. ANTONUCCI, Declinazioni della suitability rule e prospettive di mercato, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 728-738; C. BRESCIA MORRA, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione di ordini, in R. D’Apice (a cura di) L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 517 ss.; M. CIAN, L’informazione nella prestazione dei servizi di investimento: gli obblighi degli intermediari, in E. Gabrielli e R. Lener (a cura di) I contratti del mercato finanziario, vol. I, 2a ed. Tratt. dei contratti, dirr. P. Rescigno e E. Gabrielli, Torino, Utet, 2010, p. 213- 236; P. LUCANTONI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, ivi, p. 239-278; A. PERRONE, Gli obblighi di informazione, in R. D’Apice (a cura di) L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 499 ss.; F. CAPRIGLIONE, Dalla trasparenza alla «best execution»: il difficile percorso verso il «giusto prezzo», in Banca, borsa, tit. cred., 4/2009, p. 475-486; F. CAPRIGLIONE, La problematica relativa al recepimento della MiFID, in R. De Poli (a cura di) La nuova normativa MiFID, Padova, Cedam, 2009, p. 1-39; A. SCIARRONE ALIBRANDI, Il servizio di consulenza in materia di investimenti: profili ricostruttivi di una nuova fattispecie, in Dir. banca e merc. fin., 3/2009, p. 383-410; F. CAPRIGLIONE, Intermediari finanziari investitori mercati. Il recepimento della MiFID. Profili sistematici, Padova, Cedam, 2008, spec. Cap. Terzo p. 147-172, ed ivi l’ampia bibliografia richiamata; A. PERRONE (a cura di) I soldi degli altri. Servizi di investimento e regole di comportamento degli intermediari, Milano, Giuffrè, 2008; F. SARTORI, Le regole di adeguatezza e i contratti di borsa: tecniche normative, tutele e prospettive MiFID, in Riv. dir. priv., 2008, p. 25-54. Per l’inquadramento generale del tema della trasparenza e degli obblighi informativi nei mercati finanziari, anche prima della Direttiva MiFID, oltre al già richiamato G. ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti di
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ter dare corso alla sottoscrizione (know your product rule), così come ad acquisire dall’investitore tutta una serie di informazioni atte a definire la adeguatezza dell’operazione rispetto al singolo cliente (cd. know your customer rule). Una disciplina specifica è poi dettata in materia di prodotti finanziari ed assicurativi preassemblati (i cc.dd. PRIIPs), finalizzata ad assicurare che tutte le informazioni contenute nei prospetti siano complete ma comprensibili ed anche comparabili (obiettivo del mercato interno concorrenziale). A tale scopo, il legislatore europeo ha semplificato e standardizzato il contenuto ed il format delle informazioni-chiave che gli intermediari sono obbligati a fornire agli investitori, consegnando loro un documento (il cd. Key Information Document o KID) prima della sottoscrizione84. Vi è unanimità di consensi circa la funzione di siffatti obblighi, i quali sono giustificati dalla disuguaglianza strutturale dei contraenti rispetto al bagaglio informativo, dacché essi contribuiscono a restituire, completandola, la libera autodeterminazione dell’investitore, e dunque la sua autonomia decisionale85. Così come, seppure con qualche eccezione, vi è largo consenso nell’equiparare il risparmiatore/investirore al consumatore parte debole, e dunque ad estendere a questi buona parte delle considerazioni svolte in ordine alla strutturale debolezza informativa86. Ma v’è di più nella regolazione finanziaria: la complessità della disciplina pubblicistica post-crisi, come si vedrà, conduce il regolatore a spingersi oltre il terreno della bi-direzionalità degli obblighi informativi87 e della differenziazione dell’informativa in funzione dell’adeguainvestimento, 2003, cit.; si v. M. MESSORI, Informazione e mercati finanziari, in AGE, 2/2006, p. 203-208; E. CAPOBIANCO, Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori, Napoli, 2000; R. LENER, Forma contrattuale e tutela del contraente «non qualificato» nel mercato finanziario, Milano, Giuffrè, 1996; A. MAISANO, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie, Milano, Giuffrè, 1993; e P. ABBADESSA, Diffusione dell’informazione e doveri dell’intermediario, in AA.VV. (a cura di) Informazione societaria, Atti del Convegno internazionale di studi, Venezia 5-7 novembre 1981, Milano, Giuffrè, 1982, p. 449-460. 84 Cfr. infra Cap. 3, para. 1.2. 85 Cfr. sul punto per tutti F. CAPRIGLIONE, Dalla trasparenza alla «best execution», cit., p. 476, 480. 86 G. ALPA, Quando il segno diventa comando, cit. p. 468. 87 Come si avrà modo di dettagliare oltre nel testo (Cap. 3, para. 1.2), l’intermediario finanziario è tenuto sia a raccogliere informazioni sull’investitore sia a darne a quest’ultimo in ordine ai prodotti e ai rischi ad essi connessi. Pertanto i flussi informativi generati sono bi-direzionali.
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tezza del tipo di prodotto proposto (know your product rule)88, per abbracciare, con la cd. product governance, financo la ingegnerizzazione dei prodotti finanziari, la quale è ascrivibile alla strategia regolatoria nota come meta-regulation89, incentrata sul controllo dei processi interni alle imprese ed alla auto-regolazione delle stesse, più che ad una pura etero-regolazione. Nel settore sanitario il “consenso informato” deve essere sottoscritto dal paziente prima del trattamento, al fine di assicurare che questi comprenda la terapia proposta dal medico90 e l’informazione diviene il fulcro di un rapporto medico-paziente viepiù improntato alla collaborazione terapeutica91; i moduli della privacy incombono ad ogni acquisto in Internet ed a ciascuna pagina web visitata; e la schermata per la 88
Anche su questi temi si tornerà nel Cap. 3, para. 1.2. Su cui sempre al Cap. 3, para. 1.2. 90 Cfr. Art. 5 della Convenzione di Oviedo sui Diritti umani e la biomedicina del 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con l. n. 145 del 28 marzo 2001, su cui; S. ANDALORO, Il principio del consenso informato tra Carta di Nizza e ordinamento interno, in Fam. e dir., 2011, p. 85-91; C.D. LEOTTA, voce Consenso informato, in Digesto disc. priv., Agg. 2010, vol. V., p. 102; S. ROSSI, voce Consenso informato, in Digesto discipl. privat., Agg. 2012, vol. VII, p. 183; F. SALERNO, Consenso informato in medicina e qualità soggettive del paziente, in Giur. it., 2014, p. 277-281; C. GARUFI, L’obbligo di informazione del sanitario e la c.d. perdita di «chance», in Giurisp. merito, 2011, p. 2100-2106; E. CALÒ, Il consenso informato: dal paternalismo all’autodeterminazione, in Notariato, 2000, p. 183-185; S. CACACE, I danni da (mancato) consenso informato, in Nuova giur. civ. comm., I, 2010, p. 790-794. 91 G. MONTANARI VERGALLO, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Milano Giuffrè, 2008; A.M. MOL, The logic of care. Health and the problem of patient choice, Londra, Routledge, 2008; F.H. MILLER, Health Care Information Technology and Informed Consent: Computers and the DoctorPatient Relationship, in 31 Indiana L. Rev., 4/1998, p. 1019-1042; M. HARDEY, EHealth: The Internet and the transformation of patients into consumers and producers of health knowledge, in 4 Information, Comm. & Society, 3/2001, p. 388-405; M. GRAZIADEI, Il consenso informato e i suoi limiti, in L. Lenti, E. Palermo Fabris e P. Zatti (a cura di) I diritti in medicina, in Trattato di biodiritto, dirr. S. Rodotà e P. Zatti, Milano, Giuffrè, 2011, p. 191-288; U. FELT, M.D. BISTER, M. STRASSNIG e U. WAGNER, Refusing the information paradigm: Informed consent, medical research and patient participation, in 13 Health: an interdisciplinary J. for social study of health, illness and medicine, 2009, p. 87-106; A. COULTER, V. ENSTWISTLE e D. GILBERT, Sharing decision with patients: Is the information good enough?, in British Medical J., 1999, p. 318-322; R. CATERINA, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., I, 2005, p. 771-796; G. CASCIARO e P. SANTESE, Il consenso informato, Milano, Giuffrè, 2012; C. QUAGLIARIELLO e C. FIN, Il consenso informato in ambito medico. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, Il Mulino, 2016. 89
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cessione del consenso all’utilizzo dei propri dati personali costituisce il passaggio obbligato prima di poter ricevere “in cambio” la app “gratuita” più apprezzata del momento92. Gli esempi si potrebbero moltiplicare quasi all’infinito, e così le sanzioni specifiche o i rimedi che si accompagnano alla violazione di siffatti obblighi93. Oltre che per struttura e ambito di applicazione la disclosure regulation può variare per fonte da cui promana. Così, gli obblighi possono derivare da fonte primaria, come quelli appena menzionati, ma possono essere adottati anche da autorità nazionali di regolazione, e qui si dà il caso, in parte già citato, della Consob per i mercati finanziari, o dell’Aeegsi per i mercati dell’energia elettrica e del gas, nonchè dell’AGcom per il settore delle comunicazioni elettroniche94. Specie queste ultime, in quanto titolari del potere di tutelare gli utenti nei servizi liberalizzati dell’energia e delle comunicazioni, al fine di assicurare il buon funzionamento della concorrenza, definiscono non di rado discipline contenenti minuziosi obblighi informativi in capo alle imprese operanti nei mercati retail, del cui dettaglio si darà conto nel prosieguo. Basti qui menzionare, a titolo di esempio, la gamma variabile di 92 V. ZENO-ZENCOVICH e G. GIANNONE CODIGLIONE, Ten legal perspectives on the “Big Data revolution”, in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, num. spec. di Conc. e merc., 2016, p. 29-57; F. PIZZETTI, Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali, Torino, Giappichelli, 2016; Y. PADOVA e V. MAYER-SCHONBERGER, Regime Change? Enabling Big Data through Europe’s New Data Protection Regulation, in 17 Columbia Science & Technology L. Rev., 2016, p. 315-335; F.G. VITERBO, Freedom of contract and the commercial value of personal data, in Contr. impr. Eur., 2/2016, p. 593-622; S. FAMILIARI, Il diritto alla portabilità dei dati: origine e prospettive per il futuro, in Ciberspazio e dir., 3/2016, p. 403-435; A. SPINA, Alla ricerca di un modello di regolazione per l’economia dei dati. Commento al Regolamento (UE) 2016/679, in Riv. reg. merc., 1/2016, p. 143-152. 93 Per un’utile, ancorchè non esaustiva ed aggiornata, rassegna degli obblighi di disclosure esistenti a livello europeo, nonché dei relativi remedies, cfr. Commissione europea, SWD (2012) 132 def. Report on Consumer Policy (July 2010 – December 2011), del 22.5.2012, spec. ad p. 11 ss., cui ha fatto seguito un secondo documento: Report on Consumer Policy (January 2012 – December 2013) del 2014, dove tuttavia non è più presente una lista esaustiva come nel primo dei due documenti. Sul tema si tornerà più volte nel prosieguo del lavoro (ad esempio, infra, Cap. 3). 94 Obblighi di trasparenza a tutela dei consumatori sono previsti sia nel mercato delle comunicazioni elettroniche sia in quelli energetici, dalle leggi istitutive delle due autorità di regolazione (l. 481/1995 per l’Aeegsi e, ora, nel codice delle comunicazioni elettroniche per l’AGcom) e sono dettagliati da queste ultime in una corposa serie di delibere, di cui si darà conto nel Cap. 3.
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tutele riconosciute nel settore energetico, graduate in funzione dei diversi livelli di asimmetria contrattuale e vulnerabilità del consumatoreutente, cui corrisponde anche una diversificazione in punto di obblighi informativi95.
1.5. Un caso (quasi) a sé: l’informazione ambientale e la trasparenza amministrativa. Del buon cittadino Proprio la duttilità della disclosure regulation, ne fa uno strumento tanto evanescente quanto “ecumenico”96, perché la si prescrive in vista del perseguimento dei più diversi fini. Non solo dunque attenuare l’asimmetria informativa nelle relazioni bilaterali tra imprese e consumatori o investitori, ma anche promuovere obiettivi quali il controllo sociale contro la maladministration e la corruzione pubblica, la partecipazione ai processi decisionali pubblici e financo la tutela dell’ambiente. Precisamente quella ambientale è il primo esempio in Italia di informazione resa accessibile a tutta la popolazione, a prescindere dalla sussistenza di specifici interessi97; accesso qualificato come diritto sog95
A livello europeo cfr. Comunicazione della Commissione, Verso una Carta europea dei diritti dei consumatori di energia, COM (2007) 386 def. (in partic. §4, lett. e) e gli artt. 3 delle Dirr. 2009/72/CE e 2009/73/CE, rispettivamente, sul mercato interno dell’elettricità e del gas. A livello nazionale, cfr. Aeegsi, delib. ARG/com 104/10 dell’8.9.2010, Codice di condotta commerciale per la vendita di energia elettrica e del gas naturale ai clienti finali, su cui M.R. MAUGERI, Effetto conformativo delle decisioni delle autorità indipendenti nei rapporti tra privati, in AA.VV. Tutela dei diritti e sistema ordinamentale, Napoli, ESI, 2012, p. 299-314; C. SOLINAS, Autonomia privata ed eteronomia nel servizio di fornitura di energia elettrica. Forme e strumenti della regolazione del mercato, in Contr. e impr., 2010, p. 1368-1410; C. SOLINAS, La tutela del consumatore nei contratti di fornitura di energia elettrica, in Contr. e impr., 2/2015, p. 435-460; M. MAUGERI, Elementi di criticità nell’equiparazione, da parte dell’Aeegsi, dei «prosumer» ai «consumatori» e ai «clienti finali», in Nuove leggi civ. comm., II, 2015, p. 406410, su cui diffusamente, infra Parte Seconda. 96 C. BUSCH, The Future of Pre-contractual Information Duties: From Behavioural Insights to Big Data, in C. Twigg-Flesner (a cura di) Research Handbook on EU Consumer and Contract Law, Cheltenham, Edward Elgar Publ., 2016, p. 221-240, ad p. 221. 97 Cfr. l’art. 14 della legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente, che ben prima della Direttiva 90/133/CEE (recepita in Italia con d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 39 recante Attuazione direttiva 90/313/CEE concernente la libertà di accesso alle informazioni in materia di ambiente, in G.U. 54 del 6.3.1997, S.O.
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gettivo, a fronte del quale la pubblica amministrazione è non solo obbligata ad elaborare le notizie e comunicarle al richiedente l’accesso98; ma è altresì tenuta a renderle disponibili in formato elettronico ed ag-
48) riconosceva a “qualsiasi cittadino [il] diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente disponibili [..] presso gli uffici della pubblica amministrazione, e [di] ottenere copia”. Con l’art. 3 della Direttiva 2003/4/CE del 28.1.2003 concernente l’accesso del pubblico all'informazione ambientale, che abroga la direttiva 90/313/CEE del Consiglio, recepita in Italia con il dl.lgs. 19 agosto 2005, n. 195 recante Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, in G.U. del 23.9.2005, n. 222, l’accesso all’informazione ambientale viene proclamato come “libertà” e la legittimazione diviene diffusa, sul presupposto che ad una maggiore circolazione delle informazioni si colleghi una migliore possibilità di controllo, una più efficace partecipazione ai processi decisionali pubblici e, in ultima istanza, una maggiore tutela dell’ambiente (cons. 1, Dir.). La Direttiva in parola non si limita ad allargare la legittimazione attiva all’accesso, ma estende anche l’oggetto dello stesso: non più solo gli atti e documenti in possesso delle amministrazioni, dunque, ma qualsiasi informazione relativa all’ambiente, comprensiva di attività informali (cfr. ad esempio, Corte di Giustizia, sez. VI, sent. 17 giugno 1998, causa n. 321/96). Su questi temi: L. DI GIOVANNI, Il diritto di accesso in materia ambientale tra normativa nazionale e sovranazionale, in Il diritto dell’economia, 3/2015, p. 667-713; M. CIAMMOLA, Il diritto di accesso all’informazione ambientale: dalla legge istitutiva del Ministero dell’ambiente al d.lg. n. 195/2005, in Foro amm. (Cons. St.), 2/2007, p. 657-717; R. MONTANARO, L’ambiente e i nuovi istituti della partecipazione, in A. Crosetti e F. Fracchia (a cura di) Procedimento amministrativo e partecipazione, Milano, Giuffrè, 2002, p. 107-132; B. DELFINO, Il diritto di accesso alle informazioni ambientali, in Ragiusan, 1999, n. 183/184, p. 114-127; A.L. DE CESARIS, Informazione ambientale e accesso ai documenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, p. 851-861; S. LABRIOLA, Diritto di accesso alla informazione del cittadino e doveri della p.a. nella legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, vol. II, p. 261-274; F. FRANZOSO, Il diritto di accesso alle informazioni ambientali, in Riv. giur. amb., 2004, p. 631-641; C. BOVINO, Diritto di accesso del pubblico all’eco-informazione: il nuovo modello di governance ambientale del d.lgs. n. 195/2005, in Amb. e svil., 2006, p. 329-340. 98 Cfr. ex multis TAR Genova, sez. I, sent. n. 1870 del 27.10.2007; TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. n. 2466 del 21.5.2009; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, sent. n. 2229, del 19.11.2009, in relazione alla richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale: «ai fini dell’accesso agli atti in materia di tutela ambientale - non solo non è necessaria la puntuale indicazione degli atti richiesti, ma è sufficiente una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto per costituire in capo all’amministrazione l’obbligo di acquisire tutte le notizie relative allo stato della conservazione e della salubrità dei luoghi interessati dall’istanza, ad elaborarle e a comunicarle al richiedente».
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giornarle in apposita sezione dei propri siti Internet, denominata “informazioni ambientali”99. Ma l’esempio più rilevante è rappresentato dagli obblighi di trasparenza amministrativa, dettati dalla disciplina anticorruzione e dal codice sulla trasparenza e dettagliati dall’Anac100. Per come è strutturata la disciplina della trasparenza nel nostro ordinamento, pur nel regime riformato da ultimo ad opera della cd. Legge Madia n. 124/2015101 e dal d.lgs. che vi dà attuazione n. 97/2016102, la trasparenza – oltre che principio dell’azione dell’amministrazione – è pensata come strumento indiretto di controllo diffuso dell’operato della p.a. (c.d. controllo sociale)103, attendendosi dal “buon” cittadino un’azione latu sensu di vi99
Cfr. art. 3-sexies, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (codice dell’ambiente) e art. 40, co. 2 d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33. Si rammenti che l’art. 3-sexies del codice dell’ambiente è stato introdotto nel nostro ordinamento in attuazione della Convenzione dell’UNECE (United Nations Economic Commission for Europe, un organismo delle Nazioni Unite per l’integrazione economica fondato nel 1947) sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (cd. Convenzione di Aarhus), firmata il 25 giugno 1998 dall’Unione Europea e ratificata dall’Italia con la legge 16 marzo 2001, n. 108. 100 Cfr. legge-delega 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge anti-corruzione) e d.lgs. 33/2013 cit. 101 Cfr. l. 7 agosto 2015, n. 124, recante Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, in G.U. n. 187 del 13.8.2015. 102 Cfr. d.lgs. 25 maggio 2016 n. 97 recante “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, in G.U. n.132 dell’8.6.2016, su cui: E. CARLONI, Il nuovo diritto di accesso generalizzato e la persistente centralità degli obblighi di pubblicazione, in corso di pubblicazione (2017). M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, cit.; D.-U. GALETTA, Accesso civico e trasparenza della Pubblica Amministrazione alla luce delle (previste) modifiche alle disposizioni del Decreto Legislativo n. 33/2013, in federalismi.it, 2.3.2016; V. AZZOLINI, Il Consiglio di Stato e gli strumenti di better regulation. Il caso del parere sul decreto trasparenza, in osservatorioair.it, 2016, E. CARLONI, Se questo è un FOIA, in Astrid Rassegna, 4/2016; A. PATRONI GRIFFI, Il fondamento costituzionale della legislazione in tema di trasparenza e di lotta alla corruzione: alcune riflessioni, in Forum di Quad. cost., 29.3.2016; B. PONTI (a cura di) Nuova trasparenza amministrativa e libertà di accesso alle informazioni, Rimini, Maggioli, 2016; S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in Federalismi.it, n. 23/2016. 103 Sulla pubblicità come controllo democratico dell’azione pubblica cfr. A. POLICE, La predeterminazione delle decisioni amministrative, cit. p. 178; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. Dir., Agg. IV, Milano, Giuf-
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gilanza, prodromica alla segnalazione dell’atto di corruttela o del più evanescente e fastidioso agire in maladministration104. Nell’intreccio con la disciplina dell’accesso agli atti105, poi, il nuovo corso della trasparenza amministrativa improntata, ma non identica 106, ai regimi di FOIA (Freedom of Information Act)107, è altresì tesa a migliorare la partecipazione – e dunque ad assicurare anche la legittimazione democratica – alle istituzioni (si pensi alle iniziative di open government), oltre che ai procedimenti amministrativi108, inclusi quelli frè, 2000. 104 Cfr. M. BOMBARDELLI, Fra sospetto e partecipazione: la duplice declinazione del principio di trasparenza, in Istit. del federal., 3-4/2013, p. 657-685, ad p. 658, dove l’accessibilità alle informazioni è pensata per favorire “forme diffuse di controllo”; al cittadino è così rimesso il compito di «vigilare per cogliere le eventuali disfunzioni, affinchè non si verifichino casi di cattiva amministrazione o di abuso». 105 Ove, già per effetto dell’introduzione, nella legge 241/1990, del diritto di accesso agli atti del procedimento e di presentare memorie scritte e documenti, si salda il collegamento tra trasparenza e partecipazione: M. D’ALBERTI, La 'visione' e la ‘voce': le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2000, p. 1-34. Più tardiva, e comunque non completa, la saldatura con riguardo all’accesso eso-procedimentale (i.e. non collegato alla presenza di un procedimento pendente) ex artt. 20 e ss. Dapprima ammesso nei limiti dell’accesso civico, quindi come rimedio (o enforcement) all’inadempimento degli obblighi di pubblicazione normativamente previsti, e infine con la l. 124/2015 ed il d.lgs. n. 97/2016 che vi dà attuazione, l’accesso (non più ai soli dati e documenti, ma) alle informazioni “ulteriori”, diviene generalizzato (E. CARLONI, Il nuovo diritto di accesso, cit.), mentre il “vecchio” accesso civico resta in vigore nella sua veste di rimedio al mancato assolvimento degli obblighi di pubblicazione obbligatori da parte delle pp.aa. L’accesso documentale ex art. 22, come ben chiarito da D.-U. GALETTA, Accesso civico e trasparenza, cit., p. 15-16, tuttavia, non scompare, restando ipotesi residuale per i titolari di posizioni differenziate, nei limiti – meno stringenti rispetto a quelli del nuovo accesso civico – previsti dall’art. 24 l. 241/1990. 106 Per una rassegna dei quali si v. M. SAVINO, The Right to Open Public Administrations in Europe: Emerging Legal Standards, Paris, OECD-Sigma, 2010 (http://dx.doi.org/10.1787/5km4g0zfqt27-en). 107 Ci si riferisce ai regimi giuridici che in altri ordinamenti prima del nostro hanno previsto il diritto in capo ai cittadini «a conoscere le informazioni in possesso alle pp.aa. come espressione di una libertà fondamentale». Simili diritti sono stati riconosciuti anzitutto «negli ordinamenti scandinavi [quindi], in quelli anglo-americani»: così M. SAVINO, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, cit., ad p. 795. 108 Nell’impianto ridisegnato dal d.lgs. 97/2016 il “nuovo” accesso civico generalizzato (ossia non collegato ad un interesse specifico) ha di mira la realizzazione «della partecipazione democratica e del controllo sociale», mentre l’accesso ai documenti amministrativi presuppone «il divieto di controllo generalizzato e [richiede di] essere “interessato”»: E. CARLONI, Il nuovo diritto di accesso, cit.
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di regolazione 109 (vengono qui alla mente le iniziative di better e smarter regulation110).
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In tema di partecipazione dei cittadini ai procedimenti amministrativi come viatico per il miglioramento della qualità della regolazione si v.: E.J. BALLEISEN e D.A. MOSS, Introduction, in E.J. Balleisen e D.A. Moss (a cura di) Government and Markets: Toward a New Theory of Regulation, New York, Cambridge University Press, 2009; K. YEUNG, Government by Publicity Management: Sunlight or Spin?, in Public Law, 2005, p. 360-383; K. YEUNG, Regulating Government Communications, in 65 Cambridge L. J., 2006, p. 53-91; C. HOOD e H. MARGETTS, The Tools of Government in the Digital Age, Londra, Palgrave Macmillan, 2007. 110 Sulla better regulation si v. l’ottimo Dossier del Servizio per la qualità degli atti normativi del Senato: L. TAFANI, Better regulation for better results. Momenti, soggetti e obiettivi delle politiche europee per la qualità della regolamentazione, 2015 (in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00921083.pdf), che ripercorre tutte le tappe dell’affermarsi dei principi della buona regolazione a livello internazionale ed europeo. Su questi temi si v. altresì: C.M. RADAELLI e A.C.M. MEUWESE, Better Regulation in Europe: Between Public Management and Regulatory Reform, in 87 Publ. Adm., 3/2009, p. 639–654; N. RANGONE, The Quality of Regulation. The Myth and Reality of Good Regulation Tools, in 4 Ital. J. of Public Law, 1/2012, p. 1-30; M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI e N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 42 ss.; G. VESPERINI, I costi della disciplina europea sull’economia britannica e le tecniche di better regulation, in Riv. trim. dir. pub., 2014, p. 263-264; F. GIGLIONI, Regole migliori producono risultati migliori? La sfida della nuova “agenda” europea sulla better regulation, in. Giorn. dir. amm., 5/2015, p. 597-604.
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CAPITOLO 2 RATIO E OBBIETTIVI DELL’OGGI (E DEL DOMANI): DELLE DIVERSE INTERPRETAZIONI RIMEDIALI RISPETTO ALL’ASIMMETRIA INFORMATIVA
La ratio dell’intervento di disclosure regulation è noto ed è di natura “rimediale”: nelle relazioni bilaterali tale natura111 si coglie nel fatto che l’obbligo informativo è pensato per fornire al contraente debole112 informazioni necessarie ad analizzare criticamente le proprie scelte e dunque decidere in maniera ottimale. E si basa su un assunto quantomai plausibile: quando si tratta di assumere decisioni in ambiti complessi, avere più informazioni è meglio che averne meno. Cioè, più informazioni rafforzano l’autonomia perché aiutano l’individuo ad assumere decisioni migliori, dove “migliori” è presto reso sinonimo di “razionali”113, ossia volte alla massimizzazione del proprio interesse114:
111 Cfr. A. DI MAJO, La responsabilità civile nella prospettiva dei rimedi: la funzione deterrente, in Eur. dir. priv., 2008, 278-314, ad p. 299; S. MAZZAMUTO, La nozione di rimedio nel diritto continentale, in Eur. dir. priv., 2007, p. 585-598; G. GRISI, Gli obblighi informativi quali rimedio dei fallimenti cognitivi, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, Roma, Roma Tre-press, 2014, p. 58-73, ad p. 63. 112 L’assunto è unanimemente condiviso in dottrina. Si v., ad esempio, R. SENIGAGLIA, Informazione contrattuale nella net economy e trasparenza del mercato, in Eur. dir. priv., 2002, p. 229-266, secondo cui l’informazione nella fase precontrattuale serve a riequilibrare le disparità contrattuali restituendo “forza economica” alla parte debole. 113 Secondo A. GENTILI, Informazione contrattuale e regole dello scambio, in Riv. dir. priv., 2004, p. 555-578, ad p. 555 essa è condizione per l’esercizio di una autonomia privata razionale: l’utilità marginale divisata dai contraenti interessati all’affare in tanto può realizzarsi in quanto supportata da idonea informazione. Anche secondo G. VETTORI, Le asimmetrie informative, cit., p. 241 l’informazione è presupposto di un esercizio “razionale” dell’autonomia privata; similmente per G. GRISI, Gli obblighi informativi quali rimedio dei fallimenti cognitivi, cit., p. 62: «l’informazione (...) – inutile dirlo – (...) è presupposto indispensabile di ogni decisione che aspiri ad essere razionale». Per Grundmann «L’interessato si presta ad essere sufficientemente informato quando è in grado di tradurre l’informazione fornitagli in scelte razionali, tali da massimizzare il profitto» (enfasi aggiunta): GRUNDMANN, L’autonomia privata nel mercato interno, cit., ad p. 288.
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«l’informazione assurge a presupposto necessario ed indefettibile del corretto e razionale esercizio dell’autonomia privata»115. Non potendo – per deficit strutturale – negoziare molte condizioni contrattuali, l’informazione restituisce alla parte debole almeno il “controllo”116 su di esse117; così, l’obbligo informativo diviene tecnica di tutela anticipata e diffusa idonea a prevenire l’insorgere di disfunzioni118. Ciò spiega come mai nella gran parte dei casi gli obblighi informativi menzionati incidano nella fase pre-contrattuale119: il paradigma in114
Sul concetto di razionalità della scelta nell’ipotesi metodologica della teoria economica neoclassica, il riferimento d’obbligo è al contributo di K.J. ARROW, Scelte sociali e valori individuali, Milano, Etas, 2003, dai più considerato riconducibile all’individualismo metodologico di F.A. VON HAYEK, Individualismo: quello vero e quello falso, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997. L’assunto di fondo – l’ipotesi metodologica, appunto – è che le preferenze dei consumatori siano date ed esogene rispetto alla teoria che spiega il comportamento individuale (razionalità). 115 Così F. RENDE, Le regole d’informazione, cit., p. 190 (enfasi aggiunta). Ascrivono agli obblighi informativi altresì il ruolo di presidi normativi volti alla predisposizione (e conformazione ex ante) di regolamenti contrattuali efficienti: A. GENTILI, Invalidità e regole dello scambio, in S. Pagliantini (a cura di) Le forme della nullità, Torino, Giappichelli, 2009, p. 217-280, ad p. 269; R. DI RAIMO, Linee evolutive dei procedimenti di formazione dei contratti (dal codice civile alla legislazione di derivazione comunitaria), in P. Perlingieri e F. Caterini (a cura di) Il diritto dei consumi, Rende-Napoli, ESI, 2004, vol. I, p. 119-144, ad p. 134 ss.; V. SCALISI, Contratto e regolamento nel piano d’azione delle nullità di protezione, in Riv. dir. civ., 5/2005, I, p. 459-488, ad p. 471. 116 Cfr. E. GABRIELLI, Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato: i contraenti, in Giust. civ., 5/2005, p. 183-199, ad p. 194 il quale individua la ratio della disciplina a tutela del consumatore, tra cui rientrano gli obblighi informativi, nella incapacità «di una parte debole in quanto non in grado di influire sul contenuto del contratto, predisposto dal professionista, o (più correttamente) perché la parte non è competente, ma (...) “profana” rispetto all’atto che compie, nei confronti di una controparte, il professionista; il quale, al contrario, pone ordinariamente in essere quell’atto, perché esso costituisce diretta espressione della propria attività d’impresa, e deve pertanto presumersi più competente ed informata della prima». 117 A ciò sono preposte le cautele in fatto di “qualità” dell’informazione resa: gli obblighi informativi sempre recano una disciplina specifica su come il contenuto deve essere trasmesso. Su questi specifici aspetti cfr. A.M. GAMBINO e A. STAZI (a cura di) Diritto dell’informatica e della comunicazione, ad p. 138; A. JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività, cit., p. 76; A.M. GAMBINO (a cura di) Rimedi e tecniche di protezione del consumatore, Torino, Giappichelli, 2011. 118 L. ROSSI CARLEO, Il diritto all’informazione: dalla conoscibilità al documento informativo, cit., p. 350. 119 Come ricordato da G. GRISI, Gli obblighi informativi quali rimedio dei fallimenti cognitivi, cit., p. 66 anche l’art. 1337 cc (obbligo di buona fede nelle trattative) è
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formativo pre-contrattuale informa, infatti, la Direttiva consumatori120, così come gli obblighi in materia finanziaria121 e delle utilities122. Ma anche al di fuori della relazione bilaterale contrattuale, l’assunto rimediale, del riallineamento della condizione di deficit informativo, resta valido. Ciò si spiega in ragione dell’innesto nella disciplina degli obblighi in parola di un fascio di interessi anche pubblici: quelli che sino ad ora abbiamo definito “proiezioni” esterne. La presenza di siffatti interessi super-individuali nell’obbligo informativo sono ciò che consente di cogliere, pur nella molteplicità di forme, la necessarietà dell’intervento pubblico che prende il nome di disclosure regulation. Di tale carattere è consapevole la dottrina economica che nel trattare il problema dell’asimmetria informativa nei rapporti principaleagente, non fatica ad assimilare soggetti aventi natura privata come pubblica. Tant’è, ad esempio, che gli studi e i modelli economici elaborati per misurarne l’impatto, si applicano indistintamente ai rapporti tra gestori di fondi di investimento ed investitori, così come alle relazioni tra governi e amministrazioni, ovvero tra regolatori e regolati. Basti citare il noto (e, per quanto il parametro possa avere rilievo per un lettore di formazione giuridica, citatissimo) saggio “The wrong kind of transparency”, in cui si elabora un complesso modello economico partendo dalla comparazione dei rapporti di principale-agente in settori affatto vicini, quali: «delegated portfolio management, corporate governance, and politics»123. In proposito si ritiene che in ciascuno di essi viga l’assunto, dall’autore ritenuto indimostrato, eppure largamente condiviso, che maggiore trasparenza equivalga a migliore accountability dell’agente (ossia del soggetto delegato). oggetto di una rilettura «non contrattocentrica tesa ad esaltarne le potenzialità applicative ben al di là del recesso ingiustificato dalle trattative»; e tali sono proprio il fatto di configurare «la violazione degli obblighi di informazione [come fonte di] responsabilità anche quando essi non riguardino l’invalidità del contratto, cioè al di là di quanto previsto dall’art. 1338 cc»: così C. CASTRONOVO, Vaga culpa in contrahendo: invalidità responsabilità e la ricerca della chance perduta, in Europa e dir. priv., 2010, p. 1-48, ad p. 26. 120 Cfr. Cons. 34 e artt. 5 e 6 Dir. 2011/83/EU, ma anche l’art. 10 della Dir. 2000/31/CE sul commercio elettronico, su cui anche le considerazioni di A.-L. SIBONY e G. HELLERINGER, op. cit., p. 223. 121 Su cui diffusamente infra, Cap. 3, para. 1.2. 122 Su cui infra, Cap. 3, para. 1.3. 123 A. PRAT, The wrong kind of transparency, cit., p. 862.
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L’osservazione, invero, è colta anche dalla dottrina italiana, la quale, suggerisce di leggere il rapporto tra potere politico e amministrazione in termini di delega e, quindi, di agenzia, evidenziando le possibili deviazioni che possono derivare dal fatto che «il comportamento burocratico si svolge nell’ambito di un rapporto di monopolio bilaterale tra il singolo ufficio pubblico e lo Stato (o altro livello di governo)»124. Tra i rimedi idonei a «ridurre l’intermediazione pubblica di decisioni private», specie quando questa sia affidata a decisioni «ampiamente discrezionali e si svolga in contesti scarsamente trasparenti», si indica anche la trasparenza amministrativa e gli obblighi di pubblicità125.
2.1. Le asimmetrie informative come causa legittimante l’intervento della disclosure regulation A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la letteratura economica ha elaborato la nozione di asimmetria informativa come causa di fallimento del mercato, legittimante l’intervento “rimediale” della regolazione pubblica. Prendendo le mosse dal noto saggio sul mercato dei “limoni” di Akerlof126 e dai lavori di Stiglitz, Spence127 – insigniti
124 G. NAPOLITANO, La logica del diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 42-45, il quale, riprendendo la letteratura politologica ed economica, individua tre patologie associate al rapporto di agenzia pubblico: (i) l’agency drift, ovvero l’ufficio o il singolo funzionario sfruttano l’asimmetria informativa di cui godono per massimizzare il proprio benessere piuttosto che dare attuazione alla legge (sono possibili anche policy drift, in cui è il principal ad imporre deviazioni di policy per esautorare l’agent); (ii) la cattura, ove l’agente favorisce interessi privati nel dare attuazione alla legge; (iii) la corruzione. 125 Unitamente a «la privatizzazione delle imprese pubbliche, alla riduzione dei programmi discrezionali di governo dell’economia, alla trasformazione dei meccanismi di incentivazione nel pubblico impiego, all’assegnazione trasparente dei lavori pubblici (...) alla legge anti-corruzione»: G. NAPOLITANO, La logica del diritto amministrativo, cit., p. 44. 126 G.A. AKERLOF, The Market for “Lemons”, cit. 127 J.E. STIGLITZ, Information and the Change in the Paradigm of Economics, Prize Lecture, 8.12.2001 (in http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/economicsciences/laureates/2001/stiglitz-lecture.pdf); in italiano: J.E. STIGLITZ, Informazione, economia pubblica e macroeconomia, Bologna, Il Mulino, 2002.
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assieme al primo del premio Nobel per l’economia – e di Ross128, si inaugura un filone di studi noto come economia dell’informazione. Alla base del fallimento di mercato dovuto alla asimmetria informativa vi è l’idea che quando il valore sociale dell’informazione è maggiore del suo valore privato, allora essa sarà prodotta in una quantità inferiore all’ottimo sociale129. Ciò in quanto i benefici connessi alla circolazione di informazione saranno diffusi, mentre i costi (privati) per la sua produzione saranno concentrati e significativi, dimodoché nessun privato avrà incentivo a produrla, determinando il market failure. In siffatta situazione, dato il disallineamento tra gli incentivi, l’intervento pubblico con obblighi di information disclosure potrà servire a correggere il fallimento di mercato, promuovendo una distribuzione dell’informazione socialmente accettabile130. Questo genere di fallimento di mercato si riscontra tipicamente nei prodotti e servizi destinati al largo consumo, ove i produttori dispongono di un bagaglio informativo superiore rispetto ai consumatori circa le qualità dei prodotti venduti, ciò che rende questi ultimi incapaci di identificare ed acquistare i prodotti e servizi più adatti ai propri bisogni. Ma, come visto, l’asimmetria informativa connota anche i rapporti di agenzia tipici delle relazioni pubbliche o tra pubblico e privato. D’altro canto, il disallineamento degli incentivi alla diffusione di informazione, spinge i produttori a sviluppare quei beni e servizi che, mentre sono dotati degli attributi che i consumatori possono facilmente osservare, potrebbero essere privi di quelle (buone) qualità (i.e. che in ipotesi potrebbero generare un maggiore beneficio per i consumatori) che tuttavia i consumatori non sarebbero in grado di percepire immediatamente131. L’obbligo informativo, secondo Mahoney, servirebbe 128
SA. ROSS, The Economic Theory of Agency: The Principal’s Problem, in 63 Am. Econ. Rev, 2/1973, p. 134-139. 129 Idea connessa al concetto di ottimo paretiano, notoriamente criticato da G. CALABRESI, The Pointlessness of Pareto: Carrying Coase Further, in Yale Law School Faculty Scholarship Series, Paper no. 2014, 1991 (in http://digitalcommons.law.yale.edu/fss_papers/2014). 130 J.C. Jr COFFEE, Market Failure and the Economic Case For Mandatory Disclosure System, in 70 Virginia L. Rev., 4/1984, p. 717-753. 131 Ciò è all’origine dei due noti problemi di “selezione avversa” e “azzardo morale”, i quali incidono, rispettivamente, prima della conclusione dell’affare e ad affare concluso determinandone uno squilibrio tale da rendere nel lungo periodo insostenibile il funzionamento della contrattazione di mercato.
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allora a riallineare gli incentivi di produttori e consumatori, nel senso di condurre entrambi a favorire prodotti di elevata qualità132. In tale contesto il consumatore potrà avvantaggiarsi dell’informazione resa disponibile per assumere decisioni razionali: la sua libertà di scelta sarà preservata nel senso che questi sarà ora posto nella condizione di condurre un’analisi costi-benefici per realizzare la scelta che massimizzerà la sua utilità133. Se questa rappresenta la letteratura economica “standard” sulla asimmetria informativa, studi più recenti hanno aggiunto dei chiaroscuri, sollevando dubbi circa l’utilità dello strumento della disclosure regulation a rimediare a tale tipologia di fallimento di mercato in ogni luogo ed in ogni forma essa si presenti. V’è infatti chi ritiene che talvolta essa possa essere superflua134, ove non addirittura dannosa, in quanto suscettibile di aggravare il problema135. Bardach e Kagan136 evidenziano come la difficoltà di assimilare informazioni tecniche, comporti che le disclosure che obbligano la resa di grosse moli informative divengano controproducenti137. Non va sottaciuto, altresì, che
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P.G. MAHONEY, Mandatory Disclosure as a Solution to Agency Problems, in 62 Univ. of Chicago L. Rev., 3/1995, p. 1047-1112. 133 S. BREYER, Regulation and its Reform, Harvard University Press, 1982, p. 162, e lo sarà assai più e meglio dello Stato o di qualsiasi altra istituzione pubblica. 134 Si veda in tal senso il saggio di F.H. EASTERBROOK e D.R. FISCHER, Mandatory disclosure and the protection of investor, in 70 Virginia L. Rev., 4/1984, p. 669-775. In generale, la quantità e qualità dell’informazione trasmessa determinano la misura dell’effettivo superamento dell’asimmetria informativa di cui soffre il consumatore. Anche il modo in cui l’informazione viene comunicata è determinante a tali fini (si pensi alla durata, ma anche alla veridicità o all’aggiornamento o alla reliability, alla utilità e consistenza dei dati in concreto trasmessi, ecc.). Inoltre, i beni e i servizi si distinguono notoriamente in “search”, “esperience” e “credence”, a seconda che le loro qualità possano essere apprezzate prima, subito dopo o solo molto tempo dopo l’acquisto. Ciò ovviamente muta notevolmente il modo in cui la disclosure delle informazioni deve essere costruita per poter validamente sopperire all’asimmetria informativa. 135 A. PRAT, The Wrong Kind of Transparency, cit. In generale La natura di search good o di experience good . 136 E. BARDACH e R.A. KAGAN, Going by the Book: The problem of Regulatory Unreasonableness, Philadelphia, Temple University Press, 1982, p. 249-256. 137 Contra D.M. GRETHER, A. SCHWARTZ e L.L. WILDE, The Irrelevance of Information Overload: An Analysis of Search and Disclosure, in 59 South. Calif. L. Rev., 1986, p. 277-303 (in http://digitalcommons.law.yale.edu/fss_papers/1123): «(...) consumers in fact do not “overload”. Rather, when the information environment becomes
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per lo più il mercato produce un livello sufficientemente accettabile di informazione sui prodotti e i servizi, dal momento che le imprese competono oltre che sul prezzo anche sulla qualità e dunque sarà loro interesse farsi concorrenza, mediante la pubblicità, evidenziando le proprie qualità positive e quelle negative altrui. D’altra parte, tuttavia, l’argomento non va neppure sopravvalutato giacché, come dimostrato specialmente da Gabaix e Laibson138, anche in mercati fortemente competitivi le imprese possono non avere incentivi a farsi concorrenza su aspetti qualitativi per non scoraggiare la clientela, ad esempio, enfatizzando aspetti che possono creare allarme sui rischi di un determinato prodotto139. Pur con queste cautele e distinguo, la natura rimediale rispetto alla asimmetria informativa della disclosure regulation resta ben salda nella letteratura economica. E gli studi, nel frattempo allargatisi a diversi settori, ammettono l’intervento pubblico basato sull’informazione giustificandolo anche su fondamenti di tipo non immediatamente economico, ma ad esempio, paternalistico o distributivo140. Come già anticipato, si ritiene che gli obbiettivi pubblici che giustificano l’intervento regolatorio mediante gli obblighi informativi possano essere classificati in tre distinte tipologie. Il primo, che ha attratto probabilmente l’attenzione maggiore della dottrina, a giudicare dalla ricchezza di elaborazione che ha prodotto, è il tema della rilevanza “esterna”141 degli obblighi informativi che accedono al contratto, di cui si è in parte già detto, e che ambiscono al superamento very rich or the decision task becomes very complex relative to the consumer’s available time or expertise, the consumer satisfices» (p. 279). 138 Cfr. X. GABAIX e D. LAIBSON, Schrouded attributes, consumer myopia and information suppression in competitive markets, in 121 Quarterly J. Econ., 2006, p. 505540. 139 Si v. a tal riguardo G. LOEWENSTEIN, C.R. SUNSTEIN, e R. GOLMAN, Disclosure: Psychology changes everything, cit., p. 397, i quali riportano il caso di un concorrente che vende un prodotto relativamente più sicuro, come ad esempio, sigarette con minore nicotina, che potrebbe preferire non spaventare i propri consumatori con messaggi circa il minore rischio associato ai propri prodotti sul mercato. 140 Così ad esempio, A. OGUS, Regulation, cit., p. 124-125, parla di «noneconomic justifications» con riguardo ai regimi di “freedom of information” (FOIA) o di disclosure imposti alle agenzie pubbliche, la cui ratio sarebbe invece da rinvenire nel diritto di partecipazione democratica; oppure ascrive a ragioni esclusive di paternalismo (che pure critica) i regimi di disclosure relativi ai prodotti pericolosi. Su queste tesi non si conviene, v. infra nel testo. 141 Ovverosia della funzione di “riequilibrare” le posizioni contrattuali delle parti.
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dell’asimmetria informativa al fine di ripristinare l’equilibrio dei mercati concorrenziali; in secondo luogo, vi è l’obiettivo della tutela della salute e dell’ambiente; in terzo luogo, vi è il fine di favorire la trasparenza in funzione del controllo sociale (o diffuso) sull’azione della p.a. e della partecipazione dei cittadini. Lasciando per il momento da parte il primo obbiettivo, proprio in ragione della complessità delle posizioni espresse, tracceremo di seguito i contorni della ratio della disclosure regulation negli altri due casi.
2.2. La disclosure regulation finalizzata alla prevenzione della maladministration e al controllo sociale La disclosure regulation si struttura in una serie di obblighi indirizzati a soggetti pubblici di fornire informazioni – mediante pubblicazione sui propri siti web – alla generalità dei cittadini; oppure esso può assumere le forme del riconoscimento di un diritto di accesso all’informazione pubblica. Anche in questo caso non sono estranee considerazioni economiche, potendosi la trasparenza amministrativa qualificare come “bene pubblico puro”142 la cui diffusione è certo desiderabile ma non anche “spontanea” (essendo l’informazione in monopolio pubblico); così come non è estraneo il fine del riequilibrio teso al recupero di efficienza dell’azione della p.a.143 e più in generale al suo “buon andamento” (art. 97 cost.). 142
In tal senso G. NAPOLITANO, La logica del diritto amministrativo, cit., p. 231. Ovviamente, bene pubblico in senso economico, ovverosia non rivale e non escludibile, la cui produzione non avverrebbe spontaneamente da parte del mercato, anche a motivo dei problemi di free-riding. Qui, in aggiunta, l’informazione che il legislatore della trasparenza obbliga le amministrazioni a rendere pubbliche online, sono nella esclusiva disponibilità delle stesse: le pp.aa. sono cioè monopoliste; tale evenienza esclude in radice che possa esservi un “mercato” delle informazioni pubbliche, posto che, al di fuori del regime di accesso endo ed eso-procedimentale di cui alla l. 241/1990 (artt. 10, 22 ss. e 24) e dei regimi speciali di cui ad esempio, quello in materia ambientale o quello relativo ai funzionari degli EELL, ecc., nonché della disciplina sul riutilizzo delle informazioni pubbliche di origine europea, sino alla l. anticorruzione ed al d.lgs. di attuazione n. 33/2013 (il cod. della trasparenza, appunto), la regola era il “segreto”. Per questa ricostruzione, invero assai consolidata, si rinvia supra alla bibliografia citata nella nota 10. 143 Sulla relazione tra trasparenza e efficienza, efficacia e semplicità dell’azione amministrativa si v. ex multis M. BOMBARDELLI, Fra sospetto e partecipazione, cit., p. 683.
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Il dato giuridico da cui partire è oggi – i.e. dopo la l. delega 124/2015 e il d.lgs. 97/2016 di attuazione – rappresentato dall’art. 1 del codice della trasparenza (d.lgs. 33/2013), ove sono statuiti i “fini” della trasparenza. Essa, declinata come «principio generale», serve a «tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’uso delle risorse pubbliche» (art. 1, co. 1). Inoltre, essa concorre ad attuare il diritto ad una «buona amministrazione» 144 integrando «efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche» (comma 2). La disciplina della trasparenza amministrativa, per come delineata nel d.lgs. 33/2013 ante-riforma Madia145, era fortemente orientata a prevenire forme di “cattiva amministrazione” o, alla anglosassone, maladministration146, formula che individua un «complesso fenomeno di disfunzioni» amministrative147, la cui definizione legale – ancorché la
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Sul tema del “buon andamento” della p.a. si v. G. FALZONE, Il dovere di buona amministrazione, Milano, Giuffrè, 1953; M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1966; G. PASTORI, La burocrazia, Padova, Cedam, 1967, ad p. 87; G. BERTI, La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, Cedam, 1968, ad p. 59; A. ANDREANI, Il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, Cedam, 1979; sino ai più recenti, ex multis: S. STAMMATI, Il buon andamento dell’amministrazione: una rilettura e principi per un ripensamento (riattivando gli articoli 95, comma 3 e 97, comma 1, della Costituzione), in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, vol II, p. 795-850; G. D’ALESSIO, Il buon andamento dei pubblici uffici, Ancona, Clua, 1993; A. GIUFFRIDA, Il diritto ad una buona amministrazione pubblica e profili della sua giustiziabilità, Torino, Giappichelli, 2012; M.R. SPASIANO, Il principio di buon andamento, in M. Renna e F. Saitta (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, p. 117-140; A. POLICE, Principi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di) Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 3a ed., 2014, p. 199-219, ad p. 213-214; M.R. SPASIANO, Il principio del buon andamento, in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, p. 39-51. 145 Ovverosia prima che fosse introdotto nel nostro ordinamento il diritto di accesso generalizzato «di chiunque ai dati e ai documenti detenuti dalle p.a.» (art. 2, co. 1, d.lgs. 33/2013) per effetto del d.lgs. 97/2016. Tale diritto, da molti definito il “FOIA” italiano, si affianca al diritto di accesso tradizionale di cui alla disciplina del procedimento amministrativo, ed assolve la diversa ma contigua duplice funzione di partecipazione e (pure) di controllo diffuso. V. infra nel testo. 146 Per i riferimenti bibliografici completi si rinvia supra Cap. 1, nota 46. 147 Così S. CASSESE, «Maladministration» e rimedi, cit., ad p. 243.
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locuzione appaia nei testi normativi – non è dato fornirsi in positivo148. Ciò può apparire in parte paradossale; eppure, proprio dal fatto che la “cattiva amministrazione”, nei testi normativi che la menzionano, è quasi sempre abbinata al termine corruzione149, è segno che essa abbraccia una serie di comportamenti ulteriori rispetto alle condotte penalmente rilevanti. Curiosamente però, il “fenomeno” della cattiva amministrazione, pur se non definito, è percepito150 come molto diffuso151, e da taluni 148
I tentativi di definire la maladministration non sono invero mancati. Per citarne alcuni, C. HOOD., Administrative Diseases, cit., passim ne individua, ad esempio, tredici forme, tra le quali: la “overkill or diseconomy” (i risultati sono raggiunti a costi eccessivi e non necessari); la “counter productivity” (i risultati raggiunti sono contrari a quelli desiderati); la “inerzia” (l’amministrazione non risponde agli stimoli e alle richieste; “ineffectiveness” (la risposta della PA si limita a rievocare i presupposti dell’azione senza aggiungere nulla nè raggiungere alcun risultato); “tail chasing” (quanti più documenti sono prodotti dal privato, tanti più ne sono richiesti); “redtape” (procedure ritualizzate); “revolving door employees” (dipendenti pubblici che transitano dalle imprese alla PA e viceversa); “fighting yesterday’s war” (ritardi nelle risposte); “reorganization and tokenism” (cambiamenti organizzativi come risposte simboliche che lasciano la sostanza inalterata); ma anche la definizione di “conflicting objectives”; la mancanza di coordinamento. In Italia, chi si è cimentato nel difficile compito di definire in positivo la maladministration, è stato S. CASSESE, op. loc. ult. cit., il quale indica: «[..]le resistenze al cambiamento [i]l formalismo, [..]l’indifferenza [..]l’inefficienza, [..]l’ostilità verso la tecnologia, [..]l’«overstaffing», [i]l nepotismo, [..]la corruzione». G.E. CAIDEN, What Really Is, cit., p. 488, oltre a fornire una elencazione di 175 forme diverse di “beaureaupathologies”, tra cui il “gattopardismo” e la “tunnel vision”, ne propone una teorizzazione in quanto essa rappresenta non una semplice disfunzione individuale, del singolo funzionario, ma un “systematic shortcoming” delle organizzazioni amministrative. 149 Di “cattiva amministrazione” parlava invero già l’art. 226 cc., abrogato nel 1975 dalla legge di riforma del diritto di famiglia e poi trasfuso nell’attuale art. 193 cc, il quale ammette pronunzia di separazione giudiziale dei beni dei coniugi «in caso di cattiva amministrazione della comunione». Come noto, la cattiva amministrazione riferita alla p.a. è menzionata espressamente per la prima volta nella legge anticorruzione, n. 190/2012, su cui: M. CLARICH e B.G. MATTARELLA, La prevenzione della corruzione, cit., passim. 150 Notoriamente, è prassi internazionale misurare la percezione della corruzione dei pubblici uffici anzichè quantificarne l’estensione. Nel report 2015 pubblicato dalla ong Transparency International, l’Italia si classifica al 61° posto su 168 paesi, posizionandosi comunque molto al di sotto della media europea (44 pt contro 67 pt di media, dove il migliore riporta un punteggio di 91 e il peggiore di 41). 151 A. PAJNO, Discorso di insediamento a Pres. del Cons. di Stato. Inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, parla di «crisi dell’amministrazione ... [la quale] rimane spesso imbrigliata nella routine» divenendo dunque autoreferenziale (p. 6), in
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persino misurato 152 . Come ebbe a dire il primo direttore dell’Ombudsman britannico, Sir Edmund Compton: «Nessuno può definire la maladministration in termini espliciti»153. Di talché non si danno definizioni legali di cattiva amministrazione, ma al più si rinvengono degli elenchi, il più celebre dei quali è certamente il Crossman catalogue154. https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/ documents/ document/mday/mtc1/~edisp/nsiga_4033730.pdf. 152 Secondo uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista statunitense degli economisti, su 100 euro di sprechi solo 17 sarebbero dovuti a corruzione, mentre i restanti 83 sarebbero da imputarsi ad incompetenza ed inefficienza della p.a.: cfr. O. BANDIERA, T. VALLETTI e A. PRAT, Active and Passive Waste in Government Spending: Evidence from a Policy Experiment, in Am. Econ. Rev., 4, 2009, p. 1278-1308; a darne notizia è stato il quotidiano La Stampa del 18.2.2016. 153 Traduzione nostra. Cfr. Parliamentary Commissioner Act 1967 s. 5(1), istitutivo del British Parliamentary Commissioner for Administration, noto come Parliamentary Ombusdman, al quale è demandato di «valutare gli esposti dei cittadini segnalati al Parliamentary Ombudsman da un Membro del Parlamento». M. DELSIGNORE, I rimedi alternativi alla judicial review oltre manica, in Dir. proc. amm., 3/2015, p. 919-951. 154 Dal nome (Richard C.) del Leader della House of Commons ai tempi in cui l’Act fu approvato, il quale include: “bias, neglect, inattention, delay, incompetence, ineptitude, perversity, turpitude and arbitrariness and so on” (Official Report, Hansard (HC), 18.10.1966, vol. 734, Col. 51, disponibile in: http://hansard.millbanksystems.com/commons/1966/oct/18/parliamentarycommissioner-bill#column_42). Si noti che l’elenco di Crossman, meramente indicativo e non esaustivo, era null’altro che un inciso colloquiale nelle parole di Crossman. Esso non intendeva affatto essere una guida o una cartina di tornasole, quanto piuttosto una selezione di esempi affiorati alla mente sul momento (l’inciso termina con “and so on”...). Così, una decisione assunta con pre-giudizio (bias), con inettitudine o turpitudine, ovverosia in cattiva fede, può costituire maladministration al pari di un atto adottato con ritardo, incompetenza o arbitrio dal pubblico ufficiale. Secondo la High Court inglese, “Every procedural irregularity is likely to exhibit maladministration”, per cui un atto che è illegittimo per vizio di procedura può essere al tempo stesso atto di cattiva amministrazione: R v Lambeth LBC (1997) 29 HLR 28, cu cui cfr. T. HANa DYCOTT, Administrative law, Oxford, Oxford University Press, 3 ed., 2015, p. 495. Il sistema amministrativo inglese conosce anche casi che sono maladministration senza essere al tempo stesso espressione di attività illegittima, quali ad esempio, la inettitudine e il ritardo. Un ulteriore e assai più completo elenco può trovarsi in G.E. CAIDEN, What Really Is Public Maladministration?, cit., p. 492. C. HOOD, Administrative Diseases: Some Types of Dysfunctionality in Administration, in 52 Publc Adm., 1974, p. 439-454 parla di «administrative failure». Ciascun elenco, però, non solo non è tassativo, ma è altresì mutevole, nel senso che risente della percezione e della cultura della PA prevalenti nella stagione storica in cui è redatto. Ciò rende difficilmente sovrapponibili i vari cataloghi, sfuggendo da qualsiasi solida classificazione.
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La migliore definizione di maladministration è quella volutamente non-giuridica; quella che – nelle parole poco note dello stesso Crossman – affiora alla bocca del “cittadino oltraggiato” (lett. “the outraged citizen”) dinanzi all’azione amministrativa ingiusta o incompetente, anche ove non si abbia a soffrire alcuna perdita concreta o danno in senso giuridico: «[è] semplicemente il buon cittadino che non ha nulla da perdere e che desidera “ripulire” il senso di oltraggio e indignazione dinanzi a ciò che ritiene essere maladministration»155. Questa tradizione di non definire la cattiva amministrazione è penetrata nell’ordinamento europeo, ove l’art. 228 Tfue156, che istituisce il Mediatore europeo, parla genericamente di «casi di cattiva amministrazione nell’attività delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione», senza tuttavia definirli, ed è giunta telle quelle nel nostro ordinamento. Cionondimeno, il diritto europeo ci indica la strada – che poi è quella seguita anche dalla dottrina – per definire i casi di maladministration; e tale via consiste nel “collegamento” tra la cattiva e la “buona amministrazione”: le condotte che non ottemperino ai principi e alle regole stabiliti, tra gli altri, nel Codice europeo di buona condotta amministrativa157 possono essere espressione di cattiva amministra155 Così R. Crossman in un passaggio meno noto del suo discorso di presentazione della proposta di legge istitutiva del Parliamentary Commissioner for Administration di cui si è detto (enfasi aggiunta). 156 L’art. 228 Tfue così dispone: «1. Il Parlamento europeo nomina un Mediatore, abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e riguardanti casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni o degli organi comunitari, salvo la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali». 157 Adottato dal Parlamento europeo il 6.9.2001 e più volte aggiornato sino al 2012 (disponibile in http://www.ombudsman.europa.eu/it/ resources/home.faces). Sinteticamente, il codice raggruppa: principi giuridici consolidati, regole di buona “creanza” (o di buon senso), e obblighi in senso tecnico. Sono ascrivibili al primo gruppo, ad esempio: gli artt. da 4 a 8 relativi alla legalità, l’assenza di discriminazione, la proporzionalità, l’assenza di abuso di potere; l’imparzialità e indipendenza); al secondo invece appartengono: l’obiettività, l’equità, i consigli al pubblico, la cortesia e l’uso della lingua del cittadino (artt. da 9 a 13). Infine, gli artt. da 14 a 23 prevedono obblighi giuridici in capo alle istituzioni, organi e organismi comunitari, come: la nomina del “funzionario competente” e la trasmissione allo stesso della pratica (artt. 14 e 15); il diritto di essere ascoltato, rilasciare dichiarazioni (art. 16), richiedere informazioni (art. 22) ed accedere ai documenti (art. 23); l’obbligo di adottare la decisione entro un “termine ragionevole” (art. 17); di motivare la decisione (art. 18); notificarla (art. 20) indicando le possibilità di ricorso (art. 19) e tutelare i dati personali (art. 21).
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zione e dunque costituire oggetto di denuncia al Mediatore europeo (ex art. 26 del codice di buona condotta amministrativa, in combinato con l’art. 43 della Carta di Nizza158). Dunque non basta apporre un alfa privativo dinanzi alla amministrazione buona per fare di essa cattiva amministrazione. Difatti, il “collegamento” tra buona e cattiva amministrazione definito nei Trattati UE e ripetuto nel Codice europeo di buona condotta amministrativa, se ci aiuta ad individuare i casi di attività contra legem (ove vi è diretta violazione di un obbligo giuridico), non ci dice in che modo un’attività legittima (che però palesi opacità, disfunzioni, ritardi evitabili, gestione scadente della pratica, ecc.) possa “certamente” ascriversi al novero della cattiva amministrazione: ad esempio, non ci dice se debba esservi violazione di un principio, o se questa debba essere espressa e diretta, o anche solo ipotetica, ecc. Come qualificare la «attività amministrativa poor o scorretta durante lo svolgimento del procedimento [o] nell’adozione dell’atto finale»159? O la pratica inutilmente complicata o unfriendly? Lasciamo per il momento aperti questi interrogativi, limitandoci a rammentare l’esistenza, anche nel nostro ordinamento, di un “diritto” alla buona amministrazione (art. 41, Carta di Nizza160), sul quale si tornerà nel prosieguo. Come si vedrà subito appresso nel testo, si tratta, con riguardo al primo e al terzo gruppo, di obblighi già definiti a livello nazionale e aventi rilevanza costituzionale. 158 Ai sensi dell’art. 26 del Codice di buona condotta amministrativa, infatti, «qualsiasi inadempienza da parte di un funzionario [europeo] nell’ottemperare ai principi enunciati nel presente Codice può essere oggetto di una denuncia dinanzi al Mediatore europeo conformemente all’articolo 228 del trattato sul funzionamento dell´Unione europea nonché allo Statuto del Mediatore europeo». L’art. 43 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (Carta di Nizza), riconosce a «qualsiasi cittadino dell’Unione o qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro il diritto di sottoporre al mediatore dell’Unione casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni o degli organi comunitari, salvo la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali». 159 M. DELSIGNORE, I rimedi alternativi, cit., p. 941. 160 Il quale identifica la stessa con (comma 1) la imparzialità, equità e tempestività dell’azione amministrativa comunitaria e la esemplifica (comma 2) ne: il diritto di essere ascoltati, di accedere ai documenti e di ottenere una motivazione della decisione. Come noto, la dottrina e la giurisprudenza italiana, dopo ampio e travagliato percorso, sono infine giunte a considerare sussistente ed azionabile un diritto soggettivo fondamentale alla buona amministrazione (cfr. ad esempio, Tar Milano, sez III, 11.3.2010, n. 573, in dottrina, ex multis: M.R. SPASIANO, Il principio del buon andamento, cit., p. 39-51; A. GIUFFRIDA, Il diritto ad una buona amministrazione pubblica, cit.; A. COLA-
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Venendo alla trasparenza, nell’ordinamento vigente (cioè postdecreto legislativo 97/2016), ad essa si riconducono le due richiamate finalità: la partecipazione ed il controllo diffuso sull’azione della amministrazione. Accedendo a questa bipartizione, largamente accettata in dottrina, le declinazioni della trasparenza in riferimento alla cattiva (e buona) amministrazione sono sostanzialmente due: da un lato si danno i (numerosissimi161) obblighi di pubblicazione definiti dal legislatore (artt. 13-42, d.lgs 33/2013) 162 e le informazioni liberamente pubblicate dalle amministrazioni (art. 7-bis, co. 3); dall’altro, l’accesso civico generalizzato ai dati non oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 5, co. 2)163, il cd. “FOIA italiano”164, il quale, come detto, si agVECCHIO,
L’obbligo di provvedere tempestivamente, Torino, Giappichelli, 2013, spec. ad p. 38), diritto «oramai costituzionalizzato» (D. DE PRETIS, I principi del diritto amministrativo europei, in M. Renna e F. Saitta (a cura di) Studi sui principi di diritto amministrativo, ad p. 53), cui corrispondono una serie di obblighi, e non meri doveri, in capo alla pubblica amministrazione. Questi sono, come noto, in larga misura formalizzati nella legge sul procedimento amministrativo, della quale non a caso si predica la “rilevanza costituzionale” (M. TRIMARCHI, L’art. 41 della Carta europea dei diritti fondamentali e la disciplina dell’attività amministrativa in Italia, in Dir. Amm., 2011, p. 537-568). Secondo G. PASTORI, L’amministrazione da potere a servizio, in M. SPASIANO (a cura di) Il contributo del diritto amministrativo in 150 anni di Unità di Italia, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, p. 47 ss., ad p. 57: «il diritto alla buona amministrazione rappresenta oggi in sintesi quello che si può considerare lo statuto del cittadino nei riguardi dell’amministrazione (...), fornendo un rinnovato fondamento a quanto stabilito nella legge n. 241 e nelle norme che vi hanno dato seguito». 161 Che tali restano pur dopo la “razionalizzazione” operata dal d.lgs. 97/2016: così M. SAVINO, op. ult. cit.; E. CARLONI, op. ult. cit. e ANAC, delib. n. 1310 Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016, del 28.12.2016, ove aggiunte di ulteriori obblighi di pubblicazione vengono segnalate a p. 12, 14, 19, 23 e 25 (in materia di Servizio Sanitario Nazionale). 162 Una rassegna dei quali sarà fornita infra, nel Cap. 3, para. 1.5. 163 Ai sensi del quale «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, secondo quanto previsto dall’art. 5-bis». 164 Come riportato dalla stessa ANAC, Determinaz. n. 1309 del 28.12.2016, Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013, in G.U. n. 7 del 10.1.2017: l’accesso generalizzato, in quanto non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti (e da non motivarsi) non è più solo finalizzato a «“favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, ma soprattutto, (...) [è] strumento di tutela dei diritti dei cittadini e
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giunge alle ipotesi di accesso documentale eso-procedimentale di cui agli artt. 20 ss., l. 241/1990. Quest’ultimo, a sua volta, resta in vigore come ipotesi residuale per i titolari di posizioni giuridiche differenziate, nei limiti previsti dell’art. 24, l. 241, meno stringenti di quelli applicabili al nuovo accesso civico generalizzato. Ora, il passaggio fondamentale in cui si coglie il proprium dell’intervento regolatorio della disclosure regulation consiste nell’esigenza di dover evitare di trovarsi di fronte a nuove forme di maladministration165: tenuto conto del diritto fondamentale alla “buona amministrazione”, sostanzialmente formalizzato mercé il rinvio contenuto nell’art. 1, l. 241/1990, e non a caso richiamato nel novellato art. 1, co. 1 del codice della trasparenza – “... allo scopo di tutelare i diritti fondamentali e di favorire forme diffuse di controllo” – l’accento è posto su come fare trasparenza. Nella evoluzione dottrinale e giurisprudenziale nazionale, come di promozione della partecipazione degli interessati all’attività amministrativa». Ed ancora: «Anche nell’ordinamento dell’Unione Europea, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr. art. 15 Tfue e capo V della Carta dei diritti fondamentali) il diritto di accesso non è preordinato alla tutela di una propria posizione giuridica soggettiva, quindi non richiede la prova di un interesse specifico, ma risponde ad un principio generale di trasparenza dell’azione dell’Unione ed è uno strumento di controllo democratico sull’operato dell'amministrazione europea, volto a promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile». Logica conseguenza è che: «nel novellato decreto 33/2013, il rovesciamento della precedente prospettiva che comportava l’attivazione del diritto di accesso civico solo strumentalmente all’adempimento degli obblighi di pubblicazione; ora è proprio la libertà di accedere ai dati e ai documenti, cui corrisponde una diversa versione dell’accesso civico, a divenire centrale nel nuovo sistema, in analogia agli ordinamenti aventi il Freedom of Information Act (FOIA), ove il diritto all’informazione è generalizzato e la regola è la trasparenza, mentre la riservatezza e il segreto eccezioni», da interpretarsi, pertanto, restrittivamente (pp. 5-6). 165 In termini simili, sebbene non parli esplicitamente di maladministration, E. CARLONI, Se questo è un Foia. Il diritto a conoscere tra modelli e tradimenti, in Astrid Rassegna, 4/2016, p. 5, il quale, nel commentare la bozza di dlgs sulla trasparenza, così si esprime: «A ben vedere, quello che emerge dal testo del Governo non è riconducibile, se non faticosamente, entro le coordinate delle legislazioni di freedom of information: questo testo, infatti, non radica in capo al cittadino un diritto a conoscere effettivo, esercitabile, in grado di consentirgli di “vedere” cose che prima erano destinate a restare opache». Ed ancora: «Carattere “residuale” del diritto a conoscere, opacità di default, connotano dunque un modello nel quale la regola resta il segreto, e la conoscibilità l’eccezione: con questo smentendo decisamente non solo i caratteri tipici dei sistemi Foia cui pure la riforma voleva ispirarsi, ma la stessa evoluzione complessiva del sistema italiano di trasparenza amministrativa» (p. 10).
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noto, il contenuto del buon andamento è stato connotato in senso precettivo mediante l’individuazione dei tre corollari, ovverosia le tre “e” di economicità, efficacia ed efficienza166 e con l’ulteriore e successiva riflessione che porta a quella formula efficacemente coniata di “amministrazione di risultato”167, ove il risultato, appunto, è per molti versi misurabile o perlomeno osservabile. Proprio le riflessioni sul “risultato”168, portano la dottrina e la giurisprudenza a riempire il canone del buon andamento con contenuti specifici: definendo l’oggetto delle tre “e” essa realizza l’ancoraggio dell’amministrazione nel suo agire al rispetto di standard. È dalla presenza di standard di organizzazione e di azione, definiti normativamente, che il “risultato” potrà apprezzarsi e così l’eventuale mancato raggiungimento degli obiettivi posti. Tutto questo diviene utile, se non addirittura indispensabile, per realizzare la trasparenza. Uno sforzo deve essere allora compiuto nella 166
A. MASSERA, Art. 1, Comma 1: i criteri di economicità, di efficacia ed efficienza, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2011, p. 24-82, su cui cfr. anche le belle pagine di G. GUARINO, Quale amministrazione? Il diritto amministrativo degli anni ‘80, Milano, Giuffrè, 1985 (spec. p. 112 ss.) e la voce enciclopedica di P. CALANDRA, Efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, in Enc. Giur. Treccani, vol. XII, 1966, ad vocem. 167 L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica amministrazione: dagli interessi ai beni, in Dir. Amm., 1/1999, p. 57-110. Cfr. altresì G. Corso, Il risultato della teoria dell’azione amministrativa, G. IMMORDINO e A. POLICE (a cura di) Principio di legalità e amministrazione di risultati, Atti del convegno di Palermo 2728 febbraio 2003, Torino, Giappichelli, 2004, ad p. 99, secondo cui «il risultato coincide con l’effetto giuridico» e «ciò che si intende spiegare col criterio del risultato può essere spiegato agevolmente in categorie giuridiche preesistenti e ben collaudate (discrezionalità, effetto giuridico, legittimità-illegittimità)». 168 Cfr. R. RESTA, L’onere di buona amministrazione, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano¸ Padova, Cedam, 1940, vol. II, p. 103-40, per il quale buona amministrazione è l’attività amministrativa che, tanto nel fine quanto nel mezzo, è perfettamente adeguata allo scopo specifico da raggiungere. Per A. POLICE, Principi e azione amministrativa, cit., p. 215 il buon andamento è principio «regolativo primario della funzione» che orienta l’amministrazione «nel suo concreto agire»; esso, cioè non attiene «ad un risultato finale, dovendosi intendere come il risultato presupposto per il raggiungimento delle finalità istituzionali assegnate agli uffici» (p. 217). Come rammentato da M.R. SPASIANO, Il principio del buon andamento, in M. Renna e F. Saitta (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, p. 117-140, ad p. 125-126: quella di buon andamento «è nozione di efficienza intesa quale attribuzione alla p.a. di mezzi giuridici elastici atti a consentire il miglior proporzionamento della attività erogata al fine prestabilito (...). Se la legalità costituisce il parametro dell’azione, l’efficienza ne integra il risultato».
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direzione di costruire la “buona trasparenza”. Così, per dirsi rispettosa del buon andamento e costituire attuazione del diritto alla buona amministrazione, la trasparenza deve essere organizzata ed espletata in modo “adeguato”169. La promozione della buona amministrazione e la prevenzione della cattiva amministrazione, come detto, non si equivalgono, benché entrambe richiedano azioni positive da parte dell’amministrazione. Ovverosia: l’approntamento di un’organizzazione (siti web, portali, urp, ecc.) e di un’attività (pubblicazione delle informazioni e garantire l’accesso generalizzato) per raggiungere il risultato della trasparenza (sub specie di controllo diffuso e di partecipazione). Il diritto alla buona amministrazione, di rango costituzionale e azionabile, necessita comunque della mediazione del legislatore che definisce l’obbligo in concreto (come quello di pubblicazione e quello di garantire l’accesso generalizzato a qualsiasi informazione, salvi i limiti e le esclusioni previsti dal d.lgs. 97/2016). E il diritto di accesso generalizzato è configurato come “diritto di libertà” nello Stato agli artt. 1 e 2 (e 5bis). Ma quando sorge un siffatto diritto, allora la trasparenza si trasforma in «strumento del diritto di essere informato», ovverosia: l’attività e l’organizzazione amministrative della trasparenza divengono modalità attuative del «diritto all’informazione amministrativa»170. 169
Come noto, il legislatore configura la trasparenza come livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili (ex art. 117, comma 2, lett. m) Cost.), ovverosia come prestazione che deve essere garantita con carattere di generalità a tutti gli aventi diritto (tutti i consociati), per la quale sono fissati livelli strutturali (cioè organizzativi) e qualitativi (la qualità dell’informazione) standard. Di ciò è ovviamente avveduto il legislatore del codice della trasparenza, come pure del d.lgs. 97/2016 che vi ha introdotto un intero Capo (l’I-Ter) dedicato alla “modalità per la loro realizzazione”, che costituiscono gli standard organizzativi e dell’azione amministrativa sulla trasparenza. Cfr. sul punto ANAC, Prime linee guida, cit., p. 9-10 ove si ribadisce l’importanza della qualità, tempestività, aggiornamento dei dati resi sui siti delle amministrazioni nelle sezioni “Amministrazione trasparente”. Come correttamente rilevato da C. COGLIANESE, H. KILMARTIN e E. MENDELSON, Transparency and Public Participation in the Federal Rulemaking Process: Reccommendation for the New Administration, in 77 Geo. Wash. L. Rev., 4/2009, p. 924-972, ad p. 961: «la trasparenza e la partecipazione pubblica sono gli strumenti per garantire la legittimazione procedurale e la qualità sostanziale della azione pubblica» (traduzione nostra). 170 In tal senso G. GARDINI, Il codice della trasparenza: un primo passo verso il diritto all’informazione amministrativa, in Giorn. dir. amm., 8-9, 2014, p. 875-891; C. MARZUOLI, La trasparenza come diritto civico alla pubblicità, in F. Merloni (a cura di) La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2008, p. 45-68; M. MAGRI, Diritto alla trasparenza e tutela giurisdizionale, in Istituzioni del federalismo, 2013, p. 425-451.
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Sia coloro che configurano la trasparenza come obiettivo in sé171, sia quanti (anche prima della Legge n. 124/2015 e del d.lgs 97/2016) la inquadrano come strumentale al diritto di essere informati172, convergono nel ritenere che essa debba produrre come risultato intermedio173 non solo la conoscibilità174, ma una conoscenza effettiva175 e la comprensibilità176, cui ci sentiamo di aggiungere la capacità di essere “effettivamente” comprensibile177. Come si vedrà nel prossimo Capitolo, ove si darà conto degli obblighi di pubblicazione concretamente imposti dal legislatore e di come essi siano interpretati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione nelle Prime Linee guida da questa adottate, sarà possibile apprezzare se la disclosure “in action” risponda o meno agli obiettivi avuti di mira.
2.3. La disclosure regulation per la tutela della salute e dell’ambiente: tra paternalismo e obbiettivi economici Il terzo “rationale” dell’intervento mediante la disclosure regulation ha invece come obbiettivo la tutela della salute e dell’ambiente. In tal Contra: A. PAJNO, Il principio di trasparenza alla luce delle norme anticorruzione, in Rassegna Astrid, 2013, e in Atti del 59° Convegno di Studi Amministrativi su “Politica e amministrazione della spesa pubblica: controlli, trasparenza e lotta alla corruzione”, Varenna, Giuffrè, Milano, 2014, p. 331-366. 171 F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni, cit., p. 9. 172 G. GARDINI, Il codice della trasparenza, cit., passim; A. PAJNO, Il principio di trasparenza, cit., propende per inquadrarla a un tempo come mezzo del buon andamento e fine cui tendere. 173 Come a dire che gli standard inerenti la pubblicazione (numero di informazioni che vanno mantenute aggiornate, ecc.) sono di tipo quantitativo e non consentono di raggiungere che un obiettivo intermedio; come pure intermedio è l’obiettivo della comprensibilità effettiva dell’informazione, seppure operante sul piano qualitativo. Di contro, l’obiettivo finale della trasparenza è, come più volte detto, il controllo sociale e la partecipazione. 174 V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa, in Astrid Rassegna, 2005, p. 2. 175 Op. ult. cit., pp. 5 e 11. 176 F. MANGANARO, L’evoluzione del principio di trasparenza amministrativa, in Studi in onore di R. Marrama, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, vol. I, p. 639-655. 177 Aderendo a quanto prospettato da C. COGLIANESE, H. KILMARTIN e E. MENDELSON, Transparency and Public Participation, cit., p. 935 per l’idea di rendere facile l’accesso anche materiale al contenuto delle informazioni nella fase istruttoria del processo di rulemaking.
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caso, la letteratura prospetta diversi schemi di spiegazione. Vi è chi ritiene che la ratio sia di tipo paternalistico178, e come tale non giustificabile su base economica; sarebbe questo il caso, ad esempio, dell’informazione da rendere sui pacchetti di sigarette o a quella relativa ai valori nutrizionali degli alimenti da riportare sulle etichette, o ancora ai rischi di eccessivo indebitamento nel credito al consumo. Secondo autorevole dottrina, la nuova disciplina europea del formato informativo del packaging delle sigarette non sarebbe volta «ad informare i suoi destinatari dell’esistenza e della portata dei rischi [del fumo], riservando a loro il diritto di scegliere se correrli o meno sulla base di informazioni il più possibile complete, quanto piuttosto a limitare – pur senza negarla esplicitamente – la possibilità dei cittadini dell’UE di decidere liberamente se porre in essere un comportamento che il legislatore europeo considera contrario ai loro interessi». Provocatoriamente, secondo l’Autore «quello d’instillare senso di colpa nei fumatori, di mutilare il piacere che (...) essi traggono dal fumo sembra essere l’unico interesse perseguito dalla (...) Direttiva che costring[e] i fumatori a una costante esposizione a immagini raccapriccianti di corpi e parti del corpo deformati da patologie legate al fumo». Richiamando la definizione di G. Dworkin una misura potrà dirsi di paternalismo “impuro” quando giustifica la limitazione dell’autonomia di un gruppo di individui per il perseguimento di un interesse generale; mentre sarà “puro” quando la misura limita l’autonomia di un individuo nell’interesse di questo stesso179. A tale secondo tipo di paternalismo sarebbero ascrivibili, secondo la dottrina più sopra citata, le immagini ed i messaggi shock dei pacchetti di sigarette180. 178
Così ad esempio, A. OGUS, Regulation, cit., p. 125; J. KLEINIG, Paternalism, Totowa, New Jersey, Rowman & Allanheld, 1983, spec. p. 18 ss. 179 Gerald DWORKIN, Paternalism, in 56 The Monist, 1972, p. 64–84; G. DWORKIN, voce Paternalism, in The Stanford Encyclopaedia of Philosophy, 2016, http://plato.stanford.edu/entries/paternalism/. 180 Tale sarebbe, secondo A. VANZETTI, op. cit., p. 147, la nuova disciplina del packaging delle sigarette, dal momento che essa «travalica decisamente il limite della libertà di scelta consapevole del cittadino con la violenza delle sue immagini e dei suoi messaggi verbali e con la sostanziale esclusione del regime di concorrenza nel settore. (...) [essa] rappresenta un passo (...) nella direzione dell’invasione, “per il suo bene”, degli spazi di libertà del cittadino, della sottoposizione di questo alla tutela di chi sa veramente cosa gli giova e non gli nuoce, dato che lui è incapace di distinguere il bene dal male».
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Per Ogus181 simili interventi potrebbero trovare una migliore giustificazione in termini di esternalità. Il paternalismo, secondo l’Autore, è spesso impiegato per tutelare interessi pubblici come la salute o la protezione dell’ambiente; ma interventi come i divieti di fumo nei locali pubblici, che sono imposti col fine di proteggere la salute dei non fumatori, potrebbero essere meglio giustificati in termini di riduzione dei costi sociali e sanitari legati al consumo di tabacco. Rispetto al tema del rapporto tra paternalismo e informazione, Ogus dà conto del fatto che gli individui abbiano diverse capacità di assimilare le informazioni e che, quindi, differiscano anche in termini di decisioni razionali (o “utility-maximising”) che essi possano prendere sulla base dell’informazione ricevuta. Tuttavia egli esclude che da ciò si possa arrivare a definire un intervento informativo di tipo paternalistico182. Ora, che il paternalismo sia un fondamento poco gradito in un ordinamento giuridico di stampo liberale può apparire – pur senza richiamare macabri motti di regimi liberticidi183 – comprensibile184; anche se, come si avrà modo di illustrare diffusamente nella Parte Terza di questo scritto, assistiamo oggi ad una nuova forma di paternalismo, detto “libertario”185, le cui ambizioni scientifiche ed intellettuali e i cui confini applicativi sono tuttora in via di sperimentazione. La differenza tra paternalismo tout court (o vincolante) e paternalismo libertario sta nel fatto che nel secondo è ammessa la possibilità per il soggetto regolato di scegliere una opzione diversa da quella divisata dal regolatore (cd. opt-out). Ad ogni modo, quello del “conflitto” tra paternalismo e ratio economica della disclosure regulation è un non-problema. La misura, infatti, può ben perseguire diverse finalità – come si è visto per la traspa181
A. OGUS, Regulation, cit., p. 51-52. Cioè “mirato” distintamente verso quell’individuo o gruppo di individui che mostrino capacità di scelta inadeguate. Tale opzione sarebbe «impraticabile a causa degli elevati costi di transazione. La regolazione paternalistica, per ciò, deve continuare ad essere uniforme (...) [anche] se si assume che molti individui faranno scelte non sagge» (traduzione nostra): così A. OGUS, Regulation, cit., p. 53. 183 A. VANZETTI, Fumo o ginnastica?, cit., p. 143. 184 Il punto è discusso anche in R. CATERINA, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 6/2005, p. 771-796, ove riferimenti specifici anche al tema degli obblighi informativi. Cfr. altresì D. ROSSANO, Tecniche cognitive, cit., p. 25 per riferimenti al paternalismo nell’ambito della regolazione dei contratti finanziari. 185 Sullo strumento regolatorio del paternalismo libertario o “nudge” si v. la Parte Terza, al Cap. 2, para. 2.1, sub lett. (b). 182
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renza amministrativa – e talvolta anche potenzialmente confliggenti, che dovranno trovare armonica composizione in una comparazione degli interessi concretamente coinvolti, la quale potrà essere operata o a monte dal regolatore (inteso in senso ampio) o ex post dal giudice. Nel settore alimentare, ad esempio, l’etichetta rappresenta lo strumento chiave per veicolare l’informazione, ed in essa si condensano gli obblighi informativi imposti dal diritto di origine europea e finalizzati a colmare l’asimmetria informativa del consumatore186. Tali regole informative, dunque, hanno per finalità “esterna” al singolo contratto187 sia quella di garantire la circolazione e la comparabilità dei prodotti – e quindi il funzionamento del mercato188 – sia quella di assicurare la sicurezza degli alimenti – e dunque la salute pubblica189. Accanto a questi, vi è il diritto del consumatore di prodotti alimentari ad essere informato, cui corrisponde l’obbligo il capo alle autorità pubbliche di informare i cittadini circa la presenza di rischi alimentari, 186
P. BORGHI, Oggetto e ambito di applicazione, cit., p. 12, secondo cui il combinato disposto degli artt. 168 e 169 Tfue, dedicati alla tutela della salute umana e alla protezione del consumatore, «non può non implicare conseguenze anche in termini di obblighi di informazione ai consumatori, se e nella misura in cui tali obblighi possano essere quantomeno strumentali alla (auto)tutela della salute di chi consuma il prodotto». 187 A. GERMANÒ, M.P. RAGIONIERI, E. ROOK BASILE, Diritto agroalimentare, Torino, Giappichelli, 2014, i quali precisano che: «nel programmare i suoi interventi sull’informazione al legislatore non interessa la bontà della singola operazione commerciale, né la razionalità o la giustezza di essa; piuttosto gli interessa l’effetto discorsivo sulla concorrenza che la cattiva informazione può determinare. Ma l’indifferenza della singola operazione e dell’effettivo pregiudizio individuale non significa indifferenza per gli interessi facenti capo ai consumatori visti come individui (...) Il legislatore guarda al mercato in cui si svolgono le singole contrattazioni» (p. 77). 188 Per un’interessante ricostruzione del ruolo della trasparenza nel settore agroalimentare e di come questa sia stata per lungo tempo confinata esclusivamente a garantire l’obiettivo del mercato interno, cfr. F. ALBISINNI, Transparency, crisis and innovation, cit., p. 102. 189 Su cui C. LOSAVIO, Il consumatore di alimenti nell'Unione europea e il suo diritto ad essere informato, Milano,Giuffrè, 2007; A. GERMANÒ, M.P. RAGIONIERI, E. ROOK BASILE, op. ult. cit., spec. cap. 4, p. 69-81. Secondo G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare, cit., p. 1072: «Il consumatore finale di alimenti non è (...) soltanto il contraente debole bisognoso di protezione, perché si trova in una situazione di asimmetria informativa, ma è un soggetto economico chiamato a svolgere scelte consapevoli, scartando prodotti che non garantiscono un livello di sicurezza elevato». Come a dire che la sua asimmetria informativa è rafforzata. Secondo Spoto, invece, ciò sarebbe sintomo di una auto-responsabilità del consumatore, il quale dovrebbe prestare maggior attenzione alle informazioni fornitegli.
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anche se possa non esservi compromissione della salute umana190. La ratio di siffatto obbligo viene da taluni individuata nel graduale prevalere, all’interno di una «pluralità di interessi pubblici», della tutela del consumatore di alimenti «rispetto a considerazioni d’ordine economico, quali la libera commercializzazione dei prodotti»191; mentre secondo altri essa è frutto della natura di bene pubblico (in senso economico) dell’informazione alimentare192. Invero, nel citato Reg. 1169/2011 sull’informazione alimentare, che rappresenta la fonte apicale193 – è normativa “orizzontale” cui si agganciano quelle settoriali, verticali – compaiono tutte le diverse finalità: tutela della salute, del mercato (eliminare gli ostacoli al commercio fra Stati membri) e della sicurezza dei consumatori e dell’ambiente. Questi si connotano, quanto a contenuto, per il loro bilanciamento, non per la reciproca esclusione194.
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In quanto l’alimento (nella specie, un mangime per animali) non sia adatto al consumo umano: per questa estensione: cfr. Corte di Giustizia, sez. IV, sent. del 11.4.2013, causa C-636/11, Karl Berger c. Freistaat Bayern. 191 Così M. RAMAJOLI, La giuridificazione del settore alimentare, in Dir. Amm., 4/2015, p. 657-681, ad p. 667. 192 A. GERMANÒ, M.P. RAGIONIERI, E. ROOK BASILE, op. loc. ult. cit., i quali, invero, giungono ad ipotizzare che il “sapere”, in ambito alimentare, possa configurarsi, limitatamente ad alcuni segmenti, come “bene comune”. Sui beni comuni si rinvia alle ormai classiche letture di U. MATTEI, I beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011; e i saggi raccolti in U. MATTEI, E. REVIGLIO, S. RODOTÀ (a cura di) I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Roma, Scienze e Lettere, 2010. 193 Per un commento al quale si rinvia a A. JANNARELLI, La fornitura di informazioni sugli alimenti, cit., p. 38-46. 194 Secondo M. GIROLAMI, Etichettatura, informazioni e rimedi privatistici, cit., p. 143 la ratio degli obblighi informativi di cui al Reg. 1169/2011 non sarebbe tanto quella di ovviare alla ridotta capacità contrattuale di soggetti deboli, quanto piuttosto quella di garantire il diritto assoluto ad una corretta informazione in capo a coloro che chiudano a qualunque titolo la filiera alimentare»; e ancora: «colui che consuma l’alimento non appare qui considerato tanto in relazione alla sua posizione contrattuale, più o meno debole, quanto come titolare di una situazione giuridica soggettiva con forti implicazioni pubblicistiche di tutela del mercato e della collettività tutta». Sul punto si tornerà nella Parte Terza, quando sarà affrontato il tema della proporzionalità delle misure di disclosure regulation.
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2.4. La disclosure regulation per il mantenimento di un equilibrio concorrenziale del mercato: parte debole vs parte forte Torniamo al principale interesse pubblico al cui perseguimento è funzionale l’intervento regolatorio dell’obbligo informativo, ovverosia il mantenimento di un equilibrio di mercato concorrenziale. Si è detto in vari passaggi che l’obbligo informativo ha proiezioni che trascendono la relazione bilaterale tra parte forte e parte debole. Questo innesto è stato colto dalla dottrina giusprivatistica, che in varie occasioni ha sottolineato come le disposizioni sugli obblighi informativi, anche là dove presuppongono una disparità contrattuale tra le parti, sono comunque deputate, oltre che a riequilibrare un siffatto rapporto, a rimediare ad una più ampia disfunzione di mercato195. Tale più ampia proiezione è intesa come il recupero di efficienza al mercato196, menomato dall’assenza o dalla insufficiente circolazione di informazioni. Un mercato concorrenziale intanto può funzionare in quanto vi sia informazione se non perfetta – come il modello teorico prescriverebbe – almeno adeguata197. Questa impostazione è coerente con la menzionata letteratura economica sull’asimmetria informativa legittimante l’intervento “rimediale” della disclosure regulation, ma è anche frutto di un lento e tortuoso cammino, fatto di tensioni tra spinte equitative e individualiste mai realmente sopite. Di ciò sembra trovarsi conferma se si guarda a come la dottrina civilistica è solita storicizzare la vicenda degli obblighi in195
Già G. GHIDINI, Come batterci da Consumatori, Milano, Bombiani, 1991; G. GHIDINI, Per i Consumatori, Bologna, Zanichelli, 1977; N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geodiritto, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 127: «Ciò che la parte perde in tutela del consenso, guadagna in tutela generale del mercato, che il legislatore appresta con norme imperative o con la vigilanza di “autorità” (...). La disciplina della concorrenza (...) e altre e varie misure proteggono la libertà di scelta. (...). Donde il rilievo dei problemi di informazione e di trasparenza, cioè di un conoscere e vedere (...). In breve, l’autonomia privata trova disciplina e protezione nell’ordine giuridico del mercato». (enfasi nell’originale) 196 ZOPPINI A., Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., 5/2008, I, p. 515-541. 197 G. GRISI, Informazione (obblighi di), cit., p. 607: «Le prescrizioni in materia di informazione del consumatore (...) sono la risultante della congiunta e simultanea attrazione esercitata da due poli, l’uno che rimanda al rapporto “asimmetrico” tra consumatore e professionista e all’avvertita necessità di apprestare al primo una protezione rafforzata, l’altro alla dimensione superindividuale degli interessi legati alla creazione di un mercato florido, efficiente e competitivo» (enfasi aggiunta).
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formativi, individuando almeno tre epoche198: (i) quella del pensiero liberale del XIX secolo, della irrilevanza di ogni situazione di squilibrio informativo, ove il principio del caveat emptor (opposto al “Geneivat da’at”199) costituisce la regola, specie negli ordinamenti di common law, escludendo in radice che spetti allo Stato intervenire, essendo il singolo soggetto sufficientemente in grado di tutelare i propri interessi200; (ii) una seconda fase, che prende le mosse dagli inizi del XX secolo sino all’incirca agli anni Settanta, che invece ammette la configurabilità di doveri informativi solo in presenza di espressa previsione normativa201; ed (iii) una terza fase, che prende avvio negli anni Settanta dunque in concomitanza con l’affermarsi della società dei consumi e delle teorie economiche sull’asimmetria informativa, durante la quale la dottrina giunge «ad affermare con decisione la configurabilità di doveri di informazione anche al di fuori dei casi di espressa previsione legislativa»202. La disclosure regulation ha dunque natura rimediale rispetto all’altrui ignoranza sulle qualità del bene venduto nel divieto di “Geneivat da’at”, così come degli aspetti contrattuali nell’art. 1338 cc., ovvero sulle condizioni di fornitura del servizio di telefonia, sulle qualità dell’investimento proposto nel caso del servizio di intermediazione finanziaria, e così via; in ottica “efficientista” essa ha natura rimediale rispetto all’asimmetria informativa in quanto rimedia, appunto, alla mancata produzione di informazione sul mercato, sia essa dovuta (a) alla configurazione dell’informazione come bene pubblico e/o (b) al disallineamento degli incentivi alla produzione di informazione tra le imprese203. Cronologicamente, lo snodo capitale è quindi rappresentato dall’avvio della società dei consumi di massa che (anni Cinquanta Settanta). In questo lasso di tempo la ratio dell’obbligo di disclosure 198
P. GALLO, Asimmetrie informative e doveri di informazione, cit., p. 644. Ovverosia il travisamento o la mistificazione di fonte talmudica, su cui si v. supra Cap. 1, para. 1.2. 200 M. DE POLI, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, cit., p. 72. 201 P. GALLO, op. ult. cit., p. 645. 202 P. GALLO, op. loc. ult. cit. 203 A fortiori, l’obbligo informativo ha natura rimediale quando ad imporla non sia la regolazione ex ante, ma un intervento ex post di un’autorità come ad esempio, quello dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ai sensi delle norme antitrust o del cod. del consumo per pratica commerciale scorretta. Tuttavia tali ipotesi non formano oggetto di studio di questo scritto. 199
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necessariamente muta, dacché muta la relazione nel mercato: questa si fa spersonalizzata e distante. Lo sintetizza bene Costato in riferimento al ruolo dell’etichetta dei prodotti alimentari204: «Scomparso (...) il rapporto fiduciario che legava, un tempo, il piccolo distributore-bottegaio con il cliente che spesso non pagava ma si riconosceva debitore per la scrittura del suo dare su appositi quaderni che venivano chiusi al momento degli incassi, nel caso degli agricoltori, dei raccolti annuali, oggi il rapporto fra grande distribuzione organizzata, ed ormai anche fra quella piccola, e il consumatore finisce per essere molto più anonimo, e la correttezza degli scambi viene assicurata, appunto, dalla rispondenza del prodotto a quanto dichiarato in etichetta, senza possibilità di controllo da parte sia del distributore che del compratore, trattandosi di beni preconfezionati che giungono dal produttore sugli scaffali per finire nella borsa della spesa ed essere poi consumati».
Mentre la “cristallizzazione” giuridica della figura (quasi monolitica) del consumatore si ha con Cassis de Dijon205, in cui la Corte di Giustizia lo ritrae come soggetto semplice e razionale – da cui la saldatura con il sostrato delle teorie economiche nel frattempo affermatesi – che abbisogna di protezione contro i rischi della società dei consumi, dove la protezione consiste nel binomio libertà di scelta–informazione. La costruzione del binomio ben si coniuga con un tipo di intervento regolatorio poco invasivo206 e poco paternalistico207, forte anche di una potente teoria economica, che lascia impregiudicata sia la “sovranità del
204
L. COSTATO, Protezione del consumatore tra strumenti contrattuali e norme di carattere pubblicistico, cit. p. 43-44. 205 Corte di Giustizia, sent. del 20.2.1979, causa 120/78, Rewe-Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, in Racc. 1979, p. 649. 206 Ancorché imperativo, inderogabile, o meglio, derogabile solo in melius: G. GRISI, Informazione (obblighi di), cit., p. 604; F. RENDE, Le regole d’informazione, cit. p. 196. 207 Cfr. C. CAMERER, S. ISSACHAROFF, G. LOEWENSTEIN, T. O’DONOGHUE, M. RABIN, Regulation for Conservatives: Behavioral Economics and the Case for ‘Asymmetric Paternalism’, in 151 Univ. of Penn. L. Rev., 2003, p. 1211-1254, ad p. 1232-1233; C.R. SUNSTEIN e R.H. THALER, Libertarian Paternalism is Not an Oxymoron, in 70 Univ. of Chicago Law Rev., 2003, p. 1159-1202, ad p. 1159.
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consumatore”208 sia l’egemonia della autonomia negoziale, alterando al tempo stesso il meno possibile le preferenze individuali (rectius, la razionalità) e il libero incontro di domanda e offerta. E l’obbligo informativo permette questa sintesi. Come “causticamente” sintetizzato da Hans Micklitz: «l’autonomia e la responsabilità dei singoli costituiscono il fondamento dell’illuminismo europeo»209 e l’architrave della costruzione del mercato interno210. Ed in effetti, nella fase che si va descrivendo, la regolazione europea degli obblighi informativi prolifera – è l’origine della ubiquità citata nell’Introduzione – innestandosi nel solco del riconoscimento, a livello più alto di fonte, di un “diritto all’informazione” (e all’educazione) dei consumatori «per la salvaguardia dei loro interessi», ma pur sempre nel quadro della realizzazione del mercato interno (art. 169 Tfue, già art. 129A Tratt. CE211). L’esplosione degli obblighi informativi, prescrittivi, sono alla base dell’affermarsi della nozione (e della retorica – in senso letterale) della parte debole e che vanno al di là dei soli obblighi informativi – sarebbe erroneo astrarre la vicenda della disclosure regulation europea dal più ampio contesto sociale ed economico dell’epoca (che si protrae sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso). Ciò che accade dopo – con quella che Micklitz chiama la mercatizzazione e che noi chiameremmo passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore212 – è il tramonto dello Stato sociale e il ritorno sulla scena delle teorie economiche neoclassiche con al centro il mercato e l’efficienza, il superamento dell’idea della “parte debole” e, al suo po-
208 B. LEONI, “Consumer Sovereignty” and the Law, in 1 New individualist rev., 1963, p. 16-19; M. FRIEDMAN e R. FRIEDMAN, Free to Choose: A Personal Statement, Londra, Secker & Warburg, 1980. 209 H.-W. MICKILITZ, Il consumatore: mercatizzato, frammentato, costituzionalizzato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 3/2016, p. 859-889. 210 E.M. TSCHERNER, Can Behavioral Research Advance Mandatory Law, Information Duties, Standard Terms and Withdrawal Rights?, in Austrian L. Journ., 1/2014, p. 144-155. 211 Basti solo rammentare che detto articolo fu introdotto per la prima volta col Trattato di Maastricht, quindi modificato con quello di Amsterdam ed infine con quello di Lisbona, che ce lo consegna nella veste attualmente vigente. 212 G. MAJONE, The Rise of the Regulatory State, in 17 West European Politics, 1994, p. 77-111; S. CASSESE (a cura di) La nuova costituzione economica, Roma-Bari, Laterza, 5a ed., 2012, p. 323 ss.; S. CASSESE, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, p. 607-649.
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sto, un nuovo tipo di consumatore213: attivo, partecipe e pronto ad «afferrare i benefici del mercato interno»214. I temperamenti all’imperativo del mercato imposti dalle normative adottate in risposta alla crisi finanziaria – fatta eccezione per il settore finanziario dove si registrano importanti innovazioni – non hanno alcun impatto sul sostrato ideologico che si discute. Se dunque vi è concordia sulla natura rimediale dell’obbligo informativo rispetto al fallimento di mercato della asimmetria informativa, non v’è unanimità di vedute circa l’interpretazione da darsi alla risposta, cioè all’obbligo. Volendo esprimerle per archetipi (e così renderle neutrali), vi è, all’ingrosso, la posizione più largamente diffusa al di là dell’Atlantico, ove l’obbligo è inteso come ripristino di un ordine violato e dunque, in termini efficientistici, come recupero all’agente del bagaglio informativo che gli consente di compiere scelte razionali di massimizzazione del proprio benessere215; mentre nella tradizione continentale paneuropea, di contro, l’obbligo di information disclosure si connota, secondo alcuni, dei tratti della «giustizia commutativa e distributiva», essendo diretto a «proteggere l’investitore vulnerabile e ad assicurare la corret-
213
Su questo tema si v. diffusamente infra Parte Seconda, in fine. Così espressamente la Dichiarazione di Lisbona del 2000. Secondo H. MICKLITZ, op. ult. cit., p. 886. il consumatore sarebbe sopravvalutato in quanto gli si richiede di simulare risposte di mercato. 215 Nella sua versione più ortodossa l’analisi economica del diritto considera il mercato un ordine naturale rispetto al quale l’intervento dello Stato deve limitarsi ad assicurare la cogenza degli scambi senza alterarne gli effetti. Cfr. R. POSNER, The Economics of Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 1981. Riecheggiano le posizioni di F.A. VON HAYEK, The Confusion of Language in Political Thought: With Some Suggestions for Remedying It, Londra, The Institute of Economic Affairs, 1968 (disponibile in: https://iea.org.uk/publications/research/the-confusion-of-language-inpolitical-thought), p. 6 e 15 «la struttura ordinata che il mercato produce non è un’organizzazione, ma un ordine spontaneo o cosmos » soggetto a nomoi, «che descrive una regola universale di condotta giusta che si applica ad un numero sconosciuto di futuri casi e persone, nelle circostanze oggettive descritte dalla regola, a prescindere dagli effetti che l’osservanza della regola produce in una situazione particolare. Dette regole sono generalmente descritte come “astratte” e sono indipendenti dagli scopi individuali. Esse portano alla formazione di un ordine o cosmos egualmente astratto e privo di scopo» (traduzione nostra). Di contro, la thesis in quanto prodotta deliberatamente dall’uomo, indirizzata a soggetti individuabili e preordinata a servire scopi specifici, può solo stabilire un ordine artificiale, o taxis. 214
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tezza sostanziale dei rapporti contrattuali»216. Così ad esempio, nei mercati finanziari, la trasparenza è «“chiave di volta” di una regolazione orientata al riequilibrio delle parti negoziali», nonché, sul piano sistematico, fattore centrale che «trascende [...] il momento tecnico della comunicazione (...) nella tutela dei diritti dei risparmiatori»217. E ciò al fine di «assicurare una posizione di sostanziale parità nella protezione degli interessi in gioco»218, ovverosia dei risparmiatori e degli intermediari219. Riecheggia in questa impostazione la posizione di chi ritiene che tutta la concezione della libertà contrattuale come espressione di autonomia sia stata diversamente ricostruita dalla dogmatica continentale, la quale, superata la concezione Ottocentesca «intrisa di liberismo economico, di capitalismo selvaggio, di indifferenza per tutto ciò che implicasse la considerazione dell’interesse della controparte e dell’interesse generale» 220 – lèggasi il principio del caveat emptor – ammette una “giustizia contrattuale” da attuarsi anche mediante interventi eteronomi221. Ma ben mette in risalto tale dottrina, che altro è la giustizia interna al rapporto contrattuale, che ammette il controllo sullo squilibrio delle parti, anche di natura informativa, o quello sulle clausole, ove si tratti di contratti involgenti consumatori, o ancora, sul giusto rapporto tra le 216
A. PERRONE, Servizi di investimento e regole di comportamento. dalla trasparenza alla fiducia, in Banca borsa tit. cred., 1/2015, p. 31-42, ad p. 32. 217 F. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II. (Tra aspettative degli investitori e realtà normativa), in Riv. trim. dir. econ., 2/2015, p. 72-116, ad p. 78. 218 F. CAPRIGLIONE, op. loc. ult. cit. 219 Espressamente di equità parla anche S. GRUNDMANN, L’autonomia privata nel mercato interno, cit. ad p. 278, secondo cui, quando sono «richieste specifiche conoscenze professionali, i costi di informazione per la parte professionale sono di gran lunga inferiori. La distribuzione delle informazioni è strutturalmente e necessariamente asimmetrica». Se poi «si tratta di informazioni essenziali per la conclusione di un contratto – prosegue l’A. – allora la negoziazione da sola non è garanzia sufficiente di equità e si giustifica l’intervento dello stato per il riequilibrio del rispettivo livello di informazioni in ordine ai punti essenziali dell’operazione» (enfasi aggiunta). 220 G. ALPA, Il contratto in generale. Fonti, teorie, metodi, Milano, Giuffrè, 2014, p. 390. 221 Ed infatti non v’è discussione sulla natura imperativa delle previsioni normative degli obblighi informativi. Sul punto diffusamente F. RENDE, Le regole di’informazione, cit., ad p. 196; oltre a S. GRUNDMANN, op. cit., p. 278 e V. SCALISI, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 6/2007, p. 843-857, ad p. 851.
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prestazioni, nel caso intervenga lesione: in tali casi l’intervento eteronomo, che sia per via legislativa (il c.c., l’obbligo di information disclosure del cod. cons., ecc.), per via amministrativa (la regolazione delle AAI), o giudiziaria, assicura efficienza economica nella misura in cui, viceversa, un «rapporto contrattuale ingiusto genera contenzioso (...), mentre uno giusto dà affidamento sulla regola da applicare»222. Di contro, la giustizia sociale guarda all’operazione contrattuale dal punto di vista dei risvolti collettivi e comunitari: ovverosia, come una che deve tutelare «non dunque solo la concorrenza (...) [ma] anche le categorie deboli (...) [concretandosi nella tutela] della persona, della salute, dell’ambiente e così via». Questa giustizia sociale è oggetto di una politica del diritto che, pur da più parti definita paternalistica, invero incarna il portato della “intrinseca” giustizia dell’accordo delle parti, non più «governato completamente ab externo» dallo Stato, ma “regolato”, ove la dimensione pubblicistica, in una armonica crasi, ha funzione di riequilibratura delle posizioni contrattuali, quando ad essere coinvolte siano parti deboli come i consumatori, i risparmiatori o i lavoratori223. La distinzione tra la giustizia “interna” ed “esterna” (o collettiva) al contratto dà dunque conto della rilevanza dei due limiti alla libertà contrattuale consistenti, rispettivamente, nel canone di buona fede da un lato, e nelle norme imperative (anche regolatorie), dall’altro. Nella prospettiva giuspubblicistica della regolazione, come si avrà modo di illustrare più approfonditamente nella Parte Terza, le istanze della parte debole, o anche debolissima, possono assumere rilievo in un bilanciamento di interessi che si rende esplicito nell’ambito di un procedimento regolatorio trasparente e partecipato, anche a prescindere dal riferimento ad un canone di giustizia.
222 223
G. ALPA, op. ult. cit., p. 418. G. ALPA, op. ult. cit., p. 413.
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CAPITOLO 3 LA DISCLOSURE REGULATION “TRADIZIONALE”: ALCUNI AMBITI TIPICI, GLI STRUMENTI SPECIFICI E I MODI DI FUNZIONAMENTO AFFERMATISI NELL’ESPERIENZA NAZIONALE
Si giunge ora ad illlustrare gli obblighi informativi esistenti in taluni ambiti tipici al fine di evidenziarne il modo di funzionamento, per come affermatosi nell’esperienza giuridica nazionale. Si tratta di un esercizio che non ha evidentemente scopi esaustivi ma che serve ad intendere cosa sia quella che definiamo la disclosure regulation “tradizionale” e dunque a dare volto e corpo all’intervento regolatorio di cui si discute e che oggi viene da più parti messa in discussione.
1.1. Salute e sicurezza alimentare In materia di prodotti alimentari il compito di trasmissione dell’informazione sulla sicurezza alimentare è affidato principalmente all’etichetta, apposta sul prodotto fresco o confezionato. La disciplina di quest’ultima, come anticipato, è contenuta nel Regolamento UE n. 1169/2011, che ad essa affida il compito di «rendere edotto il consumatore sulla composizione e sulla qualità di ciò che sceglie di acquistare»224. Il Regolamento è intervenuto razionalizzando e semplificando talune informazioni prima eccessivamente complesse, al fine di aumentarne la chiarezza (ad esempio, l’indicazione di “sale” al posto di “sodio”225), oltre ad averne ulteriormente specificato la dimensione del formato226. 224
M. GIROLAMI, Etichettatura, cit., p. 139. Cfr. M. ANDREJČÁKOVÁ, Beyond Labelling through Information Disclosure: Sugar Content Information within the Legislative Framework of the EU, 16.9.2015, p. 40. 226 Come evidenziato da P. BORGHI, Oggetto e ambito di applicazione, cit., p. 17 ss., il Reg. 1169/2011 fa ampio ricorso sia alla tecnica delle norme delegate (ex art. 290 § 1 Tfue) sia a quella della normazione esecutiva (ex art. 5, Reg. UE n. 182/2011), demandando alla Commissione la definizione di numerosi aspetti tecnici solo apparentemente “non essenziali” relativi all'informazione alimentare. Ad esempio, alla Com225
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Tra le informazioni obbligatorie che gli operatori del settore alimentare227 sono tenuti a fornire al consumatore in etichetta rientrano anzitutto quelle relative alla composizione e alle caratteristiche degli alimenti, alla protezione della salute e al loro utilizzo sicuro. In particolare, si tratta delle informazioni relative a: la composizione del prodotto; gli specifici elementi che potrebbero avere un effetto nocivo sulla salute, anche se solo relativamente ad alcune categorie di consumatori (ad esempio, gli intolleranti al lattosio); la durata e le condizioni della conservazione; e i rischi e le conseguenze collegate ad un consumo non consono e pericoloso dell’alimento stesso. In secondo luogo, costituiscono informazioni obbligatorie quelle relative alle caratteristiche nutrizionali, ovverosia: il valore energetico e la quantità di grassi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Tali informazioni possono essere integrate su base volontaria, a condizione di risultare, al pari di quelle obbligatorie, chiare, precise e facilmente comprensibili. In ogni caso, le informazioni alimentari non devono attribuire «al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede, e [non possono] enfatizzare caratteristiche particolari che in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono»228. Un ulteriore profilo informativo relativo alla sicurezza alimentare riguarda l’utilizzo di microrganismi geneticamente modificati, la cui indicazione in etichetta è obbligatoria se la loro presenza nei prodotti alimentari supera lo 0,9% e sempre che tale presenza sia “accidentale o tecnicamente inevitabile”. Le indicazioni sulla provenienza dell’alimento (paese d’origine, luogo di provenienza) andrebbero sempre indicate in etichetta, sebbene esse non siano obbligatorie in base all’art. 26 Reg. 1169/2011, a
missione è rimessa l'adozione di norme delegate in materia di «adempimento degli obblighi di etichettatura mediante simboli, pittogrammi e altri segni non verbali, (...) di indicazioni complementari a tutela della salute, (...) di definizione dei criteri per il posizionamento di informazioni obbligatorie su supporti diversi dall’etichetta, (...) di criteri di leggibilità, (...) di definizione di nanomateriali, ai fini di definire ulteriori casi di esenzione dall’elenco degli ingredienti, ai fini di integrare l’elenco degli allergeni (allegato II), (...) di modalità di espressione della quantità netta, (...) di indicazioni costituenti la dichiarazione nutrizionale, ecc.». 227 Ivi inclusi gli intermediari e qualunque operatore si rivolga a “collettività”, come ad esempio, scuole, ristoranti e persino veicoli ambulanti adibiti alla vendita di alimenti. 228 G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare, cit., p. 1077.
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meno che «la loro omissione possa indurre in errore il consumatore in merito alla reale provenienza dell’alimento». Occorre segnalare la recente diffusione della filosofia del “chilometro zero”, la quale aspira ad un recupero della relazione diretta tra consumatore e produttore, proprio per non “subire” la necessità d’informazione spersonalizzata tipica della produzione di massa. Il riferimento è anche alla realtà, ormai civilisticamente studiata, dei “gruppi d’acquisto solidali” o G.A.S.229. In essi si rafforza l’esigenza di conoscenza diretta e specifica dei prodotti acquistati, della loro origine e della loro qualità230: il consumatore, infatti, partecipa anche materialmente alla produzione (ad esempio, può prendere parte alla raccolta dell’ortofrutta o ritirare il prodotto direttamente dalla fattoria); concorda la qualità e le tecniche di produzione affinché siano ispirate ai dettami della sostenibilità ambientale e del consumo critico (ad esempio, di comune accordo, i membri del G.A.S. stabiliscono che non si impieghino determinati pesticidi o non si sfrutti manodopera); e verifica, mediante l’accesso diretto nell’azienda, che quanto concordato sia effettivamente realizzato. L’idea che sta alla base della creazione dei G.A.S. è esattamente quella di recuperare la conoscenza diretta di prodotti e produttori come risposta alla comunicazione commerciale del mercato di massa. Il G.A.S. esprime una forma di approvvigionamento critico e solidale alternativo al mercato tradizionale231, ma al tempo stesso esprime sfiducia nei confronti della disclosure regulation tradizionale. Dimostrereb-
229
Su cui si v. B. AGOSTINELLI, “Gruppi di acquisto solidale”: un nuovo modo di negoziare, in Riv. dir. civ., 5/2015, p. 1200-1229, ad p. 1202: «Il produttore che entra in rapporto con un G.A.S. condivide con esso la spinta ideale verso un mercato più vicino al consumatore e promuove la c.d. “filiera corta” per minimizzare l’impatto ambientale legato all’imballaggio ed al trasporto, favorendo così sia il contatto diretto tra le parti sia una conoscenza più consapevole del bene acquistato». 230 Ibid. 231 Nel G.A.S. il consumatore, lungi dall’essere “parte debole” del rapporto contrattuale, è parte attiva e promotrice di uno scambio volutamente solidale, critico e responsabile. Dove la partecipazione e la riduzione della filiera non significano riduzione dei costi e, quindi, dei prezzi: al contrario, la filosofia del consumo critico e solidale spesso comporta prezzi più elevati di quelli di mercato, proprio perché si ricorre a tecniche produttive non di massa, e dunque più costose. Inoltre, la partecipazione attiva in questo caso, a differenza che nel mercato tradizionale, è su base volontaristica e ispirata a valori solidaristici; dunque ha una motivazione che aspira ad essere più sostenibile nel medio-lungo periodo.
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be cioè che essa non è in grado di controbilanciare la «pervasiva comunicazione pubblicitaria dei marchi della grande distribuzione»232. Sotto il profilo soggettivo, se non vi sono dubbi circa il fatto che il produttore aderente al G.A.S. possa qualificarsi come professionista, qualche incertezza può sorgere con riguardo al consumatore, qualora questi partecipi con una «notevole collaborazione del G.A.S. nell’attività produttiva». In tali casi, infatti, potrebbe darsi un livellamento della asimmetria informativa tra le parti determinata dalla collaborazione produttiva, cosa che potrebbe incidere «sulla qualifica di consumatore del socio e/o sulla modulazione delle relative tutele»233. Se dunque al produttore si applicheranno gli obblighi informativi di cui al codice del consumo234, più incerta sarà l’applicazione dei medesimi al consumatore235. Infine, quanto attiene al regime per le carni, esso è stato rivisto a seguito della emergenza BSE (o morbo della “mucca pazza”): a differenza degli altri alimenti, le etichette delle carni recano la completa “tracciabilità” dell’animale236.
1.2. La disciplina dello squilibrio informativo nei mercati finanziari (know your customer, know your product e product governance) Il settore dell’intermediazione finanziaria è quello nel quale l’esperienza degli obblighi informativi è da considerarsi la più matura ed avanzata, avendo cumulato tanto il bagaglio del diritto comune, quanto quello della disciplina settoriale.
232
Così B. AGOSTINELLI, “Gruppi di acquisto solidale”, cit., p. 1210. Così B. AGOSTINELLI, op. ult. cit., p. 1214. 234 Su cui infra, para. 1.4. 235 L’ipotesi presenta punti di contatto con la figura del prosumer, che sarà analizzata nella Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.1, e con quella del “pari” che opera nelle piattaforme dell’economia collaborativa, che sarà trattata nella stessa Parte Seconda, al Cap. 3, para. 3.2 cui pertanto si rinvia. 236 Su cui cfr. F. ALBISINNI, Transparency, crisis and innovation, cit., p. 105: «the rules introduced by the 1997 Regulation, prompted by worry about the spread of a pathology whose origins were traceable to a specific territorial area and to an identified Member State, required for the first time that (i) traceability and (ii) generalised origin labeling from large area (institutes both located within transparency, in the two different areas of the food chain and of the communication to consumer) should be introduced in connection with a whole category of products (beef)». 233
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Sotto quest’ultimo profilo, merita rilevare l’evoluzione che la disclosure regulation ha subito per effetto degli interventi del diritto europeo ante e post-crisi. Come noto, l’impianto normativo europeo multi-livello237 è costellato di regole che mirano a costruire un mercato interno fair e trasparente nel quale i risparmiatori, siano adeguatamente protetti ed informati238. Quanto alla disciplina sul prospetto informativo, la quale ha come obiettivo di rendere disponibili agli investitori adeguate informazioni al fine di formulare un fondato giudizio sull’investimento proposto, essa è notoriamente rinvenibile, a livello di diritto interno, in tre corpi normativi. In primo luogo (i) rileva la sez. I, tit. II, Parte IV del Tuf, dedicata dall’offerta al pubblico di strumenti finanziari comunitari (i.e. valori mobiliari e quote di OICR chiusi) che, ai sensi dell’art. 94 Tuf, è subordinata alla pubblicazione di un prospetto d’offerta previamente approvato dalla Consob ex Reg. Emittenti. L’armonizzazione dei prospetti informativi è massima, essendone il contenuto dettagliato secondo uno standard obbligatorio fissato a livello europeo (cd. passaporto europeo) dal Regolamento CE 809/2004, integrato successivamente dai Regolamenti nn. 486 e 862 del 2012. Per cui, accanto ad un prospetto di base, gli intermediari possono fornire informazioni ulteriori, anch’esse definite dettagliatamente ed armonizzate, se ritenute utili per gli investitori. In aggiunta a queste, il prospetto – che sia fornito in un documento unico o in due documenti – deve essere accompagnato da 237
Cfr. F. CAPRIGLIONE (a cura di) Manuale di diritto bancario e finanziario, Padova, Cedam, 2015, ed ivi, in particolare, i saggi del curatore che ben ricostruiscono le fonti del settore (p. 3-35), l’evoluzione della disciplina nazionale ed europea (p. 37115) nonché la struttura e i modelli di vigilanza insistenti nell’ordinamento finanziario (p. 117-173); S. AMOROSINO, La regolazione pubblica delle banche, Padova, Cedam, 2016; D. SICLARI, European Capital Markets Union e ordinamento nazionale, in Banca borsa tit. cred., 4/2016, p. 481-505; M. LAMANDINI, La vigilanza diretta dell’Esma. Un modello per il futuro?, in Giur. comm., 4/2016, p. 448-458; L. AMMANNATI, Restructuring Global Governance of the Financial System: A Framework for Preventing. Systemic Risk, in P. Dabrowska-Klosinska (a cura di) Essays on Global Safety Governance: Challenges and Solutions, Varsavia, University of Warsaw - Oficyna Wydawnicza ASPRAJR, 2015, vol. I, p. 41-66. 238 Obblighi di informazione sono, come noto, contenuti sia nella Direttiva Prospetto (2003/71/CE), in quella sulla Trasparenza (2004/109/CE), nella UCITS IV (2009/65/CE), nel Regolamento sugli Abusi di mercato (n. 596/2014), come nel Regolamento sulle vendite allo scoperto e i CDS (n. 236/2012, art. 9, co. 4) e nella Direttiva sui gestori dei fondi di investimento alternativi – AIFMD (Dir. 2011/61/UE, art. 23).
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una nota sintetica, contenente le informazioni chiave sull’emittente e sul prodotto. In secondo luogo (ii), vi è la sez. II, tit. II, Parte IV del Tuf, dedicata all’offerta al pubblico di prodotti del risparmio gestito (i.e. quote o azioni di OICR aperti) la quale, in attuazione della citata Direttiva 2009/65/CE (UCITS IV), prevede l’obbligo di consegna agli investitori in SICAV e fondi comuni di investimento (OICVM), previa comunicazione alla Consob, di un documento contenente le informazioni fondamentali (il KIID, o key investor information document), sostitutivo del prospetto informativo completo, il quale può comunque essere fornito su richiesta dell’investitore. Le informazioni contenute nel KIID, ex art. 98-ter del Tuf, debbono essere, oltre che chiare e corrette, anche coerenti con le sezioni del prospetto e contenere informazioni sull’OICVM e sui prodotti, di modo da consentire agli investitori di comprendere la natura dei rischi al fine di assumere decisioni di investimento informate. In terzo luogo (iii), rispetto alle offerte al pubblico di prodotti finanziari assicurativi, la legge 262/2005 ha esteso l’obbligo di pubblicazione del prospetto informativo a tali prodotti, disponendo l’abrogazione dell’art. 100, lett. f) del Tuf239. Nel prosieguo ci si riferirà in particolare alla disciplina dell’informazione nella prestazione dei servizi di investimento recata dalla Direttiva MiFID I240 ed agli “aggiustamenti” introdotti dalla suc239
Occorre tenere presente che è in corso di recepimento in Italia la Direttiva UE 2016/97 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 gennaio 2016 sulla Distribuzione assicurativa (rifusione), in GUUE L-26 del 2.2.2016, p. 19 la quale, oltre a prevedere disposizioni specifiche in materia di prodotti di investimento assicurativi (artt. 26-30), detta una disciplina generale degli obblighi informativi precontrattuali a carico dell'intermediario assicurativo e delle imprese di assicurazione e riassicurazione (cui è dedicato l’intero Capo V, rubricato “obblighi di informazione e alle norme di comportamento”, spec. artt. 17-23). 240 Direttiva 2004/39/CEE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio, in GUUE L145, del 30.4.2004, p. 1 ss. su cui, oltre agli autori già citati nell’Introduzione (alla nota 83), si v. altresì: F. CAPRIGLIONE, Intermediari finanziari, investitori, mercati. Il recepimento della MiFID. Profili sistematici, Padova, Cedam, 2008, spec. p. 149 ss., il quale ricostruisce il nesso teleologico tra gli obblighi di disclosure e la trasparenza nelle relazioni di mercato; M. DE POLI (a cura di) La nuova direttiva MiFID, Padova, Cedam, 2008; R. D’APICE (a cura di) L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, Il Mulino,
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cessiva Direttiva MiFID II241, considerandone l’impianto, a livello teorico, in qualche modo paradigmatico e dunque utile per lo studio degli obblighi informativi di altri settori; oltre che su quelli derivanti dal Regolamento UE PRIIPs n. 1286/2014242 per la portata innovativa, sotto il profilo procedimentale regolatorio, che esso prospetta ai fini dell’indagine. Quanto alla prima, l’art. 19 introduce uno standard di condotta a maglie ampie, richiedendo agli Stati membri di assicurare che le imprese di investimento agiscano in maniera onesta, equa, professionalmente e nel “migliore interesse dei loro clienti” (best execution)243. Tale obbligo viene dettagliato mediante l’introduzione di una serie di obblighi regolatori specificati ai commi da 2 a 10. Gli intermediari sono 2010; A. IRACE e M. RISPOLI FARINA (a cura di) L’attuazione della Direttiva MiFID: Decreto Legislativo 17 settembre 2007, n. 164, Torino, Giappichelli, 2010. 241 Direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014 relativa ai mercati degli strumenti finanziari e che modifica la direttiva 2002/92/CE e la direttiva 2011/61/UE, in GUUE L-173, del 12.6.2014, p. 349 ss. (in vigore dal prossimo 3.1.2018), su cui: F. CAPRIGLIONE (a cura di) Manuale di diritto bancario e finanziario, cit.; V. TROIANO e R. MOTRONI (a cura di) La MiFID II, Padova, Cedam, 2016. 242 Già con la Direttiva UCITS IV (2009/65/CE), come detto, il dettaglio delle informazioni armonizzate (cioè standardizzate) e semplificate era specificato nel Reg. 583/2010/CE (direttamente applicabile) e nelle Linee guida del CESR (attualmente ESMA). Parallelamente a queste iniziative, la Commissione elaborava una proposta di Regolamento PRIIPs, poi adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio nel Reg. UE n. 1286/2014 del 26.11.2014 relativo ai documenti contenenti le informazioni chiave [o KID, Key Information Document] per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati (in GUUE L-352, del 9.12.2014, p. 1 ss.). Dal gennaio 2017 è in fase di elaborazione un Regolamento delegato della Commissione europea C(2016) 3999 fin. del 30.6.2016, che integra il citato Reg. UE 1286/2014 (disponibile su: http://ec.europa.eu/finance/finservices-retail/docs/investment_products/ 20160630-delegated_regulation_en.pdf), e che fa seguito al consumer testing eseguito dalla Commissione stessa nel 2015 (il cui report finale è disponibile in: http://ec.europa.eu/finance/finservices-retail/docs/investment_products/2015-consu mer-testing-study_en.pdf). In base a tale studio, che contiene una sostanziale parte cognitiva, e sul quale si tornerà nella Parte Terza, il Key Information Document è stato nuovamente modificato e numerose sue parti hanno formato oggetto di ulteriore armonizzazione. 243 Su cui F. CAPRIGLIONE, Dalla trasparenza alla «best execution»: il difficile percorso verso il «giusto prezzo», in Banca, borsa, tit. cred., 4/2009, p. 475-486 per il quale la trasparenza, quando riferita alle “trading vanues” (o sedi di negoziazione dei prodotti finanziari), ha il diverso e pur sempre fondamentale obiettivo di orientare un mercato finanziario che tenda al “giusto prezzo”.
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tenuti a classificare i propri clienti in distinte categorie, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso grado di tutela (standard e armonizzata) riconosciuta nel momento in cui si compie una transazione rientrante nel campo di applicazione della Direttiva244. La clientela è dunque distinta dalla disciplina MiFID in tre categorie in ragione del diverso grado di “preparazione” finanziaria: così l’investitore potrà classificarsi come “al dettaglio” (o retail), professionale o come “controparte qualificata”. Ciò che rende unica la disclosure regulation finanziaria rispetto ad altri ambiti è che gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario variano a seconda della classificazione dell’investitore in una o in altra delle categorie appena menzionate. A variare, in particolare sono sia le informazioni richieste al cliente sia quelle ad esso fornite (ex art. 35 Reg. Interm. Consob). Le successive disposizioni attuative della MiFID I245 hanno cristallizzato gli obblighi in regole di dettaglio da attuare a livello nazionale. In particolare, queste ultime impongono agli intermediari di definire profili individuali degli investitori, in base ai quali regole di tutela diversificate troveranno applicazione: così, ai sensi dell’art. 19 paragrafi 4 e 5 Direttiva MiFID I246, agli investitori retail è riservata una tutela 244
Ben enfatizza l’elemento della diversa gradazione di tutela F. CAPRIGLIONE, Intermediari finanziari, investitori, mercati, cit., p. 157. 245 Cfr. Direttiva 2006/73/CE della Commissione, del 10 agosto 2006, recante modalità di esecuzione della direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda i requisiti di organizzazione e le condizioni di esercizio dell’attività delle imprese di investimento e le definizioni di taluni termini ai fini di tale direttiva, in GUUE L-241, 2.9.2006, p. 26 ss. e Regolamento (CE) n. 1287/2006 della Commissione, del 10 agosto 2006, recante modalità di esecuzione della direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli obblighi in materia di registrazioni per le imprese di investimento, la comunicazione delle operazioni, la trasparenza del mercato, l’ammissione degli strumenti finanziari alla negoziazione e le definizioni di taluni termini ai fini di tale direttiva, in GUUE L-241, 2.9.2006, p. 1 ss. 246 In particolare, il § 4 è riferito al servizio di consulenza in materia di investimenti o gestione di portafoglio; mentre il § 5 ai servizi diversi da quelli di consulenza. Mentre rispetto al primo tipo di servizio il consulente deve ottenere le informazioni relative alle conoscenze nonché alle esperienze del cliente, quelle relative agli investimenti rispetto al tipo di prodotto proposto, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento al fine di raccomandare lo strumento più adatto al cliente; rispetto al secondo tipo di servizio, sarà sufficiente chiedere solo le conoscenze ed esperienze in materia di investimenti riguardo al tipo di prodotto proposto al fine di determinare se esso sia adatto al cliente. In questo caso (cioè se si tratti di fornire servizi di investi-
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rafforzata consistente in una maggiore e più comprensibile informazione fornita dalla controparte, ma anche informazioni fornite dal cliente all’impresa al fine di definire il proprio profilo di rischio. In particolare, le norme di condotta degli intermediari finanziari, si concretano – per quanto qui interessa – in obblighi specifici di trasparenza (i.e. di disclosure in senso stretto o know your product rule) e in quelli di accertamento dell’adeguatezza dei prodotti finanziari rispetto al profilo del cliente (profilatura del cliente o know you customer rule). Il flusso informativo che si genera per effetto della disciplina europea (di primo e secondo livello) e nazionale (legislativa e regolatoria) è pertanto bi-direzionale e questo tratto è specifico della disciplina sull’intermediazione finanziaria non trovando eguali in altri settori. L’intermediario è infatti tenuto ad acquisire dall’investitore una serie di dati funzionali a conoscerne le consistenze patrimoniali, le precedenti esperienze finanziarie e la cultura in ambito economico, le propensioni al rischio e financo le conoscenze personali. Sul lato della “offerta”, l’intermediario trasmette informazioni chiare, corrette e non fuorvianti247 finalizzate a far conoscere gli strumenti finanziari disponibili sul mercato, le varie possibili strategie di investimento, i rischi connessi e i relativi costi, al fine di far sì che l’investitore compia scelte di investimento consapevoli ed adeguate al suo profilo di rischio. La classificazione della clientela, espressione dei principi di adeguatezza e appropriatezza248, ha delle ripercussioni non solo riferitamente al livello di dettaglio delle informazioni fornite, ma anche al mento diversi da quelli di consulenza), alla clientela retail, si applicherà comunque l’obbligo ex art. 37 Reg. Interm. che prescrive la stipula di un “contratto quadro” redatto per iscritto. 247 Dettagliate all’art.31 del Regol. Interm. della Consob; mentre agli artt. 27 e 28 sono dettate le regole relative alle informazioni, comunicazioni pubblicitarie e promozionali, le quali sono di applicazione generale, a prescindere dalla classificazione della clientela. 248 Su cui si v.: F. CAPRIGLIONE, La problematica relativa al recepimento della MiFID, cit., p. 22; G. ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti di investimento, cit.; A. ANTONUCCI, Declinazioni della suitability rule e prospettive di mercato, cit., p. 728; M. PELLEGRINI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, cit., p. 547; C. BRESCIA MORRA, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione di ordini, in R. D’Apice (a cura di) L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 517 ss.; F. SARTORI, Le regole di adeguatezza e i contratti di borsa, cit., p. 25; P. LUCANTONI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, cit., p. 265; C. COLOMBO, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione, cit., p. 59; D. ROSSANO, Le «tecniche cognitive» nei contratti di intermediazione finanziaria, Napoli, ESI, 2011, ad p. 66.
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grado di tutela apprestato, che è, appunto, differenziato. Così, in caso di mancata fornitura di adeguate informazioni da parte del cliente retail, il consulente finanziario non potrà dare corso all’operazione; là dove invece ciò non avviene se l’investitore sarà un cliente professionale e si presume che abbia, in relazione ad un determinato prodotto o servizio, un livello di conoscenza ed esperienza sufficiente a consentirgli la comprensione dei rischi dell’operazione (art. 40, co. 2 Reg. Interm.). Profilatura del cliente e dislcosure in senso stretto rappresentano i due capisaldi attorno ai quali ruota la disclosure regulation nell’impianto della regolazione finanziaria ante-crisi. E ciò nell’ottica di garantire il rispetto dei «principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza» nonché di «servire al meglio l’interesse dei clienti» e di «acquisire, le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati» richiamati espressamente all’art. 21 del Tuf249. Principi che, nelle parole della Consob, per effetto della MiFID I, traghettano l’attività di intermediazione mobiliare da «mera attività di vendita di prodotti per conto di .. società emittenti» ad «un servizio svolto nell’interesse del cliente»250. Gli effetti della crisi sulla produzione regolatoria in punto di disclosure, sono particolarmente interessanti: gli obblighi informativi nella MiFID II, infatti, non scompaiono, ma ad essi si abbina uno spostamento di focus della vigilanza, il quale si trasferisce chiaramente sugli assetti organizzativi interni degli intermediari 251 e «ancor più a
249
In particolare, l’art. 21 Tuf, prevede che i soggetti abilitati debbono: (i) «comportarsi con diligenza con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati»; (ii) «acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati»; e (iii) impiegare comunicazioni pubblicitarie e promozionali «corrette, chiare e non fuorvianti», oltre che «chiaramente identificabili come tali» (ex art. 27 Reg. Interm. Consob). 250 Cfr. CONSOB, Comunicazione n. DIN/9019104, del 2.3.2009 (relativa ai prodotti finanziari illiquidi). 251 Come giustamente rilevato da F. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II, cit, p. 173 «l’intento di rafforzare il regime di trasparenza delle negoziazioni e di salvaguardare la posizione delle controparti negoziali degli intermediari si è tradotto nella previsione di una più intensa responsabilità a carico di questi ultimi; sono stati, quindi, stabiliti appositi requisiti organizzativi per la loro struttura al fine di rendere possibile un’informazione degli investitori più dettagliata e dotata di maggiore frequenza rispetto al passato».
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monte, [su]lle scelte strategiche [de]l modello di business»252. Gli obblighi informativi sono così anticipati da ulteriori obblighi di condotta ed organizzativi resi funzionali al loro concreto assolvimento253. Ad esempio, le imprese di investimento sono tenute a dimostrare e garantire che i consulenti e in generale le persone tenute a fornire informazioni siano in possesso di «conoscenze e competenze necessarie» al fine di poter adeguatamente adempiere ai propri obblighi informativi254. Questi ultimi sono poi ulteriormente dettagliati nell’art. 24. In aggiunta, si introduce quella che viene definita product governance che, come anticipato255, riversa sugli “organi di gestione” degli intermediari finanziari la responsabilità per tutto il ciclo dell’attività da questi svolta, ivi inclusa «l’approvazione dei nuovi prodotti da distribuire ai clienti»256. Rispetto ad essa si precisa che il processo di approvazione deve avvenire attraverso una analisi specifica dei rischi riferita, per ciascuno strumento finanziario, ad una determinata «categoria di clientela», nel senso che essi debbano essere concepiti specificamente per ciascuna categoria e per i mercati di riferimento nei quali dovranno poi essere commercializzati (cfr. art. 16§3 e le Guidelines EBA 2016, che parlano di “coerenza” tra la strategia di distribuzione e il target stesso257). Come è stato efficacemente evidenziato, con la product governance il controllo di adeguatezza si trasferisce a monte e diviene ex ante, correlando «operatività “su misura”» con «gli effetti benefici che possono derivarne all’investitore»258. In termini di teoria della regolazione, si assiste alla realizzazione di un modello ampiamente ascrivibile a quello 252
Così A. PERRONE, Servizi di investimento e regole di comportamento, cit., p. 38. In tal senso cfr. CONSOB, Audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulla semplificazione e sulla trasparenza nei rapporti con gli utenti nei comparti finanziario, bancario e assicurativo, del 22.11.2016, p. 10. 254 CONSOB, op. loc. ult. cit. 255 Cfr. supra, Cap. 1, para. 1.4. 256 Così cons. 54 Dir. MiFID II. 257 Cfr. EBA, Guidelines on product oversight and governance arrangements for retail banking products, EBA/GL/2015/18, del 22.3.2016: «il distributore deve usare l’informazione fornita dal manufacturer ed avere la conoscenza rilevante e l’abilità per determinare se il consumatore appartiene al mercato target. Il distributore deve in particolare tenere in debito conto tutte le informazioni rilevanti che gli consentono di riconoscere il mercato target per il quale il prodotto è disegnato, ed anche riconoscere i segmenti di mercato per i quali il prodotto si ritiene non possa incontrare i suoi interessi obiettivi e caratteristiche» (p. 13) (traduzione nostra). 258 F. CAPRIGLIONE, op. ult. cit., 2015, p. 189. 253
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che viene definito di meta-regulation259, ove il regolatore incentiva i soggetti regolati a sviluppare propri meccanismi auto-regolatori, o meglio, proprie risposte interne per il soddisfacimento di interessi pubblici. E ciò fa non regolando direttamente gli intermediari finanziari, ma esercitando il controllo (come fosse un auditor) sui loro processi interni, adottando opportuni strumenti di incentivo e/o di sanzione al fine di assicurare la compliance. Poiché favorisce lo sviluppo di sistemi di auto-regolazione, si dice tradizionalmente che le strategie di meta-regulation piuttosto che fondarsi sulla delega di poteri regolatori (come nei casi classici di selfregulation), implichino una maggiore “fiducia” nei soggetti regolati, ma allo stesso tempo richiedano un maggiore sforzo in termini di supervisione e verifica da parte del regolatore, al quale è rimesso un considerevole sforzo di vigilanza (in termini di expertise e capacita ispettive). Quanto alla effettività della tutela assicurata al risparmiatore/investitore – fermo restando che molto ovviamente dipenderà da come la disciplina sarà attuata nel nostro ordinamento – va evidenziato il tratto di differenziazione della tutela, che permane, tanto negli obblighi informativi quanto nella analisi di rischio da condursi preventivamente alla immissione in commercio dei prodotti finanziari ai sensi della MiFID II. Come rilevato dalla Consob, infatti, con la product governance: «si finisce per anticipare la tutela del cliente (...) alla fase della creazione del prodotto e della sua politica di distribuzione [imponendo] di individuare, già in tale fase, i destinatari potenziali dei prodotti che esse creano o distribuiscono “etichettandoli” per un certo target di mercato in funzione delle caratteristiche dello stesso e, ovviamente, 259
Teorizzata da C. PARKER, The Open Corporation: Effective Self-Regulation and Democracy (first published 2002); ID., Regulator-Required Corporate Compliance Program Audits, in 25 Law and Policy, 2005, p. 221-244; benchè in parte già anticipata da P.N. GRABOSKY, Using Non-Governmental Resources to Foster Regulatory Compliance, in 8 Governance 1995, p. 527-550; criticata ma sostanzialmente fatta propria da J. BLACK, Tensions in the Regulatory State, in Public Law, 2007, p. 58-73; da C. SCOTT, Regulating Everything: From Mega- to Meta-regulation, in 60 Administration, 2012, p. 57-85 e da C. COGLIANESE e D. LAZER, Management Based Regulation: Prescribing Private Management to Achieve Public Goals, in 37 L. and Soc. Rev., 2003, p. 691-730 e C. COGLIANESE e E. MENDELSON, Meta-Regulation and Self-Regulation, in R. Baldwin, M. Cave e M. Lodge (a cura di) The Oxford Handbook of Regulation, Oxford, Oxford University Press, 2010, p. 146-168.
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avendo sempre di mira l’interesse dell’investitore. La finalità perseguita è chiaramente di rendere conoscibile e, quindi, trasparente la stessa genesi dei prodotti che successivamente verranno distribuiti ai singoli clienti. Tale profilo sembra ricevere una particolare attenzione all’interno della MiFID II, che, all’art. 69, attribuisce alle autorità di vigilanza il potere di sospendere la distribuzione di strumenti finanziari o depositi strutturati in caso di violazione degli obblighi di product governance»260.
In una direzione diversa, che resta nell’alveo della disclosure regulation, ma che pure subisce interessanti evoluzioni, è la disciplina del già menzionato Key Information Document che l’intermediario finanziario è tenuto a trasmettere agli investitori al dettaglio prima della sottoscrizione di un prodotto finanziario o assicurativo pre-assembrato (il PRIIP) in base al Reg. 1286/2014. In questo caso, la disciplina originariamente dettata261, improntata alla armonizzazione massima dei contenuti e del format del documento, nonché alla semplificazione dell’informazione, risulta funzionale a garantire specialmente la comparabilità dei prodotti e, dunque, in ultima analisi, la libera circolazione e la concorrenza. La consegna obbligatoria del KIID (antesignano del KID), infatti, è pensata come consegna di un documento sintetico e di immediata fruibilità, sostitutivo del prospetto informativo dettagliato (da rendersi comunque disponibile su richiesta), contenente informazioni identiche in ogni Stato membro, rese in forma concisa, con linguaggio a-tecnico, contenente nozioni essenziali sugli obiettivi i costi, il rapporto rischio/rendimento e le performance storiche del prodotto, sì da consentirne la comprensione da parte dell’investitore senza dover fare riferimento ad ulteriore documentazione.
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CONSOB, Audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva, cit., p. 10. Come detto, già con la Dir. 2009/65/CE (cd. UCITS IV) era previsto l’obbligo di consegna di un documento contenente le informazioni fondamentali per gli investitori (il KIID, o key investor information document) in SICAV e fondi comuni di investimento, sostitutivo del prospetto informativo completo, il quale poteva comunque essere fornito su richiesta dell’investitore. Il dettaglio delle informazioni armonizzate (cioè standardizzate) e semplificate era specificato nel Reg. 583/2010/CE (direttamente applicabile) e nelle linee guida del CESR (attualmente ESMA). Parallelamente a queste iniziative, la Commissione elaborava una proposta di Regolamento, poi adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio nel Reg. UE n. 1286/2014, su cui v. nota seguente. 261
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La disciplina viene poi rivista nel 2014262, per essere estesa ai prodotti finanziari ed assicurativi preassemblati distribuiti mediante canali diversi. Nel KID devono essere indicati: i dati anagrafici che consentano di identificare il prodotto finanziario263, i rischi finanziari – che possono essere espressi graficamente anche mediante una scala di rischiosità – il prezzo e i costi sia impliciti sia espliciti, i possibili rendimenti, con evidenza della struttura di pay-off e entro che misura esiste il rischio di perdita (totale o parziale) del capitale investito. 1.3. Le utilities: comunicazioni elettroniche ed energia a. Comunicazioni elettroniche. – Gli obblighi informativi in questo settore trovano fondamento anzitutto nelle disposizioni dettate dalle leggi istitutive dell’Autorità di settore, ovvero, in particolare: nell’art. 2, co. 12, lett. i), l) ed m) della l. n. 481 del 1995 e nell’art. 1, co. 6, lett. a), n. 7, e lett. b), n. 5, della l. n. 249 del 1997 che disciplinano i poteri dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (di seguito AGcom) a tutela degli utenti. Quindi, con specifico riguardo alla trasparenza delle offerte commerciali che le imprese possono formulare, la cornice legislativa è rappresentata dall’art. 71 del Codice delle comunicazioni elettroniche (d.lgs. n. 259 del 2003) e dal d.l. 31 gennaio 2007, n. 7, che attribuiscono all’AGcom il potere di stabilirne le modalità attuative e le relative sanzioni (art. 1 co. 4), chiarendo che «l’offerta commerciale dei prezzi dei differenti operatori della telefonia deve evidenziare tutte le voci che compongono l’offerta, al fine di consentire ai singoli
262 Cfr. Regolamento UE n. 1286/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.11.2014 relativo ai documenti contenenti le informazioni chiave [o KID, Key Information Document] per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati (in GUUE L-352, del 9.12.2014, p. 1 ss.). È attualmente (gennaio 2017) in fase di elaborazione un Regolamento delegato della Commissione europea (non ancora numerato) C(2016) 3999 fin. del 30.6.2016 (disponibile su: http://ec.europa.eu/finance/finservices-retail/docs/investment_products/20160630delegated_regulation_en.pdf), che integra il citato Reg. UE 1286/2014 definendo gli standard tecnici regolatori del documento KID. 263 Ovverosia: la denominazione del prodotto ed il relativo codice ISIN, la tipologia, il soggetto emittente, l’eventuale garante e le modalità di funzionamento della garanzia, la durata e/o la scadenza, le modalità e le condizioni di negoziazione sul secondario, ivi incluse le metodologie impiegate per la determinazione del prezzo, nonché il trattamento fiscale: CONSOB, Audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva, cit., p. 19.
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consumatori un adeguato confronto» (comma 1); nonché, ove applicabili, dalle disposizioni del codice del consumo (d.lgs. 205/2006). In attuazione di tale disciplina l’Agcom ha adottato una serie di delibere in materia di trasparenza e comparabilità delle condizioni di offerta dei servizi di comunicazioni elettroniche. Sinteticamente, con la Delib. n. 179/03/CSP264, l’Agcom adotta un regime di disclosure dettagliato, in quanto richiede un’informazione improntata a «criteri di completezza, trasparenza, chiarezza e tempestività fissati dal quadro legislativo». Gli operatori sono quindi tenuti a fornire agli utenti «in modo chiaro, esatto e completo: le caratteristiche dei servizi offerti, i relativi prezzi e le modalità di erogazione evidenziando eventuali limitazioni tecniche, temporali, territoriali o di altra natura alla disponibilità del servizio». Per assicurare la «pronta reperibilità» delle informazioni, si indica la pubblicazione sui siti web e la presenza «nei punti vendita diretti e indiretti» degli operatori. Al fine di prevenire l’offuscamento di componenti di prezzo si prevede inoltre che gli operatori indichino «in maniera trasparente ogni componente del costo del servizio (per esempio canoni e contributi) e la forma di tariffazione utilizzata». Successivamente, con Delib. n. 96/07/CONS, si passa ad una forma di semplificazione e di standardizzazione dell’informazione oggetto dell’obbligo informativo, dove a rilevare sono la “comprensibilità” (non di tutto, ma di alcune voci) e la “comparabilità”: l’AGcom richiede agli operatori di pubblicare sui propri siti web «dei prospetti riepilogativi dei prezzi di ciascuna offerta, redatti secondo un modello standardizzato chiaro e comprensibile agli utenti che consenta una rapida comparazione di alcune voci265». Con la Delib. 126/07/CONS l’AGcom “riconosce” ai consumatori il diritto ad essere informati gratuitamente circa il proprio profilo di consumo telefonico; in tal modo il consumatore è – almeno teoricamente – messo nelle condizioni di poter fare ricerche mirate sulle offerte più rispondenti ai propri bisogni, in quanto dovrebbe poter usare i dati ricevuti dagli operatori nelle applicazioni di comparazione. Infatti, la possibilità di comparazione dei prezzi degli operatori presenti sul mercato è realizzata mediante l’accreditamento di un motore di calcolo
264 265
Recante la “Direttiva generale in materia di qualità e carte dei servizi”. Si v. https://www.agcom.it/trasparenza.
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indipendente (avvenuto con Del. 331/09/CONS) denominato Supermoney.eu266. Infine, gli operatori di telefonia sono assoggettati a specifici obblighi informativi destinati ad utenti con disabilità uditiva in base alla Delib. n. 514/07/CONS. Nei confronti di costoro debbono essere sviluppate specifiche offerte commerciali (oltre che destinate le migliori offerte disponibili sul mercato), da comunicarsi secondo modalità specificamente disciplinate dalla Delib. in parola. b. Energia. – In campo energetico, gli obblighi informativi sono imposti ai fornitori in maniera graduale, da quando il mercato è stato via via aperto alla concorrenza267. Se vi è una correlazione tra apertura della domanda – resa possibile, come noto, mediante la definizione di soglie di idoneità – e il progressivo innalzamento delle misure di protezione dei clienti finali di energia – o soglie di tutela268, la vicenda degli obblighi informativi segue una strada diversa. Mentre, infatti, al 266
Ibid. Prima della liberalizzazione, infatti, il tema dell’informazione riceve limitato rilievo. Con l’istituzione dell’Autorità e sino alla completa liberalizzazione dei mercati energetici, si assiste all’emergere di strumenti atti a tutelare il consumatore finale, considerato come definitivamente afflitto da “cronica” asimmetria informativa: è la stagione del “paternalismo regolatorio”. La completa apertura dei mercati testimonia l’avvento di un nuovo modo di intendere la posizione dell’utente finale, che diviene cliente, in favore del quale sono approntati strumenti di “empowerment” (o capacitazione) e di “comunicazione istituzionale”, cioè approntati direttamente dal regolatore, idonei a renderlo attore del mercato. In tale fase l’informazione è fornita non solo al fine di renderlo consapevole delle offerte commerciali effettivamente migliori, ma anche al fine di educarlo e sensibilizzarlo verso problematiche più ampie (tipicamente ambientali) legate alle proprie scelte di consumo: F. DI PORTO, L’informazione come “oggetto” e come “strumento”, cit., spec. sub para. 3. 268 Come rilevato da V. ROPPO, Regolazione del mercato e interessi di riferimento: dalla protezione del consumatore alla protezione del cliente, in C. Rabitti Bedogni e P. Barucci (a cura di) Venti anni di antitrust. L’evoluzione dell’autorità garante della concorrenza, Giappichelli, Torino, 2010, p. 1185-1999, ad p. 1190 la circostanza che l’innalzamento delle tutele sia esteso al di là della figura del solo consumatore, come definito dal cod. consumo, deriva dal fatto che la legislazione speciale ha via via indicato il “cliente” come soggetto da proteggere in quanto «parte debole delle relazioni asimmetriche di mercato». E ciò non tanto perché si sia un consumatore ai sensi del cod. consumo ma in quanto si sia clienti, e cioè al centro di politiche di regolazione del mercato. Il cliente, infatti, anche se entificato, «è generalmente un outsider, privo delle conoscenze specifiche e delle capacità tecnico-organizzative che consentono il controllo della prestazione caratteristica a lui destinata». 267
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principiare della liberalizzazione corrispondono obblighi dettagliati e minuti, con la completa apertura si sperimentano forme di semplificazione e di standardizzazione, per poi approdare a modelli di disclosure basati su strumenti di empowerment (o capacitazione), ovverosia tesi a rafforzare l’autodeterminazione del singolo, visto sia come attore di mercato, sia come autore di scelte sensibili a tematiche ambientali. La base giuridica degli obblighi informativi in subiecta materia è rappresentata dalla legge istitutiva dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, di seguito Aeegsi (l. n. 481 del 1995), che attribuisce al regolatore, tra gli altri, il potere di diffondere la conoscenza delle condizioni di svolgimento dei servizi al fine di garantire la trasparenza, la concorrenzialità e l’esistenza di migliori scelte da parte degli utenti finali (art. 2, co. 12, lett. l)269. Su tale base, è adottato il Codice di condotta commerciale270, il quale detta una puntuale disciplina delle modalità di diffusione dell’informazione da parte degli esercenti la vendita di energia; le relative regole di comportamento; i criteri per la comunicazione dei prezzi di fornitura del servizio; le informazioni minime da fornire nelle comunicazioni commerciale, le informazioni pre-contrattuali, i criteri di redazione dei contratti di fornitura e il loro contenuto; le modalità di consegna del contratto e di comunicazione del diritto di ripensamento; la trasmissione delle schede di conformità271. Il contenuto di siffatti obblighi informativi ricalca in larga misura quello dettato dagli artt. 48-52 del Codice del consumo272. Ad una diversa stagione normativa appartengono gli obblighi informativi definiti in attuazione del d.l. n. 73 del 2007273, quando il regolatore appronta esso stesso informazioni (istituzionali) e compara-
269
Potere successivamente integrato dall’art. 18, co. 3 del d.lgs. n. 164 del 2000 di liberalizzazione del settore del gas naturale, che demanda all’Aeegsi di vigilare «sulla trasparenza delle condizioni contrattuali» e di «determinare un codice di condotta commerciale in cui sono (...) stabilite modalità e contenuti delle informazioni minime che i soggetti che svolgono l'attività di vendita devono fornire ai clienti stessi». 270 Cfr. Aeegsi, Delib ARG/com 104/10 e s.m.i., aggiornato per tenere conto delle novità introdotte dal d.lgs. 21/2014, di recepimento della Direttiva consumatori n. 83/2011. 271 Così I-Com, Rapporto sui consumatori, 2015, p. 47. 272 Su cui infra, para. 1.4, alla cui trattazione pertanto si rinvia. 273 Il cui art. l co. 2 delega il Ministero dello sviluppo economico ad adottare misure che facilitino «la confrontabilità dei prezzi ai clienti finali, anche grazie (...) [al]la pubblicazione sul sito web dell’Aeegsi di tavole sinottiche di confronto tra i prezzi rilevabili sul mercato libero, per tipologia di clientela, e i prezzi di riferimento».
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zioni informative. Successivamente, l’art. 21 co. 1 della l. n. 99 del 2009 attribuisce al regolatore il potere di adottare disposizioni affinché i venditori forniscano ai clienti finali indicazioni trasparenti circa le offerte proposte sul mercato, in modo che sia possibile per il cliente interessato di effettuare valutazioni e confronti, anche in relazione ad eventuali offerte alternative di altri gestori.. Si passa così da obblighi informativi dettagliati a strumenti informativi improntati all’empowerment, cioè a ridurre il deficit informativo del consumatore affinché siano favorite scelte consapevoli e non falsate274. Appartengono a questa stagione applicazioni quali il “Trova offerte”275, l’“Atlante dei diritti del consumatore di energia”276 attraverso cui l’Aeegsi veicola direttamente al consumatore le informazioni di mercato mediante e gli “avvisi” in bolletta (per i quali è previsto che i fornitori lascino un apposito spazio vuoto nelle bollette); nonchè la pubblicazione, sul sito del regolatore, di una “graduatoria della qualità dei call center aziendali”, mirante a rafforzare l'informazione a disposizione del mercato. Quanto agli obiettivi di tipo ambientale cui si faceva cenno, l’art. 1, co. 5, d.l. n. 73 del 2007 (e poi anche il cd. Terzo Pacchetto sull’energia277), obbliga i fornitori di energia a specificare nei documenti commerciali (fatturazione e materiali promozionali) inviati ai clienti una serie di informazioni tra le quali, in particolare, il mix di fonti energetiche impiegate nella produzione dell’energia fornita, oltre alle informazioni sull’impatto ambientale della produzione fornita mediante il mix di combustibile complessivo utilizzato dal fornitore nell’anno precedente. 274
Il regolatore si fa esso stesso produttore di informazione sul presupposto che solo rafforzando la conoscenza da parte dei clienti finali dei meccanismi di mercato sia possibile aumentare tanto la fiducia nel mercato stesso quanto il corretto esplicarsi della concorrenza tra i diversi operatori. 275 Un’applicazione accessibile sul sito web dell’Aeegsi che consente all’utente, inserendo alcuni dati relativi al proprio profilo di consumo, di ottenere le informazioni sulle offerte commerciali presenti sul mercato e selezionare quella a lui più adeguata. 276 L’Atlante dei diritti del consumatore è un opuscolo predisposto dall’Aeegsi e rivolto agli utenti domestici e alle associazioni dei consumatori, contenente le informazioni sugli strumenti di tutela e sui diritti spettanti ai consumatori, sul concreto funzionamento dei rapporti contrattuali, e in generale su tutti gli aspetti del rapporto tra questi e i fornitori (nuove attivazioni, cambio di fornitore - switching, pagamento di bollette, reclami, ecc.). 277 Per un commento al quale si v. il ricco volume di R. MICCÙ (a cura di) Multilevel Regulation and Government in Energy Markets. Implementation of the «Third Package» and Promotion of Renewable Energy, Napoli, Jovene, 2016.
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Come evidenziato in dottrina – sebbene dissentendone – siffatti obblighi sarebbero da ascriversi ad un paradigma diverso da quello classico basato sulla debolezza o sul riequilibrio di potere delle posizioni contrattuali, essendo indirizzati ad un consumatore ormai «responsabilizzato in quanto soggetto che con le proprie scelte è in grado di sostenere gli obiettivi pubblici di tutela ambientale e di selezione delle fonti energetiche»278. Dunque l’informazione «precontrattuale, in tal caso (...) è la condizione per consentire (...) di selezionare le offerte più sostenibili dal punto di vista ambientale» e non strumento di riequilibrio delle asimmetrie informative di un «contraente debole e inesperto che deve comprendere effettivamente e pienamente la portata giuridica e (micro) economica del contratto propostogli»279. L’assunto sembra dimostrare troppo: quello avuto in mente dal legislatore europeo e italiano è pur sempre, come detto, un consumatore medio, ovverosia un soggetto virtuale che, nelle aspirazioni della volutas legis, apprende, mercé gli obblighi informativi di cui si discute, la disponibilità di offerte commerciali difformi per sensibilità ambientale. Prova ne è che la stessa Commissione europea indica nella «necessità di rafforzare i diritti dei consumatori all’informazione, in particolare a un’informazione adeguata per una migliore gestione del consumo energetico» uno degli obiettivi vincolanti che l’UE si è posta per ridurre le emissioni di CO2280. Vi sono poi gli obblighi informativi finalizzati a dare attuazione agli obiettivi di efficienza energetica. In tale ambito, in base all’art. 9 del d.lgs. n. 102 del 2014, che recepisce la Direttiva 2012/27/CE, l’Aeegsi è tenuta ad adottare una o più regolazioni finalizzate a disciplinare i flussi informativi sui consumi energetici (oggetto, tempistiche e modalità) indirizzati ai consumatori finali. In particolare, il comma 6 dell’art. 9 richiede all’Aeegsi di disciplinare le modalità con cui le imprese di vendita (se sono installati contatori elettronici), al fine di consentire controlli sulle fatturazioni, mettono a disposizione dei clienti finali (lett. b): informazioni complementari (dati cumulativi) sui con278
Così C. SOLINAS, La tutela del consumatore nei contratti di fornitura di energia elettrica, in Contr. e impr., 2/2015, p. 435-460, ad p. 441. 279 Così C. SOLINAS, op. ult. cit., p. 443, che ne trae come conseguenza che tali obblighi «sono dovuti in rapporto a qualsiasi tipo di contrattazione relativa alla fornitura di energia elettrica sia o meno il suo destinatario una persona fisica o giuridica, oppure un imprenditore o un professionista». 280 Cfr. Comunicazione della Commissione, Verso una Carta europea dei diritti dei consumatori di energia, COM(2007) 386 def.
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sumi storici relativi ai tre anni precedenti (pt. 1); informazioni complementari (dati dettagliati) sui consumi relativi al tempo di utilizzo per ciascun giorno, mese e anno nei due anni precedenti (pt. 2). L’art. 9, co. 7 invece richiede all’Aeegsi di disciplinare le modalità con cui i venditori mettono a disposizione dei clienti finali (o di fornitori di servizi energetici da questi designati): (i) le bollette in formato elettronico (lett. b) (materia già disciplinata con la “bolletta 2.0”, su cui infra); oltre (ii) ad un “resoconto globale dei consumi energetici attuali” (comma 7, lett. c), che comprenda, insieme al “consumo energetico effettivo” (pt. 1), un “confronto tra il consumo attuale di energia … ed il consumo nello stesso periodo dell’anno precedente” (pt. 2) (confronti inter-annuali); ed altresì (iii) ulteriori informazioni, come ad esempio, “misure di miglioramento dell'efficienza energetica” (pt. 3) (ovverosia dei “consigli). Inoltre, i venditori, su richiesta dei clienti, mettono a disposizione degli stessi, nella bolletta: (iv) “informazioni aggiuntive … per consentire la valutazione globale dei consumi energetici” (lett. d) (ovverosia dei report energetici personalizzati); nonché (v) “informazioni e stime sui costi energetici, in formato facilmente comprensibile che consenta il confronto tra offerte comparabili” (lett. e) primo periodo) (stime dei costi energetici e comparazione di offerte commerciali). Infine (vi), l’Aeegsi è tenuta a valutare (lett. e) ult. periodo): «le modalità più opportune per garantire che i clienti finali accedano a confronti tra i propri consumi e quelli di un cliente finale medio o di riferimento della stessa categoria d’utenza» (cc.dd. informazioni relazionali)281. Molte di queste disposizioni non hanno ancora trovato completa attuazione, mentre è stata disciplinata compiutamente la trasparenza dei documenti di fatturazione, cioè delle bollette del gas e dell’elettricità. A tale ultimo riguardo, con Delib. n. 501/2014/R/com l’Aeegsi ha disciplinato la cd. “Bolletta 2.0”, con la quale il contenuto del documento, già standardizzato, è stato diviso in due: «una parte sintetica, destinata alla grande diffusione, con gli elementi minimi prescritti dall’Autorità; ed una parte di dettaglio, maggiormente analitica e resa disponibile solo su richiesta del cliente finale servito in regime di tutela o, secondo le modalità definite nel contratto, per i clienti del mercato libero»282. 281
Sulle informazioni relazionali si rinvia alla Parte Terza, Cap. 2, para. 2.1., lett.
282
Cfr. AEEGSI, Relazione annuale per il 2015, 2016, vol. 2, p. 208.
b).
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Si segnalano in particolare, sotto il profilo della semplificazione, l’utilizzo di unità di misura facilmente comprensibili da parte del consumatore, come ad esempio: l’indicazione del costo medio unitario espresso, in termini di rapporto tra la spesa totale (in Euro) e i consumi fatturati anziché in kilowattora; l’uso di grafici per l’indicazione degli importi fatturati e per il dettaglio dei consumi, ripartiti per fasce. Inoltre, al fine di facilitare la comprensione della bolletta, l’Autorità ha previsto l’attivazione di specifici strumenti informativi, come ad esempio, l’obbligo in capo a ciascun venditore di pubblicare sul proprio sito Internet di una “Guida alla lettura”, che consenta al cliente finale una migliore comprensione del documento, con una descrizione chiara, utilizzando i termini indicati nel Glossario, di tutte le voci che compongono gli importi fatturati283.
1.4. Gli obblighi informativi precontrattuali nel codice del consumo L’elenco delle informazioni dettagliatissime che la disciplina recata dal novellato codice del consumo (di seguito anche cod. cons.)284 richiede al professionista di fornire al consumatore prima della dichiarazione negoziale, differiscono a seconda che il contratto cui essa accede sia qualificabile come: (i) “diverso dai contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali” (art. 48); oppure (ii) “contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali” (artt. 49-51). Nel primo caso (i), gli obblighi informativi (minimi) indicati all’art. 48 includono: le caratteristiche principali e il prezzo dei beni e servizi offerti, l’identità del professionista, i diritti e le facoltà riconosciute al consumatore dalla legge (ad esempio, primo fra tutti, il diritto di recesso, i diritti derivanti dalla garanzia post-vendita, ecc.), le prestazioni dovute dal consumatore (ad esempio, le modalità di pagamento) e dal professionista (ad esempio, i termini le e modalità di consegna del bene o servizio). Per i soli contratti aventi ad oggetto la fornitura di contenuti digi283 E ciò in aggiunta al Glossario, alla Guida alla lettura e al Modello di bolletta sintetica che sono redatti e pubblicati dall’Aeegsi stessa sul proprio sito web, come forma di informazione istituzionale, su questo tema: F. DI PORTO, L’informazione come “oggetto”, cit. 284 D.lgs. 206 del 2005, come modificato dal d.lgs. 21 del 2014, di recepimento della citata Dir. consumatori n. 2011/83/UE.
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tali (art. 48, co. 1, lett. g) e h), il professionista è altresì tenuto a fornire indicazioni circa le modalità di funzionamento del contenuto digitale, incluse le misure tecniche di protezione dei relativi dati eventualmente adottate e la interoperabilità del medesimo contenuto digitale con i software e gli hardware che il professionista conosca o non possa ragionevolmente ignorare285. Una interessante novità è quella introdotta nel caso di proposta di servizi aggiuntivi (cc.dd. add-ons), come ad esempio, le assicurazioni facoltative abbinate alla vendita di titoli di viaggio. In tali ipotesi è infatti previsto il consenso esplicito del consumatore e le opzioni di acquisto di servizi aggiuntivi non potranno essere pre-selezionate dal professionista (pre-ticked). Questa previsione è frutto di una serie di studi cognitivi condotti dalla Commissione europea dai quali risultava che la pre-selezione induceva molti consumatori ad accettare servizi non desiderati per effetto della diffusa disattenzione (un bias cognitivo)286. Circa le modalità di adempimento degli obblighi informativi, l’art. 48 non fornisce indicazioni puntuali. Se ne ricava che essi potranno dirsi adempiuti sia in caso di trasmissione in formato cartaceo, sia in via orale, ovvero ancora tutte le volte che le informazioni siano rese adeguatamente conoscibili nei locali commerciali del professionista ovvero «riprodotte nei moduli e formulari (contenenti il testo dell’accordo) sottoposti al consumatore affinché quest’ultimo, sottoscrivendoli, manifesti il proprio consenso all’instaurazione del rapporto contrattuale»287. Venendo (ii) ai contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali288, la disciplina degli obblighi informativi è in parte comune ed in parte differenziata quanto a requisiti formali289. Come anticipato, sempre più lievi, e viepiù irrilevanti, si sono fatti nel tempo gli 285
G. DE CRISTOFARO, La disciplina degli obblighi informativi precontrattuali, cit.,
p. 932. 286
Sul tema si tornerà diffusamente nella Parte Seconda e nella Parte Terza. Così G. DE CRISTOFARO, La disciplina degli obblighi informativi precontrattuali, cit., p. 929. 288 Fattispecie inclusiva, ai sensi dell’art. 45, lett. h), n. 1, anche dei contratti conclusi nei locali del professionista, allorché tale conclusione avvenga immediatamente dopo che il consumatore sia stato avvicinato personalmente e singolarmente in un luogo diverso dai detti locali. 289 Tale disciplina inoltre, non si applica ad alcune tipologie di contratto come i contratti di credito al consumo, i contratti a distanza di servizi finanziari. 287
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argomenti a sostegno di una ontologica diversa asimmetria informativa nel caso di contratti stipulati fuori dei locali commerciali rispetto a quelli stipulati a distanza, al punto che la relativa disciplina è stata sostanzialmente uniformata (artt. 50 e 51 cod. cons.), mentre una specifica disciplina è stata introdotta per gli obblighi informativi relativi ai contratti stipulati per via telematica (art. 51, commi 2, 3 e 9) e telefonica (art. 51, commi 5 e 6). Il novero delle informazioni che, ai sensi dell’art. 49, co. 1 il professionista deve obbligatoriamente fornire al consumatore prima della stipula del contratto è più ampio di quello prescritto nel caso di cui all’art. 48 (i). Oltre, infatti, alle principali caratteristiche e al prezzo del bene o servizio, alle tasse e all’identità del professionista, occorre indicare anche i costi relativi al mezzo a distanza impiegato, l’indirizzo ove inviare nonché le modalità per trattare eventuali reclami (lett. b), c) e g)). Inoltre, il professionista è tenuto a fornire informazioni sul diritto di recesso; le modalità di pagamento; di consegna ed esecuzione; la durata del contratto; le caratteristiche del rinnovo e le condizioni di recesso; la presenza di eventuali condizioni di deposito o di rilascio di garanzie fideiussorie da parte del consumatore; l’esistenza di codici di condotta; e la possibilità di avvalersi di meccanismi stragiudiziali di risoluzione delle controversie290. Anche in questo caso è previsto che, con riferimento ai prodotti digitali, vengano fornite indicazioni circa le modalità di funzionamento del contenuto digitale, incluse le misure tecniche di protezione dei relativi dati eventualmente adottate e la interoperabilità del medesimo con i software e gli hardware, che il professionista conosca o non possa ragionevolmente ignorare. Circa le modalità con cui le informazioni debbono essere trasmesse al consumatore, come si diceva, queste differiscono a seconda che si tratti di contratti (a) stipulati “fuori dai locali commerciali”, oppure (b) “a distanza”. Per i primi (a) la trasmissione dell’informazione deve avvenire su supporto cartaceo ovvero, se autorizzato dal consumatore, su altro supporto durevole (art. 50, co. 10)291. 290
Così C. GIUSTOLISI, Il diritto alle informazioni precontrattuali, cit., p. 102. Per tale intendendosi ogni strumento che permetta al consumatore o al professionista di conservare le informazioni che sono personalmente indirizzate in modo da potervi accedere in futuro per un periodo di tempo adeguato alle finalità cui esse sono destinate e che permetta la riproduzione identica delle informazioni memorizzate, quali ad esempio, una chiave USB, i CD-ROM, i DVD, le schede di memoria, i dischi rigidi del computer, ma anche messaggi di posta elettronica (purché rivolti ad un indirizzo di cui il consumatore destinatario abbia piena disponibilità e che preveda la pos291
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Per i secondi (b) la disciplina è diversificata: (b.1) i commi 2, 3 e 9 dell’art. 51 dettano i requisiti formali dei contratti stipulati per via telematica (o commercio elettronico); (b.2) mentre i commi 5 e 6 quelli per i contratti stipulati per via telefonica (o teleselling). Per tutti, in generale, si prevede che le modalità di trasmissione dell’informazione siano “appropriate” al mezzo di comunicazione a distanza impiegato (art. 51, co. 1), con una clausola aperta di adeguatezza che lascia al professionista individuare il modo in cui in concreto trasmettere l’informativa, purchè essa utilizzi un “linguaggio semplice e comprensibile”. Ovviamente, l’informativa pre-contrattuale dovrà essere contenuta nel supporto durevole oppure (auspicalmente) nel contratto finale. Talune informazioni (indicate al comma 4) debbono invece obbligatoriamente essere trasmesse al consumatore prima292 della conclusione dell’accordo293. Circa gli obblighi informativi in materia di commercio elettronico (b.1), l’art. 51, co. 2 prevede che il professionista fornisca le informazioni relative alle caratteristiche principali dei beni e servizi, ai prezzi e alla durata del contratto «direttamente prima» dell’inoltro dell’ordine, mediante la selezione del relativo tasto, da parte del consumatore. Tale obbligo servirebbe ad evitare che trascorra un eccessivo lasso di tempo tra il momento in cui il consumatore riceve siffatte informazioni, magari in occasione di una diffusa campagna pubblicitaria, e quello in cui si risolve all’acquisto online; così scongiurando il pericolo che l’acquisto si formi su un bagaglio informativo di cui il consumatore non ricordi più il contenuto. sibilità di controllo, da parte del mittente), e perfino, secondo la Corte di Giustizia, alcuni siti (cc.dd. “sophisticated websites”), nella misura in cui possano essere in grado di garantire al consumatore che le informazioni possano essere conservate nel tempo senza modifica alcuna e siano rese accessibili e riproducibili per un congruo lasso di tempo: cfr. Corte di Giustizia UE, sez. III, 5 luglio 2012, causa C-49/11, Content Services Ltd c. Bundesarbeitskammer. 292 Si dibatte in dottrina circa “quanto” tempo prima sia un congruo tempo per consentire al consumatore di compiere una scelta avveduta. Cfr. G. DE CRISTOFARO, op. cit., p. 923. 293 In particolare, l’art. 51 co. 4 cod. cons., prevede che: «se il contratto è concluso mediante un mezzo di comunicazione a distanza che consente uno spazio o un tempo limitato per visualizzare le informazioni, il professionista fornisce, su quel mezzo in particolare e prima della conclusione del contratto, almeno le informazioni precontrattuali riguardanti le caratteristiche principali dei beni o servizi, l’identità del professionista, il prezzo totale, il diritto di recesso, la durata del contratto e, nel caso di contratti a tempo indeterminato, le condizioni di risoluzione del contratto».
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Inoltre, sempre in base al comma 2 dell’art. 51 (secondo periodo), al professionista è fatto obbligo di attivare dei “pulsanti” per la vendita che rechino la dicitura “ordine con obbligo di pagare” (o altra equivalente) al fine di rendere saliente al consumatore l’informazione che premendo tale pulsante si completa la transazione. Infine, per quanto attiene agli obblighi informativi in materia di teleselling (b.2), oltre al richiamo del già menzionato comma 4, che dunque trova piena applicazione, ed ai requisiti di firma di cui si è detto, il professionista è altresì obbligato (ai sensi del comma 5) in occasione del primo contatto col consumatore, ad informarlo immediatamente circa la sua identità e finalità della chiamata, nonché circa l’esistenza del registro pubblico degli abbonati per potersi opporre alle promozioni commerciali.
1.5. La trasparenza amministrativa e l’informazione ambientale Come evidenziato da più parti in dottrina, pur dopo la riforma del 2015-2016, gli obblighi di pubblicazione cui sono assoggettate le pp.aa.294, sebbene in numerose parti razionalizzati, non sono molto diminuiti295. Per l’effetto, la “trasparenza totale” si attua mediante la pubblicazione sui siti Internet delle stesse di informazioni relative ai seguenti gruppi296: anzitutto (i) gli atti di carattere normativo e ammi294 Nello specifico, sono assoggettate agli obblighi di pubblicazione, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 33/2013 tre categorie di soggetti: (i) le pp.aa. di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs. 165/2000, ivi comprese le autorità portuali nonché le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione; (ii) gli enti pubblici economici, ordini professionali, società in controllo pubblico, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato, sottoposti alla medesima disciplina prevista per le p.a. «in quanto compatibile»; e (iii) le società a partecipazione pubblica, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato soggetti alla medesima disciplina in materia di trasparenza prevista per le pp.aa. «in quanto compatibile» e «limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione Europea». 295 Cfr. E. CARLONI, Il nuovo diritto di accesso generalizzato, cit.; M. SAVINO, Il FOIA italiano., cit.; N. RANGONE, Quale trasparenza per rendere il cittadino consapevole?, in M. D’Alberti (a cura di) Combattere la corruzione, Soveria Mannelli, Rubettino, 2016, p. 195-213, ad p. 200. 296 La classificazione che segue nel testo riprende quella proposta da N. RANGONE, op. ult. cit., p. 199-201, integrata con le osservazioni fornite nella citata delib. ANAC n. 1310, Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di
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nistrativo generale (artt. 10, 12, 23, 39 e 42)297; quindi (ii) gli atti concernenti l’organizzazione (artt. 13 e 14298), l’attività e i procedimenti relativi alla p.a. interessata, volti a facilitare il controllo sull’operato di questa, sia quanto attribuisce incarichi a soggetti esterni (artt. 15, 15ter, 18)299, sia a soggetti interni o sotto controllo pubblico (artt. 16, 17, 18, 19, 20 e 22300). Un terzo gruppo di obblighi di pubblicazione (iii) riguarda l’uso delle risorse pubbliche. In questa categoria rientrano sia forme di comunicazione istituzionale (art. 4-bis) 301, sia forme di pubblicazione più pubblicità, cit. 297 Inclusivi dei riferimenti normativi, degli atti amministrativi e delle circolari riguardanti l’istituzione, dei documenti di programmazione strategico-gestionale, degli atti degli Organismi interni di valutazione; dei Piani triennali di prevenzione della corruzione e della trasparenza; dei piani della performance e della relazione sulla performance (art. 10); la documentazione in tema di pianificazione e governo del territorio (art. 39); l’elenco delle autorizzazioni e concessioni (art. 23) e gli obblighi di pubblicazione concernenti interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente (art. 42). 298 Nei quali sono inclusi obblighi di pubblicazione de: i dati relativi all’organizzazione, come l’indicazione degli organi di indirizzo politico organizzazione e gestione; articolazione degli uffici, competenze, organigramma, numeri di telefono e caselle di posta elettronica (art. 13); i dati relativi ai titolari di incarichi politici e dirigenziali e di incarichi di amministrazione, di direzione e di governo, se non attribuiti a titolo gratuito (come CV, compensi, diritti reali su beni mobili e immobili, copia dell’ultima dichiarazione dei redditi, ecc.) (art. 14). 299 Tra cui rientrano obblighi di pubblicazione de: gli incarichi di collaborazione o consulenza conferiti e affidati a soggetti esterni a qualsiasi titolo, sia oneroso sia gratuito (art. 15); oltre che a soggetti nominati da parte dell’Autorità giudiziaria e dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e dalle Prefetture (art. 15-bis). 300 Nei quali si trovano obblighi di pubblicazione de: la dotazione organica e il costo del personale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato (art. 16); alcuni dati relativi al personale non a tempo indeterminato (art. 17); la durata e il compenso relativi agli incarichi conferiti ai dipendenti pubblici (art. 18); i bandi di concorso per la selezione del personale, nonché i criteri di valutazione impiegati per la selezione e le tracce delle prove scritte (art. 19); talune informazioni relative alla valutazione della performance ed alla distribuzione dei premi al personale (art. 20); informazioni relative agli enti pubblici vigilati o finanziati e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato (art. 22). 301 Come l’attivazione di un portale istituzionale denominato “soldi pubblici”, ex art. 4-bis (inserito dal d.lgs. 97/2016), finalizzato a «promuovere l’accesso e migliorare la comprensione dei dati sulla spesa delle pubbliche amministrazioni». Mediante l’accesso al sito predisposto dall’Agenzia per l’Italia digitale (AGID), d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze (http://soldipubblici.gov.it/), «è possibile ac-
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tradizionali (sempre art. 4-bis, artt. 23, 26, 27, 29, 30 e 31302). Un quarto ed ultimo insieme (iv) riguarda gli obblighi di pubblicazione concernenti le prestazioni offerte e i servizi erogati. In tal caso l’obiettivo delle disclosure sarebbe quello di instaurare un rapporto collaborativo tra cittadini e/o imprese con la p.a., favorendo la partecipazione dei primi alle decisioni della seconda. In quest’ottica si collocano sia gli obblighi relativi ai procedimenti amministrativi (art. 35303), sia quelli in tema di servizi pubblici (artt. 28 e 32304), di acquisto di beni, servizi e forniture (art. 33305), di appalti, di opere pubbliche e di governo del territorio (artt. 37, 38 e 39306). cedere ai dati degli incassi e dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni e consultarli in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, alle amministrazioni che l’hanno effettuata, nonché all’ambito temporale di riferimento»: così ANAC, op. ult. cit., p. 17. 302 La pubblicazione dei dati relativi ai pagamenti effettuati, con indicazione della tipologia di spesa del momento nel quale è stata sostenuta e dei beneficiari (art. 4-bis); i criteri e atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati (art. 26); l’elenco dei beneficiari (art. 27); la pubblicazione del bilancio, preventivo e consuntivo e del piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio, dei dati concernenti il monitoraggio degli obiettivi (art. 29); i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi ai cittadini (art. 1, co. 15, l. n. 190 del 2012); informazioni identificative degli immobili posseduti, dei canoni di locazione o di affitto versati o percepiti (art. 30); dati relativi agli esiti dei controlli sull’organizzazione e sull’attività dell’amministrazione, tra cui anche gli esiti dei controlli degli OIV, dei nuclei di valutazione, degli organi di revisione amministrativa e contabile (art. 31); i contraenti scelti nell’ambito di appalti pubblici e procedure utilizzate, quali in particolare: il proponente, l’oggetto del bando, l’elenco degli operatori invitati, l’aggiudicatario, l’importo di aggiudicazione, i tempi di completamento dell’opera, il servizio o fornitura, l’importo delle somme liquidate (art. 23). Così N. RANGONE, op. loc. ult. cit. 303 Che prescrive la pubblicazione di informazioni relative non più al nome della persona sibbbene all’ufficio responsabile del procedimento; al termine di conclusione dello stesso; agli strumenti di tutela; al titolare del potere sostitutivo in caso di inerzia; alla modulistica, agli atti e ai documenti da allegare nei procedimenti ad istanza di parte. 304 L’art. 32 prevede l’obbligo in capo alle pp.aa. e ai gestori di pubblici servizi (art. 28) di pubblicare la carta dei servizi o un documento analogo ove siano indicati i livelli minimi di qualità dei servizi e quindi gli impegni assunti nei confronti degli utenti. 305 Andranno pubblicati: i tempi medi di pagamento per gli acquisti di beni, servizi, forniture e prestazioni personali; nonché l’ammontare complessivo dei debiti e il numero delle imprese creditrici. 306 In particolare, oggetto di pubblicazione sono: le informazioni relative alle procedure per l’affidamento e l’esecuzione di appalti pubblici (art. 37); i documenti di pianificazione, realizzazione e valutazione di opere pubbliche (art. 38); la documenta-
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A livello di disciplina settoriale sono poi previsti due fasci di obblighi di pubblicazione. Uno (v) relativo al servizio sanitario nazionale (art. 41307), ed uno (vi) relativo all’informazione ambientale (art. 40308). Giova da ultimo ricordare che le pp.aa. possono, oltre a quelli espressamente indicati, pubblicare “dati ulteriori” ai sensi dall’art. 7bis, co. 3 del d.lgs. 33/2013309. In tal caso, come precisato nelle citate Prime linee guida dell’Anac, la p.a. interessata potrà autonomamente decidere «in ragione delle proprie caratteristiche strutturali e funzionali» cosa pubblicare. Ad esempio, tenendo conto delle «delle istanze di accesso civico generalizzato», potrebbe «valutare opportuno pub-
zione in tema di pianificazione e governo del territorio (art. 39): N. RANGONE, op. loc. ult. cit. 307 Che obbliga le amministrazioni sanitarie a pubblicare, tra le altre: «i dati relativi a tutte le spese e a tutti i pagamenti effettuati, distinti per tipologia di lavoro, bene o servizio, e ne permettono la consultazione, in forma sintetica e aggregata, in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, all’ambito temporale di riferimento e ai beneficiari». Esse inoltre pubblicano informazioni e dati sugli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e amministrativo, di responsabile di dipartimento; le spese e i pagamenti effettuati; i bandi e gli avvisi di selezione, le procedure e gli atti di conferimento; in una apposita sezione denominata «liste di attesa», i criteri di formazione delle liste, i tempi di attesa previsti e i tempi medi effettivi di attesa per ciascuna tipologia di prestazione erogata: Ibid. 308 Quanto agli obblighi informativi in materia ambientale, cui si è fatto cenno nei Capp. 1 e 2, essa è oggi costituita dal combinato della disciplina contenuta nella citata l. n. 195 del 2005 e dell’art. 40 del d.lgs. 33 del 2013. Per le ricadute dell’“intreccio” tra le due discipline si v. A. FARÌ, La pubblicità degli atti di governo del territorio e delle informazioni ambientali, in B. Ponti (a cura di) Nuova trasparenza amministrativa e libertà di accesso alle informazioni, Rimini, Maggioli, 2016, p. 419-433. Quanto all’art. 40 del d.lgs. 33/2013 esso prevede la pubblicazione, in apposita sezione, denominata “Informazioni ambientali” de: lo stato degli elementi dell’ambiente e dei fattori suscettibili di incidere su questi elementi; delle misure amministrative e delle attività che incidono o possano incidere su tali elementi o fattori; delle misure e delle attività volte a proteggerli (nonché delle relative analisi costi-benefici e delle altre analisi e ipotesi economiche); delle relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale; dello stato della salute e della sicurezza umana (compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale, per quanto influenzabili dallo stato degli elementi dell’ambiente da qualsiasi fattore anche connesso a misure amministrative). 309 In base al quale: «le pubbliche amministrazioni possono disporre la pubblicazione nel proprio sito istituzionale di dati, informazioni e documenti che non hanno l’obbligo di pubblicare ai sensi del presente decreto o sulla base di specifica previsione di legge o regolamento». In tal caso le pp.aa. sono tenute ad indicare siffatta evenienza nel Piano triennale della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
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blicare i dati più frequentemente richiesti con l’accesso generalizzato», indicando «in forma anonima i dati personali eventualmente presenti, come precisato nel co. 3 dell’art. 7-bis»310. Circa le modalità per rendere le informazioni sui siti, il d.lgs. 97/2016 ha introdotto alcune importanti novità con l’inserimento di un nuovo Capo (l’I-ter) nel d.lgs. 33. All’art. 6, ove vengono enunciati i principi guida per la pubblicazione (integrità, costante aggiornamento, completezza, tempestività, semplicità di consultazione, comprensibilità, omogeneità, facile accessibilità, conformità ai documenti originali, indicazione della provenienza e riutilizzabilità), non si fa riferimento ad uno standard unitario, lasciando così le amministrazioni libere quanto alla forma della pubblicazione. L’Anac ha tuttavia fornito dei criteri guida, in attesa di procedere alla standardizzazione delle informazioni pubblicate, ispirati all’idea di «qualità e semplicità di consultazione dei dati». Essa propone, ad esempio, di usare la «esposizione in tabelle dei dati oggetto di pubblicazione», giacchè queste hanno un maggior «livello di comprensibilità e di semplicità di consultazione (...) assicurando agli utenti la possibilità di reperire informazioni chiare e immediatamente fruibili»311. Per quanto infine attiene al diritto di accesso civico generalizzato, (o FOIA), ai dati e documenti detenuti dalle pp.aa. “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, disciplinato dall’art. 5, co. 2 del d.lgs. 33/2013, si rinvia a quanto già detto in precedenza312. 1.6. La disclosure regulation “tradizionale”: uno sguardo d’insieme La disclosure regulation “tradizionale” si caratterizza anzitutto per la molteplicità delle fonti da cui promanano gli obblighi informativi. Essi sono infatti introdotti nell’ordinamento con legge (o atti equiparati) ovvero con decisioni delle autorità di regolazione settoriali o con atti di programmazione delle pp.aa. (si pensi al Piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza con cui le pp.aa. possono prevedere obblighi di pubblicazione “ulteriori” a quelli obbligatori per 310
ANAC, delib. 1310, Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, cit., p. 11. 311 Così ANAC, op. ult. cit., p. 9-10. 312 Cfr. supra, Cap. 1, para. 1.5 e Cap. 2, para. 2.2.
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legge). Dal che deriva che il numero dei regolatori preposti alla produzione delle regole di disclosure sia elevato ed eterogeneo. Nella maggior parte dei casi gli obblighi in parola si concentrano sul lato dell’offerta dell’informazione ed hanno carattere generale, cioè sono indirizzati in modo indifferenziato ad una molteplicità di destinatari qualificati soggettivamente, come professionisti, pp.aa., fornitori di energia, di servizi di comunicazione, operatori del settore alimentare, ecc., senza che sia prevista, nella maggior parte dei casi, alcuna differenziazione in ragione delle loro diverse caratteristiche (ad esempio, organizzative). Sotto il profilo contenutistico, gli obblighi informativi si sostanziano per lo più in delle liste di informazioni da rendere a soggetti individuati ovvero al pubblico indistinto. Questa circostanza rende il monitoraggio (enforcement) generalmente più agevole, dal momento che si tratta di verificare che il soggetto obbligato abbia effettivamente adempiuto alla resa delle informazioni. Alla uni-direzionalità dell’obbligo informativo corrisponde generalmente la uni-direzionalità del flusso informativo: che dall’impresa transita al consumatore, così come dall’amministrazione volge al cittadino. Una vistosa eccezione è rappresentata dalla disclosure regulation nei mercati finanziari, dove l’obbligo informativo non è generale ma è differenziato in funzione delle caratteristiche del destinatario dell’informazione (in quanto si distinguono: clienti al dettaglio, professionali e controparti qualificate). Anche il flusso informativo non è uni-direzionale, bensì bi-direzionale, dal momento che l’intermediario è tenuto ad acquisire informazioni dal e sull’investitore oltre che a fornirgliene. In tutti i casi analizzati gli obblighi informativi hanno riflessi sull’organizzazione dei soggetti regolati, posto che il loro adempimento richiede l’approntamento di mezzi e strutture idonei a rendere l’informazione alle controparti contrattuali, al pubblico, ai cittadini, ecc. Così ad esempio, le imprese pubbliche e le pp.aa. destinatarie degli obblighi di trasparenza sono tenute a creare, gestire e mantenere aggiornati i propri siti Internet, a nominare i responsabili della trasparenza, ad adottare i Piani triennali della prevenzione della corruzione e della trasparenza, e così via. Anche in questo caso, la disciplina dei mercati finanziari appare la più avanzata, dal momento che, per effetto della imminente entrata in
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vigore della cd. product governance, agli intermediari è richiesto di dotarsi di una struttura interna deputata ad assicurare la trasparenza già a partire dalla realizzazione del singolo prodotto finanziario 313 . Sull’osservanza, da parte degli intermediari, di tale organizzazione interna sorveglierà il regolatore secondo lo schema della metaregulation314. In quanto alla ratio, nello schema della tutela della “parte debole” (comune ai mercati finanziari, alle disclosure del settore alimentare, della disciplina consumeristica e delle utilities) la disclosure regulation è funzionale al buon funzionamento del mercato, ossia al perseguimento dell’interesse pubblico della maggiore diffusione dell’investimento del risparmio, del prodotto alimentare, della concorrenza tra servizi energetici o di telecomunicazioni. La misura protettiva-correttiva, cioè, è una forma di incentivo al superamento del fallimento di mercato della asimmetria informativa, di cui l’utente (cliente, risparmiatore, consumatore) è “strumento”, delegato dall’ordinamento a scegliere, ma a farlo in maniera informata e consapevole. Nelle disclosure amministrative e ambientali, la ratio preponderante è invece la diffusione del controllo sociale e della partecipazione. La semplificazione e standardizzazione dell’informazione sono tecniche largamente utilizzate sia quando quest’ultima è complessa, sia quando si tratti di prodotti e servizi le cui qualità non possono essere apprezzate prima del consumo (ciò avviene ad esempio, nel caso delle etichette alimentari o dei prospetti riassuntivi dei prodotti finanziari). Le tecniche di resa in forma sintetica dell’informazione sono inoltre spesso impiegate al fine di favorire la comparabilità tra servizi e prodotti, come avviene ad esempio nelle etichette alimentari o nel KID dei prodotti finanziari e assicurativi complessi, ovvero nelle utilities. In generale, tuttavia, la semplificazione non va oltre l’attenzione al313
Con le conseguenze ben sintetizzate da F. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II, cit., pp. 193-194, il quale parla di «scarsa incisività» del meccanismo di product intervention divisato dalla Dir. MiFID II, dal momento che questo, lungi dall'attribuire alle autorità di regolazione nazionali o europee (specie l'ESMA e l'EBA) un potere di intervento preventivo teso a vietare o limitare la realizzazione di specifici prodotti finanziari ritenuti nocivi per gli investitori o dannosi per l'integrità e la stabilità dei mercati, «si esaurisce in via prevalente a livello regolamentare (...) [nella] mera individuazione dei criteri ai quali far riferimento per l'identificazione di fattori di rischio nei contenuti delle negoziazioni».. 314 Su cui v. supra, para. 1.2.
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la resa in forma grafica (ad esempio, si suggerisce l’uso di tabelle al posto di elenchi315), e le informazioni rese disponibili tendono ad essere abbondanti e, troppo spesso, alluvionali. Infine, il coinvolgimento diretto del regolatore nella fornitura di informazioni volte a rendere il consumatore un soggetto attivo di mercato (empowerment), sotto forma di comunicazione istituzionale, è presente nei soli settori delle utilities. In questi casi, il regolatore si fa esso stesso produttore di informazioni sul presupposto che solo rafforzando la conoscenza da parte dei consumatori dei meccanismi di mercato sia possibile aumentare tanto la fiducia nel mercato stesso quanto il corretto esplicarsi della concorrenza tra i diversi operatori.
315 Si v. ad esempio ANAC, delib. n. 1310, Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, cit., p. 10 «l’utilizzo, ove possibile, delle tabelle per l’esposizione sintetica dei dati, documenti ed informazioni aumenta, infatti, il livello di comprensibilità e di semplicità di consultazione dei dati, assicurando agli utenti della sezione “Amministrazione trasparente” la possibilità di reperire informazioni chiare e immediatamente fruibili».
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SOMMARIO: CAPITOLO 1. Dati di esperienza ed oggettività della problematica. – 1.1. Il problema del no-reading. – 1.2. I costi della disclosure regulation: una carenza di dati. CAPITOLO 2. – L’impatto delle scienze cognitive sulla disclosure regulation. – 2.1. I bias e le euristiche che minano la disclosure regulation. – 2.2. Disclosure regulation, scienze cognitive e l’equivoco intorno al superamento della razionalità. – 2.3 Le (poche) verifiche empiriche sull’efficacia della disclosure regulation. – CAPITOLO 3. L’impatto delle tecnologie digitali e della cd. rivoluzione big data sulla disclosure regulation. – 3.1. Il prosumer. Ovvero del superamento della uni-direzionalità del flusso informativo dovuto all’impatto delle tecnologie digitali. Riflessi giuridici sulla disclosure regulation. – 3.2. Le piattaforme digitali dell’economia collaborativa: dei “pari”, ovvero dell’attenuarsi dei confini della parte debole. – 3.3. La rivoluzione big data. Di Pollicino, di profilatura e di aggravamento dell’asimmetria informativa. – CAPITOLO 4 Disclosure regulation. Un caso di fallimento regolatorio? – 4.1 Il “discorso” sul fallimento regolatorio. – 4.2. I limiti interni ed esterni della disclosure regulation tradizionale.
CAPITOLO 1 DATI DI ESPERIENZA ED OGGETTIVITÀ DELLA PROBLEMATICA
1.1. Il problema del no-reading Il Bundeskartellamt tedesco e l’Autorité de la Concurrence francese hanno avviato un procedimento nei confronti di Facebook sospettando che il gigante dei social network abbia abusato della propria posizione dominante nelle modalità con le quali ha modificato le condizioni d’uso dei dati personali dei propri utenti 1 , sospettando che 1 Si v. il report congiunto della Autorité de la concurrence e del Bundeskartellamt, Competition Law and Data, del 10.5.2016 (www.autoritedelaconcurrence.fr/doc/reportcompetitionlawanddatafinal.pdf), p. 25.
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l’operatore abbia approfittato della poca attenzione che gli utenti prestano alla lettura dei termini e delle condizioni contrattuali. L’autorità antitrust italiana, omologa delle due menzionate, ha anch’essa aperto un’istruttoria per indagare condotte analoghe di Facebook con riguardo ai dati personali raccolti dalla nota applicazione WhatsApp, recentemente acquisita dalla prima2. Il problema che fa da sfondo ad ambedue le istruttorie è quello della scarsa attenzione che gli individui prestano alla lettura di avvisi anche importanti che li riguardano e che è noto in letteratura come “no-reading problem” 3. I dati empirici invero confermano l’esistenza di siffatta problematica: secondo stime dell’Eurobarometro solo il 18% degli utenti legge completamente i privacy statement quando naviga in Internet4, mentre il 60% non leggerebbe affatto o solo parzialmente i termini e le condizioni contrattuali quando fa acquisti online5. Secondo uno lavoro condotto da Turow et al nel 2008, il 75% dei consumatori pensa che l’esistenza stessa di politiche di privacy implichi di per sé una protezione6, senza dunque ulteriormente discernerne il contenuto. In uno studio condotto da alcuni ricercatori americani sul comportamento di circa 45.000 consumatori, è risultato che solo nello 0,05% 2 Cfr. l’avvio di una doppia istruttoria nei confronti di Facebook da parte dell’Autorità antitrust italiana, di cui si dà notizia nel comunicato stampa del 28.10.2016 (http://www.agcm.it/stampa/comunicati/8433-cessione-dati-personali-afacebook-e-clausole-vessatorie,-doppia-istruttoria-antitrust-su-whatsapp.html), volto ad accertare, tra l’altro, se Facebook «abbia di fatto costretto gli utenti di WhatsApp Messenger ad accettare integralmente i nuovi Termini contrattuali, in particolare la condivisione dei propri dati personali con Facebook, facendo loro credere (...) che sarebbe stato, altrimenti, impossibile proseguire nell’uso dell’applicazione medesima». 3 I. AYRES e A. SCHWARTZ, The No-Reading Problem in Consumer Contract Law, in 66 Stanford L. Rev., 2014, p. 545-609; F. MAROTTA-WURGLER, Does Contract Disclosure Matter? in 168 J. of Inst.l and Theor. Econ., 2012, p. 94-119; O. BEN-SHAHAR, The Myth of the “Opportunity to Read” in Contract Law, in Europ. Rev. of Contract L., 2009, p. 1-28. 4 EUROBAROMETER, Data protection factsheet, giugno 2015: http://ec.europa.eu/justice/data-protection/files/factsheets/factsheet_data_ protection_eurobarometer_240615_en.pdf), p. 4. Un dato comunque migliorato rispetto a quello del 2005 (solo il 3% leggeva gli avvisi della privacy in Internet) riportato da C. JENSEN, C. POTTS e C. JENSEN, Privacy Practices of Internet Users: Self-Reports Versus Observed Behavior, in 36 Int.l J. of Human-Computer St., 1/2005, p. 203-227. 5 EUROBAROMETER, Special Report no. 342, Consumer empowerment, 2011, p. 122 ss. 6 J. TUROW, M. HENNESSY e A. BLEAKLEY, Consumers’ Understanding of Privacy Rules in the Marketplace, in 42 J. of Consumer Affairs, 3/2008, p. 411-424.
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dei casi i visitatori di siti di acquisto online accedevano alle pagine contenenti i termini e le condizioni di vendita, presenti nella homepage7. Mentre il tempo medio impiegato per leggere il contenuto dei suddetti è risultato di poco inferiore ai cinquanta secondi8. Anche con riguardo all’etichetta dei prodotti alimentari, la letteratura ha evidenziato i limiti di siffatto strumento in ordine alla effettiva capacità di informare i consumatori9: vi è ad esempio chi ritiene che non possa esservi trasparenza «quando tali informazioni sono comunque formulate facendo riferimento a parole tecniche o a sigle di classificazione che risultano incomprensibili alla maggioranza dei consumatori»10. Lo stesso è a dirsi con riguardo alla trasparenza amministrativa o a quella ambientale, ove i numerosissimi obblighi di pubblicazione o l’informativa resa in formato altamente tecnico o difficilmente reperibile (si pensi ai dati sulla qualità dell’aria, espressa in termini di «tasso di superamento giornaliero dei “valori limite” di emissione per le concentrazioni di biossido di zolfo, biossido di azoto, benzene, monossido di carbonio, piombo e PM10»11), rendono la disclosure regulation davvero «poco utile ad informare effettivamente i cittadini»12. Persino quando assumono decisioni rilevanti, come contrarre un mutuo per l’acquisto di una casa, molti consumatori, secondo uno stu-
7 Y. BAKOS F. MAROTTA-WURGLER e D.R. TROSSEN, Does Anyone Read the Fine Print? Testing a Law and Economics Approach to Standard Form Contracts, in 43 J. of Legal Studies, 1/2014, p. 1-35. 8 F. MAROTTA-WURGLER, Does contract disclosure matter?, cit. 9 Si v. Parte Prima, Cap. 3, Para. 1.1, ed in specie il caso dell’uso della terminologia “sale” e “sodio” nel Reg. 1169/2011. 10 G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare: obblighi di informazione in etichetta, in Contr. e impr., 2014, p. 1084-1092, ad p. 1085, il quale aggiunge che: «non vi può essere trasparenza nelle informazioni quando si dimentica la effettiva capacità di comprensione di coloro a cui tali informazioni sono destinate, dato che senza comprensione nessuna scelta è consapevole». Pertanto, conclude l’Autore, il grosso limite dell’impianto dell’etichettatura alimentare europeo consiste nell’«avere stabilito analiticamente le informazioni da inserire nelle etichette alimentari senza aver però contestualmente promosso una effettiva formazione e alfabetizzazione dei consumatori sui problemi relativi alla sicurezza alimentare». 11 N. RANGONE, Quale trasparenza per rendere il cittadino consapevole?, cit., p. 212. 12 Ibid.
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dio condotto nel 2010, non dedicherebbero più di un minuto alla lettura dei folti contratti13.
1.2. I costi della disclosure regulation: una carenza di dati Oltre che sul fronte dell’effettività, numerose critiche sono state avanzate anche su quello dei costi associati al (tutt’altro che ipotetico) dispendio di tempo che una attenta lettura degli avvisi (ancora una volta) della privacy in Internet comporta: secondo una stima realizzata da McDonald e Cranor, il tempo impiegato dagli utenti di Internet statunitensi per leggere attentamente siffatti avvisi “costerebbe” (in termini di costo opportunità) ben 781 miliardi di dollari all’anno14. Un diverso tipo di misurazione del costo degli obblighi informativi è possibile sul fronte delle imprese gravate dall’onere di farvi fronte. Sotto questo profilo, già a partire dal 2001 l’Ocse si è fatta promotrice di un poderoso sforzo teso alla riduzione degli oneri amministrativi a carico delle imprese 15 , proponendone una misurazione analitica 13
J. SOVERN, Preventing Future Economic Crises through Consumer Protection Law or How the Truth in Lending Act Failed Subprime Borrowers, in 71 Ohio State L. J., 4/2010, p. 761-844. 14 Corrispondenti a 244 ore l’anno di media trascorse a leggere gli avvisi per la privacy per ogni americano: A.M. MCDONALD e L.F. CRANOR, The Cost of Reading Privacy Policies, in Journ of L. & Pol. Inform. Soc., Privacy Year Revew, 2008, p. 540565, disponibile anche in http://lorrie.cranor.org/pubs/readingPolicyCostauthorDraft.pdf. I dati e l’aneddotica richiamati sono riportati anche nel bel saggio di G. LOEWENSTEIN, C.R. SUNSTEIN e R. GOLMAN, Disclosure: Psychology Changes Everything, in Annual Rev. of Econ., 6, 2014, p. 391-419, ad p. 399. 15 L’insieme delle iniziative dell’Ocse involgenti anche l’Italia ed aventi per obiettivo la semplificazione amministrativa e la riduzione degli oneri a carico delle imprese è costituita dai seguenti documenti: OCSE, Regulatory Reform in Italy, Parigi, 2001; OCSE, Businesses’ Views on Red Tape- Administrative and Regulatory Burdens on Small and Medium Sized Enterprises, Parigi, 2001; OCSE, From Red Tape to Smart Tape- Administrative Simplification in OECD Countries, Parigi, 2003; OCSE, Guiding Principles for Regulatory Quality and Performance, Parigi, 2005; OCSE, Background Document on Regulatory Reform in Oecd Countries, Parigi, 2006; OCSE, Cutting Red Tape. National Strategies for Administrative Simplification, Parigi, 2006; OCSE, Political Challenges of Implementing Successful Regulatory Reform: Issues Paper, Parigi, 2007; OCSE, Assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo, Parigi, 2007; OCSE, Overcoming Barriers to Administrative Simplification Strategies: Guidance for Policy Makers, Parigi, 2009; OCSE, Why Is Administrative Simplification So Complicated? Looking beyond, Parigi, 2010.
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(MOA), e facendone uno dei pilastri della better regulation16. Tra questi rientrano anche i costi derivanti dagli obblighi informativi che gli Stati impongono alle imprese e che, a partire dal 200817, anche in Italia sono oggetto di misurazione mediante la tecnica dello standard cost model18, con l’obiettivo di razionalizzarli e ridurli in quanto ritenuti “non necessari e sproporzionati”19. 16
A livello europeo, il ricorso al cd. standard cost model è indicato dalla Commissione come uno degli strumenti per stimare i costi amministrativi di una determinata regolazione, da impiegare nell’analisi di impatto costi/benefici. Il Para. 53 è interamente dedicato agli obblighi informativi e alla metodologia per il loro calcolo e la loro eliminazione. Esso è parte del “Better Regulation Toolbox”, adottato nel 2015. 17 Cfr. d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. in l. n. 133 del 2008 recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, il cui art. 25 introduce i piani di riduzione degli oneri amministrativi, ovverosia gli “oneri amministrativi derivanti da obblighi informativi nelle materie affidate alla competenza dello Stato, con l’obiettivo di giungere, entro il 31 dicembre 2012, alla riduzione di tali oneri per una quota complessiva del 25 per cento, come stabilito in sede europea”. Successivamente, la l. 106 del 12 luglio 2011, di conversione con modif. del d.l. 13 maggio 2011, n. 70 all’art 6, ha esteso l’obbligo di misurazione degli oneri amministrativi di tipo informativo alle Regioni, agli enti locali e alle autorità amministrative indipendenti, fissando l’obiettivo della riduzione degli oneri entro il 2012; mentre con il d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. nella l. 4 aprile 2012, n. 35, art. 3 sono stati introdotti due distinti programmi per il triennio 2012-2015, uno per la riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulla p.a. ed uno relativo per la contrazione dei tempi e oneri regolatori gravanti su cittadini e imprese. Su questi temi, per vero non troppo esplorati dalla dottrina giuridica, si v.: S. SALVI, La misurazione e la riduzione degli oneri regolatori: verso un allineamento alle migliori pratiche europee, in Giorn. dir. amm., 7/2012, p. 696-701; F. SARPI, La crociata contro gli oneri amministrativi. Attori, processi, tecniche e risultati della misurazione degli oneri amministrativi in alcuni paesi europei: un’analisi comparata, in A. Natalini e G. Tiberi (a cura di) La tela di Penelope. Primo Rapporto Astrid sulla semplificazione legislativa e burocratica, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 333553; N. RANGONE, Semplificazione amministrativa, in Encicl. Italiana Treccani, App. IX, 2015. 18 Una tecnica ideata in Olanda e quindi armonizzata a livello europeo (si parla infatti di EU standard cost model) che consente di stimare i costi amministrativi associati agli obblighi regolatori di tipo informativo, attribuendo misure standard a singole voci di costo per ogni più piccola parte di cui si compone l’adempimento (ad esempio, il costo orario dell’addetto, il costo del modulo da inviare all’amministrazione, ecc.). Per dettagli, cfr. Comunicazione della Commissione, EU common methodology for assessing administrative costs imposed by legislation, COM(2005) 518 def., del 21.10.2005 e Commissione europea, SWD Action Programme for Reducing Administrative Burdens in the EU Final Report, SWD(2012) 423 fin., del 12.12.2012, spec. p. 4. 19 Cfr. Comunicazione della Commissione europea, Action Programme for Redu-
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Si noti che queste stime di costo hanno ad oggetto i soli obblighi informativi i cui destinatari siano soggetti pubblici e non anche i privati o il pubblico indistinto: la disciplina nazionale della MOA, infatti, considera onere informativo qualunque adempimento che comporti la raccolta, l’elaborazione, la trasmissione, la conservazione e la produzione di informazioni e documenti alla pubblica amministrazione20. Tuttavia, dal momento che di dati o almeno stime altrettanto precisi e puntuali sul numero esatto degli obblighi informativi destinati ai privati e sul loro impatto economico non si dispone, si ritiene utile riportarle al fine di dare un ordine di misura oggettivo del fenomeno di cui trattasi. Così, tanto il Dipartimento della Funzione Pubblica, quanto le autorità di regolazione quali ad esempio, Aeegsi21, Consob22 e AGcom23 cing Administrative Burdens in the EU, del 24.1.2007, COM(2007) 23 def. (non pubblicata in GUUE), la quale rappresenta l’atto di avvio dell’agenda europea per la riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulle imprese del 25% entro il 2012, divenuto successivamente parte del Better Regulation Programme. Per una dettagliata disamina della materia si v. il già menzionato Dossier del Servizio per la qualità degli atti normativi del Senato, L. TAFANI, Better regulation for better results, cit. 20 Gli oneri amministrativi sono infatti così definiti dall’art. 3 del citato d.l. 5/2015, che modifica l’art. 8 della l. 11 novembre 2011 n. 180, in ciò differenziandosi da quanto avviene a livello europeo. Qui, infatti, va ricordato quanto enfaticamente sostenuto dalla Commissione europea nel documento approvato nelle conclusioni del Consiglio europeo tenutosi l’8-9 marzo 2007, quando, durante i negoziati per la revisione della Strategia di Lisbona del 2000, e sull’onda della pubblicazione in Olanda dei risultati di una misurazione dei costi amministrativi degli obblighi informativi, calcolati in base allo standard cost model, risultati pari al 3,6% del PIL nazionale, si concordava “sulla necessità di ridurre del 25% entro il 2012 gli oneri amministrativi derivanti dalla legislazione UE”. Ne trattano diffusamente: C. PINELLI, Liberalizzazione delle attività produttive e semplificazione amministrativa. Possibilità e limiti di un approccio giuridico, in Dir. Amm., 1-2/2014, p. 355-371 e G. VESPERINI, Il nuovo programma per la misurazione e la riduzione degli oneri amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 4/2014, p. 1177-1179. 21 Con delib. 443/2012/A l’Aeegsi ha condotto una prima ricognizione degli obblighi informativi nei settori dell’energia elettrica e del gas, introducendo alcune misure di riduzione dei relativi oneri amministrativi. Successivamente, con delib. 96/2013/A ha adottato un ulteriore pacchetto di misure di semplificazione degli oneri amministrativi associati agli obblighi informativi posti in capo ai soggetti regolati dall’Autorità stessa, avviando una consultazione pubblica per l’adozione di linee guida metodologiche per l’esercizio della MOA (si v. la delib. n. 97/2013/A). Per una sintetica illustrazione delle proposte, si v. A. FLORI. L’AIR nell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, in Osservatorioair.it, Scheda 8/2014, p. 22-23. 22 La MOA è stata avviata dalla Consob nel 2012 dando attuazione a quanto di-
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hanno catalogato, misurato (e razionalizzato) buona parte degli obblighi informativi insistenti in taluni settori. Ad. es., nel primo programma di misurazione degli oneri amministrativi in materia ambientale, condotto tra il 2008 e il 201224, sono stati “mappati” non meno di ventuno obblighi informativi di fonte statale25. Ebbene, secondo le stime della Funzione pubblica, l’insieme di tali obblighi informativi costerebbe alle imprese26 circa 3,4 miliardi di Euro annui27. In ambito finanziario, la MOA eseguita dalla Consob tra il 2012 e il 2014 ha consentito di individuare 619 “micro” obblighi informativi28 contenuti nei soli regolamenti Consob29. A questi, chiaramente, an-
sposto all’art. 6, co. 3, d.l. 70/2011. 23 Cfr. AGcom, delibera n. 657/15/CONS, relativa a Misurazione degli oneri amministrativi derivanti da obblighi informativi nei settori di competenza dell’AGcom: risultanze del processo di valutazione, del 1.12.2015. 24 La metodologia è stata applicata dall’Ufficio per la semplificazione amministrativa del Dipartimento della funzione pubblica, con l’assistenza tecnica dell’ISTAT su 100 procedure ad alto impatto, selezionate in collaborazione con gli stakeholder e le amministrazioni pubbliche. Fonte: L. FERRARA, Presentazione Nuovi strumenti per la smart regulation il programma di misurazione e riduzione degli oneri regolatori e la MOA ex ante, 10.11.2014. 25 Oneri gravanti sulle imprese e tesi a «produrre, elaborare, trasmettere informazioni sulla propria azione o produzione ad autorità pubbliche (ad esempio, moduli da compilare, documentazione da presentare, comunicazioni da effettuare, ecc.)». Si legge infatti nella Scheda MOA per l’Area Ambiente relativa all’anno 2007, elaborata dal Dipartimento della Funzione pubblica del 2.4.2008, che «(...) la normativa regionale spesso fonte di ulteriore gravosità degli obblighi informativi descritti non costituisce oggetto della presente attività di misurazione» (p. 2). Ai quindici obblighi mappati nella scheda MOA 2007, se ne sono aggiunti (e in parte sostituiti) altri sei nella rilevazione del 2008, presente nella Scheda Ambiente II, di ottobre 2008. 26 In particolare a quelle con un numero di addetti compreso tra i 5 e i 249. 27 Cfr. DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA, Misurazione Oneri Amministrativi, Stime per l’area Ambiente, Roma, 21.10.2010. 28 Così definiti da S. CARBONE, F. FIAMMA, T. MARCELLI, V. MIRRA e D. ZAOTTINI, La qualità della regolazione nell’esperienza della Consob. Dalla misurazione degli oneri amministrativi al ciclo della valutazione Il caso dell’equity crowdfunding, Consob Discussion papers n. 6, aprile 2016. 29 Più in dettaglio, la mappatura ha riguardato gli oneri amministrativi derivanti dagli obblighi informativi contenuti nei seguenti regolamenti della Consob: Emittenti; Mercati; Intermediari; Consulenti finanziari; Operazioni con parti correlate. In aggiunta, sono stati catalogati gli obblighi informativi contenuti nel Regolamento congiunto Consob e Banca d’Italia in materia di intermediari che prestano servizi di investimento e gestione collettiva del risparmio e nel provvedimento unico Consob e Banca d’Italia in materia di servizi di gestione accentrata. Cfr. S. CARBONE ET AL, op. ult. cit. p. 25.
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drebbero aggiunti – come peraltro espressamente riconosciuto dall’Autorità di vigilanza – gli ulteriori obblighi informativi introdotti a carico dei soggetti vigilati per effetto delle normative adottate a livello comunitario a seguito della crisi finanziaria al fine di tutelare i risparmiatori ed aumentare la trasparenza e la fiducia nei mercati30. Ad ogni modo, in base ai risultati della misurazione compiuta dalla Consob, risulta che «a livello di settore31 (...) gli adempimenti contenuti nei regolamenti adottati dalla Consob porta[no] a una stima di costi pari a (circa) 27 milioni di Euro annui». Come si nota, pur a fronte della ipertrofia normativa che caratterizza il settore finanziario (ancorchè l’indagine, giova ripeterlo, sia confinata alla sola disciplina di fonte Consob e, parzialmente, Banca d’Italia), l’impatto economico degli oneri informativi sulle imprese è, a livello settoriale, relativamente contenuto32. Nel settore delle comunicazioni elettroniche, la mappatura degli oneri informativi condotta da AGcom nell 201533 ha permesso di distinguerne trentacinque, derivanti da obblighi di fonte comunitaria34 e
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Così S. CARBONE ET AL, op. ult. cit. p. 22, riferendosi agli «interventi di revisione della Direttiva “Prospetto”, “MiFID”, “CRD” e “Transparency”, la Direttiva “AIFM” e gli interventi diretti quali i Regolamenti su Agenzie di Rating, Short Selling, “EMIR”, “PRIIPs”, “CRR”, “MIFIR”», di cui si è parzialmente detto nella Parte Prima. 31 «Cioè in riferimento alle 600 banche (circa) che prestano servizi di investimento». 32 Ad avviso della Consob questa evenienza sarebbe da ascrivere all’incidenza di due fattori: il nuovo assetto istituzionale della governance finanziaria, ove le regole sono principalmente di matrice europea (Esma), mentre alle autorità nazionali è lasciato un ruolo residuale; e il nuovo paradigma della vigilanza regolamentare in cui gli obblighi (e connessi oneri amministrativi) informativi sono recessivi rispetto a quelli definiti di “conformità sostanziale”, ovverosia agli obblighi minuziosi sull’attività e i «microcomportamenti», «soggetti a specifiche norme volte a conformare lo svolgimento delle operazioni economiche, per garantirne la trasparenza e plasmarne la correttezza … [si pensi alla] product intervention»: S. CARBONE, F. FIAMMA ET AL, op. ult. cit. p. 36, 37. 33 Cfr. AGcom, Delibera n. 657/15/Cons, relativa a Procedimento per la misurazione e riduzione degli oneri amministrativi derivanti da obblighi informativi nelle materie affidate alla competenza dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, del 1.12.2015. 34 Come la Digital Agenda for Europe, i cui “Pillar I: Digital Single Market” e “Pillar IV: Fast and ultra-fast Internet access” sono indicati quali fonte dell’Onere informativo n. 6 “Invio di informazioni quantitative per la redazione della Digital Agenda Scoreboard” nell’All. B alla delibera n. 657/15/CONS cit.
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nazionale35, senza tuttavia pervenire a stime complessive di settore, bensì a singole cifre indicanti gli oneri informativi annuali medi sostenuti per adempiere i singoli obblighi e l’incidenza (in %) dell’onere derivante dal singolo obbligo sul totale degli oneri di settore36. Se dunque i costi che gravano sulle imprese per adempiere agli obblighi di disclosure verso le autorità pubbliche appaiono assai rilevanti, almeno ragionando teoricamente, non meno sostanziali dovrebbero essere i costi che le stesse sopportano per adempiere agli obblighi informativi verso il pubblico e i consumatori. I pochi riferimenti a tale riguardo rinvenibili nei documenti MOA sembrerebbero confermare questa ipotesi. Ad esempio, la Consob, relativamente agli «obblighi informativi verso i clienti» afferma che essi «vengono generalmente considerati tra i più onerosi tra [gli intermediari]», aggiungendo tuttavia che essi sono «di difficile quantificazione»37. In senso non dissimile si esprime l’AGcom, che sottolinea la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra vero e proprio onere informativo (che sarebbe cioè nullo in mancanza dell’obbligo informativo imposto dalla regolazione) e produzione standard di informazione da parte delle imprese di comunicazione elettronica (quale è, ad esempio, la predisposizione delle offerte di riferimento, che pure è oggetto di specifico obbligo informativo), la quale viene considerata “business as usual”, dal momento che «la disseminazione di informazioni agli utenti assume un ruolo prioritario nei mercati delle comunicazioni elettroniche (...), anche a prescindere dalla presenza di specifici obblighi regolamentari di trasparenza»38. In altri termini, il motivo per il quale è difficile per un regolatore 35 Dalla legge istitutiva n. 249/97 al cod. delle comunicazioni elettroniche, alle delibere dell’AGcom stessa. 36 Cfr. AGcom, Delibera n. 657/15/Cons, All. A, Tab. 1, p. 104, come peraltro previsto dalla metodologia sulla definizione degli oneri informativi. 37 Dal momento che sotto il profilo dell’onere amministrativo, il costo si risolve nel mero obbligo di «conservazione della documentazione informativa ai fini di controllo da parte dell’Autorità di vigilanza»: così S. CARBONE, F. FIAMMA ET AL., op. cit. p. 32. 38 Rispetto alla quale, sarebbe sufficiente la spinta del “mercato”, dal momento che: «una corretta informazione sulle caratteristiche offerte (...) al dettaglio (...) rappresenta una indispensabile precondizione al corretto funzionamento dei mercati e, quindi, la riduzione di eventuali asimmetrie informative mediante una corretta informazione sui servizi offerti può risultare nell’interesse di tutti o alcuni concorrenti anche a prescindere dall’imposizione di obblighi regolamentari di trasparenza»: AGcom, Delibera n. 657/15/Cons, All. A, cit., p. 37.
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misurare i costi della disclosure regulation che gravano sulle imprese è che gli obblighi informativi sono connotati di specifica complessità, nel senso che contengono informazioni «che sarebbero comunque prodotte e diffuse dagli operatori a prescindere dalla presenza di obblighi informativi» stessi39. Ed inoltre, essi producono dei benefici, in termini di riduzione delle asimmetrie informative, che andrebbero valutate caso per caso ed apprezzate in ragione della qualità delle informazioni prodotte. Un esercizio evidentemente non semplice.
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AGcom, op. loc. ult. cit.
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CAPITOLO 2 L’IMPATTO DELLE SCIENZE COGNITIVE SULLA DISCLOSURE REGULATION
Come anticipato nell’Introduzione, una crescente numero di studi provenienti dalle scienze cognitive, che mutuano dalla psicologia sociale, dall’economia comportamentale40 e dalle neuroscienze, ha via via contribuito a porre in dubbio l’efficacia dello strumento regolatorio della disclosure regulation41, e ciò sul presupposto che essa in realtà non possa risolvere il problema dell’asimmetria informativa. La ragione è che se pure l’individuo, a beneficio del quale l’informazione è resa, fosse completamente informato, non disporrebbe comunque delle capacità cognitive per assorbire ed utilizzare tutte le informazioni, né delle doti di autocontrollo necessarie per decidere secondo i dettami razionalisti42. Come riportato in altre sedi, numerosi studi empirici sul comportamento umano e su come gli individui assumono le proprie decisioni offrono infatti nuove spiegazioni del perché molte regolazioni, anche 40
Una buona sintesi dei quali si può trovare in R.H. THALER e S. MULLAINATHAN, Behavioral Economics. The Concise Encyclopedia of Economics, Library of Economics and Liberty, del 14.7.2014, in http://www.econlib.org/library/Enc/BehavioralEconomics.html, ed una altrettanto pregevole nella tetralogia a cura di C.R. SUNSTEIN e L.A. REISCH, The economics of nudge, Londra, Routledge, 2016, che raccoglie i più importanti saggi apparsi sul tema a partire dagli anni Settanta del secolo scorso ad oggi. 41 Cfr. O. BAR GILL, Seduction by contract, Oxford, Oxford University Press, 2012; F. MAROTTA-WURGLER, Will Increased Disclosure Help? Evaluating the Recommendations of the ALI’s “Principles of the Law of Software Contracts”, in Univ. of Chicago L. Rev., 78, 2011, p. 165-186 (la quale fornisce evidenze empiriche circa il fatto che dare maggiore informazioni non porta ad un aumento della leggibilità e della comparabilità dei contratti standardizzati); F. MAROTTA-WURGLER, Even More Than You Wanted to Know, cit.; R. CRASWELL, Taking Information Seriously: Misrepresentation and Nondisclosure in Contract Law and Elsewhere, in 92 Virginia L. Rev., 2006, p. 565-632 e R. KOROBKIN, Bounded Rationality, Standard Form Contracts, and Unconscionability, in Univ. Chicago L. Rev., 70, 2003, p. 1203-1295. 42 R.H. THALER e C.R. SUNSTEIN, Nudge. Improving Decisions about Health, Wealth, and Hapiness, New Haven, Yale University Press, 2008, trad. it. Nudge. La spinta gentile, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 11.
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particolarmente sofisticate, si rivelano, alla prova dei fatti, inefficaci43. Essi, infatti, ci consegnano un individuo per molti versi lontano dagli assunti della micro-economia classica: tutt’altro che razionale o capace di massimizzare il proprio interesse, seppure perfettamente (non meglio) informato44. Le persone “reali” sono affette da bias e, nelle scelte complesse o gravate da incertezza, ricorrono a scorciatoie mentali o euristiche45.
43 F. DI PORTO e N. RANGONE, Cognitive-Based Regulation: New Challenges for Regulators?, in federalismi.it, n. 20/2013; F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice: Lessons for EU Rulemakers, in A.-L. Sibony e A. Alemanno (a cura di) Nudge and the Law. A European Perspective, Oxford, Hart Publ., 2015, p. 29-59. 44 T.B. GILLIS, Putting Disclosure to the Test: Toward Better Evidence-Based Policy, in 28 Loy. Consumer L. Rev., 2015, p. 33-105, spec. ad p. 50; R.E. NISBETT, E. BORGIDA, R. CRANDALL e H. REED, Popular Induction: Information Is Not Necessarily Informative, in J.S. Carroll e J.W. Payne (a cura di) Cognition and social behavior, Hillsdale (NJ), Lawrence Erlbaum, p. 113-133. 45 Nel campo della psicologia cognitiva il bias indica il condizionamento da cui è affetta la valutazione di un soggetto e che dipende da concetti preesistenti, di tipo culturale, sociale non per forza connessi tra loro da legami logici. Il bias condiziona la cognizione umana contribuendo alla formazione del giudizio individuale. Le euristiche sono, come detto, scorciatoie mentali che gli individui utilizzano in maniera automatica (e dunque inconscia) per adottare scelte quando sono in presenza di numerose informazioni. Le euristiche funzionano mediante un meccanismo di sostituzione, per cui anziché sistematicamente vagliare tutte le informazioni disponibili e successivamente decidere, l’individuo sostituisce a tale processo il richiamo ad una informazione più accessibile (detta euristica) in quanto più vicina, per motivi diversi (ad esempio, affettivi, di salienza, ecc.). La sistematizzazione dei bias e delle euristiche si deve all’opera di A. TVERSKY e D. KAHNEMAN, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in 185, Science, No. 4157, 1974, p. 1124-1131; D. KAHNEMAN e A. TVERSKY, Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk, 47 Econometrica, 2/1979, p. 263-291; D. KAHNEMAN, P. SLOVIC e A. TVERSKY (a cura di) Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1982. Tali studi sono considerati la base dell’economia comportamentale, i quali, grazie anche agli insegnamenti di H.A. SIMON, A Behavioral Model of Rational Choice, in 69 Q. J. Econ., 1955, p. 99-100, utilizzano indagini empiriche e dati di laboratorio per combinare la teoria economica neoclassica con il comportamento dell’individuo reale, al fine di evidenziarne eventuali scostamenti. Si v. altresì i fondamentali contributi di: D. ARIELY, Predictably Irrational: The Hidden Forces that Shape Our Decisions, New York, Harper Collins, 2008; J. BARON, Thinking and Deciding, 4a ed., New York, Cambridge University Press, 2007. Per la teoria della “sostituzione” nelle euristiche si v. D. KAHNEMAN, Thinking, Fast and Slow, New York, Penguin, 2011, trad. it., Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori, 2012.
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Per fare qualche esempio: un consumatore “reale” di energia può essere affetto da status quo bias46, preferendo non cambiare le proprie abitudini di consumo o il proprio fornitore, anche se adeguatamente informato sui vantaggi del cambiamento47; oppure da hyperbolic discounting o present bias48, che lo porta a non investire oggi su soluzioni di efficientamento della propria abitazione in vista di un risparmio futuro, malgrado sia informato sugli sgravi fiscali esistenti. È altresì noto che le decisioni sono ampiamente influenzate da come e quali informazioni rilevanti sono poste in evidenza (è la cd. salience49), da come sono presentate le opzioni a disposizioni (framing effect o effetto di contesto50) e dalla presenza di norme sociali che inducono l’individuo a comportarsi come i suoi pari all’interno del gruppo (conformism51). 46 D. KAHNEMAN, J.L. KNETSCH e R.H. THALER, Anomalies: The Endowment Effect, Loss Aversion, and Status Quo Bias, in 5 J. of Econ. Persp., 1/1991, p. 193-206. 47 Lo stesso tipo di distorsione emotiva è stata osservata nel settore finanziario, dove ad esempio, i risparmiatori tendono a non cambiare banca nonostante esistano sul mercato condizioni di conto corrente migliori; come anche nel settore delle comunicazioni elettroniche, in cui i consumatori non cambiano gestore pur in presenza di offerte più convenienti sul mercato: si v. ad esempio C. WADDAMS, op. cit., passim. 48 F. SHANE, G. LOEWENSTEIN e T. O’DONOGHUE, Time Discounting and Time Preference: A Critical Review, in G. Loewenstein, D. Read e R. Baumeister (a cura di) Time and Decision: Economic and Psychological Perspectives on Intertemporal Choice, New York, Sage, 2003, p. 13-87 anche disponibile in http://www.econ.nyu. edu/user/bisina/FredLoew.pdf; R. THALER, Mental Accounting and Consumer Choice, in 27 Marketing Science, 1 genn.-febb. 2008, p. 15-25; D. LIABSON, Golden Eggs and Hyperbolic Discounting, in 112 The Quarterly J. of Econ., 1997, p. 443-477. 49 S.E. TAYLOR e S.C. THOMPSON, Stalking the Elusive “Vividness” Effect, in 89 Psychological Rev., 2/1982, p. 155-181. 50 A. TVERSKY e D. KAHNEMAN, The Framing of Decisions and the Psychology of Choice, in 211 Science, 1981, p. 453-458; A. TVERSKY e D. KAHNEMAN, Rational Choice and the Framing of Decisions, in 59 Journal of Business, 1986, p. S251-S278; D. DUCHON, K. DUNEGAN e S. BARTON, Framing the Problem and Making Decisions: The Facts Are Not Enough, in IEEE Transactions on Engineering Management, 1989, p. 25– 27; Y. GANZACH e N. KARSAHI, Message Framing and Buying Behavior: A Field Experiment, in 32 J. of Business Research, 1995, p. 11-17; I.P. LEVIN, S.K. SCHNITTJER e S.L. THEE, Information Framing Effects in Social and Personal Decisions, in 24 J. of Exp.l Social Psychol., 1988, p. 520-529; B. KUVAAS e M. SELART, Effects of Attribute Framing on Cognitive Processing and Evaluation, in 95 Organiz.l Behavior and Human Decision Processes, 2004, p. 198–207. 51 Su cui si v. C.F. CAMERER, G. LOEWENSTEIN e M. RABIN (a cura di) Advances in Behavioral Economics, Princeton, Princeton University Press, 2004; J.M. NOLAN, P. WESLEY SCHULTZ, R.B. CIALDINI, N.J. GOLDSTEIN e V. GRISKEVICIUS, Normative Social Influence is Underdetected, in 34 Personality and Social Psychology Bulletin, 2008,
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L’operare di tali variabili mentali nel processo decisionale porta gli individui a comportarsi in maniera inaspettata secondo i dettami della teoria neo-classica, ma che diventa in qualche modo prevedibile alla luce delle scienze cognitive e, dunque, anche regolabile. Se il regolatore non tiene conto di questi fattori nel processo regolatorio, rischia di vedere vanificata l’efficacia dei propri interventi, soprattutto di quelli volti alla modifica dei comportamenti individuali e alla tutela degli interessi dei singoli (come ad esempio, dei consumatori), quale è la disclosure regulation.
2.1. I bias e le euristiche che minano la disclosure regulation Nello specifico della regolazione tradizionale basata sugli obblighi di information disclosure, il premio Nobel Herbert Simon52 già negli anni Cinquanta del secolo scorso, aveva chiarito come questa potesse generare sovraccarico informativo (information overload) 53 e dunque frustrazione e alienazione, anziché rendere edotto l’individuo (il risparmiatore o il consumatore) nel compiere la scelta più corretta54. Un ragionamento che può estendersi ad ogni campo della disclosure regulation, da quello ambientale a quello della trasparenza amministrativa, la quale, come detto, dovrebbe sollecitare il cittadino a compiere il controllo sociale sull’operato della p.a. Anche la regolazione basata sulla trasparenza delle offerte commerciali nei mercati liberalizzati al dettaglio, pensata per favorire la pp. 913-923. 52 Cfr. H.A. SIMON, Administrative Behavior, 1945, 4a ed., 1999, The Free Press, p. 226, secondo cui: «The limit is not information but our capacity to attend it»; H.A. SIMON, A Behavioral Model of Rational Choice, in 69 Q. J. Econ., 1955, pp. 99‒100, e H.A. SIMON, Rational Decision Making in Business Organizations, in 69 Am. Econ. Rev., 1979, pp. 493-513. 53 Si v. altresì D. KAHNEMAN, Attention and Effort, New Jersey, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1973. Si v. altresì Commissione europea, SWD(2012)235/F1, Knowledge enhancing aspects of consumer empowerment 2012-2014, del 19.7.2012. Sul problema dell’eccesso informativo e della diffusione di informazione pubblicitaria non corretta cfr. anche A. JANNARELLI, La disciplina dell'atto e dell’attività, cit., ad p. 530 e R. RUMIATI e N. BONINI, Psicologia della decisione, Bologna, Il Mulino, 2001. 54 H. LUTH, Behavioural Economics in Consumer Policy: The Economic Analysis of Standard Terms in Consumer Contracts Revisited, Anversa, Intersentia, 2010, spec. p. 48 ss.; E. TSCHERNER, Can Behavioural Research Advance Mandatory Law, cit., ad p. 148.
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concorrenza nelle utilities, può fallire a causa di una diffusa inerzia tra i consumatori55. Si tratta di un tipo di bias studiato in letteratura che conduce i consumatori a non cambiare il proprio fornitore pur se sul mercato sono presenti alternative più vantaggiose, per il semplice desiderio (non razionale) di non modificare lo status quo56. Rispetto alla disclosure regulation in ambito finanziario, che rappresenta la punta più avanzata in fatto di considerazione delle differenze tipologie di clientela, grazie alla “valvola” della “adeguatezza”, gli studi di finanza comportamentale57 hanno già da tempo rilevato 55 È quanto dimostrato ad esempio, da C. WILSON e C. WADDAMS PRICE, Do Consumers Switch for the Best Supplier?, in 62 Oxford Econ. Papers, 4/2010, p. 647-668. Certamente, l’inerzia può essere una delle cause di fallimento; ma è ben possibile che altri bias siano in agguato. Ad esempio, la durata spesso limitata di certe offerte commerciali o la non corrispondenza tra quanto dichiarato nell’offerta e quanto poi goduto nel servizio acquistato, possono minare la fiducia dei consumatori nella “esperienza” dello switching: un bias che, se fosse empiricamente dimostrato, potrebbe chiamarsi “Santa Claus bias”, intendendosi il bias di chi non crede per principio alle offerte commerciali (è iperscettico e resta a lungo disilluso, come i bambini dopo aver appreso che Santa Claus non esiste), e tende a domandarsi in primis quale sia il guadagno per l’impresa più che il vantaggio per sé. 56 Si v. a tal proposito le conclusioni della poderosa market inquiry condotta dall’autorità per la concorrenza britannica nel settore energetico, da vari lustri aperto alla concorrenza, ove si propongono consistenti ed intrusivi rimedi regolatori per far fronte, tra le altre, alla incapacità di molti consumatori di «engage to exploit the benefits of competition»: CMA, Energy market investigation final report, 24 giugno 2016, p. 48. 57 La letteratura sul punto è vastissima, si rinvia a quelli che sono considerati i “padri” della ricerca in tale campo, ovvero: S. MULLAINATHAN e R. THALER, Behavioural Economics, MIT Dep. of Ecpm., Working Paper Series, 2000, passim; N. BARBERIS e R. THALER, A Survey of Behavioural Finance, in G. Constantinides, R.M. Stulz e M. Harris (a cura di) Handbook of the Economics of Finance, North Holland, Elsevier, 2003, vol. 1, part. 2, p. 1053-1128. In ambito italiano, si v. in particolare gli studi di: U. MORERA, Legislatore razionale versus investitore irrazionale: quando chi tutela non conosce il tutelato, in AGE, 1/2009, p. 78-88; N. LINCIANO, Errori cognitivi e instabilità delle preferenze nelle scelte di investimento. Le indicazioni di policy della finanza comportamentale, Quaderni di finanza della Consob, n. 66/2010; oltre al numero monografico a cura di U. MORERA e F. VELLA (a cura di) Finanza comportamentale. Investitori a razionalità limitata, in AGE, 1/2012, ed ivi in particolare il saggio di U. MORERA e E. MARCHISIO, Finanza, mercati, clienti e regole…ma soprattutto persone, p. 19-48, quello di F. VELLA, La finanza è bella: regole per viverla meglio, p. 215-240 e di R. CATERINA, Psicologia della decisione e tutela del consumatore, p. 67-84. Si v. altresì: N. LINCIANO e P. SOCCORSO, La rilevazione della tolleranza al rischio degli investitori attraverso il questionario, discussion paper Consob 4/2012; U. MORERA, Irrazionalità del contraente investitore e regole di tutela, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre
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come poca sia la considerazione data al «fatto che le scelte finanziarie degli individui contravvengono sistematicamente alle ipotesi di perfetta razionalità alla base della teoria economica classica», essendo gli investitori «condizionati da numerosi limiti cognitivi e bias comportamentali e da un serie di tratti psicologici e fattori emotivi che ne influenzano le decisioni»58. Già Kahneman e Tversky avevano empiricamente rilevato che la percezione del rischio può essere distorta da eccesso di fiducia o di ottimismo (overconfidence) 59 determinato da euristiche che inducono l’individuo ad assumere comportamenti eccessivamente rischiosi nella errata percezione di poter controllare il corso degli eventi60. Scelte che sarebbero considerate sub-ottimali secondo l’ipotesi dell’efficient capital market (o ECMH61), sono spesso invece il frutto dell’operare di euristiche come la availability oppure l’anchoring62, per cui si tende a semplificare informazioni complesse ed a considerare unicamente quelle facilmente richiamabili alla memoria (i.e. disponibili, come ad esempio, un ricordo molto vivido) oppure, appunto, ancorate ad una opzione informativa di default (ad esempio, un prezzo di riferimento, o una qualità che è stata particolarmente enfatizzata, ecc.). il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, Roma, Roma Tre-press, 2014, p. 201-210 e M. GENTILE, N. LINCIANO, C. LUCARELLI, P. SOCCORSO, Financial disclosure, risk perception and investment choices. Evidence from a consumer testing exercise, Quaderni di finanza Consob, 82/2015. 58 Così P. SOCCORSO, La centralità dell’informazione nella relazione intermediariocliente. I riflessi dei deficit cognitivi e dei bias comportamentali degli individui sul corretto adempimento degli obblighi previsti dal quadro normativo e regolamentare di riferimento, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, Roma, Roma Tre-press, 2014, p. 201226, ad p. 218. 59 J. LUZAK, To Withdraw or Not to Withdraw? Evaluation of the Mandatory Right of Right of Withdrawal in Consumer Distance Selling Contracts Taking Into Account its Behavioural Effects on Consumers, in 37 J. of consumer policy, 2014, p. 91-111. 60 Si tratta del noto saggio A. TVERSKY e D. KAHNEMAN, Judgement under Uncertainty, cit., che valse al secondo il premio Nobel per l’economia (il primo morì prima del conferimento dell’illustre riconoscimento). 61 R.J. GILSON e R.H. KRAAKMAN, The Mechanisms of Market Efficiency, in 70 Virginia L. Rev., 4/1984, p. 549-644. 62 Ovverosia la tendenza ad ancorare le scelte future, ad esempio, di investimento su di una informazione passata, quale potrebbe essere la performance di un titolo oppure il valore del titolo nel momento in cui viene acquistato. Sul questi temi si v. U. MORERA e E. MARCHISIO, Finanza, mercati, clienti e regole… ma soprattutto persone, in AGE, 1/2012, p. 19-48 e N. LINCIANO, Errori cognitivi e instabilità, cit.
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È stato dimostrato che perfino soggetti con conoscenze avanzate in ambito finanziario, se posti dinanzi a scelte complesse, non sono in grado di utilizzare le proprie competenze in modo adeguato. In altri termini, anche i soggetti che rientrerebbero tra gli investitori “professionali” o tra le “controparti qualificate”63, piuttosto che adottare un approccio prudente, tenderebbero ad essere over-confident o ottimisti rispetto ai guadagni futuri quando si tratti di decidere in merito alle scelte di rischio da assumere64. Questo eccesso di “confidenza” nelle proprie capacità di auto-controllo e di conoscenza porta altresì a fare previsioni errate sull’inverarsi di un evento ed in generale sulle stime di rischio. Secondo un rapporto della Consob sui comportamenti di risparmio delle famiglie, addirittura l’83% dei risparmiatori con conoscenze finanziarie più elevate sarebbe affetto da almeno un bias; percentuale che scende al 66% nella popolazione con minori conoscenze finanziarie65. L’eccesso informativo genera altresì un choice overload, nel senso che all’aumentare delle informazioni fornite, l’individuo cessa di assimilarle, comprenderle e valutarle, passando alla fase decisionale che, anziché basarsi sulla comparazione sistematica delle diverse opzioni, tende ad agganciarsi a scorciatoie (le euristiche) come “prime impressioni”, suggerimenti di advisor, ecc. D’altro canto, non solo, come visto, l’advisor può andare soggetto agli stessi bias dell’investitore, ma può, in taluni casi, avere interessi in conflitto con quest’ultimo. Vi sono studi empirici, la cui validità nel contesto italiano andrebbe ovviamente verificata, che dimostrano che la segnalazione del potenziale conflitto di interesse o non viene percepita oppure, ove anche percepita, produce l’effetto non desiderabile di ignorare l’informativa senza rinunciare alla consulenza stessa66. 63
Ai sensi dell’art. 35 del Reg. Interm. Consob. Ciò genera rilevanti interrogativi sul ruolo dell’educazione finanziaria, ovverosia se essa possa indurre un effetto collaterale (cd. boomerang) negli investitori, i quali, sentendosi più “educati” nella materia, assumono maggiori rischi. È quanto emerge dal Rapporto Consob curato da M. GENTILE, N. LINCIANO, C. LUCARELLI, P. SOCCORSO, Financial disclosure, cit., p. 10. Sulla consulenza finanziaria in relazione alle problematiche ed alla letteratura cognitiva, si v. U. MORERA, Nuove prospettive per l’educazione finanziaria, in Foro it., 2015, V, col. 125; N. LINCIANO, Le distorsioni comportamentali e la consulenza finanziaria, in AGE, n. 1/2012, p. 135-148. 65 Cfr. CONSOB, Report on financial investments of Italian households Behavioural attitudes and approaches, del 1.6.2015, p. 22. 66 Commissione europea, Final Report on Consumer Decision-Making in Retail In64
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Nel contesto delle transazioni finanziarie, inoltre, l’incidenza dei bias è particolarmente diffusa sia per la complessità intrinseca dei prodotti scambiati, sia per il fatto che le relazioni che si instaurano tra investitore e intermediario tendono ad essere di lunga durata, e sia anche perché i prodotti finanziari hanno la caratteristica di essere dei beni “di esperienza” (i.e. le cui qualità si apprezzano solo dopo un certo lasso di tempo dal momento dell’acquisto). Queste caratteristiche rendono difficile poter apprezzare l’efficacia in concreto degli obblighi di disclosure semplicemente perché «non si può (...) aspirare ad un ideale di consumatore [rectius: individuo] dotato di razionalità olimpica, e privo di limitazioni nella capacità di elaborare informazioni»67.
2.2. Disclosure regulation, scienze cognitive e l’equivoco intorno al superamento della razionalità Le conseguenze sul piano giuridico del superamento dell’assunto della “razionalità”68 e della presenza dei bias nelle decisioni sono state arate specialmente tra gli studiosi delle discipline di diritto bancario e finanziario69. La dottrina civilistica più sensibile al tema ne ha tracciato alcuni percorsi, iniziando ad interrogarsi, ad esempio, sull’impatto che tali studi hanno sul concetto di “agente razionale”, essendo questo un «coelemento della fattispecie normativa (...) nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette», in quanto riferita al «consumatore “medio”, volendosi così sottendere il comportamento di un consumatore
vestment Services: A Behavioural Economics Perspective, novembre 2010: «There is evidence that free communication enables advisors to exploit advisees’ existing biases but not to de-bias them». 67 Così R. CATERINA, Psicologia della decisione, cit., p. 81, ma al più «si può certamente limitare la tutela ad un consumatore ragionevolmente attento e avveduto». 68 E. SHAFIR e R.A. LEBOEUF, Rationality, in 53 Annual R. of Psychology, 2002, p. 491-517. 69 Si v. supra gli autori riportati alle note 57, 58, 61 e 64. Per applicazioni in altri ambiti della scienza giuridica, si v. E. PICOZZA, L. CAPRARO, V. CUZZOCREA e D. TERRACINA (a cura di) Neurodiritto. Una introduzione, Torino, Giappichelli, 2014; L. ARNAUDO, La ragione sociale. Saggio di economia e diritto cognitivi, Luiss University Press, Roma, 2013; E. RIGHINI, Behavioural law and economics. Problemi di policy, assetti normativi e di vigilanza, Milano, Franco Angeli, 2012.
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normalmente informato che agisce in modo ragionevolmente avvertito e attento70». Con specifico riguardo agli interventi di regolazione sul contratto – quale è l’obbligo informativo – autorevole dottrina, nel solco della tradizione che ne individua la finalità rimediale rispetto ai fallimenti di mercato, precisa che tale obbiettivo abbia ad inverarsi «nella misura in cui questi [i.e. i fallimenti di mercato] pregiudic[hi]no l’agire razionale degli operatori (che in assenza di tali fallimenti potrebbe efficacemente dispiegarsi)»71. E per tale via afferma che la regolazione servirebbe a rimediare «ai conseguenti deficit di razionalità cognitiva e comportamentale degli operatori. E ciò sul presupposto che siffatti market failure esistano, e possano e debbano essere contrastati»72. Altra dottrina è invece meno incline a riconoscere un siffatto ruolo alla regolazione, ritenendo che sebbene i limiti cognitivi minino la completa razionalità, essi non facciano venir meno l’autodeterminazione; il che implica che gli obblighi informativi vadano “declinati”, sul modello di quanto avviene ad esempio, nella cd. “alleanza terapeutica”, che amplia il contenuto del consenso informato in ambito medico73. Invero, l’idea di fallimenti cognitivi di mercato (o behavioural market failure) è stata elaborata in dottrina74 e persino richiamata da talu70
Così A. ZOPPINI, Le domande che ci propone l’economia comportamentale ovvero il crepuscolo del «buon padre di famiglia», in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale, cit., p. 11-22, ad p. 16. Si v. altresì l’opera collettanea di R. CATERINA (a cura di) I fondamenti cognitivi del diritto. Percezioni, rappresentazioni, comportamenti, Milano, Bruno Mondadori, 2008 e, più di recente, N. LETTIERI, S. FARO e E. FABIANI (a cura di) Diritto, neuroscienze, scienze della cognizione, Napoli, ESI, 2015. 71 Così V. ROPPO, I paradigmi di comportamento del consumatore, del contraente debole e del contraente professionale nella disciplina del contratto, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale, cit., p. 25-45, ad p. 40, che prosegue «e quindi offre rimedi per prevenire ex ante, o rimediare ex post, i fattori di disturbo di questo agire razionale». 72 V. ROPPO, I paradigmi di comportamento, cit. p. 41 (enfasi aggiunta). 73 G. GRISI, Gli obblighi informativi quali rimedio dei fallimenti cognitivi, in G. Rojas Elgueta e N. Vardi (a cura di) Oltre il soggetto razionale, cit., p. 58-73, ad p. 68. 74 Tra i molti, cfr. W.K. VISCUSI e T. GAYER, Behavioral public choice: the behavioral paradox of government policy, in 38 Harvard J. of Law & Public Policy, 2015, p. 973–1007, ad p. 986 «cognitive limitations and psychological biases that lead people to make choices that cause self-harm’ sono ‘another type of market failure that justifies government intervention»; sulla stessa linea, si v. R. BUBB e R.H. PILDES, How Behavioural Economics Trims Its Sails and Why, in 127 Harvard Law Review, 2014, p. 1595– 678.
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ne autorità di regolazione75. Lo stesso Sunstein, riprendendo il concetto di “internality” elaborato in ambito economico76, ritiene che la regolazione possa intervenire per correggere i fallimenti di mercato determinati dalle “internalità”77. Tuttavia, l’Autore precisa che le condizioni per intervenire con la regolazione al fine promuovere comportamenti nell’interesse dell’individuo (ad esempio, per non farlo iniziare a fumare o per farlo smettere di fumare), sono: (i) che sia possibile rendere note le sue preferenze (nell’esempio fatto, sapere che effettivamente vuole smettere di fumare/non iniziare a fumare); e (ii) che sia dimostrabile che se l’individuo fosse adeguatamente informato sulle conseguenze (e i costi) delle sue azioni, cambierebbe il suo comportamento78. D’altronde, come abbiamo argomentato in altra sede79, la regolazione non dovrebbe mai avere come obiettivo immediato e diretto (il rationale) quello di rimediare ad un fallimento di mercato in quanto fallimento cognitivo, ancorchè diffuso e ripetuto presso la popolazione dei regolati. Pena il rischio di scadere in una pericolosa deriva despoti75
Cfr. ad esempio, Commissione europea – Joint Research Centre, Behavioural insights applied to policy. European Report 2016, Brussels, 2016,; BEHAVIOURAL INSIGHTS TEAM (UK), Applying behavioural insights to regulated markets, 26.5.2016, p. 34. 76 Il concetto di “internality” è stato sviluppato da R.J. HERRNSTEIN, G.F. LOEWENSTEIN, D. PRELEC e W. VAUGHAN, Utility Maximization and Melioration: Internalities in Individual Choice, in 6 J. of Behav. Decision Making, 1993, p. 149–185 ed indica il fatto che i bias (in particolare il present bias) si traducono in costi che l’individuo impone a se stesso per il fatto di adottare comportamenti (ad esempio, fumare) che non sono nel proprio interesse. Vi sarà “internality” quando l’individuo agisce al fine di ottenere benefici di breve periodo (o per evitare costi di breve periodo), benché ciò gli determini costi netti di lungo periodo (nell’esempio fatto, dei danni permanenti alla salute). 77 Ovverosia dai comportamenti dettati da bias che l’individuo assume e che non sono nel suo miglior interesse. 78 Si v. H. ALLCOTT e C.R. SUNSTEIN, Regulating Internalities, in 34 J. Pol’y Analysis & Mgmt., 3/2015, p. 698-705 disponibile anche in http://nrs.harvard.edu/urn3:HUL.InstRepos:16150609 e, per una discussione delle conseguenze etiche di simili interventi, C.R. SUNSTEIN, The Ethics on Influence: Government in the Age of Behavioral Science, New York, Cambridge University Press, 2016. 79 F. DI PORTO, State of the art of regulation scholarship in Italy and some thoughts on cognitive-based regulation, in M. Lodge (a cura di) Regulation scholarship in crisis?, CARR Discussion Paper no. 84, London School of Economics, Londra, ottobre 2016, p. 32-38 (http://www.lse.ac.uk/accounting/CARR/pdf/DPs/CARR_DP84-MartinLodge.pdf).
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ca. Come regola generale non si ritiene che il limite cognitivo possa da solo validamente suffragare l’adozione di una risposta regolatoria. L’esigenza regolatoria, l’interesse pubblico che il regolatore persegue, ha infatti perimetro più ampio della presenza del limite cognitivo. Esso non può rappresentare da solo un fallimento di mercato, potendo essere al più una concausa dello stesso80. Il fallimento di mercato dell’asimmetria informativa, come visto, è semmai riduttivamente rappresentato dalla complessità che gli studi della scienza cognitiva ci consegnano. Mentre il limite cognitivo potrebbe essere (i) tutt’altro che irrazionale; (ii) motivato, consapevole e persistente; (iii) dipendente dal quadro regolatorio stesso; (iv) riferito al “qui e ora” e, dunque, non generalizzabile ad un intero mercato. Il fatto che i bias siano deviazioni “sistematiche” dalla razionalità significa solamente che essi possano essere “trattati” attraverso la regolazione, non che essi debbano essere “corretti” dalla regolazione. Un decisore pubblico che intervenisse per correggere le scelte individuali che devino da un qualche astratto, razionale modello, agirebbe ben al di là di uno Stato paternalista. Sarebbe uno decisore che tenta, paradossalmente, di correggere il modo in cui le persone “reali” decidono, pensano e si comportano per perseguire un modello tipologico, irrealistico di essere umano. L’interesse pubblico che ha di mira la regolazione non dovrebbe mai coincidere col divieto o la prevenzione del bias per se. Se infatti l’esigenza regolatoria, l’interesse pubblico avuto di mira, coincidesse con la presenza stessa del limite cognitivo, si rischierebbe di trascendere nel despotismo, cioè ben oltre lo Stato etico e molto, troppo oltre lo Stato paternalista. Sbaglia dunque chi ritiene che obiettivo del regolatore debba essere quello di correggere i bias, le anomalie, le deviazioni dalla razionalità. Perché tali non sono, essendo invece semplici caratteristiche dell’agire umano. Quando in letteratura si parla di tecniche regolatorie di de-biasing81, infatti, non si allude all’eradicamento di una devianza, quasi fosse un 80
Ad esempio, il bias dell’inerzia può aiutare a spiegare perché la liberalizzazione del mercato al dettaglio dell’energia elettrica non abbia funzionato, ma il fine pubblico che giustifica l’intervento regolatorio continua a rimanere quello di aprire il mercato alla concorrenza, non già quello di ridurre l’inerzia dei consumatori. 81 C. JOLLS e C.R. SUNSTEIN, De-Biasing through law, 35 Journal of Legal Studies, 2006, p. 199-241; Y. FELDMAN e O. LOBEL, Behavioural Trade-offs: Beyond the Land of Nudges Spans the World of Law and Psychology, in A. Alemanno e A.-L. Sibony (a cura di) Nudge and the Law. A European Perspective, Oxford, Hart Publ., p. 301-324.
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morbo. Ma all’approntamento di mezzi e strumenti di supporto per facilitare l’emersione di “pensieri lenti”82 , dunque a mezzi che sostengano il pensiero riflessivo nel tentativo di far riflettere: essi sono strumenti di empowerment 83 . Un buon esempio è rappresentato dalle “cooling-off rule” o, nel nostro ordinamento, il diritto al ripensamento di cui all’art. 52 cod. cons. che, in un’ottica cognitiva, servono a restituire tempo per ripensare “a freddo” a decisioni – tipicamente di acquisto – di tipo compulsivo84. Ma per restare all’ambito della disclosure regulation, gli strumenti di semplificazione e standardizzazione dell’informazione servono a ridurre la mole di dati da trasmettere e ad offrire un’informazione più comprensibile, ma servono anche a rendere essenziale e saliente i messaggi da comunicare così da attenuare il sovraccarico informativo e contribuire ad attivare la riflessione al fine di favorire il superamento dei bias in via autonoma. Se dunque il portato degli studi delle scienze cognitive sul ragionamento e comportamento umani è il superamento del paradigma dell’agente razionale, sul piano giuridico, ciò non determina il venir meno dell’autoresponsabilità del soggetto, pur debole, a beneficio del quale è posto l’obbligo informativo.
2.3. Le (poche) verifiche empiriche sull’efficacia della disclosure regulation Meno numerosi, ma pur sempre importanti, sono gli studi sull’impatto che la disclosure regulation ha prodotto sul comportamento degli individui, ovverosia studi empirici condotti ex post in grado di verificare quali tra i numerosi obblighi di information disclosure abbiano funzionato e quali no85. 82
D. KAHNEMAN, Thinking. Fast and Slow, cit. Per la definizione di empowerment e la differenza rispetto agli strumenti classici di tutela del consumatore si v. F. DI PORTO, Protezione ed empowerment del consumatore: profili cognitivi della regolazione, in Amministrazione in cammino, novembre 2012; per la distinzione tra strumenti di empowerment cognitivo e di nudge si v. F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, p. 36. 84 Sul punto si tornerà infra, Parte Terza, Cap. 2, para. 2.1, lett. b). 85 Cfr. OXERA, Review of literature on product disclosure, 29 ottobre 2014, p. 7: «This may be for a variety of reasons: many disclosure initiatives are quite recent, no testing may have been conducted, or the body promulgating a certain product disclo83
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Come anticipato nell’Introduzione, tra gli studiosi che hanno prodotto la critica forse più serrata e definitiva alla disclosure regulation sono Omri Ben-Shahar e Carl Schneider, che al tema hanno dedicato importanti contributi86, secondo i quali: «gli obblighi informativi non possono funzionare; né possono essere accomodati; possono arrecare più danni che benefici. Hanno fallito in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni area, in ogni metodo, e per decadi»87. Essi dimostrano empiricamente l’incapacità della disclosure di raggiungere gli obiettivi per i quali l’informazione è fornita, sia perché gli obblighi informativi tendono a crescere in numero e a divenire, col tempo, vieppiù complessi, sia perché il contenuto informativo ad essi connesso è spesso così lungo e cognitivamente impegnativo da assorbire l’attenzione degli individui, i quali smettono rapidamente di leggere88. Si tratta del già menzionato problema dell’information overload, dal quale va distino il – pure citato e più problematico – effetto di accumulo89. Quest’ultimo deriva dalla presenza nell’ordinamento giuridico di un elevato numero di disclosure, che concorrono in egual misura ad “accaparrarsi” l’attenzione dell’individuo. Ma essendo quest’ultima, per definizione, una risorsa scarsa ogni disclosure finisce per ridurre la capacità complessiva dell’individuo di recepire altre disclosure. Di conseguenza, il regolatore è destinato al fallimento non potendo
sure may not wish to release the results of any studies done on the new disclosure». 86 O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, The Failure of Mandated Disclosure, 159 Univ. Pa. L. Rev. 647, 2011, p. 684-90 e più diffusamente in O. BEN-SHAHAR e C. E. SCHNEIDER, More Than You Wanted to Know¸cit.; O. BEN-SHAHAR, The Myth of the “Opportunity to Read”, cit. 87 Traduzione nostra. Sintetizza così O. BEN-SHAHAR, The Failed Reign of Mandated Disclosure, in Upenn RegBlog, 15.6.2015 (in http://www.regblog.org/2015/06/15/ benshaharschneiderfaileddisclosure/print/): «For decades, able policymakers have ingeniously tried method after method. The attempts are legion: full and summary disclosure; advance and realtime disclosure; oral and written disclosure; disclosure in words and in numbers; disclosure in boxes and in charts; disclosure in depth and in scores; disclosure by guidelines and by formulas; disclosure in print and on line. Still, success always remain around the corner. Today, ardent and thoughtful “disclosurites” argue that simplification is the answer. But decades of simplification efforts have also yielded little progress». 88 A. PORAT e L. STRAHILEVITZ, Personalizing Default Rules and Disclosure with Big Data, Coase-Sandor Institute for Law and Economics Working Paper No. 634, 2013, p. 42. 89 Per una illustrazione del quale si rinvia a quanto detto nella Introduzione, nota 42.
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intervenire complessivamente a regolare tutti gli obblighi informativi in ogni possibile settore, e perché l’effetto di accumulo sarebbe comunque insuperabile, considerata la quantità di disclosure presenti nell’ordinamento. Ciò che il regolatore tende ad ignorare, secondo gli Autori, è l’effetto di accumulo cui va soggetta l’attenzione dell’individuo, cosa che rende di fatto inservibili anche le più sofisticate tecniche di semplificazione dell’informazione, come numerosi esperimenti condotti anche sul campo hanno dimostrato90. Sebbene, infatti, la semplificazione possa arrivare a facilitare la comprensione di una disclosure, essa non sarebbe mai sufficiente ad evitare l’accumulo derivante da altre informative originate da obblighi informativi presenti nello stesso o in altri settori. Ulteriori problematiche sono state poste in evidenza da altre rilevazioni empiriche, realizzate nell’ambito del settore finanziario. Esse, in particolare, hanno dimostrato che anche individui esperti nella materia hanno difficoltà a comprendere le disclosure, e che essi tendono a non leggere le informazioni sebbene gli avvisi non siano troppo lunghi ed anche nel caso in cui si tratti di assumere decisioni finanziarie molto rilevanti91. Evidenze come quelle appena citate dimostrerebbero, in altri termini, che persino i soggetti da cui ci si potrebbe attendere un comportamento più vicino a quello dell’agente razionale, non sono invece avulsi dalla possibilità di incorrere nei medesimi bias cui vanno soggetti individui con minori conoscenze tecniche. In punto di efficacia, la disclosure regulation, come detto, dovrebbe rafforzare l’autodeterminazione ed il consenso individuali; essa ha dunque l’obiettivo precipuo di rendere edotti gli investitori al fine di dare corso ad un’azione consapevole ed avveduta. Questa azione, come visto, è verosimilmente conforme a quella prefigurata e ricercata dal legislatore: ad esempio, nel caso dei pacchetti di sigarette, l’informativa visiva e testuale ha per scopo di scoraggiare il consumo dei prodotti da fumo; la trasparenza amministrativa mira a sollecitare il controllo sociale sull’operato della p.a.; gli obblighi pre-contrattuali in 90 B. WORTHY, P. JOHN, M. VANNONI, Transparency at the Parish Pump: A Field Experiment to Measure the Effectiveness of Freedom of Information Requests, ottobre 2015 (http://ssrn.com/abstract=2699198). 91 T.B. GILLIS, Putting Disclosure to the Test, cit., ad p. 50; in senso sostanzialmente conforme si v. altresì L. WILLIS, Decision-Making and the Limits of Disclosure: The Problem of Predatory Lending Price, in 65 Md. L. Rev., 2006, p. 707-718, ad p. 712.
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ambito finanziario ad evitare di impegnarsi in operazioni cui sono associati rischi non adeguati rispetto al proprio profilo di rischio; quelli dettati nei settori al dettaglio delle utilities sono pensati per promuovere una concorrenza non falsata nei mercati retail, e così via. Tuttavia, le scienze cognitive insegnano che intanto si possa determinare un cambiamento di comportamento in quanto si determini nell’individuo un mutamento del “punto di riferimento” dal quale egli osserva la propria realtà92. Qualsiasi politica regolatoria che quindi ambisca a modificare i comportamenti umani deve tenere in considerazione questo dato. Così ad esempio, uno studio condotto sull’efficacia delle etichette alimentari nel Regno Unito nel 2010 dimostra che, sebbene questo strumento sia effettivamente “informativo”, nel senso che trasmetta ai consumatori già sensibili al tema “cibo sano” cognizioni in merito ai valori nutrizionali, consentendo altresì la comparazione tra prodotti circa cosa sia più “sano”, nondimeno non vi sarebbe alcuna evidenza empirica circa l’impatto dell’etichetta alimentare sul cambiamento di comportamento93. In altri termini, l’introduzione di etichette con indicazioni di valori nutrizionali non modificherebbe il punto di riferimento del consumatore, motivo per cui il suo comportamento di consumo, nell’esperimento condotto, non è cambiato94. Un ulteriore profilo cognitivo al quale viene data poca rilevanza, ma del quale è stata ampiamente dimostrata l’incidenza in letteratura,
92 Fondamentali a tal riguardo sono gli studi di E.A. LOCKE e G.P. LATHAM, A Theory of Goal Setting and Task Performance, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall, 1990; E.A. LOCKEAND e G.P. LATHAM, New directions in goal-setting theory, in 15 Current Directions in Psychological Science, 5/2006, p. 265-268. Si v. altresì B. VERPLANKEN e W. WOOD, Interventions to Habits Break and Create Consumer Interventions Behavior Change, in 25 J. of Pub. Pol. and Marketing, 2012, p. 90-103 e M. PERUGINI e M. CONNER, Predicting and Understanding Behavioral Volitions: The Interplay Between Goals and Behaviors, in 30 Eur. J. of Soc. Psyc., 2000, p. 705-731. 93 K.G. GRUNERT, J.M. WILLS e L. FERNÁNDEZ-CELEMÍN, Nutrition Knowledge, and Use and Understanding of Nutrition Information on Food Labels among Consumers in the UK, in 55 Appetite, 2010, p. 177-189. 94 Si v. altresì lo studio di G. SACKS, M. RAYNER e B SWINBURN, Impact of Frontof-Pack ‘Traffic Light’ Nutrition Labelling on Consumer Food Purchases in the UK, in 4 Health Promotion International, 2009, p. 344-352 i quali hanno condotto un esperimento finalizzato a verificare se ed in che misura l’introduzione delle etichette alimentari abbia in qualche modo modificato il comportamento degli utenti dei supermercati orientandoli verso il consumo di prodotti più salutari. Interessante notare che proprio su questo fronte l’esperimento non ha evidenziato alcun effetto.
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è la diversa attitudine al rischio delle donne rispetto agli uomini95, sensibilmente più bassa. Le donne, secondo numerose indagini empiriche condotte in ambito finanziario sono portate a fare molto meno trading degli uomini – spendendo meno in commissioni – tendenzialmente risparmiano ed accumulano di più, preferiscono i dividendi96 e si considerano finanziariamente meno competenti degli uomini97. Nei confronti di un siffatto pubblico di destinatari, una informazione adeguata e proporzionata sarebbe una che non indulgesse eccessivamente sulla prospettazione di attività di investimento ad alto rischio, idonee a produrre, nella migliore delle ipotesi, solo sovraccarico informativo. Mentre invece nessuna differenziazione è in genere prevista in ragione di siffatto carattere.
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Sulle differenze di genere in materia di investimento la letteratura è vastissima. Si v. B.M. BARBER e T. ODEAN, Boys Will Be Boys: Gender, Overconfidence, and Common Stock Investment, in 116 Quarterly J. of Economics, 2001, p. 261-292, che rappresenta il caposaldo in materia; oltre a C.C. ECKEL e J. GROSMANN, Sex Differences and Statistical Stereotyping in Attitudes Toward Financial Risk, in 23 Evolution and Human Behavior, 2002, p. 281-295; MERRILL LYNCH, You and your Money. A Financial Handbook for Women Investors, New York, 1996. Per una review della letteratura abbastanza aggiornata cfr. B.M. BARBER e T. ODEAN, The Behavior of Individual Investors, 2011 disponibile in http://ssrn.com/abstract=1872211. 96 Sulla scorta di tali evidenze empiriche, sono sorte negli Stati Uniti società che offrono fondi di investimento specializzati per donne, profilandone l’attitudine all’investimento secondo metodi basati sulla psicologia cognitiva e con l’aiuto di software (ad esempio, www.moneytype.me): ne dà notizia M.T. COMETTO, «Sei visionaria o epicurea?». Un test prima di scegliere, su Corriere Economia del 22.2.2016. 97 Cfr. OCSE/INFE, International Survey of Adult Financial Literacy Competencies, Parigi, 2016, p. 60: «In oltre la metà dei paesi e delle economie che hanno preso parte all’indagine, le donne risultano avere livelli di conoscenza finanziaria più bassi degli uomini. I policy maker devono tenere conto di queste differenze ed assicurare che siano monitorate e “targeted” attraverso politiche “gender sensitive”» (enfasi nell’originale).
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CAPITOLO 3 L’IMPATTO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI E DELLA CD. RIVOLUZIONE BIG DATA SULLA DISCLOSURE REGULATION
Le scienze cognitive, invero, non sono le uniche a minacciare la tenuta dell’istituto dell’obbligo informativo. Nuovi attentati sono infatti giunti dalla evoluzione tecnologica ed in specie digitale, sfociata, nell’ultimo quinquennio in quella che è stata da più parti definita la “cd rivoluzione big data”98. Quest’ultima si innesca su due altre rivoluzioni che il secolo breve ha attraversato: la prima, è infatti quella dei consumi di massa, inaugurata negli anni Sessanta, e la seconda è quella della cd. era dell’informazione, che ha preso le mosse a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Tutte e tre queste rivoluzioni hanno segnato dei passaggi epocali nel disegnare le relazioni intersoggettive tra consumatori ed imprese nei mercati: la prima in quanto ha accresciuto esponenzialmente le possibilità di scelta del consumatore; la seconda in quanto ne ha ridisegnato il ruolo, da ricettore passivo di utilities egli è divenuto anche produttore di commodities (si pensi alla figura quasi mitologica del cd. “pro-sumer”99, metà produttore e metà consumatore), di contenuti e di informazioni100 (si pensi ai social network). Con la terza rivoluzione, quella dei big data, il consumatore iper-connesso101 si è fatto anche produttore di dati, o meglio, di “tracce digitali”. 98 Sia consentito il rinvio a F. DI PORTO, La rivoluzione big data. Un’introduzione, in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, num. spec. di Conc. e merc., 2016, p. 5-14. 99 Su cui cfr. M. MAUGERI, Elementi di criticità nell’equiparazione, da parte dell’Aeegsi, dei «prosumer» ai «consumatori» e ai «clienti finali», in Nuove leggi civ. comm., 2015, p. 406-410 e C. SOLINAS, La tutela del consumatore nei contratti di fornitura di energia elettrica, in Contr. e impresa, 2/2015, p. 435-460. 100 «I produttori di informazioni diventano dunque, potenzialmente, tutti coloro che dispongono di tecnologie digitali, anche semplici e a basso costo: un computer, un telefono mobile, una macchina fotografica, una telecamera. Lo straordinario successo di piattaforme che consentono a soggetti privati di pubblicare i propri prodotti informativi sono la migliore conferma dell’inarrestabile evoluzione della nozione stessa di informazione»: così V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto di informazione e all’informazione, in Enc. Ital. Treccani, XXI Secolo, Norme e idee, Roma, 2009, p. 301-310, ad p. 302. 101 F. DI PORTO, Dalla convergenza digitale-energia l'evoluzione della specie: il consumatore «iper-connesso», in Merc. conc. reg., 1/2016, pp. 59-78.
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3.1. Il prosumer. Ovvero del superamento della uni-direzionalità del flusso informativo dovuto all’impatto delle tecnologie digitali. Riflessi giuridici sulla disclosure regulation Si è già affrontato il tema della bi-direzionalità dell’informazione nella regolazione degli obblighi informativi degli intermediari finanziari102, fondata come è oggi sul duplice obbligo non solo di fornire dati all’investitore ma anche di acquisirne103. A fronte di quella, che è stata una vicenda tutta normativa, ispirata da esigenze di promozione della trasparenza nei mercati finanziari104 e di progressivo rafforzamento del vincolo fiduciario tra investitore e intermediario105, l’affermarsi delle tecnologie digitali è invece all’origine di una nuova forma di bidirezionalità, questa volta frutto del dato reale, che dall’impresa passa all’utente e da questi torna all’impresa. Ciò produce una rilevante conseguenza sul piano giuridico: il consumatore diviene anche “altro”, sublimandosi in figure dal sapore quasi mitologico che lo approssimano al professionista; con la conseguenza che gli obblighi informativi pensati in suo favore rischiano di tramutarsi in obblighi a suo carico. Una prima forma “evolutiva” del consumatore, frutto della rivoluzione tecnologica digitale è rappresentata dal cd. “prosumer”106, ovverosia da quella figura a metà tra il produttore e il consumatore che, una volta installato un micro impianto da fonti rinnovabili (come ad esempio, un pannello fotovoltaico sul tetto della propria abitazione) 102
Supra, Parte Prima, Cap 3, Para. 1.2. Ci si riferisce, come detto, all’art. 19 Dir. MiFID 2004/39/CE e alla relativa Dir. di attuazione 2006/73/CE, oltre che agli artt. 21 Tuf e 27, 28 e 39 ss. Reg. Interm. Consob. 104 F. CAPRIGLIONE, Dalla trasparenza alla «best execution»: il difficile percorso verso il «giusto prezzo», in Banca, borsa, tit. cred., 4/2009, p. 475-486, spec. ad p. 477. 105 A. PERRONE, Servizi di investimento e regole di comportamento. dalla trasparenza alla fiducia, in Banca borsa tit. cred., 1/2015, p. 31-42, ad p. 37: «nel mercato retail, l’investitore non identifica (...), infatti, nell’intermediario un provider di informazioni, ricercando, piuttosto, un interlocutore del quale potersi fidare per una decisione di investimento che non è in grado di gestire da solo. Una simile dinamica fiduciaria (...) porta, tuttavia, con sé la vulnerabilità del cliente rispetto all’intermediario». 106 Espressione coniata negli anni Ottanta del secolo scorso da A. TOFFLER, The Third Wave, New York, Bantam, 1980. Ai fini che qui interessano, la definizione di prosumer è quella utilizzata dall’Aeegsi nell’Allegato A alla delib. n. 286/2014/R/com relativa a Regolamento per lo svolgimento da parte dello sportello per il consumatore di energia delle attività afferenti al trattamento dei reclami (modif. da delib. n. 5/2014/E/com). 103
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produce energia elettrica a fini di autoconsumo, destinando alla rete quanto eccede i propri fabbisogni. Egli diviene così sia produttore e sia consumatore (da cui il neologismo composto da pro- e –sumer di energia elettrica). E lo strumento tecnologico che consente lo scambio di ruoli, nonchè la resa contrattuale di siffatta trasformazione, è il contatore intelligente, o smart meter. Come ben si comprende, l’inverarsi a un tempo delle caratteristiche di produttore e consumatore revoca in dubbio la sussistenza del presupposto di applicabilità della disciplina degli obblighi informativi, dacchè questi, come detto, hanno per ratio di riequilibrare la posizione del consumatore in quanto strutturalmente parte debole. Ma tale non potrebbe teoricamente considerarsi il prosumer: ai sensi dell’art. 3 cod. cons.107, perché non si limita a consumare, ma appunto produce anche; ai sensi del diritto europeo, ove la giurisprudenza sembrerebbe adottare una interpretazione restrittiva in ordine alla estensibilità della tutela consumeristica ai casi dei contratti misti, ovverosia i cui scopi afferiscano sia ad attività personali sia ad attività professionali del consumatore. Tale applicazione estensiva sarebbe infatti solo ammessa nel caso in cui l’attività professionale, o nel caso che qui rileva produttiva, fosse così limitata da essere irrilevante108. Il prosumer sarebbe altresì diverso dal “cliente finale” per come definito dal Codice di condotta commerciale109, che prescrive gli obblighi informativi a carico dei fornitori di energia ed a vantaggio dell’utente, giacchè egli non si limita ad acquistare energia unicamente “per scopo proprio”, ma anche al fine di rivenderla, o meglio per immetterla nella rete. Paradossalmente, il pro107
Che esclude «qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nella sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale» 108 Cfr. Corte Giustizia, II Sez., sent. del 20.1.2005, causa C-464/01, Johann Gruber v Bay Wa AG, Racc., 2005, I, 439. In Italia, tra colooro che sono favorevoli ad una estensione della tutela consumeristica in presenza di contratti con duplicità di scopo, purchè l’attività personale risulti prevalente: E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale, Torino, Giappichelli, 2006, ad p. 31; contra: M. MAUGERI, Elementi di criticità nell’equiparazione, da parte dell’Aeegsi, dei «prosumer» ai «consumatori» e ai «clienti finali», in Nuove leggi civ. comm., II, 2015, p. 406-410, ad p. 409-410, la quale deriva la non estensibilità della disciplina a tutela del consumatore, in ultima analisi, dalla carenza della copertura legislativa che equipari expressis verbis il prosumer al consumatore. Il collegamento contrattuale, pur in ipotesi ammesso dall’A., tra singoli acquisti e vendite di energia del prosumer, non risolverebbe il problema del giudizio di prevalenza, che resterebbe di difficile quantificazione. 109 Per il quale si rinvia a quanto illustrato nella Parte Prima, Cap. 3, para. 1.3, lett. b.
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sumer potrebbe finire col divenire destinatario dell’obbligo informativo piuttosto che beneficiario dello stesso, ove in ipotesi l’energia prelevata dal sistema risultasse superiore a quella autoconsumata. Sono del resto note le difficoltà di “misurare” la prevalenza dell’uso produttivo o professionale rispetto a quello personale ai fini della applicazione della disciplina a tutela della parte debole: lungi dall’indagare caso per caso l’intenzione delle parti, lo scopo del contratto misto va inteso in senso oggettivo, ossia ricavato dalle circostanze nelle quali esso fu concluso110. Secondo la citata giurisprudenza europea l’uso del bene (nella nostra ipotesi, ad esempio, un pannello solare) a scopi produttivi, cioè esorbitanti l’auto-consumo, deve essere marginale, indi trascurabile. A ben divisare, tuttavia, non pare che la difficoltà della ponderazione sia insormontabile, né giuridicamente né tecnicamente. Che la produzione elettrica del prosumer finisca con l’essere superiore al consumo – dato agevolmente apprezzabile dalla contabilizzazione svolta all’uopo dal GSE – è un esito che (a) potrebbe non dipendere affatto dalla sua volontà ma dal sistema elettrico che ritira l’energia nei momenti in cui ve ne è maggior bisogno (è quanto accade in regime di cd. “scambio sul posto”), oppure (b) potrebbe non verificarsi affatto perché il prosumer ha optato per il diverso regime di “sistema efficiente di utenza”, ove per definizione solo una minima parte dell’energia prodotta viene ritirata dal sistema, mentre la restante e preponderante parte è giustappunto autoconsumata111. Sul piano concettuale, poi, il prosumer resta pur sempre sostanzialmente un consumatore che agisce per scopi personali, rispetto al
110
L. ROSSI CARLEO, I soggetti, in L. Rossi Carleo (a cura di) Diritto dei consumi, Torino, Giappichelli, 2015, ad p. 43-44. Cfr. Corte di Giustizia, IV Sez., sent. del 3.9.2015, causa C-110/14, Horațiu Ovidiu Costea c. SC Volksbank România SA. 111 In base al criterio dello “scambio sul posto” (Aeegsi, delib. 570/2012/R/efr), il prosumer titolare di un impianto fotovoltaico ottiene dal GSE una compensazione tra il valore economico associabile all’energia elettrica prodotta e immessa in rete e il valore economico (teorico) associato all’energia elettrica prelevata e consumata in un periodo differente da quello in cui avviene la produzione. Alla contabilizzazione del dovuto, ovverosia della differenza tra quanto prodotto e quanto consumato, provvede il GSE che trasmette idonea fatturazione applicando una tariffa a copertura dei costi del servizio di immissione in rete. Nel caso in cui il prosumer opti per un Sistema Efficiente di Utenza (di cui alla delib. Aeegsi 578/2013/R/eel), invece, l’energia prodotta dall’impianto di generazione verrà per la maggior parte auto consumata, e solo residualmente ritirata dal GSE per l’immissione in rete.
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quale, come ben espresso dall’Aeegsi, «proprio alla luce della sua natura “mista” – che, unitamente alla complessità e alla novità del settore in cui opera, acuisce l’asimmetria informativa – [necessita di] una tutela effettiva»112. Al pari dell’utente finale di energia, infatti, egli è sia strumento di attuazione del mercato interno, sia veicolo di realizzazione di politiche ambientali. Integrando nella rete il proprio impianto (eolico, fotovoltaico, ecc.), il prosumer contribuisce, difatti, al raggiungimento degli obiettivi di generazione da fonti rinnovabili definiti a livello nazionale. In modo non dissimile, il consumatore energetico non prosumer è destinatario di almeno due obblighi informativi definiti all’art. 1, co. 5, d.l. 73/2007113 e all’art. 3 § 9, lett. a) e b) della Direttiva n. 2009/72/CE114, pensati precipuamente per renderlo edotto sul mix di fonti energetiche utilizzate dal fornitore e dunque sensibilizzarlo verso la scelta di fonti rinnovabili. Né d’altro canto possono ignorarsi le “aperture” registrate a livello europeo e nazionale in punto di dilatazione della figura di consumatore, o meglio di applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette ai rapporti tra professionista e microimpresa (art. 18, lett. dbis, cod. cons.). Se da un lato è innegabile che nel paradigma dell’economia digitale e partecipativa (su cui infra para 3.2) i confini tra consumatore e produttore/professionista tendono a sfumare, dall’altro, questa evanescenza non può tradursi in una artata riduzione di tutele, se queste hanno per ratio e fondamento la debolezza strutturale della posizione del consumatore115 in punto di asimmetria informativa. Se, come minimo, quest’ultima non sia effettivamente ridotta – e come potrebbe? –
112
Aeegsi, delib. n. 605/2014/E/com, Misure per ampliare l’accesso e ottimizzare i flussi del Servizio Conciliazione Clienti Energia e per efficientare i meccanismi di risoluzione stragiudiziale delle controversie, dell’11.12.2014, p. 14. 113 Cfr. d.l. 18 giugno 2007, n. 73, recante Misure urgenti per l'attuazione di disposizioni comunitarie in materia di liberalizzazione dei mercati dell'energia, in G.U. n. 139 del 18.6.2007, con. con modif. in l. 3 agosto 2007, n. 125 (in G.U. del 14.8.2007, n. 188). 114 Su cui si v. Parte Prima, Cap. 3, para. 1.3, lett. b. 115 Già V. ROPPO, Il contratto del duemila, III ed., 2011, spec. Cap. IV, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi sviluppi di un nuovo paradigma, p. 65-90, teorizzando la figura del contratto asimmetrico, ha aperto la via per una definizione più ampia di “debolezza” dei rapporti di mercato asimmetrici, basati appunto su asimmetrie di potere contrattuale, anche di tipo informativo, non necessariamente relegati alla figura del consumatore.
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per effetto dell’aver installato il consumatore un impianto da fonti rinnovabili e un contatore intelligente. Al contrario, come sottolineato dall’Aeegsi, autorità dotata di expertise specializzata in materia, l’asimmetria informativa che patisce il prosumer in questo settore è elevatissima. Peraltro, in dottrina sono note le due posizioni, soggettivistica ed oggettivistica, relative alla configurazione del “consumatore”116, che lasciano spazi per ammettere che anche chi si trovi ad esercitare una attività professionale possa, se residuano asimmetrie strutturali, configurarsi come consumatore. Ora, il caso è sui generis. Dacchè qui si sta postulando che il prosumer non debba divenire destinatario di obblighi informativi in quanto professionista, basandoci sulla perdurante qualità di consumatore pur dove presti attività produttive, in ragione del fatto che i prosumer restino comunque «incompetenti al pari di qualsiasi altro consumatore»117.
3.2. Le piattaforme digitali dell’economia collaborativa: dei “pari”, ovvero dell’attenuarsi dei confini della parte debole Se la prima conseguenza della rivoluzione digitale è pertanto costituita dal dato fattuale del superamento della uni-direzionalità del flusso informativo, che diviene bi-direzionale, un ulteriore effetto è quello dell’attenuarsi della distinzione tra la categoria del professionista e la 116
Cfr. E. GABRIELLI, Sulla nozione di consumatore, in Studi in onore di Cesare M. Bianca, III, Milano, Giuffrè, 2006, p. 228 ove si dà ampio conto di entrambe le posizioni eppur criticandone gli esiti. Si v. altresì E. GABRIELLI, L’operazione economica nella teoria del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 3/2009, p. 905-939, ove si indica nella “operazione economica” il proprium, «il significato più profondo del potere di autonomia riconosciuto ai privati». Nella sua “unità formale” l’operazione economica è disciplina che racchiude – «è sintesi» – tanto il regolamento contrattuale quanto «la conformità dell’assetto degli interessi ai princìpi e ai valori ordinanti del sistema normativo» (pp. 910-911). 117 Riprendendo le conclusioni del ragionamento di E. GABRIELLI, Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato: i contraenti, in Giust. civ., 5/2005, p. 183199, ad p. 194: «sarebbe allora irragionevole – anche nella prospettiva della tutela dei mercati «finali» – una nozione di consumatore non idonea a comprendere soggetti i quali rispetto all’atto realizzato, anche quando esso sia posto in essere per una finalità professionale, siano incompetenti al pari di qualsiasi altro consumatore; così come accade se quell’atto non costituisce atto tipico della loro professione o sia solo occasionalmente o sporadicamente strumentale a quest’ultima» (enfasi aggiunta).
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figura del consumatore come conseguenza dell’affermarsi delle piattaforme digitali tipiche dell’economia collaborativa118. Quest’ultima è cosa diversa – ancorchè venga spesso con essa confusa – dall’economia digitale e dai mercati connotati dalla presenza di piattaforme. Col rischio di “brutalizzare” concetti tecnico-economici complessi, le piattaforme dell’economia digitale operano come intermediari tra imprese commerciali (quali operatori turistici, alberghieri, pubblicitari, finanziari, ecc.) e consumatori finali. Si dice abitualmente che siffatti mercati siano caratterizzati da “due versanti” (o che siano “two-sided”), perché la presenza dei due gruppi (a monte e a valle) è interrelata da reciproci effetti di rete (o esternalità indirette). Per cui, quanto più aumenta il numero di utilizzatori della piattaforma su un versante (ad esempio, di un social network, di un circuito di pagamento), tanto più aumenta il suo valore per il gruppo sull’altro versante (ad esempio, i pubblicitari su quel social network). Il vantaggio per tutti nel prender parte alle piattaforme sarebbe, secondo la letteratura più accreditata, nella riduzione dei costi transattivi119, che vengono internalizzati dalla piattaforma. Così, ad esempio, il consumatore risparmia i costi di ricerca di un servizio utilizzando la piattaforma (ad esempio, il sito di confronto di assicurazioni); mentre la compagnia assicurativa riceve il beneficio di farsi conoscere e raggiungere (dietro pagamento di una commissione). L’economia collaborativa (o sharing economy – secondo la definizione accolta nell’edizione 2015 dell’Oxford Dictionary120) è invece 118
A. SPINA, Alla ricerca di un modello, cit., ad p. 144 ne parla come della «struttura portante dell’economia circolare». 119 D.S. EVANS e R. SCHMALENSEE, The antitrust analysis of multi-sided platform business, in R.D. Blair e D.D. Sokol (a cura di) Oxford Handbook on International Antitrust Economics, Oxford, Oxford University Press, 2015; J.C. ROCHET e J. TIROLE, Platform Competition in Two-Sided Markets, in 1 J. Econ. Assoc., 4/2003, p. 990-1029; J.C. ROCHET e J. TIROLE, Two-Sided Markets: A Progress Report, in 35 RAND Journ. Econ., 3/2006, p. 645-667; D.S. EVANS, The Antitrust Economics of Multi-Sided Platform Markets, in 20 Yale Journ. Reg., 2003, p. 235-381; M. ARMSTRONG, Competition in Two-Sided Markets, in 37 RAND J. Econ., 3/2006, p. 688-691; OCSE, Two-Sided Markets. Policy Roundtable, Parigi, 2009; B. CAILLAUD e B. JULLIEN, Chicken & Egg: Competition Among Intermediation Service Providers, cit. 120 Come riportato da G. SMORTO, Verso la disciplina giuridica della sharing economy, in Merc. conc. reg., 2/2015, p. 245-277, ad p. 246 «L’Oxford Dictionary ha accolto tra i neologismi sharing economy [definendola come] “un sistema economico nel quale beni o servizi sono condivisi tra privati, gratuitamente o in cambio di una somma di denaro, tipicamente attraverso internet”».
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spiegata dalla Commissione europea121 come un «modello di attività imprenditoriale (...) facilitato da piattaforme (...) per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati». Le piattaforme sono dunque le medesime di cui si è detto, ed hanno il compito di “facilitare transazioni” che potranno essere a scopo di lucro o meno. Mentre la novità si registra sul fronte dei soggetti: accanto alle figure dei (i) “prestatori di servizi professionali” (i.e. «prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze nell’ambito della loro capacità professionale) e de (ii) gli “utenti” di tali servizi, infatti, troviamo anche (iii) i “pari” cioè i «privati prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze (...) che offrono servizi su base occasionale». In molti casi, la sharing economy consente infatti l’erogazione diretta di servizi tra individui senza avvalersi dell’intermediazione di professionisti, proprio grazie all’utilizzo delle piattaforme Internet: la peculiarità sta dunque nel fatto che soggetti non professionisti agiscono sul mercato come attori economici per condividere risorse (come la propria automobile, appartamento, ecc.), tempo o denaro (come nel crowdfunding)122. Non sembrano poter sorgere dubbi circa l’applicabilità della disciplina consumeristica ai rapporti tra utenti-consumatori e gestore della piattaforma123, e dunque in merito alla soggezione di quest’ultimo agli obblighi informativi da questa derivanti ex artt. 49 ss cod. cons. E ciò se resta vero, come pare, l’assunto della debolezza informativa di chi contrae online; così come i presupposti soggettivi di applicazione della norma, che pure paiono soddisfatti. Ad identica soluzione sembra doversi pervenire per quanto attiene agli “utenti” della piattaforma che siano però anche “prestatori profes-
121 Cfr. Comunicazione della Commissione europea, Un’agenda europea per l'economia collaborativa, COM(2016) 356 fin., del 2.6.2016, su cui A. DELL’ATTI, L’Agenda Europea per la c.d. economia collaborativa, in Riv. reg. merc., 1/2017, p. 107124. 122 G. SMORTO, Verso la disciplina giuridica, cit., p. 249. 123 La Comunicazione espressamente indica che le stesse sono assoggettate agli obblighi informativi di cui all’art. 6 della Dir. consumatori n. 83/2011, all’art. 22 della Dir. servizi n. 123/2006; nonché, in quanto soggetto che presta servizi della società dell’informazione, anche all’art. 5 della Dir. n. 31/2000; tutte oramai recepite nel cod. cons. artt. 49 ss. Inoltre, i gestori delle piattaforme sono assoggettati alle norme sulla privacy di cui al Reg. UE n. 679/2016.
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sionali”: si pensi a chi utilizza la piattaforma Airbnb124 disponendo di numerosi appartamenti rispetto a chi se ne serve solo per occupare la “stanza libera” del figlio studente fuori sede. Per il primo, infatti, non sembrano potersi negare i requisiti di professionalità, che la Commissione individua nella presenza di tre condizioni, ovverosia: la frequenza della prestazione dei servizi, la finalità di lucro ed il fatturato generato dalle specifiche prestazioni rese. Ne deriva che questi sarà assoggettato agli obblighi di information disclosure di fonte consumeristica più sopra analizzati. Più complessa è invece la situazione con riguardo alla figura soggettiva dei “pari”. Dal momento che in riferimento ad essi «l’economia collaborativa (...) rende meno nette le distinzioni tra consumatore e prestatore di servizi (...), [oltre che] la prestazione di servizi a titolo professionale e non professionale»125. Dal che deriva una difficoltà nell’individuare la debolezza nei rapporti contrattuali e conseguentemente la disciplina applicabile in punto di obblighi di information disclosure. La questione non è di poco conto, giacchè i modelli di economia collaborativa si basano su meccanismi di circolazione dell’informazione di mercato, ossia basati su recensioni tra pari e sistemi reputazionali, che non prevedono l’intervento regolatorio in funzione di correzione dell’asimmetria informativa, al punto che in letteratura si è giunti ad affermarne addirittura il “tramonto”126. Ciò in quanto le in124 Airbnb è una piattaforma attraverso la quale soggetti privati proprietari di spazi (come camere, appartamenti o anche posti letto) si mettono in contatto con persone interessate ad affittare tali spazi per brevi periodi di tempo. Lo scambio avviene mediante la piattaforma, ove transitano le informazioni relative agli spazi da affittare e i giudizi degli utenti-clienti. 125 Così Commissione, Comunicazione Un’agenda europea per l'economia collaborativa, cit., p. 2 e poi più esplicitamente a p. 9: «L’economia collaborativa confonde (...) la linea di distinzione tra consumatori e imprese dal momento che implica un rapporto multilaterale che può comprendere transazioni tra imprese, tra impresa e consumatore, tra consumatore e impresa e tra consumatori. In tali rapporti non è sempre chiaro chi sia la parte più debole da tutelare» (enfasi aggiunta). Ma il punto è discusso abbondantemente in dottrina, si v. ad esempio D. TAPSCOTT e A.D. WILLIAMS, Wikinomics. How Mass Collaboration Changes Everything, New York, Portfolio, 2008. 126 A. TABARROK e T. COWEN, The End of Asymmetric Information?, in Cato Unbound, del 6.4.2015, in http://www.cato-unbound.org/2015/04/06/alex-tabarroktyler-cowen/end-asymmetric-information; A. THIERER, C. KOOPMAN, A. HOBSON e C. KUIPER, How the Internet, the Sharing Economy, and Reputational Feedback Mechanisms Solve the Lemons Problem, Mercatus Center, G. Mason Univ. Working Paper,
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formazioni disponibili sarebbero sufficienti a consentire ai consumatori di adottare scelte ponderate; allo stesso tempo, tali meccanismi darebbero segnali ai professionisti per aumentare la qualità dei servizi offerti, facilitando l’ingresso di nuovi entranti sul mercato e, in ultima analisi, la concorrenza127. Tutti contenti. I meccanismi di rating e feedback e quelli di peer reviewing o peer monitoring128 alimentati dai giudizi degli stessi utenti-consumatori dei servizi, escludono il ricorso alla regolazione in quanto farebbero leva sull’effetto disciplinante della “buona reputazione”: essi userebbero «il timore di “sanzioni reputazionali” [per la] modifica [d]i comportamenti individuali [delle imprese] anche senza la minaccia del diritto». Addirittura si giunge ad affermare che simili «strumenti di controllo diffuso dei comportamenti» siano da considerare, come taluni autori suggeriscono, «“una seconda mano invisibile” che aiuta la smithiana mano invisibile del mercato» giacchè essi «consentono la trasmissione di informazioni che i sistemi tradizionali non riescono a veicolare efficacemente»129. Secondo quanto riportato dall’FTC all’esito di un incontro di esperti sulla sharing economy tenutosi nell’aprile del 2015130, invece, i meccanismi reputazionali appena descritti sarebbero sì efficaci nel rimaggio 2015, in https://www.mercatus.org/system/files/Thierer-Lemons-Problem.pdf; C. KOOPMAN, M. MITCHELL e A. THIERER, The sharing economy and consumer protection regulation: The case for policy change, Mercatus Center G. Mason Working Paper, dicembre 2014, in http://mercatus.org/sites/default/files/Koopman-SharingEconomy.pdf. Per una sintesi delle più recenti posizioni dottrinali sulle problematiche e le esigenze regolatorie rinvenibili nella sharing economy, si v. il documento della Federal Trade Commission statunitense: Federal Trade Commission – FTC (US), Staff Report, The “Sharing” Economy. Issues Facing Platforms, Participants & Regulators, novembre 2016. Si rammenti che la FTC è incaricata di una duplice mission nell’ordinamento statunitense: essa tutela la concorrenza applicando le norme antitrust e, al tempo stesso, tutela i consumatori contro le condotte ingannevoli, scorrette e fraudolente delle imprese sul mercato. 127 G. SMORTO, Verso la disciplina giuridica, cit., p. 266. 128 Mentre i primi due sono giudizi forniti da soggetti terzi, gli altri sono forniti dagli stessi utenti, che poi la piattaforma raccoglie e sintetizza in valutazioni complessive sul singolo fornitore di beni e servizi (sotto forma di stelle, punti, ecc.): cfr. FTC, Staff report, cit., p. 33-34. 129 G. SMORTO, Verso la disciplina giuridica, cit., p. 267. 130 Si veda il Workshop Announcement FTC, The “Sharing” Economy: Issues Facing Platforms, Participants, and Regulators, 17.4.2015 e gli oltre 2.000 contributi raccolti in risposta: https://www.ftc.gov/news-events/events-calendar/2015/06/sharingeconomy-issues-facing-platformsparticipants-regulators.
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durre le asimmetrie informative nel commercio elettronico, ma limitatamente ai prodotti e, fra questi, a quelli scambiati sulla piattaforma eBay131. Con un passaggio che suona come un understatement, l’FTC esorta ad «indagare gli effetti che i meccanismi reputazionali hanno nelle piattaforme in cui si offrono servizi piuttosto che beni»132, giacchè questo consentirebbe di comprendere effettivamente il loro impatto sulla economia collaborativa “at large”. I difetti dei meccanismi di “rating” sono infatti numerosi (manipolazioni, bias, ecc.133) ed un intervento regolatorio a tutela dei consumatori non dovrebbe pertanto escludersi a priori134, come pure suggerito dall’Ocse135. Tornando alla questione dei “pari” nelle piattaforme, il problema diventa distinguere a quali condizioni chi presti la propria bicicletta o offra servizi di giardinaggio lo faccia al di fuori di un’attività professionale, restando così immune dall’applicazione degli obblighi di information disclosure. Ancora una volta, come per il prosumer (supra, para. 3.1) potremmo trovarci di fronte a dei consumatori amatoriali, sprovvisti di cognizioni tecniche, risorse professionali ed anche legali adeguate a far fronte al lungo catalogo di obblighi informativi che il codice del consumo prescrive per i professionisti (per non tacere di altri obblighi non informativi pure applicabili136). Ciò potrebbe, in ultima analisi, disincen131
FTC, Staff report, cit., p. 40: «Much of the evidence showing that reputation mechanisms serve to reduce information asymmetry and facilitate online trading, however, comes from examining eBay’s platform». 132 FTC, Staff report, cit., p. 40 (traduzione nostra). 133 Il documento dell’FTC, cit., parla ad esempio, di “upward bias” ossia della tendenza dei giudizi ad essere quasi sempre positivi, quando sono lasciati; o di timore di “retaliation” da parte degli utenti del servizio; o ancora di “cold start”, cioè del problema delle barriere all’entrata per gli operatori privi di reputazione in quanto appena affacciatisi sulla piattaforma e dunque con minori chance di essere scelti dai consumatori (pp. 41-43). 134 Oltre che, ovviamente, di regolazione delle attività professionali e di impresa, nonché dei profili di accesso all’attività produttiva e delle norme di tipo fiscale e giuslavoristico, di cui si occupa la Comunicazione Un’agenda europea per l'economia collaborativa, cit., passim. 135 OCSE, Protecting Consumers In Peer Platform Markets: Exploring The Issues, Digital Economy Papers, No. 253, Parigi, 2016, p. 20 ss.; contra: si v. la posizione di Applications Developers Alliance menzionata in FTC Staff report, cit., p. 50: «regulators should avoid prescriptive rules, and instead encourage companies and developers to continue to create innovative features that facilitate trust». 136 Ad esempio, se sono qualificati prestatori di servizi saranno soggetti alla disciplina della Dir. Bolkestein n. 123/2006; come pure alle norme sulle pratiche commer-
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tivare il ricorso alle piattaforme dell’economia collaborativa che invece rappresentano per molti un modo per “arrotondare” bilanci familiari, o occasioni di impiego “comunitario” del proprio tempo libero, o ancora modi efficienti di uso di capacità economiche sotto-utilizzate. Il discrimen viene allora fissato dalla Comunicazione della Commissione – come accennato – nei tre criteri (i) della frequenza con cui è prestato il servizio (se è occasionale, è verosimile che non sia professionale); (ii) del fine di lucro (se vi è mero rimborso delle spese o non c’è lucro, come negli “scambi di case”, mancherà la professionalità); e (iii) del fatturato (se è alto137 – e sempre che non provenga da diverse piattaforme di varia natura – allora probabilmente si tratterà di attività professionale)138. Di qui le poche certezze che ne discendono – «una persona che offre regolarmente servizi di giardinaggio (tramite l’uso di piattaforme di collaborazione) e ne ricava una retribuzione consistente potrebbe rientrare nella nozione di professionista, ma una babysitter professionista che offre occasionalmente servizi di giardinaggio (tramite l’uso di piattaforme di collaborazione) in linea di principio non si qualificherebbe come professionista in relazione a tali occasionali servizi di giardinaggio»139 – e le altrettanto laconiche e pur sagge indicazioni ai regolatori nazionali140: «(...) gli Stati membri sono incoraggiati a perseguire un approccio equilibrato che garantisca ai consumatori un alto grado di tutela (...), senza imporre obblighi di informazione sproporzionati e altri oneri amministrativi a individui che non sono professionisti ma prestano servizi occasionalmente».
La risposta del “case by case” sembra dunque prevalere. Anche qui non può che riproporsi quanto detto con riguardo alla posizione del prosumer, con l’aggiunta della considerazione che un certo grado o livello di “differenziazione” nel tipo di disclosure concretamente esigi-
ciali scorrette; alle discipline settoriali ad esempio, in materia di turismo se affittano camere o trasportistica se offrono servizio di carpooling, e così via. 137 La Comunicazione non fornisce parametri atti a specificare in concreto quando possa ritenersi tale il fatturato, trattandosi di concetto relativo. 138 Commissione, Comunicazione Un’agenda europea per l'economia collaborativa, cit., p. 10-11. 139 Commissione, op. loc. ult. cit. 140 Commissione , op. ult. cit., p. 12.
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bile perfino da parte del “peer” non professionale che si avvalga della piattaforma sarà in certa misura inevitabile141.
3.3. La rivoluzione big data. Di Pollicino, di profilatura e di aggravamento dell’asimmetria informativa Come è stato efficacemente affermato, i big data non sono banche dati semplicemente molto grandi, ma «sono ontologicamente differenti dagli “small data”»142. La comprensione dell’impatto che ha (ed avrà) la “rivoluzione big data”143 sulla disclosure regulation e sulla tutela del soggetto debole passa attraverso il connubio di tre dimensioni: anzitutto vi sono (i) le banche di dati raccolti da soggetti pubblici e da aziende private. Le banche dati sono connotate da quattro caratteristiche, note come le quattro “V” dei big data: la velocità, consistente nel costante aggiornamento dei dati, il cui volume 144 cresce ad una velocità che supe141
Come ben posto in risalto dall’OCSE, Protecting Consumers In Peer Platform Markets, cit. p. 21: «Even if it were seen as desirable to depart from a one-size-fits-all approach to consumer law and apply some differentiation, participants in peer platforms would probably benefit from greater clarity about the minimum levels of consumer protection that should apply among peers. What this level is will be ultimately also a political question, and may vary among sectors. Factors to be considered could include the goals and regulatory objectives for particular sectors, the level of detriment peers experience and the availability and effectiveness of alternative, non-legal remedies. To give but some examples: hile it may be considered just and feasible that peers provide information about themselves, contact details and information about the goods and services, they cannot realistically be expected to make that information available in different languages, or take into account sector-specific information requirements in different nations. While it may be reasonable to suggest that both peer providers and peer consumers have a duty to cooperate in settling disputes, it could not be expected that the peer providers would provide the dispute resolution service» (enfasi aggiunta). 142 V. ZENO-ZENCOVICH e G. GIANNONE CODIGLIONE, Ten legal perspectives on the “Big Data revolution”, in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, num. spec. di Conc e merc., 2016, p. 29-57, ad p. 57 (traduzione nostra). 143 Su cui F. DI PORTO, La rivoluzione big data. Un’introduzione, cit., p. 5-14. 144 Rinviando ad altra sede per ulteriori dettagli (v. nota preced.), sia qui sufficiente rammentare che l’ordine di grandezza a cui crescono il volume, la velocità, la varietà e la veracità dei dati (le quattro “V” che connotano i big data, appunto), nonché la capacità di loro immagazzinamento ed analisi è tale che è stato necessario coniare un nuovo lessico: Yottabyte e Zettabyte equivalgono, rispettivamente, a 1021 e 1024 byte, due ordini di grandezza inesistenti fino al 2012. Ogni minuto, nel web si contano circa
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ra, quanto ad ordine di grandezza, il commensurabile145; la varietà, che indica il numero di fonti da cui provengono i dati (quanto maggiori sono le fonti tanto maggiore146 sarà il valore del dataset), ma può anche riferirsi al periodo coperto dai dati (ad esempio, i dati possono provenire dalle ricerche fatte online, dai geo-localizzatori installati sui dispositivi mobili, o dai sensori del cd. “internet delle cose”147, che permette alle macchine intelligenti di interagire tra loro, ecc.); infine, la veracità indica la veridicità, l’accuratezza dei dati. Il secondo elemento (ii) è rappresentato dalle reti neurali di intelligenza artificiale che, mediante algoritmi, apprendono in maniera indipendente (automatica) e si autoalimentano attraverso tecniche di “deep learning”148 (le quali sono già utilizzate, ad esempio, per il rico2.5 milioni di ricerche fatte solo su Google e nello stesso lasso di tempo, su Facebook gli utenti in media si scambiano oltre 31 milioni di messaggi e guardano 2.77 milioni di video; mentre su YouTube sono caricate circa trecento ore di video: B. MARR, Big Data: 20 Mind-Boggling Facts Everyone Must Read, Forbes, 30.9.2015. 145 La crescita del volume dei dati è esponenziale: secondo stime accreditate l’“universo digitale” si espande ad un tasso di crescita straordinario: dai 4.4 Zettabyte registrati nel 2015, ve ne saranno 44 nel 2020 (pari a 44 triliardi di Gigabyte); che tradotto in un esempio apprensibile alle menti profane, potrebbe suonare così: «se volessimo rappresentare l’universo digitale con la memoria interna di un tablet, nel 2013 questa avrebbe coperto i 2/3 della distanza dalla terra alla luna, mentre nel 2020 coprirebbe 6 volte la stessa distanza»: IDC, The Digital Universe of Opportunities: Rich Data and the Increasing Value of the Internet of Things, aprile 2014. 146 I dati possono essere generati da sensori che monitorano le condizioni atmosferiche, come il clima o l’inquinamento, ovvero i processi produttivi; o ancora il traffico (aereo, marittimo e terrestre); così come possono essere raccolti dalla ricerca scientifica e medica, ma anche generati dai social network. Ma, come visto sopra, sono prodotti sempre più spesso, dagli individui connessi attraverso computer, tablet, telefoni, automobili e, in genere, apparecchi dotati di congegni collegati attraverso la rete Internet (si pensi alla domotica, alle automobili dotate di “scatole nere” ma anche alle semplici transazioni con “pos” elettronici) a sistemi remoti di immagazzinamento di dati (come il cloud). 147 K. ASHTON, That ‘Internet of Things’ Thing, in RFID Journal, 22.6.2009. Per commenti, si v. O. VERMESAN e P. FRIESS, Building the Hyperconnected Society - Internet of Things Research on Innovation Value Chains Ecosystems and Markets, River Publ. Series in Communications, vol. 43, Bruxelles, 2015 (http://www.internet-of-thingsresearch.eu/pdf/Building_the_Hyperconnected_Society_IERC_2015_Cluster_eBook_97887-93237-98-8_P_Web.pdf) oltre al documento della Commissione europea, SWD Advancing the Internet of Things in Europe, SWD (2016) 110/2, del 19.4.2016 (http://ec.europa.eu/newsroom/dae/document.cfm?doc_id=15276). 148 Le reti neurali e l’intelligenza artificiale sono studiate almeno dalla metà degli
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noscimento vocale dei telefonini, per le proposte di acquisto fatte in base ai nostri acquisti passati, ecc.). Il terzo (iii) è infine costituito dai microprocessori, sempre più potenti, che consentono l’interazione in tempo reale tra i primi due. Questo terzo elemento è altrettanto importante, quanto i primi due: è infatti questo che consente i processi di estrazione dell’informazione dai dati (cd. data-mining149), e soprattutto, mediante l’analisi dei dati (cd. data analytics150), di identificare correlazioni, modelli (pattern) di comportamento, nonché inferire e dunque “predire” gli stessi151. anni Cinquanta – sono noti, ad esempio a livello italiano, gli studi di Domenico PARISI, Intervista sulle reti neurali, Bologna, Il Mulino, 1989 – ma le loro applicazioni non sono state così brillanti, come prospettato dai teorici. La situazione tuttavia cambia quando, nel 2009, si iniziano ad utilizzare nuove tecniche di attivazione e di addestramento delle reti neurali (il deep learning appunto), rese possibili dalla accresciuta capacità di calcolo e dalla disponibilità illimitata di dati (neppure troppo ironicamente si impiegano le consolle dei videogiochi), che ne consentono un apprendimento molto più veloce, in grado di raggiungere risultati assai più precisi ed affidabili. Per la prima volta in assoluto un computer ha superato in accuratezza gli esseri umani, battendolo 96% a 95% nell’edizione 2015 dell’ImageNet Challenge, una gara tra sviluppatori di programmi di riconoscimento e classificazione di immagini: T. STANDAGE, The Return of the Machinery Question, The Economist, 25.6.2016. 149 Il processo di data mining consente di individuare informazione rilevante (come regole, modelli, sequenze o pattern ricorrenti) da grandi moli di dati mediante l’uso di tecniche statistiche e di strumenti – ancora una volta – mutuati dall’IA e dal machine learning. Esso è impiegato in svariati ambiti dalla medicina (ad esempio, in biologia per l’individuazione di anomalie genetiche) al marketing aziendale (ove si analizzano i comportamenti di acquisto dei clienti): cfr. T. HASTIE, R. TIBSHIRANI e J. FRIEDMAN, The elements of statistical learning: data mining, inference, and prediction, New York, Springer, 2009. 150 Così giustamente enfatizzata dal Garante europeo per la protezione dei dati: «i Big data poggiano non solo sull’accresciuta capacità tecnologica di supportare la raccolta e l’immagazzinamento di grandi moli di dati, ma anche sulla capacità di analizzare, comprendere e trarre vantaggio del valore dei dati (in particolare utilizzando applicazioni di analisi dei dati)» (traduzione nostra): EUROPEAN DATA PROTECTION SUPERVISOR – EDPS, Parere n. 7/2015, Meeting the challenges of big data, del 19.11.2015. Sul tema del big data analytics si v. S. KUDYBA (a cura di) Big Data, Mining and Analytics, Boca Raton, CRC Press, 2014; J.S. HURWITZ, M. KAUFMANN e A. BOWLES, Cognitive Computing and Big Data Analytics, Indianapolis, Wiley, 2015, p. 56-57. 151 Ad esempio, è noto il caso “Google Flu Trends”, un algoritmo “machinelearning” sviluppato per predire i casi di influenza basandosi sul numero delle ricerche (oltre 50 milioni) effettuate su Google dei termini relativi al tema influenza. Effettivamente l’algoritmo ha fornito predizioni accurate circa i luoghi in cui l’influenza si è sviluppata maggiormente. Il caso è riportato nell’ottimo saggio di M. LETA AMBROSE, Lessons from the Avalanche of Numbers: Big Data in Historical Perspective, in 11 Journ.
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È quindi dall’analisi che è possibile creare valore dai dati152, i quali altrimenti resterebbero – come è stato sino ad un recente passato – semplice materiale grezzo. Come chiarito dal Garante europeo per la protezione dei dati personali, i dati che attraggono maggior interesse sono quelli dai quali è possibile trarre informazioni per adottare «better and more informed decisions»153 e che spesso contengono, anche se non necessariamente, “dati personali”154. Ogni volta che interagisce con la rete l’individuo – che è ormai un “consumatore iperconnesso”155 – come un moderno Pollicino, lascia dietro di sé “tracce digitali”, ovverosia produce dati. E lo fa con maggiore o minore consapevolezza: ad esempio, come affermato dal Garante europeo, quando naviga in rete, è osservato da almeno cinquanta entità che registrano a sua insaputa i suoi movimenti, i suoi gusti, le sue abitudini attraverso i cookies156; oppure, quando L. Pol. for Inf. Soc., 2015, p. 201-277, ad p. 242. L’algoritmo si è tuttavia rivelato molto poco accurato nel corso del tempo, non avendo esso considerato talune variabili come ad esempio, il fatto che i giornali locali riportassero la notizia di un’influenza avvenuta anni prima e che la gente effettuasse ricerche a tal proposito: si v. FTC, Report Big Data A Tool for Inclusion or Exclusion? Understanding the Issues, gennaio 2016, p. 5 e le critiche di “hubris of big data” di D. LAZER, R. KENNEDY, G. KING e A. VESPIGNANI, The Parable of Google Flu: Traps in Big Data Analysis, 343 (6176) Science, del 14 marzo 2014, p. 1203-1205. Proprio in riferimento alla capacità predittive dei big data, c’è chi parla di dati come “pollution problem of the information era” e di protezione della privacy come di “environmental challenge”: B. SCHNEIDER, Data and Goliath, New York–Londra, W.W. Norton & Co., 2015, p. 238, dal momento che «ad esempio, i big data potrebbero essere usati per predire la performance scolastica di un bambino o la predisposizione di un adulto ad una malattia o alla morte prematura, o al fallimento o alla commissione di un crimine»: così EUROPEAN DATA PROTECTION SUPERVISOR EDPS, Parere n. 7/2015, Meeting the challenges of big data, A call for transparency, user control, data protection by design and accountability, del 19.11.2015, p. 8, paventando rischi di possibili usi discriminatori dei big data, che rafforzino stereotipi, segregazioni o esclusione sociale. 152 Da qui la quinta “V” che viene oramai associata ai big data: per una approfondita descrizione delle cinque “V” si rinvia all’ottimo saggio di D.L. RUBINFELD e M.S. GAL, Access Barriers to Big Data (in corso di pubblicazione su Arizona L. Rev., 2017). 153 EDPS, Parere 7/2015, cit., p. 7. 154 Ibid. 155 F. DI PORTO, Dalla convergenza digitale-energia, cit., p. 59. 156 G. BUTTARELLI, Intervento al convegno “Big data e concorrenza”, Luiss, Roma, 9.11.2016. Sulla tecnica dei “cookie di profilazione”, che tracciano e profilano il comportamento dell’utente in rete, si v. A. MANTELERO, Si rafforza la tutela dei dati personali: data breach notification e limiti alla profilazione mediante i cookies, in Dir. Inf., 2012, p. 781-804 e sulla successiva disciplina si v. GARANTE PRIVACY, Provv. n. 229,
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scarica una app “gratuita”157 accetta senza prestare troppa attenzione termini e condizioni contrattuali e acconsente ad un modello di gestione dei propri dati molto permissivo (dunque in realtà sta “pagando” col prezzo dei propri dati158). Queste tracce disvelano (più o meno a sua insaputa) i suoi gusti, i suoi spostamenti, in breve le sue preferenze, ma anche le sue disponibilità a pagare, dati che le imprese che li hanno legittimamente raccolti, potranno utilizzarli per scopi commerciali. Egli contribuisce, semplicemente essendo, ad alimentare i serbatoi dei big data pubblici e privati, ovvero il carburante dell’economia digitale159 e, viepiù, di quella reale, di cui finisce col divenire un minuscolo “socio di minoranza”. Questa, infatti, grazie all’apporto dei big data, può migliorare l’offerta di prodotti e servizi, rendendoli più consoni e vicini ai bisogni dei consumatori, più ritagliati sui loro “reali” bisogni, in quanto non più “dichiarati” in questionari, ma rivelati dalle registrazioni e successive combinazioni ed analisi dei dati160. Ciò che muta è dunque la metodologia di indagine oltre al campione straordinariamente più vasto dei dati ricombinati161. L’automazione delle decisioni resa possibile dell’8.5.2014, Individuazione delle modalità semplificate per l’informativa e l’acquisizione del consenso per l’uso dei cookie, in G.U. n. 126 del 3.6.2014. 157 Cfr. J. VAN DIJCK, Datafication, Dataism and Dataveillance: Big Data between Scientific Paradigm and Ideology, in 12 Surveillance & Society, 2/2014, p.199-208, il quale parla di vera e propria euristica del gratuito; mentre D. ARIELY, Predictably Irrational: The Hidden Forces that Shape our Decisions, cit., sottolinea come il potere del gratuito ci faccia compiere molte scelte folli. 158 Come ricordato da M. MAGGIOLINO, Concorrenza e piattaforme tra tradizione e novità, in G. Colangelo e V. Falce (a cura di) Concorrenza e comportamenti escludenti nei mercati dell’innovazione, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 45-72, ad p. 57 «quando un individuo utilizza un motore di ricerca o “posta” un like su un social network le piattaforme sono in grado di immagazzinare le più svariate informazioni circa gli orari, le cronologie, le geo-localizzazioni, i contenuti e le modalità di queste esperienze online. Ecco perchè i servizi offerti dalle piattaforme a prezzi nulli non sono in realtà gratuiti, ma scambiati a fronte dei dati degli utenti che si servono delle stesse piattaforme». 159 Su cui si v. i due rapporti OCSE, Data-Driven Innovation: Big Data for Growth and Well-Being, Parigi, 2015 e OCSE, Digital Economy Outlook 2015, Parigi, 2015. 160 Ben più che le vecchie indagini di mercato, la big data analytics consente oggi una “clusterizzazione” dei consumatori assai più dettagliata, tale da poter inferire non solo l’attitudine al consumo del singolo, ma anche le sue preferenze e la sua disponibilità a pagare per un determinato bene o servizio, ossia quello che gli economisti chiamano il “prezzo di riserva”: F. DI PORTO, La rivoluzione big data, cit., p. 10. 161 Sulla differenza metodologica tra le tradizionali indagini di mercato, basate su «l’esame diretto dei comportamenti di un ridotto numero di persone (si pensi ai collo-
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dagli algoritmi consente alle organizzazioni e dunque alle imprese di ottenere applicazioni più efficienti162 – con risparmi notevoli di costi – dai campi della medicina, ai servizi assicurativi, finanziari, agli acquisti online alle inserzioni pubblicitarie, agli “assistenti automatizzati” (si pensi a Cortana per Microsoft o a Google assistant). Dell’importanza dei big data nell’economia digitale e non solo si ha conferma guardando agli impressionanti investimenti che le imprese stanno destinando a questo comparto163. A fronte dei benefici per il consumatore di ottenere beni e servizi più adeguati ai propri bisogni e per le imprese di rendere più efficienti i propri processi, la capacità di profilatura solleva non poche problematiche sotto il profilo dell’informazione164 e, dunque, della disclosure regulation. In primo luogo, i prodotti e servizi ritagliati sul cliente accrescono la complessità delle offerte messe a disposizione del consumatore, aumentando i suoi costi di ricerca e di comparazione al fine di addivenire alla scelta migliore. Siffatta evenienza può porsi in contrasto con buona parte della regolazione informativa che è finalizzata invece a promuovere la comparabilità delle offerte commerciali presenti sul mercato e che, in tale ottica, prescrive la standardizzazione e la semplificazione dell’informazione da trasmettere al consumatore. Si pensi al settore dei mercati finanziari, ove la regolazione, come ad esempio la disciplina dei PRIIPs in tema di informazioni da inserire
qui individuali, ai focus group, e alle desk research condotte per individuare le motivazioni profonde della varie scelte di acquisto) – sulla costruzione di campioni e sullo svolgimento di esperimenti» rispetto alle indagini condotte attraverso big data analytics si v. M. MAGGIOLINO, Big data e prezzi personalizzati, cit., p. 106. 162 F. DI PORTO, op. ult. cit., p. 9. 163 Secondo la società di analisi di dati Quid, nel 2015 negli USA sono stati investiti 8,5 miliardi di dollari nel settore, quasi il quadruplo di quanto investito nel 2010 ed il Governo USA nel 2016 ha stanziato 200 miliardi di dollari per la ricerca in questo settore: T. STANDAGE, The Return of the Machinery Question, cit. Con riguardo al tema dell’impatto dei big data sulle dinamiche concorrenziali nei mercati dell’innovazione si v. il saggio di G. PITRUZZELLA, Big data, competition and privacy: a look from the antitrust perspective, in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, num. spec. di Conc. e merc., 2016, p. 15-27. 164 Non potendo affrontare i molti, moltissimi, profili di tutela della persona che l’impiego delle tecniche di big data comportano e che tuttavia esorbitano il tracciato di questa trattazione, si rinvia alle Conclusioni per lo svolgimento di alcuni pur limitati profili problematici.
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nel documento KID165, promuove la semplificazione dell’informazione al fine di agevolare la comparabilità dei rischi e delle opportunità di investimento166. Lo stesso è a dirsi con riguardo alla comparabilità nei settori delle utilities, dove, come visto, la legge e la regolazione delle authorities167 prescrivono la standardizzazione delle informazioni finalizzandola alla confrontabilità delle offerte commerciali e dei prezzi, la quale ultima è fatta oggetto di un intervento di comunicazione “istituzionale” ad opera dello stesso regolatore sul proprio sito Internet (“Trova Offerte” e “Supermoney.eu”). Queste forme di regolazione, come si è visto168, rappresentano esempi di empowerment del consumatore, in quanto sono mirate a fornire a quest’ultimo strumenti conoscitivi affinché possa compiere scelte consapevoli di consumo; ed hanno al tempo stesso come obbiettivo quello di stimolare la concorrenza tra operatori favorendo una domanda attiva. Gli effetti benefici delle tecniche di empowerment informativo possono essere neutralizzati in un ambiente big data. E, come effetto collaterale, anche la concorrenza tra operatori può risentirne negativamente, dal momento che, come anche evidenziato dal Parlamento Europeo169, le tecniche di profilatura conducono ad un effetto lock-in dei 165
Si v. supra, Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2. La comparabilità è anche una finalità avuta di mira dalla disciplina europea e nazionale in materia di prospetto: si v. in proposito il Reg. CE n. 809/2004, come modificato e integrato dai Regg. delegati UE n. 486/2012 e n. 862/2012 cit. 166 In tal senso si è espressa la stessa Consob nel corso dell’audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulla semplificazione e sulla trasparenza, cit., p. 13. 167 Per la comparabilità delle offerte dei servizi di comunicazione elettronica e di energia si v. supra, Parte Prima, Cap. 3, para. 1.3, lett. a) e b). 168 Cfr. Parte Prima, Cap. 3, Para. 1.2 per i mercati finanziari e 1.3 per le utilities. 169 Si v. quanto affermato nel rapporto del PARLAMENTO EUROPEO, Comitato per gli affari economici e monetari, Challenges for Competition Policy in a Digitalised Economy, IP/A/ECON/2014-12, luglio 2015, p. 9: «Personal data is of strategic value and large platforms are often not willing to share personal data. Consequently, the interoperability of large platforms from different operators is low. The lack of interoperability prevents multi-homing (using multiple platforms simultaneously) and locks-in end-users at both sides of platforms. Consequently, it helps large platforms to maintain their market position by creating/maintaining/raising entry barriers that result from network and lock-in effects. Without interoperability, large incumbent platforms face a lower threat of entry and have fewer incentives to keep innovating». Nello stesso senso anche le indicazioni del documento congiunto delle tre Autorità europee di vigilanza sui mercati finanziari: EBA-ESMA-EIOPA, Joint Committee Discussion Paper on the Use of Big Data by Financial Institutions, JC no. 86/2016, del 19.12.2016, p. 23.
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consumatori170, amplificato nel caso di operatori che detengano «un rilevante potere di mercato sul mercato dei big data»171. Si tenga presente che su tale mercato gli indici di dominanza perdono i connotati classici della quota di mercato per sfumare su terreni – certo più insidiosi almeno sul piano probatorio ma più aderenti al dato reale – della contendibilità del mercato, come la presenza di barriere all’accesso, ma soprattutto la possibilità di raggiungere il consumatore con modalità alternative (e dunque l’analisi di possibili effetti di lock-in) e il livello di innovazione, attuale e potenziale, di mercato172. In terzo luogo, grazie alle tecniche di big data analytics oggi le imprese sono in grado di differenziare non solo i prodotti o i servizi, ma anche i prezzi173 – a prescindere dai costi – a livello di singolo utente o 170 Cfr. PARLAMENTO EUROPEO, Challenges for Competition Policy, cit., p. 33 che espressamente parla di effetto lock-in dei consumatori ogni volta che questi utilizzano un servizio online e acconsentono all’uso dei propri dati: «Consumers get used to services they like. Once these services have become an integral part of their daily lives, they are less willing to switch to other services. They are even less willing to switch when the experience of an individual service (e.g. using a search engine) depends on using other services (like email, geolocation services, or social media services, for example switching between the clouds of Apple and Microsoft). The use of personal data profiles causes this effect. Any limits to transferring these data to a competitor impose switching costs for consumers. In a way, consumers lock themselves in by providing their personal data». I consumatori, prosegue il rapporto, spesso non si accorgono del fatto si essersi “agganciati” da soli. Anche se tentano di utilizzare servizi concorrenti e sperimentano che questi non funzionano altrettanto bene, non ne comprendono le ragioni. 171 G. GHIDINI, Big data fra potere di mercato e potere di orientamento informativo e di opinione, Intervento al Convegno “Big data e concorrenza”, Luiss, Roma 9.11.2016: www.agcm.it/component/joomdoc/ eventi/convegni/20161109_10.pdf/download.html, il quale sottolinea come gli operatori che detengono la gran parte dei dati profilati siano, a livello globale, in realtà pochi. E che tale fenomeno sia rinvenibile sia in occidente (Google, Facebook, Amazon, Linkedin ed Ebay) sia in oriente (Baidu, Alibaba e Tencent). 172 PARLAMENTO EUROPEO, op. ult. cit., p. 11. 173 Il tema dei prezzi personalizzati o individualizzati mediante l’uso dei big data è trattato da varie autorità a livello europeo e internazionale, si v.: EXECUTIVE OFFICE OF THE PRESIDENT OF THE UNITED STATES, Big data and differential pricing, febbraio 2015, p. 19; OFFICE OF FAIR TRADING - OFT (UK), Personalised Pricing: Increasing Transparency to Improve Trust, maggio 2013; AUTORITÉ DE LA CONCURRENCE - BUNDESKARTELLAMT, Competition Law and Data, cit., p. 10. In dottrina si v. M. MAGGIOLINO, Big data e prezzi personalizzati e D. PORRINI, Asimmetrie informative e concorrenzialità nel mercato assicurativo: che cosa cambia con i big data? ambedue in F. Di Porto (a cura di) Big data e concorrenza, cit., rispettivamente, alle pp. 95-138 e 139-151.
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di gruppo di utenti. Ciò in quanto è possibile inferire la disponibilità a pagare – ovverosia il prezzo di riserva – dei consumatori dal comportamento osservato su una data piattaforma o semplicemente sulle ricerche fatte on line. Ad esempio, nel Regno Unito, è fortemente sentito il problema delle compagnie assicuratrici che, per fissare i premi assicurativi “su misura”, utilizzano i dati reperibili sui profili pubblici del noto social network Facebook o quelli reperibili sui siti di comparazione delle offerte delle assicurazioni comunemente usati dai consumatori (equivalenti ai nostri facile.it o subito.it), al fine di “profilare” i clienti e quindi discriminare i premi assicurativi174. La conseguenza è che è possibile praticare una discriminazione di prezzo sostanzialmente perfetta che può risultare in corrispettivi ritenuti non equi da coloro che pagano di più a causa del ricorso ai big data175. La discriminazione di prezzo potrà eventualmente apprezzarsi – non senza difficoltà visti i benefici in termini di efficienza che generalmente vi si ricollegano – con le maglie dell’antitrust176, stanti i rischi in termini di benessere del consumatore che le pratiche di prezzo personalizzato recano, dal mo-
174 Cfr. D. FERGUSON, How nosey insurers use Facebook and your weekly shop to keep tabs on you, The Observer, 6.11.2016. Si v. altresì quanto segnalato dall’Autorità di vigilanza dei mercati finanziari britannica sull’uso dei big data che, con riguardo alla differenziazione dei premi, evidenzia il rischio che le imprese possano «charge more to certain types of customer, for example looking at their ability and willingness to pay more i.e. not risk or cost based. This is referred to as ‘price discrimination’ or ‘price optimisation’. It is a common feature in many industries, but can lead to poor consumer outcomes in some circumstances»: FINANCIAL CONDUCT AUTHORITY – FCA (UK), Feedback Statement FS16/5, Call for Inputs on Big Data in retail general insurance, settembre 2016, p. 7. 175 FCA, Feedback Statement, FS16/5, cit. p. 27. Anche nel settore finanziario le tre autorità di vigilanza europee sottolineano il rischio di addivenire, grazie all’impiego di tecniche big data, alla fissazione di prezzi più elevati per quei consumatori che mostrino più elevate disponibilità a pagare o maggiore inerzia. Dinanzi a siffatte problematiche le autorità suggeriscono agli intermediari la più ampia trasparenza: è «essenziale, per qualsiasi istituzione finanziaria che usi i big data, essere trasparente [verso i consumatori] circa il modo in cui i dati sono processati. Tali istituzioni devono definire il modo migliore per comunicare in modo chiaro ed esauriente l’informazione circa l’uso dei big data ai consumatori (...) anche se i dati non sono personali (...) o sono stati anonimizzati o sono di dominio pubblico», così EBA-ESMA-EIOPA, Joint Committee Discussion Paper, cit., p. 17, (traduzione nostra). 176 Per un’ampia discussione del tema si rinvia a M. MAGGIOLINO, Big data e prezzi personalizzati, cit.
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mento che esse, di fatto, si concretizzano in un’appropriazione, da parte delle imprese, «dell’intero surplus del consumatore»177. Come rilevato da autorevole dottrina178, in presenza di «diversa sensibilità al prezzo, che caratterizza diverse categorie (o, forse meglio, tipi psicologici) di consumatori», il fatto che le imprese siano in grado di discriminare i prezzi rispetto a diverse categorie di consumatori, fa sorgere il problema di come tutelare la libertà di scelta del consumatore179. Rifiutando l’idea che «la discriminazione (individualismo metodologico) ad esempio, tra consumatori price‐sensitive e “attivisti” e consumatori disattenti o inerziali» possa essere sempre e comunque efficiente, dal momento che «lo stesso individuo consumatore può essere attivista e opinion leader in certe scelte e gregario e disattento in altre», porta l’Autore a concludere che «un diritto della concorrenza sensibile alla “sovranità del consumatore” come elemento fondante la dinamica concorrenziale deve favorire la propagazione delle scelte consapevoli dei consumatori e disincentivare le scelte passive, cioè non del tutto libere e consapevoli»180. E quando la disponibilità a pagare di una parte è resa palese all’altra all’insaputa della prima, per l’intervento della tecnologia, ad aggravarsi è inesorabilmente l’asimmetria informativa, che non può consentire scelte consapevoli né tantomeno libere nonostante l’informazione allo stato disponibile. Proseguendo oltre, un ulteriore aspetto innovativo legato all’uso dei big data è che essi consentono non solo di produrre beni e servizi di tipo “reattivo”, basati cioè sui bisogni espressi dalle esperienze di consumo passate; ma anche di tipo “predittivo”, anticipando bisogni e
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Ancora M. MAGGIOLINO, op. ult. cit., p. 123. M. LIBERTINI, La tutela della libertà di scelta del consumatore e i prodotti finanziari, in M. Grillo (a cura di) Mercati finanziari e protezione del consumatore, Milano, Brioschi, 2010, p. 21-46. (anche in http://www.agcm.it/component/joomdoc/eventi/ventennale/VEN-0129InterventoLibertini.pdf/download.html). 179 Quest’ultima, ad avviso dell’Autore va intesa nel duplice senso di (i) presenza di molteplici offerte sul mercato, fra cui il consumatore può scegliere (alla cui tutela provvede l’Agcm con l’arsenale antitrust) e (ii) di atto di scelta libero da inganni e costrizioni, cioè consapevoli (alla cui tutela sono preposte le norme del codice del consumo, affidate pure alle cure dell’Agcm). 180 M. LIBERTINI, op. loc. cit. (enfasi aggiunta). In termini generali, sull’interpretazione del benessere del consumatore, si v. per tutti le considerazioni svolte da G. AMATO, Il potere e l’antitrust, Bologna, Il Mulino, 1998, ad p. 106 ss. 178
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interessi e proponendo beni e servizi sulla base di previsioni realizzate attraverso algoritmi che individuano correlazioni significative tra dati. In questo modo, i dati disvelano del consumatore – maieuticamente – ciò che questi non sa di sapere, né di desiderare181. È quanto pongono in evidenza le tre autorità europee di vigilanza dei mercati finanziari nel già citato discussion paper182, che sottolineano il rischio che gli algoritmi vadano soggetti ad errori di accuratezza (ad esempio, possano non considerare talune variabili), o comunque possano condurre a decisioni automatiche sbagliate. Ciò può dipendere da innumerevoli fattori, ad esempio, può essere sbagliato il dataset, l’istruzione fornita, o uno degli assunti, ecc.; ad ogni modo, ciò che rileva è che la decisione automatica, l’output, può non essere adeguato rispetto alle esigenze del gruppo di individui avuti di mira, il che può portare a delle perdite per il cliente183. Simili rischi potrebbero essere amplificati se il servizio di big data fosse dall’intermediario esternalizzato e se, ipotesi tutt’altro che remota, fosse concentrato nelle mani di poche grandi aziende. In tal caso non sarebbe difficile ipotizzare un ricorso su scala anche globale a prodotti finanziari elaborati sulla base di tecniche big data diffusi dagli intermediari finanziari presso il pubblico dei risparmiatori, che potrebbero in ipotesi – si spera remotissima – finire in perdite cospicue finanziarie e reputazionali184 di cui non si sente il bisogno. Ciò che l’autonomia individuale copre è la ponderazione della scelta basata su un bagaglio conoscitivo di sé consapevole. Le tecniche di big data analytics, combinando e ricombinando pezzi di informazione, fanno emergere infinite narrazioni del consumatore, tutte possibili e 181 K. YEUNG, Hypernudge: Big Data as a Mode of Regulation by Design, in 20 J. Inf. Comm. & Soc., 1/2016, p. 118-136, la quale mette in guardia sul fatto che questa potenzialità predittiva dei big data non può tradursi in una costante inondazione di proposte di servizi non necessari per il cliente, che l’impresa è in grado di offrire anche grazie alla conoscenza dei suoi limiti cognitivi. 182 EBA-ESMA-EIOPA, Joint Committee Discussion Paper, cit. 183 Ed eventualmente dell’errore possono non essere consapevoli né l’intermediario né il cliente. 184 EBA-ESMA-EIOPA, op. ult. cit., p. 17 in merito ai rischi reputazionali: «[le istituzioni finanziarie] debbono considerare le ricadute reputazionali dell’uso dei dati raccolti da social media, considerando che (...) alcuni utenti non sanno che i loro dati sui social media sono potenzialmente accessibili a tutti via Internet (...) e che le autorità per la privacy si sono già espresse in merito a tali rischi, invitando le istituzioni finanziarie a considerare se esse sono effettivamente legittimate ad usare i dati raccolti dalle piattaforme social o ad altre fonti online per scopi assicurativi» (traduzione nostra).
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tutte reali, di cui tuttavia il consumatore quasi mai è a conoscenza. Ciò rischia di esacerbare il problema dell’asimmetria informativa a danno del singolo ed a vantaggio dell’impresa, la sola che detiene gli strumenti di big data analytics e che controlla questo bagaglio informativo attraverso l’algoritmo. Perdendo il controllo delle proprie “tracce” digitali in rete, si perde – almeno in parte – il controllo della propria autonomia individuale. E le tracce digitali da cui si estrae maggior valore economico sono principalmente i propri “dati personali”. Immaginare che l’individuo sia oggi in grado di controllare ogni possibile uso di ogni bit che rilascia nel cyberspazio può forse sembrare utopico185. Ed in effetti, secondo stime dell’Eurobarometro (2015), l’81% degli europei ritiene di non avere il pieno controllo dei propri dati online186. Il tema del controllo individuale sui dati è al centro di un vivace dibattito non solo dottrinale ma anche istituzionale. Il Consiglio d’Europa espressamente collega autonomia individuale e controllo sui dati affermando in un documento approvato il 23 gennaio 2017 che «[è] necessario assicurare la protezione della autonomia individuale basata sul diritto della persona di controllare i propri dati personali e il modo in cui sono “processati” tali dati»; specificando che questo diritto ha particolari caratteristiche quando applicato al campo dei big data, giacché esso non può consistere in un controllo individuale, ma deve essere inteso in senso più ampio, cioè deve: «evolvere in un più complesso processo di valutazione multipla del rischio relativa all’uso dei dati»187. 185
Sulla perdita di controllo sui dati personali: I.S. RUBINSTEIN, Big Data: The End of Privacy or a New Beginning? in 3 Int.l Data Privacy L., 2/2013, p. 74-87; D. SEARLS, The Intention Economy: When Customers Take Charge, Boston, Harvard Business Review Press, 2012. 186 EUROBAROMETER, Data protection factsheet, giugno 2015, cit. 187 CONSIGLIO D’EUROPA, T-PD(2017)01, Guidelines on the protection of individuals with regard to the processing of personal data in a world of big data, del 23.1.2017, p. 1. Rispetto al consenso, poi (pt. 5), si propone che: «5.1 The free, specific, informed and unambiguous consent shall be based on the information provided to the data subject according to the principle of transparency of data processing. Given the complexity of the use of Big Data, this information shall be comprehensive of the outcome of the assessment process described in Section IV.2 and might also be provided by means of an interface which simulates the effects of the use of data and its potential impact on the data subject, in a learn-from-experience approach. 5.2 When data have been collected on the basis of the data subject’s consent, controllers and, where applicable, processors shall provide easy and user-friendly technical ways for data subjects to react
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Le risposte apprestate da ultimo dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (n. 2016/679188) non paiono offrire sufficienti tutele in ordine all’uso delle tecniche big data. Con riguardo alle prospettive di “guardare nella black box”189, alcune significative proposte enfaticamente declamate nel noto Parere n. 7/2015 “Meeting the challenges of big data” del Garante europeo, relative alla trasparenza degli algoritmi e delle decisioni automatiche190, oltre che al controllo dei dati da parte degli individui191, sono rimaste clamorosamente nella penna. Le possibilità di sviluppo delle tecniche di big data non sembrano, infatti, trovare adeguata cornice regolatoria con l’entrata in vigore
to data processing incompatible with the initial purposes and withdraw their consent. 5.3 Consent is not freely given if there is a clear imbalance of power between the data subject and the controller, which affects the data subject’s decisions with regard to the processing. The controller should demonstrate that this imbalance does not exist or does not affect the consent given by the data subject». 188 Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.4.2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati), in GUUE, L-119, 4.5.2016, p. 1 ss. 189 Evidentemente ispirato dalla lettura del libro di Frank PASQUALE, The Black Box Society. The Secret Algorithms That Control Money and Information, Harvard University Press, 2015. 190 EDPS, Parere n. 7/2015, Meeting the challenges of big data, cit., p. 10, ove si giunge ad affermare che le imprese devono rendere pubblico l’algoritmo utilizzato nell’analisi dei dati: «le organizzazioni devono rendere pubblica la logica implicata nell’analisi dei big data, se vi è un effetto (diretto o indiretto) sull’individuo. Esse devono farlo in maniera proattiva, senza che l’individuo debba attivarsi per richiederne la disclosure» (traduzione nostra, enfasi aggiunta). Oppure ancora: «Sia che i dati siano forniti volontariamente, sia che siano osservati o inferiti (come un profilo, il merito creditizio, o il risultato di uno stato di salute, ecc.), o collazionati da fonti pubbliche, gli individui hanno pieno titolo di sapere quali sono e da dove e da chi il controller li abbia ottenuti. Sta diventando sempre più necessario fornire agli individui i dati stessi in un formato intelligibile così come la fonte del dato stesso» (traduzione nostra). 191 Sebbene, come si vedrà nella Parte Terza, sia stato dato seguito ad una delle principali innovazioni del citato Parere n. 7/2015, ovverosia quello di riconoscere agli individui un “diritto alla portabilità dei dati” (art. 20 del Reg. 2016/679) da un controller ad un altro, siffatto diritto non è stato recepito nella medesima ampiezza in cui era stato concepito nel Parere 7/2015. Qui, infatti, esso era pensato come soluzione tecnica al fine «di dare agli individui un miglior controllo sui propri dati, suggerendo l’uso di spazi personali di dati, detti “data store” o “data vault”. Questi sarebbero dei big data personali continuamente aggiornati in tempo reale da tutti i device connessi». (p. 14) (traduzione nostra).
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(prevista per maggio 2018) del Regolamento 2016/679, dal momento che questo, ai sensi dell’art. 5 §1.b, considera compatibile con le finalità iniziali del primo consenso, ex art. 89 §1, «[…] un ulteriore trattamento dei dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici». Ne deriva che, potendosi l’analisi big data inquadrare tanto nella categoria della ricerca scientifica, evidentemente a scopi commerciali, quanto – forse più propriamente – in quella a fini statistici, essa non richiederà il consenso dell’interessato se i dati personali furono raccolti in prima battuta col consenso dell’interessato per una finalità diversa192, anche se in ipotesi l’interessato fosse disattento nel prestare il proprio consenso o rientrasse in quell’82% di persone che non leggono accuratamente i privacy statement prima di cliccare “accetto”193. Né d’altro canto sembra fornire adeguata tutela l’altra previsione pensata per arginare gli effetti negativi delle decisioni automatizzate, ivi incluse quelle di profilazione, sulle posizioni giuridiche soggettive delle persone fisiche194, ovverosia l’art. 22. Sebbene questo riconosca all’interessato il diritto a «non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona» (comma 1), nondimeno esso prevede una serie di esclusioni ai successivi commi che rischiano di esautorarne la portata. Oltre che nel caso di consenso espresso dell’interessato (§2.c), l’applicazione del diritto viene esclusa altresì se la decisione automatizzata «sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e un titolare del trattamento» (§2.a), sempre che il titolare adotti le tecniche di pseudonimizzazione ed attui misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato. In ambo i casi, al titolare dei dati resta riconosciuto il diritto di ottenere l’intervento umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione automatizzata195. 192
Sul tema si v. S. FAMILIARI, Il diritto alla portabilità dei dati: origine e prospettive per il futuro, in Ciberspazio e dir., 3/2016, pp. 403-435 e A. SPINA, Alla ricerca di un modello di regolazione, cit., ad p. 150. 193 I dati sono quelli citati alla nota 4 del Cap. 1 di questa Parte Seconda. 194 A. SPINA, op. ult. cit., p. 151. 195 Cfr. il cons. 71 del Reg. 2016/679, a mente del quale il trattamento automatizzato «dovrebbe essere subordinato a garanzie adeguate, che dovrebbero comprendere la specifica informazione all’interessato e il diritto di ottenere l’intervento umano, di
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Siffatte disposizioni non sembrano fornire adeguate risposte alle esigenze sollevate da più parti in dottrina di assoggettare l’algoritmo ad una qualche forma di accountability e dunque di trasparenza196, al fine di poter verificare il modo in cui questo viene utilizzato per costruire le decisioni automatizzate. Ciò in quanto tali norme non paiono tenere conto del fatto che l’asimmetria informativa di cui è vittima il consumatore con l’avvento dei big data aumenta ulteriormente, nel senso che questi non è in grado di comprendere di essere destinatario di decisioni automatiche. Inoltre, come detto, il consenso prestato per il primo utilizzo dei dati personali è gravato dai due diffusissimi limiti cognitivi del no-reading bias197 e dell’euristica del gratuito198. In altri termini, la circostanza che il primo consenso – troppo spesso prestato frettolosamente senza reale consapevolezza – non impedisca le successive elaborazioni a fini di decisioni automatizzate e profilate, unita al fatto che il diritto riconosciuto dal Regolamento generale sulla protezione dei dati personali di richiedere la revisione delle informazioni inaccurate o inadeguate nelle decisioni automatizzate sia di difficile esercizio, combinate con la debolezza dell’individuo, ampiamente dimostrata sul piano empirico, possono facilmente condurre a comportamenti di approfittamento da parte delle imprese, che saranno tentate di offrire prodotti e servizi percepiti dal consumatore come facili da utilizzare e adatti ai propri interessi e bisogni, ma che nella sostanza saranno «inappropriate investment choices», e saranno servizi che «bring certain benefits to the firm»199. Sembra allora inevitabile quella che è stata definita la “collusione asimmetrica” tra individuo e capitalismo informativo” 200, ovverosia una spirale perversa che fa sì che l’individuo, incapace di rinunciare a servizi e prodotti personalizzati e ad elevata efficienza, si assoggetta ad una “sorveglianza algoritmica” che lo regola in modo sottile, ma foresprimere la propria opinione, di ottenere una spiegazione della decisione conseguita dopo tale valutazione e di contestare la decisione». 196 K. YEUNG, Hypernudge, cit., p. 132. Si v. altresì C. COGLIANESE e D. LEHR, Regulating by Robot: Administrative Decision-Making in the era of Machine Learning, in corso di pubblicazione su Georgetown L. J., 3/2017 (manoscritto, su cortesia degli autori). 197 Su cui si v. supra, Cap. 1, para. 1.1. 198 Su cui supra, in questo para. 199 EBA-ESMA-EIOPA, op. ult. cit., p. 28. 200 N. DOW SCHULL, Addiction by Design, New Jersey, Princeton University Press, 2012.
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temente dettagliato e pervasivo. Attraverso questa collusione asimmetrica, egli scambia il suo benessere di breve periodo con un impoverimento, nel lungo periodo, della propria capacità di autodeterminazione201. L’Autrice tuttavia non giunge a conclusioni definitive circa il modello di controllo che in concreto si dovrebbe porre sugli algoritmi, limitandosi ad indicare la necessità di «assicurare una significativa accountability degli algoritmi»202. Gli unici rimedi che l’ordinamento in tema di privacy sembra porre sono la possibilità per l’interessato di avvalersi del cd. “diritto all’oblio”, ovverosia di revocare il consenso prestato ed ottenere dal titolare del trattamento, ai sensi dell’art. 17 del Regolamento 2016/679, la «cancellazione dei dati personali che lo riguardano». Siffatto diritto sarà infatti esercitabile anche in ambiente big data, dal momento che “dato personale” è qualsiasi informazione che riguardi una persona fisica che sia identificata ma anche identificabile, ed è tale non solo chi sia identificabile da chi tratta direttamente il dato, ma anche da parte di terzi203. Oltre a questo, egli potrà altresì opporsi al trattamento, ai sensi dell’art. 21, dal momento che questo diritto, in base al § 6, si applica anche ai dati personali che lo riguardano e che siano trattati «anche a fini di profilatura» per scopi «di ricerca scientifica … o a fini statistici» e dunque anche ai big data204. In tali ipotesi il «il titolare del trattamento si astiene dal trattare ulteriormente i dati personali salvo che egli 201
K. YEUNG, Hypernudge, cit., p. 131: «Through our increasing willingness to submit ourselves to continuous algorithmic surveillance in return for the highly tailored convenience and efficiency which their selection optimization tools appear to offer, we also engage in a process of asymmetric collusion that threatens ultimately to impoverish us. Like so many addictions, our short-term cravings are likely to be detrimental to our long-term well-being. By allowing ourselves to be surveilled and subtly regulated on a continuous, highly granular and pervasive basis, we may be slowly but surely eroding our capacity for authentic processes of self-creation and development». 202 K. YEUNG, op. loc. ult. cit. (traduzione nostra). 203 Ai fini della cancellazione, infatti, è «necessario avere una dettagliata mappatura di tutti i dati che sono riconducibili ad un interessato, indipendentemente dal fatto che questi siano stati raccolti presso lo stesso o derivino dalle elaborazioni tipiche di un ambiente big data»: così G. BUTTI, Trattare i big data con il nuovo GDPR-UE implica una grande responsabilità, Intervista di L. Crimella, gennaio 2016, in http://www.lumsa.it/ricerca_big_data_giancarlo_butti. 204 A meno che, aggiunge la norma, «il trattamento non sia necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico».
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dimostri l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria»205. Quando invece, in via preventiva, si potrebbe iniziare col rendere la scelta di “rifiutare” i cookies altrettanto semplice e graficamente saliente quanto quella di “accettarli”. In tal modo, gli utenti di Internet inizierebbero ad auto-educarsi per comprendere l’importanza della profilatura, ed il consenso al trattamento dei loro dati personali potrà reputarsi acquisito in modo (un po’) meno “occasionale”.
205
Un discorso a sé vale per il diritto alla portabilità dei dati, riconosciuto dall’art. 20 del Reg. 2016/679, del quale si dirà diffusamente nella Parte Terza.
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CAPITOLO 4 DISCLOSURE REGULATION. UN CASO DI FALLIMENTO REGOLATORIO?
4.1. Il “discorso” sul fallimento regolatorio L’espressione regulatory failure è assai nota in letteratura, ove il termine failure indica, «secondo una traduzione infelice», il “fallimento”, ma sarebbe preferibile parlare di «insuccesso, cattiva riuscita, insufficienza»206 di una certa regolazione nel raggiungere il proprio scopo207. Al concetto di failure si riferiscono, sebbene con locuzioni diverse, talora dai toni drastici, autori provenienti sia dalle scienze politiche sia dalle scienze dell’amministrazione. Quanto ai primi, ad esempio, Dunleavy208 parla di “policy disasters”; mentre Bovens e ‘t Hart209 si riferi206
T. PADOA-SCHIOPPA, Il governo dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 13. Di regulatory o policy failure si è parlato, ad esempio, con riferimento alla riforma dell’industria elettrica californiana negli anni 2000, che portò al fallimento – inteso questa volta in senso tecnico – della compagnia Enron: cfr. S.L. PULLER, Pricing and Firm Conduct in California’s Deregulated Electricity Market, in 89 The Rev. Econ. Stat., 1/2007, 75-87; S. BORENSTEIN, The Trouble with Electricity Markets: Understanding California’s Restructuring Disaster, in 16 J. of Ec. Perspective, 1/2002, p. 191-211; P. JOSKOW e E. KAHN, A Quantitative Analysis of Pricing Behaviour in California’s Wholesale Electricity Market during Summer 2000: The Final Word, in DAE Working Paper, n. 0211, 2002; G. MARZI, Fallimenti del mercato e fallimenti della regolazione, in L’industria, 2/2001, p. 313-338. Similmente, di fallimento regolatorio si è parlato con riguardo alla crisi finanziaria, dovuta, secondo molti interpreti, alla carenza o disfunzione dell’apparato regolatorio esistente prima del 2007-2008; tra i moltissimi: P.‘t HART e K. TINDALL (a cura di) Framing the Global Meltdown, Canberra, ANU Press, 2009; S.T. OMAROVA, The New Crisis for The New Century: Some Observations on the “Big Picture” Lessons of the Global Financial Crisis of 2008, in 13 N.C. Banking Inst., 2009, p. 161; G. DI GASPARE, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria, Padova, Cedam, 2012; M. ANDENAS e I.H.-I. CHIU, The Foundations and Future of Financial Regulation. Governance for Responsibility, New York, Routledge, 2014. 208 P. DUNLEAVY, Policy Disasters: Explaining the UK’s Record, in 10 Public Policy and Administration, 2/1995, p. 52–70. 209 M. BOVENS e P. ‘t HART, Understanding Policy Fiascoes, New Brunswick, (NJ), Transaction, 1996 e, più di recente, M. BOVENS e P. ‘t HART, Revisiting the Study of 207
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scono a “policy crises e policy fiascoes”; Michael Moran210 li nomina “policy catastrophes”, mentre il noto politologo Christopher Hood211 ravvisa in essi il “tallone d’Achille” delle dottrine di public management. Nelle scienze dell’amministrazione, Wilson212 è il primo ad usare il termine “regulatory failure” per riferirsi al mancato funzionamento dei sistemi di controllo213. Studi specifici sul tema dei fallimenti regolatori si trovano anche negli scritti del teorico dello “Stato regolatore”, Giandomenico Majone214 ed in quelli del costituzionalista Cass Sunstein215, “padre” del nudge. Il fallimento del regolatore consiste dunque nel mancato o insufficiente raggiungimento del fine avuto di mira con l’intervento regolatorio, causato dall’approntamento di mezzi non idonei, secondo la nota formula di Breyer «scegliere il mezzo sbagliato per far fronte al problema che si deve affrontare»216. Sebbene, dunque, la definizione di fallimento regolatorio sia tutt’altro che piana217 e indisputata218, almeno Policy Failures, in J. of Eur. Pub. Pol., 2016. 210 M. MORAN, Not Steering but Drowning: Policy Catastrophes and the Regulatory State, in 72 Political Quarterly, 4/2001, pp. 414-27. 211 C. HOOD, The Art of the State, Oxford, Oxford University Press, 1998, spec. ad p. 23-48. 212 G.K. WILSON, Social Regulation and Explanations of Regulatory Failure, in 31 Political Studies, 1984, p. 203–225. 213 Anche tra i sociologi il tema è stato approfondito; si vedano i fondamentali contributi di S.D SIEBER, Fatal Remedies: the Ironies of Social Intervention, New York, Plenum Press, 1981, spec. ad p. 27-53; M. CLARKE, Regulation. The Social Control of Business Between Law and Politics, New York, Palgrave Macmillan, 2000, spec. cap. 6 “Ineffective Regulation”, p. 162-191; N. GUNNINGHAM, Negotiated Non-Compliance: a Case Study of Regulatory Failure, in 9 Law and Policy, 1/1987, p. 69-96. 214 G. MAJONE, Paradoxes of Privatization and Deregulation, 1 J. of Europ. Pub. Pol., 1994, p. 53-69. 215 C.R. SUNSTEIN, Paradoxes of the Regulatory State, 57 Univ. of Chicago Law Rev., 1990, p. 407-441, che porta l’esempio della regolazione contro l’inquinamento dell’aria basata su standard di prodotto (i.e. obbligare i produttori ad installare apparecchi per il controllo delle emissioni di gas inquinanti sugli autoveicoli), la quale produce un incremento dei costi delle auto, il quale spinge i consumatori a conservare le proprie automobili vecchie (e più inquinanti) anziché acquistarne di nuove. 216 Lett. «matching the wrong tool to problems at hand»: S. BREYER, Regulation and its Reform, Boston, Harvard University Press, 1983, p. 191-196. Secondo G. VACIAGO, Il giusto dosaggio di Stato e mercato, dossier, Il Sole 24 Ore, 2000, i “fallimenti dello Stato” avrebbero la stessa origine di carenza di informazione, di esternalità e di miopia che valgono nei confronti del mercato (market failures). 217 M. BOVENS e P. ‘t HART, Revisiting the Study of Policy Failures, cit., p. 2 avvertono che al di là della semplicistica e generalissima definizione appena fornita nel testo
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due sono i piani entro cui esso si può cogliere: uno di tipo “retorico”219 e l’altro di stampo “analitico”. Sotto quest’ultimo profilo, che è quello che a noi interessa, l’attenzione si concentra sui problemi di bad design di una data regolazione, che potrà essere limitato alla singola fase del procedimento di produzione della regola o riguardare l’intera politica regolatoria. Nello specifico della disclosure regulation, si tratta allora di comprendere in che misura e per quali cause il disegno dell’obbligo informativo mirato ad attenuare l’asimmetria informativa ed a fare degli individui degli attori effettivi di mercato, ovvero dei cittadini attivi220 nel controllo dell’operato della p.a. o attenti ai temi dell’ambiente e della salute, si sia tradotto in un intervento regolatorio fallimentare. Secondo la tassonomia proposta da Baldwin, Cave e Lodge la regolazione fallisce se contraddice i dettami della good regulation e produce così «implicazioni connesse a risultati negativi»221. Ciò può pertanto
non è possibile spingersi, dal momento che quella di fallimento regolatorio è nozione non neutra, così come non è necessariamente “evidence-based”; essa è spesso frutto di narrazioni politicizzate e, ove pure formi oggetto di valutazioni ed esercizi di benchmarking, i risultati vengono non di rado contestati e quasi mai giungono ad apprezzamenti largamente condivisi. 218 R. BALDWIN, M. CAVE e M. LODGE, Understanding Regulation, cit., p. 68; si v. altresì R. BALDWIN, Is Better Regulation Smarter Regulation?, in Public Law, 2005, p. 485-511, secondo cui molto dipende da cosa si intenda, in positivo, per “good regulation”. 219 Il riferimento è all’opera del grande economista Albert HIRSCHMAN, The Rethoric of Reaction, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1991, per il quale le tre strategie retoriche per “resistere” alle politiche “progressiste” sarebbero: la futility, ovverosia l’incapacità dello strumento regolatorio di modificare il comportamento individuale e dunque di incidere sulla realtà; la jeopardy, cioè l’impiego di una regolazione provoca come effetto collaterale costi superiori ai benefici derivanti dalla misura (come nell’esempio riportato da Sunstein degli standard di prodotto sui filtri ai motori delle auto inquinanti); e la perversity, vale a dire una regolazione che genera l’effetto esattamente opposto a quello avuto di mira, come ad esempio, il divieto di commercializzazione di alcolici che produce un aumento del consumo (illegale) di tale prodotto. 220 G. ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, cit., passim. 221 Lett. «negative outcome implications»: R. BALDWIN, M. CAVE e M. LODGE, Understanding Regulation, cit. p. 69. Come ricordato da M. DE BENEDETTO, La qualità della funzione regolatoria: ieri, oggi e domani, in Historia e ius, 9/2016, p. 13 tale fallimento può essere determinato anche a causa della mutevolezza del contesto «in cui la conoscenza scientifica e tecnologica evolve rapidamente (...) [per cui,] se l’approccio della pianificazione non è più praticabile (...) l’azione del regolatore deve considerarsi non solo occasionalmente ma anche strutturalmente esposta al fallimento».
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essere dovuto in primis alla definizione di obiettivi non chiari o selfdefeating; oppure può derivare dalla presenza di trade-off, cioè dalla comparazione tra i risultati raggiunti dalla misura introdotta e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza dell’intervento regolatorio, ovvero in presenza di altra e diversa misura (cd. contro-fattuale)222. In terzo luogo, il regulatory failure può dipendere dall’ampiezza della regola, ben potendo la stessa risultare eccessivamente inclusiva (over-inclusive), e dunque sproporzionatamente restrittiva del comportamento dei soggetti sottoposti a regolazione223, oppure under-inclusive, nel qual caso condotte anche rischiose sfuggiranno al controllo del regolatore. Infine, oltre che alla fase della scelta e del disegno della regola, il fallimento può essere imputabile alla fase dell’enforcement.
4.2. I limiti interni ed esterni della disclosure regulation “tradizionale” Da quanto emerso nel corso della disamina sin qui svolta, si può affermare che complessivamente la disclosure regulation “tradizionale”, nelle sue varie forme, entri in crisi per l’effetto combinato di fattori sia interni sia esterni. I primi sono rinvenibili negli apporti delle scienze cognitive, che mostrano l’incapacità di questa strategia regolatoria di cogliere la varietà psicologica e l’incidenza dei limiti cognitivi e comportamentali dei destinatari dell’informazione, specie il sovraccarico informativo e il superamento della razionalità pura (si pensi ai lunghi elenchi di informazioni da trasmettere al consumatore previsti dalla disciplina consumeristica). Pur dove la regolazione degli obblighi informativi è stata differenziata in ragione del diverso grado di “preparazione” degli individui
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Questo genere di esercizio è tipico delle valutazioni di impatto della regolazione che si conducono preventivamente alla sua introduzione, ma ben possono essere compiute successivamente onde valutare ex post se si è in presenza di un eventuale fallimento regolatorio. 223 In questi casi non è infrequente osservare quello che gli autori chiamano “countervailing effect” o “response failing” (R. BALDWIN, M. CAVE e M. LODGE, Understanding Regulation, cit., p. 70), e che a pieno titolo rappresenta un fallimento regolatorio: i soggetti regolati muoveranno le loro attività da settori iper-regolati (ad esempio, dove gli obblighi di trasparenza sono massimi ed ultra-dettagliati) ad ambiti meno regolati (e a basso tasso di trasparenza).
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(ovverosia nei mercati finanziari224) e resa flessibile – mercé la “valvola” della regola di adeguatezza/appriopriatezza e della “bidirezionalità” dei flussi informativi – essa non ha tuttavia tenuto in debito conto dell’operare dei numerosi bias e delle tante euristiche di cui è vittima l’individuo (risparmiatore) quando è esposto alle informazioni e quando valuta i rischi connessi alle scelte (di investimento). Né ha tenuto conto del fatto che codesti limiti cognitivi incidono in pari misura sugli individui con conoscenze tecniche elevate. Di contro, là dove la disclosure regulation ha adottato tecniche di semplificazione ed armonizzazione dell’informazione, proprio per ovviare al problema del sovraccarico informativo, o dove ha introdotto elementi di sensibilizzazione a temi sociali e ambientali (etichette degli elettrodomestici per il risparmio energetico ed etichette sui cibi “sani”), non si è dimostrata sufficientemente capace di modificare il comportamento individuale225. Per riprendere le categorie di Baldwin, Cave e Lodge, potrebbe dunque affermarsi che una prima causa interna di fallimento della disclosure regulation tradizionale sia il fatto di non aver tenuto conto, nel suo disegno, degli individui reali, ma di avere disegnato gli obblighi informativi attorno ad un individuo tipologico dotato di razionalità olimpica e privo di bias, e dunque di essere risultata over-inclusive (o omogeneizzante e sproporzionata) rispetto alla maggioranza dei destinatari dell’informazione; nonché di aver ritenuto che il cambiamento del comportamento individuale potesse avvenire “a preferenze date”226, senza cioè indagare la rilevanza del contesto sulle determinanti delle scelte. Ciò dimostra che i limiti cognitivi non sono esistenti in astratto, e che le tecniche per fare una “buona” disclosure regulation non possano essere definite una volta per tutte o semplicemente “importate” da un 224 Si allude chiaramente alla segmentazione della clientela operata dalla Dir. MiFID I in retail, professionale e controparti qualificate, su cui si rinvia a quanto esposto nella Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2. 225 Nulla si può dire, allo stato, sull’efficacia della disclosure regulation dei pacchetti di sigarette, che è invece basata su indagini cognitive, ma sulla cui applicazione ed efficacia non esistono ancora dati empirici. 226 Si v. l’interessante saggio di A. PORAT, Changing People’s Preferences by the State and the Law, in http://scholarship.law.berkeley.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1101&context=law_e con, ove si esplora il ruolo del diritto nel modificare le preferenze individuali, che nel paradigma della razionalità vengono invece assunte come date.
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ordinamento ad un altro, ma vadano riferite al “qui” e all’“ora”, cioè al nostro “mercato rilevante” e costantemente aggiornate. Il secondo fattore dirompente, questa volta esterno, che ha fatto emergere i limiti della disclosure regulation tradizionale, è rappresentato dall’avvento della tecnologia digitale e dei big data. La prima ha contribuito a dissolvere i confini giuridici del “soggetto” parte debole, icasticamente identificato con il consumatore, in favore del quale gli obblighi informativi sono tipicamente disposti. Tale dissoluzione ha luogo con l’emergere dapprima della figura del prosumer (metà produttore e metà consumatore di energia), e quindi con quella del “pari” che partecipa (sia come utente sia come prestatore di servizi) alle piattaforme dell’economia collaborativa. Prosumer e “pari” – ancorchè sollevino nodi giuridici diversi – sfumando i confini tra consumatore e professionista, pongono il regolatore dinanzi al dilemma di individuare il locus in cui si colloca l’asimmetria informativa e la connessa esigenza di tutela della parte debole, col rischio di gravare dell’obbligo informativo coloro a cui vantaggio lo stesso dovrebbe porsi. Ma la definitiva “onda d’urto” è rappresentata dall’avvento della “rivoluzione big data”, in cui l’individuo non è più solo ricettore di informazioni fornitegli dall’obbligato, ma anche produttore di informazioni e di “tracce digitali”. Con la personalizzazione dettagliata dei prodotti, servizi e prezzi, e con le decisioni automatiche rese possibili dai big data, si creano nuove forme di complessità – e di bias – che infittiscono ulteriormente l’asimmetria informativa a carico dell’individuo, del cui aggravio egli è, dunque, concausa (cd. “collusione asimmetrica”). Necessariamente, le tecniche di semplificazione e di standardizzazione dell’informazione, che erano pensate per facilitare la comparabilità tra prodotti e servizi, e quindi favorire la concorrenza (si pensi ai mercati finanziari, ma anche a quelli dei prodotti alimentari, dei servizi energetici e delle comunicazioni elettroniche), in un ambiente ad elevata personalizzazione, non è in grado di funzionare ed è dunque destinata a fallire. Parimenti, anche le tecniche di empowerment informativo tradizionale, come quelle basate sui siti Internet istituzionali di comparazione dei prezzi gestiti dalle authorities, sono destinate a fallire dinanzi a offerte basate su tecniche big data che consentono prezzi personalizzati.
PARTE TERZA LA PROPOSTA
SOMMARIO: CAPITOLO 1. Ripartire dalla proporzionalità dell’intervento regolatorio. – 1.1. Il rilievo del principio di proporzionalità nell’attività regolatoria. – 1.2. La “regolazione differenziata” come espressione del principio di proporzionalità. – CAPITOLO 2. Prima proposta. Per una disclosure regulation proporzionata alla luce delle scienze cognitive. – 2.1. L’ingresso delle scienze cognitive nel procedimento regolatorio e nella selezione dello strumento di disclosure adeguato. – (a) Gli esperimenti cognitivi. – (b) I nuovi strumenti regolatori cognitive-based: nudge ed empowerment cognitivo. – 2.2. Il modello della disclosure regulation “differenziata” come espressione di proporzionalità. – 2.3. Il modello anglo-americano di targeted disclosure su base cognitiva. – CAPITOLO 3. Seconda proposta. Per una disclosure regulation differenziata attraverso i big data. – 3.1. Il coté del regolatore. Ovvero fare disclosure regulation pubblica più mirata, differenziata ed efficace attraverso i big data. – 3.2. Il procedimento regolatorio. Prospettive della regolazione algoritmica: ovvero rendere più efficienti le sperimentazioni mediante l’uso dei big data. – 3.3. Il coté dell’individuo. Riequilibrare le posizioni contrattuali mediante la “portabilità” dei dati personali e prospettive delle disclosure “personalizzate”. – CONCLUSIONI.
Dinanzi a quelli che abbiamo indicato come limiti interni ed esterni della disclosure regulation non sono mancate proposte “estreme” di chi è giunto ad ipotizzare che lo strumento regolatorio vada dismesso, dal momento che, dovendo fronteggiare la complessità delle scelte, gli individui preferiscono avvalersi di esperti1. Essi quindi “non vogliono dati, ma opinioni” e queste le offre il mercato attraverso i servizi di ra-
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Si v. quanto detto nell’Introduzione a proposito degli intermediari informativi. L’argomento è sviluppato da O. BEN-SHAHAR e C.E. SCHNEIDER, More than you wanted to know, cit., p. 6 e 183 i quali propongono, in alternativa agli obblighi informativi, di: (i) usare forme di rating dei contratti standardizzati, simili a quelle che si utilizzano per i ristoranti; ovvero (ii) ricorrere alle etichette (labelling) per gruppi di contratti, sul modello di quanto si fa per i prodotti alimentari in relazione alle informazioni nutrizionali. Si v. altresì O. BAR GILL e C.E. SCHNEIDER, Coping with the Failure of Mandated Disclosure, in 11 Jerusalem Review of Legal Studies, 2015, p. 83-93.
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PARTE TERZA
ting, di ranking, oppure le esprimono gli stessi consumatori mediante le piattaforme Internet, di cui si è detto2. Invero, il ricorso all’intermediazione informativa a supporto di scelte individuali, come visto3, non è cosa nuova, tanto da essere impiegata persino nel contesto ed a sostegno di politiche pubbliche: nel Regno Unito, ad esempio, i choice adviser sono impiegati per aiutare le famiglie nella scelta dei servizi scolastici più adatti all’utenza4. Non si ritiene tuttavia che una siffatta drastica proposta possa essere validamente percorsa. Difatti, da un punto di vista di teoria della regolazione, affidare completamente al mercato (non regolato) il compito della diffusione dell’informazione non risolve i limiti della disclosure regulation tradizionale, posto che, al pari di quella anche il soggetto terzo può soffrire di bias cognitivi, oppure potrebbe non fornire un’informazione realmente indipendente a supporto della scelta, ovvero ancora potrebbero permanere rischi di manipolazione dell’informazione rispetto ai quali non vi sarebbero sufficienti garanzie5. Il punto da cui sembra doveroso ripartire per ripensare la disclosure regulation è invece quello della eterogeneità soggettiva e della varietà delle risposte dei comportamenti umani che le scienze cognitive ci hanno consegnato. Un portato che il diritto pubblico, sempre più attento alla interdisciplinarietà e al “superamento degli steccati” tra sa-
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Si v. supra, Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.2. Ibid. 4 Cfr. L. TORCHIA, La regolazione del mercato e la crisi economica globale, cit., p. 10. Esempi di questo tipo, secondo l’A. sarebbero prova del mutamento dell’assunto secondo cui le «relazioni fra privati sono regolate dal principio di parità, disponendo ogni soggetto di una pari capacità di libera scelta». La disclosure regulation sarebbe infatti da ascriversi a pieno titolo in quei “rimedi di diritto pubblico” cui l’ordinamento giuridico ricorre “frequentemente” quando «è proprio la capacità di scegliere liberamente ad essere revocata in dubbio». 5 Sono noti i casi di manipolazione dei giudizi degli utenti delle piattaforme, di cui si è occupata anche l’Autorità antitrust italiana, irrogando una sanzione amministrativa di 500 mila euro ai gestori del sito TripAdvisor (la nota piattaforma che raccoglie e diffonde informazioni turistiche e recensioni degli utenti di strutture ricettive, di ristorazione e di altra natura presenti nel database) per pratica commerciale scorretta: cfr. Agcm, PS9345 Tripadvisor - False recensioni on line, Provv. n. 25237, del 19.12.2014, in Boll. 50/2014. Il provvedimento è stato successivamente annullato dal Tar Lazio, sez. I, con sent. n. 9355 del 13.7.2015, contro cui è tuttora pendente appello dinanzi al Consiglio di Stato. 3
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peri scientifici, come autorevole dottrina ha evidenziato6, non può non considerare. Siffatta eterogeneità, infatti, se può apparire inaspettata alla luce della teoria economica neo-classica, e dunque della razionalità pura, diventa in qualche modo “prevedibile” alla luce delle scienze cognitive in quanto le “deviazioni” sono spesso sistematiche e, quindi, anche regolabili7. La “presa in carico” da parte della regolazione pubblica della evidenza che gli individui dispongono in diversa misura della capacità di comprendere e di scegliere liberamente, non può che portare ad una riconsiderazione delle regole volte a «correggere, bilanciare o compensare le asimmetrie o le differenze»8. E tali strumenti di intervento, in attuazione del principio di eguaglianza e di proporzionalità, non potranno, a loro volta, che essere differenziati. Inoltre, come efficacemente rappresentato in dottrina, «l’arte del governare nel terzo millennio» è viepiù caratterizzata da una crescente attenzione all’efficacia degli interventi pubblici; ciò invita i regolatori a disegnare le regole «alla luce di analisi empiriche [sugli] effetti comportamentali» 9 per evitare il fallimento regolatorio. Dinanzi al suo comprovato fallimento, è necessario ripensare la disclosure regulation a partire dai suoi limiti, interni ed esterni. Tanto i primi quanto i secondi, infatti, offrono spunti per ricostruire questa strategia regolatoria al 6 S. CASSESE, A proposito di «Verwaltungsrechtliche Dogmatik» di Eberhard Schmidt-Assmann. Un nuovo corso del diritto amministrativo?, in Riv. trim. dir. pubb., 1/2015, p. 24: «la scienza del diritto amministrativo si è aperta da tempo allo studio di altre discipline, e ne ha utilizzato lo strumentario. Basta che citi la “behavioral economics”, che sta dando luogo agli istituti e alle procedure che ruotano intorno al “nudging”»; S. CASSESE, “Nudge”: nuova forma di intervento pubblico, Prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione del Master interuniversitario di diritto amministrativo (MIDA), 6.2.2015, Università di Roma “Sapienza”. 7 Come già anticipato nella introduzione del Cap. 2, Parte Seconda di questo scritto. 8 L. TORCHIA, La regolazione del mercato, cit., p. 10. 9 G. NAPOLITANO, Le riforme amministrative in Europa all’inizio del ventunesimo secolo, in Riv. trim. dir. pub., 2/2015, p. 611-640, ad .p. 634, che prosegue sottolineando che: «Da ciò consegue anche che l’utilità delle varie misure di riforma andrebbe valutata in relazione alla peculiarità dei singoli contesti di riferimento, dando così maggior peso alle specificità istituzionali, economiche e culturali dei singoli paesi: un dato che le istituzioni internazionali ed europee tendono talora a trascurare quando stilano classifiche generali o redigono raccomandazioni destinate a valere per tutti nello stesso modo».
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PARTE TERZA
fine di renderla più efficace. Ciò è possibile se si integrano nel procedimento regolatorio, ancora una volta alla luce del principio di proporzionalità, gli elementi cognitivi, la cui mancata considerazione ha contribuito a determinare il fallimento della disclosure regulation tradizionale. Le pagine che seguono illustreranno la proposta metodologica, prendendo le mosse da una disamina del principio di proporzionalità e dal suo rilievo nell’attività di regolazione (para. 1.1). Si procederà quindi ad analizzare in che modo l’applicazione di tale principio, conduca all’adozione di regole differenziate (para 1.2). Questo apparato fungerà da cornice metodologica per la prima delle due Proposte che il presente scritto intende fornire per superare i limiti attuali della disclosure regulation, ossia disegnare obblighi informativi proporzionati e differenziati alla luce delle scienze cognitive (Cap. 2).
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LA PROPOSTA
CAPITOLO 1 RIPARTIRE DALLA PROPORZIONALITÀ DELL’INTERVENTO REGOLATORIO
1.1. Il rilievo del principio di proporzionalità nell’attività regolatoria È constatazione ricorrente in dottrina l’uso fungibile, ove non promiscuo, che si fa nelle corti del principio di proporzionalità rispetto a termini consimili, eppur diversi, quali «razionalità, ragionevolezza (…) ma anche adeguatezza, coerenza, congruenza, non arbitrarietà, pertinenza e molti altri»10. Vero è che con la ragionevolezza, come con l’equivalente Wednesbury principle inglese 11 , si censurano l’illogicità, l’inadeguatezza, 10
Così M. CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013, p. 2. L’affermazione ricorre anche in A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, Cedam, 1998, p. 59; D.-U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1998, p. 14; E. BUOSO, Il dialogo tra le corti in Europa e l’emersione della proporzionalità amministrativa, in M. Bianchini e G. Gioia (a cura di) Dialogo tra corti e principio di proporzionalità. Atti del I Convegno dei Colloquia dei Ricercatori della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Padova, 13-14 gennaio 2013, Padova, Cedam, 2013, pp. 405-434, ad p. 406; A. POLICE, Principi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di) Diritto amministrativo, 3a ed., Torino, Giappichelli, 2014, p. 199-219, ad p. 218; F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2/2016, p. 361-400, ad p. 377. 11 Come noto, prima che fosse formalizzata l’introduzione del principio di proporzionalità, mediante l’adozione dello Human Rights Act del 1998, nel Regno Unito le corti erano solite riferirsi al principio della “unreasonableness”, abbozzato nel caso Rooke’s del 1598 (di cui si dà conto diffusamente in A. BARAK, Judicial Discretion, New Haven, Yale University Press, 1987, p. 8) e compiutamente formulato tre secoli e mezzo più tardi nel leading case Wednesbury (Associated Provincial Picture Houses Ltd v. Wednesbury Corporation [1947] EWCA, civ. 1, del 10.11.1947). La nota formulazione del Wednesbury principle bolla come unreasonable le decisioni pubbliche «tanto assurde [lett. so outrageous in its defiance of logic or of accepted moral standards] che nessuna persona sensata le avrebbe adottate in quei termini». Sul punto diffusamente: LORD CARNWATH, From judicial outrage to sliding scales – Where next for Wednesbury?, Administrative Law Bar Association Annual Lecture, 12 novembre 2013 (in:
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l’irrazionalità della disposizione di legge, come della decisione pubblica12, secondo il senso comune o la morale correnti13; così come è vero che tanto nella giurisprudenza inglese quanto in quella italiana, seppur per diverse ragioni, il ricorso a siffatto principio è limitato, vuoi per deferenza verso il legislatore14, vuoi perché quello della ragionevolezza è principio “volubile”15; vuoi ancora perché alcune manifestazioni tipiche che ne costituivano violazione, sono state via via scorporate dalla sua area di rilevanza per divenire oggetto di specifici obblighi di legge16. Tuttavia, se ci si volge all’etimo, e all’impiego anche filosofico del termine proporzionalità, ci si avvede che questo ha una portata e una valenza tutte sue, che richiamano l’interprete, in sede di primissima approssimazione, ad una precisa opera di “misura”17. «In conclusione, il giusto è un che di proporzionale» sentenzia Aristotele nell’Etica a Nicomaco18. E il lemma tedesco Verhältnismäßigkeit19 – che al princihttps://www.supremecourt.uk/docs/speech-131112-lord-carnwath.pdf); A. PETERS, Proportionality as a Global Constitutional Principle, Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law Research Paper Series, No. 10/2016 (in http://ssrn.com/abstract=2773733). 12 Cfr. M.P. VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, Cedam, 1990, p. 60 e D.-U. GALETTA, I principi di proporzionalità e ragionevolezza, in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano Giuffrè, 2015, p. 69-88, ad p.74, la quale parla di vera e propria “confusione” nell’utilizzo «indistinto» dei due principi di proporzionalità e ragionevolezza, pur chiarendo che al sindacato di proporzionalità le corti giungono nei primi anni Novanta del secolo scorso, per la «assoluta indeterminatezza dei (...) contenuti» del principio di ragionevolezza, la quale, cristallizzatasi nel tempo, ha generato «carenze dal punto di vista della tutela giurisdizionale accordata al privato titolare di interessi secondari confliggenti con l’interesse primario». 13 G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, 2a ed., Torino, Giappichelli, 2015, p. 200-202. 14 M. CARTABIA, Principi di ragionevolezza e proporzionalità, cit., p. 3, parla di «cautela e circospezione di fronte alla discrezionalità legislativa». 15 D.-U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale, p. 74, parla di «estrema volubilità» del principio di ragionevolezza. 16 Così G. CORSO, op. cit., p. 201. 17 Si noti, come curiosità, che anche il termine “razionalità”, spesso richiamato nelle applicazioni giurisprudenziali del principio di ragionevolezza, contiene ratio che significa misura, ma ad esso non è stato dato lo stesso senso fatto proprio dal principio di proporzionalità, come si vedrà nel prosieguo. 18 ARISTOTELE, Etica nicomachea, Libro V, Cap. 3, 1131a, trad. C. Mazzarelli, Coll. I classici del Pensiero, dir. V. Mathieu, Milano, Rusconi, 1987, p. 231. Come ben nota G. DI GASPARE, Suum unicuique tribuere? Alle origini della giustizia distributiva,
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pio giuridico in parola dà i natali20 – si compone di “misura” (Maß) e “relazione” (Verhältnis), a significare non solo la necessità che vi sia una giusto assetto concreto dei rapporti tra due elementi (il mezzo prescelto e il fine pubblico perseguito), ma anche una corretta proporzione tra la decisione pubblica21 e il risultato che essa intende raggiunin www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014, più che di giustizia, «è preferibile parlare di “giustezza”, secondo il significato desumibile nell’etica Nicomachea (...) in quanto per Aristotele non si tratta tanto di stabilire in astratto quale debba essere il comportamento giusto derivante dall’esercizio della virtù nella sua completezza, quanto piuttosto di misurare, sulla base di parametri che emergono dalle concrete circostanze, quanto dovuto ad ognuno. (...) Sarà il contesto politico in ragione dei rapporti di forza tra confliggenti valori che definirà quella misura». 19 Su cui fondamentale resta l’opera di F. FLEINER, Institutionen des deutschen Verwaltungsrechts, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1913, spec. ad p. 376; ma si v. anche il volume collettaneo di M. JESTAEDT e O. LEPSIUS (a cura di) Verhältnismässigkeit: zur Tragfähigkeit eines verfassungsrechtlichen Schlüsselkonzepts, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015, ove in particolare i saggi di P. REIMER, Verhältnismäßigkeit im Verfassungsrecht, ein heterogenes Konzept, p. 60-76 e di S. SEEDORF, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit bei der Gesetzgebung, p. 129-156. 20 Per la ricostruzione delle origini pretorie asburgiche del principio di proporzionalità, oltre agli autori già citati, si v.: S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Giappichelli, Torino, 2011; S. VILLAMENA, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa. Ordinamento comunitario, italiano e inglese, Milano, Giuffrè, 2008; D.-U. GALETTA, Le principe de proportionnalité, in J.-B. Auby, J. Dutheil de la Rochère (a cura di) Droit administratif europeén, Bruxelles, Bruylant, 2007, p. 357-376; G. LIGUGNANA, Principio di proporzionalità e integrazione tra ordinamenti. Il caso inglese e italiano, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2/2011, p. 447-481. 21 Ben chiarisce a tal riguardo F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzione e test di proporzionalità, cit., p. 362 che, benché «nelle riflessioni della dottrina, il principio [di proporzionalità] viene analizzato, per lo più, nella sua applicazione giudiziale, [esso si rivolge] in prima battuta, all’autore della decisione, sia esso il legislatore o l’amministrazione». Nel riproporre il pensiero di Ludovico Mortara, lo ricorda anche A. SANDULLI, Mortara e il diritto amministrativo, in Riv. Trim. dir. pubbl., 3/2014, p. 874-876, ad p. 876: «la proporzionalità dell’azione, tuttavia, è un vincolo del potere legislativo (e, soltanto per il tramite della legge, dell’amministrazione)». «As the principle of proportionality is recognised also as a principle of constitutional law, it does not only bind the administration, but also the legislator»: così J. SCHWARZE, The principle of proportionality and the principle of neutrality in European administrative law, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2003, p. 53-75. Nello stesso senso, si v. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 151 e M. CLARICH, Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza: l’esperienza italiana e tedesca a confronto, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, p. 91; nonchè lo stesso A. SANDULLI, Proporzionalità, in S. Cassese (a cura di) Diz. dir. pubbl., Milano, Giuffrè, 2006, p. 4643-4650.
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gere, in termini di interesse pubblico perseguito22. In un saggio ben informato apparso sul Journal of Law and Society, Lacey esplora i connotati simbolici assunti dal termine proporzionalità nelle varie branche del sapere e della cultura, dall’antichità ai giorni nostri, sottolineando come il valore matematico-ordinatore23 e la potenza di «grounding and making concrete the power-constraining potential» rappresentino il vero fascino della proporzionalità24. Ciò che spiega il continuo “risorgere” del principio attraverso i secoli, i paesi e le dottrine politiche e giuridiche, starebbe dunque nella costante ricerca da parte dell’uomo – nel nostro caso del decisore pubblico – di strumenti e valori (o mezzi e interessi pubblici) e quindi della maniera migliore di combinarli, di modo che producano «armonia delle parti e pertanto giustizia»25. Il principio di proporzionalità è dunque “misura” dell’esercizio del potere pubblico26, ed implica un «limite intrinseco all’agere [pubblico]»27. L’essenza della proporzionalità sta dunque esattamente nel limite al potere e si sostanzia nel raggiungimento di quel «massimo utile
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E. BUOSO, Il dialogo tra corti in Europa, cit., p. 410. Basti solo pensare alla “sezione aurea” o numero di Dio, e ai capolavori dell’architettura e dell’arte classica che ad esso si sono ispirati. 24 N. LACEY, The Metaphor of Proportionality, in J. Law & Society, 1/2016, p. 2744, ad p. 41. 25 Sempre in N. LACEY, op. ult. cit., p. 30 ss. si vedano le considerazioni sulla proporzionalità nella teoria della guerra giusta presenti già in Cicerone, come nel grande poema epico sanscrito Mahābhārata e negli scritti di Agostino di Ipponia, di Tommaso d’Aquino e Huig de Groot, fino agli inglesi Hobbes e Locke. Su questo filone che ricostruisce in chiave storica il principio di proporzionalità si v. altresì T. POOLE, Proportionality in Perspective, in New Zealand L. R., 2010, p. 369-391 e E. ENGLE, The History of the General Principle of Proportionality: An Overview, in Dartmouth L. J., 2012, p. 1-11. 26 Così già G.D. ROMAGNOSI, Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Firenze, Stamperia Piatti, 2a ed., 1832 (1a ed. Parma 1814), p. 17; dacché la cosa pubblica prevalga sì sulla cosa privata, ma «entro i limiti della vera necessità. Lo che è sinonimo di far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della proprietà privata e libertà» (open access nella versione originale: https://archive.org/stream/bub_gb_tWR12YSwMPUC#page/n3/mode/2up). Nello stesso senso E. CHITI, La disciplina procedurale della regolazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 3/2004, p. 679-736, ad p. 689. 27 Così F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, Dike, 9a ed., 2016, p. 1118, non più, cioè, solo un «elemento estrinseco di controllo giurisdizionale della legittimità dell’azione amministrativa». 23
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dell’amministrazione con il minimo sacrifizio dei cittadini» di cui parlava già Federico Cammeo agli inizi del secolo scorso28. L’esperienza tedesca, forse la più avanzata in fatto di misurazione ed applicazione del canone della proporzionalità all’agere pubblico29, e dunque giustamente assurta a punto di riferimento nel dibattito scientifico sul tema30, è usa distinguere quattro momenti (che divengono tre nel caso di decisioni amministrative)31 logico-ricostruttivi della proporzionalità: (i) la legittimità dello scopo perseguito; (ii) la idoneità della misura al raggiungimento dello scopo legittimo perseguito; (iii) la necessarietà, nel senso di ricorso al mezzo meno restrittivo della posizio28
F. CAMMEO, L’equità nel diritto amministrativo, in Annuario della Regia Università di Bologna per l’a.a. 1923-1924, 1924, p. 16. 29 Sono note a tal riguardo le due espressioni, fleineriana «Die Polizei soll nicht mit Kanonen auf Spatzen schießen»: F. FLEINER, Institutionen des deutschen Verwaltungsrechts, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1913, p. 376, e inglese, più tarda di settant’anni, di Lord Diplock: «using a steam hammer to crack a nut, if a nutcracker would do» (R v Goldstein [1983] 1 W.L.R. 151, 155). 30 Oltre al già menzionato J. SCHWARZE, The Principle of Proportionality, cit., fondamentale resta l’opera di R. ALEXY, A Theory of Constitutional Rights, Oxford, Oxford University Press, 2002, spec. ad pp. 66-69 e 396-414, e la più recente elaborazione, frutto di evidenti contaminazioni della law and economics, con cui l’A. giunge a superare alcune obiezioni mosse alla sua “legge del bilanciamento”. R. ALEXY, Constitutional Rights and Proportionality, in Revus [Online], 22/2014 (disponibile su: http://revus.revues.org/2783). Cfr. altresì E. ELLIS, The Principle of Proportionality in the Law of Europe, Oxford, Oxford University Press, 1999; A. BARAK, Proportionality. Constitutional rights and their limitations, Cambridge, Cambridge University Press, 2012. G. DE BúRCA, The Principle of Proportionality and its Application in EC Law, in 13 Yearbook of European Law, 1995, p. 105-150; A. STONE SWEET e J. MATHEWS, Proportionality Balancing and Global Constitutionalism, in 47 Columbia J. of Transnational L., 2008, p. 72-164. 31 Come ricordato da A. VAN AAKEN, Constitutional Limits to Nudging: A Proportionality Assessment, in A. Kemmerer, C. Möllers, M. Steinbeis e G. Wagner (a cura di) Choice Architecture in Democracies, Exploring the Legitimacy of Nudging, OxfordBaden-Baden, Hart-Nomos, 2015 (disponibile anche in: ssrn.com/abstract=2606189), in Germania il test di proporzionalità ha quattro fasi se applicato a leggi del Parlamento; mentre ne ha tre se applicato a misure amministrative, ove è omesso lo scrutinio della legittimità dello scopo perseguito, che si presume. Secondo F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzionalità, cit., pp. 366-367, il test di legittimità dello scopo perseguito, nel caso delle decisioni amministrative, non è completamente assente, ma anzi resta doveroso nel caso in cui la norma attributiva del potere sia formulata in modo generico e residui in capo alla p.a. un margine di discrezionalità in ordine alla “interpretazione” da darsi allo scopo perseguito e, quindi, alla idoneità dello strumento selezionato (primo step) al raggiungimento dello stesso (sul punto si tornerà infra nel testo).
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ne giuridica incisa tra quelli disponibili, ma parimenti efficace a raggiungere lo scopo; e (iv) la proporzionalità in senso stretto (o bilanciamento), che guarda agli effetti della misura e soppesa «i benefici derivanti dal raggiungimento … e i costi, cioè i sacrifici imposti ad altri diritti e interessi in gioco»32 (i.e. diversi dall’interesse pubblico primario33). Venendo allo specifico della regolazione, è noto che codesta attività mal si presta ad una collocazione definitiva all’interno di una precisa funzione pubblica, giacchè essa abbraccia trasversalmente diversi “compiti” affidati, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, allo Stato regolatore34. Qualificandosi come insieme di strumenti di “condizionamento” dell’attività di soggetti pubblici o privati35, piuttosto che come specifica fonte o attività, la regolazione può essere prodotta da autorità amministrative indipendenti, così come da altri soggetti 32
M. CARTABIA, Principi di ragionevolezza, cit., p. 5. D.-U. GALETTA, I principi di proporzionalità e ragionevolezza, cit., p. 72. 34 Regolazione, come noto, è nozione tecnica, che il giurista mutua dalla cibernetica – scienza che studia i sistemi complessi – in anni in cui con Niklas Luhmann e, in Italia, Mario Losano, dopo il declino del giuspositivismo, il diritto esplora possibilità di connessioni con altri saperi. Cfr. N. LUHMANN, Stato di diritto e sistema sociale, Napoli, Guida Ed., 1978 e M.G. LOSANO, Sistema e struttura nel diritto, 3 voll., Milano, Giuffrè, 2002: vol. 1 Dalle origini alla Scuola Storica (Memorie dell’Istituto Giuridico, Serie II, memoria CXXXIV), Torino, Giappichelli, 1968 ripubblicato con lo stesso titolo per Giuffrè nel 2002; vol. 2 Il Novecento; vol. 3 Dal Novecento alla postmodernità. Regolazione è, in senso tecnico, ogni intervento esterno che serve a mantenere in equilibrio un sistema che tende al disordine (si pensi ad esempio, alla valvola di una pentola a pressione). Ha ben ragione Clarich nell’affermare che se «riferita all’intervento dei pubblici poteri in campo sociale ed economico», la regolazione è «espressione con pluralità di significati»: M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 31. Sulla ricostruzione del concetto di regolazione e sulle influenze delle regulation teories anglosassoni sulla dottrina italiana, nonché sulla impossibilità logica di un “diritto della regolazione”, sia consentito il rinvio a F. DI PORTO, La disciplina delle reti nel diritto dell’economia, Padova, Cedam, vol. VI del Tratt. di Diritto dell’economia, dir. E. Picozza e E. Gabrielli, 2008, spec. ad p. 44 ss. 35 Secondo M. D’ALBERTI, Poteri regolatori tra pubblico e privato, in Dir. Amm., 4/2013, p-607-626, ad p. 607 ss. «per regolazione s’intende, in un’accezione estesa del termine, un’attività che può concretarsi in provvedimenti puntuali tradizionali (come autorizzazioni ad imprese o sanzioni pecuniarie), ma include anche e soprattutto decisioni di tipo quasi-giudiziale, come quelle adottate dalle autorità antitrust per la risoluzione di casi concreti, e ricomprende altresì l’emanazione di regolamenti, di standard, di criteri generali, riconducibili all’idea di un’attività normativa o quasi-normativa (corrispondente al rulemaking angloamericano). Si tratta, dunque, di un’attività assai rilevante e strettamente legata a finalità di interesse pubblico». 33
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dell’ordinamento giuridico, tanto nazionali quanto sovra-nazionali36. Di necessità, il principio di proporzionalità si atteggia diversamente in ragione della fonte di volta in volta rilevante. Di tali specificità si darà conto di volta in volta nel prosieguo. La dottrina italiana è oggi concorde nel ritenere quello di proporzionalità un «principio generale del diritto pubblico (...) costantemente applicato dai giudici»37, oltre che contemplato in numerose norme di settore38, indirettamente richiamato dalla carta fondamentale e dalla legge sul procedimento amministrativo 39, nonché canone ispiratore dell’azione delle istituzioni eurpee40. Rispetto alla attività regolatoria di fonte europea, esso è altresì richiamato nelle Linee guida sulla “Better regulation” del 2015, che richiedono che qualsiasi intervento
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Ciò che contraddistingue la regolazione è dunque il “contenuto regolatorio” della regola, appunto, che sia espresso in una legge, in un atto avente forza di legge, in un regolamento governativo o in una decisione amministrativa (espressione sia di discrezionalità amministrativa sia di discrezionalità tecnica): così M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI e N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 13. Il “contenuto regolatorio” è dunque evidentemente rinvenibile anche nella fonte sovra-nazionale, come ad esempio, un regolamento europeo o una direttiva self-executing, ecc. 37 Così A. SANDULLI, Proporzionalità, in Dizionario di diritto pubblico, cit., p. 4645. 38 Si pensi ad esempio, al codice dell’ambiente (d.lgs. 152/2006), che si richiama al principio di proporzionalità all’art. 178 comma 3; oppure al DPCM 170 dell’11 settembre 2008 in materia di AIR, che lo richiama in materia di istruttoria della regolazione (art. 5 co. 2). 39 Ci si riferisce ovviamente alle novelle dell’art. 117, co. 1 cost. e dell’art. 1 della l. 241/1990, operate rispettivamente nel 2001 e nel 2005 ed ai riferimenti ai principi dell’ordinamento europeo e, dunque di necessità, anche all’art. art. 5§4 del Tratt. UE, all’art. 5 del Protocollo no. 2 annesso al Trattato stesso, nonché all’art. 52 §1 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, vincolante per gli Stati membri dal 2009. 40 Il già richiamato art. 5 del Protocollo 2 così dispone: «(...) I progetti di atti legislativi sono motivati con riguardo ai principi di (...) proporzionalità. Ogni progetto di atto legislativo dovrebbe essere accompagnato da una scheda contenente elementi circostanziati che consentano di valutare il rispetto dei principi di (...) proporzionalità. Tale scheda dovrebbe fornire elementi che consentano di valutarne l'impatto finanziario e le conseguenze (...) I progetti di atti legislativi tengono conto della necessità che gli oneri, siano essi finanziari o amministrativi, che ricadono sull’Unione, sui governi nazionali, sugli enti regionali o locali, sugli operatori economici e sui cittadini siano il meno gravosi possibile e commisurati all'obiettivo da conseguire». Si v. altresì la Comunicazione della Commissione Europea, EU Regulatory Fitness, COM(2012) 746 fin., del 12.12.2012.
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dell’Unione Europea sia giustificato da criteri di stretta necessità e non vada oltre «ciò che è necessario per risolvere il problema»41. L’incidenza del principio di proporzionalità sulla regolazione nazionale si coglie su due piani: quello della procedimentalizzazione e quello della “residualità sostanziale”. Sotto il primo profilo, poiché al decisore pubblico si richiede una valutazione delle possibili misure alternative in relazione all’interesse perseguito (i e ii) e degli opposti interessi (iii), nonché dei loro eventuali effetti positivi e negativi sui destinatari e i terzi coinvolti (iv), una prima necessaria conseguenza consiste nell’obbligo di ampia consultazione dei soggetti che possono essere coinvolti dalla regolazione che si intende adottare (i cc.dd. stakeholder)42. In secondo luogo, espressione del principio in parola è l’obbligo per i regolatori di motivare diffusamente gli atti di regolazione43, inclusi gli atti amministrativi generali44 e, 41
Lett. «what is needed to resolve the problem»: Commissione europea, Better Regulation Guidelines, SWD(2015) 111 def., del 19 maggio 2015, p. 5, su cui F. GIGLIONI, Regole migliori producono risultati migliori? cit., p. 597-604. 42 Non si sta invero disconoscendo l’origine della partecipazione ai procedimenti di regolazione che, come noto, nel nostro ordinamento ha rappresentato il “contrappeso” procedurale della carenza di legittimazione democratica delle autorità amministrative indipendenti. 43 Come ben illustrato da M. DE BENEDETTO, La motivazione delle regole, in Studi Parl. Pol. Cost., 185/186, 2014, p. 7-40, ad pp. 8-11: «(...) Occorre peraltro convenire sui tratti che concorrono a definire le “regole”: queste non sono solo enunciati prescrittivi assistiti da forza e valore coerenti con il rango della sede normativa ospitante, ma sono “previsioni specifiche che incidono sull’attività, sulla produzione o sull’organizzazione dei destinatari”. La legal rule è norma caratterizzata da portata applicativa immediata e orientata a modificare i comportamenti dei destinatari: in altri termini, ciò che definisce la regola è il suo contenuto. La più ampia regolazione che formalmente contenga un certo numero di regole si alloca talvolta in una fonte di un certo rango (una legge), talaltra in diversa sede (un regolamento ministeriale piuttosto che un atto di regolazione di un’autorità indipendente). (...) Quando, invece, parliamo delle regole e quando adottiamo una prospettiva regolatoria, la giustificazione è l’intero percorso che conduce alla legittimazione sostanziale della regola stessa e non solo del potere in virtù del quale è stata adottata (...) Ne consegue che la motivazione deve essere considerata vera e propria “regola di qualità” per l’attività di regolazione, di cui è caratteristica. (...) Il palesarsi progressivo della natura regolatoria di larga parte della legislazione contemporanea (...) conduce a riproporre la questione [della] motivazione delle regole (...) in termini di prospettiva unitaria, tenendo insieme legge, atti normativi e atti di regolazione delle autorità indipendenti. In qualche misura, potrebbe risultare necessario muoversi a ritroso: non solo dal vincolo di motivazione (quando esistente) al controllo dell’istruttoria, ma dal controllo sull’adeguatezza dell’istruttoria alla necessità della motivazione, indipendentemente dalla collocazione degli atti nella
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sebbene in misura diversa e molto più contenuta, quelli a carattere legislativo45, sì da rendere esplicite le ragioni per cui una data misura sia stata scelta in luogo di un’altra46 o in luogo della cd. “opzione zero”. In alcuni settori, l’obbligo di rispettare il principio di proporzionalità, con i due corollari procedimentali di cui si è detto, è stabilito direttamente dalla legge: è questo, ad esempio, il caso delle del settore finanziario, ove l’art. 23 della legge a tutela del risparmio esplicitamente obbliga Banca d’Italia e Consob a consultare e motivare i propri atti di regolazione tenendo conto proprio del principio di proporzionalità47; o ancora delle comunicazioni elettroniche48, o della trasparenza gerarchia delle fonti». Cfr. altresì N. LUPO, Alla ricerca della motivazione delle leggi: le relazioni ai progetti di legge in parlamento, in U. De Siervo (a cura di) Osservatorio sulle fonti 2000, Torino, Giappichelli, 2001, p. 67-112. 44 È noto il dibattito in merito alla motivazione degli atti amministrativi generali, la quale è stata tradizionalmente esclusa per la mancata attitudine degli stessi «a ledere specifiche situazioni soggettive»: E. CHITI, La disciplina procedurale della regolazione, cit., p. 684. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del discorso, è che «la loro portata regolatoria è indiscussa»: M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit. p. 71. Ma specialmente, che in riferimento ad essi, vale quanto affermato dalla Corte costituzionale nella nota sent. 6 dicembre 2004, n. 379, in Corr. giur., 2005, p. 1515 ss., ovverosia, che «la legge sul procedimento amministrativo non impone, ma certo non vieta, la motivazione degli atti normativi (...)» e che anzi, «la motivazione degli atti amministrativi generali, nonché di quelli legislativi, è la regola nell’ordinamento comunitario». 45 In merito ai quali si v. la sent. della Corte cost. cit. alla nota precedente. Sul tema della motivazione degli atti normativi in generale si v.: S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, Cedam, Padova, 2008; M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, Milano, Giuffrè, 2011; M. ANGELONE, La motivazione delle leggi. profili funzionali ed implicazioni sistematiche, in P. Perlingieri (a cura di) Sulle tecniche di redazione normativa nel sistema democratico, Napoli, ESI, 2010, pp. 119-150 e C. DEODATO, La motivazione della legge. Brevi considerazioni sui contenuti della motivazione degli atti normativi del governo e sulla previsione della sua obbligatorietà, in federalismi.it, 12/2014; A.G. ARABIA (a cura di) Motivare la legge? Le norme tra politica, amministrazione, giurisdizione, Milano, Giuffrè, 2015. 46 Secondo G. MAJONE, Nonmajoritarian Institutions and the Limits of Democratic Governance: a Political Transaction-Cost Approach, in 157 J. of Institutional and Theoretical Economics, 1/2001, p. 57-78, ad p. 73, quello della motivazione è il più importante “dovere fiduciario” delle istituzioni non maggioritarie, che serve a compensare la carenza di legittimazione democratica. 47 L’art. 23 della l. 262/2005 così dispone: «1. I provvedimenti della Banca d’Italia, della CONSOB, dell’ISVAP [oggi Ivass] e della COVIP aventi natura regolamentare o di contenuto generale … devono essere motivati con riferimento alle scelte di regolazione … sono accompagnati da una relazione che ne illustra le conseguenze sulla regolamentazione, sull’attività delle imprese e degli operatori e sugli interessi degli investitori e dei risparmiatori. 2. Nella definizione del contenuto degli atti di rego-
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amministrativa49. In altri casi, il principio di proporzionalità non è espressamente menzionato, ma allo stesso tempo esso è applicato in maniera diffusa dai regolatori50. Un buon esempio è rappresentato dalle Linee guida dell’Anac in materia di obblighi di trasparenza delle società partecipate51: edotta della estrema eterogeneità dei destinatari52, l’autorità rifugge dalla regola “one-size-fits-all”, consapevole che una siffatta regola risulterebbe facilmente adatta per talune imprese e sproporzionata per altre, e lascia aperta la via ad “adattamenti” della disciplina «alla realtà lazione generale … tengono conto in ogni caso del principio di proporzionalità, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari. A questo fine, esse consultano gli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori». R. D’AMBROSIO, La Banca d’Italia, in P. Cirillo e R. Chieppa (a cura di) Le autorità amministrative indipendenti, Padova, Cedam, 2010, pp. 194-310 ad p. 233. 48 Il cuore del pacchetto di direttive del 2002 (recepite nel codice delle comunicazioni elettroniche, d.lgs. n. 259/2003) era di promuovere l’uso di concetti mutuati dal diritto della concorrenza ed improntare su di essi la regolazione di settore, al fine così di ridurre il ricorso ad obblighi regolatori ex ante ed ammettere unicamente rimedi ex post, nel solo caso in cui la concorrenza non funzionasse (residualità della regolazione). 49 Cfr. il nuovo comma 1-ter dell’art. 3 del d.lgs. 33/2013, inserito dal d.lgs. 97/2016, che attribuisce all’Anac il potere di specificare (nel piano nazionale anticorruzione) “modalità semplificate” di trasparenza (pubblicazione obbligatoria di informazioni) per Comuni con meno di 15.000 abitanti, in attuazione del principio di proporzionalità. Sul punto si tornerà infra, nel testo. 50 Ad esempio, si v. la delib. Agcom, n. 181 del 7 aprile 2009 in materia di digitalizzazione delle reti televisive terrestri. 51 Cfr. la dererminazione dell’ANAC n. 8 del 17 giugno 2015 recante Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici. 52 Come noto, le società a partecipazione pubblica, come le pp.aa. che le controllano, sono soggette agli obblighi di trasparenza e alle misure di prevenzione amministrativa della corruzione. Esse rappresentano una realtà particolarmente variegata ed eterogenea: possono essere controllate de iure o de facto dalla pa oppure essere solo partecipate in via non maggioritaria; possono essere grandi società di servizio pubblico a rilievo nazionale o piccole società strumentali di un Comune. Possono anche non essere società, bensì “enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pp.aa.” oppure ancora enti pubblici economici. Per dare un’idea del fenomeno, si pensi che secondo la relazione Mef (2015, p. 6) le sole società partecipate al 2013 sarebbero 8.324, mentre le partecipazioni, incluse quelle indirette, ben 88.322. Sul tema si v. F. DI PORTO, Il “collante” della trasparenza: la disciplina dell’informazione nei rapporti tra ente locale e sue partecipate, in M. Passalacqua (a cura di) Il “disordine” dei servizi pubblici locali, Torino, Giappichelli, 2015, p. 243-278.
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organizzativa dei singoli enti per mettere a punto strumenti di prevenzione mirati e incisivi»53. Tuttavia, come sottolineato dalla dottrina54, selezionare la misura che è necessaria a raggiungere lo scopo definito dalla legge, che ponga il minore sacrificio agli interessi dei destinatari e dei terzi, non è solo un problema di fare le consultazioni, per quanto accurate (notice and comment, audizioni, questionari, ecc.), o di fornire una motivazione circa il perché alcuni interessi siano stati sacrificati in favore di altri (il cd. piano procedurale della partecipazione rafforzata). Difatti, spesso accade che l’obiettivo regolatorio da perseguire sia definito in modo vago, e dunque risulti difficile condurre i primi due step – quello di legittimità dello scopo e della idoneità della misura rispetto allo scopo legittimo – del test di proporzionalità (si pensi, ad esempio, alla “promozione della concorrenza”, alla tutela dei clienti vulnerabili, della trasparenza del mercato, e così via)55. In questi casi, il principio di proporzionalità diviene ancor più significativo, “sostanziale”56, dal momento che implica che la regolazione sia valutata avendo riguardo alla “misura” (pro-“porzione”) del potere esercitato dal regolatore, ossia avuto riguardo alla sua efficacia “in concreto”.
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ANAC, Linee guida, cit., p. 6. R. CHIEPPA, La tutela giurisdizionale, in P. Cirillo e R. Chieppa (a cura di) Le autorità amministrative indipendenti, Padua, Cedam, 2010, p. 121-122. 55 G. MORBIDELLI, Poteri impliciti delle a.a.i. e principi di legalità e buon andamento, 2013 (disponibile in: www.giustiziaamministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Studiecontributi/Indicealfabetico/index.html? option_value=Morbidelli,%20Giuseppe), parla di «carattere indeterminato dei valori da tutelare», quali ad esempio, «pluralismo, completezza di informazione, efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, risparmio, stabilità delle banche e delle compagnie di assicurazione ecc.». 56 Come ricordato da F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 1116, se la legge attribuisce al regolatore il potere di promuovere la concorrenza senza ulteriormente precisare i contorni di siffatto potere, una regolazione asimmetrica (i.e. che limita solo l’incumbent lasciando competere i nuovi entranti sul mercato) sarà legittima solo se in linea con i criteri procedurali e sostanziali del principio di proporzionalità. Le misure amministrative sono legittime se la legge attributiva del potere prevede le modalità di esercizio dello stesso. Tuttavia, nei casi in cui il parametro legale non è chiaro, il bisogno di proporzionalità cresce. La scelta di una determinata regolazione potrà così essere sindacata dalle corti secondo i parametri di appropriatezza, ragionevolezza e logicità nel processo di comparazione di differenti misure potenzialmente adeguate. 54
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E qui si giunge al secondo momento di rilevanza della proporzionalità per la regolazione, quello che abbiamo definito di “residualità sostanziale”. In un certo senso, la regolazione può dirsi intrinsecamente proporzionata, giacché, negli ordinamenti liberali, essa nasce di per sé come residuale rispetto alla libertà e al mercato. Dal che discende che ogni sua introduzione, per essere legittima, debba essere giustificata da un qualche fallimento di mercato o da una speciale meritorietà dell’interesse pubblico che si intende perseguire. La cd. “opzione zero” sarebbe dunque sempre da preferirsi57 ed ogni ricorso alla regolazione sarà ammissibile quando realmente indispensabile. Le potenziali conseguenze negative derivanti da una regolazione sproporzionata sono infatti definite dalla Corte costituzionale (sent. 200/2012) in termini di detrimento all’utilità sociale: «l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato». Ne consegue, nelle parole della Corte, che «una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale»58.
Il primo sindacato che la proporzionalità impone è dunque quello sulla legittimità dell’interesse pubblico perseguito dall’intervento di regolazione (i). Se la fonte è la legge, si farà rispetto ai valori e ai principi sanciti nella carta costituzionale; mentre se la fonte è la decisione amministrativa, si farà attraverso l’interpretazione della norma di legge attributiva (o meno) del potere regolatorio esercitato59. Così, per quanto di nostro interesse, la regolazione che impone alle imprese obblighi di information disclosure potrà dirsi legittima in quanto giustificata dalla necessità di ridurre l’asimmetria informativa presente sul mercato; quella che vieta il fumo nei locali aperti al pubblico, lo sarà in riferimento all’esigenza di contenere le esternalità ne57
A. VAN AAKEN, Constitutional Limits to Nudging, cit., p. 22. Corte cost. sent. 200/2012 del 17.7.2012, §7.4 cons. in dir. 59 F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzionalità, cit., p. 366. 58
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gative derivanti del fumo passivo; quella che liberalizza le attività prima soggette a riserva, per la necessità di garantire la libertà di iniziativa economica, e così via. Più problematico è il caso in cui una regolazione sia introdotta per finalità “puramente” paternalistiche, ovverosia, secondo la citata definizione di Dworkin60, nello specifico interesse del soggetto limitato (si pensi ad un divieto di fumo formulato in modo tale da risultare orientato a proteggere la salute dei fumatori, non già quella dei fumatori passivi). In tal caso, la maggior parte della dottrina ritiene difficile giustificare, alla luce del primo tiret del sindacato di proporzionalità, una siffatta regolazione61, in quanto risulterebbe limitativa della libera determinazione individuale (dei fumatori)62. Più agevole sarebbe giustificare una misura non di divieto ma di obbligo informativo, come quella che attualmente impone ai produttori di sigarette di riportare sui pacchetti messaggi che illustrino i rischi per la salute connessi al consumo di tabacco63. Comparativamente (terzo step, della necessarietà iii), infatti, una simile misura risulterebbe meno limitativa della libertà dei soggetti incisi (i fumatori) rispetto al divieto di fumo nei locali pubblici. Fermo restando che occorrerebbe comunque svolgere il quarto step del test, ovvero quello della proporzionalità in senso stretto (iv). Quando pure sia giustificata dal perseguimento di un legittimo obiettivo, non ogni misura regolatoria potrà dirsi sempre e comunque ammissibile. Sia perché in taluni settori l’attività regolatoria è appannaggio del diritto europeo, e dunque sottratta alle autonome scelte del decisore nazionale, sia perché, come detto, taluni obiettivi sono pur sempre definiti in modo generico (come nel caso della tutela della concorrenza, della prevenzione della maladministration, della promozione della trasparenza, della tutela dei clienti deboli, della tutela dell’ambiente, ecc.) e dunque, come ben chiarito da attenta dottrina, la
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G. DWORKIN, cit.. Si v. ad esempio A. VAN AAKEN, Judge the nudge: In search of legal limitations of paternalistic nudging in EU, in A. Alemanno e A.-L. Sibony (a cura di) Nudge and the law, cit., p. 83-112, ad p. 106; A. OGUS, Regulation, Oxford, cit., ad pp. 51-52. 62 Per la discussione sul paternalismo come “rationale” dell’intervento regolatorio si rinvia alle considerazioni svolte nella Parte Seconda, Cap. 2, para. 2.2. 63 Su cui si v. le considerazioni svolte supra, Parte Prima, Cap. 2, para. 2.3 e Cap. 3. 61
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verifica di proporzionalità – a differenza di quella di legalità – investe la effettiva efficacia delle misure adottate rispetto allo scopo legale64.
1.2. La “regolazione differenziata” come espressione del principio di proporzionalità Muovendo, infatti, al terzo step (iii) della proporzionalità, quello della necessarietà della regolazione, come detto, esso impone la dimostrazione che quella prescelta sia anche la più efficace misura rispetto ad altre astrattamente disponibili a perseguire lo scopo legittimo. È esattamente su questo spostamento di baricentro verso l’effettività e l’efficacia della misura che ruota la riflessione. Dallo scopo definito dalla norma in astratto, ritenuto sino ad oggi metro di legittimità della misura di regolazione, si passa al parametro della effettività della stessa. Per cui, una corretta applicazione del principio di proporzionalità impone oggi che sia ripensato il rule-making a partire dalla definizione del suo scopo, sino alla sua attuazione. Il caso della cd. “regolazione differenziata” illustra bene il passaggio. Esempi di regolazione differenziata si hanno nei mercati dei servizi pubblici liberalizzati, ove obblighi specifici sono indirizzati unicamente ad alcune imprese, in ragione del loro potere di mercato65. In presenza di anomalie nel funzionamento del mercato, che non raggiungono tuttavia la gravità del fallimento tout court, come il monopolio, ma si attestino su semplici disfunzioni, la regolazione può intervenire a “correggere” siffatte disfunzioni. 64 «(...) quando entra in gioco il principio di proporzionalità, le cose cambiano perché, a differenza da quanto avviene per il principio di legalità — che difetta di uno specifico test di controllo — la verifica della proporzionalità rimanda ad una indagine da condursi alla stregua di un parametro determinato (quello dell’idoneità allo scopo). (...) ciò che il principio di proporzionalità chiede alla legge è che essa definisca i presupposti dell’esercizio del potere in un modo che renda effettiva la verifica della idoneità delle misure adottate allo scopo legale»: F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzionalità, cit., p. 371 (enfasi aggiunta). 65 Ad esempio, nel mercato delle comunicazioni elettroniche, «le imprese sono assoggettate a regole differenziate … con l’obiettivo di contrastare la sperequazione tra operatori infrastrutturali e operatori non infrastrutturali. (...) [Questa regolazione asimmetrica] ha un obiettivo pro-concorrenziale»: M. OROFINO, La regolazione asimmetrica nel settore delle comunicazioni elettroniche, in L. Ammannati e P. Bilancia (a cura di) Governance dell'economia e integrazione europea, vol. II, Governance multilivello e reti, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 55-82, ad pp. 59 e 61.
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Essa tuttavia dovrà scegliere il mezzo che risulti anche il più efficace e che comporti il minor sacrificio possibile. Il regolatore nazionale potrà quindi individuare obblighi regolatori da imporsi unicamente a carico degli operatori incumbent, per “livellare il terreno di gioco” e garantire la “parità delle armi concorrenziali” nei servizi liberalizzati (è la cd. “regolazione asimmetrica”66). Nel settore delle comunicazioni elettroniche, ad esempio, tali obblighi potranno essere imposti solo successivamente ad una verifica circa la sussistenza di un significativo potere di mercato e saranno soggetti a verifiche di modo che, al venir meno delle condizioni legittimanti (ossia, una volta ripristinata la dinamica concorrenziale), saranno rimossi. Oltre che dal lato dell’offerta, esempi di differenziazione si danno anche dal lato della domanda: si pensi ad esempio, al caso della disciplina a tutela dei consumatori cc.dd. “vulnerabili” nel settore elettrico, ove ad utenti classificati come particolarmente deboli per ragioni di disagio economico o fisico (malattie gravi che richiedono l’uso di apparecchiature elettriche), sono riconosciuti, e solo a questi, trattamenti tariffari agevolati (cd. bonus elettrico67). Va subito chiarito che la regolazione differenziata non è una novità: oltre ad essere talvolta normativamente prevista68, essa ha anche ricevuto il vaglio dalla giurisprudenza amministrativa. Come chiarito da quest’ultima, infatti, la regolazione differenziata (e/o asimmetrica) «solo apparentemente e superficialmente può reputarsi lesiva [del principio] di uguaglianza ma (...) in realtà, limitando ingiustificati vantaggi competitivi dell’incumbent, [essa] tende ad assicurare pari opportunità fra le imprese, soprattutto a favore di quelle che si affacciano per la prima volta sul mercato»69. 66
Introdotta ad esempio, dall’Aeegsi nei confronti degli operatori di produzione e distribuzione di energia elettrica i quali detengano potere di mercato (cfr. delib. 30.12.2004, n. 254), giudicata un decennio fa proporzionata quanto allo scopo perseguito, ancorché sproporzionata nel mezzo impiegato (Cons. di Stato, Sez. VI, 14.6.2006, n. 3501). 67 Per il bonus elettrico, si v. la l. n. 205 del 2005, attuata con DM 28.12.2007; per il bonus gas si v. il d.l. n. 185 del 2008. 68 Si v. ad esempio, l’art 43 comma 5 del D.Lgs. 93/2011, il quale dispone che «In funzione della promozione della concorrenza, l'Autorità [per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico] può (...) adottare misure temporanee di regolazione asimmetrica» (enfasi aggiunta). 69 Così TAR Lomb. Sez. II, 16 giugno 2015, n. 1396. In senso conforme, TAR
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Nella dottrina d’oltre Oceano di “differentiated regulation” si parla almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso 70. Nel Regno Unito il dibattito sulla giusta definizione degli standard regolatori, tra regole generali e group-specific, non si è mai realmente sopito71. Il fine-tuning della regola è da sempre motivo di confronto tra gli studiosi di teoria della regolazione, vedendo contrapporsi coloro che sono favorevoli alla più ampia generalità della regola a coloro che invece teorizzano la necessità di una sua “differenziazione”. Dove i punti di forza della regola generale, “non precisely targeted”, sono individuati nei minori costi di design regolatorio e di enforcement; mentre quelli di debolezza nell’essere essa over-inclusive72 e pertanto sproporzionata. In ambito processual-civilistico di “tutele differenziate” si parla ad esempio, con riguardo ai molteplici riti speciali presenti nel nostro ordinamento73 (si pensi al rito del lavoro), giustificandosene la legittimità in base al principio di uguaglianza sostanziale. Inoltre, la differenziazione processuale, in base al principio di proporzionalità, è non solo costituzionalmente legittima, ma addirittura “doverosa” se «si renda necessari[a] (...) per eliminare squilibri o privilegi presenti a livello sociale o socio-economico». Ovviamente «le differenze di disciplina devono fondarsi su obiettive peculiarità dei rapporti sostanziali da tutelaLomb, Sez. II, 19 ottobre 2015, n. 2221. 70 Fondamentale, negli Stati Uniti, l’opera, mai pubblicata, di H.K. GRUENSPECHT, Differentiated Social Regulation in Theory and Practice, 1981 (tesi di dottorato, Yale University) che fornisce un modello economico teorico con applicazioni anche pratiche della “differentiated regulation”. 71 R. BALDWIN, M. CAVE e M. LODGE, Understanding Regulation, cit., p. 109 ss. 72 Cfr. C.R. SUNSTEIN, Paradoxes of the Regulatory State, cit., p. 430, il quale individua nella over-regulation uno dei paradossi dello Stato regolatore, per cui una regolazione particolarmente stringente, che resta inattuata, si traduce in un “patto” tra regolatore e industria, in danno dei cittadini: «By adopting a draconian standard, legislators can claim to support the total elimination of workplace hazards or dirty air; but legislators and regulated industries know that administrators will shrink from enforcing the law. A “deal” in the form of a stringent, unenforceable standard benefits the politically powerful actors. Hence the political economy of overregulation is similar to that of open-ended delegations of administrative authority: in both cases, legislative incentives incline Congress toward broad and appealing statutes that will not in practice harm politically powerful groups. The public is the only real loser». 73 Cfr. L.P. COMOGLIO, Tutela differenziata e pari effettività nella giustizia civile, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1509-1534; ma già A. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, in Riv. dir. proc., 1979, p. 536-591 e L. MONTESANO, Luci ed ombre in leggi e proposte di «tutele differenziate» nei processi civili, in Riv. dir. proc., 1979, p. 592-603.
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re», ben potendo riguardare gruppi o «categorie specifiche di soggetti accomunati da specifiche caratteristiche oggettive o funzionali (si pensi, ad esempio, ai lavoratori subordinati)»74. Il che val quanto dire che, il rapporto di misura tra mezzo e fine è proporzionato anche se la misura è differenziata per tipologia di destinatari (o gruppi di destinatari); anzi, che se i destinatari della misura sono differenti per tipologia (in base a caratteri obiettivi e funzionali), la misura, per ragioni di uguaglianza sostanziale, deve differenziarsi, pena il venir meno della proporzionalità. Tutele differenziate sono altresì presenti per gli operatori e gli utenti dei settori regolati dell’energia e delle comunicazioni elettroniche75 in un intreccio di discipline, spesso stratificate e non troppo lineari, che tuttavia lasciano intravedere interessanti sviluppi per le reciproche interazioni che vengono a generarsi tra la fase del rule-making e quella di enforcement della regolazione76. Per le controversie involgenti gli utenti è il valore spesso bagatellare a giustificare, similmente a quanto accade per le class action, il ricorso ai rimedi alternativi, la cui precipua funzione è quella di «far emergere un contenzioso latente, che altrimenti non avrebbe modo di manifestarsi a causa della spropor74
L.P. COMOGLIO, op. ult. cit.¸ p. 1524. M. RAMAJOLI, Tutele differenziate nei settori regolati, in Riv. regolaz. merc., 1/2015, p. 6-36, la quale, in riferimento ai rimedi alternativi al processo amministrativo, quali le ADR, parla di «un tipo di tutela modulata sulle specificità delle situazioni giuridiche soggettive su cui intervenire» (p. 11), precisando che essi «consentono una differenziazione nella risposta di tutela, all’insegna della specificità, della proporzionalità e dell’appropriatezza» (p. 12). 76 Come lucidamente rimarcato da M. RAMAJOLI, op. ult. cit., p. 16 «Nei settori regolati vi è un flusso indistinto tra il piano del diritto sostanziale e il piano della tutela, o, in altri termini, tra regolazione e risoluzione delle controversie. Questo rilievo vale soprattutto per le controversie intercorrenti tra operatori economici, perché in esse si manifesta in maniera particolarmente intensa, anche se non esclusiva, l’intreccio tra interesse alla risoluzione del conflitto e interesse regolatorio. (...) I provvedimenti di definizione della controversia producono effetti (...) al di là del singolo episodio (...), sul mercato, in termini di moral suasion, orientando le negoziazioni su fattispecie analoghe, (...) prevenendo l’insorgere di altre controversie sulla medesima materia. (...) Decisioni di tipo puntuale possono tradursi in vere e proprie raccomandazioni per l’intero sistema, assumendo in tali casi una funzione di tipo regolatorio (...). Le decisioni delle Autorità sono percepite dai soggetti regolati (...) come interpretazione autorevole della disciplina regolatoria (...) con la conseguenza di recare in sé una forza addirittura superiore a quella della cosa giudicata formale, in quanto idonea a soddisfare il forte bisogno di certezza degli operatori economici (...)». Le decisioni sulle controversie si trasformano cioè in forme di esercizio di «regulation by litigation». 75
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zione tra il valore della singola controversia, normalmente modico, e le spese per il ricorso individuale alla tutela giurisdizionale o ai procedimenti di conciliazione»77. Sotto il profilo del diritto sostanziale, nello specifico della disclosure regulation, di differenziazione delle regole si è trovata traccia solamente nell’ambito dei mercati finanziari, ove, come più volte ribadito78, gli obblighi informativi sono differenziati in ragione della diversa classificazione dei clienti e della loro profilazione. Con riguardo invece alla disciplina della trasparenza amministrativa79, eccezion fatta per le società a partecipazione pubblica, per le quali l’Anac ha previsto una qualche forma di differenziazione nelle proprie Linee guida, la gran parte della disclosure regulation è improntata a regole generali ed uniformi. A tale riguardo vi è stato chi ha proposto di superare l’impostazione attuale e «diversificare gli strumenti della trasparenza in relazione ai bisogni informativi dei cittadini (...)», ovverosia «differenziare la trasparenza per ambiti settoriali, tipologie di procedimenti e target di cittadini (...) [passando] dal controllo sull’adempimento delle norme (...) al controllo sull’effettivo utilizzo delle informazioni prodotte dal sistema amministrativo della trasparenza»80. Secondo questa posizione, infatti, l’uniformità delle regole di trasparenza, ancorché funzionale ad evitare l’eccessiva frammentazione, «comprime in schemi unitari la varietà delle situazioni esistenti» rendendo la disciplina non conforme al principio di adeguatezza e proporzionalità. 77
Così R. CAPONI, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile: risvolti in tema «class action», in giustamm.it, 2010, p. 11 (enfasi aggiunta), secondo il quale l’applicazione del principio di proporzionalità al “servizio giustizia” richiederebbe di attribuire ad una causa una quota appropriata delle risorse del giudice, tenendo conto della necessità di riservare sufficienti risorse agli altri casi. Il che, traslato nell’esperienza processuale italiana, si tradurrebbe in un «impiego proporzionato delle risorse giudiziali rispetto allo scopo della giusta composizione della controversia entro un termine ragionevole, tenendo conto della necessità di riservare risorse agli altri processi. Così inteso, il principio di proporzionalità può essere [inteso] come un aspetto del valore costituzionale della efficienza nella disciplina del processo, che si desume dall’affermazione della sua ragionevole durata (art. 111, comma 2, Cost.)» (p. 9). 78 Supra, Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2. 79 Su cui supra, Parte Prima, Cap. 1, para. 1.5; Cap. 2 para. 2.2 e specialmente Cap. 3, para. 1.2. 80 A. NATALINI e G. VESPERINI, Le troppe trasparenze, in A. Natalini e G. Vesperini (a cura di) Il big bang della trasparenza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, p. 1129, ad p. 28-29 (enfasi aggiunta).
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CAPITOLO 2 PRIMA PROPOSTA. PER UNA DISCLOSURE REGULATION PROPORZIONATA ALLA LUCE DELLE SCIENZE COGNITIVE
2.1. L’ingresso delle scienze cognitive nel procedimento regolatorio e nella selezione dello strumento di disclosure adeguato Le scienze cognitive possono contribuire in misura rilevantissima al miglioramento del procedimento che porta alla produzione della regolazione in genere81, e della disclosure regulation in particolare. Difatti, un sempre maggior numero di regolatori82, tra cui l’Italia83 81
F. DI PORTO e N. RANGONE, Cognitive-based regulation: New challenges for regulators?, cit. e IDD.; F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice: cit., p. 29-59. 82 Ad esempio, negli Stati Uniti nel 2010, l’Office of Information and Regulatory Affairs, o OIRA chiedeva alle agenzie federali di adottare «empirically informed approaches to regulation, with an emphasis on relevant empirical findings and on disclosure policies, simplification, appropriate default rules, salience, and the role of social norms» (U.S. Office of Management and Budget - Office of Information and Regulatory Affairs, 2010 Report to Congress on Benefit and Cost of Federal Regulations and Unfunded Mandates on State, Local, and Tribal Entities, luglio 2010, p. 40). Il 15 settembre 2015 il Presidente Obama ha adottato un Executive Order il cui titolo enfaticamente reca “Using Behavioral Science Insights to Better Serve the American People”. Nel Regno Unito dal 2010 opera il Behavioural Insights Team (o BIT) con il compito di applicare le metodiche cognitive alle politiche pubbliche; trasformato nel 2013 in una social purpose company, oggi offre consulenze ad amministrazioni pubbliche sia inglesi sia straniere sugli stessi temi. L’esperienza del BIT è raccontata dal suo direttore in D. HALPERN, Inside the Nudge Unit. How Small Changes Can Make a Big Difference, Londra, WH Allen, 2015. In Australia opera dal 2012 il New South Wales established a Behavioural Insights Community of Practice. Ciascuna di queste istituzioni è preposta all’uso di behavioural insights per migliorare la regolazione pubblica al fine di renderla più efficace e meno dispendiosa. 83 In Italia sia la Consob sia l’Aeegsi hanno condotto esperimenti cognitivi: la prima in relazione alle scelte di investimento delle famiglie italiane (si v. Consob, Report on financial investments of Italian households. Behavioural attitudes and approaches, 2015 e 2016, http://www.consob.it/web/area-pubblica/report-famiglie), la seconda sulla messa a disposizione dei dati di consumo elettrico ai fini di risparmio energetico ai consumatori domestici (riff. si trovano in: http://www.autorita.energia.it/allegati/docs/15/186-15.pdf). Si v. altresì M. GENTILE, N. LINCIANO, C. LUCARELLI e P. SOCCORSO, Financial disclosure, risk perception and
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e la Commissione europea col supporto del Joint Research Center84, ha iniziato a sviluppare una regolazione cognitive-based85. Tale si definisce quella che: (a) include nella fase istruttoria studi di tipo cognitivo volti a sperimentare ex ante l’efficacia delle regolazioni prima della loro introduzione, proprio al fine di limitare il rischio di fallimento regolatorio; e (b) che impiega, accanto a quelli tradizionali, strumenti regolatori nuovi, quali il nudge86 o l’empowerment cognitivo87. (a) Gli esperimenti cognitivi. - Sotto il primo profilo, procedimentale, le prassi europea ed internazionale stanno convergendo verso un modello di ampliamento della fase istruttoria del procedimento di regolazione, attraverso l’inserimento di studi cognitivi. Questi ultimi possono consistere in esperimenti (di laboratorio, sul campo o misti, in
investment choice, in Quaderni di finanza della Consob, n. 82/2015. 84 All’interno del Joint Research Center della Commissione europea è stata istituita dal 2016 una unità apposita, la Foresight and Behavioural Insights Unit, per l’impiego di tecniche cognitive nel disegno delle politiche europee: si v. R. VAN BAVEL, B. HERMANN, G. ESPOSITO e A. PROESTAKIS, Applying Behavioural Sciences to EU Policymaking, Commissione europea – Joint Research Center, Scientific and Policy Reports, Lussemburgo, 2013 e J. SOUSA LOURENÇO, E. CIRIOLO, S. RAFAEL ALMEIDA e X. TROUSSARD, Behavioural Insights Applied to Policy. European Report, Commissione europea – Joint Research Center, Lussemburgo, 2016. 85 F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, cit., p. 30. Tale è quella che «either i. is adopted following an evidence-based regulatory process (e.g. after conducting cognitive experiments or studies in the information gathering phase); and/or ii. uses regulatory options that are based on cognitive insights (that also contemplate ‘differentiated' regulation); and/or iii. gives consideration to cognitive insights in the enforcement phase (e.g. in planning controls or maintaining regulation)»: così F. DI PORTO e N. RANGONE, Proportionality of Regulation and Cognitive Sciences, in corso di pubblicazione (il paper è stato presentato alle conferenze annuali di: International Research Society for Public Management–IRPSM, Hong Kong aprile 2016; International Society of Public Law–ICON-S, Berlino, giugno 2016; e Italian Society of Law and Economics-Side-Isle, Napoli, dicembre 2016). 86 R.H. THALER e C.R. SUNSTEIN, Libertarian Paternalism, in 93 The American Economic Review, 2/2003, p. 175-179 e R.H. THALER e C.R. SUNSTEIN, Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron, in 70 Univ. Chicago L. Rev., 4/2003, p. 1159-1202. Si v. infra nel testo, sub lett. (b). 87 La distinzione tra strumenti di nudge ed empowerment cognitivo è elaborata in F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, cit. e F. DI PORTO, Protezione ed empowerment del consumatore, cit.; per una sintesi si v. infra nel testo, sub lett. (b).
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genere con uso di RCT)88 che consentono di raccogliere informazioni sul comportamento e le reazioni di un campione di soggetti e testare l’efficacia di differenti opzioni regolatorie prima della loro introduzione nell’ordinamento89. L’importanza di questo momento istruttorio si coglie se solo si pensa che attraverso di esso è possibile far emergere la reale incidenza dei bias nella popolazione dei destinatari dell’informazione, e dunque di circoscrivere l’esigenza di effettiva comprensione dell’informazione90. Tutta la legislazione sugli obblighi informativi a tutela del soggetto ritenuto “debole”, sia esso consumatore, risparmiatore, cittadino o utente, si rafforza con le crisi economiche e della politica91. Ma essa, fatta eccezione per il settore finanziario ove l’adeguatezza richiama 88 Tali sono gli esperimenti cognitivi, condotti in laboratorio (con o senza Randomised Control Trial o RCT, cioè con un gruppo di controllo, assegnato in maniera casuale, cui non è somministrato alcun trattamento), ovvero sul campo (cc.dd. field experiment) o a mezzo di piattaforme online (quando si tratti di indagare campioni molto consistenti, ad esempio, su diversi paesi), i più tradizionali focus group, o i più moderni esperimenti condotti con l’uso di smart phone. Una sintetica descrizione delle metodologie più comuni usate in ambito regolatorio può trovarsi in VAN BAVEL ET AL, op. cit. 89 La replicabilità ed efficacia esterna degli esperimenti è ovviamente connessa al diverso tipo di metodologia impiegata, ed è questione che deve trovare spazio nella motivazione della decisione colla quale viene adottata l’opzione regolatoria prescelta. 90 Un’esigenza sottolineata in dottrina, tra gli altri, da L. ROSSI CARLEO, I diritti fondamentali dei consumatori, in L. Rossi Carleo (a cura di) Diritto dei consumi, cit., p. 25-34, ad p. 31-32, la quale evidenzia che le indicazioni provenienti dalla Dir. consumatori, n. 83/2011 (artt. 4 e 5) attribuiscono, nella loro genericità, un ridotto valore prescrittivo al diritto (all’educazione e) all’informazione dei consumatori, testimoniando così una «limitata considerazione da parte dei regolatori dei risultati raggiunti dagli studi di economia comportamentale». Ciò porta l’Autrice, impegnata ad evitare che la disposizione resti confinata nel novero delle norme ineffettive – in quanto, pur dove accompagnata da obblighi informativi precisi e dettagliati, può condurre alla non effettiva conoscenza (rectius comprensione) – a suggerire una specifica declinazione del diritto: «da un generico diritto ad essere informati ad un diritto ad una adeguata informazione» (enfasi nell’originale: p. 32). 91 Come enfatizzato da F. CAPRIGLIONE e A. TROISI, L’ordinamento finanziario dell’UE dopo la crisi: la difficile conquista di una dimensione europea, Torino, Utet, 2014 (in riferimento alle modifiche regolatorie intervenute nel settore bancario a seguito della crisi), le discipline adottate in risposta alla crisi finanziaria, proprio perché spinte dall’emergenza, scontano la limitata ponderazione degli impatti e del «pericolo di squilibri conseguenti all’adozione di rimedi forse non adeguatamente condivisi e/o ponderati con riguardo alla sostenibilità (...) [e] all’incidenza negativa delle tensioni sociali (dovute soprattutto a spinte populiste) sul raggiungimento di significativi traguardi economico finanziari» (p. XIII).
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l’indagine sul caso singolo, astrae in certo qual modo dalla effettività della debolezza, nel momento in cui nessuna indagine è compiuta circa la concreta incidenza della stessa all’interno del gruppo. Quasi che il singolo, o la debolezza del caso specifico, perda rilevanza di fronte a quella non già del gruppo sociale, bensì del “ruolo” di questo, cui il regolatore attribuisce uno status di debolezza92. Mentre a rilevare è la debolezza contestualizzata, come evidenziato dalla Commissione europea93. Ed è a questa che va data rilevanza al fine di stabilire obblighi informativi che possano essere proporzionati ed efficaci. Ovverosia, è fondamentale stabilire «come dare l’informazione [agli individui] (...) in un modo che essi siano capaci di utilizzarla, nel momento in cui sono in grado di recepirla, nel tempo in cui decidono che ne hanno bisogno»94. Non sorprende allora che anche l’Ocse suggerisca di indagare le determinanti delle scelte e l’incidenza dei bias95, e quindi di testare ex ante gli obblighi di disclosure prima della loro introduzione negli ordinamenti giuridici: «gli obblighi di disclosure possono beneficiare di sperimentazioni ex ante e specifiche per singolo mercato o, meglio ancora, attraverso RCT. Incorporare tali metodi provenienti dall’economia comportamentale può pertanto essere un complemento
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Così M. DE POLI, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, cit. p. 6. Critico nei confronti del concetto di status del consumatore in quanto parte strutturalmente debole è E. GABRIELLI, Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, cit., p. 183-199. 93 Cfr. Commissione europea, SWD Knowledge enhancing aspects of consumer empowerment 2012-2014, SWD(2012) 235 def., del 19.7.2012, p. 7, a mente del quale: «Behavioural studies warn policy efforts in information/education do not always have the desired effect in terms of applied consumer skills» Pertanto, «Innovative approaches, such as … behaviourally informed new forms of smart regulation may have a better chance of success than traditional information and education efforts». «If behaviour is primarily due to lack of knowledge or information, then conventional education or information campaigns may constitute an appropriate remedy. But if, on the contrary, people’s behaviour reflects fundamental aspects of human nature (such as default bias, present bias, loss aversion, overconfidence, etc.), these biases need to be taken into account when designing policy». 94 Cfr. Commissione europea, op. ult. cit., p. 9 (traduzione nostra). 95 «Information disclosure tools often lack supporting evidence and are easily selected on common sense, rather than empirical investigation; thus cognitive sciences may assist regulators to identify instances of consumes’ limitations and sources of detriments»: così P. LUNN, Regulatory Policy and Behavioural Economics, OECD, Parigi, 2014, ad p. 45.
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dell’Analisi Costi-Benefici e dell’Analisi di Impatto della Regolazione»96. Una siffatta possibilità non sembra avulsa al nostro sistema giuridico. Si tenga infatti presente che molti degli atti di regolazione introduttivi di obblighi di information disclosure sono assoggettati ad obbligo di espletamento di AIR e/o di VIR (rispettivamente, analisi preventiva e verifica successiva di impatto)97 che avrebbero, tra gli altri, l’obiettivo di assicurare la «persistente necessità ed adeguatezza delle regolazioni»98. Benchè l’espletamento di siffatte analisi sia non di rado disattesa o adempiuta come mera formalità99, vale osservare che tra le valutazioni da effettuarsi nel corso della VIR vi è anche l’analisi dell’effettivo raggiungimento degli obbiettivi avuti di mira dalla norma introdotta100, come pure delle cause dell’eventuale “fallimento” della stessa. In questo caso, si richiede che venga evidenziato se le stesse siano riconducibili a «lacune insite nell’atto normativo, ovvero a problemi relativi alla fase di attuazione dell’atto stesso»101. Nell’ambito di tali valutazioni ben potrebbero trovare spazio considerazioni relative alla presenza di diffusi bias nella popolazione dei destinatari dell’informazione, che non consentono agli obblighi di disclosure di raggiungere i risultati sperati. Ad ogni modo, anche a prescindere dalle AIR e VIR, le sperimentazioni condotte nel corso dell’istruttoria procedimentale consentono 96
P. LUNN, op. ult. cit., p. 12 (traduzione nostra). Cfr. l. 28 novembre 2005, n. 246 recante Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005 e s.m.i.; la disciplina procedurale dell’AIR è contenuta nel Dpcm n. 11.9.2008, n. 170, mentre quella della VIR nel Dpcm 19.11.2012, n. 212. Ad obbligo di espletamento di AIR sono assoggettate, come noto, le Autorità amministrative indipendenti in base all’art. 12 della l. 29 luglio 2003, n. 239 per tutti gli «atti amministrativi generali, di programmazione, o pianificazione, e, comunque, di regolazione». Secondo quanto riportato nella nota n. 3 del Servizio per la qualità degli atti normativi del Senato di luglio 2015, l’elenco delle autorità soggette ad obbligo di AIR «parrebbe includere» (p. 3): l’Aeegsi, l’AGcom, l’Autorità per i trasporti, la Banca d’Italia, la Consob, l’Ivass, l’Anac e il Garante per la protezione dei dati personali. 98 Su cui si v. M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI e N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 50. 99 Non è ovviamente sempre questo il caso: vi sono molte AIR, specie tra quelle espletate dalle Autorità di regolazione, condotte conformemente alle migliori prassi esistenti a livello internazionale. 100 Cfr. art. 3, co. 1, Dpcm n. 212/2009. 101 Così art. 3, co. 2, lett. e), Dpcm n. 212/2009, su cui si v. le considerazioni di N. RANGONE, Quale trasparenza, cit., ad p. 213. 97
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di recuperare al regolatore quella conoscenza circa le reazioni dei destinatari dell’informazione e dunque sapere in anticipo quali disclosure saranno verosimilmente più efficaci e quali meno. In tal modo sarà altresì possibile individuare, all’interno della popolazione dei destinatari, gruppi di soggetti diversi per tipo di reazione, così come si potrà misurare il livello di incidenza di un determinato bias. Ad esempio, si potrebbe sapere con precisione quanti sono gli investitori ingenui (o naïf) e quanti quelli avveduti (o smart) e disegnare gli obblighi informativi di conseguenza. Non è infrequente, infatti, che la popolazione dei soggetti destinatari dell’informazione possa distinguersi tra gruppi più avvezzi, a fare investimenti nei mercati finanziari o a confrontare piani tariffari telefonici, e soggetti meno inclini a districarsi in tali scelte complesse. Analogamente, si potrebbe conoscere quanto incide il no-reading bias negli avvisi sulla sicurezza alimentare e testare diverse alternative grafiche di semplificazione dell’informazione sino ad individuare quella che, comparativamente, risulti la più efficace quanto a probabilità di essere letta ed effettivamente compresa. Un procedimento regolatorio così congegnato servirebbe ad anticipare sia il momento della verifica circa l’efficacia della misura (iii) e sia quello del bilanciamento (iv). Inoltre, ancorché condurre esperimenti possa in linea teorica allungare i tempi ed incrementare i costi per il regolatore, nondimeno occorre considerare i risparmi, considerevoli, derivanti dal minore rischio di fallimento regolatorio. Ne consegue che non per ogni procedimento regolatorio destinato alla produzione di disclosure debba necessariamente ricorrersi a sperimentazioni, ma solo per quelli in relazione ai quali esse possano dirsi «giustificate e necessarie in base al principio di proporzionalità (...)»; e ciò avviene quando vi sia quello che la Commissione102 chiama un «“behavioral element”, in riferimento ad una determinata area da regolare»103. Il “behavioral element” «esiste, e le informazioni sui profili cognitivi divengono cruciali, in due casi: anzitutto, se l’obiettivo della regolazione è la modifica di un comportamento individuale (come ad esempio il consumo di energia o di cibo, o il riciclo dei rifiuti, le abitudini di circolazione stradale, ecc.); in secondo luogo, se la risposta comportamentale può compromettere l’efficacia di una regolazione (basti pensare, nel caso delle disclosure, ai prospetti informativi detta102 VAN BAVEL R., HERMANN B., ESPOSITO G. e PROESTAKIS A., Applying Behavioural Sciences to EU Policy-making, cit., p. 6. 103 Così F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, cit, p. 30.
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gliati che generano information overload)»104 . Non solo. Il “behavioral element” deve anche raggiungere una soglia di “rilevanza”, nel senso che per poter giustificare l’aggravio dei tempi e dei costi del procedimento connessi alla sperimentazione, è necessario che il rischio di fallimento regolatorio si palesi come verosimile; il che potrà accadere, ad esempio, «considerando il numero di persone affette [da bias] o la magnitudo degli effetti»105 in termini di rischio di fallimento della regolazione che si sta disegnando. (b) I nuovi strumenti regolatori cognitive-based: nudge ed empowerment cognitivo. – Con riguardo al secondo profilo, del tipo di strategia regolatoria da impiegare, accanto agli strumenti di disclosure regulation tradizionali, che si sono sin qui illustrati, l’erompere delle scienze cognitive nel procedimento regolatorio conduce all’inverarsi di due nuove strategie di intervento: il nudge e l’empowerment cognitivo. Questi possono definirsi regolazioni strutturalmente cognitive, nel senso che con esse il regolatore prende in carico il problema dei bias e delle euristiche dei destinatari dell’informazione e disegna la regolazione di conseguenza. Il regolatore potrà, quindi, o “sfruttare” i bias e le euristiche nell’interesse dei soggetti regolati (utilizzando la strategia del nudge), oppure potrà “educare” l’individuo adottando strategie (di empowerment cognitivo) che gli consentano di superarli. In questo senso ben può dirsi che mentre il nudge preserva il bias, l’empowerment cognitivo è una tecnica di de-biasing nel senso già chiarito106, ovverosia non di eradicamento del limite cognitivo, ma di supporto ad un suo autonomo superamento. Un esempio chiarirà meglio la distinzione: per incentivare il ricorso a prestazioni previdenziali alternative, il regolatore può prevedere come regola di default (un esempio di nudge) una trattenuta sui salari, dalla quale i lavoratori potranno eventualmente sottrarsi manifestando espressamente la propria volontà contraria (opt-out). Il regolatore, una 104
Così F. DI PORTO e N. RANGONE, op. ult. cit., p. 31. Ibid. 106 Si v. supra Parte Seconda, Cap. 2, para. 2.2. Rispetto all’empowerment di cui si è detto, dunque, la differenza sta nel fatto che l’empowerment cognitivo è disegnato tenendo conto, nel procedimento regolatorio che conduce alla definizione della regola, delle reazioni prevedibili dei destinatari delle informazioni, rese palesi mediante tecniche cognitive (ovverosia attraverso esperimenti, studi cognitivi, ecc.). 105
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volta individuata l’opzione ritenuta preferibile per i lavoratori, “sfrutterà” il bias dell’inerzia (componente paternalistica), lasciando tuttavia liberi i regolati di optare diversamente (componente libertaria)107. Con l’empowerment cognitivo il regolatore, di fronte alla medesima esigenza regolatoria (incrementare la previdenza alternativa) e al medesimo problema cognitivo (diffusa inerzia tra i regolati), impiegherà misure finalizzate a sollecitare la risposta consapevole e superare quella emotiva. In breve, l’empowerment cognitivo è rafforzativo dell’autonomia individuale ed utilizza tecniche cognitive al fine di educare gli individui, aumentare le loro abilità, aiutarli a superare le risposte emotive e quindi facilitare autonome decisioni e deliberazioni consapevoli108. Il nudge disegna l’ambiente della scelta in modo da sfruttare i bias cognitivi e le euristiche al fine di indirizzare il comportamento verso direzioni ritenute benefiche per l’individuo e la società, ma allo stesso tempo lascia liberi gli individui di superare il nudge stesso (ad esempio, negli edifici pubblici gli ascensori vengono collocati in aree più dislocate rispetto alle scale per promuovere l’attività fisica, ma l’individuo può comunque optare per l’ascensore). Sono esempi di empowerment cognitivo la standardizzazione e semplificazione delle informazioni, fatte ovviamente tenendo conto dell’effetto contesto (framing) 109 e delle tecniche di comunicazione come la salienza110; l’educazione mirata; gli strumenti di smart disclosure (su cui infra, para. 2.3); e le regole di cooling-off che mirano a “raffreddare” le decisioni compulsive (come ad esempio, il diritto al ripensamento presente nella Direttiva consumatori e poi trasposto negli artt. 52 ss. del nostro codice del consumo111, esteso a quattordici giorni 107 L’esempio del nudge per incrementare la previdenza alternativa è tratto da: R.H. THALER e S. BENARTZI, Save More Tomorrow: Using Behavioral Economics to Increase Employee Saving, in 122 J. of Polit. Econ., 1/2004, pt. 2, p. S164-187.. 108 Nel senso chiarito da D. KAHNEMAN, Thinking, Fast and Slow, 2011, passim. 109 Si rammenti il caso della semplificazione della terminologia impiegata nelle etichette alimentari nel Reg. UE 1169/2011, ove, proprio a seguito di considerazioni di tipo cognitivo, alcune terminologie altamente tecniche sono state sostituite da altre di uso più comune, come ad esempio, “sale” al posto di “sodio”. 110 Ad esempio, in Olanda, il regolatore dei servizi finanziari richiede agli operatori, accanto ai prospetti informativi sintetici, i key information documents di cui alla direttiva sui prodotti finanziari e assicurativi pre-assemblati (su cui supra Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2), l’impiego di immagini che raffigurano un uomo gravato da un peso che cresce all’aumentare del rischio associato al prodotto finanziario che si sta vendendo. 111 Come noto, la Direttiva Consumatori n. 83/2011/CE ha vietato l’uso delle ca-
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proprio a seguito di uno studio cognitivo condotto dalla Commissione europea112). Sono esempi di nudge le già menzionate regole di default; l’informazione “relazionale” (i.e. comunicare ciò che fa il proprio vicino113), che sfrutta la norma sociale e il conformismo114; e il framing, che sfrutta l’emotività (si pensi alle immagini shock sui pacchetti di sigarette introdotti dalla nuova Direttiva europea n. 2014/40115) per indurre a modificare il comportamento individuale nella direzione desiderata dal decisore pubblico, in quanto ritenuta nell’interesse particolare di quel gruppo di individui e di quello generale. L’erompere sulla scena regolatoria di questi nuovi strumenti, che abbiamo definito “strutturalmente” cognitivi, ha suscitato un notevole dibattito, sia nelle sedi politiche ed istituzionali, sia specialmente a livello scientifico116. Soprattutto con riferimento al nudge, le critiche si selle preselezionate nei contratti conclusi online ed ha esteso il termine per l’esercizio del diritto di ripensamento a due settimane. La prima norma si basa su una approfondita indagine condotta dalla Commissione europea sul comportamento dei consumatori, che tendono a considerare la opzione prestabilita da altri, cd. di default, come a sé favorevole e a non modificarla, anche se in realtà nasconde condizioni contrattuali assolutamente non vantaggiose per essi (come la rinuncia ad una determinata garanzia); la seconda è quella che nel mondo anglosassone è definita una cooling-off rule (o regola di “raffreddamento”), cioè il diritto di ripensamento, vale a dire di restituire una merce acquistata online, ad esempio, sull’onda emotiva, senza dare giustificazioni. Il termine per esercitare tale diritto di ripensamento è stato esteso da dieci a quattordici giorni. 112 Si v. quanto detto in proposito supra, Parte Seconda, Cap. 2, para. 2.2. 113 P.W. SCHULTZ, J.M. NOLAN, R.B. CIALDINI, N.J. GOLDSTEIN e V. GRISKEVICIUS, The Constructive, Destructive and Reconstructive Power of Social Norms, in 18 Psychological Science, 5/2007, p. 429-434; R.B. CIALDINI, Influence. Science and Practice, 5a ed., Boston, Pearson, 2008, spec. ad p. 109 ss. 114 Ad esempio, nel campo delle utilities, in Nord America è stato sperimentato l’invio di bollette dell’elettricità con l’indicazione della abilità di risparmio energetico del singolo cliente comparata con quella del proprio “vicino” di casa. Si è visto che questo tipo di messaggio, che fa leva sulla norma sociale, produce una consistente riduzione dei consumi elettrici. Per ulteriori dettagli e discussione del caso si rinvia a F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, cit., p. 39. 115 Di cui si è detto supra, Parte Prima, Cap. 1, para. 1.4. 116 Per tutti S. CASSESE, “Nudge”: nuova forma di intervento pubblico, Prolusione, cit., il quale riconosce l’importanza del nudge per il fatto che con esso il destinatario dell’azione amministrativa acquisisce la dovuta centralità; tuttavia, Egli ritiene giustamente che per la sua natura non coercitiva esso non possa sostituirsi a strumenti più tradizionali di intervento pubblico, e che, in aggiunta, sollevi questioni di legittimità, dal momento che influenza il comportamento dei consociati in maniera spesso nasco-
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attestano sui rischi di manipolazione sottesi all’uso di un mezzo che risulta poco trasparente e che riduce gli incentivi ad investire in autoeducazione. Proprio in risposta a siffatte critiche i regolatori si sono fatti più sensibili alle istanze procedimentali di partecipazione e consultazione; oltre a rendere trasparente e particolarmente agevole la “via di fuga” dal nudge (cioè l’opt-out)117, senza quindi rinunciare ad esso118. In termini di teoria della regolazione, nudge ed empowerment cognitivo rappresentano alternative meno restrittive della regolazione tradizionale basata sul command and control (obbligo e divieto) e sulla regolazione incentivante; ma anche più “efficaci” della disclosure regulation tradizionale perché più mirati, ritagliati su destinatari “reali” e non meramente presunti119. Si parla infatti, con riferimento ad essi, di soft regulation, o di spinta gentile120. Di tale minore afflittività in termini di conseguenze che possano conseguire in capo ai soggetti regolati, il regolatore non potrà non tenere conto nella comparazione tra misure ugualmente appropriate a conseguire il fine pubblico prefissato (fasi iii e iv).
sta e non trasparente. Di qui il dubbio di come debba garantirsi il sindacato del giudice su simili tipi di interventi. 117 Chiarificatrici a tal riguardo le pagine del recente libro del padre del nudge C.R. SUNSTEIN, The Ethics of Influence: Government in the Age of Behavioral Science, New York, Cambridge University Press, 2016. 118 Si precisa che un’indagine di proporzionalità dello strumento in sé della regolazione cognitive-based è fuori dall’interesse di queste note. Non si vuole infatti indagare se, a livello teorico, sarebbe legittimo avvalersi dello strumento (di nudge o di empowerment cognitivo) in quanto tale. Si vogliono invece valutare le conseguenze sul piano applicativo in termini di proporzionalità di un ingresso nel procedimento regolatorio di siffatti strumenti, dandone per presupposta la legittimità. Una siffatta indagine è stata invece compiuta da M. SCHWEIZER, Nudging and the Principle of Proportionality. Obliged to Nudge?, in K. Mathis e A. Tor (a cura di) Nudging. Possibilities, Limitations and Applications in European Law and Economics, St. Gallen, Springer, 2016, p. 93-119, oltre che da A. VAN AAKEN, Constitutional Limits to Nudging, cit. 119 F. DI PORTO e N. RANGONE, Behavioural Sciences in Practice, cit., p. 49. 120 Come è stato tradotto il titolo del citato libro “Nudge” di R.H. THALER e C.R. SUNSTEIN, Nudge. Improving Decisions about Health, Wealth, and Hapiness, New Haven, Yale University Press, 2008, trad. it. Nudge. La spinta gentile, cit.
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2.2. Il modello della disclosure regulation “differenziata” come espressione di proporzionalità L’ingresso delle scienze cognitive nel procedimento della regolazione irrobustisce la fase istruttoria e rafforza l’apparato conoscitivo del regolatore in ordine ai destinatari delle regole ed agli effetti che tali obblighi possono produrre sui destinatari dell’informazione. Sul piano dell’effettività, le possibilità offerte dalla sperimentazione ex ante di diverse possibili forme di information disclosure, consente al regolatore di testarle anticipatamente onde escludere quelle meno efficaci o eccessivamente gravose. Inoltre, un procedimento trasparente dovrebbe essere largamente partecipato anche dalle imprese, che sono i destinatari primi degli obblighi di disclosure, e dunque coloro i quali saranno deputati a veicolare le informazioni che si vanno definendo. Espresso in termini di proporzionalità, la sperimentazione ex ante, abbinata alla più ampia partecipazione di imprese e cittadini, consentono di anticipare almeno in parte il test della necessarietà (iii) della misura, fornendo al regolatore importanti informazioni circa l’impatto che la regolazione che intende adottare potrà avere, con una buona approssimazione 121 , sull’intera popolazione dei soggetti gravati dall’obbligo informativo e dei destinatari dell’informazione. Così ad esempio, tenuta a dare attuazione all’art. 9 del decreto sul risparmio energetico122, l’autorità di settore potrebbe decidere di far inviare dei report sui consumi elettrici ogni mese anziché ogni due, se le evidenze empiriche raccolte nel corso di una sperimentazione ne dimostrassero la maggior efficacia, a parità di impatto, rispetto all’invio ogni due mesi. Una seconda conseguenza dell’“ingresso” delle scienze cognitive 121
È questo il tema metodologico della cd. “rilevanza esterna” degli esperimenti, molto dibattuto nella letteratura sia psicologica sia sperimentalista. In generale vi sono ragioni per ritenere “robuste” le risultanze sperimentali tanto degli esperimenti di laboratorio (in quanto più controllate e dunque meno soggette a “rumore”), quanto degli esperimenti sul campo (in quanto più vicine alle situazioni “reali”). In entrambi i casi si adottano accorgimenti come i gruppi di controllo, le “randomizzazioni” e si applicano metodologie statistiche avanzate per superare i possibili limiti dei due approcci. Per una sintesi: U. FISCHBACHER, Z-tree: Zurich Toolbox for Ready-Made Economic Experiments, in 10 Experimental Economics, 2/2007, p. 171–178. 122 Su cui, supra, Parte Prima, Cap. 3, para. 1.3, che richiede ai fornitori di elettricità di trasmettere ai consumatori i dati sui propri consumi, delegando all’Aeegsi il compito di definire il formato di questa trasmissione informativa.
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nel procedimento di regolazione è rappresentata dalla possibilità di differenziazione123. La letteratura sui bias e le euristiche ha dimostrato che i bias cui andiamo soggetti possono essere “ricorrenti” (si parla infatti di “mappe” della razionalità limitata124), e dunque in qualche modo prevedibili. Pertanto, anche nel nostro essere irrazionali siamo classificabili in gruppi tipologici abbastanza omogenei. La Commissione europea ha di recente condotto un vasto e corposo studio cognitivo sul concetto di “vulnerabilità” del consumatore in diversi settori economici125. Ne è emerso che la nozione di consumatore “bi-polare”, relegata nell’alternativa secca tra consumatore “medio” e “vulnerabile”, recepita anche nel nostro diritto del consumo, non rispecchia la realtà, perché le dimensioni, gli indici di vulnerabilità, vanno al di là della mera povertà126 (fatta propria dal nostro bonus elettrico127 di cui si è detto supra) o del solo dato socio-demografico. 123
Contra A. PETERS, Proportionality as a Global Constitutional Principle, cit., p. 14, secondo cui «It reduces fragmentation and thus plays the constitutional role of creating unity». 124 D. KAHNEMAN, Maps of Bounded Rationality: Psychology for Behavioral Economics, in 93 The Am. Econ. Rev., 2003, p. 1449-1475. 125 Commissione europea, Consumer vulnerability across key markets in the European Union, gennaio 2016. 126 Sul tema della energy poverty si v. l’interessante contributo di L. AMMANNATI, Governing the energy market between universal access to energy and sustainable development, in Federalismi.it, 11/2016, p. 1–17, la quale sottolinea la eterogeneità degli indici di definizione dell’energy poverty, dal momento che, in riferimento ai paesi industrializzati, «there is no single definition agreed even at the European Union level. A variety of factors (briefly a combination of high energy bills, low income and poor energy efficiency of buildings) contribute to the phenomenon of energy poverty resulting in households in energy poverty or vulnerable consumers» (p. 4). Così, la vulnerabilità in campo energetico è definita prendendo in considerazione non soltanto il reddito: «not all low-income households are fuel-poor although some are more vulnerable, such as older people, people with health or disability issues, very large families, those in isolated rural communities, those with a low literacy level, and those without access to the internet or with old, insufficient energy appliances» (p. 9). 127 Proprio in riferimento al bonus energetico, pensato per far fronte alla vulnerabilità dei consumatori, L. AMMANNATI, op. ult. cit., p. 11 sottolinea come questo, a causa dei criteri di accesso previsti dalla disciplina, si riveli inadeguato in numerose circostanze escludendo dal beneficio, ad esempio, oltre il 40% dei consumatori potenzialmente a rischio di povertà. Esso dovrebbe pertanto considerare «alternative indices [that] may represent the situation in different ways, but the different measures agree in highlighting that energy consumption has become less affordable since 2007. The scheme introduced in Italy to support vulnerable households consists of a lump-sum contribution. The analysis has shown that the decision to use a discount does not pro-
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Sarebbe vulnerabile, infatti, anche colui che è a rischio di «patire esperienze negative sul mercato». Ad esempio, secondo lo studio, «i consumatori anziani (sopra i 75 anni) di energia incontrerebbero minori difficoltà rispetto ai più giovani (35-44 anni) ad assimilare informazioni; tuttavia sarebbero meno capaci di comparare le offerte, cambiare fornitore e scegliere l’offerta per essi migliore; cosa che dimostrerebbe che sono più esposti alle pratiche di marketing»128. Ulteriori indici di vulnerabilità sarebbero: la limitata capacità di massimizzare il proprio benessere (ossia il superamento della razionalità pura); di ottenere o assimilare informazioni (information overload), specie quando fornite in formati tecnici e caratteri piccoli129; di comprare, scegliere o accedere a prodotti adatti ai propri bisogni. Secondo la Commissione, ciò ha delle implicazioni notevoli sulla definizione stessa delle nozioni di “consumatore medio” e di “consumatore vulnerabile” fatte proprie dal diritto del consumo e dal diritto speciale (come quello dell’energia, cui si è fatto cenno)130. vide any support for consumers who have been disconnected, and cash transfer could be more effective to help households in need». 128 Commissione europea, op. loc. ult. cit. (traduzione nostra): «Most consumers show signs of vulnerability in at least one dimension, while a third of consumers show signs of vulnerability in multiple dimensions. Less than a fifth of the consumers interviewed show no signs of vulnerability. (i) Consumer vulnerability is most frequent when consumers face complex marketing and are unable to select the best deals. For example, when presented with complex offers representing existing marketing practices in behavioural experiments, 37% of consumers are not able to select the best deal. (ii) A high share of consumers also experience difficulties buying, choosing and accessing suitable products. More than half of consumers say that they do not compare product deals in the financial sector and the energy sector, and a third of consumers say that they have problems comparing deals in the same sectors». 129 Con riguardo al tema dell’informazione, dallo studio emerge che i consumatori che non riescono a leggere i termini del contratto a causa delle ridotte dimensioni dei caratteri, o che non conoscono le proprie condizioni contrattuali perché non riescono ad assimilare le informazioni fornite, o che raramente comparano le offerte o leggono o comprendono le comunicazioni dei loro provider, sono a maggior rischio di vulnerabilità rispetto alla scelta del prodotto o servizio. Al tempo stesso, coloro che utilizzano internet per cercare informazioni e comparare prodotti e servizi mostrano una minore propensione alla vulnerabilità, almeno su taluni indicatori. 130 Commissione europea, Consumer vulnerability across key markets in the European Union, cit.: «Lo studio è particolarmente importante per la politica in materia di consumatori, come ad esempio la Direttiva sulle Pratiche Commerciali Scorrette, giacché fornisce nuove evidenze per comprendere concetti chiave come quelli di “consumatore medio” e “consumatore vulnerabile”. Esso è altresì rilevante per le politiche
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Nel settore finanziario131, la disclosure regulation in materia di prodotti finanziari ed assicurativi pre-assemblati (PRIIPs) è stata disciplinata a livello europeo tenendo conto degli esiti di uno studio cognitivo condotto dalla Commissione nel 2010132, dal quale risultava la limitata capacità dei risparmiatori a comprendere i rischi associati a tali prodotti dalla lettura dei lunghi e complessi prospetti informativi. La nuova regolazione (Reg. UE n. 1286/2014) ha così previsto la standardizzazione133 e la (ulteriore) semplificazione dell’informazione (esempi di empowerment cognitivo) del modulo KID. Quest’ultimo, come detto, estrapola e rende saliente una parte dell’informazione relativa al prodotto finanziario al fine di renderla comprensibile agli investitori ed anche comparabile. Ma ciò che è interessante rilevare in questa sede, è l’attenzione prestata, in fase di elaborazione e poi di revisione della nuova disciplina, agli aspetti relativi al comportamento dell’investitori. Tanto il Reg. 1286/2014, quanto quello delegato, in fase di adozione, sono infatti preceduti da una serie di studi ed indagini cognitivi condotti dalla stessa Commissione, che vanno sotto il nome di consumer testing134, l’ultimo dei quali realizzato nel 2015135. settoriali, come quella energetica, dove promuove una più ampia definizione di vulnerabilità del consumatore che va oltre il concetto di povertà energetica» (traduzione nostra). 131 Come visto supra, Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2. 132 Commissione europea, Consumer Decision-Making in Retail Investment Services: A Behavioural Economics Perspective, 2010. 133 Vale a dire che il contenuto così come la forma dell’informazione da rendere sono predeterminati. 134 Cfr. Commissione europea, Study on the Costs and Benefits of Potential Changes to Distribution Rules for Insurance Investment Products and other Non-MIFID Packaged Retail Investment Products Final Report, del 29.9.2010 (http://ec.europa.eu/internal_market/consultations/ docs/2010/prips/ costs_benefits_study_en.pdf); 135 Cfr. Consumer testing study of the possible new format and content for retail disclosures of packaged retail and insurance-based investment products – Final report, commissionato dalla Commissione stessa nel 2015 (http://ec.europa.eu/finance/finservices-retail/docs/investment_products/2015consumer-testing-study_en.pdf). In base a tale studio, che integra metodologie di tipo cognitivo, il Key Information Document è stato nuovamente modificato e numerose sue parti hanno formato oggetto di ulteriore armonizzazione. In data 16.9.2016 il Parlamento europeo ha espresso parere negativo su alcuni standard tecnici regolatori individuati nel regolamento delegato della Commissione, a motivo del quale il Parlamento ed il Consiglio hanno deciso di posticipare di dodici mesi l’entrata in vigore del Reg. PRIIPs n. 1286/2014, originariamente fissata al 31.12.2016 (cfr. Commissione eu-
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Specie in quest’ultimo, la selezione del tipo di disclosure in concreto impiegata (ad esempio, l’opzione grafica semplificata per rendere comprensibile il rischio del prodotto finanziario) è preceduta da una corposa sperimentazione su base cognitiva, di tipo quali-quantitativo (nel caso di specie viene testata la comprensibilità di differenti layout) onde verificarne ex ante l’efficacia. Questo modus procedendi dà ingresso, nel procedimento regolatorio che conduce al disegno della disclosure regulation, a considerazioni sulla natura e sul modo in cui decide il destinatario finale dell’informazione in contesti particolarmente complessi e gravati da asimmetria informativa quali quelli degli strumenti finanziari. Questa attenzione ai profili cognitivi, ad esempio, porta ad escludere che si possa indicare nel KID la performance storica del prodotto finanziario, ma ciò non tanto perché è noto che l’andamento passato di un titolo non possa fornire indicazioni sull’andamento futuro dello stesso136, ma in quanto è empiricamente dimostrato che tale informazione può indurre un effetto di “ancoraggio” nell’investitore (l’anchoring bias137). Il secondo tratto interessante è che il KID è pensato per degli investitori naïf, che rappresentano la gran parte degli investitori. Esso infatti deve essere breve, scritto in linguaggio atecnico, conciso, in maniera comprensibile e in modo da consentire il confronto con altre occasioni di investimento. Esso, inoltre, deve permettere agli investitori di comprendere autonomamente gli elementi principali dello strumento finanziario, senza dovere ricorrere alla ulteriore, pur sempre disponibile, documentazione legale. L’esempio appena fatto rappresenta un caso di regolazione differopea, COM(2016) 709 fin. del 9.11.2016 e IP/16/3632, Commission extends the application date of the PRIIPs Regulation by one year, del 9.11.2016 (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-16-3632_en.htm). 136 Occorre infatti ricordare che già l’art. 28, commi 4, 5 e 6 del Reg. Interm. Consob prevede che se l’intermediario decide di fornire informazioni sulle performance passate di un prodotto finanziario, questi è tenuto a chiarire che le stesse non costituiscono un indicatore del conseguimento di analoghe performance nel futuro. Tuttavia, tale previsione non può considerarsi cognitive-based nel senso chiarito nel testo, dal momento che la sua introduzione non è stata preceduta dalla raccolta di informazioni, attraverso uno studio cognitivo, circa la presenza nella popolazione dei soggetti destinatari di tale informazione di un diffuso bias che la norma mirava a gestire (come ad esempio, di un anchoring bias). 137 Su cui si supra Parte Seconda, Cap. 2, para. 2.1.
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renziata. Potendo distinguere tra i destinatari dell’informazione quelli smart da quelli naïf (nell’accezione precedentemente illustrata), non v’è da sorprendersi se la regolazione sui PRIIPs, prodotti finanziari e assicurativi complessi, abbia “discriminato” il framing dell’informazione tenendo in considerazione – si badi, non in funzione di – la tipologia del soggetto cui essa è destinata. Sappiamo già che il “contenitore” (il frame, appunto) informa più del “contenuto”138. Difatti, il framing semplificato dell’informazione finanziaria farà comprendere il rischio ai risparmiatori naïf, ma non impedirà a quelli smart di ottenere (e comprendere) più informazioni. Tradotto in termini di proporzionalità, consentire al regolatore la conoscenza concreta – e non presunta – dei destinatari dell’informazione, grazie all’uso delle scienze cognitive nel procedimento di regolazione, permette al regolatore di introdurre meccanismi che non vadano oltre quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo regolatorio. Questa possibilità è rafforzata se al regolatore è consentito differenziare l’intervento in ragione dell’incidenza, nella popolazione dei destinatari, dei bias e delle euristiche. Riprendendo l’esempio del KID, se si fosse adottato il solo framing dettagliato (come era nel regime previgente), a soffrirne sarebbero stati i risparmiatori naïf (cioè la gran parte degli investitori), i quali, per effetto del sovraccarico informativo avrebbero valutato in modo non adeguato il rischio dei prodotti finanziari, ed acquistato esponendosi economicamente139. La regolazione sarebbe stata cioè over-inclusive, e pertanto sproporzionata. D’altro canto, la sola informazione semplificata, ancorchè in linea teorica comprensibile a tutti gli investitori140 (quindi anche a quelli 138
Cfr. A. TVERSKY e D. KANEMANN, The Framing of Decisions, cit. L’esempio è di fantasia, ma non è troppo lontano dai dati empirici riportati nel report sulle scelte di investimento delle famiglie italiane della Consob, cit. su cui F. DI PORTO e N. RANGONE, Scienze cognitive per una regolazione efficace dell’informazione finanziaria, Intervento al Convegno di presentazione del Report, Roma 3 luglio 2015 (http://www.consob.it/web/area-pubblica/report-famiglie). 140 Come si è detto, la circostanza che l’informazione semplificata e saliente sia comprensibile è un dato che va verificato in via sperimentale prima dell’adozione in via definitiva. Il rischio, altrimenti, è che la capacità di comprensione degli individui si riduca, oppure che l’informazione così prospettata conduca a decisioni non ottimali in quanto gli individui possono tendere a sovrastimare l’informazione resa saliente. Di conseguenza, al fine di prevenire simili effetti collaterali (o boomerang effect) è indispensabile che i formati dell’informazione vengano testati empiricamente: si v. R. 139
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smart), avrebbe potuto non essere sufficiente a colmare l’asimmetria informativa presente sul mercato dei servizi finanziari, che pure è, come detto, il fondamento primo dell’intervento regolatorio (residualità sostanziale); né avrebbe soddisfatto l’interesse dei risparmiatori smart a conoscere dettagliatamente i rischi connessi alla propria scelta di investimento. La scelta della differenziazione, dunque, “combinando” il framing semplificato – selezionato dopo idonea sperimentazione – con quello dettagliato, consente in uno di superare le censure di mancata proporzionalità della (sola) regolazione dettagliata e di perseguire più compiutamente l’interesse pubblico, ovverosia quello di informare gli investitori (i.e. ridurre l’asimmetria informativa) al fine di consentire loro di compiere scelte di investimento più avvedute. Il ricorso a sperimentazioni di tipo cognitivo può far emergere che la popolazione dei soggetti destinatari dell’informazione abbia reazioni molto diverse, tanto da poter individuare, sulla base di solide basi scientifiche, dei gruppi distinti per “reazione prevedibile”. Se le evidenze empiriche raccolte nel corso del procedimento regolatorio fanno emergere con ragionevole precisione che un gruppo numericamente consistente nella popolazione dei soggetti (ad esempio, il 70%), non reagirà nel modo divisato dal regolatore ad una determinata misura di carattere generale (i.e. non differenziata), rendendo il rischio di fallimento regolatorio, con gli annessi costi (anche amministrativi), praticamente certo, allora la scelta della misura differenziata sarà non solo giustificata, ma “doverosa” alla luce del principio di proporzionalità (e di eguaglianza sostanziale)141. Non v’è infatti ragione di distinguere tra una differenziazione della misura regolatoria operata sulla base di indici socio-demografici, di povertà (si pensi al bonus elettricità), di età (cui è attualmente agganciata la “vulnerabilità” dei consumatori nel codice del consumo) ed una operata sulla base di reazioni prevedibili, purché oggettivamente ed empiricamente dimostrabili alla luce delle scienze cognitive. Questa conclusione sembra peraltro trovare conforto nel d.lgs. CRASWELL, Taking Information Seriously, cit., ad p. 584; E. TSCHERNER, Can Behavioural Research Advance, cit., p. 150. 141 Si rammenti che l’attenzione concreta alla proporzionalità della regolazione ha trovato specifico riscontro nel programma di controllo dell’adeguatezza e dell’efficacia della regolazione del 2012 recepito nella citata Comunicazione della Commissione europea, EU Regulatory Fitness, (COM (2012) 746 def.
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97/2016 in materia di trasparenza amministrativa142, il quale, nel riformare l’art. 3 del d.lgs. 33/2013, vi ha introdotto due commi: l’1-bis e l’1-ter. Il primo riconosce all’Anac il potere di adottare una regolazione della trasparenza “in forma sintetica” 143 in sostituzione della pubblicazione (obbligatoria) di dati, documenti e informazioni in forma integrale; senza tuttavia escludere che una siffatta evenienza vada a detrimento di una trasparenza più sofisticata ed integrale. Recita infatti l’ultima frase del comma 1-bis che «l’accesso ai dati nella loro integrità» resta comunque «disciplinato dall’articolo 5», cioè resta assoggettato alla regola dell’accesso civico generalizzato. È interessante notare che questa possibilità di regolazione differenziata sia possibile nei limiti della «conformità con i principi di proporzionalità [e semplificazione]»144, richiamato espressamente dalla disposizione in commento. Similmente, il comma 1-ter del medesimo art. 3 attribuisce all’Anac il potere di prevedere modalità semplificate per «gli obblighi di pubblicazione». Tali modalità semplificate di pubblicazione potranno essere giustificate dalla «natura dei soggetti, [d]alla loro dimensione organizzativa e [d]alle attività svolte». Esemplificativamente si porta il caso dei comuni con meno di 15.000 abitanti, ossia di realtà amministrativamente poco complesse. Il tenore letterale dell’art. 3, comma 1ter (“in particolare”) e la circostanza che si tratti di un elenco non tassativo, fanno ritenere che si possa declinare la “modalità semplificata” o quella “in forma sintetica” di trasparenza in un senso che tenga even142 Su cui supra, Parte Prima, Cap. 1, para. 1.5 e Cap. 2, para. 1.5. Si precisa che il Decreto in parola non è stato interessato dalla sentenza n. 251, del 25 novembre 2016 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcuni articoli della l. delega n. 124/2015 di riorganizzazione della p.a., c.d. “legge Madia”, travolgendo taluni dei decreti attuativi della riforma (quelli in materia di dirigenza pubblica ex art. 11; di pubblico impiego ex art. 17; di società partecipate ex art. 18; di servizi pubblici locali di interesse economico generale ex art. 19) nelle parti in cui prevedevano che il Governo adottasse i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata. 143 Così recita il nuovo comma 1-bis dell’art. 3: «L'Autorità nazionale anticorruzione, sentito il Garante per la protezione dei dati personali nel caso in cui siano coinvolti dati personali, con propria delibera adottata, previa consultazione pubblica, in conformità con i principi di proporzionalità e di semplificazione, e all’esclusivo fine di ridurre gli oneri gravanti sui soggetti di cui all'articolo 2-bis [le pp.aa.], può identificare i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della disciplina vigente per i quali la pubblicazione in forma integrale è sostituita con quella di informazioni riassuntive, elaborate per aggregazione». (enfasi aggiunta). 144 Enfasi aggiunta.
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tualmente “anche” conto delle diverse capacità dei destinatari dell’informazione di reperirle, selezionarle, comprenderle e quindi agire, operando quel “controllo sociale” che il legislatore si attende da essi. In fondo si tratta di quegli stessi individui cui il legislatore della trasparenza “delega” le funzioni di controllo145 sui casi di maladministration146. Che vi sia un nesso tra l’inclusione delle scienze cognitive nel procedimento regolatorio ed il miglioramento della qualità del prodotto regolatorio, è altresì confermato dal Consiglio di Stato, che nel parere sullo schema di quello che sarebbe divenuto il citato decreto legislativo 97/2016, così si esprime: «(...) accanto alle tradizionali misure di eliminazione di oneri e controlli gravanti sull’attività economica, le politiche pubbliche devono prevedere specifiche misure tecniche – spesso multidisciplinari – quali il perfezionamento del test di proporzionalità, la compliance analysis, il confronto costi-benefici, l’analisi (più economica che giuridica) dell’effettività della concorrenza, l’empowerment del consumatore, tenendo conto anche delle indicazioni dell’economia comportamentale (la cd. behavioural regulation). Per non parlare della necessità di un ‘monitoraggio’ delle riforme amministrative, capace di registrarne ex post gli effetti concreti e di raccogliere le reazioni di cittadini e operatori economici. Tale ultimo strumento, anch’esso multidisciplinare, è forse quello attualmente più studiato nelle sedi internazionali ed è quello tradizionalmente più carente (nel nostro sistema, ma non solo), pur essendo uno dei più efficaci per un successo ‘effettivo’ delle riforme»147.
Interessanti a tal riguardo sono due esperienze del Regno Unito: una relativa alle misure rimediali che può adottare l’autorità per la concorrenza britannica (Competition and Market Authority o CMA) in esito ad una indagine di mercato148, ed una relativa ad uno studio rea145
È infatti lo stesso art. 7 (lett. h) della legge delega (n. 124/2015), come più volte chiarito, a specificarne l’obiettivo: «…al fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». 146 Su cui supra Parte Prima, Cap. 1, para. 1.5. 147 Cons. St., Sez. consultiva per gli atti normativi, n. 515 del 24 febbraio 2016. 148 Cfr. COMPETITION AND MARKET AUTHORITY – CMA (già Competition Commission), Guidelines for market investigations: Their role, procedures, assessment and remedies, revised ed., aprile 2013. Le Guidelines, che disciplinano il procedimento per
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lizzato dal Behavioural Insights Team (o BIT)149. In entrambi i casi – sebbene con maggior consapevolezza nel primo150 – le due istituzioni si pèritano di motivare in termini di proporzionalità il proprio operato. Così, dopo una indagine di mercato durata quasi due anni ed un’ampia consultazione degli stakeholder, la CMA pubblica i corposi risultati dell’analisi151, ove frequenti sono i riferimenti alle problematiche cognitive che impediscono ai consumatori energetici di essere attivi sul mercato. Le oltre mille pagine di analisi costituiscono la motivazione con cui la CMA «disegna [i propri] rimedi e [..] valuta la proporzionalità e l’effettività dell’insieme dei rimedi nel suo complesso»152. Per ciascuna misura singolarmente presa e per tutte, raffrontate le indagini di mercato, espressamente obbligano la CMA ad effettuare una valutazione di proporzionalità dei rimedi seguendo il test quadripartito, stabilendo che esso dovrà svolgersi tenendo conto dei fatti e delle circostanze del caso concreto: «It often depends on what other remedy options are also being considered and on judgements about the respective merits of each option, including whether or not a remedy option is likely to be effective in practice. In making an assessment of proportionality, the [CMA] is guided by the following principles. A proportionate remedy is one that: (a) is effective in achieving its legitimate aim; (b) is no more onerous than needed to achieve its aim; (c) is the least onerous if there is a choice between several effective measures; and (d) does not produce disadvantages which are disproportionate to the aim] (§§343 e 344). 149 BEHAVIOURAL INSIGHTS TEAM – BIT (UK), Applying behavioural insights to regulated markets, 26 maggio 2016. 150 Il che è anche comprensibile, dal momento che la CMA è una autorità con poteri di regolazione, mentre il BIT è una charity, oramai scollegata dall’Esecutivo presso cui era in origine incardinata, con mere funzioni consulenziali. 151 Sulla base delle citate Guidelines del 2013 la CMA ha condotto una corposa indagine sul mercato retail dell’energia, al fine di indagare le ragioni del mancato funzionamento della concorrenza pur a distanza di molti anni dalla liberalizzazione. In esito a tale indagine la CMA ha adottato una serie di remedies molto stringenti, ancorchè temporanei, che re-introducono regolazioni a tutela dei consumatori risultati “inattivi” a cagione anche di diffusi bias cognitivi. Tra questi, ad esempio, vi è l’inserimento dei consumatori cc.dd. “sticky”, cioè che per ragioni di inerzia non hanno cambiato fornitore per molto tempo finendo col pagare l’energia sensibilmente più del dovuto, di default in una opzione tariffaria definita “safeguard tariff” (simile alla nostra “maggior tutela”): COMPETITION AND MARKET AUTHORITY – CMA (UK), Energy market investigation - Final report, 24 giugno 2016. 152 Lett. «develop [its] remedies and [..] assess[es..] the proportionality and effectiveness of the package of remedies as a whole» (§206). Su questa base, la CMA identifica quindi gli obiettivi (i) dei rimedi regolatori che introduce: «At a high level, our package of remedies for domestic customers comprises three strategic components: (a) creating a framework for effective competition; (b) helping customers to engage to exploit the bene-
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reciprocamente e con la “opzione zero”, viene condotto il test di proporzionalità e dato conto di eventuali dissenting opinion153. Quanto al rapporto del BIT, benché meno attento ai profili giuridici, ma più sensibile alla dimensione cognitiva e alla misurazione dell’incidenza dei bias nella popolazione dei soggetti regolati, esso si segnala in quanto coglie la rilevanza della proporzionalità e i profili di doverosità della regolazione differenziata. Secondo il BIT, gli interventi regolatori cognitive-based, hanno il pregio «di non distorcere il comportamento dei consumatori meno affetti da bias».
2.3. Il modello anglo-americano di targeted disclosure su base cognitiva Il punto di arrivo della riflessione sin qui svolta è dunque che occorre ripensare il procedimento regolatorio che conduce al disegno della disclosure regulation, specialmente nella fase istruttoria, ove può essere utile testare in anticipo gli strumenti regolatori da impiegare per rendere effettivamente comprensibile l’informativa da trasmettere. Ma una volta integrata questa conoscenza, quando si muove nella selezione del mezzo più proporzionato allo scopo, può essere necessario dare ingresso alla differenziazione delle regole. Questo modello, che abbiamo indicato col termine di “regolazione differenziata”, viene definito variamente nella letteratura anglo-americana, ove ne sono state individuate diverse applicazioni. L’assunto teorico che ne costituisce il sostrato è che, non essendo possibile condurre scelte informate su qualsiasi cosa, dal momento che le nostre capacità cognitive non ci permettono di assorbire ogni e qualsiasi “pezzo” di informazione, non ci si possa accontentare della sola standardizzazione e/o semplificazione dell’informazione. Queste ultime, infatti, se non sono cognitive-based nel senso chiarito supra, si limitano a rendere salienti alcuni contenuti sull’assunto (non verificato) che ciò induca a semplificare la scelta degli individui e ad indurli ad assumere decisioni migliori154. fits of competition; and (c) protecting customers who are less able to engage to exploit the benefits of competition» CMA, Energy market investigation, cit., §206. 153 Cfr. CMA, Energy market investigation, cit., §11.86, p. 656 per la dissenting opinion di Martin Cave in merito alla mancata introduzione del price cap ai clienti finali con tariffa standard (o SVT), risultata tra le più onerose sul mercato. 154 Come ad esempio, nel caso della Dir. sul credito al consumo e della prima Dir.
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Numerosi studi empirici dimostrano che, sebbene la semplificazione dell’informazione e la sua standardizzazione possano ridurre l’information overload e dunque facilitare la comprensione, nondimeno esse possono anche ingenerare degli effetti perversi o boomerang effect155 (oltre all’anchoring bias di cui si è già detto). Come evidenziato ad esempio dalla Consob156, nel nostro paese, la semplificazione delle schede dei prodotti finanziari, sebbene aiuti a ridurre la complessità degli stessi e ad aumentare l’utilità di tali prospetti informativi, può anche indurre i risparmiatori a percepire l’informativa di prodotto come “più comprensibile” e quindi a ritenere il prodotto stesso come meno rischioso (cd. familiarity bias157), anche quando ciò non sia necessariamente il caso. Pertanto, più che operare sul solo formato (standardizzazione e semplificazione) o unicamente sul contesto (salienza, norme sociali, ecc.), dell’informazione, potrebbe risultare preferibile costruire la disclosure regulation selezionando il tipo di messaggio che realmente rilevi in relazione al gruppo di utenti cui lo stesso è indirizzato158. Una prima proposta è detta “personalized disclosure” e consiste nel disegnare l’informazione “attorno” all’individuo (o meglio, gruppo di individui) che la riceve. Ad esempio, presentandola tenendo conto «degli interessi e dei bisogni del ricettore, impiegando numeri o formati – come grafici invece di tabelle», oppure «può significare prevedere cosa il ricevente già conosce e tentare di fornirgli ciò che è realsul KIID dei PRIIPs (su cui si rinvia a quanto detto nella Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2 e supra, para. 2.2). Come si rammenterà, a seguito del consumer testing condotto dalla Commissione europea nel 2015, il contenuto del modulo KID è in corso di revisione ed ulteriori misure di secondo livello saranno adottate per definirne gli aspetti tecnici, proprio per tenere conto dello studio cognitivo citato e dei dati empirici sulle reazioni degli investitori ai diversi tipi di layout proposti. 155 E.M. TSCHERNER, op. cit., p. 150 ad esempio, menziona il fatto che «increasing the prominence of some aspects of information through standardization and framing might reduce consumers’ understanding or recall of other truthful information and thereby lead to worse decisions rather than better ones as it may induce consumers to overestimate prominent information» giungendo a suggerire che i layout delle informazioni debbano essere testati con esperimenti prima di essere introdotti. 156 M. GENTILE, N. LINCIANO, C. LUCARELLI e P. SOCCORSO, Financial disclosure, risk perception and investment choice, cit. 157 M. WANG, C. KELLER e M. SIEGRIST, The Less You Know, the More You Are Afraid of. A Survey on Risk Perceptions of Investment Products, in 12 J. of Behav. Finance, 1/2011, p. 9-19. 158 A.-L. SIBONY e G. HELLERINGER, EU consumer protection, cit., p. 224.
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mente (lett. “genuinely”) informativo, cioè non ridondante rispetto alle sue conoscenze»159. Chiaramente il disegno di simili disclosure può apparire complesso in concreto, e per tale ragione si propone il ricorso alle tecnologie (principalmente Internet) come ausilio alla personalizzazione160. In sostanza, si tratta di utilizzare l’informazione fornita dagli stessi utenti di una piattaforma digitale per costruire dei rating o ranking come forme di disclosure che essi potranno poi riutilizzare. Un esempio è rappresentato dalle piattaforme di condivisione di esperienze terapeutiche o di giudizi sui medici (come CureTogether.com 161 ). Secondo studi pubblicati già nel 2001 «gli utilizzatori dei servizi relativi alla salute sono divenuti sempre più fornitori di informazioni e pareri sulla salute»162. Non sono mancate critiche a questo modello di personalised or targeted disclosure da parte di chi ritiene che le indicazioni applicative siano al momento ancora poco definite e che, comunque, non sia semplice tradurre l’idea in una regola giuridica, dal momento che «le regole sono generali mentre gli individui si differenziano in relazione a ciò a cui tengono, e a cui sono interessati»163. In realtà, il sostrato metodologico che sta dietro all’idea delle “personalised disclosure” è da rinvenirsi in lavori condotti sulle regole di default, tesi ad individuare possibilità di differenziazione di tali regole sulla base della conoscenza delle preferenze degli individui. In partico159 G. LOEWENSTEIN, C.R. SUNSTEIN e R. GOLMAN, Disclosure: Psychology Changes Everything, cit., p. 409. 160 Non senza paventare i rischi di privacy: ibid. 161 La piattaforma CureTogether.com è stata creata nel 2008 per la «condivisione di informazioni tra utilizzatori sulla natura e gravità dei sintomi e delle risposte ai trattamenti. Il sito quindi aggrega ed analizza (in forma anonima) i dati di modo che gli utilizzatori possano visualizzare quali trattamenti funzionano in relazione a quali sintomi, comorbidità o parametri demografici. La piattaforma è stata acquistata da 23andMe nel 2012»: così B. PRAINSACK, The Powers of Participatory Medicine, in 12 PLOS Biology, 4.4.2014, p. 1-2. 162 M. HARDEY, E-Health: The Internet and The Transformation of Patients into Consumers and Producers of Health Knowledge, in 4 Infor., Comm. and Soc., 3/2001, p. 388-405, ad p. 388. 163 Così A.-L. SIBONY e G. HELLERINGER, op. cit., p. 225 (traduzione nostra). Tuttavia, come si è dimostrato più sopra, la proporzionalità supera il rilievo della generalità della regola rispetto alla particolarità dell’interesse dell’individuo, dal momento che nel procedimento che conduce al disegno della regola è ben possibile dare spazio al bilanciamento degli interessi particolari, tanto con quello generale quanto con quelli di terzi eventualmente incisi dalla decisione.
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lare, Ayres e Gertner164 sono i primi a riflettere sulla eterogeneità dei contraenti e a porsi il problema della scelta, da parte del legislatore, di regole di default adatte ad una sola parte (maggioritaria o minoritaria) dei contraenti. Più tardi, in un ideale dialogo con codesti autori, Sunstein sviluppa l’idea di «regole di default personalizzate», ritenendo che esse «s[ia]no la strada del futuro: dovremo attenderci un significativo aumento della personalizzazione a mano a mano che un maggior numero di informazioni sulle scelte delle persone si rend[a]no disponibili»165. Proprio quest’ultimo richiamo alla disponibilità di informazioni sulle scelte degli individui come limite alla possibilità di introdurre forme di disclosure personalizzate, chiama in causa le moderne tecnologie dell’informazione. Non v’è dubbio infatti che l’uso di piattaforme e di tecniche di big data analytics metta a disposizione un bagaglio informativo in grado potenzialmente di superare tale limite.
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I. AYRES e R. GERTNER, Majoritarian v. Minoritarian Defaults, in 51 Stan. L. Rev., 1999, p. 1591-1613, ad p. 1596 ss. 165 C.R. SUNSTEIN, Impersonal Default Rules vs. Active Choices vs. Personalized Default Rules: A Triptych, in 17 Regulatory Policy Program Working Paper, RPP-2012, 2012, ad p. 25.
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CAPITOLO 3 SECONDA PROPOSTA. PER UNA DISCLOSURE REGULATION DIFFERENZIATA ATTRAVERSO I BIG DATA
3.1. Il coté del regolatore. Ovvero fare disclosure regulation pubblica più mirata, differenziata ed efficace attraverso i big data Nel 1968 von Hayek rilevava l’importanza dell’informazione a disposizione del regolatore per la selezione della giusta regola, tra nomoi e thesis: «Where it is a question of using limited resources known to the organiser in the service of a unitary hierarchy of ends, an arrangement or organisation (taxis) will be the more effective method. But where the task involves using knowledge dispersed among and accessible only to thousands or millions of separate individuals, the use of spontaneous ordering forces (cosmos) will be superior»166.
L’economista di Friburgo delegava all’ordine spontaneo del mercato (cosmos) e alle sue regole (contrattuali) il compito di auto-regolarsi, à l’abri di qualsiasi fine. Certo non poteva immaginare la rivoluzione digitale dei big data, né che il «knowledge of all [the] individual elements» facenti parte del cosmos avrebbe cessato di costituire monopolio degli individui e che si sarebbe potuto raccogliere, analizzare e rendere “meaningful”, anche per il regolatore. Se dunque il compito del regolatore era necessariamente limitato dal suo incolmabile gap informativo – assente invece nell’ordine spontaneo167 – oggi necessariamente questo dato si affievolisce. 166 F.A. VON HAYEK, The Confusion of Language in Political Thought: With Some Suggestions for Remedying It, Londra, The Institute of Economic Affairs, 1968 (disponibile in: https://iea.org.uk/publications/research/the-confusion-of-language-inpolitical-thought), p. 14 (per una illustrazione dei termini cosmos e taxis, nonchè nomoi e thesis, si v. l’Introduzione). 167 F.A. VON HAYEK, op. ult. cit., p. 13 «And while the complexity of activities which can be ordered as a taxis is necessarily limited to what can be known to the or-
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I primi a parlare di “personalised disclosure” attraverso l’uso dei big data sono Porat e Strahilevitz168, i quali suggeriscono di impiegare i big data per aiutare il regolatore a disegnare obblighi di disclosure “personalizzati”, ovverosia ritagliati sulle diverse esigenze dei cittadini. I big data169 possono, infatti, consentire di sapere anticipatamente quali disclosure sono lette e quali no, ed anche quali effettivamente interessino agli individui, grazie alle loro “tracce” digitali rilevate automaticamente – tramite gli algoritmi – dalle ricerche online, dalla geolocalizzazione, dall’Internet delle cose, e così via. Gli Autori propongono pertanto di disegnare la disclosure regulation selezionando e quindi mostrando l’informazione rilevante per quello specifico individuo o gruppo di individui, derivando tale conoscenza sulla base delle informazioni inferibili dai suoi comportamenti. Di tale modello si propongono applicazioni tanto nell’ambito delle disclosure attinenti (i) alle transazioni di mercato, quanto in quelle relative (ii) alle pubbliche amministrazioni. Con riguardo alle prime (i), gli Autori fanno il caso degli acquisti online, in cui tipicamente gli acquirenti ricevono avvisi indistinti e non mirati che non sono di loro interesse e che generano un effetto di accumulo170, portando al paradosso di informazioni non lette che invece sarebbero rilevanti (ad esempio, si fa il caso del pensionato che acquista un farmaco ed è avvertito sugli effetti collaterali dell’assunzione in caso di gravidanza). In tali ipotesi, avvalendosi del supporto della tecnologia (ad esempio, con delle applicazioni di “personalised disclosure” in grado di scansionare online i codici QR dei prodotti), sarebbe possibile per l’acquirente ricevere solamente l’informazione verosimilmente per lui rilevante, ferma restando la possibilità di poter optare per un regime di informazione più dettagliata. Ciò costituirebbe un notevole risparmio di tempo e di capacità cognitive disperse nel tentativo di individuare l’informazione utile tra le molte irrilevanti171. Applicazioni di questo modello sono possibili, secondo gli Autori, nei settori della sicurezza alimentare così come dei mercati finanziari, e
ganiser, there is no similar limit in a spontaneous order». 168 A. PORAT e L. STRAHILEVITZ, Personalizing Default Rules and Disclosure with Big Data, in 112 Michigan L. Rev., 2014, p. 1417-1478. 169 Si v. supra Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.3. 170 Sul problema dell'accumulo informativo si v. l'Introduzione e Parte Seconda, Cap. 2, para 2.3. 171 A. PORAT e L. STRAHILEVITZ, op. cit., p. 1472.
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in generale nelle scelte gravate da rischio, ove la disclosure tradizionale sconta il problema della limitata comprensione da parte dell’uomo “della strada”. Così ad esempio, il genitore del bambino allergico alle noci potrà impostare la sua applicazione (o il suo algoritmo) di “personalised disclosure” in modo tale da “leggere” automaticamente le etichette degli alimenti; e così potrà fare anche chi non abbia casi di allergie in famiglia, ma semplicemente organizzi feste per bambini. Di conseguenza, un maggior numero di consumatori leggerà attentamente le disclosure finalizzate a tutelare la salute e la sicurezza alimentare172. Parimenti, nel caso di contratti per prodotti finanziari particolarmente complessi, una applicazione basata sui big data che conoscesse i tipi di rischi ai quali l’investitore è particolarmente avverso o i tipi di condizioni contrattuali che non è disposto ad accettare (come certe commissioni, o talune perdite di capitale, condizioni di responsabilità, ecc.), potrebbe “leggere” ed individuare automaticamente tali aspetti e segnalarli all’investitore173. Quanto al secondo tipo di applicazioni (ii), quello delle disclosure delle pubbliche amministrazioni, il modello della “personalised disclosure” consiste nel fornire le informazioni mirate ai soggetti a cui servono, nel momento in cui servono: ad esempio, l’amministrazione comunale potrebbe informare i pendolari circa un incidente avvenuto sulla strada che stanno percorrendo (anziché fornire generiche informazioni sul traffico nella zona), basandosi sui dati ricavabili dalla geolocalizzazione delle loro automobili, che siano stati condivisi sulla base di un consenso rilasciato preventivamente174. Anche in questo caso l’effetto sarebbe un netto risparmio di tempo per il destinatario dell’informazione ambientale, che leggerebbe gli avvisi prima ignorati perché “sommersi”, oltre che una maggiore efficacia della disclosure pubblica. Nel nostro ordinamento esempi di personalised disclosure si potrebbero immaginare sia nell’ambito della informazione ambientale sia in quello della trasparenza amministrativa. Nel primo caso, come si è visto175, l’informazione ambientale è oggi basata sul diritto di accesso e 172
Ibid. Ibid.: «Through automation, an application could do what a good lawyer already does – read the contract and advise the client about provisions that may be problematic in light of the client’s idiosyncrasies» (sic!). 174 A. PORAT e L. STRAHILEVITZ, op. cit., p. 1474. 175 Si v. Parte Prima, Cap. 1, para. 1.5; Parte Seconda, Cap. 1, para. 1.1. 173
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sugli obblighi di pubblicazione di informazioni generiche ed altamente tecniche, diffuse mediante canali tradizionali (le sezioni “informazioni ambientali” dei siti Internet delle pp.aa. locali). In tal modo essa tende a disperdersi e a non raggiungere i destinatari interessati, con la conseguenza che il fine pubblico per il quale i dati sono diffusi rimane solo formalmente raggiunto. Se la disclosure di quelle stesse informazioni, che la legge prevede siano oggetto di pubblicazione obbligatoria, fosse invece fatta dall’amministrazione secondo il modello di “personalised disclosure”, mediante l’uso dei big data, la situazione cambierebbe. In particolare, la p.a. potrebbe segnalare, ad esempio, l’elevata concentrazione di polveri sottili a chi è interessato a conoscere quell’informazione in quel determinato giorno, ovverosia: a tutti i cittadini, ai soli asmatici, a chi ha bambini, agli anziani, agli sportivi…e a tutti gli “n” individui che decidano di prestare il proprio consenso alla p.a. al trattamento dei propri dati personali (di geo-localizzazione, di consumo, ecc.) in forma automatizzata176 e si registrino a tal fine per ricevere delle “disclosure personalizzate”. Alla stessa stregua, l’amministrazione potrebbe avvalersi dei medesimi dati volontariamente forniti dai cittadini per diramare informazioni sanitarie urgenti, ad esempio su una fuga di gas tossico da un impianto produttivo, in via prioritaria, agli abitanti della zona circostante l’area interessata dall’incidente; in tal caso essa risulterebbe certamente più saliente e veicolata esattamente a coloro i quali di quella informazione necessitano e nel momento in cui ne hanno maggiormente bisogno. Lo stesso tipo di ragionamento si potrebbe estendere alla trasparenza amministrativa immaginando che, tanto per le informazioni oggetto di pubblicazione obbligatoria, quanto per quelle oggetto di accesso civico generalizzato, si possa attivare o comunque rendere più agevole quel “controllo sociale” che è indicato dalla legge come una delle finalità avute di mira. In tal caso, come si è detto177, al fine di superare la “opacità per confusione”178 indotta dall’eccesso di informazioni, la p.a. potrebbe utilizzare un algoritmo apposito – debitamente reso pubblico – attraverso cui rendere al cittadino unicamente le in176
Sul tema della autorizzazione legislativa delle pp.aa. a trattare dati personali si v. infra nel testo; mentre sul diverso tema del trattamento dei dati personali in forma automatizzata da parte delle p.a. si v. oltre, al para. 3.3. 177 Si v. supra Parte Seconda, Cap. 1, para. 1.1. 178 E. CARLONI, La “casa di vetro”, cit.
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formazioni di suo interesse. Ad esempio, il ricercatore interessato all’andamento finanziario dei servizi sanitari in una data Regione, che si sia registrato fornendo il proprio consenso alla p.a., potrebbe ricevere i dati di suo interesse179 in forma costantemente aggiornata. Similmente, il giornalista d’inchiesta interessato ai compensi dei titolari di incarichi politici e dirigenziali (ex art. 14, d.lgs. 33/2013) riceverebbe tali informazioni al fine di esercitare la propria opera di verifica e dunque essere di “pungolo” agli amministratori, come vuole il dettato della legge. Chiaramente, in base al nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati (n. 679/2016) la legge dovrebbe prevedere le modalità per «autorizza[re] le autorità pubbliche a trattare i dati personali»180 forniti dai cittadini. Inoltre, poiché la p.a. sarebbe qualificabile come “titolare del trattamento” dei dati personali in «esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse», ai sensi del cons. 45 del citato Regolamento, per la definizione delle modalità concrete di siffatto trattamento, non sarà necessaria l’adozione di una legge per ciascuna tipologia, ma sarà sufficiente un atto legislativo «per più trattamenti effettuati»181. In tutti i casi testé menzionati, non si tratterebbe di riutilizzo di open data pubblici, visto che la pubblicazione di questi ultimi non è obbligatoria; mentre ciò di cui ci occupiamo sono le informazioni oggetto di obblighi informativi. Né si tratterebbe di una nuova (ennesima) forma di accesso ai dati e documenti della p.a. (i.e. una nuova forma di trasparenza amministrativa), ma piuttosto di modalità attuative che mirano a coniugare l’innovazione tecnologica con quegli istituti giuridici, al fine di renderli più aderenti al fine pubblico perseguito.
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Si tratterà, ex art. 43 del d.lgs. 33/2013, de: i compensi di direttori generali, direttori sanitari e amministrativi e responsabili di dipartimento, oltre alle spese e pagamenti effettuati, bandi e avvisi di selezione, procedure e atti di conferimento. 180 Cfr. cons. 47 Reg. UE 679/2016. 181 Ai sensi del citato cons. 47, la legge dovrà definire: «la finalità del trattamento (...) le condizioni generali (...) che presiedono alla liceità del trattamento dei dati personali, (...) le specificazioni per stabilire il titolare del trattamento, il tipo di dati personali oggetto del trattamento, gli interessati, i soggetti cui possono essere comunicati i dati personali, le limitazioni della finalità, il periodo di conservazione e altre misure per garantire un trattamento lecito e corretto».
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3.2. Il procedimento regolatorio. Prospettive della regolazione algoritmica: ovvero rendere più efficienti le sperimentazioni mediante l’uso dei big data La proposta che qui si avanza è quella di integrare l’uso dei big data nel procedimento regolatorio per fare una disclosure regulation avvalendosi di quella che viene denominata “regolazione algoritmica”182, ovverosia utilizzare i big data e l’intelligenza artificiale, che apprende in maniera indipendente mediante algoritmi appunto, autoalimentandosi attraverso tecniche di deep learning, al fine di adottare decisioni regolatorie più efficaci, ancorchè non perfette. Ciò che si sta proponendo non è ovviamente di sostituire la macchina alla discrezionalità tecnica o amministrativa della p.a., tema al quale la dottrina amministrativistica ha già dedicato importanti contributi in punto di “decisione automatizzata”183, giacché ciò incontra i limiti dell’art. 14 co. 1 del codice della privacy184, per non tacere della nota massima di Abraham Lin182
Cfr. C. COGLIANESE e D. LEHR, Regulating by Robot: Administrative DecisionMaking in the Era of Machine Learning, cit. 183 In tema di digitalizzazione del procedimento amministrativo si v. D. MARONGIU, L’attività amministrativa informatizzata, Rimini, Maggioli, 2005; ID., Il governo dell’informatica pubblica, Napoli, ESI, 2007; P. PIRAS, L’amministrazione nell’era del diritto amministrativo elettronico, in Dir. dell’internet, 6/2006, p. 550-553; A. MASUCCI, L’istruttoria procedimentale per via telematica. Primi lineamenti, in Informatica e diritto, 2008, p. 407-422; ID., Procedimento amministrativo e nuove tecnologie, Torino, Giappichelli, 2011; F. MERLONI, A. PIOGGIA e R. SEGATORI, L’amministrazione sta cambiando?: una verifica dell’effettività dell’innovazione nella pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 2007; I. MARTÍN DELGADO, La riforma dell’amministrazione digitale: un’opportunità per ripensare la pubblica amministrazione, in S. Civitarese Matteucci e L. Torchia (a cura di) La tecnificazione, vol. IV di L. Ferrara e D. Sorace (a cura di) Studi a 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana, Firenze, Firenze University Press, 2017, p. 133-152; M. D’ANGELOSANTE, La consistenza del modello dell’amministrazione ‘invisibile’ nell’età della tecnificazione: dalla formazione delle decisioni alla responsabilità per le decisioni, ivi, p. 155-180; oltre a E. CARLONI, L’amministrazione aperta, cit. 184 A mente del quale «Nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che implichi una valutazione del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato. 2. L’interessato può opporsi ad ogni altro tipo di determinazione adottata sulla base del trattamento di cui al comma 1, ai sensi dell’articolo 7, co. 4, lett. a), salvo che la determinazione sia stata adottata in occasione della conclusione o dell’esecuzione di un contratto, in accoglimento di una proposta dell’interessato o sulla base di adeguate garanzie individuate dal presente codice o da
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coln185 «Government of the people, by the people», non “by the machines-learning algorithm”186. Si tratta invece, sulla scorta di quanto fatto per le scienze cognitive, di integrare l’apparato tecnico-conoscitivo del regolatore, nella fase istruttoria che precede l’adozione della decisione regolatoria relativa ad un obbligo di information disclosure ed in quella relativa alla sua attuazione. Vi sono infatti segmenti procedimentali routinari187 dell’attività regolatoria sia nella fase istruttoria sia in quella di enforcement che beneficerebbero dell’apporto dei big data, non ultimo per il fatto che il machine-learning è – come visto – viepiù utilizzato dalle industrie regolate, ragione che di per sé sola giustificherebbe una “presa in carico” del tema da parte dei regolatori. La proposta è di carattere metodologico e, se vogliamo, ha a che fare con ragioni di spending review. Infatti, nel nostro ordinamento esistono diverse autorità che si occupano sia di aspetti settoriali, sia di questioni trasversali relative alla disclosure regulation188. Questo “affollamento” istituzionale potrebbe essere migliorato mediante la creazione di una struttura che si occupi di effettuare gli esperimenti in favore di tutte le varie autorità ed amministrazioni deputate a fare disclosure regulation, con un evidente risparmio di costi. Così come i regolatori hanno cominciato ad integrare nel procedimento regolatorio che porta al disegno della disclosure regulation per gli aspetti di tipo cognitivo189, altrettanto essi potrebbero fare avvalendosi di tecniche di big data analytics in ausilio degli esperimenti di laboratorio e sul campo. Tali tecniche avrebbero infatti il vantaggio di “registrare” le risposte di un numero molto più consistente di individui “reali” e di farlo in tempo reale. In un’ottica di contenimento dei costi, inoltre, esse consentirebbero altresì un consistente risparmio economico ai regolatori, generato dall’essere le osservazioni oltre che vaste in numero anche automatiche e replicabili. Si prenda il caso del settore finanziario, ove la regolazione degli un provvedimento del Garante ai sensi dell’articolo 17». 185 A. LINCOLN, Discorso di Gettysburg, 19 novembre 1863. 186 Cfr. C. COGLIANESE e D. LEHR, Regulating by Robot, cit., p. 3. 187 Si pensi ad esempio, alle procedure di “notice and comment”, rispetto alle quali vi è chi ipotizza una proficua applicazione di tecniche di machine-learning: C. COGLIANESE e D. LEHR, op. cit., p. 22. 188 Su cui si v. Parte Prima, Cap. 3, para. 1.6. 189 Cfr. supra Cap. 2, para. 2.2.
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obblighi informativi è la più evoluta quanto a differenziazione e, in maniera più limitata, considerazione degli aspetti cognitivi: un’ulteriore evoluzione potrebbe prodursi attraverso l’utilizzazione dei big data. Ad esempio, tali tecniche potrebbero essere impiegate per facilitare l’attuazione delle regole di adeguatezza e di appropriatezza190, fornendo informazioni più dettagliate in ordine ai profili di rischio degli investitori (know your customer rule); ma esse consentirebbero altresì di individuare con maggiore accuratezza il prodotto più consono ai bisogni del cliente (know your product rule)191. Inoltre, l’uso dei big data potrebbe facilitare l’adempimento degli obblighi di product governance, dal momento che renderebbe più semplice definire i mercati di riferimento ed assicurare la creazione di prodotti finanziari specifici che rispondano ai bisogni, alle caratteristiche e agli obiettivi di investimento dei clienti appartenenti a tali mercati (artt. 16 e 24 Dir. MiFID II). Anche sotto il profilo dell’enforcement, l’uso dei big data presenterebbe l’indubbio vantaggio di poter “seguire” l’efficacia della disclosure regulation in un più lungo lasso di tempo192 e di fornire al regolatore informazioni circa le disclosure che effettivamente risultano più lette e più efficaci nel supportare l’autonomia decisionale dell’individuo o, nel caso dell’impiego di tecniche di nudge, che appaiono semplicemen-
190 Ex Artt. 19 Dir. MiFID I e art. 25 Dir. MiFID II, su cui v. supra al Cap. 2, para. 2.2, ma anche sub Parte Prima, Cap. 3, para. 1.2 e Parte Seconda, Cap. 1, para. 1.2. 191 Cfr. EBA-ESMA-EIOPA, Joint Committee Discussion Paper on the Use of Big Data by Financial Institutions, JC no. 86/2016, del 19.12.2016, p. 25, che fanno il caso dell’intermediario che invia una email ai neo-genitori segnalando l’occasione di investimento in un piano di accumulo per bambini. 192 K. YEUNG, Algorithmic regulation and intelligent enforcement, in M. Lodge (a cura di) Regulation scholarship in crisis?, CARR Discussion Paper no. 84, London School of Economics, Londra, 2016, p. 50-31, la quale parla di due forme possibili di enforcement attraverso i big data: (i) intelligente e (ii) preventivo. Il primo è in grado di individuare in tempo reale le eventuali violazioni delle regole ed intervenire (ad esempio, l’adempimento dei termini contrattuali di una assicurazione RC auto possono essere monitorati attraverso le scatole nere installate sulle auto e, in caso di violazione, i premi rivisti). Il secondo (ii) viene utilizzato per identificare in anticipo i soggetti a più alto rischio di violazione delle regole e sui quali è utile intervenire con ispezioni o controlli (si pensi ad esempio, alle informazioni sulla sicurezza dei prodotti alimentari, ma applicazioni sono possibili anche in ambito privatistico, come in quello della concessione dei mutui).
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te più efficaci nel modificare il comportamento dell’individuo nella direzione avuta di mira193. Per fare un esempio mutuato, ancora una volta, dal settore dei mercati finanziari ed in specie dalla disciplina della product governance di cui alla Dir. MiFID II, agli ideatori (o manufacturer) e agli intermediari si potrebbe richiedere l’impiego di tecniche big data al fine di verificare se effettivamente, nel corso di tutta la durata del rapporto, i prodotti finanziari allocati incontrino i bisogni della clientela oppure se sia necessario rivederne le caratteristiche o la strategia distributiva194. Inoltre, simili tecniche potrebbero essere impiegate dal regolatore, al fine di individuare, anche con anticipo, il rischio di frodi o abusi di mercato195. D’altro canto, l’impiego dei big data potrebbe migliorare la capacità dell’istituzione finanziaria di mantenere il portafoglio del cliente costantemente allineato con il profilo di rischio di quest’ultimo, dal momento che sarebbe più facile tenere conto delle variazioni delle situazioni di mercato e di quelle del cliente, nel frattempo intervenute, a costi molto contenuti196. In tutti i casi descritti, quello fornito dai big data sarebbe – come
193
Come evidenziato dalla stessa K. YEUNG, Hypernudge, cit., p. 122: «Big Datadriven nudges make it possible for automatic enforcement to take place dynamically, with both the standard and its execution being continuously updated and refined within a networked environment that enables real-time data feeds which, crucially, can be used to personalise algorithmic outputs». Si v. altresì S. DEGLI ESPOSTI, When Big Data meets Dataveillance: The Hidden Side of Analytics, in 12 Surveillance & Society, p. 209–225. 194 EBA-ESMA-EIOPA, Joint Committee Discussion Paper, cit. p. 25. 195 Come riportato da C. COGLIANESE e D. LEHR, op. cit., p. 15 e 17: «Agencies like the Commodity Futures Trading Commission and the Securities and Exchange Commission are taking note of these new [machine-learning] approaches to fraud detection (...); the SEC is implementing cloud computing to store and process its one billion daily records of financial market activities, often time-stamped to the microsecond, allowing the SEC to “readily perform analyses of thousands of stocks … involving 100 billion records at a time” (...) The proliferation of these efforts makes it easy to envision, for example, an extension of the SEC’s cloud computing program that would eventually allow the agency to monitor trading activities in real time, predicting in milliseconds whether each financial transaction is the result of insider trading, and then automatically stopping or reversing trades based on those predictions». 196 EBA-ESMA-EIOPA, op. ult. cit., p. 26, ove si fa il caso della compagnia assicurativa che, messa a conoscenza di un viaggio in montagna del cliente, offra in tempo reale una assicurazione specifica sui rischi vita (!).
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per gli esperimenti cognitivi197 – un supporto di tipo conoscitivo, a rafforzare l’attività istruttoria (o di enforcement) del regolatore, al fine unicamente di dare elementi ulteriori per individuare quale tra i molteplici formati delle disclosure possa risultare “in concreto” la più efficace e proporzionata. Ovviamente spetterà al regolatore la decisione finale circa l’opzione regolatoria prescelta (o l’intervento di enforcement della regola) tra le molte testate attraverso gli esperimenti condotti anche attraverso l’impiego dei big data. Dunque, in riferimento alla acquisizione di evidenze empiriche a fondamento della decisione finale, si rientrerebbe nell’ipotesi di attività amministrativa “automatizzata”198, la quale sarebbe comunque riferibile all’organo199 (ad esempio, un’autorità di regolazione) per effetto dell’imputazione (intesa quale finzione normativa attuata, nel caso di specie, a mezzo degli strumenti tecnici all’uopo apprestati, come la firma digitale o altri200). Ovviamente, come per gli esperimenti su base cognitiva, anche 197
Cfr. supra, Cap. 2, para. 2.1. I. MARTÍN DELGADO, La riforma dell’amministrazione digitale, cit., p. 146 il quale, con riferimento all’ordinamento spagnolo, ove vige una legge che espressamente ammette l'adozione da parte delle pp.aa. di decisioni automatizzate, così osserva: «Il fatto che la decisione sia stata adottata da un computer in maniera automatizzata, non implica che l’attività non venga ad essa imputata, perché la paternità dell’atto ricadrà sull’organo amministrativo che possiede la potestà e esercita la competenza. L’imputazione non smette di essere una finzione normativa: la paternità di un’attività portata a termine da una persona – o per mezzo di una applicazione informatica – integrata in un organo di una PA si attribuisce a quest’ultima in quanto così viene imposto dalla legge. Il nesso che unisce la realizzazione materiale dell’attività e l’organizzazione personificata è il titolare dell’organo amministrativo al quale è attribuita la competenza esercitata. E, oggigiorno, questo titolare è sempre una persona che, inoltre, deve soddisfare due requisiti: designazione (libera o mediante procedimento selettivo) e assunzione dell’incarico. La macchina, ossia lo strumento informatico, rimane un mezzo al servizio del titolare dell’organo». 199 In termini generali, sulla teoria organicistica: S. ROMANO, Principii di Diritto Amministrativo Italiano, Milano, Società Editrice Libraria, 1912; S. PUGLIATTI, voce Finzione, in Enc. dir., vol. XVII, Milano, Giuffrè, 1968; M.S. GIANNINI, voce Organi (teoria generale), in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, 1981; G. MARONGIU, voce Organo e ufficio, in Enc. giur. Treccani, XII, 1990; F.G. SCOCA, Le amministrazioni come operatori giuridici, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco e F.G. Scoca (a cura di) Diritto amministrativo, Bologna, Monduzzi, 2005, p. 303 ss. 200 Per una disamina puntuale delle quali si v. M. D’ANGELOSANTE, La consistenza, cit., p. 169-172 e A.G. OROFINO, L’esternazione informatica degli atti amministrativi, in S. Civitarese Matteucci e L. Torchia (a cura di) La tecnificazione, cit., p. 181-200. 198
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dell’impiego di tecniche big data e dei relativi algoritmi si dovrebbe dare conto nella motivazione della decisione regolatoria finale201. Ciò al fine di assicurare la più ampia trasparenza e accountability dell’operato del regolatore. Un diverso tipo di problematiche solleva invece l’impiego di algoritmi di tipo predittivo nelle disclosure attinenti ad esempio al traffico urbano o all’informazione meteorologica. In questi casi la p.a. potrebbe diramare informazioni “mirate” e personalizzate inviando messaggi ai viaggiatori e deviando il traffico dalle zone interessate da possibili esondazioni di fiumi con anticipo rispetto all’evento previsto, basandosi sulle previsioni fornite dai big data. In tali ipotesi occorre considerare il rischio che l’algoritmo, come già evidenziato, possa errare nelle predizioni e condurre pertanto a decisioni amministrative (nell’esempio, la chiusura al traffico di una strada), che potrebbero rivelarsi sbagliate202 e per taluni soggetti (si pensi ai titolari di attività commerciali presenti nella medesima) addirittura dannose. Sorge allora il problema di stabilire se quella condotta attraverso l’uso dei big data possa considerarsi una attività istruttoria propedeutica alla decisione sufficiente oppure no. In altri termini, potrebbe dubitarsi che l’elemento conoscitivo inferenziale da cui si ricava la conoscenza presunta e preventiva che in quella zona si verificherà una esondazione sia effettivamente un elemento di fatto sufficientemente accertato (al pari di una ispezione in loco). Escludendo il caso – per il momento ancora solo futuribile – che la decisione di chiusura al traffico della strada possa avvenire in maniera completamente automatizzata203, senza cioè alcun intervento umano di apprezzamento e di scelta, vi è chi dubita che gli accertamenti di fatti richiedenti attività quali sopralluoghi o ispezioni (come potrebbe essere il caso del rischio esondazione di un fiume) possano essere riproducibili da sistemi automatizzati204. 201
Cfr. supra note 43 e 44. Sul punto si v. A. MASUCCI, Procedimento amministrativo, cit., p. 111. 203 Tra i moltissimi esempi di possibili applicazioni di decisioni regolatorie automatizzate citati da C. COGLIANESE e D. LEHR, op. cit., l’unico caso a regime di rulemaking completamente basato su machine-learning è quello dei semafori di Los Angeles, i quali sono alimentati da sistemi di big data che decidono automaticamente, in base all’analisi dei dati ambientali, quando far scattare il “rosso” o il “verde” per ottimizzare il traffico (p. 12). 204 M. D’ANGELOSANTE, La consistenza, cit., p. 161 e D. SORACE, Diritto delle 202
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Invero, come per gli accertamenti fiscali, la circostanza che la conoscenza inferenziale del fatto, in un ambiente big data, sia basata su migliaia se non milioni di dati, potrebbe costituire motivo per un ragionevole affidamento in ordine al verificarsi dello stesso. V’è però motivo per ritenere che ben farebbe l’amministrazione che intendesse avvalersi di siffatte tecniche, di dotarsi di regole interne per l’uso dei big data a fini di disclosure e che prevedano ad esempio, l’attivazione di segnalazioni (sotto forma di indicatori di anomalia o alert) che richiedono ulteriori accertamenti ispettivi205. Un ulteriore sviluppo dell’uso che attualmente fanno dell’ICT le pubbliche amministrazioni al fine di «ottimizzare l’attività di conoscenza propedeutica alla decisione»206, potrebbe essere un loro impiego per incrementare la velocità e l’accesso alle proprie prassi amministrative e dunque, ad esempio, alle scelte che una Autorità indipendente ha adottato in passato in casi simili. Ma oltre che a supporto “interno” della decisione amministrativa, si potrebbe immaginare un impiego della tecnologia big data a beneficio “esterno”, ovverosia nei rapporti tra amministrazione e cittadino. In tal senso, un ulteriore esempio di disclosure regulation algoritmica che andrebbe a vantaggio dei consumatori, potrebbe essere l’uso di un algoritmo che si potrebbe elaborare mediante tecniche di data mining, cioè di estrazione dell’informazione rilevante da una congerie di dati pubblici già in possesso dell’amministrazione e già resi pubblici, quali potrebbero essere, ad esempio, quelli relativi alle decisioni adottate dall’Agcm e dai giudici in materia di pratiche commerciali scorrette. Sulla base di tali dati si potrebbe costruire – grazie all’ausilio di un algoritmo opportunamente disegnato e reso pubblico – un “rating di concorrenzialità” delle imprese o un “ranking di imprese più consumer friendly”, opportunamente “navigabile” per tipo di servizio, utenza, ecc. Simili graduatorie sarebbero prive di valore giuridico (e dunque anche di conseguenze giuridiche), ma segnalerebbero al mercato e ai consumatori la virtuosità delle stesse imprese, avendo il duplice vantaggio di: (i) provenire da una fonte certamente “terza”, ed (ii) essere amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 186. 205 È quanto avviene ad esempio, nella città di Chicago, dove le decisioni relative al calendario delle ispezioni igieniche nei ristoranti sono basate su tecniche big data: C. COGLIANESE e D. LEHR, op. cit., p. 20. 206 Così M. D’ANGELOSANTE, La consistenza, cit., p. 160.
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“mirate” e personalizzate sulla base degli interessi dei consumatori, dal momento che sarebbero, appunto, “navigabili” da parte degli utenti. In tal modo, altresì, si potrebbero superare molte delle obiezioni sollevate nei confronti degli “intermediari informativi”, quali ad esempio, i rischi di manipolazione delle informazioni e di non trasparenza della fonte dei dati delle graduatorie207.
3.3. Il coté dell’individuo. Riequilibrare le posizioni contrattuali mediante la “portabilità” dei dati personali e prospettive delle disclosure “personalizzate” Infine, un’ultima serie di proposte riguarda le prospettive di riforma della regolazione degli obblighi informativi viste dal lato degli individui. Qui, come abbiamo avuto modo di osservare208, si assiste già da tempo in Europa ad un cambio di paradigma con il passaggio da un modello di stretta tutela del consumatore, considerato icasticamente parte debole, ad uno in cui il consumatore si fa parte attiva del mercato interno, pronto a coglierne i benefici ovunque essi si presentino209. Difatti, proprio la proliferazione degli obblighi di information disclosure è indicativa di un cambiamento qualitativo del diritto europeo: «consistente nell’ascesa del “diritto dei consumatori” e nel declino del “diritto di tutela dei consumatori” che era incentrato sulla protezione dei consumatori vulnerabili»210. Ciò che occorre rimarcare è che a differenza di quelle statunitensi le politiche europee non fanno discendere dagli studi sui limiti cognitivi dei consumatori l’abdicazione dell’intervento pubblico e della regolazione. Al contrario, esse investono sforzi (basti ricordare l’unità specializzata del Joint Research Center, i consumer testing in ambito finanziario, gli Impact Assessment su base cognitiva della Direttiva sul fumo211, e sulla Direttiva Consumatori) nell’individuazione delle forme 207
Si v. supra nell’Introduzione e Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.2. Cfr. Parte Prima, Cap. 2, para. 2.4. 209 Cfr. Parte Prima, Cap. 2, para. 2.4. 210 C. BUSCH, The Future of Pre-contractual Information Duties: From Behavioural Insights to Big Data, in C. Twigg-Flesner (a cura di) Research Handbook on EU Consumer and Contract Law, Cheltenham, Edward Elgar, 2016, p. 221-240. 211 Si pensi al caso delle immagini shock (o pictorial warning) sui pacchetti dei prodotti da fumo di cui alla Dir. 2014/40/EU il cui impact assessment, nella sezione dedicata alla comparazione delle opzioni regolatorie relative alla disclosure da apporre 208
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di vulnerabilità e, conseguentemente, si impegnano nella ricerca di nuovi e più sofisticati strumenti regolatori su basi cognitiva per farvi fronte. Anche qui, tuttavia, occorre fugare un dubbio. Il consumatore voluto dal diritto europeo è delegato da questo ad essere parte attiva del mercato, non può ma deve liberamente scegliere212. Ed in questa libertà si annidano tutte le sue debolezze e le sue declinazioni di consumatore “frammentato” (vulnerabile, “confidente” o responsabile213). Per dirla con una nota vivida e pungente di Micklitz: «il consumatore è stato sfiancato dal peso normativo e politico che gli ha imposto di comportarsi come un buon e attivo agente di mercato, come un circospetto ed attento cliente, di comparare i prezzi e di essere pronto a cambiare idea mentre è alla ricerca della prossima e miglior offerta»214. Normale che gli obblighi informativi tradizionali fatichino a stare
sui pacchetti di sigarette, viene condotta tenendo in considerazione gli studi cognitivi sull’impatto delle differenti forme grafiche dei messaggi e delle immagini sui fumatori attuali e potenziali, specie giovani e giovanissimi (§5.3): cfr. Commissione europea, Impact assessment Accompanying the Proposal for a Directive on the approximation of the laws, regulations and administrative provisions of the Member States concerning the manufacture, presentation and sale of tobacco and related products, SWD(2012) 452 fin., del 19.12.2012, spec. p. 86-96. 212 Qui si v. le interessanti considerazioni di C.R. SUNSTEIN, Choosing Not to Choose, in 74 Duke L. J., 1/2014, p. 1-52, il quale mette a confronto le due strategie regolatorie della regola di default (il regolatore sceglie e il regolato può esercitare l’optout) con l’active choosing (il regolatore obbliga il regolato ad esprimere una scelta). Dinanzi ai casi in cui il soggetto regolato non vuole esprimere una scelta (per pigrizia, per disinteresse, per mancanza di informazioni, ecc.), l’active coosing si trasforma in paternalismo illibertario. Diviene invece ammissibile, in quanto paternalismo libertario, se accompagnato dalla possibilità di scegliere una opzione di default, in cui la scelta viene delegata ad un’istituzione pubblica o privata individuata dal regolatore. 213 H.-U. MICKLITZ ET AL., The Consumer – Trusting, Vulnerable or Responsible? Plea for a Differentiated Strategy in Consumer Policy, Statement by the Scientific Advisory Board on Consumer and Food Policies at the Federal Ministry of Food, Agriculture and Consumer Protection af Germany (BMELV), 2010. 214 H.-W. MICKILITZ, Il consumatore: mercatizzato, cit., p. 886 (enfasi aggiunta). Micklitz è fra quanti propongono che alla strategia basata sugli obblighi informativi si affianchi una alternativa regolatoria basata su previsioni sostanziali mirate ad offrire una più adeguata tutela dei consumatori vulnerabili (come diritti al ripensamento, garanzie, verifiche giudiziarie di termini contrattuali un fair); così come pure suggerisce di intervenire a favore di una costituzionalizzazione, a livello di diritto europeo, della posizione del consumatore.
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al passo con un consumatore sfiancato e a vincere nella concorrenza “per l’attenzione” di un individuo distratto dalle continue offerte mirate e dai servizi personalizzati (grazie ai big data). Le esperienze di altri paesi hanno quindi elaborato risposte regolatorie innovative, la più nota delle quali è probabilmente la cd. “smart disclosure”. L’impianto teorico che ne è alla base è fornito da alcuni studi di Oren Bar Gill215 il quale dimostra, dati empirici alla mano, che il motivo per cui i consumatori errano nelle scelte gravate da complessità (ad esempio, scelgono il piano telefonico o il contratto di mutuo sbagliato) in parte dipende della laboriosità in sé del servizio o prodotto, ma specialmente è dovuto al fatto che manca loro l’informazione su quale sia il contratto più adatto alle loro esigenze. E ciò, a sua volta, dipende dal fatto che difetta loro la product use information, cioè i consumatori ignorano come usano un bene o un servizio. Essi non sanno, ad esempio, quanto useranno il loro telefono, o se saranno dei buoni pagatori, sia perchè ciò richiederebbe un’accurata predizione circa il loro comportamento futuro, sia perchè manca loro una precisa informazione circa l’utilizzo passato che hanno fatto del telefono. Ciò li porterà ad esempio, a sovrastimare o a sottostimare la loro capacità di ripagare il mutuo o di predire l’utilizzo futuro del telefono; li porterà cioè ad essere “overconfident”. Ancora una volta, gli studiosi di teoria della regolazione si sono avvalsi di questi esercizi empirici proponendo l’utilizzo di approcci regolatori basati sulla “individual use disclosure” o “smart disclosure”216. L’idea è quella di consentire al consumatore di compiere i propri acquisti non limitandosi all’apprezzamento delle caratteristiche del bene o del servizio ed al suo prezzo, ma anche delle informazioni sull’utilizzo che egli stesso ha fatto in passato di quello stesso bene o servizio o di beni e servizi similari. I propri dati di utilizzo di un bene o servizio rappresentano, infatti, la migliore proxy che un consumatore abbia a disposizione per sceglie215 O. BAR-GILL e F. FERRARI, Informing Consumers about Themselves, in A. Ogus e W.H. van Boom (a cura di) Juxtaposing Autonomy and Paternalism in Private Law, Oxford, Hart Publ., 2011, p. 175-211; O. BAR-GILL e O. BOARD, Product-Use Information and the Limits of Voluntary Disclosure, in 14 Am. L. & Econ. Rev., 1/2012, p. 235-270. 216 Anche Sunstein e Thaler nel già citato libro Nudge propongono l’adozione di strategie di “smart disclosure”.
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re tra le molte offerte presenti su un mercato. Disporre di tali dati in un formato che sia leggibile da parte di siti ed applicazioni di confronto di offerte217, gli consentirebbe di selezionare in maniera automatica e con risparmio di tempo e costi di ricerca l’opzione a lui più consona. Esempi di tal fatta esistono già negli Stati uniti (il noto blue botton Mydata218) e nel Regno Unito (con l’equivalente Midata219 applicabile già nel settore energetico220), ma ancora non si è giunti a configurare l’ipotesi di una regola di default obbligatoria che imponga a tutti gli operatori (o almeno a quelli che usano dati elettronici) di mettere a disposizione del consumatore i dati raccolti su come loro utilizzano un bene o servizio. Muovendo da queste esperienze, Busch è giunto a proporre di usare i big data per disegnare delle “disclosure personalizzate” basate sulle scelte passate dei consumatori e sui comportamenti di consumatori con profili similari. In tal modo egli propone, sulla scorta di quanto suggerito da Porat e Strahilevitz221, di «selezionare l’esatta informazione da mostrare alla giusta persona estrapolandola dalle sue passate esperienze». L’uso dei big data consente infatti di risolvere il problema 217
E. BRODI, Abitudini e preferenze di consumo Nuove forme di disclosure per la tutela del consumatore, in Merc. conc. reg., 2/2012, p. 393-420; F. DI PORTO, Protezione ed empowerment, cit.; E.M. TSCHERNER, op. cit., p. 150; R.H. THALER e W. TUCKER, Smarter Information, Smarter Consumers, in 3 Harv. Bus. Rev., genn.-febb., 2013, ad p. 3. 218 Cfr. EXECUTIVE OFFICE OF THE PRESIDENT NATIONAL SCIENCE AND TECHNOLOGY COUNCIL, Smart Disclosure and Consumer Decision Making: Report of the Task Force on Smart Disclosure, 30.5.2013. 219 Cfr. BEHAVIOURAL INSIGHTS TEAM, Midata 2012 review and consultation, 22.7.2012, p. 10: «Giving consumers access to data about their previous consumption/transactions, and thus their purchasing and consumption behaviour, can help them make better decisions in the future». 220 Si v. D. HALPERN, Inside the nudge unit, cit., p. 157-160. In particolare, nel Regno Unito, con l’Enterprise Act del 2013 è stato attribuito al Secretary of State for Business il potere di obbligare le imprese a fornire ai consumatori l’accesso ai propri dati di consumo in un “machine-readable format”. Tale obbligo, definito “midata clause”, necessita, per divenire operativo, di un intervento regolamentare del Ministro. Così, nel settore energetico, i principali operatori sono stati assoggettati ad un obbligo di stampare sulle bollette un codice QR nel quale sono presenti tutti i dati relativi ai consumatori. Con l’aiuto di specifiche interfacce e di appositi siti di comparazione, essi saranno in grado di utilizzare tali dati per comparare le offerte presenti sul mercato, oppure potranno avvalersi di siti che, per loro conto, faranno “switching automatico” alla scadenza dei loro contratti, ove si presentassero offerte migliori. 221 Si v. supra al para. 3.1.
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del variare nel tempo delle preferenze dei consumatori, potendo mutare il tipo di disclosure al cambiare delle condizioni ambientali (ad esempio, inserendo nell’algoritmo regolatorio un apposito sistema di feedback, esso sarà in grado di rilevare se l’individuo svilupperà una intolleranza al glutine e, di conseguenza, trasformerà gli avvisi alimentari). Per la traduzione regolatoria ed affinchè non si risolva in una regola ad personam, l’Autore propone di individuare – in ciò avvicinandosi al modello della “regolazione differenziata” – due livelli di disclosure: il primo semplificato e “personalizzato”, fornito dall’impresa al consumatore di default; il secondo, “spersonalizzato” e dettagliato, da fornirsi solo su richiesta. A differenza del modello da noi proposto, tuttavia, Busch ritiene che anche la scelta del consumatore su quale livello di disclosure posizionarsi possa configurarsi come “dinamica” e dunque inferibile dalle sue scelte abituali; mentre nel nostro modello di regolazione differenziata, disclosure regulation semplificate e disclosure dettagliate dovrebbero sempre combinarsi. Affinché la disclosure personalizzata divisata da Busch possa funzionare è necessario: in primo luogo, che il consumatore presti il proprio consenso, ai sensi dell’art. 22 del Reg. 2016/679, ad «essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona»222. In secondo luogo, è necessario che l’impresa si avvalga di tecniche big data per vendere i propri prodotti o servizi (fare marketing personalizzato, profilare i clienti, ecc.); il che implica che l’impresa che in ipotesi decidesse, pur potendolo fare, di non avvalersi di tali tecnologie, resterebbe assoggettata ai tradizionali obblighi informativi, compromettendo di fatto il successo di tutto l’impianto della riforma. In terzo luogo, perché il modello funzioni è indispensabile che l’impresa usi i big data – e dunque sviluppi algoritmi appositi – anche per adempiere agli obblighi di disclosure personalizzati: quanto più dettagliate saranno le profilazioni fatte a fini di marketing, tanto più “personalizzati” (ed efficaci) saranno gli avvisi e le informazioni da fornire. Infine, la proposta avrebbe necessariamente delle ripercussioni anche sui poteri di enforcement del regolatore, dal momento che diventerebbe essenziale dotare questi (ed anche il giudice) delle capacità
222
Su cui si rinvia alle considerazioni svolte nella Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.3.
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tecniche di controllare l’adempimento, da parte delle imprese, degli obblighi di disclosure; cosa che, nel caso che qui si discute, potrebbe risultare alquanto complessa, dato che si tratterebbe di verificare la correttezza degli algoritmi definiti dalle imprese. Nel nostro ordinamento, obblighi di messa a disposizione agli individui dei dati relativi ai propri “consumi” passati esistono in almeno tre settori: quello delle utilities223 e quello dei giochi. In quest’ultimo, al fine di contrastare la ludopatia, si impone ai gestori delle piattaforme di memorizzare e tracciare i dati relativi alle sessioni di gioco per almeno cinque anni224 e di rendere disponibili al giocatore in qualsiasi momento «l’elenco delle sessioni di gioco nonché dei colpi cui lo stesso ha partecipato, con l’indicazione del codice univoco del relativo diritto di partecipazione e del codice univoco attribuito dal concessionario di identificazione dei singoli colpi, del prezzo della partecipazione, anche ai singoli colpi, del risultato conseguito dal giocatore e dell’avvenuto accredito dell’eventuale vincita al conto di gioco o alla posta»225. La possibilità di introdurre forme di “smart disclosure” ad ampio spettro, ossia a gravare sui fornitori di beni e servizi (escludendo almeno le PMI e le imprese che non si avvalgono di tecnologie informatiche), e forme di disclosure “personalizzate”, invece, non potrebbe che derivare dalla applicazione (ed esercizio) del “diritto alla portabilità” dei dati personali, previsto dall’art. 20 del più volte richiamato Reg. generale sulla protezione dei dati n. 2016/679. Un diritto, questo, che andrebbe ovviamente declinato tenendo conto della nuova realtà commerciale risultante dalla rivoluzione big data. Esso dovrebbe, almeno in linea teorica, consentire al consumatore di avere un maggiore controllo sulle “tracce digitali” che lascia dietro di sé226. L’art. 20 dovrebbe, cioè, rappresentare lo strumento adatto al 223
Cfr. Parte Prima, Cap. 3, Para. 1.3. Cfr. art. 3, co. 3, Decreto Mef sui giochi di abilità del 10.1.2011, ai sensi del primo: «La piattaforma di gioco garantisce la memorizzazione e la tracciabilità dei dati relativi alle sessioni di gioco svolte per un periodo minimo di cinque anni ed adotta soluzioni che facilitano l’accesso alle informazioni, per l’esercizio dell’azione di vigilanza e di controllo da parte di AAMS». 225 Così art. 9, co. 2, lett. a) del Decreto Mef sui giochi di abilità del 10.1.2011. 226 Come si legge nel cons. 68 del Reg. UE 2016/679: «Per rafforzare ulteriormente il controllo sui propri dati è opportuno anche che l’interessato abbia il diritto, qualora i dati personali siano trattati con mezzi automatizzati, di ricevere in un formato strutturato, di uso comune, leggibile da dispositivo automatico e interoperabile i dati personali che lo riguardano che abbia fornito a un titolare del trattamento e di tra224
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fine di riequilibrare per via regolatoria le relazioni intersoggettive tra consumatori ed imprese227 persino in un ambiente big data, in quanto riconosce all’individuo il diritto di ricevere i propri dati personali in formato leggibile e di trasferirli tra diversi sistemi e applicazioni, impedendo al titolare del trattamento di opporvisi. Sennonché, rispetto alla prima formulazione della norma, per come presentata nella proposta di Regolamento del 2012228, ed anche rispetto alle aspettative suscitate dal già menzionato Parere n. 7/2015 del Garante Europeo della protezione dei dati229, l’attuale art. 20 sembra sollevare più di una questione. Esso, in particolare, al §1 riconosce agli interessati «il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati personali che lo riguardano forniti a un titolare del trattamento e (...) il diritto di trasmettere tali dati a un altro titolare del trattamento senza impedimenti da parte del titolare del trattamento cui li ha forniti». E ciò a condizione che il trattamento si basi sul consenso prestato per una o più specifiche finalità o sulla base di un contratto (lett. a), e il trattamento sia effettuato con mezzi automatizzati (lett. b). Al §2 esso precisa che, nell’esercizio dei diritti (si noti, al plurale) «relativi alla portabilità dei dati», l’interessato «ha il diritto di ottenere la trasmissione diretta dei dati personali da un titolare del trattamento
smetterli a un altro titolare del trattamento. È opportuno incoraggiare i titolari del trattamento a sviluppare formati interoperabili che consentano la portabilità dei dati. Tale diritto dovrebbe applicarsi qualora l’interessato abbia fornito i dati personali sulla base del proprio consenso o se il trattamento è necessario per l’esecuzione di un contratto». 227 Cfr., in riferimento agli obblighi informativi nel settore finanziario, anche considerando gli apporti delle innovazioni tecnologiche, F. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II (tra aspettative degli investitori e realtà normativa), in Riv. Trim. Dir. Econ., 2/2015, ad p. 73. 228 La vicenda è ben ricostruita da S. FAMILIARI, Il diritto alla portabilità dei dati: origine e prospettive per il futuro, in Ciberspazio e dir., 3/2016, pp. 403-435, il quale descrive le varie stesure dell’attuale art. 20 (già art. 18) del Reg. 2016/679, sottolineando come mentre nella proposta iniziale alla Commissione europea era riconosciuto il potere di definire standard tecnici uniformi che i controller avrebbero dovuto utilizzare per la portabilità dei dati, «eliminando così le barriere di ordine tecnologico (cd. lockin)», nella stesura finale tale potere è venuto meno (p. 408). 229 Per una discussione dei quale si rinvia a quanto riportato nella Parte Seconda, Cap. 3, Para. 3.3.
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all’altro», ma si specifica che ciò possa avvenire… «se tecnicamente fattibile»230. Pertanto, se nel §1 il diritto di trasferire i propri dati da un “titolare del trattamento” (lèggasi: una applicazione o una piattaforma) ad un altro (facendolo materialmente da sé) deve avvenire “senza impedimenti” da parte del primo; nel §2 il diritto di ottenere “la trasmissione diretta” dei dati da un titolare del trattamento ad un altro sussiste “se tecnicamente possibile” («l’interessato ha il diritto...se tecnicamente possibile»). La formulazione della disposizione dà adito a qualche perplessità, dal momento che sembra configurare quello alla “trasmissione diretta” come “uno dei” diritti rientranti nel “fascio di diritti” alla portabilità dei dati («nell’esercitare i propri diritti relativi alla portabilità..»). Se così è, come sembrerebbe dedursi dal dettato della norma, allora non si comprende come mai la portabilità possa tollerare una limitazione («se tecnicamente possibile») quando la trasferibilità è posta a carico dell’impresa (è cioè una trasferibilità diretta); mentre è fatta “senza impedimenti” dalla stessa impresa (ed è dunque “tecnicamente possibile”) se è posta a carico dell’individuo, sul quale graverà poi l’onere e il costo di trasferire i dati ricevuti ad altra applicazione (cioè ad altro “titolare del trattamento”). Lasciando per il momento da parte la questione della trasferibilità diretta da una applicazione ad altra dei dati personali, l’introduzione del diritto alla portabilità va comunque salutata con favore, dal momento che essa riconosce come diritto esercitabile nei confronti di qualsiasi impresa231 quello di ottenere e riutilizzare i propri dati perso-
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Per completezza, ma senza dedicarvisi per ragioni di spazio, si riportano anche i §§ 3 e 4 dell’art. 20: «3. L’esercizio del diritto di cui al §1 del presente articolo lascia impregiudicato l’art. 17 [i.e. diritto all’oblio]. Tale diritto non si applica al trattamento necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; 4. Il diritto (al singolare, sic!) di cui al § 1 non deve ledere i diritti e le libertà altrui». 231 Basti pensare che in una delle tante versioni dell’art. 20, prima di approdare alla definitiva, ed in specie, nella versione del 22 ottobre 2013, la portabilità «deve essere [meramente] incoraggiata (non obbligata)»: si ha «di fatto, uno svuotamento del potere del cittadino di ottenere la portabilità dei dati (...) da una versione consumer oriented [si passa] a una (...) business oriented»: così S. FAMILIARI, Il diritto alla portabilità dei dati, cit., ad p. 413.
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nali trasmessi in modo non sempre consapevole in occasione dell’accesso a piattaforme o ad “app” più o meno “gratuite”232. Come per gli omologhi strumenti utilizzati nel Regno Unito e negli Stati Uniti (i già menzionati Midata e MyData) anche la portabilità dei dati dovrebbe, ove attuata in modo rigoroso e consumer-oriented, ridurre i rischi di lock-in del consumatore, dal momento che dovrebbe consentirgli di migrare più agevolmente da un servizio ad un altro (ad esempio, per cambiare social network). Come chiarito nelle Guidelines sulla portabilità, infatti, l’esercizio di tale diritto dovrebbe potersi fare in modo tecnicamente molto semplice233. Inoltre, esso non pregiudica l’esercizio di altri diritti (come ad esempio, quello all’oblio, o all’accesso e alla rettifica234); per tale ragione è previsto che la portabilità non comporti l’automatica cancellazione dei dati dal sistema del titolare del trattamento. Venendo al contenuto del diritto alla portabilità: quali sono i dati che in concreto il consumatore può trasferire? Nel contesto di contratti personalizzati frutto di tecniche di big data analytics, quali dati “riguardano il soggetto e sono forniti dallo stesso” e dunque rientrano nel diritto e quali no? La profilatura che è stata realizzata dall’impresa grazie anche alle “tracce digitali” che il consumatore ha lasciato più o meno distrattamente dietro di sé è trasferibile? O detto in altri termini: come viene ripartita la “rendita” da big data? Le Guidelines forniscono alcune prime indicazioni in merito235, 232 Sul tema dei servizi e delle applicazioni “gratuite” pagate con il “prezzo” dei propri dati personali e a costo di condizioni di privacy molto permissive si v. Parte Seconda, Cap. 3, Para. 3.3. 233 Cfr. ARTICLE 29 DATA PROTECTION WORKING PARTY, 16/EN WP 242, Guidelines on the right to data portability, del 13.12.2016: «first, data controllers should offer a direct download opportunity for the data subject and, second, they should allow data subjects to directly transmit the data to another data controller». L’Article 29 Data Protection Working Party è un organo consultivo, composto dai rappresentanti delle autorità per la privacy nazionali, dal Garante Europeo per la Protezione dei Dati (EDPS) e dalla Commissione europea. Esso fornisce pareri alla Commissione sui temi connessi alla protezione dei dati e promuove l’applicazione uniforme del diritto europeo sulla protezione dei dati negli Stati membri (ed in Norvegia, Liechtenstein e Islanda). Funziona come una rete di autorità per la collaborazione inter-istituzionale. 234 Si v. Parte Seconda, Cap. 3, Para. 3.3. 235 Le Guidelines citate sono aperte per la consultazione e i commenti raccolti sono, al momento di licenziare questo scritto (febbraio 2017), in via di elaborazione. È verosimile attendersi che alcuni nodi tecnici saranno ulteriormente rivisti rispetto a quanto qui narrato.
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chiarendo che l’accezione di “dato concernente l’interessato” debba intendersi in senso ampio, sì da ricomprendere anche elementi spuri, appartenenti a soggetti terzi; ad esempio, si cita il caso dei dati dei conti bancari (che contengono le transazioni eseguite con esercizi commerciali) o delle chiamate telefoniche (ch contengono anche i numeri di telefoni di terzi). Tutti questi dati sono oggetto di portabilità e dunque sotto il controllo dell’individuo che potrà riutilizzarli. Più interessante è la definizione di “fornito dal soggetto”, perché in questo caso si chiarisce che vi rientrano sia i dati forniti consapevolmente e attivamente dal soggetto (come ad esempio, l’indirizzo, la user name, l’età) o attraverso formulari online, sia quelli generati e raccolti dalle attività degli utilizzatori, attraverso l’uso di servizi o apparecchi (i.e. le nostre “tracce” digitali). Non vi rientrano, invece, i dati elaborati attraverso tecniche di big data: le Guidelines infatti escludono che possano essere oggetto di portabilità i dati personali che sono “derivati o inferiti dai dati forniti dai soggetti, e che sono creati dal controller”, come ad esempio, il merito di credito o lo stato di salute di un individuo. Sebbene questi dati siano derivati da dati forniti dall’individuo (ad esempio, dalla sua attività fisica) non sono essi stessi dati del primo tipo e, dunque, ad essi non si applicherà la portabilità. Tuttavia, l’individuo potrà sempre esercitare i diritti di cui all’art. 22 §§1 e 4 (essere informato dell’esistenza di una decisione automatizzata e chiedere ragione della logica utilizzata) e dell’art. 15 (diritto di accesso). Quanto alla portabilità diretta (da un’applicazione ad un’altra), la sua portata, come detto, è stata fortemente ridimensionata rispetto alla formulazione iniziale del Regolamento236, essendo la stessa esercitabile «se tecnicamente possibile». Né la Commissione né il Garante europeo – la prima per carenza di potere, il secondo per “self restraint” – hanno infatti stabilito standard uniformi per il formato dei dati, atti a consentire una più facile migrazione degli stessi da un sistema ad un altro. Come si vede, la portata innovativa e dirompente pensata per la porta236 È infatti venuto meno il potere della Commissione europea di fissare definire autoritativamente gli standard tecnici uniformi per consentire l’interoperabilità necessaria a far migrare i dati da una piattaforma all’altra: S. FAMILIARI, op. cit., p. 418. Nelle Guidelines si esclude espressamente che il Garante europeo possa «adottare specifiche raccomandazioni sul formato dei dati personali da fornire», benché l’interoperabilità tra le applicazioni sia indicata come un «risultato sperato» (p. 12, traduzione nostra).
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bilità diretta ha perso gran parte del suo vigore, potendo essere nei fatti limitata da ragioni tecniche che, ove pure non opposte dal primo controller, potrebbero riemergere successivamente, nel momento in cui avverrà la migrazione ad altro controller, a causa dell’uso di un diverso standard. Da quanto detto emerge un limite intrinseco all’istituto della portabilità a servire quale strumento di effettivo riequilibrio delle posizioni di forza sul mercato tra consumatori e imprese ed in ordine al potere di controllo dell’individuo sui propri dati. Né del resto soluzioni come i “data store” o “data vault” proposte nel più volte citato Parere n. 7/2015 del Garante europeo237, sono parse soluzioni tecnicamente percorribili da parte dell’industria. Eppure ciò non esclude completamente la percorribilità di forme di regolazione differenziata e financo “personalizzata” degli obblighi di disclosure, persino nel nostro ordinamento. A siffatta conclusione si giunge sulla base delle seguenti considerazioni. In primo luogo, non si ritiene che il modello di personalised disclosure “à la” Busch sia percorribile nel nostro ordinamento atteso che esso, come detto, implicherebbe l’imposizione a carico delle imprese di due obblighi, risultando così fortemente limitativo della libertà di impresa: (i) un primo obbligo di avvalersi di tecniche marketing (generalmente inteso) basate sui big data; (ii) un secondo obbligo, che potrebbe risultare assai gravoso, di dotarsi di un algoritmo per sviluppare delle disclosure personalizzate (cioè mirate e dinamiche) per i propri clienti e specifiche per ciascun tipo di rischio da segnalare. Ad un risultato sostanzialmente equivalente si può pervenire per altra via, meno lesiva della libertà di impresa e più rispettosa del principio di proporzionalità. Se si ammette, come suggerito nel paragrafo che precede, che il regolatore possa, nell’ambito del procedimento re237 Si v. Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.3, nota 192: il Parere n. 7/2015 Meeting the challenges of big data del Garante Europeo per la protezione dei dati proponeva di dare agli individui un miglior controllo sui propri dati, suggerendo l’uso di spazi personali di dati, detti “data store” o “data vault”. Questi erano pensati come «big data personali, continuamente aggiornati in tempo reale da tutti i device connessi». Ciò che aveva in mente il Garante europeo era un vero e proprio «cambiamento di modelli di business, da uno in cui le imprese sempre più tracciano il comportamento degli individui online ed offline senza che questi lo sappiano e senza il loro consenso, ad uno in cui gli individui gestiscono la propria informazione per i propri scopi, e condividono parte di questa informazione quando vogliono, con chi vogliono, ad un giusto valore e con adeguate garanzie» (p. 14) (traduzione nostra).
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PARTE TERZA
golatorio, avvalersi anche di tecniche big data nel condurre gli esperimenti per testare ex ante l’efficacia di diverse forme di disclosure, allora potrebbero anche considerarsi forme di coinvolgimento degli operatori nel medesimo procedimento. Gli operatori che si avvalgono dei big data per fare marketing sono anche coloro che dispongono del know how per sviluppare le migliori forme di comunicazione “mirata” ed efficace. La loro partecipazione al procedimento regolatorio, in questo caso, qualificherebbe i tradizionali strumenti delle consultazioni, affiancandosi a quelli più sofisticati come il notice and comment, le audizioni, i questionari, ecc. per irrobustire l’apparato conoscitivo del regolatore, finalizzato alla selezione del tipo di disclosure personalizzata più efficace. Questa “condivisione” di expertise tra regolatore e soggetti regolati238, potrebbe avere una connotazione sufficientemente regolare, così da poter mantenere gli avvisi sempre aggiornati e dunque efficaci quanto a probabilità di essere letti e comprensione da parte dei consumatori, giacché sono, tra tutte le forme di disclosure viste, quelle più differenziate ed individualizzate. Sul piano organizzativo, le imprese che già impiegano big data a fini di marketing e che decidono di aderire al programma di disclosure personalizzate, sono anche le stesse che dispongono dei dati profilati dei consumatori e dunque quelle che sono in grado di proporre gli avvisi istantanei ai consumatori. Ad esse spetterà dunque raccogliere il consenso per l’adesione alle disclosure personalizzate, rendendo edotto il consumatore della possibilità di optare per un regime di disclosure indifferenziata. Dal lato dei consumatori, affinché questi possano ricevere le disclosure personalizzate e mirate da parte delle imprese, nel nostro ordinamento occorrerebbe che i cittadini prestassero il proprio consenso, ai sensi dell’art. 22 Reg. 2016/679, ad essere assoggettati a decisioni basate sul trattamento automatizzato dei dati, ferma restando la possibilità di optare per le disclosure dettagliate ed impersonali. Chiaramente dovrebbe trattarsi di un consenso non occasionale o raccolto inconsapevolmente, ma di un consenso “effettivo”, esplicito di cui sia possibile 238
Già in fase di sperimentazione, sebbene con vistose varianti rispetto a quanto si sta qui prospettando, da parte del “Consumer Financial Protection Bureau” statunitense cfr. L.E. WILLIS, The Consumer Financial Protection Bureau and the Quest for Consumer Comprehension, in 3 The Russell Sage Foundation J. of the Social Sciences, 1/2017, p. 74-93.
LA PROPOSTA
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tenere traccia. Ad esempio, ove il consenso fosse acquisito via Internet (su smart device), si potrebbe utilizzare un accorgimento simile a quello previsto dall’art. 51 co. 2 del codice del consumo relativo al commercio elettronico239, richiedendo all’impresa di attivare un “tasto” che renda saliente al consumatore l’informazione che premendolo si dà il consenso e si attiva la disclosure personalizzata, sul modello del tasto “accetto” i cookies che imperversano su tutte le pagine web.. Inoltre, nel caso il consumatore decidesse di cambiare fornitore di servizi da cui si ricavano i suoi dati personali, dovrebbe impegnarsi ad avvalersi del diritto alla portabilità dei dati, di cui all’art. 20 Reg. 2016/679, al fine di non “interrompere” la sua “storia digitale”, continuando così a consentire di poter inferire quali sono gli avvisi per lui più interessanti, rilevanti, ecc. Una siffatta evenienza è ovviamente rimessa alla libera scelta del consumatore, essendo le disclosure personalizzate basate sulla spontanea adesione dello stesso. V’è da supporre, ad ogni modo, che se pure la “storia digitale” del consumatore dovesse interrompersi a causa del cambiamento di fornitore, considerata la Velocità dei big data, non dovrebbe volerci troppo tempo affinchè si accumuli una quantità di dati sufficiente ad elaborare nuove disclosure personalizzate. Sotto il profilo procedimentale, anche per i consumatori sarebbe auspicabile un coinvolgimento nella fase istruttoria, ed in specie sperimentale, ove si testano le opzioni di disclosure personalizzate basate sui big data. In tal modo, non solo si garantirebbe una maggiore trasparenza dell’operato del regolatore, ma si ridurrebbe anche il rischio di possibili effetti discriminatori dell’uso degli algoritmi240. Al regolatore in veste di arbitro neutrale, infatti, spetterebbe assicurare che la popolazione dei destinatari dell’informazione sia sufficientemente ampia e non tale da poter risultare sottorappresentata241. Parimenti, la partecipazione dei consumatori nel procedimento potrebbe fornire elementi utili per evidenziare il tipo di bias da considerare nella costruzione dell’algoritmo; ad esempio, potrebbe far emergere che nella 239
Su cui Parte Prima, Cap. 3, para. 1.4, il quale obbliga il professionista ad attivare un “pulsante” per la vendita che rechi la dicitura “ordine con obbligo di pagare” (o altra equivalente) al fine di rendere saliente al consumatore l’informazione che premendo tale pulsante si completa la transazione. 240 Di tali rischi si è già parlato nella Parte Seconda, Cap. 3, para. 3.3. Una buona sintesi di questi è contenuta nel già menzionato documento dell’FTC, Report Big Data A Tool for Inclusion or Exclusion?, cit. 241 FTC, op. ult. cit., p. iv.
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PARTE TERZA
disclosure di certi prodotti finanziari un determinato tipo di informazione, per un certo tipo di persone, ha prodotto un familiarity bias, così consentendo al regolatore di tenerne conto, nel momento della costruzione, con la collaborazione anche degli operatori, dell’algoritmo della disclosure personalizzata242. Solo in esito a questo contradditorio tra operatori e consumatori nell’ambito di un procedimento teso ad acquisire elementi conoscitivi che il regolatore potrebbe utilizzare al fine di disegnare le disclosure personalizzate, queste ultime, alle condizioni più sopra illustrate, potrebbero essere introdotte anche nel nostro ordinamento, in aggiunta (e mai in alternativa) alle altre forme di obblighi informativi. Si tratterebbe comunque di una opzione di cui i consumatori potrebbero (non dovrebbero) avvalersi e dalla quale sarebbe sempre possibile tornare indietro, scegliendo di ricevere l’informativa completa e dettagliata della disclosure tradizionale e impersonale. La quale ultima, val la pena sottolinearlo con forza, non dovrebbe mai scomparire, sia perché risponde ad esigenze di conoscenza insopprimibile cui la società non dovrebbe rinunciare, sia perché ad essa si ricollegano conseguenze giuridiche sul piano rimediale, in termini di azioni individuali e collettive che non sono sopprimibili. Pertanto, se da un lato, la disclosure personalizzata risulta, proprio per la sua “personalizzazione”, invasiva della sfera individuale; nondimeno, essa, in quanto disegnata sull’individuo “reale” (affetto da limiti cognitivi) ed in quanto lo segue dinamicamente con avvisi di suo puntuale e certo interesse, è quella che verosimilmente è in grado di assicurare la migliore comprensibilità e che, molto probabilmente, avrà più chance di essere letta.
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Ibid.
CONCLUSIONI
I tipi di disclosure che in concreto il regolatore può adottare in base al modello della “regolazione differenziata” e tenendo conto tanto dei limiti cognitivi dell’individuo quanto dell’apporto dei big data, sono molteplici. In particolare, in esito ad un procedimento regolatorio trasparente e partecipato da parte di imprese e consumatori, arricchito dalle risultanze istruttorie inclusive di eventuali esperimenti cognitivi (integrati se del caso con tecniche di big data), il regolatore sarà in grado di selezionare il tipo di disclosure più adatto alla popolazione dei destinatari dell’informazione, da scegliersi tra: (A) obblighi informativi tradizionali (cioè indifferenziati e copiosi) da mantenersi come base conoscitiva insopprimibile; (B) obblighi informativi semplificati e standardizzati tradizionali (in riferimento ai quali si consiglia di operare la semplificazione e la standardizzazione sulla base di tecniche cognitive e dunque testando in anticipo i formati, per evitare l’insorgere di effetti indesiderati, come ad esempio, l’anchoring o il familiarity bias nei mercati finanziari. In tal caso, essi si trasformano in strumenti di empowerment cognitivo: C.1); (C) obblighi informativi differenziati (espressione del modello di regolazione differenziata), se la popolazione è parzialmente affetta da uno o più bias (ad esempio disattenzione), da verificarsi nel corso del procedimento regolatorio attraverso esperimenti cognitivi, eventualmente integrati con tecniche big data. Cumulo di tre modalità: (A) disclosure dettagliate per individui avveduti (o smart), più (C.1) disclosure differenziate cognitive-based, che agiscono sul tipo di bias più diffuso nella popolazione dei destinatari dell’informazione preferibilmente attraverso tecniche di empowerment cognitivo (ad esempio, semplificazione dell’informazione attraverso l’uso della salienza), le quali rafforzano l’autonomia decisionale dell’individuo nell’obbiettivo di indurre “pensieri lenti” (sono cioè tecniche di debiasing). In subordine, se cioè nel corso della sperimentazione dovesse risultare che le prime tecniche fossero comparativamente molto poco
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CONCLUSIONI
efficaci, potrebbe ricorrersi a strumenti di nudge (ad esempio, informazione relazionale) sempre che la possibilità di “opt-out” resa molto agevole. Del ricorso alle sperimentazioni, così come alle disclosure differenziate di tipo cognitivo deve darsi adeguato conto nella motivazione della decisione regolatoria, più (C.2) disclosure “personalizzate” attraverso i big data (con algoritmi definiti dal regolatore attraverso il contraddittorio tra imprese e consumatori) sulla base di un’adesione volontaria di imprese e consumatori, ferma sempre restando la possibilità per il consumatore di optare per una disclosure completa (A). *** Concludere un libro nel quale si è trattato di obblighi informativi delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, di individui non perfetti e irrazionali, di tecnologie che invadono e replicano la sfera personale, di controllo sulle tracce digitali, di asimmetrie informative e relazionali e di come il diritto possa e debba assicurare un equilibrio in siffatta realtà in costante e dirompente mutamento, non è cosa agevole. Le proposte che si sono avanzate nella Parte Terza di questo scritto vanno nel senso di non respingere il nuovo (le scienze cognitive come i big data), ma anzi di integrarlo all’interno delle esistenti cornici che l’ordinamento offre a garanzia della trasparenza e della accountability dell’agire del regolatore (il procedimento), contro i rischi di manipolazione (ad esempio, limitare l’uso del nudge), di discriminazione e di violazioni della privacy dei cittadini, per ripensare e riformare gli obblighi informativi non solo dinanzi alle “sfide” (come reca il titolo di questo scritto), ma anche alla luce delle scienze cognitive e dei big data. Questo non deve certo fare sottovalutare i rischi dell’epoca in cui viviamo (basti pensare ai danni enormi che l’informazione attraverso gli algoritmi sta recando al mondo delle news a livello globale), né far abbassare la guardia: a fronte degli algoritmi trasparenti, condivisi e partecipati qui proposti, ve ne saranno “innumerevoli”1 di chiusi e 1
Nel Sofista di Platone, l'Eleate, nel dialogo con Teeteto, propone di sviluppare il corretto ragionamento sulla realtà «non riguardo a tutte le Forme, per non confondersi in mezzo a molte [innumerevoli generi empirici], ma scegliendo alcune di quelle, che son dette le più grandi [generi sommi]»: Sofista, 254c, trad it. C. Mazzarelli, in G. Reale (a cura di) Platone, Tutti gli scritti, Milano, Rusconi, 1991, p. 298.
LA PROPOSTA
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oscuri. Ma anziché prospettare soluzioni ulteriori 2 , si preferisce concludere diversamente. Desidero così chiudere con un insegnamento tratto dal Talmud babilonese3 che in questo modo recita: “Benì, yotèr mimmà shehaèghel rozè linòk, haparà rotzà lehanìk”. “Figlio mio, più di quanto voglia succhiare il vitello, la mucca vuole allattare”. Questo è quanto Rabbì Akiva, il più noto sapiente e studioso della Torà, vissuto ai tempi di Erode, dice ad un suo discepolo. Rabbì Akiva era stato imprigionato in quanto sostenitore della rivolta degli ebrei capeggiata da Bar Cochbà. Ai tempi un editto aveva vietato lo studio della Torà, che Rabbì Akiva si rifiutava di rispettare e per ciò fu imprigionato. Un suo discepolo andò a trovarlo in carcere pregandolo di insegnargli la Torà, ma lui si rifiutò seccamente. Il discepolo minacciò allora di denunciarlo alle autorità romane, un fatto gravissimo. Rabbì Akiva rispose allora al discepolo quanto detto nel verso riportato, cioè che la sete del vitello non poteva essere superiore al desiderio della mucca di nutrirlo, facendo così capire quanto il suo desiderio di insegnargli fosse più grande della brama dell’allievo di apprendere. Una Haggadà – che usa dei racconti per meglio chiarire dei passaggi oscuri della Torà – narra la storia di una volpe che si rivolge ai pesci di un lago dicendo loro: “Di cosa avete paura nel lago? E se avete così tanta paura nel lago, perché non venite all’asciutto fuori dall’acqua così che si possa, voi e noi, vivere in pace e in armonia, come facevano i nostri avi nei tempi che furono?” Un pesce rispose: “Dunque voi volpi sareste gli animali più furbi? Voi siete invece degli stupidi. L’acqua è certamente pericolosa, e noi temiamo le reti degli uomini, ma l’acqua è il nostro elemento, e se uscissimo fuori dall’acqua moriremmo di sicuro”. Studiare la Torà è pericoloso – si può finire in carcere e morire 2
Come ad esempio creare «a more unified agency for robotics, something like a Federal Robotics Commission (FRC) to deal with the novel human experiences robotics occasions» per l’uso corretto dei big data e, più in generale, dei dati comportamentali (rivelatori di preferenze) che consentono di “profilare” e di disegnare disclosure efficaci: proposta di R. CALO, Robotics and the Lessons of Cyberlaw, in 103 Cal. L. Rev., 2015, p. 513-563, ad p. 556. 3 Talmud babilonese (ed. A. Steinsaltz), Tratt. III, Moed-Pesachim, Cap. 10 “Arbei Pesachim”, p. 112a.
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CONCLUSIONI
martirizzati come accadde a Rabbì Akiva – ma non studiarla può essere ancora più pericoloso, come per i pesci uscire fuori dall’acqua. Ecco. Noi siamo come i pesci in acque pericolose, da cui non dovremmo voler uscire.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2017 presso la Garfiac Elettronica Napoli