La voce umana 8822921011, 9788822921017

I grammatici antichi cominciavano dalla voce la loro trattazione del linguaggio, distinguendo con cura la voce confusa d

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Italian Pages 101 Year 2023

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Table of contents :
I. Vocativo
2. La voce umana
3. Che cos’è nella voce?
4. La natura umana
La voce come problema filosofico
Riferimenti bibliografici
Indice dei nomi
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La voce umana
 8822921011, 9788822921017

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Giorgio Agamben

La

voce

umana

Qiodlibet

© 2023 Quodlibet srl Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it

Indice

ss

La voce umana I. Vocativo 2. La voce umana 3. Che cos'è nella voce? 4. La natura umana

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La voce come problema filosofico

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Riferimenti bibliografici Indice dei nomi

7 n

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La voce umana

Voce umana: uno dei registri dell'organo, che imita la voce dell'uomo.

Che cos'è allora la voce, un colpo della lingua, un rumore che si può produrre a propria voglia? In qualche parte dell'ani­ ma essa deve pur dimorare, deve avere un luogo di nascita. S0REN KIERKEG AARD

Quanto a lungo sopporterai che il mondo canino taccia? FRANZKAFKA

I.

Vocativo

Kein Sterbenswort, ihr Worte! Non una: parola, o parole! ING EBO RG BACHMA N N

Vocativo: nella lingua dei grammatici è «il caso del­ la chiamata o dell'apostrofe» (kletikè o prosagoreutikè ptÒsis). Ma chi chiama e chi è chiamato ? E che cosa signi­ fica «chiamare» ? Col vocativo ci rivolgiamo a coloro che amiamo o odiamo, col vocativo invochiamo, preghiamo e bestem­ miamo, col vocativo salutiamo e prendiamo commiato, esaltiamo e compiangiamo, lodiamo e insultiamo. Col vo­ cativo cominciano le lettere e i messaggi, carezziamo gli animali e i bambini. Nella sua esposizione della dottrina stoica sul linguag­ gio, che esordiva dalla voce (phonè), Diogene Laerzio

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LA VOCE UMANA

definisce il vocativo in questo modo: «Vocativo (pro­ sagoreutikòn) è quell'atto, che, se uno lo dice (lègoi), apostrofa (prosagorèuei)» (vn, 67). Prosagorèuo signifi­

ca tanto «rivolgere la parola, apostrofare» che «nomina­ re, chiamare con un nome» (ma un orecchio greco con poteva non percepirvi l'agorà, l'assemblea come luogo della parola pubblica). E klèsis è tanto la «chiamata» del nome, che la citazione in giudizio e l'invocazione (kletikòi sono gli inni che invocano gli dei e nel Nuovo Testamento klèsis è la «vocazione» che Dio rivolge ai suoi eletti). Vi è, dunque, un «dire» (lègein) che non dice semplice­ mente, ma apostrofa e chiama e «chiamare», «dar nome» e «rivolgere la parola» sono strettamente intrecciati. È su questa forma del dire che intendiamo riflettere. Proprio all'inizio delle Confessioni, è sul vocativo Domine, «Signore» - che apre il libro che Agostino si in­ terroga. Ciò che vuole sapere e comprendere è se si debba prima invocare e poi conoscere e lodare, o prima cono­ scere e poi invocare (utrum sit prius invocare te an lau­ dare te et scire te prius sit an invocare te). L'invocazione sembra qui precedere la stessa conoscenza: «Non si deve piuttosto invocare per poter conoscere (An potius invoca­ ris, ut sciaris) ?». Solo l'invocazione e nessun altra parola è adeguata alla fede: «Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti [ . . . ] è la mia fede che t'invoca, Si­ gnore, la fede che mi hai dato e ispirato»; e, tuttavia, l'in­ vocazione resta fino all'ultimo qualcosa di problematico: «Come invocherò il mio Dio, Dio e mio Signore, poiché,

I. VOCATIVO

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invocandolo, lo chiamerò dentro di me e che luogo è in me, perché il mio Dio possa venirci ?». Che il vocativo sia qualcosa di molto speciale era già evidente per i grammatici antichi, che non lo considera­ vano sempre un «caso» come gli altri che «cadono» nel discorso (,ptÒsis, «caso», significa «caduta»). A differenza di questi, che esprimono una relazione sintattica fra gli elementi di una proposizione, il vocativo è, piuttosto, un enunciato in sé completo (autotelès), che, come tale, esige la punteggiatura, che lo separa dal resto della frase (stigmèn apaitèi; Apollonio Discolo, p. 37). «I casi - le cadute - dei nomi sono cinque: retto, geni­ tivo, dativo, accusativo, vocativo (kletikè). La caduta retta (orthè) si chiama anche diretta (euthèia), la genitiva pos­ sessiva e paterna, la dativa epistolare, l'accusativa secondo l'accusa, la vocativa apostrofante» (Dionisio Trace, p. 3 1 ) . Da dove cadono i casi ? Il nominativo - la caduta retta­ cade secondo gli Stoici immediatamente dal pensiero (apò tes ennòias) , gli altri casi cadono dal nominativo, che è in qualche modo «l'archetipo di ciò che proferiamo con la voce» (Ammonio, p. 43). Il termine ptÒsis è usato in origi­ ne per la «caduta» dei dadi o degli astragali ed è probabile che da questi derivi il significato grammaticale. Varrone (x, 22 ) paragona invece i casi alle pedine (latrunculi) di una scacchiera, perché si muovono - cadono - obliquamente (come in albus, albi, albo) o rettamente (come in albus, alba, album). Un grammatico bizantino, Cherobosco, lo

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riferisce piuttosto alla penna (graphèion): «si dice caso retto o diretto, come quando la penna cade dritta» . M a dove cadono i casi? I l nominativo cade direttamen­ te dal pensiero nel nome, gli altri casi cadono obliqua­ mente nel discorso e nelle frasi. In ogni caso, la caduta ha luogo nel linguaggio. Secondo Aristotele, che è il primo a servirsi del termi­ ne ptÒsis per la lingua, il nominativo non è un caso («di Filone Philonos o a Filone Philoni non sono nomi, ma casi del nome», De int. 1 6 a 3 3 ). Nei Primi analitici (48 b 4 1 ), egli distingue klèsis, la chiamata del nome, e ptòseis, i casi. Il nominativo somiglia in questo al vocativo, che i grammatici distingueranno dagli altri casi come «la cadu­ ta che chiama» (ptÒsis kletikè). -

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Non sorprende che il grammatico latino Elio Donato assimili decisamente vocativo e nominativo, escludendoli dal novero dei casi: «Secondo i più, i casi sono quattro, togliendo il nominativo e il vocativo, che è simile al no­ minativo» . Anche Cherobosco nega che il vocativo sia un caso: esso, infatti, come il nominativo, «significa diretta­ mente la sostanza (orthòs semàinei ten ousìan)». Uno· degli aspetti più discussi del vocativo è la sua esclusiva relazione con la seconda persona: «tu!», «voi!» . Mentre il nominativo implica normalmente un discorso in terza persona, il vocativo esige sempre la se-

I. VOCATIVO

conda (Apollonio osserva anzi che esso «in quanto si riferisce alla persona chiamata, converte epistrèphei, «volta, fa girare» - la terza persona in seconda»). Come suggerisce un grammatico medievale, il vocativo riman­ da, infatti, a un'istanza di discorso in atto, evoca qual­ cosa solo in quanto ad essa si rivolge la parola (ut ad '."'""

ipsam fit sermo ).

E, tuttavia, il vocativo può apparire bruscamente in un discorso alla terza persona: O tempora, o· mores! Senatus hoc intellegit, consul videt, hic tamen vivit; «O tempi, o costumi! Il senato lo sa, il console lo vede, e questi [Ca­ tilina] è vivo». Un nome - almeno così pare - può essere chiamato anche alla terza persona.

Altrettanto forte è, secondo alcuni, il nesso fra voca­ tivo e imperativo, quasi che l'apostrofe implicasse sem­ pre un comando, quasi che la parola che dimora all'inizio non potesse che comandare e chiamare («e disse dio: sia la luce! e la luce fu»). E come l'imperativo sembra essere la forma primitiva del verbo, così il vocativo potrebbe esse­ re la forma originaria del nome, la radice del sistema dei casi. Apostrofare, rivolgere la parola non significa, però, necessariamente comandare. Al contrario, si può, col vo­ cativo, supplicare, implorare, interrogare - o, anche, sem­ plicemente, salutare, esclamare. Gli studiosi moderni sono generalmente concordi su questo punto: il vocativo non è un caso (Hjelmslev), non ha funzione simbolica o rappresentativa, ma solo appel­ lativa (Kurylowicz). Il vocativo - potremmo dire - non è un segno, non «sta per» la cosa (nel segno, aliquid stat

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LA VOCE UMANA

pro aliquo, è al posto di un'altra) - piuttosto la «chiama».

Chiamare e significare non sono la stessa cosa. Il vocati­ vo è, in questo senso, un elemento extrasemantico, che ha una funzione esclusivamente pragmatica, situando un destinatario in un certo discorso. Nelle parole di uno dei linguisti più pensanti del xix secolo, Gustave Guillaume, il vocativo è «fuori lingua» (hors langue - p. 100 ) , esiste solo nella parole (è un cas de parole). Si rifletta sulla radicalità di quest'ultima affermazione: il vocativo non è soltanto hors phrase, sciolto da ogni re­ lazione sintattica col resto della frase, ma è hors langue, fuori della lingua intesa come sistema astratto di relazioni grammaticali distinto dalla parole, dall'istanza di discorso proferito da un individuo in carne ed ossa. È possibile, allora, che, attraverso il vocativo, la langue cerchi di affer­ rare qualcosa della parole che costitutivamente la eccede. Questo qualcosa è il chiamare. Sia la definizione corrente del vocativo: «si usa il voca­ tivo quando si chiama qualcuno» (Ildefonse, p. 1 83). Essa può essere intesa correttamente solo se non si dimentica che il verbo chiamare ha due significati: «apostrofare con la voce» (senso 1 ) e «dare - o portare - un nome (come ti chiami ?)» (senso 2 ) e che, nel vocativo, essi sono entrambi presenti. Di qui la vicinanza e, insieme, la differenza tra nominativo e vocativo, così spesso notata dai grammatici. Un passo di Varrone (vm, 6, 1 6) può qui fornire un'u­ tile indicazione: i casi sine controversia sunt quinque: quis

vocetur, ut Hercules; quemadmodum vocetur, ut Her­ cule; quo vocetur, ut ad Herculem; a quo vocetur, ut ab

I. VOCATIVO

Hercule;

cui vocetur, ut Herculi; cuius vocetur, ut Herculis

(«chi viene chiamato, come viene chiamato, verso dove è chiamato, da chi è chiamato, per chi è chiamato, di chi è chiamato»). Vocare qui vale «denominare, chiamare con un nome nella lingua» (al passivo: «essere chiamato con un certo nome» - vocabulum è la parola con cui qual­ cuno o qualcosa è chiamato nella lingua). La particola­ rità del vocativo rispetto al nominativo e agli altri casi risulta immediatamente evidente: mentre il nominativo identifica colui che porta - o è chiamato con - quel certo nome (quis vocetur), non tanto in quanto lo porta, ma in quanto soggetto di un'azione o di una passione espressa dalla proposizione di cui fa parte, il vocativo si riferisce a colui che porta quel nome solo in quanto lo porta o è così chiamato nella lingua. Quemadmodum vocetur, che segue subito il nominativo quis vocetur, vale «il fatto che sia chiamato nella lingua in quel certo modo», si riferisce all'atto stesso della chiamata e non alla relazione sintattica con le altre parti del discorso. Ercole nel vocativo è chia­ mato nel senso 1 (apostrofato con la voce) solo in quanto è chiamato nel senso 2 (nominato nella lingua). Vocativo e nominativo sono distinti e, tuttavia, inseparabili. Nello straordinario esordio di Moby Dick, i due sensi coincidono perfettamente. «Call me Ismael»: «chiama­ temi Ismaele, perché così io mi chiamo» e «mi chiamo Ismaele, chiamami dunque con questo nome». Non si può chiamare qualcuno o qualcosa senza pro­ ferirne il nome. Il vocativo non si riferisce alle qualità del­ la cosa chiamata, ma solo al suo aver nome.

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LA VOCE UMANA

Di qui la prossimità fra il vocativo e l'insulto, che è stata spesso notata. Si fraintende la natura dell'insulto se si crede che esso consista nell'attribuire a qualcuno una certa qualìtà infamante, quasi che esso fosse inversamen­ te simmetrico all'adulazione. L'insulto non è un termine classificatorio o attributivo: è un puro vocativo, che chia­ ma, però, nella lingua con un nome incongruo. Per questo «tu sei un mentitore» non è un insulto, ma un'afferma­ zione che può essere vera o falsa, mentre non c'è peggior insulto di quello di qualcuno che, pur conoscendo il mio nome, si ostina a chiamarmi con un altro nome. Nella definizione del vocativo, il momento della no­ minazione viene spesso rimosso a favore dell' apostro­ fe, quasi che fosse possibile chiamare qualcosa che non sia stato nominato. Così i linguisti tendono a escludere dal vocativo quei casi, come il cosiddetto «"o" lirico», che non risultano comprensibili in termini di apostrofe. Quando Leopardi nelle Ricordanze scrive «O speranze, speranze; ameni inganni . . . » e Corneille mette in bocca a don Diego l'invocazione: «Ù rage! o desespoir! o vieil­ lesse ennemie!», non si tratterebbe di un vocativo, perché non si possono apostrofare le speranze o la rabbia, che sconfinano necessariamente sul piano semantico. Proprio al contrario, l' «o» lirico è un caso eminente del vocativo, perché ciò che in esso è apostrofato, indipendentemen­ te dalla sua presenza come destinatario del discorso, è il puro aver nome, quasi che il poeta celebrasse e reiterasse il momento della pura nominazione.

I. VOCATIVO

Nella prima Elegia duinese, il carattere assolutamente vocativo dell' «O» è sottolineato separandolo dal termine chiamato: «0 und die Nacht . . . »; «O e la notte . . . ». Si po­ trebbe dire, in questo senso, che la poesia sia un discor­ so in cui tutti i termini sono al vocativo. E non soltanto perché il vocativo è di fatto massicciamente presente, ma perché, nella poesia, «Siamo qui forse per dire: casa I pon­ te, fontana, porta, brocca, albero, finestra, I [ . . ] per dire, comprendi, I per dire così, come le cose stesse I mai cre­ dettero di essere . . . ». Il poeta non dice, ma chiama le cose per nome. .

Nel vocativo - di qui la sua particolarità - emerge alla luce quella scissione del linguaggio in due piani distinti, la cui consapevolezza è all'inizio della riflessione greca sulla lingua e non ha mai cessato di occupare filosofi e linguisti; quella fra ònoma e lògos, nomi e frasi, impositio e declina­ tio, lessico e discorso in atto. Il linguaggio umano sembra, cioè, implicare costitutivamente una doppia struttura, che lo distingue dai linguaggi animali, che comportano solo uno dei due elementi. Se l'interpretazione di Hoffmann del frammento I è corretta, la consapevolezza della dualità è già in Eraclito, che distingue fra èpea, le parole, e lògos, il discorso, che gli uomini non comprendono perché sono fuorviati dall'am­ biguità e dall'incostanza dei singoli vocaboli. Ed è que­ sta tradizione eraclitea, ricevuta attraverso il suo maestro Cratilo, che Platone riprende distinguendo con chiarez­ za ònoma e lògos. Nel Sofista, egli oppone decisamente i nomi che, in sé, «non indicano alcuna azione né assenza di

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azione, né alcuna sostanza di un essere o di un non esse­ re» al discorso, che non si limita a nominare (onomàzein), ma «compie qualcosa (ti peràinei)» (262 c-d). E, tuttavia, il dialogo che egli dedica al problema del linguaggio, il Cra­ tilo, è una trattazione - anche se ironica - della giustezza o della falsità dei nomi e non del discorso. Aristotele, spo­ stando l'attenzione dal piano dei nomi a quello del lògos apophantikòs, della proposizione che può essere vera o falsa, dà inizio alla logica occidentale. Tuttavia, opponen­ do, negli Analitici primi, kl�sis il procedimento metalin­ guistico della nominazione - a ptÒsis, la caduta del nome nelle proposizioni, egli ha perfettamente coscienza della distinzione fra i due piani, che ritrova all'interno stesso del nome. Ed è di questa distinzione che si fa eco Varrone, quando paragona la nominazione a una sorgente e la de­ clinazione nel discorso a un ruscello: «due sono i principi delle parole: l'imposizione del nome (impositio) e la decli­ nazione nei casi (declinatio): il primo è come la sorgente