L’accumulazione del capitale

Pregevole edizione di L'ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE, principale opera di analisi dell'economia capitalistica di

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L’accumulazione del capitale

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ROSA LUXEMBURG

L’ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE

Introduzione di Paul M. Sweezy. Traduzione di Bruno Maffì

97

EINAUDI

EDITORE

NUE NUOVA UNIVERSALE EINAUDI Ultimi volumi pubblicati * 86. Carlo Rosselli, Oggi in Spagna, domani in Italia. Con la prefazione di Gaetano Sal­ vemini alla prima edizione. Introduzio­ ne di Aldo Garosci. 87. Lautréamont, Opere complete. « I canti di Maldoror » e le « Poesie », seguiti da lettere, documenti e testimonianze. In­ troduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di Ivos Margoni. 88. Epicuro, Opere. Introduzione, traduzione e note di Graziano Arrighetti. 89. Manuel Azana, La veglia a Benicarló. Pre­ fazione di Leonardo Sciascia. Traduzione di Leonardo Sciascia e Salvatore Girgenti. 90. Atti degli Apostoli. Prefazione e traduzione con testo latino a fronte a cura di Cesare Angelini. 91. Lu Hsün, La falsa libertà. Saggi e discorsi (1918-1936) a cura di Edoarda Masi. Con una cronologia della vita e delle opere. 92. Karl Marx, Manoscritti economico-fìlosofici del 1844. Prefazione e traduzione di Norberto Bobbio. Nuova edizione. 93. Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Prefazione di Giovanni Jervis. Con una scelta di illustrazioni di E. Mazzanti e C. Chiostri. 94. Fedro, Favole. Versione di Agostino Richelmy, con testo latino a fronte. Introduzio­ ne di Antonio La Penna. 95. Giacomo Leopardi, Crestomazia italiana: La Prosa. Secondo il testo originale del 1827. Introduzione e note di Giulio Bol­ lati. 96. Giacomo Leopardi, Crestomazia italiana: La Poesia. Secondo il testo originale del 1828. Introduzione e note di Giuseppe Savoca. 97. Rosa Luxemburg, L'accumulazione del capi­ tale. Introduzione di Paul M. Sweezy. Traduzione di Bruno Maffi.

* Vedere alla fine del presente volume l'e­ lenco completo delle opere pubblicate nella NUE.

Volumi di prossima pubblicazione Dino Compagni, Cronica. Introduzione e note di Gino Luzzatto. Rudolf von Jhering, Lo scopo nel diritto. A cura di Mario G. Losano. Robert Schumann, La musica romantica. Prefazione e traduzione di Luigi Ronga. Adam Smith, Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. A cura di Emma e Delio Cantimori. Francesco De Sanctis, Saggi critici. A cura di Sergio Romagnoli. Benjamin Constant, Diari. A cura di Paolo Serini. Marco Aurelio, I ricordi. Traduzione con testo a fronte di Francesco CazzaminiMussi. Paolo Sarpi, Istoria del concilio tridentino. A cura di Corrado Vivanti. Carlo Goldoni, Commedie. A cura di Kurt Ringger.

NUE 97. Rosa Luxemburg, L'accumulazione del capitale. Introduzione di Paul M. Sweezy. Traduzione di Bruno Maffì.

L ’accumulazione del capitale, pubblicato a Ber­ lino nel 1913, è la principale opera economica di Rosa Luxemburg. Con essa l’autrice si pro­ pose di superare una contraddizione logica che ritenne di individuare nella spiegazione dell’ac­ cumulazione capitalistica data da Karl Marx. A causa delle evidenti implicazioni politiche in opposizione con le tesi revisionistiche della so­ cialdemocrazia tedesca, l’opera suscitò violente reazioni polemiche. Ad esse la Luxemburg ri­ spose in un volumetto, pubblicato nel 1921, dal titolo Un’anticritica, nel quale espose sin­ teticamente la sua teoria e confutò le obiezioni dei critici. Malgrado i suoi errori, L ‘accumula­ zione del capitale è opera notevole di una gran­ de rivoluzionaria. Ancor oggi possiamo molto imparare da essa - dalle sue esplorazioni attra­ verso la storia del pensiero economico, dalla sua appassionata descrizione della natura e dei metodi dell’imperialismo, dal suo indomito spirito marxista —e anche, certamente, dai suoi sbagli.

NUE 96. Giacomo Leopardi, Crestomazia italiana: La Poe­ sia. Secondo il testo originale del 1828. Introdu­ zione e note di Giuseppe Savoca.

In fondo, al di là delle stesse consonanze lin­ guistiche e filosofiche, il valore peculiare della Crestomazia poetica, quello per cui noi tanto amiamo e stimiamo quest’opera, è di natura es­ senzialmente poetica, ed è avvertibile in dire­ zione della poetica e della poesia leopardiane perché, in definitiva, la rilettura dei poeti ita­ liani contribuiva ad orientare meglio il Leopar­ di verso la sua nuova poesia e verso una com­ piuta definizione del concetto di lirica. Quel ri­ torno leopardiano ai problemi di estetica che troviamo negli appunti dello Zibaldone poste­ riori al lavoro della Crestomazia poetica è, sen­ za dubbio, principalmente connesso alla splen­ dida fioritura poetica dei grandi idilli, ma è an­ che legato ad una prospettiva storica della poe­ sia italiana, nella quale Leopardi vedeva realiz­ zato, direi, un concetto di lirica imperfetta. Le elaborazioni di poetica del 1828-29 non fan­ no altro che continuare le letture dei numerosi passi della Crestomazia poetica riguardanti il buon poeta e il sublime in poesia, e che tendo­ no tutti verso un ideale di poesia che non sia scolastica o volgarmente ingenua, ma che espri­ ma un forte e libero sentire dell’anima, ima vi­ sione severa e coraggiosa del mondo. Dall’introduzione di Giuseppe Savoca

Questo ebook è stato realizzato e condiviso per celebrare il Centenario della Rivoluzione russa 1917-2017

Nuova Universale Einaudi

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Titolo originale Die Akkumulation des Kapitals

Copyright © i960 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Rosa Luxemburg L ’ACCUMULAZIONE D EL CAPITALE Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo e C IÒ CH E G L I E P IG O N I H ANNO FATTO D ELLA TEO R IA M A R XISTA Una anticritica

Introduzione di Paul M. Sweezy

Traduzione di Bruno Maffi

Giulio Einaudi editore

1968

IN TRO D U ZIO N E

Il significato e l’importanza dei libri dipende in una cer­ ta misura dalle condizioni storiche e ambientali, dal loro rapporto con altri libri, dalle circostanze in cui furono scrit­ ti, e via dicendo. Ma ciò non avviene sempre nella stessa misura. In alcuni casi si può capire e apprezzare un libro pur avendo una scarsa conoscenza di quei fattori; in altri casi, invece, senza di questa, si può fallire nel coglierne l’es­ senza e lo scopo. Perciò la funzione principale di una intro­ duzione mi pare essere quella di familiarizzare il lettore con l’autrice dell’Accumulazione del capitale e di presentare il libro nel suo caratteristico contesto storico. I.

Rosa Luxemburg nacque il 5 marzo 1871, nella piccola città di Zamošć vicino alla città di Lublino in quella che era allora la Polonia russa *. I suoi genitori erano ebrei colti e relativamente benestanti, i quali si trasferirono a Varsavia quando essa era ancora bambina. Mentre frequentava i cor­ si della scuola superiore a Varsavia, Rosa fu coinvolta in at­ tività rivoluzionarie, e, lasciata la scuola nel 1887, si uni al partito rivoluzionario Proletariat. Da allora in poi, si dedicò1 1 Tutti i dettagli biografici sono tratti dalla biografia di PAUL FRÖLICH, Rosa Luxemburg: Gedanke und Tat, Hamburg 1949 ( i a ed., Paris 1939). Frö­ lich fu per lungo tempo alleato politico di Rosa Luxemburg ed editore ufficia­ le delle sue Opere, la cui pubblicazione fu ostacolata e ritardata a causa dello spirito settario del movimento comunista in Germania negli anni dopo il 1920 e fu finalmente interrotta del tutto dall’ascesa di Hitler. Frölich scrisse la biografia in esilio a Parigi, ed essa fu pubblicata in inglese dal Left Book Club nel 1940.

vin

PAUL M . SW EEZY

appassionatamente e senza riserve alla causa del socialismo rivoluzionario. Dopo due anni d ’intensa attività, Rosa fu presa di mira dalla polizia, ed i suoi compagni, affinché non corresse il ri­ schio di essere esiliata in Siberia, organizzarono la sua fuga dalla Polonia. Andò a Zurigo e in quella università, che al­ lora era il centro dell’emigrazione polacca e russa in Occi­ dente. Si dedicò allo studio delle scienze naturali e dell’eco­ nomia politica, partecipò al movimento operaio locale, fre­ quentò molti fra i piu notevoli marxisti di quel tempo e co­ si, in breve tempo, si maturò intellettualmente e politicamente. Plechanov e Parvus senza dubbio ebbero una parte determinante nello sviluppo delle sue idee, ma il piu im­ portante rapporto personale di quel periodo, e anzi di tutta la sua vita, fu quello con Leo Jogiches. Le carriere di Leo Jogiches e di Rosa Luxemburg furono stranamente parallele e complementari. Ebreo lituano, Jogiches fu, come Rosa, uno dei promotori del moderno movimento operaio polacco. Egli andò a Zurigo nel 1890, incontrò Rosa Luxemburg, e d ’allora in poi, sempre a lei legato dalla piu stretta unione politica e personale, sostenne un ruolo di primo piano sia in Polonia che in Germania. Essa fu principalmente la teorica, egli l’organizzatore, e pare abbiano sempre lavorato insie­ me, in perfetta armonia. Co-fondatori del Partito comuni­ sta tedesco alla fine del 1918, ambedue caddero assassinati, vittime della reazione tedesca, Rosa nel gennaio 1919, Leo nel marzo. Mentre era a Zurigo, Rosa Luxemburg dedicò molto tem­ po ed energia allo studio della storia e dei problemi della Polonia. Fu lei che scrisse il rapporto dell’appena costituito Partito socialista polacco ( p p s ) al congresso della Seconda Internazionale a Zurigo (1893), e la sua tesi di laurea fu uno dei primi studi sullo sviluppo del capitalismo in Polo­ nia l. Quando il Partito socialista polacco si disciolse dopo il congresso di Zurigo, Rosa Luxemburg e Leo Jogiches si unirono alla maggior parte della nuova generazione di so-1 1

rosa

Luxemburg , Die industrielle Entwickelung Polens, Leipzig 1898.

INTRODUZIONE

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cialisti in Polonia per formare il Partito socialdemocratico del Regno di Polonia. Nonostante la sua posizione di capo riconosciuto del movimento polacco, tuttavia, l’interesse di Rosa sembra essersi volto principalmente alla Germania: come dice Frölich, essa «si sentiva irresistibilmente attrat­ ta verso il centro del movimento operaio internazionale, ove l’interesse per le questioni di teoria e di tattica era vivo al massimo, ed ove appariva sempre piu saldamente fissato il centro di gravità della politica internazionale». Un matri­ monio meramente formale con un cittadino tedesco le fece ottenere la nazionalità che le era necessaria per potersi sta­ bilire in Germania, cosa che fece nel 1897. Rosa Luxemburg arrivò in Germania proprio quando la famosa controversia a proposito del revisionismo stava toc­ cando il culmine, e prese partito, senza esitazione, contro Bernstein, per l’ortodossia marxista. Non era facile per una donna aprirsi la strada in quei giorni, ma l’impegno di Rosa come teorica e come polemista era cosi notevole che essa immediatamente assurse ad un posto di primo piano nell’a­ la sinistra del movimento socialista tedesco - e vi rimase fi­ no al giorno della sua morte. Fra tutte le risposte ai revisio­ nisti, Riforma o rivoluzione? di Rosa Luxemburg, origina­ riamente pubblicato in due serie di articoli nella «Leipziger Volkszeitung» e riunito in forma di opuscolo nel 1900, fu - a mio parere - insieme la piu forte e la piu fedele allo spirito di Marx e di Engels. È ancor oggi uno dei pochissi­ mi classici della teoria politica marxista, forse l’opera mi­ gliore che mai sia uscita dalla penna di Rosa Luxemburg. La tesi per la quale si batté è che riforma e rivoluzione non sono due diverse vie al socialismo, bensì cose del tutto di­ stinte: riforma non è rivoluzione diluita attraverso un lun­ go periodo, né rivoluzione è riforma compressa in un breve spazio di tempo. La classe operaia deve sforzarsi per otte­ nere riforme entro lo schema del capitalismo - il non farlo vorrebbe dire abdicare di fronte al nemico —ma non deve mai dimenticare che il fine ultimo non sono i miglioramen­ ti nell’ordine sociale esistente, ma un ordine sociale del tut­ to nuovo, in cui sfruttamento e anarchia non vengano sol­ tanto temperati ma totalmente aboliti.

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Nella grande controversia sul revisionismo la vittoria sembrò arridere agli ortodossi; persino Rosa fu convinta per un certo periodo che Bernstein e i suoi seguaci fossero stati definitivamente sconfitti. Alla maggior parte dei revi­ sionisti, però, interessavano assai poco le questioni dottri­ nali, mentre sul terreno pratico dell’attività sindacale e del­ l ’organizzazione politica erano ben lungi dall’essere battuti. Da allora in poi, il fatto che il Partito socialdemocratico te­ desco si articolasse in ala destra e ala sinistra, con un vasto centro che andrà gravitando gradualmente ma decisamente verso destra, sempre di piu dominò ogni aspetto dei movi­ menti operaio e socialista. Rosa Luxemburg combatte il piu strenuamente possibile contro queste tendenze, il cui signi­ ficato le era sin troppo chiaro; quasi tutto ciò che disse e fece era diretto allo scopo di salvare la socialdemocrazia te­ desca dalla catastrofe dalla quale alla fine fu travolta nell’e­ state del 1914. Quando ci disporremo a valutare l ’intenzio­ ne ed il significato del suo magnum opus, Vaccumulazione del capitale, dovremo tenere ben presente questo intento. La rivoluzione russa del 1905 riportò temporaneamente Rosa Luxemburg al centro degli avvenimenti in Polonia. Durante la maggior parte del 1905, il suo contributo alla causa rivoluzionaria prese la forma di una continua produ­ zione di scritti interpretativi sulla stampa socialista tedesca e polacca, ma a dicembre essa non potè piu resistere al fa­ scino dell’azione e si recò in segreto a Varsavia, dove insie­ me a Leo Jogiches assunse il comando diretto delle attività del Partito socialdemocratico polacco. In quel momento, pe­ rò, la rivoluzione aveva già oltrepassato il suo culmine e la reazione stava prendendo il sopravvento. Nel marzo del 1906, Rosa fu arrestata e per alcuni mesi rimase in una pri­ gione zarista, non sapendo mai se avrebbe potuto sopravvi­ vere fino al giorno dopo. Ma, grazie a un abile gioco di inter­ venti e di pressioni, fu finalmente rilasciata e si dispose a tornare in Germania attraverso Pietroburgo e la Finlandia. Fu in Finlandia, durante l’estate, che scrisse un opuscolo in­ titolato Lo sciopero generale di massa, il partito e i sindaca­ ti, in cui riassumeva la sua esperienza della prima rivoluzio­ ne russa.

INTRODUZIONE

XI

Gli eventi del 1903 nell’Est produssero in Germania una promettente rinascita di spirito militante, ma durò poco e la situazione presto ricadde nello status quo ante. L ’ala si­ nistra, che da molto tempo era stata impegnata solo nella lotta contro il revisionismo politico, da allora si preoccupò sempre piu del crescente pericolo di una guerra fra le gran­ di potenze imperialistiche, e su queste due questioni si con­ centrarono i pensieri e le energie di Rosa Luxemburg negli anni immediatamente seguenti. Sotto un certo aspetto, importante per il punto di vi­ sta di questa introduzione, la forma delle attività di Rosa Luxemburg subi un cambiamento in questo periodo. Nel 1906, il Partito socialdemocratico tedesco fondò una scuo­ la per formare i vari tipi di giornalisti, redattori e funziona­ ri di cui aveva bisogno in numero sempre crescente. Rosa Luxemburg fu subito assegnata al corpo insegnante di que­ sta scuola e dimostrò di essere una maestra straordinaria­ mente dotata ed efficiente. Fu in connessione con il suo in­ segnamento eh’essa intraprese a scrivere la Introduzione al­ l’economia 1e fu in conseguenza della preparazione dell’I«troduzione ch’essa si trovò impegnata in uno studio piu specializzato da cui nacque l’opera che qui presentiamo. Ri­ prenderemo a parlare delle circostanze che accompagnarono la stesura dell’Accumulazione del capitale fra poco, quando esamineremo la struttura e il contenuto di quest’opera. Quello sarà anche il momento piu adatto per discutere di come il libro fu accolto e della risposta rivolta da Rosa Lu­ xemburg ai suoi critici, cioè VAntikritik che è compresa in questo volume. Negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, l’attenzione di Rosa Luxemburg si concentrò sempre piu sui problemi dell’imperialismo e del1 1 Einführung in die Nationalökonomie. Probabilmente questo lavoro fu finito in prigione durante la guerra, ma se ne potè trovare soltanto una parte fra le opere postume di Rosa Luxemburg. Una versione purgata fu data alla stampa nel 1925 da Paul Levi, e quello che sembra essere il testo originale fu pubblicato nel 1951 dall’Istituto tedesco-orientale Marx-Engels-Lenin in R. Luxem burg , Ausgewählte Reden und Schriften, Dietz Verlag, Berlin, vol. I, pp. 411-751.

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militarismo, e come sempre le sue fatiche teoriche si accom­ pagnarono all’attività di agitatrice. Essa stessa e Karl Lieb­ knecht capeggiarono in Germania la lotta antimilitarista con grande energia e risolutezza. Il consenso popolare fu notevole, e la fede di Rosa Luxemburg nell’efficacia del suo lavoro fu rinvigorita dal fatto che essa in quel periodo fu bersaglio di ripetuti arresti e processi. La sua esperienza personale, unita alle violente dichiarazioni antibelliche che, durante gli ultimi anni, erano state diffuse dall’Internazio­ nale, la indussero a quella che poi doveva rivelarsi una erra­ ta sopravvalutazione della probabilità che il movimento so­ cialista europeo si sarebbe seriamente opposto alla guerra qualora fosse stata dichiarata. Il crollo di questa illusione ridusse temporaneamente in rovina tutto il suo mondo di ideali, e per la prima volta nella sua vita essa si abbandonò alla disperazione. Questo stato d ’animo, tuttavia, non durò molto, e dopo poco Rosa e un piccolo gruppo di socialisti convinti s’impo­ sero l’arduo compito di ricostruire, praticamente dal nulla, in Germania, un movimento socialista autenticamente rivo­ luzionario. Come al solito essa si mise al lavoro senza riser­ ve e senza timori e naturalmente provocò la piu vivace osti­ lità da parte delle autorità imperiali. Passò in prigione la maggior parte degli anni di guerra, ma nemmeno questo le impedì di assumere una parte attiva e importante negli eventi di quel periodo. Scrisse in prigione nella primavera del 1915 il famoso libro La crisi della socialdemocrazia, piu noto sotto il titolo di Junius-Broschiire, e lo fece stampare in Svizzera durante un breve intervallo di libertà nel 1916 *. Dalla prigione fu l’ispiratrice della conferenza della sinistra che si riunì il giorno di Capodanno del 1916 per costituire la Lega di Spartaco, anticipatrice diretta del Partito comu­ nista tedesco. Nei periodi di libertà essa fu infaticabile or­ ganizzatrice e agitatrice; quando stava in prigione, cioè la1 1 Lo pseudonimo di « Junius » ch’essa scelse per questa opera fu preso in prestito dalle Lettere di Junius che apparvero in Inghilterra nel «Public Ad­ vertiser» intorno al 1770. Le originali Lettere di Junius erano attacchi sfer­ zanti contro l’assolutismo di Giorgio III e dei suoi ministri.

INTRODUZIONE

X III

maggior parte del tempo, riusciva non solo a mantenersi in contatto e al corrente degli eventi e a sviluppare le proprie idee, ma anche a comunicare con il mondo esterno attraver­ so lettere private e la pubblicazione di articoli. In seguito alla rivoluzione del marzo in Russia, l’atten­ zione di Rosa si volse di nuovo all’Oriente, e molto di quan­ to ella scrisse durante i l i 9 i 7 e i l i 9 i 8 f u dedicato alla de­ scrizione, all’elogio, alla critica e alla valutazione del corso degli eventi in Polonia e in Russia. Sostenne con tutto il cuore Lenin e i bolscevichi e in generale approvò la loro po­ litica. Nello stesso tempo, però, essa fu pienamente consa­ pevole degli ostacoli e delle difficoltà che essi dovevano fronteggiare e (come tutti i principali marxisti del tempo) credette che la rivoluzione russa potesse, in definitiva, esse­ re salvata dalla sconfitta soltanto dal pieno successo di una rivoluzione nei paesi piu progrediti dell’Occidente. Nello stesso tempo, sapeva che la pressione esercitata dalla man­ canza di forze e dalla necessità era destinata a sospingere i bolscevichi in direzioni che né lei né loro potevano appro­ vare. Non li biasimò per questo, e riservò piuttosto il suo disprezzo e la sua condanna ai socialisti dell’Occidente che avevano mancato di venire in aiuto alla rivoluzione russa - ma, d’altra parte, riconobbe gli eventuali pericoli di un in­ tervento. Il terrorismo e la soppressione della critica non potevano non portare ad una graduale degenerazione del re­ gime. « Senza suffragio universale, consultazione popolare, libertà di stampa e di riunioni illimitate e libero dibattito di idee —essa scriveva-la vita in qualsiasi pubblica istituzione langue, diventa semplice apparenza, ogni iniziativa cade in balia della burocrazia. A poco, a poco, la vita pubblica si estingue. Un manipolo di capi di partito di inesauribile ener­ gia e di sconfinato idealismo dirige e governa, e una dozzina di menti preminenti fra loro assume il comando. Una élite di lavoratori è convocata di tanto in tanto ad assemblee che hanno il solo scopo di applaudire i discorsi dei capi e di vo­ tare all’unanimità risoluzioni precostituite. In fondo que­ sta è una specie di consorteria —una dittatura, certo, ma non la dittatura del proletariato, bensì la dittatura di pochi politicanti, cioè, una dittatura in senso borghese, in senso

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giacobino» '. Forse quello che Rosa Luxemburg temeva so­ pra ogni altra cosa era che i bolscevichi, costretti a disperati espedienti, cercassero di fare di necessità virtù e giustificas­ sero tattiche e metodi, imposti da una paurosa combinazio­ ne di eventi, come buoni in se stessi e degni di essere adot­ tati dal movimento socialista internazionale. Non occorre, oggi, mettere in evidenza il carattere profetico di questi am­ monimenti e di questi timori: tutta la storia della rivoluzio­ ne russa, a partire dai primi anni dopo il 1920, ha conferma­ to la profondità dell’intuizione di Rosa Luxemburg. Rosa fu liberata dalla prigione solo il 9 novembre 1918 - soltanto grazie ad un’azione di massa. Si affrettò a rag­ giungere Berlino e assunse subito, con Karl Liebknecht, l’in­ discusso comando dell’ala sinistra rivoluzionaria del movi­ mento socialista tedesco. Fu, fin dall’inizio, il vero capo di redazione del nuovo giornale, «D ie Rote Fahne», e fu lei che stese e presentò al congresso inaugurale il programma del Partito comunista tedesco. Ma la durata della sua attivi­ tà di direzione del comuniSmo tedesco era destinata ad es­ sere breve. Presto, nel gennaio del 1919, si produssero gli avvenimenti che passarono alla storia col nome di insurre­ zione degli spartachisti. In realtà questo termine trae in in­ ganno: dietro alla «insurrezione» c’era un piano della rea­ zione molto ben preparato, d’accordo con la direzione uffi­ ciale socialdemocratica, allo scopo di soffocare sul nascere la rivoluzione tedesca. Ciò nonostante, quando a Berlino s’ingaggiò la battaglia nelle strade, furono indicati pubblica­ mente e a gran voce come istigatori Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Per alcuni giorni essi riuscirono a sfuggire al­ l’arresto spostandosi da un quartiere all’altro, ma alla fine furono traditi e catturati la sera del 15 gennaio. Poche ore dopo venivano assassinati, brutalmente e a sangue freddo, da alcuni soldati della divisione territoriale della cavalleria. Il corpo di Rosa Luxemburg fu gettato nelle acque ghiaccia­ te del canale Landwehr, dal quale fu recuperato soltanto al­ cuni mesi più tardi.1 1 Die Russische Revolution, citato in p. danke und Tat, p . 294.

frölich ,

Rosa Luxemburg: Ge­

INTRODUZIONE

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XI.

Come abbiamo visto, L ’accumulazione del capitale fu il prodotto della sua attività di docente nel periodo in cui in­ segnava nella scuola del partito negli anni dopo il 1906. Il corso principale consisteva in un ampio panorama dell’eco­ nomia politica; fu in connessione con questo che essa intra­ prese a scrivere una Introduzione all’economia. Il lavoro procedeva lentamente, a causa dell’urgenza di altri compiti e doveri, e per lunghi periodi dovette metterlo compietamente da parte. Nel gennaio del 19x2, però, lo riprese con rinnovato interesse, sperando di poterne almeno completa­ re una prima stesura. Fu allora che incorse in quella «d if­ ficoltà inaspettata» che descrive nella prefazione a L ’accu­ mulazione del capitale. Non riusciva, ci dice, a esporre il ci­ clo completo della produzione capitalistica «con sufficiente chiarezza». Dopo un piu attento esame, però, pervenne alla conclusione che lo scoglio non stava nell’esposizione, ma in­ vece dipendeva dal contenuto del II volume del Capitale di Marx, ed insieme dalla pratica dell’imperialismo contem­ poraneo e dalle sue radici economiche. Per una donna del carattere e degli interessi culturali di Rosa Luxemburg que­ sta era una sfida che non poteva non essere raccolta. Le pia­ cevano le costruzioni intellettuali logicamente compiute e ordinate e la scoperta di supposte incongruenze nel sistema marxista bastava a spronarla all’azione. Ma forse anche piu importante fu la fiducia di essere sulle tracce di risultati teo­ rici che avrebbero avuto una grande importanza pratica nel­ la lotta contro il revisionismo, da una parte, e l’imperiali­ smo dall’altra. Smise immediatamente di lavorare intorno all ’Introduzione e si dedicò con entusiasmo al nuovo com­ pito che si era imposto. Qualche anno piu tardi, scrivendo dalla prigione al suo amico Diefenbach, descrisse, come se­ gue, la composizione del libro: « I l periodo in cui scrivevo YAccumulazione fu uno dei piu felici della mia vita. Vive­ vo come in uno stato di ebbrezza, notte e giorno non vedevo altro che questo problema che mi si veniva cosi meraviglio­ samente chiarendo in tutti i suoi particolari, e non so dav-

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vero quale di queste due cose mi procurasse piu piacere: lo sviluppo del pensiero assorto nella discussione di complica­ ti problemi, mentre camminavo lentamente su e giu attra­ verso alla stanza, o il metterne già i risultati sulla carta con chiarezza. Sai che scrissi tutto il libro in una sola tirata, in quattro mesi —cosa inaudita! —e lo diedi direttamente alle stampe senza rileggerne nemmeno una volta la prima ste­ sura?» Qual è la natura della lacuna o della debolezza logica che Rosa Luxemburg ritenne di aver scoperto nel II volume del Capitale? Bisogna tenere presente che questo volume tratta della circolazione del capitale e che è qui che vengono presentati i famosi «schemi di riproduzione» che in pratica sono la versione in forma numerica, ad opera di Marx, del Tableau économique di Quesnay. Secondo Marx il valore di qualsia­ si merce, e quindi anche il valore totale di tutte le merci, è composto di capitale costante (materie prime e ausiliarie, ammortamento delle macchine, ecc.) piu capitale variabile (salari) piu plusvalore (profitto, interesse e rendita). Inol­ tre, dato che tutte le merci si possono suddividere in mezzi di produzione e beni di consumo, ne segue che la produzio­ ne si può dividere in due sezioni: la sezione I produce mez­ zi di produzione, la sezione II produce beni di consumo. Ora è ovvio che, affinché il sistema funzioni senza intralci, non solo la domanda totale deve uguagliare l’offerta totale, ma anche la domanda di prodotti di ciascuna sezione deve uguagliare il complesso della produzione della sezione stessa. In quel caso che Marx chiamò riproduzione semplice —cioè uno stato di cose in cui tutto resta invariato da un anno al­ l’altro —evidentemente si soddisfano queste condizioni se il capitale costante consumato in tutte e due le sezioni è uguale alla produzione della prima sezione, e se il reddito complessivo di lavoratori e capitalisti delle due sezioni (che deve essere interamente consumato perché le condizioni re­ stino invariate) è uguale alla produzione della sezione II. Se indichiamo le componenti del valore con c , v , e p e usia1 Citato in p. Frölich , Rosa Luxemburg: Gedanke und Tat, p. 193.

XVII

INTRODUZIONE

mo indici numerici a piede per indicare la sezione, possiamo esprimere la produzione delle due sezioni in termini di va­ lore come segue Cl + V \ + p i C2 + V2 + p 2

Allora le condizioni di equilibrio diventano: C\

+

C2

=

Ci

+ V 1 + pi

Vl + V2 + p l + p 2 = C2 + V2 + p 2

E tutte e due queste si riducono alla forma piu semplice: C2

=

Vi

+ pi

Quando si passa dal caso della riproduzione semplice a quella che Marx chiamò riproduzione allargata, le cose si complicano un poco, ma i principi in sostanza sono gli stes­ si. La differenza fra riproduzione semplice e riproduzione allargata è che in quest’ultima i capitalisti non consumano tutti i loro redditi, ma invece ne risparmiano una parte e la investono in nuovo capitale variabile e costante. La produ­ zione della prima sezione diventa allora piu grande dell’am­ montare del capitale costante consumato nei due settori, e i nuovi lavoratori impiegati dal capitale variabile addizio­ nale generano un incremento della domanda di beni di con­ sumo. Aumentando il plusvalore, i capitalisti potranno an­ che consumare di piu senza per questo intaccare le fonti del­ l’accumulazione. Perciò nella riproduzione allargata tutte le grandezze aumenteranno simultaneamente, e può darsi che non ci siano intralci, a condizione però che le proporzioni adeguate siano mantenute. Queste proporzioni adeguate pos­ sono essere espresse in condizioni di equilibrio analoghe, sebbene naturalmente non identiche, a quelle date sopra per il caso della riproduzione semplice. Gli schemi numerici di Marx spiegavano tutto ciò in mo­ do grossolano ed imperfetto, ma la logica fondamentale del processo si manifestava abbastanza chiaramente e il senso1 1 Sia Marx che Rosa Luxemburg usarono nei loro schemi numeri specifi­ ci invece di simboli, ma questo serve solo a complicare la spiegazione e non altera minimamente la sostanza dell’argomento.

XV III

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ne fu afferrato con esattezza da Rosa Luxemburg. Essa non sostenne che ci fosse qualche cosa di errato nello schema della riproduzione allargata, come tale, e riconobbe spesso nei suoi scritti che in una società socialista pianificata lo svi­ luppo avrebbe seguito piu o meno da vicino il modello de­ scritto nello schema. Ma negò insistentemente che lo sche­ ma fosse una fedele rappresentazione della realtà capitali­ stica. Questo è il nucleo della critica di Rosa Luxemburg al si­ stema marxiano ed è importante capire il carattere dell’ar­ gomento da lei sostenuto e il terreno su cui è fondato. Secondo Rosa Luxemburg, l’accumulazione può avvenire solo dopo che i capitalisti abbiano venduto le merci in cui è incorporato il plusvalore. Come nel caso del capitalista sin­ golo, cosi per la classe capitalista considerata nel suo com­ plesso —essa sosteneva —il plusvalore deve essere «realizza­ to» cioè trasformato in denaro, prima di poter essere ado­ perato per comprare forza-lavoro e capitale costante addi­ zionali. Ma dove sono gli acquirenti? In parte la risposta è che i capitalisti, per soddisfare i loro bisogni di consumo, realizzano reciprocamente il loro plusvalore. Ma se soste­ niamo che tutto il plusvalore si realizza in questo modo, ri­ cadiamo nella riproduzione semplice. Chi, si chiede Rosa, potrà comprare i prodotti che comprendono « l ’altra parte, la parte capitalizzata, del plusvalore»? Secondo lo schema di riproduzione, essa osserva, la risposta è: «in parte gli stessi capitalisti, producendo nuovi mezzi produttivi ai fini dell’allargamento della produzione, in parte nuovi lavorato­ ri resi necessari dall’impiego di questi nuovi mezzi produtti­ v i» '. Questa parrebbe essere una soluzione logica del pro­ blema, ma Rosa sostiene che non è applicabile al capitali­ smo. «M a per far lavorare nuovi lavoratori con nuovi mez­ zi di produzione - essa aggiunge - bisogna avere preliminar­ mente - dal punto di vista capitalistico - uno scopo per al­ largare la produzione, una nuova richiesta di prodotti da fabbricare»2. Il problema, quindi, si riduce a questo: da dove, all’in1 Cfr. oltre, p. 119. 2 Ibid.

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terno della struttura del sistema capitalistico, scaturirà que­ sta nuova domanda? E Rosa Luxemburg trova che non c’è risposta. Considera troppo assurda perché ci si preoccupi di confutarla l’idea che un incremento di consumo da parte dei capitalisti stessi possa provvedere la nuova domanda neces­ saria. Risposta piu plausibile sarebbe dire che la nuova do­ manda è creata dall’aumento naturale della popolazione, e Rosa ammette che in una società socialista questo possa es­ sere veramente il punto di partenza di una riproduzione al­ largata. In regime capitalistico, però, i bambini non nasco­ no con conti attivi in banca e l’unica specie di domanda di cui si preoccupano i capitalisti è quella di una domanda che paghi. L ’aumento della popolazione non fornisce una via d ’uscita. Un’altra possibilità è che le cosiddette «terze per­ sone» (medici, avvocati, impiegati statali, soldati, ecc.) pos­ sano provvedere questa domanda. Ma, Rosa argomenta, i loro redditi sono semplicemente denaro sottratto ai salari e al plusvalore: non aggiungono niente alla domanda totale, né possono accrescerla attraverso il tempo. Cosi giunge alla seguente conclusione: « Il plusvalore deve... necessariamen­ te prendere la forma monetaria, spogliarsi della forma di sovraprodotto, prima di riassumerla ai fini dell’accumula­ zione. Ma che cosa e chi sono gli acquirenti del sovraprodot­ to di I e II? Anche solo per realizzare il plusvalore di I e II, è necessario, secondo quanto abbiamo detto, che sia già pre­ sente uno sbocco all’infuori di I e I L Ma quello che si sareb­ be cosi ottenuto è soltanto la conversione del plusvalore in denaro. Perché il plusvalore realizzato possa esser fatto ul­ teriormente servire all’allargamento della produzione, al­ l’accumulazione, è necessaria la prospettiva di uno smercio futuro ancor maggiore, pur esso all’infuori di I e I I » *. Rosa Luxemburg esplora questo terreno in lungo e in lar­ go, e la sua linea di ragionamento non è sempre cosi chiara come spero di essere riuscito a renderla qui. Ma penso che quanto ho esposto metta in luce abbastanza fedelmente l’es­ senza del suo pensiero. Essa pensava che la difficoltà del si­ stema marxiano consistesse nel fatto che Marx non riuscì1 1 Cfr. oltre, p. 124.

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mai a eliminare la contraddizione della incompatibilità esi­ stente fra la riproduzione allargata e il capitalismo puro. Egli si dibattè in questo problema; a volte lo vide piu chia­ ramente, a volte meno; se fosse vissuto fino a portare a ter­ mine II capitale, senza dubbio ne avrebbe trovata la soluzio­ ne. Ma non fu cosi; la contraddizione resta, e spetta appun­ to ai discepoli di Marx di risolverla. Cosi Rosa Luxemburg vide il problema, e questo è il compito che si impose. Vista su questo sfondo, l’impostazione dell’Accumulazio­ ne del capitale è logica, si potrebbe quasi dire inevitabile. La sezione I, suddivisa in nove capitoli, s’intitola II proble­ ma della riproduzione. Un capitolo iniziale, che tratta dei preliminari, è seguito da due capitoli che analizzano il Ta­ bleau économique di Quesnay e la teoria di Adam Smith se­ condo la quale il valore di tutti i beni può in conclusione ri­ dursi a rendita, profitto e salari. I restanti sei capitoli sono dedicati agli schemi di riproduzione di Marx, e culminano in una diffusa discussione della «difficoltà» che Rosa pensa­ va di avere scoperto e che sopra abbiamo esposto '. La se­ zione II, Esposizione storica del problema, comprende quin­ dici capitoli divisi in tre «schermaglie» che in effetti sono tre famose discussioni intorno alla relazione fra consumo e accumulazione nell’economia capitalistica. In queste dispu­ te Rosa Luxemburg vedeva dei primi tentativi di cimentar­ si con il problema che a suo avviso aveva imbarazzato Marx; e dimostra perché, a suo parere, nessuno dei protagonisti fosse riuscito a risolverlo. I principali autori di cui tratta so­ no Sismondi, Malthus, Say, Ricardo, e MacCulloch fra i clas­ sici; Rodbertus e v. Kirchman fra i premarxisti tedeschi e Voroncov, Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij, e Nikolajon (Daniel son) fra i russi contemporanei di Rosa. Infine, la sezione III (otto capitoli) presenta la soluzione data al pro­ blema da Rosa Luxemburg, sotto il titolo Le condizioni sto­ riche dell’accumulazione. Il titolo di quest’ultima sezione mostra quello che Rosa considerava la fonte della «difficoltà» di Marx. Seguendo le tracce degli economisti classici che lo avevano preceduto, 1 È interessante notare che la parola Schwierigkeit appare nei titoli de­ gli ultimi due capitoli di questa sezione.

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egli aveva basato tutta la sua costruzione teoretica sulla pre­ messa di quello che si può definire un sistema capitalistico «puro», cioè composto soltanto di capitalisti e di operai. Questo, secondo Rosa, si giustificava pienamente nell’anali­ si dei capitali individuali e anche nell’analisi della riprodu­ zione semplice. Era abbastanza naturale basare l’analisi del­ la riproduzione allargata sullo stesso assunto, e Marx, come tutti gli altri autori di cui si occupa Rosa, fece così. Ma un esame piu approfondito dimostrava come questo fosse un passo arbitrario che conduceva a un vicolo cieco. La ripro­ duzione allargata era impossibile se si consideravano i capi­ talisti e gli operai come unici compratori, e qualsiasi tenta­ tivo di trovare una via d’uscita mantenendo l’assunto del capitalismo puro era vano.Basandosi su questo ragionamen­ to, era inevitabile che Rosa giungesse alla conclusione che si dovesse lasciar cadere la premessa da cui si era partiti e che il problema dell’accumulazione dovesse essere analizzato en­ tro il quadro definito dalle effettive condizioni storiche che si erano manifestate al momento della nascita e durante lo sviluppo del capitalismo. Fra queste condizioni storiche due sembrarono a Rosa essere di preminente importanza: prima, l’esistenza di paesi non capitalistici accanto a quelli capitalistici; seconda, la presenza, persino all’interno dei paesi prevalentemente ca­ pitalistici, di strati di popolazione non capitalista (contadi­ ni, artigiani, ecc.). Queste due condizioni definivano quello che essa chiamò l’ambiente o il contorno non-capitalistico del sistema capitalistico, ed era questo contorno che prov­ vedeva i compratori necessari i quali, come abbiamo visto, sarebbero mancati in un sistema capitalistico puro. Questa, dunque, fu la soluzione data da Rosa Luxemburg alla «difficoltà», ed essa dedicò la maggior parte della sezio­ ne III alla spiegazione del suo modus operandi e delle sue conseguenze. Il capitalismo nel suo complesso, essa soste­ neva, mentre vive del suo contorno non-capitalistico, al tem­ po stesso lo distrugge, ossia lo trascina nell’orbita del capi­ talismo. Ogni paese capitalistico combatte, anima e corpo, per la partecipazione piu larga possibile al mercato non ca­ pitalistico. Dovunque guardasse, Rosa trovava conferma al­

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la sua teoria. La nascita del protezionismo, per esempio, che era una caratteristica cosi saliente del tardo Ottocento e del primo Novecento, sembrava riflettere l’interesse di ogni paese capitalistico ad escludere gli altri dal proprio mercato interno non-capitalistico. E, naturalmente, l ’imperialismo, con il suo sinistro seguito di militarismo e di guerra, era l’e­ spressione della determinazione da parte di ognuna delle po­ tenze capitalistiche dominanti di asservire al proprio con­ trollo la parte piu grande possibile del mondo non-capitalistico. I capitoli in cui Rosa descrive questi fenomeni —l’ag­ gressione da parte dei forti contro i deboli e la lotta quoti­ diana fra i forti per assicurarsi la parte del leone nel bottino —costituiscono il cuore del libro. Scrivendo con vivacità e con passione, qui essa abbandona lo scolasticismo alquanto arduo delle prime sezioni e innalza tutto il lavoro al livello di un classico rivoluzionario. La sua teoria, però, non la portava soltanto ad una spie­ gazione dell’imperialismo. In aggiunta essa metteva in evi­ denza alcune conclusioni ben definite ed estremamente im­ portanti riferentisi al futuro del capitalismo e quindi anche ai problemi e compiti che si presentavano al movimento in­ ternazionale socialista. Se è vero che il capitalismo dipende per necessità di vita dal suo contorno non capitalistico, ma che per il fatto stesso di vivere di esso sviluppandosi lo di­ strugge, ne segue, con logica inesorabile, che i giorni del ca­ pitalismo sono contati. Quando l’ultima area non capitali­ stica si sarà esaurita, il sistema cadrà e ogni sua ulteriore continuazione sarà del tutto impossibile. Secondo Rosa, pe­ rò, era impensabile che il sistema potesse vivere fino a vede­ re l’ora della sua finale irrevocabile distruzione. Quando questo momento si fosse avvicinato, il corso dello sviluppo capitalistico sarebbe stato destinato a diventare sempre piu violento e catastrofico e quindi a rendere «necessaria la ri­ volta della classe operaia internazionale al dominio del ca­ pitale, prima ancora che, sul terreno economico, esso sia an­ dato ad urtare contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo» '. Cfr. oltre, p. 469.

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X X III

Portata fino alle sue logiche conclusioni, la teoria di Rosa Luxemburg forniva così una implicita confutazione della te­ si revisionista secondo la quale le contraddizioni del capita­ lismo si sarebbero mitigate e il sistema avrebbe potuto con­ tinuare a svilupparsi indefinitamente. Nello stesso tempo, forniva un potente aiuto alla tesi rivoluzionaria secondo cui il capitalismo doveva essere abbattuto, anziché gradualmen­ te riformato, come i revisionisti sostenevano. Non vi è dubbio che Rosa attribuisse la piu grande im­ portanza a queste conseguenze politiche della sua teoria, con­ seguenze che essa però non volle trattare nel libro, come pu­ re si astenne dall’attaccare gli esponenti del movimento so­ cialista tedesco contemporaneo. Forse ebbe l’impressione che l’introdurre materiale di questa natura avrebbe potuto intaccare la forma accademica del libro, oppure pensò che il libro avrebbe avuto piu ampia diffusione e maggiore in­ fluenza se essa non ne avesse accentuato la tesi di parte. In ogni modo essa badò di non dargli l’aspetto di un contributo alla disputa in corso fra riformisti e rivoluzionari, e senza dubbio credette che il libro sarebbe stato accolto secondo l’intendimento con cui veniva offerto, cioè come un contri­ buto scientifico alla chiarificazione e allo sviluppo della teo­ ria marxista. Riguardo a ciò l’attendeva una delusione. I suoi avversa­ ri politici furono pronti a vedere il significato politico del libro e le loro reazioni si conformarono a questo. La mag­ gior parte delle recensioni nella stampa socialdemocratica tedesca furono ostili, e ai pochi aderenti alla sinistra che ne fecero le lodi fu fatto sentire il disappunto dei dirigenti del partito. Il coro dei critici includeva sia i revisionisti che i marxisti ortodossi: a proposito di questi ultimi è signifi­ cativo che la recensione di Otto Bauer nella «Neue Zeit», diretta da Kautsky, fosse aspramente critica. La verità è, che eccezion fatta per un’ala sinistra relativamente esigua, nella quale la stessa Rosa Luxemburg era la figura piu emi­ nente, il complesso del movimento tedesco aveva ormai adottato una posizione riformista. Era ancora consentito par­ lare della rivoluzione come di un evento che il proletariato avrebbe compiuto quando la sua preparazione politica e mo-

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rale fosse stata perfezionata. Ma questo momento doveva essere ancora ben lontano, e intanto si sentiva il bisogno di dimostrare non la necessità del crollo del capitalismo, bensì la possibilità della sua sopravvivenza fino a che gli operai sarebbero stati pronti ad abbatterlo. Pochissimi nel movi­ mento tedesco potevano accettare la prospettiva offerta da Rosa Luxemburg, di un futuro dominato dalle crisi in cui il proletariato sarebbe stato costretto ad agire e difendersi sia che fosse pronto o no. Sebbene non avesse cercato una battaglia politica, Rosa Luxemburg non era temperamento da tacere di fronte a un attacco da parte dei suoi oppositori. Il 1913 e la prima me­ tà del 1914 furono completamente occupati dall’attività pra­ tica di agitatrice contro il militarismo e la crescente minac­ cia di guerra, ma nell’ozio forzato della prigione, dopo lo scoppio della guerra, Rosa ritornò al problema dell’Accu­ mulazione del capitale e alle amare controversie che aveva provocato. Fu in queste circostanze che scrisse il lavoro piu breve, compreso in questo volume, intitolato Anticritica: ovvero ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxia­ na, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1921 e spesso citato nella letteratura del genere come VAntikritik. Non occorre soffermarci ad esaminare il contenuto del1’Antikritik in questa introduzione. Per una migliore in­ formazione del lettore bisogna soltanto fare due osservazio­ ni: primo, FAntikritik fornisce l’elemento politico che man­ ca all’opera originaria e, in questo senso, può esserne con­ siderato un complemento. Secondo, 1’Antikritik contiene una nuova esposizione della teoria di Rosa Luxemburg sul­ la impossibilità dell’accumulazione in un sistema capitali­ stico puro, che a me pare piu semplice e piu chiara di quelle contenute nell’altra opera. Sono molto incline a consigliare al lettore, che per la prima volta si avvicina all’opera di Ro­ sa Luxemburg, di cominciare con la lettura della prima par­ te dell’Antikritik, specialmente le pagine 476-87 prima di passare al capitolo I delVAccumulazione.

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III.

Naturalmente una valutazione dettagliata della teoria di Rosa va oltre i limiti di questa introduzione. Parecchi criti­ ci ne hanno fatto l’oggetto di attenta indagine e hanno di­ mostrato che la tesi che l’accumulazione sia impossibile in un regime di capitalismo puro, si fonda su un equivoco Qui basti richiamare l ’attenzione sulla natura dell’errore. Fondamentalmente, il guaio di Rosa consiste in una con­ fusione puramente formale. Passando dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata, essa manteneva incon­ sciamente qualcuna delle premesse della prima. Questo è l’unico modo di spiegare l’affermazione da lei spesso ripe­ tuta che il consumo non può espandersi all’interno del cam­ po dello schema di riproduzione. Data questa premessa, non c’è dubbio che il resto della teoria segue con logica per­ fetta. Se il consumo resta immutato da un anno all’altro, non può esservi incentivo per i capitalisti a investire il loro plusvalore in addizionali mezzi di produzione. O, per espor­ re la questione con i termini usati da Rosa Luxemburg, l ’i­ dea che i capitalisti realizzino il loro plusvalore comprando mezzi di produzione uno dall’altro, allo scopo di produrre nel prossimo anno un accresciuto numero di mezzi di pro­ duzione e cosi via, senza che ci sia mai un aumento nella produzione finale di beni di consumo, è una mera fantasia economica. L ’accumulazione e il consumo sono collegati in tale modo che il tasso positivo di accumulazione dipende da un aumento del consumo: qui Rosa era assolutamente nel giusto. Dove sbagliava era nell’asserire che la logica del­ lo schema di riproduzione esclude un aumento di consumo,1 1 Vedi in particolare N. i. bucharin , Der Imperialismus und die Akku­ mulation des Kapitals, Wien und Berlin 1926; e Henryk grossmann , Das Ac­ cumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistschen Systems, Leip­ zig 1929. Critiche pili succinte si troveranno in p. M. sw eezy , The Theory of Capitalist Development, New York 1942 [trad. it. La teoria dello svilup­ po capitalìstico, Einaudi, Torino 1951] e n>., The Present as History, New York 1953, cap. XXVI [trad. it. Il presente come storia, Einaudi, Torino 1962]. Per una discussione della teoria di Rosa Luxemburg da un punto di vista non marxista, si veda l’introduzione di Joan Robinson alla traduzione inglese, The Accumulation of Capital, London 1951.

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sia da parte dei lavoratori che da parte dei capitalisti, o con­ temporaneamente da tutte e due le parti. In pratica, la riproduzione allargata, per il suo stesso carattere, comporta un aumento dei redditi sia dei lavoratori che dei capitalisti, e non c’è alcuna ragione plausibile di supporre che ambedue le classi non spendano almeno una parte dell’incremento in consumi. Se lo fanno, almeno una certa accumulazione sarà giustificata, e il teorema della impossibilità di Rosa verrà confutato ‘. Perché Rosa si oppose a questa conclusione con la unila­ terale determinazione di cui troveremo cosi piena evidenza nel corso di questo volume? Fu semplicemente e solamen­ te confusione intellettuale? O c’era implicito qualche cosa di piu profondo? Ho il fermo sospetto che questa sia la ve­ rità. Rosa temeva che se avesse ammesso la possibilità del­ l’accumulazione in un sistema capitalistico puro, avrebbe dovuto anche ammettere che il sistema potesse allargarsi senza limiti. Se avesse detto A, non avrebbe avuto altra scelta che dire B - un B che essa non solo non voleva dire, ma che era sua intima e profonda convinzione che non fosse vero. Le ragioni di questo timore non sono difficili da capire. Aveva imparato dalla storia del pensiero economico che le ipotesi proposte per provare la possibilità dell’accumulazio­ ne di solito erano seguite da argomentazioni aventi lo scopo di provare Vimpossibilità di un’accumulazione troppo gran­ de. Questo era, dopo tutto, il messaggio della legge di Say, la quale, come Keynes dimostrò piu tardi, esercitò una pesan­ te tirannia sulle menti degli economisti per piu di un seco­ lo. Ma era molto piu importante il fatto che essenzialmente la stessa idea, ma in forma molto piu artificiosa con linguag­ gio marxista, si fosse da poco fatta strada nel movimento socialista tedesco. L ’economista russo Tugan-Baranovskij fu il primo a usare gli schemi marxisti di riproduzione a que-1 1 L ’ironia di Bucharin colpisce al cuore l’errore di Rosa: «Se si esclude la riproduzione allargata al principio di una dimostrazione logica, natural­ mente è facile farla sparire alla fine; si tratta semplicemente della riprodu­ zione semplice di un semplice errore logico» (Der Imperialismus und die Akkumulation des Kapitals, p. 20).

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sto proposito *. Egli intendeva provare che l’accumulazio­ ne può procedere indefinitamente, purché siano mantenute le giuste proporzioni fra le varie industrie e i vari settori produttivi. Due cose sembravano discendere da questo: a) che le crisi sono causate da «sproporzione»; b ) che le crisi possono essere mitigate, e forse persino superate, con piu accurata previsione e pianificazione, anche nell’ambito del­ le strutture capitalistiche. Di qui mancava solo un passo per arrivare alla conclusione che la cartellizzazione del capitali­ smo e il crescente intervento dello stato nell’economia avrebbero aperto un periodo di sviluppo capitalistico sem­ pre piu agevole. Questa era una conclusione a cui Bernstein era già arrivato senza far ricorso agli schemi di riproduzio­ ne, ma la teoria di Tugan-Baranovskij sembrava recargli un valido appoggio scientifico. Per di piu l’autorevolezza della teoria aumentò enormemente quando fu ripresa in una for­ ma di poco modificata da Hilferding in Das Finanzkapital, pubblicato nel 1910 e diventato il piu influente trattato scritto da un economista marxista dopo II capitale12. Nel momento in cui Rosa Luxemburg scriveva L ’accumulazio­ ne del capitale, la teoria che le crisi fossero causate da spro­ porzioni, con le relative deduzioni riformiste, era diventa­ ta, per scopi pratici, la dottrina socialdemocratica ufficiale. Rosa Luxemburg stava lottando contro tutto questo, ed era fermamente decisa a non fare alcuna concessione ai suoi avversari. Questo spiega, mi pare, perché si aggrappò cosi tenacemente alla teoria della impossibilità dell’accumula­ zione in un regime di capitalismo puro e come avvenne che essa non riuscì ad accorgersi che la teoria era basata su un errore di ragionamento, abbastanza semplice. In realtà Rosa, insistendo così rigorosamente sulla tesi dell’impossibilità, smantellò la posizione che avrebbe volu­ to difendere. I suoi critici del partito tedesco cercarono 1 Cfr. oltre, cap. XXIII. 2 Rosa Luxemburg non fece menzione di Hilferding nell’Accumulazione del capitale, sebbene naturalmente lo conoscesse bene e ne avesse studiato a fondo il lavoro. Però lo spazio dedicato a Das Finanzkapital nell’Antikritik, in cui, come abbiamo fatto osservare, essa si lasciò andare alla polemica, con­ trariamente a quanto aveva fatto nel precedente lavoro, dimostra che essa lo aveva tenuto molto in considerazione.

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semplicemente di metterne da parte la teoria come priva di vero interesse scientifico: dopo tutto non provavano forse gli schemi di riproduzione che l’accumulazione può proce­ dere facilmente purché si mantengano le giuste proporzio­ ni? Perché perdere tempo intorno a una teoria che attenta ai principi saldamente costituiti? I critici, come accade frequentemente, buttavano via il bambino con l’acqua sporca. Certamente esiste un proble­ ma di accumulazione nel quadro del capitalismo: quanto a questo la facoltà intuitiva di Rosa Luxemburg era veramen­ te solida. Ma non è questione di possibilità contro impossi­ bilità, né si tratta soltanto di evitare che si determinino sproporzioni fra i vari settori produttivi. Il problema nasce dalla tendenza, profondamente radicata, intrinseca e ineli­ minabile, del capitalismo ad accumulare troppo rapidamen­ te, cioè ad aggiungere ai mezzi di produzione piu di quanto il tasso d ’incremento del consumo possa giustificare o so­ stenere1. In un certo senso, anche qui si tratta di «spro­ porzione», ma non di una sproporzione causata dalla insuf­ ficiente pianificazione del capitalismo e a cui si possa ovvia­ re con riforme; è una sproporzione inerente proprio all’es­ senza del sistema. «L a vera barriera della produzione capi­ talistica è il capitale stesso —scriveva Marx, e continuava: — il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il ca­ pitale, e non al contrario: i mezzi di produzione non sono dei semplici mezzi per una continua estensione del proces­ so di vita per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sulla espro­ 1 II punto essenziale fu espresso succintamente da un economista della Harvard University, il professor Arthur Smithies, mentre era in corso la crisi che incominciò nel 19.57- «L a causa fondamentale dell’attuale recessione egli disse - consiste nel fatto che il nostro sistema economico genera capacità produttive piu velocemente di quanto non generi domanda. A meno che non si eserciti qualche potente stimolo esterno, come avvenne alla fine della guer­ ra mondiale o durante la guerra di Corea, tendiamo a creare capacità in ec­ cedenza. Questa è una tendenza persistente della nostra economia» («Busi­ ness Week», .5 aprile 19.58, p. 28).

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priazione e l’impoverimento della grande massa dei produt­ tori, questi limiti si trovano dunque continuamente in con­ flitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricor­ rere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accre­ scimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze pro­ duttive sociali del lavoro. Il mezzo - lo sviluppo incondi­ zionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produt­ tiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione socia­ li che gli corrispondono» Forse non c’è un altro passo negli scritti di Marx che sia altrettanto felice nel distillare l’essenza del suo insegna­ mento circa la natura del sistema capitalistico. Un marxista contemporaneo di Rosa Luxemburg penetrò lo spirito di questo messaggio e lo fece suo: era Lenin. Nella sua pole­ mica contro i narodniki in Russia durante gli anni dopo il 1890, Lenin respinse fermamente la tesi dell’impossibilità - che è precisamente quella che gli scrittori narodniki soste­ nevano —e nello stesso tempo, con pari fermezza, ne ripu­ diò l’opposto, la tesi della possibilità di una illimitata espansione del capitalismo. Il conflitto fra accumulazione e consumo, sosteneva Lenin, è una delle maggiori contraddi­ zioni del capitalismo, ma non costituisce prova dell’impos­ sibilità del capitalismo, come i narodniki pensavano. Al con­ trario, il capitalismo non può esistere né svilupparsi senza contraddizioni. Queste contraddizioni non ne confermano l’impossibilità, ma piuttosto ne dimostrano il carattere sto­ rico e di transizione. Rosa Luxemburg conosceva bene questi scritti di Lenin e si riferì ad essi o lo citò in parecchie occasioni, a volte cri­ ticandolo e altre volte approvandone le idee. Ma essa non fece mai veramente i conti con lui ed è un gran peccato che1 1 II Capitale, Rinascita, Roma 19.54, vol. I l i , 1, p. 306.

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non lo abbia fatto. Perché Lenin fu la prova vivente che era possibile ripudiare la tesi della impossibilità senza cadere nel marasma del riformismo e del revisionismo. Se Rosa avesse capito questo, L ’accumulazione del capitale avrebbe potuto essere un libro diverso e migliore. Avrebbe anche esercitato una maggiore influenza. Ciò nonostante, malgrado i suoi errori e le sue deficien­ ze, che, come spero di essere riuscito a dimostrare, non so­ no trascurabili —L ’accumulazione del capitale è opera no­ tevole di una grande rivoluzionaria. Ancor oggi possiamo molto imparare da essa —dalle sue esplorazioni attraverso la storia del pensiero economico, dalla sua appassionata de­ scrizione della natura e dei metodi dell’imperialismo, dal suo indomito spirito marxista - e anche, certamente, dai suoi sbagli. PAUL M. SWEEZY ' Cambridge, Massachusetts, 22 novembre 1958.1

1 T ra d u z io n e

d i G u g lie lm in a S p ie re r.

CRONOLOGIA D E L L A V IT A E D E L L E O P E R E D I R O SA L U X E M B U R G

a cura di Luciano Amodio

1871

5 marzo. Rosalia (Rosa) Luxenburg (in seguito ha prevalso per lei stessa la grafia Luxemburg) nasce a Zamošć (governa­ torato di Lublino) nel Territorio della Vistola (Polonia russa dal 1915) da Eliasz e Lina Löwenstein, in una famiglia ebraica di condizioni economiche forse oscillanti, ma di un certo livel­ lo culturale e non legata alla comunità ebraica legale. Il padre era un commerciante in legname, e Rosa era la minore di cin­ que figli, tre dei quali maschi, Nicola (poi emigrato a Londra), Massimiliano (titolare di una ditta commerciale a Varsavia), Giuseppe (medico a Varsavia). Il nome della sorella era Anna (pure residente a Varsavia).

1873

La famiglia Luxemburg si trasferisce a Varsavia. Poco dopo R. si ammala all’anca ed è erratamente curata come tubercolo­ tica. Ne deriva una deformazione permanente, che la rese per sempre leggermente claudicante. Rimarrà pure di statura mol­ to piccola.

1884

In occasione della visita a Varsavia dell’imperatore tedesco Guglielmo I compone un poemetto ironico.

1887

14 giugno. Finisce gli studi nel I I Ginnasio femminile di Varsavia, riportando ottimi voti.

1889

Avendo preso parte alle attività del partito rivoluzionario so­ cialista polacco Proletariat, allora rimasto sotto la guida di Marcin Kasprzak, ed essendo minacciata d ’arresto (o/e deside­ rosa di più libera atmosfera), lascia clandestinamente la Po­ lonia attraverso la frontiera austro-ungarica e si stabilisce a Zurigo con aiuto finanziario iniziale e intermittentemente con­ tinuato, se pure spesso in forme modeste, fino alla fine del 1899 da parte della famiglia. Prende un alloggio a buon mer­ cato al n. 77 di Universitätsstrasse, in cima alla collina che so­ vrasta l’università, sulla rive gauche di Zurigo.

1890

Si iscrive alla facoltà di filosofia e segue corsi di scienze natu­ rali e di matematica. Arriva a Zurigo il giovane ebreo lituano Leo Jogiches, anch’egli rivoluzionario profugo, con cui conviverà a lungo.

XXXH

1892

VITA E OPERE DI ROSA LUXEM BURG

Passa alla facoltà di scienze politiche. Sotto lo pseudonimo di R. Kruszynska pubblica in polacco un opuscolo di 32 pagine: Swieto pierwszego maja (Celebrazio­ ne del i° maggio).

1893

Luglio. Esce a Parigi il primo numero di «Sprawa Robotnicza » (La causa dei lavoratori) con la partecipazione di R. L. e il finanziamento di Jogiches, sulla linea della collaborazione con la classe operaia russa e di una lotta socialista in Polonia nell’ambito generale della rivoluzione russa. 6-12 agosto. I l i Congresso dell’Internazionale socialista a Zurigo. R. L. scrive per esso, a nome della redazione della «Sprawa Robotnicza», organo dei socialdemocratici del Re­ gno di Polonia, un rapporto sulla situazione e gli sviluppi del movimento socialdemocratico nella Polonia russa nel periodo 1889-93 Ma il suo mandato (sotto lo pseudonimo di Kruszyn­ ska) viene impugnato dalla delegazione dell’Unione dei socia­ listi polacchi all’estero (gruppo estero del Partito socialista polacco, PPS, che rivendicava l’indipendenza nazionale) e re­ spinto dal congresso su richiesta di Ignacy Daszynski (capo del Partito socialdemocratico polacco di Galizia e Slesia).

1894

Gennaio. Col n. 7 R. L. assume la direzione della «Sprawa Robotnicza» sotto il solito pseudonimo di R. Kruszynska. Lungo soggiorno parigino. Marzo. A Varsavia si tiene il I Congresso della Socialdemo­ crazia del Regno di Polonia ( sd k p ), senza la partecipazione di R. L., ma sotto la sua ispirazione. Il partito rigetta l’indipen­ denza polacca, proclama il suo internazionalismo, e ricalca il programma di Erfurt (1891) della socialdemocrazia tedesca. La rivendicazione immediata è rappresentata da una costitu­ zione liberale per tutto l’impero russo.

1895

Primavera. R. L. torna stabilmente a Zurigo, e le apparizio­ ni della «Sprawa Robotnicza» diradano.

1896

Aprile. R. L. inizia la collaborazione a « Die Neue Zeit » con l’articolo Neue Strömungen in der polnischen sozialistischen Bewegung in Deutschland und Oesterreich (Nuove correnti nel movimento socialista polacco in Germania e in Austria), a. XIV, nn. 32 e 33. 12 luglio. R. L. è di nuovo a Parigi per stimolare la pubbli­ cazione del giornale. 1 6 luglio. Su «Critica Sociale», Rivista quindicinale del so­ cialismo scientifico, anno vi, n. 14, appare firmato col proprio nome La questione polacca al Congresso internazionale di Londra. La posizione internazionalista di R. L. ha l’appoggio di Turati, ma è contrastata da Antonio Labriola.

VITA E OPERE DI ROSA LUXEM BURG

XXXIII

27 luglio - 1° agosto. Congresso dell’Internazionale socialista a Londra: nonostante l’opposizione di Daszynski, il manda­ to di R. L. è questa volta accolto. Essa presenta una mozione contro ogni programma di indipendenza nazionale. Prevale la tesi a favore dell’autodeterminazione dei popoli, ma senza quel riferimento specifico alla Polonia contenuta nella risolu­ zione del pps già appoggiata e inviata a «Critica Sociale» da Labriola (maggio 1896). 8-10 ottobre. Sulla «Sächsische Arbeiterzeitung» (nn. 234236) R. L. si schiera per lo sfaldamento dell’impero turco nel­ le sue componenti nazionali. Inizia così una polemica con Wilhelm Liebknecht sul «V orw ärts», l’organo centrale della socialdemocrazia tedesca, che si protrae fino a dicembre. 1897

12 marzo. Con una tesi sostenuta col professor Julius Wolf e magna cum laude si guadagna il titolo di Doctor Juris Publici et Kerum Cameralium. Maggio. È di nuovo a Parigi, dove stringe amicizia con Jau­ rès, Jules Guesde e soprattutto con Edouard Vaillant. Duran­ te questa permanenza perde la madre.

1898

Pubblicazione della tesi: Die industrielle Entwickelung Po­ lens. Inaugural-Dissertation zur Erlangung der staatswissen­ schaftlichen Doktorwürde der hohen staatswissenschaftlichen Fakultät der Universität (Lo sviluppo industriale in Polonia. Dissertazione per il conseguimento del dottorato in scienze politiche alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Zu­ rigo), Zürich Duncker und Humblot, Leipzig r898. 19 aprile. Per ottenere la cittadinanza tedesca e non rischia­ re espulsioni in Germania, sposa civilmente a Basilea Gustav Lübeck, figlio di un emigrato tedesco e di una polacca, con cui era in stretta amicizia. Il matrimonio, puramente di como­ do, sarà sciolto, nel 1903, con un divorzio. Maggio.

R. L. lascia la Svizzera e si stabilisce a Berlino.

Giugno. Fa agitazione elettorale tra i lavoratori polacchi del­ la Slesia superiore. 21-28 settembre. Interviene con una prima serie di articoli sulla «Leipziger Volkszeitung» (nn. 219-25) diretta da Bruno Schoenlank, contro dei saggi che Bernstein era venuto pubbli­ cando su «D ie Neue Z eit» a partire dalla fine del 1896, e che avevano già suscitato la reazione di Parvus (A. Helphand) e Plechanov, dando cosi luogo al famoso dibattito sul revisio­ nismo. Settembre-novembre. Per poco piti di un mese è caporedat­ trice della « Sächsische Arbeiterzeitung » di Dresda in sostitu­ zione e su suggerimento di Parvus, espulso come straniero in­

XXXIV

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desiderabile dal reale governo di Sassonia. Ma entrata in viva­ ce polemica in difesa di Mehring con Georg Gradnauer, altro suo predecessore al giornale, deputato al Reichstag per Dres­ da e redattore politico del «V orw ärts», si trova contro la maggioranza della redazione per non aver pubblicato una se­ conda replica del suo avversario, ed è costretta a dimettersi. È sostituita da Ledebour. 3- 8 ottobre. Partecipa al Congresso di Stoccarda della Sozial­ demokratische Partei come delegata di Neustadt, Beuthen e Tarnowitz nella Slesia superiore. Polemizza coi revisionisti Heine e Vollmar. 31 ottobre. In una lettera personale a Bebel lo sollecita ad aprire con Karl Kautsky ima campagna contro Bernstein. 1899

Tornata a Berlino, stringe una viva amicizia con Karl e Luise Kautsky. 4- 8 aprile. R. L. pubblica sulla «Leipziger Volkszeitung» la seconda serie di articoli contro Bernstein e in particolare con­ tro il suo libro uscito ai primi di marzo: Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (Le premesse del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). Poco dopo le due serie di articoli contro Bernstein vengono raccolti in brochure: Sozialreform oder Revolution? Mit ei­ nem Anhang: Miliz und Militarismus (Riforma sociale o ri­ voluzione? Con un’appendice: milizia e militarismo), Buchdruckerei und Verlagsanstalt der «Leipziger Volkszeitung», Leipzig 1899. Settembre. Diviene vacante un posto nella redazione del «V orw ärts» e W. Liebknecht suggerisce il nome di R. L. 9-14 ottobre. Congresso socialdemocratico di Hannover: R. L. vi partecipa come delegata di Ratibor e Neuss. Suoi discor­ si contro Bernstein e Max Schippel. 29 novembre. Con lettera ad Adolf Hoffmann, presidente della Commissione stampa del partito R. L. rinuncia, su pres­ sione di Bebel, alla propria candidatura al «V orw ärts». Dicembre. Fondazione della Socialdemocrazia del Regno di Polonia e di Lituania (SDKPiL), di cui sarà magna pars Dzierzynski. 25-31 dicembre.

1900

Giro di agitazione neil’Oberschlesien.

Morte del padre. 15-16 aprile. Assiste al congresso del Partito socialista po­ lacco della Zona prussiana, dove si batte vanamente per la sua dissoluzione e il suo assorbimento nella socialdemocrazia te­ desca.

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XXXV

Fine agosto. Jogiches lascia Zurigo e convive con lei a Berli­ no (alla fine del 1901 egli si trasferisce in Algeria, dove rimane fino al marzo 1902 per assistere il fratello malato). 17-21 settembre. Congresso socialdemocratico di Magonza: R. L. vi partecipa come delegata della Posnania polacca, e an­ cora una volta si pronuncia contro il separatismo organizzati­ vo polacco. È approvata all’unanimità una sua mozione con­ tro l’aggressione alla Cina e in favore della politica di « porta aperta». 23-27 settembre. Partecipa al Congresso internazionale so­ cialista di Parigi; il p p s riesce a far riconoscere come tedesco e non polacco il suo mandato. Sua relazione sulla pace, il mi­ litarismo e l ’esercito. Settembre. Pubblica a Posen (Poznan) l’opuscolo W obronie narodowosci (In difesa della nazionalità), in cui attacca il governo prussiano per la sua campagna contro la lingua po­ lacca nelle scuole. 1901

22-28 settembre. Delegata di Posen al Congresso socialde­ mocratico di Imbecca. Si scontra con Ledebour sulla questio­ ne polacca. Ritira la mozione che vieta di votare a favore del bilancio, a pro di quella di Bebel che prevede eccezioni.

1902

16 gennaio - 27 febbraio. Su «D ie Neue Z eit» critica la tat­ tica di Jaurès e l’entrata di Millerand nel governo. i° aprile. tung ».

Entra nella redazione della «Leipziger Volkszei­

4 aprile - 28 maggio. Polemica con Vandervelde sullo scio­ pero belga per il suffragio egalitario. Settembre. Rinuncia alla redazione per dissensi con Meh­ ring. 14-20 settembre. Delegata di Posen (Poznan) e Bromberg al Congresso socialdemocratico di Monaco. Nuovo scontro con Ledebour sulla questione polacca. Ottobre. Partecipa come esperta a una conferenza di unifi­ cazione del p p s prussiano con la socialdemocrazia tedesca. 1903

6 agosto. A Bruxelles sulla base di una dichiarazione di R. L. e Jogiches, la delegazione della SDKPiL, composta da Adolf Warszawski e Jakob Firstenberg (Hanecki) il I I Con­ gresso del Partito operaio socialdemocratico russo e rinuncia all’unificazione con esso per la questione dell’autodetermina­ zione dei popoli. 13-20 settembre. Al Congresso socialdemocratico di Dresda rappresenta Bromberg e Posen, e si riscontra con Ledebour.

XXXVI

1904

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2 aprile.

A una riunione dell’Ufficio internazionale socialista

( b i s ) a Bruxelles R. L. interviene sulla questione polacca, co­

me rappresentante della SD KPiL in sostituzione di Cezaryna Wojnarowska, dimissionaria in seguito alla rottura coi russi. Luglio. Condannata a tre mesi di carcere per vilipendio del­ l’imperatore in seguito a un discorso nella campagna elettora­ le del 1903. Appare contemporaneamente su « Die Neue Zeit » e sull’« Isk ra» lo scritto Organisationsfragen der russischen Sozialde­ mokratie (Problemi organizzativi della socialdemocrazia rus­ sa) in critica al centralismo di Lenin. 14-20 agosto. Congresso internazionale socialista di Amster­ dam: R. L. vi partecipa come delegato tedesco di Bromberg (Bydgoszcz) e polacco del comitato centrale della SDKPiL. È membro della commissione sui trust e la disoccupazione e di quella per la tattica socialista internazionale. Difende i diritti delle piccole delegazioni. Critica Jaurès e il revisionismo. Settembre-ottobre. In carcere a Zwickau per scontare la pe­ na inflittale, è liberata in anticipo per amnistia concessa in occasione dell’incoronazione del re Federico Augusto di Sas­ sonia. 1903

25 gennaio. Su «D ie Neue Z eit» R. L. commenta l’inizio della prima rivoluzione russa con la domenica di sangue del 22 (9 secondo il calendario pregregoriano russo) gennaio a Pietroburgo. Fine luglio. R. L. si reca per quattro settimane a Cracovia, dove già si era stabilito Jogiches e il quartier generale della SDKPiL. 17-23 settembre. R. L. è delegata di Posen e Bromberg al Congresso socialdemocratico di Jena. 22 settembre. Suo intervento sullo sciopero di massa politi­ co, che le procura una denuncia per «incitamento alla vio­ lenza ». Ultima settimana di ottobre. Comincia a collaborare rego­ larmente al « Vorwärts », specie su questioni russe. Inizio di novembre. Nel quadro di un rinnovamento della direzione del «V orw ärts», ne diviene formalmente redattrice con altri quattro radicali. 28 dicembre. Salutata alla stazione dai Kautsky e pochi altri amici, parte per Varsavia col passaporto di una oscura giorna­ lista, Anna Matsche.

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XXXVII

30 dicembre. Arriva a Varsavia dopo una diversione, a cau­ sa degli scioperi ferroviari, per Uovo (Prussia orientale) ed esser salita su un treno di truppe. 1906

i r gennaio. R. L. in una lettera ai Kautsky si esprime con­ tro la partecipazione alle elezioni alla Duma. 4 marzo. Prima di poter tornare in Germania in considera­ zione degli scioperi di massa di Amburgo, la polizia zarista, messa sull’avviso dal giornale conservatore tedesco «P o st», l’arresta con Jogiches in casa di una contessa Walewska. Vie­ ne identificata attraverso una fotografia sequestrata in casa della sorella. 13 marzo. Delega Karl Kautsky a sostituirla come rappre­ sentante della SD KPiL presso il b i s . h aprile. È trasferita dalla prigione Pawiak al X padiglione della fortezza di Varsavia.

Giugno. Una commissione medica, probabilmente con una certa esagerazione, le riconosce anemia, sintomi isterici e ne­ vrastenici, catarro di stomaco e dilatazione di fegato. Fine giugno. Suo fratello Giuseppe è a Berlino, dove ottie­ ne, probabilmente dalla direzione socialdemocratica e senza preavviso all’interessata, 3000 rubli per la cauzione. Di conse­ guenza è rilasciata, ma non ha il permesso di lasciare Varsavia. 8 agosto. Può lasciare Varsavia per motivi di cura e si reca a Kuokkala (oggi Rèpino) in Finlandia, non distante da Pie­ troburgo, dove si stabilisce sotto il nome di Felicia Budilowitsch. Qui incontra Lenin, Zinov'ev, Kamenev, Bogdanov, visita Aksel'rod, e in carcere a Pietroburgo Parvus e Dejč. Nel com­ plesso non riporta una buona impressione della situazione russa, ma si avvicina alle posizioni leniniste. Per incarico della presidenza dell’organizzazione regionale socialdemocratica di Amburgo e in funzione del prossimo Congresso socialdemo­ cratico a Mannheim scrive Massenstreik, Partei und Gewerk­ schaften (Sciopero di massa, partiti e sindacati) in esaltazione della rivoluzione russa, degli scioperi di massa come nuova arma rivoluzionaria, e contro la funzione conservatrice del­ l ’apparato sindacale. 23-29 settembre. Delegata di Bromberg e Posen al Congres­ so socialdemocratico di Mannheim. 26 settembre. Interviene nel dibattito sullo sciopero di mas­ sa politico contro il capo dei sindacati Legien, che aveva par­ lato contro lo sciopero generale secondo la tradizione antianarchica. Critica Bebel che confessa l’impotenza del partito

XXXVIII

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in causa di guerra contro la Russia, contrapponendogli la paro­ la d ’ordine di Vaillant: «plutôt l’insurrection que la guerre». 28 settembre. Intervento di R. L. nel dibattito sul rapporto tra sindacati e partito, contro la prevalenza dei primi sul se­ condo. Novembre. Scende in Italia con Luise Kautsky, pure conva­ lescente di una frattura alla gamba sinistra conseguente a una caduta di bicicletta. Dicembre. Da Maderno, sul lago di Garda, torna in Germa­ nia per assistere al proprio processo a Weimar, capitale della Turingia, per il discorso di Jena. 12 dicembre. 1907

Processo e condanna a due mesi di carcere.

Gennaio. Processo a Varsavia in contumacia a R. L., mentre Jogiches è condannato a otto anni di lavori forzati e confino perpetuo in Siberia. Febbraio. Jogiches con l’aiuto di Hanecki fugge a Varsavia e poi a Cracovia. Aprile. Jogiches torna in Germania, ma R. L. rompe bru­ scamente i propri rapporti privati con lui, e inizia una nuova relazione con Konstantin Zetkin, figlio ventiduenne di Klara Zetkin, relazione che andrà spegnendosi nel 1909. 13 maggio - 1° giugno. Delegata della SD KPiL al V Con­ gresso del Partito operaio socialdemocratico russo. 23 maggio. R. L. afferma che compito della socialdemocrazia è la preparazione politica, non tecnica, della insurrezione ge­ nerale popolare contro l’assolutismo. Elogia la rigida difesa del principio dell’autonomia di classe da parte bolscevica. 27 maggio. Riconosce i contadini come fattore obiettivamen­ te rivoluzionario. 12 giugno - T2 agosto. a Weimar.

Sconta i due mesi di carcere inflittile

18-24 agosto. Partecipa al Congresso internazionale sociali­ sta di Stoccarda, dove in collaborazione con Lenin e Martov fa passare il noto emendamento alla risoluzione di Bebel sulla guerra, che incita allo sfruttamento della guerra per l’accele­ razione del crollo del dominio classista. 21 agosto. In sede di commissione per la questione del mili­ tarismo e dei conflitti internazionali R. L. prende la parola an­ che in nome della delegazione russa a favore dell’emenda­ mento. 15-21 settembre.

Congresso di Essen senza R. L.

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XXXIX

Ottobre. Dietro raccomandazione di Karl Kautsky, è assun­ ta alla Scuola centrale di partito a Berlino: vi tiene corsi di economia politica e storia economica per cinquanta ore al mese, come unica insegnante femminile. 1908

Gennaio. Passa alcune sere con Lenin in transito a Berlino per Parigi. 24 luglio. Su «D ie Neue Z eit», n. 42, R. L. pubblica, dopo consultazione con Lenin, una lettera aperta a Jean Jaurès con­ tro il suo apprezzamento della visita di Edoardo V II a Revai. 13-19 settembre. Partecipa come delegata di Posen e Züllichau-Grossen al Congresso socialdemocratico di Norimberga. 14 settembre. Difende vittoriosamente la scuola di partito contro Kurt Eisner e Maurenbrecher, che chiedono che vi si insegni invece che teoria « il lato pratico della vita». R. L. ri­ sponde che il proletariato impara a conoscere questo lato dal­ la vita quotidiana. Rileva la necessità della preminenza dello studio della storia del socialismo internazionale.

1909

1910

21 aprile. Sul « Proletarii », n. 44, su invito di Lenin, R. L. attacca le deviazioni di sinistra (otzovismo ed ultimatismo). Maggio. R. L. scende in Italia, dove soggiorna circa due me­ si (Genova, Levanto). 18 maggio. Lenin le manda Materialismo ed empiriocritici­ smo per una segnalazione su « Die Neue Zeit », che difatti ap­ pare, dietro sollecitazione di R. L. a Kautsky, l’8 ottobre nel vol. XXV III, n. 2 12-18 settembre. Congresso di Lipsia senza R. L. Marzo. In seguito al dilagare in Prussia di manifestazioni per il miglioramento del vigente sistema elettorale per classi di reddito, R. L. cerca di lanciare la parola d’ordine della re­ pubblica, di cui Kautsky le rifiuta la pubblicazione, forse die­ tro pressione della direzione socialdemocratica, su « Die Neue Zeit ». Sorge una polemica che si protrae fino ad agosto con l’intervento anche di Pannekoek per R. L. e di Mehring per Kautsky, e si conclude con la rottura politica e personale tra i due. 28 agosto - 3 settembre. Partecipa al Congresso internazio­ nale socialista di Copenaghen. 18-24 settembre. Delegata di Lenne, Remscheid, Mettmann al Congresso socialdemocratico di Magdeburgo. 21 settembre. Parla contro l’approvazione del bilancio nel Baden da parte socialdemocratica. 23 settembre. Difende una mozione per l’applicazione dello sciopero di massa politico.

XL

1911

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24 luglio. In seguito all’incidente internazionale provocato dall’invio della cannoniera tedesca Panther ad Agadir e il fal­ lito tentativo di Huysmans di convocare una conferenza del b i s , R. L. pubblica sulla «Leipziger Volkszeitung» la risposta negativa di Molkenbuhr, commentandola negativamente. 10-16 settembre. Delegata di Hagen e Schwelm al Congres­ so socialdemocratico di Jena, viene attaccata da Bebel e difesa da Ledebour per il procedimento ritenuto scorretto della pub­ blicazione della lettera di Molkenbuhr.

1912

29 febbraio - 4 marzo. Sulla « Leipziger Volkszeitung » attac­ ca la tattica elettorale di alleanza nel ballottaggio con la Frei­ sinnige Volkspartei, che ha avvantaggiato solo i progressisti. Ottiene l’appoggio di Mehring. 15-16 marzo. Sulla «Leipziger Volkszeitung», nn. 62 e 63 replica alla difesa da parte di Kautsky («V orw ärts» del 5, 6 e 7 marzo) della tattica elettorale. 8 luglio. R. L. denuncia al b i s un gruppo scissionistico di Varsavia (Hanecki, Leder, Radek, Unszlicht).

31 agosto. Con lettera al b is Lenin difende i ribelli alla di­ rezione emigrata della SDKPiL. 15-21 settembre.

Congresso di Chemnitz senza R. L.

Dicembre. Finisce Die Akkumulation des Kapitals. Ein Beit­ rag zur ökonomischen Erklärung des Imperialismus (L ’accu­ mulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo), che apparirà nell’edizione Buchhandlung Vorwärts Paul Singer GmbH., Berlin 1913. 1913

17 luglio.

Partecipa ai funerali di Bebel a Zurigo.

14-20 settembre. R. L. è delegata al Congresso socialdemo­ cratico di Jena, dove parla dello sciopero di massa. Radek, espulso dalla SDKPiL, è automaticamente espulso anche dalla socialdemocrazia tedesca, nonostante l’opposizione di R. L. a tale forma di espulsione senza verifica dei motivi. 25 settembre.

Discorso a Fechenheim (Francoforte).

26 settembre. A Borkenheim presso Francoforte in un comi­ zio R. L. dichiara che i lavoratori dovranno rifiutarsi di com­ battere contro i loro fratelli francesi o chiunque altro. 13-14 dicembre. Riunione del b i s a Londra che decide con l’approvazione di R. L. la convocazione di una conferenza per l’unificazione (avversata da Lenin) del movimento operaio russo. 27 dicembre. Esce il primo numero di « Sozialdemokratische Korrespondenz », edita da J . Karski (Julian Marchlewski), R.

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X LI

L. e Franz Mehring. È un foglio nominalmente trisettimanale, ciclostilato in circa 150 copie, inviato come materiale ai gior­ nali socialdemocratici, ma che ebbe poco successo (ne riprese­ ro i testi solo quattro giornali). 1914

20 febbraio. A Francoforte sul Meno R. L., difesa da Kurt Rosenfeld e Paul Levi, viene condannata a un anno di carcere per i discorsi di Borkenheim e Fechenheim del settembre pre­ cedente. 7 marzo. In un comizio a Friburgo, a proposito del suicidio di un dragone a Metz, R. L. denuncia l’atmosfera di brutalità regnante nelle caserme tedesche. 29 giugno - 3 luglio. Processo a Berlino intentato dal mini­ stro della guerra prussiano, generale von Falkenhayn, contro R. L. per le sue dichiarazioni di Friburgo. Di fronte all’offrirsi di un migliaio di testimonianze di sevizie, la procura ottie­ ne l’aggiornamento del processo a tempo indeterminato, no­ nostante l’opposizione della difesa e di R. L. 16-18 luglio. A Bruxelles si tiene la conferenza di «unifica­ zione» del movimento operaio russo, con la partecipazione, avversata da R. L. ma voluta da Lenin, di Hanecki in rappre­ sentanza dei Comitati di Varsavia e Lódz (opposizione della SDKPiL). Con l’astensione dal voto della sola delegazione bolscevica e lettone, è approvata all’unanimità una risoluzio­ ne presentata dal comitato esecutivo del b i s , preparata da Kautsky e appoggiata da R. L., che stabilisce le condizioni dell’unità. 29 luglio. R. L. rappresenta la SD KPiL alla seduta del b is a Bruxelles. In un comizio serale contro la guerra al Cirque Royal, Jaurès esalta il coraggio di R. L. 2-3 agosto. Vani tentativi di R. L. e Klara Zetkin di organiz­ zare un’agitazione contro la guerra. 4 agosto. A sera, non appena è giunta la notizia della vota­ zione a favore dei crediti di guerra da parte della frazione so­ cialdemocratica al Reichstag, nell’appartamento di R. L. riu­ nione d’opposizione con Mehring, Marchlewski, Ernst Meyer, Hermann e Käte Duncker, Pieck. io settembre. Lettera contro la guerra inviata alla redazione di alcuni giornali svedesi, italiani e svizzeri da Karl Lieb­ knecht, R. L., F. Mehring e Klara Zetkin. 22 ottobre.

In appello è confermata la condanna a un anno.

31 dicembre. Sul «Labour Leader», settimanale londinese dell’Independent Labour Party appaiono lettere contro la guerra (poi diffuse illegalmente in Germania) di R. L. e Karl Liebknecht.

X L II

VITA E OPERE DI ROSA LUXEM BURG

19x5

18 febbraio. Sebbene per ragioni di salute le fosse stata con­ cessa la libertà fino al 31 marzo, è improvvisamente incarcera­ ta nella prigione femminile di Berlino della Barnimstrasse, per scontare la pena di un anno. Metà aprile. Esce il primo ed ultimo numero di « Die Inter­ nationale», Eine Monatsschrift für Praxis und Theorie des Marxismus, herausgegeben von Rosa Luxemburg und Franz Mehring. Contiene l’articolo firmato da R. L. Der Wiederauf­ bau der Internationale (La ricostruzione dell’Internazionale). La rivista è immediatamente sequestrata e sottoposta dalle au­ torità militari a censura preventiva; Mehring rifiutò la condi­ zione. Aprile. Scrive Die Krise der Sozialdemokratie (La crisi della socialdemocrazia), che fu stampata l ’anno seguente con lo pseudonimo di Junius. 13 maggio. Appare il n. 145 e ultimo di « Sozialdemokratis­ che Korrespondenz», ormai composto solo delle congiunture economiche di Marchlewski. 5-8 settembre 1914. I tre rappresentanti del gruppo Inter­ nationale votano contro la formula di Lenin di trasformare la guerra imperialista in guerra civile.

1916

i ° gennaio. Nell’ufficio di Karl Liebknecht a Berlino la I conferenza nazionale del gruppo Internazionale approva in via generale i Leitsätze über die Aufgaben der internationalen Sozialdemokratie (Tesi sui compiti della socialdemocrazia in­ ternazionale) elaborati in carcere da R. L. e rivisti da Lieb­ knecht. 6 gennaio. Emanuel Wurm a nome della redazione di « Die Neue Zeit » respinge l’offerta di R. L. della propria risposta ai critici dell 'Accumulazione del capitale, in quel momento in fase di avanzata elaborazione. 15 febbraio. In una riunione dell’opposizione berlinese il gruppo Hoffmann-Ledebour-Eichhorn fa respingere le tesi di R. L. per il loro centralismo internazionalistico. i ° maggio. R. L. partecipa a una manifestazione contro il go­ verno e la guerra (disertata dai centristi) in Potsdamer Platz a Berlino, nel corso della quale Karl Liebknecht è arrestato e condannato a quattro anni. xo luglio. R. L. è di nuovo arrestata senza che le si elevi al­ cuna nuova accusa ed è tenuta in carcere fino alla fine della guerra. Per alcune settimane è nella prigione femminile della Barnimstrasse, poi è trasferita al quartier generale della poli­ zia in Alexanderplatz.

VITA E OPERE DI ROSA LUXEM BURG

Fine ottobre. (Posen). 1917

X L III

Trasferita nella vecchia fortezza di Wronke

6 gennaio. In «D er Kampf », n. 31, (Supplemento) di Duis­ burg, con lo pseudonimo di Gracchus esce un articolo di R. L. (contrabbandato all’estero da Mathilde Jacob) in cui si de­ preca l’uscita dal vecchio partito socialdemocratico che abban­ dona le masse ai socialsciovinisti. 8 marzo. In una lettera a un medico di Stoccarda suo amico, annunciandogli l’invio dell’Anticritica attraverso la Jacob, la definisce l’unico lavoro di cui sia orgogliosa e che sicuramen­ te le sopravviverà, piu matura dell’Accumulazione stessa. 6-8 aprile. Fondazione a Gotha dell’Unabhängige Sozialde­ mokratische Partei Deutschlands ( u s p d ), a cui aderiscono, pur mantenendo la loro autonomia, gli spartachisti (cosi detti dalla firma delle loro lettere circolari clandestine, in cui usci­ rono molti articoli di R. L. tra il 1916 e il 1918). Luglio.

È trasferita fino alla fine della guerra a Breslavia.

Aprile. In « Spartacus », n. 4, esce Die Revolution in Russ­ land (La rivoluzione in Russia), con cui R. L. saluta la rivo­ luzione di febbraio, prevedendo piu profondi sviluppi. Novembre. In lettere agli amici manifesta entusiasmo per la rivoluzione d’ottobre, ma anche assoluto pessimismo sulla loro vittoria finale. Dicembre. scevica. 1918

È contraria alla ricerca della pace da parte bol­

Settembre-ottobre. Scrive Die russische Revolution (La ri­ voluzione russa), pubblicata postuma da Paul Levi attorno al Natale del 1921. Sulla base di un incondizionato appoggio al­ la rivoluzione d’ottobre formula tuttavia una serie di fondamentali critiche alla politica bolscevica nel settore della poli­ tica agraria, della dittatura, dell’autodeterminazione dei po­ poli. 9 novembre. È liberata dal carcere dal crollo del regime, e torna a Berlino. 20 novembre. In Die Nationalversammlung (L ’assemblea nazionale), apparso su «D ie Rote Fahne. Zentralorgan des Spartacusbundes », n. 5, R. L. si pronuncia per i consigli degli operai e dei soldati contro l’assemblea costituente giudicata soluzione borghese. 14 dicembre. Su «D ie Rote Fahne. Zentralorgan des Sparta­ cusbundes», n. 29, esce anonimo Was will der Spartacusbund? (Che cosa vuole lo Spartacusbund?), il programma del­ la lega, almeno in gran parte di mano di R. L., in cui si riba­

XLIV

VITA E OPERE DI ROSA LUXEMBURG

disce la condanna del terrore e la necessità di una maggioran­ za popolare. 15 dicembre. Assemblea generale degli indipendenti berli­ nesi. R. L. propone l’immediata uscita dal governo degli indipendenti, il rifiuto dell’assemblea nazionale e l’assunzione di tutto il potere politico da parte dei consigli. È sconfitta per 485 voti contro 195. 16-21 dicembre. I Congresso dei consigli degli operai e sol­ dati tedeschi nella Camera dei deputati a Berlino. Vi sono sta­ ti eletti con suffragio indiretto una forte maggioranza di so­ cialdemocratici maggioritari (il vecchio partito). R. L. e Lieb­ knecht non sono eletti e due proposte di invito sono respinte a grande maggioranza. Vince facilmente la proposta Cohen di fissare le elezioni dell’Assemblea nazionale al 9 gennaio. 29 dicembre. Non avendo la direzione degli indipendenti aderito alla richiesta di un congresso nazionale, una conferenza a porte chiuse dello Spartacusbund decide all’unanimità meno 3 v o ti l ’u scita d a ll’usPD e la fon d azion e d i un n u ovo p artito.

R. L. si risolve so lo d o p o fo rti esitazion i, Jo g ic h e s rim ane contrario.

30 dicembre. Congresso di fondazione della Kommunistis­ che Partei Deutschlands a Berlino, alla presenza di Radek. R. L., che sostiene con tutta la direzione la partecipazione alle elezioni, viene battuta per 62 voti contro 23. 31 dicembre. R. L. si pronuncia per la liquidazione dei sin­ dacati. La sua relazione sul programma proclama il ritorno alle posizioni marxiste del 1848. Il congresso chiede l’edifica­ zione di una nuova Internazionale dell’azione rivoluzionaria. 1919

4 gennaio. L ’indipendente Emil Eichhorn, capo della poli­ zia berlinese, viene esonerato dal ministro degli Interni prus­ siano, il socialdemocratico maggioritario Paul Hirsch. Ne de­ rivano violente manifestazioni di protesta. 6 gennaio. Nonostante l’opposizione di R. L., Radek, Levi e Jogiches, Liebknecht si lascia coinvolgere in un incerto movi­ mento insurrezionale per l’abbattimento del governo, del re­ sto alternato con trattative. i r gennaio. Controffensiva del commissario del popolo per l’Esercito e la Marina, Gustav Noske, che entra in Berlino con oltre duemila soldati. La sede del «V orw ärts», occupata da spartachisti e indipendenti, è loro ripresa, e cominciano le esecuzioni sommarie. 14 gennaio. Su «D ie Rote Fahne», anno 11, n. 14, appare firmato l’ultimo articolo di R. L.: Die Ordnung herrscht in Berlin (L ’ordine regna a Berlino).

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XLV

15 gennaio. Verso le nove di sera, in casa della famiglia Markussohn (o Marcusson) in Mannheimer Strasse 44 nel sobborgo berlinese di Wilmersdorf, vengono arrestati R. L., K. Liebknecht e W. Pieck. Portati all’hotel Eden, Liebknecht è il primo ad essere eliminato nel trasporto alla prigione civi­ le di Moabit. R. L. è prima gravemente colpita col calcio del fucile dal soldato Otto Runge, poi in macchina è finita con una rivolverata dall’Oberleutnant Kurt Vogel. Il suo cadave­ re è gettato nel Landwehrkanal. 16 gennaio. La prima versione ufficiale è di tentativo di fuga da parte di Liebknecht e di linciaggio da parte della folla per R. L. 29 gennaio. ring.

Muore in un sanatorio a Grünewald Franz Meh­

io marzo. Leo Jogiches è arrestato e assassinato in uno pseu­ dotentativo di fuga. 2-19 marzo. Fondazione della Terza Internazionale. Hugo Eberlein, unico delegato tedesco, si astiene nella votazione di fondazione, parzialmente rispettando le istruzioni contrarie dategli in precedenza da R. L. 8-14 maggio. Processo agli assassini di R. L.: Runge riceve una condanna di due anni e due settimane, Vogel di due anni e quattro mesi. Di li a pochi giorni, Vogel fu fatto fuggire in Olanda, e poi amnistiato. 31 maggio.

È ripescato il cadavere di R. L.

13 giugno. Sua sepoltura nel cimitero di Friedrichsfelde, do­ ve il 25 gennaio erano stati sepolti K. Liebknecht con altre trentun vittime della repressione. 1926

13 giugno. In onore di R. L. e K. Liebknecht è inaugurato un memoriale di Ludwig Mies van der Rohe, poi distrutto dai nazisti.

L ’ACCUMULAZIONE D EL CAPITALE Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo

AV V ERTEN ZA

Lo spunto al presente lavoro mi è stato dato da un’intro­ duzione in forma popolare all’economia politica1che anda­ vo da tempo preparando per la stessa casa editrice12, ma che gli impegni della scuola di partito o l’agitazione mi avevano di volta in volta impedito di portare a termine. Rimessami al lavoro nel gennaio di quest’anno, dopo le elezioni al Reichstag, col proposito di concludere almeno nelle grandi linee quella volgarizzazione della dottrina economica mar­ xista, mi trovai di fronte a una difficoltà inaspettata: non riuscivo a presentare con sufficiente chiarezza il processo d’insieme della produzione capitalistica nei suoi rapporti concreti e nei suoi limiti storici obiettivi. A un esame piu attento, dovetti convincermi che non si trattava di una sem­ plice questione di esposizione, ma di un problema connes­ so, sul piano teoretico, al contenuto del II libro del Capita­ le e, nello stesso tempo, alla prassi dell’attuale politica im­ perialistica nelle sue radici economiche. Se sarò riuscita ad afferrare con esattezza scientifica questo problema, la pre­ sente opera potrà avere non soltanto un interesse teorico, ma anche una certa importanza ai fini della nostra lotta pra­ tica contro l’imperialismo. R. L.

Dicembre 1912. 1 [Einführung in die Nationalökonomie,

p u b b l. p o s tu m a a B e r lin o n e l

1924 ] .

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[B u c h h a n d lu n g V o r w ä r ts P a u l S in g e r , d i B e r l in o ] .

Parte prima Il problerna della riproduzione

C A P IT O L O P R IM O OGGETTO D E L L ’ INDAGINE

Uno dei meriti imperituri di Marx come teorico dell’eco­ nomia è di aver posto il problema della riproduzione del ca­ pitale sociale totale. È caratteristico che la storia dell’eco­ nomia politica offra soltanto due tentativi di una imposta­ zione corretta del problema: ai suoi albori, nel padre della scuola fisiocratica Quesnay, e al suo punto di approdo, in Karl Marx. Non che nel frattempo il problema cessasse di tormentare il pensiero economico borghese; ma questo non riuscì mai, non diciamo a risolverlo ma nemmeno a porlo di proposito e nella sua purezza, isolandolo dai problemi se­ condari che vi si ricollegano e vi s’incrociano. D ’altra parte, considerata l ’importanza fondamentale del problema, è pos­ sibile sulla scorta di questi tentativi seguire fino a un certo punto le vicende della economia scientifica. In che consiste il problema della riproduzione del capita­ le totale? Riproduzione significa letteralmente ripetizione, rinno­ vamento del processo produttivo; né è facile capire a primo sguardo in che cosa il concetto di riproduzione si distingua da quello accessibile a tutti di produzione, e perché sia ne­ cessario un nuovo termine discriminante. Senonché proprio nel fatto della riproduzione, del continuo rinnovarsi del processo produttivo, è dato individuare un elemento di per sé importante. Anzitutto, la ripetizione regolare della pro­ duzione è la premessa e la base generale di un regolare con­ sumo, e perciò il presupposto dell’esistenza civile della so­ cietà umana in tutte le sue manifestazioni storicamente de­ terminate. In questo senso, nel concetto di riproduzione è contenuto un elemento che si riallaccia alla storia della ci­ viltà in generale. La produzione non può riprendere, la ri-

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produzione non può compiersi, se mancano determinate premesse —attrezzature, materie prime, forze-lavoro —che sono il frutto delle fasi precedenti della produzione. Ma, ne­ gli stadi primitivi dell’evoluzione civile, ai primordi del do­ minio dell’uomo sulla natura esterna, la possibilità di una ripresa della produzione dipende piu o meno dal caso. Fin­ ché la caccia o la pesca costituiscono essenzialmente le basi dell’esistenza della società, il regolare rinnovarsi della pro­ duzione è spesso interrotto da periodi di carestia generale. In alcuni popoli primitivi, le esigenze della riproduzione come processo regolarmente rinnovantesi hanno anzi trova­ to per tempo la loro espressione tradizionale e socialmente impegnativa in un complesso di cerimonie a carattere reli­ gioso. Secondo gli studi approfonditi di Spencer e Gillen, il culto totemistico dei negri australiani non è sostanzial­ mente che la trasmissione, irrigiditasi in cerimonia religio­ sa, di norme di condotta osservate da tempo immemorabile dai rispettivi gruppi sociali, al fine di procacciarsi e conser­ vare il nutrimento animale o vegetale. Solo la coltivazione della terra, l’addomesticamento del bestiame e il suo alleva­ mento a fini alimentari dovevano permettere quel circuito regolare di consumo e produzione, che è il tratto distintivo della riproduzione. In questo senso, il concetto di riprodu­ zione implica di per sé qualcosa di piu della semplice ripeti­ zione: implica il raggiungimento da parte della società di un certo grado di controllo sulla natura esterna o, per espri­ mere lo stesso concetto in termini economici, un certo li­ vello nella produttività del lavoro. D ’altra parte, il processo produttivo si presenta, in tutti i gradi dell’evoluzione sociale, come unità di due momenti diversi anche se strettamente legati l’uno all’altro: le condi­ zioni tecniche e le condizioni sociali, o, in altre parole, il modo di configurarsi dei rapporti fra uomo e natura, e fra uomo e uomo. Anche la riproduzione dipende in egual mi­ sura da questi. Abbiamo visto come essa si ricolleghi alle condizioni della tecnica del lavoro umano e sia il prodotto di un certo grado di sviluppo della produttività del lavoro; ma non meno determinanti sono le forme sociali specifiche della produzione. In una comunità agricola comunista di ti-

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po primitivo, per esempio, la riproduzione è determinata, come tutto il piano della vita economica, dalPinsieme dei lavoratori e dai loro organi democratici: la decisione di riprendere il lavoro, la sua organizzazione, la realizzazione delle sue necessarie premesse (attrezzi, materie prime, for­ ze-lavoro), la fissazione dell’ampiezza e della ripartizione ilei processo riproduttivo, sono dunque il frutto di una col­ laborazione programmata di tutti gli individui nell’ambito della comunità. In una economia schiavistica o feudale, la riproduzione si compie sulla base di rapporti personali di sovranità ed è regolata in tutti i suoi dettagli, non trovando un limite alla sua estensione che nel diritto del centro do­ minante di disporre di contingenti piu o meno vasti di for­ ze di lavoro esterne. Nella società basata su rapporti di pro­ duzione capitalistici, la riproduzione si configura in modo del tutto particolare, come mostra l’apparenza stessa in de­ terminati momenti di notevole rilievo. In ogni altra società storicamente conosciuta, la riproduzione viene regolarmen­ te intrapresa ogniqualvolta ne esistano le condizioni fondamentali: presenza di mezzi di produzione, presenza di for­ ze-lavoro. Solo circostanze esteriori come il flagello di una guerra o una grave epidemia, con conseguente spopolamen­ to e distruzione di masse di forza-lavoro e mezzi di produ­ zione accumulati, possono far si che, in interi settori della vita civile, la riproduzione non si compia per un periodo piu o meno breve, o si compia in misura limitata. Fenomeni analoghi possono in parte originarsi da interventi dispotici nel piano generale di produzione. Quando nell’antico Egit­ to la volontà di un faraone incatena per decenni alla costru­ zione di piramidi migliaia di fellahin, quando nell’Egitto moderno un Ismail Pascià comanda ventimila fellahin co­ me servi della gleba agli scavi del canale di Suez, quando il fondatore della dinastia Ch’in, l’imperatore Shih Huang Ti, condanna alla fame e alla consunzione quattrocentomila sudditi e distrugge una intera generazione per portare a ter­ mine la costruzione della «Grande Muraglia» ai confini set­ tentrionali della Cina - in tutti questi casi gigantesche estensioni di terreno rimangono di conseguenza incolte, e lo svolgimento regolare della vita economica risulta per lunc o si

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ghi periodi di tempo interrotto. Ma in ognuno di essi tali interruzioni della riproduzione avevano evidentemente ori­ gine dalla determinazione unilaterale del piano di riprodu­ zione nel suo complesso attraverso un rapporto di signoria. Diverso è il quadro offerto dalla società capitalistica, dove in determinati periodi sono presenti tanto i mezzi produtti­ vi materiali necessari quanto le forze di lavoro richieste dal­ la messa in moto della riproduzione, e d ’altra parte i biso­ gni sociali di consumo rimangono insoddisfatti, e tuttavia il processo riproduttivo o è completamente interrotto o non si realizza che in misura limitata. Responsabili delle diffi­ coltà del processo di riproduzione non sono qui interventi dispotici nel piano economico generale: la messa in moto della riproduzione è qui condizionata, oltre che dall’insie­ me dei fattori tecnici, dalla circostanza di natura puramen­ te sociale che si producono solo quei beni che offrano la si­ cura prospettiva d ’essere realizzati, cioè scambiati contro denaro, e non soltanto realizzati in generale, ma con un pro­ fitto di un certo livello medio. In altre parole, il profitto co­ me scopo ultimo e come fattore determinante domina qui non soltanto la produzione ma la riproduzione; non soltan­ to il modo e il contenuto del processo produttivo e della di­ stribuzione dei prodotti, ma anche il problema se, in quali limiti e in quale direzione il processo lavorativo debba esse­ re ripreso non appena un periodo di lavoro si sia concluso. «S e la produzione ha forma capitalistica, l’ha anche la riproduzione» ‘. Dati questi elementi di natura essenzialmente storico-so­ ciale, il processo della riproduzione capitalistica si presenta come un problema affatto nuovo e assai complicato. Già nelle sue caratteristiche esterne, il processo della riprodu­ zione nella società capitalistica presenta particolarità stori­ che specifiche : abbraccia non solo la produzione ma la cir­ colazione (processo di scambio), è l’unità di entrambe. La produzione capitalistica è, anzitutto, opera di un nu­ mero illimitato di produttori privati indipendenti, l’unico legame sociale fra i quali è costituito dallo scambio. La ri-1 1 K. Marx , Das Kapital, libro I, 4a ed. 1890, p. 529 [sez. V II, cap. XXI],

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produzione trova come punto di appoggio per la determi­ nazione dei bisogni sociali le esperienze dei cicli lavorativi precedenti: ma queste sono esperienze personali di produt­ tori singoli, che non trovano un’espressione sociale unica. Inoltre, sono sempre esperienze indirette e negative, non positive e dirette, sui bisogni della società, che permettono di trarre dall’andamento dei prezzi in un determinato pe­ riodo una conclusione sull’eccesso o difetto della massa di beni prodotti in rapporto alla domanda solvibile. La ripro­ duzione viene sempre intrapresa, in base alle esperienze dei cicli di produzione anteriori, da singoli produttori privati. Ne consegue che nel ciclo successivo potrà ugualmente ve­ rificarsi un eccesso o un difetto, di fronte al quale singoli rami della produzione seguiranno vie diverse ed opposte, l’uno presentando un eccesso, l’altro un difetto; e poiché tutti i settori della produzione si trovano in rapporti reci­ proci di dipendenza tecnica e un eccesso o difetto in alcuni settori dominanti della produzione porta con sé un fenome­ no analogo nella maggior parte degli altri, ecco che di tem­ po in tempo si avrà ora un’eccedenza generale ora una scar­ sità generale di prodotti in rapporto alla richiesta sociale. Basta questo a dare alla riproduzione nella società capitali­ stica un volto particolare, diverso da quello di tutte le altre forme storiche di produzione. In primo luogo, ogni ramo della produzione compie qui un moto entro certi limiti in­ dipendente, che porta di volta in volta a interruzioni piu o meno lunghe della riproduzione. In secondo luogo, gli scar­ ti fra la riproduzione nei singoli rami e i bisogni sociali si sommano periodicamente in una incongruenza generale, da cui deriva una generale interruzione della riproduzione. Il quadro offerto dalla riproduzione capitalistica è dunque af­ fatto particolare. Mentre in ogni altra forma di economia - prescindendo da interventi dispotici dall’esterno —la riproduzione si svolge come un circuito regolare ininterrot­ to, la riproduzione capitalistica può essere soltanto rappre­ sentata, per servirci di una nota formula sismondiana, co­ me una serie continua di spirali, i cui giri, inizialmente ri­ stretti, diventano via via piu larghi e infine larghissimi, do­ po di che si verifica una contrazione, e la nuova spirale ri-

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prende a giri ridotti per ripetere la stessa figura fino alla successiva interruzione. L ’alternarsi periodico dell’espansione massima della riproduzione e del suo contrarsi fino al parziale arresto, cioè quello che si chiama il ciclo periodico della bassa congiun­ tura, dell’alta congiuntura e della crisi, costituisce la pecu­ liarità piu appariscente della riproduzione capitalistica. È tuttavia della massima importanza stabilire fin da ora che la successione periodica delle fasi di congiuntura e le crisi rappresentano bensì aspetti essenziali della riprodu­ zione, ma non il problema vero e proprio della riproduzio­ ne capitalistica. Esse sono la forma specifica del movimen­ to dell’economia capitalistica, non il movimento stesso. Il problema della riproduzione capitalistica può essere colto nella sua purezza solo prescindendo dal gioco alterno delle congiunture e dalle crisi - che è, per quanto strano possa apparire, un metodo perfettamente razionale, anzi l’unico metodo scientificamente praticabile ai fini della ricerca. Per isolare nella sua purezza e risolvere il problema del valore, bisogna prescindere dalle oscillazioni dei prezzi. Il pensiero economico volgare crede di risolvere il problema del valore riportandosi alle oscillazioni della domanda e dell’offerta. L ’economia classica da Smith a Marx batte la via opposta, stabilendo che le oscillazioni nel rapporto reciproco fra do­ manda e offerta possono bensì spiegare le deviazioni del prezzo dal valore, ma non il valore in se medesimo. Per de­ terminare il valore delle merci bisogna dunque affrontare il problema partendo dal presupposto che domanda e offerta si equilibrino, che cioè prezzo e valore delle merci coincida­ no. In altri termini, il problema scientifico del valore co­ mincia esattamente là dove l’azione della domanda e del­ l’offerta finisce. Lo stesso vale per il problema della ripro­ duzione del capitale totale nella società capitalistica. La suc­ cessione periodica delle congiunture e le crisi hanno per conseguenza che la riproduzione capitalistica oscilla di re­ gola intorno ai bisogni complessivi solvibili della società, se ne allontana ora verso l’alto ora verso il basso, e infine precipita in un quasi completo arresto. Ma a considerare un periodo piu lungo, un intero ciclo a congiunture alterne,

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alta congiuntura e crisi si pareggiano, alla tensione massima della riproduzione fan da contrappeso il suo punto piu bas­ so e il suo arresto, dando luogo sul complesso del ciclo a una grandezza media della riproduzione: grandezza media che non è una pura costruzione teorica ma un dato di fatto reale, obiettivo, giacché, nonostante gli alti e bassi delle congiunture, i bisogni della società risultano bene o male soddisfatti, la riproduzione prosegue la sua via contorta, e le forze produttive si sviluppano sempre piu. Ma come av­ viene ciò, se prescindiamo dalle crisi e dalla successione pe­ riodica delle congiunture? Qui comincia il problema vero e proprio. Il tentativo di risolvere il problema della riprodu­ zione riportandosi alla periodicità delle crisi appartiene al­ l’economia volgare esattamente come la pretesa di risolvere il problema del valore attraverso le oscillazioni della do­ manda e dell’offerta. Eppure, come vedremo in seguito, l’e­ conomia politica tradisce, ogni volta che si pone cosciente­ mente il problema della riproduzione o anche solo lo intravvede, la tendenza a trasporlo nel problema delle crisi, e se ne preclude perciò la soluzione. Quando nelle pagine che seguono parliamo di riproduzione capitalistica, intendiamo dunque riferirci alla media che si stabilisce all’interno di un determinato ciclo come risultante delle fasi opposte di con­ giuntura. La produzione capitalistica totale è compiuta da un nu­ mero illimitato e continuamente oscillante di produttori privati, che producono indipendentemente l’uno dall’altro senza alcun controllo sociale all’infuori dell’oscillazione dei prezzi, e senza legame sociale reciproco all’infuori dello scambio delle merci. Come, da questi movimenti infiniti e privi di legame, si origina la produzione totale effettiva? Porre cosi la questione - ed è proprio sotto questa prima forma generale che il problema immediatamente si pone significa trascurare il fatto che in questo caso i produttori privati non sono semplici produttori di merci, ma produtto­ ri capitalistici, e che a sua volta la produzione complessiva della società non è semplice produzione per la soddisfazio­ ne dei bisogni di consumo, e neppure semplice produzione

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di merci, ma produzione capitalistica. Vediamo in che cosa ciò modifichi il problema. Il produttore che produce non soltanto merci ma capita­ le deve, prima di tutto, produrre plusvalore. Il plusvalore è infatti lo scopo ultimo e il motivo determinante del produt­ tore capitalista. Le merci prodotte, una volta realizzate, de­ vono non soltanto reintegrare le spese da lui effettuate, ma rendergli una grandezza di valore alla quale non corrispon­ de da parte sua alcuna spesa, che è pura eccedenza. Dal punto di vista della produzione del plusvalore, il capitale anticipato dal capitalista si scinde (senza ch’egli se ne renda ragione e a dispetto di tutte le chiacchiere ch’egli racconta a se stesso e al mondo a proposito di capitale fisso e circo­ lante) in una parte che rappresenta le spese da lui effettua­ te in mezzi di produzione - locali, materie prime e sussidia­ rie ecc. —e in un’altra parte erogata in salari. Marx chiama la prima, che attraverso il suo impiego nel processo di lavo­ ro trasferisce immutata al prodotto la propria grandezza di valore, parte costante del capitale; la seconda, che median­ te appropriazione di lavoro salariato non pagato produce un aumento di valore, genera plusvalore, la chiama parte variabile del capitale. Da questo punto di vista, la composi­ zione del valore di ogni merce prodotta in regime capitali­ sta corrisponde normalmente alla formula c+ v+ p dove c rappresenta il valore del capitale costante erogato, cioè la parte di valore, trasferita nella merce, dei mezzi morti di produzione consumati, v la parte variabile del ca­ pitale, spesa in salari, p il plusvalore, cioè l’aumento di va­ lore risultante dalla parte non pagata di lavoro salariato. Tutte e tre le parti del valore si nascondono nella forma concreta della merce prodotta, di ogni esemplare singolo come della massa complessiva di merci considerate come un tutto unico, sia che si tratti di tessuti di cotone o di spetta­ coli di danze, di tubi di ghisa o di giornali liberali. Per il produttore capitalista, la produzione delle merci non è fine ma mezzo all’appropriazione di plusvalore. Ma, finché si nasconde nella forma della merce, il plusvalore è, per il ca-

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pitalista, inutilizzabile: esso deve, una volta prodotto, es­ sere realizzato, trasformato nella sua forma pura di valore, cioè in denaro. Perché questo avvenga, e il plusvalore sia appropriato da capitalisti sotto forma di denaro, anche le spese complessive in capitale devono spogliarsi della forma di merci e ritornar loro sotto forma di denaro: solo quando ciò sia avvenuto, solo quando l’intera massa delle merci sia stata alienata contro denaro secondo il suo valore, lo scopo della produzione può dirsi raggiunto. Perciò la formula c+v + p come prima si riferiva alla composizione del valore delle merci, cosi si riferisce ora alla composizione quantitativa del denaro ricavato dalla vendita delle merci: una parte (c) rifonde al capitalista le spese in mezzi di produzione consu­ mati; un’altra (v) le spese in salari; l ’ultima (p) costituisce l’eccedenza prevista, 1’« utile netto» in contanti del capita­ lista '. Questo trapasso del capitale dalla sua forma origina­ ria, costituente il punto di partenza di ogni produzione ca­ pitalistica, a quella di mezzo di produzione morto e vivo (materie prime, attrezzature, forza-lavoro) e da questa, at­ traverso il processo del lavoro vivo, alla forma di merci, e infine la sua trasformazione da merci in denaro attraverso il processo dello scambio - e piu precisamente in una quanti­ tà di denaro maggiore che all’inizio - , questa metamorfosi del capitale non è tuttavia necessaria solo ai fini della pro­ duzione e appropriazione del plusvalore. Scopo e motivo animatore della produzione capitalistica non è infatti il plu­ svalore come tale, appropriato in una quantità qualsiasi e una volta per tutte, ma un plusvalore senza limiti, in pro­ gressione continua, in quantità sempre crescenti, e ciò si può ottenere soltanto con lo stesso mezzo magico: con la produzione capitalistica, cioè con l’appropriazione di lavo-1 1 I n q u e s t ’ e s p o s i z i o n e c o n s i d e r ia m o i l p l u s v a l o r e c o m e id e n t ic o a l p r o ­ f itto , id e n t if ic a z i o n e l e g i t t i m a in q u a n t o r i f e r i t a a l l a p r o d u z io n e t o t a l e , d i c u i q u i e s c lu s iv a m e n t e s i t r a t t a . P r e s c i n d ia m o i n o lt r e d a l l a s u d d i v i s i o n e d e l p lu s v a lo r e n e l l e s u e p a r t i c o m p o n e n t i - u t i l e d e l l ’ i m p r e n d it o r e , i n t e r e s s e d e l c a p i t a l e , r e n d i t a - in q u a n t o ir r i l e v a n t e in r a p p o r t o a l p r o b le m a d e l l a rip r o d u z io n e .

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ro salariato non pagato nel processo della produzione di merci e con la realizzazione delle merci cosi prodotte. La produzione sempre rinnovata, la riproduzione come feno­ meno normale, trova dunque nella società capitalistica un motivo determinante del tutto nuovo, sconosciuto in qua­ lunque altra forma di produzione. In tutte le altre forme economiche storicamente documentate, il fattore determi­ nante della riproduzione è infatti costituito dai bisogni di consumo non mai interamente soddisfatti della società siano essi democraticamente determinati dall’insieme dei lavoratori in una comunità agraria di tipo comunista, o di­ spoticamente in una società divisa in classi antagonistiche, in un’economia schiavista, in un feudo ecc. Nel modo di produzione capitalistico, invece, la considerazione dei biso­ gni di consumo della società non esiste, agli occhi del pro­ duttore, come fattore determinante della produzione: esi­ ste solo la domanda solvibile, e anche questa solo come mezzo indispensabile alla realizzazione del plusvalore. Se perciò la produzione di beni di consumo capaci di soddisfa­ re i bisogni solvibili della società è per lui una necessità ineliminabile, essa costituisce pur sempre una via traversa dal punto di vista del motivo determinante della sua attivi­ tà: l’appropriazione del plusvalore. È ancora questo moti­ vo a spingere sempre di nuovo alla riproduzione. È la pro­ duzione del plusvalore che nella società capitalistica fa del­ la riproduzione dei beni necessari alla vita un perpetuum mobile. A sua volta, la riproduzione, che in regime capitali­ sta ha il suo punto di partenza nel capitale, e precisamente nel capitale nella sua forma pura di valore, cioè in forma monetaria, presuppone per essere intrapresa che i prodotti del periodo precedente, le merci, siano realizzate, trasfor­ mate in denaro. Ne segue che, per il produttore capitalista, condizione prima della riproduzione appare l’avvenuta rea­ lizzazione delle merci prodotte nei precedenti cicli produt­ tivi. A questo punto, una seconda circostanza importante si presenta. In un’economia a base privata, dipende dall’arbi­ trio del capitalista singolo stabilire quale ampiezza debba avere la riproduzione. Ma il fattore determinante del capi-

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talista singolo è l’appropriazione del plusvalore, anzi l’ap­ propriazione il piu possibile crescente di plusvalore, e que­ sto processo di appropriazione può essere accelerato in un solo modo: allargando la produzione capitalistica, che ap­ punto crea il plusvalore. Sotto questo aspetto, la grande azienda si trova, quanto a produzione di plusvalore, in con­ dizioni di vantaggio in confronto alla piccola. Ne risulta che il modo di produzione capitalistico genera non soltanto una continua spinta alla riproduzione, ma anche una spinI a al continuo allargamento della riproduzione, alla ripresa della produzione su scala ogni volta maggiore. E non è tutto. Il modo di produzione capitalistico non soltanto fa della fame di plusvalore del capitalista la forza animatrice di uno sfrenato allargamento della riproduzio­ ne, ma fa di questo allargamento una legge draconiana, una condizione di vita economica per ogni capitalista. In regi­ me di concorrenza, l’arma piu importante di cui il capitali­ sta singolo disponga nella lotta per assicurarsi un posto sul mercato è il basso prezzo delle merci. Ora tutti i metodi du­ raturi per abbassare i costi di produzione sfociano in un al­ largamento della produzione —quando non si tenda ad un aumento straordinario del plusvalore mediante riduzione dei salari o prolungamento del tempo di lavoro, e sono me­ todi che possono urtare in molti ostacoli. Sia che si tratti di risparmiare in impianti e attrezzature, di impiegare mezzi di produzione a rendimento piu elevato, di sostituire su va­ sta scala al lavoro manuale le macchine, o di sfruttare una congiuntura di mercato favorevole per l’acquisto di materie prime a prezzo piu basso, in tutti i casi la grande azienda offre vantaggi rispetto all’azienda media e piccola. Questi vantaggi aumentano, entro limiti molto vasti, in ragione della ampiezza dell’impresa. La concorrenza impo­ ne quindi come condizione di vita a tutte le aziende capita­ listiche l’allargamento già avvenuto in una parte di esse, e il risultato è un’incessante tendenza all’allargamento della riproduzione - tendenza che si diffonde via via, meccanicamente, a ondate, sull’intera superficie della produzione pri­ vata. Per il capitalista singolo, l’allargamento della riproduzio-

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ne si manifesta nel fatto di aggiungere una parte del plusva­ lore appropriato al capitale, cioè di accumulare. L ’accumu­ lazione, la trasformazione del plusvalore in capitale operan­ te, è perciò l ’espressione capitalistica della riproduzione al­ largata. La riproduzione allargata non è un’invenzione del capita­ le, ma costituisce da tempo la regola di ogni forma sociale storica in sviluppo economico e civile. La riproduzione sem­ plice —cioè la pura e semplice ripetizione del processo pro­ duttivo sempre alla stessa scala —è bensì possibile e si ri­ scontra di fatto in lunghe fasi dello sviluppo sociale: ad esempio nelle comunità agrarie di villaggio a tipo comunisti­ co della prima antichità, dove all’aumento della popolazio­ ne non si ovviava mediante un graduale allargamento della produzione ma mediante periodiche migrazioni delle classi giovani e fondazione di minuscole filiali autosufficienti; o nelle antiche piccole aziende artigiane in India o in Cina, che offrono un esempio di ripetizione tradizionale della pro­ duzione, di generazione in generazione, nelle stesse forme e alla stessa scala. Ma, in tutti questi casi, la riproduzione semplice è base e chiaro segno di un ristagno generale della vita economica e civile. Nessuno dei grandi passi avanti compiuti dalla produzione, nessuno dei monumenti di vita civile che la storia ricorda - le grandi opere idrauliche del­ l ’Oriente, le piramidi di Egitto, le strade militari romane, le arti e le scienze della Grecia, lo sviluppo dei mestieri e delle città nel Medioevo - sarebbero stati possibili senza la riproduzione allargata, giacché solo la graduale estensione della produzione oltre i bisogni immediati, e il costante au­ mento della popolazione e delle sue esigenze, offrono una base economica e un incentivo sociale a decisivi progressi sulla via della civiltà. In particolare, sarebbero impensabili, senza la riproduzione allargata, lo scambio e, con esso, il sorgere della società divisa in classi e la sua evoluzione sto­ rica fino alla forma economica capitalistica. Senonché, in quest’ultima, la riproduzione allargata assume nuovi carat­ teri. Anzitutto, come già abbiamo osservato, essa diventa una legge obbligatoria. Non che nel modo di produzione ca­ pitalistico debbano essere esclusi la riproduzione semplice e

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perfino un regresso nella riproduzione, che anzi costituisco­ no le periodiche manifestazioni delle crisi dopo la tensione massima (anch’essa periodica) della riproduzione allargata nelle fasi di alta congiuntura; ma il moto generale della riproduzione si svolge —di là dalle periodiche oscillazioni del­ la successione ciclica delle congiunture - nel senso di un ininterrotto allargamento, e l’impossibilità di tenere il pas­ so con questo moto generale significa per il capitalista singo­ lo l’eliminazione dalla lotta di concorrenza, la morte econo­ mica. Non basta. In tutti i modi di produzione fondati su un’economia puramente o prevalentemente naturale - una comunità agrario-comunistica dell’India, una villa romana, un feudo medievale - la riproduzione allargata non ha altro contenuto e scopo che la quantità dei prodotti, la massa de­ gli oggetti di consumo prodotti. Il consumo come fine de­ termina l’ampiezza e il carattere sia del processo lavorativo che della riproduzione in generale. Non così nell’economia capitalistica. La produzione capitalistica non è produzione per il consumo, ma produzione di valore: in essa, i rapporti di valore dominano dunque l’intero processo produttivo e riproduttivo. Se la produzione capitalistica non è produzio­ ne di oggetti di consumo, e neppure di merci in generale, ma di plusvalore, è ovvio che, dal suo punto di vista, ripro­ duzione allargata significhi estensione della produzione di plusvalore. È bensì vero che la produzione di plusvalore si manifesta sotto forma di produzione di merci e, in ultima analisi, di oggetti di consumo: ma nella riproduzione que­ sti due elementi sono continuamente separati da variazioni nella produttività del lavoro. La stessa grandezza di capita­ le e di plusvalore si esprimerà, in seguito ad aumento della produttività, in una massa crescente di oggetti di consumo. L ’aumento della produzione nel senso della produzione di una massa piu grande di valori d ’uso non è dunque di per sé necessariamente riproduzione allargata in senso capitali­ stico. Inversamente, il capitale può, senza mutamenti nella produttività del lavoro, generare entro certi limiti un mag­ gior plusvalore senza creare una quantità maggiore di pro­ dotti, grazie ad un piu alto grado di sfruttamento: ad esem-

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pio, mediante compressione dei salari. Ma gli elementi del­ la riproduzione allargata in senso capitalistico vengono, nel­ l ’uno e nell’altro caso, ugualmente prodotti; giacché essi so­ no plusvalore, sia come quantità di valore, sia come som­ ma di mezzi di produzione materiali. L ’allargamento della produzione di plusvalore si ottiene di regola aumentando il capitale, ma questo aumento si ottiene a sua volta aggiun­ gendo al capitale una parte del plusvalore appropriato. Che il plusvalore capitalistico venga impiegato ad ampliare i vecchi impianti o a fondarne di nuovi, è, sotto questo pro­ filo, del tutto indifferente. La riproduzione allargata in sen­ so capitalistico assume così la forma specifica dell’aumento del capitale mediante progressiva capitalizzazione del plus­ valore o, per servirci dell’espressione di Marx, mediante ac­ cumulazione di capitale. La formula generale della riprodu­ zione allargata in regime capitalista risulta dunque la se­ guente: (c+v)+(p/x) + p dove p/x rappresenta la parte capitalizzata del plusvalore appropriato nelle fasi precedenti della produzione, e p il nuovo plusvalore prodotto dal capitale aumentato. Questo nuovo plusvalore viene a sua volta parzialmente capitaliz­ zato, e il flusso continuo di queste appropriazioni e capita­ lizzazioni di plusvalore, successive e reciprocamente condizionantisi, costituisce il processo della riproduzione allar­ gata in senso capitalistico. È questa, tuttavia, la formula astratta generale della riproduzione. Analizziamo piu da vicino le condizioni concre­ te indispensabili della sua realizzazione. Il plusvalore appropriato, felicemente spogliatosi sul mercato della propria forma di merce, si presenta come una determinata somma di denaro. Ha come tale la forma asso­ luta del valore, e può cominciare con essa la propria carriera di capitale. Ma in questa forma, esso si trova appena alla so­ glia della sua carriera. Il denaro non figlia plusvalore. Per essere realmente capitalizzata, la porzione di plusva­ lore destinata all’accumulazione deve assumere la sola for­ ma concreta che gli permetta di operare come capitale pro-

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duttivo, cioè figliante nuovo plusvalore. A questo fine, esso deve, esattamente come il capitale originario, scindersi in due parti: una parte costante, rappresentata dai mezzi di produzione morti, e una variabile, rappresentata dai salari. Solo quando questa condizione sia realizzata, esso può, sul­ lo schema del vecchio capitale, esser portato ad assumere la formula: c+ v+p Ma per ciò non basta la buona volontà di accumulare del capitalista singolo, non basta la «parsimonia» o «astinen­ za» in virtù della quale egli destina alla produzione la mag­ gior parte del plusvalore, invece di dilapidarlo in lussi per­ sonali. Occorre ch’egli trovi sul mercato le forme concrete ch’egli si propone di dare al capitale aumentato, cioè, in pri­ mo luogo, i mezzi di produzione materiali - materie prime, macchine ecc. —di cui ha bisogno, in rapporto al tipo di produzione da lui prescelto, per dare al capitale costante la sua forma produttiva. Occorre in secondo luogo che anche la parte di capitale destinata a fungere da capitale variabile possa compiere la propria trasformazione, il che presuppo­ ne: i ) che sul mercato del lavoro si trovino in quantità suf­ ficienti le forze-lavoro supplementari di cui ha bisogno per mettere in esercizio il nuovo capitale aumentato; 2) che - non potendo gli operai vivere di denaro - si trovino sul mercato anche i mezzi di sussistenza supplementari, contro i quali gli operai eventualmente assunti potranno scambia­ re la parte di capitale variabile ricevuta dal capitalista. Se tutte queste condizioni si realizzano, il capitalista può mettere in moto il plusvalore capitalizzato, cioè fargli pro­ durre, come capitale operante, nuovo plusvalore. Ma con ciò il suo compito non è finito. Il nuovo capitale, insieme col plusvalore prodotto, conserva ancora la forma di una massa supplementare di merci di qualsivoglia tipo; e in questa forma il nuovo capitale è ancora soltanto anticipato, il plusvalore da esso prodotto mantiene una forma che è, per il capitalista singolo, inutilizzabile. Perché il nuovo ca­ pitale compia lo scopo della sua vita, è perciò necessario che si spogli della forma di merce e ritorni al capitalista, in-

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sieme col plusvalore prodotto, nella pura forma del valore, come denaro. Se ciò non avviene, il nuovo capitale e il nuo­ vo plusvalore sono totalmente o parzialmente perduti, la capitalizzazione del plusvalore è mancata, l ’accumulazione non ha avuto luogo. È dunque necessario e indispensabile, perché l’accumulazione si compia, che la quantità di merci supplementari prodotta dal nuovo capitale conquisti un po­ sto sul mercato, e vi si realizzi. È cosi manifesto che la riproduzione allargata in regime capitalista, la riproduzione allargata come accumulazione di capitale, è legata a tutta una serie di condizioni specifiche. Elenchiamole. Prima condizione: la produzione deve gene­ rare plusvalore, essendo il plusvalore la forma elementare senza la quale, in regime capitalistico, un aumento della produzione non è possibile. Questa condizione deve com­ piersi nel processo stesso della produzione, nel rapporto fra capitalista e operaio, nella produzione delle merci. Seconda condizione: per poter essere appropriato, il plusvalore de­ stinato all’allargamento della riproduzione deve, una volta compiuta la prima condizione, essere realizzato, cioè assu­ mere forma monetaria. Questa condizione ci riporta al mer­ cato, dove le opportunità di scambio decidono del destino ulteriore del plusvalore, e perciò anche della riproduzione avvenire. Terza condizione: ammesso che il plusvalore sia stato realizzato e che una parte del plusvalore realizzato sia stata aggiunta al capitale al fine dell’accumulazione, è neces­ sario che il nuovo capitale assuma anzitutto forma produt­ tiva, cioè forma di mezzi di produzione morti e di forze-la­ voro, e che la parte di capitale scambiata contro forze-lavo­ ro assuma la forma di mezzi di sussistenza per gli operai; condizione che ci riporta a sua volta al mercato delle merci e del lavoro. Se su questo si è trovato tutto il necessario, se la riproduzione allargata delle merci si è verificata, una quarta condizione interviene: la massa supplementare di merci, in cui il nuovo capitale è conglobato insieme col nuo­ vo plusvalore, deve essere realizzata, cioè trasformata in denaro. Solo quando ciò sia avvenuto, la riproduzione allar­ gata in senso capitalistico si è compiuta: e anche quest’ultima condizione ci riporta al mercato.

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Così, la riproduzione capitalistica si muove, esattamente come la produzione, in un continuo va e vieni fra luogo di produzione e luogo di smercio, fra l’azienda privata, dove «è severamente proibito l’accesso ai non autorizzati» e do­ ve la volontà sovrana del capitalista singolo è legge supre­ ma, e il mercato delle merci, al quale nessuno detta legge e dove nessuna volontà e nessuna ragione si fanno valere. Ma è proprio qui, nell’arbitrio e nell’anarchia dominanti il mer­ cato, che appare tangibile al capitalista la propria dipenden­ za dalla società, dall’insieme dei suoi membri singoli, pro­ duttori e consumatori. Per allargare la riproduzione, egli ha bisogno di mezzi di produzione e di forze-lavoro supple­ mentari, oltre a mezzi di sussistenza per queste ultime; ma la presenza di tutto ciò dipende da fattori, circostanze, pro­ cessi, che si compiono dietro le sue spalle, completamente al di fuori del suo controllo. Per poter realizzare la sua ac­ cresciuta massa di prodotti, egli ha bisogno di un mercato di sbocco piu vasto, ma l’effettivo allargamento della do­ manda in generale e di quella del genere di merci da lui prodotte in particolare, è una questione sulla quale egli non ha alcun potere. Le condizioni da noi elencate, in ognuna delle quali si manifesta ed esprime la contraddizione immanente fra pro­ duzione privata e consumo, e il legame sociale fra l’una e l’altro, non sono fattori nuovi che intervengano unicamen­ te nel corso della riproduzione: sono le contraddizioni ge­ nerali della produzione capitalistica. Esse si presentano tut­ tavia come difficoltà particolari del processo riproduttivo, e per le seguenti ragioni. Dal punto di vista della riproduzio­ ne, e precisamente della riproduzione allargata, il modo di produzione capitalistico appare - non soltanto nei suoi ca­ ratteri fondamentali e generali, ma anche in un particolare ritmo di movimento —come processo in continuo sviluppo, rilevante perciò lo specifico ingranarsi l’una nell’altra delle singole ruote dentate dei suoi cicli di produzione. Da que­ sto punto di vista, il problema non si pone nella sua genera­ lità: come possa, cioè, ogni capitalista singolo trovare i mezzi di produzione e le forze-lavoro che gli occorrono, e realizzare sul mercato le merci fatte produrre, benché non

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esistano né un controllo né una pianificazione sociale capaci di armonizzare fra loro produzione e domanda; problema generale al quale si risponde: da una parte, la spinta dei ca­ pitali singoli verso il plusvalore e la loro reciproca concor­ renza, unitamente agli effetti automatici dello sfruttamento e della concorrenza capitalistici provvedono a che vengano prodotti tutti i generi di merci, e perciò anche i mezzi di produzione necessari, e il capitale disponga di una classe sempre crescente di lavoratori proletarizzati; dall’altra, l’a­ narchia di questi rapporti si manifesta nel fatto che l’equi­ librio fra domanda e offerta si realizza in tutti i campi solo attraverso continue deviazioni dal loro mutuo accordo, at­ traverso oscillazioni continue dei prezzi e, periodicamente, attraverso l ’alternarsi delle fasi di congiuntura e le crisi. Dal punto di vista della riproduzione il problema si pone in altro modo: come sia possibile che il rifornimento caoti­ co del mercato in mezzi di produzione e forze-lavoro, e le condizioni impreviste e indeterminabili dello smercio, ga­ rantiscano al capitalista singolo le quantità e i tipi di mez­ zi di produzione, di forza-lavoro e di possibilità di sbocco corrispondenti alle sue specifiche esigenze di accumulazio­ ne, e perciò crescenti in una ben determinata misura. Pre­ cisiamo ancor meglio la questione. Ammettiamo che il ca­ pitalista singolo produca, secondo la nota formula, nel se­ guente rapporto: 40 c + io V-Y io p dove il capitale costante è quattro volte il capitale variabile e il tasso di sfruttamento è del 100% . La massa di merci rappresenterà dunque un valore di 60. Ammettiamo che il capitalista sia in grado di capitalizzare la metà del suo plus­ valore e lo aggiunga al vecchio capitale, ferma restando la composizione di questo. Il successivo periodo produttivo si esprimerà allora nella formula: 4 4 c + i i t > - t - i i p = 66 Ammettiamo che il capitalista sia ulteriormente in grado di capitalizzare la metà del suo plusvalore, e cosi ogni anno.

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Perché ciò sia possibile, è indispensabile ch’egli trovi, non solo in generale, ma in quella determinata progressione, i mezzi produttivi, le forze-lavoro, gli sbocchi, che corrispon­ dono agli sviluppi crescenti della sua accumulazione.

C A P IT O L O SECON D O L ’A N A L IS I D E L

P R O C E SSO

IN Q U E S N A Y E IN A D A M

D I R IP R O D U Z IO N E

S M IT H

Abbiamo finora considerato la riproduzione dal punto di vista del capitalista singolo, tipico rappresentante e agente della riproduzione cosi come viene compiuta da aziende ca­ pitalistiche private indipendenti. Quest’analisi ha già posto abbastanza in luce le difficoltà del problema. Ma le difficol­ tà crescono e si complicano straordinariamente non appena ci si volga dalla considerazione dei capitalisti singoli a quel­ la dell’insieme dei capitalisti. Già uno sguardo superficiale mostra l’impossibilità di considerare la riproduzione capitalistica, in quanto insieme sociale, come la semplice e meccanica somma delle singole riproduzioni capitalistiche private. Abbiamo visto, ad esem­ pio, che uno dei presupposti fondamentali della riproduzio­ ne allargata del singolo capitalista è un corrispondente al­ largamento delle sue possibilità di sbocco sul mercato. Ora, questo allargamento può non essere ottenuto dal capitalista singolo mediante un’estensione assoluta del raggio dello smercio in generale, ma mediante la lotta di concorrenza a spese di altri capitalisti singoli, cosicché può tornare a van­ taggio dell’uno ciò che uno o piu altri capitalisti, espulsi dal mercato, subiscono come perdita. Questo processo porta a un capitalista, in riproduzione allargata, ciò che all’altro ac­ colla come deficit della riproduzione. Il primo può realizza­ re una riproduzione allargata, i secondi non realizzare nep­ pure la riproduzione semplice, e la società capitalistica nel suo complesso registrerà soltanto uno spostamento di luo­ go, non un mutamento quantitativo, della riproduzione. Analogamente, la riproduzione allargata di un determinato capitalista può compiersi grazie a mezzi di produzione e forze-lavoro resi liberi in virtù del fallimento di altri capita-

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listi - cioè della totale o parziale rinuncia alla riproduzione da parte di costoro. Questi fatti di esperienza quotidiana mostrano che la riproduzione del capitale sociale totale è qualcosa di diverso dalla riproduzione, dilatatasi all’infinito, del capitalista sin­ golo; che i processi di riproduzione dei capitali singoli s’in­ crociano continuamente, e possono in qualunque momen­ to, in grado maggiore o minore, annullarsi a vicenda nei lo­ ro effetti. Prima dunque di analizzare il meccanismo e le leggi della riproduzione capitalistica totale, è necessario chiedersi che cosa si debba intendere per riproduzione del capitale totale, e se sia anzi possibile, dalla selva di movi­ menti senza fine dei capitali singoli, che si modificano senza posa e ora operano paralleli ora s’intersecano e si elidono se­ condo regole incontrollabili e imprevedibili, dedurre qual­ cosa di simile a una riproduzione totale. Esiste un capitale totale della società, e che cosa, comunque, rappresenta que­ sto concetto, nella realtà effettiva? È questa la prima do­ manda che lo studio scientifico delle leggi della riproduzio­ ne ha il dovere di porre. Il padre della scuola fisiocratica, Quesnay, affrontando il problema all’alba dell’economia po­ litica e del sistema economico borghese con l ’intrepidità e semplicità dei classici, assunse senz’altro come indiscutibile l’esistenza del capitale totale in quanto grandezza reale e operante. Il suo celebre Tableau économique, non decifrato da alcuno prima di Marx, espone in poche cifre il movimen­ to di riproduzione del capitale totale. A questo proposito, Quesnay osserva come esso vada contemporaneamente con­ cepito sotto forma di scambio di merci, come processo cir­ colatorio: « I l Tableau mostra come il risultato annuo della produzione nazionale, espresso in una determinata grandez­ za di valore, si suddivida mediante lo scambio in modo che la produzione possa ricominciare. Gli innumerevoli atti in­ dividuali di scambio sono immediatamente ricollegati nel loro movimento complessivo socialmente caratterizzato —la circolazione fra grandi classi sociali funzionalmente deter­ minate» l. Das Kapital, libro II, 2a ed. 1893, p. 332 [sez. I l l , cap. XIX, 1].

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Secondo Quesnay, la società si compone di tre classi: la classe produttiva, cioè gli agricoltori; la sterile, che com­ prende la popolazione attiva in rami che non siano l’agri­ coltura - industria, commercio, professioni libere - , e la classe dei proprietari fondiari, compresi il sovrano e i per­ cettori di decime. Il prodotto nazionale totale appare nelle mani dei produttori come una quantità di mezzi di sussi­ stenza e di materie prime del valore di 5 miliardi: di questi, 2 rappresentano il capitale annuo di esercizio dell’agricoltu­ ra, I l’impiego annuo di capitale fisso, 2 l’utile netto dei proprietari fondiari. Oltre a questo prodotto totale, gli agricoltori - intesi qui, da un chiaro punto di vista capitali­ stico, come affittuari - dispongono di 2 miliardi in denaro. La circolazione si svolge in questo modo : la classe degli af­ fittuari paga ai proprietari fondiari 2 miliardi in contanti (frutto del precedente periodo di circolazione) a titolo di canone di affitto. Con questi, la classe dei proprietari fondia­ ri compra dagli affittuari mezzi di sussistenza per 1 miliar­ do e con l’altro miliardo prodotti industriali dagli «sterili». Da parte loro, gli affittuari comprano prodotti industriali per il miliardo riaffluito nelle loro mani, mentre la classe sterile compra, per i 2 miliardi di cui dispone, prodotti agricoli e precisamente, per 1 miliardo, materie prime ecc. a reintegrazione del capitale annuo di esercizio e per 1 miliar­ do mezzi di sussistenza personali. Così, al termine del pro­ cesso, il denaro è tornato al punto di partenza, alla classe degli affittuari, e il prodotto è diviso fra le classi in modo che il consumo di tutte è assicurato, classe produttiva e ste­ rile hanno rinnovato i rispettivi mezzi di produzione, e la classe dei proprietari fondiari ha ricevuto la sua rendita. Tutti i presupposti della riproduzione sono presenti, le condizioni della circolazione sono state tutte osservate, e la riproduzione può iniziare il suo corso normale '. Vedremo1 1 Cfr. Analyse du Tableau économique, in «Journal de l ’Agriculture, du commerce et des finances», di Dupont, 1766 (pp. 30^ sgg. dell’ed. Oncken delle Œuvres di f . quesnay ). Quesnay osserva espressamente che la circo­ lazione da lui tratteggiata presuppone due condizioni: l’assenza di impedi­ menti allo scambio e un sistema d’imposte unicamente basato sulla rendita: «Mais ces données ont des conditions sine quabus non; elles supposent que la liberté du commerce soutient le débit des productions à un bon prix...,

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nel seguito dell’esposizione come questo quadro sia, ad on­ ta della genialità del pensiero, incompleto e primitivo. Im­ porta frattanto sottolineare come, agli albori dell’economia politica scientifica, Quesnay non avesse il minimo dubbio sulla possibilità di rappresentare il capitale sociale totale e la sua riproduzione. Senonché, già in Adam Smith, insieme con una piu profonda analisi dei rapporti capitalistici, i grandi e limpidi tratti della costruzione fisiocratica comin­ ciano a confondersi. Smith getta le basi fondamentali della esposizione scientifica del processo d ’insieme dell’economia capitalistica, sviluppando nello stesso tempo quella falsa analisi del prezzo, destinata a dominare per lungo tempo l’e­ conomia borghese, secondo cui il valore delle merci espri­ me bensì la quantità di lavoro erogata nel produrle, ma il prezzo non si compone che di tre elementi costitutivi: sala­ rio, profitto del capitale, rendita fondiaria. Essendo evi­ dente che lo stesso principio vale per la totalità delle mer­ ci, per il prodotto nazionale, si giunge così alla stupefacen­ te scoperta che il valore delle merci prodotte in regime ca­ pitalista rappresenta bensì nel suo complesso tutti i salari pagati e i profitti, oltre alla rendita, cioè l’intero plusvalore, e può quindi anche reintegrarli, ma al capitale costante im­ piegato nella produzione di queste merci non corrisponde alcuna parte di valore della massa di merci, v + p, ecco, se­ condo Smith, la formula del valore del prodotto totale ca­ pitalistico. «Queste tre parti [salario, profitto e rendita] - dice Smith, illustrando il proprio punto di vista con l’e­ sempio del grano —sembrano costituire o immediatamente o in ultima istanza l’intero prezzo del grano. Si potrebbe forse ritener necessaria anche una quarta parte, per com­ pensare il logorio del bestiame da lavoro e degli utensili dell’azienda. Occorre però tener presente che il prezzo di qualunque utensile si compone a sua volta delle stesse tre parti: per esempio, il prezzo di un cavallo da lavoro è costi­ tuito: 1) dalla rendita del terreno che l’ha nutrito; 2) dal lavoro impiegato nel suo allevamento; 3) dall’utile di capielles supposent d’ailleurs que le cultivateur n’ait à payer directement ou in­ directement d’autres charges que le revenu, dont une partie, par exemple les deux septièmes, doit former le revenu du souverain» {ibid., p. 311).

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tale dell’affittuario, che ha anticipato tanto la rendita del fondo quanto i salari del lavoro. Se è dunque vero che il prezzo del grano contiene il valore sia del cavallo che del suo nutrimento, l’intero prezzo si risolve, o immediatamen­ te o mediatamente, nelle stesse tre parti, rendita, salario e profitto»1. Così Smith, mentre, come dice Marx, ci rinvia da Ponzio a Pilato, continua a risolvere il capitale costante in v + p. Giova riconoscere che in lui non mancarono dubbi e ricadute nella concezione opposta. Nel II libro si legge: «N el primo libro abbiamo esposto come il prezzo della mag­ gioranza delle merci si suddivida in tre parti, delle quali una paga il salario del lavoro, l ’altra il profitto del capitale e la terza la rendita della terra, impiegati per produrre le merci e portarle sul mercato... Poiché tale è il caso per ogni merce singolarmente presa, la stessa cosa deve valere, come abbiamo già osservato, per il complesso delle merci rappre­ sentanti il prodotto annuo totale del suolo e del lavoro di ogni paese preso nel suo insieme. Il prezzo complessivo o valore di scambio di questo prodotto annuo deve scindersi nelle stesse tre parti e suddividersi fra i diversi abitanti del paese, o come salario del loro lavoro, o come utile del loro capitale, o come rendita della loro terra». A questo punto Smith si ferma perplesso, poi continua: «M a sebbene il va­ lore complessivo del suddetto prodotto annuo si suddivida cosi fra i diversi abitanti del paese e rappresenti per loro un reddito, bisogna tuttavia, per quest’ultimo come per la ren­ dita di un fondo, distinguere fra rendita lorda e rendita net­ ta. La rendita lorda di un fondo privato consiste in ciò che è pagato dall’affittuario; la rendita netta in ciò che al pro­ prietario terriero rimane una volta dedotte le spese di am­ ministrazione, riparazione e altre, o in ciò ch’egli è in gra­ do, senza danno della sua azienda, di aggiungere al fondo per il consumo immediato, o spendere per la tavola, il go­ verno della casa, il mobilio, gli svaghi e i piaceri suoi perso­ nali. La sua ricchezza reale è in rapporto non alla sua ren­ dita lorda, ma alla sua rendita netta. 1 A. sm it h , An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Na­ tions, London 1776, libro I, cap. VI.

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« Il reddito lordo di tutti gli abitanti di un grande paese comprende l ’intero prodotto annuo della loro terra e del lo­ ro lavoro; il reddito netto, ciò che rimane loro ima volta dedotte le spese di mantenimento del capitale fisso in pri­ mo luogo e del capitale circolante in secondo luogo; ovvero ciò che, senza incidere sul capitale, essi possono aggiungere alle riserve destinate al consumo immediato o spendere in sussistenze, agi e piaceri. Anche la loro ricchezza reale è in rapporto non al loro reddito lordo, ma al loro reddito netto» *. Ma se, a questo punto, Smith fa corrispondere al capitale costante una parte del valore del prodotto totale, subito do­ po ritorna alla suddivisione in salari, profitti e rendite, e ri­ mane fisso alla sua tesi: «...A llo stesso modo che le mac­ chine e gli strumenti del mestiere ecc., che compongono il capitale fisso o di un singolo o di una società, non costitui­ scono una parte né del reddito lordo né del reddito netto dell’uno e dell’altra, cosi il denaro, mediante il quale l’inte­ ro reddito della società viene regolarmente distribuito fra tutti i suoi membri, non costituisce una parte componente di questo reddito» \ Il capitale costante (che Smith chiama fisso) viene dun­ que messo sullo stesso piano del denaro e non entra nel prodotto totale della società (nel suo «reddito lordo»); non esiste come parte di valore del prodotto totale! Come anche il re perde il suo diritto là dove nulla esiste, cosi è chiaro che dalla circolazione, dallo scambio reciproco del prodotto totale cosi costituito, si potrà bensì ottenere la realizzazione dei salari (v) e del plusvalore (p), ma non la reintegrazione del capitale costante, di modo che lo svi­ luppo del processo della riproduzione diventa impossibile. Smith sapeva perfettamente, e non si sognava affatto di ne­ gare, che ogni singolo capitalista ha bisogno, per l’esercizio della sua azienda, oltre che di un fondo salari, cioè di capi­ tale variabile, anche di capitale costante. Ma, per l’insieme della produzione capitalistica, il capitale costante, nella suc-12 1 2

Wealth of Nations, l i b r o Ibid.

I I , cap. I I .

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citata analisi del prezzo delle merci, spariva misteriosamen­ te senza lasciar traccia, e il problema della riproduzione del capitale totale andava completamente smarrito. Ora è evi­ dente che se fa naufragio la premessa piu elementare del problema, - la rappresentazione del capitale sociale tota­ le, - contro lo stesso scoglio andrà a picco l’intera analisi. Era perciò naturale che Ricardo, Say, Sismondi e altri, avendo ereditato gli errori della teoria di Adam Smith, s’im­ battessero nella stessa difficoltà: la rappresentazione del ca­ pitale totale. Ma a quella difficoltà un’altra se ne aggiunse, fin dall’ini­ zio dell’analisi scientifica. Che cos’è il capitale sociale tota­ le? Per il singolo la questione è chiara: il suo capitale sono le sue spese di esercizio. Il valore dei suoi prodotti - am­ messo il modo di produzione capitalistico, e perciò il lavoro salariato —gli dà, oltre alle spese complessive fatte, il plus­ valore, che non reintegra il suo capitale ma è il suo reddito netto, che egli può consumare senza danno del capitale: in altre parole, il suo fondo di consumo. È vero che il capitali­ sta può «risparmiare» una parte del reddito netto, non con­ sumandolo personalmente e aggiungendolo al capitale. Ma questa è un’altra faccenda, un nuovo processo, la formazio­ ne di un nuovo capitale che la successiva riproduzione rein­ tegrerà dando nello stesso tempo un sovrappiù. Comunque, il capitale del singolo è ciò che questi ha dovuto anticipare per produrre; reddito è ciò che consuma o può consumare come fondo-consumi. Ora prendiamo un capitalista e chie­ diamogli che cosa sono i salari che paga agli operai; la sua risposta sarà che essi sono, evidentemente, una parte del suo capitale d’esercizio. Ma chiediamo che cosa sono i salari agli operai che li ricevono, e la risposta non potrà essere: «sono capitale»; per gli operai, i salari eh’essi ricevono non sono capitale ma reddito, fondo di consumo. Prendiamo un altro esempio. Un fabbricante di macchine fa produrre nel proprio stabilimento delle macchine: la sua produzione è, annualmente, un certo numero di macchine. Ma, in questo prodotto annuo, nel suo valore, si nasconde tanto il capita­ le anticipato dal fabbricante quanto l’utile netto ottenuto. Una parte delle macchine prodotte nella sua fabbrica rap-

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presenta dunque il suo reddito, ed è destinata a creare que­ sto reddito nel processo della circolazione, nello scambio. Ma chi acquista da lui le macchine non le acquista, eviden­ temente, come reddito, cioè per consumarle, ma per utiliz­ zarle come mezzo di produzione: per costui, quelle macchi­ ne sono capitale. Attraverso questi esempi giungiamo al seguente risulta­ to: ciò che per uno è capitale, per l’altro è reddito e vice­ versa. In queste circostanze, com’è possibile costruire qual­ cosa di simile al capitale totale della società? In effetti, qua­ si tutta l ’economia scientifica fino a Marx ne trasse la con­ clusione che non esiste capitale sociale ’. In Smith, come del resto in Ricardo, si notano ancora oscillazioni e contraddi­ zioni. Ma un Say non esita ad affermare, categoricamente: «Cosi il valore totale dei prodotti si suddivide nella so­ cietà. Dico il valore totale, giacché se il mio profitto non rap­ presenta che una parte del valore del prodotto alla cui pro­ duzione ho cooperato, l’altra parte costituisce il profitto dei miei coproduttori. Un fabbricante di panni acquista della lana da un fittavolo; compensa diversi generi di operai e vende il panno cosi fabbricato a un prezzo che gli rifonde le spese e gli lascia un profitto. Egli considera profitto, fondo di reddito della sua industria, solo ciò che resta come reddi­ to netto, dedotti i costi. Ma questi costi non erano che anti­ cipi agli altri produttori delle diverse parti del prodotto, ed egli se ne ritiene indennizzato mediante il valore lordo del panno. Ciò ch’egli ha pagato all’affittuario per la lana, era reddito dell’agricoltore; dei suoi pastori e del proprietario del fondo. L ’affittuario considera come prodotto netto solo ciò che gli resta dopo soddisfatti i lavoratori da lui dipen­ denti e il proprietario terriero; ma ciò che ha pagato loro costituiva una parte del reddito di questi ultimi —salario per gli operai, canone d’affitto per il proprietario del suolo, cioè reddito di lavoro per uno e reddito del suolo per l’al­ tro. Ed è il valore del panno che ha reintegrato tutto ciò. Non si può immaginare nessuna parte del valore di questo 1 Quanto a Rodbertus e al suo particolare concetto del «capitale nazio­ nale», cfr. la parte seconda del presente volume.

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panno che non abbia servito a pagare un reddito. Tutto il suo valore si è esaurito in quest’operazione. «Come si vede, l’espressione prodotto netto può trovare applicazione solo in rapporto a singoli imprenditori, men­ tre il reddito di tutti i singoli presi insieme o della società è uguale al prodotto nazionale lordo della terra, dei capitali e dell’industria [cosi Say chiama il lavoro]. Ciò distrugge \_ruine~\ il sistema degli economisti del diciottesimo secolo [fisiocratici] che consideravano reddito della società solo il prodotto netto del suolo, e ne concludevano che la società può consumare solo un valore corrispondente a questo pro­ dotto netto, come se la società non potesse consumare l’in­ tero valore da essa prodotto! » *. Say giustifica questa teoria in un suo particolare modo. Mentre Smith cercava di dimostrare il suo assunto confi­ nando ogni capitale privato nel suo luogo di produzione per risolverlo in puro prodotto del lavoro, ma intendendo ogni prodotto del lavoro, da un punto di vista strettamente ca­ pitalistico, come una somma di lavoro pagato e di lavoro non pagato, v + p, e finendo cosi per risolvere il prodotto totale della società in v + p, Say non si perita di tradurre gli errori classici in banali volgarizzazioni. La sua dimostrazio­ ne si basa sul fatto che l’imprenditore, in ogni stadio della produzione, paga ad altre persone, rappresentanti di stadi precedenti della produzione i mezzi di produzione (che per lui costituiscono capitale), e queste persone, a loro volta, intascano quella somma in parte come reddito personale, in parte come reintegrazione delle spese da essi anticipate per pagare ad altre persone il loro reddito. La catena infinita di processi di lavoro della teoria smithiana si trasforma in Say in una catena infinita di reciproche anticipazioni sul reddito e reintegrazioni attraverso la vendita; l’operaio appare po­ sto sullo stesso piano dell’imprenditore; riceve «anticipa­ to » nel salario il proprio reddito, e lo paga a sua volta in lavoro. In tal modo, il valore finale del prodotto sociale to­ tale si configura come somma di semplici redditi «anticipa-1 1 J.-B.

say ,

1876, p. 376.

Traité d’Economie Politique,

lib r o I I , c a p . V , 8“ e d ., P a r is

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ti», e procede, nello scambio, a rifondere il complesso di queste anticipazioni. Caratteristico dell’inconsistenza di Say c che egli illustri i rapporti sociali interni della riproduzio­ ne capitalistica con l’esempio della produzione degli orolo­ gi, cioè di un ramo a carattere allora (e in parte ancor oggi) essenzialmente di manifattura, in cui gli «operai» figurano tinche come piccoli imprenditori, e il processo della produ­ zione del plusvalore è mascherato da puri atti successivi di scambio della produzione mercantile semplice. In questo modo, Say porta alla sua espressione piu gros­ solana la confusione creata da Smith: l’intera massa di pro­ dotti annui della società si risolve, nel suo valore, in puro reddito; e perciò è anche interamente consumata anno per anno. La ripresa della produzione senza capitale, senza mez­ zi di produzione, appare un mistero; la riproduzione capita­ listica, un problema insolubile. Chi osservi lo spostamento avvenuto dai fisiocratici ad Adam Smith nel problema della riproduzione non può ne­ gare ch’esso rappresenti in parte un progresso, in parte un regresso. Il tratto caratteristico del sistema economico dei fisiocratici era il presupposto che solo l ’agricoltura crei ec­ cedenza, e perciò plusvalore; e che di conseguenza il lavoro agricolo sia l’unico produttivo in senso capitalistico. Vedia­ mo perciò che nel Tableau économique la classe «sterile» dei lavoratori industriali crea valore solo per gli stessi 2 mi­ liardi che essa consuma in materie prime e mezzi di sussi­ stenza. È anche perciò che nello scambio il complesso dei manufatti va per metà alla classe degli affittuari e per metà a quella dei proprietari terrieri, mentre la classe industriale non consuma i propri prodotti. La classe industriale pro­ duce, nel valore delle sue merci, solo il capitale circolante consumato; un reddito della classe degli imprenditori non si determina. L ’unico reddito della società, oltre le spese di capitale, che entri in circolazione, viene prodotto nell’agri­ coltura e consumato dalla classe dei proprietari fondiari sotto forma di rendita, mentre anche la classe degli affittua­ ri reintegra solo il proprio capitale: 1 miliardo di interessi del capitale fisso e 2 miliardi del capitale circolante, consi­ stente, nell’insieme, per due terzi in materie prime e mezzi

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di sussistenza, per un terzo in manufatti. Inoltre, Quesnay ammette l’esistenza del capitale fisso (da lui chiamato avan­ ces primitives per distinguerlo dalle avances annuelles) solo in agricoltura quasi che per lui la manifattura lavori senza alcun capitale fisso, col solo capitale circolante annuale di esercizio, e corrispondentemente non produca, nella massa annua delle sue merci, alcun valore in sostituzione del ca­ pitale fisso consumato (come fabbricati, attrezzi, ecc.) \ Di fronte a queste evidenti insufficienze, la scuola classi­ ca inglese segna un primo decisivo passo innanzi: quello di dichiarare produttiva ogni specie di lavoro, cioè di ricono­ scere la produzione del plusvalore tanto nella manifattura quanto nell’agricoltura. Diciamo la scuola classica inglese, giacché anche sotto questo aspetto Adam Smith, accanto a chiare e decise affermazioni nel senso suindicato, presenta frequenti ricadute nella concezione fisiocratica, e solo in Ri­ cardo la teoria del valore-lavoro trova la piu alta e conse­ guente elaborazione che potesse raggiungere nei limiti del pensiero borghese. Perciò anche nel settore manufatturiero della produzione sociale totale, come nell’agricoltura, si de­ ve ammettere la produzione annua di un’eccedenza sugli in­ vestimenti complessivi in capitale, un reddito netto, un plusvalore12. D ’altra parte, la scoperta della natura produt1 È d’altronde da osservare che Mirabeau, nelle sue Explications al Ta­ bleau, cita espressamente il capitale fisso della classe sterile: «Les avances

primitives de cette classe pour établissement de manufactures, pour instru­ ments, machines, moulins, forges et autres usines... 2000000000 1.» (Ta­ bleau économique avec ses explications, 1760, p. 82). È vero che anche Mi­ rabeau, nel suo schizzo fantasioso del Tableau, trascura poi il capitale fisso della classe sterile. 2 Ecco la formulazione generica di Smith: « I l valore [non il “ plusvalo­ re” , come arbitrariamente traduce il signor Löwenthal] che l’operaio ag­ giunge alle materie prime si risolve in questo caso in due parti, una delle quali paga il suo salario, l’altra il profitto dell’imprenditore sull’intero stock di materie prime e salari da lui anticipati» (libro I, cap. VI). Nell’originale: «The value which the workmen add to the materials, therefore, resolves itself in this case into two parts, of which the one pays their wages, the other the profits of their employer upon the whole stock of materials and wages which he advanced» (Wealth of Nations, ed. MacCulloch, 1828, voi. I, p. 83). E nel II libro, cap. I l l , con riferimento specifico al lavoro indu­ striale: «Il lavoro di un operaio industriale [aggiunge] al valore delle ma­ terie prime da lui trasformate quello del proprio mantenimento e dell’utile del padrone: quello di un servo non aumenta invece in nulla il valore. Per quanto il lavoratore industriale riceva anticipato dal padrone il salario del

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Iiva e creatrice di plusvalore di ogni specie di lavoro, non importa se nella manifatturao nell’agricoltura, doveva spin­ gere Smith a ritenere che anche il lavoro agricolo debba produrre, oltre alla rendita fondiaria per la classe dei pro­ prietari, un’eccedenza sulle spese complessive di capitale degli affittuari, e ammettere perciò, oltre alla reintegrazio­ ne del capitale, il reddito annuo della classe dei fittavoli1. Infine, elaborando sistematicamente i concetti già abbozza­ ti da Quesnay di avances primitives e avances annuelles, Smith chiari, con la distinzione fra capitale fisso e capitale circolante, che il settore manufatturiero della produzione sociale ha, al pari dell’agricoltura, bisogno di un capitale fis­ so oltre che di un capitale circolante, e perciò anche di una parte corrispondente del valore a reintegrazione del suo lo­ gorio. Smith si trovava dunque nelle condizioni migliori per metter ordine nei concetti di capitale e reddito della socie­ tà, e presentarli nella luce esatta. Il punto massimo di chia­ rezza al quale egli giunse a questo proposito lo si trova nel­ la seguente affermazione: «Sebbene indubbiamente destinato, in ultima istanza, a soddisfare il consumo degli abitanti e a procurar loro un reddito, il prodotto annuo totale della terra e del lavoro di ogni paese si suddivide, all’atto del suo primo uscire dal suolo o dalle mani dei lavoratori produttivi, in due parti: una, e spesso la maggiore, destinata innanzitutto alla rico­ stituzione di un capitale o al rinnovamento dei mezzi di sus­ sistenza, delle materie prime e dei prodotti finiti ricavati da un capitale; l’altra alla produzione di un reddito o per il proprietario di questo capitale come suo utile, o per qual­ che altra persona, come sua rendita fondiaria»2. s u o l a v o r o , e g l i n o n c a u s a a l p a d r o n e a lc u n a s p e s a , g ia c c h é g l i e l a r i f o n d e , d i r e g o la , m a g g i o r a t a d i u n u t i l e g r a z i e a l l ’a u m e n t a t o v a l o r e d e l l ’ o g g e t t o t r a ­ sfo rm a to ». 1 « G l i u o m i n i i m p i e g a t i n e l la v o r o a g r i c o l o ... n o n r i p r o d u c o n o s o l t a n t o , co m e g li o p e r a i d i fa b b r ic a , u n v a lo r e p a r i a l lo r o c o n su m o o a l c a p ita le ch e l i im p i e g a c o n i n p i u Vutile del capitalista, m a u n v a l o r e m o l t o m a g g i o r e , in q u a n t o , o l t r e a l c a p i t a l e d e l l ’ a ff i t t u a r io e a l s u o u t i l e r i p r o d u c o n o a n c h e r e ­ g o la r m e n t e l a r e n d i t a p e r i l p r o p r i e t a r i o t e r r i e r o » ( l i b r o I I , c a p . V ) . 2 L ib r o I I , c a p . I I I . G i à n e lla fr a s e su c c e ssiv a , t u tta v ia , S m ith tra sfo r m a in t e r a m e n t e i l c a p i t a l e in s a l a r i , in c a p i t a l e v a r i a b i l e : « T h a t p a r t o f t h e a n ­ n u a l p r o d u c e o f t h e l a n d a n d l a b o u r o f a n y c o u n t r y w h ic h r e p la c e s a c a p i t a l ,

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« I l reddito lordo di tutti gli abitanti di un grande paese comprende l ’intero prodotto annuo del loro suolo e del lo­ ro lavoro; il reddito netto, ciò che ne rimane dedotte le spese necessarie per mantenere, prima di tutto, il loro ca­ pitale fisso e, in secondo luogo, quello circolante; ovvero ciò eh’essi possono, senza danno per il capitale, aggiungere al fondo accumulato per il consumo diretto, e spendere in sussistenze, agi e piaceri. La loro ricchezza reale è dunque in rapporto non al reddito lordo ma al reddito netto» ’. Qui, i concetti di capitale e reddito totale appaiono in una visione piu generale e corretta che nel Tableau écono­ mique-. il reddito sociale svincolato dal suo legame unilate­ rale con l’agricoltura; il capitale, nelle due forme di capita­ le fisso e circolante, allargato fino a costituire la base della produzione sociale totale. In luogo della distinzione erro­ nea fra due settori della produzione, agricoltura e manifat­ tura, passano in primo piano altre categorie d ’importanza funzionale: la distinzione fra capitale e reddito, e quella fra capitale fisso e circolante. Di qui Smith procede all’analisi dei rapporti reciproci e delle trasformazioni di queste cate­ gorie nel loro movimento sociale: nella produzione e nella circolazione, cioè nel processo di riproduzione della società. Egli mette in luce una radicale differenza fra capitale fisso e circolante dal punto di vista sociale: «L e spese complessive di mantenimento del capitale fisso devono essere, evidente­ mente, escluse dal reddito netto della società, di cui non possono far parte né le materie prime necessarie per la con­ servazione delle macchine, degli strumenti di lavoro, degli edifici utili dal punto di vista produttivo ecc., né il prodot­ to del lavoro necessario alla loro manipolazione nella forma voluta. Il prezzo di questo lavoro può, certo, costituire una parte del reddito netto totale, in quanto gli operai in esso impiegati possono aggiungere l’intero valore dei loro salari never is immediately imployed to maintain any but productive hands. It pays the wages of productive labour only. That which is immediately de­ stined for constituting a revenue, either as profit or as rent, may maintain indifferently either productive or unproductive hands» (ed. MacCulloch, voi. II, p. 98). 1 L ib r o I I , ca p . I I .

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al fondo destinato al consumo immediato. Ma in altre spe­ cie di lavoro tanto il prezzo quanto il prodotto vanno in questo fondo: il prezzo, in quello dei lavoratori; il prodot­ to, in quello di altre persone i cui mezzi di sussistenza e i cui agi e piaceri sono aumentati dal lavoro di questi ope­ rai» Qui Smith si trova di fronte all’importante distinzione fra lavoratori che producono mezzi di produzione, e lavora­ tori che producono mezzi di consumo. Per i primi, osserva che la parte di valore da essi creata a reintegrazione dei lo­ ro salari viene alla luce sotto forma di mezzi di produzione (materie prime, macchine ecc.), e perciò la parte del prodot­ to destinata al reddito dei lavoratori esiste in una forma na­ turale che non può servire al consumo. Per i secondi, osser­ va che, inversamente, l’intero prodotto, e perciò tanto quel­ la parte di valore, in esso contenuta, che paga i salari (il reddito) degli operai, quanto l ’altra parte (Smith non lo di­ ce espressamente, ma secondo il senso la conclusione do­ vrebbe essere: la parte che rappresenta il capitale fisso con­ sumato), appare in forma di mezzi di consumo. Vedremo piu oltre come Smith si sia qui avvicinato all’angolo visuale dell’analisi, dal quale Marx affronterà poi il problema. Ma la conclusione generale alla quale egli si ferma senza preoc­ cuparsi di approfondirla è l’impossibilità, comunque, di calcolare reddito netto della società tutto ciò che è destina­ to al mantenimento e rinnovamento del capitale sociale fisso. Non cosi il capitale circolante. «S e tuttavia le intere spese di mantenimento del capita­ le fisso sono escluse dal reddito netto della società, diverso è il caso per quelle relative al capitale circolante. Delle quat­ tro parti di cui quest’ultimo si compone - denaro, mezzi di sussistenza, materie prime, prodotti finiti - le ultime tre, come abbiamo già osservato, ne sono regolarmente detrat­ te per essere aggiunte o al capitale fisso della società o al fondo riservato al consumo diretto. Qualunque parte di questi beni consumabili che non sia impiegata al manteniL ib r o I I , ca p . I I I .

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mento del capitale fisso passa a quello destinato al consu­ mo e costituisce una parte del reddito netto della società. Il mantenimento di queste tre parti costitutive del capitale circolante non sottrae al reddito netto della società se non quella parte del prodotto annuo necessaria per mantenere il capitale fisso» Come si vede, Smith ha raggruppato nella categoria del capitale circolante tutto ciò che non è capitale fisso già im­ piegato, dai mezzi di sussistenza alle materie prime e all’in­ tero capitale in merci non ancora realizzato (quindi, in par­ te, gli stessi mezzi di sussistenza e materie prime, e in parte le merci, che per la loro forma naturale servono a reintegra­ re il capitale fisso), e ha perciò reso ambiguo e fluido il con­ cetto di capitale circolante. Ma, pur accanto a queste confu­ sioni, egli introduce un’altra distinzione importante: « Il capitale circolante di una società è, sotto questo rispetto, di­ verso da quello del singolo. Quest’ultimo non può mai far parte del suo reddito netto, che deve consistere interamen­ te nel profitto. Ma, sebbene costituisca una parte di quello della società cui egli appartiene, il capitale circolante di ogni individuo non è per questo totalmente escluso dal costi­ tuire, allo stesso modo, una parte del reddito netto della società medesima». E chiarisce il concetto col seguente esempio: «Per quan­ to il complesso delle merci giacenti nel negozio di un mer­ cante non possa evidentemente essere computato nel suo fondo-consumi, può tuttavia considerarsi come parte del fondo di altre persone che, mediante un reddito di altra provenienza, possono regolarmente risarcirgliene il valore, insieme con un profitto, senza intaccare né il suo né il loro capitale»12. Adam Smith ha messo dunque in luce alcune fondamen­ tali categorie in rapporto alla riproduzione e al movimento del capitale sociale totale. Capitale fisso e circolante, capi­ tale privato e sociale, reddito personale e reddito sociale, mezzi di produzione e mezzi di consumo appaiono qui come 1 Libro II, cap. II. Ibid.

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grandi categorie, in parte assunte nel loro reale, obiettivo incrociarsi, in parte annegate nelle contraddizioni teoriche soggettive della analisi smithiana. Lo schema netto, scarno e classicamente limpido della teoria fisiocratica è sciolto in un intrico di concetti e rapporti che a prima vista danno l’impressione di un caos. Ma da questo caos affiorano a trat­ ti aspetti nuovi — piu profondi, moderni e vivi di quelli messi insieme alla rinfusa da Quesnay —del processo della riproduzione sociale, aspetti che si celano incompiuti nel caos, come gli schiavi di Michelangelo nel blocco di marmo. È questa una delle facce dell’impostazione data dallo Smith al problema. Ma, contemporaneamente, vi è la faccia opposta, l’analisi del valore. La stessa teoria della qualità di ogni lavoro di essere creatore di valore, la stessa distinzione strettamente capitalistica di ogni lavoro in lavoro pagato (cioè destinato a compensare lavoro) e non pagato (cioè crea­ tore di plusvalore), e, infine, la rigida suddivisione del plus­ valore nelle due categorie fondamentali di profitto e rendita fondiaria —tutti passi avanti rispetto all’analisi fisiocratica - dovevano condurre Smith alla sorprendente affermazione che il prezzo di ogni merce si compone di salario + profit­ to + rendita fondiaria, o piu brevemente, secondo la formu­ la marxiana, di v + p. Ne segue che anche l’insieme delle merci prodotte annualmente dalla società deve suddivider­ si, nel suo valore totale, in salari e plusvalore, e non lascia­ re resto. In tal modo, la categoria del capitale improvvisa­ mente svanisce, e la società produce unicamente reddito, articoli di consumo ch’essa stessa distrugge senza residui. La riproduzione senza capitale diviene un mistero, l’analisi del problema fa un passo indietro rispetto ai fisiocratici. I successori di Adam Smith ereditano, della sua teoria, proprio la parte errata. Mentre fino a Marx rimangono sen­ za sviluppo gli importanti accenni a un’impostazione cor­ retta del problema contenuti nel libro II, l’analisi fonda­ mentalmente errata del prezzo, svolta nel libro I, fu raccol­ ta dalla maggior parte dei successori come eredità a buon mercato, e accettata acriticamente, come nel Ricardo, o tra­ sformata in dogma banale, come nel Say. Al posto dei dub­ bi fecondi e delle contraddizioni illuminanti dello Smith,

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subentra nel Say la prosopopea e la sicurezza del facilo­ ne. L ’osservazione smithiana che ciò che è capitale per uno può essere reddito per l’altro diventa un argomento per di­ chiarare assurda ogni distinzione fra capitale e reddito su scala sociale, mentre l’assurdo che il valore totale della pro­ duzione annua si risolva in puro reddito e sia come tale in­ teramente consumato viene elevato dal Say a dogma di va­ lidità assoluta. Ora è chiaro che, consumando la società ogni anno senza residui il suo prodotto totale, la riproduzio­ ne sociale compiuta senza mezzi di produzione diventa la ripetizione anno per anno del miracolo biblico della crea­ zione del mondo dal nulla. A questo punto rimase, fino a Marx, il problema della riproduzione.

C A PIT O LO T ER Z O C R IT IC A D E L L ’A N A L IS I SM IT H IA N A

Riassumiamo i risultati ai quali l’analisi smithiana era giunta. Si possono indicare nei punti seguenti: 1. Esiste un capitale fisso della società, che non entra per alcuna sua parte nel reddito netto della società medesima. Costituiscono questo capitale fisso «le ma­ terie prime necessarie alla manutenzione delle mac­ chine e degli attrezzi industriali utili» e «il prodot­ to del lavoro indispensabile per far assumere a que­ ste materie prime la forma richiesta». Contrappo­ nendo espressamente la produzione di questo capita­ le fisso alla produzione di mezzi di sussistenza diret­ ti, Smith trasforma in realtà il capitale fisso in quello che Marx chiamerà successivamente capitale costante, cioè quella parte del capitale che consiste di tutti i mezzi produttivi materiali, in antitesi alla forza-la­ voro. 2. Esiste un capitale circolante della società. Di questo rimane tuttavia, dedotta la parte «fissa» (vale a dire: costante) del capitale, solo la categoria dei mezzi di sussistenza, la quale per la società non costituisce ca­ pitale, ma reddito netto, fondo di consumo. 3. Capitale e reddito netto dei singoli e capitale e reddi­ to netto della società non coincidono. Ciò che per la società è solo capitale fisso (costante), può essere per i singoli non capitale ma reddito, fondo-consumi, e precisamente in quelle parti di valore del capitale fis­ so che rappresentano i salari degli operai e i profitti dei capitalisti. Inversamente, il capitale circolante dei singoli può non essere capitale per la società ma red-

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dito, e precisamente in quanto rappresenti mezzi di sussistenza. 4. La produzione totale sociale annua non contiene nel suo valore un atomo solo di capitale, ma si risolve in­ teramente in tre specie di reddito: salari del lavoro, profitti del capitale, rendita del suolo. Chi da questi frammenti di pensieri volesse ricostruire il quadro della riproduzione annua del capitale sociale totale e del suo meccanismo, dovrebbe presto abbandonare l’im­ presa. Come, nonostante tutto, il capitale sociale finisca pur sempre, ogni anno, per rinnovarsi; come il consumo di tutti sia assicurato mediante il reddito, e come tuttavia i singoli mantengano i loro punti di vista diversi riguardo al capitale e al reddito —tutto ciò appare ancora ben lungi dall’esser chiarito. Ma è necessario aver ben presenti il grovi­ glio di idee e la molteplicità di punti di vista contraddittori, per comprendere quanta luce Marx abbia gettato per primo sul problema. Cominciamo con l’ultimo dogma smithiano, quello che bastò da solo a far naufragare il problema della riproduzio­ ne nell’economia politica classica. Le radici della bizzarra concezione di Smith, secondo la quale il prodotto totale del­ la società deve risolversi, nel suo valore, in salari, profitti e rendite senza lasciare alcun residuo, vanno cercate proprio nella sua impostazione scientifica della teoria del valore. Il lavoro è la sorgente di tutti i valori. Ogni merce è, come va­ lore, prodotto del lavoro e solo di esso. Ma ogni lavoro ero­ gato è, come lavoro salariato —questa identificazione del la­ voro umano col lavoro salariato capitalistico è tipica di Smith - , insieme compenso di salari pagati ed eccedenza da lavoro non pagato, come profitto per i capitalisti e rendita per i proprietari terrieri. Se ciò vale per le singole merci, deve valere anche per la loro totalità: la somma complessi­ va delle merci prodotte annualmente dalla società è, come grandezza di valore, puro prodotto del lavoro, pagato e non pagato, e in quanto tale si suddivide a sua volta unicamente in salari, profitti e rendite. È vero che per ogni lavoro en­ trano in considerazione anche materie prime, strumenti

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ecc.: ma che cosa sono queste materie prime e questi stru­ menti, se non altrettanti prodotti del lavoro e, piu precisamente, ancora una volta, di lavoro pagato e non pagato? Clira e rigira, nel valore o, rispettivamente, nel prezzo delle merci complessivamente prese non troveremo mai nulla che non sia semplicemente lavoro umano. Ma ogni lavoro si scinde in una parte che compensa i salari, e una che va ai capitalisti e ai proprietari terrieri. Non esistono che salari e profitti: eppure esiste il capitale - capitale dei singoli e ca­ pitale della società. Come uscire da questa contraddizione palmare? Che si trattasse di un osso teorico estremamente duro lo dimostra il fatto che lo stesso Marx ci si provò e ri­ provò lungamente prima di fare un passo avanti e trovare una via d ’uscita, come si può vedere nelle sue Teorie sul plusvalore Tuttavia, la soluzione egli la trovò e chiarissi­ ma, proprio prendendo come base la sua teoria del valore. Adam Smith aveva perfettamente ragione: il valore delle merci singolarmente e collettivamente prese non rappresen­ ta che lavoro. Aveva anche ragione di dire che ogni lavoro (concepito sotto il profilo capitalistico) si distingue in paga­ to (che compensa i salari) e non pagato (che emigra come plusvalore nelle mani delle diverse classi di possessori di mezzi di produzione). H a però dimenticato, o piuttosto trascurato, il fatto che il lavoro, oltre alla proprietà di pro­ durre nuovo valore, ha anche la proprietà di trasferire l’an­ tico valore, incorporato nei mezzi di produzione, nelle nuo­ ve merci con essi prodotte. Una giornata lavorativa del for­ naio di io ore non può crear altro valore che quello di io ore, e queste io ore si suddividono, dal punto di vista capi­ talistico, in pagate e non pagate, in v + p. Ma le merci pro­ dotte in quelle io ore rappresentano più valore che quello di un lavoro di io ore perché contengono anche il valore della farina, del forno consumato, dei locali, del materiale usato per accendere il fuoco, ecc.: insomma, di tutti i mezzi 111 produzione necessari per cuocere il pane. Il valore delle merci potrebbe risolversi interamente in v + p a questa so-1 1 Theorien über den Mehrwert, D i e t z , S t u t t g a r t 1905, v o l . I , p p . 179112 [trad. it. Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino 1954, vol. I, pp. 162-247].

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la condizione: che l’uomo lavorasse per aria, senza materie prime, senza strumenti di lavoro, senza fabbricati. Ma sic­ come ogni lavoro materiale presuppone qualche mezzo di produzione, frutto a sua volta di lavoro passato, esso deve trasferire questo lavoro passato, cioè il valore da esso pro­ dotto, anche nel nuovo prodotto. Non si tratta, qui, di un processo che si compie soltan­ to nella produzione capitalistica, ma di un fondamento ge­ nerale del lavoro umano, indipendente dalla forma storica della società. L ’operare con strumenti di lavoro fabbrica­ ti con le proprie mani è la caratteristica storica (Kulturhi­ storische) fondamentale della società umana. Il concetto del lavoro passato che precede ogni nuovo lavoro e gli offre una base di operazione esprime il legame storico permanen­ te fra uomo e natura, la concatenazione degli sforzi, strettamente connessi gli uni agli altri, compiuti dalla società uma­ na nel campo del lavoro —concatenazione il cui punto d ’ini­ zio si perde negli albori della socialità umana e la cui fine può essere raggiunta solo col tramonto dell’umanità civile. Ogni lavoro umano va dunque concepito come svolgentesi sulla base di mezzi di lavoro prodotti a loro volta da un la­ voro precedente. In ogni nuovo prodotto è racchiuso non solo il nuovo lavoro che gli ha dato la forma ultima, ma an­ che il lavoro passato che ha fornito le materie, gli attrezzi ecc. necessari a crearlo. Nella produzione di valori, cioè nel­ la produzione di merci, alla quale appartiene anche la pro­ duzione capitalistica, questo fenomeno non si annulla ma vi assume una forma specifica, esprimendosi nel doppio carat­ tere del lavoro produttore di merci, che da una parte, come lavoro utile, concreto, di qualsiasi specie, crea l’oggetto uti­ le, il valore d ’uso, e dall’altra, come lavoro astratto, genera­ le, socialmente necessario, crea valore. Nella sua prima qua­ lità, esso compie quello che il lavoro umano ha sempre com­ piuto: trasferisce nel nuovo prodotto il vecchio lavoro con­ globato nei mezzi di produzione utilizzati, con l’unica diffe­ renza che anche questo lavoro passato appare come valore, valore antico. Nella seconda qualità, crea un valore nuovo, che, al modo capitalistico, si divide in pagato e non pagato : v + p. Ne segue che ogni merce conterrà sia un valore anti-

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co, che il lavoro nella sua proprietà di lavoro utile, concrelo, trasferisce dai mezzi di produzione alla merce; sia un nuovo valore, che lo stesso lavoro, in quanto socialmente necessario, crea mediante la sua pura erogazione, la sua du­ rata. Smith non poteva fare questa distinzione perché non aveva tenuto rigorosamente distinti i due caratteri del lavo­ ro creatore di valore, e in questo fondamentale errore della teoria smithiana del valore Marx crede1di vedere anche la radice dello strano dogma della risoluzione completa di ogni massa di valore prodotto in v + p. In realtà, la manca­ ta distinzione delle due facce del lavoro creatore di merci concreto, utile, e astratto, socialmente necessario - costitui­ sce uno dei tratti distintivi fondamentali non soltanto della scuola di Smith, ma della teoria del valore dell’intera scuo­ la classica. Non preoccupandosi delle conseguenze sociali di questo riconoscimento, l ’economia classica riconobbe nel lavoro umano l’unico fattore creativo di valore, e svolse questa teoria fino alla chiarezza in cui la formulò Ricardo. Ma la differenza fondamentale fra la teoria ricardiana e la teoria marxista —differenza non soltanto misconosciuta dagli eco­ nomisti borghesi, ma spesso passata sotto silenzio anche da volgarizzatori delle teorie di Marx - sta nel fatto che Ricar­ do, corrispondentemente alla sua interpretazione generale giusnaturalistica dell’economia borghese, considerò anche la creazione di valore una proprietà naturale del lavoro umano, del lavoro individuale, concreto, dell’uomo singolo. Questa concezione appare ancor piu nettamente in Smith, che fa per esempio della «tendenza allo scambio» una par­ ticolarità della natura umana dopo di averla invano cercata negli animali. D ’altra parte, pur mettendo in dubbio una «tendenza al­ lo scambio» negli animali, egli riconosce al lavoro animale come a quello umano la proprietà di creare valore, là dove ricade nel fisiocratismo: «Non v ’è capitale che metta in moto una maggior quantità di lavoro produttivo, che il la1 Das Kapital, libro II, p. 351 [sez. I l l , cap. XIX, 3].

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voro del contadino. Non solo i suoi operai, ma anche il suo bestiame da lavoro sono lavoratori produttivi... Perciò gli operai e il bestiame da lavoro impiegati nell’agricoltura non soltanto riproducono, come gli operai dell’industria, un va­ lore uguale al loro consumo, o al capitale che li impiega, ol­ tre all’utile del capitalista, ma un valore assai superiore. Ol­ tre al capitale dell’affittuario e a tutti i suoi profitti, essi ri­ producono regolarmente la rendita del proprietario terrie­ ro» ’. È qui che appare nel modo piu evidente come Smith con­ siderasse la creazione di valore una proprietà fisiologica del lavoro in quanto estrinsecazione dell’organismo animale dell’uomo. Come il ragno trae dal proprio corpo il filo, cosi l’uomo che lavora produce valore —l’uomo che lavora in generale, qualunque uomo che crei oggetti utili, giacché l’uomo che lavora è per natura produttore di merci, cosi co­ me la società umana è per natura fondata sullo scambio e l’economia mercantile è la forma economica normale del genere umano. Per primo Marx riconobbe nel valore un rapporto sociale particolare nascente in condizioni storiche determinate, e giunse di qui alla distinzione dei due aspetti del lavoro crea­ tore di merci: il lavoro concreto, individuale, e il lavoro so­ ciale, indifferenziato —distinzione che fa balzare agli occhi, come nella luce cruda di una lanterna cieca, la soluzione del mistero del denaro. Ma, per isolare così nel grembo dell’economia borghese, da un punto di vista statico, il duplice carattere del lavoro, l’uomo che lavora e il produttore di merci che crea valore, Marx doveva anzitutto distinguere dinamicamente, nella successione storica, il produttore di merci dall’uomo che la­ vora, cioè riconoscere nella produzione delle merci solo una determinata forma storica della produzione sociale. In altre parole, Marx doveva, per interpretare i geroglifici dell’eco­ nomia capitalistica, affrontare l’analisi muovendo da una de­ duzione opposta a quella dei classici: invece che dalla fede nel carattere generalmente umano del modo di produzioA.

sm it h ,

Wealth of Nations, libro II, cap. V.

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ne borghese, dalla visione lucida del suo passato storico; do­ veva capovolgere nel suo opposto la deduzione metafisica dei classici, trasformarla in dialettica Era perciò inevitabile che riuscisse impossibile allo Smith distinguere nettamente fra i due aspetti del lavoro creato­ le di valore, in quanto, cioè, da una parte trasferisca l’anti­ co valore dei mezzi di produzione al nuovo prodotto, e dal­ l’altra crei contemporaneamente nuovo valore. Pare a noi, tuttavia, che il suo dogma della risoluzione del valore tota­ le in V+ p abbia anche un’altra origine. Non si può attribui­ re a Smith il mancato riconoscimento del fatto che ogni merce prodotta contiene non soltanto il valore creato nella sua produzione diretta, ma anche il valore di tutti i mezzi di produzione impiegati a produrlo. Proprio quel suo conti­ nuo rinviarci, per la risoluzione totale del valore complessi­ vo in V + p, da uno stadio produttivo a uno precedente o, co­ me dice Marx, da Ponzio a Pilato, dimostra ch’egli era per­ fettamente cosciente della realtà. Lo strano è soltanto ch’e­ gli risolva anche il valore antico dei mezzi di produzione, c perciò, infine, l’intero valore contenuto nella merce, in v + p.

Cosi nel passo già citato sul prezzo del grano: «N el prez­ zo del grano, per esempio, una parte paga la rendita per il proprietario fondiario, un’altra i salari del lavoro o il man­ tenimento degli operai e del bestiame da lavoro, una terza l’utile del fittavolo. Queste tre parti sembrano costituire immediatamente o in ultima analisi il prezzo complessivo del grano. Si potrebbe forse ritener necessaria anche una quarta parte, per compensare il logorio del bestiame da la­ voro e degli utensili economici. Bisogna però tener presente che il prezzo di ogni animale da lavoro si compone a sua vol­ ta delle stesse tre parti: x) rendita del suolo che lo ha nutri­ to; 2) lavoro impiegato al suo allevamento; 3) utile di capi­ tale dell’affittuario che ha anticipato tanto la rendita quanto i salari. Se perciò è vero che il prezzo del grano contiene an­ che il valore del cavallo e del suo nutrimento, anche questo1 1 Cfr. R. Luxem bu rg , Zurück auf Adam Smith! , in «Die Neue Zeit: XVIII, vol. II, p. 184.

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si risolve direttamente o indirettamente nelle tre suddette parti componenti: rendita, lavoro e profitto». La confusione fu determinata in Smith, a parer nostro, da quanto segue: 1. Ogni lavoro si compie con qualche mezzo di produzio­ ne. Ma ciò che in un determinato lavoro è mezzo di produzione (materia prima, attrezzi, ecc.), è a sua vol­ ta prodotto di un precedente lavoro. Per il fornaio la farina è un mezzo di produzione cui egli applica nuovo lavoro. Ma la farina è a sua volta uscita dal lavoro del mugnaio, agli effetti del quale non era mezzo di pro­ duzione, ma, esattamente come ora il pane, prodotto. In questo prodotto era presupposto come mezzo di produzione il grano, ma se saliamo un altro gradino ecco che il grano è per l’agricoltore non mezzo di pro­ duzione ma prodotto. Impossibile trovare un mezzo di produzione contenente valore che non sia a sua vol­ ta prodotto di un precedente lavoro. 2. In linguaggio capitalistico, ne segue che ogni capitale utilizzato alla produzione di qualsivoglia merce si ri­ solve, in definitiva, in una certa quantità di lavoro erogato. 3. Il valore totale della merce, comprese le spese in capi­ tale, si risolve dunque semplicemente in una certa quantità di lavoro. Ma ciò che si riferisce a ogni mer­ ce deve anche riferirsi all’insieme delle merci prodot­ te dalla società in un anno : anche il loro valore totale si risolve in un quantum di lavoro erogato. 4. Ogni lavoro erogato in regime di produzione capitali­ stico si divide in due parti: pagato, che paga i salari, e non pagato, che crea profitti e rendita, cioè plusvalo­ re. Ogni lavoro erogato capitalisticamente corrispon­ de alla formula v + p ' . 1 1 Trascuriamo qui il fatto che in Smith affiora anche la concezione oppo­ sta, secondo cui non il prezzo delle merci si risolve in v+p, ma il valore del­ le merci si compone di v+p. Questo quiproquo è importante piu per la dot­ trina smithiana del valore, che per l’assunto ai fini del quale ci interessa qui la formula v+p.

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Queste quattro tesi sono giuste e incontestabili. La loro formulazione dimostra la vigoria e intrepidezza dell’analisi scientifica smithiana e documenta i progressi compiuti, nel­ la concezione del valore e del plusvalore, rispetto ai fisiocratici. Senonché nella 3“ tesi lo Smith inseri, argomentando la conclusione, l ’inciso sbagliato: il valore totale della massa di merci prodotte annualmente si risolve nella quantità di lavoro erogato in quell’anno-, mentre altrove egli aveva mo­ strato di sapere perfettamente che il valore delle merci pro­ dotte dalla nazione in un anno comprende necessariamente anche il lavoro degli anni precedenti, cioè il lavoro conglo­ bato nei mezzi di produzione trasmessi da un periodo di produzione all’altro. Comunque, la conclusione finale tratta dalle quattro tesi, perfettamente giuste, che abbiamo sopra elencato - cioè la conclusione smithiana che il valore totale di ogni merce, co­ me del complesso delle merci prodotte in un anno dalla so­ cietà, si risolve senza residui in v + p - è completamente er­ rata. Adam Smith identifica la tesi esatta, che ogni valore delle merci non rappresenta se non lavoro sociale, con la te­ si sbagliata che ogni valore non rappresenta se non v + p. La formula v + p esprime la funzione del lavoro vivo nei rapporti economici capitalistici, la sua doppia funzione: di reintegrare il capitale variabile (salari), di creare plusvalore per i capitalisti. Questa funzione il lavoro salariato l’assolve nel corso della sua utilizzazione ad opera dei capitalisti, che, realizzando il valore delle merci in denaro, ne ritraggono tanto il capitale variabile anticipato in salari, quanto il plus­ valore. v + p esprime dunque il rapporto fra salariato e ca­ pitalista, un rapporto che cessa ogniqualvolta sia compiuta la produzione della merce. Venduta questa e realizzato in denaro per il capitalista il rapporto v + p, anche il rapporto e la sua traccia nella merce sono spariti. Dalla merce e dal suo valore non è allora assolutamente possibile stabilire se e in qual misura il suo valore sia creato da lavoro pagato e non pagato; l’unico fatto certo e indiscutibile è che la merce contiene una determinata quantità di lavoro socialmente ne­ cessario, ciò che si esprime nello scambio. Ne segue che, tan­ to per lo scambio quanto per l’uso delle merci, è del tutto

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indifferente che il lavoro da esse rappresentato si suddivida o no in V+ p. Solo la sua quantità come valore ha un ruolo nello scambio; solo la sua peculiarità concreta, la sua utilità, ha un ruolo nel consumo. La formula v + p esprime insom­ ma, per cosi dire, i rapporti intimi fra capitale e lavoro, la funzione sociale del lavoro salariato, esaurientesi totalmen­ te nel prodotto. Non cosi per la parte di capitale investita nei mezzi di produzione, il capitale costante. Oltre a lavoro salariato, il capitalista ha bisogno di mezzi di produzione, giacché l’esercizio di ogni lavoro richiede determinate ma­ terie prime, strumenti, edifici. Che anche questa condizione preliminare della produzione abbia carattere capitalistico appare dal fatto che i mezzi produttivi si presentano come c, come capitale, e cioè: i ) come proprietà di persone di­ verse dai lavoratori, separata dalla forza-lavoro, proprietà di non-lavoratori; 2) come semplice anticipo, come spesa fatta in vista della produzione di plusvalore. Il capitale costante c appare insomma come semplice base a v + p. Ma il capita­ le costante esprime anche qualcosa di piu, e cioè la funzione del mezzo di produzione in ogni processo di lavoro umano, qualunque sia la forma storica della società in cui si svolge. Le materie prime e gli strumenti di lavoro necessitano nella stessa misura all’abitante della Terra del Fuoco per costrui­ re la sua canoa, alla comunità agricola comunista in India per lavorare i terreni comunali, al fellah egiziano per la col­ tivazione dei suoi appezzamenti o per la costruzione delle piramidi, allo schiavo greco nella piccola manifattura ate­ niese, al servo della gleba feudale, all’artigiano delle corporazioni medievali, al salariato moderno. I mezzi di produ­ zione già usciti dal lavoro umano esprimono l’avvenuto con­ tatto fra lavoro umano e materia naturale, e sono perciò la premessa generale eterna del processo produttivo. Il termi­ ne c nella formula c + v + p esprime dunque una determina­ ta funzione del mezzo di produzione, che non si esaurisce al cessar del lavoro. Per lo scambio e per l ’uso della merce è del tutto indifferente eh’essa sia sorta da lavoro pagato e non pagato, da lavoro salariato, da lavoro servile, da lavoro coatto, ecc.; quel che decisivamente importa per l’uso della

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merce è che questa sia mezzo o di produzione o di consumo. Il fatto che nella produzione di una macchina sia stato im­ piegato lavoro pagato e non pagato, importa solo al fabbri­ cante della macchina e ai suoi operai: alla società che me­ diante lo scambio ottiene la macchina, importa solo la sua qualità di mezzo produttivo, la sua funzione nel processo della produzione. E, allo stesso modo che ogni società pro­ duttrice ha dovuto tener sempre conto della funzione deci­ siva del mezzo di produzione nel senso di preoccuparsi, in ogni periodo produttivo, di creare i mezzi di produzione in­ dispensabili per il periodo seguente, cosi anche la società capitalistica può dar l’avvio ogni anno alla propria produ­ zione di valore secondo la formula v + p, cioè allo sfrutta­ mento del lavoro salariato, solo se sono presenti le quantità necessarie di mezzi produttivi costituenti il capitale costan­ te, trasmessi dal periodo di produzione anteriore. Questo specifico concatenarsi di ogni periodo della produzione col successivo, che costituisce la base generale e perenne della riproduzione sociale, e consiste nel fatto che una parte dei prodotti di ogni periodo sono destinati a fungere da mezzi produttivi nel successivo, questo concatenarsi specifico sfug­ gi agli occhi di Adam Smith. Ciò che dei mezzi di produzio­ ne lo interessava non era la loro specifica funzione nel pro­ cesso di produzione in cui erano impiegati, ma solo il fatto che fossero a loro volta prodotti del lavoro salariato impie­ gato secondo il modo di produzione capitalistico, allo stes­ so titolo di qualunque merce: la specifica funzione capita­ listica del lavoro salariato nel processo di produzione del plusvalore gli velò la funzione generale e costante dei mezzi di produzione nel processo di lavoro. Di là dai particolari rapporti sociali fra lavoro salariato e capitale, il suo sguar­ do, limitato all’orizzonte borghese, non riuscì a cogliere il rapporto generale fra uomo e natura. È qui, secondo noi, la vera sorgente del bizzarro dogma smithiano, secondo cui il valore totale della produzione sociale annua si risolve inte­ ramente in V+ p. A Smith sfuggi che c, come primo membro della formula c + v + p, è l’espressione necessaria della base sociale generale per lo sfruttamento capitalistico del lavoro salariato.

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In conclusione, il valore di ogni merce deve esprimersi nella formula c+v + p Il problema che si pone ora è quale applicazione essa tro­ vi sull’insieme delle merci prodotte da una società. Rifaccia­ moci ai dubbi di Smith, alla sua affermazione che capitale fisso e circolante e reddito del singolo non coincidono con le stesse categorie nel loro significato sociale (cfr. sopra, punto 3 ), e ciò che per uno è capitale circolante è per l’altro non capitale ma reddito, per esempio gli anticipi di capitale per i salari. Quest’affermazione poggia su un errore. Quan­ do il capitalista versa ai suoi operai il salario, non esborsa capitale variabile che emigri nelle mani degli operai per es­ sere trasformato in loro reddito, ma si limita a cedere la for­ ma di valore del suo capitale variabile contro la sua forma naturale, la forza-lavoro. Il capitale variabile è sempre in ma­ no al capitalista: anzitutto in forma di denaro, poi in forma di forza-lavoro da lui acquistata, in seguito in forma di una parte del valore delle merci prodotte, per tornargli infine dalla realizzazione delle merci in forma di denaro, insieme a un sovrappiù. D ’altra parte, l’operaio non entra mai in pos­ sesso del capitale variabile. Per lui, la forza-lavoro non è mai capitale, ma suo patrimonio (l’unico che possieda, capa­ cità di lavorare); e, se la vende incassando denaro a titolo di salario, neppure questo salario è per lui capitale, ma prezzo della merce venduta. Infine, il fatto che l’operaio coi salari ottenuti compri dei mezzi di sussistenza ha cosi poco a che vedere con la funzione che questo denaro ha avuto come capitale variabile nelle mani del capitalista, quanto l’uso pri­ vato che ogni venditore di una merce fa del denaro ottenuto nella vendita. Non è dunque il capitale variabile del capita­ lista che diventa reddito dell’operaio, ma il prezzo della merce forza-lavoro venduta dall’operaio; mentre il capitale variabile rimane come prima in mano al capitalista e funge come tale. Altrettanto falsa è l’opinione che il reddito (plusvalore) del capitalista, incluso per es. in macchine non ancora rea­ lizzate, sia per un altro - il compratore delle macchine - ca-

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pitale fisso. Ciò che costituisce il reddito del fabbricante di macchine non sono le macchine o una loro parte, ma il plus­ valore in esse incorporato, e perciò lavoro non pagato dei suoi salariati. Venduta la macchina, questo reddito resta co­ me prima in mano sua, non ha fatto che cambiare forma esteriore, è passato dalla forma di merce a quella di denaro. Inversamente, il compratore della macchina non è entrato in possesso del proprio capitale fisso solo all’atto del suo ac­ quisto, ma lo aveva già in mano come capitale monetario, e l’acquisto della macchina gli ha solo permesso di dare al ca­ pitale la corrispondente forma materiale di cui aveva biso­ gno per farlo agire in senso produttivo. Tanto prima quanto dopo la vendita della macchina, il reddito (plusvalore) resta in mano al fabbricante di macchine, il capitale fisso in mano al compratore capitalista della macchina, come, nel primo esempio, il capitale variabile rimaneva nelle mani del capi­ talista, il reddito nelle mani dell’operaio. La causa della confusione fatta da Smith e successori va cercata nel fatto che, di fronte allo scambio capitalistico del­ le merci, essi misero in un sol fascio la forma d ’uso delle merci e i loro rapporti di valore, e, come se non bastasse, non tennero distinte le singole circolazioni dei capitali e del­ le merci, che ad ogni piè sospinto s’incrociano e intrecciano. Lo stesso atto di scambio delle merci può, guardato da una delle sue facce, essere circolazione di capitale, dall’altra, in­ vece, semplice scambio di merci per la soddisfazione dei bi­ sogni. La falsa proposizione: ciò che per uno è capitale è per l’altro reddito e viceversa, si riduce cosi alla giusta formula: ciò che per uno è circolazione di capitale è per l’altro sempli­ ce scambio di merci, e viceversa. Questo serve soltanto a mettere in evidenza la capacità di trasformazione del capi­ tale nel corso della sua carriera e l’intrecciarsi delle diverse sfere d ’interessi nel processo sociale dello scambio; ma non per questo viene superata e abolita la netta delimitazione tra l’esistenza del capitale, da una parte, e quella del reddi­ to dall’altra; e precisamente, del capitale in entrambe le sue forme caratteristiche di capitale costante e capitale varia­ bile. Con la sua affermazione che capitale e reddito dei singoli

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non coincidono interamente con le stesse categorie della collettività, Smith si era fortemente avvicinato alla verità: per abbracciare con chiarezza il complesso del problema mancavano tuttavia alcuni altri anelli.

C A P IT O L O QUARTO LO SC H E M A D E L L A R IPR O D U Z IO N E S E M P L I C E IN M A R X

Consideriamo la formula c+v + p espressione del prodotto sociale totale. Si tratta di una pura costruzione teorica, di uno schema astratto, o la formula possiede, nell’applicazione alla società nel suo complesso, un senso reale, un’esistenza sociale obiettiva? È stato Marx il primo, nella teoria economica, a elevare il capitale costante c a categoria d ’importanza fondamenta­ le. Tuttavia, già Smith, che pure aveva lavorato con le sole categorie capitale fisso e circolante, aveva di fatto trasfor­ mato, pur senza rendersene conto, il capitale fisso in costan­ te, comprendendovi non soltanto i mezzi di produzione che si logorano in una successione di anni, ma anche quelli che anno per anno trapassano interamente nella produzione Il suo stesso dogma della risoluzione del valore totale in v + p e la dimostrazione relativa lo portavano a tener distinte le due categorie dei presupposti della produzione: il lavoro vi­ vente e il complesso dei mezzi di produzione morti. D ’altra parte, quando cercò di ricostruire dai capitali e redditi sin­ goli il processo della riproduzione sociale, quello che gli ri­ mase come capitale «fisso» era in realtà capitale costante. Ogni capitalista singolo impiega per produrre le proprie merci alcuni mezzi produttivi materiali: fabbricati, materie1 1 Parliamo qui, come nelle pagine successive, per maggior semplicità e conformemente all’uso comune, di produzione annua, cosa che per lo piu va­ le solo per l ’agricoltura, mentre i cicli della produzione industriale e la rota­ zione del capitale possono non coincidere affatto col cambiamento dell’anno.

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prime, utensili. Per produrre l’insieme delle merci è eviden­ temente necessario, in quella data società, l’insieme dei mez­ zi di produzione materiali usati dai singoli capitalisti. L ’esi­ stenza di questi mezzi di produzione nella società è un fatto reale, anche se esistono solo in forma di capitali privati in­ dividuali. È qui che si esprime la condizione generale asso­ luta della produzione sociale in tutte le sue forme storiche. Quanto alla specifica forma capitalistica, essa si manifesta nel fatto che i mezzi di produzione materiali fungono ap­ punto come c, come capitale, cioè come proprietà di non-lavoratori, come polo opposto di forze di lavoro proletarizza­ te, come antitesi del lavoro salariato. Il capitale variabile, v, è la somma dei salari effettivamente pagati nella società nel corso della produzione annua. Anche questo fatto ha un’esi­ stenza reale, obiettiva, per quanto si esprima in una varietà enorme di salari individuali. Il numero delle forze-lavoro effettivamente impegnate nella produzione, e il loro mante­ nimento annuo, rappresentano per qualsiasi società un pro­ blema di importanza primaria. Ma la forma specifica capita­ listica di questa categoria come v, come capitale variabile, è caratterizzata dal fatto: 1) che i mezzi di sussistenza degli operai si presentano a questi come salario, come prezzo del­ la forza-lavoro da essi venduta, come proprietà capitale di altre persone, le quali non lavorano ma possiedono i mezzi di produzione materiali; 2) come una determinata somma di denaro, cioè come pura forma di valore dei loro mezzi di sussistenza. Cosi v significa tanto che i lavoratori sono «li­ beri» —in duplice senso: personalmente liberi, e liberi da qualunque mezzo di produzione —quanto che la produzione delle merci è la forma generale della produzione in quella data società. Infine, p - il plusvalore - rappresenta la somma totale di tutti i plusvalori ottenuti dai capitalisti singoli. Ogni socie­ tà comporta pluslavoro; anche una società socialista. E in un triplice senso: come quantità di lavoro destinata a man­ tenere i non-lavoratori (inabili al lavoro, bambini, vecchi, invalidi, funzionari pubblici e professioni cosiddette libera­ li, che non partecipano direttamente al processo produtti-

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ßC)

vo) ‘; come fondo di assicurazione della società per acciden­ ti elementari minaccianti la produzione annua della massa dei beni (cattivo raccolto, incendio di boschi, inondazioni); infine, come fondo per l’allargamento della produzione, sia in vista dell’aumento della popolazione, sia in vista dell’ele­ vazione qualitativa dei bisogni. Ma la forma capitalistica si manifesta in questi due fatti: i ) il pluslavoro è compiuto sotto forma di plusvalore, cioè sotto forma di merci, ed è realizzabile in denaro; 2) esso appare come proprietà di de­ tentori oziosi dei mezzi di produzione. Infine, i due termini v + p rappresentano anch’essi una grandezza obiettiva di validità universale, e cioè la somma totale del lavoro vivente erogato nella società nel corso di un anno. Ogni società umana, qualunque forma storica essa abbia, deve preoccuparsi di questa realtà di fatto, sia in rapporto ai risultati ottenuti, sia in rapporto alle forze-la­ voro presenti e disponibili. Anche la suddivisione in v + p è un fenomeno generale, indipendente dalle particolari for­ me storiche assunte dalla società. La sua espressione capita­ listica si rivela non soltanto nelle particolarità qualitative dei due termini, già da noi messe in rilievo, ma anche nel loro rapporto quantitativo - nel fatto che v mostra la ten­ denza a scendere al minimo fisiologico e sociale necessario all’esistenza di chi lavora e p la tendenza ad aumentare co­ stantemente in rapporto a r , e a sue spese. L ’ultima circostanza esprime infine la caratteristica do­ minante della produzione capitalistica, il cui vero scopo e la cui molla è l’appropriazione di plusvalore. Come si vede, i rapporti che stanno alla base della for­ mula capitalistica della produzione totale hanno validità universale e, in ogni forma economica organizzata secondo un piano, sono oggetto di regolamentazione cosciente da parte della società - della generalità dei lavoratori e dei lo-1 1 La divisione del lavoro in intellettuale e materiale può, in una società pianificata basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, non es­ sere legata a particolari categorie della popolazione. Essa si tradurrà comun­ que anche qui nella presenza di un certo numero di persone intellettualmen­ te attive che dovranno essere materialmente mantenute, mentre le stesse fun­ zioni potranno essere esercitate a turno.

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ro organi democratici in una società comunista, del centro possidente e del suo potere dispotico in una società basata su un dominio di classe. Nella forma capitalistica della pro­ duzione, una regolamentazione pianificata generale non esi­ ste, e il complesso dei capitali e delle merci della società consta, nel fatto, della somma di una pluralità infinita di capitali singoli e di singoli aggregati di merci. Ci si chiede perciò se queste somme posseggano nella so­ cietà capitalistica qualcosa piu del significato di una pura elencazione statistica, per giunta di carattere estremamente vago e fluttuante. Senonché sul piano della collettività re­ sistenza pienamente indipendente e sovrana delle aziende capitalistiche private rappresenta soltanto la forma storica determinata, mentre la base è il loro intreccio sociale; in­ fatti, per quanto i capitali singoli operino in piena autono­ mia reciproca e manchi una regolamentazione sociale, il movimento complessivo dei capitali si svolge come un tut­ to unitario. Anche questo movimento d ’insieme si esprime in specifiche forme capitalistiche. Mentre in ogni forma di produzione pianificata la regolamentazione ha per primo oggetto il rapporto fra il lavoro complessivo compiuto e da compiere e i mezzi di produzione (o, per servirci della no­ stra formula, fra (v + p) e c) ovvero fra la somma dei mezzi di sussistenza occorrenti e i mezzi di produzione indispen­ sabili (fra (v + p )e c), nella forma di produzione capitalisti­ ca il lavoro socialmente necessario per il mantenimento dei mezzi di produzione morti e delle forze-lavoro vive è con­ siderato come un tutto, come capitale, e ad esso si contrap­ pone il pluslavoro erogato come plusvalore, p. Il rapporto fra queste due grandezze, ÿ e ( c + t ) è u n rapporto reale, obiettivo, tangibile, della società capitalistica: il saggio me­ dio del profitto, che considera ogni capitale come parte di un tutto comune, del capitale sociale, e gli assegna il pro­ fitto come parte adeguata del plusvalore estorto nella so­ cietà, indipendentemente dalla quantità da esso effettiva­ mente ottenuta. Il capitale sociale totale e la sua contropar­ te - il plusvalore sociale totale —non sono dunque soltanto grandezze reali di esistenza obiettiva: ma il loro rapporto, il profitto medio, regge e guida —attraverso il meccanismo

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della legge del valore - l’intero scambio, cioè i rapporti quantitativi di scambio fra le singole specie di merci indi­ pendentemente dai loro particolari rapporti di valore, la di­ visione sociale del lavoro, cioè l’assegnazione di corrispon­ denti quote di capitale o forze-lavoro ai singoli settori del­ la produzione, e lo sviluppo della produttività del lavoro, cioè, da una parte, l’orientamento dei singoli capitali verso iniziative suscettibili di spingerli al di sopra del profitto medio, e dall’altra l’estensione all’intera produzione dei progressi realizzati dai singoli, ecc. In breve: il capitale so­ ciale totale domina, grazie al saggio medio del profitto, i movimenti in apparenza autonomi dei capitali singoli La formula c + v + p si adatta dunque non soltanto alla composizione del valore di ogni singola merce, ma anche al­ l’insieme delle merci prodotte nella società secondo il mo­ do capitalistico. Tuttavia, di là dalla composizione del valo­ re, l’analogia cessa. La suddetta formula è infatti perfettamente esatta se vo­ gliamo analizzare nelle rispettive parti componenti il pro­ dotto totale di una società a produzione capitalistica, come prodotto complessivo del lavoro di un anno. Il termine c mostra allora quanto del lavoro passato, speso in anni pre­ cedenti sotto forma di mezzi di produzione, è incorporato nel prodotto di quest’anno; il termine v + p indica la parte di valore del prodotto creata esclusivamente nell’ultimo an­ no mediante nuovo lavoro; infine, il rapporto fra v e p esprime la ripartizione della somma annua di lavoro sociale in mantenimento di lavoratori e mantenimento di non-lavoratori. Quest’analisi rimane giusta e normativa per la riproduzione del capitale singolo, qualunque sia la forma ma-1 1 «Quando si parla di punto di vista sociale, quando cioè si considera il prodotto sociale totale, comprendente tanto la riproduzione del capitale so­ ciale quanto il consumo individuale, non si deve cadere nella maniera imi­ tata da Proudhon degli economisti borghesi e considerare la cosa come se la società fondata sul modo di produzione capitalistico, considerata en bloc, come totalità, perdesse il suo carattere storico-economico specifico. Al con­ trario: si ha allora a che fare con il capitalista collettivo. Il capitale totale appare allora come il capitale azionario dell’insieme di tutti i capitalisti sin­ goli. Questa società per azioni ha in comune con altre società per azioni che ognuno sa quel che vi porta ma non ciò che ne ricaverà » (Das Kapital, libro II, p. 409 [sez. II, cap. XX, par. vili]).

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teriale del prodotto con esso creato. Per i capitalisti dell’in­ dustria meccanica, tanto c quanto v quanto p appaiono in­ differentemente sotto forma di macchine o di parti di mac­ chine. Per i colleghi zuccherieri, tanto c quanto v quanto p vengono alla luce dal processo produttivo sotto forma di zucchero. Per i proprietari di una compagnia di riviste, si materializzano nelle attrattive fisiche delle ballerine e delle «eccentriche». Quegli elementi si distinguono gli uni dagli altri nel prodotto indifferenziato solo come parti aliquote del suo valore. Tanto basta per la riproduzione del capitale singolo, giacché la riproduzione del capitale singolo comin­ cia con la forma di valore del capitale e ha il suo punto di approdo in una certa somma di denaro nata dalla realizza­ zione del prodotto creato. La formula c + v + p è allora la ba­ se specifica per la divisione di questa somma di denaro in una parte destinata all’acquisto di mezzi di produzione mate­ riali, in un’altra destinata all’acquisto di forza-lavoro, e in una terza destinata al consumo personale del capitalista, se, come per ora ammettiamo, si verifica una riproduzione sem­ plice, o solo in parte al suo consumo e in parte all’allarga­ mento del capitale, se deve verificarsi una riproduzione al­ largata. Che ai fini di una reale riproduzione egli debba, col capitale monetario cosi suddiviso, rivolgersi di nuovo al mercato, è piu che evidente. Altrettanto evidente appare al singolo capitalista, come al suo ideologo scientifico, all’eco­ nomista volgare, che il capitalista singolo troverà realmen­ te sul mercato i mezzi di produzione e le forze-lavoro neces­ sarie alla sua azienda. Non cosi stanno le cose per la produzione sociale totale. Dal punto di vista della collettività, lo scambio delle merci può operare solo un trasferimento, un cambiamento gene­ rale di posto delle singole parti del prodotto totale, non modificarne la composizione materiale. Tanto dopo quanto prima questo cambiamento di posto, la riproduzione del ca­ pitale totale può aver luogo solo se nel prodotto totale uscito dall’ultimo periodo di produzione si trovano: i) suf­ ficienti mezzi di produzione; 2) mezzi di sussistenza suffi­ cienti per il mantenimento del numero precedente di forzelavoro; 3) last not least, i mezzi di sussistenza richiesti dal

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mantenimento «decoroso» della classe capitalistica e an­ nessi. Qui un nuovo campo si apre: dai puri rapporti di va­ lore passiamo a considerazioni materiali, alla forma d ’uso del prodotto sociale totale. Ciò che per il capitalista singolo è indifferente, diventa per l’insieme dei capitalisti oggetto di serie preoccupazioni. Mentre per il capitalista singolo fa perfettamente lo stesso che la merce da lui prodotta sia macchina, zucchero, concime sintetico, giornale liberale, sempreché la realizzi per ricavarne il capitale oltre al plus­ valore, per l’insieme dei capitalisti è di enorme importanza che il prodotto totale abbia una ben determinata forma d ’u­ so, e precisamente che vi si possano trovare tre cose: mezzi di produzione per il rinnovo del processo di lavoro, mezzi di sussistenza semplici per il mantenimento della classe la­ voratrice, e mezzi di sussistenza di maggior pregio e articoli di lusso per il mantenimento della classe capitalistica. SI, le esigenze, sotto questo aspetto, non sono generiche e vaghe, ma determinate quantitativamente con assoluta precisione. Se ci chiediamo quale grandezza abbiano le quantità di co­ se delle tre categorie necessarie ai capitalisti nel loro insie­ me, giungiamo a una chiara approssimazione - sempre am­ messa la riproduzione semplice, da noi presa come punto di partenza - in merito alla composizione di valore del pro­ dotto totale dell’ultimo anno. La formula c + v + p, finora da noi considerata tanto per il capitale totale quanto per il capitale singolo come pura suddivisione quantitativa del valore totale, cioè della quantità di lavoro incorporata nel prodotto annuo della società, ci appare ora nello stesso tem­ po come base specifica della divisione materiale del pro­ dotto. È infatti chiaro che per avviare la riproduzione sulla stessa scala l’insieme dei capitalisti deve trovare nel nuovo prodotto totale tanti mezzi di produzione quanti corrispon­ dono alla grandezza c, tanti mezzi di sussistenza semplici quanti ne corrispondono alla somma dei salari v, tanti mez­ zi di sussistenza di qualità superiore per sé e dipendenti quanti la grandezza p richiede. La composizione di valore del prodotto sociale annuo si traduce perciò nella forma materiale di questo al modo che segue: l’intero c della so­ cietà, perché la riproduzione semplice possa compiersi, de-

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ve riapparire come altrettanti mezzi di produzione, il v co­ me altrettanti mezzi di sussistenza per gli operai, il p come altrettanti mezzi di sussistenza per i capitalisti. A questo punto, la differenza fra capitalista singolo e in­ sieme dei capitalisti balza agli occhi evidente. Il primo ri­ produce ogni volta il proprio capitale costante e variabile oltre al plusvalore, e cioè: i ) tutte e tre le parti, in un pro­ dotto unitario, della stessa forma materiale; 2) in una for­ ma del tutto indifferente, che per ogni capitalista è di par­ ticolarità diversa. L ’insieme dei capitalisti riproduce ogni parte di valore del prodotto annuo in un’altra forma mate­ riale, e precisamente: il c come mezzi di produzione, il v come mezzi di sussistenza degli operai, il p come mezzi di sussistenza dei capitalisti. Per la riproduzione del capitale singolo erano determinanti soltanto rapporti di valore (pre­ messe le condizioni materiali come naturale manifestazione dello scambio delle merci). Per la riproduzione del capitale totale, a rapporti di valore si uniscono considerazioni mate­ riali. È d ’altra parte chiaro che il capitale singolo può nu­ trire pure e semplici preoccupazioni di valore e considerare le condizioni materiali come un dono del cielo, alla sola condizione che il capitale complessivo consideri, viceversa, i fattori materiali. Se il c totale della società non si riprodu­ cesse annualmente sotto la forma della stessa massa di mez­ zi produttivi, il capitalista singolo batterebbe invano il mer­ cato col suo c realizzato in denaro: non potrebbe trovarvi le condizioni materiali necessarie alla riproduzione propria. Dal punto di vista della riproduzione, la formula generale c + v + p si rivela dunque, per il capitale totale, insufficien­ te —altra prova, del resto, che il concetto di riproduzione è qualcosa di obiettivo, qualcosa piu di una semplice perifra­ si del concetto di produzione. Bisogna dunque introdurre distinzioni di carattere materiale, e rappresentare il capitale totale non come un tutto unitario, ma nelle sue tre sezioni fondamentali o, per semplicità (cosa che dal punto di vista teorico non porta per ora alcun danno), in due sezioni: pro­ duzione di mezzi di produzione, e produzione di beni di consumo per lavoratori e capitalisti. Ognuna di queste se­ zioni va considerata a sé, e in ognuna devono esser conte-

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nute le condizioni fondamentali della produzione capitali­ stica. Nello stesso tempo, occorre mettere in evidenza i rap­ porti reciproci fra le due sezioni, giacché solo considerate nel loro mutuo legame esse offrono una base alla riprodu­ zione del capitale sociale totale. Cosi, nella rappresentazione del capitale totale e del suo prodotto totale, si verifica, rispetto al capitale singolo, una modificazione. Dal punto di vista quantitativo, come gran­ dezza di valore, il c della società si compone esattamente della somma dei capitali costanti singoli; e lo stesso vale per gli altri due termini, v e p. Ma la forma sotto la quale si manifestano non è piu la stessa. Mentre il c dei singoli riappare dal processo produttivo come particella di valore di un’infinita varietà di oggetti d ’uso, nel prodotto totale ap­ pare per cosi dire riassunto sotto una certa quantità di mez­ zi di produzione. Parimenti, v e p, che per i capitalisti sin­ goli ripresentano come parti di una miscela estremamente variopinta di merci, si presentano nel capitale totale co­ me raccolti in corrispondenti quantità di mezzi di sussisten­ za per lavoratori e capitalisti. È questo il fatto che Adam Smith arrivò a sfiorare nelle sue considerazioni sull’incongruenza delle categorie capitale fisso, capitale circolante, reddito, nei capitalisti singoli e nella società. Siamo cosi giunti ai seguenti risultati: I ) la produzione della società nel suo insieme può esse­ re espressa, allo stesso modo di quella dei capitalisti singoli, nella formula c + v + p\ 2) la produzione sociale si suddivide in due sezioni: pro­ duzione di mezzi di produzione e produzione di mezzi di sussistenza; 3) entrambe le sezioni sono esercite capitalisticamente, cioè in vista della produzione di plusvalore: la formu­ la c + v + p trova perciò applicazione anche in ognu­ na delle sezioni presa a sé; 4) le due sezioni sono riferite l’una all’altra, e debbono perciò presentare determinati rapporti quantitativi. Piu precisamente, una deve produrre tutti i mezzi di produzione di entrambe, l’altra i mezzi di sussistenza per i lavoratori e i capitalisti di entrambe.

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Partendo da queste considerazioni, Marx costruisce la se­ guente formula della riproduzione capitalistica: I. 4000 c + 1000 v + 1000 p = 6000 mezzi di produzione II. 2000 c + 500 v + 300 p = 3000 mezzi di consumo ’. Le cifre di questa formula esprimono grandezze di valo­ re, cioè quantità di denaro, in se stesse arbitrarie, ma in rapporti reciproci esatti. Le due sezioni si distinguono per la forma d ’uso delle merci prodotte. La circolazione si com­ pie come segue: la prima sezione produce mezzi produttivi per l’intera produzione, e perciò tanto per se stessa quanto per la seconda: ne segue che, per la pura e semplice conti­ nuazione della riproduzione (parliamo sempre di riprodu­ zione semplice, cioè sulla vecchia scala), il prodotto totale della prima sezione (6000 I) dev’essere uguale in valore al­ la somma dei capitali costanti delle due sezioni (I 4000 c + + II 2000 c). Allo stesso modo, la seconda sezione produce mezzi di consumo per l ’intera società, e quindi tanto per gli operai e i capitalisti propri, quanto per quelli della pri­ ma. Ne segue che, per il corso normale del consumo e della produzione e il loro rinnovo sulla scala precedente, occorre che la quantità complessiva di mezzi di consumo sia pari ai redditi di tutti gli operai e capitalisti della società (nel no­ stro caso, 3000 II = (1000 v + 1000 p) I + (500 f + 300 p) II). Non abbiamo fatto qui che esprimere in termini di va­ lore ciò che costituisce la base non soltanto della riprodu­ zione capitalistica, ma della riproduzione di qualsivoglia so­ cietà. In ogni società produttiva, quale che sia la sua forma sociale - le piccole comunità primitive di villaggio dei Bacairi del Brasile, la grande oikos con schiavi di un Timone ateniese, i feudi imperiali di Carlomagno - , la quantità di lavoro disponibile della società dev’essere suddivisa in mo­ do che siano prodotti in misura sufficiente tanto mezzi di produzione quanto mezzi di sussistenza. E precisamente, i primi devono bastare sia alla produzione di mezzi di sussi­ stenza sia al rinnovo dei mezzi di produzione medesimi; i secondi al mantenimento degli operai impegnati nella pro-1 1 Das Kapital, libro II, p. 371 [sez. I l l , cap. XX, 2].

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duzione loro e dei mezzi produttivi e, inoltre, al manteni­ mento di tutti i non-lavoratori. In questo senso, lo schema marxiano, nei suoi termini generali, costituisce la base ge­ nerale assoluta della riproduzione sociale, solo che qui il la­ voro socialmente necessario appare come valore, i mezzi produttivi come capitale costante, il lavoro necessario per il mantenimento dei lavoratori come capitale variabile, e quello necessario al mantenimento dei non-lavoratori come plusvalore. Ma, nella società capitalistica, la circolazione fra le due grandi sezioni si fonda sullo scambio di merci, sullo scam­ bio di equivalenti. I lavoratori e capitalisti della sezione I possono ricevere dalla sezione II solo tanti mezzi di sussi­ stenza quanti sono i mezzi di produzione che ad essa pos­ sono fornire. Ma poiché il fabbisogno della sezione II in mezzi di produzione è misurato dalla grandezza del suo ca­ pitale costante, ne segue che la somma del capitale variabi­ le e del plusvalore nella produzione di mezzi di produzio­ ne (qui (1000 V + xooo p ) I) dovrà essere uguale al capita­ le costante nella produzione dei mezzi di sussistenza (qui 2000 e l i ) . In merito allo schema di cui sopra, un’altra importante osservazione è necessaria. Il capitale costante delle due se­ zioni è in realtà solo una parte del capitale costante impie­ gato dalla società. Quest’ultimo si divide in capitale fisso - edifici, attrezzi, animali da lavoro —che opera in piu pe­ riodi di produzione, ma in ognuno di questi s’incorpora nel prodotto solo per una parte del suo valore, in rapporto al suo logorio; e in capitale circolante - materie prime, mate­ rie ausiliarie, combustibili, sostanze illuminanti - che in ogni periodo di produzione s’incorporano con tutto il loro valore nel nuovo prodotto. Per la riproduzione, tuttavia, entra in considerazione solo quella parte dei mezzi di pro­ duzione che si trasferisce realmente nella produzione di va­ lori, mentre l’altra parte del capitale fisso, rimasta fuori del prodotto e ancora operante, deve bensì esser tenuta d ’oc­ chio, ma può anche, agli effetti dell’esatta rappresentazione della circolazione sociale, essere trascurata senza inficiarne la validità.

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Immaginiamo che il capitale costante 6000 c della I e della II sezione, che s’incorpora realmente nel prodotto an­ nuo, consti di 1500 c fisso e 4500 c circolante, dove 1500 c fisso rappresenta il logorio annuo dei fabbricati, delle mac­ chine, degli animali da lavoro ecc. Questa usura annua sia uguale al 10% del valore totale del capitale fisso usato. Avremo allora in realtà in entrambe le sezioni 15 000 c fisso + 4500 c circolante, cioè, insieme, 19 500 c + 1500 v di capitale sociale totale. Ma l’intero capitale fisso, di cui si è ammesso che la durata di vita (dato un 10% di usura an­ nua) raggiunga i io anni, dovrà al termine di questo perio­ do essere rinnovato. Frattanto, ogni anno un decimo del suo valore s’incorpora nella produzione sociale. Se l’intero capitale fisso della società si logorasse nella stessa misura e avesse la stessa durata di vita, esso dovrebbe - nella nostra ipotesi - essere rinnovato ogni io anni nella sua totalità. Ma non è cosi. Fra le diverse forme d ’uso e parti del capita­ le fisso, alcune durano di piu, altre di meno, il logorio e la durata sono completamente diversi a seconda delle qualità e dei tipi di capitale fisso. Ne risulta che il rinnovamento, la riproduzione del capitale fisso nella sua concreta forma d ’uso non si compie necessariamente di colpo nella sua to­ talità, ma al contrario in diversi punti della produzione so­ ciale si verifica un continuo rinnovamento di parti del capi­ tale fisso, mentre altre parti continuano a funzionare nella loro forma antica. Il 10% di usura del capitale fisso, da noi ammesso nell’esempio citato, non significa dunque che ogni io anni debba compiersi in una sola volta una riproduzione del capitale fisso per il valore di 15 000 c, ma che ogni an­ no deve aver luogo, in media, il rinnovamento o sostituzio­ ne di una parte del capitale fisso totale della società, corri­ spondente alla decima parte del valore di detto capitale. In altre parole, nella sezione I, che deve soddisfare il fabbiso­ gno totale di mezzi di produzione della società, deve verifi­ carsi ogni anno, accanto alla riproduzione di tutte le mate­ rie prime, ausiliarie, ecc. (capitale circolante) per un valore di 4500, anche la produzione di forme d’uso del capitale fis­ so, come fabbricati, macchine, ecc., per l’ammontare di

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1500, corrispondente all’usura effettiva del capitale fisso; in tutto dunque, 6000 c, come si era appunto ammesso nel­ lo schema. Se la sezione I continua cosi a rinnovare ogni anno nella sua forma d’uso un decimo del capitale fisso, si avrà che ogni dieci anni l’intero capitale fisso della società apparirà rinnovato da capo a fondo in esemplari nuovi, e saranno perciò anche rinnovate quelle sue parti che, secon­ do il valore, avevamo trascurato nello schema. Dal punto di vista pratico tutto ciò si traduce nel fatto che ogni capitalista mette da parte sulla sua produzione an­ nua, dopo realizzazione delle merci, una certa somma di de­ naro per l’ammortamento del capitale fisso: accantonamen­ ti annui che devono raggiungere una certa entità prima che il capitalista rinnovi realmente il suo capitale fisso o lo so­ stituisca con esemplari a piu alto rendimento. Questo alter­ narsi di accantonamenti annui di somme di denaro ai fini del rinnovamento del capitale fisso, e del loro periodico im­ piego nell’effettivo rinnovo, avviene però, per i singoli ca­ pitalisti, in modo discontinuo, cosicché gli uni stanno anco­ ra accantonando mentre gli altri sono già in piena fase di rinnovo. In tal modo si compie ogni anno il rinnovamento di parte del capitale fisso. I fenomeni monetari mascherano qui soltanto il fenomeno reale caratterizzante il processo della riproduzione del capitale fisso. Ciò è, a ben guardare, perfettamente logico. Il capitale fisso partecipa bensì nel suo insieme al processo di pro­ duzione, ma solo come massa di oggetti d’uso. Fabbricati, macchine, animali da lavoro, vengono impegnati nel pro­ cesso lavorativo in tutta la loro materialità. Ma nella pro­ duzione di valore essi si trasferiscono - è questa la caratte­ ristica del capitale fisso - solo per una parte del proprio va­ lore. Poiché nel processo della riproduzione (parliamo sem­ pre di riproduzione semplice) ciò che importa è solo il rin­ novare nella loro forma naturale i valori effettivamente con­ sumati durante la produzione annua in mezzi di sussistenza c in mezzi produttivi, anche il capitale fisso importa, ai fini della riproduzione, solo nella misura in cui è effettivamen­ te incorporato nelle merci prodotte. L ’altra parte è d ’im-

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portanza decisiva per la produzione come processo lavora­ tivo, ma non esiste per la riproduzione annua della società come processo di valorizzazione. Del resto, il processo, qui espresso in termini di valore, si applica esattamente per qualunque società anche non pro­ duttrice di merci. Se per esempio per la costruzione del ce­ lebre lago di Meride e dei canali del Nilo ad esso collegati - il lago miracoloso dell’antico Egitto di cui Erodoto scrive che fu «fatto da mani» — occorsero io anni di lavoro di iooo fellahin, e se per mantenere in efficienza queste opere idrauliche fra le piu gigantesche del mondo occorse ogni an­ no la forza di lavoro di altri io o fellahin (le cifre sono na­ turalmente arbitrarie), si può dire che dopo io o anni il ba­ cino di Meride coi suoi canali era riprodotto senza che ogni secolo l’opera fosse ricreata di colpo nella sua totalità. Ciò è tanto vero che, quando in seguito a tempestose vicende politiche e alle occupazioni straniere subentrò il solito sel­ vaggio abbandono degli antichi monumenti di vita civile - come mostrarono del resto di saper fare anche gli inglesi in India —, quando si perdette il senso delle esigenze di riproduzione della civiltà antica, l ’intero lago di Meride a po­ co a poco spari con le sue acque, i suoi canali, le sue dighe, le due piramidi, il colosso e le altre opere meravigliose: spari senza lasciar tracce, quasi che neppure fosse stato costruito. Solo dieci righe in Erodoto, un puntino sulla carta del mon­ do di Tolomeo, e tracce di antiche coltivazioni e grandi vil­ laggi e città documentano che una vita lussureggiante sgor­ gava dalle grandiose opere idrauliche, là dove oggi si sten­ dono gli aridi deserti della Libia interna e le desolate palu­ di lungo la costa. Solo in un caso lo schema marxiano della riproduzione semplice potrebbe apparire insufficiente o lacunoso dal pun­ to di vista del capitale fisso: cioè se ci riportassimo ai pe­ riodi della produzione in cui l’intero capitale fisso fu origi­ nariamente creato. In realtà, la società possiede, in lavoro speso, piu della parte di capitale fisso che periodicamente si trasferisce nel prodotto annuo e viene da questo reintegrato. Per servirci delle cifre del nostro esempio, il capitale socia­ le totale ammonta non a 6000 c + 1500 v come nello sche-

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ma, ma a 19 500 c + 1300 v. È vero che del capitale fisso, da noi supposto dell’ammontare di 17 000 c, 1700 vengono riprodotti annualmente sotto forma di corrispondenti mez­ zi di produzione, ma altrettanti ne vengono annualmente consumati nel corso della stessa produzione. È vero che do­ po dieci anni l’intero capitale fisso risulta completamente rinnovato nella sua forma d ’uso, come somma di oggetti; ma tanto dopo io anni quanto ogni anno, la società possie­ de 13 000 c di capitale fisso, mentre ogni anno ne ricrea so­ lo 1500 c, ovvero possiede complessivamente 19 700 capi­ tale costante mentre crea soltanto 6000 c. È evidente che quest’eccedenza di 13 500 capitale fisso la società deve averla creata col suo lavoro: possiede, in lavoro passato ac­ cumulato, piu di quanto non risulti dal nostro schema della riproduzione. Ogni giornata di lavoro sociale di ogni anno poggia, come su una base già esistente, su giorni di lavoro annui erogati in precedenza e accumulati. Ma, con questa caccia al lavoro passato, base di qualunque lavoro attuale, noi ci riportiamo ai «principi primi delle cose», che, nel­ l’evoluzione economica dell’umanità, contano cosi poco co­ me nell’evoluzione naturale della materia. Lo schema della riproduzione non pretende né ha il compito di rappresenta­ re il punto di partenza, il processo sociale in statu nascendi, ma di coglierlo nel suo svolgersi, come un anello «nella ca­ tena infinita di ciò che esiste». Il lavoro passato è sempre la premessa del processo di riproduzione sociale, per quanto indietro si risalga nel tempo. Come non ha fine, cosi il lavo­ ro sociale non ha principio. Gli inizi del processo di ripro­ duzione sociale si perdono in un favoloso crepuscolo della storia della civiltà, proprio come la storia della nascita del lago di Meride in Erodoto. Col progresso tecnico e con lo sviluppo della civiltà, il volto dei mezzi di produzione cam­ bia, i rozzi paleoliti vengono rimpiazzati da strumenti lavo­ rati, gli attrezzi di pietra da utensili eleganti in bronzo e in ferro, gli utensili da macchine a vapore. Ma, per quanto mu­ ti la forma del mezzo di produzione, per quanto si trasfor­ mino le manifestazioni esterne del processo produttivo, la società possiede sempre, come base del suo processo lavo­ rativo, una certa quantità di lavoro passato oggettivato,

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che le serve da punto di appoggio per la riproduzione an­ nuale. Nel modo di produzione capitalistico, il lavoro socia­ le passato, accumulato nei mezzi di produzione, assume la forma di capitale, e la questione dell’origine del lavoro pas­ sato come fondamento del processo di riproduzione si tra­ sforma nel problema della genesi del capitale. Genesi assai meno favolosa, trasmessa in lettere di sangue alla storia contemporanea come il capitolo della cosiddetta accumula­ zione primitiva. Ma il fatto stesso che non si possa pensare la riproduzione semplice se non presupponendo l ’accumula­ zione di lavoro passato, che supera in ampiezza il lavoro compiuto annualmente per mantenere la società, mette il dito sulla piaga della riproduzione semplice, mostrando co­ me essa sia una pura finzione non soltanto per la produzio­ ne capitalistica ma per il progresso civile in generale. Per rendersi esatto conto, nello schema, di questa finzione, dob­ biamo ammettere come sua premessa i risultati di un pro­ cesso passato di produzione, il quale non poteva limitarsi alla riproduzione semplice ma aveva già per oggetto la riproduzione allargata. Per spiegarci con un esempio, parago­ niamo l’intero capitale fisso della società a una ferrovia. La durata e perciò anche l’usura annua delle diverse parti del­ la ferrovia variano dall’una all’altra. Alcune, come le galle­ rie e i viadotti, possono durare secoli; altre, come le loco­ motive, durare decenni; altro materiale rotabile si consu­ merà in piu breve tempo, a volte in pochi mesi. Ma ne ri­ sulta un’usura media che può raggiungere, poniamo, i 30 anni, e perciò rappresentare annualmente Ko del valore complessivo. Questa perdita di valore viene continuamente compensata da una parziale riproduzione del materiale (che potremo chiamare riparazioni), nel senso che vengono rin­ novati oggi un vagone, domani una parte di locomotiva, do­ podomani un tratto di binario. In tal modo, passati 30 an­ ni (nella nostra ipotesi), la vecchia ferrovia è sostituita da una nuova, operazione che importa da parte della società l’impiego annuo della stessa quantità di lavoro, e perciò una riproduzione semplice. Ma in questo modo la ferrovia può essere riprodotta, non prodotta. Per entrare in uso, e per poter compensare anno per anno il logorio determinato

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dall’uso, occorre innanzitutto che la ferrovia sia costruita. La ferrovia può essere riparata pezzo per pezzo, ma non può essere messa in esercizio pezzo per pezzo —oggi un as­ se, domani un vagone. Giacché è proprio questo che carat­ terizza il capitale fisso: il suo integrale trasferirsi di volta in volta, come valore d ’uso, nel processo lavorativo. Ne segue che, per dargli una volta per tutte la sua forma d ’uso, la so­ cietà è costretta a concentrare nella sua produzione, in una volta sola, una grande quantità di lavoro: deve cioè —per esprimerci nelle cifre del nostro esempio —concentrare, po­ niamo, in due o tre anni, nella costruzione della ferrovia la quantità di lavoro impiegata in 30 per ripararla, e compiere in questo periodo di produzione una quantità di lavoro su­ periore alla media o, in altri termini, passare alla riprodu­ zione allargata, per poi, completata la costruzione della fer­ rovia, tornare alla riproduzione semplice. È anche vero che non ci si deve raffigurare l’intero capitale fisso della società come un oggetto d ’uso unitario, o come un complesso di oggetti da creare sempre in una volta sola. Ma tutti i piu importanti strumenti di lavoro, fabbricati, mezzi di comu­ nicazione, impianti agricoli, richiedono per la loro creazio­ ne una forte erogazione concentrata di lavoro; e ciò vale tanto per la moderna ferrovia e l’aeroplano quanto per la rozza ascia di pietra e il telaio a mano. Ne segue che la riproduzione semplice può essere concepita solo in periodico avvicendamento con la riproduzione allargata, e ciò in di­ pendenza non soltanto del progresso civile e dell’incremen­ to della popolazione in generale, ma anche della forma eco­ nomica del capitale fisso, o dei mezzi di produzione che in ogni società vi corrispondono. Marx non si è occupato direttamente di questa contrad­ dizione tra la forma del capitale fisso e la riproduzione sem­ plice. Quello che il libro II del Capitale sottolinea è solo la necessità di una costante «sovraproduzione», e perciò riproduzione allargata, in rapporto all’irregolare quota di usura del capitale fisso, che in un anno è maggiore e in un altro minore: cosa che dovrebbe aver per conseguenza, se si rimanesse nell’ambito stretto della riproduzione sempli­ ce, un deficit periodico della riproduzione. In altri termini,

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Marx considera qui la riproduzione allargata dall’angolo vi­ suale del fondo di assicurazione della società per il capitale fisso, non da quello della sua produzione A tutt’altro proposito poi Marx conferma indirettamen­ te, a nostro avviso, l’interpretazione accennata. Analizzan­ do la trasformazione del reddito in capitale, nelle sue Theo­ rien über den Mehrwert, volume II, parte II, e discutendo della riproduzione del capitale fisso in senso proprio, la cui sostituzione fornirebbe già di per sé un fondo di accumu­ lazione, egli conclude: «M a ciò a cui vogliamo arrivare è questo. Se il capitale totale impiegato nella costruzione di macchine fosse anche solo sufficiente a ricostituire il logoramento annuo del mac­ chinario, esso produrrebbe molte piu macchine di quelle annualmente richieste, poiché una parte del logoramento non esiste che idealmente, e realmente non dev’esser rico­ stituito in natura che dopo una certa serie di anni. Il capi­ tale così impiegato fornisce dunque annualmente una mas­ sa di macchine che è disponibile per nuovi investimenti di capitale e che anticipa questi nuovi investimenti. Supponia­ mo per esempio che il fabbricante di macchine inizi la sua produzione in questo anno, e che fornisca nel corso dell’an­ no macchinario per 12 000 1st. In ognuno degli undici anni seguenti, limitandosi a riprodurre il macchinario da lui pro­ dotto, egli non dovrebbe produrre che per 1000 1st., e an­ che questa produzione annua non sarebbe consumata an­ nualmente. Ancor meno, se impiega tutto il suo capitale. Affinché questo resti attivo e si riproduca ogni anno solo in maniera continua, è necessario un nuovo e continuo allar­ gamento della branca di produzione, che ha bisogno di que­ ste macchine. Ancor piu, se egli stesso accumula. Qui è dunque necessaria, anche se in questa sfera di produzione non è riprodotto che il capitale in essa investito, una costan­ te accumulazione nelle rimanenti sfere produttive»12. 1 Das Kapital, libro II, pp. 443-45 [sez. I l l , cap. XX, n ] , Cfr. anche, per la necessità della riproduzione allargata dal punto di vista del fondo di assicurazione in generale, ibid., p. 148 [sez. II, cap. XVII, 1]. 2 Theorien über den Mehrwert, p. 248 (corsivo di Marx) [trad. it. cit., vol. II, pp. 529-30].

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Raffiguriamoci il costruttore di macchine dell’esempio ci­ tato da Marx come la sfera di produzione del capitale fisso della società nel suo insieme, e avremo che, ferma restando la riproduzione semplice in quella sfera, cioè ammesso che la società impieghi annualmente la stessa quantità di lavo­ ro alla produzione del capitale fisso (il che è praticamente escluso), sarà necessario che intraprenda ogni anno un al­ largamento della produzione nelle altre sfere. Ma se la so­ cietà si limita alla riproduzione semplice, dovrà, per il rin­ novo del capitale fisso un tempo creato, spendere solo una parte del lavoro impiegato alla sua creazione. Ovvero —per formulare la questione all’inverso - la società deve di tem­ po in tempo, per costituire forti impianti di capitale fisso, dedicarsi, anche nell’ipotesi di una riproduzione semplice, ad una periodica riproduzione allargata. Col progresso civile cambia non soltanto la forma ma la grandezza di valore dei mezzi di produzione —piu esatta­ mente, il lavoro sociale in essi accumulato. La società ac­ cantona, oltre al lavoro necessario al proprio mantenimen­ to diretto, una quantità sempre maggiore di tempo e di for­ ze-lavoro, che impiega in misura sempre crescente alla co­ struzione di mezzi di produzione. Come si manifesta questo fatto nel processo della riproduzione? Come avviene che la società - per dir la stessa cosa in termini capitalistici —rie­ sce a creare dal lavoro annuo più capitale di quanto ne pos­ sedesse già? Questa domanda ci porta già entro i confini della riproduzione allargata, di cui per ora non dobbiamo occuparci.

C A P IT O L O LA

Q U IN T O

C IR C O L A Z IO N E M O N E T A R IA

Finora, nel considerare il processo di riproduzione, ab­ biamo lasciato completamente da parte la circolazione del denaro. Non del denaro come simbolo di valore e misura di valore: tutti i rapporti del lavoro sociale sono stati da noi presupposti e misurati come espressi in denaro. Ma ora s’impone la necessità di verificare lo schema tracciato della riproduzione semplice anche dal punto di vista del denaro come mezzo di scambio. Come già ammetteva il vecchio Quesnay, per la compren­ sione del processo della riproduzione sociale è necessario presupporre che la società detenga, oltre a determinati mez­ zi di produzione e di consumo, anche una certa somma di denaro1. Due problemi sorgono: in mano a chi, e di quale grandezza debba essere questa somma. Un primo fatto che non consente dubbi è che i lavoratori salariati ricevono il loro salario in denaro per acquistare con esso mezzi di sus­ sistenza. Dal punto di vista sociale, ciò si ottiene nel pro­ cesso di riproduzione fornendo agli operai un semplice buo­ no sul fondo di mezzi di sussistenza loro destinato in ogni società, qualunque sia la forma storica di produzione. Ma il fatto che qui i lavoratori ottengono i loro mezzi di sussi1 Nella settima avvertenza al Tableau, dopo aver polemizzato contro la teoria mercantilistica del denaro identificato con la ricchezza, Quesnay scri­ ve: «La masse d’argent ne peut accroître dans une nation qu’autant que cette reproduction elle-même s’y accroît; autrement, l’accroissement de la masse d’argent ne pourrait se faire qu’au préjudice de la reproduction annuelle des richesses... Ce n’est donc pas par le plus ou le moins d’argent qu’on doit juger de l’opulence des Etats; aussi estime-t-on qu’un pécule, égal au revenu des propriétaires des terres, est beaucoup plus que suffisant pour une nation agricole où la circulation se fait régulièrement et où le commerce s’exerce avec confiance et en pleine liberté» (Analyse du Tableau économique, ed. Oncken, pp. 324-25).

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stenza non direttamente ma attraverso lo scambio delle merci, è altrettanto importante, per il modo di produzione capitalistico, quanto il fatto eh’essi mettono a disposizione dei detentori dei mezzi di produzione la propria forza-lavo­ ro non direttamente, sulla base di un rapporto personale di sovranità, ma attraverso uno scambio di merci, cioè la ven­ dita della loro forza-lavoro. La vendita della forza-lavoro e il libero acquisto dei mezzi di sussistenza da parte degli ope­ rai sono il fattore decisivo della produzione capitalistica, e si esprimono e realizzano mediante la forma monetaria del capitale variabile v. Il denaro entra dunque nella circolazione anzitutto attra­ verso il pagamento dei salari: i capitalisti delle due sezioni, tutti i capitalisti, devono cominciare a gettare nella circola­ zione del denaro, ciascuno per l’ammontare dei salari da es­ so pagati. I capitalisti I devono essere in possesso di 1000 in denaro, i capitalisti II di 500, che pagano ai rispettivi la­ voratori. In tal modo, secondo il nostro schema, entrano in circolazione due quantità di denaro: I 1000 v e II 500 v, entrambe investite dai lavoratori in mezzi di sussistenza, cioè in prodotti della sezione II. In tal modo la forza-lavo­ ro viene mantenuta, ovvero il capitale variabile della socie­ tà viene riprodotto nella sua forma naturale come base del­ la rimanente riproduzione del capitale; inoltre, i capitali­ sti II alienano 1500 del loro prodotto totale, e precisamen­ te 500 ai propri lavoratori, xooo a quelli dell’altra sezione. Mediante questo scambio, i capitalisti II sono entrati in possesso di 1500 in denaro: 500 sono tornati nelle loro ma­ ni come loro capitale variabile, che potrà tornare a circolare come tale e perciò ha chiuso temporaneamente il suo moto; 1000 rappresentano invece un nuovo acquisto ottenuto me­ diante realizzazione di un terzo del loro prodotto. Con que­ sti 1000 in denaro, essi comprano dai capitalisti I i mezzi di produzione necessari per il rinnovo del proprio capitale co­ stante consumato, e mediante tale acquisto la sezione II ha rinnovato in forma naturale la metà del capitale costante (II c) impiegato, mentre la somma di denaro 1000 è emi­ grata ai capitalisti I, per i quali essa non è se non la somma in denaro che avevano versato a titolo di salario ai loro la-

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voratori e che riaffluisce nelle loro mani dopo due atti di scambio, per poter tornare a fungere piu tardi da capitale variabile v e chiudere in tal modo il suo ciclo. Ma la circola­ zione sociale non è cosi conclusa. I capitalisti I non hanno ancora realizzato per l’acquisto di mezzi di sussistenza per­ sonali il plusvalore prodotto e ancora racchiuso nella forma per essi inutilizzabile di mezzi di produzione, né i capitali­ sti II hanno ancora rinnovato l’altra metà del loro capitale costante. Questi due atti di scambio si bilanciano tanto in grandezza di valore quanto materialmente, giacché i capita­ listi I ricevono i mezzi di sussistenza dalla sezione II a rea­ lizzazione del proprio plusvalore 1 1000 p, fornendo da par­ te loro ai capitalisti II i mezzi di produzione loro mancanti, II 1000 c. Senonché, per mediare questo scambio occorre una nuova somma di denaro. Avremmo bensì potuto - sen­ za che vi fosse da eccepire nulla dal punto di vista teorico far gettare piu volte nella circolazione le somme di denaro già messe in moto: ma praticamente ciò è da escludere, per­ ché i bisogni di consumo dei capitalisti devono essere sod­ disfatti in modo altrettanto ininterrotto e continuo quanto quelli dei lavoratori: entrambi corrono dunque paralleli al processo della produzione ed esigono l ’intermediazione di particolari somme di denaro. Ne segue che i capitalisti delle due sezioni, tutti i capitalisti, devono avere in mano, oltre alla somma di denaro per il capitale variabile, anche una ri­ serva di denaro per la realizzazione del proprio plusvalore in oggetti di consumo. D ’altra parte, parallelamente alla pro­ duzione, e perciò prima della realizzazione del prodotto to­ tale, si svolge un continuo acquisto di parti del capitale co­ stante, e precisamente della sua parte circolante (materie prime e ausiliarie, mezzi di illuminazione ecc.). Si ha per conseguenza che non solo i capitalisti I per coprire il pro­ prio consumo, ma anche i capitalisti II per coprire il proprio fabbisogno di capitale costante devono possedere deter­ minati quantitativi di denaro. Lo scambio di I 1000 p in mezzi di produzione contro I I 1000 c in mezzi di consumo si compie perciò mediante denaro anticipato, in parte, dai capitalisti I per i loro bisogni di consumo, in parte dai capi-

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talisti II per i loro bisogni di produzione Della somma di denaro 1000 necessaria allo scambio, può avvenire che ogni sezione di capitalisti anticipi 500 o che la proporzione sia diversa; comunque, resta stabilito: 1) che la somma com­ plessiva di denaro tenuta in serbo deve bastare a mediare lo scambio fra I 1000 p e II 1000 c; 2) che, comunque quella somma si suddivida fra le due sezioni, una volta compiuto 10 scambio sociale totale ognuna delle due sezioni si ritro­ verà in possesso della stessa somma che aveva gettato nella circolazione. Ciò vale per ogni circolazione sociale totale in genere: compiuta la circolazione, il denaro torna sempre al suo punto di partenza, e, al termine di uno scambio multi­ laterale, tutti i capitalisti hanno ottenuto: 1) di aver scam­ biato i loro prodotti, la cui forma naturale è loro indiffe­ rente, contro quelli della cui forma naturale hanno bisogno, siano essi mezzi di produzione o mezzi di consumo persona­ le; 2) di aver recuperato il denaro che avevano gettato nella circolazione per rendere possibile lo scambio. Dal punto di vista della circolazione semplice delle mer­ ci, questo fenomeno è incomprensibile. Qui merce e dena­ ro cambiano continuamente posto, il possesso della merce esclude il possesso del denaro, il denaro occupa costantemente il posto lasciato libero dalla merce, e viceversa. Ciò vale anche per ogni atto individuale dello scambio di merci, sotto la cui forma si svolge la circolazione sociale. Ma essa è qualcosa di piu che circolazione di merci, è anche circola­ zione di capitali. Ora, è appunto caratteristico ed essenziale di questa ch’essa non soltanto riporti in mano ai capitalisti 11 capitale come grandezza di valore con un’eccedenza —il plusvalore —, ma renda possibile la riproduzione sociale as­ sicurando la forma naturale del capitale produttivo (mezzi di produzione e forza-lavoro) e il mantenimento dei non-lavoratori. Poiché l’intero processo sociale della circolazione parte dai capitalisti, possessori non soltanto dei mezzi di 1 Marx (Das Kapital, libro II, p. 391 [sez. I l l , cap. XI, 3]), ammette co­ me punto di partenza di ogni scambio solo una spesa di denaro da parte dei capitalisti II. Agli effetti del risultato finale della circolazione ciò non cam­ bia nulla, come giustamente osserva F. Engels nella nota a piè pagina, ma come premessa della circolazione sociale l’ipotesi non è esatta: piu giusta l’impostazione data dallo stesso Marx (ibid., p. 374).

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produzione ma anche del denaro necessario a portare a ter­ mine la circolazione, dopo ogni rotazione del capitale socia­ le tutto deve ritrovarsi nelle loro mani, e piu precisamente in quelle di ogni gruppo e di ogni capitalista singolo in pro­ porzione ai rispettivi investimenti. Nelle mani dei lavorato­ ri il denaro si trova solo in via temporanea, come interme­ diario dello scambio tra forma monetaria e forma naturale del capitale variabile; nelle mani dei capitalisti, è la forma in cui si manifesta una parte del loro capitale, e ad essi de­ ve perciò sempre riafHuire. Abbiamo finora considerato la circolazione solo in quan­ to si verifica fra le due grandi sezioni della produzione. Ma ne è rimasto fuori qualcosa: cioè, dal prodotto della 1 ,4000 in forma di mezzi di produzione, che vi rimangono per rin­ novare il proprio capitale costante 4000 c; e dai mezzi di sussistenza della I I sezione, 500 che pure vi rimangono co­ me mezzo di consumo della rispettiva classe capitalistica per l’ammontare del suo plusvalore I I 500 p. Poiché la pro­ duzione nelle due sezioni è produzione privata capitalisti­ ca, e perciò non regolata, la distribuzione del prodotto di ogni sezione fra i rispettivi capitalisti singoli —come mezzi di produzione della sezione I o come mezzi di consumo del­ la sezione II —non può avvenire se non attraverso lo scam­ bio di merci, cioè attraverso una grande quantità di atti sin­ goli di compravendita fra i capitalisti della stessa sezione. Anche ai fini di questo scambio, sia per il rinnovo dei mez­ zi di produzione in 1 4000 c, sia per il rinnovo dei mezzi di consumo della classe capitalistica in I I 500 p, occorre che determinati quantitativi di denaro si trovino nelle mani dei capitalisti di entrambe le sezioni. Questa parte della circo­ lazione non offre di per sé un particolare interesse, perché ha il carattere della circolazione semplice delle merci: tanto acquirente quanto venditore appartengono alla stessa cate­ goria di agenti della produzione, la quale si limita a effet­ tuare un cambiamento di posto fra denaro e merce alPinterno della stessa classe e sezione. Comunque, il denaro ri­ chiesto da questa circolazione deve trovarsi anch’esso nelle mani della classe capitalistica, ed è una parte del suo capi­ tale.

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Finora, la circolazione del capitale sociale totale non ha presentato, anche considerando la circolazione monetaria, nulla di notevole. Che per questa circolazione sia necessa­ rio il possesso da parte della società di una certa somma di denaro, dev’essere considerato d ’ora innanzi perfettamente naturale per due ragioni: i ) la forma generale del modo di produzione capitalistico è la produzione delle merci, e que­ sta importa anche la circolazione del denaro; 2) la circola­ zione del capitale poggia sul continuo circuito delle tre for­ me del capitale: capitale monetario, capitale produttivo, ca­ pitale-merci; e per render possibile questo circuito, dev’es­ sere presente anche del denaro, che possa giocare il ruolo di capitale monetario. Infine, poiché questo denaro funge appunto come capitale - nel nostro schema abbiamo esclu­ sivamente di mira una produzione capitalistica - ne segue che esso deve trovarsi come capitale, sotto qualsiasi forma, in possesso della classe capitalistica, e da questa essere getta­ to nella circolazione, per ritornare ad essa dalla circolazione. Un solo particolare può a prima vista colpire. Se tutto il denaro che circola nella società è messo in circolazione dai capitalisti, ne viene che questi devono anticipare denaro an­ che per realizzare il proprio plusvalore. La questione sem­ bra porsi come se i capitalisti in quanto classe dovessero pa­ garsi con denaro proprio il loro plusvalore, e poiché il de­ naro corrispondente deve trovarsi, già prima della realizza­ zione del prodotto in ogni ciclo produttivo, in possesso del­ la classe capitalista, può sembrare a primo sguardo che l’ap­ propriazione del plusvalore non si fondi, come di fatto av­ viene, sul lavoro non pagato dei salariati, ma sia un risulta­ to del puro scambio delle merci, al quale la classe capitali­ sta fornirebbe anche e in ugual misura il denaro. Basta tut­ tavia una breve riflessione per distruggere quest’apparen­ za. Compiutosi il moto generale della circolazione, la classe capitalista si ritrova in possesso del suo quantitativo di de­ naro, che riafHuisce ad essa o è restato nelle sue mani, e ha inoltre ottenuto e consumato per altrettanto in mezzi di sussistenza: restiamo dunque al presupposto fondamentale dello schema della riproduzione semplice, cioè rinnovo del­ la produzione alla scala precedente e impiego dell’intero

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plusvalore prodotto per gli scopi personali di consumo del­ la classe dei capitalisti. La falsa apparenza svanisce poi totalmente se non ci li­ mitiamo a un periodo di riproduzione, ma ne abbraccia­ mo diversi nella loro successione e nel loro intreccio reci­ proco. Ciò che i capitalisti gettano oggi nella circolazione per realizzare il proprio plusvalore, non è se non la forma monetaria del plusvalore trasmesso dai periodi di produ­ zione passati. Se il capitalista, per comprarsi i mezzi di sus­ sistenza necessari, deve anticipare di tasca propria del de­ naro, mentre il plusvalore di nuova creazione si trova anco­ ra in forma naturale inutilizzabile (o la sua forma naturale utilizzabile è ancora in mano altrui), è altrettanto vero che il denaro da lui oggi anticipato era entrato nelle sue tasche come frutto della realizzazione del plusvalore ricavato dal precedente periodo, e gli ritornerà non appena abbia rea­ lizzato il nuovo plusvalore incorporato nella merce. Nel cor­ so di diversi periodi, avviene così che la classe capitalistica ripeschi regolarmente dalla circolazione, oltre a tutte le for­ me naturali del suo capitale, anche i suoi mezzi di consumo, rimanendo però costantemente in suo possesso la stessa somma di denaro originaria. Per il capitalista singolo, dall’analisi della circolazione delle merci risulta ch’egli non può mai cambiare in mezzi di produzione l’intero ammontare del suo capitale moneta­ rio, ma deve detrarne una parte in forma di denaro ai fini del capitale variabile, dei salari, e accantonare riserve di ca­ pitale per il continuo acquisto di mezzi produttivi nel corso del periodo di produzione. Oltre a queste riserve di capita­ le, deve possedere uno stock monetario ai fini del consumo personale. Per il processo di riproduzione del capitale sociale tota­ le, ne risulta la necessità della produzione e riproduzione de] materiale monetario. Poiché questa, nella nostra ipote­ si, deve essere pensata come capitalistica —secondo lo sche­ ma di Marx ora discusso, non conosciamo altra produzione che quella capitalistica —, è inevitabile che lo schema appaia incompleto. Alle due grandi sezioni della produzione socia­ le —produzione di mezzi di produzione, produzione di beni

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di consumo - dovrebbe essere affiancata come terza sezione la produzione di mezzi di scambio, caratteristica dei quali è di non servire né alla produzione né al consumo, ma di rap­ presentare il lavoro sociale in una merce indifferenziata e inconsumabile. È vero che il denaro e la sua produzione, al­ lo stesso modo dello scambio e della produzione delle mer­ ci, sono molto piu antichi del modo di produzione capitali­ stico; ma è solo in quest’ultimo che la circolazione moneta­ ria è assurta a forma generale della circolazione sociale, e perciò a elemento essenziale del processo sociale della riproduzione. Solo la rappresentazione della produzione e riproduzione del denaro nel suo organico intreccio con le altre due sezioni della produzione sociale offrirebbe uno schema esauriente dell’intero processo capitalistico nei suoi punti fondamentali. Ma qui ci stacchiamo da Marx. Marx inserisce la produ­ zione dell’oro (per semplificare, la produzione complessiva di denaro viene qui ridotta alla produzione dell’oro) nella prima sezione della produzione sociale. «L a produzione del­ l’oro appartiene, come la produzione dei metalli in genere, alla classe I, la categoria che abbraccia la produzione di mez­ zi produttivi» ‘. E ciò sta bene finché si tratta appunto della produzione dell’oro nel senso della produzione di un metal­ lo a scopi industriali o artigiani (oggetti ornamentali, capsu­ le dentarie, ecc.). Ma, come denaro, l’oro non è metallo ma materializzazione del lavoro sociale astratto, e come tale tanto poco mezzo di produzione quanto bene di consumo. D ’altra parte, basta uno sguardo allo schema della riprodu­ zione, per rendersi conto degli inconvenienti ai quali porta la confusione fra mezzi di scambio e mezzi di produzione. Se accanto alle due sezioni della produzione sociale mettia­ mo la rappresentazione schematica della produzione annua di oro (nel senso di materiale monetario), otteniamo le se­ guenti tre serie: I. 4000 c + 1000 V + 1000 p = 6000 mezzi di prod, (pr) II. 2000 c + 500 v + 500 p = 3000 beni di cons, (co) III. 20 c + 5V + 5P= 30 mezzi monetari (o) 1 Das Kapital, libro II, p. 446 [sez. I l l , cap. XX, 13].

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La grandezza 30 (scelta da Marx a titolo di esempio) non corrisponde evidentemente alla quantità di denaro circolan­ te annualmente nella società, ma soltanto alla parte di que­ sta quantità annualmente riprodotta, cioè all’usura annua del materiale monetario, che, a parità di ampiezza delia riproduzione sociale e di durata di rotazione del capitale, ol­ tre che di velocità di circolazione delle merci, rimane in me­ dia sempre lo stesso. Consideriamo la terza serie (come vuo­ le Marx) parte integrante della prima, e avremo la seguente difficoltà: il capitale costante della terza sezione 20 c con­ sta di mezzi di produzione concreti, reali, come quello delle altre due (fabbricati, strumenti, materie ausiliarie, ecc.), ma il prodotto della sezione, 3 0 0 , che rappresenta il denaro, non può fungere nella sua forma naturale, come capitale co­ stante, in nessun processo di produzione. Se perciò conside­ riamo il prodotto 30 o come parte integrante del prodotto della prima sezione 6000 pr, avremo un deficit sociale di mezzi di produzione per la stessa grandezza di valore, che renderà impossibile la riproduzione alla stessa scala sia nel­ la sezione I che nella sezione II. Secondo l’ipotesi finora mantenuta - base dell’intero schema di Marx —il prodotto di ognuna delle due sezioni, nella sua forma materiale d ’u­ so, costituisce il punto di partenza della riproduzione in ge­ nere; le proporzioni dello schema si fondano su quest’i­ potesi, senza la quale si perdono nel caos. Cosi, il primo e fondamentale rapporto di valore si basava sull’equazione: I 6000 pr = 1 4000 c + II 2000 c. Ma per il prodotto III 30 o, l’equazione non torna, perché l ’oro non può (ad esem­ pio nella proporzione 1 20 c + II io c) essere impiegato dal­ le sezioni come mezzo di produzione. Il secondo rappor­ to derivato dal primo si basava sull’equazione 1 1000 v + + 1 1000 p = II 2000 c. Agli effetti della produzione dell’o­ ro, ciò significherebbe che essa sottrae alla seconda sezione tanto in beni di consumo quanto le fornisce in mezzi di pro­ duzione. Ma anche questo non regge. La produzione d ’oro assorbe bensì dal prodotto sociale totale sia mezzi di produ­ zione concreti (che impiega come capitale costante) sia be­ ni di consumo concreti destinati ai suoi lavoratori e capita­ listi per l’ammontare del suo capitale variabile e del suo

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plusvalore. Ma il suo prodotto specifico non può né funge­ re da mezzo di produzione in nessuno dei due rami, né en­ trare nel consumo umano come mezzo di sussistenza. L ’in­ serimento della produzione del denaro nella sezione I alte­ rerebbe dunque tutte le proporzioni materiali e di valore dello schema di Marx e lo invaliderebbe. Il tentativo fatto da Marx di inserire la produzione del­ l’oro come parte integrante nella sezione I (mezzi di produ­ zione), determina anche nel suo ragionamento conseguenze gravi. Il primo atto di circolazione fra questa nuova sottosezione, da Marx contrassegnata con 1 0, e la sezione II (mezzi di consumo) consiste, come al solito, nell’acquisto da parte degli operai della sezione 1 0 di mezzi di consumo dalla sezione II con le somme di denaro ricevute a titolo di salario dai rispettivi capitalisti (5 v). Il denaro occorrente a tale operazione non è ancora prodotto della nuova produ­ zione, ma riserva monetaria dei capitalisti 1 0 sulla quantità di denaro preesistente nel paese —cosa perfettamente nor­ male. Senonché Marx suppone che, coi 5 in denaro ricevuti, i capitalisti II acquistino da I o, in primo luogo, 2 in oro «come materiale-merce», saltando cosi dalla produzione del denaro alla produzione dell’oro come materiale industriale, che ha da fare con la produzione del denaro tanto quanto la produzione di lucido da scarpe; poi, essendo da I 0 5 v ri­ masti ancora 3, di cui i capitalisti non sanno come servirsi poiché non possono usarli come capitale costante, Marx li fa... tesaurizzare! E, perché non si verifichi cosi un deficit di capitale costante in II, dovendo esso venir scambiato in­ teramente contro mezzi di produzione (I v + p), Marx trova la seguente scappatoia: «Questo denaro dovrà dunque es­ sere trasferito interamente da II c a II p, consista questo in mezzi di consumo necessari o in articoli di lusso; e, vicever­ sa, un valore corrispondente in merci deve essere trasferito da II p a I I c. Risultato: una parte del plusvalore viene ac­ cantonato come tesoro» *. Il risultato è, in realtà, abbastan­ za strano: mentre abbiamo considerato la riproduzione del­ la sola usura annua del materiale monetario, ecco che d’un ' Das Kapital, libro II, p. 448 [sez. I l l , cap. XX, 12].

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tratto salta fuori la tesaurizzazione, e perciò un’eccedenza dello stesso materiale. Quest’eccedenza si forma —non si sa perché —a spese dei capitalisti della sezione mezzi di sussi­ stenza, i quali devono far penitenza non per allargare la pro­ duzione del proprio plusvalore, ma affinché esistano suffi­ cienti beni di consumo per gli operai della produzione d ’oro. Ma, per questa virtù cristiana, i capitalisti della sezione II sono assai mal compensati. Non solo, ad onta della loro «astinenza», non possono intraprendere un allargamento della produzione, ma non sono neppure in grado di riassu­ merla nell’ampiezza precedente. Infatti, anche ammesso che il corrispondente «valore in merci» sia trasferito da II p a II c, quel che interessa non è il valore ma la sua forma con­ creta materiale, e poiché a questo punto una parte del pro­ dotto di I è costituita da denaro e il denaro non può essere usato come mezzo di produzione, II non può, pur con tutta la sua astinenza, rinnovare materialmente in pieno il pro­ prio capitale costante. In tal modo, il presupposto dello schema - riproduzione semplice - risulterebbe contraddet­ to in due direzioni: tesaurizzazione del plusvalore, deficit del capitale costante. Bastano questi risultati ottenuti da Marx per dimostrare l ’impossibilità di far rientrare in una delle due sezioni dello schema la produzione dell’oro, sen­ za buttare all’aria lo schema stesso. Ciò in base al primo scambio fra le sezioni I e II. Quanto all’analisi dello scam­ bio di oro di nuova produzione nell’ambito del capitale co­ stante della sezione I, che Marx si era proposto di compie­ re, essa non fu trovata - come osserva Engels1—nel mano­ scritto: comunque, non avrebbe fatto che aggiungere nuo­ ve difficoltà alle esistenti. D ’altronde, Marx stesso confer­ ma la nostra interpretazione, liquidando la questione in due parole, tanto asciutte quanto calzanti: « Il denaro non è di per sé elemento della riproduzione vera e propria»12. V ’è un altro importante motivo per rappresentare la pro­ duzione del denaro come sezione a sé della produzione so­ ciale totale. Lo schema presentato da Marx della riprodu1 Das Kapital, libro II, p. 449, nota 55 [sez. 2 Ibid., p. 466 [cap. XXI],

Ill,

cap. XX, 12, nota].

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zione semplice è valido come fondamento e punto di par­ tenza del processo riproduttivo non solo per il regime eco­ nomico capitalistico, ma anche —mutatis mutandis —per ogni regime economico regolato e pianificato, per esempio quello socialista. Per contro, la produzione del denaro cessa con la forma mercantile dei prodotti, cioè con la proprietà privata dei mezzi di produzione. Essa rientra nei «falsi co­ sti» del modo anarchico di produzione del capitalismo, è uno specifico onere della società a base economica priva­ ta, che si manifesta nell’erogazione annua di una notevole quantità di lavoro per la creazione di prodotti non utilizza­ bili né come mezzi produttivi né come mezzi di consumo. Questa specifica erogazione di lavoro nella società a produ­ zione capitalistica, destinata a cessare in una economia re­ golata socialmente, trova la sua espressione piu precisa co­ me sezione staccata nel processo generale di riproduzione del capitale totale. Non importa che ci si riferisca a un pae­ se diretto produttore di oro o ad uno costretto a importar­ lo: in quest’ultimo caso, lo scambio media solo la stessa spesa di lavoro sociale che era stata direttamente necessaria alla produzione dell’oro. Da quanto sopra, appare chiaro che il problema della riproduzione del capitale totale non è cosi semplice come spesso lo si configura ponendosi dal puro punto di vista del­ le crisi, dove il problema si pone press’a poco cosi: com’è possibile che, in un’economia non pianificata di innumere­ voli capitali singoli, i bisogni complessivi della società siano coperti dalla loro produzione complessiva? E si risponde col rinvio alle continue oscillazioni della produzione intor­ no alla domanda, cioè all’alternarsi periodico delle fasi di congiuntura. In quest’impostazione, che considera il pro­ dotto sociale totale come un guazzabuglio indifferenziato di merci e il fabbisogno sociale in un modo altrettanto astru­ so, si perde di vista proprio l’essenziale: la differentia spe­ cifica del modo di produzione capitalistico. Il problema del­ la riproduzione capitalistica cela in sé, come abbiam visto, una quantità di rapporti esatti che si riferiscono tanto alle categorie specificamente capitalistiche, quanto — mutatis mutandis - alle categorie universali del lavoro umano, e la

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cui sintesi, sia nella loro contraddizione che nella loro ar­ monia, costituisce appunto il problema da risolvere. Lo schema marxiano è la soluzione scientifica del problema. Dobbiamo ora chiederci quale senso lo schema analizza­ to del processo di riproduzione abbia nella realtà. Secondo questo schema, il prodotto sociale totale passa tranquilla­ mente e senza residui nella circolazione, i bisogni di consu­ mo sono complessivamente soddisfatti, la riproduzione pro­ cede liscia, la circolazione monetaria segue alla circolazione delle merci, il circuito del capitale sociale si chiude felice­ mente. Come si presenta la cosa, nella realtà? Per una pro­ duzione diretta secondo un piano, lo schema offre nelle sue articolazioni una base esatta alla divisione del lavoro socia­ le - sempre presupponendo una riproduzione semplice, un raggio di produzione sempre uguale. Nell’economia capita­ listica, un’organizzazione pianificata del processo comples­ sivo manca: in essa, perciò, le cose non vanno lisce secondo la formula matematica, come apparirebbe dallo schema. Al contrario, il circuito della riproduzione si svolge con conti­ nue deviazioni dai rapporti dello schema, traducendosi in quotidiane oscillazioni dei prezzi, in continue oscillazioni dei profitti, in incessanti fluttuazioni dei capitali da un ramo del­ la produzione agli altri, in periodici passaggi ciclici della riproduzione dall’al­ ta congiuntura alla crisi. Ad onta di queste deviazioni, lo schema rappresenta tut­ tavia la media socialmente necessaria intorno alla quale quei movimenti si svolgono, e alla quale continuamente tendo­ no dopo essersene allontanati. Questa media fa sì che i mo­ vimenti oscillatori dei capitali singoli non degenerino nel caos, ma vengano ricondotti ad una certa normalità, che as­ sicura la sopravvivenza della società capitalistica nonostan­ te la mancanza di un piano. Un confronto fra lo schema della riproduzione in Marx e il Tableau économique di Quesnay mette in evidenza tanto le affinità quanto l’enorme divario fra loro esistenti. I due schemi, pietre miliari all’inizio e al termine dell’intera evo-

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luzione dell’economia politica classica, sono gli unici tenta­ tivi di rappresentazione esatta dell’apparente caos del movi­ mento complessivo della produzione e del consumo capita­ listici, nel loro mutuo intreccio e nel loro spezzettarsi in una molteplicità di produttori e di consumatori privati. En­ trambi riducono l’intrico arruffato del movimento dei capi­ tali singoli ad alcuni grandi rapporti semplici, ai quali è ancorata la possibilità di esistenza e sviluppo della società capitalistica nonostante il suo funzionamento anarchico e sregolato. Entrambi, cioè, riuniscono i due presupposti che stanno a base del movimento complessivo del capitale so­ ciale: il fatto ch’esso è, come movimento di capitali, produ­ zione e appropriazione di plusvalore, e insieme, come mo­ vimento sociale, produzione e consumo di oggetti materiali necessari all’esistenza civile dell’umanità. In entrambi, la circolazione dei prodotti come circolazione di merci fa da intermediario all’intero processo; in entrambi, il movimen­ to del denaro segue in superficie il movimento della circo­ lazione delle merci, come sua manifestazione esteriore. Nella realizzazione pratica di questi criteri generali, il di­ vario fra i due schemi è tuttavia notevole. Il Tableau di Quesnay eleva bensì la produzione di plusvalore a pietra angolare della riproduzione totale, ma concepisce il plusva­ lore sotto la ingenua forma feudale della rendita fondiaria; scambia dunque una parte per il tutto. Allo stesso modo, fa della divisione materiale della massa del prodotto socia­ le totale l ’altra pietra angolare della riproduzione sociale, ma la concepisce sotto l’ingenua contrapposizione dei pro­ dotti agricoli ai manufatti, scambia perciò differenze estrin­ seche nelle sostanze sulle quali il lavoro umano si esercita per categorie fondamentali del processo del lavoro umano. In Marx, la produzione di plusvalore è intesa nella for­ ma pura e generale, e perciò assoluta, della produzione ca­ pitalistica. Nello stesso tempo, le condizioni materiali per­ manenti della produzione vengono analizzate nella loro fon­ damentale distinzione in mezzi di produzione e mezzi di consumo, e il rapporto fra gli uni e gli altri viene ricondot­ to a un rapporto esatto di valore. Si chiederà: perché la soluzione del problema cosi felice-

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mente abbozzata da Quesnay ha fatto naufragio nei succes­ sivi sviluppi dell’economia politica borghese? che cosa era necessario per il poderoso balzo innanzi fatto fare all’anali­ si dallo schema marxiano? La risposta è duplice. Prima di tutto, lo schema della riproduzione tracciato da Marx si fonda sulla chiara e netta distinzione delle due parti del la­ voro nella produzione mercantile: il lavoro concreto utile, creatore di determinati valori d ’uso, e il lavoro astratto ge­ nerale, che in quanto lavoro socialmente necessario crea va­ lori. Questa geniale distinzione-base della teoria marxiana del valore, che ha permesso fra l’altro la soluzione del pro­ blema del denaro, ha portato anche a isolare e riunire i due punti di vista presenti nel processo della riproduzione tota­ le: il punto di vista del valore e i rapporti materiali. In secondo luogo, alla base dello schema sta la netta distinzio­ ne fra capitale costante e variabile, grazie alla quale soltan­ to era possibile scoprire nel suo meccanismo interno la pro­ duzione del plusvalore e porla in esatta relazione, come rapporto di valore, con le due categorie materiali della pro­ duzione: mezzi di produzione e mezzi di consumo. A tutti questi punti di vista l’economia classica dopo Quesnay si è avvicinata, soprattutto con Smith e Ricardo. Con Ricardo, la teoria del valore ha raggiunto una formu­ lazione rigorosa, per cui viene spesso scambiata con la teo­ ria di Marx. Dal punto di vista della sua teoria del valore, egli ha inoltre visto la falsità della risoluzione smithiana del prezzo di tutte le merci in v + p, che ha avuto riflessi co­ si negativi sull’analisi della riproduzione; ma non ha fatto gran caso di quest’errore, come non si è troppo scaldato per il problema della riproduzione totale. L ’analisi ricardiana segna anzi, sotto quest’ultimo aspetto, un certo passo indie­ tro rispetto a Smith, allo stesso modo che questi fa, in par­ te, un passo indietro rispetto ai fisiocratici. Se Ricardo ha elaborato assai piu precisamente e organicamente di tutti i suoi predecessori le categorie fondamentali dell’economia borghese, valore, salario, plusvalore, capitale, egli le ha trat­ tate però con maggiore schematicità. Smith aveva un senso molto piu profondo delle connessioni viventi, del grande moto d ’insieme dell’economia capitalistica: se non di rado

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gli accade di dare di uno stesso problema due o, come per il problema del valore, anche tre o quattro soluzioni diverse, e di contraddirsi spregiudicatamente in piu punti dell’anali­ si, queste stesse contraddizioni lo portarono ad affrontare il tutto sempre da un lato diverso e a concepirlo nel suo in­ cessante dinamismo. La barriera contro la quale dovevano tanto lui quanto Ricardo naufragare furono i limiti del loro orizzonte borghese. Per afferrare le categorie fondamentali della produzione capitalistica nel loro moto vivente, come processo di riproduzione sociale, bisognava concepire que­ sto movimento da un punto di vista storico, e le categorie medesime come forme storicamente determinate dei rap­ porti generali di lavoro. In altre parole, il problema della riproduzione del capitale totale poteva essere risolto soltan­ to da un socialista. Fra il Tableau économique e lo schema della riproduzione nel II libro del Capitale stanno, non so­ lo dal punto di vista tempo ma dal punto di vista contenu­ to, l’apogeo e la fine dell’economia borghese.

C A P IT O L O

SESTO

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Che lo schema della riproduzione semplice sia insufficien­ te è ora chiaro: esso espone le leggi di un tipo di riprodu­ zione che, in regime produttivo capitalista, può verificarsi soltanto in via eccezionale. La regola dell’economia capita­ listica, piu ancora che di qualunque altra, non è la riprodu­ zione semplice ma la riproduzione allargata1. Tuttavia, lo schema conserva tutta la sua importanza scientifica: i) per­ ché dal punto di vista pratico, anche nel caso della riprodu­ zione allargata, la parte predominante del prodotto totale cade pur sempre sotto il punto di vista della riproduzione semplice, la quale costituisce la larga base su cui l’eventua­ le estensione della produzione oltre i limiti finora raggiunti si compie; 2) perché anche dal punto di vista teorico, l’ana­ lisi della riproduzione semplice costituisce l’inevitabile pun­ to di partenza di qualsiasi rappresentazione scientificamen­ te esatta della riproduzione allargata. Così lo schema della riproduzione semplice del capitale sociale totale porta di là da se stesso —al problema della riproduzione allargata del capitale totale. Le particolarità storiche della riproduzione allargata su base capitalistica le conosciamo già: essa deve presentarsi 1 « I l presupposto della riproduzione semplice, cioè che I (t> + p ) - I I c, non soltanto è incompatibile con la produzione capitalistica - il che non esclude che, su un ciclo industriale di io-ri anni, un anno possa presentare una produzione totale inferiore al precedente e quindi non si verifichi, ri­ spetto ad esso, neppure una riproduzione semplice ma, anche ammettendo l ’incremento naturale annuo della popolazione, la riproduzione semplice po­ trebbe verificarsi solo se, dei 1500 che rappresentano il plusvalore totale, una parte relativamente maggiore fosse consumata da dipendenti improduttivi. L ’accumulazione del capitale, e perciò la vera e propria produzione capitali­ stica, sarebbe invece impossibile» (Das Kapital, libro II, p. 497 [sez. I l i , cap. XXI, par. in , 3]).

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come accumulazione del capitale, che è la sua forma e la sua condizione specifica insieme. In altri termini, la produ­ zione sociale totale —che, su basi capitalistiche, è produzio­ ne di plusvalore —può essere allargata solo nel senso e nel­ la misura che il capitale finora operante della società riceva un incremento dal plusvalore da esso prodotto. L ’impiego di una parte del plusvalore - anzi di una sua parte crescente —a scopi produttivi, invece che alla soddisfazione dei biso­ gni di consumo personale della classe capitalistica o ai fini della tesaurizzazione, è la base della riproduzione allargata in regime di produzione capitalista. Elemento essenziale della riproduzione allargata del ca­ pitale sociale totale è - proprio come per la riproduzione semplice —la riproduzione del capitale singolo, compiendo­ si la produzione nel suo complesso - considerata sia come semplice che come allargata - solo sotto forma di innume­ revoli movimenti autonomi di riproduzione di singoli capi­ tali privati. La prima analisi esauriente dell’accumulazione del capitale singolo si trova nel libro I del Capitale, sezione V II, capitoli XXII e X XIII, dove Marx tratta della divisio­ ne del plusvalore in capitale e reddito, delle circostanze che, indipendentemente da questa divisione, condizionano l’accumulazione del capitale (come il grado di sfruttamento della forza-lavoro e la produttività del lavoro), dell’aumento del capitale fisso in rapporto al capitale circolante come elemento essenziale dell’accumulazione, e infine della cre­ scente costituzione dell’esercito industriale di riserva come conseguenza e insieme come premessa del processo dell’ac­ cumulazione capitalistica. Marx s’intrattiene inoltre su due teorie dell’economia borghese in merito all’accumulazione: la «teoria dell’astinenza», che appartiene soprattutto all’e­ conomia volgare, e presenta la divisione del plusvalore in capitale e reddito e perciò la stessa accumulazione come un atto di eroismo morale de: capitalisti, e l’errore dell’econo­ mia classica secondo cui l’intera parte capitalizzata del plus­ valore sarebbe unicamente destinata « ad esser divorata da operai produttivi», cioè a tradursi in salari per nuovi lavo­ ratori da assumere. Questa tesi errata, la quale trascura to­ talmente il fatto che ogni allargamento della produzione de-

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ve esprimersi non soltanto nell’aumento numerico della mano d ’opera occupata, ma anche nell’aumento dei mezzi di produzione materiali (fabbricati, strumenti, o almeno e comunque materie prime), si fonda sul già discusso falso «dogm a» di A. Smith. Infatti, dall’equivoco secondo il qua­ le il prezzo di tutte le merci si risolve - prescindendo com­ pletamente dal capitale costante - in puri salari e plusvalo­ re, doveva derivare l’opinione che, ai fini dell’allargamen­ to della produzione, bastasse erogare in salari più capitale. Strano a dirsi, anche Ricardo, che almeno in alcuni punti ri­ levò l’errore della teoria smithiana, ne accoglie le conclusio­ ni là dove afferma: «Bisogna capire che tutti i prodotti di una nazione vengono consumati; ma c’è un’enorme differen­ za se vengono consumati da chi riproduce un altro valore o da chi non lo riproduce affatto. Quando diciamo che il red­ dito è risparmiato e aggiunto al capitale, vogliamo dire che la parte di reddito, di cui si afferma che viene aggiunto al ca­ pitale, è consumata da lavoratori produttivi invece che da improduttivi». Secondo questa strana concezione, che fa consumare tutti i prodotti creati e perciò non lascia posto nel prodotto sociale ai mezzi di produzione inconsumabili —attrezzi e macchine, materie prime e fabbricati —anche la riproduzione allargata si effettua in questo curioso modo: invece di una parte di mezzi di sussistenza di qualità piu fi­ ne per la classe dei capitalisti per l ’ammontare della parte capitalizzata del plusvalore, si producono mezzi di sussi­ stenza semplici per nuovi lavoratori. La teoria classica della riproduzione allargata non conosce dunque altro sposta­ mento che all’interno della produzione di mezzi di consu­ mo. Che Marx abbia facilmente demolito questo banale ar­ tificio di Smith-Ricardo, risulta più che naturale dopo quan­ to abbiamo finora detto. Esattamente come, nella riprodu­ zione semplice, oltre alla produzione della quantità indi­ spensabile di mezzi di sussistenza per lavoratori e capitali­ sti deve verificarsi il regolare rinnovo del capitale costante, dei mezzi materiali di produzione, cosi, nell’allargamento della produzione, una parte del nuovo capitale supplemen­ tare deve essere impiegata all’aumento della parte costan­ te del capitale, cioè all’aumento dei mezzi materiali di pro-

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duzione. A questo punto, entra in campo un’altra legge sco­ perta da Marx. La parte costante del capitale, continuamen­ te trascurata dall’economia classica, mostra la tendenza a crescere incessantemente in rapporto alla parte variabile spesa in salari - espressione capitalistica degli effetti gene­ rali della crescente produttività del lavoro. Col progresso tecnico, infatti, il lavoro vivo è messo in grado di azionare, in un tempo sempre piu breve, masse sempre piu grandi di mezzi di produzione, e di trasformarle in prodotti finiti. In­ teso dal punto di vista capitalistico, ciò significa una note­ vole riduzione delle spese in lavoro vivo, in salari, in con­ fronto alle spese in mezzi di produzione morti. La produ­ zione allargata non soltanto deve dunque, contrariamente alla tesi smith-ricardiana, cominciare con la divisione della parte capitalizzata del plusvalore in capitale costante e va­ riabile, ma in questa divisione, con gli sviluppi tecnici della produzione, assegnare una parte relativamente sempre mag­ giore al capitale costante e una relativamente sempre mino­ re al capitale variabile. Questa continua metamorfosi qua­ litativa nella composizione del capitale costituisce la forma specifica in cui si manifesta l’accumulazione del capitale, la riproduzione allargata su basi capitalistiche '. 1 «Lo specifico modo di produzione capitalistico, lo sviluppo ad esso corrispondente della produttività del lavoro, la metamorfosi cosi determi­ nata nella composizione organica del capitale, non solo vanno di pari passo con lo sviluppo dell’accumulazione o con l’aumento della ricchezza sociale, ma procedono a passi molto piu spediti, giacché l’accumulazione semplice o l’allargamento assoluto del capitale totale sono accompagnati dalla centraliz­ zazione dei suoi elementi individuali, e il rivoluzionamento tecnico del ca­ pitale addizionale dal rivoluzionamento tecnico del capitale originario. Col progresso dell’accumulazione, il rapporto fra capitale costante e variabile, se in origine era i : i, si trasforma perciò in 2 : 1 , 3 : 1 , 4 : 1 , 5 : 1 , 7 : 1 ecc., per cui, man mano che il capitale aumenta, invece di % del suo valore totale ne vengono spesi in salari, progressivamente, solo %, /> %> mentre ne so­ no spesi in mezzi di produzione %, %, %, %, %, e via dicendo. Poiché la do­ manda di lavoro non è determinata dall’ampiezza del capitale totale, ma da quella della sua parte variabile, essa diminuisce man mano che il capitale totale aumenta, invece di crescere relativamente con esso: diminuisce rela­ tivamente alla grandezza del capitale totale e in progressione accelerata con l’aumento di questa. È vero che, aumentando il capitale totale, cresce anche la sua parte variabile, o la forza lavoro in esso incorporata, ma cresce in pro­ porzione sempre ridotta. Le pause intermedie, in cui l’accumulazione opera come semplice allargamento della produzione sulla base tecnica data, si ab­ breviano: non solo si richiede un’accumulazione accelerata del capitale per

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Altro aspetto di questo costante spostamento nei rappor­ ti fra la parte costante e la parte variabile del capitale, è ciò che Marx chiama la formazione della sovrapopolazione re­ lativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale e perciò superflua (o addizionale). La produzione di questa scorta accumulata di lavoratori industriali non oc­ cupati (intesi in senso lato, compresi i proletari sottoposti all’impero del capitale commerciale), che costituisce da par­ te sua la premessa necessaria degli improvvisi allargamenti della produzione nelle fasi di alta congiuntura, rientra nelle condizioni specifiche dell’accumulazione del capitale \ Dobbiamo dunque derivare dall’accumulazione del capi­ tale singolo i seguenti tre aspetti della riproduzione allar­ gata: I ) l’ampiezza della riproduzione allargata è in certo sen­ so indipendente dall’aumento del capitale, e può spin­ gersi oltre i suoi confini. I metodi che possono esse­ re impiegati a tale scopo sono: aumento dello sfrut­ tamento della forza-lavoro e delle energie naturali, aumento della produttività del lavoro (compreso l ’au­ mento dell’efficienza del capitale fisso); 2) il punto di partenza di ogni effettiva accumulazione è la divisione della parte da capitalizzare del plusvalore in capitale costante e variabile; 3) l ’accumulazione come processo sociale è accompagna­ ta da un continuo modificarsi nel rapporto fra capita­ le costante e capitale variabile; la parte di capitale assorbire un numero supplementare dato di operai o anche, tenuto conto della costante metamorfosi del vecchio capitale, per occupare i già funzio­ nanti: ma la crescente accumulazione e centralizzazione si trasforma a sua volta in una sorgente di nuove trasformazioni nella composizione del capi­ tale, o di una diminuzione sempre pili accelerata della sua parte variabile in confronto alla costante» (Das Kapital, libro I , p. 593 [sez. V I I , cap. XXIII, 3 ]).

1 «Il caratteristico curriculum vitae della moderna industria, la forma di un ciclo decennale, interrotto da piccole oscillazioni, di periodi di vitalità media, di produzione ad alta pressione, di crisi e di ristagno, si fonda sulla costante formazione, assorbimento piu o meno vasto e ricostituzione dell’ar­ mata industriale di riserva, o sovrapopolazione. D ’altra parte, le rotazioni del ciclo industriale reclutano la sovrapopolazione e diventano uno dei più energici fattori della sua riproduzione» (ibid., p. 394).

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spesa in mezzi di produzione morti cresce continuamente in confronto a quella spesa in salari; 4) l’altra manifestazione che accompagna e condiziona il processo dell’accumulazione è la costituzione di un esercito industriale di riserva. Questi punti acquisiti sul moto di riproduzione del capi­ tale singolo rappresentano un enorme passo avanti rispetto all’analisi dell’economia politica borghese. Si tratta ora, par­ tendo dalla dinamica del capitale singolo, di rappresentare l’accumulazione del capitale totale. Secondo lo schema del­ la riproduzione semplice, occorre, anche per la riproduzione allargata, mettere in un preciso rapporto reciproco, dall’an­ golo visuale dell’accumulazione, sia gli aspetti di valore del­ la produzione di plusvalore che gli aspetti materiali del pro­ cesso lavorativo (produzione di mezzi produttivi e produ­ zione di mezzi di consumo). Ora, la differenza fondamentale fra riproduzione allarga­ ta e riproduzione semplice sta nel fatto che in quest’ultima l’intero plusvalore viene consumato dalla classe capitalisti­ ca e dipendenti, mentre nella prima una parte del plusvalo­ re è sottratto al consumo personale dei possessori, non per essere tesaurizzato, ma per essere aggiunto al capitale ope­ rante, per essere capitalizzata. Affinché tuttavia ciò sia pos­ sibile, è indispensabile che anche il nuovo capitale supple­ mentare trovi in atto le condizioni materiali della sua atti­ vazione. Entra qui in campo la composizione concreta del prodotto sociale totale. Già nel I libro del Capitale, trattan­ do dell’accumulazione del capitale singolo, Marx scriveva: « In primo luogo, la produzione annua deve fornire tutti gli oggetti (valori d ’uso), coi quali nel corso dell’anno devo­ no essere sostituite parti materiali consumate del capitale. Detratti questi, rimane il prodotto netto o sovraprodotto, in cui il plusvalore si annida. E in che cosa consiste questo sovraprodotto? Forse in cose destinate alla soddisfazione dei bisogni e dei piaceri della classe capitalista, e che entra­ no perciò nel suo fondo di consumo? Se così fosse, il plus­ valore sarebbe vuotato fino alla feccia, e si avrebbe solo riproduzione semplice. Per accumulare, bisogna trasformare

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una parte del sovraprodotto in capitale. Ma senza far mira­ coli si possono trasformare in capitale solo le cose utilizza­ bili nel processo lavorativo, cioè i mezzi di produzione, e quelle con cui il lavoratore può mantenersi, cioè i mezzi di sussistenza. Ne segue che una parte del pluslavoro annuo dev’essere impiegata a produrre mezzi di produzione e di consumo addizionali, in eccedenza alla quantità ch’era stata ritenuta necessaria alla sostituzione del capitale anticipato. In breve: il plusvalore è trasformabile in capitale solo in quanto il sovraprodotto, di cui esso è il valore, contiene già le parti componenti materiali di un nuovo capitale» ‘. È vero che per mettere in moto il processo della riprodu­ zione allargata non bastano soltanto mezzi di produzione supplementari e mezzi di sussistenza addizionali per i lavo­ ratori: occorrono pure forze-lavoro supplementari. Ma an­ che questa condizione non offre, per Marx, difficoltà parti­ colari. «A questo ha già provveduto il meccanismo della produzione capitalistica riproducendo la classe operaia co­ me classe che dipende dal salario, e il cui salario basta non solo ad assicurarne la sussistenza, ma a renderne possibile l ’incremento. Basta perciò che il capitale incorpori nei mez­ zi di produzione addizionali già contenuti nel prodotto an­ nuo le forze-lavoro supplementari, fornitegli annualmente in diverse gradazioni di età dalla classe operaia; e la trasfor­ mazione del plusvalore in capitale è com piuta»12. È questa la prima soluzione data da Marx al problema dell’accumulazione del capitale totale. È solo alla fine del libro II che, lasciati da parte nel I gli sviluppi del problema, egli vi ritorna, dedicando il XXI capitolo all’accumulazione e riproduzione allargata del capitale totale. Esaminiamo piu da vicino la rappresentazione schema­ tica dell’accumulazione data da Marx. Sull’esempio dello schema a noi già noto della riproduzione semplice, Marx costruisce uno schema della riproduzione allargata. Un con­ fronto fra i due permette di rilevarne in modo molto chiaro le differenze. 1 Das Kapital, libro I, p. 343 [sez. V II, cap. XXII, 1]. 2 Ibid.} p. 544.

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Ammettiamo che il prodotto annuo totale della società rappresenti una grandezza di valore 9000 (intendendo con ciò milioni di ore di lavoro o, per esprimerci in denaro, una somma corrispondente), e si suddivida nel seguente modo: I. 4000 c-t- 1000 v + 1000 p = 6000 I totale 9000 II. 2000 c + 500 r>+ 500/1 = 3000 J La prima sezione rappresenta mezzi di produzione, la se­ conda mezzi di consumo. Uno sguardo ai rapporti numerici dimostra che in questo caso non può aver luogo che ripro­ duzione semplice. Infatti, i mezzi di produzione prodotti nella sezione I corrispondono alla somma dei mezzi di pro­ duzione effettivamente consumati nelle due sezioni, il cui semplice rinnovo non permette se non la ripetizione della produzione alla scala precedente. D ’altra parte, l ’intera pro­ duzione della sezione II corrisponde alla somma dei salari e dei plusvalori di entrambe le sezioni: ciò dimostra che i mezzi di sussistenza presenti non permettono se non l’occu­ pazione del numero precedente di forze-lavoro, e a sua vol­ ta l’intero plusvalore si esaurisce in mezzi di sussistenza, cioè nel consumo personale dei capitalisti. Diamo ora allo stesso prodotto totale la composizione che segue: I. 4000 c + 1000 v + 1000 p = 6000 I , TT \ totale 9000 i l . 1500 c + 750 v + 750/1 = 3000 J e ci troveremo di fronte a due scompensi. La quantità di mezzi di produzione (6000) fabbricati supera di 500 in va­ lore la quantità consumata realmente nella società (4000 c + 1500 c); nello stesso tempo, la quantità dei mezzi di sus­ sistenza (3000) prodotti presenta, in confronto alla somma dei salari pagati, cioè al fabbisogno dei lavoratori (1000 v + 750 V) e alla somma del plusvalore ottenuto (1000 p + + 750 p), un deficit di 500. Ne segue che - essendo esclusa una contrazione degli operai occupati - il consumo della classe capitalista deve essere inferiore al plusvalore da essa appropriato. Sono cosi osservate le due premesse indispen-

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sabili per la riproduzione allargata su basi capitalistiche: una parte del plusvalore appropriato non viene consumata, mentre vengono prodotte quantità maggiori di mezzi di pro­ duzione affinché il plusvalore capitalizzato possa effettiva­ mente impiegarsi ad allargar la produzione. Nello schema della riproduzione semplice, abbiamo visto che le sue condizioni sociali si esprimono nel seguente rap­ porto esatto: la somma dei mezzi di produzione (prodotto della sezione I) deve essere uguale in valore al capitale co­ stante di entrambe le sezioni, mentre la somma dei mezzi di sussistenza (prodotto della sezione II) deve essere pari alla somma dei capitali variabili e dei plusvalori delle due sezio­ ni. Per la riproduzione allargata, il rapporto reciproco de­ v’essere inverso. La premessa generale della riproduzione allargata è: il prodotto della sezione I supera in valore il ca­ pitale costante delle due sezioni, mentre il prodotto della se­ zione II non copre in valore la somma dei capitali variabili e del plusvalore delle due sezioni. Con questo non abbiamo però esaurito l ’analisi della riproduzione allargata: siamo appena alla soglia. Dobbiamo ora seguire i rapporti, così dedotti nello sche­ ma, nel loro funzionamento ulteriore, nello svolgersi della circolazione e nei progressi della riproduzione. Se infatti la riproduzione semplice è paragonabile a un circolo percorso sempre sulla stessa traccia, la riproduzione allargata somi­ glia, per usare l’immagine di Sismondi, a una spirale in con­ tinuo sviluppo. Dovremo dunque analizzare i giri successivi di questa spirale. La prima questione che si pone è: date le premesse già note, come si compie nella realtà l’accumula­ zione delle due sezioni, in modo che tutti i capitalisti capita­ lizzino una parte del loro plusvalore e, nello stesso tempo, trovino già in atto le condizioni preliminari materiali neces­ sarie alla riproduzione allargata? Marx risponde sulla base dello schema che segue. Ammettiamo che la metà del plusvalore di I sia accumu­ lata. I capitalisti ne destinano dunque 500 al consumo e 500 aggiungono al capitale. Questo capitale addizionale di 500 deve, per divenir produttivo, dividersi in costante e variabi­ le. Ammettiamo che, ad onta dell’allargamento della produ-

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zione, il rapporto fra queste due parti rimanga lo stesso che nel capitale originario, cioè 4 : 1 . ! capitalisti della sezione I divideranno allora il capitale addizionale 500 in modo da acquistare nuovi mezzi di produzione per 400 e nuove for­ ze-lavoro per 100. L ’acquisizione di questi nuovi mezzi pro­ duttivi non offre difficoltà: sappiamo infatti che la sezione I ha già prodotto mezzi di produzione supplementari per 500, di cui i % sono dunque impiegati all’interno della sezione I per rendervi possibile l’incremento della produzione. Ma il corrispondente aumento del capitale variabile di 100 in de­ naro non basta, le nuove forze di lavoro supplementari de­ vono trovare corrispondenti mezzi di sussistenza; e questi dovranno essere forniti dalla sezione II. Di conseguenza, la circolazione fra le due grandi sezioni si sposta: prima, nel caso della riproduzione semplice, la sezione I riceveva dalla sezione II per 1000 mezzi di sussistenza destinati ai suoi la­ voratori: ora deve riceverne per 100 in piu. La sezione I comincerà dunque la riproduzione allargata secondo questa formula: 4400 c + XIOO V D ’altra parte, la sezione II, attraverso la vendita di mez­ zi di sussistenza supplementari per 100, è in grado di acqui­ stare per la stessa somma mezzi di produzione supplemen­ tari dalla sezione I. Effettivamente, dell’intera eccedenza del prodotto sono rimasti disponibili, nella sezione I, ap­ punto 100, che la sezione II acquisterà per intraprendere a sua volta la propria riproduzione allargata. Ma anche qui non bastano mezzi di produzione supplementari: per met­ terli in esercizio occorrono altre forze-lavoro. Ammettiamo anche qui che la composizione del capitale rimanga immu­ tata, con rapporto fra capitale costante e variabile di 2 :1 ; bisognerà allora, per attivare i mezzi di produzione supple­ mentari, acquistare forze-lavoro per 50. Ma per queste nuo­ ve forze-lavoro occorrono mezzi di sussistenza supplemen­ tari per l’ammontare dei salari, ed è la stessa sezione II a fornirli. Perciò, sul prodotto totale della sezione II dovran­ no essere impiegati, oltre a 100 in nuovi mezzi di sussisten­ za per i nuovi lavoratori della sezione I, altri mezzi di sussi-

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stenza per 50 a favore dei propri. La seconda sezione comin­ cia dunque la riproduzione allargata secondo la formula: 1600 c + 800 V A questo punto l ’intero prodotto della sezione I (6000) è passato nella circolazione: 5500 erano necessari per il rin­ novo puro e semplice dei vecchi mezzi di produzione consu­ mati in entrambe le sezioni, 400 sono stati utilizzati all’al­ largamento della produzione nella sezione 1 ,100 per lo stes­ so scopo nella sezione II. Quanto al prodotto totale della sezione II (3000), 1900 sono stati utilizzati per il contin­ gente aumentato di forze-lavoro, i rimanenti 1100 in mezzi di sussistenza servono al consumo personale dei capitalisti, al consumo del plusvalore, e precisamente: 500 nella sezio­ ne I e 600 per i capitalisti della sezione II, che sul loro plusvalor edi 750 hanno capitalizzato solo 130 (100 per mezzi di produzione e 50 per salari). Ora la riproduzione allargata può compiersi. Fermo re­ stando un tasso di sfruttamento del 100% come nel capita­ le originario, si avrà, nel periodo successivo: I. 4400 C + 1100 V 1100 p = 6600 1 totale 9800 II. 1600 c + 800 V 4 - 800/7 = 3200 1 Il prodotto totale della società è cresciuto da 9000 a 9800, il plusvalore della prima sezione da 1000 a 1100, quello della seconda sezione da 730 a 800, lo scopo dell’al­ largamento capitalistico della produzione (la produzione di un plusvalore aumentato) è raggiunto. Nello stesso tempo, la composizione materiale del prodotto sociale totale pre­ senta ancora una volta un’eccedenza di 600 in mezzi di pro­ duzione (6600) su quelli effettivamente consumati (4400 4+ 1600), e un uguale deficit di mezzi di consumo (3200) in confronto ai salari finora pagati (1100 v + 800 v ) e al plus­ valore ottenuto ( 1100 p + 800 p). Si ha cosi la base materia­ le necessaria per l’impiego di una parte del plusvalore non ai fini del consumo della classe capitalistica, ma a quelli di un ulteriore allargamento della produzione. Il secondo allargamento della produzione, e la produzio-

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ne accresciuta di plusvalore, discendono naturalmente, nei loro rapporti matematici esatti, dai primi. L ’accumulazione del capitale, una volta iniziata, si spinge meccanicamente in­ nanzi. Il cerchio si è trasformato in una spirale tesa sempre piu verso l’alto, come sotto la pressione di una legge natu­ rale matematicamente misurabile. Ammettiamo per gli an­ ni successivi sempre la stessa capitalizzazione di metà del plusvalore nella sezione I, fermo restando la composizione del capitale e il grado di sfruttamento. Avremo la seguente progressione: Secondo anno: I. 4840 c + 1210 V + 1210 p = 7260 1 totale io 780 II. 1760 c + 880 v + 8 8 0 /7 = 3 3 2 0 J Terzo anno: I. 3 3 2 4 c + 1331 v + 1331 p = 7986 I totale r i 838 IL 1936 c + c,68v+ 968 p = 3872 J Quarto anno: I. 3836 c + 1464 v + 1464p = 8784 1 totale 13 033 II. 2129 c + 1063 V+ 1063 p = 4249 J Quinto anno: I. 6442 c + 1610 v + 1610 p = 9662 1 totale 14 348 II. 2342 c + 1172 v + 1172 p = 4686 J Cosi, dopo cinque anni di accumulazione, il prodotto so­ ciale totale risulterebbe cresciuto da 9000 a 14 348, il capi­ pitale sociale totale da 5300 c + 1730 v = 7230 a 8784 c + + 2782 v = l i 366, e il plusvalore da 1000 p + 300 p = 1300 a 1464 p + 1063 p = 2329, mentre il plusvalore consumato a scopi personali passa da 1300 prima dell’inizio della accu­ mulazione a 732 + 958 = 1690 nell’ultimo anno '. La classe dei capitalisti ha dunque capitalizzato di piu, ha esercitato una maggiore «astinenza», e tuttavia ha potuto vivere con maggior larghezza; la società si è arricchita sia dal punto di 1 Das Kapital, libro II, pp. 487-90 [sez. I ll, cap. XXI, 3, i° es.].

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vista materiale (in mezzi di produzione e di consumo) che da quello capitalistico (ha prodotto un plusvalore sempre crescente). Il prodotto totale entra senza impacci nella cir­ colazione sociale, servendo in parte ad allargare la riprodu­ zione, in parte a soddisfare il consumo: nello stesso tempo, le esigenze di accumulazione dei capitalisti collimano con la composizione materiale del prodotto sociale totale: avviene quello che Marx aveva già osservato nel I libro: il plusvalo­ re aumentato può essere aggiunto al capitale appunto per­ ché il sovraprodotto sociale nasce già nella forma materiale di mezzi di produzione, cioè in una forma che non consente se non un uso: il suo impiego nel processo produttivo. Con­ temporaneamente, in stretta osservanza delle leggi della cir­ colazione, la riproduzione si allarga: il rifornimento reci­ proco delle due sezioni in mezzi produttivi e di sussistenza addizionali si realizza come scambio di equivalenti, come scambio di merci, l’accumulazione in una di esse rendendo possibile e condizionando l’accumulazione nell’altra. Il com­ plicato problema dell’accumulazione si trasforma cosi in un processo schematico di una semplicità sorprendente: la ca­ tena delle equazioni iniziate piu sopra può continuare all’in­ finito. Basta osservare le seguenti regole semplici: all’au­ mento del capitale costante nella prima sezione deve sem­ pre corrispondere un certo aumento del suo capitale varia­ bile: è in base a questo aumento che si determina l ’ampiez­ za dell’aumento del capitale costante anche nella seconda, cui deve a sua volta accompagnarsi un aumento correlativo del capitale variabile. Infine, la grandezza del capitale varia­ bile aumentato nelle due sezioni permette sempre di deter­ minare quanto della somma complessiva di sussistenze ri­ manga disponibile per il consumo personale dei capitalisti. Si constaterà inoltre che la massa di mezzi di sussistenza ri­ masti a disposizione del consumo personale dei capitalisti coincide esattamente, in valore, con la parte non capitalizza­ ta del plusvalore nelle due sezioni. Come già abbiamo avuto occasione di osservare, la conti­ nuazione dello sviluppo schematico del processo accumulativo in base a queste regolette elementari non ha limiti. Ma è tempo di chiedersi se per caso i risultati raggiunti non sia-

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no di una così sorprendente facilità solo perché ci siamo li­ mitati a compiere determinate operazioni di addizione e sot­ trazione, che non possono di per sé offrir sorprese; se l’accu­ mulazione non si svolga pacifica all’infinito solo perché la carta accetta pazientemente d’esser vergata di equazioni ma­ tematiche. In altre parole, è tempo di esaminare le condi­ zioni sociali concrete dell’accumulazione.

C A P IT O L O

S E T T IM O

A N A L IS I D E L L O SC H E M A D E L L A R IPR O D U Z IO N E A LLA R G A T A IN M A R X

Il primo allargamento della riproduzione si presentava come segue: I. 4400 c + 1100 v + 1100 p = 6600 II. 1600 c + 800 v + 800 p = 3200

J

totale 9800

Già qui appare chiara la dipendenza reciproca fra le ac­ cumulazioni delle due sezioni. Ma si tratta di una dipen­ denza di una natura tutta particolare. L ’accumulazione par­ te dalla sezione I, la sezione II non fa che seguirne il movi­ mento, l’ampiezza della sua accumulazione è determinata da I. Marx effettua l ’accumulazione facendo capitalizzare in I la metà del plusvalore, in II solo quel tanto eh’è necessa­ rio ad assicurare la produzione e accumulazione in I. Ne ri­ sulta che i capitalisti della sezione II consumano 600 p, mentre i capitalisti I, i quali si appropriano un valore dop­ pio e un plusvalore molto piu elevato, non consumano se non 500 p. Nell’anno successivo, Marx ammette che i capi­ talisti I capitalizzino ancora metà del plusvalore, e «co­ stringe» i capitalisti II a capitalizzare piu che nell’anno pre­ cedente e quel tanto che serve a I, per cui, questa volta, ri­ mangono a disposizione del consumo dei capitalisti II solo 560p, meno che l ’anno prima, risultato invero piuttosto strano dell’accumulazione. Marx descrive cosi il processo: «Ammettiamo che in I si continui ad accumulare nella stessa proporzione, che cioè 550 p siano spesi come reddi­ to, 550 p accumulati. Avremo allora, anzitutto, che 1100 I V sono sostituiti da 1100 II c; che inoltre 550 p sono an­ cora da realizzare in una somma eguale di merci II; in tut­ to, 1650 I (v + p). Ma il capitale costante da sostituire in II è soltanto = 1600, per cui (!) i rimanenti 50 devono essere

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IO/

completati detraendoli a 800 II p. Astraendo dal denaro, abbiamo come risultato di questa transazione: « I. 4400 c + 550 p (da capitalizzare): inoltre, nel fondo consumo dei capitalisti e dei lavoratori, 1650 (v + p ), rea­ lizzati in merci II c. « I L 1650 c (di cui 50 aggiunti come sopra da I I p ) + + 800 v + 750 p, fondo consumo dei capitalisti. «M a se il rapporto originario fra v e c in II rimane im­ mutato, per i 50 c bisognerà aggiungere 27 v, da prendersi dai 750 p: otteniamo dunque: II.

i 6 jo

c + 827 c + 725 p

«In I, sono da capitalizzare 500 p: ammesso che riman­ ga il precedente rapporto, 440 costituiranno capitale co­ stante e n o capitale variabile. Questi n o sono eventual­ mente (!) da ricavarsi da 725 II p, cioè operai I consumano mezzi di sussistenza per un valore di n o invece dei capita­ listi II; questi ultimi sono perciò (!) costretti a capitalizza­ re i n o p che non possono consumare. Dei 725 II p resta­ no dunque II p. Ma se II converte questi n o in capi­ tale costante addizionale, avrà bisogno di un capitale varia­ bile supplementare di 57, che dovrà essere fornito pur esso dal suo plusvalore; tolto da 615 p, rimangono per il consu­ mo dei capitalisti II 560 e, compiuti tutti i trasferimenti at­ tuali e potenziali, avremo in valore-capitale: (4400 c + 4 4 0 c) + ( n o o v + n o v) = 4840 V+ 1210 V + 6050 totale 8690 » II. (1600 r + j o c + i i o c) + (8oo v + 25 v + + ^5 c) =* 1760 c + 880 v = 2640 I.

Abbiamo riportato la citazione integrale perché mette in cruda luce come Marx effettui l’accumulazione in I a spese della sezione II. Non meno duramente egli procede verso i capitalisti della sezione II (mezzi di sussistenza) negli anni successivi. Nel terzo anno, fa loro accumulare secondo la medesima regola 264 p e consumarne 616, cioè, questa vol­ ta, piu che negli anni precedenti: nel quarto, accumulano Das Kapital, libro II, p. 488 [sez. I l l , cap. XXI, 3, 1° es.].

io 8

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2 9 0 p e ne consumano 678; nel quinto, rispettivamente 320 p e 743 p. E Marx scrive: «Perché la cosa avvenga nor­ malmente, bisogna che l’accumulazione in II si compia con piu rapidità che in I, altrimenti la parte di I (v + p) da con­ vertire in merci II c crescerebbe piu in fretta che II c, con­ tro cui soltanto può convertirsi» Senonché le cifre citate documentano in II un’accumulazione non soltanto piu ra­ pida ma fluttuante, la regola essendo che in II l’accumula­ zione si svolga sempre nel presupposto che la sezione I pro­ duca su base piu vasta: in tal modo l’accumulazione in II non appare se non come effetto e condizione dell’altra: 1) per assorbire i mezzi di produzione addizionali, 2) per for­ nire i mezzi di consumo addizionali necessari per le nuove forze-lavoro assorbite. L ’iniziativa del moto continua ad es­ sere della sezione I, rispetto alla quale la II non è che ap­ pendice passiva. Ne segue che i capitalisti II devono ogni volta accumulare e consumare solo quel tanto ch’è richiesto per l’accumulazione in I. Mentre la sezione I capitalizza ogni volta una metà del plusvalore e ne consuma l ’altra, ot­ tenendosi cosi un regolare allargamento della produzione e del consumo personale della classe capitalista, nella sezione II il duplice moto si compie a sbalzi: Nel Nel Nel Nel Nel

primo anno sono capitalizzati 130 consumati 600 secondo 240 360 terzo 254 626 678 quarto 290 quinto 320 745

In quest’accumulazione e in questo consumo non v’è re­ gola; entrambi servono soltanto alle esigenze dell’accumu­ lazione in I. Che le cifre assolute dello schema siano, in ogni equazione, arbitrarie, è logico e non intacca il valore scientifico della dimostrazione: la questione verte sui rap­ porti di grandezza, che dovrebbero esprimere relazioni esatte. Ora, la rigorosità e chiarezza con cui sono espressi i rapporti dell’accumulazione in I sembrano ottenute a prez­ zo di una costruzione del tutto arbitraria dei rapporti nella 1 Das Kapital, libro II, p. 489 [se2. I l l , cap. XXI, 3, i ° es.].

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sezione II, circostanza che impone una verifica dei nessi in­ terni dell’analisi. Si potrebbe forse pensare che la scelta dell’esempio non sia stata particolarmente felice. Lo stesso Marx, insoddisfat­ to del primo schema, ne costruisce un altro, a chiarimento del processo dell’accumulazione, in cui le cifre si presenta­ no ordinate come segue: I. 5000 c + 1000 II. 1430C+ 285

v + v +

1000 p = 7000 1 totaje 0 0 0 i 283 p = 2000 J o a e 9

Come si vede, a differenza dell’esempio precedente, la composizione del capitale è, nelle due sezioni, identica, cioè il rapporto fra capitale costante e capitale variabile è di 5 : I. Il suo presupposto è uno sviluppo già avanzato della produzione capitalistica e perciò della forza produttiva del lavoro sociale; un sensibile, preesistente sviluppo della sca­ la di produzione; infine, la maturazione di tutte le circo­ stanze che determinano una sovrapopolazione relativa nella classe lavoratrice. Non facciamo piu, come nel precedente esempio, il primo passo dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata - che del resto ha un valore puramen­ te teorico —, ma cogliamo il processo dell’accumulazione nel suo svolgersi, ad un grado di evoluzione già abbastanza ele­ vato. Ipotesi di questo genere sono perfettamente legitti­ me, e non cambiano nulla alle regole che devono guidarci nell’analisi dei singoli giri della spirale della riproduzione. Anche qui, Marx prende come punto di partenza la capita­ lizzazione della metà del plusvalore della sezione I : «Poniamo che la classe capitalistica I consumi la metà del plusvalore (= 500) e accumuli l’altra. Ne risulterebbe che (1000 V + 300 p ) I = 1300 dovrebbero essere converti­ ti in 1500 II c. Poiché II c è uguale soltanto a 1430, biso­ gnerà aggiungervi 70 dal plusvalore: detratto 70 da 283 II p, rimane 213 II p . Otteniamo cosi: « I . 5000C + 300P (da capitalizzare) + 1 3 0 0 { v + p ) in fondo di consumo dei capitalisti e degli operai. II. 1430 c + 70 p (da capitalizzare) + 283 v + 215 p. Poi1 Das Kapital, libro II, p. 491 [sez. I l l , cap. XXI, par. in , 2].

n o

I L P R O B L E M A D E L L A RIPRO D UZIO N E

che 70 II p vengono annessi direttamente a II c, per met­ tere in moto questo capitale costante addizionale occorrerà un capitale variabile di 7% = 14; e poiché questi 14 vengo­ no ulteriormente detratti da 215 II p, restano 201 II p, ed abbiamo: II (1430 c + 70 c) + (285 v + 14 v) + 201 p». La capitalizzazione che si compie sulla base di questa pri­ ma formula ha i seguenti sviluppi : Nella sezione I, i 500 p capitalizzati si dividono in % = 417 c + Yé = 83 v. Gli 83 v sottraggono a II p un ammon­ tare corrispondente, che acquista elementi del capitale co­ stante e viene perciò aggiunto a II c. Un aumento di 83 in II c condiziona un aumento in II v di % di 83 = 17. Abbia­ mo perciò, al termine delle operazioni di scambio : I.

(3000 c + 4 x 7 p ) c + (1000 v + 8 4 p) v = 3417 c + 1083 v = 6300 II. (1300C + 83 p )c + ( 299 v + i 7 p )v = 1383 zr-t- 3 1 6 ^ = 1 8 9 9

totale 8399

Il capitale è cresciuto in I da 6000 a 6300, cioè di Zn; in II da 1713 a 1899, cioè di quasi %. La riproduzione su que­ sta base darà perciò, alla fine dell’anno successivo: I. 3417C + 1083 v + 1083p = 7383 1 totale 9798 II. 1383 c + 316^-1- 316 p = 2213 J Continuando ad accumulare nelle stesse proporzioni, si avrà alla fine del secondo anno : I. 3869 c + a y } v + 1173 p = 8215 I , . TT r totale io 614 l i . 1713C+ 342 v + 342 p = 2399 J E alla fine del terzo anno: I. 6338 c + 1271 v + 1271 p = 8900 I totale i l 300 I L 1838 c + 3 7 1 ^ + 371 p = 2600 J In tre anni, il capitale sociale totale è dunque cresciuto da 6000 I + 1713 II = 7713, a 7629 I + 2229 II = 9838, il prodotto totale da 9000 a 11 300. Qui, diversamente dal primo esempio, l’accumulazione si è svolta nelle due sezioni allo stesso modo: in I come in II, a partire dal secondo anno, la metà del plusvalore è sta-

I.A RIPRO D UZIO N E ALLARGATA IN M A R X

III

ta capitalizzata e l’altra metà consumata. L ’aspetto arbitra­ rio del primo esempio sembrerebbe dunque dipendere uni­ camente da una scelta infelice delle cifre. Dobbiamo ora controllare se, questa volta, lo sviluppo regolare e pacifico dell’accumulazione rappresenti qualcosa piu di operazioni matematiche con cifre abilmente scelte. Ciò che balza agli occhi come regola generale, tanto nel primo quanto nel secondo esempio, è sempre questo: affin­ ché l’accumulazione possa continuare, la II sezione deve dedicare ogni volta all’aumento del capitale costante tanto quanto la sezione I dedica, anzitutto, all’aumento della par­ te consumata del plusvalore e, in secondo luogo, all’aumen­ to del capitale variabile. Prendendo l’esempio del primo an­ no, in II deve verificarsi una aggiunta al capitale costante di 70. Perché? Perché questo capitale rappresentava finora 1430: ma se i capitalisti I vogliono accumulare una metà del loro plusvalore (1000) e consumare l’altra, hanno biso­ gno per sé e per i propri lavoratori mezzi di sussistenza per l’ammontare di 1500, che possono ottenere dalla sezione II solo in cambio dei propri prodotti - i mezzi di produzione. Ma poiché la sezione II copriva il proprio fabbisogno in mezzi di produzione solo per l’ammontare del proprio capi­ tale costante (1430), lo scambio può avvenire solo se la se­ zione II si decide ad aumentare di 70 il proprio capitale co­ stante, cioè ad aumentare la propria produzione, il che può avvenire in un solo modo: mediante capitalizzazione di una parte corrispondente del plusvalore. Se questo nella sezio­ ne II ammonta a 285 p, 70 dovranno essere dunque aggiun­ ti al capitale costante. Il primo passo nell’allargamento del­ la produzione in II si ha qui come condizione e conseguen­ za di un allargamento del consumo dei capitalisti I. Pro­ seguiamo. Finora, la classe capitalista I è stata messa in condizione di consumare in usi personali la metà del pro­ prio plusvalore (500). Per poter capitalizzare l’altra metà, deve suddividerne l’ammontare in corrispondenza alla com­ posizione finora osservata, e perciò aggiungere 417 al capi­ tale costante e 83 al capitale variabile. La prima operazione non offre difficoltà: i capitalisti I possiedono nel loro pro­ dotto un’eccedenza di 500, consistente in mezzi di produ-

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IL PROBLEM A D ELLA RIPRODUZIONE

zione, che per la loro forma naturale possono entrare diret­ tamente nel processo produttivo: si ha cosi un allargamen­ to del capitale costante della sezione I mediante una frazio­ ne corrispondente del prodotto di questa stessa sezione. Ma, per poter attivare come capitale variabile gli 83, occor­ re un uguale ammontare di mezzi di sussistenza per i lavo­ ratori da assumere. A questo punto ritorna in primo piano la dipendenza dell’accumulazione in I dall’accumulazione in II: I deve ottenere da II, per i propri lavoratori, 83 piu di prima in mezzi di sussistenza. E poiché anche questo è possibile solo attraverso lo scambio delle merci, questo fab­ bisogno della sezione I può essere soddisfatto alla sola con­ dizione che la sezione II si dichiari pronta, per parte sua, a ricevere prodotti della sezione I, cioè mezzi di produzione, per 83, e, non potendo fare altro uso dei mezzi di produzio­ ne che quello di impiegarli nel processo produttivo, ecco sorgere per la sezione II la possibilità e necessità insieme di allargare una seconda volta il proprio capitale costante, e precisamente di 83, il che è possibile solo sottraendo al con­ sumo personale lo stesso ammontare di plusvalore (83) e ca­ pitalizzandolo. Il secondo passo nell’allargamento della pro­ duzione in II è perciò condizionato dall’allargamento del capitale variabile in I. A questo punto, in I tutte le condi­ zioni materiali dell’accumulazione sono presenti, e la ripro­ duzione allargata può compiersi. In II, invece, si è verifica­ to solo un allargamento in due tempi del capitale costante, da cui risulta che, se i mezzi di produzione di recente acqui­ sto devono essere effettivamente utilizzati, occorrerà un au­ mento correlativo del numero delle forze-lavoro. Fermo re­ stando il rapporto attuale, per il nuovo capitale costante di 133 è necessario un nuovo capitale variabile di 31, il che è quanto dire che bisognerà capitalizzare una corrispondente frazione di plusvalore. Il fondo personale di consumo dei capitalisti II, come ammontare residuo del plusvalore (283 ) dopo sottrazione dei successivi aumenti del capitale costan­ te (70 + 83) e dell’aumento corrispondente del capitale va­ riabile 31 (184 in tutto), sarà dunque 101. Dopo queste manipolazioni, si ha al secondo anno dell’accumulazione, nella sezione II, una ripartizione del plusvalore in 138 ca­

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pitalizzati e 158 riservati al consumo dei capitalisti, e nel terzo anno rispettivamente 172 e 170. Abbiamo studiato con tanta cura e seguito passo per pas­ so il processo perché ne risulta chiaramente come l’accumu­ lazione nella sezione II dipenda e sia dominata in tutto e per tutto dall’accumulazione in I. Questa dipendenza non si manifesta piu, è vero, in spostamenti arbitrari nella suddivisione del plusvalore in II, come avveniva nel primo esempio dello schema di Marx, ma il fatto in se stesso rima­ ne anche se in entrambe le sezioni il plusvalore si divide ar­ moniosamente in due metà, una per la capitalizzazione, l’al­ tra per il consumo personale. Nonostante questa parifica­ zione numerica delle classi capitalistiche nelle due sezioni, è chiaro che l’intero moto dell’accumulazione è diretto e at­ tivato da I, e subito passivamente da IL Questa dipenden­ za trova la sua espressione anche nella seguente regola esat­ ta: l’accumulazione può avvenire solo contemporaneamen­ te nelle due sezioni, e alla sola condizione che la sezione mezzi di sussistenza aumenti il proprio capitale costante esattamente di quanto i capitalisti della sezione mezzi pro­ duttivi aumentano il proprio capitale variabile e il proprio fondo di consumo personale. Questa proporzione (aumento II c = aumento I v + aumento I p cons.) costituisce la base matematica dello schema dell’accumulazione secondo Marx, in qualunque rapporto numerico la si voglia esemplificare. Dobbiamo ora controllare se questa regola dell’accumu­ lazione capitalistica corrisponde alle condizioni reali. Per prima cosa torniamo alla riproduzione semplice. Co­ me si ricorderà, lo schema di Marx è il seguente: I. 4000 c + 1000 v + 1000 p = 6000 mezzi di produzione II. 2000 c + 500 v + 300 p = 3000 mezzi di consumo totale 9000 produzione totale La riproduzione semplice si fonda anch’essa, come si ve­ de, su ben determinate proporzioni: 1) il prodotto della sezione I è uguale (in valore) alla somma dei due capitali costanti in I e II;

II4

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2) ne risulta che il capitale costante della sezione II è uguale alla somma del capitale variabile e del plusvalo­ re nella sezione I; 3) da I e 2 consegue che il prodotto della sezione II è uguale alla somma dei capitali variabili e dei plusva­ lori delle due sezioni. Questi rapporti corrispondono alle condizioni generali della produzione capitalistica delle merci (ridotta d ’altra parte alla riproduzione semplice). Per esempio la propor­ zione 2 è condizionata dalla produzione di merci, cioè dal fatto che gli imprenditori di ogni sezione possono ricevere i prodotti dell’altra sezione solo attraverso uno scambio di equivalenti. Il capitale variabile e il plusvalore della sezio­ ne I esprimono insieme il fabbisogno di questa sezione in mezzi di sussistenza. Tale fabbisogno deve essere coperto dal prodotto della sezione II, ma i mezzi di sussistenza si possono ottenere solo in cambio della stessa quantità di va­ lore del prodotto I, cioè mezzi di produzione. Poiché la se­ zione II non può utilizzare questo equivalente, data la sua forma naturale, in altro modo che impiegandolo nel proces­ so produttivo come capitale costante, è cosi determinata la grandezza del capitale costante della sezione II. Se vi fosse una sproporzione, se per esempio il capitale costante in II (come grandezza di valore) fosse superiore a (v + p) I, non lo si potrebbe convertire interamente in mezzi di produzio­ ne, perché il fabbisogno in mezzi di sussistenza della sezio­ ne I sarebbe troppo piccolo. Se d ’altra parte il capitale co­ stante II fosse inferiore a (v + p) I, o le forze-lavoro di que­ sta sezione non potrebbero essere impiegate nella misura precedente, o i capitalisti non potrebbero consumare l ’inte­ ro plusvalore. In ognuno dei casi, le premesse della ripro­ duzione semplice verrebbero meno. Queste proporzioni non rappresentano tuttavia semplici esercizi matematici, né sono puramente determinate dalla forma mercantile della produzione. Per convincersene ba­ sta supporre per un momento che al posto del modo di pro­ duzione capitalistico vi sia quello socialista, cioè un’econo­ mia regolata secondo un piano, nella quale la divisione so-

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dale del lavoro sia subentrata allo scambio; anche in que­ sta società il lavoro sarebbe diviso in due settori, uno dei quali produce mezzi di produzione, l’altro mezzi di consu­ mo. Ammettiamo inoltre che il livello tecnico del lavoro esiga l’impiego di due terzi del lavoro sociale alla produzio­ ne di mezzi di produzione e di un terzo alla produzione di mezzi di sussistenza. Ammettiamo che, in queste condizio­ ni, per il mantenimento dell’intera parte lavoratrice della società bastino annualmente 1500 unità lavorative (giorni, mesi o anni), e, sempre secondo l’ipotesi, 1000 nella sezio­ ne mezzi di produzione, e 500 nella sezione mezzi di sussi­ stenza, consumandosi d ’altra parte ogni anno mezzi di pro­ duzione fabbricati in precedenti periodi di lavoro e rappre­ sentanti a loro volta il prodotto di 3000 unità lavorative. Il programma di lavoro cosi fissato non basta tuttavia alla so­ cietà, giacché il mantenimento di tutti i suoi membri non­ lavoranti (nel senso materiale, produttivo) —bambini, vec­ chi, malati, impiegati pubblici, artisti, scienziati —impone l’erogazione di una notevole eccedenza di lavoro. Inoltre, ogni società civile ha bisogno di un certo fondo di assicura­ zione contro accidenti di natura elementare. Ammettiamo dunque che il mantenimento dei non-lavoratori e la costi­ tuzione del fondo assicurazione richiedano altrettanto lavo­ ro quanto il mantenimento dei lavoratori, e perciò anche al­ trettanti mezzi di produzione. In base alle cifre dell’ipotesi, avremo il seguente schema di una produzione regolata: I. 4000 c + 1000 V+ 1000 p = 6000 mezzi di produzione II. 2000 c + 5 0 0 1>+ 500 p = 3000 mezzi di sussistenza dove c sono i mezzi di produzione materiali consumati, espressi in tempo di lavoro sociale, v rappresenta il tempo di lavoro socialmente necessario per il mantenimento dei la­ voratori, p il tempo di lavoro socialmente necessario per il mantenimento dei non-lavoratori e per il fondo di assicura­ zione. L ’analisi delle proporzioni dello schema dà quanto segue: in questo caso, non esiste produzione di merci e perciò scambio, ma divisione sociale del lavoro; i prodotti di I so­ no destinati nella quantità necessaria ai lavoratori di II, i 6

ii6

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prodotti di II sono destinati a tutti i lavoratori e non-lavoratori di entrambe le sezioni e al fondo assicurazione - non perché si effettui uno scambio fra equivalenti, ma perché l’intero processo è guidato secondo un piano dalla organiz­ zazione sociale, perché i bisogni esistenti vanno soddisfatti, perché la produzione non ha altro scopo se non quello di soddisfare i bisogni della società. E tuttavia, le proporzioni di grandezza conservano piena validità. Il prodotto di I deve essere uguale a I c + II c; ciò significa semplicemente che tutti i mezzi di produzione con­ sumati dalla società nel processo lavorativo annuale devo­ no essere annualmente rinnovati nella sezione I. Il prodot­ to II deve essere uguale alla somma [v + p ) I + (v + p)ll-, ciò significa che la produzione sociale annua di mezzi di consumo dev’essere pari al fabbisogno di tutti i membri la­ voranti e non-lavoranti della società, oltre a permettere ac­ cantonamenti in fondo-assicurazione. Le proporzioni ap­ paiono dunque altrettanto naturali e necessarie in una eco­ nomia regolata secondo un piano, quanto nell’economia ca­ pitalistica fondata sullo scambio delle merci e sull’anarchia produttiva. È cosi dimostrata la validità sociale obiettiva dello schema - sebbene, come riproduzione semplice, pos­ sa essere concepito, sia in una società capitalistica sia in una società regolata, solo da un punto di vista teorico, e nel­ la pratica si riscontri solo in via eccezionale. Cerchiamo ora di analizzare nello stesso modo lo schema della riproduzione allargata. Immaginiamo una società socialista, e poniamo a base dell’analisi lo schema del secondo esempio citato da Marx. Dal punto di vista di una società regolata, è chiaro che la questione andrà affrontata partendo non dalla sezione I ma dalla sezione II. Ammettiamo che la società cresca rapida­ mente, e che ne derivi un crescente fabbisogno in mezzi di sussistenza per lavoratori e non-lavoratori. Questo fabbiso­ gno ha un così rapido incremento che - lasciando momen­ taneamente da parte i progressi nella produttività del la­ voro —la produzione di mezzi di sussistenza richiede una quantità sempre crescente di lavoratori. Poniamo che la quantità necessaria di mezzi di sussistenza, espressa nel la­

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voro sociale in essi racchiuso, salga di anno in anno nel rap­ porto 2 0 0 0 -2 2 1 5 -2 3 9 9 -2 6 0 0 ecc. Per produrre questa massa crescente di mezzi di sussistenza, ammettiamo che si richieda dal punto di vista tecnico una massa crescente di mezzi di produzione il cui incremento di anno in anno - espresso in tempo di lavoro sociale —si compia nel rapporto 7000 - 7583 - 8215 - 8900 ecc. Ammettiamo inoltre che ai fini di questo aumento della produzione si richieda un’ero­ gazione annua di lavoro di 2570 - 2798 - 3030 - 3284 (le ci­ fre corrispondono alle rispettive somme ài (v + p ) I + (v +p) II). Infine, il lavoro annualmente erogato sia diviso in mo­ do che una metà venga ogni volta impiegata al manteni­ mento dei lavoratori, un quarto al mantenimento dei non­ lavoratori, l’ultimo quarto all’allargamento della produzio­ ne nell’anno successivo. Otteniamo così le proporzioni in una società socialista del secondo schema di Marx per la riproduzione allargata. In realtà, un allargamento della pro­ duzione è possibile in ogni società, e perciò anche in quella regolata, solo se: 1) la società dispone di un numero cre­ scente di forze-lavoro; 2) il mantenimento immediato della società in ogni periodo di produzione non impegna tutto il suo tempo di lavoro, in modo che una parte di questo tem­ po possa essere dedicata alle cure per l’avvenire e alle sue crescenti esigenze; 3) di anno in anno viene approntata una quantità sufficientemente crescente di mezzi di produzione, senza i quali un allargamento progressivo della produzione sarebbe irrealizzabile. Sotto questi punti di vista generali, lo schema marxiano della riproduzione allargata mantiene dunque la sua validi­ tà obiettiva - mutatis mutandis - anche per la società re­ golata. Esaminiamo ora la validità dello schema per l’economia capitalista. La prima domanda che dobbiamo farci è: qual è il punto di partenza dell’accumulazione? È sotto questo profilo che dobbiamo seguire la dipendenza reciproca fra i processi di accumulazione nelle due sezioni. Indubbiamen­ te, anche dal punto di vista capitalistico, la sezione II deve in tanto rifarsi alla sezione I, in quanto la sua accumulazio­ ne è legata alla disponibilità di una quantità corrispondente

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di mezzi di produzione addizionali. Inversamente, l ’accu­ mulazione nella sezione I è condizionata dall’esistenza di una corrispondente quantità addizionale di mezzi di sussi­ stenza per forze-lavoro supplementari. Ma da ciò non segue che basti osservare queste due condizioni perché anche l ’ac­ cumulazione si compia nelle due sezioni, e di anno in anno essa si verifichi automaticamente, come sembrerebbe dallo schema di Marx. Le condizioni suindicate dell’accumulazio­ ne sono appunto soltanto condizioni senza le quali l’accu­ mulazione non può aver luogo. Anche la volontà di accu­ mulare può essere presente tanto in I quanto in II : ma, in un’economia mercantile capitalistica, la volontà e le pre­ messe tecniche fondamentali dell’accumulazione non ba­ stano. Perché realmente si accumuli, cioè la produzione si allarghi, è necessaria una terza condizione: un allargamen­ to della domanda solvibile di merci. Da dove si origina la domanda continuamente crescente che sta alla base del progressivo allargamento della produzione nello schema di Marx? Una prima cosa è chiara: eh’essa non può venire dagli stessi capitalisti I e II, cioè dal loro consumo personale. Al contrario, l’accumulazione sta appunto nel fatto eh’essi non consumano personalmente una parte (crescente almeno in assoluto) del plusvalore, ma producono per altrettanto in beni che sono utilizzati da altri. È vero che il consumo per­ sonale dei capitalisti cresce con l’accumulazione, e può per­ fino crescere secondo il valore consumato. Ma è pur sempre solo una parte del plusvalore quella eh’è utilizzata per il consumo dei capitalisti. Fondamento dell’accumulazione è il non-consumo del plusvalore da parte dei capitalisti: per chi produce, dunque, quest’altra parte, questa parte accu­ mulata del plusvalore? Secondo lo schema di Marx, il movi­ mento si origina dalla sezione I, dalla produzione di mezzi di produzione. Chi ha bisogno di questi mezzi di produzio­ ne aumentati? Lo schema risponde: ne ha bisogno la sezio­ ne II per poter produrre piu mezzi di consumo. Ma chi ha bisogno dei mezzi di consumo aumentati? Lo schema ri­ sponde: la sezione I, essendo cresciuto il numero dei lavo­ ratori in essa impiegati. È chiaro che ci muoviamo in un cir­

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colo vizioso. Produrre piu mezzi di consumo solo per poter mantenere piu lavoratori, e produrre piu mezzi di produzio­ ne solo per impiegare questo sovrappiù di lavoratori, è dal punto di vista capitalistico un assurdo. Per il capitalista sin­ golo il lavoratore è un buon consumatore, cioè acquirente delle sue merci, - a condizione che possa pagarle, - allo stesso titolo di un capitalista o di chiunque altro. Nel prez­ zo delle merci ch’egli vende al lavoratore, ogni capitalista singolo realizza il proprio plusvalore esattamente come nel prezzo di ogni merce da lui venduta a qualsivoglia altro ac­ quirente. Non cosi dal punto di vista della classe capitalista considerata nel suo insieme. Questa dà alla classe lavoratri­ ce nel suo complesso solo un buono su una parte ben deter­ minata del prodotto sociale totale, per l’ammontare del ca­ pitale variabile. Quando perciò comperano mezzi di consu­ mo, i lavoratori non fanno che restituire alla classe capitali­ sta la somma ricevutane in salari (il buono), fino a concor­ renza del capitale variabile. Di più non possono restituire: semmai ne restituiranno di meno, ad esempio se «rispar­ miano» per rendersi indipendenti, per divenire piccoli intraprenditori, il che rappresenta tuttavia un’eccezione. Una parte del plusvalore lo consuma la stessa classe capitalista sotto forma di mezzi di sussistenza, e conserva nelle pro­ prie tasche il denaro scambiato reciprocamente in quest’o­ perazione. Ma chi assorbe i prodotti nei quali è incorporata l’altra parte, la parte capitalizzata, del plusvalore? Lo sche­ ma risponde: in parte gli stessi capitalisti, producendo nuo­ vi mezzi produttivi ai fini dell’allargamento della produzio­ ne, in parte nuovi lavoratori resi necessari dall’impiego di questi nuovi mezzi produttivi. Ma per far lavorare nuovi la­ voratori con nuovi mezzi di produzione, bisogna avere pre­ liminarmente - dal punto di vista capitalistico - uno scopo per allargare la produzione, una nuova richiesta di prodotti da fabbricare. Si potrebbe forse rispondere: questa crescente domanda è determinata dall’incremento naturale della popolazione. In realtà, nella nostra analisi ipotetica della riproduzione allargata in una società socialista, noi siamo partiti dall’in­ cremento della popolazione e dai suoi bisogni. Ma qui i bi­

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sogni sociali sono base sufficiente e scopo unico della pro­ duzione. Nella società capitalistica il problema si pone in modo del tutto diverso. A quale popolazione ci riferiamo, parlando del suo incremento? Nello schema di Marx non conosciamo se non due classi della popolazione: capitalisti e lavoratori. L ’incremento della classe capitalista è già pre­ visto nell’aumento assoluto di grandezza della parte consu­ mata del plusvalore. Comunque, esso non potrà mai assor­ bire senza residui il plusvalore; altrimenti ritorneremmo al­ la riproduzione semplice. Restano i lavoratori. Anche la classe lavoratrice cresce per incremento naturale. Ma que­ sto incremento non interessa di per sé l’economia capitali­ stica come punto di partenza di bisogni crescenti. La produzione di mezzi di consumo a copertura di I v e di I I v non è qui fine a se stessa come in una società in cui i lavoratori e la soddisfazione dei loro bisogni formano la base del sistema economico. Se nella sezione II vengono prodotti (capitalisticamente) tanti mezzi di consumo, non è perché la classe lavoratrice di I e II debba essere nutrita. Al contrario, tanti lavoratori in I e II possono nutrirsi, per­ ché la loro forza-lavoro può trovare impiego nelle condizio­ ni date di smercio. Cioè, punto di partenza della produzio­ ne capitalistica non sono un certo numero di lavoratori e il loro fabbisogno; al contrario, queste stesse grandezze non sono se non «variabili dipendenti» e continuamente oscil­ lanti delle prospettive di profitto. Ci si chiede perciò se l’in­ cremento naturale della popolazione lavoratrice significhi anche un nuovo aumento della domanda solvibile oltre i li­ miti del capitale variabile. La risposta è negativa. Nel no­ stro schema, l’unica fonte di mezzi monetari per la classe lavoratrice è il capitale variabile. Il capitale variabile inclu­ de perciò a priori l’incremento della mano d ’opera. Delle due Puna: o i salari sono calcolati in modo da nutrire anche la progenie dei lavoratori, e allora l’incremento della popo­ lazione lavoratrice non può essere preso a base del consu­ mo allargato; o la prima condizione non si verifica, e allora anche la nuova generazione lavoratrice dovrà fornir lavoro per procacciarsi salari e sussistenze, nel qual caso le «nuo­ ve leve» operaie sono già incluse nel numero degli operai

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occupati. L ’incremento naturale della popolazione non può dunque spiegare il processo dell’accumulazione nello sche­ ma di Marx. Ma un momento! La società —anche sotto il dominio del capitalismo - non si compone soltanto di capitalisti e di la­ voratori salariati. Al di fuori di queste due classi vivono larghi strati della popolazione: proprietari terrieri, impie­ gati, liberi professionisti, medici, avvocati, artisti, scienzia­ ti, la chiesa coi suoi dipendenti, il clero, e infine lo Stato coi suoi funzionari e il suo esercito; tutti ceti che non apparten­ gono in senso stretto né alla classe capitalista né a quella operaia, ma che la società deve pur sempre nutrire e mante­ nere. Sarà dunque la domanda di questi strati non compo­ sti né di capitalisti né di lavoratori a render necessario l’al­ largamento della produzione. Ma questa scappatoia è tale solo in apparenza. I proprietari terrieri, in quanto consuma­ tori di rendite, cioè di una parte del plusvalore capitalistico, sono evidentemente da attribuirsi alla classe dei capita­ listi, il loro consumo è già calcolato nel consumo di questa classe (non dimentichiamo che finora il plusvalore è sempre considerato nella sua forma primaria indivisa). I liberi pro­ fessionisti ricevono i loro mezzi monetari, i rispettivi buoni su una parte del prodotto sociale, perlopiù direttamente o indirettamente dalla classe capitalistica, che li tacita con bri­ ciole del suo plusvalore; perciò, in quanto consumatori di plusvalore, rientrano nella categoria della classe capitalisti­ ca. Lo stesso vale per il clero, con la sola differenza che questo riceve i suoi mezzi monetari, in parte, anche dai la­ voratori e perciò dai salari. Infine, lo Stato coi suoi funzio­ nari e col suo esercito è mantenuto mediante le tasse, e que­ ste gravano o sul plusvalore o sul salario. No, nei limiti del­ lo schema di Marx, noi non conosciamo se non due fonti di reddito nella società: salario e plusvalore; tutti gli strati di popolazione che non appartengono né alla classe capitalisti­ ca né alla classe lavoratrice possono essere soltanto compar­ tecipi di queste due specie di reddito. Lo stesso Marx riget­ ta come una scappatoia l’ipotesi che acquirenti siano queste «terze persone»; «Tutti i membri della società che non fi­ gurano direttamente nella riproduzione, con o senza lavoro,

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possono ricevere la loro parte della massa di merci annual­ mente prodotte - e perciò i loro mezzi di sussistenza —solo dalle mani delle classi alle quali questo prodotto è in prima istanza destinato - lavoratori produttivi, capitalisti indu­ striali, proprietari fondiari; e il loro reddito è, materialiter, dedotto dal salario (dei lavoratori produttivi), dal profitto e dalla rendita, rappresentando rispetto a quei redditi ori­ ginari dei redditi derivati. D ’altra parte, i beneficiari di que­ sti redditi “ derivati ” li ricevono grazie alla loro funzione sociale di re, parroco, professore, prostituta, soldato ecc., e sono perciò portati a vedere in queste loro funzioni la fonte originale del proprio reddito» Quanto al rinvio ai consu­ matori di interessi e di rendite fondiarie come possibili ac­ quirenti, Marx scrive: «M a se la parte del plusvalore delle merci, che il capitalista industriale deve cedere come rendi­ ta fondiaria o come interesse ad altri comproprietari del plusvalore, non è alla lunga realizzabile mediante vendita di merci, allora addio anche pagamento di rendite e interes­ si. Perciò i proprietari terrieri e i percettori di interessi non possono, con le loro spese, fungere da dei ex machina nel senso della traduzione in denaro di una certa parte della riproduzione annua. Lo stesso vale per le spese dell’insieme dei cosiddetti lavoratori improduttivi: impiegati statali, me­ dici, avvocati ecc., e di quanti, sotto forma di “ gran pubbli­ co ” rendono agli economisti il “ servigio ” di spiegare ciò eh’essi non spiegano»12. Essendo dunque impossibile trovare all’interno della so­ cietà capitalistica gli acquirenti visibili delle merci in cui la parte accumulata del plusvalore si nasconde, non resta che una via d ’uscita: il commercio estero. Ma il metodo di con­ siderare il commercio estero un comodo sbocco per le mer­ ci delle quali, nel processo della riproduzione, non si sa che altro fare, urta contro diverse obiezioni. Il rinvio al com­ mercio estero non fa che spostare da un paese all’altro, sen­ za risolverla, la difficoltà nella quale ci si era imbattuti du­ rante l’analisi. Infatti, l’analisi del processo della riprodu1 Vas Kapital, libro II, p. 346 [sez. I l l , cap. XIX, 2]. 2 Ibid., p. 432 [sez. I l l , cap. XI, i] .

LA RIPRODUZIONE ALLARGATA IN MARX

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zione non si riferisce a un singolo paese capitalistico, ma al mercato capitalistico mondiale, rispetto a cui tutti i paesi sono territorio interno. Marx sottolinea espressamente que­ sto punto nel I libro del Capitale parlando dell’accumula­ zione: «Astraiamo qui dal commercio di esportazione, gra­ zie al quale una nazione può convertire articoli di lusso in mezzi di produzione o di sussistenza, e viceversa. Per stu­ diare l ’oggetto della ricerca nella sua purezza, indipendente­ mente da circostanze accessorie suscettibili di turbarla, dob­ biamo considerare l’intero mondo commerciale come una nazione sola, e presupporre che la produzione capitalistica si sia installata dovunque e si sia impadronita di tutti i ra­ mi dell’industria» '. La stessa difficoltà è offerta dall’analisi se l’affrontiamo da un altro lato. Nello schema marxiano dell’accumulazio­ ne è presupposto che la parte da capitalizzare del plusvalo­ re sociale venga alla luce fin dall’inizio nella forma naturale che condiziona e permette il suo impiego ai fini dell’accu­ mulazione: «In una parola, il plusvalore è convertibile in capitale solo perché il sovraprodotto di cui è valore contie­ ne già le parti componenti materiali di un nuovo capitale»12. Per esprimerci con le cifre dello schema: I. 3000 c + 1000 t; + 1000 p = 7000 mezzi di produzione II. 1430 c + 2 8 3 ^ + 283 p = 2000 mezzi di consumo Qui il plusvalore può esser capitalizzato per l’ammonta­ re di 370 p perché consiste fin dall’inizio in mezzi di produ­ zione; ma a questa quantità di mezzi di produzione corri­ sponde una quantità addizionale di mezzi di sussistenza per l’ammontare di 114 p, per cui possono essere capitalizzati complessivamente 684 p. Ma il processo qui indicato di semplice trasferimento dei corrispondenti mezzi di produ­ zione al capitale costante e dei mezzi di consumo al capitale variabile contraddice alle basi della produzione mercantile capitalistica. Il plusvalore, in qualunque forma naturale si nasconda, non può essere, ai fini dell’accumulazione, trasfe­ 1 Das Kapital, libro I, p. 544, nota 2 ia [sez. V II, cap. XXII]. 2 Ibid.

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IL PROBLEM A DELLA RIPRODUZIONE

rito direttamente sul posto di produzione, ma deve prima essere realizzato, cioè scambiato in denaro \ Il plusvalore della sezione I (500) potrebbe essere capitalizzato, ma a questo fine bisogna anzitutto che sia realizzato, che si sia spogliato della sua forma naturale e abbia assunto la sua pu­ ra forma di valore, prima di poter essere aggiunto al capitale produttivo. Ciò si riferisce non soltanto ad ogni capitalista singolo, ma all’insieme sociale dei capitalisti, giacché la rea­ lizzazione del plusvalore nella pura forma del valore è una delle condizioni fondamentali della produzione capitalistica e, in un’analisi sociale della riproduzione, «non si deve ca­ dere nella maniera imitata da Proudhon degli economisti borghesi e considerare la cosa come se la società fondata sul modo di produzione capitalistico, considerata en bloc, co­ me totalità, perdesse il suo carattere storico-economico spe­ cifico. Al contrario: si ha allora a che fare con il capitali­ st collettivo»12. Il plusvalore deve dunque necessariamen­ te prendere la forma monetaria, spogliarsi della forma di sovraprodotto, prima di riassumerla ai fini dell’accumula­ zione. Ma che cosa e chi sono gli acquirenti del sovrapro­ dotto di I e II? Anche solo per realizzare il plusvalore di I e II, è necessario, secondo quanto abbiamo detto, che sia già presente uno sbocco all’infuori di I e II. Ma quello che si sarebbe cosi ottenuto è soltanto la conversione del plus­ valore in denaro. Perché il plusvalore realizzato possa esser fatto ulteriormente servire all’allargamento della produzio­ ne, all’accumulazione, è necessaria la prospettiva di uno smercio futuro ancor maggiore, pur esso all’infuori di I e II. Il collocamento del sovraprodotto deve dilatarsi anno per anno della frazione accumulata di plusvalore. O, vice­ versa, l’accumulazione può compiersi solo nella misura in cui lo smercio al di fuori di I e II si allarga. 1 Prescindiamo qui dai casi in cui una parte del prodotto, per esempio carbone nelle miniere di carbone, può rientrare direttamente, senza scambio, nel processo produttivo. Nel complesso della produzione capitalistica, sono questi, tuttavia, casi eccezionali. Cfr. K. MARX, Theorien über den Mehrwert, vol. II, parte II, pp. 255 sgg. [trad. it. cit., vol. II, pp. 536 sgg.]. 2 Das Kapital, libro II, p. 409 [sez. II, cap. XX, par. vin].

C A P IT O L O OTTAVO L E

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Come si vede, prescindere completamente dalla circola­ zione monetaria nello schema della riproduzione allargata, in cui il processo dell’accumulazione sembrava svolgersi in modo pur cosi semplice e normale, provoca gravi inconve­ nienti. Questo modo di procedere era pienamente giustifi­ cato nell’analisi della riproduzione semplice, dove la produ­ zione avviene unicamente in vista del consumo e sulla sua base, e il denaro non serve che da temporaneo mediatore della distribuzione del prodotto sociale fra i diversi gruppi di consumatori, e del rinnovo del capitale. Nel caso dell’ac­ cumulazione, invece, il denaro ha una funzione essenziale: non è soltanto l’intermediario della circolazione delle mer­ ci, ma la forma in cui il capitale si manifesta, elemento del­ la circolazione del capitale. La conversione del plusvalore nella sua forma monetaria è il presupposto economico del­ l’accumulazione capitalistica, anche se non è un fattore es­ senziale della riproduzione vera e propria. Fra produzione e riproduzione si situano, in questo caso, due metamorfosi del sovraprodotto: l’eliminazione della sua forma d ’uso; l’assunzione della forma naturale corrispondente ai fini del­ l’accumulazione. Che fra i singoli periodi della produzione corrano frazioni di anno non interessa: possono essere me­ si, cosi com’è possibile che le metamorfosi di singole parti del plusvalore in I e II s’incrocino nella loro successione temporale. Ciò che questa serie di anni significa in realtà non sono frazioni di tempo ma successioni di cicli economi­ ci. Se il carattere capitalistico dell’accumulazione deve esse­ re conservato, questa successione va mantenuta, non im­ porta quanto tempo essa richieda. Torniamo cosi alla que­ stione: chi realizza il plusvalore accumulato?

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È lo stesso Marx ad avvertir la lacuna nel suo pur cosi serrato schema dell’accumulazione, e ad affrontare ripetutamente da piu parti l’argomento. Ascoltiamo: «Abbiamo mostrato nel I libro come l’accumulazione si svolga per il capitalista singolo. Mediante la traduzione in denaro del capitale-merci, risulta tradotto in denaro anche il sovraprodotto in cui il plusvalore si manifesta. Questo plusvalore cosi convertito in denaro il capitalista lo ricon­ verte in elementi naturali addizionali del suo capitale pro­ duttivo. Nel ciclo successivo della produzione, il capitale aumentato genera un prodotto aumentato. Ma ciò che si verifica per il capitale individuale deve verificarsi anche nel­ la riproduzione totale annua, esattamente come, analizzan­ do la riproduzione semplice, si è visto che la successiva im­ mobilizzazione in denaro tesaurizzato delle parti fìsse con­ sumate del capitale individuale si manifesta anche nella riproduzione sociale annua» '. Successivamente, Marx analizza il meccanismo dell’accu­ mulazione appunto da quest’angolo visuale, cioè nel pre­ supposto che il plusvalore, prima di essere accumulato, deb­ ba assumere la forma di denaro: « Se ad esempio il capitalista A vende in un anno o in di­ versi anni le quantità successive di merci da lui prodotte, egli converte successivamente in denaro anche la parte di prodotto-merci che rappresenta il plusvalore (quindi il plus­ valore prodotto in forma di merci), accantona via via que­ sto denaro e costituisce un nuovo capitale monetario poten­ ziale; potenziale a causa della sua facoltà e potere di con­ vertirsi in elementi del capitale produttivo. In realtà, tutta­ via, egli non compie che una semplice tesaurizzazione, e questa non è un elemento della riproduzione reale. La sua attività consiste soltanto nel sottrarre successivamente del denaro circolante alla circolazione; dove naturalmente non è escluso che il denaro circolante messo cosi sotto chiave fa­ cesse —prima del suo ingresso nella circolazione —parte di un altro tesoro. « Il denaro viene sottratto alla circolazione e tesaurizzato 1 Das Kapital, libro II, p. 465 [sez. I ll, cap. XXI],

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mediante vendita delle merci senza successiva compera. Se si considera quest’operazione come svolgentesi su scala ge­ nerale, non si vede da dove i compratori dovrebbero saltar fuori, giacché in questo processo - che bisogna appunto concepire come generale, potendo ogni capitale singolo tro­ varsi in fase di accumulazione - ognuno vuol vendere per accumulare, nessuno comprare. «Se s’immaginasse il processo della circolazione fra le di­ verse parti della riproduzione annua come svolgentesi in li­ nea retta - ciò eh’è falso, giacché esso si compone in realtà, salvo rare eccezioni, di movimenti in continuo andirivieni — bisognerebbe partire dal produttore d ’oro (o d’argento) che compra senza vendere, e supporre che tutti gli altri venda­ no a lui. In tal caso, l’intero sovraprodotto sociale annuo (rappresentante il plusvalore totale) passerebbe nelle sue mani, e tutti gli altri capitalisti si ripartirebbero pro rata il suo sovraprodotto, esistente per natura in denaro; giacché la parte del suo prodotto destinata a sostituire il suo capi­ tale funzionante sarebbe già alienata. Il plusvalore, prodot­ to in oro, del produttore di cui sopra sarebbe cosi il fondo unico al quale tutti gli altri capitalisti attingerebbero la ma­ teria per la conversione in denaro del loro sovraprodotto annuo, e dovrebbe uguagliare in valore l’intero plusvalore sociale annuo, che deve cominciare col trasformarsi in teso­ ro. Oltre che assurde, queste ipotesi potrebbero servire sol­ tanto a spiegare la possibilità di una tesaurizzazione gene­ rale contemporanea, mentre la riproduzione non farebbe un passo avanti, se non dal lato del produttore d’oro. «Prima di risolvere quest’apparente difficoltà, dobbiamo distinguere ecc.» '. Marx chiama dunque «apparente» la difficoltà sorta in merito alla realizzazione del plusvalore. Eppure, tutta l’a­ nalisi successiva, fino alla fine del II libro del Capitale, non è che un continuo sforzo per superarla. Dapprima, Marx cerca di risolvere il problema rinviando alla tesaurizzazio­ ne, che, nel caso della produzione capitalistica, si origina inevitabilmente dallo scomporsi, nel processo della circolaDas Kapital, libro II, pp. 466-68 [sez. Ill, cap. XXI].

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zione, di diversi capitali costanti. Poiché gli investimenti individuali di capitale presentano un’età diversa, ma una parte degli investimenti si rinnova sempre dopo un periodo piu lungo, avviene che in ogni momento qualche capitalista singolo sia già in procinto di rinnovare i propri investimen­ ti, mentre altri vanno accantonando a questo scopo con la vendita delle proprie merci, fino a raggiungere il livello ne­ cessario al rinnovo del capitale fisso. Cosi, sulla base del modo di produzione capitalistico, la tesaurizzazione proce­ de sempre parallela al processo della riproduzione sociale, come manifestazione e condizione insieme del rinnovo del capitale fisso. «Poniamo che A venda 600 (=400 c + 100 v + + 100 p) a B (che può rappresentare anche piu di un compra­ tore). H a dunque venduto merci per 600 contro 600 in de­ naro, di cui 100 rappresentano un plusvalore ch’egli sottrae alla circolazione e accantona come denaro. Ma questi 100 in denaro non sono se non la forma monetaria del sovraprodotto, portatore di un valore 100. [Per cogliere il problema nella sua purezza, Marx ammette qui che l’intero plusvalo­ re venga capitalizzato; prescinde dunque dalla parte di plus­ valore impiegata nel consumo personale del capitalista; inoltre, tanto gli A', A", A"', quanto i B', B", B '", apparten­ gono alla sezione I ] , La tesaurizzazione non è produzione, e perciò neppure incremento della produzione. Il capitali­ sta si limita a sottrarre alla circolazione il denaro 100 otte­ nuto mediante la vendita del sovraprodotto e a metterlo sotto chiave. Quest’operazione avviene non soltanto da par­ te di A, ma, su diversi punti della periferia della circolazio­ ne, da parte di altri capitalisti A', A", A"'... Ora, A tesauriz­ za solo in quanto - in rapporto al suo sovraprodotto - inter­ viene unicamente come venditore e non, successivamente, come compratore. Premessa della sua tesaurizzazione è dun­ que la sua successiva produzione di sovraprodotto (portato­ re del plusvalore ch’egli deve tradurre in denaro). Nel caso specifico, dove è considerata soltanto la circolazione all’in­ terno della sezione I, la forma naturale del sovraprodotto, e del prodotto totale di cui esso costituisce una parte, è forma naturale di un elemento del capitale costante I, cioè appar­ tiene alla categoria dei mezzi per la produzione di mezzi di

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produzione. Che cosa ne avvenga, quale funzione abbia nel­ le mani dei compratori B', B", B vedremo presto. Rimane frattanto stabilito che, sebbene A sottragga del denaro alla circolazione per il suo plusvalore, e lo tesaurizzi, vi getta tuttavia delle merci senza ritirarne in cambio altre, permet­ tendo cosi a B, B', B" ecc. di gettarvi del denaro e ritirarne solo merci. Nel caso dato, questa merce trapassa, secondo la sua forma naturale e la sua destinazione, nel capitale co­ stante di B, B', ecc. come elemento fisso o circolante» \ Il processo qui illustrato non ci è nuovo. Marx lo ha già diffusamente esposto nel caso della riproduzione semplice, in quanto elemento indispensabile per spiegare come, nelle condizioni della riproduzione capitalistica, il capitale co­ stante della società si rinnovi. Non si vede perciò a tutta prima come possa aiutarci a superare la difficoltà in cui ci siamo imbattuti nell’analisi della riproduzione allargata. La difficoltà era, infatti, la seguente: poiché ai fini dell’ac­ cumulazione una parte del plusvalore non è consumato dai capitalisti ma aggiunto al capitale per aumentare la produ­ zione, si chiede dove siano gli acquirenti del prodotto addi­ zionale che i capitalisti non consumano, e che gli operai so­ no ancora meno in grado di consumare in quanto il loro consumo è già totalmente coperto dall’ammontare del capi­ tale variabile. Dov’è la domanda del plusvalore accumula­ to o, secondo la formulazione di Marx, da dove viene il de­ naro necessario per pagare il plusvalore accumulato? Se per tutta risposta ci si rinvia al processo della tesaurizzazione generantesi dal rinnovo graduale e suddiviso nel tempo del capitale costante ad opera dei capitalisti singoli, non si ve­ de che legame esista fra le due cose. Se B, B', B” ecc. com­ prano dai loro colleghi A, A', A", ecc. mezzi di produzione al fine di rinnovare il capitale costante effettivamente con­ sumato, ci ritroviamo entro i limiti della riproduzione sem­ plice, e la faccenda non interessa la difficoltà nella quale ci dibattiamo. Ma se si aggiunge che l’acquisto di mezzi di produzione da parte di B, B’, B” ecc. serve all’aumento del loro capitale costante ai fini dell’accumulazione, ecco di colDas Kapital, libro II, p. 469 [sez. I ll, cap. XXI, par. x, 1].

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po nuovi interrogativi affacciarsi. Anzitutto: dove si sono procurati, B, B', B" ecc., il denaro per acquistare da A, A', A" ecc., il sovraprodotto eccedente? Non possono averlo ottenuto che in un modo: vendendo il loro sovraprodotto. Prima di potersi procacciare nuovi mezzi di produzione per ampliare le proprie aziende, prima di apparire come com­ pratori del sovraprodotto da accumulare, devono sbarazzar­ si del proprio sovraprodotto, cioè presentarsi come vendito­ ri. A chi hanno dunque venduto il loro sovraprodotto, i B, B', B" ecc.? Come si vede, la difficoltà è stata bensì sposta­ ta dagli A, A', A" ecc. ai B, B', B" ecc., ma non superata. Per un momento sembra, durante l’analisi, che la diffi­ coltà sia risolta. Dopo una piccola digressione, Marx ripren­ de il filo dell’indagine, e scrive: «N el caso qui considerato, il sovraprodotto consta fin dall’inizio di mezzi per la produzione di mezzi di produzio­ ne. Solo nelle mani di B, B', B” (I) ecc. il sovraprodotto funge come capitale costante addizionale; ma lo era già vir­ tualmente, prima d ’essere venduto, nelle mani dei tesaurizzatori A, A', A" (I). Se non consideriamo che la grandezza di valore della riproduzione da parte I, ci troviamo ancora entro i confini della riproduzione semplice, poiché nessun capitale supplementare è stato messo in moto per creare questo capitale costante virtuale addizionale (il sovrapro­ dotto), né vi è stato un maggior pluslavoro di quello eroga­ to sulla base della riproduzione semplice. La differenza sta soltanto nella forma del pluslavoro impiegato, nella natura concreta del suo particolare modo d ’uso. Esso è stato ero­ gato in mezzi di produzione per I c invece che per II c, in mezzi per la produzione di mezzi di produzione invece che in mezzi di produzione di mezzi di consumo. Nella riprodu­ zione semplice si era presupposto che l’intero plusvalore I fosse speso come reddito, e perciò in merci II : esso consi­ steva dunque unicamente dei mezzi di produzione destina­ ti a reintegrare il capitale costante II c nella sua forma na­ turale. Perché dunque possa effettuarsi il passagio dalla riproduzione semplice all’allargata, la produzione nella sezio­ ne I deve essere in grado di produrre meno elementi del ca­ pitale costante per II e altrettanti di piu per I... Ne segue

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che - considerando solo la quantità di valore —il substrato materiale della riproduzione allargata è prodotto nell’am­ bito della riproduzione semplice, come pluslavoro della classe lavoratrice I speso direttamente nella produzione di mezzi di produzione, nella creazione di capitale virtuale ad­ dizionale I. La creazione di capitale denaro virtuale addi­ zionale da parte di A, A', A" (I) - mediante successiva ven­ dita del loro sovraprodotto ottenuto senza la minima ero­ gazione capitalistica di denaro —non è qui se non la pura forma monetaria dei mezzi di produzione I prodotti sup­ plementarmente» Si direbbe qui che la difficoltà ci si sia sciolta fra le mani. L ’accumulazione non esige nessuna nuova fonte di denaro: prima, i capitalisti consumavano essi stessi il loro plusvalo­ re e dovevano perciò detenere una corrispondente riserva di denaro, giacché l’analisi della riproduzione semplice ci ha insegnato che la stessa classe capitalistica deve gettare nella circolazione il denaro richiesto per la realizzazione del suo plusvalore; ora la classe capitalistica acquista, per una parte di questa riserva monetaria (B, B', B" ecc.), invece di mezzi di consumo, nuovi mezzi di produzione addizionali per allargare la propria produzione. In tal modo un uguale ammontare di denaro si accumula nelle mani dell’altra par­ te dei capitalisti (A, A', A" ecc.). «Questa tesaurizzazione non presuppone in alcun modo una ricchezza supplementa­ re in metalli nobili, ma soltanto una diversa funzione del denaro finora circolante. Testé, questo funzionava come mezzo di circolazione; ora funge come tesoro, come capita­ le monetario in formazione, virtualmente nuovo»2. La difficoltà sarebbe così superata. Tuttavia non è diffici­ le capire che cosa ne abbia reso tanto facile la soluzione. Marx considera qui la riproduzione ai suoi primi passi, in statu nascendi, nell’atto di sgorgare dalla riproduzione sem­ plice. Dal punto di vista della grandezza di valore la produ­ zione non è ancora allargata: solo la sua composizione e i 1 Das Kapital, libro II, p. 473 [sez. Ill, cap. XXI, par. 1, a], 2 Das Kapital, libro II, p. 474-

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suoi elementi materiali appaiono diversamente ordinati. E non è un miracolo che anche le sorgenti di denaro appaiano sufficienti allo scopo. Ma la soluzione regge solo un attimo, quanto dura il passaggio dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata, cioè per un caso puramente teorico, non constatabile nella realtà. Se invece l’accumulazione si è già da tempo affermata e, ad ogni periodo di produzione, getta sul mercato una massa di valore sempre piu grande della precedente, dove sono —ci si chiede ancora —gli ac­ quirenti di questi valori addizionali? La soluzione che ave­ vamo trovato ci lascia allora senza risposta. Inoltre, è anch’essa soltanto apparente: ci sfugge di mano nel preciso istante in cui sembrava averci tratti d ’impiccio. Infatti, se consideriamo l’accumulazione nell’atto in cui sta per sboc­ ciare dal seno della riproduzione semplice, sua premessa è una diminuzione del consumo della classe capitalista. Nello stesso istante in cui ci si presenta la possibilità di riprende­ re coi precedenti mezzi di circolazione un allargamento del­ la produzione, ecco dunque sfuggirci un corrispondente nu­ mero di vecchi consumatori. Ma per chi si dovrà, allora, al­ largare la produzione? Chi comprerà domani da B, B' B" (I) la quantità supplementare di prodotti eh’essi hanno fab­ bricato «togliendosi il denaro di bocca» per comprare ad A, A', A" (I) nuovi mezzi di produzione? Come si vede, apparente era non la difficoltà ma la solu­ zione, e lo stesso Marx torna subito dopo a chiedersi: da do­ ve B, B', B" derivano il denaro necessario per comprare ad A, A', A" il loro sovraprodotto? «In quanto i prodotti di B, B', B" ecc. (I) rientrano in natura nel processo, è ovvio che pro tanto una parte del loro sovraprodotto viene trasferita direttamente (senza pro­ cesso circolatorio) nel loro capitale produttivo, dove entra anche come elemento addizionale del capitale costante. Ma è anche vero che, pro tanto, essi non convertono in denaro il sovraprodotto di A, A' ecc. (I). Prescindendo da ciò, da dove viene il denaro? Sappiamo che, come A, A', A", essi hanno costituito un tesoro vendendo i rispettivi sovraprodotti, e si trovano ora al punto che il loro capitale-denaro, accumulato come tesoro e perciò soltanto virtuale, deve po­

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ter fungere effettivamente come capitale monetario addi­ zionale. Ma in questo modo non facciamo che girare su noi stessi, e il problema resta: da dove viene il denaro che i B (I) hanno precedentemente sottratto alla circolazione, e ac­ cumulato?» Di una semplicità non meno sorprendente sembra la ri­ sposta data da Marx: «Sappiamo tuttavia, dall’analisi della riproduzione semplice, che nelle mani dei capitalisti I e II deve trovarsi, per convertire il loro sovraprodotto, una cer­ ta massa monetaria. Là, il denaro speso come reddito in mezzi di consumo tornava ai capitalisti nella stessa misura in cui l’avevano anticipato per lo scambio delle rispettive merci; qui lo stesso denaro riappare ma con diversa funzio­ ne. Gli A e i B (I) si forniscono a vicenda il denaro per la conversione del sovraprodotto in capitale monetario virtua­ le addizionale, e rigettano alternativamente nella circolazio­ ne, come mezzo di acquisto, il capitale monetario di nuova formazione»2. Siamo così ricaduti nella circolazione semplice. Perfetta­ mente d’accordo che i capitalisti A e i capitalisti B accumu­ lano sempre, a poo a poco, un tesoro, per rinnovare di tem­ po in tempo il proprio capitale costante (fisso), e perciò si aiutano vicendevolmente a realizzare il proprio prodotto. Ma questo tesoro in formazione graduale non cade dal cie­ lo; è il precipitato lentamente depositantesi del valore del capitale fisso trasferito via via nei prodotti, e realizzato man mano con la loro vendita. In tal modo, il tesoro accantonato può bastare sempre soltanto al rinnovo del vecchio capitale, ma è impossibile che serva, oltre a ciò, all’acquisto di un ca­ pitale costante addizionale: il che significa rimanere ancora nel quadro della riproduzione semplice. Ovvero interviene come nuova sorgente di denaro addizionale una parte dei mezzi di circolazione serviti fin adesso al consumo persona­ le dei capitalisti e ora destinati alla capitalizzazione; ma al­ lora ricadiamo nel breve periodo eccezionale, pensabile solo da un punto di vista teorico, del passaggio dalla riproduzio­ ne semplice alla riproduzione allargata. Al di là di questo 1 Das Kapital, libro II, p. 476 [sez. Ill, cap. XXI, par. 11]. 2 Ibid.

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salto l’accumulazione non si spinge; continuiamo a muover­ ci in un circolo vizioso. La tesaurizzazione capitalistica non ci libera, dunque, dal­ le difficoltà nelle quali eravamo caduti. Era prevedibile, da­ ta l’impostazione errata del problema. Il problema dell’ac­ cumulazione non è: da dove viene il denaro?, ma: da dove viene la domanda del prodotto addizionale che si origina dal plusvalore capitalizzato? Non, dunque, problema tecnico della circolazione del denaro, ma problema economico della riproduzione del capitale sociale totale. Infatti, anche pre­ scindendo dal problema finora esclusivamente dibattuto da Marx - da dove proviene ai B, B' ecc. (I) il denaro occorren­ te per acquistare mezzi di produzione supplementari da A, A' ecc. (I)? —una volta compiuta l’accumulazione risorge la ben piu importante domanda: a chi pretendono di vendere, ora, il sovraprodotto aumentato, i B, B' ecc. (I)? E Marx fi­ nisce per immaginare che si vendano a vicenda i prodotti! «Può darsi che i diversi B, B', B " ecc. (I), il cui nuovo ca­ pitale monetario virtuale entra in funzione come capitale at­ tivo, debbano comprarsi e vendersi a vicenda i loro prodot­ ti (parti del loro sovraprodotto). Pro tanto, il denaro antici­ pato per la circolazione del sovraprodotto ritorna ai diversi B —dato un circuito normale —nella stessa proporzione in cui lo hanno anticipato per la circolazione delle rispettive merci» ‘. Ma pro tanto non si risolve il problema, giacché i B, B' ecc. (I) non hanno certo rinunciato a una parte del consumo e allargato la loro produzione per comprarsi l’un l’altro il prodotto aumentato-cioè mezzi di produzione. D ’altra par­ te, anche ciò è possibile solo in misura molto ridotta. Infat­ ti, secondo l ’ipotesi di Marx, all’interno di I vige una certa divisione del lavoro, per cui A, A', A" ecc. (I) producono mezzi per la produzione di mezzi di produzione; B, B', B” ecc. (I ), invece, mezzi di produzione di mezzi di consumo. Se perciò il prodotto degli A, A' ecc. è potuto restare nell’am­ bito della sezione I, il prodotto dei B, B' ecc. è destinato a priori, data la sua forma naturale, alla sezione II (produzio1 Das Kapital, libro II, p. 477 [sez. Ill, cap. XXI, par. 1, 3].

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ne di mezzi di sussistenza). Perciò l’accumulazione nei B, B' ecc. porta già alla circolazione fra I e II: lo stesso svolgi­ mento dell’analisi di Marx conferma che, se all’interno della sezione II deve verificarsi accumulazione, dev’esservi alla fine, direttamente o indirettamente, nella sezione mezzi di sussistenza, un’aumentata richiesta di mezzi di produzione. Gli acquirenti del prodotto addizionale della sezione I do­ vranno dunque essere cercati qui, fra i capitalisti II. In realtà il secondo tentativo fatto da Marx per risolvere il problema punta sulla domanda dei capitalisti II. La loro richiesta di mezzi di produzione addizionali può avere sol­ tanto un senso: eh’essi aumentino il loro capitale costante II c. Ma è proprio qui che tutta la difficoltà balza agli occhi: «Ammettiamo che A (I) traduca in denaro il suo sovraprodotto vendendolo a B della sezione II. Ciò può avvenire in un solo modo: che egli, dopo di aver venduto mezzi di produzione a B (II), non compri mezzi di consumo; cioè so­ lo mediante una vendita unilaterale da parte sua. Ma II c può passare dalla forma di capitale merci alla forma natura­ le di capitale costante produttivo all’unica condizione che non soltanto I v ma anche una parte almeno di I p si scambi contro una parte di II c, quest’ultimo esistente in forma di mezzi di consumo; d ’altronde, A traduce in denaro il suo I p solo se questo scambio non si verifica, cioè se A ritira dalla circolazione il denaro ricavato dalla vendita del suo I p a II, invece di convertirlo in acquisto di mezzi di consumo II c. Ne segue che in A (I) ha bensì luogo la formazione di un capitale monetario virtuale aggiunto, ma una parte di pa­ ri grandezza di valore del capitale costante in B (II) rimane immobilizzata sotto forma di capitale merci senza potersi convertire nella forma naturale di capitale costante produt­ tivo. In altri termini: una parte delle merci di B (II), e cioè, prima facie, una parte senza vendere la quale gli è impossi­ bile riconvertire in forma produttiva il suo capitale costan­ te, è divenuta invendibile: nei suoi riguardi si verifica per­ ciò una sovraproduzione che, anche rimanendo invariata la scala, intralcia la riproduzione» '. Das Kapital, libro II, p. 478 [sez. Ill, cap. XXI, 3].

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Il tentativo di accumulare nella sezione I mediante ven­ dita del sovraprodotto addizionale alla sezione II ha dun­ que avuto una soluzione inattesa - un deficit da parte dei capitalisti II, i quali non possono neppur riprendere la riproduzione semplice. Giunto a questo nodo, Marx appro­ fondisce l ’analisi, deciso a venirne a capo: «Consideriamo ora un po’ piu da vicino l’accumulazione in II. La prima difficoltà in rapporto a II c, cioè la sua ri­ trasformazione da parte componente del capitale merci II alla forma naturale di capitale costante II, riguarda la ripro­ duzione semplice. Prendiamo lo schema precedente: (1000 V+ 1000 p) I si scambiano contro 2 0 0 0 II c «Se, per esempio, la metà del sovraprodotto I, cioè m% p oppure 500 I p, viene reincorporata come capitale costante nella sezione I, è chiaro che questa parte di sovraprodotto rimasta in I non potrà sostituire nessuna parte di II c. In­ vece di essere scambiato in mèzzi di consumo, dovrà servi­ re esso stesso come mezzo di produzione addizionale in I : non può compiere contemporaneamente questa funzione in I e II. Il capitalista non può spendere in mezzi di consumo il valore del suo sovraprodotto e, nello stesso tempo, con­ sumare produttivamente, cioè incorporare il suo capitale produttivo, il sovraprodotto medesimo. Invece di 2000 I (v + p), sono perciò convertibili in 2000 II c soltanto 1500, cioè (1000 v + 500 p) I; in altre parole, 500 II c non sono ritrasformabili dalla forma di merci in capitale produttivo (costante) I I » '. Finora non abbiamo fatto che convincerci con sempre maggior chiarezza della difficoltà, senza fare un passo avan­ ti verso la sua soluzione. D ’altronde, l’analisi si fa giustizia da sé quando Marx, per chiarire il problema dell’accumula­ zione, insiste nel prendere a base della ricerca la finzione di un trapasso iniziale dalla riproduzione semplice all’allarga­ ta, insomma i primi vagiti dell’accumulazione, invece di stu­ diarla nel suo divenire. Ora, la stessa finzione che, limitan­ do l’accumulazione all’interno della sezione I, ci aveva of1 Das Kapital, libro II , p. 480 [sez. I l l , cap. XXI, 2 ].

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ferto almeno per un attimo un’apparenza di soluzione (ri­ nunciando a una parte del loro consumo privato di ieri, i capitalisti I s’erano improvvisamente trovati in mano un nuovo tesoro monetario con cui iniziare la capitalizzazione), la stessa finzione, ora che ci volgiamo a II, non fa che accre­ scere le difficoltà. Infatti, la «astinenza» da parte dei capi­ talisti I si manifesta qui in una dolorosa perdita di consu­ matori sulla cui domanda la produzione contava. I capitali­ sti della sezione II, coi quali volevamo tentar l’esperimen­ to, se non rappresentano i tanto attesi acquirenti del pro­ dotto addizionale della accumulazione in I, possono tanto meno tirarci d ’impiccio in quanto vi si trovano essi stessi, e non sanno ancora dove smaltire il proprio prodotto inven­ duto. Ecco a quali inconvenienti porta il tentativo di far compiere l’accumulazione da alcuni capitalisti a spese degli altri. Marx tenta allora un altro esperimento, per rigettarlo su­ bito dopo come una scappatoia: quello di considerare l’ec­ cedenza invendibile in II, proveniente dall’accumulazione in I, come necessaria riserva di merci della società per l ’an­ no successivo. Ma obietta con l’abituale precisione: « 1) Questa costituzione di scorte e la sua necessità valgono per tutti i capitalisti, sia I che II. Considerati come venditori di merci, essi si distinguono solo per il fatto di vendere mer­ ci di diversa specie. La scorta in merci II presuppone una precedente scorta in merci I. Se ne prescindiamo da un lato, dobbiamo fare la stessa cosa dall’altro. Se invece la prendia­ mo in considerazione da entrambi, il problema non muta. 2) Se questo anno si chiude per la parte II con una scorta di merci per il successivo, è però cominciato dalla stessa par­ te con una scorta di merci ereditata dall’anno precedente. Nell’analisi della riproduzione annua - formulata nella sua espressione piu astratta —dobbiamo dunque cancellarla due volte. Lasciando a quest’anno l’intera sua produzione, e per­ ciò anche la scorta di merci che cede all’anno successivo, gli togliamo però anche la scorta di merci che ha ricevuto dal­ l’anno prima, e abbiamo cosi davanti agli occhi come ogget­ to dell’analisi il prodotto totale effettivo di un anno medio. 3 ) Il fatto stesso che la difficoltà da risolvere non ci si è pre-

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sentata nell’analisi della riproduzione semplice, dimostra che si tratta di un fenomeno specifico da imputarsi al diver­ so raggruppamento (in rapporto alla riproduzione) degli ele­ menti I, diverso raggruppamento senza il quale nessuna riproduzione su scala allargata potrebbe verificarsi» \ Senonché l’ultima osservazione si ritorce anche contro i tentativi finora compiuti da Marx per risolvere la specifica difficoltà della accumulazione, ricorrendo a fattori già ap­ partenenti alla riproduzione semplice, come quella tesauriz­ zazione nelle mani dei capitalisti, legata alla graduale tra­ sformazione del capitale fisso, che avrebbe dovuto spiegare, nell’ambito della sezione I, l’accumulazione. Marx procede nella rappresentazione schematica della riproduzione allargata, ma, subito dopo, nell’analizzare il suo schema torna ad imbattersi nella stessa difficoltà in altra forma. Egli suppone che i capitalisti della sezione I accumu­ lino 500 p, mentre quelli della sezione II devono a loro vol­ ta convertire 140 p in capitale costante per permettere l’ac­ cumulazione, e chiede: «Poiché la sezione II deve compra­ re 140 I p in contanti, senza che questo denaro le riaffluisca attraverso successiva vendita delle sue merci a I —processo continuo, questo, rinnovantesi ad ogni nuova produzione annua, in quanto sia riproduzione su scala allargata - , da dove viene a II il denaro necessario a questo fine? » 2. Marx si dà dunque a ricercare questa sorgente di denaro. Anzitutto, studia piu da presso la spesa dei capitalisti II in capitale variabile. Questo è bensì presente in forma mone­ taria, ma non può esser distratto dal suo compito, l’acquisto della forza-lavoro, per servire all’acquisto di mezzi di pro­ duzione addizionali. «Questo perenne allontanarsi (del ca­ pitale variabile) dal punto di partenza —le tasche dei capi­ talisti - e ritornarvi, non aumenta in alcun modo il denaro impegnato nel circuito. Non è questa, dunque, la sorgente dell’accumulazione di denaro». Marx avanza tutte le scap­ patoie immaginabili, per rigettarle subito dopo come tali. «Alto là! Non ci sarebbe da fare un profittuccio, q u i?» si chiede esaminando se per caso i capitalisti non potessero ot1 Das Kapital, libro II, p. 482 [sez. Ill, cap. XXI, 3]. 2 Ibid., p. 484.

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tenere un risparmio in capitale variabile e quindi disporre di una nuova sorgente di denaro ai fini dell’accumulazione, comprimendo i salari dei lavoratori al di sotto del livello normale medio. Ma naturalmente rigetta l’ipotesi: «Non bisogna dimenticare che il salario normale effettivamente pagato (che, ceteris paribus, determina la grandezza del ca­ pitale variabile) non è pagato per il capriccio dei capitalisti ma per una necessità fondata su ben determinati rapporti. La spiegazione dunque non regg e»1. Quanto ad eventuali sistemi truffaldini di «risparmio» sul capitale variabile (co­ me il trucksystem ecc.), Marx osserva: « È la stessa opera­ zione che in 1 ), solo mascherata ed effettuata per vie traver­ se. Da rigettarsi, dunque, al pari di quella»2. Cosi, tutti i tentativi di trarre dal capitale variabile una nuova sorgente di denaro ai fini dell’accumulazione sono riusciti vani: «Con 376 II p non vi è nulla da fare al detto scopo». Marx si volge allora alla scorta di denaro che i capitalisti II tengono in serbo per la circolazione del proprio consu­ mo personale, e cerca in essa un’eventuale quantità di dena­ ro disponibile ai fini dell’accumulazione. Tentativo, ammet­ te egli stesso, ancor «piu dubbio» del precedente: «S i tro­ vano qui di fronte solo capitalisti della stessa classe, che si vendono e comprano a vicenda i mezzi di consumo da loro stessi prodotti. Il denaro necessario a questo scambio funge unicamente da mezzo di circolazione e, ammesso un circui­ to normale, deve riaffluire agli interessati nella stessa misura in cui l’hanno anticipato alla circolazione, per ripercorrere continuamente la stessa via». Segue un altro tentativo, ri­ gettato però nettamente come una «scappatoia»; quello di spiegare la formazione di capitale-denaro in mano ai capita­ listi II mediante raggiro di colleghi della stessa sezione nel­ lo scambio reciproco di mezzi di consumo. Infine, un ultimo tentativo serio: «Oppure, una parte di II p, rappresentata da mezzi di consumo necessari, viene direttamente convertita in nuovo capitale variabile nell’ambito della sezione I I » 3. 1 Das Kapital, libro II, p. 485 [sez. Ill, cap. XXI, 3]. 2 Ibid., p. 486. 3 Ibid., p. 487.

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Ma come ritenere che quest’espediente possa liberarci dalla difficoltà e mettere in moto il meccanismo dell’accu­ mulazione? Infatti: 1) la costituzione di capitale variabile addizionale nella sezione II non permette di fare nessun passo avanti, perché non abbiamo ancora messo insieme il capitale costante addizionale II, ed eravamo appena in pro­ cinto di riuscirvi; 2) la ricerca verteva sulla scoperta di una fonte di denaro in II per l’acquisto di mezzi di produzione supplementari in I, non sulla possibilità di collocare il pro­ dotto eccedente II in un settore qualsiasi della sua produ­ zione; 3) se il tentativo significa che i mezzi di consumo in questione possono esser riutilizzati come capitale variabile «direttamente» nella produzione II (dunque, senza l’inter­ mediario del denaro), in modo che la quantità corrisponden­ te di denaro diventi disponibile per l’accumulazione dal ca­ pitale variabile, è allora decisamente da scartare. La produ­ zione capitalistica esclude in circostanze normali il paga­ mento diretto dei salari in mezzi di consumo; la forma mo­ netaria del capitale variabile, la costante transazione fra i lavoratori come compratori di merci e i produttori di beni di consumo è una base fondamentale dell’economia capita­ listica. Lo stesso Marx afferma, ad altro proposito: «Sap­ piamo che il vero capitale variabile consta di forza-lavoro, e perciò anche il capitale addizionale. Non è il capitalista I che compra da II i mezzi di sussistenza necessari per costi­ tuirsi una scorta, o H accumula per la forza-lavoro addizio­ nale da impiegare, come era costretto a fare il padrone di schiavi. Sono gli stessi lavoratori che trattano con II » '. Ciò vale per i capitalisti II esattamente come per i capitalisti I : anche questo tentativo è dunque da considerarsi fallito. Infine, Marx ci rinvia all’ultima parte del capitolo XXI, volume II del Capitale, posta da Engels come paragrafo iv, Osservazioni supplementari: «L a fonte originaria di dena­ ro per II è V+ p della produzione d’oro I, scambiato contro una parte di II c; solo in quanto il produttore d ’oro accu­ mula plusvalore o lo converte in mezzi di produzione, solo insomma se estende la propria produzione, il suo v + p non Das Kapital, libro II , p. 492 [sez. I l l , cap. XXI, par. in , 2].

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trapassa in II; d’altronde, in quanto l’accumulazione di de­ naro ad opera dello stesso produttore d’oro porta alla ripro­ duzione allargata, una parte del plusvalore della produzio­ ne d’oro, non spesa come reddito, entra in II come capitale variabile addizionale del produttore d ’oro, vi provoca una nuova tesaurizzazione o fornisce nuovi mezzi per comprare da I senza rivendergli direttamente» Così, falliti tutti i tentativi di spiegar l’accumulazione, rinviatici continuamente da Ponzio a Pilato, da A I a B I, da B I a B II, Marx ci riporta allo stesso produttore d ’oro, la cui apparizione aveva, all’inizio dell’analisi, considerata « as­ surda»: l’analisi del processo di riproduzione e il libro II del Capitale si chiudono senza la soluzione tanto attesa del­ la difficoltà.1 1 Das Kapital, libro II, p. 499 [sez. Ill, cap. XXI, 4].

C A P IT O L O NONO

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L ’analisi di Marx soffre fin dall’inizio del tentativo di ri­ spondere al problema per la via traversa della ricerca di pos­ sibili «fonti di denaro». Ora, quello di cui in realtà si tratta è di trovare non una fonte di denaro per pagare le merci, ma una richiesta effettiva di queste, una loro possibilità di collocamento: quanto al denaro come mezzo di circolazio­ ne, dobbiamo ammettere, nell’analisi del processo della riproduzione visto nel suo insieme, che la società capitalistica ne abbia sempre a disposizione la quantità necessaria al suo processo circolatorio o, quanto meno, possa sempre trovar­ gli dei surrogati. Ciò che importa spiegare sono i grandi atti sociali di scambio provocati da bisogni economici effettivi. Non che si debba trascurare il fatto che il plusvalore capita­ listico, prima di poter essere accumulato, deve necessaria­ mente assumere forma monetaria; ma quel che cerchiamo è la domanda economica del sovraprodotto, qualunque sia la provenienza del denaro. Come dice altrove lo stesso Marx: « I l denaro da una parte suscita dall’altra la riproduzione al­ largata, poiché le possibilità di questa esistono senza il de­ naro-, infatti, il denaro in sé non è un elemento della ripro­ duzione reale» '. Che ricercare «fonti di denaro» ai fini dell’accumulazio­ ne sia formulare a vuoto il problema dell’accumulazione me­ desima, lo mostra del resto Marx anche in un altro punto. La stessa difficoltà l’aveva tormentato nel II libro del Ca­ pitale, a proposito della riproduzione semplice. Scriveva, in merito alla circolazione del plusvalore: 1 Das Kapital, libro II , p. 466 [sez. I l l , cap. X X I].

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«M a il capitale-merci deve essere tradotto in denaro pri­ ma della sua riconversione in capitale produttivo e prima dell’alienazione del plusvalore in esso incorporato. Da dove viene il denaro a questo scopo? Domanda alla quale sembra a prima vista difficile rispondere, e che non ha trovato fino­ ra risposta né in Tooke né in altri» E, affrontando spregiudicatamente la questione: «Ammettiamo che il capitale circolante anticipato sotto forma di capitale monetario di 500 sterline, quale che possa essere il suo periodo di rotazione, sia il capitale circolante totale della società, cioè della classe capitalistica. Il plusva­ lore sia di 100 sterline. Come può l’intera classe capitalisti­ ca ritirare costantemente dalla circolazione 600 sterline, se non ve ne getta costantemente che 5 0 0 ?» Siamo qui, si noti bene, nell’ambito della riproduzione semplice, dove l’intero plusvalore è consumato dalla classe capitalistica per consumi personali. La questione andrebbe dunque formulata, piu precisamente, cosi: come possono i capitalisti, dopo di aver messo complessivamente in circola­ zione per capitale costante e variabile 500 sterline in dena­ ro, venire in possesso dei propri mezzi di consumo per l’am­ montare del plusvalore, cioè 100 sterline? È allora subito chiaro che quelle 500 sterline, che come capitale servono al­ l’acquisto di mezzi di produzione e alla corresponsione del salario agli operai, non possono contemporaneamente copri­ re anche il consumo personale dei capitalisti. Da dove vie­ ne, dunque, il denaro addizionale - xoo sterline —di cui i capitalisti hanno bisogno per realizzare il proprio plusvalo­ re? Marx elimina subito ogni scappatoia suggerita a solu­ zione del problema: « I l problema va affrontato senza ricorrere a scappatoie solo apparentemente plausibili. Ad esempio: per quanto concerne il capitale costante circolante, è chiaro che non tutti lo erogano contemporaneamente. Mentre il capitalista A vende la propria merce, e il capitale da lui anticipato as­ sume cosi forma monetaria, per l’acquirente B il suo capi­ tale, presente in forma monetaria, assume invece la forma 1 Das Kapital, libro II, p. 304 [sez. II, cap. XVII].

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di mezzi di produzione prodotti appunto da A. Attraverso lo stesso atto con cui A restituisce al capitale-merci da lui prodotto la forma-denaro, B restituisce al proprio la forma produttiva, lo converte dalla forma-denaro in mezzi di pro­ duzione e forza-lavoro: la stessa somma di denaro funge nel processo bilaterale come in ogni acquisto semplice M-D (merce-denaro). D ’altra parte, se A riconverte il denaro in mezzi di produzione, se compra da C, questi col denaro ri­ cavato paga B ecc. Il processo sarebbe cosi spiegato. Ma: «L e leggi stabilite (libro I, capitolo III) in merito alla quantità di denaro circolante nella circolazione delle merci non vengono in alcun modo modificate dal carattere capita­ listico del processo di produzione. «S e perciò si dice che il capitale circolante sociale da an­ ticipare in forma monetaria ammonta a 500 sterline, si tie­ ne già conto che, da una parte, è appunto questa la somma contemporaneamente anticipata, ma dall’altra essa mette in moto un capitale produttivo superiore a 500 sterline, per­ ché serve alternativamente da fondo monetario a diversi ca­ pitali produttivi. La presunta spiegazione presuppone dun­ que come già presente il denaro di cui si dovrebbe spiegare la presenza... «S i potrebbe anche dire: il capitalista A produce articoli che il capitalista B consuma individualmente, improdutti­ vamente. Il denaro di B monetizza dunque il capitale-mer­ ci di A, per cui la stessa somma di denaro serve alla tradu­ zione in moneta sia del plusvalore di B che del capitale co­ stante circolante di A. Ma qui la soluzione del problema al quale si tratterebbe di rispondere è ancor piu esplicitamen­ te presupposta. Infatti, da dove riceve B il denaro per la spesa del suo reddito? Come ha trasformato in denaro la parte di plusvalore del suo prodotto? Si potrebbe anche ammettere che la parte di capitale variabile circolante che A continua ad anticipare ai suoi lavoratori gli riafHuisce con­ tinuamente dalla circolazione; e solo una parte oscillante gli rimane, immobilizzata, per il pagamento dei salari. Ma fra l’erogazione e il rientro trascorre un certo periodo, du­ rante il quale il denaro pagato in salari può servire, fra l’al­ tro, a tramutare in moneta il plusvalore. Ma: 1) noi sappia-

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mo che, quanto maggiore è questo periodo, tanto maggiore deve anche essere la massa della scorta monetaria che il ca­ pitalista A deve avere continuamente “ in petto ” 2) che il lavoratore spende il denaro, compra merci, e, pro tanto, traduce in denaro il plusvalore in queste incorporato. Per­ ciò lo stesso denaro anticipato sotto forma di capitale varia­ bile serve, pro tanto, a tradurre in denaro dei plusvalori. Senza soffermarci sulla questione, basti notare che il consu­ mo dell’intera classe capitalistica e delle persone improdut­ tive da essa dipendenti va di pari passo con quello della classe lavoratrice; perciò, contemporaneamente al denaro gettato nella circolazione dai lavoratori, ne dovrà esser gettato dell’altro dai capitalisti per spendere come reddito il loro plusvalore, il che significa che devono ritirare dalla circolazione del denaro. La spiegazione data piu sopra var­ rebbe a ridurre la quantità cosi necessaria, non ad elimi­ narla... «S i potrebbe infine dire: al primo impiego del capitale fisso, viene continuamente lanciato nella circolazione un grande quantitativo di denaro, che chi ve l’aveva gettato non ritira nuovamente dalla circolazione se non a poco a poco, a frazioni, nel corso di anni. Non può bastare, questa somma, a tradurre in denaro il plusvalore? Si risponde che forse nella somma di 500 sterline (comprendente anche la tesaurizzazione per i necessari fondi di riserva) è già com­ preso il suo impiego come capitale fisso, se non da parte di chi ve l’ha gettato, da parte di qualche altro. Inoltre, nella somma spesa per procurarsi i prodotti che fungono da capi­ tale fisso è già presupposto che anche il plusvalore incorpo­ rato in quelle merci sia pagato. Si tratta appunto di sapere da dove questo denaro proviene». Quest’ultimo punto merita di essere attentamente consi­ derato. Giacché qui Marx esclude che, per spiegare la rea­ lizzazione del plusvalore, sia lecito tirare in ballo, anche nel caso della riproduzione semplice, la tesaurizzazione ai fini del periodico rinnovo del capitale fisso. Eppure, in seguito, a proposito della ben piu difficile realizzazione del plusvalo[In italiano nel testo].

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re nel caso dell’accumulazione, si aggrappa ripetutamente, a titolo sperimentale, ad una spiegazione già espressamente scartata come «scappatoia soltanto plausibile». Segue una soluzione che giunge un po’ inattesa: «L a risposta generale è già stata data: l’entità della som­ ma di denaro necessaria a far circolare una massa di merci di X X 1000 sterline non è per nulla influenzata dal fatto che il valore di questa massa di merci contenga o no plusvalo­ re, che questa massa sia o no di produzione capitalistica. Il problema pertanto non esiste. Date certe circostanze, velo­ cità di circolazione del denaro ecc., si richiede una determi­ nata somma di denaro per far circolare il valore merci di XX 1000 sterline indipendentemente dalla quantità piu o meno grande di questo valore che i produttori immediati delle merci in questione ne derivano. Se mai un problema esiste qui, esso coincide col problema generale: da dove proviene la somma di denaro necessaria alla circolazione delle merci in un paese? » '. La risposta è giustissima. La domanda: da dove provie­ ne il denaro per la circolazione del plusvalore? riceve la sua risposta insieme alla domanda generale: da dove provie­ ne il denaro per mettere in circolazione nel paese una data massa di merci? Dal punto di vista della circolazione mone­ taria come tale, la suddivisione della massa di valore di que­ ste merci in capitale costante, capitale variabile e plusvalo­ re non esiste e, sempre da questo punto di vista, non ha sen­ so. È perciò vero che, dall’angolo visuale della circolazione monetaria o della circolazione semplice delle merci, «il pro­ blema non esiste». Ma il problema esiste dal punto di vista della riproduzione sociale nel suo complesso; solo che non lo si deve formulare in modo talmente obliquo da farci ri­ cadere in quella stessa circolazione semplice delle merci, dove il problema non esiste. La questione non è dunque: da dove proviene il denaro per realizzare il plusvalore? ma dev’essere: dove sono i consumatori del plusvalore? Che il denaro debba trovarsi nelle mani di questi consumatori e 1 Das Kapital, libro II, p. 306 [sez. II, cap. XVII].

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da essi gettato nella circolazione, si capisce da sé. Lo stesso Marx continua a ritornare sul problema che pur aveva di­ chiarato inesistente: «O ra, due soli punti di partenza esistono: il capitalista e il lavoratore. Tutte le terze persone devono o ricevere de­ naro da queste due classi in cambio di servizi resi, o, se non ricevono contropartita, sono comproprietari del plusvalore sotto forma di rendita, interesse ecc. Il fatto che il plusva­ lore non rimanga interamente nelle tasche del capitalista industriale, ma debba essere da lui diviso con altre persone, non ha nulla a che vedere col problema che ci occupa. Il problema è com’egli traduca in denaro il suo plusvalore, non come il denaro cosi ottenuto si suddivida successiva­ mente. Per il nostro caso, il capitalista è quindi ancora da considerare come unico possessore di plusvalore. Quanto al lavoratore, è già stato detto ch’egli è solo un punto di par­ tenza secondario, mentre il capitalista è il primo punto di partenza del denaro gettato nella circolazione dal lavorato­ re. Il denaro inizialmente anticipato come capitale variabile compie già la sua seconda rotazione quando il lavoratore lo spende in pagamento di mezzi di sussistenza. «L a classe capitalista rimane dunque l’unico punto di partenza della circolazione del denaro. Se per pagare mezzi di produzione essa ha bisogno di 400 sterline, e di 100 per pagare la forza-lavoro, getterà in circolazione jo o sterline. Ma il plusvalore incorporato nel prodotto, ammesso un sag­ gio del plusvalore del 100% , è pari a un valore di 100 ster­ line. Come può dunque ritirare costantemente dalla circola­ zione 600 sterline, se ve ne getta continuamente solo 500? Dal nulla non nasce nulla. L ’intera classe dei capitalisti non può ritirare dalla circolazione se non ciò che vi ha prece­ dentemente gettato». Marx respinge inoltre come scappatoia il rinvio alla velo­ cità di circolazione del denaro, che permetterebbe di met­ tere in circolazione con meno denaro una maggior massa di merci. Risultato nullo anche qui, perché la velocità di circo­ lazione del denaro è già calcolata quando si ammette che per la circolazione della massa di merci si richiedano tante e tante sterline. Ed ecco la conclusione:

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«In realtà, per quanto paradossale possa sembrare a pri­ mo sguardo, è la stessa classe capitalistica a gettare in cir­ colazione il denaro che serve alla realizzazione del plusva­ lore incorporato nelle merci. Ma nota bene: non ve lo get­ ta come denaro anticipato, e perciò come capitale; lo spen­ de come mezzo di acquisto per il suo consumo individuale. Non è dunque essa ad anticiparlo, sebbene sia essa il punto di partenza della sua circolazione» '. Questa soluzione chiara ed esauriente è la migliore dimo­ strazione che il problema non è fittizio. Essa si fonda sulla scoperta non di una nuova «fonte di denaro» per realizzare il plusvalore, ma di chi potrà consumarlo. Rimaniamo anco­ ra, secondo l’ipotesi di Marx, sul piano della riproduzione semplice. Ciò significa che la classe capitalistica impiega l’intero plusvalore nel consumo personale. Poiché il plus­ valore è consumato dai capitalisti, non solo non è parados­ sale ma è perfettamente naturale eh’essi debbano avere in tasca il denaro per appropriarsi della forma naturale del plusvalore, gli oggetti di consumo. L ’atto di circolazione dello scambio nasce come necessità dal fatto che i capitali­ sti singoli non possono consumare direttamente il proprio plusvalore individuale —o, rispettivamente, il proprio sovraprodotto individuale, come nel caso del proprietario di schiavi consumo che la sua forma naturale materiale di regola esclude. Ma il plusvalore totale di tutti i capitalisti si trova espresso, nel prodotto sociale totale - sempre nell’i­ potesi della riproduzione semplice —, in una massa corri­ spondente di mezzi di consumo per la classe capitalista, co­ si come alla somma complessiva dei capitali variabili corri­ sponde una quantità di pari valore di mezzi di sussistenza per la classe lavoratrice e come al capitale costante totale di tutti i capitalisti singoli corrisponde una quantità di pari valore di mezzi di produzione materiali. Per scambiare il plusvalore individuale inconsumabile contro la quantità cor­ rispondente di mezzi di consumo, è necessario un duplice atto della circolazione di merci: la vendita del proprio so1 Das Kapital, libro II, p. 308 [sez. II, cap. XVII].

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vraprodotto, e l’acquisto di mezzi di sussistenza dal sovraprodotto sociale. Poiché questi due atti si compiono esclu­ sivamente all’interno della classe capitalistica, si effettuano fra capitalisti soli, anche il denaro come mediatore dello scambio passa da una mano dei capitalisti all’altra, rimane sempre nelle loro tasche. Come la riproduzione semplice porta allo scambio sempre le stesse quantità di valori, cosi alla circolazione del plusvalore serve ogni anno la stessa quantità di denaro, e al massimo si potrebbe, per uno scru­ polo eccessivo, chiedere: da dove è venuta, inizialmente, ai capitalisti la quantità di denaro destinata a mediare il con­ sumo personale dei capitalisti medesimi? Ma questa doman­ da si risolve in un’altra piu generale: da dove è piovuto ai capitalisti il primo capitale-denaro, quel capitale-denaro di cui, oltre ad utilizzarlo in investimenti produttivi, hanno sempre dovuto tenere in tasca una parte ai fini del consu­ mo personale? Senonché la questione così posta rientra nel capitolo della cosiddetta «accumulazione primitiva», cioè della genesi storica del capitale, ed esce dai confini dell’a­ nalisi sia del processo di circolazione che di quello di ripro­ duzione. La questione è dunque chiara e netta —finché, almeno, rimaniamo sul piano della riproduzione semplice, dove il problema della realizzazione del plusvalore è risolto dalle stesse premesse, è già anticipato nel concetto di riproduzio­ ne semplice. Quest’ultima si fonda appunto sul consumo totale del plusvalore da parte della classe capitalista, il che significa che dovrà anche essere comprato da lei, o meglio comprato a vicenda dai capitalisti singoli. «In questo caso —dice lo stesso Marx - avevamo am­ messo che la somma di denaro gettata in circolazione dal capitalista per il proprio consumo individuale, fino al primo riflusso del suo capitale, fosse esattamente uguale al plusva­ lore da lui prodotto e perciò da tradurre in denaro. È que­ sta, evidentemente, in rapporto ai capitalisti singoli, un’i­ potesi arbitraria. Ma dev’essere giusta per il complesso del­ la classe capitalista, sempre data la riproduzione semplice. Essa non fa che esprimere quanto è implicito nel presuppo­ sto che l’intero plusvalore, ma solo esso, e nessuna frazione

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della scorta originaria di capitale, venga consumato impro­ duttivamente» \ Ma la riproduzione semplice su basi capitalistiche è, nel­ l’economia teorica, una grandezza immaginaria, una gran­ dezza altrettanto giustificata e indispensabile agli effetti scientifici quanto, in matematica, V - 1 . E il problema della realizzazione del plusvalore non è, per la realtà (cioè per la riproduzione allargata od accumulazione) affatto risolto. È ancora una volta Marx, nel seguito dell’analisi, a confer­ marlo. Da dove viene il denaro per la realizzazione del plusvalo­ re nella ipotesi dell’accumulazione, cioè del suo non-consumo, della capitalizzazione di una sua parte? La prima rispo­ sta data da Marx è: «Per quanto riguarda anzitutto il capitale monetario ad­ dizionale richiesto dal funzionamento del capitale produt­ tivo crescente, esso è fornito da una parte del plusvalore realizzato, che i capitalisti gettano in circolazione come ca­ pitale-denaro invece che come forma monetaria del reddi­ to. Il denaro è già nelle mani dei capitalisti. Solo il suo im­ piego è differente». Ci eravamo già imbattuti in questa spiegazione nell’ana­ lisi del processo della riproduzione, e ne avevamo sottoli­ neato l’insufficienza. Infatti, la risposta si fonda esclusivamente sul primo passaggio dalla riproduzione semplice al­ l ’accumulazione: fino a ieri, i capitalisti consumavano l’in­ tero plusvalore, e avevano perciò anche in tasca la massa di denaro necessaria alla sua circolazione: oggi si decidono a «risparmiare» e ad investire produttivamente una parte del plusvalore, invece di divorarla. A tale scopo - ammesso che siano prodotti, invece di articoli di lusso, mezzi di produ­ zione - non hanno che da destinare in altro modo una parte del loro fondo di denaro personale. Ma il passaggio dalla riproduzione semplice all’allargata è una finzione teorica allo stesso titolo della riproduzione semplice del capitale. Pro­ segue Marx: «M a, grazie al capitale produttivo addizionale, e come 1 Das Kapital, libro II, p. 309 [sez. Ill, cap. XVII, 1].

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suo prodotto, una massa addizionale di merci viene getta­ ta in circolazione. Con questa massa addizionale di merci è contemporaneamente gettata in circolazione una parte del denaro addizionale necessario alla sua realizzazione, in quanto il valore della massa di merci è uguale al valore del capitale produttivo consumato nella sua produzione. Que­ sta massa addizionale di denaro è anticipata come capitale­ denaro addizionale, e «affluisce perciò al capitalista attra­ verso la rotazione del suo capitale. A questo punto si ripre­ senta la stessa domanda di prima: da dove viene il denaro addizionale per realizzare il plusvalore addizionale, presen­ te sotto forma di merci? » Ma, ora che il problema è stato riproposto nella sua du­ rezza, ecco, invece di una soluzione, l’inattesa risposta: «L a risposta generale è sempre la stessa. La somma dei prezzi della massa di merci circolante è aumentata non per­ ché siano cresciuti i prezzi di una data massa di merci, ma perché la massa delle merci ora circolanti è maggiore della precedente, senza che sia intervenuta a compensare lo squi­ librio una caduta dei prezzi. Il denaro addizionale richiesto dalla circolazione di questa massa di merci cresciuta e di va­ lore superiore deve essere ottenuto o mediante una mag­ gior economia di massa monetaria circolante —sia median­ te compensazione dei pagamenti ecc., sia con mezzi atti ad accelerare la circolazione degli stessi pezzi monetari —ovve­ ro mediante trapasso del denaro dalla sua forma di tesoro alla forma circolante» '. Questa soluzione non fa che illustrare il seguente fatto: la riproduzione capitalistica getta sul mercato, nelle condi­ zioni di una accumulazione in crescente sviluppo, una mas­ sa sempre maggiore di valore-merci. Per mettere in circola­ zione questa sempre crescente massa di merci è necessaria una sempre maggior quantità di denaro. E questa massa crescente di denaro va appunto procurata. Tutto perfetta­ mente giusto, ma il problema di cui ci occupavamo non è per questo risolto: è sparito. Non c’è scampo. Se si considera il prodotto sociale totale 1 Das Kapital, libro II, p. 318 [sez. II, cap. XVII, 2].

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(della economia capitalistica) semplicemente come una mas­ sa di merci di un certo valore, come una «poltiglia di mer­ ci» e, nelle condizioni tipiche dell’accumulazione, non si ve­ de che un aumento di questa poltiglia indifferenziata e della sua massa di valore, non resta allora se non constatare che, per la circolazione di questa massa di valori, è necessaria una corrispondente quantità di denaro; che questa massa di denaro deve crescere se cresce la massa dei valori —se non intervengono a compensare l’aumento del valore un accele­ ramento dello scambio e una sua economizzazione. Alla do­ manda: da dove viene tutto il denaro?, si può allora rispon­ dere con Marx: dalle miniere d ’oro. Punto di vista anche questo: il punto di vista della circolazione semplice delle merci. Ma non ha allora senso introdurre concetti come ca­ pitale costante e variabile e plusvalore, che appartengono non alla circolazione semplice delle merci, ma alla circola­ zione del capitale e alla riproduzione sociale, e non si pone neppure la questione: da dove viene il denaro per realizza­ re il plusvalore sociale, 1) sub riproduzione semplice, 2) sub riproduzione allargata? giacché la domanda non ha, dal punto di vista della circolazione semplice delle merci e del denaro, né senso né contenuto. Ma quando questa doman­ da è posta e l’analisi è avviata sui binari della circolazione del capitale e della riproduzione sociale, non è lecito cerca­ re una risposta nel campo della circolazione semplice delle merci, per poi — dato che qui il problema non esiste e perciò non ammette risposta - affermare che il problema è già stato risolto da un pezzo, che anzi non esisteva addirit­ tura. Marx ha dunque impostato il problema sempre di traver­ so. Non ha nessuno scopo plausibile chiedersi: da dove vie­ ne il denaro per realizzare il plusvalore? La domanda de­ v ’essere, invece: da dove viene la richiesta, dov’è il bisogno solvibile di plusvalore? Se la questione fosse stata posta fin dapprincipio cosi, non sarebbe occorso un cosi noioso andi­ rivieni per farne risaltare in ultimo o la solubilità o l’insolu­ bilità. Ammessa la riproduzione semplice, la cosa è abba­ stanza facile: essendo il plusvalore consumato interamente dalla classe capitalista, è questa l’acquirente, la domanda

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del plusvalore sociale in tutta la sua estensione, e deve per­ ciò avere in tasca i contanti necessari alla circolazione del plusvalore. Ma proprio da questo fatto risulta in modo evi­ dente che, nell’ipotesi dell’accumulazione, cioè della capi­ talizzazione di una parte del plusvalore, la classe capitalista non può acquistare l’intero suo plusvalore e realizzarlo. È giusto che bisogna procurarsi denaro a sufficienza per rea­ lizzare il plusvalore capitalistico (se mai dev’essere realiz­ zato); ma questo denaro non può venire dalle tasche degli stessi capitalisti. Questi sono al contrario, proprio secon­ do l’ipotesi dell’accumulazione, dei non-acquirenti del loro plusvalore, anche se - per astrazione - avessero abbastanza denaro per divenirlo. Ma chi rappresenterà, allora, la do­ manda delle merci in cui il plusvalore capitalistico è incor­ porato? «A l di fuori di questa classe, dei capitalisti, non v ’è, se­ condo la nostra premessa - dominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica - , altra classe che quella la­ voratrice. Tutto ciò che la classe lavoratrice compra è ugua­ le alla somma dei suoi salari, uguale alla somma del capita­ le variabile anticipato dall’intera classe capitalista». Dunque, i lavoratori possono realizzare il plusvalore ca­ pitalistico ancor meno della classe capitalista. Ma qualcuno dovrà pur acquistarlo, se i capitalisti devono riavere conti­ nuamente nelle mani il capitale accumulato anticipato. E tuttavia, al di fuori dei capitalisti e dei lavoratori, non è pensabile acquirente di sorta. «Come potrebbe, dunque, ac­ cumular denaro la classe capitalistica nel suo complesso? » La realizzazione del plusvalore all’infuori delle due sole classi esistenti della società appare tanto necessaria quanto impossibile. L ’accumulazione del capitale è finita in un cir­ colo vizioso: il libro II del Capitale non ci permette di uscirne. Se si volesse ora chiedere perché mai la soluzione di que­ sto importante problema dell’accumulazione capitalistica sia irreperibile nel Capitale di Marx, bisognerebbe anzitut­ to tener conto del fatto che il II libro non è un’opera com1 Das Kapital, libro II, p. 322 [sez. II, cap. XVII, 2].

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piuta ma un manoscritto interrottosi nel corso della sua compilazione. Basta già la forma esteriore dell’ultimo capitolo del libro a dimostrare che si tratta piu di annotazioni ad uso dello scrittore, che di risultati acquisiti, destinati a illuminare il lettore. Ce lo conferma anche il testimone piu autorizzato, l ’editore del II libro, Friedrich Engels. Nella prefazione al II libro, egli informa sullo stato dei lavori preliminari e dei manoscritti lasciati da Marx, che avrebbero dovuto servir di base all’opera: «Basterebbe l’elencazione del materiale manoscritto per il II libro, lasciato da Marx, per dimostrare con quale im­ pareggiabile coscienziosità, con quale rigorosa autocritica egli si sforzasse di elaborare fino alla perfezione le sue gran­ di scoperte economiche prima di renderle pubbliche; auto­ critica che solo di rado gli permise di adattare l’esposizione, dal punto di vista della forma e del contenuto, all’ampiezza sempre crescente dei suoi orizzonti. Questo materiale con­ sta: «Anzitutto, di un manoscritto Per la critica dell’econo­ mia politica, 1472 pagine in quarto, 23 quaderni, compila­ to fra l’agosto 1861 e il giugno 1863. È la continuazione del primo quaderno dallo stesso titolo, apparso nel 1839 a Berlino...1. Malgrado l’alto valore del manoscritto, di ben poca utilità poteva essere ai fini dell’attuale edizione del li­ bro II. « I l manoscritto di data immediatamente successiva è quello del libro III... «D el periodo successivo —dopo l’apparizione del libro I - è rimasto, per il libro II, una raccolta di quattro mano­ scritti in folio, da Marx stesso numerati I-IV, di cui il I (130 pagine), verosimilmente datante dal 1863 o 1867, è la prima elaborazione autonoma ma piu o meno frammen­ taria, del libro II nella sua attuale suddivisione. Anche di questo nulla era utilizzabile. Il manoscritto III consta in parte di una raccolta di citazioni e richiami ai quadernetti 1 [Zur Kritik der politischen Ökonomie, Erstes Heft, Franz Duncker, Berlin 1859].

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di appunti di Marx - riferentisi per lo piu alla prima sezio­ ne del libro II - , in parte di elaborazioni di punti singoli, come la critica delle tesi smithiane sul capitale fisso e circo­ lante e sulla sorgente del profitto; infine, di un’esposizione sul rapporto fra saggio del plusvalore e saggio del profitto, che appartiene al libro III. I richiami fornirono scarso ma­ teriale nuovo; le elaborazioni erano state superate, sia per il libro II che per il libro III, da redazioni successive, e do­ vettero essere per lo piu scartate... Il manoscritto IV è una rielaborazione, già pronta per la stampa, della prima parte e dei primi capitoli della seconda sezione del libro II, e qui è stato, fin dove era organico, utilizzato. Pur essendo ap­ parso chiaro che la sua redazione aveva preceduto il mano­ scritto II, lo si è potuto utilizzare con vantaggio per la par­ te corrispondente del libro, perché piu completo nella for­ ma, con la sola aggiunta di alcuni periodi dal manoscritto II. Quest’ultimo costituisce l’unica redazione in certo mo­ do completa del libro II di cui disponiamo, e data dal 1870. Le note per la redazione definitiva, che citeremo piu oltre, dicono espressamente: “ Deve esser presa per base la se­ conda elaborazione” . «Dopo il 1870 subentrò una nuova pausa, determinata essenzialmente dalle precarie condizioni di salute dell’au­ tore. Come al solito, Marx occupò questo tempo studian­ do: agronomia, condizioni agricole americane e soprattutto russe, mercato monetario e organizzazione bancaria, infine scienze naturali, geologia e fisiologia, e lavori matematici indipendenti, formano il contenuto dei ricchi quadernetti di appunti di questo periodo. Sul principio del 1877, si sen­ tì tanto ristabilito, da potersi rimettere al lavoro. Dalla fine di marzo 1877 datano richiami e note dai succitati quattro manoscritti, come base di una rielaborazione del libro II di cui possediamo l’inizio nel manoscritto V (56 pagine in fo­ lio), comprendente i primi quattro capitoli ed appena ela­ borato; punti importanti vengono trattati in note a piè pa­ gina; la materia è piuttosto raccolta che vagliata, ma è co­ munque l’ultima esposizione completa di quest’importantissima parte della prima sezione... Un primo tentativo di raggrupparla in un manoscritto pronto per la stampa si tro-

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va nel manoscritto V I (dopo l ’ottobre 1877 e prima del lu­ glio 1878); solo 17 pagine in quarto, comprendenti la mag­ gior parte del primo capitolo; un secondo, l’ultimo, nel ma­ noscritto V II del “ 2 luglio 1878 ” , solo 7 pagine in folio. «A quell’epoca, sembra che Marx si sia convinto dell’im­ possibilità, a meno di una completa rivoluzione nel suo sta­ to di salute, di portare a termine un’elaborazione per lui soddisfacente del secondo e terzo libro. Effettivamente, i manoscritti V-VIII recano fin troppe tracce di una lotta ac­ canita contro il continuo declinare delle forze. La parte piu difficile della prima sezione fu rielaborata nel manoscritto V, il resto del primo e l’intera sezione seconda (eccezion fat­ ta per il capitolo XVII) non offrivano particolari difficoltà teoriche; la terza sezione, invece, la riproduzione e circola­ zione del capitale sociale, sembrava richiedere d ’urgenza una rielaborazione completa. Infatti, nel manoscritto II, la riproduzione era stata trattata in origine senza prendere in considerazione la circolazione monetaria da cui è mediata, poi facendovela di colpo intervenire. Bisognava rimediarvi rielaborando l ’intera sezione in modo da farla corrisponde­ re alla visuale notevolmente allargata dell’autore. Nacque cosi il manoscritto V ili, un quaderno di sole 70 pagine in quarto; quanto però Marx abbia saputo condensare in que­ sto spazio lo dimostra un confronto con la sezione III stam­ pata, senza i pezzi introdotti dal manoscritto II. «Anche questo manoscritto non è se non una trattazio­ ne preliminare del soggetto, dove si trattava soprattutto di fissare i punti di vista di recente acquisiti in confronto al manoscritto II, e svilupparli tralasciando i punti sui quali non v ’era nulla di nuovo da dire. Anche una parte essenzia­ le del capitolo XVII della seconda sezione, che del resto sconfina in certo modo nella terza, viene ripresa e ampliata. La successione logica è spesso interrotta, l’esposizione è a tratti lacunosa e, specialmente alla fine, del tutto frammen­ taria. Ma ciò che Marx voleva dire vi è bene o male detto. Questo il materiale per il libro II di cui, secondo una frase di Marx alla figlia Eleanor poco prima della morte, io avrei dovuto “ fare qualcosa” ». È da ammirare il «qualcosa» che Engels ha saputo fare

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di un materiale simile. Ma dalla sua accurata relazione ap­ pare chiaro, agli effetti del problema che ci affatica, come delle tre sezioni di cui consta il libro II, per le prime due - sul circuito del capitale-denaro e del capitale-merci e re­ lativi costi, e sulla rotazione del capitale - il manoscritto la­ sciato da Marx fosse ormai quasi maturo per la stampa: la terza sezione, che tratta della riproduzione del capitale to­ tale, rappresenta invece una raccolta di frammenti che lo stesso Marx riteneva bisognosi di «urgente rielaborazio­ ne». Ora di questa sezione, l’ultimo capitolo (XXI), che è quello piu interessante per noi —accumulazione e riprodu­ zione allargata - è rimasto il piu incompiuto di tutto il li­ bro, non comprendendo in tutto che 35 pagine a stampa, e interrompendosi nel bel mezzo dell’analisi. A parte questa circostanza esteriore, ha influito, secondo noi, un altro elemento importante. L ’analisi del processo della riproduzione sociale ha in Marx, come si è visto, il suo punto di partenza nell’analisi smithiana, naufragata, fra l ’al­ tro, contro la falsa proposizione secondo cui il prezzo di tutte le merci si compone di v + p. La polemica contro que­ sto dogma pesa su tutta l’analisi marxiana del processo di riproduzione. Marx concentra tutte le sue energie nella di­ mostrazione che il prodotto sociale totale deve servire non soltanto al consumo per l’ammontare delle diverse fonti di reddito, ma anche al rinnovo del capitale costante. Ma poi­ ché la forma teoricamente piu pura agli effetti di questa di­ mostrazione si ritrova non nella riproduzione allargata ma nella riproduzione semplice, Marx tratta la riproduzione prevalentemente sotto un angolo visuale opposto all’accu­ mulazione —nell’ipotesi cioè che l’intero plusvalore sia con­ sumato dai capitalisti. Che la polemica contro Smith abbia dominato l’intera analisi di Marx lo dimostra il continuo ri­ chiamo ad essa, sotto i piu diversi punti di vista, nel corso dell’opera. Ne trattano nel libro I, sezione V II, capitolo XXII, le pagine 551-54; nel libro II, le pagine 335-70, 383, 409-12, 451-53; nel libro I II Marx riprende la questione della riproduzione totale, ma ricade subito dopo nell’indo­ vinello lasciato insoluto da Smith e gli dedica l’intero capi­ tolo XLIX e, come non bastasse, l’intero capitolo L. Infine,

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nelle Theorien über den Mehrwert, riappaiono lunghe po­ lemiche contro lo schema smithiano (vol. I, pp. 164-253 cit.; vol. II, pp. 92-95, 126, 233-62)1 e lo stesso Marx sot­ tolinea ripetutamente come, a suo parere, proprio il proble­ ma della sostituzione del capitale costante mediante il pro­ dotto sociale totale costituisca il punto piu difficile e impor­ tante della riproduzione2. In tal modo, l ’altro problema, quello della accumulazione, cioè della realizzazione del plus­ valore ai fini della capitalizzazione, passò in secondo piano per essere infine appena sfiorato. Tuttavia, data la grande importanza di questo problema per l’economia capitalistica, non stupisce eh’esso abbia con­ tinuamente e ripetutamente affaticato la scienza economica borghese. I tentativi di risolvere la questione piu vitale del­ l’economia capitalistica, il problema della possibilità prati­ ca dell’accumulazione del capitale, si ripresentano continuamente nella storia dell’economia. A questi tentativi, com­ piuti prima e dopo Marx, di risolvere il problema, voglia­ mo dedicarci nei capitoli che seguono. 1 [Trad. it. cit., vol. I, pp. 162-248; vol. II, pp. 391, 420, 317-42]. 2 Cfr. ad esempio, Das Kapital, libro II, pp. 343, 424, 431.

Parte seconda Esposizione storica del problema

Una prima schermaglia Polemiche fra Sismondi-Malthus e Say-Ricardo-MacCulloch

CAPITOLO DECIM O LA TEORIA SISM ONDIANA D ELLA RIPRODUZIONE

I primi seri dubbi sulla divinità dell’ordinamento capita­ listico sorsero nell’economia politica borghese sotto l’im­ pressione diretta delle prime crisi inglesi del 1815 e del 1818-19. Le circostanze determinanti di quelle crisi erano ancora di natura esteriore e apparentemente casuale. Era stato in parte il blocco continentale napoleonico, che ave­ va artificialmente precluso all’Inghilterra i suoi mercati di sbocco in Europa, favorendo inoltre un rapido e importan­ te sviluppo di industrie nazionali in alcuni settori degli sta­ ti europei; era stato in parte l’esaurimento dell’Europa do­ po il lungo periodo bellico, che aveva ristretto, pur dopo l’eliminazione del blocco napoleonico, i tanto attesi sboc­ chi dei prodotti inglesi. E tuttavia, bastarono queste prime crisi a metter davanti agli occhi dei contemporanei, in tutta la sua brutalità, l ’altra faccia di questa migliore fra tutte le forme sociali possibili. Mercati saturi, magazzini colmi di merci che non trovavano acquirenti, fallimenti a catena, da un lato; spaventosa miseria delle masse lavoratrici dall’al­ tro: tutto questo si affacciò per la prima volta alla coscien­ za dei teorici che avevano cantato e magnificato su tutti i toni le armoniche bellezze del laissez faire borghese. Tutti i fogli commerciali, i giornali, i diari di viaggio contempo­ ranei narrano le perdite dei commercianti inglesi. In Italia, Germania, Russia, Brasile, gli inglesi liquidarono le loro giacenze con perdite da % fino a %. Nel 1818, ci si lamenta­ va al Capo di Buona Speranza che tutti i negozi rigurgitas­ sero di merci europee offerte a prezzi piu bassi che in Euro­

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pa, e tuttavia inesitabili. Analoghe lamentele giungevano da Calcutta. Interi carichi di merci rientravano dalla Nuo­ va Zelanda in Inghilterra. Negli Stati Uniti, secondo il rac­ conto di viaggio di un contemporaneo, «non v ’era, da un capo all’altro di questo enorme e agiato continente, città o mercato, dove la quantità delle merci offerte non superasse i mezzi degli acquirenti, sebbene i venditori si sforzassero di allettare i clienti con crediti a lunghissimo termine, faci­ litazioni di pagamento di vario genere, rateazioni, scambio in merci in luogo di denaro». Contemporaneamente, si levava in Inghilterra il grido di disperazione della classe operaia. Nell’«Edinburgh Re­ view» del maggio 1820 si leggono, nell’Indirizzo dei ma­ gliai di Nottingham, le seguenti parole: «Dopo una giorna­ ta di lavoro di quattordici fino a sedici ore, non guadagnia­ mo che quattro-sette scellini la settimana, con cui dovrem­ mo mantenere le nostre donne e i nostri figli. Facciamo inoltre presente che, pur avendo dovuto sostituire pane ed acqua o patate e sale al nutrimento piu sano che un tempo figurava in abbondanza sui deschi inglesi, siamo stati spes­ so costretti, dopo il lavoro sfibrante di un’intera giornata, a mandare a letto i nostri figli affamati per non sentirci chie­ dere pane. Dichiariamo solennemente che negli ultimi di­ ciotto mesi non abbiamo mai avuto il senso della sazietà» 1 1 La citazione dell’interessante documento si trova in una recensione del­ lo scritto: Observations on the Injurious Consequences of the Restrictions upon Foreign Commerce. By a Member of the late Parliament, London 1820. Questo articolo a intonazione libero-scambista dipinge nei colori piu foschi le condizioni degli operai inglesi, e cita fra l’altro i seguenti fatti: «... The manufacturing classes in Great Britain... have been suddenly redu­ ced from affluence and prosperity to the extreme of poverty and misery. In one of the debates in the late Session of Parliament, it was stated, that the wages of weavers of Glasgow and its vicinity, which, when highest, had averaged about 25 s. or 27 s. a week, had been reduced in 1816 to ro s.; and in 1819 to the wretched pittance of 5 s. 6 d. o 6 s. They have not since been materially augmented». Nel Lancashire, i salari settimanali dei tessitori oscillavano, secondo lo stesso testimone, fra 6 e 12 scellini per 15 ore di lavo­ ro, mentre «bimbi semimorti-di-fame» lavoravano per 2 0 3 scellini la setti­ mana 12-16 ore al giorno. Ancora piu atroce era, se possibile, la miseria nel­ lo Yorkshire. A proposito dell’Indirizzo dei magliai di Nottingham, l’autore scrive di aver controllato personalmente i fatti e di averne concluso che le affermazioni degli operai non erano affatto esagerate («The Edinburgh Re­ view», maggio 1820, pp. 331 sgg.).

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Pure intorno a quel tempo, Owen in Inghilterra e Sismondi in Francia si levavano in un violento attacco alla so­ cietà capitalistica. Mentre però Owen, da buon inglese pra­ tico, e cittadino del primo stato industriale del mondo, si faceva portavoce di una grande riforma sociale, il piccolo­ borghese svizzero si abbandonava a lunghe geremiadi sul­ le imperfezioni del regime sociale vigente e dell’economia classica. Eppure, proprio perciò, Sismondi doveva dare mol­ to piu filo da torcere all’economia borghese che non Owen, la cui azione pratica si rivolgeva direttamente al proleta­ riato. Che lo spunto a una critica sociale fosse offerto a Sismon­ di dall’Inghilterra, e precisamente dalla prima crisi ingle­ se, lo racconta egli stesso diffusamente nella prefazione alla seconda edizione dei suoi Nouveaux principes d’économie politique, ou de la richesse dans ses rapports avec la popu­ lation ( i a ed., 1819; 2a, 1827): « È in Inghilterra che ho assolto questo compito. L ’In­ ghilterra ha prodotto i piu celebri economisti. Le loro teo­ rie vengono, lassù, sostenute con crescente vigore... La con­ correnza universale, o il desiderio di produrre sempre piu a prezzi piu bassi, è da tempo il sistema dominante in In­ ghilterra. Questo sistema io l’ho attaccato come pericoloso - questo sistema che ha fatto fare all’industria inglese i piu straordinari progressi, ma che nel suo svolgersi ha precipi­ tato i lavoratori in una miseria atroce. Su queste convulsio­ ni della ricchezza ho creduto di dovermi indugiare per riflet­ tere ancora una volta sulle mie concezioni e confrontarle coi fatti. «Orbene, lo studio dell’Inghilterra mi ha confermato nei miei “ nuovi principi” . In questo straordinario paese, che sembra celare una grande esperienza ad ammaestramento del resto del mondo, ho visto la produzione crescere e i go­ dimenti ridursi. La massa della popolazione sembra aver di­ menticato, come i filosofi, che l’aumento delle ricchezze non è il fine dell’economia politica, ma il mezzo di cui essa si serve per promuovere la felicità di tutti. Questa felicità l’ho cercata in tutte le classi, senza trovarla in alcuna. Certo, l’alta aristocrazia inglese ha raggiunto un grado di ricchez-

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za e di sfarzo che supera quanto accade di osservare in qua­ lunque altro popolo. Ma non sembra rallegrarsi della pom­ pa che ha conquistato a spese delle altre classi: le manca la sicurezza; in ogni famiglia il bisogno si fa sentire molto piu dell’abbondanza... Nelle file di quest’aristocrazia, titolata e non titolata, il commercio va assumendo un posto di primo piano, le imprese abbracciano ormai tutto il mondo, i di­ pendenti affrontano i geli del polo e i calori torridi dell’e­ quatore, mentre ognuno dei maggiorenti che si radunano alla Borsa maneggia milioni. Nello stesso tempo, in tutte le vie di Londra come in quelle delle altre città inglesi, i ne­ gozi espongono merci che basterebbero a coprire il fabbiso­ gno di tutto l’orbe terracqueo. Ma questa ricchezza garanti­ sce al commerciante inglese la specie di felicità che pur sa­ rebbe in grado di procurarsi? No, in nessun paese i falli­ menti sono cosi numerosi; in nessuno, questi giganteschi patrimoni, ognuno dei quali basterebbe a coprire un presti­ to pubblico per il mantenimento di un regno o di una re­ pubblica, vanno cosi rapidamente in fumo. Tutti si lamen­ tano che gli affari non sono sufficientemente vivaci, che so­ no difficili e poco redditizi. Alcuni anni fa, due terribili cri­ si buttarono a terra una parte dei banchieri, e il flagello ha colpito tutte le manifatture. Nello stesso tempo, un’altra crisi rovinava gli affittavoli e aveva paurosi riflessi sul pic­ colo commercio. D ’altro canto, questo commercio, pur con la sua enorme estensione, non è in grado di dar lavoro ai giovani: tutti i posti sono occupati, e negli strati superiori come negli inferiori della società, la maggioranza offre il proprio lavoro senza poter ottenere un salario. «Infine, questa prosperità nazionale, i cui progressi ma­ teriali abbacinano gli occhi di tutti, è stata di una qualsiasi utilità ai poveri? Niente affatto. In Inghilterra il popolo è tanto poco soddisfatto del presente, quanto poco sicuro del­ l’avvenire. Le campagne sono prive di braccia: i contadini sono stati costretti a lasciare il posto ai giornalieri. Nelle città, in luogo di artigiani o piccoli industriali indipendenti, non vi sono che operai di fabbrica. Il lavoratore industriale non sa piu che cosa significhi avere un mestiere, si limita a ricevere un salario, e poiché questo non può servirgli rego-

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larmente in ogni tempo, quasi ogni anno è costretto a men­ dicare un’elemosina alla Borsa dei poveri. « Questo ricco paese ha trovato piu conveniente vendere tutto l’oro e l’argento che possedeva, servirsi di tratte e, per la loro circolazione, di carta moneta. Si è cosi privato volontariamente del piu importante vantaggio del mezzo di pagamento, la stabilità dei prezzi: chi possiede tratte su banche provinciali corre quotidianamente il rischio d ’essere travolto nelle frequenti e in certo modo epidemiche banca­ rotte dei banchieri, e lo Stato è esposto, nel complesso dei suoi rapporti patrimoniali, alle peggiori convulsioni non ap­ pena un attacco nemico o una rivoluzione interna scuotano il credito della banca nazionale. La nazione inglese ha cre­ duto piu economico rinunciare a tutte le specie di coltiva­ zione della terra, che richiedono molto lavoro manuale; ha licenziato la metà dei coltivatori che abitavano sui loro cam­ pi, così come ha fatto nelle città con gli artigiani; i tessitori cedono il passo ai power looms (telai a vapore) e si riduco­ no a condizioni di fame. H a ritenuto piu economico com­ primere il salario al limite piu basso sopportabile, in modo che gli operai, ridotti a semplici proletari, non temano di dover precipitare in una miseria ancor piu nera: ha ritenu­ to piu economico nutrire di sole patate e vestire di soli stracci gli irlandesi, cosicché ogni nave scarica ogni giorno legioni di questi miserabili che lavorano a prezzi piu bassi degli inglesi e li cacciano dai loro impieghi. Quali frutti ha dato dunque una cosi gigantesca ricchezza accumulata? Ha avuto essa altro effetto che di render partecipi tutte le clas­ si delle ansie, delle privazioni, dei pericoli di un crollo to­ tale? Non ha l’Inghilterra, dimenticando l’uomo per le co­ se, sacrificato il fine ai mezzi» '. Bisogna riconoscere che questo quadro della società ca­ pitalistica, vecchio di quasi un secolo, non lascia a deside­ rare né in chiarezza né in completezza. Sismondi mette il dito su tutte le piaghe della economia borghese: rovina dei mestieri artigiani, spopolamento della terra, proletarizza­ zione dei ceti medi, immiserimento degli operai, sostituzio1 j. c. L. siMONDE de sism o ndi , Neue Grundsätze der Politischen Ökonomie, traduzione di Robert Prager, Berlin 1901, I, xm.

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ne della macchina ai lavoratori, disoccupazione, pericoli del sistema creditizio, contrasti sociali, incertezza della vita, cri­ si, anarchia. La sua critica aspra e penetrante cadde perciò come un’acuta nota discorde in mezzo all’ottimismo soddi­ sfatto dei teorici volgari delle «armonie», che già allora do­ minavano tutta la scienza ufficiale e vi facevano la pioggia e il bel tempo: in Francia, nella persona di J.-B. Say; in In­ ghilterra, in quella di MacCulloch. È facile immaginare qua­ le profonda e penosa impressione producessero affermazio­ ni come, ad esempio: « I l lusso è possibile solo se lo si paga col lavoro di un al­ tro; un lavoro intenso senza riposo è possibile solo se ci si vuole procurare non fronzoli, ma mezzi di vita» (I, 60). «Se l’invenzione delle macchine, che moltiplicano le for­ ze dell’uomo, rappresenta per questi un benefìcio, l’ingiu­ sta distribuzione dei suoi benefici le trasforma, per i pove­ ri, in altrettanti flagelli» (I, xxi). « I l profitto dell’intraprenditore non è che un furto a dan­ no dell’operaio; egli guadagna non perché la sua intrapresa renda piu di quel che costa, ma perché egli non paga quel che costa, perché non garantisce all’operaio un adeguato compenso del lavoro. Una simile industria è un malanno sociale e getta quelli che lavorano nella piu atroce miseria, mentre finge di assicurare al padrone il puro profitto d ’u­ so» (1,71). «Fra quelli che si dividono il reddito nazionale, alcuni conquistano ogni anno un diritto su di esso mediante nuo­ vo lavoro, altri vi hanno conquistato da tempo un diritto permanente mediante lavoro passato, che ha reso piu reddi­ tizio il lavoro annuo» (1,86). «Nulla può impedire che ogni nuova invenzione nella meccanica applicata riduca la popolazione lavoratrice. A questo pericolo essa è costantemente esposta, e la società borghese non ha modo di impedirlo» (II, 258). «Verrà indubbiamente un tempo in cui i nostri nipoti ci considereranno non meno barbari, perché abbiamo lasciato le classi lavoratrici senza alcuna garanzia, di quanto loro e noi stessi consideriamo barbare le nazioni che queste classi trattarono da schiave» (II, 337).

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Sismondi va dunque a fondo nella sua critica, rigettando qualsiasi abbellimento, qualsiasi scappatoia diretta a giusti­ ficare come ombre fugaci e temporanee di un periodo di transizione i lati oscuri del processo dell’accumulazione ca­ pitalistica, e chiude la sua analisi con la seguente frase in polemica con Say: «Sono sette anni che metto a nudo que­ sta malattia del corpo sociale, e in sette anni essa non ha fatto che aggravarsi. In queste prolungate sofferenze io non posso vedere soltanto i travagli che sempre accompagnano le fasi di trapasso, e credo di aver mostrato, risalendo alle origini del reddito, che il male di cui soffriamo è la conse­ guenza necessaria degli errori della nostra organizzazione, errori che non sono affatto prossimi a cessare» Effettivamente, Sismondi crede di individuare la fonte di tutti i mali nello squilibrio fra la produzione capitalistica e la divisione del reddito da essa determinata, ed è a questo punto che sconfina nel problema che direttamente ci riguar­ da: il problema dell’accumulazione. Il filo conduttore della sua critica all’economia classica è questo: la produzione capitalistica è spinta a un illimitato allargamento, senza riguardo al consumo: ma il consumo è misurato dal reddito: «Tutti i piu recenti economisti han­ no riconosciuto che il patrimonio pubblico, in quanto sinte­ si dei patrimoni privati, nasce, si sviluppa, si ripartisce, si sfascia, esattamente come quello del singolo. Tutti sapeva­ no perfettamente che in ogni patrimonio privato la parte che merita particolare attenzione è il reddito, e che in base al reddito si deve orientare il consumo, se non si vuol di­ struggere il capitale. Ma, poiché nel patrimonio pubblico il capitale dell’uno diventa reddito dell’altro, si trovarono im­ pacciati a decidere che cosa fosse capitale e che cosa reddi­ to, e credettero piu spiccio prescinderne completamente nei loro calcoli. Così, tralasciando di considerare la destinazio­ ne di una parte importante della ricchezza quale il reddito, Say e Ricardo giunsero alla conclusione che il consumo sia una potenza senza limiti o che, quanto meno, i suoi limiti siano segnati dalla produzione, mentre chi li segna in realtà1 1 H , P. 358-

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è il reddito. Hanno creduto che ogni ricchezza prodotta tro­ vi sempre i suoi consumatori, e hanno spinto la produzione a quell’ingorgo dei mercati che fa oggi la miseria del mon­ do civile, invece di ammonire i produttori che contassero soltanto sui consumatori dotati di reddito» \ Sismondi mette dunque a base della sua interpretazione una teoria del reddito. Che cos’è reddito e che cosa capita­ le? È su questa distinzione ch’egli si affatica come sul «pro­ blema piu astratto e difficile dell’economia politica». Ad es­ so è dedicato il capitolo IV del libro II. Come al solito, l’in­ dagine comincia con una «robinsonata». Per l’«uomo so­ lo», la distinzione fra capitale e reddito rimaneva «ancora nebulosa»: è nella vita sociale che si precisa. Ma anche qui, essa risulta estremamente difficile per via della favola a noi già nota dell’economia politica borghese, secondo cui «ciò che per uno è capitale è reddito per l’altro» e viceversa. Sis­ mondi fa ingenuamente sua la confusione creata da Smith, e da Say elevata a dogma, a legittimazione della superficiali­ tà e del vuoto mentale: «L a natura del capitale e del red­ dito continuano a sovrapporsi nel nostro cervello; vediamo ciò che per uno è reddito trasformarsi per l’altro in capita­ le; lo stesso oggetto, mentre passa da una mano all’altra, prendere via via le dimensioni piu diverse; il suo valore, staccandosi dall’oggetto consumato, assumere l’aspetto di una quantità soprasensibile che uno spende e l’altro scam­ bia, che per l ’uno si annulla nell’oggetto e per l’altro rinasce e dura finché dura la circolazione». Dopo questa prometten­ te introduzione, Sismondi affronta il difficile problema, e co­ mincia col dichiarare che ogni ricchezza è prodotto del lavo­ ro, e, poiché il reddito è una parte della ricchezza, dovrà ave­ re la stessa origine. Ora è « d ’uso» riconoscere tre specie di reddito-rendita, utile e salario-provenienti da tre diverse fonti: «terra, capitale accumulato e lavoro». Notiamo su­ bito che la prima affermazione è sbagliata: per ricchezza s’intende, in senso sociale, la somma degli oggetti utili, dei valori d’uso, e questi non sono soltanto prodotti del lavo-1 1 I, XIX.

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ro, ma anche della natura, che fornisce al lavoro umano la materia su cui si esercita e lo alimenta con le sue forze. Il reddito rappresenta invece un concetto di valore, l’ampiez­ za della capacità del (o dei) singoli di disporre di una parte della ricchezza sociale o del prodotto sociale totale. Aven­ do Sismondi proclamato il reddito sociale parte della ric­ chezza sociale, si potrebbe ritenere ch’egli intenda per red­ dito della società il suo fondo annuo di consumo: la parte rimanente, non consumata, della ricchezza sarebbe allora il capitale sociale, e ci avvicineremmo, sia pure a larghi tratti, alla distinzione cercata fra capitale e reddito su base socia­ le. Senonché Sismondi accetta subito dopo la distinzione « d ’uso» fra tre specie di reddito, di cui una non deriva che dal «capitale accumulato», mentre nelle altre due interven­ gono, accanto al capitale, anche «la terra» e il «lavoro». In tal modo, il concetto di capitale torna a svanire. Ma seguia­ mo Sismondi nelle sue argomentazioni. Si tratta di spiegare l’origine delle tre specie di reddito, che tradiscono una base sociale antagonistica. Molto saggiamente, Sismondi parte da un determinato livello della produttività del lavoro: «G ra­ zie ai progressi compiuti dall’industria e dalla scienza, che hanno assoggettato tutte le forze naturali all’uomo, ogni lavoratore è oggi in grado di produrre giornalmente piu di quanto sia necessario per il suo consumo». Senonché, do­ po di aver riconosciuto nella produttività del lavoro la pre­ messa inevitabile e la base storica dello sfruttamento, spie­ ga la genesi reale di questo sfruttamento nel modo tipico dell’economia politica borghese: «M a, nello stesso tempo che il suo lavoro [del lavoratore] crea ricchezza, la ricchez­ za lo renderebbe, se volesse goderla, meno abile al lavoro: ecco perché la ricchezza non resta quasi mai nelle mani di chi, per vivere, è costretto a servirsi delle proprie mani». Fatto cosi dello sfruttamento e del contrasto di classe, in perfetto accordo coi ricardiani e malthusiani, il pungolo ne­ cessario della produzione, Sismondi passa alla vera ragione storica dello sfruttamento — il distacco della forza-lavoro dai mezzi di produzione: «In generale, il lavoratore non ha potuto conservare la proprietà del suolo: ora il suolo ha una forza produttiva che

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il lavoro umano si è limitato a regolare secondo i bisogni degli uomini. Chi possiede il suolo sul quale il lavoro si compie trattiene come compenso per i vantaggi dovuti a questa produttività una parte dei frutti del lavoro, alla cui produzione il suo terreno ha collaborato». Ecco la rendita. Inoltre: «Nello stato attuale della civiltà, l’operaio non ha potu­ to conservare il possesso di una scorta sufficiente di ogget­ ti di consumo, di cui ha bisogno nel corso del proprio lavo­ ro fino al punto in cui troverà chi lo acquisti. Non possiede piu le materie prime, che spesso bisogna far venire di lon­ tano e che gli servono per condurre a termine la sua opera. Tanto meno possiede le costose macchine che hanno reso meno faticoso e molto piu produttivo il suo lavoro. Il ricco che possiede questi mezzi di sussistenza, queste materie pri­ me, queste macchine, può astenersi dal lavorare, essendo in certo modo padrone del lavoro di colui al quale fornisce i mezzi per lavorare. A titolo di compenso per i vantaggi di cui ha reso partecipe il lavoratore, egli si trattiene la mag­ gior parte dei frutti del lavoro». Ecco l’utile del capitale. Quel che rimane della ricchezza, dopo che vi hanno attinto i proprietari fondiari e i capitalisti, è salario, reddito del la­ voratore. E Sismondi aggiunge: «Egli lo consuma senza ch’esso si rinnovi», elevando cosi a caratteristica distintiva del reddito (come della rendita, e a differenza del capitale) il suo non-rinnovarsi. Ma ciò è esatto solo in rapporto alla rendita e alla parte consumata dell’utile di capitale; la parte del prodotto sociale consumata come salario, invece, si rin­ nova nella forza-lavoro del salariato: per lui stesso, come merce che può sempre portar sul mercato per vivere della sua alienazione; per la società, come forma materiale del capitale variabile, che deve continuamente riapparire nella riproduzione sociale annua, se questa non deve chiudersi in passivo. Comunque, abbiamo appreso finora due cose: che la pro­ duttività del lavoro permette lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei non-lavoratori; che il distacco dei lavoratori dai mezzi di produzione fa dello sfruttamento di quelli la base reale della divisione del reddito. Non sappiamo però

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ancora che cosa sia reddito e che cosa capitale. Sismondi si accinge a spiegarcelo. Come quei tipi che non sanno ballare se non partono dall’angolo della stufa, egli non può far a meno di prender le mosse da Robinson: «A gli occhi del­ l’uomo solo, ogni ricchezza non era se non una scorta accu­ mulata per il momento del bisogno. Tuttavia, in questa scorta anche lui distingueva due cose: una parte che con­ servava per utilizzarla piu tardi a soddisfazione dei suoi bi­ sogni immediati o quasi; un’altra che destinava al rinnovo della produzione. Cosi, una parte del suo grano doveva nu­ trirlo fino al prossimo raccolto, mentre una parte destinata alla semina doveva fruttificare l’anno dopo. La formazione della società e l’introduzione dello scambio permisero l’ac­ crescimento quasi illimitato della parte fruttifera della ric­ chezza accumulata: è questo che si chiama capitale». Queste si chiamano chiacchiere. Basandosi sull’analogia con le sementi, Sismondi identifica mezzi di produzione e capitale, il che è doppiamente falso: i) perché i mezzi di produzione sono capitale non in sé, ma in circostanze stori­ che ben determinate; 2) perché il concetto di capitale non è esaurito da quello di mezzi di produzione. Nella società capitalistica — presupposto tutto il resto di cui Sismondi non parla —i mezzi di produzione sono una parte soltanto del capitale: il capitale costante. Evidentemente, Sismondi si è lasciato sviare dal tentati­ vo di istituire un rapporto fra il concetto di capitale e gli aspetti materiali della riproduzione sociale. Finché aveva sott’occhio il capitalista singolo, considerava parti compo­ nenti del capitale, oltre ai mezzi di produzione, anche i mez­ zi di sussistenza per i lavoratori - altra impostazione ine­ satta dal punto di vista materiale della riproduzione del ca­ pitale singolo. Non appena tenta di stabilire le basi mate­ riali della riproduzione sociale e si avvia alla giusta distin­ zione fra mezzi di consumo e mezzi di produzione, ecco che il concetto di capitale gli si sbriciola fra le mani. Tuttavia, sente egli stesso che, coi puri mezzi di produ­ zione, né produzione né sfruttamento sono possibili, intui­ sce che il centro di gravità dello sfruttamento risiede nello scambio con la forza-lavoro viva. E, dopo di aver ridotto in­

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teramente il capitale a capitale costante, in un’esposizione successiva lo riduce interamente a capitale variabile: « I l contadino che aveva messo da parte il grano di cui credeva di aver bisogno fino al prossimo raccolto, si accorse del maggior vantaggio che avrebbe avuto ad utilizzare l’ec­ cedenza del suo grano per nutrire altri uomini che lavorava­ no la terra per lui e vi facevano crescere nuovo grano, o che filavano il suo lino e tessevano la sua lana... Con quest’ope­ razione, egli cambiò in capitale una parte del suo reddito: ed è sempre cosi che un nuovo capitale si forma. Il grano che aveva raccolto al di là di quanto gli occorreva per il suo sostentamento e di quanto era costretto a seminare per mantenere all’antico livello la sua azienda, costituiva una ricchezza ch’egli era libero di buttar via, di sciupare, di con­ sumare nell’ozio, senza per questo impoverire: era, insom­ ma, un reddito; ma quando lo utilizzò per mantenere ope­ rai produttori di nuovo grano o lo scambiò contro lavoro o contro i frutti del lavoro dei suoi manovali, dei suoi tessi­ tori, dei suoi minatori, si trasformò in un valore duraturo, che si accresceva e non poteva perire: divenne capitale» (op. eit., I, 88). Verità ed errore s’incrociano qui in un pittoresco grovi­ glio. Perché la produzione si mantenga al livello preceden­ te, cioè ai fini della riproduzione semplice, sembra ancor ne­ cessario un capitale costante, sia pure ridotto al solo capi­ tale circolante (sementi); è invece completamente trascura­ ta la riproduzione del capitale fisso. Per l’allargamento del­ la riproduzione, per l’accumulazione, anche il capitale cir­ colante sembra, per contro, superfluo: l’intera parte capita­ lizzata del plusvalore è convertita in salari per nuovi operai, i quali, evidentemente, lavoreranno per aria, senza mezzi di produzione. La stessa tesi è ancor piu chiaramente formu­ lata in un altro passo: « I l ricco pensa dunque al bene del povero quando risparmia sul reddito e aggiunge questa par­ te risparmiata al capitale: dividendo egli stesso la produ­ zione annua, si trattiene tutto ciò che chiama reddito per consumarlo, e lascia tutto ciò che chiama capitale ai poveri, come loro reddito» (op. eit., I, 84). Nello stesso tempo, Sismondi svela il segreto del sovraprodotto e la genesi del ca­

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pitale: il plusvalore nasce dallo scambio di capitale contro lavoro, dal capitale variabile; il capitale nasce dall’accumu­ lazione di plusvalore. Con tutto questo, non abbiamo ancora fatto un passo avanti nella distinzione fra capitale e reddito, e Sismondi procede a un tentativo di rappresentare i diversi elementi della produzione e del reddito in corrispondenti frazioni del prodotto sociale totale: « L ’imprenditore, come il con­ tadino, non impiega tutta la sua ricchezza produttiva in se­ menti; una parte la impiega in fabbricati, in macchine, in attrezzi, che alleviano e rendono piu redditizio il lavoro, al­ lo stesso modo che una parte della ricchezza del contadino affluisce ai lavoratori stabili che rendono piu fertile il suo­ lo. Vediamo cosi nascere e via via differenziarsi le diverse specie di ricchezza. Una parte della ricchezza che la società ha accumulato viene impiegata dai suoi possessori a rende­ re piu redditizio attraverso un graduale consumo il lavoro umano e ad applicarlo alle forze cieche della natura: è quel­ la che si chiama capitale fisso, e con cui s’intendono i canali d’irrigazione, le fabbriche e le macchine d ’ogni specie. Una parte è destinata ad esser consumata per rinnovarsi nell’o­ pera che ha creato, senza cessar di cambiare la sua forma ma conservando il suo valore; questa parte, che si chiama capitale circolante, comprende le sementi, le materie prime destinate ad essere lavorate, e i salari. Una terza parte della ricchezza si stacca dalla seconda, ed è il valore per il quale il prodotto finito supera gli anticipi fatti per la sua fabbrica­ zione. Questo valore, che si è chiamato reddito di capitale, è destinato ad esser consumato senza riproduzione». Ma, tentata cosi con gran cura la suddivisione del pro­ dotto sociale totale nelle categorie incommensurabili di ca­ pitale fisso, capitale circolante, plusvalore, ci si accorge al­ l’ultimo memento che Sismondi, quando parla di capitale fisso, intende in realtà costante, e quando parla di capitale circolante intende in realtà variabile, giacché «tutto ciò ch’è prodotto» è destinato al consumo umano, ma il capitale fis­ so è consumato solo «indirettamente», mentre il capitale circolante «serve al fondo destinato al mantenimento del­ l’operaio sotto forma di salario». Saremmo cosi ritornati,

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grosso modo, alla divisione del prodotto totale in capitale costante (mezzi di produzione), variabile (mezzi di sussi­ stenza degli operai) e plusvalore (mezzi di sussistenza dei capitalisti): ma non si può certo dire che, su questo punto da Sismondi ritenuto fondamentale, si sia fatta luce, né che si siano compiuti sensibili progressi rispetto a Smith. È lo stesso Sismondi ad accorgersene, e, ammettendo con un sospiro «che questo moto della ricchezza è del tutto astratto e richiede per esser compreso un enorme sforzo», cerca di chiarire il problema «nella piu semplice delle im­ postazioni». Torniamo dunque all’angolo della stufa, a Ro­ binson, con la differenza che Robinson è ora pater familias e pioniere del colonialismo. «U n coltivatore solitario in una lontana colonia al bordo del deserto ha in un anno raccolto cento sacchi di grano; non esiste nelle vicinanze un mercato sul quale portarlo; bi­ sogna assolutamente, se deve avere un valore per il con­ tadino, consumare il raccolto nel giro dell’anno; ma il conta­ dino con la sua famiglia non ne può consumare piu di tren­ ta sacchi; è questa la sua spesa, la conversione del suo red­ dito; quei trenta sacchi non si riproducono piu per nessu­ no. Il coltivatore arruolerà dunque della mano d ’opera, ab­ batterà foreste, prosciugherà le paludi intorno, metterà in coltivazione una parte del deserto. Quella mano d ’opera consumerà altri trenta sacchi; è la spesa che possono per­ mettersi come prezzo del loro reddito, cioè del loro lavoro; per il coltivatore essa sarà uno scambio, egli trasformerà quei trenta sacchi in capitale fisso. [Ecco che Sismondi tra­ sforma il capitale variabile in fisso! La sua frase significa in realtà: per i trenta sacchi che hanno ricevuto come salario, i lavoratori producono mezzi di produzione che il coltiva­ tore potrà utilizzare all’allargamento del suo capitale fisso]. Rimangono ancora quaranta sacchi, ch’egli seminerà quel­ l’anno invece dei venti che aveva seminato l’anno prima: e sarà il suo capitale circolante raddoppiato. Cosi i cento sac­ chi sono consumati; ma di questi sono settanta quelli che riappaiono notevolmente aumentati, gli uni nel successivo raccolto, gli altri nei raccolti che seguiranno. L ’isolamento del coltivatore che abbiamo preso ad esempio ci permette

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di riconoscere ancor meglio i limiti di una simile attività. Se in quell’anno, sui cento sacchi prodotti, egli ne ha potuti consumare solo sessanta, chi mangerà l’anno dopo i due­ cento che l’aumento delle semine avrà permesso di ottene­ re? Si dirà la sua famiglia, che si è frattanto accresciuta. Certo, ma l’incremento della popolazione umana non è ra­ pido come quello dei mezzi di sussistenza. Se il nostro colti­ vatore avesse abbastanza braccia per raddoppiare ogni an­ no la sua attività, il suo raccolto granario sarebbe ogni anno raddoppiato, mentre la sua famiglia potrebbe raddoppiarsi al massimo in venticinque anni». L ’esempio è infantile, ma contiene nelle ultime righe il problema fondamentale: dov’è lo sbocco per il plusvalore capitalizzato? L ’accumulazione del capitale può moltiplicare all’infinito la produzione sociale. Ma e il consumo socia­ le, determinato dalle diverse specie di reddito? Il capitolo V del libro II, sulla «ripartizione del reddito nazionale fra le diverse classi di cittadini», tratta appunto di quest’argo­ mento. Qui Sismondi fa un nuovo tentativo di rappresentare nel­ le sue parti il prodotto totale della società: «D a questo pun­ to di vista, il reddito nazionale consiste di due parti: una comprende la produzione annua, l’utile proveniente dalla ricchezza; l’altra è la capacità di lavorare, implicita nella stessa vita. Sotto il nome di ricchezza intendiamo ora tanto la proprietà della terra quanto il capitale, e sotto il nome “ frutto” o “ utile” intendiamo tanto il reddito netto dei proprietari terrieri, quanto l’utile dei capitalisti». Come si vede, l’insieme dei mezzi di produzione è escluso come « ric­ chezza» dal «reddito nazionale», che si divide per contro in plusvalore e forza-lavoro [o, meglio, nel suo equivalen­ te, il capitale variabile]. Avremmo dunque, sia pur espres­ sa confusamente, la suddivisione in capitale costante, capi­ tale variabile e plusvalore. Ma subito dopo ci si avvede che Sismondi intende per «reddito nazionale» il prodotto tota­ le sociale annuo: «Allo stesso modo, la produzione annua o il risultato di tutti i lavori dell’anno consta di due parti: una, l’utile derivante dalla ricchezza; l’altra la facoltà di la­ vorare, che noi identifichiamo con la parte della ricchezza

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contro la quale è data in cambio, o i mezzi di sussistenza dei lavoratori». Qui il prodotto sociale totale si risolve, se­ condo il valore, in due parti: capitale variabile e plusvalo­ re, il capitale costante scompare, ed eccoci al dogma smithiano secondo cui il prezzo di tutte le merci si risolve in v + p (o si compone di v + p); in altre parole, il prodotto totale consiste unicamente di mezzi di consumo (per lavo­ ratori e capitalisti). Di qui, Sismondi passa al problema della realizzazione del prodotto totale. Poiché da una parte la somma dei red­ diti della società consiste di salari e profitti del capitale, ol­ tre che delle rendite fondiarie, cioè rappresenta v + p, e d ’altra parte il prodotto totale sociale si risolve ugualmen­ te (secondo il valore) in v + p, «reddito nazionale e produ­ zione annua si equilibrano a vicenda» e devono essere uguali (in valore): « L ’intera produzione annua è consumata annualmente, ma, poiché ciò avviene in parte ad opera di lavoratori che danno in cambio il proprio lavoro, questi la trasformano in capitale [variabile] e la riproducono; l’altra parte è invece consumata dai capitalisti, che la scambiano contro il loro reddito». « L ’insieme del redditto annuo è de­ stinato ad essere scambiato contro l’insieme della produzio­ ne annua». Infine, partendo da queste premesse, Sismondi costruisce nel capitolo VI del libro II («determinazione della produzione da parte del consumo, e delle spese da parte del reddito») la seguente legge esatta della riprodu­ zione: « I l reddito dell’anno passato deve pagare la produ­ zione di quest’anno». Come potrà dunque, date queste pre­ messe, avvenire l’accumulazione capitalistica? Se il prodot­ to totale dev’essere consumato senza residui da lavoratori e capitalisti, dalla riproduzione semplice non si esce, e il pro­ blema dell’accumulazione diventa insolubile. È a questo, infatti, che la teoria sismondiana conduce. Se l’intera do­ manda sociale è rappresentata dalla somma dei salari dei la­ voratori e dal consumo personale dei capitalisti, chi acqui­ sterà il prodotto eccedente nel caso dell’allargamento della riproduzione? Lo stesso Sismondi formula l’impossibilità obiettiva dell’accumulazione in questa frase: «N e segue che non è mai possibile scambiare la totalità della produzio-

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ne dell’anno [nel caso della riproduzione allargata] contro la totalità della produzione dell’anno precedente. Se la pro­ duzione aumenta gradatamente, lo scambio di quest’anno deve produrre una piccola perdita, che nello stesso tempo rappresenta un indennizzo per le situazioni future». In al­ tre parole, l’accumulazione deve ogni anno, all’atto della realizzazione del prodotto totale, dare alla luce un’ecceden­ za invendibile. Ma, spaventato da questa estrema conse­ guenza, Sismondi ripiega sul «giusto mezzo»: «Se questa perdita è piccola e viene ben ripartita, ognuno la sopporte­ rà senza lamentarsi del suo reddito. Proprio in questo sta la parsimonia di un popolo; la serie di questi piccoli sacrifi­ ci aumenta il capitale e il patrimonio nazionale». Se invece la riproduzione è praticata senza scrupoli, l’eccedenza ine­ sitabile si trasforma in una calamità pubblica e abbiamo le crisi. Ecco la soluzione data da Sismondi: la scappatoia pic­ colo-borghese del «freno all’accumulazione». La polemica contro la scuola classica, patrocinatrice dell’illimitata espan­ sione delle forze produttive e dell’allargamento della pro­ duzione, è infatti il ritornello continuo di Sismondi, e tutta la sua opera è intesa a mettere in guardia contro le conse­ guenze fatali della spinta incontrollata all’accumulazione. L ’esposizione della teoria sismondiana ha dimostrato la sua incapacità di comprendere il processo della riproduzio­ ne nel suo insieme. A parte il tentativo fallito di distinguere sul piano sociale le categorie capitale e reddito, la teoria della riproduzione soffre in Sismondi dell’errore fondamen­ tale ereditato da Smith, dell’ipotesi cioè che il prodotto to­ tale annuo si risolva senza residui in consumo personale, senza lasciar neppure una briciola di valore per il rinnovo del capitale costante della società, cosicché l’accumulazio­ ne consiste unicamente nella trasformazione del plusvalore capitalizzato in capitale variabile addizionale. Tuttavia, i critici posteriori di Sismondi, come il marxista russo Hin ‘, che, richiamandosi a questo errore fondamentale dell’anali­ si del valore del prodotto totale, credettero di poter liqui1 Vladimir 1899-

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[ len in ] , Studi e articoli di economia, Pietersburg

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dare con un sorriso di superiorità la teoria sismondiana del­ l ’accumulazione, da essi definita inconsistente e «assurda», dimostrano soltanto di non aver capito il problema. Che non basti tener presente nel prodotto totale la parte di va­ lore corrispondente al capitale costante, per risolvere il pro­ blema dell’accumulazione, ne dà una prova luminosa l ’ana­ lisi di Marx, che pure era stato il primo a scoprire il grosso­ lano errore di Adam Smith. Ma una prova anche piu decisi­ va è offerta dal destino della stessa teoria di Sismondi. In­ fatti, per averla sostenuta, l’economista svizzero doveva en­ trare in furibonda polemica coi rappresentanti e volgarizza­ tori della scuola classica: Ricardo, Say e MacCulloch. Le due parti sostenevano punti di vista opposti: Sismondi l’impos­ sibilità dell’accumulazione; Ricardo, Say e MacCulloch la sua possibilità illimitata. Quanto all’errore smithiano, era­ no però sullo stesso terreno: come Sismondi, i suoi avver­ sari prescindevano, nella riproduzione, dal capitale costan­ te; e nessuno ha elevato con tanta pretenziosità a dogma incrollabile l’equivoco di Smith sulla risoluzione del pro­ dotto totale in v + p, quanto Say. Basterebbe questo particolare gustoso a provare che, per risolvere il problema dell’accumulazione, non è sufficiente sapere, grazie a Marx, che il prodotto sociale totale deve contenere, oltre ai mezzi di consumo per lavoratori e capi­ talisti (v + p), anche mezzi di produzione (c) per il rinnovo del capitale logorato, e che perciò l’accumulazione non con­ siste soltanto nell’aumento del capitale variabile, ma anche nell’aumento del capitale costante. Vedremo in seguito a quale nuovo errore in rapporto all’accumulazione abbia con­ dotto l’accentuazione della parte costante del capitale nel processo riproduttivo. Basti intanto constatare il fatto che l’errore di Smith a proposito della riproduzione del capita­ le totale non costituisce una debolezza specifica della posi­ zione di Sismondi, ma il terreno comune sul quale divampò la prima controversia sul problema dell’accumulazione. Ciò significa soltanto che l’economia politica borghese si è av­ vicinata al complicato problema dell’accumulazione senza aver preliminarmente risolto il problema elementare della riproduzione semplice, allo stesso modo che, non solo del

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resto in questo campo, la ricerca scientifica procede a strani zig-zag e spesso si mette a costruire l’ultimo piano dell’edi­ ficio prima di averne portato a termine il basamento. Il fat­ to comunque che gli economisti borghesi non riuscissero a demolire la teoria sismondiana, pur nelle sue evidenti de­ bolezze e perplessità, mostra quale osso duro Sismondi ab­ bia dato loro da rodere con la sua critica dell’accumulazione.

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C A P IT O L O U N D I C E S I M O

M ACCULLOCH CONTRO SISM O N D I

Il grido di Cassandra lanciato da Sismondi contro l’illi­ mitata espansione del dominio del capitale in Europa solle­ vò contro di lui la violenta opposizione della scuola di Ri­ cardo in Inghilterra, di Say e dei sansimoniani in Francia. Mentre le idee sviluppate in Inghilterra da Owen, che po­ neva l’accento sui lati oscuri del sistema industriale e so­ prattutto sulle crisi, collimavano in molti punti con quelle di Sismondi, la scuola dell’altro grande utopista, Saint-Si­ mon, che puntava invece sull’espansione mondiale della grande industria e sullo spiegamento illimitato delle forze produttive del lavoro umano, reagi vivacemente al grido di allarme sismondiano. Tuttavia, a noi interessa qui la pole­ mica, assai piu feconda dal punto di vista teorico, fra Sis­ mondi e i seguaci di Ricardo. In nome di questi ultimi (e si vuole con l’approvazione dello stesso maestro) MacCulloch lanciava nella «Edinburgh Review» dell’ottobre 1819, cioè subito dopo la pubblicazione dei Nouveaux principes, una violenta offensiva anonima contro Sismondi ', alla qua-1 1 Per la verità, l’articolo della «Edinburgh Review» era diretto contro Owen, e soprattutto contro i quattro scritti: A New View of Society, or Es­ says on the Formation of Human Character, Observations on the Effects of the Manufacturing System, Two Memorials on Behalf of the Working Clas­ ses, presented to the Governments of America and Europe, e Three Tracts, and an Account of Public Proceedings relative to the Employment of the Poor. L’anonimo cerca di mostrare minutamente a Owen come i suoi progetti di riforma non colpiscano le cause reali della miseria del proletariato inglese, da ricercarsi nel passaggio alla coltivazione di terreni improduttivi (teoria ricardiana della rendita fondiaria), nel dazio sul grano, nelle tasse che soffocano fittavoli e manufatturieri. Dunque, libero commercio e laissez faire, ecco l’al­ fa e l’omega: non inceppando l’accumulazione, ogni aumento della produ­ zione crea di per sé un aumento correlativo della domanda. A questo propo­ sito, Owen è tacciato, con richiami a Say e James Mill, di «completa igno­ ranza»: «In his reasonings, as well as in his plans, Mr. Owen shows himself

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le quest’ultimo rispose l’anno dopo, sugli «Annales de Ju ­ risprudence» di Rossi, con un Exam en de cette question: le pouvoir de consommer s’accroît-il toujours dans la so­ ciété? \ Lo stesso Sismondi riconferma nella risposta che erano state le ombre della crisi commerciale a dare il tono alla sua polemica: «L a verità che entrambi cerchiamo [Sismon­ di non sapeva chi fosse l’anonimo della “ Edinburgh Re­ view” ] è oggi della massima importanza, e va considerata decisiva per tutta l’economia politica. Un generale declino si manifesta nel commercio, nella manifattura e, almeno in certi paesi, nell’agricoltura. Il male è così tenace e così gra­ ve, la disperazione è tornata in tante famiglie, l’inquietu­ dine e lo scoraggiamento in tutte, che ne sembrano minac­ ciate le basi stesse dell’ordine sociale... Di questo declino sono state date due spiegazioni opposte, una delle quali ha causato un profondo fermento. Avete lavorato troppo, di­ cono gli uni; avete lavorato troppo poco, dicono gli altri. L ’equilibrio, dicono i primi, si ristabilirà, riappariranno la pace e il benessere, solo quando avrete consumato l ’intera eccedenza di merci che pesa invenduta sul mercato, e se in avvenire baserete la produzione sulla domanda degli acqui­ renti. L ’equilibrio si ristabilirà, dicono gli altri, solo se rad­ doppierete gli sforzi per accumulare e riprodurre; vi sba­ gliate se credete che i nostri mercati siano saturi: solo la metà dei nostri magazzini è piena, riempiamo anche l ’altra; profoundly ignorant of all the laws which regulate the production and distri­ bution of wealth». E, da Owen, MacCulloch passa a Sismondi, formulando cosi la controversia: «He [Owen] conceives that when competition is un­ checked by any artificial regulations, and industry permitted to flow in its natural channels, the use of machinery may increase the supply of the seve­ ral articles of wealth beyond the demand for them, and by creating an excess of all commodities, throw the working class out of employment. This is the position which we hold to be fundamentally erroneous; and as it is strongly insisted on by the celebrated M. de Sismondi in his Nouveaux Principes d’Economie Politique, we must entreat the indulgence of our readers while we endeavour to point out its fallacy, and to demonstrate, that the power of consuming necessarily increases with every increase in the power of pro­ ducing» («Edinburgh Review», ottobre 1819, p. 470). 1 Non avendo potuto trovar l’originale, citiamo dalla 2* ed. dei Nou­ veaux principes in cui fu riprodotto.

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queste ricchezze si scambieranno a vicenda, e il commercio si ravviverà». Bisogna riconoscere che Sismondi ha qui formulato con sorprendente chiarezza il vero punctum dolens della pole­ mica. In realtà, la posizione di MacCulloch si regge e cade insieme con la tesi che lo scambio sia di fatto scambio di merci contro merci, per cui ogni merce rappresenta non sol­ tanto un’offerta ma, a sua volta, una domanda. Il dialogo si svolge così. MacCulloch: «Domanda e offerta sono espres­ sioni correlative e intercambiabili. L ’offerta di una catego­ ria di beni determina la richiesta di un’altra. Così, si ha do­ manda di una certa quantità di prodotti agricoli quando viene offerta in cambio una massa di prodotti industriali la cui produzione è costata altrettanto, e si ha d ’altra parte do­ manda effettiva di prodotti industriali quando è offerta in contropartita una massa di prodotti agricoli che ha richie­ sto le stesse sp e se »1. Il gioco del ricardiano è scoperto: egli prescinde dalla circolazione monetaria, come se le mer­ ci fossero comprate e pagate direttamente con merci. Dalle condizioni di una produzione capitalistica altamen­ te sviluppata, eccoci ripiombati di colpo ai tempi del barat­ to, come può fiorire ancor oggi nel cuore dell’Africa. Il noc­ ciolo di verità della mistificazione sta nel fatto che, nella circolazione semplice delle merci, il denaro ha un puro ruo­ lo d ’intermediario; ma appunto l’intervento di questo in­ termediario, che ha separato e reso temporalmente e spa­ zialmente distinti nella circolazione M-D-M (merce-denaromerce), i due atti della vendita e della compra, porta con sé che, anzitutto, la vendita non ha bisogno di essere imme­ diatamente seguita dall’acquisto, e che, in secondo luogo, vendita e acquisto non sono legati alle stesse persone, anzi solo in casi eccezionali si svolgono fra le stesse personae dramatis. Ora è proprio questa l’ipotesi assurda che Mac Culloch avanza contrapponendo industria e agricoltura co­ me venditori e acquirenti nello stesso tempo. Il carattere generale di tali categorie, fatte intervenire nella loro totali­ tà massiccia come i due poli dello scambio, maschera l’ef«Edinburgh Review», ottobre 1819, p. 470.

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fettiva frantumazione di questa divisione del lavoro socia­ le in un’infinità di atti privati di scambio, in cui la coinci­ denza delle vendite e degli acquisti delle rispettive merci rappresenta un caso eccezionalissimo. Insomma, l’interpre­ tazione semplicistica dello scambio delle merci data da Mac Culloch, che trasforma la merce direttamente in denaro e attribuisce ad essa una immediata scambiabilità, rende in­ comprensibile l’importanza economica e la ragione storica del denaro. D ’altra parte, altrettanto goffa è la risposta di Sismondi. Per dimostrare l’inconsistenza della rappresentazione dello scambio delle merci in MacCulloch dal punto di vista della produzione capitalistica, egli ci rinvia alla fiera di Lipsia: «Q ui tutti i librai tedeschi affluiscono da tutte le parti della Germania, ognuno con quattro o cinque opere da lui messe in vendita, ciascuna stampata in un’edizione di 500 o 600 esemplari. Ognuno di loro le scambia contro altri libri, e torna a casa con 2400 volumi come con 2400 ne era parti­ to, con la differenza ch’era partito con quattro opere diver­ se e ne torna con 200. Eccole, la domanda e la produzione correlative e intercambiabili dell’allievo di Ricardo: lu n a compra l’altra, l’una paga l ’altra, l’una è conseguenza del­ l’altra; ma per noi, per i librai e per il pubblico, domanda e consumo non sono in realtà ancora cominciati. Per quanto scambiato a Lipsia, il brutto libro non cessa di rimaner in­ venduto [banale errore di Sismondi!] e di riempir gli scaf­ fali delle librerie, vuoi che nessuno lo chieda, vuoi che il fabbisogno sia già coperto. I libri scambiati a Lipsia si ven­ deranno realmente solo quando i librai troveranno dei pri­ vati che non soltanto li desiderano, ma sono anche disposti a sacrifici pur di sottrarli alla circolazione. Questa e solo questa è domanda! » Pur nella sua ingenuità, l’esempio mo­ stra che Sismondi non si è lasciato confondere dalla finta dell’avversario e sa benissimo che cosa è in gioco1 1 Del resto, la fiera di Lipsia dell’esempio sismondiano, come microco­ smo del mercato mondiale capitalistico, doveva celebrare cinquantacinque anni dopo la sua allegra resurrezione nel «sistema» scientifico di Eugen Dühring. E se Engels, nella sua fustigazione critica dell’infelice genio uni­ versale, dice che Dühring si rivela un «autentico letterato tedesco» proprio

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MacCulloch tenta di spostare l’indagine dallo scambio astratto di merci al terreno dei rapporti sociali concreti: «Ammettiamo che un agricoltore abbia anticipato cibo e vestiario per cento lavoratori e questi gli abbiano fornito una produzione di mezzi di sussistenza che basterebbe per duecento, e che lo stesso abbia fatto un industriale con cen­ to operai, ottenendone la produzione di vestiti per duecen­ to uomini. Dedotti il cibo e il vestiario per i suoi lavoratori, al fittavolo rimarrà disponibile una massa di beni di consu­ mo per cento, mentre l’industriale, sostituito il vestiario dei suoi cento operai, potrà portarne per cento sul mercato. I due articoli si scambiano l’uno contro l’altro, i mezzi di sussistenza eccedenti determinano la domanda di vestiario, e i vestiti eccedenti determinano la domanda di alimen­ tari». In quest’ipotesi non si saprebbe che cosa piu ammirare: l’assurdo di una costruzione che capovolge tutti i termini reali, o la disinvoltura con cui si presuppone nelle premesse ciò che si deve dimostrare, e lo si fa passare per «dimostra­ to». Comunque, al confronto, la fiera di Lipsia sembra un modello di ragionamento profondo e realistico. MacCulloch vorrebbe provare che per ogni genere di merce si può creare in qualsiasi momento una domanda illimitata, portando ad esempio due oggetti che appartengono ai bisogni piu impe­ riosi ed elementari di ogni uomo: cibo e vestiario. Per di­ mostrare che le merci possono essere scambiate in quantità sempre crescenti senza riguardo al fabbisogno sociale, sce­ glie un caso in cui le quantità dei prodotti corrispondono esattamente ai bisogni, in cui perciò un’«eccedenza» non esiste dal punto di vista sociale; chiama «eccedenza» la quan­ tità socialmente necessaria (eccedenza rispetto al fabbiso­ gno personale che il produttore ha dei suoi prodotti) e pro­ va cosi trionfalmente che qualsivoglia «eccedenza» di mer­ ci può sempre esser scambiata con una corrispondente «ec­ cedenza» di altre merci. Infine, per dimostrare che lo scamnel tentativo di spiegare le vere e proprie crisi industriali con le crisi fittizie del mercato librario a Lipsia, la tempesta nell’oceano con la tempesta in un bicchier d’acqua, il grande uomo non ha fatto, come in tanti casi messi in luce da Engels, che contrarre silenziosamente un debito con altri.

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bio fra diverse merci prodotte privatamente può essere av­ viato sebbene le loro quantità, i loro costi di produzione, la loro utilità sociale siano differenti, parte da due quantità esattamente uguali di merci dello stesso costo di produzione e della stessa necessità generale per la società. Insomma, per dimostrare l’impossibilità di una crisi nell’economia pri­ vata capitalistica, nell’economia non regolata, costruisce una produzione strettamente pianificata in cui nessuna sovraproduzione si verifica. Ma l’imbroglio maggiore risiede altrove. Il tema del di­ battito era il problema dell’accumulazione. Ciò che tormen­ tava Sismondi, e per cui egli tormentava Ricardo e i suoi epigoni, era la domanda: dove trovare acquirenti per l’ec­ cedenza di merci, se una parte del plusvalore, invece di es­ sere consumata personalmente dai capitalisti, è capitalizza­ ta, cioè impiegata all’allargamento della produzione al di sopra del reddito della società? Che ne sarà del plusvalore capitalistico, chi comprerà le merci in cui si annida? Questo chiedeva Sismondi. E l’ornamento della scuola ricardiana, il suo rappresentante ufficiale alla cattedra dell’università di Londra, l’autorità massima sia per i ministri liberali inglesi dell’epoca che per la City, il molto onorevole MacCulloch, risponde costruendo un esempio in cui non si produce plus­ valore! I suoi «capitalisti» si affannano nell’agricoltura e nell’industria per puro amor cristiano: l’intero prodotto so­ ciale, unito alla «eccedenza», basta appena per i bisogni dei lavoratori, per i salari; «fittavolo» e «industriale» dirigono affamati e nudi produzione e scambio. Ha perciò ragione Sismondi di esclamare spazientito: «Quando ci arrabattiamo a cercare che cosa avvenga del­ l’eccedenza della produzione oltre il consumo dei lavorato­ ri, non è lecito prescindere proprio dall’eccedenza che costi­ tuisce il necessario utile del lavoro e la necessaria parte del datore di lavoro». Senonché, MacCulloch centuplica la sua disinvoltura pre­ supponendo l’esistenza di «mille fittavoli» che si comporta­ no con la stessa genialità di quell’uno, e di altrettanti «indu­ striali»: inutile dire che lo scambio si svolge senza incon­ venienti. Infine, fa raddoppiare la produttività del lavoro

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«in seguito a un piu intelligente impiego del lavoro e all’in­ troduzione di macchine», in modo che «ognuno dei mille fittavoli, che anticipa cibo e vestiario ai suoi cento lavora­ tori, trattenga mezzi di sussistenza comuni per duecento persone, oltre a zucchero, tabacco e vino, di valore pari ai suddetti mezzi», mentre ogni industriale, con procedura analoga, oltre alla precedente quantità di vestiti per gli ope­ rai ottiene «nastri, pizzi e batista... la cui produzione costa la stessa somma e che perciò avranno un valore di scambio pari a quei duecento vestiti». E , dopo di aver capovolto la prospettiva storica e presupposto prima la proprietà capita­ listica con lavoro salariato, poi, in uno stadio successivo, un livello della produttività del lavoro suscettibile di consentir lo sfruttamento, ammette che questi progressi nella produt­ tività si compiano in tutti i campi esattamente nello stesso tempo, che il sovraprodotto di ogni ramo della produzione contenga esattamente lo stesso valore e si ripartisca fra lo stesso numero di persone; infine fa scambiare l’uno contro l’altro i diversi sovraprodotti e, oh meraviglia!, ancora una volta tutto si scambia con soddisfazione universale senza in­ toppi e senza residui. Non basta: con nuova disinvoltura, Mac dispone che i suoi «capitalisti», i quali finora vivevano d ’aria e assolvevano al loro compito in costume adamitico, si nutrano esclusivamente di zucchero, tabacco e vino e adornino i loro corpi di nastri, pizzi e batista! Il trucco sta sempre nella piroetta con cui MacCulloch evita il problema vero e proprio. Che cos’avviene del plus­ valore capitalizzato, cioè del plusvalore destinato non al consumo personale dei capitalisti ma alPallargamento della produzione? Questa era la domanda. MacCulloch risponde una volta prescindendo addirittura dal plusvalore, e l’altra destinando l’intero plusvalore alla produzione di articoli di lusso. Questi articoli chi li acquisterà? Secondo l’esempio di MacCulloch, evidentemente i capitalisti (fittavoli e indu­ striali), giacché per lui, all’infuori di questi, non esistono che lavoratori. Abbiamo cosi il consumo dell’intero plusva­ lore ai fini dei bisogni personali dei capitalisti; in altre pa­ role, riproduzione semplice. Alla domanda sulla capitaliz­ zazione del plusvalore si risponde o eliminando dall’indagi-

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ne qualsiasi plusvalore, o ammettendo, nello stesso momen­ to in cui sorge il plusvalore, una riproduzione semplice in luogo dell’accumulazione. E, per crear Ximpressione che si parli tuttavia di riproduzione allargata, si ricorre —come a proposito dell’«eccedenza» - ad una finta: costruendo pri­ ma il caso impossibile di una produzione capitalistica senza plusvalore, e prospettando poi l’apparizione del plusvalore come un allargamento della produzione. A seguire queste contorsioni dell’uomo-serpente, Sismondi era sprovveduto. Eccolo dunque, dopo aver seguito passo passo il suo Mac mettendolo con le spalle al muro e sma­ scherandone l’improntitudine, perdersi proprio nel punto decisivo della controversia. Dopo la tirata di cui sopra, avrebbe dovuto dichiarar freddamente al suo avversario: «Egregio signore, con tutta l’ammirazione per la vostra flessi­ bilità, devo dirvi che sfuggite come un’anguilla alla questio­ ne. Io continuo a chiedere chi sarà l’acquirente del sovraprodotto, se i capitalisti, invece di divorare tutto il plusva­ lore, lo destinano all’accumulazione, cioè all’allargamento della produzione; e voi rispondete: ma come! allargheran­ no la produzione nel settore degli articoli di lusso e consu­ meranno essi stessi questi articoli! Ma questo si chiama gio­ care a bussolotti. Se ed in quanto i capitalisti consumano in lussi personali il plusvalore, è chiaro che non accumulano. Ora si tratta proprio di questo: della possibilità dell’accu­ mulazione, non del lusso dei capitalisti. Rispondete a tono, dunque - ammesso che vi riusciate —o andate dove cresco­ no i vostri vini, tabacchi e pepe! » Invece di inchiodare l’avversario alle sue contraddizioni, Sismondi diventa etico, patetico e sociale. Esclama: «Chi farà la domanda, chi consumerà: i signori della campagna e della città, o gli operai? Nella sua [di MacCulloch] nuova ipotesi, abbiamo un sovraprodotto, un aumento di lavoro. À chi rimane? » E risponde con la seguente tirata: «Sappiamo benissimo —e ce lo insegna fin troppo bene la storia del commercio - che non è l’operaio a trar vantag­ gio della moltiplicazione dei prodotti del lavoro: il suo sa­ lario non è aumentato. Ricardo ha detto una volta che ciò non deve verificarsi, se non si vuol arrestare l’incremento

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della ricchezza pubblica. Ma una tragica esperienza ci ha in­ segnato l ’opposto: che cioè il salario continua quasi sempre a diminuire in rapporto a questo aumento. Dove sono, dun­ que, gli effetti dell’aumento della ricchezza sul benessere ge­ nerale? Il nostro autore costruisce l’ipotesi di mille fittavoli che godono, mentre centomila lavoratori agricoli lavorano; di mille industriali che si arricchiscono, mentre centomila operai stanno sotto la loro sferza. L ’eventuale benessere che potrebbe derivare dall’aumento dei prodotti di lusso, va dunque soltanto a una centesima parte della nazione. Que­ sta centesima parte chiamata a consumare l ’intero sovraprodotto della classe lavoratrice sarebbe ancora in grado di far­ lo, se la produzione crescesse senza fine grazie al progresso delle macchine e del capitale? Nell’ipotesi dell’autore, il fit­ tavolo o l’industriale dovrebbero, ogni volta che la produ­ zione nazionale raddoppia, centuplicare il consumo; se la ricchezza nazionale, grazie all’invenzione di tante macchine, è oggi cento volte maggiore di quando non copriva che i co­ sti di produzione, ogni ricco deve consumare prodotti che basterebbero a mantenere diecimila operai». Qui, Sismondi crede di aver riafferrato il punto d ’innesto della teoria delle crisi: «Ammettiamo alla lettera che un ricco possa consu­ mare i prodotti fabbricati da diecimila operai, compresi i nastri, i pizzi, le sete di cui l’autore ci ha spiegato l ’origine. Ma un solo uomo non potrebbe mai consumare nella stessa proporzione i prodotti agricoli: i vini, lo zucchero, le spe­ zie, che Ricardo fa nascere nello scambio [Sismondi, che seppe solo piu tardi l’identità dell’anonimo della “ Edin­ burgh Review” , sospettò in un primo tempo che l’articolo fosse stato scritto da Ricardo], sarebbero di troppo per la tavola di un solo uomo. O non si venderanno, o sarà impos­ sibile mantenere il rapporto fra prodotti agricoli e industria­ li, che costituiva la base del suo sistema». Come si vede, Sismondi cade nella trappola dell’avversa­ rio: invece di respingere la risposta al problema dell’accu­ mulazione, fondata sul rinvio alla produzione di lusso, si la­ scia trascinare senza rendersene conto sul terreno di MacCulloch, e non riesce che a ribattere in due modi: prima, rimproverandogli di destinare il plusvalore ai capitalisti in-

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vece che alla massa dei lavoratori, e perdendosi cosi in una polemica a sfondo moralistico contro la distribuzione nel­ l’economia capitalistica; poi, inaspettatamente, ritrovando la via del problema iniziale, ma ammettendo che i capitalisti consumino personalmente l’intero plusvalore. Benissimo! Ma è in grado un uomo di aumentare il suo consumo con la rapidità e l’estensione con cui i progressi della produttività del lavoro moltiplicano il sovraprodotto? Qui Sismondi per­ de il filo e, invece di scorgere la difficoltà dell’accumulazio­ ne capitalistica nella mancanza di consumatori che non sia­ no operai e capitalisti, vede una difficoltà della riproduzio­ ne semplice nei limiti fisici della capacità di consumo dei ca­ pitalisti medesimi. Non potendo la capacità di assorbimento di prodotti di lusso da parte di questi ultimi tenere il passo con la produttività del lavoro e perciò con l’aumento del plusvalore, sovraproduzione e crisi sono inevitabili. Questo ragionamento l’abbiamo già trovato nei Nouveaux -princi­ pes, e abbiamo qui la prova che a Sismondi il problema non è mai stato chiaro. Niente di strano. Si può capire in tutta la sua durezza il problema dell’accumulazione solo se si è preventivamente chiarito il problema della riproduzione semplice, e sappiamo già come in questo Sismondi cammi­ nasse nel buio. Comunque, bisogna riconoscere che, in questo suo primo duello con gli epigoni della scuola classica, non è stato lui il piu debole: perlomeno, l’incontro si è chiuso alla pari. Se Sismondi ignora i presupposti piu elementari della riprodu­ zione sociale e, in pieno accordo con la dogmatica smithiana, trascura il capitale costante, il suo avversario non gli rima­ ne indietro: anche per MacCulloch il capitale costante non esiste, i suoi fittavoli e industriali si limitano ad «anticipa­ re» cibo e vestiario per i dipendenti, e in cibo e vestiario il prodotto sociale totale si risolve. Ma se, in questo errore eiementare, i due avversari sono sullo stesso piano, Sismondi supera di gran lunga il suo Mac per il senso delle contraddi­ zioni del modo di produzione capitalistico: il ricardiano re­ sta pur sempre debitore di una risposta ai suoi dubbi sulla realizzabilità del plusvalore. Altrettanto superiore si rivela Sismondi, quando alla beata soddisfazione degli apologeti

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delle armonie economiche, per i quali «non esiste eccedenza della produzione sulla domanda, ingorgo del mercato, mise­ ria», butta in faccia il grido di dolore dei proletari di Not­ tingham, e dimostra che l ’introduzione delle macchine crea inevitabilmente una «popolazione superflua»: è superiore infine e soprattutto quando mette in rilievo le tendenze ge­ nerali del mercato mondiale capitalistico e le sue antitesi. MacCulloch nega senz’altro la possibilità di una sovraproduzione generale e ha in tasca un rimedio bell’e pronto per ogni sovraproduzione parziale: « Si può obiettare —scrive —che, ammettendo il principio che la domanda aumenti sempre in rapporto alla produzio­ ne, non si riescono a spiegare gli ingorghi e le stasi che un commercio sregolato produce. Rispondiamo con perfetta tranquillità: un ingorgo è il frutto dell’aumento di una de­ terminata classe di merci, al quale non si contrappone un aumento proporzionale delle merci che possono servir loro di controvalore. Mentre mille fittavoli e altrettanti indu­ striali si scambiano i loro prodotti offrendosi reciprocamen­ te un mercato, l’apparizione di altri mille capitalisti, ognuno dei quali occupa nell’agricoltura cento lavoratori, può in­ dubbiamente provocare un immediato ingorgo del mercato in prodotti agricoli, mancando un contemporaneo allarga­ mento della produzione di articoli industriali. Ma se una metà di questi nuovi capitalisti si orienta verso l ’industria, produce manufatti sufficienti per l’acquisto del prodotto lordo dell’altra metà: l’equilibrio si ristabilisce, e i millecin­ quecento fittavoli scambiano i loro prodotti coi millecinque­ cento industriali, con la stessa facilità con cui i preceden­ ti mille fittavoli e mille industriali scambiavano i loro». A questa arlecchinata, fatta insieme di sicurezza e inconsisten­ za, Sismondi risponde richiamandosi agli sconvolgimenti del mercato mondiale che si compivano sotto i suoi occhi: «... Si sono messe a coltura terre selvagge, e i rivolgimen­ ti politici, la trasformazione del sistema finanziario, la pace hanno fatto approdare nei porti di antichi paesi tradizional­ mente agricoli navi cariche di merci che pareggiano quasi i loro raccolti. Le sterminate province che la Russia ha di re­ cente incivilito lungo il Mar Nero, l’Egitto che ha subito un

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cambiamento di governo, la Berberia alla quale si è interdet­ ta la pirateria, hanno improvvisamente scaricato nei porti italiani i magazzini di Odessa, Alessandria e Tunisi, portan­ do con sé una tale eccedenza di grano che, lungo tutta la co­ sta, l’attività dei fittavoli è diventata deficitaria. Né al ripa­ ro di un simile sconvolgimento può considerarsi il resto del­ l’Europa, minacciato dalla trasformazione agraria delle enormi estensioni di terra lungo le coste del Mississippi e dalla conseguente esportazione di prodotti agricoli. Anche l’influenza della Nuova Zelanda potrà dimostrarsi rovinosa per l’industria inglese, se non per i prodotti alimentari il cui trasporto è troppo costoso, almeno per la lana e per altri prodotti agricoli di piu facile trasferimento». Che cosa con­ siglia MacCulloch, in vista di questa crisi agricola dell’Euro­ pa meridionale? La trasformazione della metà dei nuovi col­ tivatori in industriali! Risponde Sismondi: «U n consiglio simile lo si può dare seriamente ai tartari della Crimea o ai fellahin egiziani», e aggiunge: «Non è ancora venuto il mo­ mento di costruire nuove fabbriche in territori transoceani­ ci o in Nuova Zelanda». Dunque Sismondi vide con chiarez­ za che l’industrializzazione dei paesi transoceanici era solo questione di tempo, cosi come ebbe limpida coscienza che l’estensione del mercato mondiale non sarebbe stata una so­ luzione ma un aggravamento del problema e avrebbe inevi­ tabilmente provocato crisi ancor piu gigantesche; e additò nel continuo inasprirsi della concorrenza, nella sempre piu grave anarchia della produzione, l’altra faccia della tenden­ za all’espansione dell’economia capitalistica. Riuscì anche a mettere il dito sulla causa profonda delle crisi, formulando nettamente la tendenza della produzione capitalistica a var­ care qualunque limite di mercato: «S i è spesso annunciato il ristabilimento dell’equilibrio e la ripresa del lavoro; ma una sola domanda provocava ogni volta un moto che andava ben oltre i bisogni reali del commercio, e la nuova attività era ben presto seguita da un ancor piu preoccupante in­ gorgo». ,A questi profondi addentellati dell’analisi di Sismondi PTelle contraddizioni reali del movimento del capitale, l’eco­

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nomista volgare della cattedra londinese, con tutte le sue chiacchiere sulle «armonie» e la contraddanza dei mille fit­ tavoli adorni di nastri e dei mille industriali ebbri di vino, non ha saputo contrapporre nulla.

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Evidentemente, per Ricardo la questione non poteva con­ siderarsi liquidata con la risposta di MacCulloch alle obie­ zioni teoriche di Sismondi. Ben diverso dall’interessato Mac­ Culloch (questo «superciarlatano scozzese», per dirla con Marx), Ricardo cercava disinteressatamente la verità e ave­ va la schietta modestia del grande pensatore Che la pole­ mica sismondiana gli avesse fatto impressione, lo prova del resto il mutato atteggiamento in merito alla questione degli effetti del macchinismo. È qui che spetta, come si sa, a Sis­ mondi il merito di aver posto per la prima volta davanti agli occhi della teoria classica delle «armonie» l’altra faccia del­ la medaglia capitalistica. Sia nel libro IV dei Nouveaux prin­ cipes, capitolo V II su La divisione del lavoro e le macchine, sia nel libro V II, capitolo V II, dal caratteristico titolo Le macchine creano una popolazione superflua, Sismondi ave­ va attaccato la teoria, rimasticata dagli apologeti di Ricardo, secondo cui le macchine creano sempre altrettante se non maggiori possibilità di lavoro ai salariati, quante ne hanno tolte loro eliminando il lavoro vivo - «teoria della compen­ sazione» contro la quale egli si levò con grande vigore. I Nouveaux principes erano usciti due anni dopo il capolavo­ ro di Ricardo, nel 1819. Orbene, nella terza edizione dei Principles of Political Economy and Taxation, che sono del 1821, cioè successivi alla polemica MacCulloch-Sismondi,1 1 È caratteristico che, eletto nel 1819 deputato, Ricardo, già famoso per i suoi studi economici, scrivesse agli amici: «Sapete che sono entrato alla Camera dei Comuni. Temo però di non esservi di grande utilità. Ho cercato ben due volte di prender la parola, ma parlavo con gran trepidazione, e du­ bito assai di poter vincere l’orgasmo che mi prende a sentir la mia voce». Simili «orgasmi» quel chiacchierone di MacCulloch non li conosceva certo.

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Ricardo inserisce un nuovo capitolo (il XXI) in cui ricono­ sce lealmente il proprio sbaglio e afferma, d ’accordo con Sismondi: « L ’idea degli operai che l ’impiego delle macchi­ ne sia contro i loro interessi non poggia su pregiudizi ed er­ rori, ma concorda con le giuste leggi fondamentali dell’eco­ nomia politica». E, difendendosi dal sospetto di rifiutare il progresso tecnico, si salva, meno spregiudicatamente di Sis­ mondi, col dire che il male si manifesta solo gradualmente: «Per chiarire la legge fondamentale, ho ammesso che il mac­ chinario perfezionato sia stato inventato in origine tutto d ’un colpo e applicato subito in tutta la sua estensione. In realtà, le invenzioni appaiono a poco a poco e agiscono piu nel senso dell’impiego del capitale già risparmiato e accu­ mulato che in quello del ritiro del capitale dal suo attuale investimento». Un altro problema tormentava Ricardo: il problema del­ le crisi e dell’accumulazione. Orbene, nell’ultimo anno di vita, nel 1823, lo vediamo trattenersi qualche giorno a Gi­ nevra per discutere con Sismondi sull’argomento: frutto della conversazione, apparve nel numero di maggio 1824 della «Revue Encyclopédique» l ’articolo sismondiano: Sur la balance des consommations avec les productions Nei Principles, Ricardo aveva accettato da Say la tesi del­ l’armonia nei rapporti fra produzione e consumo. Si legge nel capitolo XXI: «il signor Say ha dimostrato a sufficienza come non esista capitale, per quanto grande, che non possa trovare impiego in un paese, essendo la domanda unicamen­ te limitata dalla produzione. Nessuno produce se non per consumare o vendere, né vende se non per acquistare qual­ che altro bene a lui di immediata utilità, o utilizzabile in av^ 1 Racconta Sismondi: «Monsieur Ricardo, dont la mort recente a profon­ dément affligé, non pas seulement sa famille et ses amis, mais tous ceux qu’il a éclairés par ses lumières, tous ceux qu’il a échauffés par ses nobles sentiments, s’arrêta quelques jours à Genève dans la dernière année de sa vie. Nous discutâmes ensemble, à deux ou trois reprises, cette question fon­ damentale sur laquelle nous étions en opposition. Il apporta à son examen l’urbanité, la bonne foi, l’amour de la vérité, qui le distinguaient, et une clarté à laquelle ses disciples eux-mêmes ne se seraient pas entendus, accou­ tumés qu’ils étaient aux efforts d’abstraction qu’il exigeait d’eux dans le ca­ binet» (riprodotto nella 2a ed. dei Nouveaux principes, II, p. 408).

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venire nella produzione. Chi produce diventa perciò o con­ sumatore dei propri beni, o acquirente e consumatore dei beni prodotti da altri». È intorno a questa concezione, contro la quale Sismondi aveva già vivacemente polemizzato nei Nouveaux principes, che si svolse la discussione orale. Ricardo non poteva evi­ dentemente contestare il fatto della crisi da cui erano stati di recente colpiti l’Inghilterra e altri paesi: la divergenza era nella spiegazione. Val la pena di notare con quale chia­ rezza e precisione il problema è impostato di comune accor­ do fin dall’inizio: tanto Ricardo quanto Sismondi mettono preliminarmente da parte la questione del commercio este­ ro. Ciò non significa che Sismondi ignorasse l’importanza e necessità del commercio estero dal punto di vista della pro­ duzione capitalistica; in questo non stava affatto indietro al­ la scuola liberista di Ricardo, mentre la superava nell’inter­ pretazione dialettica della tendenza, propria del capitalismo, all’accumulazione, e nell’aperta dichiarazione che l’industria «è costretta a cercare uno sfogo sui mercati esteri, dove tut­ tavia ancor piu gravi sconvolgimenti la minacciano» \ Era stata sua, inoltre, la previsione che un pericoloso concorren­ te stesse nascendo nei paesi d ’oltre oceano alla industria eu­ ropea —previsione ben difficile ai suoi tempi, e che confer­ ma l’acutezza con cui Sismondi sentiva l’intreccio mondiale dell’economia capitalistica. Ma, d ’altra parte, era ben lonta­ no dal pensare di far dipendere dal commercio estero, come unica via di scampo, la soluzione del problema della realiz­ zazione del plusvalore, il problema insomma dell’accumula­ zione. Al contrario, nel capitolo VI del libro II si legge: «Per seguire piu facilmente questi calcoli e semplificare la questione, abbiamo lasciato completamente da parte il com­ mercio estero, immaginando che una nazione facesse del tut­ to a sé; la stessa società umana è una nazione a sé, e ciò ch’è vero per una nazione senza commercio è altrettanto vero per essa». In altri termini, come piu tardi Marx, anche Sis­ mondi presupponeva che si considerasse l’intero mercato 1 L ib r o I V , c a p . I V : « L a ricch ezza co m m e rciale seg u e l ’a u m en to d e l r e d ­ d it o » .

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mondiale come una società a produzione esclusivamente ca­ pitalistica, e in questo il suo accordo era pieno pure con Ri­ cardo: «Eliminammo dalla discussione il caso in cui una na­ zione abbia venduto all’estero piu di quanto non ne abbia comprato, trovando cosi un crescente sbocco esterno ad una produzione interna crescente... Non si tratta di decidere se le alterne vicende di una guerra o della politica di una nazio­ ne possano o no fornire nuovi consumatori; bisogna dimo­ strare che essa li crea a se medesima aumentando la propria produzione». In questa frase Sismondi ha formulato molto nettamente il problema della realizzazione del plusvalore cosi come ci si presenterà nello sviluppo ulteriore della eco­ nomia politica. Infatti Ricardo sosteneva, calcando pedisse­ quamente le orme di Say, che la produzione crea il proprio sbocco. La tesi formulata da Ricardo nella polemica con Sismondi è questa: «Prendiamo cento agricoltori che producano mil­ le sacchi di grano, e cento lanieri che producano mille brac­ cia di stoffa; prescindiamo da tutti gli altri prodotti utili al­ l’uomo, da tutti gli anelli intermedi fra di loro, e ammettia­ mo che solo essi siano al mondo: scambieranno dunque le mille braccia contro i mille sacchi. Ammettiamo che, grazie ai progressi dell’industria, le forze produttive del lavoro sia­ no aumentate di un decimo: gli stessi uomini scambieranno millecento braccia contro miilecento sacchi e ognuno di lo­ ro sarà meglio vestito e nutrito; un nuovo progresso porta lo scambio a milleduecento braccia contro milleduecento sacchi, e via dicendo: l ’aumento della produzione accresce costantemente i bisogni dei produttori» *. Dobbiamo riconoscere con profonda umiliazione che gli argomenti del grande Ricardo si mantengono a un livello, se possibile, ancor piti basso di quelli di MacCulloch. Ancora una volta, ci si invita ad assistere ad un’armonica e piacevo­ le contraddanza fra «braccia» e «sacchi», dove quel che si doveva dimostrare —un rapporto di proporzionalità - è già presupposto. Non solo, ma si sono tranquillamente lasciate per la strada le premesse del problema di cui si discute. Nouveaux principes, 2* ed., p. 416.

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L ’oggetto della discussione - per fissarlo ancora una volta bene in mente - era: chi è consumatore e acquirente del sovraprodotto, originato dalla produzione ad opera dei capi­ talisti di merci che superano il consumo dei loro operai e il proprio, o dalla capitalizzazione di una parte del plusvalore per impiegarlo ad allargare la produzione, a ingrossare il ca­ pitale? Ricardo risponde non facendo parola dell’aumento di capitale: quello che ci preannuncia nelle diverse tappe della produzione non è che l’aumento graduale della pro­ duttività del lavoro. Nella sua ipotesi, con lo stesso nume­ ro di forze-lavoro si producono sempre, prima, mille sac­ elli di frumento e mille braccia di tessuti di lana, poi millecento sacchi e millecento braccia, poi milleduecento sacchi e milleduecento braccia, e cosi via allegramente. Ora, pre­ scindendo da questa marcia soldatescamente uniforme e dal­ la perfetta concordanza nel numero degli oggetti da scam­ biare, in tutto l’esempio non si parla una sola volta di au­ mento del capitale. Davanti agli occhi continua a svolgersi non la riproduzione allargata, ma la riproduzione semplice, in cui solo la massa dei valori d ’uso aumenta, non il valore del prodotto sociale totale. E poiché per lo scambio entrano in considerazione non le quantità di valori d’uso ma soltan­ to le loro grandezze di valore, e queste nell’esempio di Ri­ cardo rimangono sempre le stesse, è ovvio che il ragiona­ mento non fa un passo avanti, anche se dà l’impressione di analizzare un graduale aumento della produzione. Infine, in Ricardo, le categorie intorno alle quali si discute a proposi­ to di riproduzione non esistono. Per MacCulloch, i capitali­ sti producono senza plusvalore e vivono d ’aria; ma almeno egli ammette l ’esistenza dei lavoratori e tien calcolo del lo­ ro consumo. In Ricardo, di lavoratori non si parla neppure, la distinzione fra capitale variabile e plusvalore scompare. Non stupisce per contro che, esattamente come il suo scola­ ro, Ricardo prescinda interamente dal capitale costante: egli vuol risolvere il problema della realizzazione del plusvalore e dell’allargamento del capitale senza presupporre altro che l’esistenza di una certa quantità di merci scambiate fra di loro. Sismondi, senza accorgersi del mutamento avvenuto nel

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campo di battaglia, ha un bel daffare a ricondurre su questa terra e analizzare nelle loro contraddizioni interne le fanta­ sticherie del suo celebre ospite e contraddittore, nelle cui ipotesi, per dirla con lui, «bisogna prescindere dallo spazio e dal tempo al modo dei metafisici tedeschi». Egli rituffa l’i­ potesi ricardiana «nella società nella sua organizzazione rea­ le, con operai senza proprietà il cui salario è fissato dalla concorrenza, e che il padrone può licenziare se non gli ser­ vono piu», giacché - osserva con tanta esattezza quanta umiltà —«è appunto su una simile organizzazione economica che le nostre costruzioni si fondano», e mette in luce le mol­ teplici difficoltà e i conflitti ai quali i progressi della produt­ tività del lavoro sono legati nell’ambiente capitalistico. Os­ serva che i mutamenti nella tecnica del lavoro ammessi da Ricardo portano, dal punto di vista sociale, alla seguente al­ ternativa: o una parte di lavoratori viene licenziata in pro­ porzione all’aumento della produttività —e in tal caso ab­ biamo, da un lato, un’eccedenza di prodotto, dall’altro di­ soccupazione e miseria, cioè un’immagine fedele della socie­ tà presente - ovvero il sovraprodotto è impiegato al sosten­ tamento di operai in un nuovo ramo della produzione, la produzione di lusso. Qui giunto, Sismondi si mostra decisa­ mente superiore a Ricardo: improvvisamente ricordandosi del capitale costante prende decisamente di petto il classico inglese: «Per fondare una nuova manifattura - osserva — una manifattura di lusso, occorre anche un nuovo capitale; bisogna costruire nuove macchine, ordinare materie prime, avviare rapporti commerciali con paesi lontani, giacché i ric­ chi non si accontentano di beni prodotti nelle immediate vi­ cinanze. Ora, dove trovare questo nuovo capitale, forse mol­ to superiore a quello che l ’agricoltura richiede?... I nostri lavoratori dell’industria di lusso sono ancora ben lontani dal poter mangiare il grano dei nostri agricoltori e portare i ve­ stiti delle nostre manifatture, non sono ancora qui, forse non sono neppur nati, i loro attrezzi non sono ancora pron­ ti, le materie prime ch’essi devono lavorare non sono anco­ ra giunte dall’India: tutti coloro ai quali devono distribuire il loro pane aspettano invano». Tenendo conto del capitale costante non solo nella produzione di lusso ma anche nell’a-

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gricoltura, Sismondi continua a obiettare a Ricardo: «B iso­ gna prescindere dal tempo, quando si ammette che il colti­ vatore, che può aumentare di un terzo la forza produttiva dei suoi lavoratori grazie a una invenzione della meccanica o dell’industria agraria, troverà anche necessariamente il ca­ pitale per aumentare il suo sfruttamento, per accrescere il numero dei suoi utensili, dei suoi attrezzi, del suo bestiame, dei suoi magazzini, e il capitale circolante di cui ha bisogno per aspettare le entrate». Qui Sismondi rompe con la favola della scuola classica, secondo cui, nel caso dell’aumento del capitale, l’intero ca­ pitale addizionale è speso esclusivamente in salari, in capi­ tale variabile, e si distacca apertamente dalla teoria ricardiana - il che, fra parentesi, non gli impedi tre anni dopo, nella seconda edizione dei Nouveaux principes, di lasciar passare inosservati tutti gli errori che su quella teoria si fondano. Comunque, di fronte alla superficiale teoria delle armonie, Sismondi sottolinea due punti decisivi: 1 ) le difficoltà obiet­ tive della riproduzione allargata, il cui processo non si svol­ ge, nella realtà capitalistica, con la deliziosa facilità che le astruse ipotesi di Ricardo vorrebbero; 2) il fatto che ogni progresso tecnico nella produttività del lavoro sociale è sem­ pre, nel regime capitalistico, realizzato a spese della classe operaia, e pagato con le sue sofferenze. In un terzo punto importante Sismondi mostra la sua superiorità su Ricardo: contro la ristrettezza mentale di chi non ammette l’esistenza di altra forma sociale all’infuori della borghese, egli abbrac­ cia gli orizzonti storici di ima concezione dialettica, per cui « i nostri occhi si sono talmente abituati a quest’organizza­ zione sociale, a questa concorrenza universale degenerante in odio fra classe ricca e classe lavoratrice, che non riuscia­ mo piu a concepire un’altra forma di esistenza, sebbene da tutte le parti le macerie dell’attuale società ci circondino. Si crede di potermi spingere ad absurdum contrapponendomi gli errori dei sistemi precedenti. In realtà ne sono succeduti due o tre nell’organizzazione delle classi inferiori, ma abbia­ mo il diritto, solo perché, dopo di aver causato un po’ di be­ ne, hanno inflitto all’umanità terribili sofferenze, di conclu­ derne che il sistema odierno sia quello giusto, che non sco-

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priremo mai il fondamentale errore del sistema del salario, come abbiamo scoperto quello della schiavitù, del vassallag­ gio, delle corporazioni? Anche ai tempi in cui questi tre si­ stemi vigevano non si riusciva a immaginare che cosa sosti­ tuirvi; il miglioramento delle condizioni esistenti di vita sembrava tanto impossibile quanto ridicolo. Ma verrà gior­ no in cui i nostri nipoti non ci considereranno meno barbari per non aver dato la minima garanzia di esistenza alla classe lavoratrice, di quanto loro e noi stessi consideriamo barba­ re le nazioni che hanno trattato queste classi da schiave». Sismondi ha dato prova di un’alta sensibilità per i rapporti storici concreti, quando ha distinto con acume epigramma­ tico il ruolo del proletariato nella società moderna da quello del proletariato nella società romana: non meno profondo si dimostra nell’analizzare, nel corso della polemica contro Ricardo, gli aspetti economici caratteristici del sistema schia­ vista o dell’economia feudale e la loro importanza storica relativa, concludendo infine col definire la tendenza genera­ le dominante nell’economia borghese: «separare compietamente ogni forma di proprietà da ogni forma di lavoro». Anche il secondo scontro fra Sismondi e la scuola classica non si chiuse, come il primo, a gloria del suo avversario '.1 1 Quando perciò Tugan-Baranovskij, a difesa del punto di vista di Say e Ricardo, afferma a proposito della polemica Ricardo-Sismondi che quest’ul­ timo fu costretto «a riconoscere la giustezza della teoria da lui combattuta e a fare tutte le concessioni immaginabili agli avversari»; che «buttò a mare la propria teoria, di cui non mancano pur oggi i seguaci», e che «la vittoria in questo scontro è stata di Ricardo» (Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, 1901, p. 176), dà un esempio di superficialità come se ne trovano di rado in uno studio scientifico serio.

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L ’articolo di Sismondi contro Ricardo nel numero del maggio 1824 della «Revue Encyclopédique» provocò infi­ ne l’intervento dell’allora «prince de la science économi­ que», il sedicente rappresentante, erede e volgarizzatore della scuola smithiana in Europa, J.-B. Say. Nel luglio dello stesso anno, Say replicava nella «Revue Encyclopédique», dopo aver già polemizzato con le concezioni sismondiane nelle sue lettere a Malthus, con un articolo Sull’equilibrio fra consumo e produzione, provocando una breve risposta di Sismondi. La successione dei tornei polemici era così ca­ povolta al modo stesso della successione dei rapporti di di­ pendenza teorica. Era stato infatti Say a trasmettere a Ri­ cardo la teoria dell’equilibrio voluto da Dio fra produzione e consumo, e Ricardo l’aveva trasmessa a MacCulloch. Già nel 1803, nel libro I, capitolo XXII (Dei mercati di sbocco), del suo T raité d’économie politique, egli aveva formulato il lapidario teorema: «... I prodotti si pagano con prodotti. Se perciò una nazione ha troppi prodotti di una specie, il mez­ zo per smaltirli consiste nell’acquistarne di un’altra» '. È questa la formulazione piu nota della mistificazione accetta­ ta dalla scuola ricardiana e dall’economia volgare come la pietra angolare della teoria delle armonie12, e proprio contro 1 «L ’argent ne remplit qu’un office passager dans ce double échange. Les échanges terminés, il se trouve qu’on a payé des produits avec des produits. En conséquence quand une nation a trop de produits dans un genre, le moyen de les écouler est d’en créer d’un autre genre» ( j .-b . say , Traité d’é­ conomie politique, Paris 1803, t. I, p. 154). 2 In realtà, Say non faceva che dar forma dogmatica e pretenziosa a idee espresse da altri. Come ha notato Bergmann nella sua Geschichte der Kri­ sentheorie (Stuttgart 1895), analoghe affermazioni sulla identità tra offerta e domanda e sul loro naturale equilibrio si trovano già in Josiah Tucker

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di essa aveva condotto la polemica l’opera fondamentale di Sismondi. Ora, nella «Revue Encyclopédique», Say gira lo spiedo, e fa questa strabiliante dichiarazione: « ...S e ci si obietta che ogni società umana, grazie all’intelligenza dei suoi cittadini e ai vantaggi offerti dalla natura e dall’arte, può produrre, di tutte le cose suscettibili di soddisfare i suoi bisogni e di aumentare i suoi piaceri, una quantità su­ periore a quella che è in grado di consumare, io chiedo come avvenga che nessuna nazione conosciuta sia completamente rifornita, giacché anche in quelle che si considerano fiorenti sette ottavi della popolazione mancano di una quantità di prodotti ritenuti necessari non dico alle famiglie ricche, ma ad un modesto bilancio familiare. Abito in un paese situato in uno dei piu ricchi dipartimenti di Francia. Eppure, su venti case ve ne sono diciannove in cui si mangia alla me­ glio, e non v ’è nulla di ciò che serve al benessere della fa­ miglia, di quelle cose che gli inglesi chiamano confortable ecc.» \ La disinvoltura dell’ottimo Say è davvero ammirevole. Era stato lui a sostenere che nell’economia capitalistica erano impossibili difficoltà, sovraproduzione, crisi, miseria, perché le merci si scambiano fra loro e basta produrre di piu per ottenere un benessere generale: è nelle sue mani che questa formula aveva assunto il valore di un dogma della teoria dell’armonia. Sismondi l ’aveva criticata sottolinean­ do l’insostenibilità di una simile tesi, e dimostrando che non una massa qualsivoglia di merci è esitabile ma è il red­ dito della società (v + p) a fissare il limite massimo entro il quale la realizzazione della quantità di merci prodotte è pos(1752), nelle osservazioni di Turgot all’edizione francese dell’opuscolo di Tucker, in Quesnay, Dupont de Nemours e altri. Tuttavia, il «lamentoso Say», come doveva chiamarlo Marx, rivendica l’onore della grande scoperta della théorie des débouchés e paragona modestamente la sua opera alla sco­ perta della teoria del calore, della leva e del piano inclinato! (Cfr. l’introdu­ zione e l’indice per materie della 6* ed. del suo Traité, 1841: «C’est la théorie des échanges et des débouchés - telle qu’elle est développée dans cet ouvrage - qui changera la politique du monde», pp. 51 e 616). Lo stesso punto di vista fu svolto da James Mill nel suo Commerce defended, che è del 1808. Marx lo chiama il vero padre della teoria dell’equilibrio naturale fra produzione e smercio. 1 «Revue Encyclopédique», t. XXIII, luglio 1824, p. 20.

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sibile. E poiché i salari dei lavoratori tendono a ridursi al puro minimo vitale e anche la capacità di consumo della classe capitalistica ha limiti naturali, ecco l’allargamento del­ la produzione provocare ingorghi, crisi e una crescente mi­ seria delle masse. Ora salta fuori Say a replicare con falsa ingenuità: «M a, se sostenete che si possono produrre trop­ pi beni, come avviene che la nostra società offra lo spettaco­ lo di tanti indigenti, nudi e affamati? » Say, il cui espediente fondamentale consisteva nel prescindere dalla circolazione del denaro e nel manovrare sull’ipotesi di uno scambio di­ retto fra le merci, rimprovera ora al suo avversario di parla­ re di un eccesso di prodotti non in rapporto ai mezzi di ac­ quisto della società, ma ai bisogni reali! Eppure, Sismondi non aveva lasciato il minimo dubbio su questo punto cardi­ nale della sua teoria: come si legge a chiare note nel libro II, capitolo V I, dei Nouveaux principes: «Anche se la so­ cietà conta un grandissimo numero di persone malnutrite, malvestite e male alloggiate, essa chiede solo ciò che può pa­ gare; ma può pagare solo col suo reddito». Questo, un po’ piu avanti, lo riconosce lo stesso Say; ma obietta: «Non sono i consumatori che mancano in una na­ zione, ma i mezzi per comperare. Sismondi crede che questi mezzi sarebbero più abbondanti se i prodotti fossero piu rari e perciò piu cari, e la loro produzione recasse ai lavora­ tori un maggior salario» '. Qui Say cerca di ridurre la teoria di Sismondi, che attacca le basi della società capitalistica, l’anarchia della sua produzione e il suo metodo di distribu­ zione, ad un modo di pensare, o meglio di chiacchierare, ba­ nale, travestendo i suoi Nuovi principi in arringa a favore della «rarità» delle merci e dei prezzi alti, e contrapponen­ dovi un inno alle fortune dell’accumulazione capitalistica. Se la produzione è piu intensa, le forze-lavoro piu abbondanti, il raggio della produzione piu vasto, «le nazioni saranno meglio e piu largamente fornite», dice, elogiando le condi­ zioni di vita dei paesi ad alto sviluppo industriale in con­ fronto alla miseria medievale. Le massime sismondiane so­ no invece, per la società borghese, pericolosissime: «Perché «Revue Encyclopédique», t. XXIII, luglio 1824, p. 21.

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insiste che siano introdotte delle leggi che obblighino gli imprenditori a garantir la vita ai loro addetti? Un simile procedimento paralizzerebbe lo spirito d ’iniziativa; il sem­ plice timore che lo stato possa immischiarsi nei rapporti pri­ vati costituisce un flagello e mette in pericolo la prosperità di una nazione » Di contro a quest’apologià vuota e gene­ rica, Sismondi riporta la discussione alle sue basi: «Non ho certo mai negato che la Francia abbia raddoppiato la popo­ lazione e quadruplicato il consumo dai tempi di Luigi XIV ad oggi, come mi si obietta; ho soltanto affermato che la moltiplicazione dei prodotti è un bene se c’è chi li chiede, paga e consuma, mentre è un male se non v’è richiesta, e se tutta la speranza dei produttori sta nell’allontanare i consu­ matori dai prodotti di un’industria in concorrenza con la lo­ ro. Ho cercato di mostrare come il corso normale di un pae­ se consista nel continuo aumento dei suoi agi, e perciò della sua domanda di prodotti nuovi e dei mezzi per pagarli. Ma le conseguenze delle nostre istituzioni e delle nostre leggi, che hanno derubato la classe operaia di qualsiasi proprietà o garanzia di vita, hanno spinto nello stesso tempo ad un’at­ tività disordinata, priva di rapporto sia con la domanda sia con la capacità di acquisto, e perciò tale da rendere ancor piu acuta la miseria». E chiude la discussione invitando il teorico soddisfatto dell’armonia a riflettere sulle condizioni dei «popoli ricchi, presso i quali la miseria pubblica cresce contemporaneamente alla ricchezza materiale, e la classe che produce tutto è ogni giorno meno in grado di fruire di tutto». Su questa acuta dissonanza delle contraddizioni ca­ pitalistiche si spegne l’eco della prima polemica intorno al problema dell’accumulazione.1 1 «Revue Encyclopédique», t. XXIII, luglio 1824, p. 29. Say accusa Sis­ mondi d’essere il nemico acerrimo della società borghese nella seguente pa­ tetica declamazione: «C’est contre l’organisation moderne de la société; or­ ganisation qui, en dépouillant l’homme qui travaille de toute autre propriété que celle de ses bras, ne lui donne aucune garantie contre une concurrence dirigée à son préjudice. Quoi! parce que la société garantit à toute espèce d’entrepreneur la libre disposition de ses capitaux, c’est à dire de sa proprié­ té, elle dépouille l’homme qui travaille! Je le répète: rien de plus dangéreux que des vues qui conduisent à régler l’usage des propriétés». Giacché «les bras et les facultés... sont aussi des propriétés! »

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Uno sguardo all’insieme della polemica permette di fis­ sare due punti: I. Pur nei suoi tratti confusi, l’analisi di Sismondi dimo­ stra la sua superiorità sulla scuola ricardiana, e sul presunto capo della scuola smithiana. Sismondi tratta la questione dal punto di vista della riproduzione, cerca di fissare concet­ ti di valore, come capitale e reddito, ed elementi materiali, come mezzi di produzione e mezzi di consumo, nei loro mu­ tui rapporti nel processo d’insieme della vita sociale. In que­ sto, egli si avvicina piu di qualunque altro a Adam Smith, con la differenza che le contraddizioni del processo d ’insie­ me, che in Smith appaiono come contraddizioni teoriche soggettive, danno qui il tono all’analisi, e il problema della accumulazione diviene il problema chiave e la difficoltà fon­ damentale. In questo senso, Sismondi rappresenta indubbia­ mente un progresso rispetto a Smith: Ricardo e i suoi epigo­ ni, come Say, non fanno che dibattersi nel circolo chiuso del­ la circolazione semplice delle merci; per loro non esiste che la formula M - D - M (merce-denaro-merce), per giunta de­ formata in scambio diretto fra merci ed elevata a chiave per la soluzione di tutti i problemi del processo di riproduzione e di accumulazione. È questo, rispetto a Smith, un passo in­ dietro. Libero da queste angustie mentali, Sismondi dà pro­ va di possedere un senso delle categorie dell’economia bor­ ghese molto piu acuto dei suoi apologeti professionali, allo stesso modo che Marx doveva, in seguito, mostrare nella sua qualità di socialista un senso della differentia specifica del meccanismo economico capitalistico, fin nei suoi parti­ colari piu minuti, infinitamente piu netto che tutti insieme gli economisti borghesi. Quando Sismondi (nel libro V II, capitolo V II) esclama contro Ricardo: «Dunque, la ricchez­ za sarebbe tutto, l’uomo nulla? », in questa frase non si esprime soltanto la debolezza «m orale» della sua concezione piccolo-borghese in confronto alla rigorosa obiettività clas­ sica di un Ricardo, ma la sensibilità del critico, resa ancor piu acuta da una coscienza sociale intensa, per le viventi complessità dell’economia, le sue contraddizioni, i suoi pun­ ti oscuri, contro l’angustia e rigidezza dell’astrattismo di Ri­ cardo e della sua scuola. La polemica ha avuto il solo effetto

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di mettere in luce l’incapacità sia di Ricardo che degli epi­ goni di Smith non diciamo di risolvere, ma neppur di affer­ rare il mistero dell’accumulazione. 2. La soluzione del mistero fu resa impossibile anche dal fatto che la polemica usci dal suo binario principale per con­ centrarsi sul problema delle crisi. Era naturale che lo scop­ pio della prima crisi pesasse sulla discussione, ma era altret­ tanto naturale che impedisse alle due parti di capire che le crisi costituiscono non il problema dell’accumulazione, ma la sua specifica forma esterna, un puro aspetto nel quadro ciclico della riproduzione capitalistica. Era perciò inevitabi­ le che la polemica si svolgesse in un doppio equivoco: una delle parti deduceva direttamente dalle crisi l ’impossibilità dell’accumulazione, l ’altra deduceva direttamente dallo scambio fra le merci l’impossibilità delle crisi. Il successivo corso dello sviluppo capitalistico doveva portare all’assurdo entrambe le deduzioni. Con tutto ciò, la critica di Sismondi conserva un’alta im­ portanza storica come primo grido di allarme teorico contro il dominio del capitale, e come anticipazione del crollo del­ l ’economia politica classica di fronte all’incapacità di risol­ vere i problemi da essa stessa evocati. Se Sismondi lanciò un grido di dolore contro le conseguenze della dominazione ca­ pitalistica, non fu certo un reazionario nel senso che sognas­ se un ritorno alle condizioni di vita precapitalistiche, anche se a volte amò contrapporre a queste ultime le forme di pro­ duzione patriarcali dell’agricoltura e dell’artigianato. A que­ st’accusa egli reagisce piu volte energicamente, come nel­ l’articolo della «Revue Encyclopédique»: «M i par già di sentirmi accusare di ostilità allo sviluppo dell’agricoltura, delle scienze e delle arti, di predilezione per la barbarie (giacché, dopo tutto, anche l ’aratro è una macchina e la van­ ga una macchina ancora piu antica) e di esaltazione di un sistema in cui l ’uomo lavorerebbe la terra solo con le pro­ prie mani. Ma io non ho mai detto cose simili, e rifiuto le conclusioni che si volessero trarre in questo senso dal mio sistema, e che io non ho mai tratto. Né quelli che mi attac­ cano né quelli che mi difendono mi hanno capito, e a volte arrossisco tanto dei miei alleati quanto dei miei avversari...

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Intendiamoci bene: le mie critiche non vanno né alle mac­ chine, né al graduale incivilimento, né alle invenzioni, ma all’organizzazione attuale della società, organizzazione che, mentre priva i lavoratori di ogni ricchezza che non siano le loro braccia, non li mette al riparo della concorrenza e di un’attività folle che va tutta a loro danno, e di cui è inevi­ tabile che siano le vittime». Il punto di partenza della criti­ ca sismondiana sono gli interessi del proletariato, ed egli ha perfettamente ragione di formulare cosi la sua tendenza fondamentale: «Desidero soltanto cercare il modo di assi­ curare i frutti del lavoro a quelli che lavorano, di garantire i vantaggi della macchina a chi la mette in moto». Poco im­ porta che, quando deve spiegare che cosa sarà la società cui aspira, sia costretto a confessare la propria impotenza: « È questo un problema di una difficoltà infinita, che non inten­ diamo oggi minimamente affrontare. Per ora ci basterebbe poter convincere gli economisti, con la stessa certezza con cui ne siamo convinti noi, che la loro scienza ha battuto una via sbagliata. Non pretendiamo di indicar loro la via giusta: sarebbe uno sforzo eccessivo, per la nostra mente, costruire il modello di una società come dovrebbe essere. Del resto, chi mai oserebbe immaginare un’organizzazione che ancora non esiste, chi mai sarebbe tanto sicuro di sé da guardar nel futuro quando costa già tanta fatica vedere il presente?» Questo aperto e leale riconoscimento della propria incapaci­ tà a vedere oltre l’orizzonte del capitalismo non fa torto a Sismondi, in un tempo in cui il dominio del capitale aveva appena varcato le soglie della storia e l’idea socialista non poteva assumere che forma utopistica. Comunque, non po­ tendo né andar oltre il capitalismo né tornare indietro ri­ spetto ad esso, alla critica sismondiana non restava che la via di mezzo piccolo-borghese. Lo scetticismo sulla possibilità di una piena espansione del capitalismo, e perciò delle forze produttive, suggerì a Sismondi l’invito al rallentamento del­ l’accumulazione, della marcia impetuosa nell’allargamento del dominio del capitale. E qui l’aspetto reazionario della sua critica '. 1 Nella sua storia dell’opposizione alla scuola ricardiana e del suo crollo, Marx non si è dilungato su Sismondi. Nel III volume delle Theorien über

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den Mehrwert [trad. it. dt., vol. Ili, p. 56], si legge: «Escludo Sismondi dal mio compendio storico, perché la critica delle sue opinioni rientra in una parte che potrò trattare soltanto dopo questo scritto, cioè nel movimen­ to reale del capitale (concorrenza e credito)». Un po’ piti avanti, tuttavia, Marx dedica a Sismondi, in relazione a Malthus, un brano ch’è, pur nelle sue grandi linee, esauriente: «Sismondi ha l’intima sensazione che la produ­ zione capitalistica si contraddica; che le sue forme, i suoi rapporti di pro­ duzione, da un lato spingano allo sfrenato sviluppo della forza produttiva e della ricchezza; ma che dall’altro questi rapporti siano condizionati; che le contraddizioni fra valore d’uso e valore di scambio, merce e denaro, acquisto e vendita, produzione e consumo, capitale e lavoro salariato, ecc., assumano dimensioni tanto più grandi, quanto piu si sviluppa la forza produttiva. Egli sente specialmente la contraddizione principale: da un lato lo sfrenato svi­ luppo della forza produttiva e l’accrescimento della ricchezza, che consta nello stesso tempo di merci e deve essere trasformata in denaro; dall’altro, come fondamento, la limitazione della massa dei produttori ai mezzi di sus­ sistenza necessari. Quindi per lui le crisi non sono, come per Ricardo, sem­ plici accidenti, ma esplosioni essenziali delle contraddizioni immanenti su grande scala e in determinati periodi. A questo punto, egli resta continuamente indeciso: deve lo Stato porre vincoli alle forze produttive, per ren­ derle adeguate ai rapporti di produzione, o porre vincoli ai rapporti di pro­ duzione, per renderli adeguati alle forze produttive? Spesso si rifugia nel passato; diventa laudator temporis acti e, con una diversa regolazione del reddito in rapporto al capitale o della distribuzione in rapporto alla produ­ zione, vorrebbe domare le contraddizioni, senza rendersi conto che i rappor­ ti di distribuzione non sono che i rapporti di produzione sub alia specie. Egli critica in maniera convincente le contraddizioni della produzione bor­ ghese, ma non le capisce, e quindi non capisce neppure il processo della loro dissoluzione. Ma, in fondo, egli intuisce che alle forze produttive sviluppa­ tesi nel seno della società borghese, alle condizioni materiali e sociali della creazione della ricchezza, devono corrispondere nuove forme d’appropriazio­ ne di questa ricchezza; che le forme borghesi non sono che transitorie e piene di contraddizioni, e che in esse la ricchezza assume sempre un’esisten­ za antitetica e appare ovunque, nello stesso tempo, come il suo contrario. È ricchezza, che ha sempre per presupposto la povertà e si sviluppa soltanto perché sviluppa questa» (ibid., voi. Ill, sez. I, 3 [trad. it. cit., vol. Ili, pp. 59-60]). Nella Miseria della filosofia, Sismondi è spesso contrapposto a Proudhon, ma esplicitamente se ne parla solo in un punto: «Quelli che, come Sismon­ di, invocano un’equa proporzionalità della produzione, pretendendo però di mantenere le basi attuali della società, sono dei reazionari, perché dovreb­ bero, per esser conseguenti, sforzarsi di riportare a condizioni storiche passa­ te anche le altre premesse dell’industria». Nella Critica dell’economia poli­ tica Sismondi è citato di sfuggita, una volta come l’ultimo classico dell’eco­ nomia politica borghese in Francia, come Ricardo in Inghilterra, e l’altra co­ me colui che ha messo in luce contro Ricardo lo specifico carattere sociale del lavoro produttore di valore. Infine, nel Manifesto dei Comunisti, è ricor­ dato come esponente del socialismo piccolo-borghese.

CAPITOLO QUATTORDICESIM O M A LTH U S

Contemporaneamente a Sismondi, una guerra parziale contro la scuola di Ricardo veniva condotta da Malthus. Nella seconda edizione della sua opera e nelle sue polemi­ che, Sismondi cita ripetutamente la testimonianza di Mal­ thus e, a proposito della loro fraternità d ’armi, scrive nella «Revue Encyclopédique»: « D ’altra parte, in Inghilterra, Malthus ha sostenuto [contro Ricardo e Say] quello stesso che io ho cercato di fare sul continente: che cioè il consumo non è la conseguenza necessaria della produzione, e che i bisogni e i desideri umani non hanno bensì limiti, ma pos­ sono essere soddisfatti dal consumo solo in quanto siano ac­ compagnati da corrispondenti mezzi di scambio. Abbiamo entrambi sostenuto che non basta creare questi mezzi per farli affluire nelle mani di coloro che hanno questi bisogni o desideri: avviene anzi spesso che i mezzi di scambio della società aumentino, mentre la domanda di lavoro o il salario diminuiscono, e allora i bisogni di una parte della popola­ zione non possono esser soddisfatti, con conseguente con­ trazione del consumo. Infine, abbiamo sostenuto insieme che il segno inconfondibile del benessere sociale non è la crescente produzione di ricchezze ma la crescente richiesta di lavoro, o una crescente offerta del salario a compenso del lavoro. Ricardo e Say non hanno negato che la richiesta cre­ scente di lavoro sia un segno di prosperità, ma hanno soste­ nuto che la domanda deve sicuramente nascere dall’aumen­ to della produzione. «Malthus e io lo neghiamo. Per noi, questi due aumenti sono effetto di cause del tutto indipendenti l’una dall’altra, a volte anzi opposte. Il mercato è saturo, secondo noi, quan­ do una domanda di lavoro non ha preceduto la produzione e non l’ha seguita; allora una nuova produzione è causa non di benessere, ma di decadenza».

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Queste frasi possono far nascere l ’impressione che fra Sismondi e Malthus esistesse, almeno nella loro opposizio­ ne a Ricardo e alla sua scuola, un sostanziale accordo. Lo stesso Marx considera i Principles of Political Economy di Malthus, apparsi nel 1820, come un plagio dei Nouveaux principes, usciti, com’è noto, un anno prima. Tuttavia, nel­ la questione che ci interessa, i due economisti sono in diret­ ta antitesi. Sismondi critica la produzione capitalistica, l’attacca vio­ lentemente, è il suo accusatore. Malthus è il suo apologeta. Non nel senso che neghi i suoi contrasti, come MacCulloch o Say, ma, al contrario, nel senso che li eleva brutalmente a legge naturale e li dichiara sacrosanti. Il filo conduttore di Sismondi è costituito dagli interessi dei lavoratori: la meta cui tende, sia pure in forma vaga e generica, è una riforma radicale della distribuzione a favore del proletariato. Mal­ thus è invece l’ideologo degli interessi di quello strato di pa­ rassiti dello sfruttamento capitalistico che si nutrono di ren­ dite fondiarie o vivono alla greppia dello stato, il suo obiet­ tivo è destinare la maggior parte possibile di plusvalore a questi «consumatori improduttivi». Il punto di vista gene­ rale di Sismondi è quello di un riformatore sociale e di un moralista: egli «migliora» i classici, sostenendo contro di loro che « l ’unico scopo dell’accumulazione è il consumo» e chiedendo che sia posto un freno all’accumulazione. Mal­ thus afferma invece brutalmente che l’accumulazione è l’u­ nico scopo della produzione, e ne patrocina l’illimitato svi­ luppo ad opera dei capitalisti, completato e garantito dall’il­ limitato consumo dei loro parassiti. Infine, il punto di par­ tenza critico di Sismondi era l’analisi del processo di ripro­ duzione, il rapporto fra capitale e reddito su scala sociale. Malthus invece parte, nella sua opposizione a Ricardo, da un’assurda teoria del valore e da una teoria volgare del plus­ valore, derivata da auella, che pretende di spiegare il pro­ fitto capitalistico come maggiorazione di prezzo sul valore delle merci '. 1 C fr . K. Marx , T h e o rie n ü b er d en M e h rw e rt, v o l. I l l [ t r a d . it . c it ., v o i. I l l , p p . 1 3 -4 2 ], d o v e la te o ria d e l v a lo re e d e l p ro fitto in M a lth u s è atten tam en te an a liz z ata .

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Malthus sottopone a una critica severa il principio del­ l’identità fra offerta e domanda nel capitolo VI delle sue Definitions in Political Economy, uscite nel 1827 e dedicate a James Mill. Nei suoi Elements of Political Economy, pa­ gina 233, questi aveva dichiarato: «Che cosa s’intende ne­ cessariamente, quando diciamo che offerta e domanda cor­ rispondono [ are accomodated to one another] ? Che beni prodotti con una certa quantità di lavoro sono scambiati contro beni prodotti con la stessa quantità di lavoro. Accet­ tata questa premessa tutto è chiaro. Cosi, se un paio di scar­ pe è prodotto con lo stesso lavoro di un cappello, finché cap­ pello e scarpe sono scambiati fra loro, offerta e domanda si equilibrano. Se avvenisse che le scarpe scendano di valore in rapporto al cappello, ciò dimostrerebbe che piu scarpe che cappelli sono state portate sul mercato. Le scarpe sareb­ bero allora in sovrabbondanza. Perché? Perché un prodotto di una certa quantità di lavoro in scarpe non può piu essere scambiato contro un altro prodotto della stessa quantità di lavoro. Ma, per la stessa ragione, vi sarebbe una quantità in­ sufficiente di cappelli, perché una certa somma di lavoro espressa in cappelli si scambierebbe contro una somma mag­ giore di lavoro in scarpe». Contro questa vuota tautologia Malthus svolge una du­ plice argomentazione. Anzitutto, fa osservare a Mill che la sua costruzione è campata in aria. In realtà, il rapporto di scambio fra cappelli e scarpe potrebbe restare invariato, ma entrambi essere presenti in quantità eccessiva rispetto alla domanda. Ciò si manifesterebbe nel fatto che entrambi si vendono a prezzi inferiori ai costi di produzione (con ade­ guato profitto). «M a in questo caso, si può dire che l’offerta di cappelli corrisponda alla domanda di cappelli o l’offer­ ta di scarpe alla richiesta di scarpe, se tanto quelli quanto queste sono presenti in un tale eccesso da non potersi scam­ biare in condizioni che ne assicurino la costante offerta? » '. Malthus obietta dunque a Mill la possibilità di una sovraproduzione generale: «In confronto ai costi di produzione, T. X.

m a lth u s ,

Definitions in "Political Economy, 1827, p. 51.

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tutte le merci possono salire o scendere [nell’offerta] allo stesso tempo» *. In secondo luogo, protesta contro il modo, caro a Mill esattamente come a Ricardo ed epigoni, di costruire le loro tesi sullo scambio diretto dei prodotti. « I l coltivatore di luppolo che porta sul mercato cento sacchi del suo prodot­ to, pensa all’offerta di scarpe e cappelli come alle macchie solari. A che cosa pensa, allora? E che cosa vuol ottenere in cambio del suo luppolo? Il signor Mill sembra credere che sarebbe tradire la peggior ignoranza in economia politica ri­ spondere che vuole denaro. Io non esito tuttavia a dichiara­ re, a costo di esser accusato di terribile ignoranza, che quel­ lo di cui ha bisogno il piantatore è appunto il denaro». Infatti, sia la rendita da lui dovuta al proprietario terrie­ ro, sia i salari dovuti ai suoi dipendenti, sia infine l’acquisto di materie prime e attrezzi necessari per le sue piantagioni, possono esser coperti soltanto mediante denaro. Su questo punto Malthus insiste lungamente, e ritiene «incredibile» che economisti di grido ricorrano ad esempi fra i piu azzar­ dati e assurdi invece che all’ipotesi dello «scambio del de­ naro » 12. Del resto Malthus si limita a descrivere il meccani­ smo per cui una offerta eccessiva provoca, mediante la ca­ duta dei prezzi al di sotto dei costi di produzione, una limi­ tazione spontanea della produzione, e viceversa. «M a que­ sta tendenza a curare la sovra- o sotto-produzione mediante il corso naturale delle cose non dimostra che i mali non esi­ stano». Come si vede, Malthus si muove, nonostante la diversità dei punti di vista per quanto riguarda le crisi, sullo stesso binario di Ricardo, Mill, Say e MacCulloch; anche per lui, esiste solo scambio di merci. Il processo della riproduzione 1 T. R. malthus, Definition in Political Economy, p. 64. 2 « I suppose they are afraid of the imputation, of thinking that wealth consists in money. But though it is certainly true that wealth does not con­ sist in money, it is equally true that money is a most powerful agent in the distribution of wealth, and those who, in a country where all exchanges arc practically effected by money, continue the attempt to explain the principles of demand and supply and the variation of wages and profits, by referring chiefly to hats, shoes, corn, suits of clothing & c., must of necessity fail» (ibid., p. 60, nota).

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sociale con le sue grandi categorie e coi suoi rapporti reci­ proci, che Sismondi aveva analizzato, qui passa sotto si­ lenzio. Pur con queste diversità nelle concezioni fondamentali, l’accordo fra Sismondi e Malthus si stabili sui seguenti punti : I ) entrambi negavano, contro i ricardiani e Say, l’equili­ brio prestabilito fra consumo e produzione; 2) entrambi affermavano la possibilità di crisi non sol­ tanto parziali ma generali. Ma l’accordo finisce qui. Se Sismondi cerca la causa delle crisi nel basso livello dei salari e nella limitata capacità di consumo dei capitalisti, Malthus trasforma i bassi salari in legge naturale del movimento della popolazione e trova un compenso al limitato consumo dei capitalisti nel consumo dei parassiti del plusvalore (nobiltà terriera, clero) la cui ca­ pacità di assorbimento in ricchezze e in lusso non ha limiti: la Chiesa ha uno stomaco robusto. E se entrambi, per la salvezza dell’accumulazione capita­ listica, cercano una categoria di consumatori che comprino senza vendere, Sismondi li cerca allo scopo di smaltire l’ec­ cedenza di prodotto sociale sul consumo dei lavoratori e dei capitalisti (cioè la parte capitalizzata del plusvalore), Mal­ thus allo scopo di creare il profitto. Come i rentiers e paras­ siti dello Stato, che devono ricevere i mezzi di pagamento dalle mani dei capitalisti, possano aiutare questi ultimi ad appropriarsi il profitto mediante acquisto di merci con prez­ zi maggiorati, rimane un mistero. Dati questi notevoli punti di contrasto, la fraternità d ’ar­ mi fra Sismondi e Malthus rimase tutta superficiale. Se Mal­ thus fece dei Nouveaux principes una caricatura malthusiaim, Sismondi sismondizzò le critiche di Malthus a Ricardo s o t tolineandone i punti comuni e citandole come testi a suo I tvore. D ’altra parte, gli accadde spesso di subirne 1’influen­ za, come quando accettò quella teoria della dissipazione del­ le finanze statali, come parziale sfogo all’accumulazione, che tuttavia era in diretta contraddizione col suo punto di par­ tenza.

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In complesso, Malthus non ha portato alcun contributo personale al problema della riproduzione, né l’ha capito; nella polemica coi ricardiani egli rimane, come questi nella polemica con Sismondi, nell’ambito della riproduzione sem­ plice. Il disaccordo con la scuola di Ricardo verte sul consu­ mo improduttivo dei parassiti del plusvalore, è una disputa sulla distribuzione del plusvalore, non sulle basi sociali del­ la riproduzione capitalistica. La costruzione malthusiana si sbriciola non appena la si inchiodi all’assurdo dei suoi teore­ mi sul profitto. Invece la critica sismondiana resta, e non toglie nulla alla sua attualità il fatto ch’egli accetti con tutte le sue conseguenze la teoria ricardiana del valore.

Seconda schermaglia L a controversia fra Rodbertus e v. Kirchmann

CAPITOLO QUIND ICESIM O LA TEORIA D ELLA RIPRODUZIONE IN V. KIRCHMANN

Anche la seconda polemica teorica sul problema dell’ac­ cumulazione ha il suo punto di partenza in avvenimenti contemporanei. Se in Sismondi l’opposizione alla scuola classica è suggerita dalla prima crisi inglese e dalle sofferen­ ze della classe lavoratrice da questa determinate, quasi ven­ ticinque anni dopo Rodbertus trarrà ispirazione alla sua cri­ tica della produzione capitalistica dal movimento rivoluzio­ nario operaio frattanto iniziatosi. La rivolta dei tessitori di Lione, il movimento cartista in Inghilterra, facevano riso­ nare alle orecchie borghesi la loro critica della «piu splendi­ da delle forme sociali» con ben altra forza degli spettri an­ cora confusi evocati dalla prima crisi. Non per nulla il pri­ mo studio economico-sociale di Rodbertus, che data proba­ bilmente dal quarto decennio del secolo e, scritto per la «Augsburger Allgem. Ztg.», venne da questa rifiutato, s’in­ titola Die Forderungen der arbeitenden Klassen [Le riven­ dicazioni delle classi lavoratrici], e comincia : « Che cosa vo­ gliono le classi lavoratrici? E questo qualcosa potrà essere rifiutato dalle altre? Ciò che le classi lavoratrici chiedono sarà la tomba della civiltà moderna?... Che, presto o tardi, la storia dovesse porre con la massima urgenza questi pro­ blemi, gli uomini di pensiero lo sapevano da tempo, e l’uo­ mo comune l’ha appreso dalle manifestazioni dei Cartisti e dai fatti di Birmingham». Ben presto, nella Francia tra il ’40 e il ’50, tutto un fermentare di teorie rivoluzionarie si esprimerà nelle piu diverse associazioni segrete e scuole so­ cialiste - proudhoniani, blanquisti, seguaci di Cabet e Louis Blanc, ecc. —e, nella rivoluzione di febbraio, nella proclama­

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zione del «Diritto al lavoro», nelle giornate di giugno, in­ somma nella prima battaglia generale fra i due mondi della società capitalistica, si tradurrà in una storica esplosione dei contrasti covanti nel suo seno. Quanto all’altra forma tan­ gibile di questi contrasti, le crisi, ai tempi della seconda con­ troversia si disponeva di un materiale di osservazione infini­ tamente piu ricco che all’inizio del terzo decennio del seco­ lo. Lo scontro fra Rodbertus e v. Kirchmann nasce sotto l’impressione diretta delle crisi del 1837,1839,1847, e del­ la prima crisi mondiale del 1837 (l’interessante studio di Rodbertus, Die Handelskrisen und die Hypothekennot der Grundbesitzer, è del 1838). I contrasti interni dell’econo­ mia borghese offrivano dunque a Rodbertus una ben piu vi­ va critica della «teoria delle armonie» dei classici inglesi e dei loro volgarizzatori in Inghilterra e sul continente, che ai tempi in cui Sismondi aveva elevato la sua protesta. D ’altro lato, che la critica di Rodbertus risentisse della diretta influenza di quella sismondiana, lo dimostra una ci­ tazione da Sismondi nel suo primo scritto. Rodbertus era perfettamente al corrente della letteratura francese contem­ poranea dell’opposizione alla scuola classica, forse un po’ meno della molto piu ricca letteratura inglese, circostanza nella quale ha unicamente radice la leggenda cara al mondo universitario tedesco della presunta «priorità» di Rodber­ tus su Marx nella «fondazione del socialismo». «Rodbertus - si legge ad esempio in una nota biografica scritta dal pro­ fessor Diehl per 1’Handwörterbuch der Staatswissenschaf­ ten - va considerato come il vero fondatore del socialismo scientifico in Germania, in quanto già prima di Marx e Lassalle aveva fornito, nei suoi scritti del 1839 e 1842, un si­ stema socialistico completo, una critica delle concezioni smithiane, nuove basi teoriche e proposte di riforme sociali». Tutto ciò, con pia devozione, nel 1901 (2a ed.), dopo quan­ to era già stato scritto da Engels, Kautsky e Mehring a de­ molizione della leggenda accademica. Che d’altra parte un «socialista» di tendenze monarchiche, patriottiche e prus­ siane come Rodbertus, comunista per l’avvenire di lf a 300 anni e sostenitore per il presente di un tasso di sfruttamen­ to del 200 per cento, dovesse per i teorici tedeschi dell’eco­

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nomia politica avere la palma della «priorità» su un «m e­ statore» internazionale del tipo di Marx, è perfettamente comprensibile, e non v’è dimostrazione schiacciante che possa distruggere questo mito. A noi, tuttavia, interessa qui l’altro lato della analisi di Rodbertus. Lo stesso Diehl con­ tinua il suo panegirico con le seguenti parole: «M a Rodber­ tus non è stato soltanto il battistrada del socialismo: tutta la scienza economica gli è debitrice di grandi impulsi; parti­ colarmente la teoria economica, grazie alla critica degli eco­ nomisti classici, alla nuova teoria della distribuzione del reddito, alla distinzione delle categorie logiche e storiche del capitale, ecc.». E non saremo noi ad occuparci delle ul­ teriori benemerenze di Rodbertus contenute in quell’« ecce­ tera». La controversia fra Rodbertus e v. Kirchmann fu provo­ cata dallo studio, scritto dal primo nel 1842, Zur Erkennt­ nis unserer staatswirtschaftlichen Zustände. V. Kirchmann replicò nei «Demokratische Blätter» con due articoli: Über die Grundrente in sozialer Beziehung e Die Tauschgesell­ schaft, ai quali Rodbertus rispose nel 1870e 1871 le sue So­ ziale Briefe. La discussione si portò cosi sullo stesso piano teorico sul quale trent’anni prima si era svolta la polemica fra Malthus-Sismondi e Say-Ricardo-MacCulloch. Già nei suoi primi scritti, Rodbertus aveva formulato il pensiero che nella società attuale, data la sempre crescente produtti­ vità del lavoro, il salario si riduce ad una quota sempre mi­ nore del prodotto nazionale —pensiero che rivendicò come suo proprio, ma che fino alla morte, cioè per tre decenni, seppe soltanto ripetere su mille toni. In questa continua ri­ duzione della quota-salari Rodbertus scorge la radice comu­ ne di tutti i mali della economia moderna, del pauperismo e delle crisi, da lui indicati in fascio come «la questione socia­ le dell’epoca presente». Non accettando questa spiegazione, v. Kirchmann ricon­ duce il pauperismo agli effetti della crescente rendita fon­ diaria, e le crisi, invece, alla mancanza di sbocchi. «L a mag­ gior parte dei mali sociali risiede non nella deficiente produ­ zione, ma nell’insufficiente smercio dei prodotti; quanto piu un paese è in grado di produrre, quanto piu è in grado di

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soddisfare tutti i bisogni, tanto piu è esposto al pericolo del­ la miseria e delle carestie». Ciò vale anche per la questione operaia, giacché «il famoso diritto al lavoro si risolve in ul­ tima istanza in una questione di sbocchi». E aggiunge: «C o­ me si vede, la questione sociale è pressoché identica alla questione degli sbocchi. Anche i mali della tanto deprecata concorrenza spariranno con una maggior sicurezza di smer­ cio, e ne resterà solo ciò che v’è in essa di buono, la spinta a produrre merci migliori a buon mercato, mentre ne sarà eli­ minata la lotta per la vita e per la morte, che si origina dall’insufficienza dello smercio» Balza subito agli occhi la diversità dell’angolo visuale di Rodbertus e di v. Kirchmann. Il primo vede la radice del male in una difettosa distribuzione del prodotto nazionale, v. Kirchmann nella limitatezza del mercato della produzio­ ne capitalistica. Pur nella nebulosità delle sue tesi (parliamo soprattutto della visione idilliaca di una concorrenza capita­ listica ridotta all’emulazione nel produrre le merci migliori al minor prezzo, e della riduzione del «famoso diritto al la­ voro» a una questione di sbocchi), v. Kirchmann mostra tuttavia di aver capito dov’è il punto debole della produzio­ ne capitalistica —i suoi limiti di smercio —meglio del suo av­ versario, che vede soltanto il problema della distribuzione del prodotto totale. È dunque v. Kirchmann a riprendere il problema già posto all’ordine del giorno da Sismondi. Ciò non significa peraltro che ne accetti l’analisi e la soluzione, giacché egli si schiera piuttosto dalla parte degli avversari di Sismondi, e accoglie non soltanto la teoria ricardiana della rendita fondiaria, non soltanto il dogma smithiano che «i prezzi delle merci si compongono di due sole parti, l’inte­ resse del capitale e il salario del lavoro» (v. Kirchmann tra­ sforma il plusvalore in «interesse del capitale»), ma anche la tesi smith-ricardiana che i prodotti siano comprati esclu­ sivamente con prodotti, e la produzione crei il proprio smer­ cio, cosicché, dove da una parte sembra che si produca trop­ po, dall’altra si produce troppo poco. Come si vede, v.1 1 La dimostrazione di v. Kirchmann è riportata letteralmente da Rodber­ tus. Un esemplare completo dei «Demokratische Blätter» con l’articolo ori­ ginale è, a quanto assicura l’editore di Rodbertus, oggi irreperibile.

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Kirchmann segue le orme dei classici; ma si tratta di una «edizione tedesca dei classici», con una quantità di se e di ma. Cosi, V. Kirchmann trova che la legge, formulata da Say, del naturale equilibrio fra produzione e domanda «non esaurisce la realtà», e aggiunge: «Nello scambio si nascon­ dono altre leggi che impediscono la realizzazione allo stato puro di questa formula, e la cui scoperta permette di spiega­ re l’attuale saturazione dei mercati e, nello stesso tempo, di evitare questo grosso scoglio. Noi crediamo che nel sistema sociale odierno siano tre circostanze a determinare il contra­ sto fra l’indiscutibile legge di Say e la realtà». Queste circo­ stanze sono: la «distribuzione troppo ineguale dei prodot­ ti» (come si vede, qui v. Kirchmann inclina al punto di vista di Sismondi); le difficoltà opposte dalla natura al lavoro umano nella produzione delle materie prime; infine, le defi­ cienze del commercio come atto intermedio fra produzione e consumo. Senza intrattenerci sui due ultimi «ostacoli» al­ la legge di Say, seguiamo l’argomentazione di v. Kirchmann in rapporto al primo: «L a prima circostanza può essere sintetizzata nel fatto che “ il salario del lavoro è a un livello troppo basso ” e da ciò si origina un arresto dello smercio. Per chi sa che i prezzi delle merci si compongono solo di due parti, interes­ se del capitale e salario del lavoro, quest’affermazione può sembrar strana: se il salario è basso anche i prezzi delle mer­ ci saranno bassi; se è alto, saranno alti anche questi. [Come si vede, v. Kirchmann accetta il dogma smithiano nella sua formulazione piu assurda: il prezzo non si risolve in sala­ rio + plusvalore, ma si compone di questi come loro sempli­ ce somma: concezione con la quale Smith si era nettamente allontanato dalla sua teoria del valore]. Salario e prezzo stanno dunque in rapporto diretto, e si equilibrano a vicen­ da. Se l’Inghilterra ha abolito il dazio sul grano, sulla carne e su altri generi alimentari, l’ha fatto solo per provocare una diminuzione dei salari, e mettere cosi i produttori in condizione di cacciare ogni altro concorrente dal mercato mondiale mediante merci ancor piu a buon mercato. Ciò è tuttavia vero solo in parte, e non tocca il rapporto in cui il prodotto si divide fra capitalista e lavoratore. Nella divisio­

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ne troppo ineguale fra questi va cercata la prima e piu im­ portante ragione che vieta alla legge di Say di compiersi nella realtà, e fa si che, ad onta della produzione in tutti i ra­ mi, tutti i mercati soffrano di congestionamento». V. Kirchmann illustra la sua tesi con un esempio, trasportandoci, se­ condo il costume della scuola classica, in una società isola­ ta immaginaria, che si presti senza resistenza a esperimenti di economia politica. Si immagini un paese che conti 903 abitanti, e precisamente 3 imprenditori con 300 operai ciascuno, e soddisfi tut­ ti i bisogni dei suoi cittadini con la produzione propria, rea­ lizzata in tre aziende una delle quali provvede al vestiario, l’altra al cibo, alla luce, al riscaldamento e alle materie pri­ me, la terza all’abitazione, al mobilio e agli attrezzi. In ognuno di questi tre settori l’imprenditore fornisce «il capi­ tale insieme con le materie prime», e la remunerazione dei lavoratori avviene in modo che questi ricevano come sala­ rio la metà del prodotto annuo, e l ’imprenditore l ’altra me­ tà «come interesse del suo capitale e come utile d ’intrapre­ sa». La quantità di prodotti fornita da ogni azienda basta a coprire i bisogni complessivi dei 903 abitanti. Il paese con­ tiene dunque «tutte le premesse di un benessere generale» per l’insieme dei suoi abitanti, i quali si mettono gagliardamente e allegramente al lavoro. Ma bastano pochi giorni perché gagliardia e gioia si convertano in irritazione e do­ lore: nell’isola dei beati costruita da v. Kirchmann avviene qualcosa di totalmente imprevisto : scoppia una vera e pro­ pria crisi industriale e commerciale! I 900 lavoratori hanno lo strettissimo necessario in alimenti, vestiario e abitazio­ ne, mentre gli imprenditori hanno i magazzini pieni di abi­ ti e di materie prime, e le case vuote; lamentano la mancan­ za di smercio, mentre dal canto loro i lavoratori si lagnano della mancata soddisfazione dei bisogni. E perché illae la­ crimile? Forse perché, come ammettono Say e Ricardo, vi sia eccesso di alcuni prodotti e difetto di altri? Ohibò! ri­ sponde v. Kirchmann; nel «paese» esistono quantità ben proporzionate di tutte le cose, che basterebbero esattamen­ te a soddisfare i bisogni complessivi della società. Quale, dunque, l’origine della «difficoltà», della crisi? La difficoltà

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sta tutta nella distribuzione. Ma gustiamoci le parole di Kirchmann: « L ’ostacolo che impedisce questo [scambio regolare] sta unicamente nella distribuzione dei prodotti: la distribuzione non avviene in forma uguale fra tutti, ma gli imprenditori ne trattengono la metà come interesse del capitale e ne danno solo la metà ai dipendenti. È chiaro che in tal modo il lavoratore dell’industria dell’abbigliamento può scambiare col suo mezzo prodotto solo la metà della produzione di sussistenze e di case, e cosi via, e l’imprendi­ tore non può disfarsi della sua metà perché nessun lavora­ tore dispone di un prodotto contro cui scambiarla. Gli im­ prenditori non sanno che farsene delle loro scorte, i lavora­ tori non sanno che farsene della loro miseria e nudità». E il lettore —aggiungiamo noi - non sa che farsene delle co­ struzioni del signor v. Kirchmann. L ’infantilismo dell’e­ sempio ci fa passare da un rebus all’altro. Anzitutto, non si capisce su quali basi e a quale scopo sia immaginata una tripartizione della produzione. Se negli analoghi esempi di Ricardo e di MacCulloch si contrappone­ vano affittuari e fabbricanti, non era questo se non lo sche­ ma antiquato, proprio dei fisiocratici, della riproduzione so­ ciale accettata da Ricardo sebbene avesse perso qualunque significato nella sua teoria del valore, e sebbene notevoli pas­ si avanti fossero stati compiuti già da Smith nella considera­ zione dei fondamenti reali e concreti del processo della riproduzione sociale. Abbiamo tuttavia anche visto come que­ sta suddivisione fisiocratica in agricoltura e industria si fosse conservata per tradizione nell’economia politica fino alla storica suddivisione marxiana in produzione di mezzi di produzione e produzione di mezzi di consumo. Le tre sezio­ ni di v. Kirchmann non hanno invece alcun senso intelligi­ bile. Dato che gli utensili si trovano mescolati coi mobili, le materie prime con le sussistenze, è chiaro che nella suddivisione hanno agito come fattori determinanti non gli elementi materiali della riproduzione, ma il puro arbitrio. Con altrettanta ragione, o torto, si potevano immaginare una sezione per le sussistenze, gli abiti e le abitazioni, un’al­ tra per le medicine, una terza per gli spazzolini da denti. Evidentemente, quel che importava a v. Kirchmann era solo V.

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di accennare alla divisione sociale del lavoro, e presupporre per lo scambio certe quantità di prodotti, il piu possibile «di ugual grandezza». Ma lo scambio come tale, su cui tut­ ta la dimostrazione continua a svolgersi, non gioca nell’e­ sempio di V. Kirchmann alcun ruolo, giacché non è un va­ lore, ma una massa di prodotti, una quantità di valori d ’u­ so, quella che entra in distribuzione. D ’altra parte, nell’in­ teressante «paese» della fantasia di v. Kirchmann, prima avviene la distribuzione dei prodotti, poi, a distribuzione avvenuta, deve compiersi lo scambio generale, mentre su questa vile terra della produzione capitalistica è notoria­ mente lo scambio che apre e media la distribuzione dei pro­ dotti. A questo punto, avvengono nella distribuzione alla v. Kirchmann le cose piu sorprendenti: è vero che il prezzo dei prodotti, e perciò anche del prodotto sociale totale, con­ sta, «com ’è noto», solo di «salario del lavoro e interesse del capitale», v + p, e che pertanto la produzione totale si distribuisce senza residui fra operai e imprenditori; ma per sua disgrazia v. Kirchmann si è dimenticato che ogni pro­ duzione comprende qualcosa come attrezzi e materie prime. Egli contrabbanda nel suo «paese» materie prime sotto la voce alimentari, e attrezzi sotto la voce mobili, ma la do­ manda che sorge allora è a chi, nella distribuzione genera­ le, queste cose indigeribili tocchino: agli operai come sala­ rio, o ai capitalisti come utile d’intrapresa. Entrambe le par­ ti le rifiuterebbero. Con tali premesse, dovrebbe poi verifi­ carsi il clou di tutta la costruzione: lo scambio fra lavorato­ ri e imprenditori. L ’atto fondamentale di scambio della produzione capitalistica, lo scambio fra salariati e capitali­ sti, si trasforma in v. Kirchmann da scambio fra lavoro vivo e capitale in scambio di prodotti! Al centro dell’operazione è posto non il primo atto, lo scambio fra forza-lavoro e ca­ pitale variabile, ma il secondo, la realizzazione del salario ottenuto dal capitale variabile; e, viceversa, l’intero scam­ bio di merci della società capitalistica è ridotto alla realiz­ zazione del salario ! Ma il bello viene dopo : questo famoso scambio fra lavoratori e imprenditori, posto al centro della vita economica, non è affatto uno scambio, non si compie nella realtà; giacché, una volta che i lavoratori hanno otte­

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nuto il loro salario in natura, e precisamente nella metà del­ la loro produzione, l’unico scambio che possa aver luogo è fra i lavoratori medesimi, i quali si scambieranno a vicenda gli uni un salario consistente in puro vestiario, gli altri un salario composto di alimenti, gli altri un salario in mobili, in modo che ogni operaio realizzi il suo salario per un terzo in prodotti alimentari, per un terzo in vestiario, per un ter­ zo in mobilio. Tale scambio non ha piu nulla a che vedere con gli imprenditori, i quali rimangono con un plusvalore corrispondente alla metà di tutti i vestiti, alimenti, e mobi­ li prodotti dalla società e, in tre che sono, non sanno che cosa diavolo farne. Contro quest’inconveniente, non v e di­ stribuzione generosa del prodotto totale che valga. Anzi, quanto maggiore sarà la parte di prodotto sociale destinata ai lavoratori, tanto meno il loro scambio riguarderà i capi­ talisti: si allargherà soltanto il raggio dello scambio recipro­ co fra salariati. È vero che, in tal modo, si ridurrebbe di al­ trettanto l’ingombrante fardello di sovraprodotto, ma ciò avverrebbe non per una maggior facilità di scambio del so­ vraprodotto, ma per una diminuzione dello stesso plusvalo­ re; e di uno scambio del sovraprodotto fra operai e impren­ ditori si potrebbe parlare altrettanto poco quanto prima. Bisogna riconoscere che il numero di banalità e di assurdi economici accumulati in uno spazio relativamente ristretto supera anche la misura che si può ragionevolmente consen­ tire ad un procuratore di stato prussiano, quale v. Kirchmann. Ma v. Kirchmann non si ferma a questi preliminari. Accortosi che, in base alla sua stessa ipotesi, alla forma con­ creta d ’uso del sovraprodotto, il plusvalore è inutilizzabile, immagina che, con la metà di lavoro sociale appropriato sot­ to forma di plusvalore, gli imprenditori facciano produrre non «merci ordinarie» per i lavoratori, ma articoli di lus­ so. Poiché « è nell’essenza delle merci di lusso di permette­ re al consumatore di consumare in capitale e forza-lavoro piu di quanto non sia possibile con le merci ordinarie», i tre imprenditori riescono da soli a consumare in pizzi, vet­ ture di lusso e simili l’intera metà della quantità di lavoro socialmente erogata. A questo punto non v ’è piu nulla da offrire, la crisi è felicemente superata, la sovraproduzione è

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resa una volta per tutte impossibile, capitalisti e lavoratori sono al sicuro, e la bacchetta magica alla quale si devono tutte queste opere buone e il ritorno all’equilibrio fra pro­ duzione e consumo si chiama: lusso! In altre parole, il con­ siglio dato dal brav’uomo ai capitalisti, che non sanno come disfarsi del plusvalore irrealizzabile, è: divoratelo! È vero che nella società capitalistica il lusso è una vecchia scoper­ ta, e tuttavia le crisi imperversano: ma perché? «L a rispo­ sta non può essere che una, - ammonisce v. Kirchmann: — l’arresto dello smercio nel mondo reale deriva dal fatto che esiste ancora troppo poco lusso o, in altri termini, che i ca­ pitalisti, cioè i detentori dei mezzi di consumo, consumano ancora troppo poco». Questa deplorevole astinenza ha a sua volta origine in un vizio incoraggiato dagli economisti: la tendenza al risparmio in vista del «consumo produttivo». In altre parole, le crisi nascono dall’accumulazione. È que­ sta la tesi centrale di v. Kirchmann, ch’egli illustra con un esempio di commovente ingenuità. Ammettiamo, dice, «il caso, vantato come il migliore possibile dagli economisti», che gli imprenditori dicano: il nostro reddito, invece di con­ sumarlo fino alla feccia in pompe e lussi, vogliamo reim­ piegarlo produttivamente. Che cosa significa ciò? Fondare aziende di ogni genere, per ottenerne nuovi prodotti con la cui vendita realizzare l’interesse (v. Kirchmann vuol dire il profitto) del capitale accumulato e reinvestito dai tre im­ prenditori. Conseguentemente, i tre imprenditori decidono di consumare soltanto il prodotto di 100 lavoratori, cioè di limitare sensibilmente il proprio lusso, e di impiegare la forza-lavoro dei rimanenti 350 operai, col capitale da que­ sti utilizzato, alla fondazione di nuove aziende produttive. Sorge allora la questione: in quale ramo della produzione investire il fondo? « I tre imprenditori non hanno che una scelta: o riaprire aziende per la produzione di merci ordina­ rie, o aprire aziende per la produzione di articoli di lusso» - giacché, secondo l’ipotesi di v. Kirchmann, il capitale co­ stante non viene riprodotto e l’intera produzione sociale consiste di mezzi di consumo. Ma allora gli imprenditori si trovano di fronte al dilemma a noi già noto: se producono «merci ordinarie» nasce una crisi, giacché i lavoratori non

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dispongono dei mezzi per l’acquisto delle merci supplemen­ tari, avendo già esaurito la metà del valore del prodotto so­ ciale; se producono articoli di lusso, dovranno consumarli essi stessi. Tertium non datur. Né il dilemma è risolto dal commercio estero, giacché questo può avere soltanto l’ef­ fetto di «aumentare la varietà delle merci sul mercato in­ terno», o di accrescere la produttività. «L e merci straniere o sono merci ordinarie, e in tal caso il capitalista può non comprarle, e il lavoratore non può comprarle in quanto non ha mezzi; o sono merci di lusso, e in tal caso il lavoratore sarà ancora meno in grado di acquistarle; ma altrettanto si dica del capitalista, tutto preso dallo sforzo di risparmia­ re». Per quanto primitiva, l’argomentazione esprime tutta­ via chiaramente il pensiero dominante di v. Kirchmann e l’incubo dell’economia politica borghese: in una società composta esclusivamente di lavoratori e capitalisti, l’accu­ mulazione appare impossibile. V. Kirchmann ne trae argo­ mento per partire in lotta aperta contro l’accumulazione, il «risparmio», il «consumo produttivo» del plusvalore, per polemizzare contro la propalazione di questi errori ad ope­ ra dell’economia politica classica, e per predicare come mez­ zo contro le crisi il lusso crescente in ragione della produt­ tività del lavoro. Come si vede, se era nelle sue premesse teoriche una caricatura di Ricardo-Say, v. Kirchmann è nel­ le sue conclusioni una caricatura di Sismondi. Era comun­ que necessario tener ben presente l’impostazione data al problema da v. Kirchmann, per poter valutare la critica di Rodbertus e la conclusione della controversia.

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LA CRITICA D ELLA SCUO LA C L A S S IC A IN RODBERTUS

Rodbertus scava piu a fondo di v. Kirchmann. Egli cerca le radici del male nelle basi stesse dell’organizzazione della società, e muove guerra spietata alla dominante scuola libe­ rista. Non è tuttavia contro il sistema dello scambio incon­ trollato di merci o della libertà di lavoro ch’egli scende in campo, ma contro il manchesterismo, il laissez faire nei rap­ porti sociali interni dell’economia. Ai suoi tempi, passato lo Sturm und Drang della economia classica, dominava quel­ l’esaltazione priva di scrupoli del sistema sociale vigente che doveva trovare la sua espressione piu perfetta nelle «ar­ monie» dell’idolo di tutti i filistei, il sig. Frédéric Bastiat; e presto dovevano furoreggiare le diverse e miserabili edi­ zioni tedesche del profeta francese. È contro questi «vendi­ tori ambulanti del libero commercio» che si dirige la critica di Rodbertus. «Cinque sesti della nazione —esclama nella sua Prima lettera sociale a v. Kirchmann, che è del 1850 non soltanto sono esclusi da quasi tutti i benefici della ci­ viltà per la modestia dei loro redditi, ma sottostanno perio­ dicamente a esplosioni di spaventosa miseria, e sono espo­ sti a continue minacce. Eppure, sono essi i creatori di ogni ricchezza sociale. Il loro lavoro comincia al levar del sole e termina al tramonto, quando non si protrae nella notte; ma non c’è sforzo che possa modificarne il destino. Senza poter aumentare il proprio reddito, essi perdono anche l’ultimo tempo che sarebbe potuto rimaner loro per l ’educazione dello spirito. Ammettiamo pure che il progresso abbia avu­ to bisogno finora, come suo piedestallo, di tante sofferenze. Ma ecco balenare l’improvvisa possibilità di un cambiamen­ to in questa terribile legge, grazie a tutta una serie di mera­ vigliose invenzioni - invenzioni che moltiplicano all’infini-

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to la forza del lavoro umano. La ricchezza nazionale —il pa­ trimonio nazionale in rapporto alla popolazione - aumenta perciò in progressione costante. Ora io chiedo: quale con­ seguenza piu naturale, quale rivendicazione piu giusta, che anche i creatori di questa ricchezza nuova e antica fruiscano di simili vantaggi? che il loro reddito aumenti corrispon­ dentemente, o il tempo del loro lavoro diminuisca, o un nu­ mero sempre maggiore passi nelle file dei fortunati cui è concesso di cogliere i frutti del lavoro? Ma l’economia sta­ tale o meglio nazionale non ha saputo fare che l’opposto. Mentre la ricchezza nazionale cresce, aumenta la miseria di quelle classi; leggi speciali prolungano il tempo di lavoro; il numero dei lavoratori cresce in misura maggiore di quel­ lo degli altri ceti. E non basta. La forza-lavoro moltiplica­ ta, che già non sapeva alleviare le condizioni di vita di cin­ que sesti della nazione, si trasforma periodicamente in in­ cubo dell’ultimo sesto, e perciò della società intera». «Q ua­ li contraddizioni, sul terreno economico! E quali, soprat­ tutto, sul terreno sociale! La ricchezza sociale aumenta, e chi accompagna quest’aumento è l’aumento della miseria. La forza creatrice del mezzo produttivo aumenta, e quel che ne segue è il suo arresto. Le condizioni sociali esigono l’elevazione dello stato materiale delle classi lavoratrici allo stesso livello del loro stato politico, e la realtà economica risponde deprimendolo. La società ha bisogno dell’espan­ sione illimitata della ricchezza, e gli attuali dirigenti della produzione sono costretti a limitarla per non dar nuova esca alla miseria. Una cosa sola è in armonia. Al perverti­ mento delle cose corrisponde la perversione degli strati do­ minanti della società, quella perversione che li fa cercare la causa di questi mali dove non è. L ’egoismo che ama indos­ sare le vesti della morale, deplora come causa del pauperi­ smo i vizi dei lavoratori; attribuisce alla loro presunta in­ continenza e sfrenatezza ciò ch’è il portato di forze schiac­ cianti, e, quando non può chiudere gli occhi di fronte alla loro evidente innocenza, eleva a teoria “ la necessità della miseria” . Canta e ricanta all’operaio il versetto ora et labora, predica il dovere dell’astinenza e del risparmio, aggiun­ ge alla miseria dei lavoratori l’illegalismo del risparmio ob-

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bligatorio. Non vede che una forza cieca trasforma l’esorta­ zione al lavoro in una condanna alla disoccupazione forza­ ta: che... la parsimonia è un’impossibilità o una crudeltà; e che infine la morale è rimasta sempre senza effetti sulle labbra di coloro, dei quali dice il poeta che “ bevono di na­ scosto vino e predicano in pubblico acqua” » \ Se queste coraggiose parole non possono - trent’anni do­ po Sismondi e Owen, vent’anni dopo le accuse dei socialisti inglesi della scuola di Ricardo, dopo il cartismo, la battaglia di giugno e, last not least, il Manifesto dei Comunisti —pre­ tendere d ’essere innovatrici, tanto piu è importante veder­ ne la giustificazione scientifica. Ora, Rodbertus presenta un sistema teorico completo, che può essere sintetizzato nei seguenti punti. Il livello elevato storicamente raggiunto dalla produtti­ vità del lavoro, insieme con le «istituzioni del diritto posi­ tivo», cioè la proprietà privata, hanno generato, secondo le leggi di un «commercio abbandonato a se stesso», tutta una serie di fenomeni immorali, come: I. Il valore di scambio in luogo del «valore normale», «costituito», e perciò l’attuale denaro metallico in luogo di un denaro «cartaceo», «corrispondente alla sua idea», o «denaro di lavoro». «L a prima [verità] è che tutti i beni economici sono prodotti del lavoro, o, in altre parole, che solo il lavoro è produttivo. Ciò non significa tuttavia che il valore del prodotto sia sempre uguale al costo del lavoro o, in altri termini, che il lavoro possa già oggi fornire una mi­ sura del valore». È vero piuttosto che «ciò non è ancora un {atto economico, ma un ’id e a»12. «S e il valore potesse essere costituito in base al lavoro che il prodotto è costato, si potrebbe immaginare un dena­ ro consistente, come nei fogli strappati di un libro di conto generale, in una ricevuta scritta sulla piu umile delle so­ stanze, su stracci, che ognuno riceverebbe sul valore da lui prodotto e che realizzerebbe, come mandato di pagamento per ugual valore, sulla parte del prodotto nazionale che en­ 1 KARL RODBERTus-jAGETZOW, Schriften, Berlin 1899, vol. Ili, pp. 172-

174, 184. 2 Vol. II, pp. 104-5.

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tra in distribuzione... Se invece, per una ragione qualsiasi, il valore non può o non può ancora essere costituito, è ine­ vitabile che il denaro si trascini dietro quello stesso valore che deve liquidare, come valore uguale, come pegno o ga­ ranzia, cioè consista in un bene di un certo valore, in oro o argento»1. Ma interviene la produzione mercantile capita­ listica, e tutto si capovolge: «L a costituzione del valore deve cessare, perché esso non può piu essere che valore di scam bio»2. E «non potendo il valore essere costituito, neanche il denaro può essere semplicemente denaro, corri­ spondere pienamente alla sua id e a»3. «N el caso di una giu­ sta remunerazione nello scambio, il valore di scambio dei prodotti [dovrebbe] essere uguale alla quantità di lavoro che sono costati; nei prodotti dovrebbero sempre scambiar­ si uguali quantità di lavoro». Ma, anche ammettendo che ognuno produca esattamente i valori d ’uso di cui un altro ha bisogno, « trattandosi sempre di conoscenza e di volontà umane si dovrebbe avere in precedenza una giusta valuta­ zione, compensazione e determinazione delle quantità di lavoro contenute nei prodotti da scambiare, e una legge al­ la quale i soggetti dello scambio si adattassero » 4. Com’è noto, Rodbertus ci tiene a ribadire la sua priorità su Proudhon nella scoperta del valore costituito, scoperta che possiamo tranquillamente lasciargli. Che questa «idea» fosse soltanto uno spettro, già maturato teoricamente in Inghilterra, e praticamente sepolto, assai prima di Rodber­ tus, e che si riducesse ad una storpiatura della teoria ricardiana del valore, l’hanno ampiamente dimostrato Marx nel­ la Miseria della filosofia ed Engels nella sua prefazione a questa: non è perciò il caso di dilungarci su questa «musi­ ca dell’avvenire su una trombetta da ragazzino». 2. Dal «commercio di scambio» nacque la «degradazio­ ne» del lavoro a merce, e il salario secondo il «valore di co­ sto» invece che secondo una quota stabile di partecipazione al prodotto. Con un ardito balzo storico, Rodbertus fa di1 Voi. I, p. 992 Ibid., p. I7J. 3 Ibid., p. 176. 4 Vol. II, p. 6.5.

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scendere direttamente dalla schiavitù la sua legge del sala­ rio, considerando come menzogna ingannatrice, e condan­ nando da un punto di vista morale, i caratteri specifici che la produzione capitalistica delle merci imprime allo sfrutta­ mento. «Finché gli stessi produttori erano proprietà dei non-produttori, finché esisteva schiavitù, era esclusivamen­ te il vantaggio privato dei “ signori” a determinare in mo­ do unilaterale la grandezza di quella parte [la quota parte del lavoratore]. Da quando i produttori hanno ottenuto la piena libertà personale, ma nient’altro che questa, le due parti si accordano in precedenza sul salario. Il salario è, co­ me oggi si dice, oggetto di un “ libero contratto” , cioè della concorrenza. Ne segue che il lavoro è sottoposto alle stesse leggi del valore di scambio, alle quali anche i prodotti sog­ giacciono; assume esso stesso un valore di scambio; la gran­ dezza della sua remunerazione dipende dai riflessi della do­ manda e dell’offerta». Dopo aver cosi capovolto l’ordine delle cose e dedotto il valore di scambio della forza-lavoro dalla concorrenza, un po’ più in là Rodbertus ne deduce il valore dal valore di scambio: «Sotto l’impero delle leggi del valore di scambio, il lavoro riceve, come i prodotti, una specie di “ valore di costo” , che manifesta una specifica for­ za di attrazione sul suo valore di scambio, sull’ammontare del salario. Questo è l’ammontare necessario a “ mantener­ lo in esercizio” , cioè ad assicurargli la forza di prolungarsi, sia pur soltanto nella sua discendenza; il cosiddetto “ ne­ cessario sostentamento” ». Ma per Rodbertus tutto ciò non è determinazione di leggi economiche obiettive, ma ogget­ to di sdegno morale. L ’affermazione della scuola classica: « I l lavoro non ha più valore di quanto riceve come sala­ rio», egli la chiama «cinica» e si propone di svelare «la se­ rie di errori» che « a questa volgare e immorale conclusio­ ne» hanno portato '. «Una concezione non meno umiliante di quella secondo cui il salario del lavoro si valuta in base al necessario sostentamento, o allo stesso modo di una ripa­ razione di macchine, ha, nel caso del lavoro —questo prin­ cipio di tutti i beni, divenuto merce - fatto parlare di un 1 Vol. I, pp. 182-84.

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suo “ prezzo naturale” o di un suo “ costo” come nel caso dei prodotti, ed esprimere questo prezzo naturale, questo costo del lavoro, nella quantità di beni necessaria per ripor­ tare continuamente sul mercato il lavoro». Il carattere di merce e la conseguente determinazione del valore della for­ za-lavoro non sono però che un malvagio traviamento della scuola del libero scambio e, invece di rinviarci alla contrad­ dizione intrinseca alla produzione capitalistica delle merci fra determinazione del valore del lavoro e determinazione del valore mediante il lavoro, come gli allievi inglesi di Ri­ cardo, Rodbertus accusa da buon prussiano la produzione mercantile capitalistica di contraddizione... col diritto pub­ blico vigente. «O h folle, indescrivibile contraddizione di quegli economisti —esclama - che vorrebbero chiamare gli operai a dir la loro, nella posizione giuridica ora raggiunta, sui destini della società, e nello stesso tempo pretendono, dal punto di vista economico, che siano trattati come mer­ ci! » \ Si chiederà allora perché gli operai accettino una cosi fol­ le e palese ingiustizia —obiezione mossa già alla teoria ricardiana del valore, per esempio, da Hermann. Risponde Rodbertus: «Che cosa avrebbero dovuto fare gli operai, se, dopo la loro liberazione, non avessero voluto accettare quel­ la norma? Considerate un po’ il loro stato! Gli operai sono stati messi in libertà nudi o in cenci, senz’altro che la pro­ pria forza-lavoro. Abolita la schiavitù o la servitù della gle­ ba, era decaduto anche l’obbligo morale o giuridico del pa­ drone di nutrirli o di provvedere ai loro bisogni. Ma i biso­ gni erano rimasti; i lavoratori dovevano vivere. Come prov­ vedere, con la loro forza-lavoro, a questa vita? Attingere al capitale presente nella società e produrre con esso il pro­ prio mantenimento? Ma il capitale esistente nella società apparteneva già ad altri, e gli esecutori del “ diritto” non l’avrebbero tollerato». Che cosa restava, dunque, ai lavo­ ratori? «Una sola alternativa: o abbattere il diritto sociale, o ritornare in condizioni economiche quasi simili alle pre­ cedenti, seppur in diversa posizione giuridica, dagli antichi 1 Vol. II, p. 72.

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padroni, proprietari di terre o di capitali, e riceverne come salario quello che prima ricevevano come alimento». Per buona sorte del genere umano e del diritto pubblico prus­ siano, i lavoratori furono «cosi saggi» da non «far uscire dai binari» la civiltà, preferendo eroicamente assoggettarsi alle umilianti pretese degli «antichi padroni». Nacquero cosi il sistema capitalistico del salario e la legge del salario, «qualcosa di simile alla schiavitù», prodotto dell’abuso del­ la forza da parte dei capitalisti e della situazione di emer­ genza in cui i proletari si trovarono, oltre che della loro mi­ te arrendevolezza, se si vuol prestar fede alle spiegazioni teoriche davvero innovatrici di quello stesso Rodbertus, che Marx ha notoriamente... «saccheggiato». Quanto alla teo­ ria del salario, la «priorità» di Rodbertus è comunque indi­ scutibile, giacché i socialisti inglesi ed altri critici della so­ cietà borghese avevano analizzato il sistema del salario in modo assai meno rozzo e primitivo. L ’originalità di Rod­ bertus sta tutta nel non utilizzare il grande sfoggio di sde­ gno morale sulle origini e sulle leggi economiche del siste­ ma salariale per trarne come conseguenza la necessità di eliminare la spaventosa ingiustizia, la «folle e indescrivibile contraddizione». Dio ne guardi! Egli insiste nel rassicurare il prossimo che il suo ruggito contro lo sfruttamento non va preso troppo sul tragico: non è un leone, lu i1! La teoria morale della legge del salario serve soltanto a tirarne la con­ clusione che segue. 3. Dalla determinazione del salario secondo «le leggi del valore di scambio» deriva che, con gli sviluppi della pro­ duttività del lavoro, la parte di prodotto che spetta ai lavo­ ratori diviene sempre piu piccola. Eccoci al punto di appog­ gio archimedico del «sistem a» di Rodbertus. La «quota ca­ lante di salario» è la piu importante idea «originale» ch’e­ gli continui a ripetere dai primi scritti sociali (probabil­ mente del 1839) fino alla morte, e «rivendichi» come sua proprietà. È vero che quest’«idea» non era se non una de­ duzione dalla teoria ricardiana del valore; è vero che essa è contenuta implicite nella teoria del fondo-salari che domi1 Vol. IV , p. 22 y

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nò l’economia politica borghese dai classici fino al Capitale di Marx. Ciò non toglie che, grazie a questa «scoperta», egli si creda una specie di Galileo dell’economia politica, e metta avanti la sua «quota calante del salario» a spiegazio­ ne di tutti i mali e di tutte le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, e perciò anche del pauperismo, che per lui costituisce, insieme alle crisi, «la questione so­ dale». Varrebbe la pena di raccomandare alla benevola con­ siderazione dei moderni liquidatori di Marx il fatto che non è stato Marx ma Rodbertus, cioè un pensatore molto piu vicino a loro, ad esporre nella sua formulazione piu cru­ da una teoria delPimmiserimento e a farne, diversamente da Marx, non un fenomeno derivato, ma il punto centrale della «questione sociale». (Si veda ad esempio la dimostra­ zione dell’immiserimento assoluto delle classi lavoratrici nella prima Lettera sodale a v. Kirchmann). Inoltre, la «quota calante del salario» è chiamata a spiegare l’altro aspetto fondamentale della «questione sociale»: le crisi. È a questo punto che Rodbertus affronta il problema dell’equi­ librio fra consumo e produzione e sfiora il complesso dei problemi collaterali già discussi nella polemica fra Sismondi e la scuola ricardiana. In Rodbertus, naturalmente, la nozione teorica delle cri­ si si fonda su un materiale concreto ben piu ricco che in Sismondi. Nella sua prima Lettera sodale si trova già una descrizione dettagliata delle quattro crisi: 1818-19, 1823, 1837-39, 1847, ed era ovvio che maggiori possibilità di os­ servazione permettessero una visione piu profonda della natura delle crisi, di quanto fosse concesso ai suoi prede­ cessori. Già nel 1830 egli formula la teoria della periodicità delle crisi e del loro ritorno a intervalli sempre più brevi, ma con tanto maggiore asprezza: «L a terribilità di queste crisi è aumentata di volta in volta in rapporto all’aumento della ricchezza, le vittime ch’esse divorano sono cresciute. In confronto alla crisi del 1823-26, la crisi del 1818-19, pur con lo spavento diffuso nel mondo commerciale e le rifles­ sioni suscitate nel mondo dell’economia, fu insignificante. L ’ultima ha inferto tali colpi al capitale britannico, che i più celebri economisti ne misero in dubbio la completa gua­

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rigione: e tuttavia, è stata superata da quella del 1836-37. Disastri anche maggiori hanno prodotto le crisi del 18391840 e del 1846-47». «Inoltre, l’esperienza dimostra ch’es­ se si ripresentano a intervalli sempre piu brevi. Dalla pri­ ma alla terza sono passati 18 anni, dalla seconda alla quar­ ta 14, dalla terza alla quinta 12. E già si accumulano i sin­ tomi di un prossimo disastro, sebbene sia fuori dubbio che il 1848 ne ha ritardato lo scoppio» '. In seguito Rodbertus osserva che le crisi sono regolarmente precedute da uno straordinario sviluppo della produzione, da grandi progres­ si tecnici nell’industria: «ognuna di loro è seguita a un pe­ riodo marcato di fioritura economica»2. In base alla storia delle crisi, afferma che «queste sono sempre precedute da un aumento notevole della produttività»2 e combatte la teoria che riconduce le crisi a semplici disturbi nel mecca­ nismo monetario e creditizio, criticando la legislazione ban­ caria di Peel: tutte considerazioni ampiamente sviluppate nel saggio Die Handelskrisen und die Hypothekennot del 1858, in cui scrive fra l’altro: «Sbaglia perciò anche chi in­ terpreta le crisi commerciali come pure crisi monetarie, cre­ ditizie e di borsa. Tali esse appaiono solo esteriormente, al loro primo apparire»4. È anche degna di nota la coscienza che Rodbertus acutamente ha dell’importanza del commer­ cio estero in rapporto al problema delle crisi. Esattamente come Sismondi, egli constata la necessità dell’espansione per la produzione capitalistica e, nello stesso tempo, il fatto ch’essa non può se non aumentare le dimensioni delle crisi periodiche. « Il commercio estero - dice in Zur Beleuchtung der sozialen Frage (parte II, quad. I) - sta alla paralisi del commercio come la beneficenza al pauperismo: in definiti­ va, non serve che ad aggravarla»5. E nel citato Handels­ krisen und Hypothekennot: «Ciò che si può utilizzare per impedire lo scoppio futuro delle “ crisi” è soltanto l’arma a doppio taglio dell’allargamento del mercato estero. La 1 Vol. Ili, pp. n o, i n . 2 Ibid., p. 108. 3 Vol. I, p. 62. 4 Vol. IV, p. 226. s Vol. Ili, p. 18Ć.

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spinta rabbiosa a un simile allargamento non è, in gran par­ te, che l’eccitazione morbosa di un organo ammalato. Poi­ ché sul mercato interno un fattore, la produttività, cresce incessantemente, e l’altro, il potere d’acquisto, rimane in­ cessantemente, per la grandissima maggioranza del paese, allo stesso livello, è inevitabile che il commercio si sforzi di procurarsi su mercati esteri una corrispondente espansio­ ne dell’ultimo fattore. Ciò che attutisce questo stimolo ri­ tarda almeno il riapparire del male. Ogni nuovo mercato estero corrisponde dunque a un rinvio della questione socia­ le. Nello stesso senso agiscono le colonizzazioni di paesi ar­ retrati. L ’Europa si crea un mercato là dove non ve n’era alcuno. Ma questo mezzo si limita, in definitiva, a giocare a rimpiattino coi mali che dovrebbe curare. Una volta saturi i nuovi mercati, la questione ritorna al punto di partenza, alla limitatezza del fattore potere d ’acquisto in confronto all’illimitatezza del fattore produttività, e il nuovo scoppio è stato allontanato dai mercati minori solo per riapparire in dimensioni piu vaste ed esplosioni ancor piu terribili sui maggiori. E poiché la terra ha i suoi limiti, e perciò presto o tardi la conquista di nuovi mercati deve cessare, presto o tardi avrà un termine anche l’aggiornamento del problema. Esso va risolto una volta per tutte» '.1 1 Vol. IV, p. 233. È interessante a questo proposito osservare come Rodbertus, ad onta delle sue tirate moralistiche sulla sorte delle infelici classi operaie, sia stato in pratica uno spregiudicatissimo e realistico profeta della politica coloniale capitalistica nel senso e nello spirito degli attuali «ultrate­ deschi». Scrive in una nota al passo citato: «Si può di qui dare un rapido sguardo all’importanza dell’apertura dell’Asia, soprattutto della Cina e del Giappone, di questi ricchissimi mercati mondiali, e del mantenimento della dominazione inglese in India. Grazie ad essa la questione sociale prende tempo [il tuonante vendicatore degli sfruttati cede qui ai profittatori dello sfruttamento il mezzo per conservare il piti possibile a lungo “ il folle e criminoso errore” , la concezione “ immorale” , T “ ingiustizia stridente” !], giacché [impareggiabile rassegnazione filosofica!] manca al presente, per la sua soluzione, sia disinteresse e serietà che senno. È vero che un vantaggio economico non è un titolo di diritto per l’uso della forza. Ma anche la stret­ ta applicazione del moderno diritto naturale e internazionale a tutte le na­ zioni del mondo, a qualunque grado di civiltà siano giunte, è insostenibile. [Vengono in mente le parole di Dorine nel Tartuffe di Molière: “ Le ciel défend, de vraie, certains contentements, mais il y a avec lui des accomodements..’. ” ]. Il nostro diritto internazionale è un prodotto della civiltà della morale cristiana e, poiché ogni diritto si fonda sulla reciprocità, esso può ser­ vir di norma solo per i rapporti con nazioni che a questa stessa civiltà appar-

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Rodbertus ha anche visto nell’anarchia della produzione privata capitalistica un fattore di crisi, un fattore tuttavia fra gli altri, non la causa vera e propria delle crisi ma la sor­ gente di una particolare variazione delle crisi. Cosi, a pro­ posito dello scoppio della «crisi» nel «paese» fantasticato da V. Kirchmann: «Non voglio dire che questa specie di ar­ resto nello smercio non si verifichi nella realtà. Il mercato è oggi vasto, i bisogni e i rami di produzione molteplici, la produttività elevata, ma i segni della domanda sono oscuri e ingannatori, gli imprenditori ignorano l’ampiezza delle ri­ spettive produzioni: può perciò anche accadere che si sba­ glino nel valutare un determinato fabbisogno di merci e satengano. La sua applicazione al di là di questi limiti è un puro sentimentali­ smo dal quale gli orrori indiani avrebbero dovuto guarirci... L’Europa cri­ stiana dovrebbe invece accettare qualcosa del sentimento che mosse greci e romani a considerare gli altri popoli della terra come barbari. Si risvegliereb­ be allora anche nelle nuove nazioni europee la spinta viva degli antichi, e di significato storico mondiale, a diffondere la loro civiltà per tutto Vorbis terrarum. Esse riconquisterebbero in un’azione concorde l’Asia, e a questa co­ munità di opere andrebbero di pari passo i maggiori progressi sociali, la fon­ dazione stabile della pace europea, la riduzione degli eserciti, una colonizza­ zione dell’Asia nello stile dell’antica Roma; insomma, una vera e propria solidarietà di interessi in tutti i campi della vita sociale». Il profeta degli sfruttati e degli oppressi diventa qui, nella visione dell’espansione coloniale capitalistica, un poeta. Questo ardore poetico merita tanto più d’essere ap­ prezzato in quanto la «civiltà della morale cristiana» stava proprio allora coprendosi di glorie del genere della guerra dell’oppio contro la Cina e «gli orrori indiani», e della sanguinosa repressione della rivolta dei Sepoy da patte degli inglesHn India. Nella sua seconda Lettera sociale (1850), Rod­ bertus aveva bensì annunciato che, se la società dovesse dimostrarsi priva della «forza morale» di risolvere la questione sociale, cioè di modificare la distribuzione della ricchezza, la storia avrebbe «dovuto menar su di essa per la seconda volta lo staffile della rivoluzione» (vol. II, p. 83). Ma otto anni dopo si disponeva da buon prussiano a menare lo staffile della politica colo­ niale ispirata alla morale cristiana sugli indigeni dei paesi coloniali. Era per­ ciò anche perfettamente naturale che il «vero fondatore del socialismo scien­ tifico in Germania» fosse un caldo sostenitore del militarismo, e che la sua frase sulla «riduzione degli eserciti» avesse solo il valore di una licentia poe­ tica. Nel suo Zur Beleuchtung der sozialen Frage (II, 1), egli afferma che « l’intero onere fiscale gravita costantemente verso il basso, ora nell’aumento dei prezzi dei mezzi di sussistenza, ora nella pressione esercitata sul salario monetario», mentre il servizio militare obbligatorio, «visto sotto il profilo di un onere statale, si identifica per le classi lavoratrici non tanto con un’im­ posta, quanto con una confisca pluriennale dell’intero reddito». Ma si affret­ ta ad aggiungere: «A scanso di equivoci, osservo che sono un deciso parti­ giano dell’attuale ordinamento militare [dell’ordinamento militare prussia­ no della controrivoluzione], per quanto oppressivo possa apparire alle classi lavoratrici e per quanti sacrifici imponga alle classi possidenti» (vol. Ili, p. 34). No, Rodbertus non è davvero un leone!

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turino perciò il mercato». Rodbertus afferma anche aperta­ mente che solo un’organizzazione pianificata dell’economia, un «completo rivoluzionamento» degli attuali rapporti di proprietà, la riunione di tutti i mezzi produttivi «nelle ma­ ni di un’unica autorità sociale», potrebbero eliminare le cri­ si, pur affrettandosi, per tranquillizzare gli animi, a mettere in dubbio che una simile soluzione sia possibile. «Comun­ que, essa offrirebbe l’unica possibilità di impedire questo arresto dello smercio»: insomma, l ’anarchia del modo di produzione attuale è responsabile solo di una manifestazio­ ne specifica, parziale, del fenomeno crisi. Rodbertus rigetta con scherno la teoria say-ricardiana del naturale equilibrio fra consumo e produzione, e mette l’ac­ cento, come Sismondi, sul potere d ’acquisto della società: potere d ’acquisto che fa dipendere, d ’accordo anche in que­ sto con Sismondi, dalla distribuzione del reddito. Non ac­ cetta però la teoria sismondiana delle crisi, specie nelle sue conseguenze ultime, e la combatte aspramente. Se infatti Sismondi vede la sorgente del male nell’espansione illimi­ tata della produzione senza riguardo ai limiti del reddito, e perciò predica la limitazione dell’attività produttiva, Rod­ bertus invoca l’espansione senza freni della produzione, della ricchezza, delle forze produttive. La società, dice, ha bisogno di un aumento illimitato della sua ricchezza. Chi condanna la ricchezza della società, condanna con la sua po­ tenza il suo progresso, e con questo la sua virtu; chi mette ostacoli al suo aumento, si oppone al suo sviluppo. Ogni aumento della scienza, della volontà e della potenza della società umana è legato all’aumento della ricchezza1. Da que­ sto punto di vista, Rodbertus era un caldo sostenitore delle banche di credito, che considerava premessa necessaria al­ l’illimitata espansione dell’attività costruttiva. Tanto il suo scritto sul problema delle ipoteche, che è del 1858, quanto l’analisi apparsa nel 1843 della crisi monetaria prussiana, sono dedicati alla trattazione di questo punto. Ma egli pole­ mizza anche contro gli ammonimenti alla Sismondi, affron­ tando anche qui la questione da un punto di vista utopisti1 Vol. I l i , p. 182.

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co-moraleggiante: «G li imprenditori - declama —non sono in fondo che funzionari dell’economia nazionale e, se fanno lavorare i mezzi di produzione nazionali affidati loro irrevo­ cabilmente dall’istituto della proprietà, non fanno che il lo­ ro dovere. Giacché, lo ripeto, il capitale esiste solo ai fini della produzione»; ma, piu in là: «O che forse dovranno [gli imprenditori] rendere croniche le sofferenze già acute, lavorando fin dapprincipio e continuamente con forze infe­ riori a quelle che in realtà possiedono, e comprando così un piu basso grado di asprezza contro una durata indefinita del male? Quand’anche si fosse tanto pazzi da dar loro un si­ mile consiglio, essi si guarderebbero dal seguirlo. Da che cosa mai dovrebbero, questi produttori mondiali, ricono­ scere il rattrappimento già in atto del mercato? Essi produ­ cono senza sapere l’uno dell’altro, negli angoli piu diversi del mondo, per un mercato lontano centinaia di miglia, con forze cosi gigantesche che la produzione di un mese basta a superare quel limite: come pensare che una produzione co­ sì spezzettata eppur così potente, possa raggiungere a tem­ po la consapevolezza dei propri limiti? Dove sono le istitu­ zioni, per esempio uffici statistici aggiornati, per aiutarla? Ma quel che è peggio è che l’unico termometro del mercato è costituito dal prezzo, dai suoi alti e bassi: non da un ba­ rometro, dunque, che predica la temperatura del mercato, ma da uno strumento che si limita a registrarla. Se il prezzo cala, il limite è già varcato, e il male bell’e fatto» Questa polemica, evidentemente diretta contro Sismondi, mostra che, nell’interpretazione delle crisi, i due erano di parere profondamente diverso: se perciò Engels nelVAntidiihring attribuisce a Sismondi la spiegazione delle crisi mediante il sottoconsumo, che Rodbertus a sua volta avrebbe preso a prestito da lui, l’affermazione non è esatta. Rodbertus e Sis­ mondi hanno in comune l’opposizione alla scuola classica e la derivazione delle crisi in generale dalla distribuzione del reddito. Ma anche qui Rodbertus segue una sua via per­ sonale: la sovraproduzione non sarebbe determinata né dal basso reddito delle classi lavoratrici, né dalla limitata capaVol. IV, p. 231.

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cita di consumo dei capitalisti, come in Sismondi, ma dal fatto che il reddito dei lavoratori, man mano che la produt­ tività cresce, rappresenta una parte sempre minore del va­ lore dei prodotti. Rodbertus ribatte costantemente al suo avversario che gli arresti nello smercio non nascono dalla li­ mitazione della quota parte delle classi lavoratrici: «Im m a­ gini pure —insegna a v. Kirchmann —che queste quote par­ ti siano tanto piccole da non assicurare agli interessati che la nuda esistenza, ma la fissi in una percentuale invariabile di prodotto nazionale ad essi destinata, e supponga che la produttività aumenti: avrà allora anche un solido recipien­ te di valore capace di accogliere un contenuto sempre cre­ scente, e perciò anche un sempre crescente benessere delle classi lavoratrici... Inversamente, immagini grandi quanto vuole le quote parti delle classi lavoratrici e supponga che, essendo aumentata la produttività, esse si riducano ad una percentuale sempre piu piccola del prodotto nazionale: in tal caso, è ben vero che quelle quote parti, finché si ridur­ ranno ai limiti attuali, basteranno pur sempre a proteggere i lavoratori da un’eccessiva scarsità di beni, ma, appena cominceranno a calare, si trascineranno dietro quell’inquietu­ dine, via via dilatantesi in crisi commerciale, che nasce, sen­ za colpa dei capitalisti, dal fatto che questi hanno regolato l’ampiezza della produzione sulla grandezza data di quelle quote parti» ‘. Cosi, la «quota calante di salario» è la causa diretta delle crisi, e l’unico mezzo efficace di arginarle è la determinazio­ ne legale della parte di prodotto nazionale destinato ai la­ voratori in una quota fissa e immutabile. Occorre rifletter bene su questa bizzarra trovata, per valutarne al giusto pe­ so il contenuto economico.1 1 Vol. I, p. 59.

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L ’A N A LISI D ELLA RIPRODUZIONE IN RO DBERTUS

Che cosa significa, anzitutto, che la diminuzione della quota parte dei lavoratori sul prodotto sociale debba pro­ vocare «subito» sovraproduzione e crisi commerciali? Que­ sta teoria è comprensibile solo presupponendo che Rodbertus immagini costituito il «prodotto nazionale» di due par­ ti, quella dei lavoratori e quella dei capitalisti, v + p, e che una parte si scambi contro l ’altra. In realtà, Rodbertus si esprime saltuariamente in questo senso: «L a miseria delle classi lavoratrici —scrive per esempio nella sua prima Let­ tera - non consente mai che il loro reddito serva di letto al­ la produzione rigurgitante. L ’eccesso di prodotti, che in mano ai lavoratori non soltanto migliorerebbe le loro con­ dizioni generali di vita, ma offrirebbe il modo di accrescere il valore della parte destinata a rimanere agli imprenditori, e consentirebbe perciò a questi la continuazione della loro attività nella misura precedente, comprime talmente, dalla parte degli imprenditori, il valore del prodotto totale, che quella possibilità svanisce, e lascia gli operai, nella migliore delle ipotesi, nell’abituale carestia»1. Ciò che, in mano ai lavoratori, accresce «il valore» della «parte destinata a ri­ manere agli imprenditori», non può essere altro che la do­ manda. Saremmo così felicemente approdati nel famoso «paese» di v. Kirchmann, dove i lavoratori compiono coi capitalisti uno scambio dei salari contro il sovraprodotto, e le crisi nascono dal fatto che il capitale variabile è piccolo e il plusvalore grande: impostazione che abbiamo già discus­ so piu sopra. Ma altrove Rodbertus preferisce porre in mo­ do diverso il problema. Nella quarta Lettera egli espone la 1 Voi. I l i , p. 176.

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teoria secondo la quale i continui spostamenti nel rapporto fra la domanda rappresentata dalla parte della classe lavo­ ratrice e quella determinata dalla parte della classe capitali­ sta, devono necessariamente provocare una sproporzione cronica fra produzione e consumo: «Non avviene forse che gli imprenditori cercano di tenersi nei limiti di quelle par­ ti, ma per la grande maggioranza della società, per i lavora­ tori, queste vengono continuamente ridotte da una forza inavvertita e tuttavia irresistibile? Che, in tali classi, esse si rimpiccioliscono nella stessa misura in cui la loro produt­ tività cresce? Non avviene forse che i capitalisti, mentre si basano nel regolare la produzione sulla grandezza passata di quelle parti, producono tuttavia sempre di piu, e deter­ minano così una costante insoddisfazione che finisce per tradursi in arresto dello smercio?» Le crisi andranno dunque spiegate così: il prodotto na­ zionale consta di un certo numero di «merci ordinarie», co­ me dice V. Kirchmann, per i lavoratori, e di un certo nume­ ro di merci di maggior pregio per i capitalisti: il complesso delle prime rappresentato dalla somma dei salari, il com­ plesso delle seconde dal plusvalore totale. Se i capitalisti re­ golano la produzione in base ad esse, e la produttività cre­ sce, si determinerà immediatamente uno scompenso, giac­ ché la parte dei lavoratori non è piu, oggi, quella di ieri, ma minore; se ieri la domanda di «merci ordinarie» costituiva, poniamo, sei settimi del prodotto nazionale, oggi non ne costituisce che i cinque settimi, e gli imprenditori, che si erano basati su sei settimi di «merci ordinarie», avranno la spiacevole sorpresa di constatare che ne hanno prodotto un settimo di troppo. Se poi, ammaestrati dall’esperienza, si mettono in testa di regolare domani la produzione, in modo da produrre soltanto cinque settimi dell’intero valore del prodotto nazionale in «merci ordinarie», una nuova delu­ sione li attende, perché dopodomani la parte del salario sul prodotto nazionale non rappresenterà piu che quattro setti­ mi, e così via. Questa originale teoria fa sorgere subito una quantità di1 1 Vol. I, pp. J3, 57.

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piccoli dubbi. Se le crisi commerciali derivano dal fatto che la «quota del salario», il capitale variabile, rappresenta una parte sempre minore del valore totale del prodotto com­ plessivo, la fatale legge racchiude in se stessa il rimedio al male causato, giacché la sovraproduzione riguarderà una parte sempre minore del prodotto totale. È vero che Rodbertus si compiace di espressioni come «la schiacciante mag­ gioranza» dei consumatori, «la grande massa di popolazio­ ne» consumatrice, la cui parte si riduce costantemente, ma quel che conta nella domanda non è il numero delle teste, ma il valore da esse rappresentato, e questo valore costitui­ sce, secondo Rodbertus, una parte sempre decrescente del prodotto totale. La base economica delle crisi diventa dun­ que sempre piu piccola, e resta solo da chiedersi come av­ venga che, ciò nonostante, le crisi siano, secondo lo stesso Rodbertus, i) generali, 2) sempre piu violente. Inoltre, se la «quota del salario» costituisce una parte del prodotto na­ zionale, il plusvalore ne costituisce, secondo Rodbertus, l’altra. Ne segue che di quanto decresce il potere d ’acqui­ sto della classe lavoratrice, di altrettanto aumenta il potere d ’acquisto della classe capitalista: se v rimpicciolisce co­ stantemente, p aumenta costantemente. Dunque, secondo il nudo schema di Rodbertus, il potere d ’acquisto comples­ sivo della società non può variare. È lui stesso a dire: «So bene che, in definitiva, di quanto cala la parte dei lavorato­ ri, di altrettanto crescono le parti dei percettori di rendite [in Rodbertus, “ rendita” è sinonimo di plusvalore], e che perciò alla lunga, e nel complesso, il potere d ’acquisto non varia. Ma, in rapporto al prodotto riversato sul mercato, la crisi è già avvenuta prima che quell’aumento possa farsi sentire» '. Ma allora, la questione si riduce, al massimo, a questo: nella stessa misura in cui si produce costantemente un eccesso di «merci ordinarie», si produce costantemen­ te un difetto in merci pregiate per i capitalisti, e, senza accor­ gersene, Rodbertus approda per vie proprie alla teoria, cosi aspramente combattuta, di Say-Ricardo secondo cui alla so­ vraproduzione da un lato corrisponde sempre una sottopro1 Vol. I, p. 206.

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duzione dall’altro. E poiché le parti di valore della classe lavoratrice e della classe capitalista si modificano costantemente a danno della prima, le crisi commerciali assumereb­ bero sempre piu, in complesso, un carattere di periodica sottoproduzione invece che di sovraproduzione periodica! Ma lasciamo da parte questo rebus. Quel che risulta da tut­ to ciò è che Rodbertus considera il prodotto nazionale co­ me composto, dal punto di vista del valore, di due sole par­ ti, v e p, condividendo perciò la tradizionale impostazione della scuola classica, che pur combatte con tanta asprezza - abbellita per giunta dalla teoria che l’intero plusvalore è consumato dai capitalisti. E ce lo dice chiaro e tondo in piu punti, ad esempio nella quarta Lettera: «Perciò, al fine di scoprire il principio della rendita [del plusvalore], il prin­ cipio della divisione del prodotto del lavoro in salario e rendita, è necessario anzitutto prescindere dalle ragioni che determinano la divisione della rendita in generale in rendi­ ta fondiaria e rendita di capitale» ‘. E nella terza Lettera: «Rendita fondiaria, utile di capitale e salario del lavoro so­ no, lo ripeto, reddito. Proprietari fondiari, capitalisti, la­ voratori vogliono viverne, cioè soddisfare con essi i propri bisogni umani immediati. I beni acquistati col reddito de­ vono perciò essere utilizzabili a tale scopo» Mai formula­ zione piu smaccata ha avuto la menzogna che fa della eco­ nomia capitalistica una produzione unicamente destinata ai fini del consumo diretto, e in questo è indiscutibile che Rodbertus ha la palma della «priorità» - non soltanto su Marx ma su tutti gli economisti volgari. Per non lasciare al lettore neppure una particella di dubbio su questa sua con­ fusione, nella stessa lettera egli mette sullo stesso piano il plusvalore capitalistico, come categoria economica, e il red­ dito dell’antico proprietario di schiavi: «A l primo stadio [la schiavitù] è legata la più semplice economia naturale: la parte del prodotto del lavoro sottratta al reddito dei la­ voratori o schiavi, e costituente la proprietà del signore o proprietario, spetterà indivisa al proprietario del suolo, del12 1 Vol. I, p. 19. 2 Vol. II, p. n o. IO

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capitale, dei lavoratori, e del prodotto del lavoro, in qualità di rendita; i concetti di rendita fondiaria e di utile di capi­ tale rimangono indistinguibili... Nel secondo si ha la piu complicata economia monetaria: la parte del prodotto del lavoro sottratta al reddito del lavoratore libero, e spettante al proprietario del suolo e del capitale, si suddividerà ulte­ riormente fra proprietari dei prodotti grezzi e proprietari dei prodotti lavorati; inoltre, la rendita unica del primo sta­ dio si scinderà, e dovrà essere tenuta distinta, in rendita del suolo e utile del capitale»1. Insomma, Rodbertus vede la differenza economica fondamentale tra sfruttamento in re­ gime di schiavitù e sfruttamento in regime capitalistico... nella divisione del plusvalore «sottratto al reddito» del la­ voratore in rendita fondiaria e utile del capitale. Il fatto de­ cisivo del modo di produzione capitalistico non è la forma storica specifica della ripartizione del nuovo valore fra lavo­ ro e capitale, ma la suddivisione, indifferente per il proces­ so produttivo, del plusvalore fra i suoi diversi usufruttuari. Per il rimanente, il plusvalore capitalistico è, nell’insieme, la stessa cosa della «rendita unica» dell’età schiavista: un fondo privato di consumo dello sfruttatore! È vero che in altri punti Rodbertus torna a contraddirsi, e si ricorda tanto del capitale costante, quanto della neces­ sità che si rinnovi nel processo della riproduzione: ammet­ te dunque, invece della bipartizione del prodotto sociale in v + p, la tripartizione in c + v + p. Nella sua terza Lettera scrive, a proposito delle forme della riproduzione nell’eco­ nomia schiavistica: «Poiché il signore baderà che una parte del lavoro servile sia impiegata a mantenere nello stesso stato o anche a migliorare i campi, il bestiame, gli attrezzi sia agricoli che artigiani, quella che oggi si chiama “ sostitu­ zione del capitale” si compirà in modo che una parte del prodotto nazionale dell’economia sia impiegata sempre, di­ rettamente e senza l’intermediario dello scambio e del va­ lore di scambio, alla manutenzione del patrimonio»2. E, passando alla riproduzione capitalistica: «O ra, una parte 1 Vol. II, p. 144. 2 Ibid., p. 146.

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di valore del prodotto del lavoro sarà impiegata o destinata al mantenimento del patrimonio alla “ sostituzione del ca­ pitale” , una parte di valore del prodotto del lavoro sarà im­ piegata, sotto forma di salario monetario dei lavoratori, al loro mantenimento, e una parte di valore dello stesso ri­ marrà infine ai proprietari del suolo, del capitale, e del pro­ dotto del lavoro, come loro reddito o come rendita» \ Abbiamo qui espressa chiaramente la tripartizione in capi­ tale costante, capitale variabile e plusvalore, che nella stessa lettera viene elevata a peculiarità originale della «nuova» teoria: «Questa teoria, ammessa una sufficiente produttivi­ tà del lavoro, fa ripartire tra lavoratori e proprietari, come salario e rendita, in seguito alla proprietà del suolo e del ca­ pitale, la parte del valore del prodotto che resta al reddito dopo la sostituzione del capitale, ecc. » 2. In questo, Rodbertus sembra aver fatto, rispetto alla scuola classica, un decisivo passo innanzi nell’analisi del valore del prodotto totale; anzi, un po’ piu avanti, critica espressamente il «dog­ ma smithiano», e resta solo da chiedersi come mai i dotti ammiratori di Rodbertus, i signori Wagner, Dietzel, Diehl e compagni, abbiano trascurato di sottolineare la «priori­ tà» del loro beniamino su Marx in un punto cosi impor­ tante della teoria economica. Ma il fatto è che di priorità si può parlare, a questo proposito, altrettanto poco quanto a proposito della teoria del valore. Anche là dove Rodber­ tus sembra aver colto nel segno, ci si accorge subito che si tratta di un equivoco. Che Rodbertus non sapesse trarre il minimo partito dalla tricotomia del prodotto nazionale da lui un momento prima accennata, risulta nel modo piu schiacciante dalla sua critica del dogma smithiano, che ri­ portiamo testualmente: «L ei sa che tutti gli economisti, a partire da Adam Smith, suddividono il valore del prodotto in salario, rendita fondiaria e utile del capitale, e che perciò l’idea di fondare il reddito delle diverse classi e perciò an­ che le parti della rendita su una ripartizione del prodotto, non è nuova. Senonché gli economisti si smarriscono subi1 Vol. II, p.

ijj.

2 Ibid., p. 223.

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to. Tutti - non esclusi i ricardiani —commettono in primo luogo l’errore di non considerare l’intero prodotto, il bene finito, il prodotto nazionale totale, come unità alla quale lavoratori, proprietari fondiari e capitalisti partecipano, ma di considerare la ripartizione del prodotto grezzo come una ripartizione particolare cui partecipano tre membri, e la ripartizione del prodotto fabbricato un’altra alla quale ne partecipano solo due. In tal modo, questi sistemi conside­ rano il puro prodotto grezzo e il puro prodotto fabbricato, ciascuno per sé, come un particolare reddito. Commettono in secondo luogo —eccezion fatta, questa volta, per Ricar­ do e Smith —l ’errore di scambiare per un fatto economico il fatto naturale che il lavoro non può produrre alcun bene senza la collaborazione della materia, la terra, e per un fat­ to primitivo il fatto sociale che nella divisione del lavoro è inoltre utilizzato il capitale nel senso moderno della parola. Costruiscono perciò un rapporto economico fondamentale e, premessa la proprietà divisa del suolo, del capitale e del lavoro nella società, vi riconducono anche le parti di questi diversi proprietari: la rendita fondiaria si origina dalla col­ laborazione del suolo destinato dal proprietario alla produ­ zione, l ’utile del capitale dalla collaborazione del capitale impiegato dal capitalista, e il salario dalla collaborazione del lavoro. La scuola di Say, che ha dato a questo errore la sua forma piu raffinata, costruisce addirittura la teoria di un diverso merito produttivo del suolo, del capitale e del lavoro, corrispondentemente alla parte di prodotto spettan­ te ai diversi proprietari, per spiegare nuovamente sulla ba­ se di esso la ripartizione del prodotto. Vi si ricollega infine l’assurdo per cui, mentre salario e parti di rendita sono de­ rivati dal valore del prodotto, il valore del prodotto viene a sua volta derivato dal salario e dalla rendita, e l’uno è di volta in volta basato sull’altro. Questo assurdo è in alcuni talmente scoperto che, in due capitoli immediatamente suc­ cessivi, si cerca di determinare “ l’influenza della rendita sui prezzi di produzione ” e “ l’influenza dei prezzi di produzio­ ne sulla rendita” » '. Voi. Il, p. 226.

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In queste preziose osservazioni critiche, delle quali è so­ prattutto acuta l’ultima, che anticipa in un certo senso quel­ le contenute nel II libro del Capitale, Rodbertus accetta tranquillamente l’errore fondamentale della scuola classica e dei suoi volgarizzatori: trascura cioè completamente quel­ la parte di valore del prodotto totale ch’è necessaria alla so­ stituzione del capitale costante della società. E fu questa confusione a facilitargli il ripiegamento nella lotta mortale contro la «quota calante del salario». Nelle forme capitalistiche di produzione, il valore del prodotto sociale totale si suddivide in tre parti, di cui luna corrisponde al valore del capitale costante, l’altra alla som­ ma dei salari, cioè al capitale variabile, e la terza al plusva­ lore complessivo della classe capitalistica. Ora, all’interno di questa composizione di valore, la parte di valore corri­ spondente al capitale variabile diventa relativamente sem­ pre piu piccola, e per due ragioni: i ) all’interno di c + v + p, il rapporto fra c e (v + p), cioè fra capitale costante e nuovo valore, si modifica nel senso che c diventa sempre piu gran­ de, {v + p) sempre piu piccolo. È questa la semplice espres­ sione della crescente produttività del lavoro umano, che conserva validità assoluta per tutte le società economica­ mente progressive, a prescindere dalle loro forme storiche particolari, e che significa solo questo —che il lavoro vivo è in grado di trasformare sempre più mezzi di produzione, e in un tempo sempre più breve, in oggetti d ’uso. Poiché {v + p) decresce in rapporto al valore del prodotto totale, decresce anche v come parte di valore del prodotto totale : opporvisi, pretendere di arrestare questa caduta, significa in altre parole opporsi al progresso della produttività del lavoro nelle sue conseguenze generali. 2) Avviene inoltre una modificazione anche in seno a {v + p), nel senso che v diventa relativamente sempre più piccolo, p relativamente sempre più grande, cioè che una parte sempre minore del nuovo valore creato spetta ai salari, e una parte sempre maggiore è appropriata come plusvalore. È questa la speci­ fica espressione capitalistica della crescente produttività del lavoro, che però ha, entro le condizioni della produzione capitalistica, validità altrettanto assoluta quanto la prima

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legge. Voler impedire con mezzi di carattere amministrati­ vo che V decresca costantemente in rapporto a p, significa voler proibire che la crescente produttività del lavoro, de­ terminante la riduzione dei costi di produzione di tutte le merci, si riferisca anche alla merce fondamentale - alla for­ za-lavoro; significa voler escludere una merce dalle conse­ guenze economiche del progresso tecnico. Ma non basta: la «quota calante del salario» non è che un altro modo di esprimere la quota crescente del plusvalore, eh’è il mezzo piu forte ed efficace per frenare la caduta del saggio del pro­ fitto, e perciò il motivo animatore della produzione capita­ listica in generale, oltre che del progresso tecnico all’inter­ no di questa produzione. Eliminare la «quota calante del salario» per atto legislativo significa dunque voler elimina­ re la ragione di vita dell’economia capitalistica. Ma ponia­ mo la questione nei suoi termini concreti. Il singolo capita­ lista, come del resto la società capitalistica nel suo insieme, non riconosce né è in grado di riconoscere il valore dei pro­ dotti come somma di lavoro socialmente necessario. Lo ve­ de solo nella forma derivata, e capovolta dalla concorrenza, dei costi di produzione. Mentre il valore del prodotto si di­ vide nelle parti di valore c + v + p, sono i costi di produzio­ ne, nella coscienza del capitalista, a comporsi di c + v + p. E anche questi si configurano per lui nella forma derivata e modificata 1) di usura del capitale fisso, 2) di spese in capi­ tale circolante, comprese le spese per i salari, 3 ) di saggio del profitto «normale», cioè medio. Come dunque costrin­ gere il capitalista, mediante una legge nel senso voluto da Rodbertus, a costituire una «quota fissa di salario» in rap­ porto al valore del prodotto totale? Idea geniale, come quel­ la di pretendere per legge che, nella produzione di tutte le merci, la materia prima non costituisca mai piu o meno di un terzo del prezzo totale delle merci. L ’idea centrale di Rodbertus, suo orgoglio, pietra angolare della sua costru­ zione, scoperta destinata a curare radicalmente la produ­ zione capitalistica, è dunque, da tutti i punti di vista di questa produzione, un completo assurdo, e vi si poteva giungere solo in virtù di una confusione nella teoria del va­ lore che, per Rodbertus, culmina nell’impareggiabile sen-

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tenza: « I l prodotto deve ora [nella società capitalistica] avere valore di scambio come doveva avere valore d ’uso nel­ l’antica economia» Nell’antica società, pane e carne dove­ vano essere mangiati per poterne vivere; ora ci si sazia an­ che solo a saperne il prezzo... Quello che emerge piu chiaro dall’idea fissa della «quota fissa di salario» è l’assoluta inca­ pacità di Rodbertus a comprendere l’accumulazione capita­ listica. Già dalle citazioni precedenti è apparso chiaro come egli, conformemente alla falsa idea che scopo della produ­ zione capitalistica sia la produzione di oggetti di consumo per la soddisfazione di «bisogni umani», consideri esclusi­ vamente la riproduzione semplice. Egli non fa che parlare di «sostituzione del capitale» e della necessità di mettere i capitalisti in condizione di continuare «la loro attività al li­ vello presente». Ma la sua concezione fondamentale si ri­ volge direttamente contro l’accumulazione del capitale. Fis­ sare il saggio del plusvalore, impedirne l ’aumento, significa paralizzare l’accumulazione del capitale. In realtà, tanto per Sismondi quanto per v. Kirchmann il problema dell’equili­ brio fra produzione e consumo era un problema di accumu­ lazione, cioè di riproduzione capitalistica allargata. Entram­ bi deducevano le alterazioni nell’equilibrio della riprodu­ zione dall’accumulazione, la cui possibilità negavano. Solo che l’uno vedeva il mezzo per impedirla nella limitazione delle forze produttive, l’altro nel loro crescente impiego nella produzione di lusso, e raccomandava il consumo sen­ za residui del plusvalore. Anche in questo, Rodbertus batte una via propria. Mentre quelli si sforzavano con piu o me­ no successo di afferrare il fenomeno della accumulazione capitalistica, Rodbertus combatte contro il suo concetto. «D a Adam Smith in avanti, gli economisti hanno affer­ mato come verità universale e assoluta che il capitale nasce soltanto dal risparmio e dall’accumulazione»2: è questa te­ si che Rodbertus combatte dimostrando pedantescamente, in 60 pagine a stampa, che il capitale nasce non dal rispar­ mio ma dal lavoro, che « l ’errore» degli economisti in meri1 Voi. II, p. 156.

2 Vol. I, p. 240.

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to al «risparmio» nasce dall’accettazione del falso concetto che la produttività inerisca al capitale, e questo errore dal­ l’altro: che il capitale... sia capitale. Per parte sua, v. Kirchmann aveva perfettamente capi­ to che cosa si nasconde dietro il «risparmio» capitalistico. « L ’accumulazione del capitale —scrive - non consiste noto­ riamente nella pura raccolta di scorte o di tesori metallici e monetari, che rimangono poi inutilizzati nelle cantine del proprietario; chi vuol risparmiare lo fa per reimpiegare pro­ duttivamente egli stesso, o mediante terzi, la somma accu­ mulata, come capitale che frutta reddito. Questi redditi so­ no possibili solo se i capitali sono impiegati in nuove intra­ prese, la cui produzione permette di ricavare gli interessi voluti. Chi costruisce una nave, chi costruisce un granaio, chi coltiva una steppa deserta, chi fa venire una nuova mac­ china per filare, chi acquista piu cuoio e assume piu dipen­ denti per allargare la propria azienda di calzature, ecc. Solo in questo impiego il capitale risparmiato può dare interessi [v. Kirchmann vuol dire profitto], che è appunto lo scopo ultimo del risparmio» '. Ciò che v. Kirchmann descrive in questa goffa, ma in complesso giusta, tirata non è se non il processo della capitalizzazione del plusvalore, dell’accumu­ lazione capitalistica, che costituisce il senso del «risparmio» raccomandato con sicuro istinto dall’economia classica «a partire da Adam Smith». V. Kirchmann è perciò conseguen­ te quando, originandosi direttamente le crisi - secondo lui come secondo Sismondi - dall’accumulazione, parte in guer­ ra contro l’accumulazione, contro il «risparmio». Anche qui, Rodbertus è «piu profondo». Dalla teoria ricardiana del valore egli ha tratto, per sua disgrazia, il concetto che unica fonte del valore, e perciò anche del capitale, sia il la­ voro, e quest’elementare verità gli basta per rimaner com­ pletamente cieco ai rapporti reali della produzione e del movimento del capitale. Poiché il capitale nasce dal lavoro, l ’accumulazione, cioè il «risparmio», la capitalizzazione del plusvalore, non è che imbroglio. Per dipanare l’arruffata matassa di errori degli «econo-1 1 Vol. II, p. 25.

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misti a partire da Adam Smith», Rodbertus immagina il ca­ so per lui perfettamente accettabile di un «produttore iso­ lato», ed eseguisce sul suo povero corpo una lunga vivise­ zione. Per cominciare, vi trova già il «capitale», cioè il fa­ moso «primo bastone» col quale gli economisti «a partire da Adam Smith» fan cadere dall’albero della conoscenza i frutti della loro teoria del capitale. Il bastone è frutto di «risparmio»? - si chiede. Ed essendo chiaro a qualunque persona normale che nessun bastone può nascere da «ri­ sparmio», ma Robinson se lo deve fare con un pezzo di le­ gno, ecco dimostrata la completa falsità della «teoria del ri­ sparmio». Inoltre: col bastone, il «produttore isolato» ab­ batte dall’albero un frutto, e questo frutto è il suo «reddi­ to». «Se il capitale fosse sorgente di reddito, questo rappor­ to dovrebbe essere determinabile già in quell’elementare e originario processo. Ma è lecito, senza far violenza alle cose e ai concetti, chiamare la pertica sorgente del reddito o del­ la parte di reddito consistente nel frutto abbacchiato, ri­ condurre questo reddito, in tutto o in parte, alla pertica come alla sua causa, considerarlo in tutto o in parte come prodotto della p ertica?»1. Indubbiamente no. E poiché il frutto è prodotto non «della pertica» con cui lo si è abbat­ tuto, ma dell’albero sul quale è cresciuto, ecco dimostrato il grossolano errore per cui tutti gli economisti «a partire da Adam Smith» hanno fatto derivare il reddito dal capita­ le. Chiariti cosi sulla base dell’«economia» robinsoniana i concetti fondamentali dell’economia politica, Rodbertus trasporta i risultati dell’indagine a un’immaginaria società «senza proprietà del capitale e del suolo», cioè con proprie­ tà comunistica, e di qui alla società «con proprietà del ca­ pitale e del suolo», cioè alla società attuale —e, oh meravi­ glia, ecco tutte le leggi dell’economia robinsoniana confer­ marsi, punto per punto, anche in queste due forme sociali. Qui, Rodbertus presenta una teoria del capitale e del red­ dito a coronamento della sua creazione utopistica. Avendo scoperto che in Robinson «il capitale» sono semplicemente i mezzi di produzione, identifica capitale e mezzi di produ1 Vol. I, p. 250.

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zione anche nella società capitalistica e, ridotto così con un giro di mano il capitale a capitale costante, protesta in no­ me della giustizia e della morale contro il fatto che si consi­ derino come capitale anche i mezzi di sussistenza dei lavo­ ratori, i salari. Egli combatte aspramente il concetto di ca­ pitale variabile, perché esso è colpa di tutti i mali! «Provi­ no un po’ gli economisti a darmi retta —scrive - e a giudi­ care spassionatamente se ho torto o ragione! Il nodo di tut­ ti gli errori del sistema vigente in merito al capitale è qui, qui è la ragione ultima dell’ingiustizia teorica e pratica a danno delle classi lavoratrici»1. «G iustizia» vuole infatti che i «salari reali» dei lavoratori vengano calcolati non sot­ to la categoria capitale, ma sotto la categoria reddito. Rodbertus sa benissimo che per i capitalisti i salari da loro «an­ ticipati» sono una parte del capitale, allo stesso modo del­ l’altra parte anticipata in mezzi di produzione morti. Ma questo, secondo Rodbertus, riguarda solo il capitale singo­ lo. Quando si considerano il prodotto e la riproduzione so­ ciale totale, le categorie capitalistiche della produzione si ri­ velano un inganno, una malvagia bugia, un’«ingiustizia». « I l capitale privato, i beni capitali, la proprietà capitale, quello che s’intende comunemente oggi per “ capitale” , so­ no una cosa completamente diversa dal capitale in sé, dagli oggetti-capitali, dal capitale dal punto di vista della nazio­ ne» 2.1 capitalisti singoli producono capitalisticamente, ma _ 1 Vol. I, p. 295. Anche qui, Rodbertus rimasticò per tutta la vita le idee già manifestate nel 1842 (Zar Erkenntnis unserer staatswirtschaftlichen Zu­ stände): «Si è arrivati oggi fino a calcolare nei costi del podere non soltanto il salario del lavoro, ma anche le rendite e il profitto. Questa concezione me­ rita di essere criticata a fondo. Essa ha origine in: 1) una visione erronea del capitale, per cui si calcola come capitale il salario del lavoro allo stesso titolo delle materie prime e degli attrezzi, mentre in realtà si trova sulla stessa li­ nea soltanto con le rendite e il profitto; 2) uno scambio fra costi del podere e spese dell’intraprenditore, o costi di esercizio» (Zar Erkenntnis, G. Barne­ witz, Neubrandenburg und Friedland 1842, p. 14). * Vol. I, p. 304. Lo stesso nel Zar Erkenntnis: «Occorre distinguere il capitale in senso stretto, o proprio, dal capitale in senso lato, 0 fondo d’intrapresa. Il primo comprende la scorta reale di attrezzi e materie prime, il secondo l’intero fondo necessario, in base allo stato attuale della divisione del lavoro, per l’esercizio di un’azienda. Il primo è il capitale assolutamente necessario per la produzione, il secondo ha una necessità relativa solo per effetto delle condizioni attuali. Solo il primo è perciò capitale in senso stret­ to, e solo con esso coincide il concetto di capitale nazionale» (pp. 23-24).

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la società nel complesso produce, proprio come Robinson, cioè come un proprietario unico, comunisticamente: «Che poi il prodotto nazionale nei diversi gradi della produzione, e in parti piu o meno grandi, appartenga in proprio a singo­ li privati, da non considerarsi come i veri produttori; che gli autentici produttori creino questo prodotto nazionale totale solo a pro di questo piccolo numero di proprietari, senza essere comproprietari del loro prodotto, non cambia nulla da questo punto di vista generale e nazionale». È ve­ ro che da questo fatto derivano anche per la società alcuni fenomeni particolari, e cioè, prima di tutto, lo «scambio» come mediatore e, in secondo luogo, l’ineguale distribuzio­ ne del prodotto. «M a questi effetti, come non impediscono che il moto della produzione nazionale e la formazione del prodotto nazionale in generale rimangano gli stessi [come in regime comunista], cosi non modificano in alcun modo, dal punto di vista nazionale, l’antitesi finora illustrata fra capitale e reddito». Sismondi, come Smith e molti altri, si era dato un gran daffare a svolgere il concetto di capitale e reddito dalle contraddizioni della società capitalistica; Rodbertus se la sbriga assai piu facilmente: prescinde, per la società nel suo insieme, da tutte le particolarità formali del­ la produzione capitalistica, e chiama «capitale» i mezzi di produzione e «reddito» i mezzi di consumo. «L a proprietà del suolo e del capitale ha influenza essenziale solo in rap­ porto agli individui che commerciano. Una volta che si con­ sideri la nazione come unità, questi effetti sugli individui scompaiono» ‘. Come si vede, appena affronta il problema vero e proprio del prodotto totale capitalistico e del suo mo­ vimento, Rodbertus dà prova della scarsa sensibilità pro­ pria degli utopisti per le caratteristiche storiche della pro­ duzione, e gli si attaglia a pennello l’osservazione di Marx su Proudhon: che, appena si mette a parlare di società nel suo insieme, lo fa come se questa cessasse d ’essere capitali­ stica. D ’altra parte, risulta ancora una volta dall’esempio di Rodbertus come, prima di Marx, l’economia politica bran­ colasse senza via d ’uscita nei suoi sforzi di armonizzare a1 V o l. I ,

p. 292.

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spetti materiali e aspetti di valore della produzione capita­ listica, forme di movimento del capitale singolo e forme di movimento del capitale sociale totale. Questi sforzi oscilla­ no comunemente fra due estremi: la concezione volgare al­ la Say, MacCulloch ecc., per la quale non esistono che i pun­ ti di vista del capitale singolo, e la concezione utopistica al­ la Proudhon e Rodbertus, per la quale esistono solo i punti di vista del processo lavorativo. Solo cosi ci si può rendere conto dell’enorme luce gettata sull’intera questione dallo schema della riproduzione semplice elaborato da Marx, do­ ve tutti quei punti di vista sono riuniti sia nella loro armo­ nia che nei loro contrasti, e l’intrico di innumerevoli fili si risolve in due serie di cifre di una semplicità sorprendente. Che, concepiti cosi capitale e reddito, l’appropriazione capitalistica risultasse inspiegabile, è piu che evidente. Rod­ bertus la proclama un «furto» e la cita davanti al tribunale del diritto di proprietà, di cui rappresenterebbe l’aperta violazione. «Se dunque questa libertà personale [dei lavo­ ratori], che implica giuridicamente la proprietà del valore del prodotto del lavoro, per effetto della violenza esercitata sugli operai dai proprietari del suolo e del capitale, porta nel fatto all’alienazione di questo diritto di proprietà, è co­ me se l’istintiva paura che la storia possa trarne i suoi spie­ tati e rigorosi sillogismi trattenesse i proprietari dal confes­ sare questa grande e generale ingiustizia»1. Infine, questa teoria [di Rodbertus] è perciò, in tutti i suoi particolari aspetti, una dimostrazione compiuta che i lodatori degli at­ tuali rapporti di proprietà, che pur non si peritano di fon­ dare la proprietà sul lavoro, sono nella piu assoluta contrad­ dizione col loro stesso principio. Essa mostra che gli attuali rapporti di proprietà poggiano proprio su una violazione generale di quel principio, e che i grandi patrimoni indivi­ duali accumulantisi oggi nella società... con ogni nuovo la­ voratore aumentano la rapina già da tempo immemorabile esercitata nella società»2. E, dichiarato «furto» il plusva­ lore, il saggio crescente del plusvalore si rivela «uno straor1 Voi. II, p. 136.

2 Ibid., p. 223.

L'A N A LISI DELLA RIPRODUZIONE IN RODBERTUS

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dinario errore dell’attuale organizzazione economica» \ Nel suo primo pamphlet, Proudhon aveva almeno riesumato la frase, paradossale ma piena di risonanze rivoluzionarie, di Brissot: la proprietà è un furto. Per Rodbertus, il capitale è un furto in proprietà. Si confronti nel I libro del Capitale di Marx il capitolo sulla metamorfosi delle leggi della pro­ prietà in leggi dell’appropriazione capitalistica, capolavoro di dialettica storica, e si potrà immediatamente constatare la... «priorità» di Rodbertus. Comunque, con le sue decla­ mazioni contro l’appropriazione capitalistica dal punto di vista del «diritto di proprietà» questi si è resa impossibile ogni comprensione dell’origine del plusvalore dal capitale, proprio come, con le sue declamazioni contro il «rispar­ mio», si era preclusa la comprensione dell’origine del capi­ tale dal plusvalore. In tal modo, gli sfuggono le premesse per capire l’accumulazione capitalistica, ed egli rimane in­ dietro perfino a v. Kirchmann. Riassumendo: Rodbertus vuole un allargamento illimi­ tato della produzione, ma senza il minimo «risparmio», cioè senza accumulazione capitalistica! Vuole uno sviluppo illi­ mitato delle forze produttive, ma la fissazione per legge di un saggio stabile del plusvalore! In breve, mostra la piu completa incomprensione delle basi fondamentali di quella produzione capitalistica che pur vuole riformare, e per le conclusioni piu importanti dell’economia politica classica alla quale muove guerra. Non per nulla il professor Diehl scrive che Rodbertus ha aperto nuove vie all’economia politica grazie alla nuova «teoria del reddito» e alla distinzione delle categorie logi­ che e storiche del capitale (il «capitale in sé» in antitesi al capitale singolo!) Non per nulla il professor Wagner lo chiama «il Ricardo del socialismo economico», per docu­ mentare così tutt’in una volta la sua beata ignoranza di Ri­ cardo, di Rodbertus e del socialismo. Lexis ritiene infine che Rodbertus uguagli il «suo rivale inglese» in forza di astrazione, ma lo superi di molte lunghezze nel «virtuosi­ smo della scoperta dei piu profondi legami interni del feno1 Voi. I, p. 61.

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meno», nella «vivezza della fantasia» e soprattutto... nelP «atteggiamento etico di fronte alla vita economica». Il contributo che Rodbertus ha invece realmente dato alla teoria economica, oltre alla sua critica della ricardiana ren­ dita fondiaria, cioè la distinzione a volte chiara tra plusva­ lore e profitto, la delimitazione del plusvalore come un tut­ to delle sue manifestazioni parziali, la critica a tratti feli­ ce del dogma smithiano sulla composizione di valore delle merci, la formulazione netta della periodicità delle crisi e l’analisi delle loro manifestazioni fenomeniche - preziosi punti d ’innesto per uno sviluppo dell’analisi oltre SmithRicardo, naufragata tuttavia nella nebulosità dei concetti fondamentali - tutto ciò trova negli ammiratori di Rod­ bertus, al massimo, un’eco sprezzante. Già Franz Mehring ha messo in rilievo lo strano destino di Rodbertus, d ’esser portato alle stelle per le sue presunte benemerenze econo­ miche e d ’essere invece trattato dalle stesse persone come «ragazzino sciocco» per i suoi reali meriti politici. Nel no­ stro caso, tuttavia, non si tratta di contrapporre meriti po­ litici a demeriti economici: anche sul terreno dell’economia politica, i suoi incensatori gli hanno elevato un monumen­ to su quella stessa sabbia in cui aveva scavato con lo zelo inane dell’utopista, mentre hanno permesso che sulle poche umili bacche, nelle quali aveva lasciato ai posteri utili ger­ mogli, crescesse la gramigna dell’oblio '.1 1 Del resto, il peggior monumento gli è stato elevato dai suoi editori po­ stumi. Questi dotti signori professor Wagner, dottor Kozack, Moritz Wirth, e come diavolo si chiamano, che nelle prefazioni ai volumi inediti litigano come un branco di servi villani in anticamera, mettono in piazza le loro pic­ cole invidie e vanità e si insultano a vicenda coram populo, non si sono dati la minima cura di stabilire la data di nascita dei manoscritti ritrovati di Rod­ bertus. Hanno dovuto aspettare, per esempio, che Mehring insegnasse loro che il piu antico manoscritto inedito di Rodbertus non è del r837, come il professor Wagner aveva sovranamente deciso che fosse, ma al massimo del r839, giacché proprio nelle prime righe vi si parla di circostanze storiche del movimento cartista che, come un professore di economia politica avrebbe al­ meno il dovere di sapere, risalgono al 1839. Il professor Wagner, che nelle sue prefazioni a Rodbertus ci soffoca con le sue arie d’importanza e col suo «terribile da fare», e solo coi suoi «colleghi di specialità» parla dall’alto del pulpito, ha, da grand’uomo, incassato in silenzio l’elegante lezione da­ tagli da Mehring al cospetto dei suoi compari. Altrettanto silenziosamente il professor Diehl, nello Handwörterbuch der Staatswissenschaften, corresse la

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In complesso, non si può dire che, dalla prima polemica, il problema abbia fatto, in mani prussiano-pomeraniche, alcun passo innanzi. Se la teoria delle armonie economiche precipitava dalle altezze di Ricardo a Bastiat-Schulze, la cri­ tica sociale faceva parallelamente il suo sdrucciolone da Sismondi a Rodbertus. E se la critica di Sismondi aveva nel 1819 rappresentato un avvenimento storico, le idee di ri­ forma di Rodbertus significano, già al loro primo apparire ma soprattutto nelle loro tardive ripetizioni, un pietoso pas­ so indietro. Nella polemica fra Sismondi e Say-Ricardo, una parte mostrava l’impossibilità dell’accumulazione in seguito alle crisi, e ammoniva contro i pericoli di un’espansione delle forze produttive; l’altra dimostrava l’impossibilità delle cri­ si, e sosteneva l’espansione illimitata dell’accumulazione. L ’una e l’altra erano, ad onta della falsità del punto di av­ vio, a loro modo conseguenti. V. Kirchmann e Rodbertus partono entrambi, com’era inevitabile, dal fatto delle crisi. Ma anche qui, pur dopo un’esperienza storica di mezzo se­ colo che dimostrava essere le crisi, proprio per la loro pe­ riodicità, una forma del moto della riproduzione capitalisti­ ca, il problema della riproduzione allargata del capitale to­ tale, dell’accumulazione, veniva identificato col problema data 1837 in 1839 senza spiegare neppure con una sillaba quando e da chi avesse ricevuto quel chiarimento. Ma il colmo è raggiunto dalla «nuova edizione riveduta» e «per il popo­ lo», pubblicata da Puttkammer e Mühlbrecht nel 1899, che riunisce in buo­ na armonia alcuni dei signori editori leticanti e, nelle prefazioni, le loro mi­ serabili beghe; edizione in cui il precedente vol. II di Wagner diventa vol. I, ma, nella prefazione al III, Wagner continua tranquillamente a parlare di «vol. II»; in cui la Prima lettera sociale finisce nel vol. Ili, la seconda e la terza nel II, la quarta nel I; in cui la successione di Soziale Briefe, Kontro­ versen, parti di Zur Beleuchtung, rapporti logici e cronologici, date di pub­ blicazione e date di nascita degli scrittori, formano un caos inestricabile co­ me gli strati della crosta terrestre dopo un’eruzione vulcanica, e in cui - nel 1899 - per amore del professor Wagner la data del piu antico studio di Rod­ bertus è riportata al 1837, sebbene l’intervento di Mehring fosse già avvenu­ to nel 1894. Si confronti invece l’edizione delle opere inedite di Marx ad opera di Mehring e Kautsky, e si constaterà il diverso modo di trattare anche questioni apparentemente secondarie: cosi si cura il patrimonio scientifico del Maestro del proletariato cosciente, e cosi i luminari ufficiali della cultura borghese manipolano il retaggio ideologico di quello che la loro interessata leggenda definisce un «genio di prima grandezza». Suum cuique era il motto di Rodbertus...

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delle crisi, e spinto sul binario morto della ricerca di un mezzo per eliminarle. Questo mezzo, una delle due parti lo vede nel consumo senza residui del plusvalore ad opera dei capitalisti, cioè nella rinuncia all’accumulazione; l’altra nel­ la fissazione legale del saggio del plusvalore, cioè, anch’es­ sa, nella rinuncia all’accumulazione. La specialità di Rodbertus consiste nello sperare e patrocinare un aumento ca­ pitalistico illimitato delle forze produttive e della ricchezza, senza accumulazione del capitale! Negli stessi anni in cui l ’alto grado di maturità della produzione capitalistica ne permetteva l’analisi fondamentale ad opera di Marx, l’ulti­ mo tentativo dell’economia borghese di venire a capo del problema della riproduzione finiva nella piu trita e infanti­ le delle utopie.

Terza schermaglia Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij contro Voroncov, Nikolaj-on

CAPITOLO D IC IO TTESIM O UNA NUOVA V ERSIO N E D EL PRO BLEM A

La terza controversia intorno all’accumulazione capita­ listica si svolse, rispetto alle due precedenti, in tutt’altro quadro storico. La scena ebbe infatti luogo in Russia nel periodo che va dal 1880 fin verso il 1895, quando nelle na­ zioni dell’Europa occidentale lo sviluppo capitalistico ave­ va ormai raggiunto la maturità piena, e da tempo la rosea visione dei classici Smith e Ricardo era tramontata. Anche l’interessato ottimismo manchesteriano della teoria delle ar­ monie era stato sommerso dall’impressione deprimente del crak mondiale dell’ottavo decennio del secolo e dai tremen­ di colpi inferti dalla lotta di classe, fiammeggiante fin dal i860 in tutti i paesi capitalistici. Anche delle armonie rab­ berciate dai riformatori sociali, che dal 1870 all’85 avevano fatto tanto chiasso in Germania, non era rimasto che l’alo­ ne confuso, e i dodici anni di esperimento della legge ecce­ zionale contro la socialdemocrazia avevano versato acqua sul fuoco, stracciando senza appello i veli dell’armonia e mettendo a nudo la realtà spietata dei contrasti interni del sistema. L ’ottimismo non era possibile ormai che nel cam­ po della classe lavoratrice in ascesa e dei suoi portavoce teo­ rici: ottimismo non certo sulla possibilità di un equilibrio interno, naturale o artificialmente provocato, dell’economia borghese, e sulla sua durata eterna, ma sulla possibilità che lo stesso poderoso sviluppo delle forze produttive offrisse, appunto coi suoi contrasti immanenti, un terreno storico ideale al progressivo sviluppo della società verso nuove for­ me economiche e sociali. La tendenza negativa e deprimen­

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te del primo periodo del capitalismo, che solo Sismondi aveva intravisto allora e che Rodbertus vedeva ancora negli anni fra il ’40 e il ’65, era ormai controbilanciata dalla ten­ denza opposta, dal moto impetuoso e vittorioso della classe lavoratrice nella sua azione sindacale e politica. Tale l’ambiente dell’Europa occidentale. Ben diverso il quadro nella Russia degli stessi anni. Qui, gli anni fra l’8o e il ’9 5 costituiscono sotto questo aspetto un periodo di tra­ passo, una fase di crisi interna con tutti i suoi travagli. La grande industria celebra appunto allora la sua apparizione sotto la spinta della protezione doganale. L ’introduzione del dazio in oro alla frontiera occidentale nel 18 77 segna una pietra miliare nell’opera di artificiale stimolazione del capitalismo da parte del governo zarista. L ’« accumulazione primitiva» del capitale fiorisce con l’appoggio di ogni spe­ cie di sussidi, garanzie, premi, commesse statali, e miete profitti che in Occidente appartengono ormai al regno delle fiabe. Tuttavia, le condizioni interne della Russia offrono un quadro tutt’altro che confortante e pieno di promesse. Nelle campagne, il tramonto e lo sbriciolamento dell’econo­ mia contadina sotto la pressione del fiscalismo e dell’econo­ mia monetaria provocano situazioni terribili di fame perio­ dica e di periodiche rivolte. D ’altra parte, il proletariato di fabbrica nelle città non si è ancora consolidato socialmente e intellettualmente in una moderna classe lavoratrice. So­ prattutto nel massimo distretto industriale di Mosca-Vladi­ mir, nucleo fondamentale della industria tessile russa, esso è ancora in gran parte legato all’economia agricola, e per metà contadino. Corrispondentemente, le forme primitive dello sfruttamento evocano primitive manifestazioni di di­ fesa. Solo dopo il 1880 si hanno a Mosca i primi spontanei tumulti di fabbrica, che provocano distruzione di macchine e dànno l’avvio ad un primo abbozzo di legislazione del la­ voro. Se la parte economica della vita pubblica russa mostrava ad ogni passo le profonde dissonanze di un periodo di tran­ sizione, una crisi vi corrispondeva nella vita intellettuale. Il socialismo agrario, «populista», che si fondava teoricamen­ te sulle particolarità della costituzione agraria russa, aveva

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fatto bancarotta politica dopo il fiasco della sua estrema manifestazione rivoluzionaria, il partito terroristico della Narodnaja V olja1. D ’altra parte, solo nel 1883 e 1885 era­ no apparsi i primi scritti di Plechanov che dovevano aprire una via d ’accesso in Russia alle concezioni marxiste, e an­ cora per un decennio il loro influsso doveva rimanere mo­ desto. Nel periodo fra il 1880 e il 1895 circa, la vita intel­ lettuale della classe intellettuale russa, soprattutto dell’op­ posizione socialista, era dunque dominata da uno strano mi­ scuglio di residui locali di populismo e di primi elementi della teoria marxista, il cui tratto piu saliente era lo scetti­ cismo sulle possibilità di sviluppo del capitalismo in Russia. La questione se la Russia dovesse percorrere le tappe ca­ pitalistiche dell’Occidente europeo occupò per tempo la classe intellettuale russa. Anche questa vedeva nell’Europa occidentale solo le ombre del capitalismo, la sua azione logoratrice sulle forme di produzione patriarcali e sul benes­ sere e la sicurezza di esistenza di larghe masse popolari. D ’altra parte, la proprietà comune della terra, la celebre obscina, sembrava offrire un possibile punto di partenza a un piu alto sviluppo sociale, quasi che la Russia potesse raggiungere la felice terra del socialismo evitando lo stadio capitalistico con le sue miserie e seguendo una via piu bre­ ve e meno tribolata dei paesi occidentali. Perché, allora, sprecare questa fortunata situazione eccezionale, questa po­ sizione storica unica, annientando le forme di proprietà e di produzione contadinesche mediante il trapianto artificia­ le della produzione capitalistica in Russia con l’aiuto dello stato, e aprendo cosi la porta alla proletarizzazione, alla mi­ seria e alla precarietà di esistenza delle masse lavoratrici? Questo problema fondamentale dominava la vita intel­ lettuale russa fin dalla riforma agraria, anzi da ancor prima, dai tempi di Herzen e Cernysevskij, costituendo l’asse in­ torno al quale era venuta formandosi una concezione tutta particolare del mondo, la concezione «populista», che, nel­ la grande varietà delle sue tendenze e derivazioni - dalle 1 [Il partito della Narodnaja Volja (Libertà del popolo) nato nel 1879 da una scissione del partito Zemlja i Volja (Terra e libertà), scomparve dalla scena politica, dopo una serie di attentati terroristici, nel 1885].

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teorie apertamente reazionarie dello slavofilismo fino all’i­ deologia rivoluzionaria del partito terroristico - diede vita a un’enorme letteratura nazionale. Da un lato, essa traeva alla luce un ricco materiale di indagini specifiche sulle for­ me economiche della vita russa, in particolare sulla «pro­ duzione popolare» e le sue forme caratteristiche, sull’eco­ nomia agraria delle comunità contadine, sull’industria do­ mestica delle campagne (1'artet), oltre che sulla vita spiri­ tuale del contadiname, le sette religiose, ecc. Dall’altro, co­ me riflesso artistico dei rapporti sociali contraddittori in cui vecchio e nuovo si urtavano e la tradizione s’imbatteva ad ogni passo in gravi problemi, nasceva una particolare forma di letteratura, mentre nel ventennio 1870-90 la stessa radi­ ce produceva una locale e originale filosofia della storia, il «metodo soggettivo nella sociologia», che faceva del «pen­ siero critico» il fattore decisivo dello sviluppo sociale o, meglio ancora, deìì’mtelligencija declassata la portatrice del progresso storico; e che trovò i suoi portavoce in Pëtr Lav­ rov, Nikolaj Michajlovskij, Kareev e V. Voroncov. Di questa vastissima e ramificatissima fioritura letteraria ci interessa qui solo un aspetto: la polemica intorno alle prospettive di sviluppo capitalistico in Russia; e anche que­ sta solo in quanto si appoggiò a considerazioni generali sul­ le condizioni sociali del modo di produzione capitalistico, considerazioni che dovevano avere un notevole peso nella libellistica degli anni fra il 1880 e il 1900. Se la questione preliminare era il capitalismo russo e le sue prospettive, la polemica che ne nacque dilagò natural­ mente nel campo dei problemi generali dello sviluppo del capitalismo, attingendo larghissimo materiale dimostrativo all’esempio e alle esperienze occidentali. Agli effetti del contenuto teorico della discussione, fu d ’importanza primaria un fatto: non solo l’analisi marxia­ na della produzione capitalistica esposta nel I libro del Ca­ pitale era già patrimonio comune della Russia colta, ma fin dal 1885 era apparso anche il II libro con l’analisi della riproduzione del capitale totale. Ciò doveva dare alla discus­ sione un timbro ben diverso. Il problema delle crisi non fu piu, come nei casi precedenti, il nucleo centrale della pole-

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mica: per la prima volta, la questione della riproduzione del capitale totale, dell’accumulazione, passava allo stato puro al centro del dibattito. Inoltre, la discussione non si perdette piu in un vano inseguire i concetti di reddito e ca­ pitale, di capitale singolo e di capitale totale. Ci si muoveva ormai sul solido terreno dello schema marxiano della ripro­ duzione sociale. Infine, non si trattò piu di una scherma­ glia fra manchesterismo e riformismo sociale, ma fra due correnti entrambe socialiste. Lo scetticismo sulle possibili­ tà di sviluppo capitalistico della Russia era rappresentato, nello spirito di Sismondi e in parte di Rodbertus, dalla va­ rietà confusa, piccolo-borghese e populista del socialismo russo (che però si richiamava anch’essa variamente a Marx); Pottimismo, dalla scuola marxista pura. La scena aveva dunque subito radicali mutamenti. Dei due principali rappresentanti della corrente populi­ sta (o narodniki), uno, Voroncov, conosciuto in Russia pre­ valentemente sotto lo pseudonimo V. V., era una specie di santone estremamente confuso come economista e da non prendersi molto sul serio come teorico. L ’altro, invece, Nikolaj-on (DaniePson), era uomo di vasta cultura e profondo conoscitore del marxismo, autore della traduzione russa del I libro del Capitale, amico intimo di Marx ed Engels e in attiva corrispondenza (apparsa in russo nel 1908) con en­ trambi. Tuttavia, negli anni ’80, Voroncov continuava a esercitare una notevole influenza sull’opinione pubblica de­ gli intellettuali, e contro di lui il marxismo doveva perciò combattere la sua prima battaglia. Nella questione che qui ci interessa —le possibilità generali di sviluppo del capitali­ smo — avvenne cosi che ai suddetti rappresentanti dello scetticismo si contrapponesse nell’ultimo decennio del seco­ lo una schiera di critici, una nuova generazione di marxisti russi che si lanciarono nell’agone, accanto a Plechanov, ar­ mati delle esperienze e della cultura occidentali: Kablukov, Manuilov, Isaev, Skvorcov, Vladimir U'in *, Peter v. Stru­ ve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij e altri. Nelle pagine che seguono, ci occuperemo essenzialmente degli ultimi tre, a[ Lenin].

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vendo ognuno di essi offerto una critica piu o meno serrata della teoria in discussione. Comunque, questo brillante tor­ neo, che tenne in ascolto nell’ultimo decennio l ’intelligenza socialista russa e si concluse col trionfo indiscusso della scuola marxiana, segna l’ingresso ufficiale del marxismo co­ me teoria storico-economica nella scienza nazionale. Il mar­ xismo «legale» prese da allora possesso ufficialmente delle cattedre, delle riviste e del mercato librario economico, con tutti gli aspetti negativi del caso. Quando dieci anni dopo le possibilità di sviluppo del capitalismo russo misero in lu­ ce meridiana il loro aspetto ottimistico nell’insurrezione ri­ voluzionaria del proletariato, di questa pleiade di ottimisti marxisti non uno si ritrovò nelle file del proletariato.

C A P IT O L O D IC IA N N O V E SIM O

IL SIGNOR VORONCOV E LA SUA «E C C E D E N Z A »

Al problema della riproduzione capitalistica i rappresen­ tanti del «populismo» furono portati in Russia dalla con­ vinzione che, nel loro paese, il capitalismo non avesse pro­ spettive di sviluppo per la mancanza di mercati di sbocco. V. Voroncov aveva esposto questa sua teoria nel 1882 in un libro sul Destino del capitalismo in Russia, e vi tornò in uno studio apparso nel numero di maggio 1883 della ri­ vista «Otecestvennye Zapiski» [«Annali Patriottici»] su L’eccedenza nel rifornimento in merci del mercato, in un articolo su Militarismo e capitalismo nel numero di settem­ bre 1889 della rivista «Russkoe Bogatstvo» [«Ricchezza russa»], nel libro II nostro orientamento (1893) e infine nei Lineamenti dell’economia politica teorica, che sono del i

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Non facile è definire la posizione di Voroncov di fronte all’evoluzione capitalistica della Russia. Egli non si pone né dalla parte della teoria slavofila pura - che dalle «peculia­ rità» della struttura economica nazionale e dallo specifico «spirito popolare» russo deduceva l’assurdità e dannosità del capitalismo per il suo paese —né dalla parte dei marxi­ sti, i quali vedevano nello sviluppo del capitalismo un’ine­ vitabile tappa storica, destinata ad aprire alla società russa l’unica via possibile di progresso sociale. Per parte sua, Vo­ roncov affermava che in Russia il capitalismo era addirittu­ ra impossibile, non aveva radici né avvenire: ugualmente assurdo, dunque, deprecarlo o desiderarlo, mancando nel paese le condizioni per il suo sviluppo ed essendo perciò da considerarsi vani gli sforzi e i sacrifici sostenuti per intro­ durlo mediante l’intervento dello stato. Senonché, quest’af­ fermazione generale veniva, di fatto, circoscritta. Se si con­

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sidera non l ’accumulazione del capitale, ma la proletarizza­ zione capitalistica dei piccoli produttori, l ’incertezza di vita dei lavoratori, le crisi periodiche, Voroncov non nega resi­ stenza di tutti questi fenomeni in Russia. Anzi, dice espres­ samente nell’introduzione al suo Destino del capitalismo in Russia: «Contestando la possibilità del predominio capita­ listico in Russia come forma di produzione, non contesto affatto il suo avvenire di forma e grado di sfruttamento del­ le masse popolari». Voroncov pensa dunque che il capitali­ smo non possa raggiungere in Russia il grado di maturità che ha attinto in Occidente, ma che se ne debba aspettare anche nella situazione russa il processo di separazione dei produttori diretti dai mezzi di produzione. Voroncov va an­ zi piu in là. Non nega la possibilità di sviluppo di forme di produzione capitalistiche in determinati rami della indu­ stria nazionale, e di esportazione capitalistica dalla Russia verso mercati esteri. Si legge nel suo articolo sull’Ecceden­ za nel rifornimento in merci del mercato'. «L a produzione capitalistica si svolge, in alcuni rami dell’industria, mol­ to rapidamente (s’intende, nel significato russo della paro­ l a ) » 1. « È molto probabile che la Russia, come altri paesi, disponga di certi vantaggi naturali che le permettano di ap­ parire come fornitrice di alcuni tipi di merce su mercati esteri: è molto possibile che il capitale sfrutti questa situa­ zione e prenda in mano i rispettivi rami di produzione;... in altre parole, che la divisione nazionale del lavoro faciliti al capitalismo il suo impianto in determinati settori. Ma non di questo si tratta per noi. Noi non parliamo dell’eventuale partecipazione del capitale all’organizzazione dell’industria del paese, ma contestiamo la probabilità che l’intera produ­ zione russa possa essere fondata su basi capitalistiche»2. In questa forma, lo scetticismo del signor Voroncov as­ sume un volto un po’ diverso dal previsto. Egli dubita che il modo di produzione capitalistico possa mai impadronirsi dell’intera produzione russa; ma siccome questo capolavo­ ro il capitalismo non l’ha ancora compiuto in nessun paese del mondo, neppure in Inghilterra, il suo scetticismo sul1 «Otecestvennye Zapiski», 1883, V, p. 4.

2 Art. cit., p. io.

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l’avvenire del capitalismo russo dovrebbe assumere fisiono­ mia mondiale. In realtà, a questo punto la teoria di Voroncov sfocia in considerazioni generali sulla natura e le condi­ zioni di esistenza del capitalismo, si appoggia a generalizza­ zioni teoriche sul processo di riproduzione del capitale so­ ciale totale. Il particolare nesso esistente fra il modo di pro­ duzione capitalistico e il problema dei mercati di sbocco viene cosi formulato: «L a divisione nazionale del lavoro, la ripartizione di tutti i rami d’industria fra i paesi che par­ tecipano al commercio mondiale, non hanno nulla a che ve­ dere col capitalismo. Il mercato di sbocco che cosi si forma, la domanda dei prodotti di diversi paesi che da questa divi­ sione del lavoro fra i popoli si origina, non ha in se stesso nulla in comune col mercato di sbocco di cui il modo di pro­ duzione capitalistico abbisogna... I prodotti dell’industria capitalistica giungono sul mercato per tutt’altro scopo: non toccano la questione se tutti i bisogni del paese sono soddi­ sfatti, non è assolutamente necessario che diano all’impren­ ditore, in cambio di se stessi, un altro prodotto materiale che serva al consumo: loro scopo fondamentale è di realiz­ zare il plusvalore in essi nascosto. Ma che cos’è questo plus­ valore interessante per se stesso il capitalista? Dal punto di vista dal quale affrontiamo il problema, il plusvalore è l ’ec­ cedenza della produzione sul consumo interno del paese. Ogni lavoratore produce piu di quanto consumi, e tutte queste eccedenze si raccolgono in poche mani; i possessori di tali eccedenze le consumano essi stessi, al qual fine le scam­ biano, entro il paese e fuori, contro i piu diversi mezzi di sussistenza e oggetti di lusso; ma per quanto mangino, be­ vano e ballino, non riusciranno mai a smaltire l’intero plus­ valore: ne resta sempre una parte notevole che non scam­ biano contro un altro prodotto, ma di cui devono disfarsi, che sono costretti a tradurre in denaro; altrimenti si perde­ rebbe. E, non esistendo nel paese nessuno al quale cederla, bisognerà esportarla all’estero; una delle ragioni per cui i paesi che si capitalizzano non possono fare a meno di mer­ cati di sbocco esteri» '.1

1 Art. cit., p. 14.

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Nella citazione surriportata, che abbiamo tradotto lette­ ralmente con tutte le peculiarità del linguaggio di Voroncov, i lettori hanno un saggio caratteristico del modo di pen­ sare del geniale teorico russo. Le stesse teorie furono piu tardi esposte da Voroncov nel libro Lineamenti dell’econo­ mia politica teorica, che è del 1895. Ascoltiamolo. V. pole­ mizza con Say-Ricardo e anche con J. St. Mill, che avevano contestato la possibilità di una sovraproduzione generale. E scopre ciò che prima di lui nessuno sapeva: la sorgente di tutti gli errori della scuola classica sul problema delle crisi. Tale sorgente sarebbe da cercare nella falsa teoria dei costi di produzione. Dal punto di vista dei costi di produ­ zione (che V. considera senza il profitto, cosa che prima di lui nessuno aveva fatto), tanto il profitto quanto le crisi sa­ rebbero inconcepibili e inspiegabili. Ma gustiamo nelle sue stesse parole quest’originale pensatore: «Secondo la teoria dell’economia politica borghese, il valore del prodotto è de­ terminato dal lavoro impiegato nella sua produzione. Ma, dopo aver formulato questa teoria del valore, essa subito dopo la dimentica e, nelle successive spiegazioni dei feno­ meni di scambio, si appoggia a un’altra teoria in cui il lavo­ ro è sostituito dai costi di produzione. Cosi, due prodotti vengono scambiati fra loro in quantità tali che da ambo le parti siano presenti gli stessi costi di produzione. In tale concezione dello scambio non v ’è posto, in realtà, per un’ec­ cedenza di merci nel paese. Qualunque prodotto del lavoro annuo di un lavoratore appare, da questo punto di vista, co­ me il rappresentante di una certa quantità della materia pri­ ma da cui è costituito, degli attrezzi che sono serviti alla sua produzione, dei prodotti necessari al mantenimento dell’o­ peraio durante il periodo di produzione. Comparendo sul mercato, esso [ “ il prodotto” ! R. L .] ha lo scopo di mutare la sua forma d ’uso di ritrasformarsi nella materia prima, nei prodotti per gli operai e nel valore necessario al rinnova­ mento degli attrezzi, e, dopo questo processo di spezzetta­ mento in parti, avrà luogo il processo della sua riunificazio­ ne, il processo di produzione, mentre tutti i valori enumera­ ti vengono consumati, ma ne nasce in cambio un nuovo prodotto, che rappresenta un anello di congiunzione fra il

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consumo passato e il consumo avvenire». Da questo origi­ nale tentativo di rappresentare la riproduzione sociale co­ me un processo continuo dal punto di vista della teoria dei costi di produzione, nasce improvvisa, come un colpo di pi­ stola, la deduzione seguente: «S e consideriamo dunque la massa totale dei prodotti di un paese, non troveremo una sola merce eccedente, che cioè superi il fabbisogno della so­ cietà: l’eccedenza inesitabile è, dal punto di vista della teo­ ria del valore dell’economia politica borghese, impossibile». E, dopo di aver cosi eliminato dai costi di produzione, attra­ verso un’allegra manipolazione della «teoria borghese del valore», il profitto del capitale, fa subito dopo di quest’eli­ minazione una grossa scoperta: «M a l’analisi cosi compiuta svela un altro tratto della teoria del valore fino a ieri domi­ nante: risulta infatti che, sul piano di questa teoria, non v’è posto per il profitto del capitale». Segue una dimostrazione di una stupefacente brevità e semplicità: «D i fatto, se il mio prodotto, i cui costi di produzione si esprimono in _5 ru­ bli, è scambiato contro un altro prodotto di pari valore, quanto io ho ottenuto basterà appena a coprire le mie spese, ma per il mio mantenimento [letteralmente! ] non riceverò nulla». Ed ecco il problema afferrato alla radice: «N e risulta che, sul terreno di uno sviluppo strettamen­ te logico delle idee dell’economia politica borghese, il desti­ no dell’eccedenza di merci sul mercato e il destino del pro­ fitto capitalistico sono una cosa sola. Siamo quindi autoriz­ zati a concludere che i due fenomeni si trovano in reciproca dipendenza, che la possibilità dell’uno è condizionata dalla presenza dell’altro. E invero, finché non esiste profitto non esiste neppure eccedenza di merci... Non cosi quando nel paese si forma il profitto. Questo non sta in rapporto orga­ nico con la produzione, è un fenomeno connesso a quest’ultima non da condizioni tecnico-naturali, ma dalla sua forma esterna, sociale. Per continuare a svolgersi, la produzione... non ha bisogno che di materie prime, attrezzi, mezzi di sus­ sistenza per gli operai, e consuma perciò solo la parte corri­ spondente di prodotti; ma l’eccedenza che costituisce il pro­ fitto e che non trova posto nell’elemento costante della vita industriale - nella produzione - deve trovare altri consuma-

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tori non organicamente collegati alla produzione; consuma­ tori, fino a un certo punto, di carattere occasionale. L ’ecce­ denza può trovarli, questi consumatori; ma è anche possibi­ le che non li trovi nella quantità necessaria: in tal caso avre­ mo un’eccedenza di merci sul mercato» Soddisfattissimo di questa «semplice» spiegazione, in cui il plusvalore diven­ ta un’invenzione del capitale e il capitalista un consumatore «occasionale», non connesso «organicamente» alla produ­ zione capitalistica, Voroncov, basandosi sulla «conseguen­ te» teoria marxiana del valore-lavoro, che dichiara di avere ulteriormente «utilizzato», deduce le crisi direttamente dal plusvalore : «Se ciò che entra nei costi di produzione sotto forma di salario del lavoro, è consumato dalla parte lavoratrice della popolazione, il plusvalore, esclusa la parte destinata all’al­ largamento della produzione richiesto dal mercato, sarà an­ nientato [letteralmente!] dagli stessi capitalisti. Se questi sono in grado di farlo e lo fanno, non si verifica eccedenza di merci; in caso contrario si ha sovraproduzione, crisi del­ l’industria, eliminazione degli operai dalle fabbriche e in­ convenienti simili». Ma il vero responsabile di questi in­ convenienti è in definitiva, secondo il signor Voroncov, « l’insufficiente elasticità dell’organismo umano, che non rie­ sce ad allargare la propria capacità di consumo con la stessa rapidità con cui cresce il plusvalore». Pensiero geniale che l’autore ripete piu volte: « I l tallone di Achille dell’orga­ nizzazione industriale capitalistica sta dunque nell’incapa­ cità degli imprenditori di consumare l’intero proprio red­ dito». Cosi Voroncov, dopo aver «utilizzato» la teoria ricardiana del valore nella «conseguente» interpretazione marxia­ na, approda alla teoria sismondiana delle crisi, che fa sua in una forma ancor piu elementare e semplicistica. E, mentre riproduce le teorie di Sismondi, è convinto di abbracciare quelle di Rodbertus. « Il metodo induttivo di ricerca ci ha condotti alla stessa teoria delle crisi e del pauperismo, obiet1 L in e a m e n ti sgg.

d e ll’e co n o m ia p o litic a te o ric a ,

Petersburg 189.5, pp. 1.57

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tivamente esposta da Rodbertus» dichiara trionfalmente, intendendo per «metodo induttivo di ricerca» (contrappo­ sto al metodo «obiettivo») qualcosa di non chiaro, ma che, tutto essendo possibile in Voroncov, potrebbe anche essere il marxismo. Ma anche Rodbertus doveva uscire «migliora­ to» dalle mani del geniale pensatore russo. La correzione che Voroncov introduce nella teoria di Rodbertus consiste nelPeliminare proprio ciò che in lui era il perno del sistema: la fissazione della quota del salario sul valore del prodotto totale. Secondo il signor Voroncov, infatti, anche questa misura anti-crisi non sarebbe che un palliativo, giacché «la causa immediata dei suddetti fenomeni (sovraproduzione, disoccupazione ecc.) non sta nel fatto che la parte riservata alle classi lavoratrici del reddito nazionale è troppo piccola, ma nel fatto che la classe capitalistica non è in grado di con­ sumare ogni anno la massa di prodotti che ad essa pervie­ ne» 12. Senonché, dopo di aver cosi ripudiato la riforma rodbertusiana della ripartizione del reddito, Voroncov approda con la solita «stretta consequenzialità logica» alla seguente prognosi sull’avvenire del capitalismo : «Se con tutto questo dovesse essere consentito all’orga­ nizzazione industriale dominante nell’Occidente europeo di fiorire e dar frutto, ciò potrebbe avvenire alla sola condizio­ ne che si trovi il mezzo di annientare [letteralmente!] la parte del reddito nazionale che supera la capacità di consu­ mo della classe capitalistica e che tuttavia finisce nelle sue mani. La soluzione piu elementare di questo problema sa­ rebbe una corrispondente modificazione nella ripartizione del reddito nazionale fra i partecipanti alla produzione. Il regime capitalistico sarebbe garantito per lungo tempo se gli imprenditori ricevessero, dall’aumento del reddito na­ zionale, solo quel tanto di cui hanno bisogno per la soddi­ sfazione dei loro gusti e capricci, e lasciassero il resto alla classe lavoratrice, cioè alla massa della popolazione»3. Cosi, il ragù di Ricardo, Marx, Sismondi e Rodbertus finisce nella 1 Militarismo e capitalismo, in «Russkoe Bogatstvo» [«Ricchezza Rus­ sa»], 1889, vol. IX, p. 78. 2 Art. cit., p. 80. 3 Ibid., p. 83. Cfr. Lineamenti delVeconomia politica teorica, p. 196.

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scoperta che la produzione capitalistica può essere radical­ mente guarita dalla sovraproduzione e «fiorire e dar frutto» in eterno mediante la rinuncia della classe capitalistica alla capitalizzazione, e la sua offerta ai lavoratori della corri­ spondente parte del plusvalore. In attesa che i capitalisti di­ ventino tanto ragionevoli da accogliere il buon consiglio del signor Voroncov, il mezzo cui essi ricorrono è di «annienta­ re» ogni anno una parte del plusvalore. A questi espedienti appartiene anche il moderno militarismo, e ciò, essendo ca­ ratteristica del signor Voroncov l’arte di capovolgere tutto, nella misura in cui i costi del militarismo non sono soppor­ tati dai mezzi della classe lavoratrice ma dal reddito della classe capitalistica. Ma l’àncora fondamentale di salvezza è data dal commercio estero, che è, a sua volta, il «tallone d ’Achille» del capitalismo russo. Ultimo arrivato nell’ago­ ne mondiale, questo è destinato, di fronte alla concorrenza di piu antichi paesi capitalistici, a rimanere a mani vuote, e, insieme con la prospettiva del commercio estero, a vedersi sfuggire la premessa fondamentale della sua esistenza. La Russia rimane 1’« impero dei contadini» e «della produzio­ ne popolare». « Se tutto ciò è vero - conclude V. V. al termine dello stu­ dio sull’Eccedenza nel rifornimento in merci del mercato — ecco i limiti posti al dominio del capitalismo in Russia: l’a­ gricoltura deve essere sottratta al suo imperio, ma anche nel campo industriale non deve essere permesso al suo sviluppo di agire in senso troppo deprimente sull’industria domesti­ ca, indispensabile, nelle specifiche condizioni climatiche del paese [ ! ], per il benessere della maggioranza della popola­ zione. E se il lettore obiettasse che il capitalismo non acce­ derà mai a un simile compromesso, gli si risponderà: tanto peggio per lui! » In tal modo, il signor Voroncov finisce col lavarsene le mani e col declinare ogni responsabilità per l’ulteriore destino dello sviluppo economico in Russia.

CAPITOLO V EN TESIM O NIKOLAJ-ON

Con ben altra preparazione economica e conoscenza di causa affronta il problema il secondo teorico della critica «populista», Nikolaj-on. Uno dei piu profondi conoscitori dei rapporti economici interni della Russia, egli s’era già fatto conoscere nel 1880 per uno studio sulla capitalizzazio­ ne del reddito agricolo (nella rivista «Slovo»), Tredici anni dopo, sotto la spinta della grande carestia del 1891, pubbli­ cò un libro dal titolo Lineamenti della nostra economia so­ ciale dopo la riforma, in cui svolgeva quelle sue prime ri­ cerche e, sulla base di un vasto quadro, corredato di un ric­ co materiale di fatti e cifre, dello sviluppo del capitalismo in Russia, cercava di dimostrare come questo fosse divenuto per il popolo fonte di ogni male e di fame. Alla base delle sue opinioni sulle sorti del capitalismo in Russia, Nikolaj-on pone una teoria sulle condizioni di sviluppo della produzio­ ne capitalistica in generale, che interessa la nostra analisi. Per il modo di produzione capitalistico, è d ’importanza decisiva il mercato di sbocco. Perciò ogni paese capitalistico cerca di assicurarsi un mercato di sbocco il piu possibile esteso, partendo naturalmente in primo luogo dal mercato interno. Tuttavia, a un certo grado del suo sviluppo, un pae­ se capitalistico non può piu accontentarsi del mercato inter­ no, e ciò per le seguenti ragioni: l’intero prodotto annuo del lavoro sociale può essere diviso in due parti: una che i lavoratori ricevono sotto forma di salari, l’altra che si ap­ propriano i capitalisti. La prima può sottrarre alla circola­ zione solo un quantitativo di mezzi di sussistenza che corri­ sponde, in valore, alla somma dei salari sborsati nel paese. Ma l’economia capitalistica ha una spiccata tendenza a de­ primere sempre piu questa parte. I metodi di cui si serve a

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questo scopo sono: prolungamento della giornata lavorati­ va, aumento dell’intensità del lavoro, incremento della sua produttività mediante perfezionamenti tecnici che permet­ tono di sostituire a forze-lavoro maschili forze-lavoro giova­ nili e femminili e di cacciare dall’industria una parte della mano d ’opera adulta. Se anche i salari dei lavoratori occu­ pati aumentano, tale aumento non uguaglierà mai i risparmi che da quelle trasformazioni i capitalisti realizzano. Ne de­ riva che il ruolo della classe operaia come acquirente di beni sul mercato interno va sempre piu riducendosi. Parallelamente si svolge un altro processo: la produzione capitalisti­ ca si impadronisce passo passo dei mestieri che costituiva­ no per la popolazione contadina un’occupazione sussidiaria, sottraendo cosi al contadiname una fonte di guadagno dopo l’altra e riducendo il potere d’acquisto delle popolazioni ru­ rali in prodotti dell’industria: e in tal modo, anche da que­ sto lato il mercato interno si rattrappisce. Se poi ci volgiamo alla parte della classe capitalista, risulta chiaro che neppur questa può realizzare l’intera produzione, e ciò per le ragio­ ni opposte. Per quanto grandi siano i bisogni di consumo di questa classe, essa non può consumare l’intero sovraprodotto annuo, prima di tutto perché una parte del medesimo de­ v’essere impiegato all’allargamento della produzione, al per­ fezionamento tecnico imposto ad ogni intraprenditore sin­ golo, come condizione di vita, dalla concorrenza; in secondo luogo perché, crescendo la produzione capitalistica, cresco­ no anche i rami che forniscono mezzi di produzione, come l ’industria mineraria, l’industria meccanica ecc., la cui pro­ duzione esclude per sua natura il consumo personale ed è in funzione di capitale; in terzo luogo perché la maggior produttività del lavoro e il risparmio di capitale che si pos­ sono ottenere mediante produzione in massa di merci a buon mercato orientano sempre piu la produzione sociale verso i prodotti di massa che non possono essere consumati dai capitalisti. E vero che il plusvalore di un capitalista può essere rea­ lizzato nel sovraprodotto di altri capitalisti, e viceversa; ma ciò avviene solo per i prodotti di un determinato ramo, quello dei mezzi di sussistenza. Ora il movente fondamenta­

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le della produzione capitalistica non è la soddisfazione dei bisogni personali di consumo: il che si esprime anche nella costante riduzione della produzione di mezzi di sussistenza rispetto alla produzione di mezzi di produzione. «Vediamo perciò che, come la produzione di ogni fabbrica supera di gran lunga il fabbisogno in questi prodotti degli operai in essa impiegati e dell’imprenditore, cosi il prodotto totale di un paese capitalistico supera di gran lunga il fabbisogno del­ l’intera popolazione lavoratrice impiegata, e lo supera per­ ché il paese è appunto un paese capitalistico, perché la suddivisione delle sue forze sociali non è basata sulla soddisfa­ zione dei reali bisogni della popolazione, ma solo dei biso­ gni solvibili. Perciò, come un singolo fabbricante non po­ trebbe esistere neppure un giorno come capitalista, se il suo mercato di sbocco si limitasse ai bisogni dei suoi operai e ai suoi personali, cosi un paese capitalistico evoluto non può accontentarsi del solo mercato interno». Lo sviluppo capitalistico ha dunque tendenza, a un certo livello, a crearsi ostacoli. Questi ostacoli derivano in prima linea dal fatto che la crescente produttività del lavoro, per effetto della separazione fra produttori diretti e mezzi di produzione, va a vantaggio non dell’intera società ma dei so­ li imprenditori singoli, mentre una massa di forze-lavoro e di tempi di lavoro, «liberati» da questo processo, diventano superflui, e non solo vanno perduti per la società, ma si tra­ sformano in un peso. I reali bisogni delle masse popolari possono essere soddisfatti solo nella misura in cui il modo di produzione «populista», basato sull’unione fra produtto­ ri e mezzi di produzione, prenda il sopravvento. Ma il capi­ talismo tende a impadronirsi proprio di queste sfere di pro­ duzione e perciò ad annullare il fattore essenziale del pro­ prio sviluppo. Non sono state, per esempio, le carestie pe­ riodiche dell’India, sopravvenute ogni dieci o undici anni, una delle cause della periodicità delle crisi industriali in In­ ghilterra? Nella stessa contraddizione cade prima o poi ogni paese che abbia calcato la via della produzione capitalistica, perché essa è immanente in questo sistema produttivo. Ma quanto piu tardi un paese si mette sul piano capitalista, tan­ to piu violento vi si manifesta quel contrasto, perché esso II

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non può trovare alla saturazione del mercato interno un contrappeso nel mercato estero, già invaso dalla concorren­ za di paesi a piu antica tradizione mercantile. Da tutto ciò deriva che i limiti del capitalismo sono fissati dalla crescente miseria che il suo stesso sviluppo determina col numero crescente di lavoratori superflui, privi di potere d’acquisto. Alla crescente produttività del lavoro, che sod­ disfa con straordinaria rapidità ogni bisogno solvibile, cor­ risponde una crescente incapacità di crescenti masse popo­ lari a soddisfare i propri piu imperiosi bisogni; all’eccesso di merci inesitabili, la penuria in larghe masse dello stretto necessario. Questa la concezione generale di Nikolaj-on '. Come si vede, questi conosce bene Marx e ha saputo largamente uti­ lizzare i due primi libri del Capitale. E tuttavia, la sua argo­ mentazione è di schietto sapore sismondiano: il capitalismo porta al rattrappimento del mercato interno con l ’immiserimento delle masse, tutto il male della società moderna na­ sce dallo sgretolamento del modo di produzione «populi­ sta», della piccola azienda artigiana. In Nikolaj-on, anzi, l’e­ saltazione della piccola azienda è assai piu chiaramente e apertamente che in Sismondi il motivo centrale della criti­ ca 2. In definitiva, la realizzazione del prodotto totale capita­ listico all’interno della società è impossibile; può compiersi solo mediante il commercio estero. Qui, ad onta della diver­ sità dei punti di partenza teorici, Nikolaj-on giunge alle stes­ se conclusioni di Voroncov, la cui morale, applicata alla Russia, costituisce la giustificazione economica dello scetti­ cismo sull’avvenire capitalistico. In Russia, lo sviluppo ca­ pitalistico, tagliato fuori in partenza dai mercati esteri non ha prodotto che l’immiserimento delle masse popolari: fa­ vorirlo è dunque un fatale «errore». Qui giunto, Nikolaj-on tuona come un profeta dell’Anti­ co Testamento: «Invece di attenerci a tradizioni vecchie di secoli, invece di sviluppare il principio da noi ereditato del1 Cfr. Lineamenti della nostra economia sociale dopo la riforma, pp. 202205, 338-41. 2 La singolare affinità fra la posizione dei narodniki e quella di Sismondi è stata particolarmente dimostrata da Vlad. Il'in [Lenin] nel suo articolo Le caratteristiche del romanticismo economico, apparso nel 1897.

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lo stretto collegamento fra produttori diretti e mezzi di pro­ duzione, invece di sfruttare le conquiste della scienza occi­ dentale per applicarle alle forme di produzione fondate sul possesso dei mezzi di produzione da parte dei contadini, in­ vece di elevare la produttività del loro lavoro mediante la concentrazione dei mezzi di produzione nelle loro mani, in­ vece di trar profitto non della forma occidentale di produ­ zione, ma della sua organizzazione, della sua forte coopera­ zione, della sua divisione del lavoro, delle sue macchine ecc., invece di svolgere il concetto che sta a base della proprietà fondiaria contadina ed estenderlo alla lavorazione contadi­ na della terra, invece di aprire al contadiname, a tale scopo, l’accesso alla scienza e alle sue applicazioni, invece di tutto ciò abbiamo calcato proprio la via opposta. Non solo non ab­ biamo impedito lo sviluppo di forme di produzione capita­ listiche sebbene basate sull’espropriazione dei contadini,ma abbiamo favorito con tutte le nostre forze quella paralisi della nostra vita economica, che ha portato alla carestia del 1891». Il male ha già fatto molta strada, ma non è ancora troppo tardi per rimediarvi. Al contrario, una completa ri­ forma della politica economica è per la Russia una necessità imperiosa, di fronte alla incombente proletarizzazione, co­ me lo furono dopo la guerra di Crimea le riforme alessan­ drine. La riforma sociale che Nikolaj-on raccomanda è del tutto utopistica, e risulta tanto piu banale, nei confronti de­ gli aspetti piccolo-borghesi e reazionari della concezione sismondiana, in quanto il «populista» russo scriveva settan­ tanni dopo. Secondo lui, l’unica tavola di salvezza dall’i­ nondazione capitalistica è per la Russia l’antica obsčina, la comunità agricola fondata sul possesso comune della terra, nella quale dovrebbero (mediante provvedimenti che riman­ gono il segreto di Nikolaj-on) essere trapiantati i risultati della grande industria moderna e della tecnica scientifica, perché possano servir di base ad una forma di produzione piu alta, «socializzata». L ’unica scelta per la Russia sarebbe in questa alternativa: o il rifiuto dello sviluppo capitalistico o la morte '. 1 L in e a m e n ti d e lla n o stra ec o n o m ia so c ia le d o p o la rifo rm a, pp. 322 sgg. Ben diversamente giudicava Engels la situazione russa. Egli cercò ripetuta-

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Così, dopo una critica demolitrice del capitalismo, Nikolaj-on giunge alla stessa vecchia panacea del «populismo», che verso la metà del secolo era stata vantata, certo con piu ragione, come un’arra «specificatamente russa» di superiori sviluppi sociali, e che già nel 1875 Engels definiva (cfr. il suo articolo Flüchtlingsliteratur, pubblicato nel «Volkss­ taat») come un residuo non vitale di correnti antichissime a carattere reazionario. « L ’ulteriore sviluppo della Russia nel senso borghese — scriveva allora Engels - porterebbe sempre piu allo sbriciolamento della proprietà comune del suolo, senza bisogno che il governo russo intervenga con mente di far capire a Nikolaj-on che per la Russia lo sviluppo della grande industria era inevitabile e che le sofferenze di quel paese non erano se non i tipici contrasti del capitalismo. Scrive il 22 settembre 1892: «Io sostengo che, ai nostri giorni, produzione industriale significa grande industria, con vapore, elettricità, filatoi e telai automatici e, infine, macchine che produco­ no macchine. Dal momento che la Russia ha introdotto le ferrovie, l’intro­ duzione di questi moderni mezzi di produzione le si è imposta come necessi­ tà inderogabile. Voi dovete riparare le vostre locomotive, i vostri vagoni, i vostri tronchi ferroviari, e potete farlo a buon mercato solo mettendovi in grado anche di costruire in casa vostra ciò che intendete riparare. Dal mo­ mento che la guerra come tecnica è divenuta un ramo particolare della gran­ de industria (corazzate, artiglieria pesante, cannoni e fucili a ripetizione e a fuoco rapido, pallottole con rivestimento di acciaio, polvere senza fumo ecc.), la grande industria senza la quale nessuna di queste cose si può fabbri­ care è divenuta una necessità politica. Non si può produrre nulla di tutto ciò senza un’industria metalmeccanica altamente sviluppata; e questa è im­ possibile senza uno sviluppo corrispondente in tutte le altre branche indu­ striali, specialmente in quella tessile». E piu avanti nella stessa lettera: «Finché l’industria russa si limita a rifornire il mercato interno, la sua produzione non può soddisfare che il con­ sumo nazionale; ma questo può crescere solo lentamente e, date le odierne condizioni della Russia, dovrebbe perfino ridursi. Uno dei fenomeni che ac­ compagnano necessariamente lo sviluppo della grande industria, è che que­ sta distrugge il proprio mercato interno con lo stesso processo mediante il quale lo crea. Lo crea distruggendo le basi dell’industria domestica contadi­ na; e senza industria domestica i contadini non possono vivere. Come colti­ vatori essi sono rovinati, il loro potere d’acquisto viene ridotto al minimo; e, finché non si saranno adattati alle nuove condizioni di esistenza come proletari, costituiscono per le fabbriche nascenti un mercato da poco. «La produzione capitalistica, essendo una fase transitoria, è irta di con­ traddizioni intrinseche, che si svolgono e appaiono evidenti man mano che essa si sviluppa. Una di tali contraddizioni è appunto la tendenza a distrug­ gere il proprio mercato interno nell’atto stesso in cui lo crea. Un’altra è la via senza uscita alla quale essa porta, e che, in un paese senza mercato este­ ro come la Russia, si profila prima ancora che in paesi piti o meno in grado di competere sul mercato mondiale. Per questi, tale situazione senza sbocco apparente si risolve in cataclismi commerciali, cioè nell’apertura di nuovi

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“ baionette e knut” [come i rivoluzionari populisti imma­ ginavano che avrebbe fatto. R. L .]... Sotto la pressione del­ le imposte e dell’usura la proprietà comune del suolo ces­ sa d ’essere un bene, per diventare una catena. I contadini spesso l’abbandonano, con o senza famiglia, per trovar la­ voro come operai vaganti, e lasciano la terra. Come si vede, la proprietà comune in Russia ha da tempo chiuso il suo pe­ riodo di fioritura e con tutta probabilità scivola verso la de­ cadenza». Cosi, Engels, diciotto anni prima del fondamen­ tale scritto di Nikolaj-on, aveva, nella questione déü’obsêina, afferrato il toro per le corna '. Quando Nikolaj-on rievomercati con la forza; ma anche cosi, è evidente che ci si muove in un circolo vizioso. Prendete l’Inghilterra. L’ultimo mercato nuovo che possa alimenta­ re una ripresa almeno temporanea della sua prosperità è la Cina; ecco perché il capitale inglese insiste per costruirvi ferrovie. Ma queste significano la di­ struzione delle fondamenta della piccola agricoltura e dell’industria dome­ stica patriarcale e, in Cina, dove manca il controveleno di una grande indu­ stria indigena, centinaia di individui sono ora minacciati di indigenza com­ pleta. L ’effetto sarà un’emigrazione in massa come il mondo non ne ha mai viste; un’inondazione dell’America, dell’Europa e dell’Asia da parte degli odiati Cinesi; una loro concorrenza con la manodopera americana, australia­ na ed europea, sulla base del concetto cinese di un livello di vita tollerabile, che è notoriamente il piu basso di tutto il mondo; finché il sistema di pro­ duzione, se non sarà già stato rivoluzionato, lo sarà per forza di cose» [trad, russa delle lettere di Marx ed Engels a Nikolaj-on, a cura di G. Lopatin, Pietersburg 1908, p. 79; qui riprodotte da m a r x -e n g e l s , India, Cina, Rus­ sia, Il Saggiatore, 2a ed., Milano 1965, pp. 265, 266-67]. Pur seguendo at­ tentamente lo sviluppo della situazione russa e interessandovisi vivamente, Engels rifiutò tuttavia di immischiarsi in alcun modo nella polemica. In una lettera del 24 novembre 1894, di poco anteriore alla sua morte, cosi diceva: «I miei amici russi mi tempestano quasi ogni giorno e ogni settimana di inviti a intervenire contro riviste e libri russi nei quali le parole del nostro autore [cosi Engels chiama Marx nell’epistolario] sono non soltanto inter­ pretate a sproposito, ma citate scorrettamente; e mi si assicura che bastereb­ be il mio intervento per mettere le cose in chiaro. Io, invece, rispondo co­ stantemente picche, non potendo, senza interrompere l’attività seria, lasciar­ mi trascinare in una polemica condotta in un paese lontano, in una lingua che non conosco correntemente come le lingue a me piu note dell’Occidente europeo, e in una letteratura della quale non mi capitano sott’occhio che ca­ suali frammenti, senza permettermi di seguire la discussione in modo siste­ matico e serio in tutte le sue fasi e particolarità. V’è un po’ dappertutto gen­ te che, una volta presa una posizione, non si perita, per difenderla, di ricor­ rere alla falsificazione del pensiero altrui e alle manipolazioni piu sfrontate, e se ciò è accaduto per il nostro autore, temo forte che finirebbe per accadere anche per me, ed io sarei costretto a intervenire nel dibattito prima per la difesa altrui, poi per la mia» {ibid., p. 90). 1 [Per una raccolta praticamente completa degli articoli, lettere e giudizi sulle prospettive di evoluzione economica della Russia dopo il i860, cfr. In­ dia, Cina, Russia, pp. 211-304].

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ca allegramente lo stesso spettro, l’anacronismo era tanto piu smaccato in quanto solo dieci anni dopo fu lo stato me­ desimo a celebrare la sepoltura ufficiale dell’obščina. Il go­ verno assolutista, che per mezzo secolo aveva cercato di te­ nere in piedi con la forza, a scopi fiscali, l’intero apparato della comunità contadina, si vide costretto ad abbandonare questo lavoro di Sisifo. Ben presto, nella questione agraria come fattore dominante della rivoluzione russa, doveva di­ mostrarsi quanto l’antico sogno dei «populisti» fosse pas­ sato, di fronte all’effettivo evolversi della realtà economica, in secondo piano, e con quale impeto invece l’evoluzione capitalistica, da essi sdegnata come non vitale, dimostrasse fra tuoni e fulmini la propria capacità di vita e la fecondità del suo lavoro. Questa svolta, verificatasi in un ambiente storico profondamente mutato, doveva mostrare in modo definitivo che una critica sociale del capitalismo fondata teoricamente sul dubbio nelle sue possibilità di sviluppo sfocia per logica fatale in un’utopia reazionaria - nella Fran­ cia del 1819 come nella Germania del 1842 e nella Russia del 1893 *.1 1 Del resto, nonostante tutto ciò che è avvenuto in Russia, i teorici so­ pravvissuti del pessimismo populista, come Voroncov, sono rimasti fedeli fino all’ultimo alle loro concezioni, cosa che fa più onore al loro carattere che al loro cervello. Nel 1902, riferendosi alla crisi 1900-902, V. V. scrive­ va: «La teoria dogmatica del neomarxismo perde rapidamente la sua influen­ za sugli spiriti, e la mancanza di radici dei piu recenti successi dell’indivi­ dualismo è apparsa chiara anche ai suoi apologeti ufficiali... Così, nel primo decennio del secolo xx, torniamo alla stessa interpretazione dello sviluppo economico della Russia che la generazione dell’ottavo decennio del seco­ lo XIX aveva lasciato in eredità alle generazioni successive» (cfr. la rivista «L ’economia popolare», ottobre 1902, cit. in A. finn -enotaevskij, L’attuale economia russa, Petersburg 1911, p. 2). Gli ultimi mohicani della populisteria concludono, invece che alla «mancanza di radici» della propria teoria, alla «mancanza di radici» della... realtà economica - vivente smentita alla frase di Barère: «Il n’y a que les morts qui ne reviennent pas».

CAPITOLO V EN TU N ESIM O L E « T R E P E R S O N E » E I T R E IM P E R I MONDIALI DI STR U V E

Veniamo ora alla critica delle suddette concezioni svolta dai marxisti russi. Peter v. Struve, che nel 1892 aveva pubblicato nel «S o ­ zialpolitische Centralblatt» (anno in , n. 1) una recensione elogiativa del libro di Nikolaj-on, nel 1894, nel suo Zur Beurteilung der kapitalistischen Entwicklung Russlands, sottopone le teorie «populiste» ad una serrata critica. Tut­ tavia, nella questione che ci interessa direttamente, Struve si limita, sia di fronte a Voroncov che nei riguardi di Niko­ laj-on, a dimostrare che il capitalismo non solo non restrin­ ge ma anzi allarga il proprio mercato interno. L ’errore di Nikolaj-on (ereditato del resto da Sismondi) è infatti pale­ se. Entrambi rappresentano solo una faccia del processo di erosione capitalistica delle forme di produzione tradizionali della piccola azienda. Vedono soltanto l’abbassamento del tenore di vita, l’immiserimento di larghi strati della popo­ lazione, che da quel processo si originano. Non osservano ciò che l’altra faccia di questo comporta: eliminazione del­ l’economia naturale e sostituzione ad essa, nelle campagne, dell’economia mercantile. Ma ciò significa che il capitali­ smo, trascinando nella sua orbita sempre nuovi strati di produttori un tempo indipendenti e corporativi, trasforma di continuo nuovi strati sociali in acquirenti delle sue mer­ ci. Il moto dell’evoluzione capitalistica è dunque proprio l’opposto di quello che, sull’esempio di Sismondi, i «popu­ listi» raffigurano: esso non annienta il proprio mercato in­ terno, ma lo crea, in origine, proprio mediante la dilatazio­ ne dell’economia monetaria. Per quanto riguarda in particolare la teoria di Voroncov

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sull’irrealizzabilità del plusvalore sul mercato interno, Stru­ ve la demolisce con l’argomentazione che segue. La base della teoria di Voroncov consiste in ciò, che una società ca­ pitalistica sviluppata è composta esclusivamente di impren­ ditori e lavoratori. Sullo stesso presupposto opera sempre anche Nikolaj-on. È chiaro che, da questo punto di vista, la realizzazione del prodotto totale capitalistico diventa in­ comprensibile. La teoria di Voroncov è giusta nei limiti in cui «constata il fatto che il plusvalore non può essere rea­ lizzato né mediante il consumo dei capitalisti né mediante quello dei lavoratori, ma presuppone il consumo di terze persone»1. Ora, nella società capitalistica queste «terze per­ sone» esistono. L ’ipotesi di Voroncov e di Nikolaj-on non è se non una finzione, incapace «d i portarci avanti di un ca­ pello nella comprensione dei processi storici»2. Non esiste società capitalistica, per quanto altamente sviluppata, che sia composta soltanto di imprenditori e di operai. «Nella stessa Inghilterra e Galles, su 1000 abitanti attivi 545 sono assorbiti dall’industria, 172 dal commercio, 140 dall’agri­ coltura, 81 da lavori salariati indeterminati e fluttuanti e 62 dall’apparato statale, dalle professioni libere ecc.». Dun­ que, nella stessa Inghilterra esistono masse di «terze per­ sone», e appunto queste permettono col loro consumo la realizzazione del plusvalore, per quel tanto che non è consu­ mato dagli stessi capitalisti. Struve lascia aperta la questio­ ne se il consumo di queste « terze persone » basti o no a rea­ lizzare l’intero plusvalore; resterebbe «comunque da dimo­ strare il contrario»3. Per la Russia, grande paese a enorme popolazione, nessuno potrà in ogni caso dimostrarlo. La Russia si trova infatti nella fortunata situazione di poter fare a meno di mercati esteri, favorita in ciò (e qui Stru­ ve prende in prestito dall’arsenale dei professori Wagner, Schäffle e Schmoller) dallo stesso destino che gli Stati Uni­ ti d ’America. «Se l’esempio dell’Unione nordamericana di­ mostra qualcosa, è appunto il fatto che, in determinate cir­ costanze, l’industria capitalistica può raggiungere un alto 1 Zur Beurteilung der kapitalistischen Entwicklung Kusslands, p. 251. 2 Ibid., p. 25J. 3 Ibid., p. 252.

L E « T R E P E R SO N E » E I TRE IM P ER I DI STRUV E

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livello di sviluppo appoggiandosi quasi esclusivamente sul mercato interno» Lo prova la limitata esportazione indu­ striale degli Stati Uniti nel 1882. E Struve formula questa tesi generale: «Quanto piu vasto è il territorio e piu eleva­ ta la popolazione, tanto meno l’evoluzione capitalistica ha bisogno di mercati esteri»; e ne deduce per il capitalismo in Russia —proprio all’opposto dei populisti - un avvenire piu splendido che in altri paesi. «L o sviluppo progressivo dell’agricoltura sulla base della produzione di merci deve creare un mercato di sbocco sul quale il capitalismo indu­ striale russo si appoggerà nella sua evoluzione. Questo mer­ cato può crescere illimitatamente nella misura in cui pro­ gredirà lo sviluppo economico e culturale del paese e, con esso, lo sgretolamento dell’economia naturale. Sotto que­ st’aspetto, il capitalismo in Russia si trova in condizioni piu favorevoli che in altri p a e si»12. E Struve si dilunga a trac­ ciare un quadro colorito dell’apertura di nuovi mercati di sbocco in Russia, grazie alla ferrovia siberiana in Siberia, nell’Asia centrale ed anteriore, in Persia, nei paesi balcani­ ci, non accorgendosi, nell’ardore della profezia, di esser pas­ sato dal mercato interno « illimitatamente crescente » a ben definiti mercati esteri, cosi come, qualche anno dopo, pas­ serà politicamente nel campo di quel capitalismo russo pie­ no di speranze, al cui programma liberale di espansione im1 Zur Beurteilung der kapitalistischen Entwicklung Russlands, p. 260. «[Struve] ha decisamente torto quando, per smentire quelle che definisce le vostre previsioni pessimistiche, paragona lo stato attuale della Russia a quel­ lo dell’America. Egli pensa che gli effetti sgradevoli del capitalismo moder­ no saranno superati in Russia con la stessa facilità che negli Stati Uniti, di­ menticando con ciò che gli Stati Uniti nacquero moderni e borghesi, venne­ ro fondati da piccoli-borghesi e agricoltori sfuggiti alla morsa del feudalesi­ mo europeo per costruire oltre Oceano una società puramente borghese, mentre in Russia esiste una base di comuniSmo primitivo, una società preci­ vile e gentilizia che cade bensì in frantumi, ma fornisce pur sempre la sotto­ struttura, la materia prima sulla quale e con la quale la rivoluzione capitali­ stica (giacché di un’autentica rivoluzione sociale si tratta) agisce ed opera. In America l’economia monetaria è vecchia di oltre un secolo; in Russia, la regola era quasi esclusivamente l’economia naturale. Va quindi da sé che, in Russia, tale metamorfosi debba assumere forme infinitamente piu violente e radicali, ed essere accompagnata da sofferenze incommensurabilmente piu grandi, che in America» (lettera di Engels a Nicolaj-on, 17 ottobre 1893, ed. cit., p. 83 [qui da India, Cina, Russia, pp. 270-71]). 2 Zur Beurteilung der kapitalistischen Entwicklung Russlands, p. 284.

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penalistica aveva offerto già, come «m arxista», solide basi teoriche. In realtà l’argomentazione di Struve, se tradisce un vigo­ roso ottimismo sulle illimitate possibilità di sviluppo della produzione capitalistica, manca però di una seria giustifica­ zione economica di questo ottimismo. Il pilastro fondamen­ tale dell’accumulazione di plusvalore è, per Struve, costi­ tuito dalle «terze persone». È vero che egli non spiega che cosa intenda con questo termine, ma dal riferimento alle statistiche professionali inglesi appare chiaro ch’egli allude ai diversi impiegati privati, funzionari statali, liberi profes­ sionisti, insomma al famoso grand public al quale gli econo­ misti volgari sogliono ricorrere quando non hanno di meglio sottomano, e di cui Marx affermò che rende agli economisti il prezioso «servizio» di spiegar le cose di cui manca loro la spiegazione. In realtà, quando si parla in senso categorico di consumo dei capitalisti, non ci si riferisce agli imprendi­ tori come persone singole, ma alla classe capitalistica nel suo insieme, comprese le necessarie appendici di impiegati privati, funzionari statali, professionisti «liberi» ecc. Tutte queste «terze persone», che in nessuna società capitalistica mancano, sono per lo piu, economicamente, con-divoratori del plusvalore, per quel tanto almeno che non sono compar­ tecipi del salario operaio. I loro mezzi di acquisto, essi pos­ sono derivarli (come appunto fanno in realtà) sia dal salario del proletariato sia dal plusvalore, ma nell’insieme vanno considerati con-divoratori del plusvalore. Il loro consumo è perciò incluso nel consumo della classe capitalista e, se Stru­ ve li fa riapparir sulla scena da un’altra porta e li affianca ai capitalisti come «terze persone» per toglierlo dall’imbaraz­ zo e aiutarli a realizzare il plusvalore, allo scaltro profittatore basterà lanciare uno sguardo a questo «gran pubblico» per riconoscervi la folla dei suoi parassiti, che prima gli tol­ gono di tasca il denaro per poi, con lo stesso denaro, com­ prargli le merci. E Struve si ritrova al punto di prima. Altrettanto insostenibile è la sua teoria dello sbocco estero e della sua importanza agli effetti della produzione ca­ pitalistica. Struve segue in questo la concezione meccanica dei «populisti» secondo cui un paese capitalistico, seguen­

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do lo schema di un libro scolastico, prima tosa a fondo il «mercato interno», poi, quando questo è completamente esaurito, va alla ricerca di mercati esteri. Partendo da questo angolo visuale, Struve, sulle orme di Wagner, SchäfHe e Schmoller, giunge all’assurda teoria che un paese con una popolazione numerosa e un «vasto territorio» possa costi­ tuire, nella sua produzione capitalistica, un «tutto chiuso», e accontentarsi per un «tempo indefinito» del proprio mer­ cato interno1. In realtà, la produzione capitalistica è per sua natura una produzione mondiale e, inversamente a quanto dovrebbe accadere secondo la ricetta pedantesca del professorume tedesco, comincia fin dall’infanzia a produrre per il mercato mondiale. Le sue branche piu ricche di iniziativa, in Inghilterra - l’industria tessile, l’industria del ferro e del carbone - cercavano già uno sbocco in tutti i paesi e le par­ ti del mondo, quando ancora nell’interno del paese il pro­ cesso di erosione della proprietà contadina e di declino dell’artigianato e dell’antica produzione domestica era lontano 1 II lato reazionario della teoria professionale dei «tre imperi mondiali» (Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti) è messo in chiara luce dal professor Schmoller là dove scuote amaramente il vecchio capo saggio sulle cupidigie «neomercantilistiche» (imperialistiche) dei tre grandi predoni e, per gli sco­ pi di una piu alta civiltà spirituale, morale ed estetica e del progresso socia­ le, chiede una forte flotta tedesca e un’unione doganale europea dirette con­ tro l’Inghilterra: «In questa tensione economica mondiale, il primo dovere che si ponga alla Germania è di crearsi una forte flotta per essere eventual­ mente desiderata, in pieno arredo di guerra, come partner delle potenze mondiali. Essa non può e non deve condurre una politica di conquista come le tre potenze mondiali [cui tuttavia il signor Schmoller non vuol muovere “ alcun rimprovero ” per aver “ ripreso la via delle gigantesche conquiste co­ loniali” ]; ma deve poter rompere un eventuale blocco nemico del Mare del Nord, proteggere le sue colonie e il suo grande commercio, e poter offrire pari sicurezza agli stati che a lei si alleassero. La Germania, come rAustriaUngheria e l’Italia sue alleate, hanno insieme con la Francia il compito di mettere un freno alla politica troppo aggressiva (e minacciosa per tutti gli stati di media importanza) delle tre potenze mondiali; freno desiderabile nell’interesse dell’equilibrio politico e della conservazione di tutti gli altri stati; freno nella conquista, nella espansione coloniale, nell’esagerata poli­ tica protezionista, nello sfruttamento e nella manipolazione dei deboli... An­ che le finalità di ogni cultura spirituale, morale, estetica piu alta, di ogni progresso sociale sono legate al fatto che nel xx secolo l’intero orbe terrac­ queo non sia suddiviso fra i tre imperi mondiali e che questi non impongano un brutale neomercantilismo» (Die Wandlungen in der europäischen Han­ delspolitik des 19. Jahrhunderts, in «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwal­ tung und Volkswirtschaft», XXIV, p. 381).

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dal concludersi. E si provi un po’ a dare all’industria chimica o elettrotecnica tedesca il saggio consiglio di limitarsi - an­ ziché lavorare, come ha fatto fin dalla nascita, per le cinque parti del mondo - al mercato interno, che in tanti altri ra­ mi è ben lungi dall’essere esaurito dall’industria nazionale perché rifornito in massa di prodotti esteri. O si spieghi al­ l’industria meccanica tedesca che non deve ancora gettarsi sui mercati esteri dato che, come risulta dalla statistica del­ le importazioni in Germania, una gran parte del fabbisogno tedesco in prodotti di questo ramo è coperto mediante for­ niture straniere. Dal punto di vista di questo schema del «commercio estero», l ’intreccio del mercato mondiale, con le sue molteplici ramificazioni e con le mille e mille sfuma­ ture della divisione del lavoro, è incomprensibile. Lo svi­ luppo industriale degli Stati Uniti, oggi divenuti un perico­ loso concorrente dell’Inghilterra sul mercato mondiale, an­ zi sullo stesso mercato inglese (come del resto battono an­ che nell’elettrotecnica la concorrenza tedesca sul mercato mondiale e nella stessa Germania), ha dato la piu completa smentita alle deduzioni di Struve, d ’altronde già antiquate nel tempo in cui le scriveva. Struve accetta anche la tesi dei populisti russi, secondo cui le connessioni internazionali dell’economia mondiale ca­ pitalistica, con la sua tendenza storica alla formazione di un vivente organismo unitario con una divisione sociale del la­ voro poggiante su tutta la varietà delle ricchezze naturali e dei fattori produttivi del globo, andrebbero sostanzialmen­ te ridotte alla scala della normale preoccupazione del mer­ cante di trovarsi un «mercato». Il ruolo fondamentale del­ l’illimitato rifornimento dell’industria capitalistica in mez­ zi di sussistenza, materie prime e sussidiarie, e forze-lavo­ ro, fondato sul mercato mondiale allo stesso titolo dello smercio dei prodotti finiti, risulta, nella finzione dei tre im­ peri mondiali di Wagner e Schmoller (l’Inghilterra con le sue colonie, la Russia e gli Stati Uniti), che anche Struve ac­ cetta, completamente ignorato o ridotto artificialmente ai minimi termini. Basterebbe la storia dell’industria cotonie­ ra inglese, che include in sé, in forma sintetica, la storia del capitalismo in generale e che ebbe per scenario durante tut-

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t o i l s e c o l o X IX l e c i n q u e p a r t i d e l m o n d o , a c o p r i r e d i r i d i ­ c o lo q u e s t a c o n c e z io n e p r o f e s s o r a le , il c u i s o lo s ig n ific a to c o n c r e t o s t a n e l l ’o f f r i r e u n a c o n t o r t a g i u s t i f i c a z i o n e t e o r i c a al siste m a p r o te z io n istic o .

CAPITOLO V EN TID U ESIM O BULGAKOV E IL SUO «C O M P L E T A M E N T O » D E L L ’A N A LISI MARXIANA

Il secondo critico dello scetticismo «populista», S. Bul­ gakov, rigetta subito, con un’alzata di spalle, la teoria delle «terze persone» come ancora di salvezza dell’accumulazio­ ne capitalistica. «L a maggioranza degli economisti (fino a Marx) ha risolto il problema nel senso che sono necessarie delle “ terze persone” per sciogliere come dei ex machina il nodo gordiano, cioè per consumare il plusvalore. Come tali compaiono ora proprietari terrieri dediti a una vita di lusso (come in Malthus), ora capitalisti spendaccioni, ora il mili­ tarismo, e via discorrendo. Senza questi mezzi straordinari il plusvalore non trova sbocco, si coagula sui mercati e pro­ voca sovraproduzione e crisi» \ «Cosi, il signor Struve am­ mette che la produzione capitalistica possa, nel suo svilup­ po, appoggiarsi al consumo di fantastiche terze persone. Ma dov’è la sorgente del potere d’acquisto di questo grand public la cui particolare vocazione è di consumare il plus­ valore?» 12. Da parte sua, Bulgakov rimette il problema sul­ le basi dell’analisi del prodotto sociale totale e della sua riproduzione svolta nel II libro del Capitale. Il problema del­ l’accumulazione è risolvibile soltanto cominciando dall’ac­ cumulazione semplice e chiarendone il meccanismo. Impor­ ta soprattutto essere in chiaro sul consumo del plusvalore e dei salari dei rami della produzione che producono beni non consumabili e sulla circolazione della parte del prodotto so­ ciale totale rappresentante il capitale costante consumato: nuovo campo dell’analisi sfuggito all’attenzione degli eco1 s. Bulgakov, Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, Moskva 1897, p. 15. 2 Ibid., p. 32, nota.

BULGAKOV E L ’AN A LISI MARXIANA

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nomisti e aperto per la prima volta da Marx. «Per risolvere questo problema, Marx divide tutte le merci prodotte in regime capitalistico in due grandi categorie di natura diver­ sa: produzione di mezzi di produzione e produzione di mez­ zi di consumo. In questa sola divisione è racchiuso piu sen­ so teorico che in tutte le dispute passate sulla teoria dei mercati di sbocco» '. Come si vede, Bulgakov è un entusia­ stico partigiano della teoria marxiana, e attribuisce al suo studio il compito di verificare teoricamente la tesi che il ca­ pitalismo non può esistere senza mercati esteri. «A questo scopo, l’autore ha utilizzato l’analisi della riproduzione so­ ciale, preziosa ma (chissà perché) quasi ignorata dalla scien­ za, svolta da Marx nella seconda parte del II libro del Ca­ pitale: analisi che, pur non potendosi considerare compiu­ ta, offre anche nella sua formulazione sommaria una base sufficiente ad una soluzione del problema dei mercati di sbocco diversa da quella che i signori Nikolaj-on e Voroncov hanno fatta propria e che mettono in conto a M arx »2. La soluzione che Bulgakov deduce da Marx è cosi formula­ ta: « I l capitalismo può esistere eventualmente anche solo grazie al mercato interno; non esiste necessità interna, pro­ pria del modo di produzione capitalistico, per cui solo il mercato estero possa assorbire l’eccedenza della produzio­ ne capitalistica. Tale la conclusione tratta dall’autore in ba­ se allo studio della citata analisi della riproduzione sociale». E veniamo alla dimostrazione data da Bulgakov della suddetta tesi. Essa si presenta a prima vista inaspettata­ mente semplice. Bulgakov riporta fedelmente lo schema a noi già noto della riproduzione semplice, corredandolo di spiegazioni che fanno onore alla sua capacità intellettuale. Poi introduce lo schema marxiano della riproduzione allar­ gata... e la dimostrazione è bell’e data. «In base a quanto detto non è difficile stabilire in che cosa consisterà l’accu­ mulazione: I (sezione mezzi di produzione) deve produrre i mezzi di produzione supplementari necessari all’allarga1 s. Bulgakov, Sui mercati dì sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, p. 27. 2 lbid., pp. 2-3.

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mento della produzione, sia per sé che per II (sezione mez­ zi di consumo), mentre a sua volta II dovrà fornire i mezzi di consumo supplementari per l’allargamento del capitale variabile I e II. Prescindendo dalla circolazione del denaro, l’allargamento della produzione si riduce allo scambio dei prodotti supplementari I, di cui II abbisogna, e dei prodot­ ti supplementari II, di cui abbisogna I» . Dunque, Bulga­ kov segue qui fedelmente l’argomentazione di Marx, e non si accorge che la sua tesi rimane, fino a questo punto, sulla carta. Egli crede di aver risolto con queste formule mate­ matiche il problema dell’accumulazione. Ora, che le pro­ porzioni trascritte da Bulgakov secondo lo schema di Marx siano rappresentabili è fuori dubbio; altrettanto indubbio è che l’allargamento della produzione, se deve aver luogo, può esprimersi in quelle formule; ma rimane la questione fondamentale: per chi avviene l’allargamento di cui Bulga­ kov analizza il meccanismo? Dal momento che è rappresen­ tabile sulla carta in proporzioni matematiche, l’accumula­ zione è realizzata. Senonché, dopo aver dichiarato risolta la questione, Bulgakov s’imbatte, cercando di introdurre nel­ l’analisi la circolazione del denaro, nell’altra domanda: da dove viene a I e II il denaro necessario per l ’acquisto dei prodotti supplementari? Abbiamo già visto in Marx come il punctum dolens della sua analisi, il problema dei consu­ matori della produzione allargata, si ripresenti continuamente nella forma ambigua del problema delle fonti del de­ naro supplementare. Ora, Bulgakov segue pedissequamen­ te l’impostazione di Marx senza rendersi conto delle sue contraddizioni interne. Ammette bensì che «lo stesso Marx non ha dato risposta a questa domanda nei quaderni di ap­ punti in base ai quali è stato pubblicato il II libro del Ca­ pitale»; ma come vi risponde a sua volta? « A noi sembra —scrive Bulgakov —che la soluzione mi­ gliore della teoria di Marx sia la seguente. Il nuovo capitale variabile che II fornisce tanto per sé quanto per I, trova il suo equivalente-merci nel plusvalore II. Già trattando del­ la riproduzione semplice abbiamo visto che gli stessi capita­ listi devono gettare nella circolazione il denaro occorrente alla realizzazione del loro plusvalore e che questo denaro fi-

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nisce per tornare nelle tasche dei capitalisti dalle quali è uscito. Il quantum di denaro richiesto per la circolazione del plusvalore è determinato, secondo la legge generale della circolazione delle merci, dal valore delle merci in cui è in­ corporato, diviso per il numero medio di rotazioni del de­ naro. La stessa legge trova applicazione qui. I capitalisti II devono avere una certa somma di denaro per la circolazio­ ne del loro plusvalore: devono perciò possedere un cer­ to tesoro, il quale deve a sua volta essere sufficientemente grande da bastare per la circolazione tanto della parte di plusvalore che rappresenta il fondo di consumo, quanto di quella che dev’essere accumulata come capitale». Bulgakov svolge poi il concetto che, per la questione «quanto denaro sia necessario per la circolazione di un certo quantitativo di merci nel paese», è indifferente che una parte di queste merci rappresenti o no plusvalore. «M a la questione gene­ rale: da dove venga nel paese il denaro, è risolta nel senso che questo denaro è fornito dai produttori d’oro». Se con l’allargamento della produzione si rende necessario nel pae­ se piu denaro, la produzione d’oro sarà corrispondentemen­ te allargata1. Cosi, approdiamo felicemente al produttore d’oro, che già in Marx funge da deus ex machina. Bisogna riconoscere che Bulgakov ha tradito l ’ansiosa speranza in una soluzione nuova del problema. La «su a» soluzione del problema non ha fatto un passo innanzi sull’analisi data da Marx, e si riduce alle tre proposizioni semplici: 1) Doman­ da-. quanto denaro è necessario per realizzare il plusvalore capitalizzato? risposta-, tanto quanto è necessario secondo la legge generale della circolazione delle merci. 2) Doman­ da-. da dove i capitalisti prendono il denaro per realizzare il plusvalore accumulato? risposta: devono averlo. 3) Do­ manda: da dove viene il denaro in un paese? risposta-. dal produttore d’oro. Spiegazione che, nella sua semplicità, è as­ sai piu sospetta che convincente. Né vai la pena di sottoporre a critica questa teoria del produttore d ’oro come deus ex machina dell’accumulazione 1 s. bulgakov, Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, pp. .50-5.5.

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capitalistica. È lo stesso Bulgakov a smontarla. Infatti, ot­ tanta pagine piu avanti, a tutt’altro proposito - la teoria del fondo dei salari, contro la quale si scaglia, non si capisce be­ ne perché, in una lunga polemica —, ritorna a parlare del produttore d ’oro, ed esce nella seguente, acuta osserva­ zione: « Sappiamo già che fra gli altri produttori esiste anche il produttore d ’oro, il quale, da una parte, aumenta anche con la sola riproduzione semplice la quantità assoluta del dena­ ro circolante nel paese e, dall’altra, acquista mezzi di pro­ duzione e di consumo senza vendere merci e pagando diret­ tamente le merci acquistate nell’equivalente generale che costituisce il suo specifico prodotto. Potrà dunque il pro­ duttore d ’oro rendere il servigio di comprare da II l ’intero plusvalore accumulato e pagarlo in oro che II userà poi per l’acquisto dei mezzi di produzione da I e per l’aumento del capitale variabile, cioè per l’acquisto della forza-lavoro sup­ plementare? In tal caso, il produttore d ’oro fungerebbe da effettivo mercato di sbocco esterno. «M a è questa un’ipotesi completamente assurda. Accet­ tarla significherebbe far dipendere l’allargamento della pro­ duzione sociale dall’allargamento della produzione d ’oro [Bravo!]. Ciò presuppone a sua volta un aumento della produzione d ’oro che non corrisponde affatto alla verità. Se il produttore d’oro dovesse essere obbligato ad acquista­ re mediante i suoi operai da II l’intero plusvalore accumu­ lato, ciò significherebbe che il suo capitale variabile dovreb­ be crescere di ora in ora e di giorno in giorno. Ma corri­ spondentemente dovrebbe aumentare anche il capitale co­ stante e anche il plusvalore, e la produzione d ’oro dovrebbe assumere di colpo dimensioni gigantesche [Bravo!]. Inve­ ce di dimostrare statisticamente l’assurdità di quest’ipotesi (cosa d ’altronde impossibile), basterà accennare a un fatto sufficiente da solo a demolirla. Questo fatto è lo sviluppo del credito, che si accompagna allo sviluppo dell’economia capitalistica [Bravo!]. Il credito tende a ridurre (relativa­ mente, si capisce, non assolutamente) la quantità di denaro circolante e si presenta come necessario complemento dello sviluppo dell’economia basata sullo scambio, che altrimen-

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ti troverebbe un ostacolo nella deficienza in denaro metalli­ co. Ritengo inutile dimostrare con cifre come sia limitato, oggi, il ruolo del denaro metallico negli scambi. L ’ipotesi è dunque in diretto e aperto contrasto coi fatti e va riget­ tata» ‘. Bravissimo! Benissimo! Ma in tal modo Bulgakov ha «ri­ gettato» anche la sua precedente risposta alla domanda: come e da chi è realizzato il plusvalore capitalistico? D ’al­ tra parte, in questa autodemolizione, egli non ha fatto che esporre un po’ piu per esteso quanto Marx aveva già detto con una parola sola, definendo «assurda» la ipotesi del pro­ duttore d ’oro divorante l’intero plusvalore sociale. In realtà, in Bulgakov come in tutti i marxisti russi che si sono occupati espressamente della questione, la soluzione vera e propria è altrove. Tanto lui quanto Tugan-Baranovskij e Il'in insistono soprattutto sull’accusa rivolta alla con­ troparte —gli scettici —di aver commesso, a proposito della possibilità dell’accumulazione, un errore madornale nell’a­ nalisi di valore del prodotto totale. Essi, soprattutto Voroncov, ammettevano che l’intero prodotto sociale consistesse in mezzi di consumo, e partivano dal falso presupposto che il consumo fosse lo scopo della produzione capitalistica. La radice dell’equivoco sta tutta qui - dichiaravano i marxi­ sti —; di qui le immaginarie difficoltà di realizzazione del plusvalore sulle quali gli scettici si rompono invano la te­ sta. «Con questa concezione erronea, questa scuola si creò difficoltà inesistenti: le condizioni normali della produzio­ ne capitalistica presupponendo che il fondo di consumo dei capitalisti costituisca solo una parte, per giunta piccola, del plusvalore mentre la parte maggiore è destinata all’allarga­ mento della produzione, è evidente che le difficoltà immagi­ nate da codesta scuola (i populisti) in realtà non esistono»2. Si noti con quale facilità Bulgakov passi sopra al problema, e non sembri neppur sospettare che proprio nel presuppo­ sto della riproduzione allargata la domanda per chi? è al1 s. bulgakov , Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, pp. 132 sgg. 2 Ibid., p. 20.

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trettanto inevitabile quanto è secondaria nel presupposto del consumo personale dell’intero plusvalore. Ora, tutte queste «difficoltà immaginarie» svaniscono grazie alle due scoperte di Marx, che i suoi allievi russi non si stancano di buttare in faccia ai loro contraddittori. Anzi­ tutto, il fatto che la composizione di valore del prodotto sociale non è v + p ma c + v + p; in secondo luogo, che, col progresso della produzione capitalistica, la parte c di questa composizione diventa, in rapporto a v, sempre maggiore, mentre nello stesso tempo la parte capitalizzata del plusva­ lore cresce in rapporto alla consumata. Partendo da questi due presupposti, Bulgakov svolge tutta una teoria sul rap­ porto fra produzione e consumo nella società capitalistica, che vai la pena di conoscere per l’importanza ch’essa ha nel pensiero dei marxisti russi, soprattutto di Bulgakov. « I l consumo, la soddisfazione dei bisogni sociali, non co­ stituisce se non un momento secondario della circolazione del capitale. L ’ampiezza della produzione è determinata dal­ l ’ampiezza del capitale, non dalla grandezza dei bisogni so­ ciali. Non solo lo sviluppo della produzione non è accom­ pagnato da aumento del consumo, ma fra i due aspetti esi­ ste antagonismo. La produzione capitalistica non conosce altro consumo che quello solvibile, ma consumatori solvibi­ li possono essere solo quelli che ricevono o il salario o il plusvalore, e il loro potere d ’acquisto corrisponde esatta­ mente all’ammontare di questi redditi. Ora, abbiamo già visto che le leggi fondamentali dello sviluppo della produ­ zione capitalistica tendono a ridurre la grandezza relativa del capitale variabile e del fondo di consumo dei capitalisti (anche se in assoluto essi crescono). Si può perciò dire che lo sviluppo della produzione riduce il consumo [corsivo di Bulgakov], In tal modo, le condizioni della produzione e quelle del consumo sono in contrasto reciproco. L ’allarga­ mento della produzione non può compiersi e non si compie ai fini del consumo. Ma quest’allargamento è una legge in­ terna fondamentale della produzione capitalistica, che assu­ me di fronte ad ogni singolo capitalista la forma del ferreo comandamento della concorrenza. La via d ’uscita da questa contraddizione è data dal fatto che la stessa produzione al-

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largantesi rappresenta il mercato per le quantità supple­ mentari di prodotti. “ Il contrasto interno è risolto dall’al­ largamento del campo esterno della produzione” . [D as Ka­ pital, libro I II, p. 189. Qui Bulgakov cita una frase marxia­ na capovolgendone il senso, come vedremo piu oltre]. Co­ me ciò sia possibile l’abbiamo mostrato sopra [Bulgakov allude all’analisi dello schema della riproduzione allargata]. La maggior parte di questo allargamento compete eviden­ temente alla sezione I, cioè alla produzione del capitale co­ stante, e solo in parte (relativamente) minore alla sezione II, che produce beni per il consumo diretto. In questo spo­ stamento nel rapporto fra le sezioni I e II si rivela con suf­ ficiente chiarezza il ruolo sostenuto dal consumo nella so­ cietà capitalistica, ed è indicato dove sia da cercare il piu importante sbocco delle merci capitalistiche» ’... «Anche in questi ristretti limiti [dell’interesse del profitto e delle cri­ si], anche per questo cammino di spine, la produzione capi­ talistica riesce ad allargarsi illimitatamente, prescindendo e anche a dispetto della diminuzione del consumo. Nella let­ teratura russa si parla spesso dell’impossibilità di un note­ vole aumento della produzione capitalistica senza mercati esteri, e ciò in rapporto alla restrizione del consumo. Il ruo­ lo del consumo nella società capitalistica è qui interpretato in modo del tutto erroneo. Si dimentica che il consumo non è il fine della produzione capitalistica, che quest’ultima esi­ ste non grazie all’aumento del consumo, ma all’allargamento del campo esterno della produzione, costituente appunto il mercato dei prodotti capitalistici. La soluzione dell’im­ possibile compito di trovare i mezzi per allargare il consu­ mo che il modo di produzione capitalistico tende a ridurre, ha occupato tutta una schiera di studiosi della scuola di Malthus, insoddisfatti della superficiale teoria delle armo­ nie di Ricardo-Say. Solo Marx ha dato l’analisi della realtà di questo rapporto: egli ha mostrato che l’aumento del con­ sumo rimane fatalmente indietro rispetto all’aumento della produzione, per quante “ terze persone ” si trovino. Ne se-

1 s . b u l g a k o v , Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, p. 161.

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gue che il consumo e la sua ampiezza non possono in alcun modo fungere da limiti immediati all’aumento della produ­ zione. La produzione capitalistica paga il suo allontanamen­ to da questo vero scopo della produzione con una serie di crisi, ma è indipendente dal consumo. L ’allargamento della produzione trova i suoi limiti solo nell’ampiezza del capita­ le e dipende esclusivamente da questa» '. Qui la teoria di Bulgakov e di Tugan-Baranovskij viene affibbiata direttamente a Marx, tanto ai marxisti russi sem­ brava discendere logicamente e inserirsi organicamente nel­ la dottrina del maestro. Ancor piu esplicitamente Bulgakov la formula, come diretta derivazione dello schema marxia­ no della riproduzione allargata, in un altro passo. Una volta impostosi in un paese il modo di produzione capitalistico, il suo movimento interno comincia a svolgersi secondo il se­ guente schema: «L a produzione del capitale costante for­ ma la sezione I della riproduzione sociale, che inaugura un’autonoma domanda in mezzi di consumo nei limiti del proprio capitale variabile e del fondo di consumo dei pro­ pri capitalisti. Da parte sua, la sezione II inaugura una do­ manda di prodotti I. In tal modo, già all’inizio della produ­ zione capitalistica si determina un circolo chiuso, in cui la produzione capitalistica non dipende da alcun mercato este­ ro, ma basta a se stessa, ed entro il quale è in grado di al­ largarsi, per cosi dire, automaticamente grazie all’accumu­ lazione» 12. E altrove: « L ’unico mercato per i prodotti della produzione capitalistica è questa produzione medesima»3. L ’ardimento di questa teoria, divenuta in mano ai mar­ xisti russi l ’arma fondamentale contro i loro avversari, gli scettici populisti, nella questione dei mercati di sbocco, può essere misurato appieno solo rendendosi conto dello stupe­ facente contrasto in cui si trova con la pratica quotidiana, con tutti i fatti e le realtà note dell’economia capitalistica. Non basta: la teoria merita tanto piu di essere ammirata in quanto questa presunta e sbandierata «verità marxista» ri-

1 S. bulgakov , Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, p. 167. 2 Ibid.y p. 210 [corsivo della Luxemburg]. 3 Ibid, yp. 238.

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posa su un semplice, fondamentale quiproquo. Ma di que­ sto parleremo a lungo a proposito di Tugan-Baranovskij. Sul fraintendimento dei rapporti fra consumo e produ­ zione nella società capitalistica Bulgakov erige l’edificio di un’assurda teoria del commercio estero. In realtà, in una si­ mile concezione del processo di riproduzione non c’è posto per il commercio estero. Se in ogni paese il capitalismo, fin dall’inizio del suo sviluppo, costituisce un «cerchio chiuso» e in esso gira come un gatto che rincorre la sua coda, «b a­ stando a se stesso», fungendo illimitatamente da sbocco a se stesso e da pungolo al proprio continuo allargamento, in tal caso ogni paese capitalistico è un tutto chiuso e «auto­ sufficiente». Solo in un caso il commercio estero sarebbe comprensibile: come mezzo per coprire con merci estere il naturale deficit di un paese in determinati prodotti del suo­ lo e del clima, come forzata importazione di materie prime o mezzi di sussistenza. In realtà, Bulgakov, capovolgendo la tesi dei populisti, costruisce una teoria del commercio in­ ternazionale degli stati capitalistici, in cui l’importazione di prodotti agricoli è l’elemento attivo dominante e l’esporta­ zione industriale solo la inevitabile copertura di quest’im­ portazione. Lo scambio internazionale delle merci appare qui fondato non nella natura stessa del modo di produzio­ ne, ma nelle condizioni naturali dei singoli paesi - teoria, comunque, presa a prestito non certo da Marx ma dai teo­ rici tedeschi dell’economia politica borghese. Come Struve deriva da Wagner e Schäffle il suo schema dei tre imperi mondiali, cosi Bulgakov accetta dalla buon’anima di List la divisione dei paesi secondo lo «stato di agricoltura» e lo «stato di agrieoiturmanifattura» ch’egli modifica, in confor­ mità ai tempi, in «manifattura» e «agrieoiturmanifattura». La prima categoria è condannata dalla natura a una defi­ cienza di materie prime e mezzi di sussistenza propri, e per­ ciò orientata verso il commercio estero; la seconda è forni­ ta di tutto per natura e può infischiarsene del commercio estero. Esempio tipico della prima l’Inghilterra, della secon­ da gli Stati Uniti. Per l’Inghilterra, il tramonto del com­ mercio estero significherebbe l’agonia economica e la mor­ te, per gli Stati Uniti solo una crisi passeggera con guari-

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gione assicurata: «L a produzione può qui allargarsi indefi­ nitamente sulla base del mercato interno» Questa teoria, che costituisce una degna filiazione dell’economia politica tedesca, non ha il minimo senso degli intrecci mondiali del­ l’economia capitalistica, e riconduce gli odierni scambi in­ ternazionali suppergiù ai termini dell’epoca dei fenici. An­ che il professor Bücher pontifica: « È un errore concludere che lo sviluppo raggiunto dal commercio internazionale nel­ l’epoca liberistica conduca al tramonto dell’economia na­ zionale e alla sostituzione ad essa di un’economia mondia­ le... Certo, esistono oggi in Europa una serie di stati che mancano di autonomia nazionale nel rifornimento di be­ ni, in quanto sono costretti a derivare dall’estero notevoli quantità di mezzi alimentari e di lusso, mentre la loro capa­ cità industriale si è sviluppata ben oltre i limiti del fabbiso­ gno interno e fornisce continue eccedenze che devono tro­ vare sbocco in zone di consumo straniere. Ma la coesistenza di paesi industriali e produttori di materie prime orientati gli uni verso gli altri, questa “ divisione internazionale del lavoro” , non significa che l ’umanità stia per salire un nuo­ vo gradino del suo sviluppo da contrapporre ai precedenti col nome di economia mondiale... Infatti, da una parte, nessuna fase economica ha mai stabilmente garantito una piena autonomia nella soddisfazione dei bisogni, tutte la­ sciarono aperte... determinate lacune da colmare in un mo­ do o nell’altro; dall’altra, almeno fino ad oggi, quella famo­ sa economia mondiale non ha mai manifestato fenomeni che divergano per sostanziali caratteri da quelli dell’econo­ mia nazionale, ed è molto dubbio che ne manifesti nel pros­ simo avvenire»12. In Bulgakov, comunque, da questa conce­ 1 s. bulgakov , Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, p. 199. 2 K. Bü ch er , Entstehung der Volkswirtschaft, ÿ ed., p. 147. La più re­ cente impresa in questo campo è la teoria del professor Sombart, secondo cui, lungi dallo svolgerci nel senso di un’economia mondiale, ce ne allonta­ niamo sempre più. «I popoli civili, sostengo io, sono oggi (in rapporto al complesso della loro economia) non piu ma meno reciprocamente collegati da relazioni commerciali. L’economia nazionale non è piu ma meno inserita nel mercato mondiale, che cento o cinquant’anni addietro. Comunque... è almeno falso credere che i rapporti commerciali internazionali assumano per l’economia moderna un’importanza relativamente crescente. Il contrario è

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zione deriva una conclusione inattesa: la sua teoria della capacità sconfinata di sviluppo del capitalismo si limita a determinati paesi con favorevoli condizioni naturali. In In­ ghilterra, il capitalismo è destinato in un tempo piu o meno breve a crollare per l’esaurimento del mercato mondiale; negli Stati Uniti, in India e... in Russia gli arride uno svi­ luppo illimitato grazie all’«autosufficienza». Ma, a parte così evidenti stranezze, l’argomentazione di Bulgakov nasconde, in rapporto al problema del commer­ cio estero, un fondamentale equivoco. L ’argomento centra­ le di Bulgakov contro gli scettici da Sismondi fino a Nikolaj-on, i quali ritenevano, per la realizzazione del plusvalo­ re capitalistico, di dover chiamare in aiuto il mercato estero di sbocco, si riduce a questo: tutti quei teorici considerano il commercio estero come un «abisso senza fondo» in cui l’eccedenza della produzione capitalistica inesitabile all’in­ terno sparirebbe senza mai piu possibilità di riapparire. Per contro, Bulgakov dimostra trionfalmente che il commercio estero non è affatto un «abisso» e tanto meno «senza fon­ do», che costituisce una spada a doppio taglio e che espor­ tazione e importazione si rimandano l’una all’altra equili­ brandosi, per cui ciò eh’è spinto fuori attraverso una fron­ tiera viene risospinto dentro dall’altra sia pure in forma d’uvero». Sombart si scaglia con sdegno contro l’ipotesi di una crescente divi­ sione internazionale del lavoro, di un crescente bisogno di mercati esteri di sbocco non essendo il mercato interno passibile di allargamento, ed è con­ vinto che «le singole economie nazionali diventino sempre piu completi microcosmi, e che per tutte le attività produttive il mercato interno superi sempre piu in importanza il mercato mondiale» (Die deutsche Volkswirt­ schaft im neunzehnten Jahrhundert, 2* ed., 1909, pp. 399-420). Questa mi­ rabolante scoperta presuppone naturalmente che si accetti il bizzarro schema elaborato dal professore secondo cui, non si sa bene perché, paese esporta­ tore è solo quello che paga le sue importazioni con l’eccedenza di prodotti agricoli sopra il fabbisogno proprio. Secondo questo schema, Russia, Rumenia, Stati Uniti, Argentina, sono «paesi esportatori»; Germania, Inghilterra e Belgio no! E poiché presto o tardi l’evoluzione capitalistica dovrà assorbire l’eccedenza di prodotti agricoli, ai fini del fabbisogno interno, anche in Rus­ sia e negli Stati Uniti, il numero dei «paesi esportatori» va sempre piu ridu­ cendosi e l’economia mondiale sparisce. Un’altra scoperta di Sombart è che i grandi paesi capitalistici non «esportatori» ricevono le loro importazioni sempre pili «gratuitamente», come interessi sui capitali esportati. Ma per il professor Sombart neppur l’esportazione di capitali conta: «Giungeremo col tempo a importare senza esportare» (ibid., p. 422). Moderno, sensazionale e spiritoso!

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so diversa. «Per le merci importate che rappresentano l’e­ quivalente delle esportate, bisogna trovare un posto nei confini del mercato di sbocco dato, e siccome posto non c’è, il ricorso allo sbocco estero non fa che portarsi dietro nuo­ ve difficoltà» ’. E, in un altro passo, dice che la via di scam­ po trovata dai populisti russi per la realizzazione del plus­ valore (i mercati esteri) è «molto meno felice di quella già trovata da Malthus, v. Kirchmann e dallo stesso Voroncov come autore dello scritto su militarismo e capitalismo » 12. Si vede qui chiaramente come Bulgakov, pur con tutti i suoi entusiastici richiami agli schemi marxiani della riproduzio­ ne, non abbia capito il problema in cui gli scettici da Sismondi a Nikolaj-on si sono dibattuti invano: rigetta il commercio estero come via di uscita alla difficoltà perché questo reimporta nel paese, «sia pure in diversa forma d ’u­ so», il plusvalore collocato. Crede dunque, d ’accordo con l’impostazione difettosa di v. Kirchmann e Voroncov, che si tratti di estinguere, di cancellare dalla faccia della terra una certa quantità di plusvalore; non capisce che si tratta della realizzazione, della metamorfosi in merci, cioè appun­ to della «forma diversa» del plusvalore. Così Bulgakov approda, sebbene per altra via, allo stesso scalo di Struve: proclama l’autosufficienza dell’accumula­ zione capitalistica, che divorerebbe i suoi prodotti come Cronos i suoi figli e rinascerebbe da sé sempre piu vigorosa. Bastava un passo per un ritorno dal marxismo all’economia borghese. Questo passo l’ha felicemente compiuto TuganBaranovskij. 1 s. bulgakov , Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica. Uno studio teorico, p. 132. 2 Ibid., p. 238. In forma anche piu decisa questa tesi è formulata da V. ITin: «Il romantico [cioè lo scettico] dice: I capitalisti non possono consumare il plusvalore e quindi debbono smerciarlo all’estero. Si chiede: I capitalisti cedono gratuitamente i loro prodotti agli stranieri oppure li but­ tano a mare? Essi vendono, ossia ricevono un equivalente: esportano alcuni prodotti, ossia ne importano altri» (Le caratteristiche del romanticismo eco­ nomico, p. 26 [trad, it.: Opere, Rinascita, 1957, p. 151]). Quanto al resto, ITin dà una spiegazione del ruolo del commercio estero nella produzione capitalistica ben piu giusta che Struve e Bulgakov.

CAPITOLO V EN TIT R E ESIM O LA «SP R O P O R Z IO N A LIT À » D EL SIG. TUGAN-BARANOVSKIJ

Studiamo per ultimo questo teorico - sebbene abbia for­ mulato in russo le sue concezioni già nel 1894, prima di Struve e Bulgakov - sia perché solo in seguito doveva svol­ gere completamente le sue tesi in lingua tedesca (Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, 1901; Theoretische Grundlagen des Marxismus, 1905), sia perché ha tratto dalle premesse comuni dei sunnominati critici marxisti le conseguenze estreme. Anche Tugan-Baranovskij parte, come Bulgakov, dall’a­ nalisi marxiana della riproduzione sociale. Anche lui trova in quest’analisi la chiave per aprirsi una via nel groviglio dei problemi. Mentre però Bulgakov, come discepolo entu­ siasta della teoria marxiana, non si sforza che di svolgerla fedelmente, e attribuisce al maestro le conclusioni cui giun­ ge, Tugan-Baranovskij rinfaccia a Marx di non aver saputo utilizzare a fondo la sua brillante analisi del processo di riproduzione. La piu importante conclusione generale cui Tugan arriva in base alle proposizioni marxiane, e che consi­ dera la pietra angolare della sua teoria, è che l’accumulazio­ ne capitalistica, contrariamente a quanto pensano gli scetti­ ci, non solo è possibile nelle forme capitalistiche del reddito e del consumo, ma è del tutto indipendente da questi. Non il consumo ma la produzione stessa è il suo mercato di sboc­ co. Produzione e sbocco, perciò, si identificano e, l’allarga­ mento della produzione essendo illimitato, è illimitata an­ che la capacità di assorbimento dei suoi prodotti, lo sbocco. «G li schemi qui riprodotti dovrebbero dimostrare all’evi­ denza il concetto fondamentale, in sé elementarissimo, ma inafferrabile per chi abbia una nozione insufficiente del pro-

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cesso di riproduzione del capitale sociale, che la produzione capitalistica è il suo proprio mercato. Se è possibile allarga­ re la produzione sociale, se le forze produttive bastano a ta­ le scopo, anche la domanda subirà, data una divisione pro­ porzionale della produzione sociale, un corrispondente al­ largamento, perché in queste condizioni ogni nuova merce prodotta rappresenta un nuovo potere d ’acquisto per altre merci. Dal confronto fra la riproduzione semplice del capi­ tale sociale e la sua riproduzione su scala allargata si può trarre la conclusione importantissima che nell’economia ca­ pitalistica la domanda di merci è in certo senso indipenden­ te dall’ampiezza complessiva del consumo sociale: l’am­ montare totale del consumo sociale può diminuire e, per quanto assurdo ciò possa apparire dal punto di vista del “ sano buonsenso” , crescere la domanda sociale complessi­ va di merci» ‘. E piu oltre: «A l termine della nostra analisi astratta del processo della riproduzione del capitale sociale è risultato che, data una divisione proporzionale della pro­ duzione sociale, non può esservi produzione sociale ecce­ dente» 12. Partendo da questa premessa, Tugan rivede la teo­ ria marxiana delle crisi, che si fonderebbe sulla sismondiana teoria del «sottoconsumo»: « L ’opinione diffusa, e ac­ cettata fino a un certo punto anche da Marx, che la miseria dei lavoratori, costituenti la grande maggioranza della po­ polazione, rende impossibile per mancanza di richiesta la realizzazione dei prodotti della sempre crescente produzio­ ne capitalistica, è da ritenersi errata. Abbiamo visto che la produzione capitalistica costituisce il suo proprio mercato; il consumo non è se non un aspetto della produzione capi­ talistica. Se la produzione sociale fosse organizzata secondo un piano, se i dirigenti della produzione avessero una cono­ scenza piena della domanda e la forza di trasferire libera­ mente il lavoro e il capitale da un ramo di produzione al­ l’altro, l’offerta di merci, per quanto piccolo fosse il consu­ mo sociale, potrebbe non superare la dom anda»3. La ragio­ 1 Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, p. 23. 2 Ibid., p. 34. 3 Ibid., p. 33.

« SPROPORZIONALITÀ» DI TUGAN-BARANOVSKIJ

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ne della periodica saturazione del mercato è la mancanza di proporzionalità nelPallargamento della produzione. Il moto dell’accumulazione capitalistica, date queste premesse, si configura cosi: «Che cosa... produrrebbero... gli operai, da­ ta una divisione proporzionale della produzione? Evidente­ mente, i loro mezzi di sussistenza e i mezzi di produzione. Ma a che cosa servirebbero questi? All’allargamento della produzione nell’anno successivo. Della produzione di quali prodotti? Ancora una volta, dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza degli operai, e così all’infinito» ‘. Que­ sto gioco di domande e risposte non è, a guardar bene, che una continua presa in giro di se medesimo; ma Tugan fa sul serio. Ne vengono infinite prospettive di accumulazione del capitale: «Se... l’allargamento della produzione non ha pra­ ticamente limiti, dobbiamo anche ritenere senza limiti l ’al­ largamento del mercato, giacché, data una divisione pro­ porzionale della produzione sociale, all’allargamento del mercato non si oppongono altri limiti che non siano le for­ ze produttive di cui la società dispone»12. E poiché la produzione è sbocco a se stessa, anche il com­ mercio estero degli stati capitalistici assume lo stesso ruolo meccanico che abbiamo già imparato a conoscere in Bulga­ kov. Ad esempio, per l’Inghilterra il mercato estero di sboc­ co è assolutamente necessario. «Non dimostra forse ciò che la produzione capitalistica crea un prodotto eccedente per il quale non c’è posto sul mercato interno? Perché l’Inghil­ terra ha bisogno di un mercato estero? La risposta non è difficile. Perché una notevole parte del potere d ’acquisto in­ glese è spesa nell’acquisto di merci estere. L ’importazione di merci estere per il mercato interno rende anche assolutamente necessaria l ’esportazione di merci inglesi verso il mer­ cato estero. Non potendo l’Inghilterra fare a meno dell’im­ portazione, l’esportazione è per lei una condizione di vita, altrimenti non avrebbe la possibilità di pagare le sue impor1 Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, p. 191. 2 Ibid., p. 231 (corsivo nell’originale).

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tazioni»1. Anche qui, dunque, l’importazione agricola di­ venta il fattore stimolante decisivo; anche qui troviamo la divisione dei paesi in due categorie, «d i tipo agricolo e di tipo industriale», predestinate per natura a reciproci scam­ bi —proprio come nello schema dei professori tedeschi. Come si dimostra l ’ardita soluzione del problema dell’ac­ cumulazione in Tugan-Baranovskij, che getta a sua volta nuova luce sul problema delle crisi? Non lo si crederebbe, ma la dimostrazione si riduce ad un richiamo allo schema marxiano della riproduzione allargata. Ni plus ni moins. Tugan-Baranovskij parla bensì in piu luoghi, con fierezza, della sua «analisi astratta del processo di riproduzione del capitale sociale», della «logica imperiosa» della sua anali­ si; ma questa si limita alla trascrizione dello schema mar­ xiano, solo con altre cifre. Ora, nello schema marxiano, accumulazione, produzione, realizzazione, scambio, ripro­ duzione filano via lisci, e l’accumulazione può essere conti­ nuata ad infinitum - finché vi sono carta e inchiostro a suf­ ficienza. Quest’innocua esercitazione a base di formule arit­ metiche, Tugan-Baranovskij la presenta serio serio come la dimostrazione che così le cose vanno anche nella realtà. « I suddetti schemi dovrebbero provare all’evidenza...» E al­ trove, discutendo della tesi di Hobson sull’impossibilità del­ l’accumulazione: «Lo... schema n. 2 della riproduzione del capitale sociale su scala allargata corrisponde al caso tratta­ to da Hobson dell’accumulazione del capitale. Ora, forse che in questo schema si vede nascere un prodotto ecceden­ te? Per n u lla!»2. Dunque, siccome «nello schema» nessun prodotto eccedente si forma, Hobson è sbaragliato, e la fac­ cenda liquidata. Invero, Tugan-Baranovskij sa benissimo che nella realtà cruda le cose non vanno tanto lisce. Nello scambio si verifi­ cano continue oscillazioni e crisi. Ma le crisi intervengono solo perché non si è osservata alcuna proporzionalità nell’allafgamento della produzione, perché non ci si è preven­ 1 Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, p. 3$. 2 Ibid., p. 191.

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tivamente attenuti alle proporzioni dello «schema n. 2». Se ci si regolasse in base ad esso, non vi sarebbero crisi e tutto filerebbe, nella produzione capitalistica, come sulla carta. Ora, considerando il processo di riproduzione nel suo insie­ me come un processo continuo, si può ben prescindere dal­ le crisi. La «proporzionalità» può andare ogni momento a carte quarantotto, ma nella media delle congiunture, attra­ verso oscillazioni di prezzi e crisi, la «proporzionalità» vie­ ne periodicamente ristabilita. Che nell’insieme, bene o ma­ le, essa si conservi, lo dimostra d ’altronde il fatto che l’eco­ nomia capitalistica permane e si sviluppa; altrimenti, avremmo da tempo avuto il caos e un crollo finale. In media, nel risultato finale, la proporzionalità di Tugan resta in pie­ di; dal che si deduce che la realtà si regola sullo «schema n. 2». E poiché lo schema può essere svolto all’infinito, an­ che l’accumulazione del capitale può continuare ad infini­ tum. Quel che stupisce non è il risultato al quale Tugan-Baranovskij giunge, cioè la convinzione che lo schema corrispon­ da realmente al corso delle cose (abbiamo già visto che an­ che Bulgakov lo credeva), ma il fatto che Tugan non riten­ ga neppure per un momento necessario chiedersi se lo sche­ ma funziona; che, invece di dimostrare lo schema, conside­ ri, inversamente, l’esercitazione aritmetica sulla carta come la dimostrazione che le cose si svolgono così nella realtà. Bulgakov si era degnamente sforzato di proiettare lo sche­ ma marxiano nei rapporti reali, concreti, dell’economia e dello scambio capitalistici; aveva cercato di sbrogliare la matassa di difficoltà che ne nascono - tentativo riuscito va­ no e conclusosi nell’accettazione di un’analisi ch’egli stes­ so aveva chiaramente considerato incompiuta. Tugan-Baranovskij non ha bisogno di prove, non si rompe la testa: poi­ ché le proporzioni aritmetiche filano e possono essere con­ tinuate all’infinito, basta questo fatto a dimostrare che l’ac­ cumulazione capitalistica - sempre premessa una cosciente «proporzionalità» che però, come lo stesso Tugan ricono­ sce, prima o poi si realizza - può svolgersi parimenti all’in­ finito e senza soste. Una dimostrazione indiretta che lo schema, con le sue

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strane risultanze, corrisponde alla realtà di cui sarebbe dun­ que lo specchio fedele, Tugan-Baranovskij l ’ha tuttavia da­ ta. Ed è il fatto che nella società capitalistica, in piena ar­ monia con lo schema, il consumo umano viene dopo la pro­ duzione, quello essendo considerato come mezzo, questa come fine, mentre il lavoro umano è messo alla pari del «la­ voro » della macchina : « Il progresso tecnico si esprime nel fatto che l’importanza del mezzo di lavoro, della macchina, cresce continuamente in confronto al lavoro vivo, al lavora­ tore. I mezzi di produzione giocano un ruolo sempre mag­ giore nel processo di produzione e sul mercato. Il lavorato­ re passa in secondo piano di fronte alla macchina, e corri­ spondentemente passa in secondo piano, rispetto alla do­ manda originatasi dal consumo produttivo di mezzi di pro­ duzione, la domanda originata dal consumo dei lavoratori. L ’intero meccanismo della economia capitalistica assume il carattere di qualcosa di esistente per sé, in cui il consumo umano appare come semplice momento del processo di riproduzione e circolazione del capitale» Questa scoperta è considerata da Tugan come la legge fondamentale del mo­ do economico capitalista, e lo conferma un fenomeno pal­ mare: man mano che lo sviluppo capitalistico procede, la sezione mezzi di produzione cresce in confronto alla sezio­ ne mezzi di consumo, e sempre piu a sue spese. Questa leg­ ge è stata, notoriamente, stabilita dallo stesso Marx e su di essa si basa la sua rappresentazione schematica della ripro­ duzione, sebbene Marx non abbia, per ragioni di semplici­ tà, analizzato in cifre gli spostamenti che ne provengono nell’ulteriore sviluppo dello schema. Qui, comunque, nel­ l ’aumento automatico della sezione mezzi di produzione in confronto alla sezione mezzi di consumo, Tugan-Baranov­ skij ha trovato l’unica dimostrazione obiettiva della sua teo­ ria che, nella società capitalistica, il consumo umano perde sempre piu importanza e la produzione diventa sempre piu scopo a sé. Ne fa, anzi, la pietra angolare del suo edificio teorico. « In tutti gli stati industriali —scrive —lo stesso fe-1 1 Studien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England,

Jena 1901, p. 27.



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nomeno ci si presenta: ovunque lo sviluppo dell’economia nazionale segue questa fondamentale legge. L ’industria mi­ neraria, che produce i mezzi di produzione per la moderna industria, passa sempre piu in primo piano; la relativa ca­ duta dell’esportazione dei prodotti finiti inglesi destinati al consumo diretto esprime anche la legge fondamentale del­ l’evoluzione capitalistica: quanto piu progredisce la tecni­ ca, tanto piu i mezzi di consumo cedono il passo ai mezzi di produzione. Il consumo umano gioca un ruolo sempre mi­ nore di fronte al consumo produttivo dei mezzi di produ­ zione» '. Ma, per quanto abbia dedotto direttamente da Marx que­ sta «legge fondamentale» (come del resto tutte le sue «fon­ damentali» idee), Tugan-Baranovskij non se ne appaga, e procede a dar lezioni a Marx con la saggezza da lui impa­ rata. Marx ha trovato una perla, ma non sa che farne; solo Tugan-Baranovskij ha saputo far fruttare per il bene della scienza la sua «fondamentale» scoperta; nelle sue mani, la legge scoperta illumina di colpo l’intero meccanismo dell’e­ conomia capitalistica; è in questa legge dell’aumento della sezione mezzi di produzione a spese della sezione mezzi di consumo che si esprime nettamente, esattamente, in modo misurabile, il fatto che per la società capitalistica il consumo umano perde sempre piu d ’importanza, che per essa l’uomo è identificato allo strumento di produzione, che perciò Marx ha commesso un errore fondamentale a credere che solo l’uomo crei plusvalore e non anche la macchina, che il con­ sumo umano rappresenti un ostacolo per la produzione ca­ pitalistica col risultato di periodiche crisi oggi e del crollo finale dell’economia capitalistica domani. In breve, nella «legge fondamentale» dell’aumento dei mezzi di produzio­ ne a spese dei mezzi di consumo si riflette la società capita­ listica nel suo insieme e nella sua natura specifica, cosa che Marx non ha compreso e che Tugan-Baranovskij ha final­ mente e felicemente stabilito. Abbiamo già visto quale ruolo decisivo la suddetta «leg­ ge fondamentale» capitalistica giochi nella controversia fra 1 Studiert zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, p. 38.

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i marxisti russi e gli scettici. Conosciamo la tesi di Bulga­ kov. Non diversamente si esprime un altro marxista nella sua polemica coi «populisti», il già citato V. Il'in: « È noto che la legge di sviluppo del capitalismo consiste appunto nel fatto che il capitale costante cresce piu rapida­ mente di quello variabile, ossia una parte sempre maggiore dei capitali di nuova formazione viene indirizzata verso il settore dell’economia sociale che produce mezzi di produ­ zione e quindi questo settore deve svilupparsi piu rapida­ mente di quello che produce mezzi di consumo; avviene cioè quello che Sismondi ha dichiarato “ impossibile” , “ pe­ ricoloso” ecc. Di conseguenza, nel volume complessivo del­ la produzione capitalistica i prodotti per il consumo indivi­ duale occupano un posto sempre minore. Ciò corrisponde pienamente alla “ missione” storica del capitalismo e alla sua specifica struttura sociale: la prima consiste appunto nello sviluppo delle forze produttive della società (produ­ zione per la produzione) ; l’altra esclude la loro utilizza­ zione da parte della massa della popolazione» ’. Naturalmente, anche qui, Tugan-Baranovskij va piu avanti di tutti. Nel suo vezzo dei paradossi, egli si diverte a dare la prova matematica che l’accumulazione del capitale e l’allargamento della produzione sono possibili anche con una riduzione assoluta del consumo. E qui Kautsky lo accu­ sa di avere, con manovra tutt’altro che scientifica, ritaglia­ to la sua tesi ardita su un momento specifico, quello del pas­ saggio dalla riproduzione semplice all’allargata, che è teo­ ricamente concepibile solo come eccezione, ma praticamen­ te da non considerarsi12. 1 Vladimir il' in, Le caratteristiche del romanticismo economico, p. 20 [trad, it.: Opere, Rinascita, Roma 1957, p. 144]. È dello stesso autore l’affermazione che la riproduzione allargata comincia solo col capitalismo. Il'in non ha osservato che, con la riproduzione semplice da lui elevata a legge di tutti i modi di produzione precapitalistici, probabilmente oggi non saremmo piu innanzi del raschietto paleolitico. 2 In «D ie Neue Zeit», anno xx, 2, Krisentheorien, p. 116. Se Kautsky, sviluppando lo schema della riproduzione allargata, dimostra in cifre a Tu­ gan-Baranovskij che il consumo deve necessariamente aumentare, e precisamente «nella stessa misura della massa di valore dei mezzi di produzione», due osservazioni sono necessarie. Primo: Kautsky, come del resto anche Marx nel suo schema, non tiene conto del progresso nella produttività del lavoro, grazie al quale il consumo appare relativamente maggiore di quanto

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Per quanto riguarda la «legge fondamentale» di TuganBaranovskij, Kautsky la considera una pura apparenza deri­ vante dal fatto che Tugan prende in considerazione solo la forma della produzione negli antichi paesi a grande indu­ stria capitalistica: « È esatto - scrive Kautsky - che il nunon corrisponda alla realtà. Secondo: l ’aumento del consumo, al quale Kaut­ sky si riferisce, è a sua volta non base e fine della riproduzione allargata ma sua conseguenza, e deriva essenzialmente dall’aumentato capitale variabile, dal crescente impiego di nuovi lavoratori. Ma il mantenimento di questi la­ voratori non può essere considerato fine e compito dell’allargamento della riproduzione, come non può esserlo d’altronde il crescente consumo perso­ nale dei capitalisti. Le osservazioni di Kautsky demoliscono dunque il gio­ chetto di Tugan consistente nel costruire una riproduzione allargata nel qua­ dro di una diminuzione assoluta del consumo, ma non toccano la questione fondamentale dei rapporti fra produzione e consumo dal punto di vista del processo di riproduzione. È vero che in altra parte dello stesso articolo si legge: « I capitalisti e i lavoratori da essi sfruttati costituiscono un mercato dei prodotti di consumo della grande industria capitalistica, che, se cresce continuamente con l’aumento della ricchezza dei primi e del numero dei se­ condi, non cresce però con la stessa rapidità dell’accumulazione del capitale e della produttività del lavoro, e perciò non basta per se stesso a smaltirli. I mezzi di consumo di cui sopra devono perciò trovare un mercato supple­ mentare fuori del proprio raggio, nelle professioni e nelle nazioni non-capitalistiche. Questo mercato essi lo trovano e lo dilatano sempre piu, ma non con la rapidità che sarebbe necessaria. Infatti questo mercato addizionale non possiede minimamente l’elasticità e capacità di allargamento propria del processo di produzione capitalistico. Appena la produzione capitalistica è divenuta una grande industria sviluppata, com’è accaduto in Inghilterra già nel primo quarto del secolo xix, le si rende possibile un allargamento tal­ mente vertiginoso, che ben presto supera di gran lunga l ’allargamento del mercato. Perciò ogni periodo di prosperità seguito ad un sensibile allarga­ mento del mercato è destinato in partenza a breve vita, e sua fine inevitabile è la crisi. Questa, a grandi tratti, la teoria delle crisi fondata da Marx e ac­ cettata in generale dai marxisti “ ortodossi” » (ibid., p. 80). Ma Kautsky non si preoccupa di conciliare questa concezione della realizzazione del pro­ dotto totale con lo schema della riproduzione allargata in Marx, forse per­ ché, come dimostra anche la citazione, affronta il problema sotto il puro an­ golo visuale delle crisi, cioè dal punto di vista del prodotto sociale come massa indifferenziata di merci nella loro quantità complessiva, invece che da quello della sua articolazione nel processo di riproduzione. A quest’ultimo problema sembra avvicinarsi L. Boudin nella sua brillan­ te critica di Tugan-Baranovskij: «Il sovraprodotto generato nei paesi capita­ listici non ha - con qualche eccezione citata più avanti - frenato nel loro moto gli ingranaggi della produzione non perché questa sia stata più abil­ mente distribuita nelle diverse sfere o perché dalla produzione di cotonate si sia passati a una produzione di macchine, ma perché, in base al fatto che alcuni paesi si sono evoluti in senso capitalistico prima di altri e anche oggi ne rimangono che non hanno subito tale evoluzione, i paesi capitalistici han­ no un mondo esterno in cui possono gettare i prodotti da loro non consuma­ bili, sia che si tratti di cotonate o di articoli in ferro. Con ciò non si vuol dire che il passaggio dalla produzione di cotonate a quella di prodotti side-

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mero dei luoghi di produzione degli articoli per il consumo personale diretto diminuisce relativamente sempre piu, con la crescente divisione del lavoro, rispetto ai luoghi di pro­ duzione degli attrezzi, delle macchine, delle materie prime, dei mezzi di trasporto ecc. Mentre nell’originaria economia contadina, il lino veniva lavorato con utensili propri dalla stessa azienda che lo produceva e trasformato in prodotto finito per il consumo umano, oggi alla produzione di una camicia partecipano forse centinaia di aziende, che produ­ cono il cotone grezzo, fabbricano i binari, le locomotive, i vagoni che lo trasferiscono al porto d ’imbarco ecc.»... «D a­ ta la divisione internazionale del lavoro, avviene che singo­ li paesi - gli antichi paesi industriali - possono estendere ormai solo lentamente la propria produzione per il consu­ mo personale, mentre la produzione di mezzi di produzione compie presso di loro progressi ancora rapidi ed è ben piti decisiva, per la pulsazione della loro vita economica, che la rurgici come merce dominante dei maggiori paesi capitalistici sia senza im­ portanza: al contrario. Ma è un’importanza del tutto diversa da quella che Tugan-Baranovskij le attribuisce. Essa mostra il principio della fine del ca­ pitalismo. Finché i paesi capitalistici esportavano merci per il consumo, il capitalismo in quei paesi aveva ancora qualche speranza: non ci si chiedeva quale ampiezza e durata potesse avere la capacità di assorbimento dei paesi non capitalistici in merci prodotte capitalisticamente. L ’aumento del peso dei prodotti metallurgici nell’esportazione dei principali paesi capitalistici a danno dei beni di consumo mostra che regioni un tempo estranee al capita­ lismo, e perciò fungenti da sbocco del suo plusprodotto, sono state assorbite nell’orbita del capitalismo e, sviluppando un’industria capitalistica locale, producono i beni di consumo a loro necessari. Oggi, trovandosi allo stadio iniziale della propria evoluzione capitalistica, hanno ancora bisogno delle macchine prodotte dalle antiche industrie capitalistiche, ma ben presto que­ sto bisogno cesserà, ed essi le produrranno allo stesso modo che hanno co­ minciato a produrre cotonate ed altri articoli di consumo. Allora, non sol­ tanto cesseranno di rappresentare un luogo di assorbimento del sovraprodotto dei paesi capitalistici veri e propri, ma produrranno a loro volta un sovraprodotto che ben difficilmente potranno consumare nel proprio ambito» (.Mathematische Formeln gegen Karl Marx, in «Die Neue Zeit», anno xxv, I, p. 604). Boudin affonda qui lo sguardo nei grandi intrecci dello sviluppo internazionale del capitalismo, e, piu avanti, affronta logicamente il proble­ ma dell’imperialismo. È un peccato che la sua analisi acuta scivoli verso la fine su un terreno falso, raggruppando l ’intera produzione bellica e il siste­ ma dell’esportazione internazionale dei capitali verso paesi non capitalistici sotto il concetto di «spreco». Importa d’altronde stabilire che tanto Boudin quanto Kautsky considerano la legge del pili rapido sviluppo della sezione mezzi di produzione in confronto alla sezione mezzi di consumo un errore di Tugan-Baranovskij.

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produzione di mezzi di consumo. Chi guardi perciò la que­ stione dal punto di vista del relativo paese, giunge facil­ mente alla conclusione che la produzione di mezzi di pro­ duzione possa crescere in modo duraturo piu rapidamente di quella dei mezzi di consumo, e non sia ad essa legata». Quest’ultima opinione, che la produzione di mezzi di produzione sia indipendente dal consumo, è, naturalmen­ te, un miraggio economico-volgare di Tugan-Baranovskij. Non cosi il fatto con cui crede di giustificare quell’assurdo: il piu rapido sviluppo della sezione mezzi di produzione in confronto a quella dei mezzi di consumo. Questo fatto è incontestabile, e non soltanto per gli antichi paesi indu­ striali, ma per tutti i paesi in cui il progresso tecnico domi­ na la produzione. Su di esso si fonda anche la legge fondamentale marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto. Tuttavia, o forse proprio perciò, è un grosso errore che Bulgakov, Il'in e Tugan-Baranovskij s’immaginino di aver svelato in questa legge la natura specifica dell’econo­ mia capitalistica come economia per la quale la produzione è fine in sé e il consumo umano è una questione secondaria. L ’aumento del capitale costante a spese del variabile non è se non l’espressione capitalistica degli effetti generali del­ la crescente produttività del lavoro. La formula c > v , tra­ dotta dal linguaggio capitalistico in quello del processo la­ vorativo sociale dice soltanto questo: che piu elevata è la produttività del lavoro umano, piu breve è il tempo in cui essa trasforma una certa quantità di mezzi di produzione in prodotti finiti '. È questa una legge generale del lavoro u-1 1 «Prescindendo da condizioni naturali, come la fertilità del suolo ecc., e dall’abilità di produttori indipendenti e isolati (che tuttavia si esprime piu qualitativamente nella bontà che quantitativamente nella massa dei prodot­ ti), il grado di produttività sociale del lavoro si esprime nell’ampiezza rela­ tiva dei mezzi di produzione che un lavoratore trasforma in un tempo dato, e con la stessa tensione della forza lavorativa, in prodotto. La massa dei mez­ zi di produzione coi quali egli funziona cresce con la produttività del suo la­ voro. I mezzi di produzione giocano qui un duplice ruolo. L ’aumento degli uni è conseguenza, l’aumento degli altri condizione della crescente produtti­ vità del lavoro. Per esempio, con la divisione manufatturiera del lavoro e l’impiego delle macchine, piu materie prime sono lavorate nello stesso tem­ po, e perciò una maggior massa di materie prime e sussidiarie entra nel pro­ cesso lavorativo - e questa è una conseguenza della crescente produttività del lavoro. D ’altra parte, la massa delle macchine impiegate, del bestiame da

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mano, eh’è stata valida sotto tutte le forme di produzione precapitalistiche come lo sarà in un ordinamento sociale so­ cialistico. Espressa nella forma materiale d ’uso del prodot­ to sociale totale, questa legge deve manifestarsi in un im­ piego sempre maggiore del tempo sociale di lavoro alla pro­ duzione di mezzi di produzione in confronto alla produzio­ ne di mezzi di consumo. Anzi, questo spostamento dovreb­ be, in un’economia organizzata socialisticamente e diretta secondo un piano collettivo, risultar piu rapido che nell’at­ tuale economia capitalistica. Anzitutto, l’uso della tecnica scientifica sarà possibile su scala piu vasta nell’agricoltura solo quando saranno superate le barriere della proprietà privata del suolo: ne verrà, su un largo campo produttivo, un rivoluzionamento che avrà per risultato generale Teliminazione su vasta scala del lavoro umano ad opera del lavoro meccanico, e l ’introduzione di metodi tecnici per i quali non esistono oggi le premesse. In secondo luogo, l’impiego del­ le macchine nel processo della produzione sarà posto su ba­ si economiche nuove. Oggi, la macchina entra in concorrenlavoro, dei concimi chimici, dei canali di drenaggio ecc. è condizione di una crescente produttività del lavoro. Lo stesso vale per la massa dei mezzi di produzione concentrati in fabbrica, forni, mezzi di trasporto ecc. Ma, conse­ guenza o condizione, la crescente ampiezza dei mezzi di produzione in con­ fronto alla forza di lavoro in essi incorporata esprime la crescente produtti­ vità del lavoro. L ’aumento di quest’ultima appare dunque nella diminuzio­ ne della massa di lavoro in proporzione alla massa di mezzi di produzione da essa azionati o nella diminuzione di grandezza del fattore soggettivo del pro­ cesso lavorativo in confronto ai suoi fattori obiettivi» (Das Kapital, libro I, p. 586 [sez. V II, cap. XXIII, 2]). E altrove: «Abbiamo già visto che, con lo sviluppo della produttività del lavoro, e perciò anche con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico - che sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro piu di tutti i precedenti modi di produzione - , la massa dei mez­ zi di produzione incorporati una volta per sempre nel processo sotto forma di mezzi di lavoro, e fungenti in esso per tempo pili o meno breve (fabbri­ cati, macchine ecc.), cresce costantemente, e il loro aumento è insieme pre­ messa e conseguenza dello sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro. L ’aumento non soltanto assoluto ma relativo della ricchezza in questa forma (cfr. libro I, cap. XXIII, 2) caratterizza prima di tutto il modo di produzio­ ne capitalistico. Le forme materiali di esistenza del capitale costante, i mez­ zi di produzione, non consistono però soltanto di tali mezzi di lavoro, ma anche di materie di lavoro ai pili diversi gradi di elaborazione e in materie ausiliarie. Col grado della produzione e l’aumento della forza produttiva del lavoro grazie alla cooperazione, divisione, meccanizzazione ecc., cresce la massa delle materie prime, delle sostanze ausiliarie ecc. che entrano nel pro­ cesso quotidiano della riproduzione» (Das Kapital, libro II, p. 112 [sez. I, cap. VI, 2]).

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za non col lavoro vivo ma solo con la parte pagata del lavo­ ro vivo. Il limite minimo di impiegabilità della macchina nella produzione capitalistica è dato dai costi della forza-la­ voro da essa cacciata. Ciò significa che per i capitalisti una macchina assume interesse solo quando i suoi costi di pro­ duzione —a parità di rendimento —sono piu bassi dei salari dei lavoratori da essa eliminati. Dal punto di vista del pro­ cesso lavorativo sociale, l’unico che in una società socialista può decidere, la macchina dovrà entrare in concorrenza non col lavoro necessario al mantenimento dei lavoratori, ma col lavoro da essi erogato. Ciò vuol dire che per una so­ cietà in cui sono decisivi criteri non di profitto ma di ri­ sparmio del lavoro umano, l’impiego della macchina si pre­ senta come economico già quando la sua produzione costa meno lavoro di quanto risparmia in lavoro vivo. Prescin­ diamo dal fatto che in molti casi, in cui entrano in conside­ razione la salute e interessi simili degli operai, l’impiego della macchina può imporsi anche quando non raggiunge questo limite minimo di risparmio: comunque, lo scarto fra l’impiegabilità economica della macchina nella società capi­ talistica e in quella socialista è perlomeno uguale alla diffe­ renza fra il lavoro vivo e la parte pagata di esso, cioè può essere esattamente misurato dall’intero plusvalore capitali­ stico. Ne segue che, eliminati gli interessi capitalistici al profitto e introdotta un’organizzazione sociale del lavoro, il limite all’impiego delle macchine si sposta di colpo per tutta la grandezza del plusvalore capitalistico, e alla loro trionfale marcia di conquista si apre un campo immenso. Dovrebbe dunque apparir evidente che il modo di produ­ zione capitalistico, che si pretende stimoli lo sviluppo mas­ simo della tecnica, in realtà crea con l’interesse capitalistico al profitto un alto limite sociale al progresso tecnico, e che, eliminata questa barriera, il progresso tecnico prenderà uno slancio in confronto al quale i miracoli tecnici della pro­ duzione capitalistica appariranno come giochi da ragazzi. Espresso nella composizione del prodotto sociale, que­ sto rivoluzionamento tecnico può significare soltanto che la produzione di mezzi di produzione —misurata in tempo di lavoro - crescerà in modo incomparabilmente piu rapido

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nella società socialista che oggi in confronto alla produzio­ ne di mezzi di consumo. Perciò, il rapporto fra le due se­ zioni della produzione sociale, in cui i marxisti russi s’im­ maginavano di aver colto uno specifico carattere del dispre­ gio capitalistico per i bisogni umani di consumo, si presen­ ta come un fenomeno destinato a manifestarsi nella forma piu netta proprio quando i bisogni umani saranno il punto di vista determinante della produzione. L ’unica dimostra­ zione obiettiva della «legge fondamentale» di Tugan-Baranovskij cade dunque come un «fondamentale» quiproquo, e tutta la sua costruzione, da cui sono dedotte la «nuova teo­ ria delle crisi» e quella della «sproporzionalità», si riduce alla sua base cartacea: allo schema pedissequamente ripro­ dotto della riproduzione allargata secondo Marx.

CAPITOLO V EN TIQ U A TTRESIM O I L PU N TO D I APPRO DO D E L M A R X IS M O « L E G A L E » R U S S O

È merito dei marxisti «legali» russi e in particolare di Tugan-Baranovskij di aver valorizzato scientificamente, nel­ la lotta contro gli scettici dell’accumulazione capitalistica, l’analisi del processo di riproduzione capitalistico e la sua rappresentazione schematica nel II libro del Capitale. Senonché, avendo fornito questa rappresentazione schematica per la soluzione anziché per la formulazione del problema, era inevitabile che Tugan-Baranovskij giungesse a conclu­ sioni suscettibili di capovolgere le basi stesse della teoria marxiana. La concezione di Tugan-Baranovskij, secondo cui la pro­ duzione capitalistica può costituire uno sbocco illimitato a se medesima, ed è indipendente dal consumo, lo porta di­ rettamente alla teoria say-ricardiana del naturale equilibrio fra produzione e consumo, fra domanda e offerta, con la so­ la differenza che Say e Ricardo si muovevano esclusivamen­ te nel solco della circolazione semplice delle merci, mentre Tugan trasferisce quella concezione alla circolazione del ca­ pitale. La sua teoria delle crisi come effetto della « spropor­ zionalità» non è in fondo che una parafrasi del vecchio as­ surdo di Say: se di una merce si è prodotto troppo, ciò si­ gnifica soltanto che di un’altra merce si è prodotto troppo poco; solo che Tugan presenta questa tesi nel linguaggio dell’analisi marxiana del processo di riproduzione. E se, di­ versamente da Say, afferma la possibilità di una sovraproduzione generale, in rapporto alla circolazione (da Say com­ pletamente trascurata) del denaro, in realtà le allegre eser­ citazioni di Tugan sullo schema di Marx si fondano sulla stessa trascuranza della circolazione del denaro abituale a Say e Ricardo nel problema delle crisi: lo «schema n. 2 »

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diventa un pungolo pieno di uncini non appena si comincia a trasporlo alla circolazione del denaro. A questi uncini è rimasto appeso Bulgakov nel suo tentativo di portare a ter­ mine l’analisi lasciata interrotta da Marx. È questa combi­ nazione di forme di pensiero di derivazione marxiana e di contenuti del pensiero say-ricardiano, che Tugan-Baranovskij ha battezzato modestamente il suo « tentativo di sintesi della teoria marxiana con l’economia politica classica». Così, la teoria ottimistica che sosteneva la possibilità e capacità di sviluppo della produzione capitalistica contro i dubbi piccolo-borghesi, a quasi un secolo di distanza e pas­ sando attraverso la teoria di Marx torna coi suoi rappresen­ tanti legali al punto di partenza, a Say-Ricardo. I tre «m ar­ xisti» approdano presso gli «armonisti» borghesi del buon tempo antico poco prima del peccato originale e della cac­ ciata dell’economia politica borghese dal paradiso dell’in­ nocenza: il cerchio è chiuso. I marxisti «legali» russi hanno indubbiamente battuto i loro avversari populisti, ma hanno vinto troppo. Tutti e tre - Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij - hanno, nel fervo­ re della battaglia, dimostrato piu di quanto si doveva dimo­ strare. Il problema era: è il capitalismo in generale, e in particolare in Russia, suscettibile di sviluppo? E i suddetti marxisti hanno dimostrato così a fondo questa capacità di sviluppo, da dimostrare anche la possibilità teorica di un’e­ sistenza eterna del capitalismo. È chiaro che, una volta am­ messa l’illimitata accumulazione del capitale, si è anche pro­ vata la illimitata vitalità del capitale. L ’accumulazione è il metodo specificamente capitalistico di allargamento della produzione, di sviluppo della produttività del lavoro, di spiegamento delle forze produttive, di progresso economi­ co. Se il modo di produzione capitalistico è in grado di assi­ curare l’accrescimento delle forze produttive, il progresso economico, allora esso è imbattibile, il pilastro obiettivo fondamentale della teoria scientifica socialista crolla, l ’azio­ ne politica del socialismo, il contenuto ideale della lotta di classe del proletariato cessano di essere una necessità stori­ ca. La dimostrazione, partita dalla possibilità del capitali­ smo, sfocia nell’impossibilità del socialismo.

IL MARXISMO «L E G A L E » RUSSO

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Del cambiamento di fronte operato nella mischia, i tre marxisti russi erano perfettamente coscienti. Struve non si diede piu pensiero dell^perdita del caro pegno, nel giubilo per la missione civilizzatrice del capitalismo1. Bulgakov cer­ cò di chiudere la falla aperta nella teoria socialista con altri brandelli della stessa teoria, espresse cioè la speranza che, nonostante il suo immanente equilibrio fra produzione e smercio, l’economia capitalistica dovesse tuttavia andare a picco contro lo scoglio della caduta del saggio di profitto. Ma questa vaga consolazione doveva essere annientata dal­ lo stesso Bulgakov là dove, dimenticando l’ultima tavola di salvezza da lui lanciata al socialismo, si mise a insegnare a Tugan-Baranovskij che la caduta relativa del saggio di pro­ fitto è compensata per i grandi capitali dall’aumento assolu­ to del capitale2. Infine, Tugan-Baranovskij, il piu conseguente dei tre, abbatte con sadica gioia tutti i pilastri economici obiettivi della teoria socialista e ricostruisce «ancor piu bello» nel proprio spirito il mondo - sulla base dell’«etica». « L ’indi­ viduo protesta contro un ordinamento economico che tra­ sforma il fine (l’uomo) in mezzo, e il mezzo (la produzione) in fin e»3. Come fossero gracili le «nuove basi» del socialismo tutti e tre i suddetti marxisti hanno dimostrato con le proprie persone, volgendo le spalle al socialismo poco dopo avergli dato «nuove basi». Mentre le masse russe lottavano a ri1 In una raccolta dei suoi studi uscita nel 1901, Struve scrive, a guisa d’introduzione: «Nel 1894, quando l’autore pubblicò il già citato Zur Beur­ teilung, ecc., era in filosofia un positivista critico, in sociologia ed economia politica un deciso, sebbene non ortodosso, marxista. Da allora sia il positi­ vismo, che il marxismo su di esso fondato [!] hanno cessato di essere per l ’autore la verità pura, hanno cessato di determinare la sua visione del mon­ do. Ha dovuto perciò cercarsi ed elaborarsi un nuovo sistema di idee. Il maligno dogmatismo, che non soltanto critica chi la pensa diversamente ma lo spia da un punto di vista psicologico-morale, non vede in questo lavorio se non “ una volubilità da epicureo” ; non è in grado di capire che il diritto di critica è uno dei piu preziosi diritti dell’individuo vivente e pensante. A questo diritto l’autore non crede di dover rinunciare, anche se dovesse cor­ rere il pericolo di subire l’accusa di “ instabilità” » (Su diversi temi, Pe­ tersburg 1901). 2 s. bulgakov, Sui mercati di sbocco della produzione capitalistica, p.

252.

3 M. s .

tugan-baranovskij,

Studien, p. 229.

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ESPOSIZIONE STORICA DEL PROBLEMA

schio della vita per gli ideali di una società chiamata a col­ locare il fine (l’uomo) al di sopra del mezzo (la produzione), l’«individuo» si diede alla macchia e trovò in Kant il suo appagamento filosofico e morale. I marxisti legali russi fini­ rono praticamente dove la loro posizione teorica li portava: nel campo delle «armonie» borghesi.

Parte terza Le condizioni storiche dell’accumulazione

C A P IT O L O V E N T IC IN Q U E SIM O CON TRAD DIZION I D E L L O SC H E M A D E L L A R IPR O D U Z IO N E A LLA RG A T A

Nella prima parte abbiamo dimostrato come lo schema marxiano dell’accumulazione non dia risposta al problema: per chi ha luogo la riproduzione allargata? A prenderlo let­ teralmente come è sviluppato alla fine nel II libro del Capi­ tale, si ha l’impressione che la produzione capitalistica rea­ lizzi esclusivamente essa stessa il suo intero plusvalore, e consumi il plusvalore capitalizzato per i suoi bisogni. Lo conferma Marx con la sua analisi dello schema, nella quale ripete piu volte il tentativo di provvedere alla sua circola­ zione con puri mezzi monetari, cioè con la domanda dei ca­ pitalisti e dei lavoratori; tentativo che finisce per portarlo ad introdurre nella riproduzione, come deus ex machina, il produttore d ’oro. Si aggiunga l ’importantissimo passo del I libro del Capitale: «L a produzione annua deve anzitutto fornire tutti gli oggetti (valori d’uso) mediante i quali de­ vono sostituirsi le parti componenti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Dedotte queste, rimane il prodotto netto o sovraprodotto, in cui il plusvalore si cela. E in che cosa consiste questo sovraprodotto? Forse in cose destinate alla soddisfazione dei bisogni e piaceri della classe capitalistica, e che perciò vanno a finire nel loro fondo con­ sumi? Se cosi fosse, il plusvalore sarebbe vuotato fino alla feccia, e si verificherebbe soltanto una riproduzione sempli­ ce. Per accumulare, bisogna trasformare una parte del so­ vraprodotto in capitale. Ma in capitale si possono trasfor­ mare, senza compier miracoli, solo cose utilizzabili nel pro­ cesso lavorativo, cioè mezzi di produzione, oltre a cose che servono al mantenimento dell’operaio, cioè mezzi di sussi­ stenza. Ne segue che una parte del pluslavoro annuo deve essere impiegata alla produzione di mezzi di produzione e

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di sussistenza supplementari, in eccedenza sul quantitativo necessario alla sostituzione del capitale anticipato. In una parola: il plusvalore è trasformabile in capitale solo perché il sovraprodotto, di cui è il valore, contiene già le parti com­ ponenti materiali di un nuovo capitale» Qui vengono poste per l’accumulazione le seguenti pre­ messe: 1. Il plusvalore che deve essere capitalizzato nasce fin dall’origine nella forma naturale di capitale (come mezzi di produzione supplementari e mezzi di consu­ mo supplementari per gli operai). 2. L ’allargamento della produzione capitalistica si com­ pie esclusivamente con mezzi di produzione e di con­ sumo propri (prodotti capitalisticamente). 3. L ’ampiezza dell’eventuale allargamento della produ­ zione (accumulazione) è data a priori dall’ampiezza del plusvalore da capitalizzare; non può esserle supe­ riore, essendo legata alla quantità di mezzi di produ­ zione e di sussistenza che costituiscono il sovrapro­ dotto, ma non può neanche esserle inferiore, perché altrimenti una parte del sovraprodotto sarebbe inuti­ lizzabile nella sua forma naturale. Questi spostamenti verso l’alto e verso il basso possono provocare perio­ diche oscillazioni e crisi, dalle quali dobbiamo ora pre­ scindere; nella media, il sovraprodotto da capitaliz­ zare e l’effettiva accumulazione devono equivalersi. 4. Poiché la produzione capitalistica è essa stessa esclu­ siva acquirente del suo sovraprodotto, l’accumulazio­ ne del capitale non trova limiti. A queste condizioni corrisponde anche lo schema marxia­ no della riproduzione allargata. Qui l’accumulazione si com­ pie senza che sia minimamente visibile per chi, per quali nuovi consumatori, la produzione sempre piu si allarghi. Lo schema prevede la seguente traiettoria. L ’industria car­ bonifera viene allargata per allargare l’industria del ferro. Questa viene allargata per allargare l’industria meccanica. [Libro I, sez. V II, cap. XXII, 1].

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Questa viene allargata per allargare la produzione di mezzi di consumo. Questa viene a sua volta allargata per mante­ nere la crescente armata di lavoratori dell’industria minera­ ria, siderurgica e meccanica, e suoi propri. Cosi all’infinito, in circolo —secondo la teoria di Tugan-Baranovskij. Che lo schema marxiano, preso a sé, autorizzi una simile deduzio­ ne lo dimostra il semplice ratto che Marx, secondo le sue esplicite e ripetute affermazioni, vuole rappresentare il pro­ cesso dell’accumulazione del capitale totale in una società unicamente composta di capitalisti e lavoratori. I passi in proposito si trovano in tutti e tre i libri del Capitale. Nel I libro, proprio nel capitolo sulla Trasformazione del plusvalore in capitale si legge: «P er afferrare l’oggetto del­ la ricerca nella sua purezza, libero da circostanze seconda­ rie perturbanti, dobbiamo considerare l’intero mondo com­ merciale come una nazione sola e presupporre che la pro­ duzione capitalistica si sia imposta ovunque e impadronita di tutti i rami dell’industria» (p. 344, nota 21 a [sez. V II, cap. XXII, 1]). Nel II libro, l’affermazione ritorna piu volte. Per esem­ pio, si legge nel capitolo XVII, sulla circolazione del plus­ valore : « I punti di partenza sono due soli : il capitalista e l’operaio. Tutte le terze persone devono o ricevere del de­ naro da queste due classi a compenso di loro prestazioni, o, se lo ricevono senza controprestazione, sono comproprietarie di plusvalore sotto forma di rendita, interesse e simili... La classe capitalistica rimane dunque l’unico punto di par­ tenza della circolazione del denaro» (p. 307 [sez. II, cap. XVII, 1]). E nello stesso capitolo, con particolare riferimento alla circolazione del denaro nel presupposto dell’accumulazio­ ne: «... La difficoltà sorge quando presupponiamo un’accu­ mulazione non parziale ma generale di capitale monetario nella classe capitalistica. All’infuori di questa classe non esiste secondo la nostra ipotesi —dominio generale ed esclu­ sivo della produzione capitalistica - altra classe che la clas­ se operaia» (p. 321 [ibid., 2]). E nel capitolo XX: «... Qui esistono solo due classi: la classe lavoratrice, che non dispone se non della sua forza-

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lavoro; la classe capitalistica, che monopolizza la proprietà dei mezzi di produzione sociali, cosi come del denaro» (p. 396 [sez. I l i , capitolo XX, 3]). Nel III libro, a proposito della rappresentazione del pro­ cesso complessivo della produzione capitalistica, Marx dice espressamente: «Immaginiamo l’intera società come com­ posta puramente di capitalisti industriali e lavoratori sala­ riati. Prescindiamo inoltre dalle variazioni di prezzo che impediscono a grandi porzioni del capitale totale di sosti­ tuirsi nei loro rapporti medi, e che, date le connessioni ge­ nerali dell’intero processo di riproduzione, cosi come lo svi­ luppa il credito, devono produrre temporanei e generali ar­ resti. Prescindiamo anche dagli aflari fittizi e dalle vendite speculative favoriti dal sistema creditizio. Una crisi sareb­ be allora spiegabile solo mediante una sproporzione fra i diversi rami della produzione, e una sproporzione fra i con­ sumi dei capitalisti e la loro accumulazione. Comunque stia­ no le cose, la sostituzione dei capitali investiti nella produ­ zione dipende in prevalenza dalla capacità di consumo delle classi non produttive, giacché la capacità di consumo dei la­ voratori è limitata in parte dalle leggi del salario, in parte dal fatto ch’essi sono impiegati solo per quel tanto che pos­ sono esserlo con profitto per la classe dei capitalisti» (ed. 1894, sez. II, p. 21). Quest’ultima citazione, sebbene si ri­ ferisca alla questione delle crisi, che qui non ci riguarda, mostra però in modo categorico che Marx fa dipendere il movimento del capitale totale, «comunque vadano le co­ se», da tre sole categorie di consumatori: capitalisti, lavo­ ratori e «classi non produttive», cioè l’appendice della clas­ se capitalista («re, parroco, professore, prostituta, solda­ to ») che nel II libro mette invece e giustamente da parte come rappresentanti di un potere d ’acquisto derivato, e per­ ciò come con-divoratori del plusvalore o del salario. Infine, nelle Theorien über den Mehrwert ', formulando le condizioni generali dell’accumulazione (capitolo su L ‘'ac­ cumulazione del capitale e le crisi): «Q ui dobbiamo unicamente considerare le forme che il Vol. II, parte II, p. 263 [trad. it. cit., vol. II, p. 344].

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capitale attraversa nei suoi differenti sviluppi. Non sono dunque svolti i rapporti reali, entro i quali procede l’effettivo processo di produzione. Si suppone sempre che la mer­ ce sia venduta al suo valore. Non si considera né la concor­ renza dei capitali né il credito, né tanto meno la costituzio­ ne reale della società, che non è unicamente composta dalle classi degli operai e dei capitalisti industriali, in cui dunque consumatori e produttori non soncbidentici, ma la prima categoria [quella dei consumatori] (i cui redditi sono in parte secondari, derivati dal profitto e dal salario, non pri­ mitivi), è molto piu estesa della seconda [quella dei pro­ duttori], e quindi la maniera in cui essa spende il suo red­ dito, e il volume di quest’ultimo, determinano grandissime modificazioni nell’andamento dell’economia e specialmente nel processo di circolazione e di riproduzione del capitale». Come si vede, anche qui Marx, parlando della «costituzio­ ne effettiva della società», considera soltanto i con-divoratori del plusvalore e del salario, cioè solo l’appendice delle categorie fondamentali capitalistiche della produzione. Quindi non c’è dubbio che Marx intese rappresentare il processo dell’accumulazione in una società composta esclu­ sivamente di capitalisti e lavoratori, in regime di generale ed esclusivo dominio del modo di produzione capitalistico. Ma con tale premessa, il suo schema non permette altra de­ duzione che questa: la produzione per amore della produ­ zione. Ricordiamo il secondo esempio dello schema marxiano della riproduzione allargata: Primo anno: I. 3000 c + 1000 v + 1000 p = 7000 (mezzi di produzione) II. 1430 c + 283 V + 285 p = 2000 (mezzi di consumo) 9000 Secondo anno: I. 3417 c + 1083 V+1083 p = 7383 (mezzi di produzione) II. 1383 c + 3161;+ 316 p = 2213 (mezzi di consumo) 9798

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Terzo anno: I. 3869 c + I i 7 3 v + i i 7 3 p = 82i3 (mezzi di produzione) II. 1713 c + 342 v + 342 p = 2399 (mezzi di consumo) io 614

Quarto anno: I. 6338 c + 1 271 V+ 1271 p —8900 (mezzi di produzione) II. 1838 c + 3711;+ 371p = 2600 (mezzi di consumo) i r 300

Qui la produzione continua ininterrotta di anno in anno nella misura in cui una metà del plusvalore ottenuto viene consumata dai capitalisti, l’altra metà capitalizzata. Nella capitalizzazione, viene costantemente mantenuta, per il ca­ pitale addizionale come per il capitale originario, la stessa base tecnica, cioè la stessa composizione organica, o suddi­ visione in capitale costante e variabile, e anche lo stesso tas­ so di sfruttamento (= 100% ). La parte capitalizzata del plusvalore, conformemente all’ipotesi marxiana del I libro del Capitale, si presenta fin dall’origine sotto forma di mez­ zi supplementari di produzione e di consumo per gli operai. Entrambi servono ad allargare sempre piu la produzione nel­ le sezioni I e II. Per chi questo crescente allargamento della produzione abbia luogo è, nelle premesse dello schema mar­ xiano, incomprensibile. È vero che, contemporaneamente alla produzione, cresce anche il consumo della società: au­ menta il consumo dei capitalisti (nel primo anno era, espres­ so in valore, 5 0 0 + 1 42 , nel secondo 542 + 158, nel terzo 586 + 171, nel quarto 635 + 185), cresce anche il consumo degli operai: ne è l’indice piu preciso, espresso in valore, il capitale variabile che in entrambe le sezioni cresce di anno in anno. Tuttavia, prescindendo da tutto il resto, il crescen­ te consumo dei capitalisti non può essere considerato il fine della accumulazione; al contrario, se e in quanto questo consumo si verifica e si dilata, non ha luogo accumulazio­ ne: il consumo personale della classe capitalista ricade sot­ to il punto di vista della riproduzione semplice. Si chiede:

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per chi producono i capitalisti, se e in quanto non consuma­ no essi stessi ma «si astengono», cioè accumulano? Ancor meno può considerarsi fine dell’ininterrotta accumulazione del capitale il mantenimento di sempre piu grandi schiere di lavoratori. Il consumo dei lavoratori è, capitalisticamen­ te, conseguenza dell’accumulazione, non suo fine e premes­ sa, a meno di capovolgere le basi della produzione capitali­ stica. Comunque, i lavoratori possono consumare solo la parte del prodotto che corrisponde al capitale variabile, non piu. Chi realizza dunque il sempre crescente plusvalo­ re? Lo schema risponde: gli stessi capitalisti e solo loro. E che cosa ne fanno, del loro plusvalore crescente? Lo sche­ ma risponde: serve loro per aumentare sempre piu la pro­ duzione. Questi capitalisti sono dunque dei fanatici dell’al­ largamento della produzione per l’allargamento della pro­ duzione. Fanno costruire sempre nuove macchine per co­ struire con esse sempre nuove macchine. Ma ciò che in tal modo otteniamo non è un’accumulazione del capitale, ma una crescente produzione di mezzi di produzione senza al­ cuno scopo, e ci vuole l’ardire e il gusto dei paradossi di un Tugan-Baranovskij per credere che questa instancabile gio­ stra a vuoto possa essere uno specchio teorico fedele della realtà capitalistica e una reale conseguenza dello schema marxiano *. Oltre allo schizzo dell’analisi della riproduzione allarga­ ta, che troviamo interrotto nel II libro del Capitale, Marx ha esposto ampiamente la sua concezione generale del moto caratteristico dell’accumulazione capitalistica in tutta la sua opera, soprattutto nel III libro. E basta ripensare a questa concezione per rendersi conto dell’insufficienza dello sche­ ma al termine del II libro. Chi esamini lo schema della riproduzione allargata dal punto di vista della teoria marxiana, non può non accorger­ si che quello si trova con essa, per diversi aspetti, in con­ trasto.1 1 «Non sono mai i pensatori originali che traggono le conseguenze assur­ de. Essi lasciano questo compito ai Say e ai MacCulloch» (Das Kapital, libro II, p. 365 [sez. I l l , cap. XIX, 3]). E, aggiungiamo noi, ai Tugan-Baranov­ skij...

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Anzitutto, lo schema non tiene conto della crescente pro­ duttività del lavoro. Esso prevede, ad onta dell’accumula­ zione, la stessa composizione del capitale da un anno all’al­ tro, la stessa base tecnica del processo produttivo. Questo modo di procedere è, ai fini della semplificazione dell’anali­ si, perfettamente giustificato. Ma quando si studiano le con­ dizioni concrete di realizzazione del prodotto sociale totale e della riproduzione, è necessario tener conto, sia pure a posteriori, che si è fatto astrazione dalle modificazioni tecni­ che che corrono parallelamente al processo di accumulazio­ ne del capitale e ne sono inseparabili. Ma, una volta messi in conto i progressi nella produttività del lavoro, ne segue che la massa materiale della produzione sociale —mezzi di produzione e mezzi di consumo —cresce molto piu in fret­ ta della sua massa di valore com’è espressa nello schema. Ma l’altra faccia di questo aumento della massa dei valori d ’uso è anche un mutamento dei rapporti di valore. Secondo la serrata dimostrazione di Marx, che costituisce una delle pietre angolari della sua teoria, il crescente sviluppo della produttività del lavoro si manifesta nel fatto che, aumen­ tando l ’accumulazione del capitale, composizione del capi­ tale e saggio del plusvalore non possono, come presuppone lo schema, rimanere costanti. Al contrario, con lo sviluppo dell’accumulazione, il c (capitale costante) nelle due sezioni deve aumentare non soltanto in assoluto ma anche relativa­ mente a v + p, cioè all’intero valore nuovo creato (espres­ sione sociale della produttività del lavoro); contempora­ neamente, il capitale costante deve crescere in rapporto al capitale variabile, e parimenti il plusvalore in rapporto al capitale variabile, cioè il saggio del plusvalore (espressione capitalistica della produttività del lavoro). Che queste tra­ sformazioni non si verifichino puntualmente ogni anno non cambia nulla al fatto, allo stesso modo che le designazioni «anno primo, secondo, terzo, quarto ecc.» nello schema di Marx non si riferiscono necessariamente alla successione degli anni solari e possono significare periodi di tempo a volontà. Infine, questi spostamenti tanto nella composizio­ ne del capitale quanto nel saggio del plusvalore possono es­ sere collocati indifferentemente nel primo, terzo, quinto,

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settimo, ecc. anno o nel secondo, sesto, nono, ecc.; importa solo che ne sia tenuto conto in generale e come fenomeno periodico. Se lo schema viene corrispondentemente com­ pletato, ne risulta che già con questo metodo di accumula­ zione deve verificarsi ogni anno un crescente deficit di mez­ zi di produzione e una crescente eccedenza di mezzi di con­ sumo. Tugan-Baranovskij, che sulla carta supera tutte le difficoltà, costruisce bensì uno schema con altre proporzio­ ni, in cui diminuisce ogni anno del 25% il capitale variabi­ le. Ma poiché la carta sopporta paziente anche questa eser­ citazione aritmetica, Tugan si crede autorizzato a «dimo­ strare» trionfalmente che, anche posta una diminuziofie as­ soluta del consumo, l’accumulazione fila via come sull’olio. Senonché, lo stesso Tugan deve infine riconoscere che l’ipo­ tesi di una diminuzione assoluta del capitale variabile è in palese contrasto con la realtà. Il capitale variabile cresce in­ vece in assoluto in tutti i paesi capitalistici, diminuisce sol­ tanto relativamente, in rapporto al ben piu rapido accresci­ mento del capitale costante. Ma ammesso, corrispondente­ mente al corso reale delle cose, un piu rapido aumento di anno in anno del capitale costante e un piu lento aumento del capitale variabile, come pure un crescente saggio del plusvalore, ecco verificarsi uno squilibrio nei rapporti fra la composizione materiale del prodotto sociale e la composi­ zione di valore del capitale. Ammettiamo per esempio, nel­ lo schema marxiano, invece di una proporzione stabile fra capitale costante e variabile ( 5: 1) , una composizione sem­ pre piu alta per effetto dell’aumento del capitale, 6 :1 nel secondo anno, 7 : 1 nel terzo, 8 : x nel quarto; ammettiamo inoltre, corrispondentemente ad una piu alta produttività del lavoro, anche un saggio sempre crescente del plusvalore - per esempio, invece di un saggio del plusvalore stabile del 100% , manteniamo per il plusvalore le cifre ammesse da Marx pur riducendo relativamente il capitale variabile; sup­ poniamo infine la capitalizzazione della metà del plusvalore appropriato (eccetto per la sezione II, che nel primo anno, secondo l’ipotesi marxiana, capitalizza piu della metà, cioè 184 su 283), e avremo il seguente risultato:

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Primo anno: I. 3000 c + 1000 v + 1000 p = 7000 (mezzi di prod.) II. 1430 c + 2831;+ 283 p = 2000 (mezzi di cons.) Secondo anno: I. 3428% c + i o 7 I% z> + i o 83 p = 7383 (mezzi di prod.) II. 1387%«:+ 3ii%t >+ 316 p = 2213 (mezzi di cons.) Terzo anno: I. IL

3903 c + 1139 r>+ 1173 p = 8213 (mezzi di prod.) 1726C+ 3311;+ 342 p = 2399 (mezzi di cons.) Quarto anno :

I. 6424 c + 1203 v + 1271 p = 8900 (mezzi di prod.) II. 1879 c + 330 v + 371 p = 2600 (mezzi di cons.) Se l’accumulazione dovesse procedere in tal modo, si avrebbe infine un deficit in mezzi di produzione, il secondo anno, di 16, il terzo di 43, il quarto di 88, e contemporanea­ mente un’eccedenza di mezzi di consumo, il secondo anno, di 16, il terzo di 43, il quarto di 88. Il deficit in mezzi di produzione può essere in parte fittizio. In seguito alla crescente produttività del lavoro, la mas­ sa dei mezzi di produzione cresce piu in fretta che la loro massa di valore, o, in altre parole, avviene un ribasso dei prezzi dei mezzi di produzione. Poiché, nel perfezionamen­ to della tecnica di produzione, ciò che interessa non è il va­ lore ma il valore d ’uso, gli elementi materiali del capitale, è possibile in realtà, nonostante il deficit di valore, che fino a un certo grado la quantità dei mezzi di produzione sia suf­ ficiente allo sviluppo dell’accumulazione. È questo lo stesso fenomeno che, fra l’altro, frena la caduta del saggio di pro­ fitto e la rende soltanto tendenziale. Ma, nel nostro caso, la caduta del saggio di profitto sarebbe non soltanto frenata ma soppressa. Per contro, lo stesso fenomeno rinvia ad una

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molto piu forte eccedenza di mezzi di consumo inesitabili di quanto non risulti dalla somma di valore di quest’ecceden­ za. Non resterebbe dunque che: o costringere i capitalisti della sezione II a consumare essi stessi questo eccesso di beni, come lo stesso Marx tenta di fare, ciò che importereb­ be per loro di piegare la legge dell’accumulazione ancora una volta nel senso della riproduzione semplice, o dichiara­ re inesitabile l’eccedenza. Si può, è vero, ribattere che sarebbe facilissimo rimedia­ re al deficit in mezzi di produzione risultato dal nostro esem­ pio: basterebbe ammettere che i capitalisti della sezione I capitalizzino in piu forte misura il loro plusvalore. In realtà, nulla obbliga a supporre che i capitalisti passine^ a capitale solo la metà del plusvalore come Marx ammette nel suo esempio. Al progresso della produttività del lavoro può cor­ rispondere una sempre crescente quota di plusvalore accu­ mulato. Quest’ipotesi è tanto piu ammissibile in quanto una delle conseguenze del progresso tecnico è il ribasso dei prezzi dei mezzi di consumo dei capitalisti, cosicché la dimi­ nuzione relativa di valore del reddito da loro consumato (in rapporto alla parte capitalizzata) può esprimersi per questa classe nello stesso o anche in piu alto livello di vita. Cosi potremmo, per esempio, ammettere che il deficit da noi de­ nunciato in mezzi di produzione per la sezione I sia coperto mediante corrispondente trasferimento di una parte del plusvalore consumato I (che in questa sezione appare, come tutte le parti di valore del prodotto, sotto forma di mezzi di produzione) al capitale costante, e precisamente, nel secon­ do anno, per l’ammontare di 11%, nel terzo di 34, nel quar­ to di 66 '. Ma la soluzione di una difficoltà non fa che au­ mentare l’altra. È senz’altro chiaro che, quanto piu i capita­ listi della sezione I restringono relativamente il proprio con­ sumo per rendere possibile l’accumulazione, tanto piu si ma­ nifesta, da parte della sezione II, un residuo inesitabile di mezzi di consumo e, corrispondentemente, l’impossibilità1 1 Le cifre risultano come differenze fra la grandezza da noi supposta, da­ ta una tecnica progrediente, del capitale costante della sezione I e la gran­ dezza assunta nello schema di Marx (Das Kapital, libro II, p. 496), nell’ipo­ tesi di una tecnica immutata.

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di aumentare il capitale anche solo sulla base tecnica finora mantenuta. L ’una premessa - continua limitazione relativa del consumo da parte dei capitalisti I — dovrebbe essere completata dall’altra —continuo aumento relativo del con­ sumo privato dei capitalisti II; l’acceleramento dell’accu­ mulazione nella prima sezione dal rallentamento nella se­ conda, il progresso della tecnica in una dal regresso nel­ l ’altra. Questi risultati non sono casuali. Ciò che i precedenti ten­ tativi sulla base dello schema di Marx dovevano dimostrare è quanto segue. Il progresso tecnico deve, secondo lo stesso Marx, esprimersi nell’aumento relativo del capitale costan­ te in rapporto al variabile. Ne segue la necessità di un con­ tinuo spostamento nella suddivisione del plusvalore capi­ talizzato fra c e v. I capitalisti dello schema di Marx non so­ no però in grado di intraprendere a piacere questa suddivi­ sione, essendo legati a priori, nel compiere la capitalizzazio­ ne, alla forma materiale del proprio plusvalore. Poiché se­ condo l’ipotesi marxiana l ’intero allargamento della produ­ zione si compie coi mezzi di produzione e di consumo pro­ pri, cioè prodotti capitalisticamente - altri luoghi e forme di produzione non esistono qui, come non esistono altri con­ sumatori all’infuori dei capitalisti e lavoratori di entrambe le sezioni —e poiché d ’altra parte lo svolgimento normale dell’accumulazione presuppone che il prodotto totale delle due sezioni entri senza residui nella circolazione, ne viene il seguente risultato: ai capitalisti la forma tecnica della riproduzione allargata è rigorosamente prescritta a priori dal­ la forma materiale del sovraprodotto. In altre parole: l ’al­ largamento della produzione può e deve, secondo lo schema, essere intrapreso, volta per volta, solo su una base tecnica tale per cui l ’intero plusvalore prodotto dalla sezione I e dalla sezione II trovi impiego; dove si deve anche tener pre­ sente che entrambe le sezioni possono ottenere i loro rispet­ tivi elementi di produzione solo mediante scambio recipro­ co. In tal modo, la suddivisione del plusvalore da capitaliz­ zare fra capitale costante e variabile e la ripartizione dei mezzi di produzione e dei mezzi di consumo (per gli operai) supplementari fra le sezioni I e II sono date e determinate

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a priori dai rapporti materiali e di valore delle due sezioni dello schema. Ma questi rapporti materiali e di valore espri­ mono già a loro volta una ben determinata forma tecnica della produzione. Ne segue che, sviluppandosi l ’accumula­ zione nelle premesse dello schema marxiano, la tecnica del­ la produzione in un determinato momento determina a prio­ ri anche la tecnica dei periodi successivi della riproduzione allargata. Ciò significa che, ammettendo con lo schema di Marx che l’allargamento della produzione capitalistica si compia sempre solo col plusvalore prodotto anticipatamen­ te sotto forma di capitale, e inoltre —che è poi l’altra faccia della stessa ipotesi —che l’accumulazione di una sezione del­ la produzione capitalistica possa proseguire solo in stretta dipendenza dall’accumulazione nell’altra, ne segue che uno spostamento nella base tecnica della produzione (in quanto si esprima nel rapporto fra c e v) è impossibile. Alla stessa conclusione si arriva per altra via. È chiaro che la sempre piu elevata composizione organica del capita­ le, cioè il piu rapido aumento del capitale costante in rap­ porto al variabile, deve trovare la sua espressione materiale nel piu rapido aumento della produzione di mezzi di produ­ zione (sezione I) in rapporto alla produzione di mezzi di consumo (sezione II). Ma nello schema di Marx, che si basa sulla stretta omogeneità nel ritmo di accumulazione delle due sezioni, una simile deviazione è esclusa. Non esiste, in sé, nulla che impedisca di ammettere che, coi progressi del­ l’accumulazione e della sua base tecnica, la società investa continuamente una maggior parte del plusvalore da capita­ lizzare nella sezione mezzi di produzione che in quella mez­ zi di consumo. Poiché le due sezioni della produzione non sono che rami della stessa produzione sociale totale o, se si vuole, aziende parziali del capitalista generale, nulla si può obiettare all’ipotesi di un crescente trasferimento di parte del plusvalore accumulato - conformemente alle esigenze della tecnica —dall’una all’altra sezione: ipotesi che corri­ sponde anche alla prassi reale del capitalismo. Ma una simi­ le ipotesi è possibile solo finché consideriamo la parte del plusvalore destinata alla capitalizzazione come grandezza di valore. Ma, nello schema di Marx e nel suo contesto, questa

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parte del plusvalore è legata ad una determinata forma ma­ teriale, destinata direttamente alla capitalizzazione. Così, il plusvalore della sezione II si esprime in mezzi di consumo, e poiché questi possono essere realizzati solo dalla sezione I, il progettato trasferimento di una parte del plusvalore capi­ talizzato dalla sezione II alla sezione I naufraga: i) contro la forma materiale di questo plusvalore, di cui la sezione I non sa evidentemente che fare; 2 ) contro i rapporti di scam­ bio fra le due sezioni, in forza dei quali al trasferimento di una parte del plusvalore in prodotti II alla prima sezione deve corrispondere un trasferimento di pari valore in pro­ dotti I alla seconda sezione. Il piu rapido aumento della se­ zione I in rapporto alla sezione II è perciò, nel quadro del­ lo schema di Marx, irrealizzabile. Comunque si considerino, dunque, le trasformazioni tec­ niche del modo di produzione nel progredire costante del­ l’accumulazione possono compiersi solo rivoluzionando i rapporti fondamentali dello schema marxiano. Inoltre: secondo questo schema, il plusvalore capitaliz­ zato in un certo momento passa, nel periodo di produzione immediatamente successivo, direttamente e senza residui nella produzione, poiché solo cosi il suo impiego è reso pos­ sibile dalla forma naturale con cui nasce (prescindiamo qui dalla sua parte consumabile). La formazione e la tesaurizza­ zione del plusvalore in forma monetaria, come capitale in cerca d ’investimento, sono dunque escluse dallo schema. Per il capitale singolo Marx assume come forme di volta in volta libere di denaro: 1) il graduale accumulo di denaro corrispondente al logorio del capitale fisso e destinato al suo successivo rinnovamento; 2) le somme di denaro che rap­ presentano il plusvalore realizzato ma che non hanno anco­ ra raggiunto la grandezza minima richiesta ai fini dell’inve­ stimento. Entrambe le sorgenti del capitale libero in forma di denaro non entrano però in considerazione dal punto di vista del capitale totale. Infatti, se ammettiamo che solo una parte del plusvalore sociale realizzato si immobilizzi sotto forma di denaro che cerca impiego, sorge subito la do­ manda: chi ha acquistato la forma naturale di questa parte e chi ha dato in cambio il denaro? E se si risponde: altri

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capitalisti, bisognerà allora ammettere che dalla classe dei capitalisti, come rappresentata dalle due sezioni dello sche­ ma, anche questa parte del plusvalore sia stata realmente investita, impiegata nella produzione, e si è cosi ricondotti all’investimento immediato e senza residui del plusvalore. Ovvero: la immobilizzazione di una parte del plusvalore sotto forma di denaro in mano a certi capitalisti significa Pimmobilizzazione di una parte corrispondente di sovraprodotto nelle mani di altri nella sua forma materiale —la te­ saurizzazione del plusvalore realizzato da parte dei primi l’irrealizzabilità del plusvalore da parte degli altri, essendo i capitalisti gli unici acquirenti reciproci del plusvalore. Ma, in questa ipotesi, il progresso regolare della riproduzione e perciò anche dell’accumulazione secondo lo schema sarebbe interrotto: avremmo una crisi, non però derivante da sovraproduzione, bensì, come prevedeva Sismondi, dalla sem­ plice intenzione di accumulare. In un passo delle Theorien, Marx dichiara espressamen­ te «d i non considerare il caso in cui sia accumulato piu ca­ pitale di quanto ne può essere investito nella produzione, per esempio sotto forma di denaro inoperoso presso ban­ chieri. Donde i prestiti all’estero ecc.» e rinvia questi fe­ nomeni al capitolo sulla concorrenza. Ma è importante sta­ bilire che il suo schema esclude la formazione di un simile capitale esuberante. La concorrenza non può, evidentemen­ te, creare valori, e perciò anche capitale, non originatisi dal processo della riproduzione. In tal modo, lo schema esclude l ’allargamento a sbalzi della produzione. Non ammette che l’aumento costante del­ l’accumulazione, svolgentesi passo passo con la formazione del plusvalore e basata sulla identità fra realizzazione e ca­ pitalizzazione del plusvalore. Per la stessa ragione, lo schema presuppone un’accumu­ lazione che interessa uniformemente le due sezioni, e per­ ciò il complesso dei rami della produzione capitalistica. Un allargamento a sbalzi dello smercio appare qui escluso non1

1 T h e o rie n

ü b e r d en M e h rw e rt,

vol. II, p. 534].

vol. II, parte II, p. 2,52 [trad. it. eit.,

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meno dello sviluppo unilaterale di singoli settori della pro­ duzione capitalistica, anticipanti di gran lunga gli altri. Insomma, lo schema ammette un movimento del capita­ le totale che contraddice al corso reale dello sviluppo capi­ talistico. La storia del modo di produzione capitalistico è caratterizzata a prima vista da due fatti salienti: una perio­ dica espansione a sbalzi dell’intero campo della produzione, uno sviluppo fortemente ineguale di diversi rami della pro­ duzione. La storia dell’industria cotoniera inglese, il capito­ lo piu saliente della storia del modo di produzione capitali­ stico dall’ultimo quarto del secolo x v iii fino al 1870-80, sembra, dal punto di vista dello schema di Marx compietamente inspiegabile. Infine, lo schema contraddice alla concezione del proces­ so generale capitalistico e della sua traiettoria di sviluppo, esposta da Marx nel I I I libro del Capitale. Il concetto fon­ damentale è qui il contrasto immanente fra la capacità di espansione illimitata della forza produttiva e la limitata ca­ pacità di espansione del consumo sociale nei rapporti capi­ talistici di distribuzione. Leggiamo il capitolo XV : Svilup­ po delle contraddizioni interne della legge (della caduta del saggio del profitto): «Presupposti i mezzi di produzione necessari, cioè ima sufficiente accumulazione di capitale, la creazione di plusva­ lore non trova altri limiti che la popolazione lavoratrice, se è dato il saggio del plusvalore (cioè il grado di sfruttamento del lavoro), né altro limite che il grado di sfruttamento del lavoro, se è data la popolazione lavoratrice. E il processo di produzione capitalistico consiste essenzialmente nella pro­ duzione di plusvalore, rappresentato nel sovraprodotto o nella parte aliquota delle merci prodotte in cui si materializ­ za un lavoro non pagato. Non bisogna mai dimenticare che la produzione di questo plusvalore - e la ritrasformazione di una parte dello stesso in capitale, o accumulazione, costi­ tuisce una parte integrante della produzione di plusvalore è lo scopo immediato e il motivo determinante della pro­ duzione capitalistica. Non è perciò lecito rappresentare quest’ultima come ciò che non è, come produzione avente per suo scopo diretto il godimento o la produzione di mezzi di

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godimento per il capitalista [e naturalmente ancor meno per l’operaio!]: sarebbe trascurare il suo carattere specifi­ co, la sua essenza intima. L ’ottenimento del plusvalore co­ stituisce il processo immediato di produzione, che, come ab­ biamo detto, non ha altri limiti oltre quelli suindicati. Il plusvalore è prodotto non appena la quantità estorcibile di pluslavoro si è materializzata in merci. Ma con questa pro­ duzione di plusvalore è compiuto appena il primo atto del processo di produzione capitalistico: il processo di produ­ zione immediato. Il capitale ha assorbito una certa quanti­ tà di lavoro non pagato. Con lo svolgersi del processo che si esprime nella caduta del saggio di profitto, la massa del plusvalore cosi prodotto si dilata in modo gigantesco. Co­ mincia allora il secondo atto. L ’intera massa delle merci, il prodotto totale, sia la parte che sostituisce il capitale co­ stante e variabile sia quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduto. Se ciò non avviene, o avviene solo in parte, o a prezzi inferiori ai costi di produzione, il lavora­ tore è bensì sfruttato, ma il suo sfruttamento non si realiz­ za come tale per il capitalista, può comportare una realiz­ zazione nulla o solo parziale del plusvalore estorto, anzi perfino una perdita parziale o totale del capitale. Le condi­ zioni dello sfruttamento immediato e quelle della sua rea­ lizzazione non sono identiche: divergono non soltanto nel tempo e nello spazio, ma anche nel concetto. Le prime sono limitate soltanto dalla forza produttiva della società, le se­ conde dalla proporzionalità dei diversi rami della produzio­ ne e dalla capacità di consumo della società. Ma quest’ultima non è determinata né dalla forza assoluta di produzione né dalla capacità assoluta di consumo, ma dalla capacità di consumo basata su rapporti di distribuzione antagonistici, che riducono il consumo della gran massa della società a un minimo, modificabile solo entro limiti piu o meno ristretti. È inoltre limitata dallo stimolo all’accumulazione, dalla ten­ denza all’allargamento del capitale e alla produzione di plus­ valore su scala sempre maggiore. È questa, per la società capitalistica, una legge imposta dalle continue rivoluzioni degli stessi metodi produttivi, dal concomitante deprezza­ mento del capitale esistente, dalla lotta generale di concor-

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renza e dalla necessità di migliorare la produzione e allar­ garne il raggio di sviluppo, non foss’altro che per tenersi in piedi e sotto pena di rovina. Bisogna perciò estendere con­ tinuamente il mercato, le cui connessioni e le condizioni che lo regolano assumono perciò sempre piu la forma di legge naturale indipendente dai produttori; sono sempre piu in­ controllabili. La contraddizione interna cerca di compensar­ si mediante allargamento del campo esterno della produ­ zione. Ma quanto piu la forza produttiva si sviluppa, tanto piu entra in conflitto con la base ristretta su cui i rapporti di consumo si fondano. Su questa base contraddittoria non è una contraddizione che un eccesso di capitale sia collega­ to ad un crescente aumento della popolazione, giacché seb­ bene, riuniti i due, la massa del plusvalore prodotto au­ menterebbe, crescerebbe però anche il contrasto fra le con­ dizioni in cui questo plusvalore è prodotto e le condizioni in cui è realizzato» '. Il confronto fra questa descrizione e lo schema della riproduzione allargata dimostra che essi non coincidono. Se­ condo lo schema, fra produzione del plusvalore e sua realiz­ zazione non esiste contrasto immanente, bensì immanente identità. Il plusvalore appare qui a priori in una forma na­ turale calcolata esclusivamente per i bisogni dell’accumula­ zione. Esce già dal luogo di produzione come capitale ad­ dizionale. Perciò la sua realizzabilità è data, e precisamen­ te nella spinta all’accumulazione dei capitalisti medesimi. Questi, come classe, fanno produrre a priori il plusvalore da loro appropriato nella sola forma materiale che ne rende possibile e determina l’impiego ai fini di un’accumulazione ulteriore. La realizzazione del plusvalore e la sua accumula­ zione non sono qui che due facce di un solo processo: sono concettualmente identiche. Per il processo di riproduzione com’è rappresentato nello schema, la capacità di consumo della società non costituisce dunque un limite alla produ­ zione. L ’allargamento della produzione di anno in anno si svolge automaticamente, senza che la capacità di consumo1

1 D a s K a p it a l, libro III, parte I, pp. 224 sgg. [cap. XV, 1, Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto].

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della società esca dai suoi «rapporti antagonistici di distri­ buzione». Questo sviluppo automatico dell’allargamento, della accumulazione è, si, «legge per la produzione capitali­ stica... sotto pena di rovina»; ma, secondo l’analisi del III libro, «il mercato deve essere continuamente allargato», evidentemente oltre il consumo dei capitalisti e dei lavora­ tori. E se Tugan-Baranovskij prende la frase di Marx im­ mediatamente successiva: «L a contraddizione interna cer­ ca di compensarsi mediante allargamento del campo ester­ no della produzione» e la interpreta nel senso che Marx ab­ bia voluto intendere con «campo esterno della produzione» la produzione medesima, egli violenta in tal modo non sol­ tanto il senso letterale ma anche il chiaro ragionamento di Marx. Il «campo esterno della produzione» è qui indubbia­ mente non la produzione medesima ma il consumo, che «deve essere continuamente allargato». Che Marx inten­ desse dir questo e non altro lo mostra, fra l’altro, il seguen­ te passo delle Theorien über den Mehrwert: «Ricardo ne­ ga quindi conseguentemente la necessità di un allargamen­ to del mercato con l’allargamento della produzione e l’au­ mento del capitale. Tutto il capitale esistente in un paese può essere vantaggiosamente impiegato in questo paese. Egli polemizza quindi contro A. Smith il quale, da un lato, ha sostenuto la sua (di Ricardo) opinione» *. E, a dimostrazione che a Marx l ’idea di Tugan-Baranov­ skij di una produzione per la produzione era del tutto estra­ nea, valga un altro passo: « D ’altronde, come abbiamo vi­ sto (libro II, sezione III), ha luogo fra capitale costante e variabile (anche prescindendo dall’accumulazione accelera­ ta) una circolazione continua che è indipendente dal consu­ mo individuale in quanto non si risolve in esso, ma ne è in ultima analisi limitata in quanto la produzione di capitale costante non avviene mai per amore di se medesima, ma so­ lo perché se ne richiede di più nelle branche produttive i cui prodotti passano nel consumo individuale»12. Secondo lo schema del libro II, al quale Tugan-Baranov1 Theorien über den Mehrwert, vol. II, parte II, p. 305 [trad. it. cit., vol. II, p. 579]. 2 Vas Kapital, libro III, parte I, p. 289. 13

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L E CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

skij esclusivamente si attiene, il mercato è certamente iden­ tico con la produzione. Allargare il mercato significa qui al­ largare la produzione, poiché la produzione è il suo proprio ed esclusivo mercato (il consumo dei lavoratori non è che un momento della produzione, cioè riproduzione del capi­ tale variabile). Perciò l’allargamento della produzione e del mercato hanno lo stesso limite: la grandezza del capitale sociale, o l’altezza dell’accumulazione già raggiunta. Quan­ to piu si estorce plusvalore —nella forma naturale del capi­ tale —tanto piu si può accumulare; e quanto più si accumu­ la, tanto piu si può realizzare plusvalore in forma di capita­ le (che è la sua forma naturale). Secondo lo schema, dun­ que, il conflitto indicato nell’analisi del libro III non esiste. Non si pone qui —nel processo rappresentato dallo sche­ ma —la necessità di allargare costantemente il mercato di là dal consumo di capitalisti e lavoratori, e la capacità limitata di consumo della società non è di ostacolo allo sviluppo re­ golare e alla illimitata capacità di estensione della produ­ zione. Lo schema ammette la possibilità di crisi, ma solo per mancanza di proporzionalità nella produzione, cioè per mancanza di controllo sociale sul processo produttivo. Esclude invece il profondo e fondamentale conflitto fra capa­ cità produttiva e capacità di consumo della società capitali­ stica, originato appunto dall’accumulazione di capitale, che si traduce periodicamente in crisi e spinge il capitale ad un continuo allargamento del mercato.

CAPITOLO V E N T ISE IE SIM O L A R IPR O D U Z IO N E D E L C A P IT A L E E I L SU O A M B IE N T E

Lo schema marxiano della riproduzione allargata non può dunque spiegarci il processo dell’accumulazione cosi come si effettua nella realtà e come storicamente si compie. Da che cosa dipende ciò? Dai presupposti medesimi dello sche­ ma. Questo pretende di rappresentare il processo dell’accu­ mulazione nel presupposto che capitalisti e lavoratori siano gli unici rappresentanti del consumo sociale. Abbiamo vi­ sto che Marx, con logica consequenzialità, assume come pre­ supposto teorico della sua analisi in tutti e tre i libri del Capitale il predominio generale ed esclusivo del modo di produzione capitalistico. In queste condizioni non esistono altre classi sociali che capitalisti e lavoratori: tutte le «ter­ ze persone» della società capitalistica: impiegati, professio­ nisti, sacerdoti ecc. sono, come consumatori, da attribuire a quelle due classi e prevalentemente alla classe capitalisti­ ca. Questo presupposto è un’ipotesi di lavoro: in realtà non è mai esistita e non esiste una società capitalistica autosuffìciente con predominio esclusivo della produzione capita­ listica. Ma è un’astrazione perfettamente accettabile là do­ ve, senza alterare le condizioni fondamentali del problema, permette anzi di rappresentarle nella loro purezza. Così nel­ l’analisi della riproduzione semplice del capitale sociale to­ tale. Qui il problema si basa sul seguente presupposto: in una società che produce capitalisticamente, in una società produttrice di plusvalore, l’intero plusvalore è consumato da coloro che se lo appropriano, i capitalisti. Si tratta di rappresentare il modo come, in queste condizioni, produ­ zione e riproduzione sociali si configurano. Qui la posizione stessa del problema presuppone che la produzione non co­ nosca altri consumatori che capitalisti e lavoratori; si trova dunque in perfetto accordo con l’ipotesi marxiana di un do-

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minio generale ed esclusivo del modo di produzione capita­ listico. Le due astrazioni collimano. Altrettanto utile risul­ ta l ’ipotesi del dominio assoluto del capitalismo nell’anali­ si dell’accumulazione del capitale individuale di cui al I li­ bro del Capitale. La riproduzione del capitale individuale è l’elemento della riproduzione sociale totale. Ma un ele­ mento il cui moto si svolge indipendentemente e in contra­ sto coi moti degli altri, per cui il movimento complessivo del capitale sociale non dà una somma meccanica dei movi­ menti singoli dei capitali ma un risultato piu complesso. Se anche la somma di valore dei capitali singoli e delle loro parti rispettive - capitale costante, capitale variabile, plus­ valore - corrisponde alla grandezza di valore del capitale sociale totale, delle sue due parti componenti e del plusva­ lore complessivo, la rappresentazione materiale di questa grandezza di valore nelle parti rispettive del prodotto so­ ciale non collima con la materializzazione dei rapporti di valore dei capitali singoli. I rapporti di riproduzione dei ca­ pitali singoli non s’identificano dunque nella loro forma materiale né fra loro né con quelli del capitale totale. Ogni capitale singolo compie la sua circolazione, e perciò anche la sua accumulazione, per proprio conto e - dato un corso normale del processo di circolazione - dipende dagli altri solo in quanto deve realizzare il suo prodotto e trovare i mezzi di produzione necessari per la sua attività individua­ le. Che quella realizzazione e questi mezzi di produzione siano o no legati ad ambienti che producono capitalistica­ mente, è, al capitale singolo, del tutto indifferente. Vice­ versa, il presupposto teorico piu favorevole per l’analisi del­ l’accumulazione del capitale singolo è l’ipotesi che la pro­ duzione capitalistica rappresenti l’unico ambiente di questo processo, cioè abbia raggiunto un generale ed esclusivo pre­ dominio '.1 1 «Quanto maggiore è il capitale, quanto piu sviluppata la produttività del lavoro e perciò il grado di evoluzione della produzione capitalistica, tan­ to maggiore è anche la massa delle merci che si trovano in circolazione sul mercato nel passaggio dalla produzione al consumo (individuale e industria­ le) e tanto maggiore la sicurezza per ogni capitale particolare di trovar già pronte sul mercato le condizioni della sua riproduzione» (k. marx, T h eo rie n ü b er d en M e h rw e rt, vol. II, parte II, p. 231 [trad. it. cit., vol. II, p. .533]).

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Sorge ora la questione se si possa considerare ammissibi­ le anche per il capitale totale il presupposto valido per il capitale singolo. Che Marx identificasse le condizioni di ac­ cumulazione del capitale totale con quelle del capitale sin­ golo, lo conferma egli stesso espressamente nel seguente passo: « I l problema adesso va formulato cosi: supposta un’ac­ cumulazione generale, supposto cioè che in tutte le branche di produzione il capitale venga piu o meno accumulato, ciò che in effetti è la condizione della produzione capitalistica ed è anche l’istinto del capitalista in quanto capitalista, co­ me l’istinto del tesaurizzatore è quello di ammassare dena­ ro (ma è anche necessario affinché la produzione capitalisti­ ca vada avanti) - quali sono le condizioni di questa accu­ mulazione generale, in che cosa essa si risolve?» E risponde : « Le condizioni per Vaccumulazione del ca­ pitale sono dunque esattamente identiche a quelle per la sua produzione originaria e la sua riproduzione in generale. Ma queste condizioni erano: che con una parte del denaro si compri lavoro, con l’altra merci (materie prime, macchi­ nario, ecc.)». « L ’accumulazione di nuovo capitale non può dunque avvenire che nelle medesime condizioni dell’accu­ mulazione del capitale già esistente» In realtà, le condizioni reali dell’accumulazione del capi­ tale totale sono del tutto diverse da quelle del capitale sin­ golo e della riproduzione semplice. Il problema si pone co­ si: come si configura la riproduzione sociale nella premessa che una parte crescente del plusvalore non sia consumata dai capitalisti ma impiegata all’allargamento della produ­ zione? Il passaggio del prodotto sociale, prescindendo dal­ la sostituzione del capitale costante, nel consumo dei lavo­ ratori e dei capitalisti è qui escluso, e questa circostanza è il punto essenziale del problema. Ma con ciò è anche esclu­ so che capitalisti e lavoratori possano consumare essi stessi il prodotto totale. Essi possono realizzare solo il capitale variabile, la parte consumata del capitale costante e la par­ te consumata del plusvalore, e, in tal modo, assicurare sol-

1 T h e o rie n ü b e r d en M e h rw e rt, vol. II, parte II, p. 230 (corsivo di Marx) [trad. it. cit., vol, II, pp. 532 e 333].

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tanto le condizioni del rinnovo della produzione sulla scala precedente. La parte da capitalizzare del plusvalore, invece, non può essere realizzata dagli stessi lavoratori e capitalisti. La realizzazione del plusvalore ai fini dell’accumulazione è dunque, in una società composta unicamente di lavoratori e capitalisti, un problema insolubile. Lo strano è che tutti i teorici dai quali il problema dell’accumulazione è stato ana­ lizzato, da Ricardo e Sismondi fino a Marx, siano partiti proprio da questo presupposto che ne rendeva impossibile la soluzione. La sensazione che fossero necessarie «terze persone», cioè consumatori all’infuori degli agenti imme­ diati della produzione capitalistica, lavoratori e capitalisti, per la realizzazione del plusvalore, portò a scappatoie di tutti i generi: al «consumo improduttivo», che in Malthus si materializza nella persona del proprietario terriero feu­ dale, in Voroncov nel militarismo, in Struve nelle «profes­ sioni liberali» ed altre appendici della classe capitalistica; al «commercio estero», assurto presso gli scettici dell’ac­ cumulazione da Sismondi a Nikolaj-on a valvola di sicurez­ za, ecc.; mentre l’insolubilità del compito portava al rifiuto dell’accumulazione, come in v. Kirchmann e Rodbertus, o almeno alla richiesta di limitarla il piu possibile, come in Sismondi e nei suoi epigoni russi, i populisti. Solo la piu profonda analisi e l’esatta rappresentazione schematica del processo della riproduzione totale ad opera di Marx, la sua geniale impostazione del problema della riproduzione semplice potevano mettere a nudo il punto cen­ trale del problema dell’accumulazione e il tallone d ’Achille dei precedenti tentativi di risolverlo. L ’analisi dell’accumu­ lazione del capitale totale, che in Marx si spezza appena al suo inizio, e per giunta è dominata dalla polemica, non cer­ to favorevole ai fini del problema, contro l’analisi smithiana, non soltanto non ha direttamente portato ad una solu­ zione compiuta, ma l’ha resa anzi piu difficile con l’ipotesi di un predominio esclusivo del modo di produzione capi­ talistico. Ma tutta l’analisi della riproduzione semplice in Marx, e la caratterizzazione del processo capitalistico nel suo insieme, con le sue contraddizioni interne e il suo svi­ luppo (III libro del Capitale), contengono implicite una so-

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luzione del problema dell’accumulazione in armonia tanto con le altre parti della teoria marxiana, quanto con l’espe­ rienza storica e la prassi quotidiana del capitalismo; e offro­ no perciò la possibilità di completare le insufficienze dello schema. Lo stesso schema della riproduzione allargata, a os­ servarlo piu da presso, ci rinvia, in tutti i suoi rapporti, a condizioni che escono dal quadro della produzione e accu­ mulazione capitalistiche. Abbiamo finora considerato la riproduzione allargata da un solo punto di vista, cioè dalla domanda: come si realiz­ za il plusvalore? È di questa difficoltà che gli scettici si era­ no finora esclusivamente occupati. In realtà, la realizzazio­ ne del plusvalore è per l’accumulazione capitalistica proble­ ma di vita. Prescindendo completamente, per ragioni di semplicità, dal fondo di consumo dei capitalisti, la realizza­ zione del plusvalore richiede come prima condizione un cer­ chio di acquirenti all’infuori della società capitalistica. Di­ ciamo di acquirenti e non di consumatori, perché la realiz­ zazione del plusvalore non dice nulla, in partenza, sulla for­ ma materiale del plusvalore. L ’essenziale è che il plusvalore non può essere realizzato né da lavoratori né da capitalisti, ma da strati sociali o da società che non producono capita­ listicamente. Si possono qui immaginare due casi diversi: I ) La produzione capitalistica fornisce mezzi di consumo al di sopra del fabbisogno proprio (dei lavoratori e dei capita­ listi), i cui acquirenti sono strati e paesi non capitalistici. Per esempio, l’industria cotoniera inglese fornì durante i primi due terzi del secolo xix (e fornisce in parte anche og­ gi) articoli di cotone al contadiname e alla piccola borghe­ sia cittadina del continente europeo e alle popolazioni agri­ cole dell’India, dell’America, dell’Africa ecc. È stato qui il consumo di strati e paesi non capitalistici a servir di base all’enorme espansione dell’industria cotoniera in Inghilter­ ra ‘. Ma per questa stessa industria cotoniera si sviluppò in 1 L ’importanza dell’industria cotoniera nel quadro delle esportazioni in­ glesi risulta dalle seguenti cifre: 1893: esportazione complessiva di manufatti 5540 milioni di marchi, di cui manufatti cotonieri 1280 milioni di marchi pari al 23%, ferro e prodotti metallurgici neppure il 17%. 1898: esportazione complessiva di manufatti 4668 milioni di marchi, di

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Inghilterra una grande industria meccanica, fornitrice di fusi e telai, e, ad essa collegata, un’industria metallurgica e carboniera. In questo caso, la sezione II (mezzi di consu­ mo) realizzava in misura crescente i suoi prodotti in strati sociali non capitalistici, mentre d ’altra parte, mediante la propria accumulazione, creava una domanda sempre piu forte dei prodotti nazionali della sezione I (mezzi di produ­ zione) e in tal modo aiutava questa sezione a realizzare il plusvalore e ad accumulare in misura sempre maggiore. Prendiamo il caso inverso. 2) La produzione capitalistica fornisce mezzi di produzione al di sopra del proprio fabbi­ sogno e trova acquirenti in paesi non capitalistici. Per esem­ pio, l’industria inglese forni nella prima metà del secolo xix materiale da costruzione per le ferrovie americane e austra­ liane. La costruzione di ferrovie non significa ancora predo­ minio del modo di produzione capitalistico in un paese. In realtà, le ferrovie furono, in questi casi, solo una delle pri­ me premesse per l’affermarsi della produzione capitalistica. Ovvero l’industria chimica tedesca fornisce mezzi di produ­ zione, come materie coloranti, che trovano smercio in mas­ sa in paesi a produzione non capitalistica in Asia, Africa ecc. *. Qui la sezione I della produzione capitalistica realiz­ za i suoi prodotti in ambienti extracapitalistici. Il crescente allargamento della sezione I, che ne risulta, provoca nel pae­ se a produzione capitalistica un corrispondente allargamen­ to della sezione II, che fornisce mezzi di consumo per la crescente schiera di lavoratori della sezione I. cui manufatti cotonieri 1300 milioni di marchi pari al 28%, ferro e prodotti metallurgici 22%. Si confrontino le cifre per la Germania: 1898: esportazione complessiva 4010 milioni di marchi, di cui manufatti cotonieri 23t,9 milioni di marchi pari al 3,75%. Inoltre, su 5,25 miliardi di yarde di cotonate, 2,25 miliardi esportati nel 1898 etano diretti verso l ’India anteriore (e. jaffé, V ie e n g lisc h e B a u m ­ w o llin d u str ie u n d d ie O rg a n isa tio n d e s E x p o r th a n d e ls, in «Schmollers Jahr­ bücher», XXIV, p. 1033). Nel t9o8 l ’esportazione dall’Inghilterra dei soli filati di cotone raggiunse i 262 milioni di marchi («Statist. Jahrb. für das Deutsche Reich», 1920). 1 Per esempio, un quinto dei coloranti derivati dal catrame e la metà del­ l’indaco prodotti in Germania vanno in paesi come Cina, Giappone, Indie Britanniche, Egitto, Turchia asiatica, Brasile, Messico.

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Entrambi i casi si distaccano dallo schema marxiano. Nel primo, il prodotto della sezione II supera il fabbisogno del­ le due sezioni, misurato nel capitale variabile e nella parte consumata del plusvalore di entrambe; nel secondo, il pro­ dotto della sezione I supera la grandezza del capitale co­ stante delle due sezioni, anche tenuto conto del suo aumen­ to a fini di allargamento della produzione. In entrambi i casi, il plusvalore non nasce nella forma naturale che per­ metterebbe e condizionerebbe la sua capitalizzazione nel­ l’ambito di una delle due sezioni. Ma in realtà, i due casi tipici s’incrociano ad ogni passo, si completano e si richia­ mano l’un l’altro. In tutto ciò un punto non sembra chiaro. Se per esem­ pio un eccesso di beni di consumo, diciamo cotonate, viene smerciato in ambienti non capitalistici, è evidente che que­ ste cotonate, come merci capitalistiche, rappresentano non soltanto plusvalore, ma capitale costante e variabile. Sem­ brerebbe dunque arbitrario ammettere che proprio queste merci esitate all’infuori dell’ambiente sociale capitalistico non rappresentino altro che plusvalore. D ’altra parte, risul­ ta che in questo caso anche l’altra sezione (I) non solo rea­ lizza il suo plusvalore ma può anche accumulare, senza tut­ tavia smerciare il suo prodotto fuori delle due sezioni della produzione capitalistica. Ma le due obiezioni si dimostrano apparenti, e svaniscono appena si proceda alla scomposizio­ ne del valore della massa di prodotti nelle sue parti rispet­ tive. Nella produzione capitalistica non soltanto il prodotto totale ma anche ogni singola parte contiene plusvalore. Ma ciò non impedisce che, come il capitalista singolo nella suc­ cessiva vendita della sua particolare massa di merci calcola prima la sostituzione del capitale costante investito, poi del capitale variabile (o, erroneamente ma in conformità alla pratica, prima del capitale fisso, poi del capitale circolante) per incassare il resto come profitto, cosi anche il prodotto sociale totale può essere scomposto in tre parti proporzio­ nali, corrispondenti, secondo il valore, al capitale costante consumato nella società, al capitale variabile e al plusvalore estorto. Nella riproduzione semplice, a queste proporzioni di valore corrisponde anche la forma materiale del prodot-

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to totale; il capitale costante riappare in forma di mezzi di produzione, il variabile in mezzi di sussistenza per gli ope­ rai, il plusvalore in forma di mezzi di sussistenza per i capi­ talisti. Senonché la riproduzione semplice è, in questo sen­ so categorico - consumo dell’intero plusvalore ad opera dei capitalisti —, un’astrazione. Quanto alla riproduzione allar­ gata o accumulazione, anche qui esiste, secondo lo schema di Marx, una stretta proporzionalità fra la composizione di valore del prodotto sociale e la sua forma materiale: il plus­ valore si presenta a priori, nella sua parte destinata alla ca­ pitalizzazione, come proporzionalmente suddiviso in mezzi di produzione materiali e mezzi di sussistenza per gli operai, corrispondenti all’allargamento della produzione su una ba­ se tecnica data. Questa concezione, che si fonda sull’auto­ sufficienza e sull’isolamento della produzione capitalistica, naufraga tuttavia, l’abbiamo visto, già contro lo scoglio del­ la realizzazione del plusvalore. Ma se ammettiamo che il plusvalore venga realizzato fuori della produzione capitali­ stica, ne verrà che la sua forma materiale non ha nulla a che fare coi bisogni della produzione capitalistica. La sua forma materiale corrisponde allora ai bisogni di quegli ambienti non-capitalistici che contribuiscono a realizzarlo. Il plusva­ lore capitalistico può dunque manifestarsi in forma di mez­ zi di consumo, per esempio cotonate, o in forma di mezzi produttivi, per esempio materiale ferroviario. Che questo plusvalore realizzato in forma di prodotti di una delle due sezioni aiuti, nel successivo allargamento della produzione, a realizzare anche il plusvalore dell’altra sezione, non cam­ bia nulla al fatto che il plusvalore sociale come totalità è stato realizzato, in parte direttamente, in parte indiretta­ mente, fuori delle due sezioni. Questo fatto rientra nello stesso punto di vista per il quale un capitalista singolo può realizzare il proprio plusvalore anche se il complesso delle sue merci sostituisse dapprima solo il capitale costante o variabile di un altro. La realizzazione del plusvalore non è però l’unico ele­ mento della riproduzione di cui conviene tener conto. Am­ mettiamo che la sezione I abbia smerciato il plusvalore fuo­ ri delle due sezioni e l’accumulazione possa verificarsi. Am-

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mettiamo inoltre che abbia buone prospettive di ulteriore allargamento dello smercio in quegli ambienti. In tal caso, è data tuttavia solo la metà delle condizioni dell’accumula­ zione. Fra labbra e orlo del bicchiere ci corre ancora. Ed ec­ co la seconda premessa dell’accumulazione: necessità di tro­ vare già in atto gli elementi materiali indispensabili all’al­ largamento della produzione. Dove li troveremo, visto che abbiamo trasformato in denaro il plusvalore sotto forma di prodotti I, cioè come mezzi di produzione, smerciandolo al di fuori della produzione capitalistica? La transazione che ci ha aiutati a realizzare il plusvalore, ci ha però, nello stes­ so tempo, fatto uscire dall’altra porta le premesse della tra­ sformazione di questo plusvalore realizzato in forma di ca­ pitale produttivo. Sembrerebbe dunque che siamo caduti dalla padella nella brace. Noi operiamo qui col c sia della sezione I che della sezio­ ne II come se fosse il capitale costante totale della produ­ zione. Ma ciò, lo sappiamo, è falso. Solo per ragioni di sem­ plicità abbiamo trascurato il fatto che il c figurante nelle se­ zioni I e II dello schema non è che una parte dell’intero ca­ pitale costante, la parte annualmente circolante, consumata nel ciclo di produzione, trasferita ai prodotti. Ma sarebbe completamente assurdo supporre che la produzione capita­ listica (anzi qualunque produzione) consumi in ogni perio­ do di produzione l’intero capitale costante e lo ricrei di bel nuovo nel corso di ogni periodo. Al contrario, sullo sfondo della produzione cosi come è rappresentata nello schema è presupposta l’intera massa di mezzi di produzione il cui pe­ riodico completo rinnovo è suggerito nello schema dal rinno­ vo annuo della parte consumata. Con l ’aumento della pro­ duttività del lavoro e l’allargamento del raggio della produ­ zione, questa massa cresce non solo in assoluto ma anche relativamente alla parte consumata di volta in volta nella produzione. Ma con ciò cresce anche l’efficienza potenziale del capitale costante. Ai fini dell’allargamento della produ­ zione interessa in primo luogo un piu forte impegno di que­ sta parte senza il suo aumento diretto in valore. «N ell’industria estrattiva, le materie prime non costitui­ scono una parte componente dell’anticipo di capitale. L ’og-

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getto del lavoro non è qui il prodotto di un lavoro passato, ma un dono gratuito della natura. Esempio il minerale di ferro, l ’antracite, la pietra ecc. Il capitale costante è qui co­ stituito quasi esclusivamente di mezzi di lavoro, che posso­ no ottimamente sopportare un accresciuto quantum di la­ voro (per esempio squadre diurne e notturne di lavoratori). A parità delle altre condizioni, tuttavia, massa e valore del prodotto cresceranno in rapporto diretto al lavoro impiega­ to. Come al primo giorno della produzione, qui gli originari autori della produzione, e perciò anche i creatori degli ele­ menti materiali del capitale - uomo e natura - procedono di pari passo. Grazie all’elasticità della forza-lavoro, il cam­ po dell’accumulazione si è allargato senza preventivo au­ mento del capitale costante. In agricoltura non si può estendere la terra coltivata senza anticipo di sementi e conci­ mi addizionali. Ma, una volta fatto questo anticipo, la lavo­ razione anche puramente meccanica del suolo esercita un’a­ zione miracolosa sulla copia dei prodotti. Cosi una maggior quantità di lavoro, erogata dal numero esistente di lavora­ tori, aumenta la fertilità senza richiedere nuovo anticipo in mezzi di lavoro. Siamo nuovamente di fronte a un’azione diretta dell’uomo sulla natura che diviene fonte immediata di piu forte accumulazione senza intervento di nuovo capi­ tale. Infine, nell’industria vera e propria ogni spesa addi­ zionale in lavoro presuppone una spesa addizionale in ma­ terie prime, ma non necessariamente anche in mezzi di la­ voro. E poiché l’industria estrattiva e l’agricoltura fornisco­ no all’industria manifatturiera le materie prime sue e dei suoi mezzi di lavoro, l’aumento di prodotti ottenuto senza aumento di anticipazioni in capitali torna a vantaggio anche di questa. Risultato generale: incorporandosi i due creatori originari della ricchezza, forza-lavoro e terra, il capitale ac­ quista una forza di espansione che gli permette di estende­ re gli elementi della sua accumulazione al di là dei limiti apparentemente fissati dalla sua grandezza, dal valore e dal­ la massa dei mezzi di produzione già prodotti nei quali ha esistenza» '.1 1 Das Kapital, libro I, p. 567 [sez. V II, cap. XXII, 4].

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Inoltre, non si vede perché tutti i mezzi di produzione e di consumo necessari debbano essere prodotti solo capitali­ sticamente. È vero che quest’ipotesi sta a base dello sche­ ma marxiano della accumulazione, ma non corrisponde né alla prassi quotidiana e alla storia del capitalismo né allo specifico carattere di questo modo di produzione. Nella pri­ ma metà del secolo xix, in Inghilterra il plusvalore usciva dal processo produttivo per gran parte in forma di cotona­ te. Gli elementi materiali della sua capitalizzazione - come cotone grezzo proveniente dagli stati schiavisti dell’Unione americana o come grano (mezzo di sussistenza per i lavora­ tori inglesi) proveniente dalle campagne a servitù della gle­ ba della Russia - rappresentavano bensì sovraprodotto, ma non plusvalore capitalistico. La dipendenza dell’accumula­ zione capitalistica da questi mezzi di produzione prodotti non capitalisticamente è dimostrata dalla crisi cotoniera scoppiata in Inghilterra in seguito alla paralisi delle colti­ vazioni in America per effetto della guerra di Secessione o dalla crisi della tessitura europea in seguito all’arresto del­ l’importazione di lino dalla Russia servile per effetto della guerra d ’Oriente. Basta del resto pensare al ruolo che l’im­ portazione del grano contadino e perciò prodotto in am­ biente non capitalista gioca nell’alimentazione della massa dei lavoratori industriali dell’Europa (cioè come elemento del capitale variabile) per vedere come l’accumulazione del capitale sia legata nei suoi elementi materiali ad ambienti non-capitalistici. D ’altronde, lo stesso carattere della produzione capitali­ stica esclude la limitazione ai mezzi di produzione prodotti capitalisticamente. Un mezzo essenziale della spinta del ca­ pitale singolo all’aumento del saggio di profitto è lo sforzo per ridurre il prezzo degli elementi del capitale costante. D ’altra parte, il continuo aumento della produttività del la­ voro come principale metodo di elevazione del saggio del plusvalore implica l’utilizzazione illimitata di tutte le mate­ rie e risorse messe a disposizione dalla natura e dalla terra, ed è legata ad essa. Sotto questo aspetto, il capitale non tol­ lera, per sua natura e modo di esistenza, limitazioni di sor­ ta. Il modo di produzione capitalistico come tale non ab-

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braccia finora, dopo secoli di sviluppo, piu di una frazione della produzione totale della terra, la sua sede continua ad essere la piccola Europa, nella quale tuttavia non si è anco­ ra impadronita dell’intero territorio e di vasti settori pro­ duttivi - economia contadina, artigianato indipendente - , oltre a gran parte dell’America del Nord e singole zone ne­ gli altri continenti. In generale, la produzione capitalistica si limita alla manifattura nei paesi della zona temperata, mentre ha fatto progressi relativamente modesti, per esem­ pio, in Oriente e nel Sud. Se dovesse contare solo sugli ele­ menti della produzione ottenibili in questi ristretti confini, il suo attuale grado di sviluppo, anzi lo stesso suo sviluppo sarebbero stati perciò impossibili. La produzione capitali­ stica si basa fin dalle sue origini, nelle sue forme e leggi di sviluppo, sull’intero orbe terracqueo come serbatoio delle forze produttive. Nella sua spinta all’appropriazione delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tut­ to il mondo, si procura mezzi di produzione da tutti gli an­ goli della terra, li conquista o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme sociali. Il problema degli elementi materiali dell’accumulazione del capitale, lungi dall’essere risolto dalla forma materiale del plusvalore prodotto capi­ talisticamente, si trasforma in un problema completamente diverso: per l’impiego produttivo del plusvalore realizzato è necessario che il capitale abbia sempre piu a disposizione l’intero globo in modo da avere una possibilità quantitati­ vamente e qualitativamente illimitata di scelta nei suoi mez­ zi di produzione. L ’improvviso e incondizionato assorbimento di nuove zo­ ne di materie prime, per far fronte sia ad eventuali sposta­ menti e interruzioni nell’importazione di materie prime da­ gli antichi luoghi di origine sia ad improvvisi allargamenti del fabbisogno sociale, è una delle premesse imprescindibili del processo di accumulazione nella sua elasticità e nel suo procedere a sbalzi. Quando la guerra di secessione interrup­ pe l’importazione di cotone americano in Inghilterra e pro­ vocò nel Lancashire la famosa «fame di cotone», in breve tempo sorsero in Egitto, come per miracolo, nuove e gran­ diose piantagioni. Il campo d ’azione fu offerto qui al capi­

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tale europeo dal dispotismo orientale insieme coi tradizio­ nali rapporti servili. Solo il capitale coi suoi mezzi tecnici è in grado di operare in cosi breve tempo il miracolo di simi­ li poderose trasformazioni. Ma solo sul terreno precapitali­ stico di rapporti sociali primitivi esso può spiegare una co­ si miracolosa capacità di comando sulle forze produttive materiali e umane. Un altro esempio di questa specie è l’e­ norme sviluppo del consumo mondiale di caucciù, pari oggi al regolare rifornimento di gomma grezza per il valore an­ nuo di un miliardo di marchi. Base economica di questa produzione di materia prima sono i sistemi primitivi di sfruttamento praticati dal capitale europeo nelle colonie africane o in America, su diverse combinazioni di schiavi­ smo e di servitù della gleba '. Bisogna inoltre rilevare che, supponendo come abbiamo fatto sopra che la prima o seconda sezione realizzi in am­ bienti non capitalistici solo il proprio sovraprodotto, abbia­ no preso, per la verifica dello schema di Marx, il caso più favorevole, che mostra i rapporti della riproduzione nella loro purezza. In realtà nulla ci costringe a supporre che anche una parte del capitale costante e variabile non si rea­ lizzi, nel prodotto della rispettiva sezione, all’infuori della cerchia capitalistica. Può anche darsi che tanto l’allargamen­ to della produzione quanto, in parte, il rinnovo degli ele­ menti consumati della produzione nella loro forma materia­ le siano effettuati mediante prodotti di ambienti non capi­ talistici. Ciò che gli esempi surriferiti dovrebbero dimostra­ re è il fatto che almeno il plusvalore da capitalizzare e la parte ad esso corrispondente della massa di prodotti capita­ listici non possono essere realizzati nell’ambito del capitali­ smo e devono necessariamente cercare i loro acquirenti fuo-1

1 Le recenti rivelazioni del Libro Azzurro inglese sulla prassi della Pe­ ruvian Amazon Co. Ltd. a Putumayo hanno mostrato come il capitale inter­ nazionale sappia, nella libera repubblica del Perii, legare a sé in un rapporto che rasenta la schiavini la popolazione indigena anche senza la forma politi­ ca del predominio coloniale, per arraffare dai paesi primitivi mezzi di produ­ zione attraverso una forma di pirateria in grande stile. Dal 1900, la suddetta società di capitalisti inglesi ed esotici ha gettato sul mercato londinese circa 4000 tonnellate di caucciù del Putumayo. Nello stesso tempo, 30 mila nativi sono stati uccisi, e la maggioranza dei io mila sopravvissuti ridotti a zoppi.

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ri di questo, in strati e forme sociali a produzione non capi­ talistica. Cosi, fra ciascun periodo di produzione, in cui viene pro­ dotto del plusvalore, e l ’accumulazione susseguente, in cui esso viene capitalizzato, s’inseriscono due diverse transa­ zioni - la trasformazione del plusvalore nella sua forma pu­ ra di valore (realizzazione) e la trasformazione di questa pura forma di valore in forma di capitale produttivo - , che si svolgono fra la produzione capitalistica e il mondo non capitalistico che la circonda. Da entrambi i punti di vista —realizzazione del plusvalore e acquisto degli elementi del capitale costante già in atto - il commercio mondiale è una condizione storica di esistenza del capitalismo, commercio mondiale che, nei rapporti concreti dati, è essenzialmente scambio tra forme di produzione capitalistiche e non capi­ talistiche. Finora, abbiamo considerato l’accumulazione solo dal punto di vista del plusvalore e del capitale costante. Il ter­ zo elemento fondamentale dell’accumulazione è il capitale variabile. L ’accumulazione crescente è accompagnata da un crescente capitale variabile. Nello schema di Marx, appare come sua forma corrispondente materiale nel prodotto so­ ciale una quantità crescente di mezzi di sussistenza per gli operai. Ma il vero e proprio capitale variabile non è costi­ tuito dai mezzi di sussistenza per gli operai, bensì dalla for­ za-lavoro viva, per la cui riproduzione i mezzi di sussistenza sono necessari. Alle condizioni fondamentali dell’accumu­ lazione appartiene dunque anche un afflusso di lavoro vivo corrispondente ai suoi bisogni, che il capitale metterà in movimento. L ’aumento di questa massa di forza-lavoro è in parte ottenuto, nei limiti in cui le condizioni lo permettono, prolungando la giornata lavorativa e intensificando il lavo­ ro. Ma in entrambi i casi l’aumento del lavoro vivo non si esprime —o si esprime in misura limitata (come compenso delle ore straordinarie) - nell’aumento del capitale variabi­ le. Inoltre, i due metodi trovano un limite ben determinato in resistenze in parte naturali, in parte sociali, e non posso­ no varcarlo. L ’aumento continuo del capitale variabile che accompagna l’accumulazione deve perciò trovare espressio­

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ne in un numero crescente di forze-lavoro occupate. Da do­ ve vengono queste forze-lavoro supplementari? Nell’analisi dell’accumulazione del capitale singolo, Marx risponde: «Per far fungere effettivamente come capitale queste parti componenti, la classe capitalistica ha bisogno di un’aggiunta di lavoro. Se lo sfruttamento degli operai già impiegati non cresce estensivamente o intensivamente, bi­ sognerà arruolare forze-lavoro addizionali. A questo scopo il meccanismo della produzione capitalistica ha già provve­ duto riproducendo la classe lavoratrice come classe dipen­ dente dal salario, il cui salario normale basta non solo ad assicurarne il mantenimento ma anche l’incremento. Al ca­ pitale non resta che incorporare ai mezzi di produzione ad­ dizionali già contenuti nella produzione annua le forze-la­ voro addizionali annualmente fornite dalla classe operaia in diverse gradazioni di età, e la trasformazione del plusvalore in capitale è bell’e compiuta» '. Qui, l’aumento del capitale variabile è ridotto semplicemente e direttamente all’incre­ mento naturale della classe lavoratrice, già comandata dal capitale. Ciò corrisponde anche esattamente allo schema della riproduzione allargata che, secondo il presupposto marxiano, non conosce altre classi sociali che lavoratori e capitalisti e altra forma di produzione che la capitalistica.1

1 D a s K a p it a l, libro I, p. 544 [sez. V II, cap. XXII, 1]. Analogamente, in un altro passo: «Anzitutto, dunque, bisogna trasformare in capitale varia­ bile una parte del plusvalore e del sovraprodotto a esso corrispondente in mezzi di sussistenza, bisogna cioè comprare con essa nuovo lavoro. Ciò è possibile soltanto se cresce il numero degli operai o se è prolungato il tempo in cui essi lavorano... Ma questo non può essere considerato come mezzo co­ stante di accumulazione. La popolazione operaia può aumentare se operai precedentemente improduttivi sono trasformati in produttivi, o se parti del­ la popolazione, che prima non lavoravano, donne e bambini, poveri, vengo­ no assorbite nel processo di produzione. Per ora lasciamo da parte quest’ul­ timo punto. Infine mediante accrescimento assoluto della popolazione ope­ raia con l’accrescimento della popolazione generale. L ’accumulazione, come processo costante, continuo, è condizionata da questo accrescimento assoluto della popolazione, benché essa diminuisca relativamente rispetto al capitale impiegato. h * a c cre sc im e n to d e lla p o p o la z io n e appare come il fondamento dell’accumulazione in quanto processo continuo. Ma ciò presuppone un sa­ lario medio, che permetta l’accrescimento costante della popolazione operaia, non solo la sua riproduzione» (T h e o rie n ü b e r den M e h rw e rt, vol. II, parte II, cap. T r a sfo rm a z io n e d e l re d d ito in c a p ita le , p. 243 [trad. it. cit., vol. II, pp. 326-27]).

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In tale presupposto l ’incremento naturale della classe lavo­ ratrice è l’unica sorgente di sviluppo numerico delle forzelavoro esistenti sotto l’impero del capitale. Senonché, que­ sta concezione contraddice alle leggi di movimento dell’ac­ cumulazione. L ’incremento naturale dei lavoratori non sta né temporalmente né quantitativamente in rapporto coi bi­ sogni del capitale in accumulo. Soprattutto, e Marx l’ha mo­ strato splendidamente, non può tenere il passo con gli im­ provvisi bisogni di espansione del capitale. La riproduzione naturale degli operai come base unica dei movimenti del ca­ pitale escluderebbe cosi lo sviluppo dell’accumulazione in un alternarsi periodico di tensione e rilassamento, come l’al­ largamento a sbalzi del campo della produzione, e rende­ rebbe perciò impossibile l’accumulazione medesima. Quest’ultima esige un’illimitata libertà di movimento tanto in rapporto all’aumento del capitale variabile quanto in rap­ porto agli elementi del capitale costante, e perciò una possi­ bilità sconfinata di disporre di forza-lavoro addizionale. Se­ condo l ’analisi marxiana, quest’esigenza trova espressione esatta nella costituzione di un’« armata industriale di riser­ va degli operai». Lo schema marxiano della riproduzione allargata non la conosce, non lascia posto per essa. L ’eser­ cito industriale di riserva non può infatti essere costituito mediante la sola procreazione naturale del salariato indu­ striale; ha bisogno di altri serbatoi sociali ai quali attingere la forza-lavoro - quella rimasta finora al di fuori dell’impe­ ro del capitale e suscettibile di essere aggiunta quando oc­ corra alla classe lavoratrice. Queste forze-lavoro addiziona­ li, la produzione capitalistica può ottenerle stabilmente so­ lo da strati e paesi non-capitalistici. Nella sua analisi del­ l’armata industriale di riserva1Marx considera soltanto 1) l’eliminazione di lavoratori anziani ad opera della macchi­ na; 2) l’afflusso di lavoratori agricoli in città per effetto del dilagare della produzione capitalistica nell’agricoltura; 3) le forze-lavoro espulse dall’industria e ad occupazione irre­ golare; infine 4) come precipitato ultimo della sovrapopolazione relativa, il pauperismo. Tutte queste categorie rap­ ito

K a p it a l,

libro I, cap. XXIII, 3.

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presentano in forma diversa dei prodotti di scarto della pro­ duzione capitalistica, proletari salariati consumati in questa o quell’altra forma e divenuti sovrabbondanti. Anche i lavo­ ratori agricoli affluenti costantemente in città sono in Marx dei salariati ch’erano già sottoposti all’impero del capitale nelle campagne e passano agli ordini del capitale nell’indu­ stria. Marx aveva evidentemente davanti agli occhi la situa­ zione inglese ad un alto gradino di sviluppo capitalistico. Non si chiede invece, a questo proposito, da dove affluisca stabilmente questo proletariato cittadino e rurale, non con­ sidera quella che, nelle condizioni europee, è la principale fonte di questo afflusso: la continua proletarizzazione dei ceti medi contadini e cittadini, il declino dell’economia con­ tadina e del piccolo artigianato, cioè il continuo passaggio di forze-lavoro dai rapporti non-capitalistici a quelli capita­ listici come prodotti di scarto di modi di produzione non capitalistici ma precapitalistici, nel processo incalzante del­ la loro erosione e distruzione. Ma a quest’ultimo fenomeno appartiene, oltre al disfacimento dell’economia contadina e dell’artigianato europei, il tramonto delle piu diverse for­ me produttive e sociali dei paesi extraeuropei. Se la produzione capitalistica non può limitarsi alle ric­ chezze naturali e alle forze produttive della zona tempera­ ta, e anzi per la propria espansione ha bisogno di poter di­ sporre di tutte le zone e i climi della terra, tanto meno può accontentarsi delle forze-lavoro della razza bianca. Per fe­ condare terre in cui la razza bianca non può lavorare, il ca­ pitale ha bisogno di altre razze, ha bisogno di poter dispor­ re senza limiti di tutte le braccia del mondo per mobilitare tutte le forze produttive del globo - nei limiti in cui ciò è possibile nell’ambito della produzione di plusvalore. Ma queste forze-lavoro il capitale le trova entro rapporti tradi­ zionali precapitalistici, dai cui vincoli devono essere «libe­ rate» prima di poter essere arruolate nell’esercito attivo del capitale. Il processo di decantazione delle forze-lavoro da rapporti sociali primitivi e il loro assorbimento da parte del sistema salariale capitalistico costituiscono una delle basi storiche necessarie del capitalismo. L ’industria cotoniera inglese, come primo ramo schiettamente capitalistico della

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produzione, sarebbe stata impossibile non soltanto senza il cotone degli stati americani del Sud, ma anche senza i mi­ lioni di negri trapiantati dall’Africa in America per fornire le forze-lavoro necessarie alle piantagioni e, dopo la guerra di secessione, essere aggregati come proletariato libero alla classe dei salariati capitalistici L ’importanza dell’arruola­ mento di forze-lavoro indispensabili da società non-capitalistiche appare particolarmente sensibile nella forma della cosiddetta «questione operaia nelle colonie». Alla soluzio­ ne di questo problema servono tutti i possibili sistemi di «dolce violenza» per «liberare» le forze-lavoro dalla suddi­ tanza ad altre autorità sociali e ad altri rapporti di produ­ zione e sottometterle al comando del capitalismo. Da que­ sto sforzo si originano nei paesi coloniali le piu strane for­ me miste di sistema salariale moderno e di rapporti di so­ vranità primitivi2, ad illustrazione palmare del fatto che la

1 Una tabella pubblicata negli Stati Uniti poco prima della guerra di se­ cessione contiene i seguenti dati sul valore della produzione annua degli sta­ ti schiavisti e sul numero degli schiavi impiegati, l ’enorme maggioranza dei quali lavoravano nelle piantagioni di cotone: Cotone (milioni di dollari) 1800 1810 1820 1830 1840 1830 1831

Schiavi

5 ,2

893 041

I 5 ,i 26,3

I 191 364 I 343 688

3 4 ,1

2 009 033 2 487 233 3 179 509 3 200 000

7 4 ,6

101,8 1 3 7 ,3

(simons, K la sse n k ä m p fe in d e r G e sc h ic h te A m e rik a s, fascicolo spec, della «Neue Zeit», n. 7, p. 39). 2 Un esempio tipico di queste forme miste è presentato dall’ex ministro inglese Bryce a proposito delle miniere di diamanti sud africane. «La cosa più interessante da vedere a Kimberley, ed unica al mondo, sono le cosid­ dette c o m p o u n d s dove gli indigeni occupati nelle miniere vengono alloggiati e rinchiusi. Si tratta di giganteschi accampamenti all’aria aperta, ma rivestiti da una rete di fil di ferro per impedire che nulla venga gettato al di sopra dei muri. Un passaggio sotterraneo conduce alla vicina miniera. Si lavora a turni di otto ore, in modo che l ’operaio non stia mai piu di otto ore sotto­ terra. Entro la cerchia dei muri esterni sono sistemate capanne in cui gli indigeni vivono e dormono. Vi sono anche un ospedale e una scuola in cui gli operai possono, nelle ore di libertà, imparare a leggere e scrivere. Non si vendono bevande alcoliche... Tutte le entrate sono sottoposte a stretta vigilanza, ed è vietato l’accesso ad estranei, indigeni o bianchi; i mezzi

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produzione capitalistica non può fare a meno per il suo svi­ luppo di forze-lavoro di altre formazioni sociali. Marx esamina bensì attentamente il processo dell’appro­ priazione di mezzi di produzione non-capitalistici e di tra­ sformazione del contadiname in proletariato capitalistico. L ’intero capitolo XXIV del I libro del Capitale è dedicato alla descrizione della genesi del proletariato inglese, della classe degli affittavoli capitalistici e del capitale industriale. In quest’ultimo processo ha —nella descrizione di Marx un ruolo predominante la spoliazione dei paesi coloniali ad opera del capitale europeo. Tutto ciò è visto sotto l’angolo visuale della cosiddetta «accumulazione primitiva». I pro­ cessi indicati da Marx illustrano solo la genesi, il primo na­ scere del capitalismo, le doglie del parto all’atto dell’uscita di sussistenza sono forniti da uno spaccio di proprietà dell’azienda, che si trova nello stesso accampamento. Il c o m p o u n d della miniera De Beers accoglieva al tempo della mia visita 2600 indigeni di tutte le tribù possibili, cosicché vi si potevano vedere esemplari dei piu diversi tipi negri, dal Natal e dal Pondoland, nel sud, fino al lago Tanganika ad est. Essi vengono dai quattro punti cardinali, allettati dagli alti salari, e vi rimangono tre mesi e a volte più... In questo vasto c o m p o u n d rettangolare si vedono zulù del Na­ tal, fingo, pondo, tembu, basuto, beciuana, sudditi di Gungunhana dei pos­ sedimenti portoghesi, alcuni matabele e makalaka e molti cosiddetti Zambesi-boys delle tribù residenti lungo le rive di questo fiume. Non mancano neanche boscimani o perlomeno indigeni da loro discendenti. Convivono pa­ cificamente e nelle ore libere si divertono a modo loro. Oltre a giochi d’az­ zardo, abbiamo visto un gioco simile all’inglese “ volpe ed oche” , giocato con pietre su una tavola; si fa anche della musica su strumenti primitivi, per esempio sul cosiddetto pianoforte cafro, composto di piastrine di ferro di diversa lunghezza allineate su un telaio, e su uno strumento ancora piu rozzo fatto di bastoncini di legno duro di lunghezza ineguale, dai quali si può, battendoli, trarre diversi suoni, rudimenti di una melodia. Qualcuno leggeva o scriveva, gli altri facevano cucina o chiacchieravano. Molti indi­ geni chiacchierano senza posa, e in questo calderone di negri si possono sen­ tire dozzine di lingue solo a passare da un gruppo all’altro». I negri, soli­ tamente, dopo molti mesi di lavoro lasciano la miniera coi loro risparmi e tornano alla loro tribù, per comprarsi una donna e riprendere la vita nel­ l’ambiente tradizionale (james bryce, I m p r e s sio n s o f S o u th A fric a , 1897, trad. ted. Z900, p. 206). Nello stesso libro una descrizione vivace dei metodi con cui nel Sud Africa si risolve la «questione operaia». Si apprende cosi come i negri siano costretti a lavorare nelle miniere di Kimberley, nel Witwatersrand, nel Natal, nel Matabeleland, perché è stato loro sottratto ogni mezzo di vita, dalla terra al bestiame; proletarizzati, sfiancati dall’acquavite (più tardi, quando ormai sono assuefatti all’alcool, si proibiscono loro le «bevande alcooliche» perché l ’oggetto da sfruttare dev’essere mantenuto in buono stato) essi vengono poi costretti nel «sistema salariale» con la forza, la prigione e la frusta.

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del modo di produzione capitalistico dal grembo della so­ cietà feudale. Ma, nel dare l’analisi teorica del processo di produzione e circolazione del capitale, Marx torna conti­ nuamente al suo presupposto di un predominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica. Senonché, anche nella sua maturità piena, il capitalismo è legato in ogni suo rapporto all’esistenza contemporanea di strati e società non-capitalistici. Questo rapporto non è esaurito dalla semplice questione del mercato di sbocco per la «produzione eccedente», sollevata da Sismondi e dai suc­ cessivi critici e scettici dell’accumulazione capitalistica. Il processo di accumulazione del capitale è legato alle forme di produzione non-capitalistica attraverso tutti i suoi rap­ porti materiali e di valore: capitale costante, capitale varia­ bile, plusvalore; ed esse formano l’ambiente storico dato in cui quel processo si svolge. L ’accumulazione non solo non può essere raffigurata nel presupposto del dominio esclusi­ vo ed assoluto del modo di produzione capitalistico, ma è addirittura impensabile sotto ogni aspetto senza un ambien­ te non-capitalistico. Sismondi e i suoi successori ebbero tut­ tavia un giusto intuito delle condizioni di esistenza dell’ac­ cumulazione quando ne ridussero le difficoltà esclusivamen­ te alla realizzazione del plusvalore. Fra le condizioni di quest’ultima e le condizioni dell’allargamento del capitale co­ stante e variabile nella sua forma materiale esiste una diffe­ renza essenziale. Il capitale non può fare a meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero globo; ha, per l’illimitato svolgimento del suo moto di accumulazione, bi­ sogno delle ricchezze naturali e delle forze di lavoro di tut­ ta la terra. Poiché queste, nell’enorme maggioranza, si tro­ vano concretamente nell’ambito di forme di produzione precapitalistiche - ambiente storico dell’accumulazione del capitale - , ne viene il poderoso impulso del capitale ad im­ possessarsi di tutte le terre e di tutte le società. La produ­ zione capitalistica, per esempio, potrebbe di per sé anche servirsi del caucciù prodotto in piantagioni a conduzione capitalistica come ne esistono già in India. Ma l’effettivo predominio di rapporti sociali non-capitalistici nei paesi do­ ve quei rami di produzione si sono sviluppati spinge il ca­

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pitale a sottoporre quei paesi e quelle società al proprio po­ tere, processo nel quale i rapporti sociali primitivi permet­ tono sviluppi dell’accumulazione straordinariamente rapidi e poderosi, come sarebbero inconcepibili in un ambiente so­ ciale puramente capitalistico. Diversamente stanno le cose per la realizzazione del plus­ valore. Questa è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L ’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappre­ senta perciò il punto decisivo del problema dell’accumula­ zione del capitale. Comunque sia, l’accumulazione del capitale come proces­ so storico è di fatto orientata, in tutti i suoi rapporti, verso strati e forme sociali non-capitalistiche. La soluzione del problema intorno al quale per quasi un secolo l’economia politica si arrovella sta dunque fra i due estremi; fra lo scetticismo piccolo-borghese di Sismondi, v. Kirchmann, Voroncov, Nikolaj-on, che proclamavano im­ possibile l’accumulazione, e l’ottimismo ingenuo di Ricar­ do, Say, Tugan-Baranovskij, per i quali il capitalismo può illimitatamente fecondarsi, ergo —logica conseguenza - è di durata eterna. La soluzione sta, nel senso della dottrina marxiana, nella contraddizione dialettica per cui l’accumu­ lazione capitalistica esige come ambiente per il suo svilup­ po formazioni sociali non-capitalistiche, procede innanzi in un continuo ricambio organico con esse, può esistere solo finché trova intorno a sé quell’ambiente. Partendo da questo dato, è possibile rivedere i concetti di mercato interno ed esterno di sbocco, che hanno avuto un ruolo così decisivo nella polemica teorica sul problema dell’accumulazione. Mercato interno ed esterno hanno un grande e diverso peso nel moto dello sviluppo capitalistico, non però come concetti della geografia politica, ma come concetti dell’economia sociale. Dal punto di vista della pro­ duzione capitalistica, mercato interno è mercato capitalistico, è questa stessa produzione come acquirente dei suoi pro­ pri prodotti e fonte di rifornimento dei suoi propri elemen­ ti produttivi. Mercato esterno è per il capitale l’ambiente

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sociale non-capitalistico che assorbe i suoi prodotti e gli fornisce elementi produttivi e forze di lavoro. Da questo angolo visuale economico, Germania e Inghilterra sono, nel loro scambio reciproco di merci, l’una per l’altra mercato prevalentemente interno, capitalistico, mentre lo scambio fra l’industria tedesca e i consumatori e produttori contadi­ ni della stessa Germania rappresenta per il capitale tedesco un rapporto di mercato esterno. Nella circolazione capitali­ stica interna possono essere realizzate, nel migliore dei ca­ si, solo determinate parti componenti del prodotto sociale totale: il capitale costante consumato, il capitale variabile, la parte consumata del plusvalore; ma la parte destinata al­ la capitalizzazione del plusvalore dev’essere realizzata «al­ l ’estero». Se la capitalizzazione del plusvalore è lo scopo specifico e il motivo animatore della produzione, il rinnovo del capitale costante e variabile (e della parte consumata del plusvalore) ne è d ’altra parte la larga base e la premessa. E se lo sviluppo internazionale del capitalismo rende sempre piu urgente e precaria la capitalizzazione del plusvalore, la larga base del capitale costante e variabile diventa, come massa, sempre più vasta in assoluto e in rapporto al plusva­ lore. Di qui il fenomeno contraddittorio per cui gli antichi paesi capitalistici rappresentano gli uni per gli altri dei mer­ cati di sbocco sempre piu grandi, sono sempre piu recipro­ camente indispensabili, e tuttavia si combattono sempre piu fra di loro come concorrenti nei rapporti con paesi non­ capitalistici '. Le condizioni della capitalizzazione del plus­ valore e le condizioni del rinnovo del capitale totale entra­ no sempre piu in contrasto reciproco —che è d ’altronde so­ lo un riflesso della legge contraddittoria della caduta del saggio di profitto. Tipiche sotto quest’aspetto le relazioni fra Inghilterra e Germania.

CAPITOLO V E N T ISE T T E SIM O LA L O T T A CONTRO L ’ECO N O M IA N A T U R A L E

Il capitalismo nasce e si sviluppa storicamente in un am­ biente sociale non-capitalistico. Nei paesi dell’Europa occi­ dentale, lo circonda in un primo tempo un ambiente feuda­ le dal cui grembo esso esce: l’economia servile nelle cam­ pagne, l’artigianato corporativo in città; poi, eliminato il feudalesimo, un ambiente prevalentemente artigiano-conta­ dino, e perciò una produzione semplice di merci nell’agri­ coltura come nei mestieri; infine una gigantesca fascia di ci­ viltà extraeuropee che presentano l’intera scala dello svi­ luppo storico, dalle tribu primitive comunistiche di caccia­ tori e pescatori nomadi fino alla produzione contadina e ar­ tigiana di merci. All’interno di quest’ambiente il processo di accumulazione del capitale si apre una strada. Occorre a questo proposito distinguere tre fasi: la lotta del capitale contro l’economia naturale; la lotta contro l’e­ conomia mercantile semplice; la lotta di concorrenza fra i capitali su scala mondiale per l’accaparramento delle resi­ due possibilità di accumulazione. Il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo ulteriore sviluppo, di un ambiente costituito da forme di produzione non-capitalistiche. Ma non ognuna di queste forme gli serve. Strati sociali non-capitalistici gli occorrono come mercati di sbocco del plusvalore, come fonti di ap­ provvigionamento dei mezzi di produzione, come riserve di forze-lavoro per il sistema salariale. A tutti questi scopi, il capitale non sa che farsene delle forme di produzione ad economia naturale. In tutte le formazioni ad economia natu­ rale —si tratti di comunità primitive con proprietà colletti­ va del suolo, di rapporti servili feudali o simili - l’elemen­ to dominante nell’economia è la produzione per la soddisfa­ zione dei bisogni interni: non v ’è dunque, o è ridotta, una

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richiesta di merci di provenienza esterna, né esiste di rego­ la una eccedenza di prodotti, o almeno un urgente bisogno di smerciare prodotti eccedenti. Ma, cosa ancor piu impor­ tante, tutte le forme di produzione ad economia naturale poggiano su tipi piu o meno simili di regolamentazione del­ le forme produttive e delle forze-lavoro. La comunità con­ tadina a tipo comunista o il feudo si basano, nella loro or­ ganizzazione economica, sul vincolo del principale mezzo di produzione —il suolo — e delle forze-lavoro, in virtù del diritto e della consuetudine. L ’economia naturale oppone dunque alle esigenze del capitale, sotto tutti gli aspetti, ri­ gide barriere. Perciò il capitalismo conduce sempre e ovun­ que una preventiva campagna di annientamento contro l’e­ conomia naturale in qualsivoglia forma storica gli si presen­ ti: contro l’economia schiavista, contro il feudalismo, con­ tro il comuniSmo primitivo, contro l ’economia contadina patriarcale. I mezzi fondamentali di questa lotta, a volte paralleli, a volte successivi e integrantisi l’un l ’altro, sono la violenza politica (rivoluzioni, guerre), la pressione fisca­ le, il basso prezzo delle merci. Se, nella lotta contro il feu­ dalismo in Europa, la violenza si manifestò in forma rivo­ luzionaria (le rivoluzioni borghesi dei secoli x v ii , x v iii e XIX, in ultima analisi vi appartengono), nei paesi extraeuro­ pei la violenza prende, nella lotta contro forme sociali più primitive, il carattere della politica coloniale. Il sistema fi­ scale ivi praticato, il commercio con primitive comunità agricole, costituiscono una miscela in cui la violenza politica e i fattori economici s’intrecciano e si completano a vicenda. Gli scopi economici perseguiti dal capitalismo nella lotta contro le società ad economia naturale sono:I I ) impadronirsi direttamente di importanti sorgenti for­ ze produttive come il suolo, le foreste, i minerali, le pietre preziose, i prodotti della flora esotica (come il caucciù) ecc.; 2) «liberare» forze-lavoro e costringerle a lavorare per il capitalismo; 3) introdurre l’economia mercantile; 4) separare agricoltura e artigianato.

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Nell’accumulazione primitiva, cioè ai primi albori stori­ ci del capitalismo in Europa e fino al secolo xix avanzato, l’erosione dell’economia contadina costituì in Inghilterra e sul continente il mezzo piu potente per la trasformazione di mezzi di produzione e di forze-lavoro in capitale. Oggi, 10 stesso obiettivo è perseguito, con mezzi ben altrimenti poderosi, nella politica coloniale. È un’illusione sperare che 11 capitalismo si accontenti dei soli mezzi di produzione che può far sorgere dallo scambio delle merci. La difficoltà per il capitale sta, sotto questo aspetto, già nel fatto che, su enormi estensioni della superficie terrestre sfruttabile, le forze produttive si trovano in possesso di formazioni socia­ li non orientate verso lo scambio, o non disposte a vendere i piu importanti mezzi di produzione che al capitale interes­ sano, perché vi si oppongono sia le forme di proprietà che l’intera struttura sociale. È il caso in primo luogo della ter­ ra, con tutte le ricchezze minerarie del sottosuolo, coi cam­ pi le foreste e le acque in superficie, col patrimonio zootec­ nico dei primitivi popoli allevatori. Affidarsi al processo di disfacimento interno, graduale e secolare, di queste econo­ mie naturali, aspettare che al suo termine esso porti all’alie­ nazione dei principali mezzi di produzione per la via del commercio, sarebbe per il capitale rinunciare alle forze pro­ duttive dei rispettivi territori. Perciò il capitale persegue nei confronti dei popoli coloniali (ed è una sua condizione di vita) l ’appropriazione violenta dei principali mezzi di produzione. Ma poiché le comunità sociali primitive degli indigeni sono a un tempo il piu forte baluardo della società e la base materiale della sua esistenza, premessa di questa appropriazione è un’opera sistematica e pianificata di di­ struzione e annientamento delle comunità sociali non-capitalistiche, in cui il capitale si imbatte nel corso della sua espansione. Non siamo piu, qui, nel raggio dell’accumula­ zione primitiva: è un processo che dura ancora ai giorni nostri. Ogni nuova espansione coloniale è naturalmente ac­ compagnata da questa tenace lotta del capitale contro i rap­ porti sociali ed economici in cui gli indigeni vivono, e dalla rapina dei loro mezzi di produzione e delle loro forze-lavo­ ro. La speranza di poter orientare il capitalismo verso la pu-

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ra «concorrenza pacifica», cioè verso il normale scambio delle merci cosi come si effettua fra paesi a produzione capi­ talistica, quale unica base della sua accumulazione, si fonda sull’illusione teorica che l ’accumulazione capitalistica possa fare a meno delle forze produttive e della domanda delle strutture sociali primitive, e affidarsi al lento processo di di­ sgregazione interna dell’economia naturale. In realtà, l’ac­ cumulazione capitalistica non solo non può, nel suo espan­ dersi a sbalzi, contare sul semplice incremento naturale del­ la popolazione lavoratrice, ma non può neppure attendere la lenta decomposizione naturale delle forme non-capitalistiche e il loro pacifico trapasso all’economia mercantile. Il capitale non conosce altra soluzione al problema che la vio­ lenza: metodo costante dell’accumulazione del capitale, co­ me processo storico, non solo al suo primo nascere, ma an­ che oggi. Per le società primitive, trattandosi in tal caso di una questione di vita o di morte, non resta altro comporta­ mento che la resistenza a oltranza, la lotta fino all’esauri­ mento completo o fino allo sfacelo. Di qui l’occupazione militare permanente delle colonie, le rivolte delle popola­ zioni indigene, le spedizioni coloniali per la loro repressio­ ne, come fenomeni permanenti all’ordine del giorno del co­ lonialismo. Il metodo violento è qui conseguenza diretta dell’urto fra il capitalismo e le formazioni ad economia na­ turale che oppongono una barriera alla sua accumulazione. Il capitale non può fare a meno dei loro mezzi di produzio­ ne e delle loro forze-lavoro, come non può fare a meno del­ la loro domanda del suo sovraprodotto. Ma per sottrar loro mezzi di produzione e forze-lavoro, per trasformarle in ac­ quirenti di merci, esso tende con uno sforzo cosciente e si­ stematico ad annientarle come formazioni sociali autono­ me. Questo metodo è il piu efficace dal punto di vista del capitale, perché è nello stesso tempo il piu rapido e il piu redditizio. Infatti esso ha per contropartita il crescente mi­ litarismo, della cui importanza ai fini dell’accumulazione parleremo piu avanti. Classici esempi dell’impiego di que­ sti metodi da parte del capitale nelle colonie, sono la politi­ ca inglese in India e francese in Algeria. L ’antichissima organizzazione economica degli indiani

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- la comunità di villaggio di tipo comunista - si era conser­ vata per millenni in diverse forme, e aveva compiuto una lunga parabola storica interna nonostante le tempeste poli­ tiche. Nel vi secolo a. C., i persiani fecero breccia nel terri­ torio degli indù e sottomisero una parte del paese. Due se­ coli dopo apparvero i greci, che lasciarono dietro di sé, pro­ paggini di una civiltà straniera, le colonie alessandrine. Se­ gui un’invasione dei selvaggi sciti; poi, per secoli, l’India fu dominata dagli arabi finché dalle alture dell’Iran scesero gli afgani, anch’essi cacciati piu tardi dal dilagare tempesto­ so delle orde tartare della Transossania. Terrore e morte segnarono il cammino percorso dai mongoli, interi villaggi furono rasi al suolo, e i pacifici campi dai delicati steli di ri­ so si tinsero di porpora per i fiumi di sangue versato. Ma la comunità di villaggio indiana sopravvisse a tutte queste vi­ cende, e i diversi conquistatori maomettani succedutisi nel paese finirono per conservare immutate la vita sociale in­ terna della massa contadina e la sua struttura tradizionale: si limitarono a lasciare nelle province i loro governatori, in­ caricati di sorvegliarne l’organizzazione militare e di curare la riscossione delle imposte. Tutti i conquistatori procedet­ tero all’assoggettamento e sfruttamento del paese; nessuno ebbe interesse a sottrarre al popolo le sue forze produttive e ad annientarne l’organizzazione sociale. Nel regno del Gran Mogol, il contadino fu costretto a versare un tributo annuo in natura alla potenza dominante, ma potè vivere indistur­ bato nel suo villaggio e, come i suoi antenati, coltivare il ri­ so sulla sua sholgura. Poi vennero gli inglesi, e l’alito pesti­ fero della civiltà capitalistica compì in breve tempo ciò che millenni non avevano saputo fare, ciò che la spada dei Nogai non era riuscita a portare a termine: la rovina dell’intera or­ ganizzazione sociale popolare. Scopo del capitalismo ingle­ se era in definitiva la presa di possesso violenta della base fondamentale di vita delle comunità indiane, la terra. A questo fine servì l’espediente, caro da secoli ai coloniz­ zatori europei, di dichiarare tutta la terra delle colonie pro­ prietà del sovrano politico. Gli inglesi donarono l’intera In­ dia in possesso privato al Gran Mogol e ai suoi luogotenen­ ti, per poi ereditarla come loro «legittimi» successori. I piu

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eminenti economisti giustificarono questa finzione con ze­ lanti argomenti «scientifici», e soprattutto col famoso sillo­ gismo: è necessario ammettere che la proprietà fondiaria appartenga, in India, al sovrano, «perché se ammettessimo che non lui fosse il proprietario, non saremmo in grado di dire chi ora s ia » 1. Conseguentemente, gli inglesi, già nel 1 Dopo di avere, nella sua storia delle Indie britanniche, affastellato acri­ ticamente testimonianze dalle fonti piu diverse, da Mungo Park a Erodoto, da Volney ad Acosta, da Garcilaso de la Vega e dall’abbé Grosier a Barrow, da Diodoro a Strabone ecc. per costruirvi sopra la teoria che negli ambienti sociali primitivi la terra è sempre e ovunque proprietà del sovrano, Mill ne trae anche per l’India la seguente conclusione: «From these facts only one conclusion can be drawn, that the property of the soil resided in the sove­ reign; for if it did not reside in him, it will be impossible to show to whom it belonged» (james mill, T h e H isto r y o f B r itish I n d i a , 4a ed., 1840, vol. I, p. 311). A questo classico sillogismo dell’economista borghese, il suo edito­ re H. H. Wilson, che, come professore di sanscrito alla Università di Ox­ ford, conosceva perfettamente i rapporti di diritto dell’antica India, fa un interessante commento. Dopo di aver accusato di partigianeria, già nella prefazione, il suo autore, che avrebbe manipolato la storia dell’India britan­ nica per giustificare «le condizioni teoriche del signor Bentham» e tratteg­ giato con mezzi equivoci un quadro arbitrario del popolo indù («a portrait of the Hindus which has no resemblance whatever to the original, and which almost outrages humanity»), Wilson aggiunge in nota al passo citato: «The greater part of the text and of the notes here is wholly irrelevant. The illustrations drawn from Mahometan practice, supposing them to be correct, have nothing to do with the laws and rights of the Hindus. They are not, however, even accurate, and Mr. Mill’s guides have misled him». Wilson contesta poi apertamente, per quanto riguarda l’India, la teoria del diritto di proprietà del sovrano sul suolo { ib id ., p. 305, nota). Anche Henry Maine ri­ tiene che gli inglesi abbiano ereditato dai loro predecessori maomettani la originaria rivendicazione dell’intero possesso fondiario in India, ch’egli con­ sidera del tutto falsa: «The assumption which the English first made was one which they inherited from their Mahometan predecessors. It was, that all the soil belonged in absolute property to the sovereign, and that all pri­ vate property in land existed by his sufferance. The Mahometan theory and the corresponding Mahometan practice had put out of sight the ancient view of the sovereign rights, which, though it assigned to him a far larger share of the produce of the land than any western ruler has ever claimed, yet in nowise denied the existance of private property in land» (V illa g e c o m m u ­ n itie s in th e E a s t a n d W est, ÿ ed., 1890, p. 104). Per contro, M. Kovalevskij ha dimostrato in modo definitivo come la presunta «teoria e prassi mu­ sulmana» fosse soltanto una favola inventata dagli inglesi (cfr. il suo ottimo studio sulla proprietà del suolo, le cause e le conseguenze della sua distru­ zione, pubblicato a Mosca nel 1879, parte I). Gli scienziati inglesi, come del resto i loro colleghi francesi, si attengono oggi ad un’analoga fiaba nei con­ fronti della Cina, sostenendo che tutta la terra fosse ivi proprietà dell’impe­ ratore (cfr. la demolizione di questa leggenda in o. franke, D ie R e ch tsv e r­ h ä ltn isse am G ru n d e ig e n tu m in C h in a , 1903). [Per una raccolta degli artico­ li di Marx sull’India sotto la dominazione inglese, cfr. il già citato In d ia , C i­ n a, R u s s ia (in particolare pp. 47-117 e 307-11)].

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1793, trasformarono in proprietari fondiari gli zemindari, cioè i preesistenti esattori d ’imposte maomettani e i sovrin­ tendenti ai mercati dei loro distretti per crearsi in tal modo un solido appoggio nel paese per le campagne contro le mas­ se contadine. Nello stesso modo agirono nelle successive conquiste, nella provincia di Agra, a Oudh, nelle Province Centrali. Conseguenza ne fu una serie di furibonde rivolte contadine con frequenti espropriazioni degli esattori di im­ poste. E, nel disordine e nell’anarchia generali che ne se­ guirono, i capitalisti inglesi trovarono modo di imposses­ sarsi di una parte notevole delle terre. Inoltre, il carico fiscale fu elevato con una tale spregiudi­ catezza, da divorare l’intero frutto del lavoro delle popola­ zioni native. Si giunse al punto che (secondo la testimonian­ za ufficiale delle autorità fiscali inglesi nel 1854) nei distret­ ti di Delhi e Allahabad i contadini ritennero piu vantaggio­ so pignorare e affittare i propri appezzamenti di terreno contro le somme dovute a titolo di imposta. Sulla base di questo sistema fiscale, l’usuraio penetrò nel villaggio india­ no e vi si radicò come un cancro divorante dall’interno l’or­ ganizzazione sociale '. Per accelerare questo processo, gli in­ glesi introdussero una legge che calpestava inesorabilmente tutte le tradizioni e i concetti giuridici delle comunità di villaggio: la vendita forzosa dei campi comunali a copertu­ ra degli arretrati nel pagamento delle imposte. Le tribù cer­ carono invano di difendersi contro questo attentato me­ diante il diritto di prima compera dell’intero distretto e dei distretti affini. Ma il processo di erosione era ormai in pie­ no sviluppo. Vendite forzose, uscita di singoli dalle co­ munità, indebitamenti, espropriazioni, erano all’ordine del giorno. Come fu sempre loro tattica nelle colonie, gli inglesi cer­ carono di dare alla loro politica di forza, cui si dovevano la sopravvenuta incertezza nei rapporti di proprietà del suolo1 1 «The partition of inheritances and execution for debt levied on land are destroying the communities - this is the formula heard now-a-days every­ where in India» (h. Maine, Village communities in the East and West, pa­ gina 113).

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e lo sfacelo della economia contadina degli indù, l’apparen­ za di un’azione svolta negli interessi delle classi agricole e a loro protezione dai tiranni e sfruttatori locali ', e come tale necessaria. In realtà, fu l ’Inghilterra a creare artificialmen­ te a spese dei secolari diritti di proprietà delle comunità contadine un’aristocrazia terriera, per poi, dietro le quinte, proteggere i contadini contro questi oppressori e trasferire in mani inglesi la «terra illegalmente usurpata». Così, in breve tempo, nacque in India la grande proprie­ tà fondiaria, mentre su enormi estensioni i contadini erano trasformati in una massa impoverita e proletarizzata di pic­ coli affittuari con canoni di affitto a breve termine. Infine, il metodo specifico della colonizzazione capitali­ stica si espresse in un fatto decisivo: gli inglesi furono i pri­ mi conquistatori dell’India a mostrare una completa indif­ ferenza per le opere pubbliche di carattere economico. Ara­ bi, afgani, mongoli intrapresero o favorirono in India gi­ gantesche opere di canalizzazione, ricoprirono di una rete stradale il paese, gettarono ponti sui fiumi, fecero scavare pozzi e fontanili. Il capostipite della dinastia mongola, Ti­ mur o Tamerlano, si preoccupò della coltivazione del suolo,1 1 Questa tipica illustrazione della politica ufficiale inglese nelle colonie si trova per esempio nel libro di uno dei rappresentanti della potenza ingle­ se in India, Lord Roberts of Kandahar, il quale non trova di meglio, per spiegare la rivolta dei Sepoy, che lamentare gli «equivoci» sulle paterne in­ tenzioni dei reggitori britannici: «Si accusò falsamente di ingiustizia la com­ missione coloniale perché, come era suo dovere, controllò la legittimità del possesso terriero e i titoli ad esso legati, per poi sottoporre il proprietario le­ gittimo all’imposta fondiaria... Ristabiliti pace e ordine, s’imponeva la neces­ sità di verificare la proprietà terriera, spesso ottenuta mediante rapina e vio­ lenza, com’è consuetudine delle dinastie e dei governanti indigeni. A questo fine furono iniziate indagini in merito ai titoli di proprietà ecc. Risultato di queste fu che molte famiglie di rango e d’influenza s’erano semplicemente appropriata la terra di loro vicini meno altolocati, o li avevano costretti a pagar tributi corrispondenti al loro possesso terriero. A tutto questo si rime­ diò secondo giustizia. Questi provvedimenti, sebbene presi con grandi cau­ tele e con le migliori intenzioni di questo mondo, riuscirono però estremamente sgraditi alle classi superiori, mentre non riuscirono a conciliare le grandi masse. Le famiglie regnanti presero in mala parte i nostri sforzi di introdurre una giusta distribuzione dei diritti e una tassazione uniforme della proprietà terriera... E sebbene la popolazione contadina vedesse mi­ gliorare le sue condizioni di vita, non volle riconoscere che a questo appunto miravano i nostri provvedimenti» (F o rty O n e Y e a r s in I n d ia , trad, ted., 1904, vol. I, p. 307).

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dell’irrigazione, della sicurezza delle vie di comunicazione della protezione dei viaggiatori « I primitivi rajah indiani, i conquistatori afgani e mongoli, a volte crudeli verso gli individui, contrassegnarono tuttavia il loro dominio con le mirabili costruzioni che oggi s’incontrano ad ogni piè so­ spinto, e che sembrano opera di una razza di giganti... La compagnia [la Compagnia inglese delle Indie orientali, che spadroneggiò in India fino al 1858] non ha aperto una sor­ gente, non ha scavato un pozzo, non ha costruito un canale, non ha eretto un ponte a vantaggio degli indiani»12. Un altro testimone, l’inglese James Wilson, dice: «Nella provincia di Madras si rimane involontariamente colpiti dalle grandiose canalizzazioni secolari, le cui tracce si sono conservate fino ai nostri tempi. Sistemi di dighe, che rego­ lavano i fiumi, permisero la creazione di interi laghi dai quali l ’acqua veniva trasportata mediante canali per un rag­ gio di 60-70 miglia. Su certi fiumi vi erano da 30 a 40 di­ ghe... L ’acqua piovana che scendeva dai monti fu raccolta a questo scopo in stagni artificiali della circonferenza di 13 a 20 miglia. Queste gigantesche costruzioni furono esegui­ te quasi tutte prima del 1750. Nell’epoca delle guerre della Compagnia coi sovrani mongoli e, dobbiamo aggiungere, 1 Nelle massime di governo di Timur (tradotte dal persiano in inglese nel 1783), si legge: «And I commanded that they should build places of worship, and mo­ nasteries in every city; and that they should erect structures for the recep­ tion of travellers on the high roads, and that they should make bridges across the rivers. «And I commanded that the ruined bridges should be repaired; and that bridges should be constructed over the rivulets and over the rivers; and that on the roads, at the distance of one stage from each others, Kauruwansarai should be erected, and that guards and watchers &c. should be sta­ tioned on the road, and that in every Kauruwansarai people should be ap­ pointed to reside etc. «And I ordained, whoever undertook the cultivation of waste lands, or built an aqueduct, or made a canal, or planted a grove, or restored to culture a deserted district, that in the first year nothing should be taken from him, and that in the second year, whatever the subject voluntarily offered should be received, and that in the third year duties should be collected according to the regulations» (in j. m ill , The History of British India, 4“ ed., vol. II, pp. 492-98). 2 warren, De Tétât moral de la population indigene, cit. da m . m . koVALEVSKIJ, O p . d t., p. 164. 14

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per tutto il periodo della nostra dominazione in India, sono cadute tutte in rovina» Era piu che naturale: per il capitale inglese non si tratta­ va di mantenere in vita le comunità indiane di villaggio, o di aiutarle economicamente, ma al contrario di distrugger­ le, di strappar loro le forze produttive. La fame divorante dell’accumulazione, che vive per sua essenza intrinseca del­ le «congiunture» e non è in grado di pensare al domani, non può apprezzare il valore delle grandi opere economiche del passato da un punto di vista che guardi piu in là del­ l’immediato presente. In Egitto, quando si trattò di co­ struire ciclopiche dighe lungo il Nilo per gli scopi del capi­ tale, gli ingegneri inglesi si ruppero la testa per scoprire le tracce delle stesse antiche canalizzazioni che, con stupida noncuranza da predoni barbarici, avevano lasciato cadere in rovina nelle loro province indiane. Del resto, gli inglesi impararono ad ammirare l’opera preziosa delle loro stesse mani solo quando la terribile carestia, che nel solo distretto di Orissa aveva falciato in un anno un milione di vite uma­ ne, obbligò il parlamento britannico ad aprire, nel 1867, un’inchiesta sulle cause della tragica situazione creatasi in India. Ora, il governo inglese cerca di salvare il contadino, per via amministrativa, dalle grinfie degli usurai. Il Punjab Alienation Act (1900) vieta l’alienazione forzata o l’impo­ sizione delle terre di contadini a favore di appartenenti ad altre caste che non siano le agricole, e in casi singoli fa di­ pendere le eccezioni a questa regola dal consenso dell’esat­ tore delle imposte \ Dopo aver spezzato le fasce protettive delle antiche comunità sociali degli indù e aver alimentato un’usura per cui un interesse del 15% è normale, gli ingle­ si mettono il contadino indiano rovinato e immiserito sotto12

1

H is t o r ic a l a n d D e sc r ip tiv e A c c o u n t o f B ritish I n d ia fro m th e M o s t R e ­ m o te P e r io d to th e C o n c lu sio n o f th e A fg h a n W ar, by Hugh Murray, James

Wilson, Greville, prof. Jameson, William Wallace and Captain Dalrymple;

4“ ed., Edinburgh 1843, vol. II, p. 427. Cit. da M. m. kovalevskij, o p . c it., P. 164. 2 victor V. leyden, A g ra rv e rfa ssu n g u n d G r u n d ste u e r in B ritisc h -O stin -

d ie n , in «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft», anno xxxvi, fase. 4, p. 1835.

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la tutela del fisco e dei suoi funzionari, cioè sotto la «prote­ zione» delle sue dirette sanguisughe. Accanto al martirio dell’India britannica, merita un po­ sto di onore nell’economia coloniale capitalistica la storia della politica francese in Algeria. Quando i francesi conqui­ starono l’Algeria, nella massa della popolazione arabo-cabi­ la dominavano le antichissime istituzioni sociali ed econo­ miche che, nonostante la lunga e movimentata storia politi­ ca del paese, fino al secolo xix e in parte anche oggi, erano tuttavia riuscite a salvarsi. Se nelle città, fra i mori e gli ebrei, fra commercianti arti­ giani e usurai, dominava la proprietà privata e, nelle cam­ pagne, già grandi estensioni di terra erano state usurpate come demanio statale dai vassalli turchi, tuttavia quasi la metà della terra coltivata continuava ad appartenere in pro­ prietà indivisa alle tribù arabo-cabile; e qui vigevano anco­ ra secolari, patriarcali costumi. La stessa vita nomade, ap­ parentemente instabile e priva di regole, ma in realtà stret­ tamente organizzata ed uniforme, conduceva ancora nel se­ colo X IX , come in tempi antichissimi, molte tribù arabe con uomini donne e bimbi, cavalli e tende, d ’estate sulla fascia costiera del Teli sventagliata dalle fresche brezze marine, e d ’inverno nel calore protettivo del deserto. Ogni tribù ed ogni stirpe aveva fissate le direttrici di marcia delle sue mi­ grazioni, e le sue stazioni invernali ed estive con gli accam­ pamenti temporanei. Gli arabi dediti alla coltivazione del suolo possedevano per lo più in proprietà collettiva delle stirpi la terra. Altrettanto patriarcale, e organizzata secon­ do norme tradizionali, era la vita delle grandi famiglie cabi­ le sotto la direzione del loro capo elettivo. L ’economia domestica di questi grandi complessi fami­ liari era diretta in forma indivisa dal più vecchio membro femminile, o sulla base di una scelta fatta dalla famiglia o, in ordine gerarchico, dalle donne. La grande famiglia cabi­ la, che, in questa sua organizzazione ai margini del deserto africano, offriva un curioso parallelo della celebre zadruga degli slavi del Sud, era proprietaria non soltanto del suolo, ma anche di tutti gli attrezzi, le armi, il denaro, necessari all’esercizio del mestiere di tutti i suoi membri. Ad ogni

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uomo apparteneva in proprietà privata solo un vestito, a ogni donna soltanto il corredo e gli ornamenti ricevuti in dono dallo sposo. Ma tutte le vesti preziose e i gioielli era­ no proprietà indivisa della famiglia e potevano essere usati dai singoli solo col consenso di tutti. Se la famiglia non era troppo numerosa, prendeva i pasti a una tavola comune, e tutte le donne cucinavano a turno, mentre le vecchie prov­ vedevano alla distribuzione del cibo. Se la cerchia delle per­ sone era troppo vasta, i mezzi di sussistenza venivano divisi ogni mese dall’autorità preposta alla comunità secondo cri­ teri di rigorosa uguaglianza, e le singole famiglie, dopo averli ricevuti allo stato grezzo, provvedevano a cucinarli ciascuna per conto proprio. Stretti vincoli di solidarietà, mutuo soccorso e uguaglianza rendevano compatte queste comunità, e i patriarchi solevano, sul letto di morte, affida­ re ai figli come ultimo retaggio l’osservanza rigorosa del le­ game familiare ’. Già il dominio turco, stabilitosi in Algeria nel secolo xvi, aveva inferto duri colpi a questi rapporti sociali. Fu però una leggenda creata piu tardi dai francesi che i turchi aves­ sero confiscato l’intero suolo a favore del fisco. Questa fan­ tasia, che poteva venire in mente solo ad europei, è con­ traddetta dall’intera base economica dell’Islam, e dal modo di vita dei suoi fedeli. Al contrario, i rapporti di proprietà della terra delle comunità di villaggio e delle grandi fami­ glie furono lasciati, in generale, intatti, e solo gran parte dei terreni incolti furono sottratti alle tribù come demanio dello stato e trasformati, sotto i luogotenenti turchi, in beyliks, in parte amministrati direttamente dallo stato con for­ ze-lavoro indigene, in parte dati in affitto contro interesse o1 1 «Presque toujours, le père de famille en mourant recommande à ses descendants de vivre dans l ’indivision, suivant l’exemple de leurs aïeux; c’est là sa dernière exhortation et son vœu le plus cher» (a. hanotaux e A. LETOURNEUX, h a K a b y lie e t le s c o u tu m e s k a b y le s , 1873, vol. II: D ro it C i­ v il, pp. 468-73). Gli autori fanno d’altronde precedere alla descrizione sue­ sposta del comuniSmo delle grandi famiglie cabile la seguente sentenza: «Dans la ruche laborieuse de la famille associée, tous sont réunis dans un but commun, tous travaillent dans un intérêt général; mais nul n’abdique à sa liberté et ne renonce à ses droits héréditaires. Chez aucune nation on ne trouve de combinaison qui soit plus près de l’égalité et p lu s lo in d u co m ­ m u n ism e » .

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contro prestazioni in natura. Parallelamente, i turchi sfrut­ tarono ogni sommossa delle stirpi soggiogate e ogni disor­ dine nel paese per ingrossare i possedimenti demaniali me­ diante vaste confische di terreno e fondarvi colonie militari, 0 mettere alla pubblica asta i beni confiscati e farli cosi pas­ sare in mano a usurai turchi o altri. Per sfuggire alle con­ fische e al peso delle imposte, molti contadini, esattamen­ te come nella Germania medievale, si posero sotto la pro­ tezione della chiesa, che divenne in tal modo proprietaria di notevoli appezzamenti. Infine, pur dopo queste mutevoli vicende, al tempo dell’occupazione francese i rapporti di proprietà presentavano in Algeria il seguente quadro: i de­ mani abbracciavano i milione e mezzo di ettari, 3 milioni di ettari di terra incolta erano sottoposti allo stato in quali­ tà di «proprietà comune degli ortodossi» (Bled-el-Islam); la proprietà privata abbracciava altri 3 milioni di ettari in possesso fin dai tempi romani dei berberi, e 1 milione e mezzo passati a privati sotto il dominio turco. Per contro, rimanevano in proprietà comune indivisa 3 milioni di etta­ ri: quanto al Sahara, circa 3 milioni di ettari di terra colti­ vabile nella zona delle oasi si trovavano parte in proprietà indivisa delle grandi famiglie, parte in proprietà di privati. 1 rimanenti 23 milioni di ettari rappresentavano deserto. I francesi, dopo di aver trasformato l’Algeria in colonia, cominciarono con gran chiasso la loro opera civilizzatrice. Non era forse stata l’Algeria, svincolatasi sui primi del se­ colo X V III dalla sovranità turca, un nido di pirati infestanti il Mediterraneo ed esercitanti il commercio degli schiavi coi cristiani? Contro queste nefandezze dei maomettani avevano dichiarato guerra senza quartiere la Spagna e gli Stati Uniti del Nord, che pure a quei tempi non stavano, in fatto di commercio di schiavi, indietro a nessuno, e anche durante la rivoluzione francese era stata indetta una crocia­ ta contro l’anarchia algerina. La sottomissione dell’Algeria ad opera della Francia fu dunque condotta sotto la bandie­ ra della lotta contro lo schiavismo e per l’introduzione del­ la civiltà e dell’ordine. La prassi concreta doveva ben pre­ sto mostrare che cosa si nascondesse dietro tutto ciò. Nei quarant’anni seguiti alla sottomissione dell’Algeria,

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nessuno stato europeo ha, com’è noto, subito piu frequenti trasformazioni nel regime politico, che la Francia. Alla re­ staurazione erano seguite la rivoluzione di luglio e la mo­ narchia borghese, a questa la rivoluzione di febbraio, la Se­ conda Repubblica e il Secondo Impero, infine la débàcle del 1870 e la Terza Repubblica. Nobiltà, alta finanza, pic­ cola borghesia, l’ampio strato della borghesia media si era­ no alternati al potere. Ma in tutto questo turbine di avveni­ menti un polo stabile continuò ad essere la politica france­ se in Algeria, volta dal principio alla fine ad un solo obiet­ tivo, e attestante nel modo piu luminoso, proprio ai margi­ ni del deserto africano, che tutte le vicende dello stato fran­ cese nel corso del secolo xix avevano fatto perno intorno al medesimo, fondamentale interesse: il dominio della bor­ ghesia capitalistica e delle sue forme di proprietà. « I l disegno di legge sottoposto al vostro esame —diceva il deputato Humbert, nella seduta del 20 giugno 1873 del­ l’Assemblea Nazionale francese, in qualità di relatore della commissione per l’ordinamento dei rapporti agrari in Alge­ ria —non è se non il coronamento dell’edificio le cui basi sono state gettate da tutta una serie di ordinanze, decreti, leggi e senatoconsulti, che perseguono tutti insieme, e uno per uno, lo stesso scopo: l’introduzione della proprietà pri­ vata fra gli arabi». La distribuzione programmata e delibe­ rata della proprietà comune e la sua divisione furono il po­ lo fisso verso il quale la bussola della politica coloniale francese si orientò durante mezzo secolo ad onta di tutte le tempeste nella vita interna dello stato, per il seguente du­ plice interesse: l’annientamento della proprietà comune del­ la terra doveva prima di tutto frantumare la potenza delle stirpi arabe come organismi sociali, e perciò stroncarne la rabbiosa resistenza alla dominazione francese, tradottasi, nonostante la strapotenza militare dell’avversario, in inces­ santi rivolte e seguita da uno stato permanente di guerra nella colonia inoltre, la rovina della proprietà comune era una condizione preliminare per sfruttare economicamente1 1 «Dobbiamo affrettarci - dichiarava nel i 8jsi all’assemblea nazionale il relatore Didier - a sciogliere le comunità di stirpe, perché sono la leva di ogni opposizione al nostro dominio».

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il territorio conquistato, cioè strappare agli arabi il suolo posseduto da un millennio e trasferirlo nelle mani di capi­ talisti francesi. A entrambi gli scopi servi anzitutto la fin­ zione a noi già nota, secondo la quale l’intera terra sarebbe stata, in base alla legge musulmana, proprietà del sovrano di fatto. Esattamente come gli inglesi in India, i governato­ ri di Luigi Filippo in Algeria dichiararono «impossibile» l’esistenza di una proprietà comune di intere stirpi, e in ba­ se a questa finzione la maggior parte degli appezzamenti, soprattutto i pascoli, prati e boschi, furono dichiarati pro­ prietà statale e usati a scopo di colonizzazione. Si venne cosi a un sistema di cantonnements, grazie al quale coloni fran­ cesi venivano stabiliti in mezzo a fondi di stirpi indigene, ma le tribù dovevano essere concentrate su estensioni mi­ nime. Decreti del 1 8 3 0 ,1 8 3 1 ,1840,1844,1843,1846 «le­ galizzarono» questi furti perpetrati ai danni delle comunità arabe. Ma, lungi dal portare alla colonizzazione, questo si­ stema di insediamento non fece che alimentare la specula­ zione e l’usura in grande stile. Nella maggior parte dei casi, gli arabi riuscirono a riavere, pagandole, le terre loro sot­ tratte, indebitandosi però fin sopra i capelli. Nello stesso senso agl la pressione fiscale. La legge del 16 giugno 1851, che dichiarava proprietà statale tutte le zone boschive, ra­ pinando cosi gli indigeni di 2,4 milioni di ettari, metà a pascolo metà a brughiera, privò delle sue basi di vita l’alle­ vamento. Sotto la gragnuola di tutte queste leggi, ordinan­ ze e misure, un disordine indescrivibile s’impadronl dei rap­ porti di proprietà del paese. Sfruttando la febbrile specula­ zione sui terreni, e nella speranza di riavere quanto prima le loro terre, molti indigeni vendettero i loro appezzamenti a francesi, cedendo spesso a due o tre compratori lo stesso lotto che poi risultava non proprietà privata loro, ma pro­ prietà comune inalienabile di tribù. Così, una società di spe­ culatori di Rouen credette di aver acquistato 20 mila et­ tari, mentre in definitiva non potè chiamar suoi che 1370 ettari di terreno contestato. In un altro caso, un fondo ven­ duto di 1230 ettari si ridusse all’atto della divisione a 2 et­ tari. Ne segui una catena senza fine di processi, in cui i giu­ dici francesi appoggiarono in linea di principio tutte le ri-

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vendicazioni degli acquirenti. L ’incertezza nei rapporti di proprietà, la speculazione, l’usura, l’anarchia, divennero ge­ nerali. Ma il piano del governo francese di crearsi un solido appoggio in una massa di coloni francesi installati in mezzo alla popolazione araba falli miseramente. Perciò, sotto il Se­ condo Impero, la politica francese cambia rotta: il governo che, dopo trent’anni di testarda negazione della proprietà collettiva, ha dovuto subire la lezione delle cose, riconosce infine ufficialmente l’esistenza della proprietà indivisa delle tribù, ma solo per proclamare nello stesso tempo la neces­ sità della sua forzata divisione. Questo doppio senso ha il senatoconsulto del 22 aprile 1863. « I l governo - dichiara il generale Allard al Consiglio di stato - non perde d ’oc­ chio il fatto che scopo generale della sua politica è indebo­ lire l’influenza dei capi delle stirpi e sciogliere queste ulti­ me. In tal modo saranno eliminati gli ultimi resti del feuda­ lismo ( ! ), di cui gli oppositori del progetto governativo si presentano come i difensori... La creazione della proprietà privata, l’installazione di coloni europei nel cuore delle tri­ bù arabe... sono questi i mezzi più sicuri per affrettare il processo di decomposizione delle federazioni di stirpi indi­ gene» ‘. Ai fini della divisione delle terre, la legge del 1863 crea speciali commissioni, composte come segue: un gene­ rale di brigata o capitano, come presidente, un sottoprefet­ to, un funzionario dell’autorità militare araba, un funziona­ rio dell’amministrazione dei demani. A questi conoscitori nati dei rapporti economici e sociali dell’Africa è affidato il triplice compito di definire esattamente i confini dei terri­ tori delle tribù, suddividere fra i singoli rami o grandi fami­ glie il territorio di ogni singola tribù, infine spezzettare que­ sti appezzamenti collettivi in lotti privati. La campagna dei generali di brigata nell’interno dell’Algeria fu portata pun­ tualmente a termine, le commissioni si recarono sul posto fungendo da geometri, lottizzatori e giudici in tutte le con­ testazioni, e i piani di suddivisione furono sottoposti all’ap­ provazione del governatore generale dell’Algeria come ulti_1 Cit. da M. M. KOVALEVSKij, op. cil., p. 217• È di moda in Francia, fin dai tempi della grande rivoluzione, accusare ogni opposizione al governo di difesa aperta o nascosta del «feudalismo».

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ma istanza. Dopo aver sudato sette camicie per dieci anni, le commissioni giunsero al seguente risultato: dal 1863 al 1873, circa quattrocento dei settecento territori delle stirpi furono divisi fra le grandi famiglie arabe, gettando le basi di una futura ineguaglianza, del grande possesso fondiario e della piccola proprietà parcellare. Infatti, secondo la gran­ dezza del territorio e il numero dei membri delle stirpi, toc­ carono a testa ora da 1 a 4 ettari, ora 100 e perfino 180. Tuttavia, la divisione rimase limitata alle grandi famiglie mentre la ulteriore divisione del terreno familiare, ad onta di tutti i generali di brigata, urtò contro l’ostacolo insor­ montabile dei costumi arabi. Lo scopo della politica france­ se - la creazione della proprietà individuale e il suo trapas­ so in proprietà di francesi - era, ancora una volta, mancato. Solo la Terza Repubblica, il regime aperto della borghe­ sia, doveva trovare il coraggio e il cinismo di abbandonare le vie traverse e affrontare la questione dal punto opposto, senza i passi preliminari e guardinghi del Secondo Impero. La divisione diretta delle terre di tutte le settecento tribù arabe in lotti a proprietà privata, l’introduzione par force della proprietà privata nel piu breve tempo, questo lo scopo dichiarato della legge che l’Assemblea Nazionale sfornò nel 1873. Il pretesto fu offerto dalle condizioni disperate della colonia. Esattamente come la grande carestia del 1866 in India aveva messo drasticamente di fronte agli occhi dell’o­ pinione pubblica inglese i brillanti risultati della politica co­ loniale e provocato la nomina di una commissione parla­ mentare d ’inchiesta, cosi verso il 1870 l’Europa fu allarma­ ta dal grido di dolore che saliva dall’Algeria, dove una spa­ ventosa carestia e una mortalità elevatissima fra gli arabi testimoniavano di un quarantennio di dominazione france­ se. Per stabilirne le cause e deliziare di nuovi provvedimen­ ti legislativi le popolazioni indigene fu nominata una com­ missione, il cui unanime parere fu che una sola ancora di salvezza rimaneva agli arabi - la proprietà privata! Solo al­ lora ogni arabo avrebbe potuto vendere il suo pezzo di ter­ ra o accendervi un’ipoteca e, in tal modo, difendersi contro la miseria. Cosi, per soccorrere gli arabi in una situazione di emergenza determinata dalle spoliazioni in parte già com-

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piute dai francesi sul suolo algerino, dal peso delle imposte e dall’indebitamento da esso provocato, si dichiarava unica medicina il completo abbandono degli arabi in balia degli usurai. Questa beffa fu sottoposta con perfetta serietà al­ l ’Assemblea e con altrettanta serietà approvata dal degno consesso. La spudoratezza dei «vincitori» della Comune parigina celebrava le sue orge trionfali. Due argomenti servirono soprattutto, nell’Assemblea Na­ zionale, a varare la nuova legge. Gli stessi arabi, ripeterono su tutti i toni i difensori del progetto, desideravano la sol­ lecita introduzione della proprietà privata. Ed era vero: la desideravano gli speculatori e gli usurai locali, urgentemen­ te interessati a «liberare» le loro vittime dalla fascia protet­ tiva delle tribù e dalla loro solidarietà. Infatti, vigendo in Algeria il diritto musulmano, il pignoramento della terra trovava un ostacolo insormontabile nell’inalienabilità dei beni familiari e gentilizi. Solo la legge del 1863 aveva aper­ to una piccola breccia in questi tradizionali rapporti: si trat­ tava ora di rimuovere ogni ostacolo per lasciar mano libera all’usuraio. Il secondo argomento era di natura «scientifi­ ca», e lo si attinse allo stesso arsenale ideologico dal quale il degno James Mill aveva derivato la sua incomprensione per i rapporti di proprietà dell’India: l’economia politica classica inglese. La proprietà privata è la necessaria premes­ sa di una piu intensiva e razionale lavorazione del suolo, l’unico mezzo per eliminare la carestia, essendo chiaro che nessuno vorrà mai investire capitale o lavoro intensivo in un terreno che non gli appartiene e i cui frutti non saranno goduti esclusivamente da lui —declamarono con enfasi i di­ scepoli scientificamente ferrati di Smith e Ricardo. Ben al­ tro linguaggio parlavano i fatti. Essi dicevano che gli specu­ latori francesi sfruttavano la proprietà privata creata in Al­ geria per ben altro scopo che per una coltivazione piu in­ tensiva e tecnicamente perfezionata del suolo. Dei 400 mila ettari di terra appartenenti nel 1873 ai francesi, 120 mila si trovavano in mano di due società capitalistiche, la Compa­ gnia Algerina e la Setif, che, lungi dal coltivare esse stesse i loro fondi, li riaffittavano ad indigeni, i quali, a loro volta, li lavoravano coi metodi tradizionali: un quarto dei rima­

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nenti proprietari francesi si occupavano altrettanto poco di agricoltura. Né i rapporti sociali capitalistici, né l ’investi­ mento dei capitali nella terra e il suo sfruttamento intensi­ vo si potevano creare artificiosamente con un colpo di bac­ chetta. Eran cose che esistevano solo nella fantasia assetata di profitti degli speculatori francesi e nelle nebulose dottri­ ne degli ideologhi scientifici dell’economia politica. Spoglia­ ta dei suoi pretesti e della sua retorica, la legge del 1873 non tradiva se non il desiderio nudo e crudo di togliere agli arabi la loro base di esistenza: la terra. E, ad onta dell’in­ consistenza degli argomenti usati per giustificarla, ad onta dell’evidente falsità delle ragioni addotte, la legge, che do­ veva dare il colpo di grazia al popolo algerino e al suo be­ nessere materiale, fu approvata alla quasi unanimità il 26 luglio 1873. Ma il fallimento del colpo di forza non doveva farsi at­ tendere a lungo. La politica della Terza Repubblica naufra­ gò contro la difficoltà di introdurre di colpo la proprietà pri­ vata borghese nelle grandi comunità familiari a base comu­ nista, cioè contro lo stesso scoglio di fronte al quale s’era arenata la politica del Secondo Impero. La legge del 26 lu­ glio 1873, completata da una seconda legge del 28 aprile 1887, diede dopo 17 anni di applicazione il risultato se­ guente: fino al 1890, 14 milioni di franchi erano stati spesi per la ripulitura di 1,6 milioni di ettari, e si calcolava che il procedimento avrebbe dovuto durare fino al 1930 costando altri 60 milioni. Ma lo scopo di eliminare il comuniSmo del­ le grandi famiglie non era perciò raggiunto. L ’unico risul­ tato tangibile realizzato fu una furibonda speculazione sui terreni, il dilagare dell’usura, la rovina economica delle po­ polazioni native. Il fiasco dell’introduzione forzata della proprietà privata della terra in Algeria condusse piu tardi a un nuovo esperi­ mento. Sebbene già nel 1890 il governatorato generale del­ l’Algeria avesse insediato una commissione che vagliò e condannò le leggi del 1873 e 1887, occorsero altri sette an­ ni prima che i signori legislatori della Senna si decidessero ad una riforma nell’interesse del paese rovinato. La nuova svolta prescinde in linea di principio dall’introduzione for-

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zata della proprietà privata ad opera dello stato. La legge del 27 febbraio 1897 e istruzioni del governatore gene­ rale algerino del 7 marzo 1898 prevedono sostanzialmente l’introduzione della proprietà privata dietro volontaria ri­ chiesta del proprietario o acquirente '. Poiché tuttavia de­ terminate clausole dichiaravano ammissibile anche l’intro­ duzione della proprietà privata su richiesta di un proprie­ tario senza il consenso degli altri comproprietari della ter­ ra, ed essendo possibile ottenere ad ogni momento e a pia­ cere una «volontaria» richiesta da parte del proprietario in­ debitato sotto la pressione dell’usuraio, anche la nuova leg­ ge apre la porta alla spoliazione ed erosione dei possedi­ menti delle tribù e dei beni terrieri delle famiglie cabile da parte di capitalisti francesi e indigeni. La vivisezione praticata per ottant’anni sull’Algeria ha incontrato negli ultimi tempi una resistenza tanto più de­ bole, in quanto la sottomissione della Tunisia prima (1881) e del Marocco poi ha chiuso sempre più nella morsa del ca­ pitale francese gli arabi, sacrificandoli senza possibilità di salvezza alle sue brame. Il più recente portato della domi­ nazione francese in Algeria è l’emigrazione in massa degli arabi verso la Turchia asiatica12. 1 Cfr. G. K. Anton, N e u e re A g r a rp o litik in A lg e rie n u n d T u n is ie n , in «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft», 1900, pp. 1341 sgg. 2 Nel suo discorso del 20 giugno 1912 al parlamento francese, il relato­ re della commissione per la riforma dell’«Indigenato» (la giustizia ammini­ strativa) in Algeria, Albin Razet, riferì che dal distretto di Setif migliaia di algerini emigravano. Da Tlemcen sono emigrati nel 1911 ben 1200 indigeni in un mese. La meta è la Siria. Un emigrante scriveva dalla sua nuova pa­ tria: «Mi sono stabilito a Damasco e sono compiutamente felice. Qui in Siria siamo in molti algerini emigrati, ai quali il governo ha concesso della terra e facilitato l ’acquisto dei mezzi per lavorarla». Il governo combatte l ’emigrazione... negando i passaporti (cfr. «Journal Officiel» del 2t giugno 1912, pp. 1394 sgg.).

CAPITOLO V EN TO TTESIM O L ’IN TRO D U ZIO N E D E L L ’ECO N O M IA M E R C A N T IL E

La seconda premessa fondamentale sia per l’appropria­ zione di mezzi di produzione che per la realizzazione del plusvalore è l’inserimento delle comunità a economia natu­ rale, una volta distrutte, nel traffico commerciale e nell’eco­ nomia mercantile. Tutti gli strati e le società non-capitalistici devono per il capitalismo divenire acquirenti di merci, e vendergli i loro prodotti. Sembrerebbe che, almeno qui, la «pace» e la «uguaglianza» si profilino, il do ut des, la reciprocità degli interessi, «la concorrenza pacifica», le «in­ fluenze civili». Se il capitale riesce a strappare con la forza alle comunità sociali primitive i loro mezzi di produzione, e a costringerle con la violenza a diventare oggetti dello sfrut­ tamento capitalistico, non può invece obbligarle a realiz­ zare il suo plusvalore costringendole ad acquistare le sue merci - supposizione che sembra confermata dal fatto che la diffusione dell’economia mercantile in territori ad econo­ mia naturale pone come inevitabile presupposto l’introdu­ zione di mezzi di trasporto: ferrovie, navi, canali. In realtà, l’offensiva dell’economia mercantile comincia perlopiù con le grandi opere di civiltà dei moderni sistemi di comunica­ zione, linee ferroviarie che tagliano foreste vergini e trafo­ rano montagne, fili telegrafici che superano d ’un balzo i de­ serti, transatlantici che approdano in porti disseminati in tutto il mondo. Ma il carattere pacifico di queste trasforma­ zioni è pura apparenza. I rapporti commerciali delle com­ pagnie delle Indie orientali con i paesi delle spezie erano rapina, sfruttamento, frode, perpetrati sotto la bandiera del commercio, allo stesso titolo dei rapporti fra i capitalisti americani d ’oggi e gli indiani del Canada ai quali comprano pellicce, o fra i mercanti tedeschi e i negri dell’Africa. Clas-

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sico esempio del commercio «m ite» e «pacifico» con socie­ tà arretrate è la storia moderna della Cina, percorsa come da un filo rosso, dal 1839 a tutto il secolo xix, dalle guerre condotte dagli europei per aprire il Celeste Impero agli scambi. Persecuzioni di cristiani provocate da missionari, tumulti scatenati da europei, periodici e sanguinosi scontri bellici in cui doveva misurarsi l’assoluta incapacità di un pacifico popolo di contadini di resistere alla piu moderna tecnica di guerra delle grandi potenze capitalistiche europee unite, pesanti contributi imposti ai vinti, e l’intero sistema del debito pubblico, dei prestiti europei, del controllo euro­ peo sulle finanze statali e dell’occupazione europea delle piazzeforti, della forzata apertura dei porti e delle conces­ sioni per la costruzione di ferrovie carpite da capitalisti eu­ ropei: queste le levatrici del commercio in Cina dopo il 1840 fino allo scoppio della rivoluzione cinese. Il periodo dell’apertura della Cina alla civiltà europea, cioè allo scambio delle merci col capitalismo europeo, è inaugurato dalla guerra dell’oppio, in cui la Cina è costretta ad accettare il prezioso dono delle piantagioni indiane e tra­ sformarlo in oro per i capitalisti inglesi. Nel secolo x v ii , la coltivazione dell’oppio era stata introdotta dalla Compa­ gnia inglese delle Indie orientali nel Bengala, e di qui l’uso del veleno era stato diffuso in Cina per i buoni uffici della sua filiale di Canton. Ma all’inizio del secolo xix, l ’oppio cadde talmente di prezzo da diventare rapidamente «arti­ colo di piacere popolare». Ancora nel 1821, l’importazione d ’oppio in Cina ammontava a 4628 casse al prezzo medio di 1325 dollari; caduto il prezzo alla metà, sali nel 1823 a 9621 casse, nel 1830 a 26 670 ‘. Gli effetti devastatori del veleno, soprattutto delle qualità piu a buon mercato a di-1 1 Nel 1854 ne furono importate 77379 casse. In seguito, lo sviluppo della produzione interna ne ridusse lievemente l’importazione; ma la Cina ri­ mase purtuttavia la principale acquirente delle piantagioni indiane. Su 6,4 milioni di chilogrammi prodotti in India nel 1873-74, 6,1 milioni erano ven­ duti ai cinesi. Ancor oggi, partono dall’India 4,8 milioni di chilogrammi d’oppio all’anno per un valore di 130 milioni di marchi, con destinazione prevalente in Cina e Arcipelago malese. [Si vedano gli articoli di Marx sugli inglesi in Cina, nel già citato India, Cina, Russia, in particolare pp. 31-44, 121-209, 321-22].

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sposizione della popolazione povera, assunsero ben presto l’aspetto di una calamità pubblica e provocarono, come ar­ ma di difesa da parte cinese, un divieto d ’importazione. Già nel 1928 il viceré di Canton aveva proibito l’importazione di oppio, ma il suo decreto aveva avuto il solo effetto di spostarne il commercio verso altre città di mare. Un’auto­ rità pechinese incaricata di studiar la questione espresse il seguente parere: «H o potuto constatare che i fumatori d’oppio hanno un cosi violento desiderio di questo medica­ mento nocivo da rinunciare a tutto pur di procurarsene il piacere. Se non l’hanno all’ora solita, le loro membra co­ minciano a tremare, grosse gocce di sudore scendono loro dalla fronte e sul viso, non sono piu in grado di svolgere la minima attività. Ma portate loro una pipa da oppio, fate che la aspirino, e sono bell’e guariti. «Così, l’oppio è diventato per chi lo fuma un bisogno assoluto, e non c’è da stupirsi se, quando le autorità locali gli chiedono di rivelare il nome di chi gli ha fornito quel prezioso bene, preferisce sopportare qualunque pena pur di non rispondere. Inoltre, le autorità ricevono doni per­ ché chiudano un occhio o sospendano le indagini. La gran­ de maggioranza dei mercanti che introducono merci a Can­ ton vendono anche oppio come articolo di contrabbando. «Sono del parere che l’oppio sia un male assai peggiore del gioco, e che non si dovrebbe applicare ai fumatori d ’op­ pio pena minore che ai giocatori». Il censore proponeva che ogni fumatore colto sul fatto fosse condannato a ottanta colpi di canna di bambù, uno che si rifiutasse di fare il nome del fornitore a cento colpi e tre anni di esilio. Il Catone pechinese chiude il suo rappor­ to con una franchezza inaudita per le autorità europee: «Sembra che l’oppio sia introdotto da fuori per l’interme­ diario di funzionari indegni che, d ’accordo con mercanti assetati di denaro, lo trasportano nell’interno del paese, do­ ve giovani di buona famiglia, ricchi privati e mercanti se ne beano finché il vizio si estende anche all’uomo comune. Mi risulta che in tutte le province si possono trovare fumatori di oppio non soltanto tra i funzionari civili, ma anche nel­ l’esercito. Mentre i funzionari dei diversi distretti ribadi­

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scono continuamente coi loro editti la proibizione ufficiale della vendita dell’oppio, i loro genitori, parenti, subalter­ ni e servi fumano come prima, e i mercanti sfruttano il di­ vieto per far salire i prezzi. La stessa polizia compra que­ sto articolo invece di contribuire alla sua eliminazione, ed è questo anche il motivo per cui tutti i divieti e le disposi­ zioni rimangono inosservati»1. Nel 1833 fu emanata una nuova e piu energica legge che comminava la pena di cen­ to sferzate e l’esposizione alla berlina per due mesi a chiun­ que fosse stato scoperto a fumare oppio. I governatori del­ le province furono impegnati a segnalare nei loro rapporti annui i risultati della lotta contro il flagello. La lotta ebbe questi due effetti : 1 ) nelle province di Honan, Szechwan e Kweichow, furono impiantate coltivazioni su vasta scala di papavero; 2) l’Inghilterra dichiarò guerra alla Cina per co­ stringerla a proclamar libera l ’importazione dell’oppio. Co­ minciò così la gloriosa impresa dell’«apertura» della Cina alla civiltà europea sotto forma di pipe da oppio. Il primo obiettivo della guerra fu Canton. Le fortifica­ zioni della città all’imbocco del Fiume delle Perle erano, com’è facile immaginare, primitive. Si trattava essenzial­ mente di uno sbarramento di catene di ferro tese al tramon­ to, a distanze diverse, fra zattere di legno ancorate. Si pen­ si inoltre che i cannoni cinesi erano privi dei congegni piu elementari, e praticamente innocui. Con queste primitive opere di difesa, in grado al massimo d’impedire l’ingresso a un paio di navi da carico, i cinesi affrontarono gli inglesi. Due navi da guerra britanniche bastarono per forzare lo schieramento nemico il 7 settembre 1839. Le sedici giun­ che da guerra e i tredici brulotti con cui i cinesi fecero resi­ stenza furono presi sotto il fuoco, e in tre quarti d ’ora di­ strutti. Ottenuta questa prima vittoria, gli inglesi rafforza­ rono notevolmente la flottiglia da guerra e, nel 1841, pas­ sarono a un nuovo attacco. Questa volta, le operazioni pun­ tarono contemporaneamente contro le navi e contro i for­ ti. La flotta cinese constava di un certo numero di giunche Cit. in Johann SCHEIBERT, D e r K r ie g in C h in a , 1903, pagina 179.

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da guerra. Già il primo razzo Congreve raggiunse attraver­ so le plance la Santa Barbara, facendola saltare in aria con tutto l’equipaggio. In breve tempo, undici giunche com­ presa la giunca ammiraglia erano distrutte, il rimanente si diede a una disperata fuga. L ’azione per terra chiese qual­ che ora di piu. Data l’assoluta inefficienza dei cannoni av­ versari, gli inglesi penetrarono tra le fortificazioni, raggiun­ sero un punto strategico lasciato indifeso, e dall’alto bom­ bardarono i cinesi inermi. Bilancio della battaglia: da parte cinese 600 morti, da parte inglese 1 morto e 30 feriti, di cui piu della metà per l’accidentale esplosione di una San­ ta Barbara. Qualche settimana dopo gli inglesi si copriva­ no di nuova gloria nella conquista dei forti di Anunghoy e di Nord-Vantong. Gli inglesi disponevano di non meno di 12 navi di linea in perfetto armamento, e d ’altra parte i ci­ nesi si erano, ancora una volta, dimenticati di fortificare l’isola di Sud-Vantong. Gli inglesi sbarcarono perciò su quest’ultima, con la massima tranquillità, una batteria di obi­ ci e bombardarono il forte da un lato, mentre le navi da guerra lo prendevano sotto il fuoco dall’altro. Bastarono pochi minuti per sloggiare dal forte i cinesi e operare sen­ za resistenze lo sbarco. La scena inumana che ne seguì —co­ me scrive un rapporto inglese - «rimarrà, per gli ufficiali britannici, oggetto di eterno e profondo rammarico». In­ fatti, nel tentativo di fuggire dalle trincee, i cinesi erano precipitati nelle fosse, che si riempirono di soldati inermi e imploranti pietà. Su questa massa di corpi umani distesi i Sepoy - contro, si dice, gli ordini degli ufficiali - fecero fuoco: e Canton fu aperta al commercio. Lo stesso avvenne in tutti gli altri porti. Il 4 luglio 1841 tre navi da guerra inglesi con 120 cannoni apparvero davanti alle isole di fronte alla città di Ningpo. La sera, l’ammiraglio inglese mandò al governatore cinese una mis­ siva con la richiesta di cedere le isole. Il governatore dichia­ rò che non poteva farlo senza un esplicito ordine di Pechi­ no, e chiese una tregua. Questa non fu accordata, e alle due e mezzo del mattino gli inglesi cominciarono l’assalto alle isole indifese. In nove minuti, forte e case erano un muc­ chio di rovine fumanti. Le truppe sbarcarono sulla costa

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abbandonata, coperta di lance, sciabole, scudi, frecce, e di alcuni morti, e presero d ’assalto le mura della città insula­ re di Tinghai. Rinforzati mediante gli equipaggi di altre navi giunte nel frattempo, il mattino successivo appoggia­ rono scale d ’assalto alle mura pressoché indifese e in pochi minuti erano padroni dell’abitato. La gloriosa vittoria fu annunciata dagli inglesi col seguente modesto proclama: « I l mattino del 3 luglio 1841 ebbe la ventura di passare al­ la storia come quello in cui, per la prima volta, la bandiera di Sua Maestà Britannica sventolò sulla piu bella isola del­ l ’Impero Celeste di mezzo, prima bandiera europea levata­ si vittoriosa su queste campagne fiorenti»1. Il 25 agosto 1841 gli inglesi apparvero davanti alla città di Amoy, il cui forte era munito di alcune centinaia di cannoni del massi­ mo calibro cinese. L ’inefficienza di queste armi e l’incapa­ cità dei comandanti cinesi resero la conquista della città un giochetto da bambini. Le navi inglesi si avvicinarono sotto un fuoco continuo alle mura di Kulangsu, poi sbarcarono compagnie di marinai e dopo breve resistenza ributtarono le truppe avversarie. Bottino di guerra nel porto: 26 giun­ che da guerra con 128 cannoni, abbandonate dagli equipag­ gi. Solo una batteria di tartari oppose eroica resistenza al fuoco congiunto di cinque navi inglesi, ma gli attaccanti li presero alle spalle e chiusero l’operazione in un bagno di sangue. Cosi finiva la gloriosa guerra dell’oppio. Nel trattato di pace del 27 agosto 1842, gli inglesi ottenevano l ’isola di Hongkong, mentre i cinesi si impegnavano ad aprire al commercio Canton, Amoy, Fuchow, Ningpo e Scianghai. Quindici anni dopo, inglesi e francesi condussero una se­ conda guerra contro la Cina, e nel 1837 Canton fu eroica­ mente (come nella prima guerra) presa d ’assalto dalla flot­ ta alleata. La pace di Tientsin (1838) garantiva la libera im­ portazione dell’oppio, e il libero accesso nell’interno del paese al commercio e ai missionari europei. Già nel 1839 gli inglesi riaprivano le ostilità, decisi ad abbattere le forti­ ficazioni cinesi sul Peiho, ma furono ricacciati dopo una j. SCHEIBERT, D e r K rie g in C h in a , p. 207.

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furibonda battaglia con 464 morti e feriti Inghilterra e Francia ripresero allora insieme le operazioni. Truppe in­ glesi di 12 mila uomini e francesi di 7300, sotto il generale Cousin-Montauban, occupavano senza colpo ferire, verso la fine di agosto i860, i forti di Taku, e di qui si spingeva­ no fino a Tientsin e nei pressi di Pechino. Il 21 settembre i860 aveva luogo la sanguinosa battaglia di Palikiao, che apri alle truppe europee la via della capitale. I vincitori, penetrati nella città quasi vuota e del tutto indifesa, mise­ ro a sacco il palazzo imperiale: all’impresa partecipò atti­ vamente di persona il generale Cousin, piu tardi marescial­ lo e «conte di Palikiao», ma Lord Elgin, a titolo di «espia­ zione», fece dare alle fiamme lo storico edificio2. 1 Un editto imperiale del terzo giorno dell’ottava luna del decimo anno Hsien-Feng (6 settembre i860) dice fra l’altro: «Non abbiamo mai proibito né all’Inghilterra né alla Francia di com­ merciare con la Cina, e per molti anni fra noi e loro è regnata la pace. Ma tre anni fa gli inglesi sono penetrati con brutti propositi nella nostra città di Canton e hanno imprigionato i nostri funzionari. Non chiedemmo allora riparazioni perché fummo costretti ad ammettere che la cocciutaggine del vi­ ceré Yeh aveva prestato il fianco all’attacco nemico. Due anni fa, il capo-bar­ baro Elgin si spinse verso nord e noi ordinammo al viceré di Chihli, T ’an Ting-Hsiang, di esaminare bene la situazione prima di passare a trattative. Ma il barbaro sfruttò la nostra impreparazione, assaltò i forti di Taku e giunse davanti a Tientsin. Preoccupati di risparmiare al nostro popolo gli orrori della guerra, non chiedemmo neppure questa volta riparazioni e ordi­ nammo al Kuei-Liang di trattare la pace. Nonostante le svergognate richieste dei barbari, ordinammo al Kuei-Liang di recarsi a Scianghai in vista del pro­ posto trattato di commercio e autorizzammo perfino la sua ratifica come se­ gno della nostra bona fides. «Ciò nonostante, il capo-barbaro Bruce mostrò di nuovo una sragionevo­ le intransigenza, e apparve nell’ottava luna, con una squadra di navi da guer­ ra, nella rada di Taku. Ma Seng Ko Liu Ch’in passò ad un rabbioso contrat­ tacco e lo obbligò a ritirarsi precipitosamente. Da quanto sopra appare chia­ ro che la Cina non ha rotto nessun patto e che il torto è dalla parte dei bar­ bari. Nel corrente anno i capi-barbari Elgin e Gros sono nuovamente apparsi sulle nostre coste, ma la Cina, aliena dal prendere provvedimenti estremi, ha permesso loro lo sbarco e la visita a Pechino per la ratifica del trattato. «Chi avrebbe potuto credere che per tutto questo tempo i barbari non avevano fatto che tessere intrighi, e portavano seco un esercito di soldati e di artiglierie con cui hanno preso alle spalle i forti di Taku e, cacciatane la guarnigione, hanno marciato su Tientsin?» (China unter der Kaiserin-Wit­ we, Berlin 1912, p. 25. Cfr. anche, nello stesso libro, il capitolo La fuga ver­ so Jebol). 2 Le operazioni degli eroi europei per l’apertura della Cina allo scambio delle merci si intrecciano anche con un bel frammento della storia interna della Cina. Fresco del sacco del palazzo d’estate della dinastia mancese, il « Gordon cinese» si lanciò nella campagna contro i ribelli Taiping e nel 1863

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Questa volta, le potenze europee ottennero di inviare rap­ presentanti diplomatici a Pechino, e altre città furono aper­ te al commercio. Mentre in Inghiterra la Lega contro l ’op­ pio lavorava contro la diffusione del veleno a Londra, Man­ chester e altri centri industriali, e una commissione parla­ mentare dichiarava altamente nocivo l ’uso della droga, la convenzione di Chifu (1876) garantiva la piena libertà d ’importazione della preziosa merce in Cina. Nello stesso tempo, tutti i trattati con la Cina riconoscevano agli euro­ pei - mercanti e missionari - il diritto all’acquisto di terre­ ni. Vi contribuì potentemente, oltre al fuoco delle artiglie­ rie, l’aperto inganno. Non solo la duplicità del testo dei trattati lasciava via libera al graduale allargamento delle zo­ ne occupate dal capitale europeo nelle città portuali, ma, grazie al notorio e spudorato falso nel testo cinese del Pro­ tocollo aggiuntivo francese del i860, redatto dal missiona­ rio cattolico abate Delamarre, il governo imperiale fu co­ stretto ad autorizzare l’acquisto di terre da parte delle mis­ sioni non solo nei porti stabiliti dai trattati, ma in tutte le province cinesi. La diplomazia francese e soprattutto le missioni protestanti furono unanimi nel condannare l ’abile truffa del prete cattolico, ma ciò non impedì l ’energico mantenimento della estensione così contrabbandata dei di­ ritti delle missioni francesi e, nel 1887, la sua applicazione alle missioni protestanti '. L ’apertura della Cina al commercio, iniziatasi con la guerra dell’oppio, fu suggellata dalla serie degli «appalti» prese addirittura il comando delle forze armate imperiali. La repressione del­ la rivolta fu infatti opera dell’esercito britannico. Mentre un forte numero di europei, fra i quali un ammiraglio francese, avevano perso la vita per con­ servare la Cina alla dinastia mancese, i rappresentanti del commercio euro­ peo colsero l’occasione per farne un affaruccio e rifornirono di armi tanto i nemici dell’apertura della Cina allo scambio estero, quanto i ribelli contro i quali combattevano. « L ’occasione di far quattrini indusse anche i com­ mercianti onesti a fornire armi e munizioni alle due parti, ed avendo i ribel­ li molto maggior difficoltà ad approvvigionarsi di questo articolo che gli im­ periali, ed essendo perciò disposti ad accettare prezzi piu alti e a pagare in contanti, si preferì trattare con loro, mettendoli così in condizione di resi­ stere non solo alle truppe del loro governo ma a quelle francesi e inglesi» (m. V. Brandt, 33 Ja h r e in O sta sie n , 1901, vol. I l i : C h in a , p. 11). 1 0. franke, D ie R e c h tsv e rh ä ltn isse am G ru n d e ig e n tu m in C h in a , Leip­ zig 1903, pp. 82 sgg.

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e dalla spedizione cinese del 1900, in cui gli interessi com­ merciali del capitale europeo si tradussero in un aperto furto internazionale di terre. Il contrasto fra l’originaria teoria e gli sviluppi pratici della «civilizzazione» europea in Cina traluce chiaramente dal dispaccio inviato dall’imperatrice-vedova, dopo la conquista dei forti di Taku, alla regina Vittoria: «Alla Vostra Maestà salute!... In tutte le trattative svol­ te dall’Inghilterra col popolo cinese dal giorno in cui rap­ porti furono stretti fra noi, la Gran Bretagna non ha mai fatto parola di un allargamento dei possessi territoriali, ma soltanto del vivo desiderio di favorire gli interessi del pro­ prio commercio. Meditando sul fatto che il nostro paese è precipitato in un atroce stato di guerra, noi ricordiamo che gran parte del commercio cinese, dal 70 all’8o per cento, si svolge con l’Inghilterra. Inoltre, le vostre tariffe doganali sono le piu basse del mondo, e nei vostri porti l’importazio­ ne di prodotti esteri non trova quasi ostacoli. Per queste ragioni, i nostri amichevoli rapporti con commercianti in­ glesi nei porti contrattuali si sono ininterrottamente man­ tenuti per mezzo secolo con reciproco vantaggio. Ma ora un improvviso cambiamento è sopravvenuto, e un generale so­ spetto contro di noi è sorto. Vorremmo perciò invitarvi a riflettere che, se per una data combinazione degli eventi, l’autonomia del nostro Impero andasse perduta e le poten­ ze si accordassero per attuare il piano da tanto tempo ven­ tilato di impadronirsi del nostro territorio [in un contem­ poraneo dispaccio all’imperatore del Giappone, l’animosa Tzu H si parla apertamente delle “ potenze occidentali affa­ mate di terra, i cui occhi voraci si appuntano su di noi” ] , il fatto avrebbe sul vostro commercio riflessi disgraziati e fa­ tali. Il nostro Impero sta attivamente lavorando per ap­ prontare un esercito e i mezzi necessari alla nostra difesa. Frattanto, ci affidiamo ai Vostri buoni uffici come mediatri­ ce, e attendiamo una Vostra rapida decisione» ’. Ogni guerra è, tuttavia, punteggiata da saccheggi e rapi­ ne in grande stile dei «portatori di civiltà» nei palazzi im-1

1 C h in a

u n te r d e r K a ise rin -W itw e ,

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penali, negli edifici pubblici, nei monumenti dell’antica ci­ viltà cinese, tanto nel i860, quando il palazzo imperiale fu saccheggiato dei suoi favolosi tesori dai francesi, quanto nel 1900, anno in cui «tutte le nazioni» gareggiarono nel furto di proprietà pubbliche e private. Rovine fumanti di gran­ dissime e antichissime città, decadimento dell’agricoltura su grandi estensioni di terreno, pressione fiscale asfissiante per la riscossione dei tributi di guerra, furono le manifestazio­ ni parallele dell’offensiva europea e dei progressi del com­ mercio internazionale in Cina. Ognuno dei piu che 40 treaty ports cinesi è stato pagato con fiumi di sangue, stragi e ro­ vine.

CAPITOLO VENTINOVESIM O L A L O T T A CONTRO L ’E CO N O M IA CONTADINA

Un importante capitolo conclusivo della lotta contro l’e­ conomia naturale è la separazione dell’agricoltura dall’artigianato, l’espulsione dei mestieri contadini dall’economia rurale. L ’artigianato nasce storicamente come attività con­ tadina sussidiaria, come appendice della coltivazione del suolo. La storia dell’artigianato europeo nel Medioevo è la storia della sua emancipazione dall’economia contadina, del suo distacco dal feudo, della sua specializzazione ed evolu­ zione nel senso della produzione mercantile cittadina corpo­ rativa. Ma, pur evolvendo fin alla manifattura e di qui alla grande industria capitalistica, nelle campagne la produzione artigiana rimase tenacemente legata alla economia contadi­ na. Come produzione domestica sussidiaria nel tempo la­ sciato libero dal lavoro dei campi, l’artigianato ebbe impor­ tanza fondamentale per l’approvvigionamento dell’azienda agricola1. Ma lo sviluppodella produzione capitalistica strap­ pò all’economia contadina un settore artigiano dopo l’altro, per concentrarli nella produzione di massa delle fabbriche. Tipico esempio la storia dell’industria tessile; ma lo stesso fenomeno si ripete, seppur in forma meno appariscente, per tutti i mestieri contadini. Per fare della massa rurale l’ac­ quirente delle sue merci, il capitale tende anzitutto a ridur­ re l’economia contadina all’unico ramo di cui non può im1 In Cina, il mestiere domestico si è conservato su vasta scala fino a tem­ pi recenti anche nei centri urbani, perfino in città commerciali grandi e an­ tiche come Ningpo, coi suoi 300 mila abitanti. «Ancora una generazione fa, le donne fabbricavano loro stesse le scarpe, i cappelli, le camicie ecc., per sé e per i loro mariti. Era un avvenimento, a Ningpo, quando una gioyane don­ na comprava da un mercante cose che con l ’abilità delle sue mani avrebbe potuto produrre essa stessa» (nyok-ching tsur, D ie g e w erb lic h e n B e tr ie b s ­ fo rm en d e r S ta d t N in g p o , Tübingen 1909, p. 51).

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mediatamente - e, nei rapporti di proprietà tipici dell’Eu­ ropa, senza gravi difficoltà - impadronirsi: l’agricoltura \ Qui tutto sembra, apparentemente, svolgersi in modo paci­ fico. Il processo si compie inosservato sotto la pressione di puri fattori economici. La superiorità tecnica della produ­ zione di massa, con la sua specializzazione, con la sua ana­ lisi e combinazione scientifica del processo di produzione, con le sue fonti di rifornimento mondiali di materie prime e i suoi attrezzi perfezionati, è, nei confronti del primitivo mestiere contadino, indiscutibile. In realtà, in questo pro­ cesso di separazione dell’economia contadina dal mestiere, agiscono fattori come la pressione fiscale, la guerra, la ven­ dita e monopolizzazione delle terre demaniali, che rientra­ no ad un tempo nell’economia nazionale, nel campo della violenza politica, e in quello del codice penale. In nessun paese come negli Stati Uniti questo processo è stato porta­ to piu spregiudicatamente a termine. Furono ferrovie, cioè capitale europeo, prevalentemente inglese, a trasportare il farmer americano, passo passo, sul­ le sterminate pianure del West, dove annientò gli indiani con le armi da fuoco, i mastini, l’alcool e la sifilide, e li tra­ piantò con la forza da oriente ad occidente per appropriar­ sene come «terra libera» il suolo, dissodarlo e metterlo a coltura. Il farmer americano del buon tempo antico, il back­ woodsman di prima della guerra di secessione, era ben altro tipo dall’attuale. Sapeva far di tutto, e nella sua piccola azienda sperduta se la cavava perfettamente quasi senza il mondo esterno. « L ’attuale farmer americano - scriveva nel 1891 il senatore Peffer, uno dei dirigenti della Farmers Al­ liance —è tutt’altro uomo che il suo avo di cinquanta o cen­ t ’anni fa. Molti ricordano ancora il tempo in cui i farmers si occupavano in gran parte di attività artigiana, cioè fabbri­ cavano essi stessi in buona parte ciò di cui avevano imme' L ’ultimo capitolo della storia dell’economia contadina sotto l’influenza della produzione capitalistica rovescia questo rapporto. Nella piccola azien­ da contadina rovinata, l ’industria domestica per conto di imprenditori capi­ talistici o il semplice lavoro salariato in fabbrica diventano occupazione pre­ valente degli uomini, mentre l ’attività agricola viene scaricata sulle spalle delle donne, dei vecchi e dei fanciulli. Si pensi a un piccolo contadino del Württemberg.

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diato bisogno. Ognuno aveva la sua collezione di attrezzi con cui fabbricava mobili in legno e utensili, come la forca e il rastrello, il manico della vanga o dell’aratro, e cosi via. Inoltre, il farmer produceva lino e canapa, lana di pecora e cotone. Queste materie tessili erano lavorate nella azienda medesima: erano filate e tessute in casa, e sempre in casa si facevano abiti, biancheria e simili, per il consumo degli stes­ si contadini. In ogni farm c’era un piccolo laboratorio da falegname e da fabbro, in ogni casa una cardatrice e un tela­ io; si tessevano tappeti, coperte e altre stoffe da letto; do­ vunque si tenevano oche con le cui piume si riempivano cu­ scini e imbottite e materassi; l’eccedenza la si vendeva sul mercato della città piu vicina. D ’inverno, grandi carri a 6 o 8 cavalli portavano al mercato il grano, la farina, il mais, magari a distanza di cento o duecento miglia, e vi si com­ pravano determinate merci per l’anno successivo. Non era­ no rari gli artigiani veri e propri. Nello spazio di uno o due anni, nella farm si costruiva una carrozza. Il materiale lo si trovava nelle vicinanze, la qualità di legno da usare era, nel contratto col vicino, esattamente stabilita, bisognava for­ nirla entro un certo tempo e per un certo tempo lasciarla asciugare, in modo che, quando la carrozza era finita, en­ trambe le parti sapevano la provenienza di ogni pezzo di le­ gno e quanto tempo era rimasto ad asciugare. D ’inverno il carpentiere preparava finestre, persiane, porte, cornici, tra­ vature, per la stagione successiva. Al tempo dei geli autun­ nali, il calzolaio si sedeva in un angolo dell’abitazione del farmer e preparava le scarpe per tutta la famiglia. Tutto ciò era fatto in casa, e una gran parte delle spese era coperta dai prodotti della terra. Quando arrivava l’inverno, era tempo di provvedersi di carne, che veniva affumicata e messa in magazzino. L ’orto dava frutta per il vino, il mosto, le con­ serve, quanto bastava per le esigenze della famiglia e per tutta la durata dell’anno, se non piu. Il grano veniva treb­ biato a poco a poco e a seconda del bisogno, appena l’occor­ rente per ricavarne del contante. Tutto era conservato e consumato. Una delle conseguenze di questo sistema eco­ nomico era che poco denaro occorreva per l’esercizio della azienda. In media, bastavano alle maggiori farms cento dol­

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lari per il mantenimento della servitù, la riparazione degli attrezzi, ecc.» La guerra di secessione doveva metter bruscamente fine a questo idillio. L ’enorme debito pubblico da essa provoca­ to (6 miliardi di dollari) portò con sé un forte aumento del­ l’onere fiscale. Con la fine della guerra, ebbe inizio lo svi­ luppo febbrile del sistema di comunicazione e delle indu­ strie (specie meccanica), al coperto di sempre piu alti dazi protettivi. Per incoraggiare la costruzione di ferrovie e la colonizzazione della terra, le società ferroviarie ricevettero gratuitamente enormi lotti di terre pubbliche; nel solo 1867, piu di 74 milioni di ettari. La rete ferroviaria potè co­ si estendersi rapidamente: dai 30 mila chilometri del i860 si passa nel 1870 a 83 mila, nel 1880 a piu di 130 mila, mentre nello stesso tempo, dal 1870 al 1880, l’intera rete ferroviaria europea saliva da 1 3 0 a 169 mila chilometri. La costruzione di ferrovie e le speculazioni sui terreni alimen­ tarono un’ondata di immigrazioni dall’Europa; dal 1869 al 1892, piu di 4 milioni e mezzo di uomini si stabiliscono ne­ gli Stati Uniti. Parallelamente, l’Unione andava sempre piu emancipandosi dall’industria europea, specialmente dall’in­ glese, e creava manifatture proprie, tessili, siderurgiche, meccaniche. Ma soprattutto rapido fu il rivoluzionamento nell’agricoltura. Già nei primi anni dopo la guerra civile, i piantatori degli stati del Sud furono costretti dall’emancipa­ zione degli schiavi a introdurre l’aratro a vapore, mentre le fattorie da poco sorte nel West in stretto collegamento con la costruzione delle ferrovie venivano attrezzate sulla base della tecnica meccanica piu moderna. «Nello stesso tempo - si legge nel rapporto della commissione agricola degli Sta­ ti Uniti, del 1867 - in cui l’impiego delle macchine rivolu­ ziona la coltura dei campi nel West e riduce al livello piu basso fin qui raggiunto il lavoro umano... eminenti capacità organizzative e amministrative si dedicano all’agricoltura. Fattorie di molte migliaia di ettari vengono condotte con1 1 w. A. peffer, The Farmer’s Side. His Troubles and Their Remedy, New York 1891, parte II: How We Got Here, cap. I: Changed Conditions of the Farmer, pp. 56-57. Cfr. A. m. simons, The American Farmer, 2a ed. Chicago 1906 , pp. 74 sgg.

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piu talento, con un’utilizzazione piu razionale ed economica dei mezzi a disposizione, e con un rendimento piu alto, che fattorie di 40 ettari» \ Contemporaneamente cresceva a dismisura il peso delle imposte dirette e indirette. Nel corso della guerra civile fu emanata una nuova legge finanziaria. La tariffa di guerra del 30 giugno 1864, che forma la base del sistema in vigore a tutt’oggi, aumentò in modo straordinario le imposte di con­ sumo e sul reddito, mentre aveva inizio una vera orgia di protezionismo, che prendeva a pretesto l’alta tassazione di guerra per compensare l’aggravio della produzione interna con dazi protettivi \ I signori Morrill, Stevens e altri, che sfruttarono la guerra per lanciare il loro programma prote­ zionista, inaugurarono un sistema in cui la politica dogana­ le diventava apertamente e cinicamente strumento di inte­ ressi privati a caccia di profitti. Ogni produttore nazionale che si presentava davanti all’assemblea legislativa per chie­ dere uno speciale dazio a protezione della sua azienda, era certo di trovare immediata e benevola soddisfazione: le ta­ riffe doganali venivano elevate a piacere dei richiedenti. «L a guerra - scrive l’americano Taussig - aveva ravvivato e nobilitato sotto molti aspetti la nostra vita nazionale, ma i suoi riflessi immediati sull’attività commerciale e sull’inte­ ra legislazione riguardante gli interessi finanziari furono de­ moralizzanti. I legislatori persero spesso di vista la linea di demarcazione fra dovere civico e interesse privato. Grandi ricchezze furono accumulate mediante modifiche legislative richieste e attuate dalle stesse persone che ne erano le bene­ ficiarie, e il paese constatò con rammarico che l’onore e la rispettabilità dei suoi uomini politici non ne uscivano intat­ ti». Basti pensare che la nuova tariffa destinata a rivoluzio-12

1 Cit.

da LAFARGUE, G e tre id e b a u u n d G e tre id e h a n d e l in d en V e re in ig te n in «D ie Neue Zeit», 1883, p. 344 (art. uscito originariamente nel 1883 in una rivista russa). 2 «The three revenue acts of June 30, 1864, practically form one mea­ sure, and that probably the greatest measure of taxation which the world has seen... The internal revenue act was arranged, as Mr. David A. Wells has said, on the principle of the Irishman at Donnybrook fair: “ Whenever you see a head, hit it: whenever you see a commodity, tax i t ” . Every thing was taxed, and taxed heavily» (f . w. taussig, T h e T a r iff H isto r y 0/ th e U n ite d S ta te s, New York 1888, p. 164).

S ta a te n ,

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nare la vita del paese, a rimanere immutata nelle sue parti essenziali per un ventennio, e a costituire ancor oggi la base della legislazione doganale degli Stati Uniti, passò dopo una discussione di due giorni al Senato e di tre al Congresso, senza critica e senza opposizione, a tamburo battente Con questa svolta nella politica finanziaria degli Stati Uniti ebbe inizio una spudorata corruzione parlamentare, caratterizzata dall’impiego sfacciato dei voti, del potere le­ gislativo e della stampa, come strumenti degli interessi del grande capitale. L ’enrichissez-vous divenne, a partire dalla «nobile guerra» per la liberazione dell’umanità dall’«infa­ mia della schiavitù», la parola d ’ordine della vita politica; gli yankees liberatori dei negri celebrarono orge come cava­ lieri erranti della speculazione in borsa, regalarono a se stes­ si come legislatori larghe fette di terreno nazionale, si arric­ chirono coi dazi e con le imposte, coi monopoli e con le truffe, insomma con la dilapidazione del patrimonio pubbli­ co. L ’industria fiori. Erano passati i tempi in cui il piccolo e medio farmer riuscivano a tirare avanti quasi senza soldi e solo ogni tanto, a seconda delle necessità, trebbiavano le loro riserve di grano per ricavarne quattrini. Ora il farmer aveva bisogno di denaro, di molto denaro, per pagare le tas­ se; doveva vendere in fretta tutto ciò che produceva, per comprare come merce dai manifatturieri tutto ciò che gli era necessario. «Se ci volgiamo al presente —scrive Peffer — vediamo che quasi tutto è cambiato. Specialmente nel West, tutti i farmers trebbiano ormai contemporaneamente il loro grano, e lo vendono subito. Il farmer vende il bestiame e compra carne fresca o salata, vende i maiali e compra pro­ sciutto e carne di porco, vende ortaggi e frutta e li ricompra in forma di conserve. Se coltiva lino lo batte invece di fi­ larlo, di tesserlo, di farne biancheria per i suoi figli, come avveniva cinquantanni fa; vende il seme e brucia la paglia. Su cinquanta farmers è tanto se uno alleva pecore; in genere si fa affidamento sui grandi allevamenti, e si acquista la lana1 1 «The necessity of the situation, the critical state of the country, the urgent need of revenue, may have justified this haste, which, it is safe to say, is unexampled in the history of civilized countries» (f . w. taussig , The Tariff History of the United States, p. 168).

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già lavorata in forma di tela o di vestito. I suoi abiti il farm­ er non li fa piu cucire in casa, ma li compra in città. Invece di fabbricarsi gli attrezzi agricoli necessari, va a comprarli al mercato; compra corde e canapi, stoffe e abiti, frutta con­ servata e lardo, carne e prosciutto; compra oggi quasi tutto ciò che ieri produceva, e ha perciò bisogno di un mucchio di denaro. Soprattutto strano è questo: mentre prima la casa dell’americano era libera e senza debiti, e non in un caso su mille la si ipotecava per ottenere un prestito in denaro, mentre, occorrendo poco denaro per la conduzione del fon­ do, fra i contadini il denaro non mancava mai, ora che ne occorre dieci volte tanto ce n’è poco o nulla. Circa la metà delle fattorie hanno contratto debiti ipotecari che ne divo­ rano l’intero reddito, e gli interessi sono esorbitanti. Causa di questa stupefacente metamorfosi sono i manufatturieri con le loro fabbriche di filati e tessuti di lana e lino, di lavo­ razione del legno, di filatura e tessitura del cotone, di pre­ parazione di frutta e carne conservate ecc.; i piccoli labora­ tori artigiani delle fattorie hanno ceduto il passo alle grandi fabbriche cittadine. Il vicino atelier del carrozziere ha fatto posto all’enorme stabilimento industriale in cui si produco­ no cento o magari duecento carri la settimana; in luogo del­ la miriade di piccoli artigiani calzolai c’è oggi la grande fab­ brica cittadina in cui la maggior parte del lavoro è eseguita da macchine» '. Infine, anche il lavoro strettamente agrico­ lo del farmer si meccanizzava. «O ggi il farmer ara, semina e miete a macchina; la macchina taglia e lega i covoni, e si trebbia a vapore. Mentre ara il farmer può leggere il giorna­ le del mattino, e miete seduto al riparo sulla macchina»12. Questa trasformazione dell’agricoltura americana a par­ tire dalla «grande guerra» non fu però la fine, ma l’inizio del ciclone in cui il farmer doveva esser travolto. La sua sto­ ria ci porta naturalmente alla seconda fase di sviluppo del­ 1 w. A. p. 58.

peffer , T h e F a r m e r ’s S id e . H i s T r o u b le s a n d T h e ir R e m e d y ,

2 I b i d ., In tr o d u c tio n , p. 6. Verso il i 88j , il denaro liquido necessario per un «modestissimo inizio» nella piu piccola fa rm della zona nordocci­ dentale era calcolato a 1200-1400 dollari ( sering, D ie la n d w irtsc h aftlic h e K o n k u rre n z N o r d a m e r ik a s, Leipzig 1887, p. 431).

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l ’accumulazione capitalistica, che nello stesso tempo illustra con molta efficacia. Il capitalismo combatte e incalza ovun­ que l’economia naturale, la produzione per il bisogno dello stesso produttore, la combinazione dell’agricoltura e dell’artigianato, per sostituirvi la semplice economia mercan­ tile. Ha bisogno dell’economia mercantile come sbocco del suo plusvalore. La produzione delle merci è la forma gene­ rale in cui il capitalismo prospera. Ma, appena impostasi sulle rovine della economia naturale la produzione semplice delle merci, ecco il capitalismo muoverle guerra. Il capita­ lismo entra, con l’economia mercantile semplice, in un rap­ porto di concorrenza; dopo di averle dato vita, le contende i mezzi di produzione, le forze-lavoro, gli sbocchi. Suo sco­ po era prima l’isolamento del produttore, il suo distacco dai vincoli protettori della comunità primitiva; è poi la separa­ zione dell’agricoltura dall’artigianato; è infine la sottrazione dei mezzi di produzione al piccolo produttore di merci. Abbiamo visto come la «grande guerra» aprisse negli Stati Uniti un’era di spudorato saccheggio dei terreni na­ zionali ad opera di monopoli capitalistici e di speculatori privati. Accanto alla febbrile attività di costruzione delle ferrovie e, ancor piu, alla speculazione relativa, si sviluppò una folle speculazione sui terreni, in cui giganteschi patri­ moni, interi ducati, divennero preda di singoli cavalieri di ventura e di grandi compagnie. Di qui, attraverso un nugolo di agenti, con tutti i mezzi di una pubblicità chiassosa e sen­ za scrupoli, mediante imbrogli e inganni d ’ogni genere, fu orchestrato il poderoso flusso dell’immigrazione dall’Euro­ pa. A tutta prima, l’ondata venne a frangersi sulla costa atlantica. Ma, quanto piu l’industria si sviluppava negli stati orientali, tanto piu l’agricoltura si spostava verso il West. Il «centro granario», che nel 1850 si trovava a Columbus nell’Ohio, emigrò nel cinquantennio successivo 99 miglia verso nord e 680 miglia verso ovest. Nel 1850, gli stati atlantici producevano il 51,4% dell’intero raccolto, nel 1880 solo il 13,6, mentre gli stati nord-centrali davano nel 1880 il 71,7% e gli occidentali il 9,4. Nel 1825, il Congresso aveva deciso, sotto Monroe, di trapiantare gli indiani dall’East al West. I pellirossa resi­

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stettero disperatamente, ma — almeno gli ultimi resti so­ pravvissuti ai massacri delle 40 guerre indiane — furono spazzati via come inutile ciarpame, cacciati verso occidente come orde di bufali, chiusi come bestie feroci nelle gabbie delle reservations. L ’indiano doveva cedere il passo al far­ mer; poi fu la volta del farmer a cedere il passo al capitale, ad essere cacciato a sua volta di là del Mississippi. Al seguito delle ferrovie il farmer americano puntò ver­ so il West e il North-West, verso la terra promessa che gli agenti dei grandi speculatori sui terreni gli avevano fatto balenare. Ma le estensioni di terra piu fertili e meglio espo­ ste furono impiegate dalle società per una grande condu­ zione puramente capitalistica. Accanto alla piccola fattoria sperduta nelle foreste o nel deserto, sorse una pericolosa concorrente e nemica mortale la bonanza farm [la fattoria miniera], l’unità agricola capitalistica finora sconosciuta al Vecchio come al Nuovo Mondo. Qui la produzione del plus­ valore fu perseguita con tutti i mezzi ausiliari della scienza e della tecnica moderne. «Olivier Darlymple, il cui nome è oggi noto su tutt’e due le rive dell’Oceano —scriveva Lafargue nel 1885 —può essere considerato come il piu tipico rappresentante dell’agricoltura a base finanziaria. Dal 1874, egli dirige contemporaneamente una linea di navigazione sul Fiume Rosso e sei fattorie appartenenti ad una società di finanzieri, della superficie complessiva di 30 mila ettari. Le ha divise in sezioni di 800 ettari l’una, ognuna delle qua­ li ha spezzettato in tre sottosezioni di 267 ettari, sottopo­ ste a capi e sottocapi-sezione. In ognuna sono costruite ba­ racche che ospitano cinquanta uomini e altrettanti cavalli e muli, e contengono cucine, magazzini di alimentari per uomini e bestiame, rimesse per macchine, laboratori da fab­ bro e carpentiere. Ogni sezione ha il suo inventario comple­ to: 20 paia di cavalli, 8 aratri doppi, 12 seminatrici, 12 er­ pici a denti di acciaio, 12 macchine falciatrici e covonatrici, 2 trebbiatrici e 16 carri; tutto è previsto perché macchine e animali da lavoro (uomini, cavalli, muli) siano in buono stato e in grado di compiere la quantità massima possibile di lavoro. Tutte le sezioni sono collegate telefonicamente fra loro e con la direzione centrale.

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«L e sei fattorie di 30 mila ettari sono dotate di un eser­ cito di 600 uomini organizzati militarmente; al tempo del raccolto la direzione arruola altri 300-600 lavoratori sussi­ diari da distribuire fra le sezioni. Se in autunno i lavori so­ no finiti, i lavoratori vengono dimessi, ad eccezione dei ca­ pi-sezione e di io uomini per sezione. In molte fattorie del Dakota e del Minnesota, i cavalli non svernano sul luogo di lavoro. Finite di arare le stoppie li si spinge in mandre di 100-200 paia 1000-1300 chilometri a sud, da dove ritorna­ no solo in primavera. «Meccanici a cavallo seguono le macchine per arare, se­ minare e mietere; appena qualcosa non va, galoppano fino alla macchina guasta per ripararla subito e rimetterla in mo­ to. Il raccolto è portato alle trebbiatrici, che lavorano inin­ terrottamente giorno e notte alimentate da fasci di paglia spinti attraverso tubi di ferro nelle caldaie. Il grano viene trebbiato, spulato, pesato e insaccato a macchina, portato alla ferrovia che corre lungo la farm; e di qui parte per Du­ luth e Buffalo. Ogni anno Dalrymple aumenta di 2 mila et­ tari i suoi seminativi. Nel 1880, questi raggiungevano com­ plessivamente i io mila ettari»1. Già intorno al 1880, esistevano singoli capitalisti e compagnie che possedevano terreni a grano da 14-18 mila ettari ciascuno. Da quando scriveva Lafargue, i progressi tecnici e la meccanizzazione dell’agricoltura capitalistica americana hanno fatto passi da gigante2. Con simili imprese capitalistiche il farmer non poteva concorrere. Nello stesso tempo in cui il rivoluzionamento dei rapporti generali —finanze, produzione, sistemi di tra­ sporto - lo costringeva ad abbandonare la produzione per il suo fabbisogno e a produrre tutto per il mercato, i prezzi dei prodotti agricoli precipitavano in seguito all’enorme estensione della coltura del suolo. Nello stesso tempo in cui la massa dei farmers vedeva incatenati i suoi destini al mer­ cato, il mercato agricolo dell’Unione si trasformava di col1 lafargue, G e tre id e b a u u n d G e tre id e h a n d e l in den V e re in ig te n S ta a te n , P- 3 4 5 2 II R e p o r t o f U .S . C o m m issio n e r o f L a b o r per il 1898 riassume i risulta­ ti raggiunti dalla meccanizzazione in confronto al lavoro umano (cfr. tab. 1).

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Tabella 1.

Tempo di lavoro con impiego macchine per unità di prodotto Lavoro

Piantagione granaglie Raccolta e trebbiatura granaglie Piantagione mais Taglio mais Sgranatura mais Piantagione cotone Coltivazione cotone Falciatura fieno Falciatura raccolta e imballo Piantagione patate Piantagione pomodoro Coltivazione e raccolta pomodori

ore

minuti 32,7

I

3 7 ,3

3

4 ,3

134

3 ,2 3 ,6

I 12 I

il I I

3

3,1 0,6 3 ,4

2,5 4

Idem con impiego di solo lavoro manuale ore minuti io 46 6

55 40 15

5

66 8 60 7 35

40 48 20 30

15 IO

324

20

Tabella 2. L ’esportazione di grano dagli Stati Uniti in Europa raggiunse in milioni di bushels: 1885-86 1868-69 17,9 3 7 ,7 1890-91 3 3 ,1 1874-75 7 1 ,8 101,9 1899-1900 1879-80 153,2 (Jurascheks Übersichten der Weltwirtschaft, voi. VII, I, P. 3 2 ). Contemporaneamente, il prezzo del grano per bushel loco farm scendeva in cents come segue: 1896 1870-79 103 73 8r 1880-89 83 1897 1898 58 1895 51 Dal r899, raggiunto il minimo di 58 cents per bushel, il prezzo riprende a salire: 7O 1900 62 1903 92 1904 1901 62 1902 63 (ibid., p. 18). Il prezzo del grano per tonnellata nel giugno 1912, espresso in marchi tedeschi, risultava di: 178,08 New York Berlino 227,82 Londra 170,96 Mannheim 247,93 Parigi Odessa 173,94 243,69

15

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po da sbocco locale a mercato mondiale, aperto al gioco fol­ le di pochi capitali giganteschi e alle loro speculazioni. Nel 1879, anno decisivo nella storia dell’agricoltura tan­ to europea che nordamericana, si iniziò l’esportazione in massa del grano statunitense in Europa Naturalmente, i vantaggi di questo allargamento del mer­ cato di sbocco furono monopolizzati dal grande capitale: da una parte crebbero, soffocando con la loro concorrenza le aziende piccole, le fattorie-gigante; dall’altra, il piccolo farmer cadde in preda agli speculatori che compravano il suo grano, per esercitare con esso una pressione poderosa sul mercato mondiale. Abbandonato inerme alla potenza del capitale, il farmer si caricò di debiti, forma tipica del declino dell’economia contadina. L ’indebitamento delle farms divenne presto una calamità pubblica. Nel 1890, il sottosegretario all’agricoltura Rusk scriveva in una circo­ lare apposita, in vista della situazione disperata dei conta­ dini: « I l peso delle ipoteche sulle fattorie, sulle case e sui terreni va prendendo dimensioni preoccupanti; e se in sin­ goli casi il debito è stato acceso con eccessiva precipitazio­ ne, nell’enorme maggioranza è stato indubbiamente impo­ sto dalla necessità... I prestiti ad alto interesse sono dive­ nuti soffocanti in seguito alla caduta del prezzo dei prodot­ ti agricoli e minacciano il farmer, in molti casi, della perdi­ ta della casa e del fondo. Questione gravissima, per chi vor­ rebbe curare i mali di cui i farmers soffrono. Risulta infatti che, ai prezzi correnti, il contadino, per ottenere un dollaro con cui pagare il suo debito, deve vendere assai piu prodot­ ti di quando aveva preso in prestito quello stesso dollaro. Gli interessi crescono, mentre l’ammortamento del debito è evidentemente divenuto una questione insolubile, ma, di fronte alla situazione penosa di cui parliamo, il rinnovamen­ to dell’ipoteca risulta estremamente difficile»12. Secondo il censimento del 29 maggio 1891, l’indebitamento generale della terra si estendeva a 2,5 milioni di fattorie, due terzi delle quali proprietà dei farmers, e il debito di questi ulti­ 1 Cfr. tabella 2 a pagina precedente. 2 In w. A. PEFFER, The Farmer’s Side. His Troubles and Their Remedy, parte I: Where We Are, cap. II: Progress of Agriculture, pp. 30-31.

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mi raggiungeva circa i 2,2 miliardi di dollari. «In tal modo - conclude Peffer - la situazione dei contadini è criticissima (farmers are passing through the “ valley and shadow of death” )-, la fattoria è divenuta improduttiva, il prezzo dei prodotti agricoli è sceso, dopo la grande guerra, del 50% , il valore delle farms è calato nell’ultimo decennio del 255 0% ; i farmers affondano nei debiti ipotecari senza essere in grado, in molti casi, di rinnovare il prestito, essendo l’i­ poteca sempre piu deprezzata; molti abbandonano la loro azienda che la macina dell’indebitamento continua a divo­ rare. Ci troviamo nelle mani di una potenza spietata: la farm va a picco» \ Al contadino indebitato e rovinato non rimase che tro­ var scampo in servizi ausiliari come salariato, o abbandona­ re la sua azienda e togliersi dai calzari la polvere della «ter­ ra promessa», del «paradiso del grano», ammesso che nel frattempo la sua fattoria non fosse, per insolvenza, caduta nelle grinfie del creditore, come fu il caso per migliaia di farmers. Verso il 1850, le fattorie abbandonate e in rovina si contavano in numero enorme. «Se il farmer non riesce a pagare il debito al termine stabilito —scriveva nel 1887 Sering - l’interesse sale al 12,15, 20% . La banca, il commer­ ciante di macchine, il bottegaio gli si lanciano addosso e lo spogliano dei frutti del suo duro lavoro... Il disgraziato ri­ mane sulla terra come affittuario o si sposta verso occiden­ te per cercar fortuna altrove. In nessuna regione dell’Ame­ rica del Nord ho mai visto tanti contadini indebitati, delusi e amareggiati, come nei distretti granari delle praterie del Nord-Ovest; non un solo farmer con cui abbia parlato nel Dakota, che non fosse pronto a lasciare la sua piccola azien­ d a » 12. Il commissario all’agricoltura del Vermont scriveva nel 1889, a proposito del diffuso fenomeno dell’abbandono delle fattorie: «In questo stato si possono trovare grandi estensioni di terra incolta ma perfettamente coltivabile, che si possono comprare a prezzi non lontani da quelli degli sta­ 1 w. A.

peffer , T h e F a r m e r 's S id e . H is T r o u b le s a n d T h e ir R em ed y ,

p. 48. 2 SERiNG, D ie la n d w irtsc h a ftlic h e K o n k u rre n z N o rd a m e rik a s, p. 433.

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ti del West, per giunta in prossimità di scuole e chiese e con la comodità della ferrovia. Il commissario non ha visitato tutti i distretti dello stato di cui qui si riferisce, ma ne sa ab­ bastanza per convincersi che una buona parte della terra un tempo coltivata ed ora abbandonata si è tramutata in deser­ to, sebbene potrebbe assicurare un buon reddito a lavorato­ ri solerti». Il commissario dello stato di New Hampshire pubblicò nel 1890 un opuscolo dedicato per 67 pagine alla descrizio­ ne di fattorie in vendita a prezzi irrisori. Vi si narra di 1442 farms di recente abbandonate. Ma lo stesso fenomeno si ri­ peteva un po’ dappertutto. Migliaia di acri a grano e mais rimanevano improduttivi e si trasformavano in deserto. Per ripopolare la terra incolta, gli speculatori menavano una fu­ riosa pubblicità e attiravano nuove schiere di immigranti, nuove vittime destinate a precipitare nel baratro ancor piu rapidamente che i loro predecessori \ «N ei pressi delle ferrovie e dei mercati di sbocco - si leg­ ge in una lettera privata - terre pubbliche non ce ne sono piu, sono tutte in mano di speculatori. Il colono prende del terreno libero e paga come farmer. Ma la sua fattoria è tan­ to se gli assicura l ’esistenza né egli può concorrere con le grandi aziende contadine. Coltiva il pezzo di terra assegna­ togli per legge, ma per mantenere il suo livello di vita deve trovare un impiego sussidiario fuori della farm. Nell’Oregon, per esempio, ho incontrato un colono che per cinque anni ebbe in proprietà 160 acri, ma d’estate, a fine giugno, lavorava alla costruzione di strade, dodici ore al giorno, per un salario di un dollaro. Anche lui figurava come un’unità tra i 5 milioni di contadini censiti nel 1890. Nella contea dell’El Dorado, vidi molti farmers che coltivavano la terra solo per quel tanto che serviva al sostentamento proprio e del bestiame, e nulla per il mercato, essendo questo svan­ taggioso; la loro attività principale consiste nello scavare oro, tagliar legna e venderla, ecc. Questa gente vive bene, ma il loro benessere non deriva dal lavoro dei campi. Due1

1 w . a . PEFFER, T h e F a r m e r ’s S id e . H i s T r o u b le s a n d T h e ir R e m e d y , PP- 3J-36.

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anni fa lavorammo nel Long Canon, contea dell’El Dorado, e passammo molto tempo in una cabin su un lotto in cui il proprietario trascorreva solo cinque giorni all’anno, mentre per il resto del tempo lavorava sulla ferrovia a Sacramento. Il lotto non era coltivato. Qualche anno fa ne fu lavorata una piccola parte per obbedire alle prescrizioni di legge, qualche acro è stato ricinto con filo spinato, sono state co­ struite una long cabin e una rimessa; ma negli ultimi anni nessuno ci ha abitato, la chiave della capanna ce l’ha il vici­ no, che l’ha messa a nostra disposizione. Nel corso delle no­ stre peregrinazioni abbiamo visto molti lotti abbandonati, sui quali si tentava di introdurre una gestione economica. Tre anni fa mi è stato proposto di rilevare per cento dollari una fattoria con abitazione. In seguito, la casa vuota è crol­ lata sotto il peso della neve. Nell’Oregon abbiamo visto molte fattorie abbandonate con casette e orticelli. Una di quelle che visitammo era particolarmente ben costruita: un poderoso fortino costruito dalla mano di un maestro, con qualche mobile. E tutto abbandonato. Chiunque l’avrebbe potuto avere gratis» ‘. Dove si rifugia il contadino rovinato dell’Unione? Segue col suo bastone di pellegrino le ferrovie e il «centro grana­ rio». Il paradiso dei cereali si sposta in parte verso il Cana­ da, nel Saskatchewan e sul fiume Mackenzie, dove il grano cresce anche al 62° lat. nord. Lo segue una parte dei farmers dell’Unione12, destinati a subire ben presto, sotto altri cieli, la stessa sorte. Negli ultimi anni, il Canada è apparso sul mercato mondiale come uno dei paesi esportatori di cereali, ma la sua agricoltura è ancor piu dominata dal grande capi­ tale3. 1 Citato da Nikolaj-on, p. 224. 2 L ’immigrazione nel Canada raggiunse nel 1901 le 49 149 persone; nel 1911 le 300 mila, di cui 138 mila provenienti dall’Europa e 134 mila dagli Stati Uniti. Come è stato annunciato da Montreal a fine maggio 1912, l’im­ migrazione di farmers nordamericani continuava anche in quella primavera. 3 «Nel viaggio attraverso il West canadese ho visitato una sola farm ab­ bracciarne meno di 1000 acri. Secondo il C e n su s o f D o m in io n o f C a n a d a , nel Manitoba, 2384337 acri di terreno erano occupati nel r88r da appena 9077 proprietari; ad ognuno appartenevano dunque non meno di 2047 acri, media che non si riscontra in nessuno degli stati dell’Unione» ( sering, D ie la n d w ir tsc h a ftlic h e K o n k u rre n z N o r d a m e r ik a s, p. 376). La vera e propria

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L ’accaparramento di terreni pubblici ad opera di società private capitalistiche fu condotto qui a fondo ancor piu spregiudicatamente che negli Stati Uniti. L ’opera della com­ pagnia ferroviaria canadese del Pacifico è stata, in fatto di rapina di terre demaniali da parte del capitale privato, senza precedenti. La società si era assicurata non soltanto il mono­ polio ventennale della costruzione di tronchi ferroviari, non solo le era stato concesso gratis il territorio sul quale co­ struire la ferrovia (713 miglia inglesi per un valore di circa 33 milioni di dollari), non soltanto lo stato s’era assunto per dieci anni la garanzia di un interesse del 3% sul capi­ tale azionario di 100 milioni di dollari, e aveva anticipato 27 milioni e mezzo di dollari in contanti; ma la società ri­ cevette in dono un territorio di 23 milioni di acri, a scelta fra le terre piu fertili e meglio esposte anche al di fuori del­ la fascia parallela al tronco. Cosi, tutti i futuri coloni della gigantesca pianura dipendevano dal beneplacito dei capita­ listi della compagnia, la quale, per trasformarla il piu pre­ sto possibile in denaro, ne cedette 3 milioni di acri a una società mista di capitalisti inglesi presieduta dal duca di Manchester. Il secondo gruppo capitalista al quale si è fat­ to generoso dono di terre pubbliche è la Hudson’s Bay Co., che in cambio della rinuncia ai suoi privilegi nel NordOvest ha ottenuto di poter rivendicare non meno di un ven­ tesimo dell’intero paese nel territorio fra il lago Winnipeg, la frontiera statunitense, le Montagne Rocciose e il Saskat­ chewan. Cosi, i due gruppi capitalistici hanno ricevuto in­ sieme i cinque noni della terra colonizzabile. Una buona grande azienda era bensì poco diffusa fra I’8o e il ’90 nel Canada, ma già Sering descrive la «Bell-Farm», appartenente a una società per azioni, che abbracciava non meno di 22 680 acri ed era condotta sull’esempio della Dalrymple-Farm. Sering, che considerava con molto scetticismo le prospettive di sviluppo della concorrenza canadese, calcolò come «fascia fruttifera» del West canadese una superficie di 311 mila kmq, cioè un territorio pari a tre quinti della Germania, dei quali riteneva effettivamente coltivati a cultura estensiva solo 38,4 milioni di acri e 15 al massimo come eventuale zona a frumento ( ib id ., pp. 337-38). Secondo i calcoli del «Manitoba Free Press», 13 giugno 1912, la superficie coltivata a grani primaverili raggiungeva in quella stagione gli 11,2 milioni di acri contro una superficie di 19,2 milioni a grano primaverile negli Stati Uniti (cfr. «Berliner Tageblatt», n. 305, 18 giugno 1912).

■ LA LOTTA CONTRO L ’ECONOMIA CONTADINA

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parte del rimanente è stata ceduta dallo stato a 26 «società di colonizzazione» capitalistiche per cui il farmer canade­ se si trova stretto quasi da tutti i lati nella rete del capitale e della sua speculazione. Ciò non impedisce l’immigrazione in massa non solo dall’Europa ma dagli Stati Uniti! Questo il volto del dominio capitalistico sul mondo: cac­ cia il contadino inglese, strappato al suo podere, negli Stati dell’East, di qui nel West per rifarne, sulle macerie dell’e­ conomia indiana, un piccolo produttore di merci, di qui, nuovamente dissestato, nel nord - la ferrovia davanti e la rovina dietro, cioè il capitale come battistrada e il capitale come pugnale alle spalle. Il crescente rincaro dei prodotti agricoli è subentrato di nuovo al pauroso ribasso del 18901900, ma il piccolo contadino americano ne ha tratto lo stesso vantaggio del suo confratello europeo. È vero che il numero delle fattorie cresce senza posa: nell’ultimo decennio del secolo xix, sale da 4,6 milioni a 5,7, e un aumento assoluto si è verificato anche negli ultimi dieci anni. Contemporaneamente è cresciuto il valore com­ plessivo delle farms; negli ultimi dieci anni, da 751,2 mi­ lioni di dollari a 1652,8 milioni2. Il generale aumento dei prezzi dei prodotti del suolo avrebbe dovuto segnare la pro­ sperità del contadino americano. Vediamo invece il numero degli affittuari crescere piu rapidamente che il numero com­ plessivo dei farmers. Gli affittuari costituivano, in rapporto al numero complessivo dei farmers % 1880

25.5

1890

2 8 ,4

1900

35.3 37.2

1910

Nonostante l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, le proprietà contadine cedono dunque sempre piu il passo al1 SERING, D ie la n d w irtsc h a ftlic h e K o n k u rre n z N o r d a m e r ik a s , pp. 361

2 ernst SCHULTZE, D a s W irtsc h a ftsle b e n d e r V e re in ig te n S ta a te n , in «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft», 1912, fase. 4, p. 1724.

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le affittanze. Ma gli affittuari, che già ora rappresentano un terzo di tutti i contadini dell’Unione, sono negli Stati Uni­ ti lo strato corrispondente ai nostri contadini europei, i ve­ ri schiavi salariati del capitale, l’elemento continuamente fluttuante che si consuma a creare ricchezze per il capitale, senza riuscire a farsi piu di una misera e incerta esistenza. Lo stesso processo in un ambiente storico completamen­ te diverso - il Sud Africa - illustra in modo ancor piu chia­ ro i «metodi pacifici» della lotta fra capitale e piccolo pro­ duttore di merci. Fin verso il i8 6 0 , regnavano nella Colonia del Capo e nelle repubbliche boere rapporti schiettamente contadini. A lungo i boeri condussero una vita da allevatori nomadi, sottraendo a ottentotti e cafri i migliori pascoli e stermi­ nandoli o cacciandoli dalle loro terre. Nel secolo x v iii , la peste portata dalle navi della Compagnia delle Indie orien­ tali rese loro preziosi servigi mietendo ripetutamente inte­ re tribu ottentotte, e facendo cosi posto agli immigranti olandesi. Nel loro dilagare verso est, questi si scontrarono con le tribù bantu, inaugurando il lungo periodo delle ter­ ribili guerre dei cafri. I pii olandesi attaccati alla Bibbia, coi loro costumi puritani e con la loro conoscenza dell’Antico Testamento, non si limitarono, da buon «popolo eletto», a rubare terra agli indigeni, ma edificarono le loro aziende contadine sulle spalle dei negri, da loro costretti al lavoro servile e a tal fine sistematicamente e coscientemente cor­ rotti e smidollati. L ’acquavite ebbe in quest’opera un po­ sto così decisivo, che il suo divieto da parte del governo in­ glese naufragò contro la resistenza dei puritani. In genere, l’economia boera rimase fin verso il i860 prevalentemente patriarcale e «naturale»: la prima ferrovia del Sud Africa risale al 1859. Non che il carattere patriarcale dell’econo­ mia impedisse la durezza e violenza dei metodi di dominio. Com’è noto, Livingstone ebbe molto piu a dolersi dei boeri che dei cafri. Per loro, i negri erano oggetti cosi espressamente designati da Dio e dalla natura a servirli, una base co­ sì indispensabile per la loro attività agricola, che risposero col «grande Treck» alla soppressione della schiavitù nelle colonie inglesi (1836), nonostante l’indennizzo concesso ai

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proprietari nella misura di 3 milioni di sterline. I boeri, cioè, emigrarono dalla Colonia del Capo verso l’Orange e il Vaal ed oltre, cacciarono i matabele di là dal Limpopo, e aizzaro­ no contro di essi i makalaka. Come il farmer americano, sot­ to i colpi dell’economia capitalistica, spinse l’indiano verso il West, cosi il boero spinse verso nord il negro. Le «libere repubbliche» fra l’Orange e il Limpopo sorsero, dunque, come protesta contro l’attentato della borghesia inglese al diritto sacro della schiavitù. I minuscoli stati contadini era­ no in continua guerriglia con i negri bantu, e sulle spalle dei negri si svolse la decennale lotta fra i boeri e il governo in­ glese. Servi di pretesto al conflitto la cosiddetta questione negra, cioè la presunta volontà della borghesia britannica di emancipare le popolazioni di colore. In realtà, quella che si svolse fu una lotta di concorrenza fra economia contadi­ na e politica coloniale del grande capitalismo intorno a ca­ fri e ottentotti, cioè alla loro terra e alla loro forza-lavoro. Identico lo scopo dei due concorrenti: sottomissione, espulsione o dispersione dei negri, distruzione della loro or­ ganizzazione sociale, appropriazione delle loro terre, sfrut­ tamento del loro lavoro. Solo i metodi si distinguevano. I boeri rappresentavano il piccolo schiavismo tradizionale come base di un’economia contadina patriarcale; la bor­ ghesia inglese, il moderno sfruttamento capitalistico in grande stile della terra e dell’uomo. La legge fondamenta­ le della repubblica del Transvaal proclamava con inintelli­ gente rudezza: « I l popolo non tollera alcuna uguaglianza fra bianchi e neri né nello stato né nella chiesa». Nell’Orange e nel Transvaal i negri non potevano possedere ter­ re, viaggiare senza passaporto, farsi vedere per le strade dopo il tramonto. Bryce racconta il caso di un contadino della zona orientale della colonia (un inglese) che, pro­ cessato per aver ucciso a colpi di frusta il suo cafro e as­ solto, venne dai vicini accompagnato a casa con la musi­ ca. Spesso i bianchi si sottraevano al pagamento del sala­ rio a negri nati liberi costringendoli alla fuga a furia di maltrattamenti. Il governo inglese segui la tattica opposta, presentandosi a lungo come protettore degli indigeni, adu­ landone i capi, rafforzandone l’autorità, cercando di inve­

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stirli del diritto di disporre delle terre. Anzi, nei limiti del possibile, trasformò i capitribù —secondo un metodo sanci­ to dalla esperienza - in proprietari del suolo comune. Ciò urtava in pieno con la tradizione e coi rapporti sociali dei negri, giacché la terra era possesso collettivo delle tribù in­ digene, e perfino i capi più crudeli e dispotici, come il matabelese Lobengula, avevano soltanto il diritto e il dovere di assegnare ad ogni famiglia un appezzamento, che però ri­ maneva in suo possesso solo finché effettivamente coltiva­ to. L ’obiettivo finale della politica inglese era chiaro: pre­ parare di lunga mano la spoliazione in grande stile del suo­ lo, facendo dei capitribù i propri strumenti. Frattanto, si li­ mitava alla «pacificazione» dei negri mediante grandi ope­ razioni militari: nove sanguinose guerre contro i cafri si succedettero fino al 1879 nell’intento di spezzar la resisten­ za dei bantù. Il capitale inglese svelò apertamente e con energia i suoi propositi solo quando due avvenimenti decisivi —la scoper­ ta del campo diamantifero di Kimberley (1867-70) e quella delle miniere d ’oro del Transvaal (1882-85) - aprirono una nuova era nella storia del Sud Africa. La Compagnia britan­ nica del Sud Africa, cioè Cecil Rhodes, entrò in azione, e nell’opinione pubblica inglese si compì una subitanea svol­ ta. La brama dei tesori sudafricani spinse il governo a prov­ vedimenti radicali: nessun sacrificio di denaro e di sangue parve troppo grave alla borghesia britannica pur di impa­ dronirsi delle terre. Un flusso poderoso di immigranti si ro­ vesciò sulla colonia. L ’immigrazione, rimasta fin allora mo­ desta per l’attrazione prevalente che esercitava l’America, crebbe a sbalzi: dal 1885 al 1895, centomila inglesi si sta­ bilirono nel Witwatersrand. La piccola economia contadina passò in secondo piano, balzò in prima fila l’attività estrat­ tiva a base capitalistica. Fu allora che la politica inglese cambiò bruscamente faccia. Verso la metà del secolo, coi trattati del Sand-River e di Bloemfontein, l’Inghilterra ave­ va riconosciuto le repubbliche boere. Ora cominciò un ac­ cerchiamento politico degli stati contadini mediante occu­ pazione di tutti i territori circostanti al fine di impedirne ogni eventuale allargamento, e contemporaneo assorbimen-

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to dei negri a lungo protetti e favoriti. Il capitale inglese avanzava, un colpo dopo l’altro. Nel 1868 passò sotto la so­ vranità inglese - naturalmente dietro «ripetute preghiere» dei nativi' - il Basutoland. Nel 1871 i campi diamantife­ ri sul Witwatersrand vennero sottratti all’Orange come «West-Griqualand» ed elevati a colonia della corona; nel 1879 fu sottomesso, per poi essere incorporato alla colonia del Natal, lo Zululand; nel 1885 fu la volta del Bechuanaland, in seguito annesso alla Colonia del Capo; nel 1888 furono soggiogati i Matabele e il Maschonaland; nel 1889 la Compagnia britannica del Sud Africa ottenne una paten­ te sui due territori —anche questo, inutile dirlo, solo per ri­ guardo agli indigeni e dietro loro richiesta2; nel 1884 e 1887 la baia di Santa Lucia e l’intera costa orientale fino ai possedimenti portoghesi furono annessi dall’Inghilterra; nel 1894 il Tongaland. I Matabele e i Mashona si buttaro­ no in una disperata lotta di difesa, ma la Compagnia, con Cecil Rhodes in testa, soffocò nel sangue la rivolta, per poi impiegare il mezzo brevettato di civilizzazione e pacifica­ zione degli indigeni: la costruzione di due grandi ferrovie nel territorio dei rivoltosi. Cosi accerchiate, le repubbliche boere ebbero vita sem­ pre piu difficile. Ma anche all’interno le tradizionali basi della loro vita vacillavano. Il potente flusso dell’immigra­ zione e le ondate della nuova e febbrile economia capitali­ stica minacciavano di far saltare le barriere dei piccoli stati contadini. In realtà il contrasto fra l’economia contadina nei campi come nello stato e le esigenze e i bisogni dell’ac­ cumulazione del capitale era sempre piu stridente. Un pas1 «Moshesh, the great Basuto leader, to whose courage and statesman­ ship the Basutos owed their very existence as a people, was still alive at the time, but constant war with the Boers of the Orange Free State had brought him and his followers to the last stage of distress. Two thousand Basuto warriors had been killed, cattle had been carried off, native homes had been broken up and crops destroyed. The tribe was reduced to the position of starving refugees, and nothing could save them but the protection of the Bri­ tish Government, which they had repeatedly implored» (c. p . lucas , A H i ­ sto r ic a l G e o g ra p h y o f th e B ritish C o lo n ie s, Oxford, vol. IV, p. 60). 2 «The eastern section of the territory is Mashonaland, where, with the permission of King Lobengula, who claimed it, the British South Africa Company first established themselves» ( c . p. LU C A S, A H is to r ic a l G e o g ra p h y o f th e B r itish C o lo n ie s , Oxford, vol. IV, p. 77).

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so dopo l’altro, le repubbliche cedevano di fronte ai nuo­ vi compiti. Insufficienza e primitività dell’amministrazione, costante minaccia dei cafri (non malvista d ’altronde dagli inglesi), corruzione insinuatasi nello stesso Volksraad a pro­ fitto del grande capitalismo, incapacità della polizia a man­ tenere in sesto la barcollante società dei cavalieri di ventu­ ra, deficienza d ’acqua e di mezzi di trasporto per l’approv­ vigionamento di una colonia improvvisamente formatasi di ioo mila immigranti, mancanza di una legislazione del la­ voro che regolasse lo sfruttamento dei negri nelle miniere, alti dazi protettivi, alti noli per il carbone: tutto concorre­ va a precipitare in una spaventosa bancarotta le repubbli­ che boere. Nella loro grettezza, queste cercarono di difendersi dal­ l’ondata di fango e di lava del capitalismo col mezzo piu primitivo a disposizione degli ottusi e rigidi coloni - esclu­ sero la massa degli uitlander, che li superavano largamente in numero e rappresentavano di fronte a loro il capitale, la potenza, lo spirito dei tempi, da ogni diritto politico! Era un brutto scherzo, e i tempi non tolleravano scherzi. I divi­ dendi soffrivano del malgoverno delle repubbliche contadi­ ne e non erano piu disposti a tollerarlo. Il capitale minera­ rio si rivoltò. La Compagnia costruì linee ferroviarie, sottomise i cafri, organizzò insurrezioni degli uitlander, infine provocò la guerra boera. L ’ora dell’economia contadina era suonata. Se negli Stati Uniti la guerra fu il punto di arrivo della trasformazione economica e sociale, nel Sud Africa fu il suo punto di partenza. Ma il risultato fu identico: vitto­ ria del capitale sulla piccola economia agraria, a sua volta nata sulle macerie dell’organizzazione economica primitiva e naturale. La resistenza delle repubbliche boere all’Inghil­ terra fu disperata come la resistenza dei farmers americani al dominio capitalistico negli Stati Uniti: nella nuova Unio­ ne Sudafricana, che, realizzando il programma imperialisti­ co di Cecil Rhodes, sostituì alle piccole repubbliche conta­ dine un grande stato moderno, il capitale doveva prendere ufficialmente il potere. L ’antico contrasto fra inglesi e olan­ desi si è dissolto nel nuovo contrasto fra capitale e lavoro: nell’Unione nata dalla guerra, i due popoli hanno suggella-

LA LOTTA CONTRO L ’ECONOMIA CONTADINA

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to un commovente e fraterno accordo nella privazione dei diritti civili e politici di 5 milioni di lavoratori di colore, ad opera di un milione di sfruttatori bianchi. Dalla tragica vi­ cenda sono usciti a mani vuote non soltanto i negri delle repubbliche boere, ma hanno perso in parte i loro diritti an­ che i negri della Colonia del Capo, che già avevano ricevu­ to dal governo inglese l’uguaglianza politica. Questa nobile opera, che ha coronato con un vergognoso colpo di forza la politica dei conservatori, doveva essere portata a termine proprio dal partito liberale, tra i frenetici applausi dei «cré­ tins liberali d ’Europa», esaltanti con orgoglio e commozio­ ne, nella piena autonomia amministrativa e nella libertà do­ nate dall’Inghilterra a un pugno di bianchi del Sud Africa, la prova della potenza creatrice e della grandezza ancora vi­ va del liberalismo inglese. La rovina dell’artigianato indipendente ad opera della concorrenza del capitale forma un capitolo a sé, meno ru­ moroso ma non meno straziante. L ’industria domestica ca­ pitalistica è, in questo capitolo, l’episodio piu cupo. Non è qui il caso di soffermarvisi. Risultato generale della lotta fra capitalismo ed econo­ mia mercantile semplice è che il capitale subentra all’econo­ mia mercantile semplice, dopo di aver collocato questa al posto dell’economia naturale. Se dunque il capitalismo vive di formazioni non-capitalistiche, vive però - per essere piu precisi - della loro rovina, e se ha incondizionato bisogno per la sua accumulazione di un ambiente non-capitalistico, ne ha bisogno come di un terreno di sviluppo a spese del quale, mediante il cui dissanguamento, compiere l’accumu­ lazione. Vista storicamente, l’accumulazione del capitale è un processo di ricambio organico svolgentesi fra il modo di produzione capitalistico e quelli non-capitalistici. Senza di essi l’accumulazione del capitale non può effettuarsi, ma, vista in questa luce, l’accumulazione consiste nella loro ero­ sione e assimilazione. L ’accumulazione del capitale non può esistere senza le formazioni non-capitalistiche, ma queste, a loro volta, non possono coesistere con lei. Solo il loro con­ tinuo e progressivo frantumamento pone le condizioni di esistenza dell’accumulazione capitalistica.

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

Quella che per Marx era la premessa del suo schema del­ l’accumulazione, corrisponde dunque solo alla tendenza sto­ rica obiettiva del movimento dell’accumulazione, e al suo risultato teorico finale. Il processo di accumulazione tende a sostituire ovunque all’economia naturale l’economia mer­ cantile semplice, all’economia mercantile semplice l’econo­ mia capitalistica, a imporre in tutti i paesi e in tutti i setto­ ri il dominio assoluto della produzione del capitale, come modo di produzione unico ed esclusivo. Ma qui comincia il vicolo cieco. Una volta raggiunto il ri­ sultato finale —che rimane tuttavia una costruzione teori­ ca - , l’accumulazione diventa impossibile: la realizzazione e capitalizzazione del plusvalore si trasforma in un proble­ ma insolubile. Nel momento in cui lo schema marxiano del­ la riproduzione allargata corrisponde alla realtà, esso segna la fine, il limite storico del movimento dell’accumulazione, il termine della produzione capitalistica. La impossibilità dell’accumulazione significa, dal punto di vista capitalistico, l ’impossibilità di un’ulteriore espansione delle forze pro­ duttive, e perciò la necessità storica obiettiva del tramonto del capitalismo. Di qui il moto contraddittorio della fase ultima, imperialistica, come conclusione della parabola sto­ rica del capitale. Lo schema marxiano della riproduzione allargata non corrisponde alle condizioni dell’accumulazione finché que­ sta si sviluppa: impossibile chiudere l’accumulazione nei rapporti reciproci e nelle mutue dipendenze, rigide e immu­ tabili, fra le due grandi sezioni della produzione sociale (produzione di mezzi di produzione e produzione di mezzi di consumo), che lo schema formula. Essa non è soltanto un rapporto interno fra rami dell’economia capitalistica, ma, prima di tutto, un rapporto fra capitale e ambienti non­ capitalistici, in cui ognuno dei due grandi settori della pro­ duzione può compiere in parte per conto suo, indipenden­ temente dall’altro, il processo dell’accumulazione, senza che tuttavia il moto dell’uno non cessi d’incrociarsi e intrecciar­ si ad ogni passo col moto dell’altro. I rapporti complessi che se ne originano, le diversità nel tempo e nella direzione del processo di accumulazione dei due settori, le relazioni

LA LO TT A CONTRO L ’ECO N O M IA CONTADINA

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materiali e di valore con le forme di produzione non-capitalistiche, non sono esprimibili in una forma schematica esat­ ta. Lo schema marxiano dell’accumulazione non è se non l’espressione teorica del momento in cui il dominio del ca­ pitale ha raggiunto la sua barriera estrema, ed è un’astra­ zione scientifica allo stesso titolo dello schema della ripro­ duzione semplice, che formula in linea teorica il punto d ’i­ nizio della produzione capitalistica. Ma solo fra i due estre­ mi di queste astrazioni è racchiusa la conoscenza esatta del­ l’accumulazione del capitale e delle sue leggi.

CAPITOLO T R EN T ESIM O I P R E S T I T I IN TE R N A Z IO N A LI

La fase imperialistica dell’accumulazione del capitale, o la fase della concorrenza internazionale fra i capitali, ab­ braccia anche l’industrializzazione ed emancipazione in sen­ so capitalistico delle precedenti zone di investimento del capitale, in cui la realizzazione del suo plusvalore si compi­ va. I metodi specifici di lotta di questa fase sono: prestiti esteri, costruzione di ferrovie, rivoluzioni e guerre. Il decennio 1900-10 è particolarmente caratteristico del moto imperialistico mondiale del capitale, soprattutto in Asia e nelle regioni europee che con essa confinano - Rus­ sia, Persia, India, Giappone-oltre che nell’Africa del Nord. Come l’espansione della produzione mercantile semplice al posto della naturale e della produzione capitalistica al posto della mercantile si è compiuta attraverso guerre, crisi socia­ li e annientamento di intere forme sociali, cosi oggi la tra­ sformazione in senso capitalistico delle colonie e dei paesi economicamente arretrati si svolge fra rivoluzioni e guerre. Nel processo di emancipazione capitalistica dei paesi arre­ trati, la rivoluzione è necessaria per far saltare le forme sta­ tali ereditate dai tempi dell’economia naturale e della pro­ duzione mercantile semplice (e perciò antistoriche) e crea­ re un apparato statale modellato sulle esigenze della produ­ zione capitalistica. Rientrano in questo capitolo le rivolu­ zioni russa, turca e cinese. Che queste rivoluzioni, soprat­ tutto la russa e la cinese, accolgano, insieme con le esigenze politiche dirette della dominazione del capitale, ogni sorta di vecchi residui precapitalistici, e accanto a questi portino in luce nuovi contrasti, nuove resistenze all’impero della produzione capitalistica corrodendola in superficie, è un fat­ to che, se condiziona la loro profondità e potenza d ’urto, ne

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rende però piu difficile e faticoso il trionfo. Quanto alla guerra, essa è abitualmente l’arma caratteristica di un gio­ vane stato capitalistico per infrangere la tutela dei vecchi, la prova e il battesimo del fuoco della raggiunta maturità ca­ pitalistica di uno stato moderno; la riforma dell’ordinamen­ to militare e finanziario appare dovunque la premessa del­ l’autonomia economica. Lo sviluppo della rete ferroviaria rispecchia quasi perfet­ tamente la penetrazione del capitale nel mondo. Esso è sta­ to soprattutto rapido nel quinto decennio dell’Ottocento in Europa, nel sesto in America, nel settimo in Asia, nell’otta­ vo e nono in Australia, nell’ultimo in Africa '. I prestiti esteri collegati alla costruzione delle ferrovie e agli armamenti accompagnano a loro volta tutti gli stadi dell’accumulazione del capitale: introduzione dell’econo­ mia mercantile, industrializzazione dei paesi e rivoluziona­ mento in senso capitalistico dell’economia contadina, eman­ cipazione dei giovani stati capitalistici. Le sue funzioni so­ no, nel quadro dell’accumulazione del capitale, moltepli­ ci: trasformazione in capitale del denaro di strati non-capitalistici, del denaro come equivalente di merci (risparmi del medio ceto piu minuto) o del denaro come fondo di consu1

La rete ferroviaria raggiunse in chilometri: 1840 1850 i860 1870 1880 1890 1900 1910

Europa

America

2 925 23 504 51 862 104 914 168 983 223 869 283 878 333 M

4 734

Percentuali di aumento: 710 1840-50 121 1850-60 102 1860-70 61 1870-80 32 1880-90 27 1890-1900

15 064 33 933

139 174 666 331 417 402 171 526 382 93

215 237 73

88 89 21

Asia I 393 8 185 16 287 33 724

60 301 101 916

486 99

107 79

Africa 433

I 786 4 646 9 386 20 114 36 854

350 156 104 114

Australia 367 I 763 7 847 18 889 24 014 31 014

350 333

142 27

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

mo dell’appendice della classe capitalistica, trasformazione di capitale-denaro in capitale produttivo mediante costru­ zioni ferroviarie ad opera delio stato e forniture militari, trasferimento del capitale accumulato dai vecchi paesi capi­ talistici ai giovani. Fu il prestito a trasferire il capitale dalle città italiane in Inghilterra nei secoli xvi e xvn, dall’Olan­ da in Inghilterra nel x v m , dall’Inghilterra nelle repubbli­ che americane e in Australia, dalla Francia, dalla Germa­ nia e dal Belgio in Russia, dall’Inghilterra e dalla Francia in Cina e, per la mediazione della Russia, in Persia, nel se­ colo XIX. Nel periodo imperialista, il prestito estero ha una fun­ zione preminente come mezzo di emancipazione dei giova­ ni stati capitalistici. La contraddittorietà della fase imperia­ lista si manifesta nel modo piu palese nelle contraddizioni del sistema moderno dei prestiti internazionali: indispensa­ bili per l’emancipazione degli stati capitalistici in ascesa e, nello stesso tempo, mezzo efficacissimo nelle mani degli sta­ ti capitalistici tradizionali per metterli sotto tutela ed eser­ citare un controllo sulle loro finanze e una pressione sul­ la loro politica estera, doganale, commerciale; mezzo indi­ spensabile per aprire nuove sfere d ’investimento al capitale accumulato di paesi ad antico sviluppo capitalistico e, in­ sieme, fomite di nuova concorrenza ad essi: insomma, ar­ ma per allargare il campo di sviluppo dell’accumulazione del capitale e nello stesso tempo per restringerlo. Queste contraddizioni del sistema dei prestiti internazio­ nali sono una classica prova del fatto che le condizioni della realizzazione del plusvalore e le condizioni della sua capi­ talizzazione non coincidono nel tempo e nello spazio. La realizzazione del plusvalore richiede soltanto l’allargamen­ to generale della produzione delle merci : la sua capitalizza­ zione richiede invece la crescente sostituzione alla produ­ zione mercantile semplice della produzione capitalistica; in tal modo tanto la realizzazione quanto la capitalizzazione del plusvalore vanno chiudendosi in limiti sempre piu stret­ ti. Questo processo si rispecchia soprattutto nell’impiego del capitale internazionale per la costruzione di reti ferro­ viarie. Fra il 1830 e il 1860-65, Ie costruzioni ferroviarie e

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i prestiti accordati a tale scopo servirono essenzialmente al­ l’erosione della economia naturale e all’espansione dell’e­ conomia mercantile semplice: cosi le ferrovie nord-ameri­ cane costruite mediante capitale europeo, e i prestiti con­ tratti per le ferrovie russe fra il i860 e il ’70. Per contro, la costruzione di ferrovie nell’ultimo ventennio tanto in Asia quanto in Africa è servita quasi esclusivamente agli scopi della politica imperialistica, alla monopolizzazione econo­ mica e alla sottomissione politica dei paesi arretrati. È il caso delle ferrovie costruite dalla Russia nell’Asia orientale e centrale. L ’occupazione militare della Manciuria ad opera della Russia è stata notoriamente preceduta dalla spedizio­ ne di truppe per la protezione degli ingegneri che lavorava­ no alla costruzione della ferrovia mancese. Lo stesso carat­ tere hanno le concessioni ferroviarie russe in Persia, le im­ prese ferroviarie tedesche nell’Asia Minore e in Mesopota­ mia, le inglesi e tedesche in Africa. Occorre qui chiarire un malinteso in rapporto all’investi­ mento di capitali in paesi stranieri e alla domanda da questi proveniente. L ’esportazione di capitale inglese verso l’A­ merica aveva già importanza notevole intorno al 1820, e ad essa va in gran parte attribuita la prima vera e propria crisi industriale e commerciale inglese del 1825. A partire dal 1824, la borsa di Londra fu inondata di titoli emessi dalle repubbliche sudamericane. Nel 1824-25, i nuovi stati del­ l’America meridionale e centrale contrassero a Londra pre­ stiti per piu di 20 milioni di sterline: accanto ai prestiti di stato, furono inoltre collocate enormi quantità di titoli in­ dustriali sudamericani. L ’improvviso sviluppo e l’apertura dei mercati del Sud America determinarono un considere­ vole aumento dell’esportazione di merci inglesi verso le re­ pubbliche dell’America, sia meridionale che centrale. L ’e­ sportazione di merci britanniche verso questi paesi am­ montò nel 1821 a 2,9 milioni di sterline 1825 6,4 Oggetto principale di queste esportazioni sono i tessuti di cotone. La produzione cotoniera inglese subisce, sotto la

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L E CONDIZIONI ST O R IC H E D E L L ’A C C U M U LA Z IO N E

pressione della forte domanda, un rapido sviluppo, nuove e numerose fabbriche sorgono. Il cotone grezzo lavorato in Inghilterra ammonta n e l i 8 2 i a i 2 9 milioni di sterline; sa­ le nel 1825 a 167 milioni. Erano così posti tutti gli elementi di una crisi. TuganBaranovskij si chiede, a questo punto: «D a dove i paesi sudamericani hanno preso i mezzi per comprare nel 1825 due volte tante merci che nel 1821? Questi mezzi sono stati forniti dagli stessi inglesi. I prestiti contratti alla Borsa di Londra sono serviti al pagamento delle merci importate: gli industriali inglesi, tratti in inganno dalla domanda suscitata da loro stessi, si sono dovuti convincere per esperienza di­ retta che le loro speranze erano fondate sul nulla» Il fatto che la domanda sudamericana di merci inglesi sia suscitata da capitale britannico diventa qui «un errore», un rapporto economico anormale e perciò malsano. Curioso a dirsi, Tugan raccoglie in questo l’eredità di un teorico col quale non ha per altri rispetti nessun punto di contatto. L ’i­ dea che la crisi inglese del 1825 si dovesse spiegare con 1’« anormale» sviluppo dei rapporti fra capitale inglese e do­ manda sudamericana era infatti già affiorata ai tempi di quella crisi, e Sismondi aveva posto il problema esattamen­ te come Tugan-Baranovskij, nella seconda edizione dei suoi Nouveaux principes: « L ’apertura del gigantesco mercato offerto dall’America spagnola ai prodotti industriali mi sembra aver contribuito nel modo piu decisivo al rafforzamento della manifattura inglese. Il governo britannico era dello stesso parere, e una pressione eccezionale fu sviluppata nei sette anni dopo la crisi del 1818 per estendere il commercio inglese nei piu remoti territori del Messico, della Columbia, del Brasile, del Rio de la Piata, del Cile, del Peni. Prima di decidersi a riconoscere questi nuovi stati, esso aveva già provveduto a proteggere il commercio inglese mediante stazioni maritti­ me occupate permanentemente da navi di linea, i cui co­ mandanti avevano funzioni piu diplomatiche che militari. Sordo agli strepiti della Santa Alleanza, ha riconosciuto le1 1 S tu d ie n

z u r T h e o rie u n d G e sc h ic h te d er H a n d e lsk r ise n ,

p. 74.

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nuove repubbliche nello stesso istante in cui tutta l’Euro­ pa decideva di annientarle. Ma, per quanto grandi fossero gli sbocchi offerti dalla libera America, non sarebbero ba­ stati ad assorbire tutte le merci prodotte dagli inglesi al di sopra del loro fabbisogno, se i prestiti concessi alle nuove repubbliche non avessero improvvisamente aumentato a di­ smisura i loro mezzi d’acquisto delle merci inglesi. Ogni stato americano si fece prestare dagli inglesi una certa som­ ma per consolidare il proprio governo, e, sebbene questa fosse un capitale, la spese immediatamente nello stesso an­ no come reddito, cioè la consumò interamente per l’acquisto per conto dello stato di merci britanniche, o per il paga­ mento di quelle spedite per conto di privati. Nello stesso tempo furono fondate numerose società con enormi capita­ li per lo sfruttamento delle miniere americane, ma tutto il denaro da queste speso divenne in Inghilterra reddito per pagare le macchine di cui avevano bisogno, o le merci spe­ dite nei luoghi in cui le macchine dovevano lavorare. Fin­ ché questo paradossale commercio continuò, commercio nel quale gli inglesi non chiedevano agli americani se non di comprare con capitale inglese merci inglesi, tutto parve an­ dare a meraviglia per l’industria britannica. Non piu il red­ dito, ma il capitale inglese ha determinato il consumo; gli inglesi, che compravano e pagavano essi stessi le merci che mandavano in America, si sono soltanto privati del piacere di consumarle»1. E Sismondi ne trae la solita conclusione che solo il reddito, cioè il consumo personale, costituisce il limite reale dello smercio capitalistico, e sfrutta anche que­ sto esempio per mettere per l ’ennesima volta in guardia contro l’accumulazione. In realtà, il processo che ha portato alla crisi del 1823 è tipico del periodo di slancio e di espansione del capitale in tutti i tempi, e il «paradossale» rapporto forma una delle basi fondamentali dell’accumulazione del capitale. Esso si riproduce, specie nella storia del capitalismo inglese, rego­ larmente prima di ogni crisi. Lo dimostra lo stesso Tugan-1 1 sismondi, N o u v e a u x p r in c ip e s , vol. II, co m m e rciale se g u e a lV au m en to d e l re d d ito .

libro IV, cap. IV:

L a ricch ezza

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

Baranovskij sulla scorta di una serie di fatti e di cifre. La causa immediata della crisi del 1836 fu la saturazione del mercato degli Stati Uniti con merci inglesi. Ma anche in questo caso, le merci erano pagate con denaro inglese. Nel 1834, l’importazione di merci negli Stati Uniti superò di 6 milioni di dollari l ’esportazione, ma nello stesso tempo l’importazione di metallo nobile superava l’esportazione della stessa merce di ben 16 milioni di dollari. Nello stesso anno di crisi, il 1836, l’eccedenza delle importazioni am­ montava a 5,2 milioni di dollari, ma l’eccedenza dell’impor­ tazione di metallo nobile raggiungeva ancora i 9 milioni. Quest’ondata di denaro veniva, come l’ondata di merci, es­ senzialmente dall’Inghilterra, dove si era verificato l’acqui­ sto in massa di titoli delle compagnie ferroviarie america­ ne. Nel 1833-36 sorgono negli Stati Uniti 61 nuove ban­ che con un capitale complessivo di 32 milioni di dollari, prevalentemente di origine inglese: anche qui, sono gli stes­ si inglesi a pagare le proprie esportazioni. Allo stesso mo­ do, il gigantesco sviluppo industriale degli stati settentrio­ nali dell’Unione (1830-60), che doveva portare in ultima analisi alla guerra civile, fu alimentato dal capitale inglese: ancora una volta, fu questo capitale ad allargare negli Stati Uniti il mercato dell’industria britannica. Al «paradossale commercio» prese parte il capitale non soltanto inglese ma europeo in genere; secondo Schäffle, nel quinquennio 1849-34, non meno di un miliardo di fiorini erano stati investiti —nelle diverse borse europee —in tito­ li americani: l ’animazione dell’industria mondiale che vi si accompagnò ebbe il suo epilogo nel crak mondiale del 1837. Nel settimo decennio del secolo, il capitale inglese si affretta a creare lo stesso rapporto, oltre che negli Stati Uni­ ti, anche in Asia. Affluisce in massa nell’Asia Minore e nel­ l’India, vi intraprende poderose costruzioni ferroviarie (la rete indiana sale da 1330 chilometri nel i860 a 7683 nel 1870, a 14 977 nel 1880, a 27 000 nel 1890) e vi provoca immediatamente un’accresciuta domanda di merci britan­ niche. Appena finita la guerra di secessione, il capitale in­ glese riprende la via degli Stati Uniti. Qui le enormi costru­

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zioni ferroviarie fra il i860 e il 1880 (la rete americana sale da 14 131 chilometri nel 1850 a 49 292 nel i860, a 85 139 nel 1870, a 150 717 nel 1880, a 268409 nel 1890) sono portate a termine essenzialmente con capitali inglesi. Ma queste ferrovie attingevano all’Inghilterra anche il loro materiale, e fu questa una delle principali cause del balzo compiuto dalle industrie inglesi del carbone e del ferro e del contraccolpo su queste delle crisi americane del 1866, 1873 e 1884. Quello che a Sismondi sembrava un parados­ so si verificò puntualmente: gli inglesi costruirono le ferro­ vie americane col proprio ferro e con tutto l’altro materia­ le necessario, e si pagarono per quest’opera con capitale proprio, cioè si privarono del «piacere» di servirsene. Ma il paradosso fu talmente vantaggioso per il capitale euro­ peo, ad onta di tutte le crisi periodiche, che la Borsa di Lon­ dra fu presa da una violenta febbre dei prestiti esteri. Dal 1870 al 1873, se ne collocarono a Londra per 260 milioni di sterline: conseguenza immediata fu un rapido aumento dell’esportazione di merci inglesi verso i paesi esotici, nei quali il capitale affluiva in massa nonostante la loro perio­ dica bancarotta. (Verso il 1880, Turchia, Egitto, Paraguay, Grecia, Bolivia, Costarica, Ecuador, Honduras, Messico, Perù, San Domingo, Uruguay, Venezuela, sospesero in tut­ to o in parte il pagamento degli interessi). Verso il 1890, la febbre dei prestiti a paesi esotici riprende: stati sudameri­ cani, colonie sudafricane, assorbono enormi quantità di ca­ pitale europeo. I prestiti alla Repubblica argentina, per esempio, raggiungono nel 1874 i io milioni di sterline, nel 1890 i 39,1. Anche qui, l’Inghilterra costruisce ferrovie col proprio ferro e col proprio carbone e si paga col proprio ca­ pitale. La rete ferroviaria argentina sale da 3123 km nel 1883 a 13 691 km nel 1893. Nello stesso tempo, l’esportazione inglese (in milioni di sterline) aumenta come segue: 1886

I89O

F erro

2 1 ,8

3 1 ,6

M a c c h in e

10,1

1 6 ,4

C arb o n e

9 ,8

19

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Per quanto riguarda in particolare l’Argentina, le espor­ tazioni inglesi salgono da 4,7 milioni di sterline nel 1885 a 10,7 milioni quattro anni piu tardi. Contemporaneamente, il capitale inglese si riversa, per il canale dei prestiti pubblici, in Australia. I prestiti alle co­ lonie di Victoria, Nuova Galles del Sud e Tasmania, rag­ giungono verso il 1890 un complesso di 112 milioni di ster­ line, di cui 81 investiti in costruzioni ferroviarie. La rete au­ straliana sale da 4900 miglia nel 1880 e 15 600 miglia nel 1895. Anche qui, l’Inghilterra fornisce a un tempo capitale e materie prime per la costruzione delle ferrovie: e perciò è travolta nelle crisi del 1890 in Argentina, Transvaal, Mes­ sico, Uruguay, e del 1893 in Australia. Nel ventennio 1890-19x0, un solo mutamento è interve­ nuto a questo proposito: accanto al capitale inglese, va sempre piu investendosi all’estero, soprattutto in prestiti statali, il capitale tedesco, francese, belga. La costruzione della ferrovia dell’Asia Minore avviene fra il 1830 e il 1890 col concorso di capitale inglese; poi è il capitale tedesco a impadronirsi dell’Asia Minore e a realizzare il grande piano della ferrovia dell’Anatolia e di Bagdad. L ’investimento di capitale tedesco in Turchia provocava a sua volta una cre­ scente esportazione di merci tedesche in questo paese. L ’esportazione tedesca in Turchia raggiunge infatti nel 1896 i 28 milioni di marchi e nel 1911 i 113 milioni; nella sola Turchia asiatica, i 12 milioni nel 1901, i 32 milioni nel 1911. Anche in questo caso, le merci tedesche importate sono pagate in gran parte con capitale tedesco, e i tedeschi si limitano ad «astenersi» — secondo l’espressione di Sismondi —dall’uso dei propri prodotti. Guardiamo un po’ piu a fondo la questione. Il plusvalore realizzato, che non può essere capitalizzato in Inghilterra o in Germania e rimane perciò inattivo, viene investito in ferrovie, opere idrauliche, miniere ecc. in Ar­ gentina, Australia, Colonia del Capo, Mesopotamia, ecc. Macchine, materie prime e simili vengono importate dal paese di origine e pagate con lo stesso capitale. Ma lo stesso avviene anche all’interno del paese a regime di produzione capitalistica: il capitale deve comprare gli elementi della sua

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produzione, incorporarsi in essi, prima di poter divenire at­ tivo. È vero che l’uso dei prodotti rimane in questo caso al paese, mentre nel primo è lasciato a cittadini di un paese estero. Ma scopo della produzione capitalistica non è l’uso, il consumo dei prodotti, è il plusvalore, l ’accumulazione. Il capitale ozioso non trovava possibilità di accumulazione in patria, mancandovi la richiesta di prodotti addizionali: ma all’estero, dove la produzione capitalistica non si è ancora sviluppata, ima nuova domanda si è determinata in strati non-capitalistici, o la si determina con la forza. Per il capi­ tale è decisivo proprio che l’«u so » dei prodotti sia ceduto ad altri, non interessando al fine dell’accumulazione il con­ sumo delle sue classi specifiche: capitalistica e lavoratrice. Naturalmente, l’«u so » dei prodotti deve essere realizzato, pagato, dai nuovi consumatori, i quali devono perciò avere i mezzi monetari relativi. Questi sono forniti, in parte, dal­ lo scambio di merci che contemporaneamente si origina. Al­ la costruzione di reti ferroviarie come allo sfruttamento di miniere si ricollega direttamente un attivo scambio di mer­ ci, che realizza a poco a poco il capitale anticipato nelle fer­ rovie o nelle miniere, insieme al plusvalore. Che il capitale affluente in tal modo all’estero si cerchi per proprio conto, come capitale azionario, un campo di lavoro, o trovi il suo nuovo impiego nell’industria o nei trasporti per l ’interme­ diario dello stato, come prestito estero; che nel primo caso le società per azioni a carattere speculativo crollino, o nel secondo lo stato debitore faccia bancarotta e, in questo o quel modo, i proprietari perdano in parte il loro capitale, tutto ciò non cambia nulla al fatto nel suo insieme: allo stesso modo accade anche al capitale singolo, nel paese di origine, di volatilizzarsi nelle crisi. L ’essenziale è che il ca­ pitale accumulato nel vecchio paese trovi nel nuovo una rin­ novata possibilità di produrre plusvalore e di realizzarlo, cioè di continuare l’accumulazione. I nuovi paesi abbraccia­ no estesi territori ad economia naturale che assumono cosi il carattere di un’economia mercantile semplice, o ad eco­ nomia mercantile semplice che si trasformano in senso capi­ talistico. Le costruzioni ferroviarie e lo sfruttamento delle miniere, specie delle miniere d’oro, caratteristici agli effetti

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dell’investimento del capitale di vecchi paesi capitalistici in nuovi, hanno in grado eminente la proprietà di promuove­ re in rapporti economici finora naturali un attivo e subita­ neo scambio di merci: entrambi segnano, nella storia eco­ nomica, le pietre miliari del processo di rapida dissoluzione di antiche formazioni economiche e di strati sociali precapi­ talistici, di crisi sociali, e di sviluppo di rapporti economico-sociali moderni, cioè della produzione mercantile sempli­ ce prima, della produzione capitalistica poi. Il ruolo dei prestiti esteri e dell’investimento del capita­ le in azioni ferroviarie e minerarie estere costituisce dun­ que la migliore illustrazione critica dello schema dell’ac­ cumulazione in Marx. In entrambi i casi, la riproduzione allargata del capitale è una capitalizzazione del plusvalore precedentemente realizzato (a meno che i prestiti o le azio­ ni estere non siano coperti da risparmi piccolo-borghesi o semiproletari). Il momento, le circostanze e la forma in cui è stato realizzato il capitale dei vecchi paesi affluito nei nuo­ vi non hanno nulla in comune con il suo attuale campo di accumulazione: il capitale inglese che affluì nella costruzio­ ne delle ferrovie argentine poteva essere stato oppio india­ no realizzato in Cina. Di piu: il capitale inglese che costrui­ sce ferrovie in Argentina è di provenienza inglese non sol­ tanto nella sua pura forma di valore, cioè come capitale-de­ naro, ma anche nella sua forma materiale: ferro, carbone, macchine ecc. vengono dall’Inghilterra, cioè anche la forma d ’uso del plusvalore nasce in Inghilterra fin dall’origine nella forma adatta all’accumulazione. La forza-lavoro, l’ef­ fettiva forma d ’uso del capitale variabile, è per lo piu stra­ niera: sono forze-lavoro indigene che il capitale dei vecchi paesi trasforma in nuovo oggetto di sfruttamento. Tutta­ via, per il rigore dell’indagine possiamo anche ammettere che le forze-lavoro siano della stessa origine del capitale. In realtà, la scoperta, per esempio, di nuove miniere d ’oro, provoca, soprattutto nei primi tempi, un’emigrazione in massa dai vecchi paesi capitalistici, e le nuove imprese im­ piegano in grande quantità forze-lavoro originarie di que­ sti. Possiamo dunque supporre che in un nuovo paese il ca­ pitale-denaro, i mezzi di produzione, le forze-lavoro siano

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tutti originari di un antico paese capitalistico, come l’In­ ghilterra. In Inghilterra erano allora presenti tutti i pre­ supposti materiali dell’accumulazione: plusvalore realizza­ to come capitale-denaro, pluslavoro in forma produttiva, ri­ serve di lavoratori. E tuttavia l’accumulazione vi era impos­ sibile, perché l’Inghilterra e i suoi tradizionali acquirenti non avevano bisogno di ferrovie, e non sentivano la neces­ sità di sviluppare ulteriormente le loro industrie. Solo l’ap­ parizione di un nuovo territorio con grandi estensioni a col­ tura non-capitalistica apre al capitale una prospettiva di consumo allargato e gli rende possibile l’accumulazione, la riproduzione su scala piu vasta. Chi sono, dunque, questi nuovi consumatori? Chi paga in ultima istanza i prestiti esteri e realizza il plusvalore del­ le imprese capitalistiche con essi fondate? La classica rispo­ sta a questa domanda è data dalla storia dei prestiti inter­ nazionali in Egitto. Tre serie di fatti strettamente connessi caratterizzano la storia interna dell’Egitto nella seconda metà del secolo xix: investimenti in grande stile di capitali, aumento vertigino­ so del debito pubblico, sfacelo dell’economia contadina. In Egitto esisteva fino a tempi a noi vicini il lavoro servile e, quanto ai rapporti di proprietà del suolo, bali e khedivè vi esercitavano la piu spregiudicata e incontrollata politica di violenza. Ma dovevano essere appunto questi rapporti so­ ciali ed economici primitivi a offrire un terreno straordina­ riamente fertile alle operazioni del capitale europeo. Dal punto di vista economico, non si trattava dapprima che di creare le condizioni dell’economia monetaria: e a questo pensò lo stato con l’impiego diretto della forza. Mohammed Ali, creatore del moderno Egitto, applicò a tal uopo, fin ver­ so il 1840, un metodo di una semplicità patriarcale: quello di far «comprare» dallo stato ai fellahin l’intero raccolto annuo, per vendere poi loro a prezzi maggiorati il minimo necessario per la loro esistenza e per le semine. Inoltre, im­ portò cotone dall’India, canna da zucchero dall’America, in­ daco e pepe, e prescrisse ufficialmente ai contadini la quan­ tità da coltivare di ciascuna di queste piante (il cotone e l’indaco vennero poi dichiarati monopolio del governo e

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perciò venduti solo a questo, che a sua volta li rivendeva). Con tali metodi fu introdotto in Egitto il commercio. Mo­ hammed Ali provvide però anche ad aumentare la produtti­ vità del lavoro: rimise in funzione vecchi canali, fece sca­ vare pozzi, iniziò, soprattutto, la grandiosa diga sul Nilo a Kaliub, che apri la serie delle grandi imprese capitalistiche in Egitto. Piu tardi, queste si estesero a quattro grandi set­ tori: l ’irrigazione, dove occupa il primo posto la diga di Kaliub, costruita fra il 1845 e il 1853, e che, oltre al lavoro servile non pagato, inghiotti 30 milioni di marchi - per poi dimostrarsi, in un primo tempo, inservibile le vie di co­ municazione, fra le quali l’opera piu importante e fatale per i destini dell’Egitto fu il canale di Suez; la coltivazione del cotone; la produzione dello zucchero. Con la costruzione del canale di Suez, l ’Egitto aveva già infilato la testa nel cap­ pio della finanza europea, dal quale non doveva mai piu li­ berarsi. Si mosse per primo il capitale francese, al quale se­ gui subito dopo il capitale britannico; e la lotta di concor­ renza fra i due gruppi s’intreccia nel groviglio delle vicende interne dell’Egitto per tutto il successivo ventennio. Le operazioni del capitale francese, cui si deve la costruzione sia della inservibile diga sul Nilo sia del canale di Suez, furono forse i piu caratteristici esempi di accumulazione del capi­ tale europeo a spese di rapporti economico-sociali primiti­ vi. Per il beneficio dell’apertura del canale, che doveva di­ stogliere dall’Egitto il commercio Europa-Asia e privare per­ ciò il primo di una sostanziale partecipazione ai suoi utili, il paese s’impegnò prima di tutto a fornire a titolo gratuito il lavoro servile di 20 mila contadini comandati all’anno, poi a rilevare il 40% del capitale azionario complessivo della Compagnia di Suez. Fu questa la base del gigantesco debito pubblico egiziano, che doveva aver per conseguenza ven­ tanni dopo l’occupazione militare da parte dell’Inghilterra. Le opere irrigue aprirono la via ad un’improvvisa trasfor­ mazione economica: i tradizionali sakien, cioè le macchine idrauliche azionate da buoi, di cui nel solo Delta ben 30 mi­ la erano in moto per sette mesi dell’anno, furono sostituiti in parte da enormi pompe a vapore, mentre moderni battel­ li provvedevano al traffico sul Nilo fra il Cairo e Assuan.

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Ma il piu profondo sconvolgimento dei rapporti economici egiziani fu provocato dalla coltivazione del cotone. Infatti, in seguito alla guerra di secessione americana e alla fame cotoniera inglese, che avevano fatto enormemente salire il prezzo della fibra, anche l’Egitto fu preso dalla febbre della coltivazione del cotone. Tutti si misero a piantar cotone, a cominciare dalla famiglia vicereale: furti di terre in grande stile, confische, «acquisti» forzati o semplici rapine ingros­ sarono rapidamente in misura enorme i possedimenti ter­ rieri del viceré. Numerosi villaggi si trasformarono di col­ po in proprietà privata regia senza che nessuno sapesse dar­ ne la giustificazione legale, e questo poderoso complesso di terre fu destinato al rapido impianto di piantagioni cotonie­ re. Ma ciò significava capovolgere l’intera tecnica della tra­ dizionale agricoltura egiziana. La costruzione di dighe per proteggere i campi di cotone dalle regolari piene del Nilo, un’abbondante e pianificata irrigazione artificiale del suolo, un’aratura profonda e continua, sconosciuta al fellah col suo aratro del tempo dei faraoni, infine un lavoro intensivo al tempo del raccolto, tutto ciò impose alle forze-lavoro egi­ ziane una tensione estrema. Ma queste forze-lavoro erano costituite dallo stesso contadiname servile di cui lo stato poteva legalmente disporre in misura illimitata. I fellahin, che già erano stati costretti a lavorare come servi alla co­ struzione della diga di Kaliub, furono perciò mobilitati alla costruzione di argini, allo scavo di canali, alla piantagione di cotone sulle proprietà vicereali. Il khedivè aveva ora bi­ sogno per i suoi poderi dei 20 mila schiavi che aveva messo a disposizione della Compagnia di Suez, e fu questa la pri­ ma scintilla del conflitto col capitale francese. L ’arbitrato di Napoleone III assegnò alla Compagnia un lauto inden­ nizzo, che il khedivè potè accettare tanto piu di buon ani­ mo, in quanto se ne sarebbe facilmente rivalso sugli stessi fellahin la cui forza-lavoro era stata all’origine del conflitto. Si passò poi alle opere irrigue, per le quali furono importa­ te dallTnghilterra e dalla Francia quantità enormi di mac­ chine a vapore, pompe centrifughe e locomobili; centinaia e centinaia di queste emigrarono dalla Gran Bretagna ad Alessandria, e di qui furono trasportate per battello, su bar­

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che e a dorso di cammello, in tutti i punti del paese. Infine, occorrevano aratri a vapore, tanto più che nel 1864 un’epi­ demia aveva decimato il bestiame. Anche queste macchine provenivano dall’Inghilterra: la ditta Fowler fu di colpo enormemente ampliata per soddisfare le particolari esigenze del khedivè a spese dell’Egitto '. Un terzo tipo di macchina di cui l’Egitto sentì improvvi­ so bisogno furono gli apparecchi per la sgranatura del co­ tone e le presse per il suo imballaggio. Impianti sorsero a decine nelle piccole città del Delta. Sagasig, Tanta, Samanud e altri centri cominciarono a fumare come città indu­ striali inglesi. Grandi patrimoni affluirono nelle banche di Alessandria e del Cairo. Il crak della speculazione cotoniera segui l’anno dopo, quando, per effetto della conclusione della pace negli Stati 1 «Fra il Cairo, Londra e Leeds - scrive il rappresentante della ditta Fowler, ingegner Eyth - un febbrile scambio di telegrammi ebbe inizio. Quando potete fornire 150 aratri a vapore? - Risposta: entro un anno. Ga­ rantiamo l’impegno di tutte le nostre forze. - Non basta. 150 aratri a vapore devono poter sbarcare entro la primavera ad Alessandria - . Risposta: impos­ sibile! - Infatti, nelle dimensioni di allora, la ditta Fowler poteva fornire al massimo 3 aratri a vapore la settimana. Da notare che un apparecchio di que­ sta specie costava 50 mila marchi, e che perciò si trattava di un’ordinazione di 7 milioni e mezzo. - Successivo telegramma di Ismail Pascià: quanto co­ sterebbe Fimmediato ampliamento della fabbrica? Il viceré sarebbe pronto ad anticipare il denaro necessario. Facile capire che a Leeds si batté il ferro fin che era caldo. Ma anche altre fabbriche in Inghilterra e in Francia ebbero ordine di fornire aratri a vapore. L ’arsenale di Alessandria, luogo di sbarco ed imbarco dei possedimenti vicereali, si riempi di caldaie, ruote, tamburi, cavi, ceste e casse di ogni genere, e gli alberghi di second’ordine del Cairo di meccanici da poco sfornati, cui si aggiunsero fabbri e falegnami, garzoni e giovani senza arte né parte: sugli aratri doveva sedere almeno un pioniere specializzato della civiltà. Tutto questo ben di Dio veniva poi spedito in massa dagli effendi nell’interno del paese solo per far posto, affinché la nave successiva potesse sbarcare il suo carico. Non si ha idea in che condizioni le merci arrivassero al luogo di destinazione, o meglio a tutt’altra destinazione da quella prevista. C’erano dieci caldaie sulle rive del Nilo, e a io miglia le macchine che dovevano azionarle; qui una montagnola di cavi, a distanza di venti ore gli argani. Qui un montatore inglese sedeva affamato e spaesato su una pila di casse francesi, là un montatore francese si dava disperato al vino. Effendi e Katib facevano la spola - invocando Allah - fra Siut e Alessandria e portavano liste di oggetti del cui nome non avevano la minima idea. Co­ munque, una parte di questi apparecchi fini per mettersi in moto. L ’aratro a vapore cominciò a fumare nell’Alto Egitto. Civilisation et progrès avevano fatto un nuovo passo avanti» (Lebendige Kräfte, sieben Vorträge aus dem Gebiete der Technik, Berlin 1908, p. 219).

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Uniti, il prezzo del cotone cadde in pochi giorni da 27 pen­ ce la libbra a 15, 12 e infine 6 pence. L ’anno successivo Ismail Pascià si lanciò in una nuova speculazione: la produ­ zione di zucchero da canna. Si trattava di far concorrenza agli stati meridionali dell’Unione americana, che avevano perduto i loro schiavi, col lavoro servile dei fellahin egizia­ ni. Per la seconda volta l’agricoltura egiziana fu rivoluzio­ nata, e capitalisti inglesi e francesi vi trovarono un nuovo campo di rapidissima accumulazione. Nel 1868 e 1869 fu­ rono ordinati 18 giganteschi zuccherifici della capacità di 200 mila chili al giorno ciascuno, cioè di una capacità qua­ drupla rispetto agli impianti fin allora conosciuti. Sei di questi furono ordinati in Inghilterra, dodici in Francia, ma, in seguito alla guerra franco-tedesca, la maggior parte de­ gli ordini fini in Inghilterra. Ogni io chilometri lungo il Ni­ lo doveva sorgerne uno come punto centrale di un distretto di io chilometri quadrati che doveva fornirgli la canna (il fabbisogno giornaliero delle fabbriche a pieno rendimento era di 2 mila tonnellate ciascuna). Mentre cento vecchi ara­ tri a vapore del «periodo del cotone» giacevano qua e là a pezzi, cento nuovi ne erano ordinati per la coltivazione del­ la canna da zucchero. Migliaia e migliaia di fellahin furono trasportati nelle piantagioni, mentre altre migliaia erano mobilitati per la costruzione del canale Ibrahimiya. Ben presto sorse il problema dei trasporti: per trasferire le mas­ se di canne alle fabbriche si dovette provvedere a tamburo battente ad una rete di ferrovie, di binari trasportabili, di teleferiche, di locomotive. Anche queste poderose ordina­ zioni furono monopolizzate dal capitale inglese. Nel 1872 fu aperta la prima fabbrica gigante. Ai trasporti provvede­ vano, provvisoriamente, quattromila cammelli. Ma la for­ nitura della quantità necessaria di canna da zucchero si di­ mostrò impossibile. La maestranza era incapace; non si po­ teva pretendere di trasformare di colpo, a staffilate, in mo­ derni lavoratori industriali i servi della gleba. L ’impresa fal­ li, molte macchine ordinate non furono mai poste in eser­ cizio. Con la speculazione dello zucchero si chiude nel 1873 il periodo delle grandi imprese capitalistiche dell’Egitto.

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Chi forni i capitali per queste imprese? I prestiti esteri. Fu Said Pascià, un anno prima della morte (1863), ad ac­ cettare il primo prestito, che ammontava nominalmente a 66 milioni di marchi ma in realtà, dedotte le provvigioni ecc., a 30 milioni. Lo lasciò in eredità, insieme col trattato di Suez che accollava all’Egitto un onere di 340 milioni di marchi, a Ismail. Nel 1864, Ismail contrasse il suo primo prestito di nominali 114 milioni al 7 % , al netto 97 milioni all’8,23% . Questa somma fu consumata in un anno, 67 mi­ lioni dalla Compagnia di Suez a titolo di indennizzo e il re­ sto nei gorghi dell’episodio cotoniero. Nel 1863 la Banca Anglo-Egiziana provvide al primo dei cosiddetti prestitiDaira, a cui le proprietà private del khedivè servirono di ga­ ranzia: 68 milioni nominali al 9% , 30 milioni reali al 12. Seguono nel 1866 un prestito di 60 milioni nominali (32 milioni al netto) forniti da Frühling e Göschen, nel 1867 un altro prestito della Banca Ottomana di 40 milioni nomi­ nali (34 netti). Il debito fluttuante oscillava allora sui 600 milioni: per consolidarne una parte fu lanciato nel 1868 un grosso prestito di 238 milioni nominali al 7% , al netto 142 milioni al 13,3% , intermediaria la Banca Oppenheim. Co­ si, la fastosa cerimonia dell’apertura del canale di Suez po­ teva essere celebrata alla presenza del fior fiore della finan­ za e dell’aristocrazia europea e con un pazzesco sciupio di ricchezze, mentre il sultano turco era tacitato con 20 mi­ lioni. Nel 1870 la ditta Bischoffsheim e Goldschmidt for­ niva un nuovo prestito per l’ammontare nominale di 142 milioni al 7 % , pari a 100 milioni reali al 13% , che servi a coprire le spese dell’episodio zuccheriero. Nel 1872 e 1873 si hanno due prestiti Oppenheim, uno piccolo di 80 milioni al 14% e uno grande di 640 milioni nominali all’8% , ri­ dotti a 220 milioni utilizzati per metà alla riduzione del de­ bito fluttuante. Nel 1874 si fa il tentativo di lancio di un nuovo prestito su garanzia terriera (1000 milioni di marchi contro rendita annua del 9 % ) che frutta solo 68 milioni. I titoli egiziani erano quotati allora al 34% del loro valore nominale. Dal­ la morte di Said Pascià il debito pubblico complessivo era

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salito in 13 anni da 3 293 000 sterline a 94 n o 000 Si era alla vigilia del crollo. A prima vista, queste operazioni sembrano il colmo della follia. Un prestito segue l’altro, gli interessi di vecchi debiti sono coperti da nuovi prestiti, gigantesche ordinazioni al­ l’industria inglese e francese sono pagate con capitali presi a prestito a inglesi e francesi. In realtà, pur fra le generali scrollate di capo e i singhioz­ zi di tutta Europa sul malgoverno di Ismail, il capitale eu­ ropeo fece in Egitto favolosi, incredibili affari, una ripeti­ zione moderna delle bibliche vacche grasse nel corso stori­ co mondiale del capitalismo. Anzitutto, ogni prestito rappresentava una speculazione, in cui da un quinto a un terzo e piu della somma nominal­ mente prestata rimaneva appiccicata alle mani dei banchie­ ri europei. Gli interessi usurari dovevano comunque, bene o male, esser pagati: da dove veniva il denaro a tale scopo? La loro sorgente doveva trovarsi nello stesso Egitto, e que­ sta sorgente erano i fellahin, i contadini egiziani. Furono questi, in ultima analisi, a fornire gli elementi essenziali delle grandiose imprese capitalistiche: la terra in primo luo­ go, giacché i possedimenti privati del khedivè, in brevissi­ mo tempo gonfiatisi a dismisura e costituenti la base dei pia­ ni di irrigazione e delle speculazioni sul cotone e sullo zuc­ chero, erano stati costituiti mediante la rapina e la violenza con le terre di infiniti villaggi contadini; la forza-lavoro in secondo luogo, che i contadini offrirono gratis e quindi a spese dell’economia agricola, e che fu la base dei miracoli tecnici creati da ingegneri europei e da macchine europee nelle opere irrigue, nei mezzi di comunicazione, nell’agri­ coltura e nell’industria dell’Egitto. Nella costruzione della diga sul Nilo a Kaliub come del canale di Suez, delle ferro­ vie come degli argini, nelle piantagioni di cotone come ne­ gli zuccherifici, lavorarono legioni e legioni di servi della gleba, che secondo il bisogno erano spostati dall’uno all’al­ tro lavoro e sottoposti al piu feroce sfruttamento. E se, da una parte, al loro impiego ai fini del capitalismo moderno1 1 earl 16

of cromer,

Das heutige Ägypten, trad. ted. 1908, vol. I, p. i i .

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dovevano opporsi limiti tecnici insormontabili, dall’altra questo svantaggio era però largamente compensato dall’il­ limitato controllo sulle masse, dalla durata dello sfrutta­ mento, dalle condizioni di vita e di lavoro della mano d ’o­ pera, di cui il capitale disponeva. Ma l’economia contadina forni non soltanto terra e for­ za-lavoro; forni anche denaro. Servi a questo scopo il siste­ ma fiscale che, sotto la pressione dell’economia capitalisti­ ca, applicò le manette ai fellahin. L ’imposta fondiaria sulle proprietà contadine sali fino a raggiungere verso il 1870 l’e­ quivalente di 55 marchi per ettaro, mentre la grande pro­ prietà terriera non ne pagava che 18 e i possedimenti priva­ ti della famiglia regnante ne erano esenti. Vi si aggiunsero contributi straordinari, per esempio ai fini della manuten­ zione delle opere irrigue e perciò a quasi esclusivo vantag­ gio delle proprietà vicereali: l ’equivalente di 2,50 marchi per ettaro. Per ogni pianta di dattero il fellah doveva pagare l’equivalente di 1,33 marchi, per ogni capanna di fango da lui abitata l’equivalente di 37 pfennig. Aggiunta la capitazio­ ne, i fellahin sborsarono sotto Mohammed Ali 50 milioni, sotto Said 100 milioni, sotto Ismail 163 milioni di marchi. Quanto piu aumentava l’indebitamento verso il capitale europeo, tanto piu stretti si facevano i giri di vite sull’eco­ nomia contadina1. Nel 1869 le imposte furono aumentate del 10% e prelevate in anticipo sul 1870: nel 1870, l’im­ posta fondiaria fu elevata dell’equivalente di 8 marchi per ettaro. Nell’Alto Egitto i villaggi cominciarono a spopolar­ si, le capanne furono demolite, i campi furono lasciati incol­ ti, per sfuggire alle imposte. Nel 1876 la tassa sui datteri fu aumentata di 50 pfennig. Interi villaggi si diedero ad ab­ battere le piante e fu necessario l’intervento della truppa per metter fine alla loro distruzione. Nel 1879 si calcola che io mila fellahin a monte di Siut morissero di fame avendo ammazzato il bestiame per non pagare l’imposta su di esso prelevata2. 1 Del resto, il denaro estorto ai fellahin riafflui anch’esso, via Turchia, al capitale europeo. I prestiti turchi del 1854, 1855, 1871, 1877, 1886, ave­ vano infatti per garanzia il gettito delle imposte continuamente maggiorate che l’Egitto pagava direttamente alla Banca d’Inghilterra. 2 «It is stated by residents in the Delta - informa “ The Times” da

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Al fellah era stata succhiata l’ultima goccia di sangue. Lo stato egiziano aveva esaurito la sua funzione di sanguisuga al servizio del capitale europeo; era perciò divenuto super­ fluo. Il khedivè Ismail fu licenziato: il capitale poteva pro­ cedere alla liquidazione. Nel 1875, l’Inghilterra aveva acquistato 172 mila azioni del canale di Suez, per le quali l’Egitto deve ancora pagarle 394 000 sterline egiziane d ’interessi. A questo punto, en­ trano in campo le commissioni inglesi per il «risanamento» delle finanze dell’Egitto. È significativo che, per nulla spa­ ventato delle condizioni disastrose del paese, il capitale eu­ ropeo si offra di «salvarlo» offrendogli nuovi giganteschi prestiti. A consolidamento di tutti i debiti, Cowe e Stokes proclamano la necessità di un nuovo prestito di 1320 milio­ ni di marchi al 7 % , Rivers Wilson di un prestito di 2060 milioni. Il Crédit Foncier acquista milioni di tratte, e cerca di consolidare l’intero debito con un prestito di 1820 mi­ lioni di marchi, tentativo che tuttavia fallisce. Ma quanto piu disperata e insolubile diventa la situazione finanziaria, tanto piu si avvicina il momento in cui l’intero paese con le sue forze produttive dovrà cadere nelle grinfie del capitale europeo. Nell’ottobre 1878, i rappresentanti dei creditori europei sbarcano ad Alessandria. Si istituisce un controllo a due (inglese e francese) delle finanze statali, ed è in suo nome che si levano nuovi balzelli e i contadini sono spre­ muti e fustigati, finché gli interessi, il cui servizio era stato sospeso nel 1876, ricominciano ad essere corrisposti1. A questo punto i diritti e le pretese del capitale europeo di­ ventano il centro di gravità della vita economica, la preocAlessandria, 31 marzo 1879 - that the third quarter of the year’s taxation is now collected, and the old methods of collection applied. This sounds stran­ gely by the side of the news that people are dying by the roadside, that great tracts of country are uncultivated, because of the fiscal burdens, and that the farmers have sold their cattle, the women their finery, and that the usures are filling the mortgage offices with their bonds and the courts with their suits of foreclosure» (cit. in T. rothstein, Egypt’s Ruin, 1910, pp. 69-70). 1 «This produce - scriveva il corrispondente del “ Times” da Alessan­ dria - consists wholly of taxes paid by the peasants in kind, and when one thinks of the poverty-stricken, over-driven, under-fed fellaheen in their mi­ serable hovels, working late and early to fill the pockets of the creditors, the punctual payment of the coupon ceases to be wholly a subject of gratifica­ tion» (Egypt’s Ruin, p. 49).

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cupazione dominante del sistema finanziario egiziano. Nel 1878 viene creato, oltre ad una nuova commissione, un mi­ nistero semieuropeo: nel 1879 le finanze egiziane passano sotto il controllo permanente del capitale europeo nella per­ sona della Commission de la Dette Publique Egyptienne con sede al Cairo. Nel 1878 le proprietà della famiglia vice­ reale (431 mila acri) vengono trasformate in demanio pub­ blico e date in garanzia a creditori europei: la stessa fine fanno i fondi Daira, proprietà personale del khedivè, situa­ ti perlopiù nell’Alto Egitto e abbracciami 483 131 acri, che poi sono venduti ad un consorzio, mentre una gran parte delle altre terre cade nelle grinfie di società capitalistiche, soprattutto della Compagnia del canale di Suez, e le terre delle moschee e delle scuole vengono confiscate dagli ingle­ si a compenso delle spese di occupazione. Una rivolta del­ l’esercito egiziano, ridotto alla fame dal controllo finanzia­ rio europeo mentre i funzionari europei incassano favolosi stipendi, e una rivolta provocata ad arte delle masse stre­ mate di Alessandria offrono il tanto atteso pretesto a un colpo decisivo. Nel 1882 truppe inglesi sbarcano in Egitto, per non lasciarlo più e suggellare con la sottomissione del paese la serie di grandiose imprese capitalistiche negli ulti­ mi vent’anni e la liquidazione dell’economia contadina ad opera del capitale europeo Appare cosi evidente che la transazione, a prima vista as­ surda, fra capitale finanziario europeo e capitale industriale europeo, in forza della quale le ordinazioni egiziane erano pagate col capitale prestato, e gli interessi di un prestito co-1 1 Eyth, eminente rappresentante della civiltà capitalistica nei paesi pri­ mitivi, conclude magistralmente il suo quadro dell’Egitto, dal quale abbia­ mo ricavato i dati piu importanti, con la seguente professione di fede impe­ rialistica: « L ’insegnamento di questo passato è per noi importantissimo an­ che per l’avvenire: l ’Europa deve, e saprà, anche a costo di lotte di ogni spe­ cie nelle quali sarà difficile distinguere il giusto dall’ingiusto e il diritto sto­ rico e politico significherà spesso l’infelicità di milioni di creature umane, l’ingiustizia politica la loro salvezza, l’Europa deve mettere saldamente pie­ de nei paesi che non sono piu in grado di vivere per propria energia la vita del nostro tempo; e, come dovunque nel mondo, il deciso intervento euro­ peo metterà fine al disordine anche sulle rive del Nilo» (Egypt’s Ruin, p. 247). Come l’Europa concepisse « l’ordine» sulle rive del Nilo lo dimostra largamente il già citato Rothstein.

I PRESTITI INTERNAZIONALI

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perti dal capitale di nuovi prestiti, si fondava in realtà su un rapporto perfettamente razionale e « sano » dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica. Questo rapporto si traduce, spogliato di tutti i suoi fronzoli, nel fatto elemen­ tare che l’economia contadina egiziana fu divorata in misu­ ra imponente dal capitale europeo: enormi estensioni di terra, innumerevoli forze-lavoro e una massa di prodotti del lavoro ceduti allo stato in pagamento delle imposte, furono trasformate, in definitiva, in capitale europeo, e accumula­ te. È chiaro che questa transazione, che ha condensato in due o tre decenni il corso normale di un’evoluzione storica secolare, fu resa possibile dalla frusta di pelle di ippopota­ mo, e fu proprio la primitività dei rapporti sociali a offrire all’accumulazione del capitale un incomparabile terreno di manovra. Di fronte al favoloso dilatarsi del capitale, da una parte, appare dall’altra come risultato ultimo, accanto al­ la rovina dell’economia contadina, la nascita del commer­ cio e la creazione delle sue premesse nella tensione delle forze produttive del paese. La terra coltivata e irrigata creb­ be in Egitto, sotto Ismail, da 2 a 2,7 milioni di ettari, la rete dei canali da 73 a 87 mila chilometri, la rete ferrovia­ ria da 410 a 2020 chilometri: a Suez e Alessandria sorsero docks, ad Alessandria giganteschi impianti portuali; un ser­ vizio di navi a vapore cominciò a servire il Mar Rosso per il trasporto dei pellegrini alla Mecca, e le coste siriane e anatoliche. L ’esportazione dall’Egitto, che nel 1861 ammon­ tava a 89 milioni di marchi, balza nel 1864 a 288 milioni; l’importazione sale dai 24 milioni del tempo di Said Pascià ai 100-110 milioni sotto Ismail. Il commercio, ripresosi, do­ po l’apertura del canale di Suez, solo nell’ottavo decennio del secolo, segnava nel 1890, all’importazione 163 milioni di marchi, all’esportazione 249 milioni, mentre nel 1900 le cifre passano rispettivamente a 288 e 355 milioni, e nel 1911 a 337 e 593 milioni. In questo impetuoso sviluppo economico realizzato con l’aiuto del capitale europeo, l’Egit­ to è divenuto proprietà di quest’ultimo. Come in Cina e piu di recente in Marocco, in Egitto è cosi apparso in piena luce come, dietro i prestiti internazionali, la costruzione delle ferrovie, le irrigazioni e simili opere civili, stia in agguato,

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lunga mano dell’accumulazione del capitale, il militarismo. Mentre gli stati orientali compiono con ansia febbrile il loro passaggio dall’economia naturale all’economia mercantile semplice e da questa alla capitalistica, il capitale internazio­ nale li divora, perché, senza venderglisi, essi non possono portare a termine la propria rivoluzione interna. Un altro esempio recente di questo fenomeno è offerto dalle iniziative del capitale tedesco nella Turchia asiatica. Già precedentemente il capitale europeo, specialmente in­ glese, aveva cercato di impadronirsi di questo territorio, po­ sto sull’antichissima via del commercio mondiale fra Euro­ pa e Asia ‘. Fra il 1850 e il 1870, il capitale inglese costruisce le fer­ rovie Smirne-Aidin-Diner e Smirne-Qassaba-Alashehir, e ottiene la concessione per il proseguimento della linea fino a Afiunqarahisàr, e l’appalto del primo tratto della ferro­ via anatolica Haidar Pascià - Izmid. Parallelamente, il capi­ tale francese si assicura una parte della costruzione. Nel 1888 entra in campo il capitale tedesco: mediante accordi col gruppo capitalistico francese rappresentato dalla Banca Ottomana si addiviene a una fusione internazionale d ’inte­ ressi, per cui il gruppo finanziario tedesco ottiene di parte­ cipare alla grande impresa della ferrovia anatolica e di Bag­ dad nella misura del 60% , il capitale internazionale nella misura del 40 \ Il 4 marzo 1889 sorge la Società della Fer­ rovia Anatolica: ufficialmente società turca, essa rileva la12 1 II governo anglo-indiano incaricava già intorno al 1830 il colonnello Chesney di studiare la navigabilità dell’Eufrate ai fini della realizzazione di un più breve collegamento fra il Mediterraneo e il Golfo Persico e l ’India. Dopo una ricognizione preliminare del terreno nell’inverno del 1831, gli in­ glesi organizzarono a questo scopo una regolare spedizione nel 1835-37; Pa­ rallelamente, ufficiali e funzionari inglesi esploravano larghi tratti della Me­ sopotamia orientale. I lavori si trascinarono fino al 1866 senza raggiungere un risultato pratico per il governo britannico. L ’idea di creare una via di co­ municazione fra Mediterraneo e India, via Golfo Persico, fu poi ripresa in altra forma dallTnghilterra (progetto di ferrovia del Tigri). Nel 1879, Ca­ meron compi per incarico del governo inglese un viaggio attraverso la Meso­ potamia per studiare il tracciato della progettata ferrovia (max Freiherr von Oppenheim, Vom Mittelmeer zum Persischen Golf durch den Hauran, die Syrische Wüste und Mesopotamien, vol. II, pp. 5 e 36). 2 s. schneider, Die deutsche bagdadbahn, 1900, p. 3.

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linea, in esercizio già dal 1870, da Haidar Pascià a Izmid e la concessione del tratto Izmid-Eskishehir-Angora (845 km): le sta dietro la Deutsche Bank. La Società è pure au­ torizzata a costruire la ferrovia Haidar Pascià - Skutari e il ramo secondario fino a Brussa; la concessione del 1893 le attribuisce la costruzione di una rete complementare Eskishehir-Qonia (circa 443 km) e, infine, della linea AngoraQaisariye (425 km). Il governo turco offre alla Società la se­ guente garanzia statale', utile lordo per anno e chilometro, io 300 franchi per il tratto Haidar Pascià - Izmid; 13 000 franchi per il tratto Izmid-Angora. A tal fine, il governo concede all’amministrazione della Dette Publique Ottoma­ ne la riscossione diretta delle entrate provenienti dall’ap­ palto delle decime nei sangiaccati di Izmid, Ertogrul, Kutahia e Angora, dalle quali l’amministrazione preleverà per versarla alla compagnia ferroviaria la somma richiesta a co­ pertura dell’utile lordo garantito dallo stato. Per il tratto Angora-Qaisariye, il governo garantisce un utile lordo in oro di 773 lire turche, pari a 17 800 franchi-oro per anno e chilometro, e, per il tratto Eskishehir-Qonia, 604 lire tur­ che pari a 13 741 franchi; nell’ultimo caso, solo fino all’am­ montare massimo del sussidio di 219 lire turche, pari a 4 9 9 5 Per anno e chilometro: qualora l’utile lordo superi il limite della garanzia, il governo si riserva il 23% dell’ecce­ denza. Le decime dei sangiaccati di Trebisonda e di Giimiish Khane vengono pagate direttamente all’Administra­ tion de la Dette Publique Ottomane che a sua volta versa alla Società i sussidi richiesti a copertura della garanzia. Tutte le decime destinate a tale scopo formano un corpo unico. Nel 1898, la garanzia chilometrica per il tratto Eski­ shehir-Qonia è elevata d a 2 i 9 a 2 9 6 lire turche. Nel 1899, la Società ottiene la concessione per la costru­ zione e l’esercizio di un porto a Haidar Pascià con silos gra­ nari e magazzini di merci di ogni specie, oltre al diritto di eseguire le operazioni di carico e scarico con personale pro­ prio; infine, in campo doganale, il diritto all’apertura di una specie di porto franco. Nel 1901, le viene concessa la co­ struzione della linea Qonia - Bagdad - Bafra - Golfo Persico (2400 km), allacciata mediante il tronco Qonia-Eregli-Bur-

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L E CONDIZIONI ST O R IC H E D E L L ’A C C U M U LA Z IO N E

gurlu alla ferrovia anatolica. A tal fine la vecchia Società fonda una nuova società per azioni, che cede la costruzione della linea fino a Burgurlu a una nuova ditta sorta con sede a Francoforte sul Meno. Dal 1893 al 1910, il governo turco ha cosi versato in sus­ sidi un totale di circa 90,8 milioni di franchi, comprendenti 48,7 milioni di franchi per il tronco Haidar Pascià - Angora e 1,8 milioni di lire turche per il tronco Eskishehir-Qonia Infine, mediante concessione del 1907, la Società si fa asse­ gnare i lavori di prosciugamento del lago di Karaviran e di irrigazione della pianura di Qonia, da completarsi per con­ to del governo nello spazio di sei anni. Questa volta la So­ cietà presta al governo i capitali necessari fino a concorren­ za di 19,5 milioni di franchi, con interesse del 3% e rim­ borso entro 36 anni. A tal fine il governo impegna: 1) 23 mila lire turche all’anno sulle eccedenze delle decime desti­ nate al servizio delle garanzie chilometriche e di prestiti di­ versi, e sottoposte al controllo dell’Administration de la Dette Publique Ottomane; 2) la differenza in piu fra il get­ tito medio delle decime ottenuto nei territori da irrigare nei 3 anni precedenti alla concessione e il gettito delle terre ir­ rigate; 3) l’utile netto dell’esercizio degli impianti di irri­ gazione; 4) il ricavato della vendita dei terreni prosciugati o irrigati. Per l’esecuzione degli impianti, la Società fonda una compagnia «per l ’irrigazione della pianura di Qonia», con sede a Francoforte e capitale di 133 milioni di franchi. Nel 1908 la Società ottiene una concessione per il pro­ lungamento della ferrovia di Qonia fino a Bagdad e al Gol­ fo Persico, sempre con garanzia chilometrica. Il prestito al 4% per la ferrovia di Bagdad, emesso nelle sue tre serie (34, 108, 119 milioni di franchi) a pagamento del sussidio per chilometro, è garantito mediante appalto delle decime dei vilayet di Aidin, Bagdad, Mossul, Diarberk, Urfa e Aleppo, e dell’imposta sui montoni dei vilayet di Qonia, Adana ecc.12. 1 Saling, Börsenjahrbuch 1911-12, p. 2211. 2 Ibid., pp. 360-61. Sul complesso delle somme che, per la costruzione delle ferrovie, il governo turco dovette versare al capitale internazionale,

I

PRESTITI INTERNAZIONALI

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La base dell’accumulazione appare qui in piena luce. Il capitale tedesco costruisce nella Turchia asiatica ferrovie, porti, opere irrigue, estorcendo dalle popolazioni indigene che impiega come forze-lavoro un nuovo plusvalore. Ma questo plusvalore, insieme coi mezzi di produzione impie­ gati di provenienza tedesca (materiale ferroviario, macchi­ ne ecc.), deve essere realizzato. Chi contribuisce a realizzar­ lo? In parte il commercio suscitato dalle stesse ferrovie, dai porti ecc., al quale la struttura economica naturale dell’A­ sia Minore apre un vasto campo di sviluppo. In parte, quan­ do gli scambi di merci non crescono con la rapidità voluta l’ingegner Pressel, che prese parte alle operazioni tecniche e finanziarie nella Turchia asiatica come aiuto del barone v. Hirsch, offre i seguenti dati: Garanzia Lunghezza in km pagata in franchi Tre linee della Turchia europea Rete della Turchia asiatica costruita fino al 1900 Commissioni ed altri versamenti alla Dette Publique in conto garanzia per km

1888,8

33

2513,2

33 s u 538

T otale

96 262 099

099 352

9 351 209

Tutto questo, si noti bene, fino alla fine del 1899, data a partire dalla quale la garanzia chilometrica è, in parte, per la prima volta pagata. Già al­ lora, non meno di 28 sangiaccati su 74 della Turchia asiatica avevano impe­ gnato per la garanzia le loro decime. Con tutto ciò, dal 1856 al 1900 furono costruiti in tutto, nella stessa Turchia asiatica, soli 2 ^ 3 km (w. V. pressel, Les chemins de fer en Turquie d'Asie, Zürich 1900, p. 39). Quanto alle manipolazioni compiute in materia ferroviaria a spese della Turchia, Pressel ne dà la seguente prova. La Società anatolica avrebbe pro­ messo, nella convenzione del 1893, di portare la ferrovia, per Angora, fino a Bagdad, e successivamente avrebbe dichiarato irrealizzabile il suo stesso pia­ no, per abbandonare al proprio destino questo tronco a garanzia chilometrica e iniziare un nuovo tracciato via Qonia. «Nel momento in cui le società riu­ sciranno ad assicurarsi la linea Smirne-Aidin-Diner, le vedrete chiedere il suo prolungamento fino alla linea di Qonia. Compiuto questo tronco sussi­ diario, le società metteranno in moto cielo e terra per impadronirsi del traf­ fico e assumere questa nuova linea che non ha garanzia chilometrica e, cosa ben più importante, non deve in nessun caso dividere col governo i suoi utili, mentre le altre linee devono, a partire da un certo livello dell’utile lordo, cedere al governo una parte dell’eccedenza. Risultato: il governo non ricaverà nulla dalla linea di Aidin e le società ne incasseranno milioni. Il governo pagherà per la linea di Qassaba e Angora pressoché l ’intero am­ montare della garanzia chilometrica, né potrà mai sperare di ottenere il 25% assicuratogli per contratto dell’eccedenza oltre i 13 mila franchi di utile lor­ do» (ibid., p. 7).

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dalle esigenze di realizzazione del capitale, la macchina del­ lo stato provvede con la forza a trasformare in denaro le en­ trate in natura della popolazione e ad impiegarle sotto que­ sta forma alla realizzazione del capitale e del plusvalore: è questo il senso della «garanzia chilometrica» dell’utile lor­ do nel caso di imprese indipendenti del capitale straniero, e delle garanzie su pegni nel caso di prestiti. Le cosiddette «decime» usate in entrambi i casi e con infinite variazioni a copertura della garanzia statale, sono imposte in natura pagate dai contadini turchi e via via elevate fino al 12 e i2 ,j)% . Il contadino dei vilayet asiatici deve pagare le «de­ cime», perché, se non le pagasse, lo stato gliele estorcereb­ be con l’aiuto dei gendarmi e di funzionari centrali e peri­ ferici. Le «decime», che rappresentano in questo caso una manifestazione tradizionale del dispotismo asiatico fonda­ to sull’«economia naturale», vengono estorte dal governo turco non direttamente, ma attraverso appaltatori sul tipo degli esattori d ’imposta dell 'ancien régime, ai quali lo sta­ to vende il gettito prevedibile, delle imposte mediante asta pubblica per ogni vilayet (provincia). Acquistate da un sin­ golo speculatore o da un consorzio, le decime di ogni sangiaccato (distretto) sono vendute ad altri speculatori i qua­ li ne rivendono la loro quota parte ad una serie di agenti mi­ nori. E poiché ognuno di questi intermediari deve coprir le spese e realizzare l ’utile più alto possibile, la decima assu­ me le proporzioni di una valanga man mano che si avvicina al contadino. Se si è sbagliato nei suoi calcoli, l’appaltatore cerca di rifarsi sulle spalle del contadino: questi, quasi sem­ pre indebitato, attende con ansia il momento di poter ven­ dere il suo raccolto; ma se ha già tagliato il grano, deve at­ tendere settimane e settimane la trebbiatura, finché all’ap­ paltatore delle decime piaccia di prendersene la parte che gli spetta. L ’appaltatore, che di solito è un mercante di gra­ no, sfrutta questa situazione per costringerlo a vendergli a basso prezzo il raccolto e, contro la rivolta dei malcontenti, sa di poter ricorrere all’aiuto dei funzionari e soprattutto del m uktar', il sovrintendente al villaggio. 1 Charles Morawitz, Die Türkei im Spiegel ihrer Finanzen, 1903, pa­ gina 84.

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Al consiglio internazionale di amministrazione della Det­ te Publique Ottomane (che amministra direttamente, fra l’altro, le imposte sul sale, i tabacchi, gli spiriti, le decime sulla seta e le tasse sulla pesca) le decime, come garanzia chilometrica o come assicurazione sul prestito, vengono da­ te in pegno con la clausola che il Conseil parteciperà alla sti­ pulazione dei contratti di appalto e che i proventi delle de­ cime saranno consegnati direttamente dall’appaltatore alle casse e agli uffici del Conseil in ogni vilayet. Se poi è impos­ sibile trovare un appaltatore, le decime vengono immagaz­ zinate in natura dal governo turco, in depositi dei quali il consiglio ha la chiave e insieme il diritto di venderne il con­ tenuto. Lo scambio economico materiale fra i contadini dell’A­ sia Minore, della Siria e della Mesopotamia, e il capitale te­ desco, si effettua dunque nel modo seguente. Il grano na­ sce nelle pianure dei vilayet di Qonia, Bagdad, Basra ecc. come prodotto d ’uso dell’economia contadina primitiva, ed emigra nelle mani degli appaltatori d ’imposta. È solo qui che il grano diventa merce e, come merce, denaro: e il de­ naro passa nelle mani dello stato. Questo denaro, che non è se non metamorfosi del grano contadino prodotto all’o­ rigine non come merce, serve ora, in parte, a pagare co­ me garanzia statale la costruzione e l’esercizio delle ferro­ vie, cioè a realizzare il valore dei mezzi di produzione in es­ si consumati e il plusvalore estorto, nella costruzione come nell’esercizio delle ferrovie medesime, ai contadini e prole­ tari asiatici, e in parte, poiché nella costruzione delle ferro­ vie sono impiegati mezzi di produzione prodotti in Germa­ nia, il grano dei contadini asiatici trasformato in denaro serve anche a realizzare il plusvalore estorto ai proletari te­ deschi nella loro produzione. In questa sua funzione il de­ naro passa dalle mani dello stato turco nelle casse della Deutsche Bank, per esservi accumulato come plusvalore ca­ pitalistico, in forma di utili di fondazione, tantièmes, divi­ dendi, interessi, nelle tasche dei signori Gwinner o Sie­ mens, dei loro collaboratori, degli azionisti e clienti della Deutsche Bank, e dell’intrico delle sue società affiliate. Se, come è previsto nelle concessioni, l ’appaltatore delle impo­

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

ste manca, la serie complicata delle metamorfosi si ricondu­ ce alla sua forma piu semplice e chiara: il grano dei conta­ dini emigra direttamente nelle mani dell’Administration de la Dette Ottomane, cioè della rappresentanza del capitale europeo, e vi diviene, già nella sua forma naturale, utile del capitale tedesco e straniero in genere prima ancora di es­ sersi spogliato della sua specifica forma d ’uso asiatico-contadina; realizza il plusvalore capitalistico prima di esser divenuto merce e di aver realizzato il proprio valore. Lo scambio materiale si compie qui nella sua forma esplicita e senza veli fra capitale europeo e contadiname asiatico, men­ tre lo stato turco è ridotto al suo autentico e brutale ruolo di apparato politico per lo sfruttamento intensivo dei con­ tadini a maggior gloria del capitale, tipica funzione di tutti gli stati orientali nel periodo dell’imperialismo capitalistico. La transazione, che apparentemente sembrava un’assur­ da tautologia, un «pagar merci tedesche con capitale tede­ sco in A sia», in cui i bravi tedeschi cedono agli scaltri tur­ chi solo l’«u so » delle grandi opere civili, è in fondo uno scambio fra il capitale tedesco e le classi contadine asiati­ che, uno scambio eseguito coi mezzi di coercizione dello sta­ to. Risultato della transazione è, da una parte, la crescente accumulazione di capitale e una sempre più vasta «sfera d ’interessi» come trampolino all’ulteriore espansione poli­ tica ed economica del capitale tedesco in Turchia; dall’al­ tra, ferrovie e traffico sulla base della rapida decomposizio­ ne, della rovina e del dissanguamento del contadiname asia­ tico ad opera dello stato turco, e della crescente dipenden­ za finanziaria e politica di questo dal capitale europeo \ 1 1 «Del resto, in questo paese tutto è difficile e complicato. Il governo ventila il monopolio delle cartine per sigarette o delle carte da gioco? Ecco che Francia e Austria-Ungheria mettono il veto nell’interesse del loro com­ mercio. Se si natta del petrolio, è la Russia a elevare obiezioni, e perfino le potenze meno interessate fanno dipendere la loro approvazione in qualsiasi argomento da un ben determinato compenso. Capita alla Turchia come a Sancio Pancia al sua pranzo di nozze. Basta che un ministro delle finanze vo­ glia por mano a qualcosa, che un diplomatico qualunque si alza ad afferrar­ gli il braccio e ad opporgli il suo veto» (c. morawitz, Die T tirkei im Spiegel ihrer Finanzen, p. 70).

CAPITOLO TR EN TU N ESIM O P R O T E Z IO N ISM O E A C C U M U L A Z IO N E

L ’imperialismo è l’espressione politica del processo di ac­ cumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza in­ torno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora po­ sti sotto sequestro. Dal punto di vista geografico, quest’am­ biente abbraccia ancora oggi i piu vasti territori del mondo. Ma, in confronto all’enorme massa del capitale già accumu­ lato degli antichi paesi capitalistici, che lotta per trovare uno sbocco al suo sovraprodotto e possibilità di capitalizza­ zione al suo plusvalore; in confronto alla rapidità con cui civiltà precapitalistiche vengono trasformate in capitalistiche; insomma, in confronto all’alto grado raggiunto dall’e­ spansione delle forze produttive del capitale, il campo che ancora resta al suo allargamento sembra ormai ristretto. Di qui il procedere internazionale del capitalismo sull’arena del mondo. Dati l’alto sviluppo e la sempre piu accesa con­ correnza dei paesi capitalistici per la conquista di zone non­ capitalistiche, l’imperialismo cresce in energia e forza d ’ur­ to, sia nella sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia nell’inasprimento dei contrasti fra i paesi capita­ listici concorrenti. Ma con quanta maggior energia, potenza d ’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione del­ le civiltà non-capitalistiche, tanto piu rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione del capitale. L ’impe­ rialismo è tanto un metodo storico per prolungare resisten­ za del capitale, quanto il piu sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine. Ciò non significa che questo punto terminale debba essere pedantescamente raggiunto. Le for­ me che dànno alla fase terminale del capitalismo il volto di un’era di catastrofi esprimono già di per sé la tendenza del­ l’evoluzione capitalistica verso questo sbocco finale.

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

La speranza in un’evoluzione pacifica dell’accumulazione del capitale, in un «commercio e in un’industria fiorenti nella pace», insomma l’intera ideologia manchesteriana del­ l’armonia d ’interessi fra le nazioni commerciali del mondo - altra faccia dell’armonia d ’interessi fra capitale e lavoro - , nata dal periodo di Sturm und Drang dell’economia politica classica, parve trovare conferma pratica nel breve periodo di libero scambio in Europa fra il i860 e il 1880. Sua base è il falso dogma della scuola libero-scambista inglese, secon­ do cui lo scambio delle merci è la premessa e condizione unica dell’accumulazione del capitale, e questa fa tutt’uno con l’economia mercantile. Tutta la scuola di Ricardo iden­ tifica, come abbiamo visto, l’accumulazione del capitale e le sue condizioni di riproduzione con la produzione semplice delle merci e con le condizioni della circolazione mercantile semplice. Ancor piu chiaramente questo concetto si mani­ festa nei libero-scambisti pratici. Le argomentazioni della Lega di Cobden sono ricalcate sui particolari interessi degli esportatori cotonieri del Lancashire, il cui pensiero domi­ nante è procurarsi dei compratori, il cui articolo di fede è: dobbiamo acquistare all’estero per potere a nostra volta tro­ var degli acquirenti ai nostri prodotti industriali, cioè ai manufatti cotonieri. Il consumatore, nel cui interesse Codben e Bright chiedevano il libero scambio, e perciò il ribas­ so dei prezzi dei generi alimentari, non era l ’operaio che consuma il pane, ma il capitalista che consuma la forza-la­ voro. Questo vangelo non fu mai l’espressione reale degli inte­ ressi dell’accumulazione del capitale nel suo insieme. Nella stessa Inghilterra lo smentivano, verso la metà del secolo, le guerre dell’oppio, proclamanti a suon di cannonate in Asia orientale l’armonia d ’interessi delle nazioni commer­ ciali per capovolgerla con l’annessione di Hongkong nel suo opposto, nel sistema delle «sfere d ’interesse»1. Sul conti­ 1 Non soltanto, del resto, in Inghilterra. «G ià nel 1859, un opuscolo dif­ fuso in tutti gli angoli della Germania e dovuto alla penna di un industriale di Viersen, Diergardt, rivolgeva un urgente monito al paese perché si assi­ curasse per tempo il mercato dell’Estremo Oriente. Non v’era che un mezzo per ottenere qualcosa in fatto di politica commerciale, di fronte a giapponesi

PROTEZIONISMO E ACCUMULAZIONE

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nente europeo il libero-scambismo degli anni 1860-70 non era fondamentalmente l’espressione degli interessi del ca­ pitale industriale, per il fatto stesso che i principali paesi libero-scambisti di Europa erano ancora prevalentemente agricoli, la loro grande industria era ancora relativamente poco sviluppata. Il sistema liberista fu praticato piuttosto come strumento per il consolidamento politico degli stati centro-europei. In Germania esso fu, nel quadro della poli­ tica di Manteuffel e di Bismarck, un mezzo specificamente prussiano per cacciare l’Austria dal Bund e dallo Zollverein e costituire il nuovo Reich tedesco sotto la direzione della Prussia. Dal punto di vista economico, il libero scambio si appoggiò qui unicamente sugli interessi del capitale com­ merciale, soprattutto del capitale delle città anseatiche in­ teressato al commercio mondiale, e sugli interessi dei con­ sumatori agricoli; quanto alla vera e propria industria, solo con grandi sforzi si potè conquistare al libero-scambismo la produzione del ferro grazie alla soppressione dei dazi al Re­ no, mentre l’industria cotoniera della Germania meridiona­ le rimase tenacemente protezionista. In Francia, i trattati di commercio sulla base della clausola della nazione piu favo­ rita, che gettarono le basi del sistema del libero scambio in tutta Europa, furono stipulati da Napoleone III senza e contro la compatta maggioranza protezionista del parlamen­ to. Del resto, la via dei trattati di commercio fu battuta dal governo del Secondo Impero solo come mezzo estremo, e accettata come tale dall’Inghilterra per aggirare l’opposizioe asiatici-orientali in genere: l ’uso della forza militare. La flotta tedesca, co­ struita coi soldini risparmiati dal popolo, era rimasta un sogno di gioventù... La Prussia aveva qualche nave, ma non certo una marina capace d’imporsi. Tuttavia ci si decise ad armare una squadra per allacciare rapporti commer­ ciali nell’Estremo Oriente. A capo della missione, che perseguiva anche sco­ pi scientifici, era uno dei più capaci uomini di stato prussiani, il conte von Eulenburg. Questi portò a termine il suo compito con grande abilità, sebbe­ ne nelle condizioni più difficili. Al piano di entrare in rapporti commerciali con le isole Hawai si dovette riunciare. Per il resto la missione raggiunse i suoi obiettivi. Sebbene la stampa berlinese pretendesse allora di saperla più lunga e, ad ogni notizia sulle difficoltà incontrate, dichiarasse che lo si era da tempo previsto e che tutte queste spese in dimostrazioni navali erano una vera e propria dilapidazione dei soldi dei contribuenti, il ministero della nuova èra non si lasciò sviare. Il godimento dei frutti di quest’opera è riser­ vato ai posteri» (w. lotz, Die Ideen der deutschen Handelspolitik, p. 80).

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ne parlamentare francese e avviare il libero commercio su scala internazionale dietro le spalle dell’assemblea legislati­ va. Il primo fondamentale trattato tra Francia e Inghilterra colse perciò di sorpresa l’opinione pubblica francese l’an­ tico sistema protezionistico fu smantellato dal 1833 al 1862 mediante 32 decreti imperiali, che solo nel 1863 furono sanzionati, con scarso rispetto della forma, «per via legisla­ tiva». In Italia, il libero scambio fu un requisito della poli­ tica cavouriana, e della necessità da questa sentita di ap­ poggiarsi alla Francia. Ma già nel 1870 l’opinione pubblica provocava l’apertura di un’inchiesta che metteva a nudo la scarsa simpatia dei ceti interessati per la politica liberoscambista. Infine, in Russia, la tendenza libero-scambista del periodo 1860-70 servi di premessa alla costituzione di una larga base per l’economia mercantile e per la grande in­ dustria, accompagnando la soppressione della servitù della gleba e la costruzione della rete ferroviaria2. 1 «Une négociation officielle fut ouverte [fra i governi francese e britan­ nico, dopo che Michel Chevalier e Rich. Cobden avevano compiuto i passi preliminari in tale senso] au bout de peu de jours: elle fut conduite avec le plus grand mystère. Le 3 Janvier i860 Napoléon III annonça ses intentions dans une lettre-programme adressée au ministre d’Etat, M. Fould. Cette dé­ claration^ éclata comme un coup de foudre. Après les incidents de Tannée qui venait de finir, on comptait qu’aucune modification du régime douanier ne serait tentée avant 1861. L ’émotion fut générale. Néanmoins le traité fut signé le 23 Janvier» (auguste devers, La politique commerciale de la Fran­ ce depuis i860, «Schriften des Vereins für Sozialpolitik», LI, p. 136). 2 La revisione delle tariffe doganali russe in senso liberale (1857 e 1868), il definitivo smantellamento del ridicolo protezionismo di Kankrin, fu il complemento e la manifestazione della grande opera di riforma suscitata dal­ la débàcle della guerra di Crimea. Ma la riduzione delle tariffe corrispondeva anche direttamente agli interessi dei grandi proprietari terrieri nobili, favo­ revoli, sia come consumatori di merci straniere che come produttori del gra­ no esportato, a scambi indisturbati fra Russia ed Europa occidentale. La Li­ bera Società Economica, paladina degli interessi agrari, constatava: «Duran­ te gli ultimi sessant’anni, dal 1822 al 1882, la grande produttrice della Rus­ sia, l ’agricoltura, ha subito quattro volte danni incalcolabili precipitando in una situazione veramente critica, e in tutti quattro i casi la causa immediata va cercata nell’incredibile altezza delle tariffe doganali. Viceversa, i trentadue anni dal 1845 al 1877, in cui furono in vigore tariffe moderate, sono tra­ scorsi senza disastri ad onta delle tre guerre e di una guerra civile [allusione all’insurrezione polacca del 1863], ognuna delle quali richiese una tensione piu o meno grave delle forze finanziarie del paese» (Memorandum dell’Imp. Libera Società Economica in merito alla revisione delle tariffe doganali, Pe­ tersburg 1890, p. 148). Che in Russia, fino a tempi recenti, i sostenitori del libero scambio o almeno di una riduzione delle tariffe protettive non coinci­ dano coi rappresentanti degli interessi del capitale industriale, lo dimostra

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Cosi, il libero scambio come sistema internazionale si ri­ duce, fin dall’inizio, a un episodio nella storia dell’accumu­ lazione del capitale. Anche solo per questo è assurdo pre­ tendere di spiegare il generale ripiegamento sul protezioni­ smo dal 1880 in avanti come una semplice misura difensi­ va contro il libero-scambismo inglese Questa spiegazione è smentita dal fatto che, in Germania come in Francia e Italia, il ruolo dominante nel ritorno alla protezione doganale lo ebbero gli interessi agrari, che si di­ rigevano non contro la concorrenza inglese ma contro quel­ la americana; che d’altra parte la rivendicazione della pro­ tezione doganale a tutela della nascente industria nazionale in Russia si volgeva molto piu contro la Germania (e in Ita­ lia contro la Francia), che contro l’Inghilterra. La generale e duratura depressione del mercato mondiale seguita alla crisi degli anni ’70, che fomentò le tendenze protezionisti­ che, non fu neppur essa legata al monopolio inglese. La causa profonda della svolta in senso protezionista va cerca­ ta altrove. Il puro punto di vista dello scambio delle merci, dal quale si originò l ’illusione libero-scambista dell’armonia già il fatto che la suddetta società, arma scientifica di questo movimento li­ bero-scambista, sollecitava fra il 1890 e il 1900 la riforma del sistema prote­ zionista concepito come mezzo per l’«artificiale trapianto» dell’industria ca­ pitalistica in Russia e, nello spirito del «populismo» reazionario, denuncia­ va nel capitalismo la culla del moderno proletariato, «di quelle masse di uo­ mini inadatti al servizio militare, senza proprietà né patria, che non hanno nulla da perdere e che da molto tempo non godono buona fama» (ibid., p. 171). Cfr. anche K. lodyschensky, Geschichte des russischen Zolltarifs, Pe­ tersburg 1899, pp. 239-58. 1 Anche F. Engels condivideva questa concezione. Si legge in una sua lettera a Nikolaj-on del 18 giugno 1892: «Scrittori inglesi interessati posso­ no non capacitarsi che il loro esempio libero-scambista venga dappertutto ri­ pudiato a favore del protezionismo. Evidentemente, non osano riconoscere che questo sistema - oggi divenuto quasi universale - è un mezzo di autodi­ fesa contro quello stesso free trade che portò all’apogeo il monopolio indu­ striale britannico: un mezzo pili o meno intelligente e, in qualche caso, asso­ lutamente idiota, per es. in Germania, paese che si è industrializzato in re­ gime di libero scambio, e dove la protezione è stata estesa ai prodotti agri­ coli e alle materie prime provocando un aumento dei costi della produzione industriale. Ora, io considero il ricorso generale alla protezione non come un fatto casuale, ma come una reazione all’intollerabile monopolio dell’in­ dustria inglese: la forma di questa reazione può essere, come ho detto, ina­ deguata e peggio ancora, ma la necessità storica della reazione in sé e per sé mi sembra evidente» (Briefe, p. 71 [qui citato da India, Cina, Russia, pp. 262-63]).

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d ’interessi sul mercato mondiale, è stato abbandonato non appena il grande capitale industriale ebbe preso talmente piede nei principali paesi del continente europeo, da porre con urgenza il problema delle condizioni della sua accumula­ zione. E queste dovevano far passare in primo piano, con­ tro la reciprocità d ’interessi fra gli stati capitalistici, il loro antagonismo, la loro concorrenza nella lotta per la conqui­ sta dell’ambiente non-capitalistico. Quando si chiuse l’era del libero scambio, la Cina comin­ ciava ad essere aperta al commercio dalle guerre dell’oppio, e in Egitto il capitale europeo faceva i suoi primi passi. A partire dal 1880, parallelamente alla protezione doganale si ha un intensificarsi della politica di espansione: l ’occupa­ zione inglese dell’Egitto, le conquiste coloniali tedesche in Africa, l ’occupazione francese di Tunisi e la spedizione del Tonchino, le imprese italiane ad Assab e Massaua, la guer­ ra abissina e la costituzione dell’Eritrea, l’espansione bri­ tannica nel Sud Africa, tutti questi avvenimenti si susse­ guono in una catena ininterrotta per tutto un decennio. Il conflitto italo-francese intorno alla sfera d’interessi in Tu­ nisia è il caratteristico preludio alla guerra commerciale ita­ lo-francese di sette anni dopo, che chiude in un brusco epi­ logo l’era dell’armonia degli interessi commerciali sul con­ tinente europeo. Il monopolio dei territori di espansione non-capitalistici, nell’interno dei vecchi stati capitalistici come all’esterno, nei paesi transoceanici, divenne la parola d ’ordine del capitale, mentre il libero commercio, la politi­ ca di apertura dei mercati diveniva la forma specifica del­ l’impotenza degli stati non-capitalistici di fronte al capitale internazionale e dell’equilibrio fra i capitali concorrenti, il preambolo alla occupazione parziale o totale delle colonie o delle sfere d ’interessi. Se finora la sola Inghilterra è rimasta fedele al libero scambio, lo si deve in primo luogo al fatto che, come primo impero coloniale, essa ha trovato fin dall’i­ nizio nel suo possesso di territori non-capitalistici una po­ tente base di manovra, che ha offerto fino a tempi recentis­ simi prospettive illimitate alla sua accumulazione capitali­ stica e l’ha posta fuori della concorrenza di altri paesi indu­ striali. Di qui la spinta generale dei paesi capitalistici a iso-

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larsi l’uno dall’altro mediante dazi protettivi, sebbene essi siano, nello stesso tempo, divenuti sempre piu acquirenti reciproci di merci e, nel rinnovamento delle condizioni ma­ teriali della riproduzione, sempre piu orientati gli uni verso gli altri; e sebbene, dal punto di vista dello sviluppo tecni­ co delle forze produttive, i dazi protettivi siano ormai di­ venuti superflui, anzi in molti casi portino alla conserva­ zione artificiale di modi di produzione superati. La contrad­ dizione interna della politica protezionistica internazionale è, come il carattere contraddittorio del sistema dei prestiti internazionali, un semplice riflesso del contrasto storico in cui gli interessi dell’accumulazione, cioè della realizzazione e capitalizzazione del plusvalore, dell’espansione, sono ve­ nuti a trovarsi coi puri e semplici criteri dello scambio di merci. Quanto sopra trova la sua espressione tangibile nel fatto che il moderno sistema degli alti dazi protettivi - che corri­ sponde alla espansione coloniale e agli acuiti contrasti all’in­ terno dell’ambiente capitalistico —è stato inaugurato anche come base essenziale dell’enorme sviluppo degli armamen­ ti. In Germania come in Francia, in Italia come in Russia, il ritorno al protezionismo si compie parallelamente al po­ tenziamento dell’esercito e nel suo interesse, come base del sistema ad esso contemporaneo della corsa al riarmo euro­ peo prima per terra, poi per mare. Il libero scambio euro­ peo, al quale è corrisposto il sistema militare continentale con centro di gravità nell’esercito territoriale, ha spianato la via al protezionismo come base e completamento del si­ stema militare imperialistico, in cui il centro di gravità si sposta sempre piu verso la flotta. L ’accumulazione capitalistica presa nel suo insieme, co­ me concreto processo storico, ha dunque due lati diversi. Il primo si compie nei luoghi di produzione del plusvalore - la fabbrica, la miniera, l’azienda agricola - e sul mercato. Sotto questo aspetto, l’accumulazione è un processo pura­ mente economico, la cui fase piu importante si svolge fra capitalista e salariato, ma che in entrambe le fasi —la fab­ brica e il mercato —si muove entro i limiti dello scambio di merci, dello scambio di equivalenti. Pace, proprietà e ugua­

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glianza regnano qui come forma, e occorreva la tagliente dialettica di un’analisi scientifica per svelare come nell’ac­ cumulazione il diritto di proprietà si converta in appropria­ zione della proprietà altrui, lo scambio delle merci in spo­ liazione, l’uguaglianza in supremazia di classe. L ’altro aspetto dell’accumulazione del capitale ha per arena la scena mondiale, per protagonisti il capitale e le for­ me di produzione non-capitalistiche. Dominano qui come metodi la politica coloniale, il sistema dei prestiti interna­ zionali, la politica delle sfere di interesse, le guerre. Appaio­ no qui apertamente e senza veli la violenza, la frode, l’op­ pressione, la rapina, la guerra, e costa fatica identificare sot­ to questo groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del processo economico. La teoria liberale-borghese vede solo una delle due fac­ ce: il dominio della «concorrenza pacifica», dei miracoli tecnici, del puro scambio delle merci, e separa nettamente dal dominio economico del capitale il campo dei chiassosi gesti di forza del capitale come piu o meno accidentali ma­ nifestazioni della «politica estera». In realtà, la violenza politica non è qui se non il veicolo del processo economico, le due facce dell’accumulazione del capitale sono legate organicamente Luna all’altra dalle con­ dizioni della riproduzione e solo in questo loro stretto rap­ porto il ciclo storico del capitale si compie. Il capitale non soltanto nasce «sudando da tutti i pori sangue e fango», ma s’impone gradatamente come tale in tutto il mondo e così prepara, fra convulsioni sempre piu violente, il proprio sfacelo.

CAPITOLO TREN TA DU ESIM O I L M IL IT A R IS M O C O M E C A M PO D I A C C U M U L A Z IO N E D E L C A P IT A L E

Nella storia del capitale, il militarismo esercita una fun­ zione ben definita, accompagnando il processo dell’accumu­ lazione in tutte le sue fasi storiche. Nel periodo della cosid­ detta «accumulazione primitiva», cioè agli albori del capi­ talismo europeo, il militarismo ha una parte di primo piano nella conquista del Nuovo Mondo e dell’India prima, nella conquista delle colonie, nella distruzione delle comunità so­ ciali delle formazioni primitive e nell’appropriazione dei loro mezzi di produzione, nell’introduzione del commercio in paesi la cui struttura sociale ostacolava l’economia mer­ cantile, nella proletarizzazione forzata degli indigeni e nel­ l’applicazione del lavoro salariato nelle colonie, nella costi­ tuzione e nell’ampliamento delle sfere d ’interesse del capi­ tale europeo in territori extraeuropei, nell’accaparramento di concessioni ferroviarie in paesi arretrati e nella tutela dei diritti acquisiti dal capitale europeo mediante i prestiti in­ ternazionali poi, e infine come arma della lotta di concor­ renza fra stati capitalistici per il controllo di regioni a civil­ tà non-capitalistica. Ma la sua funzione non si esaurisce qui. Anche dal puro punto di vista economico, il militarismo appare al capitale un mezzo di prim’ordine per la realizzazione del plusvalo­ re, cioè come campo di accumulazione. Nel cercar di rispon­ dere alla domanda, chi sia l’acquirente della massa di pro­ dotti in cui si nasconde il plusvalore capitalizzato, abbiamo piu volte scartato il rinvio allo stato e ai suoi organi come consumatori, allineandoli, come rappresentanti di redditi derivati, nella stessa categoria di usufruttuari del plusvalo­ re (o in parte del salario), alla quale appartengono anche i rappresentanti delle professioni liberali e l’infinita varietà

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di parassiti della società odierna («re, parroco, professore, prostituta, soldato»). Ma questa soluzione è accettabile so­ lo a due condizioni: x) che, nel senso dello schema marxia­ no della riproduzione, si ammetta che lo stato non dispon­ ga di altre fonti d ’imposte oltre il plusvalore capitalistico e il salario proletario1; 2) che si concepisca lo stato coi suoi organi come puro consumatore. Se infatti non si tratta che del consumo personale degli impiegati dello stato (e perciò anche dei «guerrieri»), ciò significa - in quanto tale consu­ mo è conteso ai mezzi dei lavoratori —parziale trasferimen­ to del consumo dalla classe operaia all’appendice della clas­ se capitalistica. Ammettiamo per un momento che l’intero ammontare delle imposte indirette estorte ai lavoratori (che rappresen­ tano un prelievo sul loro consumo) sia usato per pagare gli stipendi degli impiegati statali e rifornite delle necessarie sussistenze l’esercito. In tal caso, non si verificherà, nella riproduzione del capitale sociale totale, alcuno spostamen­ to. Sia la sezione mezzi di sussistenza, sia, di conseguenza, la sezione mezzi di produzione, rimangono immutati, per­ ché il fabbisogno complessivo della società non ha subito mutamenti né in qualità né in quantità. Ciò che è mutato è solo il rapporto fra v come merce forza-lavoro e prodotti della sezione II, cioè mezzi di sussistenza. Lo stesso v, la stessa espressione monetaria della forza-lavoro viene ora scambiata con una minor quantità di mezzi di consumo. Che 1 Questo concetto è posto dal dottor Renner a base del suo studio sulle imposte: «Tutto ciò ch’è prodotto in valori nel corso di un anno - dice si divide in queste quattro parti, e solo da esse si possono attingere annual­ mente le imposte: profitto, interesse, rendita, salario sono le quattro parti­ colari sorgenti delle imposte» (Dar arbeitende Volk und die Steuern, Wien 1909, P- 9). Tuttavia, subito dopo, Renner si ricorda dell’esistenza dei con­ tadini; ma li liquida con una frase: «Un contadino, per esempio, è nello stesso tempo imprenditore, lavoratore e proprietario fondiario, e ricava dal suo raccolto il salario, il profitto e la rendita». È chiaro che una simile di­ visione del contadiname nelle tre categorie della produzione capitalistica e la raffigurazione del contadino come imprenditore, salariato e proprietario terriero in una persona sola, rappresentano vuote astrazioni. La peculiarità economica della classe contadina - la si voglia pur considerare, come Renner, una categoria indifferenziata - è proprio il fatto che non appartiene né alla classe imprenditrice capitalistica né al salariato e che rappresenta una pro­ duzione mercantile non capitalistica, ma semplice.

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cos’avviene del residuo cosi formatosi di prodotti della se­ zione II? Passa, invece che a lavoratori, a impiegati statali e militari: al posto del consumo dei lavoratori, subentra nella stessa misura il consumo degli organi dello stato capi­ talistico. È dunque avvenuto, ferme restando le condizioni di riproduzione, un cambiamento nella ripartizione del pro­ dotto totale: una parte dei prodotti della sezione II desti­ nati precedentemente al consumo della classe operaia, a co­ pertura di V, viene ora destinata all’appendice della classe capitalistica per il suo consumo. Dal punto di vista della riproduzione sociale questo spostamento avviene esattamen­ te come se il plusvalore relativo fosse stato fin dall’inizio piu grande, e questo aumento fosse stato assorbito dalla parte del plusvalore riservata al consumo della classe capi­ talistica e appendice. In questo senso, il dissanguamento della classe operaia, mediante il meccanismo dell’imposizione indiretta, per mantenere gli ingranaggi della macchina statale capitalisti­ ca, ha la sua origine in un aumento del plusvalore, e precisamente della parte consumata di esso; solo che questa divi­ sione supplementare fra plusvalore e capitale variabile av­ viene post jestum, dopo avvenuto lo scambio fra capitale e forza-lavoro. Ma, se abbiamo così a che fare con un aumen­ to successivo del plusvalore consumato, è chiaro che questo consumo degli organi dello stato capitalistico non può - an­ che se avviene a spese della classe lavoratrice - esser preso in considerazione come mezzo per realizzare il plusvalore capitalizzato. Inversamente si può dire: se la classe operaia non sopportasse per la maggior parte i costi di manteni­ mento degli impiegati statali e dei «m ilitari», sarebbe la classe capitalistica a doverseli interamente accollare: essa dovrebbe destinare al mantenimento degli organi del suo dominio di classe una parte corrispondente del plusvalore, o a spese del proprio consumo, che dovrebbe perciò limita­ re, o, cosa piu probabile, a spese della parte di plusvalore destinata alla capitalizzazione. Potrebbe capitalizzare di me­ no, dovendo impiegare di piu al proprio diretto manteni­ mento. Scaricando la parte massima dei costi di mante­ nimento della sua appendice sulla classe operaia (e sui rap­

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presentanti della produzione mercantile semplice: contadi­ ni, artigiani), i capitalisti si assicurano la possibilità di libe­ rare ai fini della capitalizzazione una parte maggiore di plus­ valore. Ma non è in tal modo data la possibilità di questa capitalizzazione, cioè non si è creato un nuovo sbocco per poter produrre con questo plusvalore liberato nuove merci e realizzarle. Non cosi quando i mezzi concentrati nelle mani dello sta­ to mediante il sistema fiscale vengono impiegati alla produ­ zione di mezzi bellici. Sulla base della imposizione indiretta e degli alti dazi protettivi, i costi del militarismo vengono essenzialmente riversati sulla classe operaia e sul contadina­ me. Le due fonti d ’imposta vanno considerate separatamen­ te. Per quel che riguarda la classe operaia, la faccenda si svolge nel modo che segue. Ammesso che non si verifichi un aumento dei salari a compenso del rincaro dei mezzi di sussistenza - come avviene oggi per la gran massa dei la­ voratori e per la stessa minoranza sindacata sotto la pres­ sione dei cartelli e delle organizzazioni padronali 1—, le im­ poste indirette significano il trasferimento di una parte del potere di acquisto dei lavoratori allo stato. Il capitale va­ riabile, come capitale-denaro di una certa grandezza, serve ora come prima a mettere in moto la quantità corrispon­ dente di lavoro vivo, e perciò a sfruttare il corrispondente capitale costante a fini produttivi e a generare la quantità corrispondente di plusvalore. Compiuta questa circolazio­ ne del capitale, avviene una ripartizione fra classe operaia e stato: una parte della quantità di denaro ricevuta dalla pri­ ma nello scambio contro la sua forza-lavoro passa allo sta­ to. Mentre prima l’intero capitale variabile era appropria­ to nella sua forma materiale di forza-lavoro dal capitale, solo una parte del capitale variabile in forma monetaria re­ sta ora in mano alla classe operaia: l’altra entra in posses­ so dello stato. La transazione si compie ogni volta dopo av­ venuta la circolazione del capitale fra capitale e lavoro, per 1 Lo studio dei cartelli e dei trust come manifestazioni specifiche della fase imperialistica sul terreno della lotta di concorrenza interna fra gruppi capitalistici per la monopolizzazione dei campi di accumulazione esistenti e per la suddivisione del profitto esce dai limiti della nostra indagine.

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così dire dietro le spalle del capitale, non incide direttamen­ te su questa parte fondamentale della circolazione del capi­ tale e della produzione del plusvalore. Ma tocca, questo sì, le condizioni di riproduzione del capitale totale. Il trasfe­ rimento di una parte del potere d ’acquisto della classe ope­ raia allo stato significa che la parte della classe operaia nel consumo dei mezzi di sussistenza è divenuta nella stessa mi­ sura piu piccola. Per il capitale totale, ciò vale a dire che, a parità di grandezza del capitale variabile (come capitale denaro e come forza-lavoro) e di massa di plusvalore appro­ priato, una minor quantità di mezzi di sussistenza deve es­ sere prodotta per il mantenimento della classe operaia; che a questa dev’essere riservata una più limitata partecipazio­ ne al prodotto totale. Ne segue che, nella riproduzione del capitale totale, sarà prodotta una quantità di mezzi di sus­ sistenza minore di quanto la grandezza di valore del capita­ le variabile comporti, essendosi modificato il rapporto di valore fra capitale variabile e massa di beni di consumo in cui è realizzato; l’altezza delle imposte indirette si esprime nell’aumento dei prezzi dei mezzi di sussistenza, mentre, secondo la nostra ipotesi, l’espressione monetaria della for­ za-lavoro rimane immutata o non muta in rapporto al rin­ caro dei beni di consumo. In quale direzione si compie, d ’altra parte, lo spostamen­ to nei rapporti materiali della riproduzione? La contrazione della quantità di mezzi di sussistenza necessari per il rinno­ vo della forza-lavoro libera una quantità corrispondente di capitale costante e di lavoro vivo. Questo capitale costante e questo lavoro vivo possono essere impiegati per altre pro­ duzioni, ammesso che si trovi nella società una nuova do­ manda solvibile. Questa nuova domanda è rappresentata dallo stato con la parte del potere d ’acquisto della classe operaia da esso appropriata mediante lo strumento fiscale. Ma la domanda dello stato non si rivolge ai mezzi di consu­ mo (prescindiamo qui dal fabbisogno in mezzi di sussisten­ za per il mantenimento degli impiegati statali, come di tut­ te le «terze persone»), ma ad una specifica categoria di pro­ dotti: agli strumenti bellici del militarismo sia per terra che per mare.

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Per esaminare piu da vicino gli spostamenti che così si originano nella riproduzione sociale, riprendiamo come esempio il secondo schema marxiano della riproduzione: I. 5000 c + 1000 V+ 1000 p = 7000 mezzi di produzione IL 1430 c + 2851/+ 283 p = 2000mezzi di sussistenza Ammettiamo che, mediante le imposte indirette e il con­ seguente rincaro dei mezzi di sussistenza, il salario reale, cioè il consumo della classe operaia, diminuisca del valore di 100. Gli operai ricevono dunque, ora come prima, 1000 V+ 283 V = 1285 V in denaro, ma ottengono per questo va­ lore mezzi di sussistenza solo per 1183. La somma 100, pa­ ri alla maggiorazione del prezzo dei beni di consumo, va al­ lo stato come imposta. Lo stato preleva poi dai contadini, come imposta per Larmamento, poniamo, 150: in tutto, ri­ ceve dunque 230, che rappresentano una nuova domanda, e precisamente di mezzi bellici. Tuttavia, a noi interessano dapprima solo i 100 provenienti dal salario degli operai. Per soddisfare il fabbisogno di mezzi bellici per il valore di 100, sorge un corrispondente ramo di produzione, il quale, ammessa un’uguale, cioè media, composizione organica (co­ me nel presupposto dello schema di Marx), ha bisogno di un capitale costante di 71,3 e variabile di 14,25 : 71,5 c + 14,25 v + 14,25 p = 100 (mezzi bellici) Inoltre, per il fabbisogno di questo ramo di produzione, dovranno essere prodotti mezzi di produzione per l’ammon­ tare di valore di 71,5 e mezzi di sussistenza per circa 13 (corrispondentemente alla diminuzione, valida anche per questi operai, del salario reale di circa Yn). Si può subito ribattere che l’utile derivante al capitale da questo nuovo allargamento dello smercio è soltanto appa­ rente, perché la riduzione del consumo effettivo della clas­ se operaia avrà per inevitabile conseguenza una corrispon­ dente limitazione della produzione dei mezzi di sussistenza, limitazione che si tradurrà, nella sezione II, nelle seguenti proporzioni: 71,5 c + 14,25 v + 14,25 p = 100

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Ma anche la sezione mezzi di produzione dovrà limitare in corrispondenza la sua ampiezza, cosicché, in seguito alla riduzione del consumo della classe operaia, le due sezioni si configureranno come segue: L II.

4949 c + 989,75 p + 989,75 p = 6928,5 1358,5 C+ 270,75 P + 270,75 p = 1900

Se a questo punto, tramite lo stato, gli stessi xoo deter­ minano una produzione di mezzi bellici per lo stesso valo­ re e corrispondentemente rianimano la produzione di mez­ zi di produzione, a prima vista non sembra verificarsi che uno spostamento esteriore nella forma materiale della pro­ duzione sociale: invece di una quantità di mezzi di sussi­ stenza si produce una quantità di mezzi di guerra. Il capita­ le avrebbe preso con una mano ciò che ha perduto con l’al­ tra. O, ponendo la questione sotto altra forma, ciò che il gran numero di capitalisti che producono mezzi di sussi­ stenza per la massa dei lavoratori perde in smercio andreb­ be a favore di un piccolo gruppo di grandi industriali del ramo bellico. Ma la questione si pone in questi termini solo finché si rimane nell’orbita del capitale singolo, dal punto di vista del quale poco importa che la produzione si volga a questo o quel campo. Per il capitale singolo, le sezioni della produ­ zione totale cosi come le distingue lo schema non esistono; esistono solo merci e acquirenti, ed è perciò perfettamente uguale produrre mezzi di vita o di morte, carne conservata o corazze per navi da guerra. Questo punto di vista è spesso sostenuto da avversari del militarismo per dimostrare che gli armamenti, come im­ piego economico del capitale, non fanno che portare ad al­ cuni capitalisti ciò che hanno sottratto agli altri D ’altra1 1 In una risposta a Voroncov, molto lodata dai marxisti russi del suo tempo, il professor Manuilov scriveva per esempio: «Bisogna distinguere nettamente fra il gruppo di imprenditori che producono gli oggetti del fab­ bisogno di guerra e l’insieme della classe capitalistica. Per i fabbricanti di cannoni, fucili e altro materiale bellico, 1’esistenza dell’esercito è senza dub­ bio vantaggiosa e indispensabile. È ben possibile che l’eliminazione del^ si­ stema della pace armata sarebbe per la ditta Krupp una rovina, ma qui si

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parte, il capitale e i suoi apologeti si sforzano di dare in pa­ sto alla classe operaia questo stesso punto di vista affan­ nandosi a dimostrarle che le imposte indirette e la richiesta statale determinano soltanto uno spostamento nella forma materiale della riproduzione; invece di altre merci si produ­ cono incrociatori e cannoni, grazie ai quali il lavoratore tro­ va pane e lavoro nella stessa o anche in maggior misura, in un posto o nell’altro. Che cosa ci sia di vero in questo lo dimostra, per quanto riguarda gli operai, un semplice sguardo allo schema. Am­ messo, per facilitare il confronto, che la produzione dei mezzi bellici impieghi esattamente gli stessi operai che pri­ ma la produzione di mezzi di sussistenza per salariati, se ne deduce che questi, per un’erogazione di lavoro corrispon­ dente al salario 1285 v, ricevono mezzi di sussistenza per 1185. Ben diversamente stanno le cose dal punto di vista del capitale totale. Per questo, i 100 in mano allo stato, rappre­ sentanti una domanda di mezzi bellici, appaiono come un nuovo campo di smercio. Questa somma era, in origine, ca­ pitale variabile. Come tale ha compiuto la sua funzione, si è scambiata contro lavoro vivo che ha prodotto plusvalore. Ma ora interrompe la circolazione del capitale variabile, se ne distacca, e appare in possesso dello stato come nuovo potere d ’acquisto. Come se nascesse dal nulla, opera esatta­ mente come un nuovo campo aperto allo smercio. Certo, a tutta prima il capitale avrà uno smercio di mezzi di sussi­ stenza per operai ridotto di xoo. Per il capitalista singolo il lavoratore è un consumatore e acquirente di merci allo stes­ so titolo di qualunque altro, del capitalista, dello stato, del tratta non di un singolo gruppo di imprenditori, ma dei capitalisti come classe, della produzione capitalistica in toto»; ora da quest’ultimo punto di vista si osservi che, «se l’onere fiscale pesa prevalentemente sulla massa della popolazione lavoratrice, ogni aggravamento di quest’onere riduce il potere d’acquisto della popolazione e perciò anche la richiesta di merci». Questo fatto dimostrerebbe «che il militarismo, considerato dal punto di vista della produzione di ordigni bellici, arricchisce bensì alcuni capitalisti ma ne dan­ neggia altri, rappresenta da una parte un guadagno ma dall’altro una perdi­ ta» («Der Bote der Jurisprudenz», 1890, fase. I, Militarismus und Kapita­ lismus).

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contadino, dell’«estero» ecc. Ma non dimentichiamo che per il capitale totale il mantenimento della classe operaia non è che malum necessarium, una via traversa per raggiun­ gere il vero fine della produzione: la produzione e realizza­ zione del plusvalore. Se si riesce a estorcere la stessa massa di plusvalore senza dover cedere alla forza-lavoro la stessa quantità di mezzi di sussistenza, tanto meglio. È come se, senza rincaro dei mezzi di sussistenza, riuscisse al capitale di comprimere corrispondentemente i salari monetari senza ridurre il rendimento del lavoro. La riduzione continua del salario non ha forse per conseguenza ultima la riduzione della produzione di mezzi di consumo? Se è vero che il ca­ pitale non si cruccia di dover produrre meno mezzi di sussi­ stenza per gli operai pur che riesca a taglieggiarne i salari, anzi è ben lieto - quando gli viene a tiro - di farlo, è altret­ tanto vero che al capitale nel suo insieme importa poco che la classe operaia, per effetto di imposte indirette non con­ trobilanciate da aumento dei salari, rappresenti una minor domanda di mezzi di consumo. È vero che, nel caso della riduzione diretta del salario, la differenza in capitale varia­ bile rimane nelle tasche dei capitalisti e, fermi restando i prezzi delle merci, aumenta il plusvalore relativo, mentre ora emigra nelle casseforti dello stato. Ma d ’altra parte, in tutti i tempi, e soprattutto a un alto grado di sviluppo del­ le organizzazioni sindacali, una riduzione generale e conti­ nua dei salari monetari risulta solo di rado attuabile. Il pio desiderio del capitale urta qui contro salde barriere di natu­ ra sociale e politica. Per contro, la riduzione dei salari rea­ li mediante imposizione indiretta si svolge pronta, liscia e generale, e la resistenza suole manifestarsi solo a lunga sca­ denza, sul terreno politico e senza risultato economico im­ mediato. Se ne risulta in prosieguo una limitazione dei mez­ zi di sussistenza, ciò, dal punto di vista del capitale, appa­ re non come perdita di uno sbocco ma come risparmio nei costi generali di produzione del plusvalore. La produzione di mezzi di sussistenza per lavoratori è una conditio sine qua non della produzione del plusvalore, cioè la riproduzio­ ne della forza-lavoro viva, mai un mezzo di realizzazione del plusvalore.

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

Riprendiamo il nostro esempio: I. 3000 c + 1 0 0 0 1; + 1000 p = 7000 mezzi di produzione IL 1430c + 2831;+ 283 p = 2000 mezzi di sussistenza A prima vista si direbbe che qui la sezione II produca e realizzi plusvalore anche con la produzione di mezzi di sus­ sistenza per operai, esattamente come la sezione I in quan­ to produca mezzi di produzione necessari per la produzione di mezzi di sussistenza. Ma questa apparenza svanisce non appena consideriamo il prodotto sociale totale. Questo si presenta così: 6430 c + 1283 V + 1283 p = 9000 Ammettiamo che il consumo dei lavoratori si riduca di 100. Lo spostamento nella riproduzione per effetto della corrispondente contrazione delle due sezioni si esprimerà nella seguente formula : L IL

c + 989,73 V + 9 8 9 ,7 3 P = 6928,3 1338,3 c + 270,731;+ 270,73^ = 1900

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E il prodotto sociale totale: 6307,3 c + 1260,31; + 1260,3 p = 8828,3 Si constata a prima vista una contrazione generale nella massa della produzione, e anche nella produzione di plusva­ lore. Ma ciò solo finché abbiamo sott’occhio le grandezze astratte di valore nell’articolazione del prodotto totale, non i suoi rapporti materiali. A un’analisi piu attenta si riscon­ tra che la contrazione riguarda i costi di mantenimento del­ la forza-lavoro e solo questi. Si producono meno mezzi di sussistenza e di produzione, ma questi servivano esclusivamente a mantenere lavoratori. Un minor capitale è impe­ gnato e un minor prodotto è ottenuto. Ma scopo della pro­ duzione capitalistica non è impiegare un capitale il piu gran­ de possibile, ma ottenere il plusvalore più grande possibile. Ora, il deficit in capitale è qui derivato solo dal fatto che il mantenimento dei lavoratori esige un minor capitale. Se prima 1283 esprimeva il valore dei costi di mantenimento

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complessivi dei lavoratori impiegati, la contrazione ora in­ tervenuta nel prodotto totale (171,5, cioè 9 0 0 0 -8 8 2 8 ,5 ) va dedotta interamente da questi costi, per cui otterremo la seguente composizione del prodotto sociale: 6430 c + 1113,5 v + 1285 p = 8828,5 Il capitale costante e il plusvalore sono rimasti invariati, solo il capitale variabile della società, il lavoro pagato, si è ridotto. O, poiché può stupire la grandezza invariata del ca­ pitale costante, ammettiamo, cosa che corrisponde anche esattamente al processo reale, una riduzione del capitale co­ stante corrispondente alla riduzione dei mezzi di sussistenza degli operai, e otterremo la seguente articolazione del pro­ dotto sociale totale: 6307,5 c + 1236 v + 1285 p = 8828,5 Il plusvalore rimane nei due casi invariato ad onta della riduzione del prodotto totale, poiché quelli che si sono ri­ dotti sono i costi di mantenimento dei lavoratori, e solo essi. La cosa può anche essere presentata cosi: il prodotto so­ ciale totale può, secondo il suo valore, essere suddiviso in tre parti proporzionali, rappresentanti ogni volta esclusivamente il capitale costante totale della società, il capitale va­ riabile totale, il plusvalore totale, e precisamente come se, nellla prima porzione di prodotti, non fosse contenuto un solo atomo di lavoro aggiunto, e nella seconda e terza non un atomo di mezzi di produzione. Poiché questa massa di prodotti come tale, secondo la sua forma materiale, è il pro­ dotto di quel certo periodo di produzione da cui è uscito, si può - sebbene il capitale costante sia, come grandezza di va­ lore, risultato di precedenti periodi di produzione e venga trasferito solo su nuovi prodotti —suddividere anche l’in­ tero numero dei lavoratori impiegati in tre categorie: quelli che producono esclusivamente l’intero capitale costante del­ la società, quelli il cui esclusivo compito è di provvedere al mantenimento del complesso dei lavoratori, quelli che pro­ ducono esclusivamente l’intero plusvalore della classe ca­ pitalistica.

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

Se interviene una riduzione del consumo dei lavoratori, solo nella seconda categoria un corrispondente numero di lavoratori sarà licenziato. Ma questi lavoratori non creano plusvalore per il capitale, e il loro licenziamento è, dal pun­ to di vista di quest’ultimo, non perdita ma guadagno, ridu­ zione dei costi generali di produzione del plusvalore. Nello stesso tempo, lo sbocco offerto dallo stato si pre­ senta con tutto il fascino di un nuovo campo di realizzazio­ ne del plusvalore. Una parte della somma di denaro impe­ gnata nella circolazione del capitale variabile si stacca da questa circolazione e viene a rappresentare, nelle mani del­ lo stato, una nuova domanda. Il fatto che, dal punto di vi­ sta della tecnica fiscale, il processo sia un altro, che cioè l’ammontare delle imposte indirette sia in realtà anticipato dal capitale allo stato e restituito dal consumatore al capita­ lista solo all’atto della vendita delle merci, nel loro prezzo, non cambia nulla all’aspetto economico della cosa. Dal pun­ to di vista economico, è decisivo che la somma monetaria fungente da capitale variabile cominci col mediare lo scam­ bio fra capitale e forza-lavoro per poi, nello scambio fra la­ voratori come consumatori e capitalisti come venditori di merci, emigrare in parte, come imposta, dalle mani dei la­ voratori allo stato. Il denaro gettato dal capitale nella cir­ colazione compie dapprima interamente la sua funzione nel­ lo scambio con la forza-lavoro, per poi iniziare in mano allo stato un nuovo curriculum, cioè come potere d ’acquisto estraneo sia al capitale che al lavoro - potere d ’acquisto che si volge a nuovi prodotti, a un particolare ramo della pro­ duzione che non serve né al mantenimento della classe ca­ pitalistica né al mantenimento della classe operaia, e in cui il capitale trova perciò una nuova possibilità di produrre e realizzare plusvalore. Prima, quando consideravamo l’im­ piego delle imposte indirette estorte ai lavoratori per il trat­ tamento dei funzionari statali e per i rifornimenti all’eserci­ to, era risultato che il «risparmio» in consumo della classe operaia portava, dal punto di vista economico, a scaricare i costi del consumo personale dell’appendice della classe ca­ pitalistica e degli strumenti del suo dominio di classe dai capitalisti agli operai, dal plusvalore al capitale variabile e

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a liberare nella stessa misura, a fini di capitalizzazione, il plusvalore. Ora vediamo che l’impiego delle imposte estor­ te ai lavoratori per la produzione di mezzi bellici offre al ca­ pitale una nuova possibilità di accumulazione. Praticamente, il militarismo sulla base delle imposte in­ dirette agisce in entrambi i sensi, assicurando a spese delle normali condizioni di vita della classe operaia sia il mante­ nimento degli organi di dominio del capitale, degli eserciti permanenti, sia il piu vasto campo di accumulazione del ca­ pitale '. Consideriamo ora la seconda fonte di potere d ’acquisto dello stato: nel nostro esempio, i 150 sul totale di 250 in­ vestiti in mezzi di guerra. I 150 si distinguono essenzial­ mente dalla somma 100 finora considerata; non provengo­ no dagli operai ma dalla piccola borghesia artigiana e con­ tadina (prescindiamo qui dalla partecipazione relativamente modesta della classe capitalistica al gettito fiscale). La somma ceduta dai contadini - qui intesi come rappre­ sentanti dell’intera massa non-proletaria dei consumatori allo stato sotto forma d ’imposte non è originariamente an­ ticipata dal capitale e non si stacca perciò dalla circolazione del capitale. È, nelle mani della massa contadina, l’equiva­ lente di merci realizzate, il precipitato di valore della pro­ duzione mercantile semplice. Allo stato è qui trasferita una parte del potere d’acquisto di consumatori non-capitalisti, e pertanto un potere d ’acquisto che serve a priori alla realiz­ zazione del plusvalore ai fini dell’accumulazione del capita­ le. Ci si chiede ora se il trasferimento del potere d’acquisto di questi ceti allo stato a fini militaristici determini per il capitale trasformazioni economiche, e di che specie. Anche qui si tratta, a prima vista, di spostamenti nella forma ma­ teriale della riproduzione. Invece di una certa quantità di mezzi di produzione e di sussistenza per i consumatori con-1 1 In definitiva, la mortificazione delle condizioni normali in cui la forzalavoro si rinnova porta alla mortificazione della forza-lavoro medesima, alla diminuzione della sua intensità e produttività media, minando cosi le basi della produzione del plusvalore. Ma questi risultati finali, sensibili solo a distanza di tempo, non hanno a tutta prima alcun peso nei calcoli economici del capitale. Essi si manifestano invece subito in un generale intensificarsi dell’azione di difesa dei lavoratori salariati. 17

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

tadini, il capitale produrrà, nello stesso importo di valore, mezzi bellici per lo stato. Ma in realtà lo spostamento è di natura ben piu profonda. Anzitutto, il potere d ’acquisto dei consumatori non-capitalisti, liberato attraverso il meccani­ smo delle imposte, sarà dal punto di vista quantitativo mol­ to superiore a quello che per altra via si destinerebbe al loro consumo personale. È proprio il sistema moderno delle im­ poste ad operare nel senso della trasformazione dell’econo­ mia contadina in economia mercantile. Il peso delle impo­ ste costringe il contadino a trasformare in merci una parte sempre crescente del suo prodotto, ma nello stesso tempo fa di lui sempre piu un acquirente; travolge nella circolazio­ ne i prodotti dell’economia contadina, e trasforma violente­ mente i contadini in compratori dei prodotti del capitale. Inoltre, anche nel quadro della produzione mercantile con­ tadina, il sistema fiscale moderno sottrae al contadiname un potere d’acquisto superiore a quello che esso metterebbe da sé in attività. Ciò che in caso diverso sarebbe tesaurizzato come rispar­ mio dei contadini e del piccolo ceto medio, per ingrossare nelle casse di risparmio e nelle banche il capitale in cerca d ’impiego, diventa nelle mani dello stato una domanda e una possibilità d ’investimento per il capitale. Inoltre, a una grande quantità di domande di merci, modeste, frammen­ tate e non coincidenti nel tempo, che potrebbero essere sod­ disfatte anche dalla produzione mercantile semplice e come tali non interesserebbero l’accumulazione del capitale, su­ bentra la domanda dello stato, una domanda accentrata in una grande, unitaria, compatta potenza. Ma questa presup­ pone per essere soddisfatta un altissimo grado di sviluppo della grande industria, e perciò le condizioni piu favorevoli ai fini della produzione di plusvalore e dell’accumulazione. Infine, sotto forma di commesse militari dello stato, il po­ tere d ’acquisto delle masse consumatrici, cosi concentrato in una grandezza poderosa, viene sottratto all’arbitrio, alle fluttuazioni soggettive del consumo personale, per assume­ re una regolarità quasi automatica, un ritmo di sviluppo co­ stante. D ’altra parte, grazie all’apparato parlamentare legi­ slativo e alla manipolazione della cosiddetta opinione pub­

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blica mediante la stampa, le leve del moto ritmico e automa­ tico della produzione bellica si trovano nelle mani dello stesso capitale. Questo campo specifico dell’accumulazione del capitale sembrerebbe godere di possibilità di espansio­ ne illimitate. Mentre ogni altro allargamento del campo di smercio e della base di operazione del capitale dipende in larga misura da fattori storici, sociali, politici esulanti dalla volontà del capitale, la produzione per il militarismo rap­ presenta un campo la cui regolare e impetuosa espansione sembra radicata nella stessa volontà determinante del capi­ talismo. Le necessità storiche dell’acuità concorrenza mondiale del capitale intorno alle premesse della sua accumulazione si trasformano cosi in un campo di accumulazione di prim’ordine per il capitale medesimo. Quanto piu energica­ mente il capitale si serve del militarismo per assimilarsi i mezzi produttivi e le forze-lavoro di paesi e società non-capitalistici attraverso la politica coloniale e mondiale, tanto piu energicamente il militarismo lavora, nel cuore degli stes­ si paesi capitalistici, per sottrarre agli strati non-capitalistici della sua terra di origine, ai rappresentanti della produzione mercantile semplice, così come alla classe operaia, una per­ centuale sempre maggiore di potere d’acquisto; priva sem­ pre piu i primi delle loro forze-produttive e comprime sem­ pre piu il livello di vita dei secondi, per dare poderoso im­ pulso, a spese di entrambi, all’accumulazione del capitale. Ma da entrambi i lati, le condizioni dell’accumulazione del capitale si tramutano, ad un certo livello, in condizioni del suo tramonto. Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al milita­ rismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero, degli strati non-capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto piu la storia quotidiana dell’accumulazione del capitale sulla scena del mondo si tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rappresen­ tate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione del­ l’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul

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LE CONDIZIONI STORICHE D ELL’ACCUMULAZIONE

terreno economico, esso sia andato ad urtare contro le bar­ riere naturali elevate dal suo stesso sviluppo. Il capitalismo è la prima forma economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca in sé la tendenza immanente ad espandersi in tutto il mondo e ad espellere tutte le altre forme economiche; una forma che non ne tol­ lera altre accanto a sé. Ma è nello stesso tempo la prima che non può esistere da sola, senza altre forme economiche co­ me suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s’infrange con­ tro l’incapacità intrinseca ad essere una forma mondiale di produzione. È una vivente contraddizione storica; il suo moto di accumulazione è insieme l’espressione, la soluzione continua e il potenziamento di un’antitesi interna. A un de­ terminato grado del suo sviluppo, questa contraddizione non può essere risolta altrimenti che dal socialismo - cioè da quella forma economica che è insieme forma mondiale per essenza e sistema in sé armonico, in quanto rivolto non all’accumulazione, ma al soddisfacimento dei bisogni di vita dell’umanità che lavora, mediante lo spiegamento di tutte le forze produttive della terra.

Appendice Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista Una anticritica

I.

Habent sua fata libelli - i libri hanno un loro destino. Mentre scrivevo la mia Accumulazione, mi ossessionava continuamente il pensiero che tutti gli studiosi seguaci del­ la dottrina marxiana avrebbero proclamato perfettamente ovvio quanto mi ero sforzata con tanta cura di chiarire e di­ mostrare. Nessuno - pensavo che avrebbero detto —ha mai pensato diversamente: la soluzione del problema è l’unica possibile. Invece non è andata cosi: una serie di critici del­ la stampa socialdemocratica hanno proclamato che l’impo­ stazione del mio libro è sbagliata da cima a fondo, perché in questo campo non esiste problema da risolvere ed io so­ no rimasta pietosamente vittima di un malinteso. Non solo, ma la pubblicazione del mio libro è stata accompagnata da avvenimenti di cui il meno che si possa dire è che sono inu­ sitati. La «recensione» apparsa sul «Vorw ärts» del 16 feb­ braio 19x3 ha, nel tono e nel contenuto, qualcosa di stupe­ facente anche per il lettore poco addentro nella materia, tanto piu in quanto l’opera criticata ha un puro carattere teo­ rico, non polemizza contro nessun marxista vivente, è di una rigorosa aderenza ai fatti. Come se non bastasse, si svolge nei riguardi di quanti hanno pubblicato recensioni favorevoli del mio libro una specie di azione tutoria, con­ dotta con particolare zelo dall’organo centrale del parti­ to. Cosa strana e un tantino buffa: in questioni puramente teoriche, relative ad argomenti complessi e astrattamente scientifici, l’intera redazione di un giornale politico —di cui al massimo due membri hanno letto il libro - si lanciano in una sua condanna collegiale, negando a uomini come Franz Mehring e J. Karski ogni competenza in questioni economi-

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EPIGONI E TEORIA MARXISTA

che, e promovendo invece a «competenti» solo quelli che l ’hanno demolito. Un simile destino non è mai stato riser­ vato, ch’io sappia, a nessuna primizia della letteratura di partito dal giorno in cui questa esiste, né si direbbe che sia tutto oro e perle ciò che da decenni esce dai torchi della so­ cialdemocrazia. Il carattere eccezionale di questi fatti può soltanto dimostrare che il libro ha toccato passioni del tut­ to diverse dalla «scienza pura». Comunque, per farsene una ragione, occorre conoscere almeno nelle grandi linee i termini della questione. Di che cosa tratta, questo libro cosi aspramente combattuto? Per il gran pubblico, la materia ne è resa ostica da un aspetto esteriore ed accessorio: il largo uso che vi si fa di formule matematiche. Queste formule costituiscono, anzi, il punto centrale delle critiche rivolte al libro, e alcuni dei critici piu severi si sono affannati, per darmi una lezione, a inventar­ ne di ancor piu complicate e originali. Vedremo piu oltre come questa predilezione dei «competenti» per gli schemi non sia affatto casuale, ma si ricolleghi direttamente al loro modo di impostare le questioni. Comunque, il problema dell’accumulazione è in se stesso un problema puramente economico e sociale, non ha a che vedere con formule mate­ matiche, può essere impostato e compreso anche senza for­ mule matematiche. Se Marx, nella sezione del suo Capitale che tratta della riproduzione del capitale sociale totale, ha costruito schemi matematici (allo stesso modo che cento anni prima li aveva costruiti Quesnay, padre della scuola fisiocratica e fondatore dell’economia politica in quanto scienza esatta), ciò doveva servirgli a semplificare e chiarire l’argomentazione, a illustrazione del fatto che i fenomeni della vita economica nella società borghese costituiscono, ad onta dell’intreccio confuso delle sue manifestazioni su­ perficiali e dell’apparente dominio dell’arbitrio individuale, rapporti regolati da leggi altrettanto ferree quanto quelle che reggono i fenomeni fisici. E poiché la mia indagine sul­ l’accumulazione si fondava sulla rappresentazione schema­ tica datane da Marx per sottoporla a critica; poiché Marx non è andato, in merito al problema dell’accumulazione, ol­ tre la fissazione di alcuni schemi e un principio di loro ana­

UNA ANTICRITICA

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lisi, e proprio questo è stato il punto di innesto della mia critica, era naturale che io dovessi ricorrere agli schemi di Marx. Anzitutto, perché non potevo arbitrariamente esclu­ derli dall’esposizione marxiana; in secondo luogo, perché si trattava per me appunto di dimostrarne l’insufficienza. Cerchiamo dunque di cogliere il problema nella sua for­ ma piu semplice, e senza formule matematiche. Il modo di produzione capitalistico è dominato dall’inte­ resse al profitto. Per ogni capitalista la produzione ha senso e scopo solo se gli permette, anno per anno, di riempirsi le tasche di un «utile netto», del profitto, che rimane in ecce­ denza a tutti i suoi investimenti di capitale. Ma la legge fon­ damentale della produzione capitalistica, che la distingue da ogni altra forma economica basata sullo sfruttamento, è non soltanto il profitto in moneta sonante, ma un profitto sempre crescente. A questo scopo il capitalista, anche qui in modo nettamente diverso da qualunque altro tipo stori­ co di sfruttatore, destina il frutto del suo sfruttamento non solo né in prima linea al lusso personale, ma in misura cre­ scente allo sviluppo dello sfruttamento. La maggior parte del profitto ottenuto viene dunque aggiunto al capitale, e fatto servire all’allargamento della produzione. In tal mo­ do il capitale, secondo l’espressione di Marx, si «accumu­ la», e, come premessa e a un tempo conseguenza dell’ac­ cumulazione, la produzione capitalistica si estende sempre piu. Per raggiungere quest’effetto, non basta tuttavia la buo­ na volontà dei capitalisti. Il processo è legato a rapporti so­ ciali obiettivi, che si possono sintetizzare nel modo che se­ gue. Anzitutto, per render possibile lo sfruttamento, è neces­ saria la presenza di una sufficiente massa di forza-lavoro. A questo provvede, una volta storicamente avviato e consoli­ datosi il modo di produzione capitalistico, lo stesso mecca­ nismo di questa produzione: i ) mettendo bene o male i sa­ lariati in condizione di sostentarsi mediante il salario rice­ vuto ai fini dell’ulteriore sfruttamento e di riprodursi per naturale incremento, ma non piu di tanto; 2) costituendo, mediante la continua proletarizzazione dei ceti medi e la

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concorrenza fra macchina e lavoratore nella grande indu­ stria, un esercito di riserva sempre disponibile di proleta­ riato industriale. Soddisfatta questa condizione, cioè assicurata una mate­ ria di sfruttamento sempre disponibile sotto forma di pro­ letari salariati, e regolato mediante lo stesso sistema sala­ riale il meccanismo dello sfruttamento, una nuova condizio­ ne fondamentale dell’accumulazione del capitale si presen­ ta: la possibilità di vendere in un raggio sempre piu largo le merci prodotte dai salariati, per riottenere in denaro sia le somme spese dai capitalisti, sia il plusvalore estorto dalla forza-lavoro. «L a prima condizione dell’accumulazione è che il capitalista sia riuscito a vendere le sue merci e a ritra­ sformare in capitale la maggior parte del denaro cosi rice­ vuto» (Das Kapital, libro I, sez. V II, Introduzione). Affin­ ché l ’accumulazione come processo continuo abbia luogo, è dunque indispensabile al capitale la possibilità sempre cre­ scente di smerciare i suoi prodotti. La prima condizione dello sfruttamento, come si è visto, se la crea lo stesso capitale. Il I libro del Capitale analizza accuratamente e descrive questo processo. Ma e la realizza­ bilità dei risultati dello sfruttamento, le possibilità di smer­ cio? Da che cosa dipendono? È nel potere del capitale o nell’essenza del meccanismo della sua produzione di allar­ gare lo smercio conformemente alle sue esigenze, allo stes­ so modo che adatta alle sue esigenze il numero dei lavora­ tori salariati? La risposta è negativa. Si manifesta qui la dipendenza del capitale dalle condizioni sociali. La produ­ zione capitalistica, pur con le sue fondamentali diversità dalle altre forme storiche di produzione, ha questo in co­ mune con esse, che, sebbene il suo scopo determinante sia, soggettivamente, il puro interesse al profitto, essa deve og­ gettivamente soddisfare i bisogni materiali della società, e può raggiungere quello scopo soggettivo solo se e nella mi­ sura in cui risponde a questo compito obiettivo. Le merci capitalistiche possono essere vendute solo se e in quanto soddisfino i bisogni della società: solo a questa condizione il profitto in esse incorporato può trasformarsi in denaro. Il continuo allargamento della produzione capitalistica, cioè

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la continua accumulazione, è perciò legato ad un altrettan­ to continuo allargamento del fabbisogno sociale. Ma che cos’è il fabbisogno sociale? È qualcosa di esatta­ mente definibile e misurabile, o rimaniamo anche qui nel campo dei concetti vaghi e indefiniti? In realtà, la cosa, vista così come si presenta a tutta pri­ ma alla superficie della vita economica nella sua prassi quo­ tidiana, cioè dall’angolo visuale del capitalista singolo, ap­ pare incomprensibile. Un capitalista produce e vende mac­ chine. Suoi acquirenti sono altri capitalisti, che comprano le sue macchine per produrre, a loro volta, altre merci. Il primo può dunque tanto piu collocare le sue merci, quanto piu i secondi allargano la loro produzione; può tanto piu ra­ pidamente accumulare, quanto piu altri accumulano nei lo­ ro rami di produzione. Qui, dunque, il «fabbisogno socia­ le» cui il nostro capitalista è legato sarebbe il fabbisogno di altri capitalisti; il presupposto dell’allargamento della sua produzione, quello della loro. Un altro produce e vende mezzi di sussistenza per i lavoratori: può tanto piu vender­ li, e perciò accumular capitale, quanti piti lavoratori sono impiegati da altri capitalisti (e da lui stesso), o, in altre pa­ role, quanto piu altri capitalisti producono e accumulano. Da che cosa dipende che gli «altri» possano allargare la loro attività? Ancora una volta, si direbbe, dal fatto che «questi» capitalisti, per esempio i produttori di macchine o di mezzi di sussistenza, comprino in misura crescente le lo­ ro merci. Il «fabbisogno sociale», da cui l’accumulazione del capitale dipende, sembra dunque essere, a primo sguar­ do, l’accumulazione medesima del capitale. Quanto piu il ca­ pitale accumula, tanto piu accumula - è a questa vuota tau­ tologia o a questo circolo vizioso che una piu attenta analisi sembra portarci. Ma dov’è il punto di partenza, l’iniziativa del moto? È chiaro che giriamo su noi stessi; il problema ci sfugge continuamente di mano. Così è infatti, ma solo fin­ ché ci limitiamo a studiarlo dal punto di vista della super­ ficie del mercato, cioè del capitalista singolo, piattaforma prediletta dell’economista volgare ‘. 1 Esempio tipico il recensore del «Vorwärts», G. Eckstein, che, dopo ripetute promesse di erudire il lettore sul fabbisogno sociale corre come un

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Ma la questione prende subito forme e contorni precisi se esaminiamo la produzione capitalistica come un tutto, dal punto di vista del capitale totale, che è anche, in defini­ tiva, l’unico giusto e determinante. È appunto questo che Marx svolge sistematicamente solo nel II libro del Capita­ le, ma che ha posto a base dell’intera sua teoria. L ’esistenza privata e sovrana del capitale singolo è, in realtà, solo la forma esteriore, la superficie della vita economica; solo l’economista volgare può considerarla essenza delle cose e fonte unica della loro comprensione. Al di sotto di questa superficie, e pur attraverso tutte le contraddizioni della con­ correnza, rimane il fatto che i capitali singoli costituiscono socialmente un tutto, che la loro esistenza e il loro moto sono regolati da leggi sociali comuni che solo per effetto della mancanza di un piano e dell’anarchia del sistema vi­ gente si impongono, attraverso continue deviazioni, dietro le spalle dei capitalisti singoli e contro la loro coscienza. Se consideriamo la produzione capitalistica come un tut­ to, anche il fabbisogno sociale diventa una grandezza affer­ rabile, scomponibile nei suoi elementi. Immaginiamo che tutte le merci annualmente prodotte nella società capitalistica vengano riunite in un solo enor­ me mucchio per trovare impiego come massa nella società; e ci accorgeremo subito che questa poltiglia di merci si sud­ divide naturalmente in alcune grandi categorie di diversa natura e destinazione. In ogni forma sociale e in ogni tempo la produzione de­ ve, in un modo o nell’altro, procedere: 1) a nutrire, ve­ stire, soddisfare i bisogni molteplici della società mediante oggetti materiali; cioè, in altre parole, a produrre mezzi di sussistenza in senso lato per la popolazione di ogni condi­ zione ed età; 2) a produrre mezzi di produzione a sostitu­ zione dei consumati (materie prime, attrezzi, fabbricati), per render possibile la sopravvivenza della società, il suo ulteriore lavoro. Senza la soddisfazione di questi due eiegatto dietro la propria coda senza approdare a nulla e concludere che la cosa «non è affatto semplice e chiara». D ’accordo: molto piu semplici e chiare un paio di frasi futili.

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mentari bisogni di ogni società umana, lo sviluppo della ci­ viltà, il progresso, sarebbero impossibili. Anche la produ­ zione capitalistica deve, pur con tutta la sua anarchia e in­ dipendentemente dall’interesse per il profitto, tener esatto conto di queste elementari esigenze. Di conseguenza, nel magazzino generale di merci capita­ listiche da noi immaginato, si troveranno anzitutto un grup­ po di merci a sostituzione dei mezzi di produzione consu­ mati nell’ultimo anno: le nuove materie prime, le macchi­ ne, i fabbricati, ecc. (ciò che Marx chiama «capitale costan­ te»), che i diversi capitalisti producono gli imi per gli altri nelle loro aziende, e che debbono reciprocamente scambiar­ si perché in tutte le aziende la produzione possa essere ri­ presa sulla precedente scala. Poiché (secondo la nostra ipo­ tesi) sono le aziende capitalistiche a fornire tutti i mezzi di produzione richiesti per il processo lavorativo della società, 10 scambio delle merci corrispondenti sul mercato sarà an­ che, per così dire, una pura faccenda interna, domestica, dei capitalisti nei loro reciproci rapporti. Il denaro necessario per mediare in tutti i suoi aspetti lo scambio delle merci esce, naturalmente, dalle tasche della medesima classe capi­ talistica —dovendo ogni capitalista disporre a priori del ca­ pitale-denaro necessario per il proprio esercizio - e, com­ piuto lo scambio, ritorna altrettanto naturalmente dal mer­ cato nelle sue tasche. Poiché fino a questo punto non consideriamo che il rin­ novo dei mezzi di produzione sulla scala precedente, la stes­ sa somma di denaro basta anche, anno per anno, a mediare periodicamente l’approvvigionamento reciproco dei capita­ listi in mezzi di produzione, e ritornare sempre, per un pe­ riodo di riposo, nelle loro tasche. Una seconda grande sezione della massa delle merci ca­ pitalistiche deve, come in ogni società, contenere i mezzi di sussistenza della popolazione. Ma come si articola, nella forma sociale capitalistica, la popolazione, e come ottiene i mezzi per vivere? Due forme fondamentali caratterizzano il modo di produzione capitalistico. Primo: scambio generale di merci, il che significa, in questo caso, che nessuno riceve 11 piu piccolo mezzo di sussistenza dalla massa sociale delle

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merci se non possiede, per il suo acquisto, del denaro. Se­ condo: sistema salariale, cioè un rapporto per cui la gran massa della popolazione lavoratrice ottiene i mezzi di ac­ quisto delle merci solo mediante scambio della forza-lavoro col capitale, e la classe possidente ottiene i suoi mezzi di sussistenza solo mediante sfruttamento di questo particola­ re rapporto. Perciò la produzione capitalistica presuppone di per sé due grandi classi: capitalisti e lavoratori, in posi­ zione radicalmente diversa in rapporto al rifornimento in beni di consumo. I lavoratori, per quanto indifferente sia al capitalista singolo il loro destino personale, devono essere almeno nutriti, nei limiti in cui la loro forza-lavoro è utiliz­ zabile ai fini del capitale, per rimaner disponibili a un ulte­ riore sfruttamento: sulla massa complessiva delle merci da loro prodotte la classe capitalistica destina loro ogni anno una parte di mezzi di sussistenza, nella precisa misura della loro possibilità di impiego nella produzione. Per comprare queste merci i lavoratori ricevono dai loro imprenditori sa­ lari in forma monetaria. Ne segue che, attraverso lo scam­ bio, la classe lavoratrice riceve ogni anno dalla classe capi­ talistica vendendole la propria forza-lavoro, una certa som­ ma di denaro, con cui ritira dalla massa sociale delle merci, proprietà degli stessi capitalisti, la parte di mezzi di sussi­ stenza riservatale a seconda del suo sviluppo civile e del livello raggiunto dalla lotta di classe. Il denaro che media questo secondo grande scambio nella società esce dunque anch’esso dalle tasche dei capitalisti: ogni capitalista deve, per l’esercizio della sua azienda, anticipare quello che Marx chiama «capitale variabile», cioè il capitale-denaro necessa­ rio per l’acquisto della forza-lavoro. Ma questo denaro, ap­ pena i lavoratori hanno acquistato i loro mezzi di sussisten­ za (cosa che ogni lavoratore deve fare per il sostentamento suo e della sua famiglia), riaffluisce fino all’ultimo centesimo nelle tasche dei capitalisti in quanto classe, essendo ancora gli imprenditori capitalisti a vendere come merci ai lavora­ tori i mezzi di consumo. Veniamo ora al consumo dei capi­ talisti medesimi. I mezzi di sussistenza della classe capitali­ stica le appartengono già come massa di merci anteriormen­ te allo scambio, e ciò in forza del particolare rapporto capi­

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talistico per cui tutte le merci —con la sola eccezione della merce forza-lavoro - nascono come proprietà del capitale. E poiché quei mezzi di consumo « di qualità superiore » nasco­ no, proprio perché merci, come proprietà di molti capitalisti privati disseminati, come proprietà privata rispettiva di ogni capitalista singolo, ne segue che la classe capitalistica giunge a godere della massa di beni di consumo ad essa per­ tinenti —esattamente come del capitale costante —median­ te uno scambio reciproco fra capitalisti. Anche questo scam­ bio sociale dev’essere mediato dal denaro, e la quantità di denaro necessaria a questo fine dev’essere gettata a piu ri­ prese in circolazione dai capitalisti, trattandosi, come per il rinnovo del capitale costante, di una faccenda interna, do­ mestica, della classe degli imprenditori. E, come prima, an­ che questa somma ritorna regolarmente, effettuato lo scam­ bio, nelle tasche della classe da cui era uscita. Che ogni anno sia effettivamente prodotta la necessaria quantità di mezzi di consumo con gli articoli di lusso neces­ sari per i capitalisti, è un fatto a cui provvede lo stesso mec­ canismo dello sfruttamento capitalistico che regola il rap­ porto salariale. Se i lavoratori producessero solo quel tanto di mezzi di sussistenza che occorre per mantenerli, la loro occupazione sarebbe, dal punto di vista del capitale, un as­ surdo. Essa comincia ad acquistare un senso solo se il lavo­ ratore provvede, oltre al proprio mantenimento, che corri­ sponde al proprio salario, anche al mantenimento di chi «gli dà il pane», cioè se produce, secondo l’espressione di Marx, del «plusvalore» per i capitalisti. E questo plusvalore deve servire fra l’altro a provvedere la classe capitalistica, come ogni classe sfruttatrice nei precedenti periodi storici, del necessario sostentamento e lusso. Ai capitalisti rimane la particolare cura di provvedere, con lo scambio reciproco delle merci corrispondenti e la preparazione dei mezzi mo­ netari necessari, all’esistenza piena di spine e di rinunce del­ la propria classe, e alla sua naturale riproduzione. Ci saremmo cosi disfatti, per cominciare, di due grandi gruppi della poltiglia sociale di merci : i mezzi di produzio­ ne per il rinnovo del processo lavorativo, e i mezzi di sussi­ stenza per il mantenimento della popolazione —cioè della

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classe lavoratrice da una parte, della classe capitalistica dal­ l ’altra. A tutta prima, può sembrare che, con tutto quanto pre­ cede, noi abbiamo disegnato un quadro puramente fantasti­ co. Come fa un capitalista a sapere oggi (e qual è il capitali­ sta che se ne preoccupa? ) che cosa e quanto sia necessario alla sostituzione del capitale totale consumato e al mante­ nimento dell’intera classe dei lavoratori o dei capitalisti? Ogni imprenditore produce alla cieca, in concorrenza con altri, e vede solo ciò che gli passa davanti al naso. Senonché, pur nell’intrico della concorrenza, pur nell’anarchia ge­ nerale, esistono evidentemente leggi invisibili ma rigorose; altrimenti, la società capitalistica sarebbe da tempo in fran­ tumi. Tutto il senso dell’economia in quanto scienza e, in particolare, lo scopo cosciente della dottrina economica marxiana, sta nella determinazione delle leggi nascoste che condizionano l’ordine e l’unità del complesso sociale per entro la confusione delle economie private. Si tratta ora di scoprire queste invisibili norme obiettive dell’accumulazio­ ne del capitale - accumulazione del capitale mediante allar­ gamento della produzione. Dal fatto che queste leggi da noi formulate non sono, per il modo di agire cosciente dei capitalisti singoli, normative, e che non esiste un organo ge­ nerale della società incaricato di stabilire coscientemente e mettere in opera queste leggi, segue soltanto che l ’attuale produzione assolve il proprio compito al modo dei sonnam­ buli, attraverso un eccesso o un difetto, per entro continue oscillazioni dei prezzi e crisi. Ma queste oscillazioni dei prezzi e queste crisi hanno per la società, in ultima analisi, appunto il senso di ricondurre la caotica produzione priva­ ta, di ora in ora e di periodo in periodo, sui binari dei gran­ di rapporti generali senza i quali essa società si dissolvereb­ be. Quando perciò si cerca, con Marx, di tracciare a grandi linee il rapporto fra produzione totale capitalistica e fabbi­ sogno sociale, si prescinde dai metodi specifici (oscillazioni dei prezzi e crisi) mediante i quali il capitalismo lo realizza, e si affronta la questione alle radici. Non ci si può tuttavia accontentare di questa prima e sommaria suddivisione della massa sociale delle merci. Se

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lo sfruttamento dei lavoratori servisse unicamente a per­ mettere agli sfruttatori una vita di sfarzo, avremmo una specie di società schiavistica rimodernata o un regime feu­ dale medievale, non il dominio moderno del capitale. Lo scopo e la missione dello sfruttamento capitalistico è il pro­ fitto in forma monetaria, l’accumulazione di capitale-dena­ ro. Lo specifico senso storico della produzione comincia dun­ que là dove lo sfruttamento varca quei confini. Il plusvalo­ re deve non solo bastare a permettere alla classe capitalisti­ ca un’esistenza «conforme al suo grado», ma contenere in piu una parte destinata all’accumulazione. Questo scopo specifico ha un peso cosi schiacciante, che i lavoratori sono impiegati (e perciò anche messi in condizione di procurarsi i mezzi di sussistenza) solo nella misura in cui producono questo profitto accumulabile, ed esiste la reale prospettiva di accumularlo in forma monetaria. Dunque, nel magazzino di merci da noi immaginato, do­ vremo trovare anche un terzo gruppo di merci non destina­ te né al rinnovo dei mezzi di produzione consumati né al mantenimento degli operai o della classe capitalistica, mer­ ci contenenti la percentuale inestimabile di plusvalore estorto ai lavoratori, che rappresenta il vero obiettivo del ca­ pitale: il profitto destinato alla capitalizzazione, all’accu­ mulazione. Che specie di merci sono queste e chi, nella so­ cietà, ne ha bisogno; cioè chi le acquista dai capitalisti per aiutarli a trasformare in denaro la parte principale del pro­ fitto? Siamo cosi giunti al nocciolo del problema dell’accumu­ lazione, e dobbiamo esaminare i diversi tentativi di risol­ verlo. Possono essere i lavoratori ad acquistare l’ultima aliquo­ ta di merci del magazzino sociale? Ma i lavoratori non di­ spongono di mezzi di acquisto oltre i salari loro passati da­ gli imprenditori, e prelevano, nella misura di questi salari, solo la parte ad essi strettamente destinata del prodotto so­ ciale totale. Al di sopra di questo limite non possono essere acquirenti neppure per un centesimo di merci capitalistiche, anche se non tutti i loro bisogni vitali sono stati soddi­ sfatti. Inoltre, lo sforzo e l’interesse della classe capitalistica

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tendono a calcolare al minimo, non al massimo, la parte del prodotto sociale totale consumata dai lavoratori e i mezzi di acquisto a tal fine necessari. Infatti, dal punto di vista dei capitalisti come classe —è molto importante tener sempre presente questo punto di vista nella sua distinzione dagli orizzonti limitati del capitalista singolo —i lavoratori non so­ no, per essa, acquirenti di merci, «clienti» come altri, ma pura forza-lavoro, il cui mantenimento con una parte del loro prodotto è solo una triste necessità, da ridurre al mini­ mo socialmente consentito nelle circostanze specifiche del momento. Possono, d ’altra parte, essere gli stessi capitalisti gli ac­ quirenti di quell’ultima porzione della massa sociale delle merci, allargando il proprio consumo personale? La cosa sa­ rebbe forse possibile, sebbene, anche senza questo espe­ diente, al lusso della classe dominante e alle sue follie si provveda già con larghezza. Ma il fatto è che, se i capitalisti divorano senza residui l’intero plusvalore estorto ai lavora­ tori, l’accumulazione si riduce a zero. Avremmo allora, dal punto di vista del capitale, una fantastica ricaduta nell’eco­ nomia schiavista, o nel feudalesimo. L ’inverso è bensì pen­ sabile, e a volte lo si pratica con entusiasmo: accumula­ zione capitalistica con forme di sfruttamento tipiche dello schiavismo o della servitù della gleba si sono potute osser­ vare fino al 1860-70 negli Stati Uniti, e ancor oggi in Ro­ mania e in diverse colonie transoceaniche. Ma il caso oppo­ sto - una forma moderna di sfruttamento, e perciò un siste­ ma salariale libero, con successivo sperpero del plusvalore a totale scapito dell’accumulazione —, questo peccato mor­ tale contro lo spirito santo del capitale è inconcepibile. An­ che qui, si badi bene, il punto di vista del capitale totale si distingue in modo decisivo da quello dell’imprenditore singolo. A quest’ultimo, per esempio, anche il lusso delle «grandi baronie» appare come un auspicato allargamento dello smercio, come un’occasione di prim’ordine per accu­ mulare. Ma all’insieme dei capitalisti come classe, il consu­ mo dell’intero plusvalore in lusso è pura follia, suicidio economico, perché distrugge l’accumulazione alle radici. Chi dunque può essere l’acquirente, il consumatore della

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parte di merci socialmente prodotte, la cui vendita permet­ te essa sola l’accumulazione? Una cosa è finora chiara: non possono esserlo né lavoratori né capitalisti. Ma non vi sono nella società un insieme variopinto di strati sociali, impiegati, ufficiali dell’esercito, preti, profes­ sori, artisti, non calcolabili né come lavoratori né come im­ prenditori? Non devono anche queste categorie della popo­ lazione soddisfare i propri bisogni di consumo, e non pos­ sono perciò essere i tanto ricercati acquirenti dell’ecceden­ za di merci? La risposta è ancora una volta: per il capitali­ sta singolo senza dubbio! Ma non cosi se consideriamo tutti gli imprenditori in quanto classe, il capitale sociale totale. Nella società capitalistica, tutti gli strati e le professioni in­ dicate non sono, economicamente, che appendici della clas­ se capitalistica. Se ci chiediamo da dove gli impiegati, uffi­ ciali, preti, artisti ecc. derivino i loro mezzi di acquisto, constatiamo che li ricevono in parte dai capitalisti, in parte (attraverso il sistema delle imposte indirette) dai lavorato­ ri. Ne risulta che, dal punto di vista economico, questi ceti non possono rappresentare, per il capitale totale, una classe indipendente di consumatori: essi non hanno una sorgente autonoma di potere di acquisto, ma, come condivoratori dei capitalisti e dei salariati, sono già compresi nel consumo di entrambi. Impossibile, dunque, fino ad ora, trovare acquirenti; im­ possibile metter le mani su quell’uno che, acquistando l ’ul­ tima aliquota di merci, consenta l ’accumulazione. Ma, alla lunga, la difficoltà non sembra difficile da risol­ vere. Forse siamo come quel tal cavaliere che andava dispe­ ratamente in cerca del cavallo cui era in sella. Forse i capi­ talisti sono reciproci acquirenti anche di quel residuo di merci —non per scialarle, ma per impiegarle ad allargare la produzione, ad accumulare. Che cos e, infatti, accumulazio­ ne, se non allargamento della produzione? ora, per rispon­ dere a questo scopo, quelle merci devono consistere non in oggetti di lusso per il consumo privato dei capitalisti, ma in mezzi di produzione di ogni genere (nuovo capitale co­ stante) e in mezzi di sussistenza per lavoratori. Ottimamente. Ma è una soluzione che si limita a sposta-

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re la difficoltà da un piano a un altro. Giacché, una volta ammesso che l’accumulazione si sia compiuta e la produ­ zione allargata getti sul mercato l ’anno successivo una mas­ sa di merci molto maggiore che in questo, risorge la doman­ da: dove troveremo allora gli acquirenti di questa massa cresciuta di merci? Se si risponde: Be’, questa massa cresciuta di merci sarà, nel prossimo anno, nuovamente scambiata fra loro dai capi­ talisti, e impiegata da tutti ad allargare ulteriormente la produzione —e così via di anno in anno - , eccoci davanti a una giostra che gira su se stessa nel vuoto. Non si ha allora accumulazione capitalistica, cioè accumulazione di capitaledenaro, ma l’inverso: produzione di merci per amore della produzione, cioè, dal punto di vista del capitale, un assurdo completo. Se i capitalisti come classe sono essi stessi gli ac­ quirenti della loro intera massa di merci - prescindendo dal­ la parte che devono destinare al mantenimento della classe lavoratrice - , se si vendono reciprocamente le merci col proprio denaro, e così «monetizzano» il plusvalore in esse contenuto, l’accumulazione del profitto da parte dei capita­ listi diventa impossibile. Se questa deve verificarsi, bisognerà dunque trovare altri acquirenti per il gruppo di merci in cui il plusvalore desti­ nato all’accumulazione si annida, acquirenti che traggano i loro mezzi di acquisto da fonti autonome invece di riceverli dalle tasche dei capitalisti come avviene per i lavoratori e per i collaboratori del capitale —impiegati statali, militari, clero, professioni liberali; acquirenti i quali vengano in pos­ sesso dei propri mezzi di acquisto sulla base di uno scam­ bio e perciò di una produzione di merci che si svolgono al di fuori della produzione mercantile capitalistica; produtto­ ri i cui mezzi di produzione non possano essere considerati come capitale, e che non appartengano alle due categorie dei capitalisti e dei lavoratori ma abbiano bisogno in un modo o nell’altro di merci capitalistiche. Ma dove si trovano questi acquirenti? All’infuori dei ca­ pitalisti col loro seguito di parassiti non vi sono, nella so­ cietà moderna, altre classi o ceti! Siamo così giunti al nodo della questione. Nel II, come

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anche nel I libro del Capitale, Marx parte dal presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva for­ ma di produzione. Dice nel I libro: «Astraiamo qui dal commercio estero, mediante il quale una nazione può con­ vertire articoli di lusso in mezzi di produzione o di sussi­ stenza. Per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purez­ za, libero da circostanze perturbanti accessorie, dobbiamo considerare tutto il mondo commerciale come una nazione e presupporre che la produzione capitalistica si sia imposta dovunque e abbia conquistato tutti i rami dell’industria» (p. 544, nota 2ia). E nel II: «A l di fuori di questa classe [capitalistica] non esiste secondo la nostra ipotesi - domi­ nio generale ed esclusivo della produzione capitalistica —al­ tra classe che la lavoratrice» (p. 321). In queste condizioni è chiaro che nella società attuale non esistono che i capita­ listi con la loro appendice e i salariati, impossibile trovare altri ceti, altri produttori e consumatori di merci, e l’accu­ mulazione capitalistica, come ho cercato di rappresentarla, si trova posta davanti al problema insolubile di cui parla­ vamo. Gira e rigira, finché si rimane fissi all’ipotesi che nella so­ cietà non esistano strati al di fuori dei capitalisti e dei lavo­ ratori, riesce impossibile ai capitalisti come classe di smalti­ re le loro merci eccedenti per trasformare il plusvalore in denaro e cosi accumulare capitale. Ma l’ipotesi marxiana è solo un’astrazione teorica desti­ nata a semplificare e facilitare l’indagine. In realtà, la pro­ duzione capitalistica, come tutti sanno e come lo stesso Marx mette in rilievo nel Capitale, non è affatto l’unica, né il suo dominio è esclusivo e totale. In realtà, in tutti i pae­ si capitalistici, anche in quelli a grande industria altamente sviluppata, esistono, accanto alle imprese capitalistiche, nell’artigianato e nell’agricoltura, numerose aziende artigiane e contadine fondate sulla produzione semplice delle merci. In realtà, accanto ai vecchi paesi capitalistici, esistono an­ che in Europa paesi in cui la produzione contadina e arti­ giana è tuttora prevalente, come la Russia, i Balcani, i paesi scandinavi, la Spagna. Infine, accanto all’Europa e all’Ame­ rica del Nord capitalistiche, esistono giganteschi continenti

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nei quali la produzione capitalistica ha appena cominciato a metter radici in piccoli punti sparsi, mentre per il resto i lo­ ro popoli presentano tutte le forme economiche possibili, dalla comunistica primitiva alla feudale, contadina, artigia­ na. Tutte queste forme sociali e produttive vivono e sono vissute non soltanto in pacifica contiguità spaziale col capi­ talismo, ma fin dall’inizio dell’era capitalistica si è sviluppa­ to fra loro e il capitale europeo un attivo e particolare ri­ cambio organico. La produzione capitalistica, come pura produzione di massa, conta su acquirenti di origine conta­ dina e artigiana dei vecchi paesi e su consumatori di tutti gli altri, e a sua volta non può fare tecnicamente a meno di prodotti di questi strati e paesi (siano essi mezzi di produ­ zione o mezzi di consumo). Perciò, fin dall’inizio si svolse fra la produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio plusvalore ai fini di un’ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di rifornirsi di tutte le merci necessarie per l’allargamento della sua produ­ zione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletariz­ zate mediante la decomposizione violenta di forme di pro­ duzione non-capitalistiche. Ma questo non è che il nudo contenuto economico del rapporto. Il suo manifestarsi concreto nella realtà costitui­ sce il processo storico dello sviluppo del capitalismo sull’a­ rena mondiale in tutto il suo variopinto e mobile atteg­ giarsi. Anzitutto, lo scambio del capitale col suo ambiente non­ capitalistico urta contro le difficoltà dell’economia naturale, dei rapporti sociali consolidati e dei bisogni ristretti dell’e­ conomia contadina patriarcale e artigiana. Per vincerle, il capitale ricorre a «mezzi eroici», alla scure della violenza politica. Nella stessa Europa, il suo primo gesto è il supe­ ramento rivoluzionario dell’economia naturale feudale. Nei paesi transoceanici, il soggiogamento e la distruzione delle comunità tradizionali è il primo atto di nascita storico-mon­ diale del capitalismo e, in seguito, il fenomeno destinato ad accompagnare in modo continuo l ’accumulazione. Attraver­ so l’erosione dei rapporti primitivi dell’economia naturale,

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contadina, patriarcale, di quei paesi, il capitale europeo ne apre le porte allo scambio delle merci e alla produzione mer­ cantile, trasforma i loro abitanti in acquirenti di merci capi­ talistiche, e nello stesso tempo accelera la propria accumu­ lazione appropriandosi direttamente masse di materie pri­ me e di ricchezze tesaurizzate dai popoli soggetti. Fin dall’i­ nizio del secolo xix, si accompagna a questi metodi l’espor­ tazione del capitale accumulato dall’Europa verso i paesi non-capitalistici delle altre parti del mondo, dove esso tro­ va su un nuovo terreno, sulle macerie delle forme di produ­ zione indigene, un nuovo raggio di acquirenti delle proprie merci e perciò un’ulteriore possibilità di accumulazione. Così, grazie all’azione reciproca su strati sociali e paesi non-capitalistici, il capitalismo si estende sempre piu, accu­ mulando a loro spese ma, nello stesso tempo, erodendoli e scacciandoli per occuparne il posto. Senonché, quanti piu paesi capitalistici partecipano a questa caccia a territori di accumulazione, quanto piu ristrette sono le zone di produ­ zione non-capitalistica ancora aperte alla espansione mon­ diale del capitale, quanto piu si inasprisce la lotta di concor­ renza per quei campi di accumulazione, tanto piu le scorri­ bande del capitale sulla scena del mondo si trasformano in una catena di catastrofi economiche e politiche: crisi mon­ diali, guerre, rivoluzioni. Ma attraverso questo processo il capitale prepara in du­ plice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non-capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l’intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati e perciò un’ulteriore espansione e quindi accumulazione risulterà impossibile; dall’altra, nella misura in cui questa tendenza s’impone, acuisce a tal punto i contrasti di classe e l’anarchia economi­ ca e politica internazionale che, prima ancora che l’ultima conseguenza dello sviluppo economico —il dominio assolu­ to e indiviso della produzione capitalistica nel mondo - sia raggiunta, dovrà provocare la rivolta del proletariato inter­ nazionale contro la persistenza della dominazione capitali­ stica. Questo, in breve, il problema, e la sua soluzione come io

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la vedo. A primo aspetto, può sembrare un’elucubrazione puramente teorica. Tuttavia, l’importanza pratica del pro­ blema è chiara, perché si ricollega al fatto piu saliente della vita politica attuale: l ’imperialismo. Universalmente note sono ormai le manifestazioni esterne tipiche del periodo im­ perialistico; lotta di concorrenza fra stati capitalistici per le colonie, le sfere d ’interessi, i campi d ’investimento del ca­ pitale europeo; sistema dei prestiti internazionali; militari­ smo; protezionismo doganale; ruolo dominante del capi­ tale finanziario e dell’industria cartellizzata nella politica mondiale. Il loro legame con l ’ultima fase dell’evoluzione capitalistica, la loro importanza per l ’accumulazione del ca­ pitale, sono ormai cosi evidenti, che li riconoscono sia i rap­ presentanti sia gli avversari dell’imperialismo. Ma la socialdemocrazia non può accontentarsi di questo riconoscimento empirico. Si tratta per essa di determinare in forma esatta le leggi economiche di questo intreccio di fenomeni, scopri­ re la radice vera del grande e variopinto insieme di manife­ stazioni dell’imperialismo, giacché, come sempre in casi si­ mili, solo la esatta comprensione teorica del problema può dare anche alla nostra prassi nella lotta contro l’imperiali­ smo la sicurezza, lucidità e forza d ’urto che la politica del proletariato esige. Lo sfruttamento, il pluslavoro, il profit­ to erano fatti noti anche prima che uscisse il Capitale di Marx. Ma solo l ’esatta teoria del plusvalore e della sua for­ mazione, della legge del salario e dell’esercito industriale di riserva, sviluppata da Marx sulla base della teoria del valo­ re, poteva dare alla prassi della lotta di classe la sua ferrea base, la base sulla quale il movimento operaio tedesco e, sulle sue orme, internazionale si sviluppò fino alla grande guerra. Che da sola la teoria non basti, che alla piu bella teoria si possa accompagnare la pratica piu miseranda, lo dimostra l’attuale sfacelo della socialdemocrazia tedesca. Ma questo sfacelo si è verificato non per conseguenza ma a dispetto delle conquiste teoriche del marxismo, e lo si po­ trà superare alla sola condizione di rimettere la prassi del movimento operaio in accordo con la sua teoria. E come in generale, cosi in ogni settore importante della lotta di clas­ se, una solida base della nostra politica può essere attinta

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solo alla teoria di Marx, ai molti e insuperati tesori della sua opera fondamentale. Che la spiegazione delle radici economiche dell’imperia­ lismo debba essere, in particolare, derivata dalle leggi del­ l’accumulazione del capitale e con queste armonizzata, non v ’è dubbio, posto che l ’imperialismo nel suo insieme non è, ad una considerazione generale empirica, se non uno speci­ fico metodo di accumulazione. Ma come riuscirvi, finché si rimane acriticamente alle premesse del II libro del Capita­ le, fatte apposta per una società in cui la produzione capi­ talistica è l’unica, e l’intera popolazione consiste di soli ca­ pitalisti e salariati? Per quanto si possano piu esattamente determinare le molle economiche interne dell’imperialismo, una cosa è in­ tanto chiara e universalmente riconosciuta: la sua essenza consiste nell’espansione del dominio del capitale dai vecchi paesi capitalistici a territori nuovi, e nella concorrenza eco­ nomica e politica fra quelli per la conquista di questi. Ma, come s’è visto, nel II libro Marx suppone che il mondo in­ tero sia ormai «una nazione capitalistica», che tutte le al­ tre forme sociali ed economiche siano già scomparse. Come spiegare l’imperialismo in una società che non gli concede piu spazio? Qui ho creduto di dover innestare la mia critica. L ’ipote­ si teorica di una società composta esclusivamente di capita­ listi e lavoratori, perfettamente giustificata per determinati scopi dell’indagine - come, nel I libro del Capitale, l’anali­ si del capitale singolo e delle sue pratiche di sfruttamento nella fabbrica - , mi parve insufficiente e perturbante nell’a­ nalisi dell’accumulazione del capitale sociale totale. Poiché questa rappresenta l’effettivo processo storico dell’evolu­ zione capitalistica, riesce secondo me impossibile compren­ derla se si prescinde da tutte le condizioni di questa realtà storica. L ’accumulazione del capitale come processo storico si compie, dal principio alla fine, all’interno di un ambiente di diverse formazioni precapitalistiche, si apre una via nella lotta politica costante e in un gioco perenne di azioni e rea­ zioni economiche con esse. Come dunque abbracciare que­ sto processo e comprenderne le leggi interne di sviluppo,

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in una finzione teorica priva di vita che nega l’esistenza di questo ambiente, di questa lotta, di queste azioni e rea­ zioni? A questo punto, pare a me necessario, nello spirito della teoria marxiana, abbandonare il presupposto del I libro del Capitale, che ivi ha reso servizi preziosi, e porre l’analisi dell’accumulazione come processo d ’insieme sulla base con­ creta del ricambio organico fra il capitale e il suo ambiente storico. Solo cosi è possibile spiegare il processo partendo dalle teorie fondamentali di Marx, e in completa aderenza con le altre parti della sua opera principale. Del resto, Marx ha posto il problema dell’accumulazione del capitale totale senza rispondervi; ha accettato come pre­ supposto della sua analisi una società puramente capitalisti­ ca, ma non solo non ha condotto a termine l’analisi su que­ sta base, ma l’ha interrotta proprio su questa questione car­ dinale. Ha, per dare una rappresentazione palpabile della sua concezione, elaborato alcuni schemi matematici, ma ne aveva appena cominciato l’applicazione a possibilità sociali pratiche e la verificazione da tale punto di vista, quando la malattia prima e la morte poi gli strapparono di mano la penna. La soluzione di questo come di altri problemi era ri­ masta in eredità ai suoi discepoli, e la mia Accumulazione doveva essere un tentativo in questo senso. La soluzione da me sottoposta poteva essere giudicata giusta o sbagliata, la si poteva criticare, combattere, com­ pletare, sostituire con un’altra. Nulla di tutto questo è av­ venuto. Qualcosa di inatteso si è verificato: i «competen­ ti» hanno dichiarato che non esisteva nessun problema da risolvere! Le argomentazioni svolte da Marx nel II libro del Capitale sono - hanno detto - una spiegazione sufficien­ te dell’accumulazione, gli schemi ivi presentati mostrano chiaro e tondo che il capitale può magnificamente crescere e la produzione allargarsi anche se nel mondo non esiste che la produzione capitalistica: questa è il mercato di sboc­ co di se stessa, e solo la mia totale incapacità di afferrare Tabe degli schemi di Marx poteva sviarmi al punto da ve­ derci un problema!

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Si pensi: È vero che nell’economia politica il problema dell’accu­ mulazione, della possibilità di realizzare il plusvalore, si di­ batte ormai da un secolo: nel terzo decennio del secolo scorso, nelle polemiche fra Sismondi e Say-Ricardo-MacCulloch; nel sesto, nella controversia fra Rodbertus e v. Kirchmann; fra l’8o e il 1900, nelle discussioni fra «populisti» e marxisti russi. Prima e dopo la pubblicazione del Capitale, i piu eminenti teorici dell’economia politica in Francia, In­ ghilterra, Germania, Russia, hanno dibattuto a piu riprese la questione: dovunque, sotto l’impulso di un’aspra critica sociale, pulsava nell’economia politica una vita spirituale intensa, il problema non dava pace agli studiosi. È vero che il I I libro del Capitale non è, come il I, un’o­ pera compiuta ma un torso, una riunione slegata di fram­ menti e schizzi piu o meno sviluppati, sul genere di quelli che uno studioso butta sulla carta ad uso personale; un’o­ pera la cui rielaborazione fu impedita e infine interrotta dal­ le condizioni di salute dell’autore. Soprattutto l’analisi del­ l’accumulazione del capitale totale, di cui qui si discute, è, come ultimo capitolo del manoscritto, la meno riuscita: su 450 pagine complessive, essa non occupa che 35 pagine, e s’interrompe a metà. È vero che quest’ultima parte del volume era considera­ ta dallo stesso Marx, secondo la testimonianza di Engels, bisognosa di rielaborazione, e rimase, sempre secondo lo stesso testimone, «non piu di una trattazione preliminare dell’argomento». Si pensi come, nel corso della sua analisi, Marx riponga di continuo il problema della realizzazione del plusvalore, sollevi in forma sempre diversa i suoi dub­ bi, e confermi per ciò stesso la difficoltà e gravità della que­ stione. È vero che fra i presupposti del breve frammento alla fi­ ne del I I libro dove è trattata l’accumulazione, e le consi­ derazioni svolte nel I I I a proposito del «movimento d ’in­ sieme del capitale» (oltre che fra quelli e numerose e im­ portanti leggi del I libro) si rivelano aperti contrasti, ai quali mi riferisco piu volte nel mio studio. È vero che la spinta impetuosa della produzione capita-

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listica verso paesi non-capitalistici, fin dal suo primo appa­ rire sulla scena della storia, percorre come un filo rosso tut­ to il suo sviluppo e prende via via importanza fino ad appa­ rire, nell’ultimo quarto di secolo, nella fase dell’imperialismo, il fattore determinante e dominante della vita sociale. È vero che tutti sanno che non è mai esistito né esiste oggi un paese a produzione esclusivamente capitalistica, con soli capitalisti e salariati. La società sulla quale sono modellati i presupposti del II libro del Capitale non esiste, nella realtà, in nessun luogo. Tutto questo è vero, ma i «competenti» ufficiosi in mar­ xismo dichiarano: un problema dell’accumulazione non esi­ ste; tutto è già stato definitivamente risolto da Marx! La stranezza del presupposto dell’accumulazione nel II libro non li ha mai turbati, non si erano neppure accorti che fos­ se una stranezza! Ed ora che qualcuno richiama la loro at­ tenzione sul problema, trovano che quella stranezza è per­ fettamente normale, vi si aggrappano testardamente e sca­ gliano fulmini contro chi vuol vedere un problema là dove il marxismo ufficiale si era per decenni trovato perfettamen­ te a suo agio! È questo un così grossolano caso di epigonismo, che se ne può trovare il parallelo solo in un aneddoto corrente nel­ la cerchia dei dotti di professione: la storia del cosiddetto «spostamento di pagina» nei Prolegomena di Kant. Per un secolo ci si arrovellò, nel mondo filosofico, intor­ no ai molti indovinelli della teoria kantiana e in particola­ re dei Prolegomena; e nell’interpretazione del pensiero di Kant si formarono intere scuole dilaniantisi a vicenda, fin­ ché il professor Vaihinger risolse nel modo piu semplice di questo mondo almeno uno fra i piu oscuri di quegli indovi­ nelli, dimostrando come una parte del par. IV, che fa a pu­ gni col resto del capitolo, appartenesse in realtà al par. II, dal quale era stato staccato per un errore di stampa nell’e­ dizione originale. La cosa appare oggi chiara anche a un let­ tore comune. Non cosi ai dotti professionali, che per un se­ colo costruirono profonde teorie su un errore di stampa né mancò chi, come un erudito professore di Bonn, si affannò a dimostrare sdegnato in quattro articoli dei «Philosophi-

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sche Monatshefte», che il «presunto spostamento di pagi­ na» non esisteva affatto, che proprio l’errore di stampa met­ teva in luce il vero e autentico Kant, e che vedervi uno sba­ glio significava non aver afferrato il nocciolo della filosofia kantiana. Suppergiù allo stesso modo i «competenti» si aggrappa­ rono al presupposto del II libro del Capitale di Marx e agli schemi matematici su di esso costruiti. Il dubbio fondamen­ tale della mia critica è che, nella questione dell’accumula­ zione, gli schemi matematici non possano dimostrare nulla, essendo il loro presupposto storico insostenibile: per tutta risposta mi si dice che, poiché gli schemi filano via lisci, il problema dell’accumulazione è bell’e risolto, anzi non esi­ ste affatto! Ed ecco un esempio del culto ortodosso delle formule. Nella «Neue Zeit», Otto Bauer affronta il problema da me posto: come si realizza il plusvalore. Costruisce quattro grandi tabelle di cifre, in cui non gli bastano neppure le lettere latine delle quali Marx si servì a indicare in forma abbreviata capitale costante e variabile. Le sue tabelle ri­ sultano perciò ancor più ostiche di tutti gli schemi del Ca­ pitale. Con quest’apparato, Bauer pretende di spiegare co­ me i capitalisti, dopo rinnovato il capitale consumato, col­ lochino l’eccedenza di merci in cui si annida il plusvalore destinato alla capitalizzazione: «M a oltre a ciò [una volta sostituiti i vecchi mezzi di produzione] i capitalisti voglio­ no impiegare il plusvalore accumulato nel primo anno al­ l’allargamento degli impianti esistenti o alla creazione di nuovi. Se il prossimo anno vogliono impiegare un capitale aumentato a 12 500, devono già quest’anno costruire nuovi reparti, comprare nuove macchine, aumentare le loro riser­ ve di materie prime ecc.» («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 863). Il problema sarebbe cosi risolto. Se « i capitalisti voglio­ no» allargare la loro produzione, è ovvio che avranno biso­ gno di più mezzi di produzione, e sono perciò acquirenti a vicenda delle proprie merci. Inoltre, avranno bisogno di più lavoratori e, per questi lavoratori, di più mezzi di sussi­ stenza, che producono essi stessi. Così l’intera eccedenza di

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mezzi di produzione e di consumo è collocata, e l’accumula­ zione può verificarsi. Come si vede, tutto dipende dal fatto che i capitalisti «vogliano» intraprendere un allargamento della produzione. E perché non dovrebbero volerlo? Cer­ to che lo «vogliono»! Bauer esclama trionfalmente: «Cosi, l ’intero valore della produzione delle due sfere, e perciò an­ che il plusvalore, sono realizzati», e ne conclude: «Allo stesso modo ci si può convincere, in base alla tabella IV, che non solo nel primo, ma in qualunque anno successivo, l’intero valore della produzione delle due sfere è collocato senza inconvenienti, e l’intero plusvalore realizzato. L ’ipo­ tesi della compagna Luxemburg, che la parte di plusvalore accumulato non possa realizzarsi, è perciò falsa» [ibid., p. 866 ). Bauer non si è accorto che per arrivare a questo brillante risultato non occorrevano tanti e complessi calcoli con quat­ tro tabelle dalle formule lunghe e larghe, racchiuse fra parentesi e allineate su quattro piani. Il risultato al quale giunge non risulta dalle sue tabelle: è semplicemente pre­ supposto. Bauer ammette a priori ciò che doveva essere di­ mostrato: la sua «dimostrazione» si riduce a questo. Se i capitalisti vogliono allargare la produzione, e preci­ samente di quanto possiedono in capitale addizionale, basta che investano questo capitale addizionale nella loro stessa produzione (ammesso, naturalmente, che producano tutti i mezzi di produzione e i mezzi di consumo necessari!), e non resta loro alcuna eccedenza invendibile di merci: nulla di piu semplice, e non si vede che bisogno ci sia di tutto quell’armamentario di formule, con lettere greche e latine, per «dimostrare» una cosa così ovvia. Ma la questione era se i capitalisti, che indubbiamente «vogliono» sempre accumulare, possano anche farlo, cioè se trovino e dove trovino un mercato di sbocco sempre cre­ scente alla loro produzione allargata. A questo problema non possono rispondere operazioni aritmetiche con cifre fit­ tizie allineate su un pezzo di carta, ma solo l’analisi dei rap­ porti economico-sociali della produzione. Dite un po’ ai «competenti»: «sta bene che i capitalisti “ vogliano” allargare la loro produzione; ma a chi vende-

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ranno la massa così allargata di merci?», e vi sentirete ri­ spondere: « i capitalisti riacquisteranno essi stessi le masse crescenti di merci per le loro imprese, giacché “ vogliono” allargare sempre piu la loro produzione»! « E chi acquisti i prodotti, lo mostrano appunto gli sche­ m i», dichiara con frase lapidaria il recensore del «V or­ wärts», G. Eckstein E sia: i capitalisti allargano ogni an­ no la produzione esattamente di quanto hanno «risparmia­ to» in plusvalore, sono i loro propri acquirenti, il mercato di sbocco non offre loro preoccupazioni di sorta. È quest"affermazione il punto di partenza dell’intera «dimostra­ zione». Ma essa non solo non ha bisogno di formule mate­ matiche, ma non può essere assolutamente dimostrata con formule. La stessa ingenua convinzione che formule mate­ matiche possano dimostrare il punto centrale del problema, la possibilità economica di una simile accumulazione, è il piu goffo equivoco delle vestali «competenti» del marxi­ smo, e basta a far fremere Marx nella tomba. Marx non si è mai sognato di presentare le proprie for­ mule matematiche come una dimostrazione che l’accumula­ zione sia realmente possibile in una società composta unica­ mente di capitalisti e lavoratori. Marx ha studiato il mecca­ nismo interno della produzione capitalistica, e ha stabilito alcune leggi economiche sulle quali il suo processo si fonda. Ragionò suppergiù così: perché l’accumulazione del capitale totale, cioè nell’insieme della classe capitalistica, abbia luo­ go, è necessario che fra le due grandi sezioni della produzio­ ne sociale - produzione di mezzi di produzione e produzio­ ne di mezzi di sussistenza —esistano certi e ben determinati rapporti quantitativi. Solo se questi rapporti vengono osser­ vati, in modo che una delle due grandi sezioni della produ­ zione lavori costantemente per l’altra e viceversa, solo al­ lora l’allargamento crescente della produzione e, contem­ poraneamente —che è lo scopo di tutto —, la crescente accu-1 1 Analogamente, A. Pannekoek nella «Bremer Bürgerzeitung» del 29 gennaio 1913: «La risposta la dà lo stesso schema nel modo piu semplice, giacché tutti i prodotti vi [cioè sulla carta della “ Bremer Bürgerzeitung ” ] trovano smercio. Acquirenti sono gli stessi capitalisti e lavoratori... Non esi­ ste dunque problema da risolvere».

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mulazione del capitale nelle due sezioni, possono svolgersi senza inciampo. Per esporre in forma chiara questo suo con­ cetto, Marx costruisce un esempio matematico, uno schema a cifre fittizie, sulla scorta del quale dimostra come i singoli membri dello schema (capitale costante, capitale variabile, plusvalore) debbano comportarsi nei loro reciproci rapporti perché l’accumulazione si compia. Sia dunque ben chiaro che per Marx gli schemi matema­ tici fungono da esempio, da illustrazione dei suoi concetti economici, come il Tableau économique di Quesnay lo fu della sua teoria o come le carte del mondo delle diverse epo­ che sono un documento delle concezioni astronomiche e geografiche allora dominanti. Che le leggi dell’accumulazio­ ne presentate, o meglio frammentariamente accennate, da Marx siano o no giuste, è cosa che solo l’analisi economica, il confronto con altre leggi formulate da Marx, lo studio delle diverse conseguenze che ne discendono, il vaglio delle premesse da cui partono ecc., permettono di stabilire. Ma che pensare di «m arxisti» i quali rifiutano come impresa folle questa critica, scusandosi col dire che la giustezza delle leggi è dimostrata dagli schemi matematici? Io esprimo i piu seri dubbi che, in una società composta soltanto di capi­ talisti e lavoratori come quella che sta a base degli schemi di Marx, l’accumulazione possa compiersi; esprimo il pare­ re che lo sviluppo della produzione capitalistica nel suo in­ sieme non possa essere racchiuso entro un rapporto sche­ matico fra imprese puramente capitalistiche; e i «compe­ tenti» mi rispondono: ma certo che lo può! lo si dimostra brillantemente «in base alla tabella IV », «lo mostrano ap­ punto gli schemi», cioè il fatto che la serie di cifre scelte a titolo di esemplificazione e chiarimento si lasciano, sulla carta, sommare e sottrarre a piacere. L ’antichità credeva all’esistenza degli esseri piu fantasti­ ci: nani, ciclopi, uomini con un braccio e una gamba sola e simili. Qualcuno si permette di dubitare che siano mai esi­ stiti? Ohibò, dal momento che li troviamo disegnati sulle antiche carte geografiche, è questa una prova che quei fan­ tasmi corrispondevano alla realtà! Ma prendiamo un esempio spicciolo.

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Per la progettata costruzione di una ferrovia dalla città X alla città Y si fa un bilancio preventivo e si calcola in cifre esatte l’ampiezza che il traffico di persone e merci deve assu­ mere perché, oltre all’ammortamento, alle spese correnti di esercizio e ai normali accantonamenti, si possa distribuire un «equo» dividendo, poniamo del 5% prima, dell’8% poi. Per i fondatori della compagnia ferroviaria, la questio­ ne essenziale è se sul tronco preventivato ci si possa real­ mente aspettare il traffico merci e passeggeri capace di assi­ curare la redditività prevista nel bilancio. Per rispondere a questo problema sono necessari dati esatti del traffico rag­ giunto sulla linea, della sua importanza per il commercio e l’industria, dell’aumento della popolazione nelle città e nei villaggi da essa toccati e degli altri aspetti economici e so­ ciali della questione. Che cosa si direbbe di chi esclamasse: Vi chiedete che cosa determina la redditività del tronco fer­ roviario? ma scusate, ve lo dice nero su bianco il bilancio preventivo, dove si legge che è il traffico delle persone e del­ le merci, e che queste entrate permetteranno la distribuzio­ ne di un dividendo prima del 5, poi dell’8% ; se non lo ve­ dete, cari signori, voi avete completamente frainteso la na­ tura, lo scopo e il significato del bilancio? ’. In una cerchia di uomini ragionevoli, al saputello si ri­ sponderebbe probabilmente con una scrollatina di spalle, giudicandolo degno di esser ricoverato in manicomio o mes­ so in un asilo d ’infanzia. Nella cerchia dei protettori ufficiali del marxismo, lo si accoglie nell’areopago dei «competenti» che trincian giudizi e stabiliscono se si sono o no capiti «la natura, lo scopo e il significato» degli schemi. Ora, che cos’è il nocciolo centrale della concezione che gli schemi si vuole «dimostrino»? Io avevo fatto l’obiezione: l’accumulazione presuppone la possibilità di trovare uno sbocco crescente alle merci, per trasformare in denaro il profitto in esse contenuto. Solo a questa condizione l’allar­ gamento crescente della produzione, e perciò la crescente1 1 «E chi compri i prodotti, lo mostrano appunto gli schemi». «La com­ pagna Luxemburg ha totalmente frainteso la natura, lo scopo e il significato degli schemi di Marx». G. Eck stein , recensione sul «Vorwärts», 16 febbraio 1913. 18

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accumulazione, sono possibili. Dove trovano questo sbocco crescente i capitalisti come classe? I miei critici rispondo­ no: sono loro stessi a costituire questo mercato di sbocco. Allargando le loro imprese (o aprendone di nuove), essi hanno bisogno di piu mezzi di produzione per le loro fabbri­ che e mezzi di sussistenza per i loro lavoratori. La produzio­ ne capitalistica è mercato di sbocco a se stessa, e perciò que­ sto mercato si allarga automaticamente con l’allargarsi della produzione. Ma la questione centrale è, dal punto di vista del capitale: si può in questo modo ottenere o accumulare il profitto capitalistico? Giacché solo allora si può parlare di accumulazione. Riprendiamo un esempio semplice: il capitalista A pro­ duce carbone, il capitalista B fabbrica macchine, il capitali­ sta C produce mezzi di sussistenza. Ammettiamo che queste tre persone rappresentino la totalità della classe imprendi­ trice capitalistica. Se B produce sempre piu macchine, A può vendergli sempre piu carbone e comprargli sempre piu macchine, che impiegherà nelle sue miniere. Entrambi han­ no sempre piu bisogno di operai, e questi di sempre maggio­ ri mezzi di sussistenza: perciò anche C trova uno sbocco sempre piu vasto, e diventa sempre piu acquirente sia di carbone sia di macchine, che userà nei suoi stabilimenti. G i­ riamo in una spirale che tende sempre piu verso l’alto —fin­ ché ci libriamo nel vuoto. Ma guardiamo la cosa piu concretamente. Accumular capitale non significa produrre sempre piu al­ te montagne di merci, ma trasformare sempre piu merci in capitale-denaro. Fra l’accumulazione del plusvalore in mer­ ci e l’impiego di questo plusvalore all’allargamento della produzione v’è ogni volta un salto decisivo, il «salto morta­ le» della produzione mercantile, come Marx lo chiama: la vendita contro denaro. Vale, questo, solo per il capitalista singolo, non per la classe nel suo insieme, per la società nel suo complesso? Assolutamente no. Nell’interpretazione so­ ciale dei fatti « non si deve —scrive Marx —cadere nella ma­ niera degli economisti borghesi imitata da Proudhon e con­ siderare la cosa come se una società a produzione capitalisti­ ca, presa en bloc, come totalità, perdesse questo suo carat-

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tere storico-economico specifico. Al contrario, si ha allora a che fare col capitalista generale» (Das Kapital, libro II, p. 409 [sez. I l l , cap. XX, 8]). Ora, l’accumulazione del pro­ fitto come capitale-denaro è appunto un carattere speci­ fico e peculiare della produzione capitalistica, e vale per la classe esattamente come per l’imprenditore singolo. Lo stes­ so Marx sottolinea a proposito dell’accumulazione del capi­ tale totale «la formazione di nuovo capitale monetario che accompagna l’effettiva accumulazione e, nella produzione capitalistica, la condiziona» {ibid., p. 485 [sez. I l l , cap. XXI, 3 ]). E , nel corso della sua indagine, ritorna continuamente a porre la questione: com’è possibile l’accumulazio­ ne di capitale-denaro nella classe dei capitalisti? Esaminiamo da questo punto di vista la brillante tesi dei «competenti». Il capitalista A vende le sue merci a B, cioè ottiene da B in denaro il suo plusvalore. Questi vende le sue merci ad A e riottiene da A il denaro per la monetizzazione del suo plusvalore. Entrambi vendono le loro merci a C, e ricevono perciò da C anche la somma di denaro corrispon­ dente al loro plusvalore. Ma questi, da dove la riceve? Da A e B, poiché non vi sono, secondo l’ipotesi, altre fonti per la realizzazione del plusvalore, cioè altri consumatori delle merci. Ma, in tal modo, è possibile in A, B e C un arricchi­ mento con formazione di nuovo capitale monetario? Am­ mettiamo per un momento che le masse di merci destinate allo scambio crescano in tutti e tre, che l’allargamento della produzione abbia luogo indisturbato, e perciò possano an­ che crescere le masse di plusvalore rappresentate in merci; che lo sfruttamento si sia compiuto, e la possibilità dell’arricchimento, dell’accumulazione, sia data. Ma, affinché la possibilità diventi realtà, è necessario lo scambio, la realiz­ zazione del nuovo plusvalore aumentato in nuovo capitale­ denaro aumentato. Si noti che non ci chiediamo, qui, come Marx fa ripetute volte nel corso del II libro del Capitale: da dove viene il denaro per la circolazione del plusvalore?, per rispondere infine: dal proprietario di miniere d ’oro. Chiediamo invece: come giunge nelle tasche dei capitalisti un nuovo capitale-denaro, posto che essi sono (prescinden­ do dai lavoratori) gli unici acquirenti reciproci delle merci?

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Qui il capitale-denaro non fa che emigrare continuamente da una tasca all’altra. Ma ancora una volta: forse che, ponendo queste doman­ de, noi ci sbagliamo? Che l’accumulazione del profitto con­ sista appunto in questo processo di continua migrazione delle volpi dorate dalle tasche di un capitalista a quelle di un altro, nella successiva realizzazione di profitti privati, cosicché la somma complessiva di capitale monetario non abbia bisogno di crescere, non esistendo, all’infuori della grigia teoria, qualcosa come il «profitto totale» di tutti i ca­ pitalisti? Ma, ahimè, se così fosse dovremmo dare alle fiamme il I I I libro del Capitale di Marx, il cui punto centrale, e una delle piu importanti scoperte della teoria economica mar­ xiana, è appunto la teoria del profitto medio, quella che dà alla teoria del valore del I libro il suo vero senso; e, poiché su quest’ultima poggiano la teoria del plusvalore e il secon­ do libro, dovremmo dare alle fiamme anche questi. La teo­ ria economica marxiana sta e crolla insieme con la conce­ zione del capitale sociale totale come una grandezza reale che si esprime concretamente nel profitto totale capitalistico e nella sua distribuzione, e dal cui invisibile moto pro­ cedono tutti i moti visibili dei capitali singoli. Il profitto totale capitalistico è, in realtà, una grandezza economica as­ sai piti reale che, per esempio, la somma complessiva dei salari volta a volta pagati: questa si determina, come cifra statistica, solo a posteriori, mediante un calcolo generale su un determinato periodo di tempo, mentre il profitto totale s’impone nel meccanismo economico come un tutto, distri­ buendosi ogni momento, attraverso la concorrenza e il mo­ vimento dei prezzi, fra i capitali singoli come profitto medio « d ’uso» o come extraprofitto. Rimane dunque fermo: il capitale sociale totale ottiene costantemente, in forma monetaria, un profitto totale che deve continuamente crescere ai fini dell’accumulazione. Ora, come può crescere questa somma, se le sue parti non fanno che emigrare da una tasca all’altra? Apparentemente, in questo caso può almeno crescere come abbiamo ammesso finora - la massa totale delle merci

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in cui il profitto si annida, e sola difficoltà è quella di procu­ rarsi il denaro, che potrebbe anche risolversi in una questio­ ne puramente tecnica della circolazione monetaria. Ma an­ che questo solo apparentemente, ad un’analisi superficiale. Neanche la massa totale delle merci crescerà, l’allargamento della produzione non può compiersi, perché il suo presup­ posto è, dal punto di vista capitalistico, fin dai primi passi, la trasformazione in denaro, la realizzazione onnilaterale del plusvalore. A può vendere a B, B a C e C di nuovo ad A e B una massa crescente di merci, e realizzare il profitto, solo nel caso che almeno uno di loro trovi uno sbocco fuori di questo cerchio chiuso. Se il caso non si verifica, la giostra si ferma cigolando dopo uno o due giri. Partendo da queste considerazioni elementari, si giudi­ chi la profondità di pensiero dei miei «competenti», quan­ do mi gridano: «S e perciò la compagna Luxemburg conti­ nua: ma qui giriamo su noi stessi; produrre piu mezzi di consumo unicamente per poter mantenere piu lavoratori, produrre piu mezzi di produzione per impiegare quel so­ vrappiù di lavoratori, è, dal punto di vista capitalistico, un assurdo! —non si capisce davvero come queste parole siano applicabili agli schemi di Marx. Lo scopo della produzione capitalistica è il profitto e, poiché il profitto giunge ai capi­ talisti attraverso il processo descritto, questo non solo è, dal punto di vista capitalistico, un assurdo, ma è l’incarnazione della ragione, cioè della spinta al profitto» (G. Eckstein, re­ censione sul «Vorw ärts», 16 febbraio 1913, appendice). «Non si capisce davvero» che cosa, qui, sia più grande: l’assoluta e ingenuamente confessata incapacità di afferrare la teoria fondamentale marxiana del capitale sociale totale come distinto dai capitali singoli, o l’assoluta incapacità di comprendere il problema da me posto. Io dico: dal punto di vista capitalistico, produrre su scala sempre maggiore per il gusto di produrre è un assurdo perché in tal modo —nel­ l’ipotesi alla quale i «competenti» si aggrappano —la classe capitalistica nel suo insieme non può realizzare il profitto e perciò accumulare. E mi si risponde: ma non c’è proprio nulla di assurdo, perché proprio così il profitto si accumula! E chi ve lo dice, signori «competenti»? Ebbene, che si ac­

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cumuli realmente profitto «risulta» precisamente... dagli schemi matematici - da schemi nei quali noi tracciamo re­ galmente sulla carta file su file di cifre, coi quali le operazio­ ni matematiche si snodano impeccabili, e attraverso i qua­ li... si prescinde completamente dal capitale monetario! È chiaro: ogni critica naufraga senza speranza, con questi vigorosi «competenti», per il semplice fatto ch’essi si ag­ grappano al punto di vista dei capitalisti singoli: punto di vista che può bastare per l’analisi del processo di sfrutta­ mento, e perciò della produzione (I libro del Capitale), men­ tre non basta per la circolazione e riproduzione del capitale. Il II e III libro dell’opera fondamentale di Marx, che pren­ dono luce dal concetto di capitale sociale totale, sono rima­ sti per loro un capitale morto, di cui hanno imparato lette­ re, formule e «schemi», ma si son lasciati sfuggire lo spiri­ to. Marx, comunque, non era un «competente» se, invece di appagarsi dello «svolgimento» aritmetico dei suoi sche­ mi, pone e ripone la domanda: com’è possibile un’accumu­ lazione generale, com’è possibile la formazione di nuovo capitale-denaro nella classe capitalistica? Era riservato inve­ ce agli epigoni il privilegio di trasformare le ipotesi feconde del maestro in un dogma rigido, e sentirsi soddisfatti là do­ ve una mente anticipatrice provava dubbi animatori. Ma il punto di vista dei «competenti» porta a una serie di conseguenze che vai la pena di elencare e sulle quali essi non si sono affatto preoccupati di riflettere. Prima conseguenza. Se la produzione capitalistica è ac­ quirente illimitata di se stessa, cioè se produzione e mercato di sbocco si identificano, le crisi, come manifestazioni perio­ diche, sono del tutto incomprensibili. Poiché, «come mo­ strano gli schemi», la produzione può accumularsi a piacere riutilizzando il proprio aumento per una nuova espansione, è un mistero come e perché si verifichino contingenze nelle quali la produzione capitalistica non trova un mercato abba­ stanza largo alle sue merci. Basterebbe che, secondo la ri­ cetta dei «competenti», divorasse essa stessa le merci ecce­ denti, che le immettesse nella produzione (in parte come mezzi di produzione, in parte come beni di consumo per i lavoratori) —«e così anche in tutti gli anni successivi», co­

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me mostra «la tabella IV » di Otto Bauer —, perché il resi­ duo indigeribile di merci si trasformi, all’opposto, in nuovo alimento dell’accumulazione e della corsa al profitto. Co­ munque, la specifica concezione marxiana delle crisi, secon­ do cui queste si originano dalla tendenza del capitale a di­ latarsi in tempo sempre piu breve oltre ogni limite raggiun­ to dal mercato, si trasforma qui in un assurdo. Infatti, come potrebbe la produzione crescere oltre i limiti del mercato, se è il mercato di se stessa, e se perciò il mercato cresce da sé, automaticamente, con la stessa rapidità della produzio­ ne? Come, in altre parole, la produzione potrebbe crescere periodicamente piu di se stessa? Non lo potrebbe piu di quanto uno non possa saltare oltre la propria ombra. La cri­ si capitalistica diventa cosi un fenomeno inspiegabile. Ov­ vero, rimane una sola spiegazione possibile: la crisi non na­ sce dal mancato rapporto fra capacità di estensione della produzione capitalistica e capacità di estensione del mercato di sbocco, ma da una pura e semplice sproporzionalità fra diversi rami della produzione medesima. Questa potrebbe, di per sé, smaltire le proprie merci; solo che, per effetto del­ l’anarchia, non si è prodotto di diverse cose la proporzione giusta, si è prodotto di alcune troppo, di altre troppo poco. In tal modo volgeremmo le spalle a Marx e approderemmo in definitiva presso il patriarca, cosi aspramente fustigato da Marx, dell’economia volgare, della teoria manchesteriana e delle armonie borghesi, il «piagnone» Say, che già nel 1803 proclamava il dogma: che di tutte le merci si possa produrre troppo è un concetto assurdo: possono esservi so­ lo crisi parziali, non generali; se perciò una nazione ha trop­ po di una categoria di prodotti, ciò significa solo che ne ha prodotti troppo pochi di un’altra categoria. Seconda conseguenza. Se la produzione capitalistica co­ stituisce uno sbocco sufficiente a se stessa, l’accumulazione capitalistica è (obiettivamente) un processo illimitato. Poi­ ché la produzione, anche se il mondo intero è dominato in­ condizionatamente dal capitale e l’umanità non consta che di capitalisti e salariati, può svolgersi senza inciampo, cioè spiegare senza limiti le forze produttive, non essendovi bar­ riere all’evoluzione economica del capitalismo, il pilastro

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fondamentale marxiano del socialismo precipita. Secondo Marx, la rivolta dei lavoratori, la loro lotta di classe - ed è in ciò la garanzia della loro forza vittoriosa - non è che il riflesso ideologico della necessità storica obiettiva del socia­ lismo, risultante dall’impossibilità economica obiettiva del capitalismo a un determinato livello del suo sviluppo. Na­ turalmente, ciò non significa —riserve simili, che rientrano nell’abc del marxismo, sono pur sempre indispensabili, co­ me vedremo, per i miei «competenti» - che il processo sto­ rico debba o anche soltanto possa essere esaurito fino all’ul­ timo limite di quest’impossibilità economica. Basta la ten­ denza obiettiva dell’evoluzione capitalistica verso quel tra­ guardo a determinare un tale inasprimento sociale e politico delle contraddizioni della società, e una tale insostenibilità delle situazioni, da preparare necessariamente la fine del si­ stema dominante. Ma questi contrasti sociali e politici non sono, in ultima analisi, se non il prodotto dell’insostenibilità economica del sistema capitalistico, e questa è la sorgente del loro continuo inasprirsi proprio nella misura in cui quel­ la insostenibilità diventa palmare. Ammettiamo invece coi «competenti» l ’illimitatezza eco­ nomica della accumulazione capitalistica, e toglieremo da sotto i piedi del socialismo la base granitica della sua neces­ sità storica obiettiva per rifugiarci nelle nebbie dei sistemi e delle scuole pre-marxiste, che pretendevano di dedurre il socialismo dalla pura ingiustizia e malvagità del mondo at­ tuale e dalla pura decisione rivoluzionaria delle classi lavo­ ratrici *. Terza conseguenza. Se la produzione capitalistica forma a se stessa un mercato sufficiente, e permette un continuo1 1 Ovvero rimane la consolazione alquanto dubbia di un «competente» della «Dresdner Volkszeitung», che, demolito il mio libro, dichiara: il capi­ talismo naufragherà, prima o poi, contro «la caduta del saggio del profitto». Comunque il brav’uomo s’immagini la cosa - che cioè, ad un certo punto, la classe capitalistica, disperata per la bassezza del saggio del profitto, faccia suicidio in massa, o dichiari che il gioco non vale più la candela e consegni le chiavi delle casseforti al proletariato - , questa consolazione è distrutta da una semplice frase di Marx, dall’accenno che «per i grandi capitali la caduta del saggio del profitto è controbilanciata dalla sua massa». Di qui al tramon­ to del capitalismo per effetto della caduta del saggio del profitto ci corre, dunque, come di qui al raffreddamento del sole.

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allargamento nella misura dell’intero valore accumulato, di­ venta mistero anche un altro fenomeno dell’evoluzione mo­ derna: la caccia affannosa ai piu lontani mercati di sbocco e all’esportazione di capitali, cioè le manifestazioni piu clamo­ rose dell’attuale imperialismo. Mistero completo! Perché tanto chiasso? Perché la conquista delle colonie, perché le guerre dell’oppio fra il ’40 e il ’60, e ora le baruffe intorno alle paludi del Congo o al deserto mesopotamico? Se ne stia a casa, il capitale, e si nutrirà benissimo. Krupp produca per Thyssen, Thyssen per Krupp, continuino a investire i loro capitali nelle loro imprese e le allarghino gli uni per gli al­ tri; e cosi via in cerchio. Il moto storico del capitale diventa incomprensibile, e con esso l’odierno imperialismo. Ovvero, resta l’impagabile spiegazione di Pannekoek nel­ la «Bremer Bürgerzeitung»: la ricerca di mercati di sbocco non-capitalistici è «un fatto ma non una necessità» - una perla di concezione materialistica della storia. Proprio vero! Accettata l’ipotesi dei «competenti», il socialismo come fi­ ne ultimo e l’imperialismo come suo stadio preparatorio cessano di essere una necessità storica. Quello diventa una lodevole decisione della classe lavoratrice, questo un atto di accecamento della borghesia. Cosi, i «competenti» si trovano di fronte ad un’alternati­ va alla quale è loro impossibile sfuggire. O produzione capi­ talistica e mercato di sbocco sono identici (come essi dedu­ cono dagli schemi di Marx), e allora la teoria marxiana delle crisi, la giustificazione marxiana del socialismo e la spiega­ zione materialistico-storica dell’imperialismo vanno in fu­ mo. O il capitale può accumulare solo in quanto trova dei consumatori fuori dei capitalisti e dei salariati, e allora la premessa dell’accumulazione —sbocco crescente in strati e paesi non-capitalistici - diventa inevitabile. Delle conse­ guenze di cui sopra, io, povera derelitta, ho tuttavia la testi­ monianza preziosa e non sospettabile di un principe dei «competenti». Nel 1902 usci un libro sulla teoria e storia delle crisi in Inghilterra del marxista russo professor Michail v. TuganBaranovskij. Tugan, che nel suddetto libro «revisionò» il marxismo sostituendo la sua teoria, pezzo per pezzo, con

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vecchie e trite sentenze dell’economia borghese volgare, so­ steneva fra gli altri paradossi anche la tesi che le crisi deri­ vano da una semplice mancanza di proporzionalità, e non dal fatto che il consumo solvibile della società non va di pa­ ri passo con la capacità di allargamento della produzione. Orbene, questa teoria presa a prestito da Say la giustificava - e fu qui la sensazionale novità della sua tesi - con gli sche­ mi della riproduzione sociale nel II libro del Capitale di Marx! « Se è possibile - scrive Tugan - allargare la produzione sociale, se le forze produttive vi bastano, allora, ammesso un allargamento proporzionale della produzione sociale, an­ che la domanda subirà un corrispondente allargamento, poi­ ché in tali condizioni ogni merce di nuova produzione rap­ presenta un nuovo potere di acquisto per altre merci» (p. 25). La dimostrazione è data dagli schemi di Marx, che Tu­ gan si limita a riprodurre con altre cifre e dai quali trae la conclusione: «G li schemi riprodotti dovrebbero mostrare all’evidenza il principio in sé molto semplice, ma che solle­ va facilmente obiezioni in chi non ha capito il processo di riproduzione del capitale sociale: il principio che la produ­ zione sociale crea un mercato a se stessa» (corsivo mio). Nel suo amore del paradosso, Tugan-Baranovskij giunge fino a concludere che la produzione capitalistica sia «in un certo senso» indipendente dal consumo umano. Comunque, a noi qui interessano non le ulteriori amenità tuganiane ma il solo «principio, in sé molto semplice», su cui egli costrui­ sce tutto il resto. Rileviamo a questo proposito, quanto segue. Le obiezioni che mi fanno i critici «competenti» sono già contenute, parola per parola, nel libro di Tugan-Baranov­ skij, in particolare nelle sue due caratteristiche affermazio­ ni: 1) la produzione capitalistica, con la sua espansione, fa da sbocco a se stessa, cosicché lo smercio non può offrire al­ cuna difficoltà dal punto di vista dell’accumulazione (a par­ te la mancanza di proporzionalità); 2) la dimostrazione ne è data dagli schemi matematici secondo il modello di Marx, cioè dai calcoli a base di somme e addizioni sulla carta. Que­ sto, undici anni prima dei miei critici, il messaggio di Tu-

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gan-Baranovskij. Ma gli andò male: Karl Kautsky lo prese per le corna sulla «Neue Zeit» e sottopose a spietata critica le geniali assurdità del revisionista russo, fra l’altro il suo famoso «principio». «Se questo fosse vero [che cioè, come dice Tugan, data una divisione proporzionale della produzione sociale, l’al­ largamento del mercato non troverebbe altro limite che le forze produttive di cui la società dispone], l’industria ingle­ se dovrebbe allargarsi tanto piu rapidamente quanto mag­ giore è la sua ricchezza in capitale, - osserva Kautsky. - In­ vece ristagna, il capitale crescente viene esportato in Russia, in Sud Africa, in Cina, in Giappone, ecc. Questo fatto trova la sua naturale spiegazione nella nostra teoria, che vede la causa ultima delle crisi nel sottoconsumo, e forma uno dei punti di appoggio di questa teoria, mentre è inspiegabile dal punto di vista di Tugan-Baranovskij» («Neue Zeit», 1902, n. 5 [3 1 ], p. 140). Ma qual è questa «nostra teoria», che Kautsky contrap­ pone a quella di Tugan? Eccola, con le parole di Kautsky: « I capitalisti e i lavoratori da essi sfruttati costituiscono, per i mezzi di consumo prodotti dalla grande industria, un mercato che tende bensì a crescere con l’aumento della ric­ chezza dei primi e del numero dei secondi, ma non con la stessa rapidità dell’accumulazione del capitale e della pro­ duttività del lavoro, e che non basta a se stesso. La grande industria deve perciò cercarsi un mercato addizionale al di fuori del proprio raggio nelle professioni e nazioni che tut­ tora producono non-capitalisticamente. Lo trova infatti e lo allarga vieppiù, ma non abbastanza rapidamente, poiché questo mercato addizionale non possiede affatto l’elasticità e capacità di allargamento del processo di produzione capi­ talistico. Appena la produzione capitalistica è divenuta gran­ de industria sviluppata, come è il caso per l’Inghilterra fin dal secolo xix, essa contiene la possibilità di una tale espan­ sione a sbalzi, da superare in breve l’estensione del merca­ to. Ogni periodo di prosperità seguito ad un sensibile allar­ gamento del mercato è perciò a priori destinato a breve vi­ ta, e la sua fine necessaria è la crisi. Questa, a brevi tratti, secondo noi, la teoria delle crisi fondata da Marx e uni-

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versalmente accettata dai marxisti "ortodossi” » («Neue Zeit», 1902, n. 3 [2 9 ], p. 80; corsivo mio). Prescindiamo dal fatto che Kautsky appiccica a questa teoria il nome equivoco di una spiegazione delle crisi «m e­ diante il sottoconsumo», spiegazione che Marx mette in burla nel II libro del Capitale. Prescindiamo anche dal fatto che Kautsky non vede in tutta la questione che il problema delle crisi, senza accorgersi, a quanto sembra, che l ’accumu­ lazione capitalistica costituisce un problema anche indipen­ dentemente dalle oscillazioni congiunturali. Prescindiamo infine dal fatto che l’affermazione di Kautsky, che il consu­ mo dei capitalisti e lavoratori «non cresce abbastanza rapi­ damente» per l’accumulazione, e questa ha perciò bisogno di un «mercato addizionale», è piuttosto vaga e non coglie il nocciolo della questione. Quel che ci interessa è soltanto che Kautsky proclama apertamente come sua opinione e co­ me teoria accettata «universalmente dai marxisti ortodos­ si»: 1) che capitalisti e lavoratori non costituiscono da soli un mercato sufficiente per l ’accumulazione; 2) che l’accumulazione capitalistica ha bisogno di un «mercato addizionale» in strati e nazioni non-capitalistici. Resta frattanto stabilito che nel 1902 Kautsky contesta­ va a Tugan-Baranovskij esattamente le stesse affermazioni che ora i «competenti» oppongono alla mia spiegazione del­ l ’accumulazione del capitale, e i «competenti» dell’ortodos­ sia marxista combattono in me come paurosa deviazione dalla vera fede proprio la stessa tesi, solo formulata esatta­ mente e applicata al problema dell’accumulazione,che Kaut­ sky opponeva al revisionista Tugan-Baranovskij come la «teoria delle crisi universalmente accettata» dai marxisti ortodossi. Come dimostra Kautsky l’insostenibilità della tesi del suo avversario? Forse riferendosi agli schemi di Marx? Kautsky dimostra che questi schemi, se maneggiati a dove­ re —ho già chiarito nel mio libro, e non voglio insistervi qui, come Kautsky lavori con gli schemi di Marx —non so-

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10 non confortano la tesi di Tugan-Baranovskij, ma sono una prova a favore della teoria delle crisi per «sottoconsu­ mo». Il mondo vacilla sui suoi cardini: che il supercompetente abbia «misconosciuto» assai piu radicalmente di Tugan-Ba­ ranovskij la «essenza, lo scopo e il significato» degli schemi marxisti? Ma Kautsky trae dalla teoria di Tugan-Baranovskij inte­ ressanti conseguenze. Che, secondo Kautsky, questa teoria sia in diretta antitesi con la teoria marxiana delle crisi, che inoltre renda inspiegabile l’esportazione di capitali verso paesi non-capitalistici, l’abbiamo già detto. Ora, ecco la ten­ denza generale di questa posizione. «Che valore pratico hanno... le nostre divergenze teori­ che? » si chiede Kautsky. Che le crisi abbiano la loro ultima origine nel sottoconsumo o nella mancanza di proporziona­ lità della produzione sociale, è questa piu di una questione accademica? «Cosi qualche “ pratico” sarebbe forse tentato di pensa­ re. In realtà, questo problema ha una grande importanza pratica, proprio per le divergenze di natura tattica che si stanno ora discutendo nel nostro partito. Non è un caso che 11 revisionismo combatta con tanto accanimento la teoria marxiana delle crisi». E Kautsky dimostra ampiamente co­ me la teoria delle crisi di Tugan-Baranovskij tenda, nel fon­ do, ad una sedicente «attenuazione dei contrasti di classe», cioè appartenga all’arsenale teorico della tendenza che si­ gnifica «la trasformazione della socialdemocrazia da partito della lotta di classe proletaria a partito democratico o ad ala sinistra di un partito democratico di riforme socialiste» («Neue Zeit», 1902, n. y [3 1 ], p. 141). Cosi, quattordici anni fa, il supercompetente liquidava in 36 pagine della «Neue Zeit» l’eretico Tugan-Baranov­ skij. Ed ora, deve capitare proprio a me che i «competenti», gli allievi fedeli del maestro, combattano la mia analisi del­ l’accumulazione esattamente con lo stesso «principio» che costò al revisionista russo, nei campi di caccia della «Neue Zeit», la vita! Dove, in questa avventura, finisca la «teoria

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delle crisi generalmente accettata dai marxisti ortodossi», non è affatto chiaro. Ma è avvenuto qualcosa di ancor piu originale. Dopo che la mia Accumulazione era stata fatta a pezzi con le armi di Tugan-Baranovskij nel «Vorwärts», nella «Bremer Bürger­ zeitung», nella «Dresdner Volkszeitung» e nella «Frank­ furter Volksstimme», ecco apparire sulla «Neue Zeit» la critica di Otto Bauer. Anche questo competente, come ab­ biamo visto, crede nella magica potenza di dimostrazione degli schemi matematici nella questione della riproduzione sociale. Non è però soddisfatto degli schemi di Marx, che considera «non ineccepibili», «arbitrari e non senza con­ traddizioni» (e lo spiega col fatto che Engels «ha trovato incompiuta» questa parte dell’opera di Marx nel lascito del Maestro). Procede dunque, col sudore della sua fronte, a costruirne di nuovi: «Perciò abbiamo elaborato degli sche­ mi che, una volta accettate le premesse, non contengono piu nulla di arbitrario». Solo sulla base di questi schemi Bauer crede di aver «raggiunto un solido punto di partenza per l’analisi del problema posto dalla compagna Luxem­ burg» («Neue Zeit», 1913, n. 23, p. 838). E, avendo ca­ pito che la produzione capitalistica non può girare nel vuoto «senza inciampi», va a caccia di una base sociale obiettiva dell’accumulazione del capitale e la trova, final­ mente, nell’aumento della popolazione. Qui comincia il fatto piu curioso. Per voto unanime dei «competenti» e con la benedizione collettiva della redazio­ ne dell’organo centrale del partito, il mio libro è stato di­ chiarato un completo assurdo, un volgare equivoco: il pro­ blema dell’accumulazione non esiste, Marx l’ha già risolto, gli schemi gli dànno sufficiente risposta. Ora Bauer si sente in dovere di poggiare i suoi schemi su una base un po’ piu materiale delle semplici regole dell’addizione e sottrazione; considera un determinato rapporto sociale - l’aumento del­ la popolazione - e su questo le sue tabelle si muovono. Dunque, l’allargamento della produzione, che gli schemi dovrebbero rappresentare graficamente, non è un moto au­ tonomo e sovrano del capitale intorno al proprio asse, ma questo moto non fa che seguire l’aumento della popolazio-

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ne: « L ’accumulazione presuppone l’allargamento del cam­ po della produzione, e il campo di produzione è esteso dal­ l’aumento della popolazione». «N el modo di produzione capitalistico vige la tendenza ad adattare l’accumulazione del capitale all’incremento della popolazione». «L a tenden­ za ad adattare l ’accumulazione all’aumento della popolazio­ ne domina i rapporti internazionali». «Considerata come un tutto l’economia mondiale capitalistica, la tendenza ad adattare l’accumulazione all’aumento della popolazione di­ venta visibile nel ciclo industriale... Il ritorno periodico del­ la prosperità, della crisi, della depressione è l’espressione empirica del fatto che il meccanismo della produzione ca­ pitalistica elimina automaticamente sovraccumulazione e sotto-accumulazione, riadatta continuamente l’accumulazio­ ne del capitale all’incremento della popolazione» («Neue Zeit», 1913, n. 24, pp. 871-73; corsivo di Bauer). Esamineremo in seguito la teoria della popolazione di Bauer. Per ora, è comunque chiaro questo: ch’essa rappre­ senta qualcosa di assolutamente nuovo. Per gli altri «com­ petenti», ogni richiesta di una base sociale ed economica dell’accumulazione era un non senso, qualcosa di ingiusti­ ficabile: Bauer, invece, costruisce tutta una teoria per ri­ spondervi. Ma la teoria di Bauer è una novità non soltanto per gli altri critici del mio libro: è la prima volta ch’essa affiora in tutta la letteratura marxista. Né i tre libri del Capitale, né le Theorien über den Mehrwert, né altri scritti di Marx, presentano tracce della teoria della popolazione come base dell’accumulazione. Vediamo inoltre come Karl Kautsky presentò e discusse a suo tempo nella «Neue Zeit» il II libro del Capitale. Nel­ l’accurata relazione del contenuto dell’opera, Kautsky esa­ mina dettagliatamente la I parte sulla circolazione, riprodu­ ce fedelmente le formule e i simboli usati da Marx, e dedi­ ca invece all’intera parte sulla «riproduzione e circolazione del capitale sociale totale» (la piu importante ed originale del libro) tre sole pagine sulle venti della recensione. In queste tre pagine, inoltre, Kautsky discute esclusivamente - s’intende con fedele riproduzione degli inevitabili sche-

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mi - l’astrazione iniziale della «riproduzione semplice», cioè di una produzione capitalistica senza corsa al profitto, che lo stesso Marx considerava come puro punto di par­ tenza teorico all’analisi del problema vero e proprio: l’ac­ cumulazione del capitale totale. Quest’ultimo problema, Kautsky lo liquida letteralmente in due righe: «Infine, al­ tre complicazioni porta con sé l’accumulazione del plusva­ lore, l’allargamento del processo di produzione». Punto e basta. Non una parolina di piu subito dopo la pubblicazio­ ne del II libro del Capitale-, non una parolina di piu nei trenta anni trascorsi da allora. Non solo non vi troviamo cenno della teoria della popolazione di Bauer, ma per Kaut­ sky l’intera parte sull’accumulazione passa inosservata, non vedendovi egli né un particolare problema, alla cui soluzio­ ne Bauer avrebbe oggi dato «una base ineccepibile», né il fatto che Marx interrompe bruscamente l’analisi appena co­ minciata, senza aver risposto agli interrogativi da lui stesso ripetutamente posti. Una seconda volta Kautsky parla del II libro del Capita­ le, e precisamente nella serie già citata di articoli su TuganBaranovskij. Qui formula una «teoria, secondo noi, fondata da Marx e universalmente accettata dai marxisti ortodossi » a proposito delle crisi, teoria centrata sul principio che il consumo di capitalisti e lavoratori non è sufficiente come base all’accumulazione e che è necessario un «mercato ad­ dizionale di sbocco» in «professioni e nazioni che produco­ no tuttora non-capitalisticamente». Kautsky non sembra però avvedersi che questa teoria delle crisi non si adatta né ai paradossi di Tugan-Baranovskij né agli schemi dell’accu­ mulazione in Marx e ai loro presupposti generali nel II li­ bro. Infatti, il presupposto dell’analisi di Marx nel II libro è appunto una società composta solo di capitalisti e lavo­ ratori, e gli schemi tendono a rappresentare in forma esatta di legge economica come quelle due insufficienti classi di consumatori rendano possibile di anno in anno, col loro so­ lo consumo, l’accumulazione. Anche qui, non troviamo in Kautsky il minimo accenno alla teoria baueriana della po­ polazione come vera base degli schemi marxiani dell’accu­ mulazione.

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Prendiamo il Finanzkapital di Hilferding, e nel XVI ca­ pitolo, dopo un’introduzione in cui si tesse l’elogio della rappresentazione marxiana delle condizioni di riproduzione del capitale totale, come il piu geniale contributo della «meravigliosa opera» e con espressioni di altissima (e ben meritata) ammirazione, troviamo riprodotte in quattordici pagine le pagine corrispondenti di Marx, naturalmente con gli schemi matematici; e Hilferding lamenta (anche qui a ragione) che questi schemi siano stati cosi poco studiati, e siano venuti in onore, in certo modo, solo attraverso Tugan-Baranovskij. Che cosa ne conclude Hilferding? Gli schemi di Marx mostrano «che nella produzione ca­ pitalistica, sia la produzione semplice che la riproduzione allargata possono svolgersi indisturbatamente solo a patto che vengano mantenute tali proporzioni. Reciprocamente, la crisi può insorgere anche in regime di riproduzione sem­ plice, qualora si alteri la proporzione che regola per esem­ pio, il rapporto fra il capitale consumato e il nuovo capita­ le da investire. Non è quindi affatto vero che la causa della crisi sia il sottoconsumo delle masse connaturato alla pro­ duzione capitalistica... Altrettanto difficile sarebbe dedurre dagli schemi riportati la possibilità di una superproduzione permanente laddove viene dimostrata la possibilità di qual­ siasi aumento della produzione che prenda le mosse dalle forze produttive presenti» '. Tutto qui. Anche Hilferding vede dunque nell’analisi marxiana dell’accumulazione solo una base di soluzione al problema delle crisi, e precisamente in quanto gli schemi matematici mostrano le proporzioni mantenendo le quali l’accumulazione può compiersi indisturbata. Hilferding ne trae due conclusioni: 1) le crisi nascono soltanto da una sproporzionalità - e in tal modo la « teoria delle crisi fondata da Marx e universalmente accettata dai marxisti ortodossi» è li­ quidata a favore della teoria delle crisi, demolita co-1 1 R. hilferding, D a s F in a n z k a p ita l. E in e S tu d ie ü b e r d ie jü n g ste E n t ­ w ic k lu n g d e s K a p it a lis m u s, Wien 1910, p. 318 [trad, it.: I l c a p ita le fin an ­ z ia r io , Feltrinelli, Milano 1961, p. 333].

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me eresia revisionista da Kautsky, di Tugan-Baranovskij, e si giunge alle stesse conclusioni del «piagno­ ne» Say: una sovraproduzione generale è impossibile; 2) prescindendo dalle crisi come alterazioni periodiche dovute a mancanza di proporzionalità, l’accumulazio­ ne del capitale (in una società unicamente composta di capitalisti e lavoratori) può svolgersi illimitatamen­ te mediante crescente «allargamento», alla sola con­ dizione che le forze produttive del momento lo per­ mettano —che è una seconda copia della teoria di Tugan-Baranovskij demolita da Kautsky. Comunque, anche per Hilferding, a parte le crisi, un pro­ blema dell’accumulazione non esiste, giacché «gli schemi mostrano» che un allargamento è sempre illimitatamente possibile, cioè con la produzione cresce automaticamente lo smercio. Anche qui, non un cenno del limite posto, se­ condo Bauer, dall’aumento della popolazione, nessuna trac­ cia della necessità di una simile teoria. Infine, la teoria presentata oggi da Bauer è una scoperta anche per lui stesso. Nel 1904, chiusa la polemica fra Kaut­ sky e Tugan-Baranovskij, Bauer trattò in due articoli sulla «Neue Zeit» la teoria delle crisi alla luce della concezione marxiana. Qui egli dichiara di voler dare per la prima volta una rappresentazione organica di questa teoria, e riconduce le crisi, riferendosi ad un tentativo di spiegazione del ciclo decennale della moderna industria nel II libro del Capita­ le, alla particolare forma di circolazione del capitale fisso. Neanche qui, una sola sillaba sull’importanza fondamentale dei rapporti fra ampiezza della produzione e aumento del­ la popolazione. L ’intera teoria di Bauer, quella «tendenza all’adattamento all’incremento della popolazione» che do­ vrebbe spiegare le crisi come l’alta congiuntura, l’accumu­ lazione come l’emigrazione internazionale del capitale di paese in paese, e infine anche l’imperialismo, questa legge onnipotente che «regola automaticamente» l’intero mecca­ nismo della produzione capitalistica da essa azionato, non esisteva per Bauer e per nessuno! Ed ecco che questa teoria fondamentale destinata a porre gli schemi di Marx su una

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«base ineccepibile» viene a galla, tirata fuori appositamen­ te dalle maniche del prestidigitatore in risposta al mio li­ bro... per risolvere un problema che non esiste affatto! Che dire di tutti gli altri «competenti»? Riassumiamo in qualche punto tutto ciò che abbiamo finora detto. 1. Secondo Eckstein e Hilferding (come anche per Pannekoek), nessun problema dell’accumulazione esiste. Tutto chiaro, tutto naturale, cosi come «mostrano» gli schemi di Marx. Solo la mia incapacità organica a capire questi sche­ mi può spiegare la mia critica. Secondo Bauer, le cifre usate da Marx sono «scelte arbitrariamente e non prive di con­ traddizioni»: solo lui, Bauer, ha trovato una «rappresenta­ zione adeguata del pensiero di M arx» e offerto uno «sche­ ma privo di arbitrii». 2. Per Eckstein e la redazione del «Vorw ärts», il mio libro deve «essere rigettato» come privo di qualsiasi valo­ re, e secondo il piccolo «competente» della «Frankfurter Volksstimme» ( i° febbraio 1913)0 addirittura «gravemen­ te nocivo». Per Bauer, «nella spiegazione errata è pur sem­ pre nascosto un nocciolo vero»: l’accenno ai limiti dell’ac­ cumulazione del capitale («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 8 7 3 )3. Per Eckstein e il «Vorwärts», il mio libro non ha nul­ la a che fare con l’imperialismo: « I l libro ha cosi poco a che vedere con le nuove manifestazioni della vita economi­ ca oggi pulsante, che avrebbe potuto esser scritto anche ven­ ti e piu anni fa». Per Bauer, la mia indagine mette a nudo «non l’unica... ma certo una delle radici dell’imperialismo» {ibid., p. 874), il che, per una modesta persona come me, sarebbe già un bel risultato. 4. Per Eckstein, gli schemi di Marx mostrano «la reale grandezza del fabbisogno sociale», «la possibilità dell’equi­ librio», dal quale tuttavia la realtà capitalistica è «assai lon­ tana nella sua essenza» perché dominata dalla spinta al pro­ fitto, che è la causa delle crisi; nella pagina subito dopo, «la rappresentazione corrisponde agli schemi di Marx, ma an­ che alla realtà», perché lo schema mostra esattamente «co­ me questo profitto si realizzi per i capitalisti» («Vorwärts», 16 febbraio 1913, appendice). Secondo Pannekoek uno sta-

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to di equilibrio non esiste affatto, esiste solo il vuoto: « L ’ampiezza della produzione è paragonabile a una cosa senza peso, che... può galleggiare in qualsiasi stato. Non esiste per il raggio della produzione uno stalo di equilibrio al quale sia ricondotto attraverso oscillazioni»... « I l ciclo industriale non è un oscillare intorno a un qualsiasi stato medio dato da un certo bisogno» (Theoretisches zur Ursa­ che der Krisen, in «Neue Zeit», 1913, n. 22, pp. 783-792). Per Bauer, gli schemi di Marx, il cui vero senso egli ha final­ mente decifrato, non significano altro che il moto della produzione capitalistica nel suo adattamento all’aumento della popolazione. 5. Eckstein e Hilferding credono alla possibilità econo­ mica obiettiva di un’illimitata accumulazione: « E chi ac­ quisti i prodotti lo dimostrano appunto gli schemi» (Eck­ stein), sviluppabili, sulla carta, all’infinito. La «cosa senza peso» di Pannekoek può, come dice egli stesso, «galleggia­ re in qualsiasi stato». Secondo Hilferding, «ogni allarga­ mento della produzione è possibile compatibilmente con le forze produttive presenti», crescendo con la produzione, co­ me mostrano gli schemi, anche lo smercio. Per Bauer, so­ lo «gli apologeti del capitale possono affermare l’illimita­ tezza dell’accumulazione» e sostenere che «anche il potere di consumo aumenti automaticamente con la produzione» («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 873). E allora? Qual è, dunque, l’opinione dei signori «com­ petenti»? Esisteva in Marx un problema dell’accumulazio­ ne che tutti insieme abbiamo finora trascurato, o il proble­ ma continua ad essere, anche dopo la recentissima soluzio­ ne data da Otto Bauer, un parto della «mia completa inca­ pacità di lavorare con gli schemi di M arx» come dice il re­ censore del «V orw ärts»? Sono gli schemi di Marx verità definitive, dogma infallibile, o sono «arbitrari e non privi di contraddizioni»? Il problema da me formulato tocca le radici dell’imperialismo, o non «ha nulla a che fare con le manifestazioni della vita economica oggi pulsante»? E che cosa rappresentano, infine, gli schemi «divenuti celebri» di Marx, come dice Eckstein: uno «stato d ’equilibrio» soltan­ to teorico della produzione, un quadro della realtà vera, u-

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na dimostrazione della possibilità di «qualsiasi allargamen­ to» e perciò di un aumento illimitato della produzione, una prova della sua impossibilità in vista del sottoconsumo, un adattamento della produzione ai limiti dell’aumento del­ la popolazione, il pallone «senza peso» di Pannekoek, un cammello, una donnola? È tempo che i «competenti» co­ mincino a mettersi d ’accordo. Frattanto, che bell’esempio di chiarezza, di armonia e di compattezza del marxismo ufficiale, di fronte alla parte piu importante del II libro del Capitale di Marx! E che splen­ dida giustificazione della sufficienza con cui questi signori hanno liquidato il mio libro Ma poiché Otto Bauer mi ha sollevato dall’obbligo di polemizzare con gli altri «competenti», occupiamoci ora di lui. 1 II recensore del «Vorwärts», Eckstein, è stato fra tutti i «competenti» quello che meno ha capito la questione di cui si tratta. Egli appartiene al ti­ po di giornalista venuto su con lo sviluppo della stampa operaia, che sa scri­ vere di tutto: di diritto familiare giapponese, di biologia moderna, di storia del socialismo, di teoria della conoscenza, di etnografia, di storia della ci­ viltà, di economia politica, di problemi tattici - di tutto quel che occorre. Questi scrittori universali si muovono in tutti i campi del sapere con una sicurezza priva di scrupoli che uno studioso serio può sinceramente invidiar loro. Quando poi non riescono a capire l’argomento scelto, rimediano al­ l ’incapacità di comprendere col fare i galletti. Due esempi: «Se si ricono­ sce fin da ora che l’autrice ha misconosciuto il senso e lo scopo della rappre­ sentazione di Marx, questo riconoscimento è confermato dal resto del libro. Anzitutto le è rimasta del tutto oscura la tecnica di questi schemi. Lo dimo­ stra la p. 72 del testo». Ora, in quel punto si parla del fatto che Marx, nel suo schema, calcola la produzione di denaro nella sezione dei mezzi di pro­ duzione, ed io lo critico cercando di mostrare che, il denaro non essendo in se stesso mezzo di produzione, il suo inserimento nella sezione I deve neces­ sariamente far sorgere gravi difficoltà di rappresentazione esatta. Ed ecco il nostro «competente»; «La compagna Luxemburg rimprovera a Marx di aver collocato la produzione di materiale denaro, oro e argento, nella sezione I, calcolandoli come mezzi di produzione, il che sarebbe errato. P e rc iò a g g iu n ­ g e a lle d u e serie e la b o ra te d a M a rx u n a terz a ch e d o v re b b e rap p rese n ta re la p r o d u z io n e d i m ate riale m o n e tario . Ciò è indubbiamente ammissibile, ma ci

si chiede come dovrà svolgersi lo scambio reciproco nelle tre serie». Ed ora, un’amara delusione! «Nello schema presentato dalla compagna Luxemburg, la difficoltà è non soltanto gravissima ma insuperabile... Ma essa non fa il minimo sforzo di rappresentare questi “ intrecci organici” . Il solo tentativo sarebbe bastato a mostrarle che il suo schema è impossibile»; e cosi via con molta grazia. Senonché, lo «schema presentato dalla compagna Luxemburg» a p. 72 non è affatto mio ma... di Marx! Io non faccio che riprodurre le cifre del II libro del C a p ita le per mostrare come, se c o n d o i d a ti d i M a rx , l’inse­ rimento della produzione di materiale-denaro riesca im p o ssib ile e osservo

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che uno sguardo allo schema marxista della riproduzione documenta gli a s ­ su r d i cui porta la confusione dei mezzi di scambio coi mezzi di produzio­ ne. Ed ecco il bravo Eckstein rinfacciarmi lo schema di Marx, che io critico, e sulla sua base condannarmi per non aver compreso «la tecnica di questi schemi». Secondo esempio. Nel cap. XVII del II libro, Marx presenta il suo pri­ mo schema dell’accumulazione, dove immagina che i capitalisti di una se­ zione capitalizzino sempre il 50% del plusvalore, e quelli dell’altra quel che piace a Dio, senza alcuna regola fissa, in base unicamente al fabbisogno del­ la I. Io cerco di criticare come arbitraria questa ipotesi. Ed Eckstein: «L ’er­ rore sta nel modo del suo calcolo, e questo dimostra eh’e ssa n on h a c a p ito la n atu ra d e g li sc h em i d i M a rx . Essa crede infatti che alla loro base stia l ’esi­ genza di un uguale tasso di accumulazione, cioè presuppone che in entrambe le sezioni fondamentali della produzione sociale si accumuli sempre nello stesso rapporto; che, in altre parole, la stessa parte di plusvalore sia messa a capitale. Ma questa è un’ipotesi gratuita che contraddice ai fatti... In real­ tà, n on e sis te un ta sso u n ifo rm e d i ac cu m u la z io n e, ch e sa re b b e teo ricam en te u n a ss u r d o ». È questo «un incomprensibile errore dell’autrice, la quale di­ mostra di non aver affatto compreso la natura degli schemi di Marx». La ve­ ra legge del saggio uniforme del profitto sta «in completa antitesi con la fan­ tasticata legge di un tasso uniforme di accumulazione», e così via allegramen­ te. Senonché, c in q u e p a g in e p iù a v a n ti, Marx presenta un secondo schema dell’accumulazione, quello essenziale e con cui esclusivamente lavora fino al­ la fine, mentre l ’altro era solo un tentativo, uno schizzo preliminare. E in que­ sto secondo e definitivo esempio, Marx ammette sempre un tasso u g u a le d i a c cu m u la z io n e (la «fantasticata legge») in e n tram b e le s e z io n i ! L ’«assurdo teorico», «in completa antitesi con la vera legge del saggio uniforme del profitto», questa somma di tutti i peccati mortali, si trova dunque a p. 496 del II libro del C a p ita le di Marx, e Marx vi insiste fino alla fine dell’opera. L ’accusa rimbalza dunque sul povero Marx, è lui che non ha «assolutamente capito la natura» dei suoi stessi schemi! Disgrazia che ha in comune non sol­ tanto con me, ma con Otto Bauer, il quale parte anche nel suo schema «ineccepibile» dal presupposto «che il tasso di accumulazione sia uguale nelle due sfere della produzione» («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 838). A que­ sto si riduce la critica di Eckstein! Ed io dovrei lasciarmi fustigare da un ra­ gazzino che non ha neppur sfogliato il II libro del C a p ita le ? Che poi una simile «recensione» sia potuta apparire sul «Vorwärts» è un segno caratte­ ristico del dominio della scuola degli epigoni «austro-marxisti» nei due or­ gani centrali della socialdemocrazia, e, se Iddio mi concederà di assistere alla seconda edizione del mio libro, non mancherò certo di salvare a edificazione dei posteri queste perle!

II.

I . Non mi occuperò, naturalmente, dei calcoli e delle ta­ belle di Bauer. Il pezzo forte della sua posizione e della sua critica al mio libro è la teoria della popolazione, ch’egli mi contrappone come base dell’accumulazione del capitale e che non ha, di per sé, nulla a che fare con schemi matemati­ ci. Di questa teoria dovremo occuparci nelle pagine che se­ guono: ma è intanto necessario farsi almeno un’idea del metodo con cui Bauer procede nelle sue manipolazioni ma­ tematiche. Se queste non portano alcun contributo alla so­ luzione del problema strettamente economico e sociale del­ l’accumulazione, sono tuttavia caratteristiche di Bauer, del­ l’impostazione dalla quale egli parte per risolvere il proble­ ma. Il procedimento può essere illustrato da alcuni esempi accessibili anche ai comuni mortali, che hanno orrore di ta­ belle seminatrici di confusione e di segni cabalistici. Pren­ diamo tre punti. A pagina 836 della «Neue Zeit» (cit.) Bauer spiega co­ me si compie l’accumulazione del capitale sociale. Egli am­ mette, secondo Marx, le due grandi sezioni della produzio­ ne (I, produzione di mezzi di produzione; II, produzione di mezzi di sussistenza) e, come punto di partenza nella I, un capitale costante di 120 mila e uno variabile di 50 mila (migliaia o milioni di marchi; insomma, un valore moneta­ rio), e nella II un capitale costante di 80 mila e uno variabi­ le di 50 mila. Le cifre sono naturalmente arbitrarie, ma i loro rapporti reciproci sono importanti come espressione dei presupposti economici dai quali Bauer muove. Cosi, il capitale costante nelle due sezioni è piu grande del variabi­ le, per esprimere il livello del progresso tecnico. Ma questa prevalenza del capitale costante sul variabile è maggiore

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nella I che nella II sezione, perché il progresso tecnico è ivi generalmente piu rapido. Infine, il capitale totale nella I sezione è piu grande che nella II. Tutto questo, si noti, è premesso da Bauer, e sono lodevoli premesse, perché corri­ spondono a quelle di Marx. Fin qui, dunque, tutto bene. Ed ora viene l ’accumulazione, il cui inizio è dato dal fat­ to che Bauer aumenta i due capitali costanti della stessa somma di io mila, e i due capitali variabili della stessa som­ ma di 2500. Ma, in tal modo, i predetti presupposti econo­ mici vanno a catafascio, perché: 1 ) è impossibile che il mi­ nor capitale totale della II sezione aumenti della stessa som­ ma di capitale nuovo come il maggior capitale della I, altri­ menti il loro rapporto reciproco, determinato dalla tecnica, si altererebbe; 2) è impossibile che i capitali addizionali nelle due sezioni siano distribuiti uniformemente fra capi­ tale costante e variabile, non essendo i capitali originali suddivisi in modo uniforme. Anche qui, la base tecnica ac­ cettata da Bauer viene capovolta da lui stesso. Cominciamo dunque con la distruzione ad opera di Bauer, già al primo passo dell’accumulazione, dei suoi stessi pre­ supposti economici. Perché? Per puro amore dei risultati aritmetici; per giungere, mediante addizioni e sottrazioni, a un prodotto che non faccia grinza. Proseguiamo. Allargata cosi la produzione, Bauer si pro­ pone di mostrare come si compie il secondo atto decisivo dell’accumulazione, il «salto mortale» della realizzazione del plusvalore. Bisognerà illustrare lo scambio della massa accresciuta di prodotti, e in modo che ne discenda un’ulte­ riore fase dell’accumulazione, un nuovo allargamento della produzione. È quello che avviene a pagina 863. Si tratta, qui, di portare allo scambio le due masse di merci presenti come risultato del primo anno di produzio­ ne: 220 mila mezzi di produzione e 180 mila mezzi di sus­ sistenza. A tutta prima la faccenda si svolge al modo solito: ogni sezione impiega la maggior porzione delle proprie mer­ ci, in parte direttamente, in parte attraverso lo scambio, al rinnovo del vecchio capitale consumato e alla soddisfazione del consumo della classe capitalistica. Fin qui tutto a po­ sto: Bauer non fa che ricalcare le orme di Marx. Ma eccoci

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al punto spinoso: l’allargamento della produzione per l’an­ no successivo, l ’accumulazione. Questo processo è introdot­ to dal passo a noi già noto: «Inoltre, i capitalisti vogliono impiegare il plusvalore accumulato nel primo anno all’al­ largamento degli impianti esistenti o alla creazione di nuo­ vi». Non ci occuperemo della questione che già abbiamo esaminato: se cioè basti la «volontà» dei capitalisti. Siamo qui, con Bauer, dell’opinione che la volontà dell’uomo sia il suo regno dei cieli, e vogliamo solo occuparci della manipo­ lazione grazie alla quale la volontà sovrana dei capitalisti si compie. Dunque, i capitalisti di Bauer della I sezione «vogliono» reinvestire nelle loro imprese 12 500 del proprio plusvalo­ re. Perché questa cifra? Solo perché Bauer ne ha bisogno per la pacifica riuscita dei suoi calcoli. Inchiniamoci dunque senza protestare alla volontà di Bauer; una cosa sola ci sia permessa - di attenerci ai presupposti da lui liberamente scelti. Benissimo: i capitalisti della I sezione hanno deciso di investire nella produzione 12 500 del loro plusvalore. Senonché, accade che, dopo di aver investito io mila delle lo­ ro merci nel loro capitale costante e ceduto altre 2500 al­ l’altra sezione in cambio di mezzi di sussistenza per i lavo­ ratori addizionali delle loro imprese ingrossate, sull’intera massa di merci rimane loro in magazzino un residuo, preci­ samente di 4666. Hanno già consumato, hanno rinnovato il capitale logorato, ne hanno investito del nuovo per allar­ gar la produzione, esattamente come si erano impegnati in un abboccamento con Otto Bauer, ed eccoli che «devono sopportare il peso ingombrante» di un residuo. Che fare, di questo residuo di 4666? Senonché, non dimentichiamo che non soltanto nella I ma anche nella II sezione i capitalisti «vogliono» accumula­ re. Anche qui, pur disponendo di un capitale molto minore, essi hanno l’ambizione di investire esattamente 12 500, e di distribuirli esattamente allo stesso modo; la vanità di imi­ tare i colleghi piu ricchi li spinge perfino a prescindere da considerazioni tecniche. Comunque, per questo allargamen­ to delle loro aziende, hanno bisogno di una massa addizio­ nale di mezzi di produzione della I sezione: avremo forse

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qui occasione di liberarci nel modo piu semplice del residuo indigeribile di questa? Niente affatto: tutto è già stato pre­ visto e attuato. L ’allargamento della sezione II si è compiu­ to «secondo un piano», cioè secondo il piano ideato dallo stesso Bauer, e non v’è nulla da aggiungervi. Tuttavia, nel­ la I sezione rimane quel maledetto residuo di 4666. Che ne facciamo? «Dove gli troveremo uno sbocco?» si chiede Bauer (p. 863). Ed ecco che cosa avviene. « I capitalisti delle industrie dei beni di consumo trasfe­ riscono una parte del plusvalore accumulato nel primo an­ no nelle industrie dei mezzi di produzione; sia che fondino essi stessi fabbriche con produzione di mezzi di produzio­ ne, sia che trasferiscano il plusvalore accumulato, per l’intermediario delle banche, ai capitalisti delle industrie di mezzi di produzione affinché lo impieghino, sia infine che acquistino azioni di società produttrici di mezzi di produ­ zione... Le industrie di mezzi di produzione vendono dun­ que merci per il valore di 4666 al capitale accumulato nel­ l’industria dei beni di consumo, ma investito nell’industria dei mezzi di produzione. Le industrie dei beni di consumo comprano cosi, oltre a mezzi di produzione per il valore di 83 334 [che coprono interamente il loro fabbisogno], an­ che mezzi di produzione per il valore di 4666, destinati alla produzione di mezzi di produzione» (p. 863). Ecco dunque la soluzione: la prima sezione vende il resi­ duo indigeribile di 4666 alla seconda sezione, ma questa non lo impiega al suo interno e lo «ritrasferisce» nella pri­ ma impiegandolo qui al rinnovato allargamento del capitale costante I. Anche qui, non dobbiamo occuparci del fatto economico dei «trasferimenti» baueriani del plusvalore dalla sezione II alla sezione I. Ci limitiamo a seguire ciecamente per val­ li e montagne Bauer, e a controllare se tutto va bene in que­ ste operazioni liberamente scelte e se l’autore mantiene fe­ de alle premesse. Dunque, i capitalisti I «vendono» il loro residuo di mer­ ci 4666 ai capitalisti II, e questi lo «comprano» trasferen­ do nella sezione I «una parte del plusvalore accumulato». Ma un momento! Con che cosa lo «comprano»? Dov’è la

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«parte del plusvalore» con cui l’acquisto è pagato? Nessu­ na traccia nella tabella di Bauer. L ’intera massa di merci della sezione II è già stata smaltita per il consumo della classe capitalistica delle due sezioni e per il rinnovo e l’al­ largamento del capitale variabile (cfr. il calcolo fatto da Bauer, p. 865), fino ad un resto di 1167. Questi 1167 in beni di consumo sono tutto ciò eh’è rimasto del plusvalore della II sezione. E questi 1167 sono utilizzati da Bauer non a «pagare» anche solo i 4666 in mezzi di produzione, ma come capitale variabile per i lavoratori addizionali richiesti per i 4666 mezzi di produzione che si pretendono «compra­ ti». Comunque voltiamo e rivoltiamo la questione, i capita­ listi II hanno utilizzato tutto il loro plusvalore e possono ben rovesciare le tasche, ma non vi trovano un centesimo per comprare i 4666 immagazzinati in mezzi di produzione. D ’altra parte, se realmente quell’acquisto fosse avvenu­ to, dovremmo vedere nella sezione I i 4666 scambiati a tal fine in mezzi di consumo. Ma dove sono, e che cosa ne fa la sezione I ? Bauer non ce lo dice. I mistici 4666 in beni di consumo, che dovrebbero essere stati scambiati all’atto del­ la «compera», sono spariti senza lasciar traccia. O dobbia­ mo forse pensare che i capitalisti della sezione II abbiano anche scorte di capitali che non compaiono nelle tabelle, tengano depositi presso la Deutsche Bank e prelevino di qui 4666 in denaro per comprare quei mezzi di produzio­ ne? Ma attenzione! Se era questo che Bauer pensava nel costruire le sue tabelle come rappresentazione del «capitale sociale», e se teneva fisso un occhio a riserve segrete di ca­ pitali a cui attingere quando non riusciva a cavarsela coi suoi schemi, addio schemi di Marx! Capitale sociale totale è capitale sociale totale: non se ne esce. Esso deve compren­ dere fino all’ultimo centesimo ciò che la società possiede in capitale, perciò anche la Deutsche Bank coi suoi depositi; e l’intera circolazione deve potersi svolgere entro la cornice dello schema, le cui tabelle o contengono tutto o non val­ gono nulla. Non resta allora che una conclusione: le manovre dei ca­ pitalisti di Bauer sono pure smargiassate: questi signori fanno soltanto finta di vendersi e comprarsi a vicenda i

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4666 in mezzi di produzione, perché mezzi per comprarli non ne esistono. Se i capitalisti della sezione I prelevano da quelli della II il resto della loro massa di merci, è un puro dono, un atto di amor cristiano. E i capitalisti della sezione II rispondono a questa generosità, per non sembrar spilor­ ci, con altrettanta magnanimità: restituiscono ai loro colle­ ghi il regalo, aggiungendovi gratis, come se non bastasse, il proprio residuo in beni di consumo per il valore di 1167 (di cui non sanno che fare): ecco - dicono - , in nome di Dio, vi offriamo il capitale variabile necessario per mettere in moto le vostre macchine. Cosi, come ultimo atto dell’accumulazione nella sezione I (una volta compiuta, per Bauer, «secondo un piano») si ha un nuovo capitale costante 4666 e un capitale variabile 1167. E Bauer aggiunge rivolto al pubblico, con un sorriso compiaciuto: voila! « È cosi realizzato l ’intero valore dei prodotti delle due sfere, e perciò anche l ’intero plusvalore» (p. 865). «... Allo stesso modo ci si può convincere, in base alla tabella IV, che non soltanto nel primo ma in qualun­ que anno successivo, l’intero valore dei prodotti delle due sfere è collocato senza inconvenienti, e l ’intero plusvalore realizzato. L ’ipotesi della compagna Luxemburg, che la par­ te accumulata del plusvalore non possa realizzarsi, è perciò falsa» (p. 866). Il risultato ci riempie di gioia, ma è una gioia temperata dalla manipolazione grazie alla quale è stato raggiunto. In breve, essa consiste in questo: compiutosi e terminato, per il rinnovo e l’allargamento del capitale, lo scambio fra le due sezioni della produzione sociale, rimane alla sezione I un resto inesitabile di mezzi di produzione per il valore di 4666, e alla sezione II un altro resto in beni di consumo per il valore di 1167. Che farne? Scambiarli, almeno per l ’am­ montare della somma piu piccola? Ma allora, continua a ri­ manere nella sezione I un resto inesitabile, e avremo bensì ridotto le cifre ma non i guai. In secondo luogo: che senso e scopo economico avrebbe quello scambio? Che cosa ne fa­ rebbe la sezione I, dei beni di consumo per lavoratori addi­ zionali così ottenuti, posto che dopo lo scambio non dispo­ ne piu della quantità di mezzi di produzione sufficiente per

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impiegare quegli operai? E che cosa ne farebbe la seconda, dei nuovi mezzi di produzione cosi ottenuti, se si fosse pri­ vata mediante lo scambio dei beni di consumo necessari per lavoratori addizionali? Lo scambio è dunque impossibile, i due resti dello schema rimangono semplicemente inesitabili. Per cavarsi d ’impiccio, Bauer ricorre ai seguenti strata­ gemmi. Anzitutto, la finzione di una «vendita» del resto di merci inesitabile della sezione I alla II —e con quali mezzi quest’ultima proceda all’acquisto non dice. In secondo luo­ go, l’attribuzione ai capitalisti della sezione II, dopo quella supposta «vendita», di qualcosa di ancor piu originale: con nuovi mezzi di produzione ottenuti, essi emigrano dalla pro­ pria sezione nell’altra e ve li impiegano come capitale, por­ tandosi dietro (terza geniale scoperta) anche i propri beni di consumo inesitabili per impiegarli anch’essi come capita­ le variabile nella sezione I. Ci si può chiedere perché Bauer ricorra a questa origina­ le transazione, invece di lasciare semplicemente nella sezio­ ne I i mezzi di produzione eccedenti e farveli impiegare al­ l’allargamento del capitale - cosa che in definitiva avviene ad un batter di ciglia dell’autore. Senonché, in questo caso, Bauer cadrebbe dalla padella nella brace, cioè nella difficol­ tà di spiegare come si possa pilotare dalla II alla I sezione il capitale variabile a tal fine necessario sotto forma di 1167 in beni di consumo. Non essendo ciò realizzabile e risultan­ do impossibile l’impiego senza residui dei prodotti attraver­ so lo scambio, Bauer ricorre ad un gioco di bussolotti per radunare la massa residua e inesitabile di merci nella sezio­ ne I come ultimo atto dell’accumulazione. Un colpo di audacia, non c’è che dire. Marx è stato il pri­ mo nella storia dell’economia politica a dividere e rappre­ sentare schematicamente in due sezioni la produzione socia­ le. È questo un concetto fondamentale che ha posto su nuo­ ve basi l’intero problema della riproduzione sociale, e ha reso per la prima volta possibile la sua analisi esatta. Ma il presupposto della distinzione di Marx e del suo schema è che fra le due sezioni esistano soltanto rapporti di scambio, che è appunto la forma fondamentale dell’economia capita­ listica e mercantile. A questa condizione prima Marx si at-

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tiene in tutte le sue operazioni sullo schema, allo stesso mo­ do che rispetta con ferrea consequenzialità tutti gli altri suoi presupposti. Ma ecco viene Bauer e, cosi en passant, rove­ scia l ’intera costruzione di Marx «trasferendo» da una se­ zione all’altra le merci senza scambio e navigando allegra­ mente per lo schema come un’anatra selvatica per il cielo. Bauer si appella al fatto che col progresso tecnico la pro­ duzione dei mezzi di produzione cresce a spese di quella dei beni di consumo, ragione per cui i capitalisti della se­ conda sezione investono continuamente una parte del pro­ prio plusvalore, sotto una forma o sotto l’altra (attraverso le banche, l ’acquisto di azioni o iniziative dirette), nella pri­ ma. Benissimo: solo che i «trasferimenti» del plusvalore accumulato da un ramo di produzione all’altro possono av­ venire solo sotto forma di capitale-denaro, sotto questa forma indifferenziata, assoluta del capitale, e perciò indi­ spensabile alla fluttuazione sociale, alla mediazione di ogni spostamento nella produzione sociale mercantile. Non si possono acquistare azioni di una miniera di rame con una scorta invendibile di candele di stearina o fondare una nuo­ va fabbrica meccanica con un magazzino di scarpe di gom­ ma inesitabili. Quello che si trattava di mostrare era appun­ to come, mediante scambio plurilaterale, le merci capitali­ stiche diventino denaro, quel denaro che solo permette la fluttuazione da un ramo di produzione all’altro. È perciò una pura scappatoia «trasferire» senza scambio nell’altra sezione i prodotti inesitabili della prima nel momento in cui non si riesce a portare a termine lo scambio. Altrettanto fittizio è l’espediente al quale Bauer ricor­ re di far procedere una sezione della produzione sociale a «fondazioni» nell’altra. Le «sezioni» di Marx non rappre­ sentano registri personali di imprenditori, ma categorie economiche obiettive. Se un capitalista della sezione II vuol «fondare» e accumulare con una parte del suo capitale mo­ netario anche nella sezione I, ciò non significa che la sezio­ ne beni di consumo partecipi alla produzione nella sezione mezzi produttivi (che sarebbe un assurdo economico), ma solo che la stessa persona funge come imprenditore contem­ poraneamente nelle due sezioni. Abbiamo dunque a che fa-

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re, economicamente, con due capitali, di cui uno produce mezzi di produzione, l’altro beni di consumo. Che questi due capitali appartengano alla stessa persona, che il plusva­ lore ottenuto da entrambi finisca in una tasca sola, è, dal punto di vista economico, per l’analisi delle condizioni del­ la riproduzione sociale, del tutto indifferente. Perciò lo scambio rimane l’unico ponte di collegamento fra le due se­ zioni o, se si fa di queste, a furia di mescolare, una poltiglia informe, crolla tutta la rigorosa costruzione di Marx, risul­ tato di un secolo di lotta per la chiarezza nell’economia po­ litica, e l’analisi del processo della riproduzione finisce nel caos dove Say e compagni pescano. Da notarsi che lo stesso Bauer parte da questo presuppo­ sto. Dice per esempio, a proposito della costruzione delle sue tabelle: «Perciò nel secondo anno il valore dei prodot­ ti dell’industria dei beni di consumo deve ammontare a 188 mila, poiché solo contro queste somme di valore possono essere scambiati i beni di consumo» (p. 837), e, completate le tabelle in modo che l’accumulazione possa compiersi, si chiede: «Chi compra queste m erci?» (p. 863). Dunque, egli stesso porta a termine l’accumulazione liquidando la massa sociale delle merci attraverso lo scambio fra le due sezioni, salvo poi, essendogli rimasto nelle due sezioni, do­ po una serie di atti di scambio, un residuo non scambiabile di merci, a tirarsi d ’impaccio con la geniale scoperta che le due sezioni si facciano regali a vicenda e l’una si immischi negli affari dell’altra. Cosi, già al punto di partenza delle sue tabelle, Bauer sacrifica i suoi presupposti e, nello stes­ so tempo, la base fondamentale degli schemi di Marx. E ora un terzo esempio. Marx svolge i suoi schemi a illustrazione del processo di accumulazione, partendo dal presupposto che il capitale co­ stante stia in rapporto immutabile col capitale variabile e che pure il saggio del plusvalore rimanga immutato anche se il capitale si allarga continuamente. Perciò nel mio libro io affermo, fra l’altro, che è quest’ipotesi, inconciliabile con la realtà pratica, a facilitare il processo indisturbato dell’ac­ cumulazione negli schemi di Marx. Basta considerare il pro­ gresso tecnico, cioè il progressivo spostamento nei rapporti

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fra capitale costante e variabile, e l’aumento del saggio del plusvalore, perché la rappresentazione dell’accumulazione incontri, nel quadro degli schemi di Marx, difficoltà insor­ montabili; basta quel fatto a mostrare che il processo dell’ac­ cumulazione capitalistica non può essere racchiuso nei puri rapporti reciproci fra industrie strettamente capitalistiche. Otto Bauer, diversamente da Marx, introduce bensì nel­ le sue tabelle la considerazione del progresso tecnico, e ne tiene conto facendo crescere di anno in anno, con rapidità doppia del capitale variabile, il capitale costante. Sì, nel corso delle sue argomentazioni, egli attribuisce al progresso tecnico il ruolo decisivo nell’alternarsi delle congiunture. Ma che cosa vediamo d ’altra parte? Nello stesso istante, «per semplificare l ’indagine», Bauer ammette un saggio del plusvalore uniforme, invariabile (p. 835)! Intendiamoci: all’analisi scientifica è lecito, per sempli­ ficare la materia, prescindere dalle condizioni reali, o com­ binarle liberamente in ordine a determinati obiettivi. Il matematico può ridurre o potenziare a piacere la sua equa­ zione: il fisico può, per spiegare le velocità relative di ca­ duta dei gravi, compiere esperimenti nel vuoto. Allo stesso modo, l’economista può, per determinati scopi della sua in­ dagine, eliminare alcune condizioni reali della vita econo­ mica. Nell’intero I libro del Capitale, Marx parte dal pre­ supposto che: 1) tutte le merci si vendano al loro valore; 2) i salari corrispondano al valore pieno della forza-lavoro: presupposto cui contraddice notoriamente ad ogni passo la pratica. Questo procedimento è seguito da Marx per mo­ strare come, anche nelle condizioni piu favorevoli per gli operai, lo sfruttamento venga portato a termine. La sua analisi non cessa per ciò d ’essere scientificamente esatta; an­ zi, proprio per questa via, offre una base incrollabile all’esat­ ta valutazione della prassi quotidiana con le sue deviazioni. Ma che cosa si direbbe a un matematico che moltiplicas­ se per 2 una metà della sua equazione e lasciasse invariata l’altra o la dividesse per 2 ? Che cosa si direbbe di un fisico che, nel confrontare le velocità relative di caduta dei gravi, ne osservasse alcuni nello spazio, altri nel vuoto? Appunto così procede Bauer. È vero che in tutti i suoi schemi della

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produzione Marx ammette sempre dei saggi fissi del plusva­ lore, e proprio quest’ipotesi può essere considerata insuffi­ ciente ai fini dell’analisi del problema dell’accumulazione. Ma, dato il suo presupposto e nei suoi limiti, Marx procede logicamente, e prescinde perciò sempre dal progresso tec­ nico. Non cosi Bauer: egli ammette con Marx un saggio fisso del plusvalore, ma, in contrapposto a Marx, un forte e in­ cessante progresso tecnico! Tiene conto del progresso tec­ nico, ma un progresso che non aumenta lo sfruttamento - due condizioni che fanno a pugni, che si escludono a vi­ cenda. E, con gesto magnanimo, lascia a noi il compito di verificare tutte le sue operazioni nel presupposto di un sag­ gio crescente del plusvalore dal quale aveva «prim a» fatto astrazione, e ci assicura che anche cosi tutto procederà con soddisfazione generale. Peccato che Bauer non abbia rite­ nuto prezzo dell’opera sbrigare lui stesso la faccenda, inve­ ce di troncare i suoi magistrali calcoli e congedarci per im­ pegni urgenti proprio nel punto in cui la vera e propria di­ mostrazione dovrebbe cominciare '. In tal caso, almeno, avremmo una «dimostrazione» aritmetica delle affermazioni di Bauer, uno strumento di analisi scientifica, invece di un pasticcio che non può spiegare né dimostrare nulla. Finora non ho fatto parola del contenuto economico del­ le tabelle di Bauer, limitandomi a mostrare con alcuni esem­ pi quali metodi impieghi e come si attenga alle sue premes­ se. Né mi sono dilungata sulle sue manipolazioni per cele­ brare trionfi a buon mercato sulla inconsistenza delle sue operazioni schematiche. Molti dei suoi scogli potevano esse­ re facilmente aggirati con la costruzione di tabelle un po’ piu elaborate, cosa in cui per esempio Tugan-Baranovskij è un gran maestro —sia pur senza dimostrare nulla di piu nel­ la questione di fondo. Ma ciò di cui si tratta è il modo co­ me Bauer impiega lo schema di Marx, il fatto che la confu-1 1 Dopo di aver tirato le somme delle sue tabelle a base di capitale rapi­ damente crescente, ma di saggio del plusvalore invariabile, Pannekoek scri­ ve: «Allo stesso modo si può tener conto anche di una graduale modifica­ zione del tasso di sfruttamento» («Bremer Bürgerzeitung» del 29 gennaio 1913), ma anche lui ne lascia la briga al lettore.

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sione creata da Bauer con le sue tabelle tradisce la sua inca­ pacità a servirsi anche degli schemi marxiani. Il collega di Bauer in «competenza», Eckstein, potreb­ be accusarlo di «completa incomprensione degli schemi di M arx», di totale «incapacità a lavorare con gli schemi di M arx»: io mi limito a citare questi due esempi non perché ci tenga, come il suo collega-austro-marxista, a metterlo al­ la gogna, ma perché Bauer dichiara ingenuamente: «Rosa Luxemburg si accontenta di accennare all’arbitrarietà degli schemi di Marx... Noi preferiamo cercar di dare un’idea adeguata del pensiero di Marx e condurre la nostra indagine sulla base di uno schema scevro di ogni elemento arbitra­ rio. Perciò, abbiamo elaborato schemi che, una volta accet­ tato il presupposto, non contengono piu nulla di arbitrario, le cui grandezze anzi derivano l’una dall’altra con necessità imperiosa» (p. 837). Ora, Bauer vorrà perdonarmi se, dopo questi due esem­ pi, preferisco attenermi al Marx non corretto e ai suoi «ar­ bitri». Avrò piu oltre occasione di rilevare la differenza che corre fra gli errori di un Marx e i giochetti dei suoi epigoni «competenti». Ma Bauer non si limita ad ammaestrarmi: si preoccupa anche - da quella persona posata che è - di spiegare il mio errore. Ha scoperto dove quest’errore ha radice: « L ’ipote­ si della compagna Luxemburg, che il plusvalore accumula­ to non possa realizzarsi, è dunque falsa», scrive dopo che, attraverso le manipolazioni di cui sopra, le sue tabelle si so­ no incluse «senza residui». «Com ’è possibile che la compa­ gna Luxemburg sia giunta a questa falsa conclusione?» Ec­ co la strabiliante spiegazione. «Abbiamo ammesso che i capitalisti comprino già nel pri­ mo anno i mezzi di produzione che nel secondo anno sono messi in moto dall’aumento della popolazione lavoratrice, e comprino già nel primo anno i beni di consumo che nel secondo anno vendono alla popolazione lavoratrice aumen­ tata... Se non ammettessimo questo, è un fatto che la rea­ lizzazione del plusvalore prodotto nel primo anno sarebbe, quest’anno, impossibile». E ancora: «Rosa Luxemburg crede che la parte accumu-

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lata del plusvalore non possa essere realizzata. Ë un fatto che non può esserlo nel primo anno, se gli elementi mate­ riali del capitale produttivo addizionale vengono comprati solo nel secondo» (p. 866). Ecco, dunque, dov’era il nocciolo della questione. Io non sapevo che, se si vuole aprire e far funzionare nel 1916 una fabbrica, bisogna costruire già nel 19x5 gli edifici neces­ sari, comprare macchine e materie prime, trovare scorte di mezzi di consumo per i lavoratori da assumere. M ’immagi­ navo che prima si aprisse un’azienda e poi se ne acquistas­ sero gli edifici, che prima si assumessero i lavoratori e poi si seminasse il grano con cui si fa il loro pane! C ’è proprio da ridere: da ridere, che affermazioni simili possano appa­ rire sull’organo scientifico del marxismo. Otto Bauer crede dunque davvero che le formule di Marx abbiano a che fare con «anni», e il brav’uomo si affanna per due pagine a tradurmi in spiccioli questa teoria con l’aiuto di formule a tre piani e di lettere greche e latine! Ma gli schemi marxiani dell’accumulazione del capitale non hanno nulla a che fare con gli anni solari: quel che interessa a Marx sono le metamorfosi economiche dei prodotti e il lo­ ro concatenamento in regime capitalistico; è il fatto che nel mondo capitalistico la serie dei processi economici è: pro­ duzione-scambio-consumo, e poi ancora produzione-scam­ bio-consumo, e cosi via all’infinito. E poiché lo scambio è il passaggio obbligato di tutti i prodotti e l’unico anello di congiunzione fra i produttori, agli effetti della creazione del profitto e dell’accumulazione non interessa in primo luogo il tempo in cui le merci sono realizzate, ma interessano que­ sti due fatti concreti: 1) che il capitalista totale, come ogni capitalista singolo, non può procedere all’allargamento della produzione prima di aver portato allo scambio le sue merci; 2) che il capitalista totale, come ogni capitalista singolo, non procede all’allargamento della produzione, se non gli si profila un mercato di sbocco allargato. Ora, dove la classe dei capitalisti nel suo insieme trova uno sbocco crescente, come base della sua accumulazione?

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Il problema era questo. E Bauer fornisce finalmente questa spiegazione piu pertinente: « In realtà, anche il plusvalore accumulato viene realizza­ to nella società capitalistica. Tale realizzazione si compie, tuttavia, gradualmente, a poco a poco. Per esempio, i mez­ zi di consumo impiegati nel secondo anno per nutrire i la­ voratori addizionali sono di regola prodotti già nel primo e venduti dai produttori ai grossisti; una parte del plusvalore incorporato in questi beni di consumo è perciò già realizza­ ta nel primo anno, mentre la realizzazione dell’altra parte del plusvalore avviene con la successiva vendita degli stessi mezzi di sussistenza dai grossisti ai dettaglianti e da questi ai lavoratori... Pertanto il nostro schema è un quadro fede­ le della realtà» (p. 868). Qui abbiamo almeno un’idea di come Bauer s’immagini la realizzazione del plusvalore, sia nel primo o nel secondo anno: questa avviene nel senso che i mezzi di sussistenza vengono venduti dai grossisti ai dettaglianti, e da questi ai lavoratori «addizionali». In definitiva, sono dunque i lavo­ ratori che realizzano ai capitalisti il loro plusvalore, glielo trasformano in denaro. «Pertanto», lo schema di Bauer è uno specchio fedele dell’angolo visuale del capitalista sin­ golo e del suo Sancio Pancia teorico, l’economista borghese volgare. Indubbiamente, per il capitalista singolo, Tizio è un buon acquirente delle sue merci quanto Caio, il lavoratore quan­ to un altro capitalista, il compatriota quanto lo straniero, il contadino quanto l’artigiano. Il capitalista intasca il suo profitto, a chiunque abbia venduto le sue merci, e gli im­ prenditori dell’industria dei beni di consumo derivano un profitto dalla vendita delle loro merci ai lavoratori, allo stes­ so modo che gli imprenditori delle industrie di lusso dalla vendita dei loro pizzi, gioielli e diamanti alle grandi dame dell’«alta società». Ma se Bauer traspone al capitale totale questa banale saggezza empirica dell’imprenditore privato, se non distingue fra le condizioni della riproduzione sociale e le condizioni di riproduzione del capitale singolo, per qual ragione al mondo Marx avrebbe scritto il II libro del Capi­ tale? È qui che si trova il nocciolo della teoria marxiana

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della riproduzione, è qui che Marx riesce per la prima vol­ ta a definire con chiarezza classica, liberandola dalla selva di contraddizioni e di tentennamenti dei Quesnay, Smith e successivi volgarizzatori, la distinzione fondamentale fra le due categorie capitale singolo e capitale sociale totale nei loro movimenti! Esaminiamo da questo punto di vista, e sia pure coi mezzi piu elementari, la teoria di Bauer. Dove prendono i lavoratori il denaro con cui dovrebbero realizzare, con l’acquisto dei mezzi di sussistenza, il plusva­ lore del capitalista? Al capitalista singolo, è vero, non inte­ ressa un bel nulla da dove il «cliente» attinga Mammona, purché lo possieda: ricevuto in regalo, rubato, ottenuto me­ diante la prostituzione, che importa? Ma, per la classe capi­ talistica nel suo complesso, rimane il fatto incontrovertibi­ le che solo dai capitalisti i lavoratori ricevono, in cambio della propria forza-lavoro, i mezzi per coprire i loro bi­ sogni: i salari. Li ricevono, come ho già detto, sotto due forme, corrispondentemente alle condizioni della moderna produzione di merci: come denaro prima, come merci poi, dove il denaro torna continuamente al suo punto di parten­ za, le tasche della classe dei capitalisti. Questa circolazione del capitale variabile esaurisce interamente il potere d ’ac­ quisto dei lavoratori e il loro contatto di scambio coi capi­ talisti. Se perciò alla classe lavoratrice sono destinati mezzi di sussistenza, ciò non significa, dal punto di vista sociale, che il capitale realizzi il plusvalore, ma che fornisce capitale variabile in merci (salari reali), ritirando in tal modo sotto forma di denaro, per lo stesso ammontare, il capitale deri­ vante dal precedente periodo di produzione. La cosiddetta realizzazione del plusvalore secondo la ricetta di Bauer con­ sisterebbe dunque nel fatto che la classe capitalistica scam­ bia continuamente una parte di nuovo capitale in forma di merci contro la stessa parte del capitale già suo sotto forma di denaro! Ora la classe capitalistica compie bensì continuamente questa transazione, dovendo ubbidire alla triste ne­ cessità di destinare alla sua forza-lavoro una parte del pro­ dotto totale come mezzi di sussistenza per farle produrre nuovo plusvalore in forma di merci. Ma la classe capitalisti­

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ca non si è mai sognata di «realizzare» con questo traffico il suo precedente plusvalore. Fare questa scoperta doveva es­ sere il privilegio storico di Bauer Del resto, anche Bauer ha l’oscuro sospetto che la tra­ sformazione del plusvalore in capitale variabile significhi tutto fuorché «realizzazione del plusvalore». Per esempio, non ne dice parola finché tratta del rinnovo del capitale va­ riabile alla scala precedente: il capolavoro comincia solo coi «lavoratori addizionali». Lavoratori che già da anni so­ no impiegati dal capitale ricevono semplicemente dei salari - prima in denaro, poi in mezzi di sussistenza —e cosi pro­ ducono plusvalore: lavoratori assunti di fresco in seguito ad allargamento dell’impresa fanno invece qualcosa di piu «realizzano» ai capitalisti il loro plusvalore, acquistando mezzi di sussistenza a questi capitalisti per il salario mone­ tario da essi ricevuto! I lavoratori in generale realizzano soltanto per sé la propria merce - la forza-lavoro - e fanno già abbastanza per il capitale se producono plusvalore. Ma chiamateli lavoratori «addizionali», e dovranno compiere per il capitale il doppio miracolo: i ) di produrre il plusva­ lore in merci; 2) di realizzare questo plusvalore in denaro! Siamo qui ai concetti elementari del processo di riprodu­ zione, alle soglie del II libro del Capitale, ed è facile giudi­ care come Bauer sia qualificato non solo ad illustrare que­ sto libro, ma a «liberare» dalle loro contraddizioni e «ar­ bitri» le argomentazioni di Marx.1 1 Un piccolo «competente» della «Dresner Volkszeitung» (22 gennaio 1913) ha risolto in modo straordinario il problema dell’accumulazione. «Ci­ gni marco - mi insegna - ricevuto in piu dai lavoratori crea un nuovo inve­ stimento di capitali per dieci e più marchi, cosicché la lotta dei lavoratori... crea il mercato per il plusvalore e rende possibile l’accumulazione del capi­ tale nel paese». Il furbacchione! Scommetto che se mai a un simile «compe­ tente» passasse per la testa di scrivere fra le righe di uno studio economico «chicchiricchi!», l’organo socialdemocratico non esiterebbe a stamparlo co­ me articolo di fondo. I signori redattori, soprattutto quelli con tanto di cul­ tura accademica, che si danno un gran da fare nelle aule e nei corridoi dei parlamenti a girare la ruota della storia mondiale, considerano non da oggi una perdita di tempo quella di rimboccarsi le maniche e mettersi a studiare dei libri teorici per farsi un concetto dei problemi che via via affiorano. Per­ ciò si trova anche più comodo affidarsi al primo cronista capace di mettere insieme rassegne economiche con cifre e dati inglesi, americani e altri.

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Bauer corona la parte generale della sua critica al mio li­ bro col seguente passo: «L a compagna Luxemburg crede che le merci nelle quali (cc + ß) sono incorporati [per gli umili mortali: le merci in cui si annida il plusvalore destinato alla capitalizzazione] debbano essere vendute fuori del mondo capitalistico per­ ché la realizzazione del plusvalore in esse incorporato sia possibile. Ma che merci sono? Sono i mezzi di produzione di cui i capitalisti hanno bisogno per allargare il loro appa­ rato produttivo, e i beni di consumo destinati a nutrire l’au­ mento della popolazione lavoratrice». Ed esclama, stupe­ fatto della mia ottusità: «Se queste merci fossero catapul­ tate fuori del mondo capitalistico, l’anno dopo una produ­ zione su scala superiore sarebbe impossibile; non ci si po­ trebbero procurare né i mezzi di produzione per l’allarga­ mento dell’apparato produttivo, né i mezzi di sussistenza per la mano d’opera aumentata. La distrazione di questa parte del plusvalore dal mercato capitalistico non solo non renderebbe possibile, come crede Rosa Luxemburg, l’accu­ mulazione, ma renderebbe impossibile ogni accumulazio­ ne» (p. 868; corsivo di Bauer). E, a chiusura dell’articolo, categoricamente: «L a parte del sovraprodotto in cui è incorporata la parte accumulata del plusvalore, non può essere venduta ai contadini e pic­ colo-borghesi delle colonie, perché viene impiegata nella madrepatria capitalistica ad allargare l’apparato produtti­ vo» (p. 873). Sia lode al Signore! Chi avrà parole per una simile criti­ ca? Siamo nel regno dell’innocenza economica, al livello di quel valentuomo di v. Kirchmann o di quel degno arcicon­ fusionario russo di Voroncov. Bauer crede dunque per dav­ vero che le merci capitalistiche «catapultate» in strati o paesi non-capitalistici vadano in fumo, come se fossero sta­ te gettate a mare e lasciassero quindi nella società capitali­ stica un vuoto incolmabile? Il brav’uomo, nel suo zelo di arzigogolatore sullo schema di Marx, non si è accorto di ciò che anche un ragazzino sa: che le merci, quando vengono esportate, non si annullano ma si scambiano e che perciò di

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regola in quei paesi e strati non-capitalistici si acquistano altre merci che servono a dotare l’economia capitalistica di mezzi di produzione e di consumo! E considera pregiudizie­ vole per il capitale, e frutto di un mio accecamento, ciò che è realtà quotidiana dal primo all’ultimo giorno della storia del capitalismo! Cose straordinarie davvero. Il capitalismo inglese «cata­ pulta» dal 1820 al i860 i suoi mezzi di produzione, carbo­ ne e ferro, verso i paesi dell’America del Nord e del Sud non-capitalistici, e non solo non va a catafascio ma cresce e prospera, ricevendo dalla stessa America cotone, zucchero, riso, tabacco e, in seguito, grano. Il capitalismo tedesco «ca­ tapulta» oggi con slancio febbrile le sue macchine, le sue locomotive, i suoi laminati, i suoi prodotti tessili verso la Turchia non-capitalistica e, invece di andare a catafascio, è pronto a dar fuoco ai quattro angoli del mondo pur di mo­ nopolizzare in misura sempre più larga questi affari. Per aprirsi la possibilità di «catapultare» le proprie merci capi­ talistiche nella Cina non-capitalistica, Inghilterra e Francia hanno condotto in Estremo Oriente, per decenni, guerre sanguinose, e a cavallo del secolo ventesimo il capitale uni­ to d ’Europa ha organizzato una crociata internazionale con­ tro la Cina. Sf, il commercio di scambio con contadini e ar­ tigiani, cioè con produttori non-capitalistici nella stessa Eu­ ropa, in ogni paese, davanti ai nostri occhi, è uno dei feno­ meni piu comuni e, nello stesso tempo, come tutti sanno, una delle condizioni ineliminabili di esistenza dell’industria capitalistica. Ed ecco Otto Bauer ammonirci: se i capitalisti «catapultano» verso un ambiente non-capitalistico le merci che essi stessi o i loro lavoratori non consumano, ogni accu­ mulazione risulta impossibile! Come se, al contrario, l’evo­ luzione capitalistica fosse storicamente possibile nell’even­ tualità che il capitale dovesse contare fin dall’inizio sui pu­ ri mezzi di produzione e di consumo da essa stessa prodotti! A tanto può trascinare lo zelo della sottigliezza teorica! È però caratteristico dell’orientamento generale degli epi­ goni «competenti» — e ne troveremo ripetutamente con­ ferma in seguito —che, sprofondatisi negli «schemi» astrat­ ti, abbiano perso ogni senso della realtà, e quanto piu gira-

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no impavidi nel vuoto, tanto più pietosamente navighino alla cieca nell’intrico della vita cosi com’è. Abbiamo fatto conoscenza coi preliminari della critica di Bauer, coi suoi metodi, coi suoi procedimenti. Rimane la questione principale: la sua teoria della popolazione. 2. «Ogni società la cui popolazione cresce deve allarga­ re di anno in anno il suo apparato produttivo. Questa ne­ cessità vale tanto per la società socialista dell’avvenire quan­ to per la società capitalistica del presente, cosi come valeva per la produzione semplice delle merci o per l’economia contadina del passato, che produceva per il suo fabbisogno interno» («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 834). Ecco, in nuce, la soluzione che Bauer dà al problema del­ l’accumulazione. Per l’accumulazione è necessario al capita­ le uno smercio sempre crescente, che permetta la realizza­ zione del plusvalore. Da dove viene questo smercio? Bauer risponde: poiché, come in qualunque altra società, la popo­ lazione della società capitalistica cresce, la domanda di mer­ ci aumenta; ed è qui la base generale dell’accumulazione. «Nel modo di produzione capitalistico vige la tendenza ad adattare l’accumulazione del capitale all’aumento della po­ polazione» {ibid., p. 871). Da questo concetto fondamen­ tale Bauer deduce logicamente i movimenti caratteristici del capitale e le forme ch’essi assumono. Anzitutto, lo stato di equilibrio fra produzione e popola­ zione, cioè la linea media intorno alla quale le fasi di con­ giuntura gravitano. Per esempio, Bauer ammette che la po­ polazione cresca annualmente del 5% . «Se l’equilibrio deve essere mantenuto, anche il capitale variabile deve aumen­ tare annualmente del 5 % ». Poiché il progresso tecnico fa aumentare di continuo, relativamente, il capitale costante (mezzi di produzione morti) a spese del variabile (salari per la forza-lavoro), Bauer ammette che il capitale costante au­ menti due volte piu rapidamente che il capitale variabile, cioè del 10% ogni anno. Su questa base costruisce le sue «ineccepibili» tabelle, le cui operazioni già conosciamo e che ci interessano qui soltanto per il loro contenuto econo­ mico. In queste tabelle Bauer liquida l’intero prodotto so-

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dale, e conclude: « L ’allargamento del campo della produ­ zione, che costituisce un presupposto della accumulazione, è qui dato dall’aumento della popolazione» (p. 869). Il punto di partenza di questo «stato di equilibrio», gra­ zie al quale l’accumulazione continua a svolgersi, è dunque la condizione che il capitale variabile cresca con pari rapidi­ tà che la popolazione. Fermiamoci un momento a conside­ rare questa «legge fondamentale della popolazione». Nell’esempio di Bauer, la popolazione cresce annualmen­ te del 5 % , perciò anche il capitale variabile deve crescere del 5 % . Ma che cosa significa ciò? Il «capitale variabile» è una grandezza di valore, è la somma dei salari pagati ai la­ voratori, espressa in un certo ammontare di denaro. Que­ sto può rappresentare quantità molto diverse di beni di con­ sumo. In generale, ammettendo un progresso tecnico ge­ nerale, e perciò una crescente produttività del lavoro, una somma relativamente sempre minore del capitale variabile corrisponderà ad una determinata quantità di beni di con­ sumo. Se perciò la popolazione cresce annualmente del 5% , al capitale variabile basta un aumento annuo, diciamo, del solo 4%, 4 / , 4%% ecc., per render possibile lo stesso livel­ lo di vita. Questo progresso tecnico generale Bauer lo pre­ suppone, giacché appunto per esprimerlo ammette un au­ mento due volte piu rapido del capitale costante. In que­ st’ipotesi, l ’aumento uniforme del capitale variabile con l’aumento della popolazione è concepibile solo in un caso : se, nonostante il rapido e continuo progresso tecnico in tut­ ti i rami della produzione, e perciò la crescente produttività del lavoro, i prezzi delle merci rimangono invariati. Ma que­ sto sarebbe non soltanto seppellire la teoria marxiana del valore, ma introdurre qualcosa di inspiegabile dal punto di vista capitalistico. Non è forse la diminuzione dei prezzi delle merci, come arma nella lotta di concorrenza, uno sti­ molo per il capitale singolo ad affermarsi come pioniere del progresso tecnico? Ma un momento! Se presentassimo la cosa cosi: nono­ stante la crescente produttività del lavoro e la riduzione da essa determinata dei prezzi dei beni di consumo, i salari monetari (il capitale variabile come grandezza di valore) re-

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stano immutati perché il tenore di vita dei lavoratori au­ menta parallelamente al progresso? Sarebbe dunque tenuto conto anche dell’ascesa sociale della classe operaia. Se però questo aumento del tenore di vita dei lavoratori è forte e continuo al punto che il capitale variabile (somma dei sala­ ri in denaro) deve crescere di anno in anno esattamente nel rapporto in cui cresce la popolazione lavoratrice, ciò signifi­ ca che l’intero progresso tecnico, l’intero vantaggio della produttività del lavoro va ad esclusivo favore dei lavorato­ ri, cioè, prescindendo dall’aumento anche del loro livello privato di vita, i capitalisti non aumenterebbero il saggio del loro plusvalore. In realtà, come sappiamo, Bauer am­ mette nelle sue tabelle un saggio uniforme del plusvalore. Ci dice, è vero, di ammetterlo «dapprima» e solo «per amore di semplicità», insomma per tendere una mano pieto­ sa e soccorritrice alla nostra pochezza mentale e facilitarci l ’ascensione del primo gradino della sua teoria. Ma, in real­ tà, questa ipotesi - come ora risulta - costituisce il pilastro economico fondamentale della teoria dell’accumulazione di Bauer, e su di essa si erige l’intero «stato di equilibrio» fra produzione e consumo della società! Lo riconosce espressamente lo stesso Bauer: « I l nostro schema (tabella IV) presuppone che: 1) i la­ voratori aumentino ogni anno del 5 % ; 2) il capitale varia­ bile cresca nello stesso rapporto della mano d ’opera; 3) il capitale costante cresca, nella misura richiesta dal progres­ so tecnico, piu in fretta del variabile: in questi presupposti non stupisce che la realizzazione del plusvalore non offra difficoltà» (p. 869). Sf, ma quello che stupisce sono appun­ to questi presupposti. Infatti, se non navighiamo nel vuoto ma teniamo i piedi sulla terra del modo di produzione capi­ talistico, che spinta avrà la classe capitalistica all’applica­ zione del progresso tecnico e all’investimento di somme sempre piu ingenti in capitale costante, in mezzi di produ­ zione morti, se l’intero risultato di questi progetti va ad esclusivo vantaggio dei lavoratori? Secondo Marx, la creazio­ ne del «plusvalore relativo», l’aumento del tasso di sfrutta­ mento mediante riduzione del prezzo della forza-lavoro è per la classe capitalistica nel suo insieme l’unico stimolo o-

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biettivo a favorire il progresso tecnico nella produzione, il vero risultato obiettivo al quale la lotta di concorrenza fra i capitali singoli per 1’« extraprofitto» inconsciamente ten­ de. La stupefacente ipotesi di Bauer è dunque, finché esiste capitalismo, una pura impossibilità economica. Se si ammet­ te con lui il progresso tecnico, e perciò l’aumento della pro­ duttività del lavoro, ne segue chiaro come il sole che il ca­ pitale variabile, la somma dei salari monetari, non può cre­ scere «nello stesso rapporto» che la popolazione. Se perciò questa aumenta ogni anno in un rapporto fisso, il capitale variabile può crescere soltanto in misura continuamente de­ crescente-, se la popolazione cresce annualmente del 5% , il capitale variabile crescerà, diciamo, del 4%, 4/ , 4% ecc. In­ versamente: affinché il capitale variabile aumenti di anno in anno sempre del 5 % , dato un progresso tecnico rapido, la popolazione dovrà aumentare in progressione crescente —diciamo del 5%, 5%, 5%, 6 ecc. Ma allora la legge costruita da Bauer, lo « stato di equili­ brio», crolla come un castello di carte. Basta constatare che il suo «stato di equilibrio», punto di partenza della teoria della accumulazione che si adatta all’incremento della po­ polazione, è costruito sul dilemma fra due assurdi economi­ ci, entrambi contrastanti con l’essenza del capitalismo e con 10 scopo dell’accumulazione; o il progresso tecnico non ri­ duce i prezzi delle merci o questa riduzione va ad esclusivo vantaggio dei lavoratori e non dell’accumulazione! Guardiamo un po’ la realtà. L ’ipotesi baueriana dell’au­ mento annuo della popolazione del è, naturalmente, un puro esempio teorico. Allo stesso titolo si poteva scegliere 11 2 o il 10% . Non indifferente è invece l'effettivo aumento della popolazione, cui, secondo Bauer, lo sviluppo capitali­ stico dovrebbe adattarsi; giacché proprio su questo princi­ pio si basa l ’intera sua teoria dell’accumulazione. Ora, che cosa si rileva dall’effettivo aumento della popolazione, per esempio in Germania? L ’incremento annuo della popolazione ammontò qui, secondo le statistiche, nel periodo dal 1816 al 1864 allo 0,96% , nel periodo dal 1864 al 1910 all’1,09% . Nella real­ tà, dunque, l’incremento della popolazione si svolge con un

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ritmo per cui in quasi un secolo (1816-1910), la percentua­ le annua è salita dallo 0,96 all’1,09, cioè del 0,13 in tutto. O, se vogliamo considerare piu attentamente il periodo di sviluppo del grande capitalismo in Germania, constatiamo che l’incremento annuo è, nel periodo 1871-88, dell’1,08% , dal 1880 al 1890 dello 0,89, dal 1890 al 1900 dell’1,31, e nel decennio 1900-10 dell’1,41% . Anche qui, dunque, un aumento annuo della popolazione di un terzo per cento su quarant’anni. Fate un po’ un confronto col ritmo furioso, incredibile, di sviluppo del capitalismo tedesco nell’ultimo quarto di secolo! Ancor piu illuminante è uno sguardo agli altri paesi ca­ pitalistici. Secondo gli ultimi censimenti, l’incremento an­ nuo della popolazione è stato: A u st r ia - U n g h e r ia R u s s ia e u r o p e a

B e lg io

0 ,8 7 %

O la n d a

I >° 3 % 1 ,3 8

I t a li a

i ,37 0 ,6 3

R e g n o U n ito

R o m a n ia

1 ,5 0

S t a t i U n iti

1 ,9 0

S e r b ia

1 ,6 0

F r a n c ia

0 ,l8

0 ,8 7

Come si vede, sia le cifre assolute dell’aumento della po­ polazione, sia il raffronto tra diversi paesi dal punto di vi­ sta di questa presunta base dell’accumulazione del capitale, danno risultati stupefacenti. Per trovare realizzata nei fatti l’ipotesi baueriana dell’aumento del 3% della popolazione, dovremmo emigrare in climi piu caldi, in Nigeria o nell’ar­ cipelago della Sonda... In realtà, secondo le ultime statisti­ che l’incremento annuo della popolazione fu: U ru gu ay S t a t i m a le s i

3 ,7 7 % 4 ,1 8

N ig e r ia d e l S u d

5,55

B orn eo d el N o rd

6 ,3 6

H ongkong

7,84

Peccato che così pingui pascoli per l’accumulazione del capitale ammicchino proprio là dove non esiste produzione capitalistica, e queste prospettive si riducano a un arido de-

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serto man mano che ci avviciniamo alle culle del capitali­ smo! Esaminiamo un po’ piu attentamente la questione. L ’ac­ cumulazione del capitale - dice Bauer - dipende dall’incre­ mento della popolazione, cui si adatta. Come stanno le co­ se, per esempio, in Francia? Qui, l’aumento della popolazio­ ne è in continuo declino, secondo l’ultimo censimento si è ridotto allo 0,18% , la popolazione si avvicina lentamente a uno stato di immobilità, fors’anche di diminuzione assolu­ ta. Ma, ad onta di questa popolazione stagnante, il capitale francese continua allegramente ad accumulare, tanto che la Francia è in grado di rifornire tutto il mondo delle sue ri­ serve di capitale. In Serbia assistiamo a un incremento de­ mografico due volte piu rapido che in Inghilterra, ma è no­ to che in Inghilterra il capitale accumula molto piu forte­ mente che in Serbia. Come metter d ’accordo tutti questi fatti? La risposta può forse esser trovata nella nostra ottusità: la teoria di Bauer non può riferirsi a un singolo paese e alla sua popolazione in sé presa, ma considera la popolazione in generale, l’incremento del genere umano. Benissimo. Ma, in questo caso, misteri ancor piu straordinari nascono. E senz’altro chiaro che l’incremento annuo del «genere umano» può avere importanza per l’accumulazione capitali­ stica solo nella misura in cui l ’umanità è consumatrice, ac­ quirente di merci capitalistiche. Non dovrebbe esservi dub­ bio che il rapido aumento della popolazione nella Nigeria del Sud o nel Borneo del Nord ha per il capitale, come ba­ se dell’accumulazione, scarso interesse. Forse che l’allarga­ mento della cerchia degli acquirenti di merci capitalistiche dipende dall’aumento naturale della popolazione? Se il ca­ pitale dovesse aspettarsi prospettive di accumulazione dal­ l’allargamento del suo raggio originario di acquirenti per effetto dell’incremento naturale della popolazione, è chiaro che si troverebbe ancor oggi nelle spire dell’epoca manufatturiera. Ma il capitale non si sogna affatto di aspettare. Anzi, per allargare le basi della propria accumulazione, ri­ corre ad altri metodi sintetici: l’attacco con tutti i mez­ zi della violenza politica, i) contro l’economia naturale, 2)

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contro l ’economia mercantile semplice, per crearsi sulle lo­ ro rovine sempre nuove cerehie di acquirenti delle sue mer­ ci in tutte le parti del mondo. Ma tutti questi metodi inci­ dono drasticamente sull’incremento della popolazione dei paesi e popoli su cui si esercitano. Perciò la cerchia degli acquirenti di merci può crescere mentre la popolazione diminuisce. In realtà, il metodo ca­ pitalista della creazione di un mercato mondiale attraver­ so l ’assalto all’economia naturale primitiva procede di pari passo con la decimazione, per non dire la distruzione, di in­ tere stirpi. Questo processo accompagna lo sviluppo capita­ listico dalla scoperta dell’America fino ai nostri giorni: si pensi agli spagnoli nel Messico e nel Perù nel secolo xvi, agli inglesi nell’America del Nord nel x v i i e in Australia nel X V III, agli olandesi nell’arcipelago malese, ai francesi nel Nord Africa, agli inglesi in India nel secolo xix, ai tedeschi nell’Africa del Sud-Ovest nel xx. Allo stesso modo, le guer­ re del capitale europeo per « l ’apertura» della Cina hanno portato a massacri in grande stile della popolazione cinese e perciò, inevitabilmente, a un ritardo nel suo incremento na­ turale. Mentre l ’allargamento della base dell’accumulazione del capitale in paesi non-capitalistici è, cosi, legata ad un par­ ziale annientamento delle popolazioni locali, nei paesi in cui la produzione capitalistica ha le sue radici è esso accompa­ gnato da altre incidenze sullo sviluppo naturale della popo­ lazione. Nei due fattori fondamentali di quest’ultimo - natalità e mortalità —si riscontrano, in tutti i paesi capitalistici, due movimenti antitetici. Il numero delle nascite è ovunque in costante declino. Cosi, in Germania, il numero dei nati per looo abitanti è stato: nel 1871-80 di 40,7, nel 1881-90 di 38.2, nel 1891-1900 di 37,3, nel 1901-10 di 33,9, nel 1911 di 29,3, nel 1912 di 29,1. La stessa tendenza risulta dal confronto tra paesi capitalistici altamente sviluppati e pae­ si arretrati. Il numero dei nuovi nati per 1000 abitanti fu (nel 19x1 e 1912) in Germania di 28,3, in Inghilterra di 23,8, in Belgio di 22,6, in Francia di 19, in Portogallo di 39.3, in Bosnia Erzegovina di 40,3, in Bulgaria di 40,6, in

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Romania di 43,4, in Russia di 46,8. Tutti gli statistici, so­ ciologi e medici riconducono questo fenomeno all’influenza della vita nelle grandi città, delle fabbriche, dell’incertezza di vita, dello sviluppo culturale ecc.; insomma, alle influen­ ze della civiltà capitalistica. Contemporaneamente, lo sviluppo della scienza e della tecnica e lo stesso progresso della cultura offrono nuove ar­ mi alla lotta vittoriosa contro la mortalità. Così, i morti ogni anno su 1000 abitanti furono in Germania nel 1871-80 28,8, nel 1881-90 26,3, nel 1891-1900 23,5, nel 1901-10 19,7, nel 1911 18,2, nel 1912 16,4. Lo stesso quadro risul­ ta dal confronto fra paesi capitalistici evoluti e arretrati. Nel 19r i o nel 1912, le cifre per alcuni paesi erano: Fran­ cia 17,3, Germania 13,6, Belgio 14,8, Inghilterra 13,3, Russia 29,8, Bosnia Erzegovina 26,1, Romania 22,9, Por­ togallo 22,3, Bulgaria 21,8. A seconda dell’influenza predominante di uno dei due fattori, si verifica un aumento piu lento o piu rapido della popolazione. Ma, in entrambi i casi e ad ogni effetto, è lo sviluppo del capitalismo con le sue manifestazioni correla­ tive, economiche, sociali, fisiche e spirituali, è l’accumu­ lazione capitalistica, che influenza e condiziona l’aumento della popolazione, non viceversa. Anzi, in genere, l’influen­ za dello sviluppo capitalistico sul movimento della popola­ zione si esprime nel senso di determinare in modo piu o meno rapido, ma sicuro, un rallentamento dell’incremento demografico. Lo dicono chiaro Hongkong e Borneo contro Germania e Inghilterra, Serbia e Romania contro Francia e Italia. Ne segue logicamente la conclusione: la teoria di Bauer capovolge i rapporti reali. Facendo, nelle sue costruzioni schematiche, adattare l’accumulazione del capitale all’incre­ mento naturale della popolazione, Bauer ha, ancora una volta, perso di vista il fatto quotidiano e noto a tutti che è il capitale »a modellare la popolazione, ora decimandola, ora affrettandone o ritardandone l ’incremento — col risultato generale e conclusivo che quanto più rapida è l’accumula­ zione, tanto più lento è l’incremento della popolazione. Un bel quiproquo, per un materialista storico che dimen-

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tica di guardarsi intorno nella realtà e di chiedersi: da che cosa dipende quello stesso aumento della popolazione, a cui ho condizionato l’accumulazione del capitale? Nella sua Geschichte des Materialismus, Friedrich Albert Lange scri­ ve: «Abbiamo ancor oggi in Germania dei presunti filosofi, che in una specie di melensaggine metafisica scrivono grossi trattati sulla formazione della coscienza - con pretese di “ osservazione esatta mediante il senso interno” —senza ac­ corgersi neppure per un momento che, magari nella loro stessa casa, ci sono camere di bambini in cui potrebbero os­ servare coi loro occhi o con le loro orecchie almeno i sinto­ mi di questa formazione». Ignoro se in Germania esistano ancora «filosofi» di questo genere, ma so che la specie del­ la «melensaggine metafisica» che pretende di risolvere me­ diante calcoli schematici esatti, con l’aiuto del « senso inter­ no», i problemi sociali, e dimentica gli occhi, le orecchie, le camere dei bambini e il mondo, sembra aver trovato nei «competenti» del marxismo ufficiale gli «eredi eletti della filosofia classica tedesca».3 3. Ma non basta. Finora abbiamo considerato le condi­ zioni economiche dell’aumento della popolazione, perché Bauer si dà l’aria di fondare su di esso la sua teoria dell’ac­ cumulazione. Ma in realtà la sua teoria ha un’altra base. Quando parla di «popolazione» e di «aumento della popo­ lazione», Bauer si riferisce in realtà alla classe dei salariati capitalistici, e solo ad essa! Bastino, per dimostrarlo, i seguenti passi: «Ammettia­ mo che la popolazione aumenti annualmente del 3% . Se l’e­ quilibrio [fra produzione e fabbisogno sociale] dev’essere mantenuto, anche il capitale variabile (cioè la somma dei salari pagati) deve aumentare annualmente del 3 % » (p. 835 )Se il consumo della popolazione sul quale la produzione si basa è uguale al capitale variabile, cioè alla somma dei sa­ lari pagati, la «popolazione» non può essere altro che i la­ voratori. Questa formulazione ce la dà, d ’altronde, lo stes­ so Bauer: « L ’aumento del capitale variabile (e perciò della somma dei salari) esprime l’approvvigionamento in mezzi

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di sussistenza per l’aumento della popolazione» (p. 834). E ancor piu categoricamente nel passo citato: « Il nostro sche­ ma presuppone che: x) i lavoratori aumentino annualmen­ te del 3 % , 2) il capitale variabile aumenti nello stesso rap­ porto dei lavoratori, 3) il capitale costante (cioè le spese in mezzi di produzione morti) cresca piu in fretta del variabi­ le nella misura richiesta dal progresso tecnico. In tali pre­ supposti, non stupisce che la realizzazione del plusvalore non incontri difficoltà» (p. 869). Da notarsi che, nell’ipotesi di Bauer, non esistono che due classi nella società: lavoratori e capitalisti. («Giacché —scrive poche righe piu avanti - in una società composta unicamente di capitalisti e lavoratori, i proletari disoccupa­ ti non possono trovare altro reddito che il reddito del sala­ rio», p. 869). Quest’ipotesi non è soltanto casuale e tempo­ ranea, ma ha importanza decisiva per tutta l ’impostazione di Bauer, al quale, come agli altri «competenti», importa appunto mostrare contro di me che, in armonia allo «sche­ m a», anche in una società ad esclusiva produzione capitali­ stica, composta soltanto di capitalisti e lavoratori, l ’accu­ mulazione del capitale è possibile e può svolgersi senza in­ ciampo. Dunque, nella teoria di Bauer esistono due sole classi sociali: capitalisti e proletari; ma l’accumulazione del capitale conta, per il suo allargamento, solo sulla classe pro­ letaria. Bauer riduce perciò la popolazione, prima, ai soli lavoratori e capitalisti (com’è nella natura della sua teoria), poi, grazie al tacito sviluppo delle sue operazioni, ai soli la­ voratori. Sono questi «la popolazione» ai cui bisogni il ca­ pitale si adatta. Perciò, quando Bauer prende a base della sua rappresentazione schematica « l ’incremento demografi­ co» annuo del 3 % , ciò va inteso nel senso che la popolazio­ ne lavoratrice aumenta annualmente del 3% . O dovremo interpretare questo aumento dello strato proletario come una manifestazione parziale dell’aumento generale unifor­ me della popolazione complessiva del 5 % ? Ma questa sa­ rebbe una scoperta del tutto nuova, dal giorno in cui Marx ha dimostrato teoricamente, e gli statistici hanno conferma­ to, che nella società attuale ogni classe segue leggi demogra­ fiche sue particolari.

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In realtà, neppure Bauer pensa ad un aumento uniforme della popolazione complessiva. Ciò non vale, almeno, per i suoi capitalisti, il cui incremento annuo, come è facile di­ mostrare, non è affatto del 5% . A pagina 835, Bauer ammette nei quattro anni successi­ vi, come fondo di consumo dei capitalisti, le seguenti som­ me: 75 000, 77 750,80 539, 83 374. Se Bauer ammette che i salari dei lavoratori aumentino corrispondentemente a queste cifre, dovremo anche ammettere che i capitalisti non se la passano peggio dei lavoratori, e che anche il loro fon­ do di consumo va di pari passo col loro incremento. Se cosi è, dal consumo dei capitalisti nei quattro anni successivi si dedurrebbe, conformemente allo schema, il seguente incre­ mento annuo della classe capitalistica: 5% nel secondo an­ no, 3,6 nel terzo, 3,5 nel quarto. Procedendo via via di que­ sto passo, i capitalisti di Bauer dovrebbero cominciare dun­ que ben presto a scomparire, e il problema dell’accumula­ zione sarebbe risolto nel modo piu originale. Senonché, non dobbiamo qui preoccuparci del destino privato dei capitali­ sti baueriani; si trattava soltanto di stabilire che, quando parla di aumento della popolazione come base dell’accumu­ lazione, Bauer si riferisce sempre all’aumento della classe dei salariati. Infine, è lo stesso Bauer a dirlo chiaro e tondo, quando scrive, a pagina 869: « I l suo aumento [del tasso dell’accu­ mulazione] può compiersi in tal modo solo finché Vequili­ brio fra aumento del capitale variabile e aumento della po­ polazione sia ristabilito». E a pagina 870 spiega: «Sotto la pressione dell’esercito industriale di riserva, il saggio del plusvalore cresce, e con esso il tasso sociale dell’accumula­ zione, finché questo è divenuto abbastanza alto da aumen­ tare il capitale variabile, nonostante la sempre piu alta com­ posizione organica, con la stessa rapidità della popolazione lavoratrice. Appena ciò avvenga, l’equilibrio fra accumula­ zione e aumento della popolazione è ristabilito». Altrettan­ to espressamente e come regola generale, a pagina 871: «Nella società capitalistica vige la tendenza ad adattare l’ac­ cumulazione del capitale all’incremento della popolazione. Questo adattamento è raggiunto non appena il capitale va-

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riabile (la somma dei salari) si accresce con la stessa veloci­ tà della popolazione lavoratrice, ma il capitale costante piu rapidamente nella misura richiesta dallo sviluppo della for­ za produttiva». Infine, nel modo forse piu lapidario, alla fi­ ne dell’articolo, in cui ne è riassunta la quintessenza: «A n­ zitutto [in una società capitalistica isolata come quella che sta a base dello schema] l’accumulazione è delimitata dal­ l ’aumento della popolazione lavoratrice. Infatti, ammessa una data composizione organica del capitale, la grandezza dell’accumulazione è determinata dall’aumento della popo­ lazione lavoratrice» (p. 873). È dunque chiaro: sotto l’apparenza di un adattamento dell’accumulazione del capitale all’incremento della popola­ zione, Bauer suppone che il capitale si regoli esclusivamen­ te sull’incremento naturale della classe lavoratrice. Dicia­ mo incremento naturale, perché nella società di Bauer, che non conosce classi medie e in cui non esistono che proletari e capitalisti, il reclutamento del proletariato da stratifica­ zioni sociali piccolo-borghesi e contadine è escluso a prio­ ri, e perciò l’unico suo mezzo di sviluppo è l’incremento na­ turale. Proprio di questo adattamento alla popolazione pro­ letaria Bauer fa, anche, il perno delle oscillazioni congiun­ turali capitalistiche. È da questo punto di vista che dobbia­ mo ulteriormente esaminare la sua teoria. Abbiamo visto che l’equilibrio della produzione e del consumo sociale è raggiunto quando il capitale variabile, cioè la parte del capitale destinata ai salari dei lavoratori, cresce con la stessa rapidità della popolazione lavoratrice. Ma la produzione capitalistica ha la tendenza meccanica a uscire costantemente da questo equilibrio, ora verso il bas­ so —«sotto-accumulazione» —, ora verso l’alto —«sovraccu­ mulazione». Consideriamo anzitutto il primo moto del pen­ dolo. Se il primo «tasso di accumulazione» è troppo debole, dice Bauer, se cioè i capitalisti non mettono da parte abba­ stanza capitale nuovo da impiegare nella produzione, « l ’au­ mento del capitale variabile rimane indietro rispetto all’au­ mento della popolazione in cerca di lavoro. Lo stato che al­ lora interviene può essere definito stato di sotto-accumula-

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zione» (p. 869). Bauer procede a descrivere piu dettaglia­ tamente questo stato. Il primo effetto della sotto-accumu­ lazione è la formazione di un esercito industriale di riserva. Una parte della popolazione aumentata rimane senza lavo­ ro. I proletari disoccupati premono sui salari degli occupa­ ti, i salari calano, il saggio del plusvalore cresce. «Poiché in una società composta unicamente di capitalisti e lavoratori i proletari disoccupati non possono trovare altro reddito che il reddito di salario, i salari devono diminuire e il sag­ gio del plusvalore aumentare finché, nonostante la diminu­ zione relativa del capitale variabile, l’intera popolazione la­ voratrice trovi lavoro. La diversa suddivisione del sovraprodotto che cosi interviene è determinata dal fatto che con la crescente composizione organica del capitale, in cui si esprime il progresso tecnico, il valore della forza-lavoro è caduto e si è perciò formato un plusvalore relativo». Da questo aumento del plusvalore si origina per i capitalisti un fondo fresco per una rinnovata e piu forte accumulazione, e, come conseguenza, una piu intensa domanda di forze-la­ voro: «Cresce perciò anche la massa di plusvalore impiega­ ta all’aumento del capitale variabile»: aumento che si effet­ tuerà «fin quando non sia ristabilito l’equilibrio fra aumen­ to del capitale variabile e incremento della popolazione» (p. 869). Siamo cosi ricondotti dalla sotto-accumulazione al­ l’equilibrio. Abbiamo descritto la prima metà del moto pendolare del capitale intorno all’equilibrio economico, e vogliamo tratte­ nerci ancora un po’ su questo primo atto della scena. Lo stato di equilibrio significa - ricordiamolo —che richiesta di forze-lavoro e aumento della popolazione proletaria si bilanciano, cosicché l’intera classe lavoratrice con il suo in­ cremento naturale trova impiego. A questo equilibrio la produzione viene strappata, la domanda di lavoro rimane indietro rispetto all’aumento del proletariato. Perché? Che cosa determina questo primo moto del pendolo al di sopra del centro di gravità? Trovare una via di uscita da questo labirinto è, per il misero mortale, impresa difficile. Per for­ tuna, ci viene incontro lo stesso Bauer, in uno stile meno oscuro, la pagina subito dopo, là dove scrive: « I l progres-

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so verso una sempre piu alta composizione organica del capitale provoca di continuo la sotto-accumulazione» (p. 870).

Questo è, perlomeno, chiaro. È il progresso tecnico che determina l’allontanamento dalle macchine della forza-la­ voro viva, e perciò un periodico rallentamento relativo del­ la domanda di lavoratori, la formazione di un esercito in­ dustriale di riserva, la caduta dei salari, insomma lo stato di «sotto-accumulazione». Confrontiamo Bauer con Marx. I. Con la sotto-accumulazione, dice Bauer, «il valore del­ la forza-lavoro diminuisce» e perciò si forma un «plusva­ lore relativo» che serve da nuovo fondo di accumulazio­ ne. Un momento! Se, grazie all’impiego di macchine, «una parte dell’incremento della popolazione rimane disoccupa­ ta» e, mediante la pressione di questi disoccupati, « i salari calano», ciò non significa affatto che «il valore della for­ za-lavoro» diminuisca, ma che il prezzo della merce forzalavoro (il salario monetario) decresce per puro effetto di un eccesso di offerta al di sotto del suo valore (cioè al di sotto del tenore di vita civile raggiunto dai lavoratori). Ma il plusvalore relativo non nasce secondo Marx dalla caduta dei salari al di sotto del valore della forza-lavoro a causa di una diminuita richiesta di lavoratori, ma - e Marx lo ripete infinite volte nel I libro del Capitale - nel presupposto esplicito che il prezzo della forza-lavoro, cioè il salario, sia uguale al suo valore, o, in altre parole, che domanda e of­ ferta della forza-lavoro siano in equilibrio: nasce dunque, secondo Marx, in questa ipotesi, a causa della diminuzione dei costi di mantenimento della forza-lavoro, cioè proprio di quel fattore che Bauer esclude quando, come s’è visto, proclama assolutamente necessario per « l ’equilibrio un au­ mento del capitale variabile corrispondente a quello della popolazione lavoratrice». Piu semplicemente: la formazio­ ne del nuovo capitale da cui vorrebbe attingere la futura accumulazione, Bauer la deduce, sotto l’apparenza di un «plusvalore relativo», in realtà dalla comprensione dei sa­ lari imposta agli operai da una congiuntura depressiva.

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2. Che straordinaria legge economica del movimento dei salari è mai quella secondo cui essi devono «continuamen­ te diminuire... finché l’intera popolazione lavoratrice trovi impiego»? Ci troviamo qui di fronte al fenomeno origina­ le che, quanto piu i salari decrescono, tanto piu aumenta il grado dell’occupazione. L ’intero esercito industriale di ri­ serva viene riassorbito proprio nel punto in cui i salari han­ no raggiunto il livello infimo! Sulla grigia terra dove noi vi­ viamo, suole accadere l’inverso: la caduta dei salari va di pari passo con una crescente disoccupazione, il loro aumen­ to con una crescente occupazione. Quando i salari raggiun­ gono il punto piu basso, l’esercito industriale di riserva è generalmente piu vasto, al punto piu alto viene piu o meno assorbito. Ma lo schema di Bauer ci riserva altre meraviglie. Dalla valle di lacrime della sotto-accumulazione, la pro­ duzione capitalistica risale con un mezzo tanto semplice quanto arduo: è la profonda caduta dei salari che permette ai capitalisti nuovi risparmi (che Bauer, con un piccolo ma­ linteso rispetto al I libro del Capitale chiama «plusvalore relativo»), è lì eh’essi trovano un nuovo fondo per nuovi investimenti, per l’allargamento della produzione e la ri­ presa della domanda di forze-lavoro. Ancora una volta ci troviamo non sulla grigia terra, ma sulla luna della «socie­ tà» baueriana. Il capitale avrebbe dunque bisogno di raci­ molare da una caduta generale dei salari i famosi «quattro soldi», prima di azzardarsi a nuovi investimenti e intrapre­ se? Dovrebbe prima attendere una diminuzione generale e continua dei salari fino al limite estremo, per poter dispor­ re in tal modo del nuovo capitale d’impianto necessario ai fini dell’allargamento della produzione? Sulla luna delle speculazioni baueriane, dove il capitalismo ha raggiunto il grado piu alto immaginabile di sviluppo, ha assorbito tutti gli strati intermedi e trasformato l’intera popolazione in puri capitalisti e proletari, in questa società non esistono riserve di capitale, essa continua a vivere al giorno per il giorno, come ai tempi del «buon dottor Aikin» nell’Inghil­ terra del secolo xvi. In questa società non esistono ancora le banche che, su questa terra, nascondono gigantesche ri-

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serve di capitale da tempo accumulate, che spiano le mini­ me possibilità di smercio per buttarsi, quali che siano le al­ tezze raggiunte dai salari, nella produzione! La febbrile ac­ cumulazione su scala sempre piu alta, che proprio oggi si compie in tutti gli stati, belligeranti e neutrali, per imma­ gazzinare al più presto, ad onta del forte aumento dei salari industriali, il sanguinoso raccolto della guerra mondiale, è la satira piu feroce del tisico capitale di Bauer, che può rag­ granellare i soldini per nuove iniziative di accumulazione solo dal generale e periodico abbassamento della classe la­ voratrice al livello minimo di indigenza! Si noti infatti che Bauer sottolinea a piu riprese, nella descrizione del ricon­ quistato «equilibrio», che sotto la pressione dell’esercito industriale di riserva il saggio del plusvalore e, con esso, il tasso sociale dell’accumulazione cresce finché è abbastanza grande da aumentare il capitale variabile, nonostante la sempre piu alta composizione organica, con la stessa velo­ cità della popolazione lavoratrice. Appena ciò avviene, l ’e­ sercito industriale di riserva è assorbito [nota bene: per la seconda volta, giacché una prima volta era stato assorbito quando i salari avevano raggiunto il punto piu basso, cioè lo stato di «sotto-accumulazione»!] e l’equilibrio fra ac­ cumulazione e aumento della popolazione è ristabilito (p. 870).

A questo riconquistato «equilibrio» segue subito una nuova deviazione del pendolo - verso l’alto, verso la «so ­ vraccumulazione», processo che Bauer descrive sommaria­ mente: «S e il tasso sociale dell’accumulazione cresce [grazie alla compressione deliberata dei salari!], raggiungerà infine il punto in cui il capitale variabile aumenta piu in fretta della popolazione. Lo stato che in questo caso interviene sarà da noi chiamato stato di sovraccumulazione». In due righe la faccenda è, cosi, liquidata; di più Bauer non dice sull’origine della sovraccumulazione. Come spinta alla «sottoaccumulazione», ci aveva almeno dato un fatto palpabile, il progresso tecnico: per il movimento opposto, ci abbandona invece alle nostre deboli forze. Sappiamo sol­ tanto che il tasso dell’accumulazione in ascesa (cioè la for-

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mazione di capitale investibile) raggiungerà «infine» un punto in cui la domanda di forze-lavoro supererà la loro of­ ferta. Ma perché deve necessariamente raggiungere, «infi­ ne», quel punto? Forse per la legge fisica dell’inerzia, cioè perché si trova in un moto iniziale di ascesa? Ma cerchiamo di prospettarci l’origine di questa ascesa. Sotto la pressione della disoccupazione, si è avuta una diminuzione generale dei salari. Da questa diminuzione dei salari è derivato l’au­ mento del capitale disponibile. Questo aumento può, in ogni caso, durare solo finché tutti i disoccupati hanno tro­ vato lavoro, che è quanto infatti avviene nella straordinaria società di Bauer quando i salari hanno raggiunto il livello infimo. Ma, una volta impiegata l’intera massa lavoratrice, in questa straordinaria società anche i salari cessano di ca­ dere; anzi, come su questa nostra grigia terra, cominciano lentamente a crescere. E appena hanno ricominciato a cre­ scere, il «tasso dell’accumulazione», che in Bauer attinge solo a questa fonte, deve cessare subito di crescere, la for­ mazione di nuovo capitale deve, da parte sua, contrarsi. Co­ me può dunque, una volta impiegati tutti i senza-lavoro, crescere indisturbata, per raggiungere «infine» lo stato di «sovraccumulazione»? Invano attendiamo una risposta. Se dobbiamo forzatamente rimanere all’oscuro dell’origine della sovraccumulazione, accade lo stesso quanto al­ l’ultimo atto della rappresentazione: il processo grazie al quale la sovraccumulazione viene superata, e ricondotta al punto intermedio dell’equilibrio. «S e il tasso dell’accumulazione è troppo alto [intendia­ moci bene: sempre e soltanto in rapporto alla popolazione lavoratrice presente e al suo aumento!], l’esercito di riser­ va viene assorbito [cosa che gli accade dunque per la terza volta!], i salari aumentano, il saggio del plusvalore cade»: e il saggio del profitto cade anche piu rapidamente di quan­ to avverrebbe in seguito alla crescente composizione orga­ nica del capitale. Ne segue «una crisi devastatrice con pode­ rosa immobilizzazione di capitale, distruzione in massa di valori e caduta precipitosa del saggio del profitto». L ’accu­ mulazione viene nuovamente ritardata, «ancora una volta l’aumento del capitale variabile rimane indietro rispetto al-

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l’aumento della popolazione» (p. 871), e noi rotoliamo nel­ la già nota «sotto-accumulazione». Ma per qual ragione al mondo, al vertice della sovraccu­ mulazione scoppia, secondo Bauer, una «crisi devastatri­ ce»? In Bauer, la sovraccumulazione non significa se non questo: che il capitale variabile cresce piu in fretta della popolazione lavoratrice. Piu semplicemente: che la doman­ da di forze-lavoro supera l ’offerta del mercato del lavoro. Di qui si originerebbe, dunque, una moderna crisi industria­ le e commerciale? A questo punto, Bauer si serve, per trar­ si d ’impaccio, di una citazione da Hilferding, che dovrebbe sostituire una spiegazione dello scoppio della crisi. Eccola: nel momento «in cui le tendenze succitate della caduta del saggio del profitto si affermano contro le tendenze che, per effetto dell’aumentata domanda, hanno provocato un au­ mento dei prezzi e dei profitti, interviene la crisi». Ma, a parte il fatto che il passo di Hilferding, nel caso di Bauer, non può spiegar nulla, in quanto non è per se stessa una spiegazione ma una perifrasi della crisi con parole difficili, la frase sta nelle argomentazioni di Bauer come i cavoli a merenda. In Bauer non esiste né «domanda» crescente né «doman­ da» calante di merci, suscettibile di provocare un «aumen­ to dei prezzi e dei profitti». Per Bauer non esiste che un bal­ lo a due figure: capitale variabile e proletariato («popolazio­ ne»). L ’intero moto dell’accumulazione, il suo asse centra­ le dell’«equilibrio», il suo sabre e scendere intorno a que­ sto asse, hanno la loro origine unicamente nella proporzio­ ne rispettiva dei due fattori: capitale variabile e popolazio­ ne lavoratrice. Di domanda di merci, di sbocco di merci, delle difficoltà relative, non una parola. Perciò la sovraccu­ mulazione si risolve per Bauer nella pura eccedenza di ca­ pitale variabile, cioè della domanda di lavoratori in con­ fronto al loro incremento naturale. Questa l’unica «doman­ d a» che in Bauer sia considerata. E di qui dovrebbe origi­ narsi una crisi, per giunta «devastatrice»? Certo, certo, su questa grigia terra abitata da noi altri, lo scoppio della crisi suole succedere ad una congiuntura in cui la domanda di la­ voratori è spinta al massimo, e i salari tendono ad aumen­

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tare. Ma sulla terra, questa è non la causa della crisi ma 1’« uccello della tempesta», come dice Marx nel II libro del Capitale, una manifestazione parallela di altri fattori, cioè del rapporto fra produzione e mercato di sbocco. Comunque si vogliano spiegare teoricamente le moderne crisi commerciali periodiche, nella realtà esse nascono, in modo da tutti constatabile, dalla mancanza di rapporto fra produzione, cioè offerta di merci, e smercio, cioè domanda di merci. In Bauer, invece, non esistendo la questione del mercato di sbocco, le crisi periodiche nascono da un manca­ to rapporto fra domanda di forza-lavoro e riproduzione na­ turale dei lavoratori! Perché i lavoratori non si riproduco­ no con la stessa rapidità richiesta dalla crescente domanda, ecco scoppiare una crisi «devastatrice»! La periodica man­ canza di lavoratori come causa unica delle crisi commer­ ciali, è davvero una delle piu sconcertanti scoperte dell’eco­ nomia politica non solo dopo Marx ma dopo William Pet­ ty, il degno coronamento di tutte le altre straordinarie leg­ gi che, sulla luna della società baueriana, reggono l’accumu­ lazione del capitale e i suoi mutamenti di congiuntura. Conosciamo ora i movimenti del capitale in tutte le loro fasi, e Bauer riassume l’insieme nella seguente conclusione armonica: « I l modo di produzione capitalistico porta dun­ que in sé il meccanismo che riadatta all’aumento della po­ polazione [noi diremo: all’aumento della popolazione la­ voratrice] l’accumulazione rimasta indietro rispetto a que­ sto aumento» (p. 870). E , con maggior forza: «Conside­ rando come un tutto l’economia mondiale capitalistica, la tendenza ad adattare l’accumulazione all’incremento della popolazione [cioè della popolazione lavoratrice] appare vi­ sibile nel ciclo. Prosperità è sovraccumulazione. Essa si an­ nulla nella crisi. La depressione che ne segue è un periodo di sotto-accumulazione. Essa si annulla producendo dal suo stesso seno le condizioni del ritorno alla prosperità. Il ritor­ no periodico della prosperità, della crisi, della depressione, è l’espressione empirica del fatto che il meccanismo del mo­ do di produzione capitalistico annulla spontaneamente so­ vraccumulazione e sotto-accumulazione, riadatta continuamente Vaccumulazione del capitale all’aumento della popo-

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lazione [della popolazione lavoratrice] » (p. 872; corsivo di Bauer). L ’equivoco non è piu possibile: il «meccanismo» baueriano consiste semplicemente in questo: al centro dell’eco­ nomia mondiale capitalistica sta la classe lavoratrice; essa e il suo incremento naturale sono l’asse intorno al quale gira la vita economica. Intorno a questo asse oscilla il capitale variabile (e con esso, nella proporzione richiesta dalla tecni­ ca, il capitale costante). Ora il capitale presente è troppo piccolo per occupare tutti i proletari, e allora, comprimen­ do i salari, strappa un aumento; ora è troppo grande per trovare un numero sufficiente di proletari, e allora si annul­ la parzialmente in una crisi: in tutti i casi, l ’intero moto della produzione attuale e l’alternarsi delle congiunture non è che una continua spinta del capitale ad adattarsi nella sua grandezza al numero dei proletari e al loro incremento na­ turale. Ecco la quintessenza del «meccanismo» baueriano, dei suoi complicati calcoli tabellari e delle sue spiegazioni. Il lettore che disponga di una certa cultura marxista af­ ferra subito l ’importanza storica di questa teoria dell’accu­ mulazione in rapporto alle leggi fondamentali dell’econo­ mia capitalistica. Ma per apprezzare come merita questo contributo dobbiamo prima sapere come Bauer, partendo dalla scoperta del centro di gravità dell’economia mondia­ le capitalistica, riesca a spiegare i fenomeni particolari di quest’economia. Conosciamo già il ciclo delle congiunture, cioè il proces­ so di deviazione del capitale dal suo centro di gravità, nel tempo. Ed ora anche nello spazio: «L a tendenza ad adat­ tare l’accumulazione all’aumento della popolazione [del­ la popolazione lavoratrice] domina i rapporti internaziona­ li. Paesi con persistente sovraccumulazione investono ima grande e crescente parte del plusvalore accumulato in ogni anno all’estero. Esempio: Francia e Inghilterra [be’, spe­ riamo anche la Germania!] Paesi con persistente sotto-ac­ cumulazione importano dall’estero del capitale ed esporta­ no forze-lavoro. Esempio: i paesi agricoli dell’Europa orientale» (p. 871).

UNA ANTICRITICA

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Come tutto si accorda! Com’è semplice e chiaro! Par di vedere la soddisfazione con cui Bauer risolve come un gio­ chetto i piu complicati problemi dell’economia capitalistica servendosi della legge fondamentale di recente scoperta. Cerchiamo di esaminare un po’ piu da vicino questo gioco. Esistono dunque paesi «con persistente accumulazione» e paesi con «persistente sotto-accumulazione». Che cos’è «sovraccumulazione» e che cosa «sotto-accumulazione»? Risposta alla pagina immediatamente successiva: «Prospe­ rità è sovraccumulazione... Depressione è un periodo di sot­ to-accumulazione». Dunque, esistono paesi con persistente prosperità —Francia, Inghilterra, Germania! —e paesi con persistente depressione - i paesi agricoli dell’Europa orien­ tale! Meraviglioso, no? Secondo esperimento: qual è la causa della sotto-accu­ mulazione? Risposta alla pagina immediatamente preceden­ te: « I l progresso verso una piu alta composizione organi­ ca [semplicemente: progresso tecnico] riconduce continuamente alla sotto-accumulazione». Dunque, i paesi a persi­ stente sotto-accumulazione devono essere paesi in cui il progresso tecnico opera in modo piu continuo ed energico - e sono « i paesi agricoli dell’Europa orientale». Quelli a persistente sovraccumulazione devono essere paesi dal pro­ gresso tecnico piu lento e debole - Francia, Inghilterra, Germania. Meraviglioso, no? E, a coronamento di tutto l’edifìcio, gli Stati Uniti d ’A­ merica, che riescono ad essere contemporaneamente un pae­ se a «persistente sotto-accumulazione» e a «persistente so­ vraccumulazione», dal piu energico progresso tecnico e dal piu lento progresso tecnico, a prosperità persistente e a per­ sistente depressione, giacché - oh miracolo! - importano da altri paesi, contemporaneamente e in modo duraturo, ca­ pitali e forze-lavoro...4 4. Confrontiamo il «meccanismo» di Bauer con Marx. La quintessenza della teoria di Bauer è la tendenza del capitale ad adattarsi alla popolazione lavoratrice presente e al suo incremento. Sovraccumulazione significa per Bauer che il capitale aumenta troppo in fretta in confronto al pro-

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letariato; sotto-accumulazione, che cresce troppo lentamen­ te. Eccesso di capitale e deficienza di forze-lavoro, deficien­ za di capitale ed eccesso di forze-lavoro —ecco i due poli dell’accumulazione nel «meccanismo» baueriano. Che cosa troviamo in Marx? Bauer inserisce nel bel mezzo delle sue considerazioni un passo del I I I libro del Capitale che tratta della «sovraccu­ mulazione», dando cosi l ’impressione che la teoria baueriana non sia che una interpretazione «ineccepibile» del pen­ siero di Marx. Così, giunto al suo «stato di sovraccumula­ zione», Bauer dice: «M arx descrive lo stato di sovraccumu­ lazione come segue»: «Appena il capitale fosse cresciuto rispetto alla popola­ zione lavoratrice in tal misura che né il tempo di lavoro as­ soluto fornito da questa popolazione possa essere allunga­ to, né il tempo di sovralavoro relativo possa essere esteso (quest’ultima cosa non sarebbe comunque fattibile in un caso in cui la domanda di lavoro è cosi forte e i salari ten­ dono perciò ad aumentare); quando dunque il capitale cre­ sciuto producesse una massa di plusvalore solo pari o perfi­ no minore che prima dell’aumento, si verificherebbe una sovraproduzione assoluta; cioè il capitale cresciuto C + CA produrrebbe non piu e anche meno profitto che il capitale C prima del suo aumento mediante CA. In entrambi i casi, si avrebbe anche una forte e improvvisa caduta del saggio generale del profitto; ma questa volta per effetto di un mu­ tamento nella composizione del capitale, da imputarsi non allo sviluppo della forza produttiva ma all’aumento nel va­ lore monetario del capitale variabile (a causa dei salari au­ mentati) e alla corrispondente diminuzione nel rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario» (Das Kapital, libro III, 1, p. 233). A questa citazione Bauer aggiunge la seguente coda: «Questo punto rappresenta il limite assoluto dell’accumu­ lazione. Raggiunto questo, l’adattamento dell’accumulazio­ ne all’incremento della popolazione [della popolazione la­ voratrice, come sempre in Bauer] si svolge in una crisi devastatrice». Il lettore inesperto deve dunque ammettere che, in Marx come in Bauer, si tratti del continuo adattarsi

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del capitale alla popolazione lavoratrice, e che Bauer si li­ miti ad esprimere in forma abbreviata la stessa cosa. Senonché, il passo citato di Marx è completato nello stes­ so capitolo da un altro passo: «Q uesta pletora (eccesso) del capitale deriva dalle stesse circostanze che provocano una sovrapopolazione relativa, ed è perciò un fenomeno che completa quest’ultima, per quanto le due cose stiano ai po­ li opposti: capitale non impiegato da una parte e popola­ zione lavoratrice non impiegata dall’altra» (Das Kapital, li­ bro III, I , p. 233). E allora? Per Bauer, «sovraccumulazione» significa nien­ te altro che eccesso di capitale in rapporto all’aumento del­ la popolazione lavoratrice, cioè eccesso di capitale è sempre identico a difetto di popolazione lavoratrice, cosi come sot­ to-accumulazione, cioè difetto di capitale, è sempre identica a eccesso di popolazione lavoratrice. In Marx proprio l’op­ posto: eccesso di capitale contemporaneamente ad eccesso di popolazione lavoratrice, entrambi originati dalle stesse terze circostanze. E nello stesso capitolo, dopo il passo citato da Bauer: «Non è una contraddizione che questa sovraproduzione di capitale sia accompagnata da una sovrapopolazione relativa piu o meno grande. Le stesse circostanze che hanno aumen­ tato la produttività del lavoro, accresciuto la massa delle merci, allargato i mercati, affrettato l’accumulazione del ca­ pitale, sia in massa che in valore, e fatto calare il saggio del profitto, le stesse circostanze hanno provocato una sovrapo­ polazione relativa e continuamente la provocano, una sovra­ popolazione di lavoratori non impiegati dal capitale sovrab­ bondante a causa del basso grado di sfruttamento del lavo­ ro al quale potrebbero essere impiegati o, quanto meno, a causa del basso saggio del profitto che potrebbero produrre a quel certo grado di sfruttamento» (Das Kapital, libro III, i , p . 238). E un po’ oltre: «S e il capitale viene mandato all’estero, non è perché, in assoluto, non potrebbe essere impiegato al­ l’interno, ma perché potrebbe essere impiegato all’estero ad un piu alto saggio del profitto. Ma questo capitale è ca­ pitale sovrabbondante in assoluto per la popolazione lavo-

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ratrice impiegata e per quel certo paese. Esiste dunque co­ me tale accanto alla popolazione relativamente eccedente, esempio di come le due cose sussistano l’una accanto all’al­ tra e si condizionino a vicenda». Tutto questo è sufficientemente chiaro. Ma come s’inti­ tola il capitolo di Marx dal quale Bauer ha estratto una bre­ ve citazione? Eccedenza di capitale con eccedenza di popo­ lazione (Das Kapital, libro III, 1, p. 232). E Bauer ha la strana idea di inserire nel suo «meccanismo» un passo di questo capitolo e dare cosi al lettore l’impressione che si li­ miti ad illustrare il pensiero di Marx! In realtà, è proprio il lapidario titolo applicato alla teoria marxiana su quest’ar­ gomento a dare un tale colpo alla costruzione baueriana, da mandare all’aria tutto il suo geniale «meccanismo». È chiaro che la «sovraccumulazione» di Bauer e la so­ vraccumulazione di Marx sono concetti economici ben di­ stinti, anzi opposti! In Bauer, la sovraccumulazione fa tutt’uno col periodo di prosperità, di massima richiesta di forza-lavoro, di assor­ bimento dell’esercizio industriale di riserva. In Marx, l’ec­ cesso di capitale va di pari passo con l’eccesso di lavorato­ ri, col massimo di disoccupazione: la sovraccumulazione è dunque identica con la crisi e con la piu profonda depres­ sione. Bauer spiega: esiste periodicamente eccesso di capi­ tale, perché esiste eccesso di lavoratori. Marx spiega: esiste periodicamente eccesso di capitale e perciò eccesso di lavo­ ratori. Ed in rapporto a che cosa un «eccesso» di entram­ bi? In rapporto alle possibilità di smercio nelle condizioni «normali» che assicurano il necessario profitto. Poiché il mercato di sbocco delle merci capitalistiche periodicamente si restringe, una parte del capitale deve rimanere inattiva, e di conseguenza lo stesso accade per una parte delle forze-la­ voro. L ’intreccio di cause ed effetti è in Marx il seguente. Il mercato di sbocco per le merci capitalistiche (smercio, naturalmente, a prezzi «normali» che includano almeno il profitto medio) è in ogni momento il punto di partenza, e su di esso e sui suoi movimenti si regola la grandezza del capitale volta per volta impiegabile. Su questo si regola poi l’entità della popolazione lavoratrice di volta in volta im­

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piegata. È quello che Marx spiega ripetutamente nel I I I li­ bro, parte prima. Cosi, a pagina 226, dove tratta della «contraddizione in­ terna» della produzione capitalistica, che si appiana me­ diante «estensione del campo esterno della produzione». Anche Bauer parla in un punto dell’« estensione del campo della produzione» necessaria per l’accumulazione del capi­ tale, che è una trascrizione mutila del passo di Marx, e vi aggiunge come codicillo, sul piano della sua idée fixe: « I l campo della produzione è esteso dall’aumento della popola­ zione [e vuol dire popolazione lavoratrice] ». Ma che cosa intenda per allargamento del «campo esterno della produ­ zione», Marx lo spiega in modo netto e chiaro con la lapi­ daria frase che immediatamente segue: « I l mercato deve perciò essere costantemente allargato» (III, x, p. 226). E a pagina 237, dopo la descrizione delle crisi e del loro supe­ ramento: «Cosi il circolo sarebbe nuovamente percorso. Una parte del capitale svalutata dall’arresto della sua fun­ zione riprenderebbe il suo antico valore. Del resto, con un raggio di produzione esteso, con un mercato allargato, con una cresciuta produttività, lo stesso circolo difettoso sareb­ be ripercorso». E aveva già detto piu sopra: «L e stesse circostanze che hanno aumentato la produttività del lavoro, accresciuto la massa delle merci, allargato i mercati, affrettata l’accumula­ zione del capitale, sia in massa che in valore, e fatto calare il saggio del profitto, le stesse circostanze hanno provocato una sovrapopolazione relativa e la provocano continuamen­ te, sovrapopolazione di lavoratori non impiegati dal capita­ le eccedente». È qui evidente che, parlando di «estensione del campo esterno della produzione», cioè dei mercati, Marx non in­ tendeva alludere all’aumento della popolazione lavoratrice, giacché l’allargamento dei mercati va di pari passo, come manifestazione parallela, con la formazione di un’eccedenza di lavoratori, col dilatarsi dell’esercito dei disoccupati, dun­ que con la contrazione del potere d ’acquisto della classe la­ voratrice! E a pagina 239: «Quando si dice che (nelle crisi) non si 20

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verifica sovraproduzione generale, ma sproporzione fra i di­ versi rami della produzione... si pretende che paesi in cui il modo di produzione capitalistico non è sviluppato consu­ mino e producano nel grado adatto a paesi del modo di pro­ duzione capitalistico». Marx riconduce dunque espressamente le crisi non a tur­ bamenti nel rapporto fra capitale disponibile e popolazione lavoratrice disponibile, ma a turbamenti nello scambio fra paesi capitalistici e non-capitalistici; anzi, considera questo scambio come base naturale dell’accumulazione! Qualche riga piu avanti: «Come potrebbe, altrimenti, mancare una domanda delle stesse merci di cui la massa del popolo difetta, e come sarebbe possibile dover cercare que­ sta domanda all’estero, su mercati lontani, per poter paga­ re ai lavoratori in patria la media dei mezzi di sussistenza necessari? » Qui Marx dice esplicitamente da che cosa dipenda il gra­ do di occupazione dei lavoratori nei paesi capitalistici: dal­ la possibilità di trovare uno sbocco alle merci capitalistiche su «mercati lontani». Sarebbe cosi liquidato il richiamo di Bauer al III libro del Capitale. Ma che dire della frasetta che Bauer cita dalle Theorien über den Mehrwert (vol. II, parte II, p. 244 ‘): « L ’accrescimento della popolazione appare come il fonda­ mento dell’accumulazione in quanto processo continuo»? Non è, in queste parole, contenuto in nuce l’intero «mecca­ nismo» baueriano? Ahimè, anche qui Bauer si è limitato a togliere dalla torta un chicco di uva passa. Considerata nel suo insieme, la citazione ha ben altro timbro. Marx vi analizza le condizioni della «trasformazione del reddito in capitale», cioè dell’impiego produttivo del plus­ valore, e discute se essa possa essere operata nel senso che la nuova porzione eccedente di capitale debba essere tra­ sformata per la maggior parte in capitale costante e per la minore in variabile. «Anzitutto bisognerà trasformare in capitale variabile una parte del plusvalore e del sovraprodotto a esso corrispondente in mezzi di sussistenza, bisogna [Trad. it. dt., vol. II, pp. 526-27].

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cioè comprare con essa nuovo lavoro. Ciò è possibile sol­ tanto se cresce il numero degli operai, o se è prolungato il tempo in cui essi lavorano». Quest’ultima condizione si ve­ rifica quando proletari un tempo impiegati solo in parte vengono impiegati totalmente, o quando la giornata lavora­ tiva viene protratta oltre il normale. Entrano poi in conto strati proletari che finora non lavoravano produttivamen­ te: donne, ragazzi, poveri. «Infine - dice Marx - mediante accrescimento assoluto della popolazione operaia con l’ac­ crescimento della popolazione generale. L ’accumulazione come processo continuo, costante, è condizionata da que­ st’accrescimento assoluto della popolazione, benché essa di­ minuisca relativamente rispetto al capitale impiegato». E qui finalmente segue la frasetta citata da Bauer: « L ’aumen­ to della popolazione appare come base dell’accumulazione in quanto processo continuo». Cosi Marx, nella stessa pagina che Bauer porta in cam­ po come classica prova del suo «meccanismo»! Se qualcosa il pubblico può ricavare, a primo sguardo, dal passo surrife­ rito, è questo svolgimento nel pensiero di Marx: se l’accu­ mulazione, cioè l’allargamento della produzione, deve aver luogo, sono anche necessarie forze-lavoro addizionali. Sen­ za una popolazione lavoratrice crescente non può dunque verificarsi allargamento costante della produzione. È una cosa che anche il piu semplice operaio capisce. Solo in que­ sto senso 1’« aumento della popolazione appare come base dell’accumulazione ». Ma la questione non era, in Bauer, se un aumento della popolazione lavoratrice fosse necessario ai fini dell’accumu­ lazione, cosa che nessun mortale ha, ch’io sappia, mai con­ testato, ma se fosse condizione sufficiente. Marx dice: l’ac­ cumulazione non può avvenire senza una crescente popola­ zione lavoratrice. Bauer capovolge: perché l’accumulazio­ ne avvenga, basta che la popolazione lavoratrice cresca. In Marx l’accumulazione è presupposta, la possibilità di uno smercio senza difficoltà è data; quel che egli cerca sono le forme in cui quest’accumulazione si compie; e trova che fattore necessario dell’accumulazione è, fra l’altro, un au­ mento della popolazione lavoratrice. In Bauer, l’aumento

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della popolazione lavoratrice è il presupposto grazie al qua­ le e per il quale l’allargamento della produzione si svolge senza preoccuparsi ulteriormente del mercato! È lo stesso capovolgimento del pensiero di Marx nel suo opposto, che avevamo osservato a proposito del I II libro del Capitale. O che forse leggiamo troppo nella frase di Marx? Forse che Bauer poteva interpretare a modo suo (o meglio, inter­ pretare a rovescia) il passo del Capitale? Però, un bel mi­ stero che uno possa interpretare Marx a rovescia su questo punto, ammesso che abbia letta la citazione di cui si tratta, quando, poche pagine oltre, lo stesso Marx precisa netta­ mente il suo pensiero e il punto di partenza della sua anali­ si: « I l problema adesso va formulato cosi: supposta un’ac­ cumulazione generale [corsivo di M arx], supposto cioè che in tutte le branche di produzione il capitale venga piu o meno accumulato, ciò che in effetti è la condizione della pro­ duzione capitalistica,... quali sono le condizioni di quest’ac­ cumulazione generale, in che cosa essa si risolve?» E ri­ sponde: «queste condizioni sono che con una parte del de­ naro si compri lavoro, con l’altra mezzi di produzione» (p. 250, I *)• E per eliminare subito ogni dubbio, come presentendo l ’allievo «competente», aggiunge: «Q ui non ci addentria­ mo nel caso in cui sia accumulato piu capitale di quanto ne può essere investito nella produzione, ad esempio sotto for­ ma di denaro inoperoso in banca. Di qui i prestiti all’este­ ro ecc., insomma la speculazione degli investimenti. E nep­ pure consideriamo il caso in cui sia impossibile vendere la massa delle merci prodotte, crisi ecc., che appartengono al capitolo della concorrenza. Qui dobbiamo indagare solo le forme del capitale nelle diverse fasi del suo processo, in cui si suppone sempre che le merci siano vendute al loro valo­ re» (p. 2 5 2 12; corsivo mio). In altri termini: Marx presuppone l’allargamento dello smercio, la possibilità dell’accumulazione, e ricerca soltanto in quali forme il processo successivamente si traduce. Una 1 [Trad. it. cit., vol. II, p. 532].

2 [Ibid., p . 534].

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di queste è l’impegno massimo di nuove forze-lavoro, e per­ ciò naturalmente anche l ’aumento della popolazione lavo­ ratrice. Bauer ne fa quanto segue: perché l’accumulazione abbia luogo, basta che la popolazione lavoratrice cresca; anzi l’accumulazione ha luogo proprio perché la popolazio­ ne lavoratrice cresce. Il senso e il fine obiettivi dell’accu­ mulazione e del suo «meccanismo» sono il suo adattarsi al­ l’aumento della popolazione lavoratrice. Perché l’uomo possa vivere è necessario che respiri aria. Conclusione à la Bauer: l’uomo vive d’aria, vive per poter respirare aria, l’intero processo della sua vita non è che «spontaneo» adattamento del suo meccanismo fisico all’in­ spirazione ed espirazione. Splendido risultato del girare nel vuoto dell’astrattismo! Ma qui finisce lo scherzo, perché la faccenda è tutto fuo­ ri che da ridere. Non si tratta piu di piccolezze, non si trat­ ta piu del mio libro, ma dell’abc della dottrina di Marx. A questo punto possiamo lasciare anche noi le vette aspre e nebbiose del III libro del Capitale e delle Theorien über den Mehrwert, rimasti disgraziatamente ignoti, salvo qual­ che eccezione, al gran pubblico marxista, e tornare al I li­ bro, che ha finora costituito la base economica specifica del­ la socialdemocrazia. Qui ogni lettore che abbia una certa fa­ miliarità col capolavoro di Marx può senza grande sforzo vagliare la consistenza dell’intera costruzione baueriana; ba­ sta aprire il capitolo XXIII (Das Kapital, libro, I, p. 602 [sez. V II, cap. X XIII, 3]). «Per l’industria moderna col suo ciclo decennale... sa­ rebbe davvero una bella legge quella secondo cui la doman­ da e l’offerta di lavoro non fossero regolate dall’espansione e contrazione del capitale, cioè in base alle sue particolari esigenze di valorizzazione, ma, al contrario, il movimento del capitale fosse fatto dipendere dal movimento assoluto della quantità della popolazione. Eppure, è questo il dogma economico». Marx si riferisce al vecchio «dogm a» dell’eco­ nomia politica borghese del cosiddetto fondo salari, che considerava il capitale volta a volta disponibile nella socie­ tà come una grandezza ben determinata, mentre faceva di­ pendere la popolazione lavoratrice impiegata dal suo incre­

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mento naturale. Contro questo dogma Marx polemizza a lungo, dando così senza volerlo colpi su colpi ai suoi adepti «competenti». Poco piu oltre: «L a domanda di lavoro non è identica ad aumento di capitale, l’ofïerta di lavoro non è identica ad au­ mento della classe lavoratrice, talché due potenze recipro­ camente indipendenti agiscono l ’una sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce insieme sulle due parti. Se la sua accumulazione accresce da una parte la domanda di lavoro, aumenta dall’altra l’oflerta di lavoratori mediante la loro “ liberazione” » ecc. (Das Kapital, libro I, p. 605 [stesso paragrafo]). Nel «meccanismo» di Bauer, l’esercito industriale di ri­ serva nasce, l’abbiamo visto, come conseguenza di un’accu­ mulazione troppo lenta, che non tiene il passo con l’aumen­ to della popolazione. Bauer afferma categoricamente: « Il primo effetto della sotto-accumulazione è la formazione di un esercito industriale di riserva» («Neue Zeit», 1913, n. 24, p. 869). Perciò, quanto minore è l’accumulazione del capitale, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. Così Bauer: e Marx lo ammonisce, quattro pagine dopo la citazione di cui sopra: «Quanto maggiore la ricchezza socia­ le, il capitale funzionante, l’ampiezza ed energia del suo au­ mento, e perciò anche la grandezza assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto maggiore l’esercito in­ dustriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è determi­ nata dalle stesse circostanze che la forza di espansione del capitale». Nella pagina successiva, Marx diventa sarcastico: «S i ve­ de qui la follia della saggezza economica che predica agli operai di adattare il proprio numero alle esigenze di valoriz­ zazione del capitale. Il meccanismo della produzione e accu­ mulazione capitalistica adatta continuamente questo nume­ ro alle dette esigenze di valorizzazione». Quale «follia» è maggiore: la classica borghese, che pre­ dicava agli operai di adattare il proprio incremento al capi­ tale, o la nuova «austromarxista» che insegna agli operai, viceversa, che il capitale si adatta continuamente al loro au­ mento? Direi l’ultima. L ’antica «follia» non era che il ri­

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flesso soggettivo sbagliato dei rapporti reali; questa è il ca­ povolgimento della realtà. Nell’intero capitolo dedicato alla popolazione lavoratrice e al suo incremento, Marx parla continuamente di «esigen­ ze di valorizzazione» del capitale. A queste, secondo Marx, la popolazione lavoratrice si adatta nella sua crescita, da queste dipende il grado contingente della domanda di forzelavoro, il livello dei salari, l’alta o bassa congiuntura, la pro­ sperità o la crisi. Che cosa sono, queste «esigenze di valoriz­ zazione» delle quali, nel suo «meccanismo», Bauer non dice una parola? Nello stesso capitolo Marx parla continuamente di «im ­ provvise espansioni» del capitale, e attribuisce loro la mas­ sima importanza nel moto sia dell’accumulazione del capi­ tale sia della popolazione lavoratrice. Anzi, la capacità di improvvisa e illimitata espansione del capitale è, secondo Marx, il tratto caratteristico e l ’elemento determinante del­ lo sviluppo della grande industria moderna. Che cosa si de­ ve intendere per queste «improvvise espansioni» del capi­ tale, che per Marx sono tanto importanti e di cui Bauer non fiata? La risposta a entrambe le domande è data da Marx nel­ lo stesso capitolo, all’inizio, con le seguenti chiare parole: «... E poiché infine, sotto un particolare stimolo della spin­ ta all’arricchimento, come per esempio l’apertura di nuovi mercati, di nuove sfere di investimento del capitale in segui­ to allo sviluppo di nuovi bisogni sociali ecc. il raggio del­ l’accumulazione può improvvisamente estendersi...» E ancor piu dettagliatamente (a p. 597): «Con l’accumu­ lazione e lo sviluppo ad essa correlativo della produttività del lavoro, cresce la forza di espansione improvvisa del ca­ pitale, non solo perché crescono l’elasticità del capitale fun­ zionante e la ricchezza assoluta di cui il capitale non costi­ tuisce che una parte elastica, non solo perché il credito, sot­ to ogni stimolo particolare, mette a disposizione della pro­ duzione, come capitale addizionale, una parte eccezionale di questa ricchezza: la massa della ricchezza sociale traboccan­ te con gli sviluppi dell’accumulazione e trasformabile in ca­ pitale addizionale si lancia freneticamente in vecchi rami di

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produzione, il cui mercato improvvisamente si allarga, o in rami di recente aperti, come le ferrovie, il cui bisogno sorge dallo sviluppo dei primi. In tutti questi casi, grandi masse umane devono poter essere gettate, improvvisamente e sen­ za interruzione della scala della produzione, in altre sfere, nei punti decisivi. È la sovrapopolazione a fornirle». Qui, dunque, Marx non soltanto spiega come si giunga ad improvvise espansioni del capitale (cioè mediante improv­ vise espansioni dei mercati di sbocco), ma formula anche la funzione specifica dell’esercito industriale di riserva: quella di poter essere «gettato» nella produzione in vista di quelle straordinarie e improvvise espansioni del capitale. In que­ sto, Marx vede la piu importante funzione dell’esercito in­ dustriale di riserva, appunto in vista di questa sua funzione lo chiama condizione di esistenza della moderna produzio­ ne capitalistica: la formazione della sovrapopolazione indu­ striale è «divenuta la leva dell’accumulazione capitalistica, anzi una condizione di esistenza del modo di produzione ca­ pitalistico... La forma di movimento della industria moder­ na nasce dunque dalla continua trasformazione di una parte della popolazione lavoratrice in mani disoccupate o semioc­ cupate» (ivi tutto sottolineato da me). Ancor piu nettamen­ te e sinteticamente, questo concetto è formulato dove Marx scrive (a p. 573): «Appena... prodotte le condizioni genera­ li della produzione corrispondenti alla grande industria, il modo della sua conduzione acquista un’elasticità, una capa­ cità di espansione improvvisa e a sbalzi che trova i suoi limi­ ti solo nelle materie prime e nel mercato di sbocco». Come rientra tutto questo nello schema di Bauer? Nel suo «meccanismo» non c’è posto per le improvvise espan­ sioni del capitale e quindi per la sua elasticità. Ciò per due ragioni: 1 ) la produzione si orienta esclusivamente sulla po­ polazione lavoratrice e il suo aumento; i mercati di sbocco non hanno qui il minimo ruolo. Ma l ’incremento naturale della popolazione non presenta una possibilità autonoma di espansione a sbalzi. La popolazione lavoratrice presenta bensì periodiche, improvvise dilatazioni dell’esercito indu­ striale di riserva, ma in Bauer ciò avviene appunto in tempi di «sotto-accumulazione», di lento sviluppo e di mancanza

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di capitale disponibile in confronto alla classe lavoratrice. 2) Condizione di queste espansioni improvvise è non sol­ tanto l’improvviso allargamento dei mercati di sbocco, ma anche una riserva disponibile e già accumulata di capitale, quella riserva che, come dice Marx, il credito mette a dispo­ sizione della produzione come capitale addizionale. Ma in Bauer tutto questo è escluso, giacché nel suo «meccanismo» una risalita dalla fase di «sotto-accumulazione» è possibile solo nella misura in cui, sotto la pressione della disoccupa­ zione, la generale compressione dei salari permette l’accu­ mulo di nuovo capitale! In tal modo, mentre da una parte rimangono inspiegabili, dal punto di vista del «meccanismo» baueriano, l’espansio­ ne improvvisa del capitale e lo scoppio della crisi, all’eserci­ to industriale di riserva non è assegnata alcuna funzione specifica. Bauer lo fa bensì periodicamente apparire come un prodotto del progresso tecnico, ma non sa che ruolo at­ tribuirgli all’infuori di quello che in Marx passa in secondo piano - premere come una palla di piombo sui salari dei la­ voratori occupati - , mentre svanisce proprio quello che in Marx diventa «condizione di esistenza» e «leva» della pro­ duzione capitalistica. Che del resto Bauer non sappia che cosa fare dell’esercito di riserva, lo dimostra anche la circo­ stanza umoristica che lo fa «riassorbire» tre volte nel corso del ciclo industriale: al punto piu basso della «sotto-accu­ mulazione», al vertice della «sovraccumulazione» e al li­ vello intermedio dell’«equilibrio»! Tutti questi prodigi hanno una sola causa: in Bauer, il movimento della popolazione lavoratrice non avviene in no­ me del capitale e delle sue «esigenze di valorizzazione», co­ me in Marx e nella realtà effettiva, ma, al contrario, il movi­ mento del capitale si muove nel suo complesso intorno alla popolazione lavoratrice e al suo incremento. Avviene al ca­ pitale, nel «meccanismo» di Bauer, come alla lepre col por­ cospino: ansima faticosamente dietro la popolazione lavo­ ratrice, a volte sembra raggiungerla d ’un balzo, a volte le resta indietro, finché, al traguardo, sente e risente la stessa canzone: «Ehi, son già qui! » Ma in Marx il concetto che la popolazione lavoratrice si

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adatti nel suo incremento al capitale e alle sue prospettive di smercio, che ne sia dominata e sbattuta in qua e in là, è il perno dell’intera ultima parte del I libro. In piti di 40 pagine del capitolo X X III, Marx si sforza di chiarire questa storica scoperta. « È questa la legge generale assoluta del­ l’accumulazione del capitale», conclude; ma fa seguire al ca­ pitolo altre 65 pagine di «Illustrazioni». E che cosa vi si di­ mostra, sull’esempio dell’Inghilterra come paese-tipo della produzione capitalistica? Che mentre l’incremento annuo della popolazione in Inghilterra, nel periodo 1811-61, di­ minuì costantemente, la ricchezza, cioè l’accumulazione ca­ pitalistica, crebbe in progressione continua e a passi da gi­ gante: fenomeno che Marx illustra sulla scorta di innume­ revoli dati statistici. Può darsi che a questo punto Bauer esclami: ma il gigan­ tesco aumento dell’industria inglese nel secoloxixnon si ba­ sava soltanto sulla popolazione britannica, e non può quin­ di essere confrontato con essa in quanto base economica. Si consideri lo smercio inglese negli Stati Uniti, nell’America centro-meridionale; si considerino le crisi periodiche del­ l ’industria britannica, susseguitesi dal 1825 al 1867 dopo ogni nuovo e improvviso allargamento del mercato. Ottima­ mente: ma se Bauer sa questo, sa tutto, sa anche che la sua teoria dell’adattamento dell’accumulazione all’incremento della popolazione lavoratrice è una ciarlataneria, sa che co­ sa Marx ha inteso dimostrare e illustrare nel I libro del Ca­ pitale: che la popolazione lavoratrice si adatta nella sua grandezza, volta per volta, all’accumulazione del capitale e alle sue mutevoli «esigenze di valorizzazione», non vicever­ sa (e dicendo esigenze di valorizzazione si vuol dire possibi­ lità di smercio). È qui che culmina, infatti, la teoria del I libro del Capi­ tale. In questo concetto veramente innovatore Marx riassu­ me tutto lo spirito della sua teoria dello sfruttamento capi­ talistico, il fondamentale rapporto fra capitale e lavoro, la specifica «legge della popolazione »nel periodo capitalistico. Ed ecco arriva Bauer e, con la piu tranquilla faccia del mondo,capovolge l’intera costruzione,annunciando al mon­ do che l’intero moto del capitale nasce dalla sua tendenza

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ad adattarsi all’incremento della popolazione lavoratrice! La costruzione baueriana è, nel suo contenuto, una semplice bolla di sapone. Se la si corregge ammettendo con Marx una riserva elastica di capitale sociale e l’illimitata e continua capacità di espansione del capitale, addio la sua «sotto-accu­ mulazione». Se la si corregge ammettendo con Marx una costante formazione dell’esercito industriale di riserva, la cui funzione è di soddisfare anche al vertice della prosperi­ tà le esigenze del capitale, addio la sua specifica « sovraccu­ mulazione»! Se la si corregge ammettendo con Marx, come conseguenza del progresso tecnico, una costante diminuzio­ ne relativa del capitale variabile in confronto al numero dei lavoratori, addio il suo «equilibrio»: il «meccanismo» va in fumo. Ma più importante dell’inconsistenza di questa costruzione è il suo pensiero centrale: la presunta tendenza del capitale ad adattarsi nel suo moto alla popolazione lavo­ ratrice. E chi va in fumo è qui lo stesso spirito della teoria marxiana. Anche questo sistema elaborato con pretenziosa pedante­ ria e pieno di non-sensi doveva dunque apparire sull’organo ufficiale della teoria marxista! Nello zelo della buona causa, posti di fronte al dovere di bruciare un eretico, non ci si è accorti che uno ben peggiore meritava la corda. Nelle scien­ ze naturali, oggi il controllo e la critica pubblica sono conti­ nuamente all’erta: è perciò escluso che, per esempio, un ti­ zio salti fuori, nello zelo di una più precisa dimostrazione del sistema astronomico moderno, ad esporre un calcolo esatto dei moti di tutti i pianeti intorno alla terra, e che il pubblico colto lo prenda sul serio. Anzi, un caso simile non giungerebbe neppure alle orecchie del pubblico, perché non si troverebbe un solo redattore di una rivista scientifica pronto ad avallare una cosi evidente panzana. Sembra inve­ ce che, felicemente regnando i diadochi austromarxisti, cose simili possano tranquillamente accadere. La teoria baueria­ na dell’accumulazione, proclamata da una simile tribuna, non è un banale errore di quelli in cui si può sempre cadere nella ricerca del vero; è, indipendentemente da ogni rappor­ to col mio libro, una macchia sul marxismo ufficiale dell’e­ poca, e uno scandalo per la socialdemocrazia.

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5. Fin qui la spiegazione data da Bauer all’accumulazione dei capitale. Quale la sua conclusione pratica? Eccola for­ mulata dal suo stesso autore: « I l risultato della nostra ri­ cerca è dunque: 1 ) che anche in una società capitalistica iso­ lata l’accumulazione del capitale è possibile quando non va­ da oltre un certo limite volta per volta stabilito [cioè l’au­ mento della popolazione lavoratrice disponibile]; 2) ch’essa è ricondotta spontaneamente a questo limite attraverso il meccanismo della produzione capitalistica medesima» (p. 8 73 )• E subito dopo, riassumendo un’ultima volta la quintes­ senza delle sue ricerche, nelle loro appbcazioni pratiche: «L a compagna Luxemburg spiega l’imperialismo nel modo che segue: in una società capitalistica isolata, la trasforma­ zione del plusvalore in capitale sarebbe impossibile. Essa è resa possibile unicamente dal fatto che la classe capitalistica allarga sempre piu il suo mercato di sbocco per collocare in paesi che non producono ancora capitalisticamente la parte del sovraprodotto in cui la parte accumulata del plusvalore è incorporata. A tale scopo serve l’imperialismo. Questa spiegazione è, come abbiamo visto, inesatta. L ’accumulazio­ ne è possibile e necessaria anche in una società capitalistica isolata» (p. 873; corsivo mio). Per la via traversa di una nuova e straordinaria «teoria della popolazione», Bauer si affanna dunque, come tutti gli altri «competenti», a dimostrare che la produzione e l’ac­ cumulazione capitalistiche possono fiorire e svilupparsi an­ che in condizioni che nessun mortale ha finora mai incontra­ to nella realtà vera! E su questa base pretende di affrontare il problema dell’imperialismo! Ma quel che importa stabilire è questo: mentre si dà l’a­ ria di difendere contro di me la teoria marxiana così com’è esposta nel II libro del Capitale, Bauer attribuisce di stra­ foro a Marx presupposti di sua invenzione, radicalmente di­ versi da quelli di Marx. In Marx non si tratta di un’« economia capitalistica iso­ lata» accanto alla quale si debba perciò ammettere a priori come esistente un’altra, non-capitalistica; né di una simile

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società io ho mai parlato. Questo quadro insulso è nato solo nella fantasia teorica di Otto Bauer, come Venere dalla schiuma del mare. Ricordiamo come Marx formula le sue premesse. Nel I libro del Capitale, egli parla espressamente di voler ammettere, «per afferrare l’oggetto della indagine nella sua purezza, libero da circostanze accessorie pertur­ banti», che « l ’intero mondo commerciale costituisca una nazione sola», un tutto economico, e che «la produzione ca­ pitalistica si sia stabilita dovunque e abbia conquistato tutti i rami dell’industria» (4a ed., p. 544). E nel II libro scrive, in modo altrettanto categorico, che premessa della sua ri­ cerca in merito all’accumulazione è un « dominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica» (p. 321). Chiarissimo. Ciò che Marx presuppone non è la fantasia bambinesca di una società capitalistica sull’isola di Robin­ son, che fiorisce nel chiuso, «isolata» da continenti con po­ poli non-capitalistici, di una società in cui lo sviluppo capi­ talistico ha raggiunto il piu alto grado immaginabile (non consta infatti la sua popolazione unicamente di capitalisti e salariati?) e che non conosce né artigianato né contadiname e non ha rapporti col mondo circostante non-capitalistico. Il presupposto di Marx non è un assurdo della fantasia, ma un’astrazione scientifica. Marx anticipa la tendenza reale dello sviluppo capitalistico; ammette come già raggiunto quello stato di dominio generale assoluto del capitalismo su tutto il mondo, quell’estrema dilatazione del mercato mon­ diale e dell’economia mondiale, verso cui il capitale e l’in­ tero suo sviluppo economico e politico odierno realmente tende, Marx orienta insomma la sua indagine sul binario della tendenza storica reale, il cui punto terminale conside­ ra già raggiunto. È questo un metodo scientificamente cor­ retto e, per esempio nell’analisi dell’accumulazione del ca­ pitale singolo, pienamente sufficiente (come ho mostrato nel mio libro), sebbene fallisca e disorienti, a mio avviso, di fronte al problema decisivo dell’accumulazione del capitale sociale totale. Bauer, invece, costruisce l’immagine grottesca di una «economia capitalistica isolata», senza strati medi, senza arti­ gianato, senza contadini, che non è mai esistita e non nasce­

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rà mai e che non ha nulla a che vedere con la realtà e con la tendenza dello sviluppo storico, un’immagine il cui raffina­ to «meccanismo» serve a spiegare le leggi dell’accumulazio­ ne capitalistica esattamente come le celebri figurine mecca­ niche di Vaucanson servono a spiegare la fisiologia e la psi­ che dell’organismo umano. Finora, soltanto economisti bor­ ghesi avevano lavorato con l’infantile mezzuccio di una «economia isolata» per dimostrare su questo «mannequin» le leggi della produzione mondiale capitalistica. Nessuno ha mai sbeffeggiato piu crudelmente di Marx le «robinsonate economiche». Ora, finalmente, lo stesso Marx è spiegato con la « robinsonata» di Bauer e cosi posto su «basi inecce­ pibili»! Ma questa «spiegazione» baueriana ha le sue brave ragio­ ni. Se infatti si presuppone con Marx un «dominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica» già realizzatosi in tutto il mondo, l ’imperialismo è escluso e una sua spiega­ zione è impossibile, giacché la stessa ipotesi di partenza lo liquida storicamente, lo manda agli atti. In questa premes­ sa, il processo della fase imperialistica non si può descrivere e rappresentare piu che non si possa descrivere e rappresen­ tare il processo della caduta dell’Impero romano partendo dal presupposto di un dominio generale già realizzato del feudalesimo. Posti di fronte al compito di mettere d ’accor­ do l’odierno imperialismo con la teoria dell’accumulazione cosi com’è esposta nel II libro del Capitale, gli epigoni «competenti» di Marx avrebbero dovuto decidersi per una delle due: o negare l’imperialismo come necessità storica, o, come faccio io nel mio libro, abbandonare come erroneo il presupposto di Marx e indagare il processo dell’accumu­ lazione in condizioni reali storicamente date: come svilup­ po capitalistico in continuo ricambio con un ambiente non­ capitalistico. Un Eckstein, che non ha capito nulla di tutta la questione, non s’è trovato imbarazzato nella scelta. Otto Bauer, invece, avendo capito il nocciolo della faccenda, tro­ va, nella sua qualità di rappresentante del «centro marxi­ sta», la sua via di uscita in un compromesso: il capitalismo può bensì splendidamente fiorire nell’isola di Robinson, ma trova un «lim ite» alla sua fioritura nel proprio isolamento,

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e questo limite può essere superato solo entrando in con­ tatto con l’ambiente non-capitalistico. «N ell’interpretazio­ ne errata [di R. Luxemburg] è nascosto tuttavia un noccio­ lo vero... Se non è impossibile in una società capitalistica isolata, l’accumulazione vi trova però dei limiti. L ’imperia­ lismo serve in realtà allo scopo di ampliare questi lìmiti... Questa spinta è in realtà una radice, se non l’unica, dell’imperialismo» (p. 873,4). La robinsonata della «società capitalistica isolata» non è stata dunque assunta da Bauer come presupposto scientifi­ co, cioè come unica base seria d’indagine, ma è stata costrui­ ta a priori con un occhio rivolto agli altri paesi non-capitalistici. Egli ci ha lungamente intrattenuti sull’ingegnoso «meccanismo» di una società capitalistica che può esistere e fiorire da sola, ma ha tenuto per tutto il tempo in tacita ri­ serva un ambiente non-capitalistico, per poterlo tirare fuori quando si fosse trovato in difficoltà, sull’isola di Robinson, a spiegare l’imperialismo. Chi ha letto attentamente le note e le osservazioni criti­ che disseminate nel I libro del Capitale, in cui Marx discute i giochi di prestigio dei Say, J. S. Mill, Carey ed altri, può immaginare facilmente come avrebbe fustigato un simile metodo «scientifico». Comunque, siamo finalmente arrivati all’imperialismo. Il capitolo finale dell’articolo di Bauer reca il titolo La spie­ gazione dell’imperialismo-, e il lettore spera di potercela fi­ nalmente trovare. Dopo di aver dichiarato che io avrei sco­ perto una radice, «m a non l’unica», dell’imperialismo, ci si dovrebbe logicamente aspettare che Bauer ne metta a nudo anche le altre dal punto di vista della sua particolare conce­ zione. Ahimè, nulla di tutto questo. Bauer abbandona il ten­ tativo, conserva il segreto. Ad onta del titolo pieno di pro­ messe e del capitolo conclusivo, non ci resta in mano che quella povera «radice» in cui sarebbe il «nocciolo vero» della mia errata spiegazione. D ’altronde, accettando benignamente questo «nocciolo vero», Bauer mi ha già concesso troppo. Si tratta, anche qui, del solito compromesso, insostenibile e asmatico come tutti i compromessi.

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Infatti, se la sua teoria dell’accumulazione fondata sul1’« incremento della popolazione» è giusta, la famosa «radi­ ce» è perfettamente inutile, essendo Pimperialismo in tale ipotesi impossibile. Ricordiamo infatti in che consiste il «meccanismo» del­ l ’accumulazione baueriana: nel fatto che la produzione ca­ pitalistica riadatta continuamente la sua ampiezza, in modo automatico, all’aumento della classe lavoratrice. In che sen­ so si può parlare, quindi, di un «lim ite» dell’accumulazio­ ne? Il capitale non ha né il bisogno né la possibilità di su­ perare quel «lim ite». Se la produzione si spinge, nella fase della «sovraccumulazione» baueriana, al di sopra dell’in­ cremento della classe lavoratrice, nella fase successiva di «sotto-accumulazione» ritorna automaticamente al di sot­ to della popolazione lavoratrice disponibile. Nel «meccani­ sm o» di Bauer, non esiste capitale eccedente che possa var­ care i suoi «lim iti», giacché questa teoria, come abbiamo vi­ sto, esclude per gli stessi motivi la costituzione di una riser­ va di capitale e la capacità di espansione improvvisa della produzione. Un eccesso di capitale si profila qui solo come fase transitoria, periodicamente e irresistibilmente sostitui­ ta dall’estremo opposto - penuria di capitale; le due fasi si alternano e si annullano con la pedantesca regolarità della luna nuova e della luna piena. Non esiste né un «lim ite» all’accumulazione del capitale né la tendenza a superarlo: non afferma forse espressamente, Bauer, che l’accumulazio­ ne viene continuamente e automaticamente ricondotta a questo limite attraverso il «meccanismo della stessa produ­ zione capitalistica» (p. 873)? Un conflitto fra spinta all’e­ spansione e presunto limite del capitale non esiste. Questi concetti vengono inseriti nel «meccanismo» solo per getta­ re un ponte artificiale dalla concezione di Bauer all’imperia­ lismo. L ’artificiosità di questa costruzione è la miglior con­ ferma della base ch’egli è costretto a dare, dal punto di vi­ sta della sua teoria, all’imperialismo. Essendo la classe lavoratrice l’asse intorno al quale il ca­ pitale, secondo Bauer, oscilla, estensione dei limiti dell’ac­ cumulazione significa in Bauer aumento della classe lavora­ trice! Si legga a pagina 873 del suo articolo sulla «Neue

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Zeit»: « L ’accumulazione è anzitutto limitata dall’incre­ mento della popolazione lavoratrice. Ora l’imperialismo ac­ cresce la massa lavoratrice costretta a vendere al capitale la sua forza-lavoro. Lo fa distruggendo le antiche forme di produzione nei paesi coloniali e costringendo cosi milioni di esseri umani ad emigrare in paesi capitalistici o ad asser­ virsi in patria al capitale europeo o americano ivi investito. Poiché, data una certa composizione organica del capitale... la grandezza dell’accumulazione è determinata dall’aumen­ to della popolazione lavoratrice disponibile, l’imperialismo è dunque un mezzo per estendere i confini dell’accumula­ zione». Questa, dunque, la funzione essenziale e la preoccupazio­ ne dominante dell’imperialismo: accrescere la classe lavo­ ratrice mediante il suo acquisto nelle colonie o la sua uti­ lizzazione sul posto! E questo sebbene chiunque abbia oc­ chi per vedere sappia che, proprio all’opposto, nei paesi di origine del capitale imperialistico, nei vecchi centri capita­ listici, esistono un esercito industriale di riserva già forma­ to e consolidato e una disoccupazione permanente, mentre nelle colonie il capitale continua a levare alti lai sulla defi­ cienza di braccia! Nella sua caccia a nuovi salariati, il capi­ tale imperialistico fugge dai paesi in cui i rapidi progressi tecnici, l’energico processo di proletarizzazione dei ceti me­ di, la decomposizione della famiglia proletaria alimentano senza tregua le riserve di braccia, e affluisce di preferenza in quelle regioni della terra in cui i rapporti sociali rigidi e le forme tradizionali di proprietà imprigionano le forze-la­ voro in cosi tenaci catene, che occorrono decenni perché la furia devastatrice del dominio del capitale e l’esercizio di questo dominio le «liberino» come proletariato appena ap­ pena utilizzabile!... Bauer fantastica di un afflusso «poderoso» di nuovi lavo­ ratori dalle colonie verso gli antichi paesi a produzione ca­ pitalistica, mentre chiunque sa che, al contrario, parallelamente all’emigrazione del capitale dagli antichi paesi nelle colonie ha luogo un’emigrazione verso le colonie delle for­ ze-lavoro «eccedenti», che, come dice Marx, «in realtà non fanno che seguire il capitale emigrante». Si veda il podero­

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so flusso di uomini dall’Europa verso l’America del Nord e del Sud, il Sud Africa e l’Australia nel corso del secolo xix. Si vedano le diverse forme di schiavitù «attenuata» e di la­ voro forzato alle quali il capitale europeo e nord-americano ricorre per assicurarsi nelle colonie africane, nelle Indie oc­ cidentali, nell’America del Sud e in Oceania il minimo ne­ cessario di braccia. Dunque, secondo Bauer, il capitale inglese avrebbe con­ dotto per un cinquantennio guerre sanguinose contro la Ci­ na per assicurarsi prima di tutto, in vista della preoccupan­ te deficienza di lavoratori nazionali, un «poderoso» afflusso di coolies cinesi, e lo stesso imperioso bisogno sarebbe alla base della crociata collettiva dell’Europa imperialistica con­ tro la Cina verso la fine del secolo! Il capitale francese avrebbe, in Marocco, puntato sui berberi per colmare il pro­ prio deficit in proletari di fabbrica! In Serbia e in Albania, l ’imperialismo austriaco sarebbe andato essenzialmente a caccia di forze-lavoro fresche! E il capitale tedesco frughe­ rebbe con la lanterna Asia Minore e Mesopotamia in cerca di lavoratori industriali turchi, visto che in Germania, pri­ ma della guerra mondiale, regnava in tutti i campi una cosi grave penuria di forze-lavoro! È chiaro che anche qui Otto Bauer, da «uomo che specu­ la», ha dimenticato la grigia terra per amore di nebulose astrazioni. L ’imperialismo moderno si trasforma, nelle sue mani, nella caccia del capitale a nuove forze-lavoro. Sareb­ be questo il nocciolo, il principio primo, lo stimolo dell’im­ perialismo, accanto al quale Bauer cita solo in seconda linea il bisogno di materie prime transoceaniche, che a sua volta non ha alcun rapporto economico con la sua teoria dell’ac­ cumulazione e giunge come un colpo di pistola. Se infatti l’accumulazione può prosperare cosi splendidamente in una «società capitalistica isolata» quale quella dipinta da Bauer, deve disporre anche, sull’isola miracolosa, di tutte le ricchezze naturali necessarie e di ogni ben di Dio - non come il povero capitalismo della grigia realtà, che fin dal primo giorno di vita ha dovuto fare appello ai mezzi di pro­ duzione di tutto il mondo. Infine, in ultima istanza e di pas­ saggio, Bauer cita in due righe come fattore secondario del­

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l’imperialismo la conquista di nuovi mercati di sbocco e so­ lo come mezzo per attenuare le crisi —che è un «altro bel fatto» quando è noto a tutti su questa terra che ogni sensi­ bile allargamento del mercato ha appunto per effetto l’acu­ tizzarsi estremo delle crisi! Questa la «spiegazione deH’imperialismo» che Otto Bauer finisce per darci: «A nostro avviso, il capitalismo è pensabile anche senza espansione» (p. 874). Qui culmina la sua teoria dell’accumulazione «isolata», e qui siamo pian­ tati in asso con la consolante assicurazione che, comunque, o cosi o cosi —«con o senza espansione, il capitalismo pre­ para a se stesso la sua fine»... È questo il metodo materialistico-storico di ricerca se­ condo l’edizione «competente». Il capitalismo è pensabile anche senza espansione. È vero che, per Marx, la tendenza del capitalismo ad improvvise espansioni è proprio l’elemen­ to decisivo, il tratto eminente della storia contemporanea: è vero che l’espansione accompagna l’intero corso storico del capitalismo e ha raggiunto nell’attuale fase finale imperiali­ stica un carattere così tempestoso da mettere in forse la stes­ sa esistenza civile dell’umanità; è vero che proprio questa spinta indomabile del capitale all’espansione ha creato pas­ so passo il mercato mondiale, ha dato vita alla moderna eco­ nomia mondiale e ha cosi gettato le prime basi storiche del socialismo: è vero che l’internazionale proletaria, destinata a seppellire il capitalismo, non è se non un prodotto dell’e­ spansione mondiale del capitale. Ma tutto ciò poteva anche non essere, essendo pensabile anche un corso storico tutt ’affatto diverso. Invero, che cosa non è «pensabile» per un cosi forte pensatore? «A nostro avviso, il capitalismo è pen­ sabile anche senza espansione». A nostro avviso, la storia moderna è pensabile anche senza lo scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa. A pensarci meglio, la sto­ ria umana è pensabile anche senza capitalismo. Infine, il si­ stema solare è pensabile anche senza la terra, e forse la filo­ sofia tedesca senza la «scimunitaggine metafisica». Una co­ sa ci sembra comunque impensabile: che un marxismo uffi­ ciale cosi «pensante» potesse, come avanguardia teorica del movimento operaio nella fase dell’imperialismo, giungere

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ad altro risultato che al miserabile fiasco della socialdemo­ crazia, cui assistiamo oggi in piena guerra mondiale. Certo, la tattica e l’atteggiamento pratico nella lotta non dipende immediatamente dal fatto di considerare il II libro del Capitale di Marx un’opera compiuta o un frammento, di credere o meno alla possibilità dell ’accumulazione in una società capitalistica «isolata», di interpretare in un modo o in un altro gli schemi marxiani della riproduzione. Migliaia di proletari sono coraggiosi ed energici combattenti per gli scopi del socialismo senza saper nulla di questi problemi teorici - in virtù delle nozioni generali e fondamentali della lotta di classe, di un istinto di classe incorrotto, e delle tra­ dizioni rivoluzionarie del movimento. Ma fra la compren­ sione, il modo di trattare problemi teorici e la pratica dei partiti politici esiste sempre, su un quadro piu vasto, il piu stretto legame. Nel decennio precedente allo scoppio della guerra mondiale, nella socialdemocrazia tedesca come me­ tropoli internazionale del pensiero proletario l’impostazione generale ha sempre mostrato il più completo parallelismo fra campo teorico e campo pratico: lo stesso smarrimento e la stessa ossificazione affiorarono in diverse riprese, e fu lo stesso imperialismo come manifestazione dominante della vita pubblica ad infiacchire lo stato maggiore sia teorico che politico della socialdemocrazia. Allo stesso modo che l’or­ goglioso e compatto edificio della socialdemocrazia ufficiale tedesca si è dimostrato, di fronte alla prima grande prova mondiale, un villaggio di Potemkin, così l’apparente «com­ petenza» e infallibilità teorica del marxismo ufficiale, bene­ dicente ogni prassi del movimento, si è dimostrata un pom­ poso telone che nascondeva dietro un rigore dogmatico in­ sofferente e pretenzioso un’interna incertezza e incapacità di agire. L ’arida routine, capace di muoversi solo sui binari consunti della «vecchia e sperimentata tattica», cioè del «nient’altro-che-parlamentarismo», corrispondeva all’epigonismo teorico abbarbicato alle formule del maestro nel­ l’atto stesso in cui ne rinnegava lo spirito vivente. Di que­ sto smarrimento nell’areopago dei «competenti» abbiamo dato nelle pagine che precedono alcuni esempi. Ma, nel nostro caso, il legame con la pratica è ancora più

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evidente di quanto non possa sembrare a prima vista. Si tratta, in definitiva, di due metodi diversi di lotta contro l’imperialismo. L ’analisi marxiana dell’accumulazione fu abbozzata in tempi in cui l ’imperialismo non era ancora apparso sulla sce­ na mondiale, e il presupposto che Marx mette a base di que­ st’analisi —il dominio assoluto e definitivo del capitale nel mondo —esclude in partenza il fenomeno e il processo del­ l’imperialismo. Ma - è qui la differenza fra gli errori di un Marx e le papere dei suoi epigoni - lo stesso errore è in questo caso fecondo e animatore. Il problema posto nel II libro del Capitale e lasciato aperto - come si compie l’accu­ mulazione ammesso il dominio esclusivo del capitalismo è insolubile: in queste condizioni l’accumulazione è impos­ sibile. Ma basta tradurre in dialettica storica l’apparentemente rigida contraddizione teorica (com’è nello spirito del­ l’intera dottrina e del modo di pensare marxiani), perché la contraddizione dello schema diventi lo specchio vivente del­ la carriera mondiale del capitale, delle sue fortune e della sua fine. L ’accumulazione in un ambiente esclusivamente capitali­ stico è impossibile. Di qui, fin dal primo momento della sto­ ria del capitalismo, la spinta all’espansione in strati e paesi non-capitalistici, la rovina dell’artigianato e dell’economia contadina, la proletarizzazione dei ceti medi, la politica co­ loniale, la «politica dell’apertura dei mercati», l’esportazio­ ne di capitale. Solo attraverso questa continua espansione in nuovi campi di produzione e in nuovi paesi, l’esistenza e 10 sviluppo del capitalismo sono stati da allora possibili. Ma l’espansione porta, nella sua spinta mondiale, all’urto fra il capitale e le forme sociali precapitalistiche. Di qui violenza, guerra, rivoluzione, insomma catastrofe, elemento di vita del capitalismo dal suo nascere al suo tramontare. L ’accumulazione del capitale avanza e si estende a spese degli strati sociali e dei paesi non-capitalistici, li erode e 11 incalza in un ritmo sempre piu rapido. Tendenza genera­ le e risultato ultimo di questo processo è la dominazione mondiale esclusiva della produzione capitalistica. Raggiun­ ta questa, entra in funzione lo schema di Marx: l’accumu-

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lazione, cioè l’ulteriore espansione del capitale, diviene im­ possibile, il capitalismo entra in un vicolo cieco, non può piu fungere da veicolo storico dello sviluppo delle forze produttive, raggiunge il suo limite economico obiettivo. La contraddizione dello schema marxiano dell’accumulazione è, vista dialetticamente, null’altro che l’antitesi vivente fra la spinta alla espansione illimitata del capitale e il limite ch’essa crea a se medesima attraverso la crescente erosione e distruzione di tutte le forme economiche non-capitalistiche, fra le poderose forze produttive che chiama in vita in tutto il mondo nel suo processo di accumulazione, e la base ristretta che le leggi dell’accumulazione gli impongono. Lo schema marxiano dell’accumulazione —interpretato esatta­ mente - è, proprio nella sua insolubilità, la prognosi esatta dell’inevitabile fine del capitalismo a conclusione del pro­ cesso di espansione imperialistica, il cui speciale compito è di realizzare l’ipotesi marxiana della dominazione generale e indivisa del capitale. Arriverà davvero quel momento? Non dimentichiamo che si tratta di un’astrazione puramente teorica, giacché l’accumulazione del capitale è un processo non soltanto economico, ma politico. « L ’imperialismo è tanto un metodo storico per prolun­ gare l ’esistenza del capitale, quanto il piu sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine. Ciò non significa che que­ sto punto terminale debba essere pedantescamente raggiun­ to. Le forme che dànno alla fase terminale del capitalismo il volto di un’era di catastrofi esprimono già di per sé la ten­ denza dell’evoluzione capitalistica verso questo sbocco fina­ le» (L ’accumulazione del capitale, p. 447). «Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al mili­ tarismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero, degli strati non-capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto piu la storia quotidiana dell’accumulazione del capitale sulla scena del mondo si tramuta in una cate­ na continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rap­ presentate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione dell’accumulazione e necessaria la rivolta della classe ope-

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raia internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul terreno economico, esso sia andato ad urtare con­ tro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo» {ibid., p. 469). Qui come dovunque nella storia, la teoria rende in pieno i suoi servigi solo se ci mostra la tendenza dello sviluppo, il punto finale logico verso il quale esso obiettivamente pro­ cede. Questo non può essere raggiunto piu di quanto non abbia potuto svolgersi fino alle sue conseguenze estreme qualunque periodo precedente dell’evoluzione storica. Ed è tanto meno necessario che sia raggiunto, quanto piu la co­ scienza sociale, incarnata questa volta dal proletariato so­ cialista, interviene come fattore attivo nel cieco gioco delle forze. Anche in questo caso, la giusta interpretazione della teoria marxiana offre a questa coscienza i piu fecondi orien­ tamenti e lo stimolo piu poderoso. L ’attuale imperialismo non è, come nello schema di Bauer, il primo atto dell’espansione del capitale, ma solo l’ultimo capitolo del suo processo storico di espansione; è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza fra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non­ capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe econo­ mica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vi­ ta, forma normale di esistenza del capitale, come lo fu nel1’« accumulazione primitiva» della sua fase iniziale. Come la scoperta dell’America e della via d ’acqua per l’India fu non soltanto un’opera prometeica del genio umano e della civiltà quale appare nella leggenda liberale, ma, insepara­ bilmente, una serie di massacri perpetrati sui popoli primi­ tivi del Nuovo Mondo e di grandiosi commerci di schiavi coi popoli d ’Africa e d ’Asia, cosi nella fase finale imperiali­ stica l’espansione economica del capitale è inseparabile dal­ la serie di conquiste coloniali e di guerre mondiali, che oggi viviamo. Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multila­ teralità dell’espansione, ma - sintomo specifico che il cer­ chio dell’evoluzione comincia a chiudersi! - il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano

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l’oggetto sui luoghi d ’origine. L ’imperialismo riconduce co­ si la catastrofe, come forma specifica della sua esisterla, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza. Dopo di aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli non-capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del capitale precipita og­ gi gli stessi popoli civili di Europa in una serie di catastro­ fi, il cui risultato finale non può essere che il crollo della stessa civiltà o il trapasso al modo di produzione socialistico. Vista alla luce di questa concezione, la posizione del proletariato di fronte all’imperialismo si configura come ur­ to decisivo e generale con la dominazione capitalistica. La direttiva tattica della sua azione è fissata da quell’alternati­ va storica. Ben diverse le prospettive dal punto di vista del marxi­ smo ufficiale dei «competenti». La credenza nella possibili­ tà dell’accumulazione in una «società capitalistica isolata», la credenza che « il capitalismo sia pensabile anche senza espansione» è la formula teorica di una ben determinata ten­ denza tattica. Questa concezione vede nella fase dell’impe­ rialismo non una necessità storica, non la lotta decisiva per il socialismo, ma una malvagia scoperta di un pugno di in­ teressati. Questa concezione tende ad ammonire la borghe­ sia che imperialismo e militarismo le sono funesti dallo stes­ so punto di vista dei suoi specifici interessi di classe, ad iso­ lare il presunto gruppetto di questi interessati e a costruire un blocco del proletariato con larghi strati della classe bor­ ghese per «attenuare» l’imperialismo, per metterlo a razio­ ne mediante un «parziale disarmo», per «togliergli il pun­ giglione»! Come il liberalismo nella sua fase di declino fa appello dalle monarchie male informate alle monarchie da informare meglio, cosi il «centro marxista» vorrebbe ap­ pellarsi dalla borghesia male educata alla borghesia da edu­ care, dal corso catastrofico dell’imperialismo alle conven­ zioni internazionali di disarmo, dalla lotta fra le grandi po­ tenze per la dittatura mondiale della spada alla pacifica fe­ derazione degli stati nazionali democratici. La lotta genera­ le per l ’eliminazione dello scontro storico fra proletariato e

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capitale si trasforma nell’utopia di un compromesso storico fra proletariato e borghesia per 1’« attenuazione» dei con­ trasti imperialistici fra stati capitalistici Otto Bauer chiude la sua critica al mio libro con le se­ guenti parole: « I l capitalismo non naufragherà contro l’im­ possibilità meccanica di realizzare il plusvalore. Soccombe­ rà alla rivolta alla quale spinge le masse popolari. Il capita­ lismo non crollerà solo quando l’ultimo contadino e l’ulti­ mo piccolo borghese sulla terra saranno trasformati in sa­ lariati, e perciò al capitalismo non sarà piu aperto alcun mercato addizionale; sarà rovesciato molto prima dalla cre­ scente rivolta della classe lavoratrice in continua ascesa, educata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del pro­ cesso di produzione capitalistico». Per rivolgere proprio a me questa predica, Bauer doveva, come maestro in astrazio­ ne, prescindere non soltanto dal senso e dalla tendenza del­ la mia tesi, ma dalla sua stessa espressione letterale. Ma che le sue gagliarde parole non debbano essere interpretate che come una tipica astrazione del marxismo «dei competenti», cioè come un innocuo sfolgorio del «pensiero puro», lo dimostra l’atteggiamento di questo gruppo di teorici allo scoppio della guerra mondiale. La rivolta della classe lavo­ ratrice in continua ascesa, educata e organizzata, si è tra­ sformata di colpo nella politica dell’«astensione» di fronte1 1 Eckstein, che nella sua recensione nel «Vorwärts» del gennaio 1913 mi denunciava, attingendo al tesoro linguistico di Kolb-Heine-David, come rea di «teoria delle catastrofi» («Insieme con i presupposti teorici cadono le conclusioni pratiche, e prima di tutto la teoria delle catastrofi, costruita dal­ la compagna Luxemburg sulla sua teoria della necessità di consumatori non­ capitalistici»), mi denuncia, ora che i teorici della palude si «orientano» nuovamente verso sinistra, per il crimine opposto di appoggio all’ala destra della socialdemocrazia. Egli osserva che Lensch, lo stesso Lensch che nella guerra mondiale si schierò con Kolb-Heine-David, si era a suo tempo com­ piaciuto del mio libro e l’aveva favorevolmente recensito sulla «Leipziger Volksstimme». Chiaro, no, il legame? Sospetto, terribilmente sospetto! «Pro­ prio perciò» Eckstein si era sentito in dovere di demolire il mio libro nel «Vorwärts». Il guaio è che lo stesso Lensch, prima della guerra, si dilettava ancor piu del Capitale. Perfino un M. Grunwald fu per anni l’interprete en­ tusiasta del Capitale alla scuola operaia di Berlino. Non dimostra ciò che il Capitale porta difilato ad agitarsi per la distruzione dell’Inghilterra e a scri­ vere articoli per l’onomastico di Hindenburg? Ma questi svarioni capitano appunto agli Eckstein, che, nella loro goffaggine, guastano la stessa causa che «hanno fatto propria». Lo stesso Bismarck si lamentava del cieco zelo dei suoi rettili giornalistici!

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EPIGONI E TEORIA MARXISTA

a decisioni storiche di importanza mondiale, e del «silen­ zio» in attesa che suonino le campane della pace. La «via del potere», descritta fin nei particolari minimi nel bel mez­ zo della pace, «quando su tutte le vette era quiete», si è capovolta alla prima tempesta della realtà in «via dell’impo­ tenza». Gli epigoni che nell’ultimo decennio hanno tenuto in mano la direzione teorica del movimento operaio in Ger­ mania, hanno fatto bancarotta al primo scoppio della crisi mondiale, hanno ceduto pacificamente il timone all’imperialismo. Veder chiaro in queste correlazioni è una delle premesse necessarie alla ricostruzione di una politica prole­ taria matura ai suoi compiti storici nell’epoca dell’imperia­ lismo. Qualche sentimentale piangerà che «dei marxisti si bi­ sticcino fra loro», che «autorità» provate siano messe in discussione. Ma il marxismo non è una dozzina di persone che si distribuiscano a vicenda il diritto alla «competenza», e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani debba in­ chinarsi in cieca fede. Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre piu che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la sua forza nel clangore delle armi incrocia­ te dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia. Perciò faccio mie le parole di Lessing al giovane Reimarus: «Che farci? Ognuno dica ciò che gli sembra il vero, e sia questa verità raccomandata a Dio! »

Indice dei nomi e delle materie

vedi E lg in and K in cardin e,

A c c u m u la z io n e :

Bruce,

17-18, 20-25, 92-153, 157-58, 167, 172-73, 175-79, 188-89, 206, 249252, 257-58, 288, 300, 304, 316, 322-62, 363,366,372,415-17,426429, 443, 447 -5 4 , 466-70, 473 -7 7 , 482-520, 521-88. - primitiva, 365, 455, 585. Vedi anche D o m an d a. Acosta, José de, 368 n. A fr ic a d e l S u d , 358 n, 359 n; vedi anche C o lo n ia lism o , E c o n o m ia

James Bruce, conte di. Bryce, James, 358 n, 359 n, 411. Buonarroti, Michelangelo, 41. Bücher, Karl, 298 e n. Bulgakov, Sergej Nikolaevič, 259, 263, 288-300, 301, 303, 305, 308, 311, 316, 317 e n.

c o n ta d in a .

Aikin, dottor, 553. A lg e r ia , vedi C o lo n ia lism o . Allard, generale, 378. Anton, G . K ., 382 n. A rm am e n ti, 419, 453, 458, 461-62, 466-68; vedi anche G u e r r a , M ili­ tarism o . A r tig ia n a to , 393, 415. A s ia , 419-21, 443-46; vedi anche C o ­ lo n ia lism o . A stin e n z a , 93, 103, 327. A u str a lia , 419 e n, 425-27; vedi an­ che P r e s titi in tern az io n a li.

Barère de Vieuzac, Bertrand, 280 n. Barrow, Sir John, 368 n. Bastiat, Frédéric, 226, 237. Bauer, O tto, 495, 496, 505, 512-14, 515-42, 5 4 4 , 546-81, 585, 587Bentham, Jeremy, 368 n. Bergmann, Eugen von, 201. Bischofïsheim e Goldschmidt, ditta, 4 34 Bismarck, Otto von, 449, 587 n. Blanc, Louis, 215. Boudin, L ., 309 n, 310 n. Brandt, M. von, 390 n. Bright, John, 448. Brissot, Jacques-Pierre, 253.

Cabet, Etienne, 215. Cameron, Vemey Lovett, 440 n.

Capitale:

- circolante, 38-40, 67, 172, 173. - costante, 51-55, 57, 65, 67, 77, 84. 85, 97, 104, 109, i n , 112, 146, 148, 157-58, 171-74, 175176, 177-78, 189, 197, 198, 245, 247, 288, 311, 328-29, 331-33, 349-51, 353-56, 362, 459, 465, 468-70, 479. - e reddito, 168-73, 254.

- fisso, 38-40,

43, 55,

67-75, 170,

171. - monetario, 81, 82. - singolo, 16-27, 62, 64, 65, 93, 96, 9 7 , 171, 3 4 2 , 3 4 3 , 461, 478, 484-85, 5 3 5 . - sociale totale, 27, 29, 32, 61,6465, 82, 87, 9 3 , 97, 157, 342, 3 4 3 , 4 5 9 -Ć5 , 478, 484-85, 502, 525, 535- variabile, 54-56, 58, 59, 65, 77, 9 5 -9 7 , 104, 109, i n , 112, 120, 146, 148, 171-74, 175-76, 178, 197, 245, 247, 311, 328-29, 3313 3 3 , 3 5 3 -5 6 , 362, 458-59, 462, 465-66, 480, 535, 540, 350. concetto di -, 171. Vedi anche Circolazione, Rotazio­

ne. Capitalismo:

- ed economia naturale, 363-66,

383, 393 , 4 1 3 -

IN D IC E D E I N O M I E D E L L E M A T E R IE

592

- e socialismo, 312-13, 316-17, 469. crollo del - , 469-70,489, 306,585386. Vedi anche Economia contadina,

Produzione capitalistica.

Carey, Henry Charles, 377. Carlomagno, re dei Franchi e impe­ ratore, 66. Černvševskij, Nikolaj Gavrilovič, 261. Chesney, Francis Rawdon, 440 n. Chevalier, Michel, 430 n.

Cina-,

- e capitalismo europeo, 384-92.

Circolazione:

- di capitali, 79. - di merci, 79, 80. - monetaria, 76 sgg, 125; vedi an­ che Denaro. - sociale, 78-80. Cobden, Richard, 448, 430 n.

Colonialismo:

363-66, 432, 468. - francese in Algeria, 373-82. - inglese in India, 367-73. - nell’Africa del Sud, 410-13. Commercio estero, 222-23, 195, 234, 235, 272, 297-300. Congreve, Sir William, 387. Costo di produzione, 248, 268-69.

Consumo:

- dei lavoratori e dei capitali, 480-81. - sociale, 175, 341. Vedi anche Produzione. Crisi, 12, 13, 87, 161-63, 177, 203. 206, 212, 223, 220, 224, 223, 233242, 237, 304-5, 315, 340, 422-23, 469, 482, 489, 504, 510, 511, 514516, 556-58, 563-64Cousin-Montauban, generale, 389. Cowe, 437. Cromer, Sir Evelyn Baring, conte di, 4 3 4 n. Dalrymple, Alexander, 372 n. Dalrymple, Olivier, 401, 402, 408 n. Daniel'son, Nikolai Francevič, 259, 263, 273-80, 281, 282, 283 n, 289, 300, 344, 361, 407 n, 451 n. David, 587 n. Delamarre, abate, 390.

Denaro:

- come mezzo di scambio, 76 sgg, 148, 151-52, 183, 479-81.

circolazione del - , 182. produzione del - , 85-87. D evers, A uguste, 450 n.

Didier, 376 n. Diehl, Karl, 216, 217, 245, 255, 236 n. D iergardt, 448 n. Dietzel, Heinrich, 245. Diodoro Siculo, 368 n. D iso c c u p a z io n e , vedi P o p o laz io n e . D om an da:

- e ofierta, 182, 211. - solvibile di merci e accumula­ zione, 118, 153, 185, 188. Dühring, Karl Eugen, 183 n. Dupont de Nemours, Pierre-Samuel, 28 n, 202 n. Eckstein, G ., 477 n, 497, 499 n, 503, 517-20, 532, 576, 587 n. Econom ia-.

- come scienza, 482. - contadina, 393-94. - e capitalismo: - negli Stati Uniti, 394-410. - nell’Africa del Sud, 410-15. - in Egitto, 435-38. - mercantile, 363, 383-92, 413-16, 427-28. - naturale, vedi C a p ita lism o . E g it t o , 429-40. Elgin and Kincardine, James Bruce, conte di, 389 e n. Engels, Friedrich, 79 n, 86 n, 140, 154, 156, 183 n, 184 n, 216, 229, 238, 263, 277-79, 283 n, 451 n, 4 9 3 , 512. E q u ilib r io eco n o m ic o , 551. Erodoto, 70, 71, 368 n. Eulenburg, Botho von, 449 n. Eyth, Maximilian von, 432 n, 438 n. F e rro v ie , 4T8-21, 424-26, 439-46. Finn-Enotaevskij, A., 280 n. F isio c ra tic i, 7, 29, 35, 40. F o rz a-lav o ro , 54, 58, 77, 171, 248, 354 -5 9 , 4 3 1, 4 7 5 , 484. Fould, Achille, 450 n. Fowler, ditta, 432 e n. Franke, Otto, 368 n, 390 n. Frühling e Göschen, ditta, 434.

G ille n , 8. G oldsch m idt, vedi Bischoffsheim G oldschm idt, d itta.

e

IN D IC E D E I N O M I E D E L L E M A T E R IE

Göschen, v e d i Frühling e Göschen, ditta. Greville, 372 n. Gros, 389 n. Grosier, abate, 368 n. Grunwald, M., 387 n. G u e r r a , 418-19; vedi anche A rm a ­ m e n ti, M ilita rism o .

Gwinner, 443.

Hanotaux, A., 374 n. Heine, 387 n. Hermann, Friedrich Benedikt Wil­ helm von, 231. Herzen, Aleksandr I vanovie, 261. Hilferding, Rudolf, 315-18, 556. Hindenburg, Paul Ludwig von, 587 n. Hirsch, Moritz, barone, 443 n. Hobson, John Atkinson, 304. Hsien-Feng, imperatore cinese, 389 n. Hudson’s Bay Company, 408. Humbert, 376. Il'in, v e d i Lenin (Ul'janov), Vladi­ mir Il'ič. Im p e r ia lism o , 416, 418, 420, 446, 4 4 7 , 489-91, 507, 576-88. Im p o ste in d ir e tte , 458-66. I n d ia , vedi C o lo n ia lism o . I n d u s t r ia :

- tessile, 393. Isaev, A. A., 263. Ismail Pascià, khedivè d’Egitto, 9, 4 3 3 -3 7 , 4 3 9 . Jaffé, E., 346 n. Jameson, 372 n. Kablukov, N. A., 263. Kankrin, Egor Francevič, 450 n. Kant, Immanuel, 318, 494, 495. Kareev, Nikolaj Ivanovié, 262. Karski, J., 473. Kautsky, Karl, 216, 257 n, 308-11, 509-16. Kirchmann, von, 213-226, 233, 239, 240-41, 249, 250, 253, 257, 300, 3 4 4 , 361, 4 9 3 , 5 3 7 Kolb, 587 n. Kovalevskij, Maksim Maksimovič, 368 n, 371 n, 372 n, 378 n. Kozack, 256 n. Krupp, ditta, 461 n, 507.

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Lafargue, Paul, 397, 401, 402 e n. Lange, Friedrich Albert, 547. Lassalle, Ferdinand, 216.

Lavoro:

- nella società capitalistica, 305-6. - passato oggettivato, 71. - salariato, 51-53, 77. - umano in generale, 46, 311-12. - vivo, 95, 312-13, 354, 459. Vedi anche F o rz a - L a v o ro , P lu s l a ­ v o ro , P ro d u ttiv ità , V a lo re .

Lavrov, Pëtr Lavrovič, 262. Lenin (Ul'janov), Vladimir U'ié, 177 e n, 263 e n, 276, 293, 300! 308 e n , 311. Lensch, 587 n. Lessing, Gotthold Ephraim, 588. Letourneux, A., 374 n. Lexis, Wilhelm, 255. Leyden, Victor von, 372 n. List, Friedrich, 297. Livingstone, David, 410. Lobengula, re dei Matabele, 412,413 n. Lodyschensky, K., 451 n. Lotz, W., 449 n. Lowenthal, 36 n. Lucas, C. P., 413 n. Luigi XIV, re di Francia, 204. Luigi Filippo, re dei Francesi, 377. Luxemburg, Rosa, 49 n, 296 n, 496, 4 9 9 n, 503, 312, 519 n, 526, 532, 3 3 3 , 3 3 7 , 5 7 4 , 5 7 7 , 587 n. 312-13. MacCulloch, John Ramsay, 162,166, 178, 180-92, 193, 196, 197, 201, 210, 212, 217, 221, 254, 327 n, 493Maine, Sir Henry James Sumner, 368 n, 309 n. Malthus, Thomas Robert, 161, 201, 208 n, 209-13, 217, 288, 295, 300, 344. . Manteuffel, Edwin Hans Karl, 449. Manuilov, A. A., 263, 461 n. Marx, Eleanor, 156. Marx, Karl, 7, io n, 12, 14, 20, 27, 30, 33, 3 9 , 41, 42, 4 3 -4 5 , 4 7 -4 9 , 5 7 , 7 3 , 7 4 e n, 7 9 n, 82-86, 8890, 93-98, 100, 104, 106-9, 113, 116-22,124 n, 125-45,147-50,152158, 178, 193, 195, 202 n, 205, 207 n, 208 n, 210 n, 216, 217, 229, 232, 233, 243. 245, 253-55, 257 n, 258, 263, 271, 276, 279 n, 284, M a c c h in e,

594

IN D IC E D E I N O M I E D E L L E M A T E R IE

288-97, 301, 302, 306, 307, 308 n, 309 n, 314, 315, 316, 321, 323-23, 327-36, 339, 341, 342 n, 343 e n, 3 4 4 , 3 4 8 , 3 5 3 -5 7 , 3 5 9 , 416, 428, 460, 474, 473, 478-82, 487, 490-95, 4 9 7 , 498, 499 n, 500-20, 521, 522, 3 23 , 527-38, 541, 5 4 8 , 5 5 2 , 557, 5 3 9 -7 7 , 5 7 9 , 581-84. Mehring, Franz, 216, 256 e n, 257 n, 473Michajlovskij, Nikolaj Konstantinovič, 262. Militarismo, 366, 440, 455-70; vedi anche Armamenti, Guerra. Mill, James, 180 n, 202 n, 368 n, 371 n, 380. Mill, John Stuart, 211, 212, 268, 577Mirabeau, Victor Riqueti, marchese di, 36 n. M oham m ed Ali, 429, 436. M olière (Jean -B aptiste P oquelin,

detto), 235 n. Moneta, vedi Denaro.

M onroe, Jam es, 400. Morawitz, Charles, 444 n, 446 n. Morrill, Justin Smith, 397. Murray, Hugh, 372 n.

Napoleone III, imperatore dei Fran­ cesi, 431, 449, 450 n. Nikolaj-on, pseudonimo di Daniel'son, Nikolaj Francevič. Nyok-Ching Tsur, 393 n.

Offerta, vedi Domanda. Oppenheim, Max, Freiherr von, 440 n. Oppenheim, banca, 434. Owen, Robert, 163, 180 e n, 181 n, 228. Pannekoek, A., 497 n, 307, 517-19, 531 n. Peel, Sir Robert, 234. Pefîer, W . A ., 394, 396 n, 398, 399 n, 404 n, 405, 406 n. Petty, William, 557. Plechanov, Georgij Valentinovič, 261, 263. Pluslavoro, 58-59.

Plusvalore:

14-17, 20-21, 41, 55, 38-59, 65, 79, 146,148, 1 7 3 -7 4 , 175-76,197, 245, 247, 322, 328, 331, 3 3 3 -3 5 , 338, 465-66, 481 sgg.

realizzazione del - , 81-83, 118-53 185-87, 196, 293, 300, 338, 344! 349 , 3 5 4 , 360, 362, 416, 420, 426, 429, 443, 445 -4 6 , 455 -5 8 , 462-67, 476, 483-88, 493, 493. 4 9 7 , 500-4, 534 -3 6 . P o p o la z io n e :

219-21, 512-14, 516, 521, 539-50, 560-73. - lavoratrice relativa, 96. P o p u lism o , 260-64, 273,276-80,28r 284-86, 288, 296, 316. Pressel, Wilhelm von, 443 n. P r e s t it i in te rn a z io n a li, 418-46. P ro d o tto so c ia le to ta le , 61-63, 97, 251,173,176-78, 245-48, 254, 293! 312, 329, 464-65, 478 , 527. P ro d u ttiv ità d e l la v o ro , 169-71, 199, 228, 247, 3x1, 328, 331, 349, 3 J I |

540-41.

P ro d u z io n e :

- capitalistica, come creazione di plusvalore, 13-17, 19-20, 58-59, 244, 475, 476. - capitalistica, come un tutto unitario, 23, 59-6Z, 477-79. - capitalistica e lavoro salariato, 7 7 , 479-80. - capitalistica e mercato mondia­ le, 284-86, 352, 354, 360-61, 454 , 469, 5 4 5 - e consumo, 293-97, 3°r-2, 306, 309-10, 326, 340. Vedi anche P ro d o tto . P ro fitto :

- medio, 60-61, 502. - come scopo della produzione capitalistica, 313, 475, 482-83, 500-1. saggio del - , 248, 313, 330, 362. P ro te z io n e d o g a n a le , 451-53. Proudhon, Pierre-Joseph, 61 n, 124, 208 n, 229, 253-55, 500. Quesnay, François, 7, 26-29, 36, 37, 41, 76 e n, 88-90, 202 n, 474, 498, 535Razet, Albin, 382 n. R e d d ito :

168-77, 252. - nazionale, 175-76.

Vedi anche C a p ita le . Reimarus, Hermann Samuel, 588. Renner, Karl, 456 n. R e v isio n ism o , 511,

IN D IC E D E I N O M I E D E L L E M A T E R IE

Rhodes, Cecil John, 512-14. Ricardo, David, 32, 33, 36, 47, 90, 91, 94, 161, 167, 178, 180, 183, 185, 187, 188, 193-200, 201, 205, 206, 209, 210, 212-14, 217, 220, 221, 225, 228, 231, 242, 246, 255257, 239, 268, 271, 295, 3x5, 316, 3 3 9 , 3 4 4 , 361, 380, 448, 4 9 3 R icch e zz a, 168-69, 175. R ip r o d u z io n e :

- capitalistica allargata, 10-13, 26, 62, 7 3 , 9 2 , 133, 137, 172, 176177, 1 9 7 , 1 9 9 , 257, 293, 304, 308, 321-Ć2, 41Ć. - semplice, 17, 18, 3 7 -3 9 , 62-63, 65-73, 81, 86-91, 92, 94, 97, roo-i, xi6, 125, 129-33, 142-43, 149-50, 132, 157, 172, 176,178, 189, 197, 249, 254, 308, 344, 348. concetto di - , 7-10, 66-67. R is p a r m io , 250-51, 255. R iv o lu z io n e , 4x8. Roberts, Frederick Sleigh, 370. Rodbertus, Johann Karl, 33 n, 215218, 225, 226-58, 260, 263, 270, 271, 344, 493R o ta z io n e d e l c a p ita le so c ia le , 80, 84. Rothstein, Theodore, 437 n, 438 n. Rusk, 404. Said Pascià, viceré d’Egitto, 433, 434, 436, 439. Saint-Simon, Claude-Henri, 180. S a la r io : 58, 203, 217, 248, 252, 552-53. teoria del fondo - , 232-33. Saling, 442 n. Say, Jean-Baptiste, 32-35, 41, 42, 161, 166-68, 178, 180 e n, 194, 196, 200 n, 201-8, 209, 210, 212, 213, 217, 219, 220, 225, 242, 246, 254, 257, 268, 295, 315, 316, 327 n, 361, 493, 505, 508, 516, 529, 577-

S c a m b io :

182-84, 222-23, 253, 271-72, 273, 527-29, 533. - libero, 447-54. Schäffle, Albert Eberhard Friedrich, 282, 285, 297, 424. Scheiben, Johann, 386 n, 388 n. Schmoller, Gustav von, 282, 285-87, 346 n. Schneider, S., 440 n. 4 4 5 -4 6 ,

21

595

Schultze, Ernst, 409 n. Schulze, Franz Hermann, 257. Seng Ko Liu Ch’in, 389 n. Sering, Max, 399 n, 405 e n, 407 n, 409 n. S fr u tta m e n to , 169-71, 475-76, 481484, 541. Shih Huang Ti, imperatore cinese, 9. Siemens, 445. Simons, A. M., 358 n, 396 n. Sismondi, Jean-Charles-Léonard Si­ monde de, 32, 100, 161-79, 180208, 209, 210, 213-14, 215-19,225, 228, 233, 234, 237, 238, 249, 250, 253, 257, 260, 263, 270, 271, 276 e n, 281, 299, 300, 308, 344, 360, 361, 422, 423 e n, 425, 426, 493. Skvorcov, P. N., 263. Smith, Adam, 12, 26, 29-45, 47-5i, 53-56, 57, 65, 90, 94, 157, 161-74, 177, 178, 205, 206, 219, 221, 245, 246, 249-51, 253, 256, 257, 259, 330, 380, 535. S o c ia lism o , vedi C a p ita lism o . Sombart, Werner, 298 n, 299 n. Spencer, 8. S ta t i U n iti d ’A m e ric a , vedi E c o n o ­ m ia c o n tad in a.

Stevens, Thaddeus, 397. Stokes, 437. Strabone, 368 n. Struve, Pëtr Bemgardovič, 259, 263 281-87, 297, 300 n, 3or, 316, 317’ e n, 344. Tamerlano, 370, 371 n. T ’an Ting-Hsiang, viceré di Chihli, 389 n. Taussig, Frank William, 397 e n, 398 n. T e sau riz z a z io n e , 85, 86, 126-34, 145 334Thyssen, August, 507. Timone, 66. Timur, v e d i Tamerlano. Tolomeo, 70. Tzu Hsi, imperatrice cinese, 391. Tucker, Josiah, 201 n, 202 n. Tugan-Baranovskij, Michail I. 2oo n, 259, 263, 293, 296, 297/300 301-14, 315-18, 323, 327 e n, 329’ 3 3 9 , 361, 422, 423, 507-12, 514! 516, 532. T u rc h ia a sia tic a , 440-46. Turgot, Anne-Robert-Jacques, 202 n.

59 6

IN D IC E D E I N O M I E D E L L E M A T E R IE

Vaihinger, Hans, 494. Valore: - e lavoro, 51-32. teoria del - in Marx, 45, 49, 90. - in Ricardo, 47, 90. - in Rodbertus, 228-32. - in Smith, 44-43, 47-33, 90, 219. Vega, Garcilaso de la, 368 n. Vittoria, regina d’Inghilterra, 391. Volney, Constantin-François Chassebeuf, conte di, 368 n. Voroncov, V. P., 243, 239, 262, 263, 263-72, 276, 280 n, 281, 282, 289, 293, 300, 344, 361, 461 n, 337. Wagner, 243, 233, 236 n, 237 n, 282, 283, 286, 297. Wallace, William, 372 n. Warren, conte, 371 n. Wells, David Ames, 397 n. Wilson, H. H., 368 n. Wilson, James, 371, 372 n. Wilson, Rivers, 437. Wirth, Moritz, 236 n. Yeh, viceré, 389 n.

In d ice

Introduzione d i P a u l M . S w e e z y

p . V II

Cronologia della vita e delle opere di Rosa Luxemburg

XXXI

L ’accumulazione del capitale C o n t r ib u t o a lla sp ie g a z io n e e c o n o m ic a d e ll’im p e r ia lis m o

Avvertenza

3

Parte prima I l problem a della riproduzione 7 26

I . O g g e t t o d e ll’in d a g in e

i l . L ’a n a lis i d e l p r o c e s s o d i r ip r o d u z io n e in Q u e s n a y e in A d a m S m ith

43

i n . C r itic a d e ll’a n a lis i sm ith ia n a

57

IV . L o sc h e m a d e lla r ip r o d u z io n e s e m p lic e in M a r x

76 92

106

125

142

V. L a c ir c o la z io n e m o n e t a r ia

v i . L a r ip r o d u z io n e a lla r g a t a v ii.

A n a lis i d e llo sc h e m a d e lla r ip r o d u z io n e a lla r g a t a in M arx

V ili. L e s o lu z io n i t e n ta te d a M a r x i x . L a d iffic o ltà d a ll’ a n g o lo v is u a le d e l p r o c e s s o d i c ir c o la ­ z io n e

6 oo

IN D IC E

Parte seconda Esposizione storica del problem a Una prima schermaglia Polemiche fra Sismondi-Malthus e Say-Ricardo-MacCulloch p . 161 180 1 93 2 01

X. L a te o r ia sis m o n d ia n a d e lla r ip r o d u z io n e x i . M a c C u llo c h c o n tr o S is m o n d i

XII. R ic a r d o c o n tr o S is m o n d i XIII. S a y c o n tr o S is m o n d i

2 0 9 XIV. M a lt h u s

Seconda schermaglia La controversia fra Rodbertus e v. Kirchmann 215 226 240

X V . L a te o r ia d e lla r ip r o d u z io n e in v . K ir c h m a n n X V I . L a c r itic a d e lla s c u o la c la s s ic a in R o d b e r t u s X V I I . L ’a n a lis i d e lla r ip r o d u z io n e in R o d b e r t u s

Terza schermaglia Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij contro Voroncov, Nikolaj-on 239 265 273 281 288

XVIII. U n a n u o v a v e r s io n e d e l p r o b le m a XIX. I l sig n o r V o r o n c o v e la s u a « e c c e d e n z a » XX. N ik o la j-o n XXI. L e

« tr e

p e r s o n e » e i t r e im p e r i m o n d ia li d i S t r u v e

XXII. B u lg a k o v e il s u o « c o m p le t a m e n t o » d e ll’a n a lis i m a r ­ x ia n a

301

XXIII. L a « s p r o p o r z i o n a l i t à » d e l s ig . T u g a n - B a r a n o v s k ij

313

XXIV. I l p u n t o d i a p p r o d o d e l m a r x is m o « l e g a l e » r u s s o

Parte terza Le condizioni storiche dell’accumulazione 3 21

XXV. C o n tr a d d iz io n i d e llo schem a d e lla r ip r o d u z io n e a lla r ­

341

XXVI. L a r ip r o d u z io n e d e l c a p it a le e il s u o a m b ie n te

g a ta

6oi

IN D IC E p. 363 383 393

XXVII. L a lo tta contro l ’econom ia n atu rale XXVIII. L ’introdu zione d e ll’econom ia m ercantile XXIX. L a lo tta contro l’econom ia contadina

4 18

XXX. I p re stiti internazion ali

447 4 55

XXXI. P rotezion ism o e accum ulazione XXXII. I l m ilitarism o com e cam p o d i accum ulazione d el ca­ p itale

Appendice 471

Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria m arxista U n a anticritica

^89

In d ic e d e i nom i e delle m aterie

finito di stampare in forino il 27 luglio 1968 per i tipi della Casa editrice Einaudi