La Trinità nell'itinerario mistico di Angela da Foligno 9788831133807

L’Autore prende in esame l’esperienza mistica di Angela da Foligno, per far emergere le intuizioni ed acquisizioni teolo

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La Trinità nell'itinerario mistico di Angela da Foligno
 9788831133807

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COLLANA DI TEOLOGIA diretta da Piero Coda 75 Giacomo Ghelfi LA TRINITÀ NELL’ITINERARIO MISTICO DI ANGELA DA FOLIGNO

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Giacomo Ghelfi

LA TRINITÀ NELL’ITINERARIO MISTICO DI ANGELA DA FOLIGNO

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© 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-3380-7 Finito di stampare nel mese di aprile 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Introduzione

Introduzione

La presente pubblicazione è la riproposizione, riveduta e corretta, dell’estratto di una tesi di dottorato intitolata: La Santissima Trinità nell’itinerario mistico di Angela da Foligno. Nel nostro studio, ci siamo occupati dell’esperienza mistica della beata Angela, con l’intento di far emergere le intuizioni e le possibili acquisizioni teologiche, riguardanti la Trinità. Abbiamo indirizzato la nostra attenzione sulle memorie di Angela – il cosiddetto Memoriale –, tralasciando la parte degli scritti sistematicamente più articolati – denominati Instructiones – che si presentano come insegnamenti, esortazioni, ammonizioni. Questi testi, rivolti solitamente a uno o più discepoli, tradiscono spesso elaborazioni che oltrepassano il pensiero angelano, rischiando di trasformarlo pur nascendo da esso. Nel raccontare la propria vicenda spirituale, la beata è quasi costretta a riorganizzare logicamente le proprie esperienze e, dovendole esprimere nella narrazione, soffre la fatica – e spesso l’impossibilità – della rielaborazione concettuale. Proprio nella narrazione di quelle particolari esperienze di Dio, ci offre immagini simboliche, drammatiche suggestioni e concetti paradossali. Ancora, nei suoi dialoghi con il frater scriptor – redattore, guida spirituale e parente –, non mancano i tentativi di chiarificazione e sistematizzazione delle esperienze. Infine, ricordiamo i silenzi, dovuti all’impossibilità di esprimere quanto vissuto: momenti apofatici, talvolta, più espressivi della parola. Per la verità, Il Libro della beata Angela da Foligno 1, oltre a Memoriale e Instructiones, contiene altri significativi scritti, importanti Cf. L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro della beata Angela da Foligno (Edizione critica), Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata (Romae) 1985. Purtroppo, in questi anni l’edizione critica ha mostrato molti limiti. A questo proposito, per un confronto con il ms. più autorevole denominato A, si veda a cura di E. MENESTÒ, Il «liber» della beata Angela da Foligno. Edizione in fac simile e 1

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soprattutto per collocare la protagonista nel proprio ambiente storico e religioso. Si apre, infatti, con una Testificatio 2 che ci informa dell’approvazione ricevuta da parte del card. Giacomo Colonna, da alcuni teologi e da altre autorevoli persone spirituali. Segue un Prologus che, attraverso i testi di Gv 14, 21.23 sull’inabitazione della Trinità, interpreta l’esperienza angelana come l’esperienza dei veri fedeli, affermando che è Dio stesso a volerne la stesura scritta. Si conclude con una Peroratio vel epilogus 3 nella quale si innalza la figura di Angela, mentre si polemizza contro l’ipocrisia di coloro che proclamano bei discorsi, ma tengono comportamenti non coerenti. Come si può notare il dossier contenente la vicenda della mistica è piuttosto articolato. Se a questo si aggiunge che il nome di Angela da Foligno compare solamente nel Liber e nel Prologo dell’Arbor vitae crucifixae Jesu, scritto nel 1305 da Ubertino da Casale uno dei maggiori esponenti dello Spiritualismo; che non conosciamo l’identità del frater scriptor e quale sia stato il suo rapporto con la beata; che l’ambiente francescano a lei vicino stava vivendo laceranti tensioni, non solo dal punto di vista spirituale, si può comprendere come tutto questo sia finito sotto il nome di questione angelana. Esponendo brevemente la nostra posizione, riteniamo che Angela da Foligno, vissute particolari esperienze spirituali, le raccontò a un frate, il quale, oltre ad ascoltare e riportare quanto ella gli andava narrando, si mise ad indagare su questi fenomeni in qualità di confessore, confidente e parente. Nacque così un dialogo continuo, almeno per quanto fu loro possibile, che si svolgeva nella lingua usata comunemente dai due – il volgare umbro –, in cui la beata esponeva le proprie trascrizione del ms. 342 della Biblioteca Comunale di Assisi, con quattro studi, CISAM, Spoleto 2009. Inoltre, nella prospettiva dell’elaborazione di una nuova edizione critica del Liber, cf. E. MENESTÒ, Per una nuova edizione del Liber, in CENTRO ITALIANO STUDI SUL BASSO MEDIOEVO - ACCADEMIA TUDERTINA, Il Liber di Angela da Foligno e la mistica dei secoli XIII-XIV in rapporto alle nuove culture, Atti del XLV Convegno storico internazionale (Todi, 12-15 ottobre 2008), CISAM, Spoleto 2009, 93-109. 2 A proposito della Testificatio, oltre alla nota al testo degli Editori, si veda M.P. ALBERZONI, L’«approbatio»: curia romana, ordine minoritico e Liber, in G. BARONE J. DALARUN (edd.), Angèle de Foligno. Le dossier. Actes de table ronde (Rome, 1-2 décembre 1995), École française de Rome, Roma 1999, 293-318. 3 A tal proposito si veda R. GUARNIERI, Santa Angela? Angela, Ubertino e lo spiritualismo francescano. Prime ipotesi sulla Peroratio, in G. BARONE - J. DALARUN (edd.), Angèle de Foligno. Le dossier, cit., 203-265.

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esperienze mentre il frate cercava di annotarle, probabilmente in latino, correggendole eventualmente in seguito. Egli, tuttavia, era chiamato anche a guidarla e ad aiutarla in una via spirituale che le fosse consona, soprattutto attraverso l’amministrazione dei sacramenti. Ci sembra di poter affermare che il ruolo di Frater A. 4 non debba essere limitato a quello di scriptor – con tutto ciò che questo comporta –, ma debba essere colto all’interno dell’esperienza spirituale stessa di Angela da Foligno. Egli, infatti, con la sua confidenza, la sua guida, le domande e le resistenze, entra a far parte della vicenda di Angela nel suo farsi. Come a dire che se la beata sperimenta in senso pieno la relazione intima con Dio, in parte questo è dovuto anche a Frate A., che la obbliga alla narrazione di quanto ha vissuto, le richiede spiegazioni e, quindi, una certa comprensione dell’esperienza mistica, della propria persona e di Dio: una sorta di esame di coscienza permanente. CENNI SULLA VITA DI ANGELA Venendo alla protagonista della vicenda narrata nel Memoriale, diamo alcune indicazioni essenziali su Angela, rimandando ad altri studi per gli approfondimenti sull’ambiente storico e religioso 5. Angela nasce nel 1248 6, a Fulginium (Foligno) da una famiglia benestante. Non parla del padre, mentre accenna alla madre, al marito 4 In Mem., III, 188, compare la frase rivolta ad Angela da Dio: «Chiedi a lui, cioè a frater A.», che individua il frate redattore; cf. Instr., XXVI, 45-59. Nel codice di Subiaco proprio la sigla «Fr. A.» individua lo scrittore del Memoriale. Cf., inoltre, M. SENSI, Fra Berardo Arnolti il ‘frater scriptor’ del Memoriale di Angela?, in E. MENESTÒ (a cura di), Angela da Foligno terziaria francescana. Atti del Convegno storico nel VII centenario dell’ingresso della beata Angela da Foligno nell’Ordine Francescano Secolare (1291-1991) (Foligno, 17-19 novembre 1991), CISAM, Spoleto 1992, 127-159. 5 Sulla situazione ambientale a Foligno, cf. M. SENSI, La B. Angela nel contesto religioso folignate, in C. SCHMITT (ed.), Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, Atti del Convegno di studi per il VII centenario della conversione della beata Angela da Foligno (1285-1985) (Foligno, 11-14 dicembre 1985), Serafica Provincia di S. Francesco O.F.M. Conv., Perugia 1987, 39-95; M. SENSI, Foligno all’incrocio delle strade, in G. BARONE - J. DALARUN (edd.), Angèle de Foligno. Le dossier, cit., 267-292. 6 Stando alla datazione di M.J. Ferré, cf. M.J. FERRÉ, Les principales dates de la vie d’Angèle de Foligno, in «Revue d’Histoire Franciscaine», 2 (1925), 21-35; altri riportano il 1249, tra questi il Breviario Romano-Serafico in riferimento al giorno commemorativo, cioè il 4 gennaio, cf. la nota 1 in L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro…, cit., 25.

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e ai figli, che considera un impedimento per il tipo di vita che vuole intraprendere, fino al punto da farle pregare Dio perché venissero a mancare 7. Rimase vedova poco dopo aver iniziato il suo cammino spirituale. Prima della conversione, e probabilmente anche dopo essersi sposata con un signorotto del luogo, Angela amava essere ammirata e onorata 8. Non ne conosciamo il grado d’istruzione, tuttavia si può presumere che non sapesse scrivere. Più difficile dire se sapesse leggere. Oltre al fatto che, per stendere il Liber si serviva di uno scrivano, sia il frater scriptor che un giovanetto 9, ricordiamo come fosse lo stesso frate a rileggere quanto andava redigendo. Non ci viene mai detto che lei rivedesse i testi in prima persona. La data della conversione è il 1285 circa. Questo sarebbe stato l’anno in cui il Vescovo di Foligno, domenicano, presso la cattedrale di San Feliciano iniziò ad avere un Cappellano francescano 10. Angela racconta l’episodio al secondo passo del suo percorso spirituale 11. Sempre la tradizione identifica il cappellano del Vescovo con il frater scriptor. Seguì l’inizio di una penitenza durissima, molto probabilmente cominciata in forma privata subito dopo la conversione. Da vedova, divenne reclusa 12 assieme a una compagna 13 e, successivamente, 7 Cf. Mem., I, 87-90. Sulla freddezza del racconto, L. Sebastiani nota che «questo, che sembra essere un tratto autobiografico, in realtà è un tópos tradizionale. È, infatti, tradizionale nella letteratura ascetico-devota l’indifferenza di fronte alla morte (degli altri), così come il distacco da tutti gli affetti terreni anche legittimi», in L. SEBASTIANI, La beata Angela da Foligno, in G.D. GORDINI (a cura di), Santità e agiografia, Atti dell’VIII Congresso di Terni, Marietti, Genova 1991, 202. 8 Cf. Instr., I, 25-26. 9 Cf. Mem., VII, 8-11. 10 Cf. la nota 14 in L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro…, cit., 29. M. Sensi, tuttavia, ritiene troppo deboli gli elementi per poter affermare che sia il 1285 l’anno in cui un francescano divenne il Cappellano del Vescovo, cf. M. SENSI, Fra Berardo Arnolti, cit., 135. 11 Cf. Mem., I, 9-26. 12 Sulla “reclusione” femminile, cf. M. SENSI, Storie di bizzoche tra Umbria e Marche, pref. di R. GUARNIERI, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1995; S. NESSI, Spiritualità femminile penitenziale in Umbria nel secolo XIII, in C. SCHMITT, Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, cit., 129-142. 13 Cf. Mem., I, 4. Secondo il codice della biblioteca Trivulziana (M) si chiamava Masazuola, altri l’hanno chiamata Pasqualina. Sull’identificazione, cf. L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro…, cit., 30-33.

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si rivolse alla Regola del Terz’Ordine di S. Francesco liberamente interpretata 14. A questo punto, l’orizzonte della beata non è più il mondo come opera di Dio da promuovere, ma Dio stesso come Creatore e Crocifisso-Redentore che sta oltre il mondo. L’ispirazione di offrirsi al Crocifisso andando nuda alla croce, la condusse in pellegrinaggio a Roma, per chiedere a san Pietro la grazia di osservare la povertà e, poi, ad Assisi, per chiedere a san Francesco la grazia di osservare la Regola del Terz’Ordine Francescano 15. Siamo negli anni 1290 e 1291. Sulla strada che va da Foligno ad Assisi, passando per Spello, Angela iniziò i suoi dialoghi con divini interlocutori. All’altezza di una piccola Chiesa dedicata alla Trinità nei pressi di un crocevia, lo Spirito Santo e Gesù si fanno riconoscere immediatamente, ma le verrà detto che tutta la Trinità era presente in lei. Nel 1292, appena Frate A. giunge a Foligno, iniziò la stesura del Memoriale e la straordinaria confidenza tra la mistica e il frate 16. Il lavoro di stesura si concluse nel 1296. La vicenda mistica della beata Angela, però, non termina con il Memoriale, ma continuerà fino alla morte. Ne sono prova alcuni episodi contenuti nelle Instructiones 17. Nel periodo successivo al Memoriale, Angela si prende cura dei figli spirituali come madre e maestra, e la sua fama varca i confini umbri. Nel 1298, ad esempio, verrà a conoscerla Ubertino da Casale che rimarrà estremamente colpito dall’incontro, tanto da riportarlo nella sua opera Arbor vitae crucifixae Jesu 18. Cf. G. CASAGRANDE, Il Terz’ordine e la beata Angela. La povertà nell’ordine della non-povertà, in E. MENESTÒ (a cura di), Angela da Foligno terziaria francescana, cit., 36. A proposito del movimento penitenziale, ricordiamo che nel 1289 con la Supra montem papa Nicolò IV indirizzò tutti i penitenti verso il Terz’Ordine francescano, cercando di istituzionalizzare un orientamento già esistente. 15 Cf. Mem., III, 16-29. 16 Il ritorno del frater scriptor da Assisi a Foligno avvenne nel 1292 dopo il capitolo provinciale, cf. la nota 24 in A. BLASUCCI, S. Francesco visto dalla beata Angela da Foligno, Presentazione di Mons. P.V.M. COSTANTINI O.F.M. Conv., Ed. Chiesa di S. Francesco, Foligno 1985, 13. 17 Cf., per esempio, Instr., IV, sulle visioni avvenute il 31 luglio e il 1º agosto del 1300. 18 «Nel 25º anno di età conobbi, in un modo che tralascio di descrivere, la madre reverenda e santissima Angela da Foligno, vero angelo in terra. A lei Gesù mostrò i difetti del mio cuore e i suoi benefici segreti in maniera tale che io non potevo dubitare che fosse Cristo a parlare in essa. Così furono restituiti moltiplicati tutti i suoi doni che avevo perduto per mia malizia, e non fui più quello che ero stato, …e i de14

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La beata Angela da Foligno si spense all’ultima ora del giorno 4 gennaio 1309, al tempo di Clemente V 19. IL PERCORSO MISTICO: UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE Il tentativo di cogliere e interpretare al meglio il percorso spirituale di Angela da Foligno, inizia necessariamente con alcune riflessioni sulla nascita e sulla struttura del Memoriale, dal momento che un itinerario strutturato in passi è già, almeno in parte, interpretato. Non ci soffermeremo in questa sede a dettagliare le questioni relative alla nascita e alla struttura 20, si pensi anche soltanto alla composizione di 26 passi, 19 più 7 supplementari. Tuttavia, riteniamo opportuno rendere conto della nostra posizione a riguardo. Il Memoriale nacque a causa di un’indagine che il frate scrittore volle iniziare per conoscere a fondo la portata degli eventi di Assisi, che videro la beata, nella basilica di San Francesco, prorompere in urla e lamenti. La stesura di quegli avvenimenti è stata svolta per poter sottoporre a persone esperte quella vicenda, visto che entrambi si volevano assicurare che non ci fosse alcun coinvolgimento di spiriti maligni. Per quanto riguarda la struttura del Memoriale, appare evidente l’intenzione dei protagonisti di schematizzare in una scala di trenta passi – o mutamenti – l’itinerario spirituale. Al momento di passare dal “percorso ricordato” a quello “in presa diretta”, cioè al ventesimo passo, il redattore inserisce le annotazioni su come iniziò la stesura del testo e sulle difficoltà che riscontra per rimanere fedele allo schema esposto all’inizio. Non crediamo di essere lontani dal vero se riteniamo che i fatti siano andati all’incirca in questo modo. Il frate di ritorno da Assisi comincia la sua indagine sul comportamento di Angela. A questo punto stila quanto è narrato nel ventesimo trattori allora non potevano togliere nulla alla santità di quella irreprensibile anima», UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Jesu, Venetiis 1485, f. 2r; citato in L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro…, cit., 37, nota 46. 19 Cf. Notificatio, in L. THIER O.F.M. - A. CALUFETTI O.F.M., Il libro…, cit., 738. 20 A riguardo si possono vedere le riflessioni proposte da G. Pozzi in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, Adelphi, Milano 20012, 84-91. Cf., inoltre, le ipotesi degli Editori del Liber in nota 2 relativa a Mem., II, 6. Sono improntate sull’idea della duplice redazione che vede il testo più antico nei manoscritti B, tuttavia alcune considerazioni possono essere condivise.

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passo – o primo supplementare –, e a questo stadio, più o meno, doveva essere Angela nel momento dell’inizio della stesura 21. Quindi, il frater scriptor lavora in un duplice senso: sul ricordo – i fatti spirituali prima del ventesimo passo – e sul progresso presente – i fatti dopo il ventesimo passo –. In tal modo, si ritrova in mano due redazioni che sono collegate e separate a un tempo dagli eventi di Assisi. La prima parte, ormai esperienza sedimentata ed elaborata razionalmente da Angela, aveva previsto un cammino di trenta passi globali – secondo quanto le aveva detto la stessa fedele –, ma, davanti ad una seconda parte così complessa e difficile da rielaborare, il piano dell’opera va a monte. A questo punto il frate, dovendo mettere insieme quel materiale eterogeneo, inserisce la nota redazionale 22 con cui cerca di saldare le due parti. A questo punto emerge chiaramente il duplice aspetto del cammino. La prima parte sostanzialmente ascetica, anche se già connotata da un particolare rapporto con Dio, si conclude nel ventesimo passo. La seconda parte più propriamente mistica, segnata soprattutto dall’inabitazione della Trinità in Angela, inizia dal ventesimo passo, ora da considerare primo supplementare, fino al settimo passo supplementare. Tali sono i gradi in cui il redattore, c’è da pensare d’accordo con Angela, divide quelle esperienze stupende che culminano con la visione della beata in seno alla Trinità. Il percorso del Memoriale conta, quindi, un totale di ventisei passi, nati con tutta probabilità dalla volontà di razionalizzazione della mente umana – si pensi allo schema dei trenta passi e al numero sette dei passi supplementari – che viene sovrastata dall’eccedente esperienza della grazia e della comunione con Dio. Ci sono stati vari tentativi di interpretazione dell’itinerario mistico angelano. Non analizzeremo in questa sede gli interventi che ci hanno aiutato a cogliere alcuni snodi fondamentali del percorso 23, ci soffermeremo solamente per alcune sottolineature. 21 Al momento dell’iniziale indagine lo stesso frate riferisce come Angela non avesse ancora raggiunto il grado di certezza “perfettissima” che raggiungerà in seguito, cf. Mem., II, 128-131. 22 Cf. Mem., I, 304 - II, 17. 23 Una prima interessante proposta è la suddivisione dell’itinerario spirituale a partire dalla Instructio II, cf. A. BLASUCCI, L’itinerario mistico della B. Angela da Foligno, in C. SCHMITT (ed.), Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, cit., 199-227; sulla stessa linea D. ALFONSI, La figlia dell’estasi. Biografia spirituale della beata Angela da Foligno, Ed. Cenacolo beata Angela, Foligno 1997. La tripartizione dell’Instructio II è accolta anche da P. LACHANCE, The Experience of God in the Spiritual Journey of the Bl.

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Anzitutto, ci pare opportuno indicare alcuni dati da cogliere come chiavi di lettura del percorso spirituale angelano. Un primo dato fondamentale è che il percorso di Angela, almeno nella prima parte, è un cammino di sequela e di imitazione spirituale di Gesù Cristo, imitazione che porta sino alla conformazione per opera della compassione, ossia dell’amore trasformante che ci fa essere uno con l’amato. Infatti, il senso profondo che Angela ha dell’incarnazione, le fa porre il Figlio di Dio come mediatore tra il piano creaturale e il piano divino. Un altro dato strettamente legato a questo, è la visione che Angela ha del mistero di Dio rivelatosi nel Figlio: Dio ama a tal punto l’umanità da amare eternamente la croce e da darla al Figlio, come massima espressione della sua cura per noi. L’amore di Dio e il suo piano di salvezza compiuto attraverso la passione del Figlio non possono essere scissi. Ne consegue che il Cristo, il Figlio di Dio, è legato alla croce da sempre. Questo vuol dire, a rovescio, che la passione, la croce e la morte sono legate, dall’eterno, al Figlio. Un ultimo dato che vogliamo rilevare è la particolare esperienza della Trinità che vive Angela, quando è tolta dalla relazione mistica Angela of Foligno, in C. SCHMITT (ed.), Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, cit., 229-260; cf., inoltre, P. LACHANCE, The Spiritual Journey of the bl. Angela of Foligno According to the Memorial of Fr. A., (dissertazione di Laurea), Roma 1984; tr. it., Il percorso spirituale di Angela da Foligno secondo il Memoriale, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1991. Un’ulteriore proposta è stata fatta da C.A. Bernard che ha pensato di suddividere l’itinerario angelano in quattro tappe: il momento della penitenza, il momento della familiarità divina, quello dell’illuminazione e, infine, quello dell’unione, cf., C.A. BERNARD, Le Dieu des mystique II. Théologies, Paris 1998; tr. it., Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, 118-164. Segnaliamo anche la proposta di G. Pozzi, secondo cui la «peripezia mistica» angelana, dovrebbe essere formulata come «attacco del Dio trinitario all’anima prescelta, sua deposizione della deità trina, oblio di sé nel nulla», cf. ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 231; si vedano in particolare le pp. 32-46. Infine, ricordiamo l’interpretazione offerta da C. Leonardi e E. Menestò, secondo i quali l’itinerario di Angela non conduce a Dio, bensì dentro Dio e il punto di unione tra la Mistica e la Trinità è Cristo. Cf. E. MENESTÒ, Angela da Foligno, in G. POZZI - C. LEONARDI (a cura di), Scrittrici mistiche italiane, Marietti, Genova 1988, 135-182; cf. C. LEONARDI, Il Libro di Angela da Foligno: l’amore, la tenerezza, l’abisso di Dio, in COMUNE DI FOLIGNO - CENACOLO BEATA ANGELA - ISTITUTO TEOLOGICO DI ASSISI, L’esperienza mistica della beata Angela da Foligno. Il Liber: una lettura interreligiosa. Atti del convegno tenuto in Assisi e Foligno nei giorni 1 e 2 dicembre 2000, Porziuncola, Assisi 2001, 99-115; inoltre C. LEONARDI, Angela da Foligno tra teologia e mistica, in E. MENESTÒ (a cura di), Angela da Foligno terziaria francescana, cit., 251-259.

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con Cristo e dalla contemplazione della sua “compagnia”: povertà, dolore, disprezzo 24. Angela afferma di essere stata posta «in mezzo» alla Trinità che vede «con tanta tenebra» 25 e, infine, di essere stata «extracta» anche dal modo di esperire Dio nella tenebra, sperimentando il «profondissimo abysso» 26. Tentando di porre in relazione le diverse esperienze appena accennate, emergono due eccezionali esperienze. Da un lato la contemplazione del «Dio uomo». In questo stato l’anima, al cospetto della Trinità, coglie Dio attraverso il Figlio. Potremmo considerare Angela come posta nella contemplazione davanti alla Trinità e in particolare a quella Persona che le dà la possibilità di giungere al Padre. Quindi, attraverso la via che è Cristo, Angela accede a un’ulteriore contemplazione divina: l’essere in mezzo alla Trinità, perciò in modo diverso da prima, fa l’esperienza di Dio in se stesso, del profondissimo abisso divino, in particolare relazione alla persona del Padre, quale Origine della Trinità. Tale esperienza di Dio Padre avviene attraverso diverse modalità di visione: alcune legate al concetto di tenebra 27, altre, più eccezionali, in cui questo concetto scompare lasciando spazio a quello di profondissimo abisso. Un’ultima parola ci sembra importante a proposito degli ultimi due passi supplementari: il sesto e il settimo. In questi passi l’esperienza di Angela trova il proprio culmine e la loro interpretazione rischiara il cammino percorso in precedenza. A nostro avviso, la logica dell’incarnazione li lega indissolubilmente. Le tenebre del “nulla” e le tenebre del “tutto” sono i due volti del mistero dell’umanità e della divinità abbracciati nel Verbo incarnato. Nel sesto passo, sulla via della massima conformazione cristica, ella non poteva non sperimentare, per quanto le era possibile e concesso, l’abbandono per i peccati vissuto da Gesù, abbandono tanto maggiore quello di Lui, in quanto il peccato del mondo è stato volontariamente assunto dal Figlio, in una kenosi così abissale da aver toccato il “nulla” dell’abbandono del Padre, della morte, degli inferi. Cf. Mem., IX, 303-306. Cf. Mem., IX, 80-81. 26 Cf. Mem., IX, 353-356. 27 È nostro parere che la relazione particolare con il Padre inizi già nelle visioni tenebrose: è la capacità di esperire di Angela che ci appare diversa e, quindi, anche la qualità dell’esperienza. 24 25

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Per mezzo dell’opera del Figlio, però, in questo “nulla” è presente Dio e la sua grazia 28, perciò Angela pur essendo lasciata in balìa dei vizi trova altrettante virtù che la aiutano a non cadere 29. Disperata, irata e triste, ella sperimenta quel “nulla” redento da Cristo e, adesso, colmo della grazia divina. È l’esperienza profonda della natura umana senza Dio vissuta dal Figlio, che Dio stesso le concede di provare sostenendola con il suo aiuto. Angela impara la vera umiltà, perché l’uomo senza Dio è come un impiccato con le mani legate dietro la schiena o, più evangelicamente, come un uomo inchiodato a una croce. La beata è amata dal Cristo passionato e lo ama di amore passionato. Quindi, come per Lui, anche per lei giunge il momento in cui l’amore crocifisso rivela la sua gloria: la risurrezione, il ritorno nel seno di Dio. Ecco il settimo passo supplementare, quando Angela afferma di vedere Dio in un modo nuovo: lo vede chiaramente come mai prima, e non vede l’amore e diviene «non amore» 30. Angela ha chiarissimo che Dio attrae l’anima con una “realtà” che non può essere definita amore 31. Cristo ha vissuto nell’amore, ha sperimentato l’abbandono sulla croce e ha visto la coincidenza di vita e morte, di dono e privazione, di amore e nulla proprio nel momento in cui è risorto, divenendo il Crocifisso Vivente nella gloria del Padre. Lo stesso percorso, per partecipazione, ha vissuto Angela fino a giungere alla visione di quella gloria, che non ha nulla di umanamente comparabile. 28 Interessante un’affermazione di Balthasar a riguardo: «Il Redentore, risparmiando ai morti, nella propria solidarietà con essi, tutta l’esperienza della morte (come poena damni) – cosicché un raggio celeste di fede, carità e speranza ha sempre rischiarato l’“abisso” – prese su di sé tutta questa esperienza, sostituendosi ad essi. Proprio così egli si dimostra l’unico che, andando al di là della comune esperienza della morte, ha misurato le profondità dell’abisso», in H.U. VON BALTHASAR, Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Queriniana, Brescia 20004, 150. 29 L’esperienza vissuta da Angela ricorda quella provata da Giovanni della Croce nella Notte oscura. Splendida l’immagine del legno e del fuoco: «Quando il fuoco attacca il legno comincia anzitutto con il seccarlo… Poi mano a mano che lo asciuga e lo libera da tutte quelle peculiarità sgradevoli e oscure che risultano contrarie al suo operato, lo annerisce, lo imbruttisce e gli fa emanare cattivo odore. Alla fine poi con la fiamma e con il calore lo trasforma a sua somiglianza e lo fa bello come lui», in GIOVANNI DELLA CROCE, Notte oscura, Libro II, cap. X, 1, Città Nuova, Roma 2006, 90. 30 Cf. Mem., IX, 7-12. A questo punto della presenza di Dio, Angela non vede amore e diviene «non amore». Stato, questo del non amore, confermato anche da un altro passaggio del Memoriale, cf. Mem., IX, 50-54. 31 Cf. Mem., IX, 76-81.

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A questo punto possiamo affermare che Angela, nel settimo passo, sperimenta in diversi modi la relazione con Dio: alcuni caratterizzati dall’amore, altri dal «non amore». Per quanto riguarda le esperienze del divino che sono contrassegnate dall’amore, ci pare debbano essere legate alla contemplazione del «Dio uomo», la cui caratteristica peculiare è proprio l’amore kenotico nei confronti del genere umano, fino al dono totale di sé sulla croce. In queste esperienze l’anima si sente viva, lieta e amata. Qui è presente l’umanità del Figlio che permette ad Angela di entrare in contatto con la divinità in maniera umana; è ancora presente l’amore riconoscibile dall’uomo perché Dio in Cristo ha assunto l’umanità. Potremmo dire che, in tali momenti, Angela contempla immediatamente Dio, ma da un punto di vista economico. Cristo, punto di contatto tra la Trinità economica – la Trinità pro nobis – e quella immanente – la Trinità in se – permette ad Angela un’ulteriore modalità di visione: la visione di Dio in sé. Angela vede la Trinità “da fuori” e coglie l’amore kenotico di Dio in relazione al Figlio incarnato, morto e risorto per noi; vede la Trinità “da dentro” e coglie la trascendenza divina, la tenebra e, oltre, il «profondissimo abisso» in relazione al Padre. E, se l’amore divino per noi si può in qualche modo intuire, perché Dio si è fatto uomo in Cristo, la trascendenza divina non è comparabile a nulla che sia umanamente pensabile – compreso l’amore –, dal momento che tutto supera e tutto contiene. A tale partecipazione della vita divina giunge Angela da Foligno, attraverso un cammino che dalla bassezza del nulla umano l’ha condotta “di fronte” e “dentro” Dio. Per accostare più agevolmente i brani angelani, ne viene proposta una nostra versione in italiano. Nel farlo, abbiamo scelto di rimanere il più vicino possibile allo stile e al linguaggio usato nel Liber, anche se talvolta la lettura può risultarne appesantita. A proposito di versioni in italiano, segnaliamo Il libro della beata Angela da Foligno, introduzione, traduzione e note di S. ANDREOLI, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 19962, che segue il testo proposto da Thier - Calufetti; e l’antologia ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, a cura di G. POZZI, Adelphi, Milano 20012, che segue il ms. A.

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Rendiamo brevemente ragione della scelta di metodo adottata nell’intraprendere l’analisi delle esperienze angelane sulla Trinità, così come raccontate nel Memoriale. Diciamo subito che abbiamo preferito iniziare l’esposizione dalla figura di Dio Padre, per passare poi al Figlio e, in seguito, allo Spirito Santo. Il criterio adottato non è dettato dallo snodarsi storico del percorso mistico, bensì dalla sua interpretazione. Il motivo della scelta è dato dalla volontà di penetrare quanto più possibile i significati delle esperienze angelane. Per poterlo fare, abbiamo ritenuto indispensabile collocare le varie esperienze all’interno dell’interpretazione complessiva del percorso spirituale, piuttosto che seguirne l’avvicendarsi storico. Dio Padre è esperito sulla vetta suprema della esperienza mistica e la “porta” che conduce al Padre è il Figlio, il quale viene – per così dire – “attraversato” pur non venendo meno, nell’incontro con la Prima Persona della Trinità. Infine, lo Spirito che – a ben vedere – è il primo a presentarsi misticamente ad Angela, altri non è se non colui che permette la confidenza con il Figlio. La successione Padre, Figlio, Spirito Santo tiene conto dell’idea angelana dell’economia salvifica: Dio Padre ha voluto per il Figlio la croce, perché noi fossimo uniti a Lui per mezzo del dono dello Spirito Santo e potessimo accedere alla comunione con Dio Amore trinitario. Al Padre per il Figlio nello Spirito è il percorso di innalzamento del cristiano, poiché l’azione salvifica della Trinità compie l’identico percorso di abbassamento: dal Padre per il Figlio nello Spirito. Concludiamo questa breve introduzione con qualche altra indicazione sul metodo che abbiamo utilizzato. La salita di Angela verso Dio nel suo itinerario mistico, passa attraverso una serie di esperienze e d’intuizioni legate ad alcuni attribu17

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ti divini 1. Questi attributi vengono riferiti in generale all’esperienza del divino, quindi, a tutta la Trinità. Tuttavia, a nostro avviso, possono e devono essere riferiti in maniera particolare a Dio Padre. È suo, infatti, il sapiente disegno d’amore che tutto abbraccia, sua è la potenza attuativa, sua l’umiltà con la quale si china verso i figli e gioisce con loro, sua la bellezza che sprigiona dalla pienezza divina, essendo Lui l’origine della divinità. In questo senso, pur coscienti che molte intuizioni di Angela nascono dal particolare rapporto con il Figlio, che le dischiude la relazione trinitaria, preferiamo riferire gli attributi al Padre e, per estensione, a tutta la divinità. Se il percorso mistico angelano mostra che lei conosce la Trinità attraverso il Figlio nello Spirito sino a giungere al Padre, come risalendo la corrente di un fiume sino alla sua sorgente, noi riferiremo le intuizioni angelane alla sorgente da cui nasce il fiume stesso. Inoltre, terremo conto che, secondo la nostra interpretazione del percorso angelano, ci sono delle particolari esperienze e intuizioni da riferire peculiarmente al Padre. 1. IL PADRE 1.1. L’esperienza della paternità divina L’esperienza di Angela da Foligno, com’è stata delineata nelle pagine precedenti, trova il suo apice nell’esperienza mistica in riferimento alla persona trinitaria di Dio Padre. Tuttavia, già nei primi passi, fortemente caratterizzati da pratiche ascetiche e penitenziali, la beata trova nella figura del Padre la possibilità di iniziare a sperimentare qualcosa della dolcezza divina. Angela è condotta alla gioia dell’incontro personale con Dio, grazie all’esperienza della sua paternità. In particolare – siamo nel sedicesimo passo – è posto nel cuore di Angela il Padre nostro, cosa che le consente di cogliere con molta chiaNotiamo che, nelle Lodi di Dio altissimo, san Francesco riferisce a Dio tutti gli attribuiti utilizzati da Angela per parlare delle proprie esperienze. Manca, forse, il termine “pienezza” che Angela usa spesso, ma – nelle Lodi – a questo potrebbero rimandare termini quali “grande, altissimo” e “grande e ammirabile”. Per gli scritti del santo rimandiamo, salvo diversa indicazione, a K. ESSER, Gli scritti di s. Francesco d’Assisi. Nuova edizione critica e versione italiana, Messaggero, Padova 1982 e alle Fonti Francescane. Nuova edizione, a cura di E. CAROLI, EFR, Padova 2004. 1

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rezza la bontà divina e la propria indegnità di peccatrice. Nella recita meditata di questa preghiera, immersa nella vergogna per i propri peccati e cosciente della propria bassezza di fronte alla bontà di Dio, ella prova una profonda consolazione e gusta per la prima volta la dolcezza divina 2. Il concetto di paternità divina, dunque, sembra legato a quello della bontà di Dio e a quello dell’indegnità dell’uomo peccatore. Un altro esempio in questo senso: Angela riceve una locuzione a proposito del peccato umano e della salvezza che viene da Dio. L’esempio, contenuto nelle affermazioni divine, ricalca senza dubbio la parabola lucana del Padre buono 3: «I miei figlioli che con il peccato si allontanarono dal mio regno e si fecero figli del diavolo, quando tornano al Padre, poiché il Padre prova letizia per il loro ritorno, quando ritornano mostra loro una letizia spirituale, tanta è la letizia che ha il Padre; e dà loro una grazia spirituale, che non dà agli altri che furono vergini e non si separarono da lui. Questo avviene per l’amore del Padre e perché essi, dopo il ritorno, provano dolore per aver offeso tanta maestà e capiscono che sono degni dell’inferno e hanno una tale conoscenza dell’amore del Padre, che provano una letizia speciale» 4. Balza subito all’attenzione il continuo rimando alla letizia del Padre, che vede ritornare a casa – nel suo regno – i figli, che attraverso il peccato si erano fatti figli del diavolo 5. Proprio tale letizia porterà il Padre a dare una speciale grazia a quei figli che hanno conosciuto la Cf. Mem., I, 186-198. Sempre in relazione alla recita del Pater noster, un anno dopo la grande esperienza sulla via di Assisi, Angela riceverà una locuzione divina in cui si afferma: «Tu sei piena di Dio», in Mem., IV, 11. La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli è fondamentale anche in un episodio chiave della vita di san Francesco: il momento in cui si denudò in piazza ad Assisi. Cf. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Legenda Maior, II, 4; il testo della Leggenda Maggiore in Fonti Francescane. Nuova edizione, 591-746. Inoltre, Francesco esorta tutti i fedeli a questa preghiera giorno e notte, cf. Lettera ai fedeli (Seconda recensione), III, 21. 3 Lc 15, 11-32. 4 Mem., IV, 248-256. 5 Sulla figliolanza diabolica, il rimando più immediato è a Francesco nella Lettera ai fedeli (Seconda recensione), XI, 66. In 1 Gv 3, 10 si distingue tra figli di Dio e figli del diavolo. 2

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loro profonda indegnità e, per questo, hanno raggiunto una particolare consapevolezza dell’amore di Dio. Questa sembra essere la grazia che la paternità divina accorda ai figli ritornati: la gioia dovuta alla consapevolezza che Dio li ama nonostante il loro peccato. È tanta la sottolineatura della letizia di Dio e della grazia speciale data ai figli ritornati che, sulla linea tracciata da Paolo nella lettera ai Romani 6, Angela indica la sovrabbondanza della grazia rispetto al peccato. Un ulteriore particolare che merita una citazione riguarda la “tanta maestà” di Dio. Egli, a differenza del padre della parabola lucana, non possiede una casa, bensì un regno. Angela ha coscienza della Signoria del Padre, dell’infinita trascendenza divina. Tutto ciò sta a mostrare, una volta di più, la straordinarietà dell’amore di Dio per i peccatori. Infatti, questo Padre dall’alto della sua divina maestà, che potrebbe portare a un certo distacco e a una certa impassibilità, si china sui suoi figli e si rallegra del loro ritorno, per colmarli di una grande gioia. La prima immagine di Dio che Angela ci offre attraverso questo esempio, ma ancor prima in riferimento alla recita del Pater noster, è che Dio è un Padre buono, sollecito e provvido nei confronti dei propri figli. Angela stessa, per quanto ci racconta nei primi passi del suo itinerario, ha sperimentato questa paternità amante e lieta nella misericordia, che l’anima incontra proprio là dove la cognizione dell’umana miseria appare insostenibile. L’esperienza della paternità divina, legata alla preghiera del Padre nostro all’inizio del percorso spirituale di Angela, è per lei un’anticipazione delle future grazie che le apre la strada alla conoscenza sempre più profonda del Padre. 1.2. Il Padre conosciuto attraverso gli attributi È a partire dall’idea di paternità e bontà divina verso gli uomini, figli peccatori, che Angela si muove principalmente verso la conoscenza della sapienza, della volontà, della potenza e dell’umiltà di Dio. 6 Rm 5, 20-21: «La legge sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore».

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Questi attributi divini sono intimamente legati tra loro nel disegno d’amore del Padre: Egli sa ciò che è meglio per i figli, lo vuole e lo attua, perché Dio può ogni cosa. 1.2.1. La sapienza di Dio La sapienza divina è il primo attributo che colpisce Angela nelle sue esperienze mistiche. Ella vede la divina sapienza, la sua pienezza. L’antefatto a questa illuminazione è rappresentato dalla richiesta di un tal «frate E. della Marca» 7, il quale voleva sapere alcune cose dalla beata. Ella, pur ritenendo stolto e superbo pregare Dio per sapere le cose che lui chiedeva, fu graziata di una visione: «Mentre stavo in quei pensieri, improvvisamente la mente fu tolta e fu posta nella prima elevazione davanti a una mensa senza inizio e senza fine; ma fui posta lì non per vedere quella mensa, ma quello che c’era sopra. E vedevo una pienezza inenarrabile, della quale nulla posso dire se non che vedevo ogni bene. Lì vedevo la pienezza della divina sapienza, di cui capivo che non era lecito inquisire e voler sapere ciò che essa vuol fare, perché questo è un volerla precedere» 8. Null’altro sa aggiungere la beata a proposito della visione, se non che, dopo quell’esperienza, le rimase un dono mirabile: quello del giudizio. «Da allora, per quanto ho visto su quella mensa, cioè la divina sapienza, mi è rimasta la consapevolezza che posso giudicare tutte le persone spirituali e le cose spirituali, quando ne sento parlare o narrare. E non giudico con quel giudizio col quale ero solita, giudicando, peccare, ma con un giudizio diverso, vero, che capisco. Perciò in questo giudizio non ho né posso avere coscienza di peccare» 9. 7 Mem., V, 249; nulla si sa di tale frate che, in due manoscritti, viene chiamato «C. della Marca» e «C. della Mar». 8 Mem., V, 254-262. 9 Mem., V, 264-269. Questo dono, legato alla capacità di discernimento spirituale, ci sembra si possa riferire a quanto indicato da Paolo in 1 Cor 2, 15 per cui l’uomo spirituale giudica ogni cosa.

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La visione della mensa e, soprattutto, di ciò che stava sopra alla mensa imbandita, lascia Angela senza parole. Solo due indicazioni preziosissime ci vengono fornite: la mensa era senza inizio né fine e sopra c’era «ogni bene» 10. La sapienza di Dio viene così a essere connotata da una pienezza inenarrabile, dovuta alla sua illimitatezza e alla presenza di ogni cosa buona 11. Essa è infinita e infinitamente buona, perciò non è lecito, per superbia, indagare sul suo operato. È un tentativo di precederla e, quindi, di volersi fare come Dio, cosa del resto impossibile vista l’inenarrabilità del contenuto della visione. La sapienza divina, tuttavia, elargisce i propri doni per il bene comune a coloro che la cercano nella maniera adeguata. È il caso di Angela: «il dono che la santa riceve è detto nel linguaggio degli spirituali “discretio spiritum” e le conferisce il carisma della direzione spirituale» 12. È un carisma che, in quanto tale, non è per la propria utilità, ma per l’edificazione comune. Questo dono è per Angela, oltre che una grazia divina, anche la conferma dell’autenticità della visione. Esso, infatti, da un lato, mostra l’illimitata portata della sapienza divina, che anche a lei concede di giudicare ogni persona e cosa spirituale, d’altro lato, mostra la sua caratteristica principale: il bene per tutti. La sapienza divina è fortemente legata alla volontà redentrice del Padre. Essa, infatti, ha istruito Maria sulla sua condizione e sull’amore 10 L’espressione «omne bonum» è utilizzata da Angela in diversi casi. Talvolta designa Dio stesso. In questo caso lo riferiamo a ciò che sta sopra alla mensa, che a quel punto è diventato l’oggetto specifico della visione. 11 San Bonaventura nelle Collationes in Hexaëmeron sive illuminationes ecclesiae, II, 8ss., riflette sulla divina sapienza. In particolare si sofferma sul suo essere uniforme, multiforme, onniforme e nulliforme. Per la quarta forma della sapienza divina, Bonaventura rimanda a Paolo 1 Cor 2, 6-10 e a Dionigi, suo discepolo. Per le Collazioni sull’Exameron si veda BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Opere di San Bonaventura, VI/1. Sermoni teologici, Edizione latino-italiana a cura di J.G. BOURGEROL - C. DEL ZOTTO - L. SILEO, Città Nuova, Roma 1994, 47-439. 12 Così Pozzi in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 125. La possibilità di poter giudicare ogni persona e cosa spirituale ci sembra rimandare a san Paolo in 1 Cor 2, 10-15, in particolare 14-15: «L’uomo mosso dallo Spirito… giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno». San Bonaventura afferma che la sapienza divina, nel quarto grado di ascesa mistica, inabita la mente del fedele, la quale viene resa figlia di Dio, sposa e amica, nonché sorella e coerede di Cristo, e tempio dello Spirito, cf. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerarium mentis in Deum, IV, 8. Per il testo dell’Itinerarium si veda BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Opere di San Bonaventura, V/1. Opuscoli teologici, Edizione latino-italiana a cura di J.G. BOURGEROL - C. DEL ZOTTO - L. SILEO, Città Nuova, Roma 1993, 493-569.

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di Dio in relazione all’incarnazione. È la sapienza divina che ha permesso alla Vergine di dire il suo «fiat»: «Così la divina sapienza istruì la beata Vergine nell’incarnazione di Cristo: anzitutto le fece conoscere se stessa e, dopo che si conobbe, le fece perdere ogni dubbio su Dio e immediatamente le fece confidare nella bontà di Dio. Conoscendo se stessa e la bontà di Dio disse: Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum» 13. Similmente, noi tutti siamo istruiti dalla sapienza a riguardo dell’umanità del Figlio di Dio: «Similmente la divina sapienza istruì noi nell’umanità di Cristo, il quale, sebbene fosse Dio, volle che la sua umanità fosse legata all’obbedienza del Padre, a ogni volere del Padre» 14. Il Padre, origine della sapienza divina 15, viene così a essere indicato come colui che manifesta sapientemente il proprio volere salvifico, attraverso gli insegnamenti derivanti dall’azione di Cristo per noi. Egli, il Padre, da sempre pensa a un disegno di bontà e di relazione d’amore nei confronti delle sue creature, un disegno che attua e mostra per mezzo della sua sapienza. 1.2.2. La volontà di Dio mostra la sua potenza e la sua umiltà Abbiamo voluto legare sotto questo titolo alcuni insegnamenti di Angela sulla volontà, sulla potenza e sull’umiltà di Dio. A dire il vero, questi tre termini non sono mai presenti contemporaneamente in una Mem., VII, 532-536. Mem., VII, 536-538. Ricordiamo che anche la povertà è un insegnamento della divina sapienza. 15 Nel De Trinitate, VII, 1, 2, sant’Agostino afferma che il Padre è colui che genera la sapienza cioè il Figlio, ma è sapienza la Trinità stessa, poiché in Dio sapienza ed essenza coincidono; cf. AGOSTINO DI IPPONA, Opere di San’Agostino, IV. La Trinità, Edizione latino-italiana con introduzione di A. TRAPÈ - M.F. SCIACCA e traduzione di G. BESCHIN, Città Nuova, Roma 1973. Nelle Confessiones, V, 3, 5 il Verbo è, a un tempo, Sapienza e via verso la Sapienza in relazione alla creazione, cf. AGOSTINO DI IPPONA, Opere di Sant’Agostino, I. Le Confessioni, Edizione latino-italiana con introduzione di A. TRAPÈ e traduzione di F. MONTEVERDE, Città Nuova, Roma 1965. 13 14

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espressione angelana, ma, come si può intuire anche dall’esempio riportato sulla paternità divina, la volontà redentrice di Dio si esprime nel mistero della sua potenza salvifica e della sua umile vicinanza all’essere umano. Un primo interessante testo su cui ci vogliamo soffermare riguarda una visione concessa alla mistica folignate, che si prepara per comunicarsi durante una celebrazione eucaristica ad Assisi. Proprio in quei momenti di meditazione la voce di Dio interviene e le parla: «Io voglio mostrarti la mia potenza. E subito furono aperti gli occhi dell’anima, e vedevo una pienezza di Dio nella quale comprendevo (comprehendebam) tutto il mondo, cioè l’al di là del mare e l’al di qua del mare e l’abisso e ogni cosa. E in tutto ciò non discernevo altro se non la potenza divina, in modo assolutamente inenarrabile. Allora l’anima mia piena di ammirazione gridò dicendo: Questo mondo è pregno di Dio! E comprendevo (comprehendebam) tutto il mondo quasi fosse poca cosa, cioè l’al di là del mare e l’al di qua del mare e l’abisso e ogni cosa, quasi fosse poca cosa, ma la potenza di Dio eccedeva e riempiva tutto» 16. La visione della potenza divina concede ad Angela un’esperienza eccezionale che definiremmo, con Pozzi, «risonanza cosmica» 17. Essa permette alla beata di sperimentarsi in contemporanea relazione con tutta la natura. Potremmo dire di più: le permette di sperimentare – almeno in parte – la relazione esistente tra il Creatore e la creazione

16 Mem., VI, 60-68. Notiamo che il termine «comprendevo (comprehendebam)» è reso da Pozzi con «abbracciavo» in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 129, mentre è reso da S. Andreoli con «compresi» in S. ANDREOLI, Il libro, cit., 96. Noi, visto il contesto legato a riferimenti spaziali, il fatto che l’esperienza è inenarrabile e che nulla vi sia di discernibile se non la potenza stessa di Dio, propendiamo per interpretare il “comprendere” alla maniera di Pozzi. Tuttavia, in questa esperienza Angela è consapevole di ciò che sta sperimentando, perciò ne ha anche una certa comprensione intellettuale. Immagini che ricordano quelle di Angela, non foss’altro per l’idea del mare e della creazione “piena” di Dio – sebbene non «gravida» –, sono quelle di un passo agostiniano delle Confessioni, cf. AGOSTINO DI IPPONA, Le Confessioni, VII, 5, 7. 17 ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 128.

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stando dalla parte del Creatore 18. Alla sua anima è dato di comprendere, di racchiudere, tutto il cosmo e la sua capacità – nel duplice senso di capienza e potenzialità realizzativa – è la stessa capacità della potenza di Dio: infinita. Questa è l’indicazione che ci viene data attraverso le due espressioni: «e vedevo una pienezza» e «non discernevo altro se non la potenza divina». Angela vede qualcosa di perfettamente compiuto, che non lascia spazio ad altro che non sia sé. Questo è l’infinito della potenza di Dio. In unione con quest’infinito non può che vedere la piccolezza di tutto il cosmo e comprenderlo, racchiuderlo, perché è talmente capace – capiente e potente – che lo avverte poca cosa. Così, la potenza di Dio è tanto grande e superiore a tutto che non solo eccede il mondo, ma lo riempie di sé e, quindi, lo genera e lo fa a sua volta generare. «Questo mondo è pregno di Dio» 19. Questa è, a nostro avviso, una delle più importanti affermazioni di Angela: il mondo è talmente investito dalla potenza di Dio da essere gravido di Lui, da avere in sé il seme divino, per generare creature di cui Dio è Padre. Nel mondo, d’altra parte, attraverso le creature si svela la potenza divina creatrice che conduce al Creatore. Dio si mostra come l’Onnipotente Creatore che fa essere tutte le cose. Nella sua potenza, Egli eccede tutto ciò che esiste: è di una maestà e di un’altezza inenarrabili. In realtà, ovunque si guardi, se si vede con gli occhi dell’anima, non si può vedere altro che Lui. Angela, a un tempo, percepisce tutto il creato e, soprattutto, l’infinita capacità e potenza creativa del Creatore. Passiamo così alla seconda parte della locuzione divina, caratterizzata da un’ulteriore visione: quella dell’umiltà di Dio. «E disse: Vedi l’umiltà. E vedevo tanta profonda umiltà di Dio verso gli uomini, che l’anima comprendendo la potenza inenarIl trinomio potenza, sapienza, benevolenza-bontà del Creatore secondo san Bonaventura è rinvenibile nel creato, cf. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario, I, 10-14. Secondo il Dottore Serafico, inoltre, il Dio Trino è presente in tutte le cose grazie a potenza, presenza ed essenza, in ibid., I, 14. 19 Una frase che rimanda a questa è presente in un’altra esperienza di Angela, nella quale lei viene intrattenuta dalla presenza del Figlio di Dio, che dichiara: «È vero che tutto il mondo è pieno di me», quindi, la beata: «E allora vedevo che ogni creatura era piena di lui», in Mem., IV, 48-49. In seguito avremo modo di soffermarci sulle due frasi. 18

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rabile e vedendo tanta profonda umiltà, si meravigliò e si reputò assolutamente nulla, e quasi nulla vedeva in sé se non superbia» 20. Ad Angela appare l’altra fondamentale caratteristica del Dio ebraico-cristiano, quell’umiltà che lo fa chinare sui suoi figli. L’immagine biblica veterotestamentaria è confermata e oltrepassata dall’immagine cristiana di Dio, il quale, nel mistero della redenzione, annichilì la propria potenza nell’umanità del Figlio. La profonda umiltà di Dio, che fa meravigliare Angela e la fa reputare se stessa nulla se non superbia, è pari solo all’inenarrabile potenza divina. Infatti, solo una potenza infinita può essere capace di annullarsi in una umiltà che fa apparire superbo il nulla dell’anima umana. A questo punto Angela non vuole più comunicarsi: si sente assolutamente indegna. Dio, però, le va in soccorso, affermando che nessuna creatura potrebbe essere arrivata a vedere tanto, se non con l’aiuto della grazia divina. Poi, al momento dell’elevazione del Corpo di Cristo, un’altra locuzione alla quale qui solamente accenniamo: «E quando giunse il momento dell’elevazione del Corpo di Cristo, disse: Ecco la potenza di Dio come è sopra l’altare. E sono dentro in te, e se tu non mi ricevi, tu già mi ricevesti. E comunicati con la benedizione di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo. Io che sono degno rendo te degna» 21. Accade, in questo evento, quanto misticamente aveva visto Angela. La potenza di Dio, che abbraccia e riempie tutto, è contemporaneamente presente sull’altare e in Angela al punto che, se lei non andasse a ricevere l’Eucaristia, Egli sarebbe comunque in lei. Notiamo anche l’umiltà – di sapore francescano 22 – della potenza divina presente sotto le specie del pane, tra le mani di una sua creatura e a disposizione di tutti. Un’ulteriore conferma dell’azione umile della potenza divina in riferimento ai peccatori, è data dalla frase in cui Dio, Mem., VI, 70-73. Mem., VI, 79-81. In questo brano seguiamo il codice A che si discosta leggermente dall’Edizione critica. 22 San Francesco afferma che il Signore ogni giorno si umilia scendendo dal Padre e venendo a noi nell’Eucaristia, come fece quando scese dalla propria sede regale al seno della Vergine, cf. Ammonizioni, I, 16-18. 20 21

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unico degno, rende degna Angela: il Creatore elegge le sue creature a interlocutrici. Proprio in relazione all’umile bontà di Dio, alla sua azione salvifica avvenuta attraverso la kenosi di sé, nel quarto passo supplementare, Angela ha una visione che riguarda contemporaneamente volontà e potenza 23. Questa visione nasce come risposta ad alcune questioni poste ad Angela da Frater A., con l’impegno per lei di pregare Dio affinché potesse risponderle. Gli interrogativi sono questi: perché Dio ci ha creati e ha permesso il nostro peccato? Poteva crearci in modo che gli piacessimo, invece di dover affrontare la passione per farci ritrovare le virtù perse? Dio stesso spinge Angela, titubante, ad affrontare la questione riguardante la nostra salvezza. Ella capisce che si tratta del modo migliore per manifestare a noi la Sua bontà, tuttavia, non è convinta a pieno da quelle affermazioni, perché sa che Dio avrebbe potuto salvarci in qualsiasi altro modo 24. A questo punto l’anima di Angela viene elevata in una tenebra e successivamente illuminata con una visione: «Subito l’anima fu levata e illuminata, e vedevo la potenza inenarrabile di Dio e vedevo la volontà di Dio, nelle quali capivo pienamente e certissimamente tutto ciò di cui avevo chiesto. […] Ero in tanta pienezza dello splendore divino, che con la massima letizia capivo in quella potenza e volontà di Dio non solo ciò che avevo chiesto, ma capivo ed ero pienamente soddisfatta riguardo Angela già in precedenza, in Mem., VI, 7-18, riceve una locuzione dalla potenza di Dio – «Io, che ti parlo, sono la divina potenza» – che le concede una grazia particolare: tutti coloro che la conosceranno o anche semplicemente che sentiranno parlare di lei o la penseranno, avranno dei benefici. Angela teme questa grazia perché ha paura di cadere in superbia. Interessante la risposta divina: «Tu non hai da farci alcunché, perché non è qualcosa di tuo, ma ne sei solo custode. Conservalo bene, e restituiscilo a colui di cui è». Bernard sottolinea come non sia abituale che Dio si identifichi con uno dei suoi attributi, in questo caso la potenza, cf. C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 133. 24 Cf. Mem., VI, 277-297. Sulla convenienza dell’incarnazione e se ciò fosse necessario per la redenzione, si è interrogato anche san Tommaso d’Aquino. Nella Summa Theologiae giunge a risposte non lontane da quelle di Angela, salvo che per il linguaggio teologico, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 1, artt. 1-2, cura e studio di P. CARAMELLO, Marietti, Roma 1952-1956. Sulla necessità della passione, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 46, artt. 1-3. 23

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a tutte le creature. Ed ero soddisfatta riguardo ai salvati, a coloro che si sarebbero salvati e a coloro che si sarebbero dannati, ai demoni e a tutti i santi. Tuttavia questo non posso esprimerlo assolutamente con alcuna parola, perché sono assolutamente al di sopra della nostra natura. Sebbene capissi pienamente che Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto fare diversamente, tuttavia non potevo capire come avrebbe dovuto fare per farci conoscere meglio la sua potenza e la sua bontà» 25. Il piano divino di salvezza approntato eternamente da Dio ha come riferimento privilegiato le sue creature. In questo brano l’umiltà è velata dalla potenza inenarrabile e dalla conoscenza onnicomprensiva, che viene donata ad Angela. Tale umiltà, tuttavia, per la volontà divina, guida la potenza in ogni istante della sua azione, anche là dove questo appare – dalla parte dell’uomo – troppo poco divino. Il Padre, però, nel suo disegno di salvezza ha voluto semplicemente mostrare se stesso: Egli è potente e umile. Perciò, la volontà divina, coerentemente con l’essere di Dio, non può non agire, a un tempo, in maniera potente e umile. Anche Angela, che in quei momenti vede il disegno divino dalla parte del Padre, perché le è dato di conoscere tutto il piano della salvezza, non sa trovare modo migliore con cui Dio possa mostrare la propria potenza e la propria bontà 26, al punto da essere paragonato, subito dopo, a una madre che imbocca i propri figli. 1.2.3. Il senso del Dio infinito: la pienezza e la bellezza divine Un’ulteriore caratteristica divina che Angela sottolinea è la pienezza di Dio 27. Abbiamo già incontrato questa attribuzione in riferiMem., VI, 301-304.309-317. Nel Padre, infinitamente potente e maestoso, bontà e umiltà sono due facce della stessa medaglia, al punto che una non esisterebbe senza l’altra. L’umiltà del Padre che si china sui propri figli è l’espressione della sua bontà; d’altra parte la bontà della divina maestà senza umiltà sarebbe, quantomeno, paternalismo, se non autoritarismo. 27 Sin dagli inizi del suo cammino più propriamente mistico, ossia dal pellegrinaggio ad Assisi, Angela utilizza il concetto di pienezza per illustrare le sue visioni della divinità. Nella Basilica di San Francesco, in riferimento alla dipartita da lei dello Spirito Santo Angela, alla richiesta posta da Frate A. su cosa vide, afferma: «Vidi una cosa piena, una maestà immensa di cui non so dire, ma mi sembrava che fosse ogni 25 26

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mento alla sapienza e alla potenza divine, ma qui vogliamo tentare qualche altra considerazione a riguardo. Angela ha una visione di Dio e nel tentativo di spiegarla identifica Dio come una pienezza – «unam plenitudinem» – e uno splendore – «unam claritatem» – e successivamente come la «bellezza» 28 e «ogni bene»: «E come io, frate scrittore, chiedevo in che modo o cosa vedesse e se vedeva una realtà corporale, ella rispondeva dicendo così: Vedevo una pienezza, uno splendore, di cui mi sentivo tanto colmata che non so dirne e darne assolutamente alcuna similitudine. E non so dirti se avessi visto qualcosa di corporale, ma era come è in cielo, cioè talmente tanta bellezza che non so dirti altro se non che era bellezza e ogni bene. E tutti i santi stando davanti a quella maestà lo lodavano, ma in questo mi sembra ci stetti poco» 29. Subito dopo aver illustrato a Frate A. questa visione, Angela afferma che Cristo le ha parlato, dicendo che tutti i santi e sua Madre la amano in modo speciale e che vuole associarla a sé. L’oggetto della visione diviene, dunque, il Cristo glorioso con le schiere di angeli e santi in contemplazione. Difficile dire se questa visione sia da riferire solo al Figlio di Dio, dal momento che è Lui a parlare con la beata e a volerla associare a sé con santi, o se sia da riferire all’intera divinità. Propendiamo per la seconda ipotesi: è vero che la visione rimanda alla contemplazione della gloria di Cristo tra i santi, tuttavia, nel tentativo di narrare ciò che vede all’inizio, Angela non sa trovare assolutamente alcuna similitudine adeguata per rappresentarlo. Ci pare, quindi, che sia solo in un secondo momento della spiegazione, come se fosse scesa da quelle altezze, che la beata utilizza delle immagini tratte dall’iconografia. bene», in Mem., III, 105-106. Bonaventura parlando delle creature le indica come vestigia e immagini che permettono di intuire Dio quale «primo principio potentissimo, sapientissimo e ottimo… eterna origine, luce e pienezza», in BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario, II, 11. 28 San Francesco viene indicato come colui che, attraverso la bellezza del creato, contempla il Bellissimo, cf. Leggenda Maggiore, IX, 1. Inoltre, Agostino riserva delle pagine proprio al tema della bellezza affermando che Dio è la «bellezza di ogni bellezza», in AGOSTINO DI IPPONA, Le Confessioni, III, 4, 10 e che grandezza e bellezza in Dio sono Lui stesso (cf. ibid., IV, 16, 29). 29 Mem., IV, 124-132.

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A conferma di questa ipotesi, riportiamo un altro testo parallelo a quello che abbiamo appena citato. In contesto eucaristico, la beata ha una visione che sembra molto simile a quella già indicata: «Prima di comunicarmi e quando venni per comunicarmi, mi fu detto: Amata, ogni bene è in te, e ogni bene vai a ricevere. Allora, come mi sembrò, vedevo Dio onnipotente. E io frate scrittore chiesi se vedeva qualcosa secondo qualche forma. Mi rispose dicendo: Non lo vedevo sotto alcuna forma. E a me frate che indagavo ancora con sollecitudine, rispose dicendo: Vedevo una pienezza, una bellezza, in cui si vedeva ogni bene» 30. La visione informe o, meglio, secondo una forma spirituale che corrisponde all’assenza di forma corporea 31 e la sottolineatura della visione di una pienezza divina, ci rimandano alla considerazione dell’infinitezza di Dio. Il termine «infinito» riferito esplicitamente a Dio compare una sola volta nel Memoriale 32. Tuttavia, possiamo notare come il termine «pienezza», legato agli attributi divini – sapienza e potenza – e con queste particolari visioni spirituali, sembra sostituire proprio il concetto dell’infinità divina. Nelle parole di Angela, quindi, le idee d’immensità di Dio, di altezza e grandezza – si pensi alla maestà –, d’infinitezza – a proposito della sapienza, della potenza, ma anche dell’essere di Dio –, vengono rese attraverso il concetto della pienezza. Anzi, estendendo quanto afferma Bernard sulla pienezza in riferimento alla potenza divina, Angela «percepisce non la pienitudine divina ma una pienitudine di Dio» 33, ogni volta in relazione alla contemplazione di qualche particolare aspetto della Trinità. In queste esperienze, in ogni occasione in cui ad Angela è dato di soffermarsi sugli attributi di Dio, non può fare a meno di notare come essi siano esattamente compiuti, vale a dire perfetti. La perfezione imperfettibile, perché infinitamente perfetta, di Dio in ogni sua sfaccetMem., VII, 220-227. Angela stessa, sempre nel quinto passo supplementare, indicando i modi con cui Dio viene nell’anima, racconta della visione di «una pienezza» di cui non sa dire nulla, perché aveva visto «una pienezza spirituale, non corporale», cf. Mem., VII, 326-334. 32 Mem., IX, 454; in questa riga compare anche il termine «immenso», unico caso in cui questo termine viene riferito in maniera esplicita a Dio e non è legato a qualche suo attributo. 33 C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 134. 30 31

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tatura pare, quindi, soggiacere all’idea di pienezza divina. Da qualsiasi parte Angela guardi Dio, lì vede una pienezza. L’infinito divino si caratterizza per la perfezione imperfettibile, per la piena compiutezza, in ogni suo aspetto. Come a dire che Angela in questo momento ha la possibilità di vedere il Dio infinito attraverso la contemplazione degli infiniti – delle pienezze – che lo caratterizzano: infinita sapienza, infinita potenza, infinita umiltà, infinita bontà, infinita realtà-essenza 34. Dio Padre è tutto questo: è l’infinito e immenso Dio Creatore 35. All’idea della pienezza divina ci pare possa essere collegata l’idea della bellezza di Dio. Abbiamo già visto nei testi sopra citati come i due temi compaiano spesso l’uno a fianco dell’altro. La bellezza della divinità è inizialmente scoperta da Angela in relazione alla contemplazione di Cristo crocifisso. Un testo molto significativo ci indica come ella, attraverso l’umanità sofferente di Gesù, riesca a intuire la bellezza che proviene da Dio e a stare alla sua presenza. «Era tanta la bellezza di quella gola, che capivo che quella bellezza veniva dalla divinità, cosicché attraverso quella bellezza mi sembrava di vedere la sua divinità e mi sembrava di stare davanti a Dio» 36. Successivamente, se si eccettuano solo pochissimi casi, l’idea della bellezza divina è sempre legata all’esperienza della pienezza di Dio. Questo ci porta a pensare che sia proprio il mistero dell’infinito Dio, della sua perfezione, a far sobbalzare Angela e a farle affermare a Frate A.: «non so dirti altro se non che era bellezza e ogni bene». In queAnche alle soglie della visione tenebrosa, quando Angela non trova più nell’essere di Dio l’amore come lo può umanamente intendere, sottolinea la pienezza divina: «Una volta l’anima fu elevata e vedevo Dio in tanto splendore e in tanta pienezza, che così tanto non avevo mai visto né in quel modo pienissimo. Non vedevo lì amore, e allora persi quell’amore che portavo e divenni non amore», in Mem., IX, 7-10. 35 Cf. Mem., IX, 454. 36 Mem., III, 222-225. In riferimento alla bellezza divina, oltre ai testi già citati in cui compare anche la pienezza di Dio, notiamo solo pochi altri brani: l’esperienza della bellezza divina come appena vista nella gola di Cristo e in relazione all’Eucaristia, viene ribadita anche poco dopo in Mem., III, 236-245. La beata, inoltre, vede una bellezza straordinaria di due occhi – forse di Cristo – nell’ostia e successivamente nella sua cella, cf. Mem., III, 246-252. Infine, ancora in contesto eucaristico, ha la visione della bellezza inestimabile di Gesù dodicenne, cf. Mem., III, 261-266. 34

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sto caso «Bellezza» e «Ogni bene» diventano altri nomi divini. Dio è la bellezza. Ogni cosa pensabile in quanto fisica, limitata e perfettibile, è partecipe della bellezza, ma Dio, in quanto spirituale pienezza compiuta e imperfettibile, è la bellezza stessa. Egli non può essere assolutamente migliorato e questo si rivela anche dal punto di vista estetico. La bellezza che è Dio, è la compiutezza divina. La pienezza e la bellezza divine sono due facce della stessa medaglia: l’infinita perfezione dell’essenza di Dio. Potremmo affermare, dal punto di vista dell’essere di Dio, che il Padre è Pienezza, Compiutezza, Perfezione e, quindi, Bellezza. In questo stadio del suo cammino spirituale 37, il concetto di bellezza – legato per la verità anche a quello di «ogni bene» – sembra esprimere per Angela il massimo che si possa dire di Dio. 1.3. Dio come Ogni Bene e Amore Le intuizioni su Dio nate dalle esperienze legate ad attributi – sapienza, potenza, umiltà, pienezza e bellezza –, continuano sino a permetterle la contemplazione dell’Essere divino in sé. È la scoperta di Dio come «Ogni bene» 38 e «Amore» il traguardo più elevato che Angela raggiunge, nell’ambito di ciò che si può affermare di Dio. Sin dagli inizi della sua avventura mistica, nella Basilica di San Francesco in Assisi, al momento della dipartita dello Spirito Santo da lei, compaiono assieme sia i termini «omne bonum» che «Amor». La prima espressione è il tentativo della beata di riferire cosa intuisce nella visione di Dio; la seconda è il nome con cui Angela si rivolge gridando disperata alla Terza Persona della Trinità: «Vidi una cosa piena, una maestà immensa di cui non so dire, ma mi sembrava che fosse ogni bene» 39.

La terminologia della bellezza divina inizia al primo passo supplementare per giungere sino alle soglie della visione tenebrosa di Dio, poi il termine scompare. 38 A proposito di Dio come «ogni bene» in Angela da Foligno, cf. R. FUSCO, Dio «omne bonum» nel «Liber» di Angela da Foligno, in «Studi Francescani» 100 (2003), 59-90. L’Autore oltre a proporre un’indagine sui significati spirituali del lemma, ne individua la presenza anche in altri autori spirituali precedenti e successivi ad Angela. 39 Mem., III, 105-106. 37

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«Allora, una volta partito, cominciai a strepitare ad alta voce, e senza alcuna vergogna urlavo strepitando e dicevo queste parole: Amore sconosciuto, e perché mi lasci? Ma non potevo o non dicevo di più se non le parole già dette che urlavo senza vergogna: Amore sconosciuto, e perché, perché, perché?» 40. Appare evidente sin da questi primi testi che l’idea di Dio come «omne bonum» e come «Amor» vadano colte assieme. Tuttavia, per maggior chiarezza, ci dovremo necessariamente soffermare su un’espressione alla volta. 1.3.1. Dio «omne bonum» Iniziando con il lemma «ogni bene» 41 notiamo che, quando è riferito a Dio, appaiono almeno tre possibili significati. L’espressione può indicare, anzitutto, i beni stessi – e la loro infinita abbondanza – esistenti presso Dio; in secondo luogo, il tentativo angelano di esprimere la realtà divina in favore delle sue creature, così come la si percepisce umanamente – anche se ciò è pur sempre in relazione all’essere divino –; infine, il nome stesso di Dio, il suo stesso essere e non solamente una sua caratteristica in favore delle creature. In riferimento al primo significato, indichiamo il brano già citato a proposito della visione della mensa della divina sapienza: «Fui posta lì non per vedere quella mensa, ma quello che c’era sopra. E vedevo una pienezza inenarrabile, della quale nulla posso dire se non che vedevo ogni bene» 42. In questo caso «ogni bene» non è un’attribuzione da riferire direttamente a Dio, bensì la constatazione dell’eccezionale presenza di cose buone presso di Lui. Mem., III, 109-113. A proposito di questo lemma, il rimando più immediato ci sembra essere san Francesco. Anzitutto, per il santo tutti i beni sono di Dio, perché tutti procedono da Lui, cf. Regola non bollata, XVII, 17. Inoltre, Francesco utilizza lo stesso lemma come attribuzione riferita a Dio, infatti, Egli è «il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene, che solo è buono», in Regola non bollata, XXIII, 70. Simili espressioni si possono ritrovare nelle Lodi di Dio altissimo, 3, e nelle Lodi per ogni ora, 10. 42 Mem., V, 255-258. 40 41

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In riferimento al secondo significato, proponiamo il brano seguente: «Vedevo in me due parti, come se fosse stata fatta una strada. Da una parte vedevo tutto amore e ogni bene che era da Dio e non da me; e nell’altra parte vedevo me secca e che da me non c’era alcun bene. E per questo vedevo che non ero io che amavo, benché fossi tutta nell’amore, ma quello veniva tutto da Dio» 43. In questo brano l’espressione non ci sembra riguardare i beni che esistono presso Dio, ma nemmeno, in primo luogo, lo stesso essere divino. Ci sembra che «ogni bene» sia ciò che Angela vede provenire da Dio, non come qualcosa che gli appartiene in modo distinto da sé – come i suoi beni –, ma come qualcosa che gli appartiene e lo caratterizza intimamente – come il suo amore. È da Dio, da come Egli è e da ciò che è, che irradiano amore e ogni bene. Sempre in relazione a questo significato di «omne bonum», è interessante riferirci a un altro brano della mistica di Foligno, da lei stessa utilizzato per chiarire una sua visione a Frate A., il quale le chiese come facesse a capire che Dio è «ogni bene». «Io frate scrittore le feci una domanda e lei mi rispose così: In questo puoi capire che era ogni bene, perché ero chiamata a vedere i santi che stavano davanti a quella maestà, e mi fu detto di guardare anche gli angeli che mi sembravano stare sopra i santi. Ma, poiché vedevo che ogni bene dei santi e degli angeli era da lui e in lui e poiché egli stesso era il Sommo Bene, mi dilettavo solamente in lui e non mi curavo né potevo farlo di guardare santi e angeli» 44. In questo caso è detto esplicitamente che ogni bene che appartiene alle creature – «ogni bene dei santi e degli angeli» –, è derivante dall’unico «Sommo Bene», che è Dio stesso, a cui appartiene e da cui

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Mem., VII, 149-154. Mem., IV, 140-147.

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nasce ogni bene – «era da lui e in lui» –. L’«omne bonum», quindi, viene sperimentato da Angela come il bene che è Dio per le sue creature, l’essere di Dio per noi 45. Questo ci permette di passare al terzo significato che abbiamo indicato, ossia quello riguardante l’essere di Dio in sé, un essere che è stato indicato, unica volta nel Memoriale, anche come «Summum Bonum» 46. Proponiamo il brano, che abbiamo già incontrato parlando della pienezza e della bellezza divine: «Prima di comunicarmi e quando venni per comunicarmi, mi fu detto: Amata, ogni bene è in te, e ogni bene vai a ricevere» 47. Se la nostra interpretazione è corretta, in questo caso è Dio che riferisce a sé la definizione di «Ogni Bene». Non si tratta più del bene che è Dio, colto in riferimento alle creature o definito per i favori nei confronti della beata. Si tratta, invece, della definizione dell’essere stesso della Trinità. Subito dopo ella utilizzerà lo stesso termine per indicare ciò che le è dato di contemplare: «Allora, come mi sembrò, vedevo Dio onnipotente… Vedevo una pienezza, una bellezza, in cui si vedeva ogni bene » 48. Queste affermazioni devono essere poste in parallelo con quelle altrettanto – e forse più – significative, che compaiono in precedenza al secondo passo supplementare:

Lo stesso Bene è definito spesso «inenarrabile bene», ad es. in Mem., VII, 200. In Mem., IX, 381-397, Angela afferma che per nessun altro bene esistito ed esistente, spirituale e corporale, lascerebbe quell’«inenarrabile bene» anche solo per un batter d’occhio, perché esso sorpassa all’infinito ogni altro bene. Questo «inenarrabile bene» che lei sperimenta, è il bene di cui godono i beati nella vita eterna, anche se il minore di loro ne sperimenta molto di più che un’anima ancora nella vita terrena, cf. Mem., IX, 473-482. 46 L’unico caso nel Memoriale in cui compare il lemma «Summum Bonum» è nel brano appena citato. 47 Mem., VII, 220-222. 48 Mem., VII, 222-227. 45

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«E vedevo Dio… E non so dirti se avessi visto qualcosa di corporale, ma era come è in cielo, cioè talmente tanta bellezza che non so dirti altro se non che era bellezza e ogni bene» 49. Dio, in questo caso, è l’«ogni bene» e la «bellezza» – da intendere come il bene dal punto di vista estetico. Le intuizioni di Angela su Dio come infinito bene e origine di ogni bene esistente, proseguono sino alla visione tenebrosa della Trinità, passando anche per il sesto passo supplementare, in cui sperimenta la privazione di Dio, dell’«ogni bene». Potremmo, infatti, affermare che la maggiore pena vissuta dalla beata in questo passo, è dovuta sostanzialmente all’impossibilità della relazione con l’«omne bonum»: «E allora, così, ogni bene mi è stato chiuso e nascosto. Io divento tutta ira, tutta tristezza, tutta amarissima e gonfia e colma di pene più che si possa dire» 50. Nell’esperienza della tenebra divina, al cospetto del Dio trino, Angela afferma che il bene visto è superiore a quanto una persona possa pensare o capire. Anzi, è proprio l’infinita eccedenza del bene che le “offusca” la visione facendola diventare tenebrosa: «Una volta l’anima fu elevata e vedevo Dio… E dopo, dopo questo, lo vidi in una tenebra, e dico in tenebra perché è il maggior bene che si possa pensare e capire; e tutto ciò che si può pensare e capire non lo tocca o gli si avvicina. Allora fu data all’anima una fede certissima, una speranza sicura e fermissima, una sicurezza di Dio continua che mi tolse ogni timore. E in quel bene che si vede nella tenebra mi raccolsi tutta, e divenni così sicura di Dio, che mai potrei dubitare di lui e di non avere Dio in modo certissimo. E in quel bene così efficacissimo che si vede nella tenebra la mia speranza fermissima è tutta raccolta e sicura» 51. Mem., IV, 124-132. Mem., VIII, 164-166. 51 Mem., IX, 11-18. In riferimento al linguaggio dell’«omne bonum» e della «tenebra», è interessante notare come, cercando di dare delle spiegazioni a Frate A., Angela usi questi termini anche con significati diversi da quelli teologici già visti. Così, 49 50

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In questo caso, l’impossibilità di cogliere il bene che è Dio, ci fa intuire come il dato sperimentato dalla beata sia primariamente da riferire all’essere di Dio in se stesso, e non solo come una caratteristica del divino pro nobis, cosa che si evince in seguito con la sottolineatura «così efficacissimo». Proprio in questo essere lei si raccoglie totalmente, ricevendo in dono la massima conoscenza possibile su Dio nella vita terrena e, quindi, ancora sotto la forma della fede e della speranza 52. Qualche riga dopo, la mistica di Foligno indica come nell’«ogni bene» le sia dato di conoscere e di avere tutto. Sono due doni che rimandano agli attributi divini della sapienza e della potenza: «L’anima fu elevata, ed ero in tanta letizia che è assolutamente inenarrabile… In quella elevazione ciò che volevo sapere, sapevo tutto, ciò che volevo avere, avevo tutto. E vedevo ogni bene» 53. Successivamente, per indicare l’infinita eccedenza dell’«omne bonum» su ogni cosa che ha riferito finora, la beata affermerà: «E quello che in precedenza raccontai – […] – disse la fedele di Cristo, è meno di quel bene segretissimo, perché quel bene che vedo con tanta tenebra è il tutto, quelle altre cose non sono che sua parte» 54. Abbiamo estratto dal brano l’inciso esplicativo di Frater A., omesso in precedenza, per porlo al centro della nostra attenzione. Cosa aveva fino ad allora riferito Angela? Così ci risponde il frater scriptor nell’inciso: una diversa accezione del lemma «ogni bene» – nonché del concetto di tenebra – si può trovare poco dopo in Mem., IX, 39-43. In questo brano «omne bonum» indica qualsiasi bene che non sia il Bene stesso, Dio. Anche il termine «tenebra» ha più di un significato: dalla percezione oscura del bene divino perché superiore alle facoltà umane, a ogni altra cosa che è nulla-buio rispetto allo splendore del Bene. 52 «La menzione delle virtù teologali di fede e speranza è importante: essa indica in modo irrefutabile che la visione non fa uscire dalla condizione di viatori. Inoltre, unendo la fede e la speranza, Angela pensa soprattutto all’attesa del possesso. In questo senso, la fede è la sostanza delle cose che si sperano (Eb 11, 1) e il Bene nella tenebra costituisce tale sostanza», in C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 156. 53 Mem., IX, 28-31. 54 Mem., IX, 39-49.

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«vale a dire quello che disse quando l’anima, vedendo ogni cosa creata, vide Dio riempire tutto, e anche quello che disse quando l’anima vide la divina potenza, e anche quello che disse quando l’anima vide la divina sapienza, e anche quello che disse quando vide la divina volontà» 55. Quanto Angela aveva affermato in riferimento alla divina sapienza, alla potenza e alla volontà divine, alla creazione colma della presenza di Dio, è poco rispetto al «bene» visto «con tanta tenebra». Riflettendo sui testi di Angela, si potrebbe dire che il tutto di Dio sia il Bene, che questo sia l’essere di Dio colto in se stesso. A tal proposito, ponendo in relazione l’essere divino con gli attributi visti in precedenza, emerge che Dio è il Bene sapiente, potente e umile, volente e libero. Egli, quindi, è il Bene sussistente e personale. Gli attributi divini, dal momento che attengono alla natura divina 56, sembrano rimandare a un elemento fondamentale dell’essere di Dio: la personalità. La beata indica anche dove è possibile sentire il Bene. È nella «camera» interiore dell’anima che Angela sperimenta quell’«omne bonum» che è così tanto “bene” da non essere nessun altro bene 57. 1.3.2. Dio «Amor» Passiamo ora all’altro termine usato da Angela per indicare Dio: Amore 58. Abbiamo già visto all’inizio del capitolo alcuni luoghi significativi nei quali Dio viene chiamato così. Proponiamo qui altri brani. Ibid. Sant’Agostino nel De Trinitate sottolinea come gli attributi in Dio siano identici alla natura, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, XV, 5, 7. In Angela, osserviamo che Dio non è Sapienza come è Bellezza, oppure Potenza e Umiltà come è Ogni Bene. Sapienza, potenza e umiltà sono di Dio, mentre «omne bonum» è Dio. 57 Cf. Mem., IX, 398-403. A proposito del luogo in cui si manifesta Dio, per quanto riguarda alcuni predecessori di Angela, Lachance nota come «Gregorio di Nissa lo chiamò il cuore, la coscienza, le profondità della mente; Bernardo di Chiaravalle, un cubicolo; Bonaventura, la sommità della mente o scintilla della coscienza», in P. LACHANCE, Il percorso spirituale di Angela da Foligno, cit., 192. 58 Anche Francesco d’Assisi utilizza questo nome riferito a Dio, sebbene più frequentemente lo definisca carità. Cf., ad esempio, Lodi di Dio altissimo, 4; Regola non bollata, XVII, 5 e XXII, 26. Sant’Agostino, sulla linea giovannea, afferma che la carità è la sostanza divina, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, VI, 5, 7. 55 56

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Anzitutto, in riferimento a quanto appena indicato a proposito del «tutto» di Dio come bene, troviamo qualcosa di analogo in riferimento all’amore. Angela afferma che Dio è l’amore dell’anima e in Lui – Angela in questo caso si riferisce esplicitamente al Figlio – non c’è altro che amore: «E dopo spiegando quell’altra parola, cioè che Dio è l’amore dell’anima, disse così: Che Dio ami l’anima e che sia l’amore dell’anima, egli stesso me l’ha mostrato chiaramente attraverso la sua venuta e la sua croce, nonostante fosse così grande. E mi spiegava tutto, vale a dire il suo avvento e la passione della croce e come fosse così grande. E con viva ragione lo mostrava, dicendo poi: Vedi se in me c’è qualcosa che non sia amore… E alla fine io vedevo e l’anima comprendeva che in lui non c’era che amore» 59. Nella «camera» interiore in cui la beata è posta alla presenza dell’«ogni bene», ella sente l’amore di Dio e, inoltre, propone la definizione di Dio come «amore dell’anima». L’«omne bonum» di cui abbiamo parlato altro non è se non «amor», un amore che è, a un tempo, l’amore con cui Dio ama l’anima e l’amore con cui l’anima ama Dio 60. L’«ogni bene», che è il «tutto» di Dio, viene identificato con la pienezza dell’amore. Infatti, in Cristo, e quindi nel Padre come origine del Figlio e della sua azione, Angela non trova altro che amore. In rapporto alla pienezza – all’infinitezza – dell’amore, risulta molto interessante un brano nel quale Angela vede l’amore stesso a «somiglianza di una falce». L’occasione è particolare: ella è arida di «ogni bene», perciò prega Dio di darle un po’ di se stesso. Egli la investe con l’«amore»-«ogni bene». «Una volta in Quaresima, così diceva la fedele di Cristo, le sembrava di essere molto secca, e pregava Dio che le desse un po’ di sé, dal momento che era arida secca di ogni bene. E allora le furono aperti gli occhi dell’anima e vedeva l’amore che veniva piano verso di lei, e vedeva il capo e non vedeva la fine, ma un continuo, ma non Mem., IV, 188-196. Cf. il brano citato sopra che appare in Mem., VII, 149-154, nel quale Angela indica come si veda divisa in due parti: una «secca» e l’altra «tutta amore e ogni bene», e come l’amore con cui l’anima ama Dio non sia nient’altro che l’amore stesso di Dio. 59 60

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sa darne una similitudine di colore. In quel momento quando giunse a lei, le sembrò di vedere con gli occhi dell’anima aperti più di come si possa vedere con gli occhi del corpo, vide che le si era fatto vicino a somiglianza di una falce – qui la somiglianza non è da capire riferita a una cosa sensibile, ma fece come similitudine la falce – perché allora dapprima l’amore si ritirò senza comunicarsi quanto diede a capire e quanto lei lo capì, per cui la fece languire maggiormente, e quindi non è una similitudine misurabile o sensibile perché è nell’intelletto secondo l’operazione ineffabile della grazia divina. Allora dopo ciò subito fu riempita d’amore e sazietà inestimabile che, sebbene sia sazia, genera la massima fame, talmente inestimabile che tutte le membra si disgiungevano e l’anima languiva e desiderava la fine» 61. Notiamo subito come Angela non preghi per avere da Dio qualche grazia o dei favori particolari. Ella vuole Dio stesso, perché le manca la sua presenza, le manca «ogni bene». Dio, quindi, la investe di sé, la investe di amore infinito: amore senza inizio né fine, pieno, completo, inesauribile. Tutto questo si ripercuote su Angela in modo integrale: l’anima e il corpo sono colti dal colpo inferto dall’amore 62. Potrebbe essere proprio l’accento su questo colpo a portare Angela a paragonare la visione di Dio alla falce, ma potrebbe essere anche il risultato dell’azione del colpo inferto: la divisione in se stessa dell’anima. Il brano, infatti, concluderà con l’affermazione della beata di vedersi divisa in due parti, come se fosse separata da una strada. È la visione in cui ella vede da un lato la propria nullità e dall’altro la pienezza d’«amore» di Dio e «ogni bene» 63. Ciò che a noi preme sottolineare è, anzitutto, che la pienezza divina, percepita più volte in relazione all’essere di Dio, in questa visione ha un nome: amore. In secondo luogo, che la pienezza dell’amore divino è tale da investire l’anima e far vibrare il corpo della creatura, ritornando poi in Mem., VII, 115-131. Gli elementi che costituiscono la visione, secondo G. Pozzi sono: «apparizione improvvisa, durata brevissima, tocco terribile come di arma, lacerazione come provocherebbe una freccia strappata dalla carne, conoscenza più viva di Dio, appetito forte, impressione simultanea di dolore indicibile e dolcezza penetrante, certezza così grande che l’illusione è impossibile», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 148. 63 Cf. Mem., VII, 149-154. 61 62

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Dio stesso. Ponendo in relazione i vari brani sin qui visti a proposito dell’amore che è Dio, possiamo cogliere questo tipo di movimento: Dio è Amore che, uscendo da sé amando, investe la creatura con il proprio essere e la conduce attraverso di sé – cioè nell’Amore –, in se stesso. La risposta amante dell’anima all’amore di Dio, altro non è che lo stesso Amore che ritorna in sé amandosi. Amando la creatura Dio si espropria, divenendo amore dell’anima. Amandosi nella creatura Dio ritorna in sé, conducendo l’anima creata all’unione divina. Il percorso d’amore che ha condotto Dio a espropriarsi nella kenosi del Figlio incarnato, per condurre in Lui le creature alla figliolanza adottiva nella gloria divina, si ripete nell’offerta di sé di Dio Amore, che si “incarna” in ogni anima che accetta senza riserve di essere amata da Lui. Il momento estatico nell’esperienza mistica ha come protagonista assoluto Dio 64. È Dio che esce da sé essendo se stesso e conduce l’anima a una sorta di “en-stasi estatica”. Questo potrebbe essere il tentativo di definizione del percorso di massimo inabissamento e raccoglimento dell’anima in se stessa – nella «camera» interiore –, come percorso diretto da, verso e in Dio presente in essa. Il risultato di questa relazione di Dio Amore con l’anima, che si è vista divisa nel suo intimo, è la propria riunificazione in Dio. «Vedevo in me due parti, come se fosse stata fatta una strada. Da una parte vedevo tutto amore e ogni bene che era da Dio… e nell’altra parte vedevo me secca…

Giustamente G. Pozzi richiama l’«autofilia di Dio» quale «logica conseguenza dell’annichilimento dell’io agente, un pensiero presente ai mistici nella formula di Dio che ama se stesso», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 149. Pur essendo vero questo, occorre dire qualcosa di più. L’amore di Dio per se stesso, oltre che all’annichilimento dell’anima, va legato all’essere della creatura come esistenza pregna di Dio – dato ontologico – e, soprattutto, all’esodo di Dio Amore da sé nella creatura, tale da renderla capace di relazione con Lui – dato teologico, e conseguentemente soteriologico, che fonda quello ontologico –. L’atto unitivo come atto gratuito, conseguenza dell’autofilia divina, è il risultato del movimento “estatico” di Dio che ritorna in sé e non primariamente dell’annichilimento del mistico. In altre parole: l’annullamento dell’io agente, permette il movimento dell’autofilia divina perché così Dio ha voluto la creatura per poterla portare a sé; inoltre, l’annullamento del mistico avviene nella grazia dell’amore di Dio, che lo sostiene e glielo consente. 64

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E dopo questo le parti si riunirono e ne derivò un amore tanto maggiore e più ardente, molto più che prima e il mio desiderio era di andare verso questo amore» 65. A questo punto Angela tenta di dare ulteriori indicazioni sull’amore che vede e sente, nella relazione immediata con Dio. Tuttavia, quello che ci offre è un testo di difficile interpretazione. Lo proponiamo di seguito: «E fra questo predetto amore – che è così grande che a stento posso pensare che ci possa essere un amore maggiore, se non quando sopravviene quell’altro mortale – appunto tra questo primo amore e l’altro mortale e massimo ardore, ce n’è uno in mezzo del quale nulla posso raccontare, perché è di tanta profondità, di tanta letizia, di tanta gioia, che non ne posso raccontare. E allora non voglio sentire assolutamente nulla della passione, e allora non voglio che si nomini se non Dio, perché lo sento con tanto diletto che ogni altra cosa è un impedimento, perché è meno di lui; e nulla mi sembra quanto viene detto del Vangelo né di qualche rivelazione. Vedo cose maggiori» 66. Vengono indicati tre tipi di amore che Angela sperimenta. È possibile identificarli e metterli in relazione? Secondo gli Editori abbiamo un esempio dell’amore detto «mortale» al quinto passo supplementare, mentre Angela contempla, nella gloria, l’umanità crocifissa di Cristo non ne provò alcun dolore. Questa fu la reazione all’inesprimibile diletto: «La mia supermassima pena era che non stavo morendo e che non stavo raggiungendo subito quell’inenarrabile bene che vedevo; e questo modo di vedere durò continuamente senza interruzione per tre giorni… e giacevo e non parlavo e quando mi si nominava Dio non potevo sostenerlo» 67. Mem., VII, 149-155. Così giustamente gli Editori (nota 12 al presente testo): «L’immagine del solco, che Angela vede tracciato in sé, quasi dividendola in due parti… completa quella della falce: mostra il movimento dell’amore tra pienezza divina e vuoto umano; ma la meta è l’unione di queste due realtà, separate in una nuova e superiore readunatio». 66 Mem., VII, 157-166. 67 Mem., VII, 199-201; cf. nota 14 al presente testo. 65

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Tuttavia, secondo noi, anche l’amore indicato con la similitudine della falce ha le stesse caratteristiche: «E l’anima languiva e desiderava la fine, e voleva né sentire né vedere alcuna creatura. Non parlava e non sapeva cosa avrebbe potuto dire fuori; ma dentro l’anima parlava e implorava che non la si facesse venir meno con tanta morte, perché quella vita stimava morte» 68. Non possiamo, quindi, concordare con gli Editori quando affermano che il primo amore – «predetto» – è quello descritto con l’immagine della falce, dal momento che non ci sembra si distingua negli effetti da quello «mortale». Secondo noi il «predetto amore» è quello sperimentato al momento della riunificazione dell’anima in Dio, che si distingue, ed è maggiore, da quello indicato con l’immagine della falce, anche se i due sono legati da una certa successione. Dunque, il «predetto» amore a cui accenna, è quello che ella sente nel momento della riunificazione dell’anima in Dio, un sentimento talmente elevato da essere paragonato solo a «quell’altro mortale». Poi, quello «mortale» è l’amore che la conduce al desiderio della morte per arrivare al più presto al cospetto di Dio e che viene legato alla contemplazione della passione di Cristo, colta senza dolore. Infine, quello che compare tra i due appena descritti, viene indicato nel brano come inenarrabile, perché inenarrabili sono le visioni che Angela ottiene. Esse vanno oltre le parole del Vangelo, dei racconti e delle immagini sulla passione di Cristo. Se tentiamo di porli in relazione tra loro collocandoli nell’avanzamento del percorso mistico di Angela, potremmo dire che il “primo” tipo di amore che incontra è quello «mortale», legato alla contemplazione del Cristo crocifisso. Un amore di compassione che conduce Angela al desiderio di conformazione con il Cristo fino all’ultimo atto del martirio. È un amore profondamente connotato dal rapporto tra il Figlio di Dio e la sua fedele. Il “secondo” amore è quello da lei definito “intermedio”, un amore che va oltre ogni tentativo di rappresentazione e che potremmo definire di rilevanza cosmica, visto quanto afferma la beata dopo

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Mem., VII, 131-134.

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averlo sperimentato 69. È il rapporto d’amore con Dio, colto attraverso Cristo, nella sua portata universale e, quindi, in relazione a tutto il creato. Il “terzo” tipo di amore, o momento di relazione con l’Amore, è quello riunificante in Dio stesso. Siamo al momento più alto, sino a questo punto del cammino, della relazione con Dio Amore come sperimentata da Angela. La relazione con Dio in questo caso viene colta oltre ogni mediazione: a Tu per tu. Ci sembra possibile affermare che in questo stadio dell’amore riunificante, Angela gusti il massimo amore possibile prima dell’esperienza della tenebra divina. Sarà proprio al settimo passo supplementare, che la beata sentirà il bisogno di indicare con altri termini l’essere di Dio, sin qui additato come «ogni bene» e «amore». In un testo già incontrato – che è opportuno riproporre – Angela si esprime in questi termini: «Una volta l’anima fu elevata e vedevo Dio in tanto splendore e in tanta pienezza, che così tanto non avevo mai visto né in quel modo pienissimo. Non vedevo lì amore, e allora persi quell’amore che portavo e divenni non amore» 70. In precedenza abbiamo avuto modo di notare l’affermazione «non vedevo lì amore» 71, nelle visioni angelane che riguardano Dio. Una particolarità, tuttavia, emerge in questo testo: il fatto che lei sia divenuta «non amore». Siamo perciò davanti a un altro “modo” di 69 «Quando resto da quell’amore resto tanto contenta tanto angelica, che amo rettili e rospi e anche i diavoli; e qualunque azione vedessi compiere, anche un peccato mortale, non me ne dispiacerei… credendo che sia Dio a permetterlo. … Questo grado è maggiore che stare ai piedi della croce… e vedere e desiderare di vedere quella carne morta per noi e raggiungerla e essere nella grandissima letizia dell’amore, senza il dolore della passione», in Mem., VII, 167-176. Nel brano ci sembra si possa notare un passaggio nella contemplazione dell’azione di Cristo. Nella visione dell’umanità assunta da Gesù, Angela non rimane ferma al «per noi», ma è condotta alla rilevanza cosmica dell’evento pasquale. L’amore che ne consegue è su un piano diverso da quello sperimentato prima. Commodi sottolinea che «l’estensione dell’amore ai demoni e la mancata riprovazione del peccato mortale sono sicuramente di un’audacia quasi unica!», in B. COMMODI, Francesco d’Assisi e Angela da Foligno. “Tu sei la sola nata da me”, Ed. Porziuncola - Ed. Cenacolo beata Angela, Perugia 2001, 234-235. 70 Mem., IX, 7-10. 71 Mem., VI, 337.

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non vedere l’amore o, meglio, siamo davanti a un modo nuovo di vedere Dio. Subito dopo, infatti, la beata aggiunge: «E dopo, dopo questo, lo vidi in una tenebra, e dico in tenebra perché è il maggior bene che si possa pensare e capire» 72. Stanno cambiando le cose nel percorso mistico di Angela e questo è un punto di svolta. Se finora ella ha parlato di «ogni bene» e «amore», adesso il registro verbale sta variando. Dio è il «maggior bene che si possa pensare e capire», perciò non è possibile riscontrare in Lui qualcosa che possa essere effettivamente colto. L’idea di «ogni bene» e quella di «amore» sono concetti pur sempre pensabili, rappresentabili dalla nostra mente. Il rischio è quello di cogliere Dio riducendolo attraverso il pensiero umano. A nostro avviso viene rappresentato un momento eccezionale del rapporto tra Dio e la creatura. Egli si concede a tal punto alla creatura da renderla in grado di stare alla sua presenza e di coglierlo. Si tratta per la creatura di essere resa capax Dei, di essere commisurata a Dio. Se Dio è «ogni bene» e «amore inenarrabile» che si vuole donare all’anima, questa deve essere in grado di cogliere quanto le viene donato. Anche se Egli è tanto grande da non essere “rappresentabile” dalla parola umana, l’anima deve essere in grado di relazionarsi con Lui. Quindi, nell’essere divenuta «non amor», Angela non nega in primo luogo le facoltà umane, ma indica come per grazia, abbia “trasceso” la distanza posta dalla trascendenza divina 73. Riassumendo: non siamo davanti solamente alla negazione delle facoltà dell’anima posta al cospetto di Dio. Siamo davanti alla grazia divina che rende l’anima proporzionata a ricevere ciò che Dio le offre. In Dio non si vede l’amore, quindi l’anima diviene «non amore». Essa deve, infatti, cogliere il «non amore visto» – o l’«amore non visto» – in Dio. Arriviamo così a un ulteriore brano sul quale vogliamo soffermarci. Dopo aver affermato la non presenza dell’amore in Dio, Angela propone queste indicazioni: Mem., IX, 11-12. La trascendenza divina, indicata con l’immagine della tenebra, rimane presente per quanto riguarda le facoltà intellettive. Angela non riesce a parlare di Dio in maniera comprensibile, tuttavia, continua a sperimentarlo in maniera sempre più profonda. 72 73

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«Da un parte il mondo con le sue spine mi caccia… Dall’altra parte Dio mi attira a sé. Se dicessi che mi attira con dolcezza o con amore o con qualche cosa che si possa nominare o pensare o immaginare, sarebbe tutto falso, perché non mi attira con qualche cosa che possa essere nominata o pensata da qualcuno sapientissimo del mondo; e se dico che è ogni bene, lo distruggo. E in quella Trinità che vedo con tanta tenebra mi sembra di stare e giacere in mezzo. E quello mi attira più che qualsiasi cosa che ebbi in precedenza o qualsiasi bene che dissi in precedenza, e tanto più che nulla è comparabile; e qualunque cosa dica mi sembra di dire nulla o dire male» 74. Angela è attirata verso Dio come mai prima d’ora e il tentativo di dire qualcosa di quanto va sperimentando è, per sua stessa ammissione, deficitario. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda del brano precedente. Angela non può affermare di essere attratta da Dio con dolcezza o amore o qualsiasi altra cosa che possa essere verbalmente rappresentata. Addirittura afferma: «se dico che è ogni bene, lo distruggo». A questo punto della sua esperienza anche l’altro nome, oltre a quello di «amore», non può più essere utilizzato per indicare la realtà divina. Il rischio è di dire nulla o, peggio, di dire male. L’essere di Dio che Angela sperimenta non è paragonabile a qualcosa che abbia legami con la comprensione umana. Una sola cosa possiamo ritenere come punto fermo: l’esperienza fatta in questo momento, non può essere totalmente altra rispetto al cammino sin qui percorso. Angela, infatti, parla di questa esperienza proprio sulla base della conoscenza su Dio acquisita sino a questo momento. I suoi termini di paragone sono «dolcezza», «amore», «ogni bene», «qualsiasi cosa che ebbi in precedenza», «qualsiasi bene che dissi in precedenza». La strada percorsa nella conoscenza di Dio non viene rinnegata o cancellata, ma viene portata a un livello diverso, non più sostenibile dalla parola: «se dico che… sarebbe tutto falso» e «se dico che… lo distruggo». Il livello diverso è rappresentato dall’insistenza sulla novità di ciò che Angela sperimenta rispetto a prima: «E quello mi attira più che…» e ancora «tanto più che nulla è comparabile». Questo «più 74

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Mem., IX, 76-83.

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che», fa capire come Angela abbia fatto un enorme salto qualitativo nell’esperienza dell’essere di Dio, ma anche come – per questo salto – si sia appoggiata su quanto già aveva sperimentato. In altre parole Dio non è altro rispetto all’amore, ma è amore a tal punto che il pensiero umano non lo può comprendere e, se si tenta di dire che è amore – con la comprensione umana che si ha di questo concetto –, si dice una falsità. Quindi, è meglio dire che non è amore, almeno non si dice il falso perché nulla è predicato sul suo essere. La stessa cosa vale per «omne bonum»: Egli è così tanto «ogni bene» che se solo vien detto che è «ogni bene», diminuendolo alla portata del pensiero e della parola, lo si distrugge. Questa, dunque, è l’ultima frontiera oltrepassata da Angela da Foligno nella conoscenza di Dio Amore, Dio Ogni Bene. Una frontiera che non ci è dato cogliere a pieno dal momento che trascende la parola, il pensiero. Possiamo, tuttavia, osservando il percorso su cui Dio ha condotto la beata, tentare qualche considerazione conclusiva. Dio, il Padre, origine della divinità, è stato conosciuto da Angela attraverso le categorie della pienezza del bene e dell’amore. Dio è intuito come l’«Omne Bonum» non paragonabile ad altri beni, il «Summum Bonum» inenarrabile origine di ogni bene a cui le creature possono accedere. Dio è amore, nient’altro è presente nel suo essere. Il bene, infatti, afferma Angela, è il «tutto» di Dio. Un bene che è sapiente, volente, potente, umile e personale. Dio è il Bene e l’Amore in persona. Tuttavia, alla fine del percorso Angela si rende conto che Dio è talmente «amore» e «ogni bene» che non può essere definito tale dall’uomo. Egli è più dell’amore, più della pienezza del bene. A questo punto è evidente che le categorie usate sin qui – come del resto qualsiasi altra categoria, dal momento che è pensabile – non sono più adatte per dire l’essere divino. Quale essere è più bene della pienezza del bene, più bene di «ogni bene»? Come dire che è “più pieno del pieno” o “maggiore dell’infinito”? Forse solo ora Angela si trova davanti al bene definito «inenarrabile» in precedenza, ma di cui almeno aveva saputo e potuto dire che era la pienezza del bene. Più che dire «ogni bene» non può fare, perciò è costretta, dal tentativo di espressione, ad annientare la parola. Questo vale anche per l’amore: nessun amore è più dell’amore. Il fatto di non poter più dire di Dio che è amore, non indica che Dio, colto in 47

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se stesso al massimo grado, è l’assenza di amore. Indica che Dio è più che amore e che lo eccede a tal punto che questa categoria viene ad essere annientata. A nostro avviso non si deve affermare che l’essere di Dio in sé è assente di bontà e amore perché Dio è altro, è indefinito o è nulla. In questo modo verrebbe rinnegato quanto conosciuto in precedenza attraverso la grazia divina: Dio come amore e bontà personali. Invece, fatta salva la realtà divina di bontà e amore, siamo condotti all’idea che Dio non è pienezza e non è infinito: è più che pienezza ed è più che infinito. Dunque, Dio in sé non è indefinito: è bontà e amore; ma è indefinibile: perché più che pienezza e più che infinito. Egli è “Amore indefinibile”, da cui «non-amore», ed è “Bene indefinibile”, perciò nemmeno «ogni bene» 75. 1.4. Dio Creatore ed Essere di ogni essere 1.4.1. L’essere di Dio presente nella creazione Dopo aver indicato quali sono le acquisizioni angelane riguardanti l’essere di Dio, passiamo a osservare alcune affermazioni della beata a proposito di Dio inteso come Creatore ed Essere di ogni essere. Il termine Creatore è riscontrabile nel Memoriale solo in due occasioni. Esso compare la prima volta nel sesto passo supplementare, legato alla paura di Angela di offendere Dio, e la seconda nel settimo supplementare, in un brano in cui il termine è legato all’immensità non conoscibile di Dio: 75 Per questo motivo, nel momento più alto della sua esperienza mistica, Angela utilizza la terminologia dell’abisso, che si presenta in se stessa come “definizione indefinita”. Nel saggio su La conoscenza “esperienziale” di Dio e la teologia nella prospettiva orientale, Y. Spiteris dedica un capitolo all’inconoscibilità di Dio in sé, mostrando come una delle caratteristiche della teologia orientale sia l’apofasia o teologia negativa. A questo riguardo propone la definizione di Y. de Andia: «La teologia negativa è una purificazione della nostra idea di Dio e una “liberazione” della sua trascendenza – nel senso plotiniano dello scultore che “libera” la statua dal blocco di marmo – attuata all’interno stesso dei suoi nomi. Dio è al di là del sensibile e dell’intelligibile, dell’essere e del non-essere, dell’affermazione e della negazione», in Y. SPITERIS, La conoscenza “esperienziale” di Dio e la teologia nella prospettiva orientale, in «Antonianum» 72 (1997), 365-426, qui nota 13 a p. 369.

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«E la mia anima non riuscì a comprendere se stessa, per cui se l’anima creata finita e circoscritta, non può comprendere se stessa, quanto meno può comprendere il Creatore Dio immenso e infinito?» 76. A questo punto sembrerebbe che il pensiero di Dio come Creatore nella visione della mistica folignate sia da concludere in fretta. In realtà, sin dal primo momento propriamente mistico del suo percorso, Angela incontra chiaramente Dio nella sua potenza creativa. Sulla strada verso Assisi, durante una locuzione dello Spirito Santo, ella cerca di distrarsi volontariamente per avere la certezza di non cadere in vanagloria. Inizia, perciò, a guardarsi attorno, ma ovunque rivolga il suo sguardo non vede altro che creature di Dio. «E incominciai a guardare per le vigne per sfuggire da quello, cioè da quella locuzione, ma ovunque guardassi mi diceva: Questa è una mia creatura. E sentivo una dolcezza divina ineffabile» 77. Lo Spirito Santo rivendica a sé la signoria sul creato 78 e, in tal modo, indica la propria caratteristica creativa. A questo punto, l’esperienza di Dio Creatore non può che accompagnare Angela lungo tutto il suo cammino di intima relazione con Lui. A tal proposito, sottolineiamo come i testi che analizzeremo raccontino episodi avvenuti nella parte più alta dell’ascesa mistica. Essi, infatti, si riferiscono alle esperienze avvenute dopo che la beata fu tolta dalla visione nella tenebra. Dio si presenta in due modi, a questi faremo riferimento per cercare di cogliere l’essere di Dio in relazione a tutto ciò che ha l’essere. «Un modo di presentarsi nell’intimo dell’anima. E allora lo intuisco presente, e capisco in che modo è presente in ogni creatura o in ogni cosa avente l’essere, in un demone e in un angelo buono, nell’inferno e nel paradiso, nell’adulterio, nell’omicidio e nelle opere buone, e in ogni cosa esistente o avente in qualche modo l’essere, Mem., IX, 451-455. Mem., III, 57-59. 78 Agostino riflette su come tutta la Trinità sia principio della creazione e – per questo – su come lo sia ogni Persona trinitaria, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, V, 13, 14. 76 77

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tanto in una bella quanto in una turpe. E disse: Non lo intuisco meno presente in un demone che in un angelo buono; per cui, mentre sono in questa verità, non mi diletto meno di Dio vedendo o intuendo un demone o un adulterio che vedendo o intuendo un angelo o un’opera buona. E questo modo di presentarsi nella mia anima avviene continuamente. Questo predetto modo di presenza è illuminare con grande verità e con grazia divina, così che quando l’anima vede questo non può offenderlo in alcun modo, e apporta nell’anima molti doni divini. E allora l’anima intuendolo presente si umilia molto, e ne riceve confusione per i propri peccati. E riceve qui una grande dote di sapienza e una grande consolazione divina e letizia. L’altro modo di presentarsi è più speciale e molto diverso dal predetto, e dona una letizia diversa dalla predetta, perché mi raccoglie tutta in sé. E fa nell’anima molte operazioni divine con molta maggiore grazia e con tanto profondo e inenarrabile abisso, che solo quel presentare, senza altri doni, è quel bene che i santi hanno nella vita eterna» 79. Come abbiamo già avuto modo di vedere, sulle vette più alte del suo cammino cambia registro terminologico. Nella seconda esperienza narrata, Dio si presenta in se stesso e, il solo presentarsi, colma Angela di grazia «con tanto profondo e inenarrabile abisso». Ella si raccoglie tutta in Lui stando alla sua presenza e nessun tipo di mediazione si trova tra i due. La presenza divina è in se stessa indefinibile, Angela riesce solo a farci capire che Egli è colui di cui godono i santi per la vita eterna. Nella prima esperienza, invece, Angela coglie la presenza di Dio, ma la sua attenzione viene posta sull’essere delle creature. Ella sperimenta l’essere divino, attraverso la sua presenza nell’essere creaturale 80, «in ogni cosa avente l’essere». Egli fa essere ogni cosa, tanto la Mem., IX, 324-343. L’esperienza di Dio Creatore fatta attraverso le creature è tipica in san Francesco. San Bonaventura, nella Leggenda Maggiore, IX, 1, afferma che Francesco contemplava nelle cose belle il Bellissimo e nelle creature seguiva le impronte del Diletto: ogni cosa per lui serviva a salire verso Dio. Del resto, sant’Agostino sostiene come sia fondamentale elevarsi alla Trinità attraverso le opere del creato, che portano traccia del Creatore. Questi, infatti, è fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, VI, 10, 12. 79 80

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turpe quanto la buona, e per essere sicura di includere ogni cosa «esistente o avente in qualche modo l’essere», inizia l’elenco proprio dai demoni 81. Non si dà distinzione morale o valoriale di alcun tipo. Dal punto di vista dell’essere ogni cosa narra la presenza di Dio. L’essere divino presente nelle creature dà diletto ad Angela, a prescindere dalla bontà delle creature e delle loro azioni. Ella, cogliendo Dio che è in ogni cosa, non può fare distinzioni sull’essere. Nella contemplazione della presenza di Dio nel creato, non esperisce Dio per come è, esperisce semplicemente che è. Da ciò si intuisce come, dallo stesso punto di vista, anche le creature vengano colte perché sono e non per come sono. A un certo punto dell’esperienza, Angela rivolge l’attenzione su di sé. È proprio l’illuminazione dovuta alla presenza di Dio che le consente di cogliere come l’anima, in quello che vede, non possa offendere il Creatore. Anche lei, colta nella prospettiva dell’essere, non è buona o cattiva e non può essere buona o cattiva. Ella semplicemente è e può essere grazie alla presenza di Dio. L’impossibilità di peccare, percepita in questo frangente, ha sollevato sospetti sulle esperienze angelane, perché assimilabili ad affermazioni di gruppi ereticali, come gli appartenenti al Libero Spirito. Tuttavia, Pozzi nota che «questo così rapido cenno deve ritenersi allusione alla conferma della grazia (dato perfettamente ortodosso) per cui all’uomo, nello stato di unione, è tolto da Dio il potere di peccare» 82. Pur concordando con l’interpretazione dello studioso, che riteniamo corretta e non elisa dalla nostra, noi ne proponiamo anche un’altra: Angela non ha la possibilità di peccare perché immersa nella contemplazione della presenza dell’Essere divino nel proprio essere creaturale. Con questo tipo di visione, contemplante le profondità dell’essere, le è dato di cogliere che è, perché è e perché può essere; le sue intuizioni non riguardano il piano morale: il come è e il come può essere attraverso le proprie scelte e le proprie azioni. In questo senso, i «molti doni divini» apportati nell’anima non riguardano la grazia che Sulla presenza di Dio in ogni cosa avente l’essere cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 8. In particolare nell’art. 1 analizza la presenza di Dio nei demoni, concludendo che Egli è presente nella loro natura, in quanto essi sono, ma non è presente nella loro deformità, che è dalla colpa e non da Dio. 82 ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 203. 81

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consente l’impeccabilità, ma la consapevolezza che è e può essere perché Dio la fa essere, al di là dei suoi meriti e dei suoi peccati. Da questo punto di vista angeli e demoni si equivalgono, come l’adulterio o un’opera buona. È questa presenza, che trascende il bene e il male morali, che permette alla beata di riconoscere l’Essere di Dio: potente – infatti, onnipresente – e, per questo, umile. In questo momento, infatti, avviene un passaggio significativo. Sembra cambiare il punto di vista: «L’anima intuendolo presente si umilia molto, e ne riceve confusione per i propri peccati». L’intuizione di Angela su Dio presente nelle creature in questo modo, la porta ad umiliarsi e alla confusione per i propri peccati. Il piano morale e valoriale, finora non percepito nella contemplazione dell’essere, emerge quasi prepotentemente. Se Dio è presente in ogni cosa vuol dire che Egli, il solo che è per se stesso, fa essere ogni cosa. Vale a dire che l’Essere in persona è molto umile poiché fa essere ogni cosa che per sé non sarebbe. Sulle vette della massima contemplazione, l’Essere si presenta, anche con altre predicazioni: è umile, è buono. Quanto è stato appena acquisito, porta l’anima alla visione di sé da un altro punto di vista, quello morale appunto. Possiamo a questo punto affermare che per Angela il fatto che Dio sia, non è separabile dal fatto che sia «amore» e «ogni bene»: Dio è e per il fatto che è, è umile, è buono, è amore. Questo è quanto viene intuito dalla beata nella visione della presenza di Dio in tutto ciò che è: dai diavoli agli angeli, dall’inferno al paradiso. 1.4.2. L’essere di Dio in sé In un’altra esperienza, nella quale Dio si manifesta nella «camera» interiore di Angela e si presenta come l’«ogni bene», la beata ha delle intuizioni altrettanto ricche. Siamo davanti alla predicazione di Dio come «essere» e «verità». Queste le affermazioni della beata Angela: «E in quel manifestarsi di Dio è tutta la verità; e in quel manifestarsi di Dio intuisco e ho tutta la verità che è in cielo e nell’inferno e in tutto il mondo e in ogni luogo e in ogni cosa, e tutto il piacere che è in cielo e in ogni creatura, con tanta verità e certezza, che non posso credere ad altro in questo mondo. Ma se 52

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tutto il mondo mi contraddicesse, me ne farei beffe. E vedo colui che è l’essere e in che modo è l’essere di tutte le creature. E vedo in che modo mi ha fatto capace di capire le cose predette meglio di quanto lo fu finora, quando lo vedevo in quella tenebra in cui tanto soleva dilettarmi e vedo me sola con Dio, tutta monda, tutta santificata, tutta vera, tutta retta, tutta sicura e tutta celeste in lui. E quando sono in questo, non ricordo altro. E mentre ero in questo mi disse Dio: Figlia della divina sapienza, tempio del Diletto, diletto del Diletto. E: Figlia della pace, in te riposa tutta la Trinità, tutta la verità, così che tu tieni me e io tengo te» 83. Siamo allo stadio supremo dell’esperienza mistica della beata, nello stato che oltrepassa «quella tenebra», in cui era consueta dilettarsi. A questo punto, ella vede Dio manifestarsi in modo nuovo, diverso da prima. Questo la rende capace di una migliore comprensione di quanto vede. Angela per spiegare questa rivelazione utilizza due categorie che si avvicinano molto: la prima è quella della “manifestazione”, che ha come protagonista Dio; la seconda è quella del “vedere”, in cui la protagonista è Angela stessa. Iniziamo a parlare di questa, dal momento che ci conduce molto vicino a quanto abbiamo analizzato in precedenza. «E vedo colui che è l’essere e in che modo è l’essere di ogni creatura». Questo è il contenuto della visione della beata. Viene detto espressamente quanto Angela ha percepito prima, attraverso la presenza di Dio nelle creature: Dio è l’Essere. Tuttavia, c’è un ulteriore passaggio rispetto a quanto affermato sulla presenza: in questa esperienza ella coglie anche «in che modo» Dio sia l’essere di ogni creatura. Mentre là si limitava all’intuizione della presenza divina nell’essere creaturale – per poi essere ricondotti al Creatore –, qui si contempla il Creatore come l’Essere in sé e, inoltre, in che modo sia l’essere di tutto il creato. Se prima, quindi, si poteva percepire un passaggio contemplativo che andava dalla creatura al Creatore, ora si percepisce il passaggio inverso: il Creatore si dà a vedere e in Lui si può cogliere il

83 Mem., IX, 403-419. Uno splendido brano di sant’Agostino lega nel Verbo verità immutabile e principio creatore, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, IV, 1, 3.

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tutto della creazione. Prima l’Essere si dava in ogni essere, ora nell’Essere è dato ogni essere 84. Giungiamo così all’altra parte della rivelazione di Angela, quella indicata con la terminologia della manifestazione, di cui il protagonista è Dio. «In quel manifestarsi di Dio è tutta la verità», questa è la prima intuizione che Angela ottiene dalla manifestazione divina. In ciò che vede si manifesta tutta la verità. In quel manifestarsi di Dio, nell’Essere in sé in cui è dato ogni essere, c’è tutta la verità: quella in terra e quella sopra e sotto terra. Ogni creatura è in relazione ininterrotta con Dio, perché egli è l’Essere che la fa essere, al di là del bene e del male. Ogni creatura, dal momento che è, è abbracciata dall’Essere che è Dio. A questo punto Angela viene coinvolta totalmente da quella verità: «e in quel manifestarsi di Dio intuisco e ho tutta la verità che è in cielo e nell’inferno e in tutto il mondo» e da ciò le deriva tutto «il piacere che è in cielo e in ogni creatura». Angela è posta in relazione con l’Essere, che le permette di cogliere la verità di e su ogni essere. «Quale risultato del suo profondo inserimento dentro la realtà, l’intero universo le diviene trasparente» 85. Essere riempiti dalla verità comporta il fatto che ogni domanda, ogni dubbio sulla vita e sull’esistenza, ogni questione sulla creaturalità, sulla sofferenza e sulla morte, trova la propria risposta. Passiamo, quindi, alla conclusione del brano. La beata si vede sola con Dio totalmente trasformata. Nel momento unitivo, caratterizzato dalla visione dell’«essere» che porta in sé «tutta la verità», Angela si sente intimamente trasformata al punto da utilizzare per se stessa aggettivi attribuibili a Dio: «tutta monda, tutta santificata, tutta vera, tutta retta, tutta sicura e tutta celeste in lui». È il momento supremo della divinizzazione. La comunione con Dio Creatore ed Essere di ogni essere, consente all’essere creaturale di vivere, per grazia, ciò che l’Essere divino è per se stesso. Infatti, ciò che Angela sta sperimentando sembra essere proprio la natura divina per partecipazione, per la comunione alla vita divina che il Padre ha dischiuso agli uomini nel suo Figlio. È per merito di Cristo se l’uomo

Secondo Pozzi, Angela coglie «un essere di Dio in sé e un essere di lui nel creato», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 200. 85 P. LACHANCE, Il percorso spirituale di Angela da Foligno, cit., 193. 84

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vive la comunione con Dio 86, che gli consente di emergere dal proprio “nulla” creaturale 87, per condividere il “tutto” divino 88. Nell’esperienza relativa al momento creativo, Angela sperimenta il momento redentivo, il momento in cui l’essere umano ottiene la figliolanza divina adottiva. A tal proposito si possono notare due elementi fondamentali. Da un lato, la sottolineatura sulla figliolanza: «Figlia della divina sapienza… Figlia della pace»; dall’altro la mutua appartenenza e la mutua inabitazione: «in te riposa tutta la Trinità, tutta la verità, così che tu tieni me e io tengo te» 89. Attraverso la profondissima comunione con la Trinità, ella diviene per grazia ciò che Dio è per natura. L’esperienza di Dio Creatore si rivela come esperienza di Dio Rendentore. Sembra questo il punto culminante della conoscenza di Dio come Creatore e Essere di ogni essere. Infatti, proprio nel momento in cui alla mistica folignate è dato di poter cogliere l’essere di Dio in sé e come origine di ogni essere, nel momento in cui le è dato di cogliere la verità su tutto ciò che esiste, ella può sperimentare in se stessa i benefici della redenzione: la divinizzazione della natura creaturale. 1.5. La «disposizione salvifica divina» come relazione tra il Padre e il Figlio In questo paragrafo tenteremo un’indagine riflettendo sulla «disposizione salvifica divina» – «divinam dispensationem» –, quale relazione fondamentale tra il Padre, Origine della divinità e di tutto ciò che è, e il Figlio, Salvatore e Redentore di tutta la creazione. Cf. Mem., VI, 239-241. A proposito dell’indegnità della creatura alla relazione con Dio, ricordiamo un episodio relativo alla visione dell’umiltà divina: «E vedevo tanta profonda umiltà di Dio verso gli uomini, che, comprendendo l’anima la potenza inenarrabile di Dio e vedendo tanta profonda umiltà, si meravigliò e si reputava assolutamente nulla… E allora iniziai a dire che non volevo comunicarmi, perché mi sembrava di esserne assolutamente indegna», in Mem., VI, 70-75. L’episodio si conclude con la frase: «Io che sono degno rendo te degna», in Mem., VI, 82. 88 Ricordiamo che l’esperienza spiegata con l’immagine dell’anima divisa da una strada, si conclude con la “ri-unione” dell’anima nel “tutto” dell’amore divino, cf. Mem., VII, 149-155. 89 La mutua inabitazione emerge ponendo in parallelo i due brani qui esposti. Nel primo Angela si sente raccolta nella Trinità – «perché mi raccoglie tutta in sé» –, nel secondo Dio le dice espressamente «in te riposa tutta la Trinità». 86 87

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1.5.1. La disposizione voluta dal Padre per il Figlio Questo è il brano in cui Angela abbozza il suo pensiero sulla «disposizione salvifica di Dio» 90, colta attraverso la comprensione del dolore patito dall’anima di Cristo per l’amore nei confronti dell’umanità peccatrice: «Un’altra volta mi fu rivelato del dolore acuto che fu nell’anima di Cristo. E non mi meravigliai che fosse un grande dolore, perché quell’anima era nobilissima e per sé non doveva ricevere alcuna punizione, ma quella che aveva ricevuto l’aveva ricevuta per il suo grandissimo amore… E provasti dolore per la grande compassione che avesti per i tuoi eletti, poiché il loro intento era di annientarti e perché non ti conoscevano… Inoltre, quest’anima ha subìto il dolore di tutti i dolori e di tutte le afflizioni che subì il suo corpo… Questo dolore acuto, che è tanto grande che la lingua non basta a dirlo né il cuore basta a pensarlo, fu fatto per disposizione salvifica divina (divinam dispensationem). Poiché vedo tanto dolore nell’anima del Figlio di santa Maria Vergine, che la mia anima è diventata afflittissima ed è stata trasformata in tanto dolore, che mai fu tanto, non posso trovarvi alcuna letizia» 91. C.A. Bernard indica come tutto il mistero dell’economia salvifica sia racchiuso nel pensiero della «divinam dispensationem», che Angela ha presente in ogni istante del suo percorso mistico 92. Riportiamo dall’Instructio III 93 – testo che riprende il concetto della «divina disposizione» –, alcuni pensieri relativi al dolore patito da Cristo. Secondo gli Editori il concetto di «divinam dispensationem» è traducibile con quello di «disposizione salvifica di Dio», cf. nota 8 a questo testo. Per san Tommaso la «dispensatione» equivale al mistero dell’incarnazione, quindi, all’economia della salvezza, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 2, art. 6, ad 1. 91 Mem., VII, 69-88, il corsivo è nostro. 92 Cf. C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 140-141. 93 L’Instructio III, secondo gli Editori, è stata scritta per mano di Frater A. all’inizio del 1300, cf. nota 1 all’Istruzione. Anche Donnini propende per attribuirla al frater scriptor, cf. M. DONNINI, Appunti sulla lingua e lo stile del “Liber” della beata Angela da Foligno, in E. MENESTÒ (a cura di), Angela da Foligno terziaria francescana, cit., 203-207. Sono tre le tematiche fondamentali in questo testo: il dolore, la preghiera, 90

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Si noti come la sofferenza del Figlio sia da legare eternamente alla disposizione salvifica di Dio. «In Cristo vi fu un dolore ineffabile, molteplice e nascosto. Vi fu in Cristo un dolore ineffabilmente acuto, che fu disposto in lui. Per ciò l’ineffabile ed eterna divina disposizione unita con Cristo ineffabilmente e eternamente gli assegnò un sommo dolore. […] Questa divina disposizione fu la fonte e l’origine di ogni dolore di Cristo e in questa nascono e finiscono» 94. L’Istruzione, poi, prosegue elencando i vari dolori patiti dall’anima di Cristo, ponendoli tutti in relazione con la disposizione salvifica di Dio. In tal modo trovano origine nella «disposizione salvifica divina» il dolore risultante dalla luce divina concessa a Cristo (vv. 18-19); quello nato dalla compassione per il genere umano (vv. 26-27); la sofferenza per la compassione di se stesso (v. 38); il dolore di compassione per la sua dolcissima Madre (vv. 51-52); il dolore per gli apostoli e i discepoli dovuto alla sottrazione della presenza corporea (vv. 6063); la sofferenza dovuta perché la sua anima è nobilissima e delicata (vv. 67-68). Appare evidente che l’intenzione del redattore è di fare riferimento a quanto Cristo ha vissuto durante tutta la sua opera salvifica. Tutta l’azione del Figlio di Dio incarnato, rappresentata dai dolori patiti, è originata eternamente dalla volontà del Padre. Cosa prevedesse la disposizione del Padre per il Figlio viene esplicitato meglio attraverso altri passi del Memoriale. Ne proponiamo uno nel quale Angela parla a Frate A. del «letto» della croce e della triplice società – povertà, dolore e disprezzo –, amate dal Padre prima che l’uomo peccasse e volontariamente accolte dal Figlio. La beata spiega perché chiama la croce letto: la povertà. A proposito del dolore di Cristo, viene elaborato in maniera più ampia quanto intuito da Angela sulla «divinam dispensationem» del quinto passo supplementare. Invece, in relazione al tema della povertà di Cristo in Instr., III, 311-312, si afferma che nascose la sua potenza e la sua nobiltà, cosa che ci sembra apparire in contraddizione con quanto dice Angela in Mem., VII, 26-29. Per questo fatichiamo ad accogliere l’Istruzione, almeno nella sua interezza, come scritta attraverso le indicazioni della beata. 94 Instr., III, 8-12.16-17.

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«…perché Egli nel letto nacque, conversò e morì, e perché Dio Padre questo letto amò prima che l’uomo peccasse – e Dio Padre amò questo amore di questa società, cioè della povertà e del dolore e del disprezzo –, e Dio Padre amò talmente tanto la predetta società che la diede a suo Figlio, il Figlio in questo letto volle continuamente giacere e in continuo amore e concordanza con il Padre. Perciò questo letto è il mio letto» 95. La «divina disposizione» ha riservato per il Figlio di Dio la croce, la povertà, il dolore e il disprezzo e, soprattutto, ha ordinato l’essere e l’opera di Gesù Cristo. Tale concetto, dunque, lega strettamente il Padre con il Figlio, attraverso la cui azione mediatrice il Padre stesso offre la salvezza a ogni uomo. Notiamo due situazioni particolari a proposito del vissuto angelano in queste esperienze. Angela nel brano citato dal capitolo VII del Memoriale, totalmente presa nella contemplazione del dolore dell’anima di Cristo, non riesce a trovare letizia, anzi è trasformata nel dolore stesso ed è afflittissima. Quando, però, ampliando l’orizzonte contemplativo, riconosce il dolore di Cristo come il risultato dell’azione salvifica di Dio per gli esseri umani, l’afflizione per l’inaudita passione del Figlio si trasforma in diletto per quell’amore smisurato. È proprio la consapevolezza costante dell’economia della salvezza, avvenuta attraverso l’incarnazione, la morte e la risurrezione del Figlio – secondo il disegno eterno di Dio Padre –, a farle cogliere la portata salvifica della sofferenza di Cristo e, quindi, a farla gioire nella compassione per tale dolore. È quanto appare nel brano citato dal capitolo IX, ma anche in molte altre occasioni 96.

Mem., IX, 108-123. Si pensi, ad esempio, a Mem., VI, 239-243, testo in cui Angela coglie come l’azione redentrice di Cristo abbia creato una «società» tra la nostra carne e Dio. 95 96

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1.5.2. L’Amore divino all’origine dell’azione salvifica Nella sofferenza redentrice di Cristo, unica e irraggiungibile perché sopportata dal Figlio di Dio 97, Angela scopre l’immenso amore del Padre, che eternamente ha voluto la croce per Lui, offrendo la via della salvezza all’essere umano nel modo migliore possibile, al punto da essere paragonato a una madre che imbocca i propri bambini 98. A proposito dell’azione salvifica, come azione congiunta del Padre e del Figlio, la beata riceve più di un’illuminazione, così da poter cogliere il profondo rapporto tra l’azione creativa e quella redentiva: «E allora fu detto all’anima come Dio Padre mandò il Figlio per amore e come il Figlio concordò con questo amore per venire, e come prima la creò e come la redense. E, per agire ordinatamente, mandò prima gli angeli; e, per così dire, lasciò il Padre, lasciò il cielo e la sua dignità» 99. In questo brano dal forte sapore biblico 100, la beata mette subito in risalto il contesto in cui si parla della salvezza avvenuta attraverso Cristo: l’amore del Padre. Questo è il motivo che fonda la salvezza. È in tale contesto d’amore che si coglie la concordanza d’intenti tra l’invio da parte del Padre e l’abbandono della dignità celeste da parte del Figlio. È in tale contesto d’amore che va colto il legame tra la creazione e la redenzione dell’anima: Dio Padre ha tanto amore Cf. Mem., VII, 69-88. Cf. Mem., VI, 314-317. L’immagine del padre – o della madre – che nutre i figli nella maniera più opportuna, è usata anche in un’altra occasione, come esempio proposto da Dio per far capire ad Angela il suo modo d’agire, cf. Mem., VI, 208-212. 99 Mem., V, 45-48. Nella preghiera di ringraziamento che Francesco rivolge a Dio verso la fine della Regola non bollata, si coglie lo stesso forte legame tra il Padre e Figlio, tra creazione e redenzione, tra amore e croce: il Padre ci ha creati per mezzo del Figlio, a motivo del suo amore per noi l’ha fatto nascere e attraverso la croce, il sangue, la morte del Figlio ci ha voluti redimere dalla schiavitù, cf. Regola non bollata, XXIII, 3. 100 Sulla dignità divina del Figlio e sulla sua obbedienza al Padre – qui concordanza d’intenti –, è d’obbligo riferirsi a san Paolo in Fil 2, 6-8. Sull’agire ordinato di Dio secondo cui sono stati inviati prima gli angeli, un rimando potrebbe essere ad At 7, 52-53 in cui si parla dei profeti preannunciatori del «Giusto» e della «Legge» ordinata dagli angeli; sulla Legge cf. anche Gal 3, 19 e Eb 2, 2. È, inoltre, evidente un rinvio alla Parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12, 1-8), che indica un certo ordine di missione, anche se nei servi inviati prima del Figlio si è soliti riconoscere i profeti. 97 98

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per gli esseri umani da crearli e porli in relazione filiale con sé, attraverso la missione del Figlio, il quale ha agito concordando con questo amore. In questo senso è interessante notare come tutto il brano sia incentrato sull’azione divina o, meglio, sull’amore divino al punto da non menzionare il peccato, almeno per ora. Anche l’intuizione angelana sul dolore vissuto da Cristo a causa del peccato degli uomini 101, è messa in secondo piano poco dopo. Ad Angela, infatti, è chiesto di andare oltre i segni della passione per notare l’amore della divinità che l’ha sostenuta: «All’anima fu detto anche: Ti meravigli di questo corpo di Cristo così afflitto o passionato? Quanto più ci si deve meravigliare della divinità che questo permise che avvenisse nel suo mantello, cioè nell’umanità in cui è questa divinità. […] E allora l’anima fu infuocata d’amore e poco quasi reputò la passione del corpo di Cristo rispetto all’amore della divinità» 102. Angela non si infiamma per il dolore sostenuto nella passione o per la riparazione del peccato, ma per l’amore della divinità. È l’Amore che è Dio a volere la «disposizione salvifica», ad attuarla dall’eterno, a disporla in riferimento alle capacità umane di riconoscerla. L’uomo, coinvolto nel percorso di abbassamento amoroso di Dio, non può far altro che riconoscersi peccatore e affidarsi alla grazia che fa vivere in Cristo. Il brano, infatti, continua come segue: «E allora fu detto all’anima: Poiché Dio fece tutte le cose suddette per te e volle nascere per te, come dire “discendere a tanta indegnità o bassezza” per te, conviene che l’anima così nasca a Dio e muoia a se stessa, ai vizi e ai peccati, che è “ascendere a grande dignità”;

Questo dolore oltre che fisico fu spirituale. A proposito del dolore per l’abbandono della Madre e degli apostoli, ricordato nell’Istruzione III, notiamo che c’è anche un passaggio nel Memoriale che lo menziona: «e in questo mondo lasciò la Madre, cosa che gli costò molto dolore, e gli apostoli», in Mem., V, 50-51. 102 Mem., V, 55-57.65-66. 101

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perché dopo essere morta a se stessa e aver riconosciuto tanto amore, le è data la vita della grazia e vive in Cristo» 103. È solo in questo momento, cioè dopo aver visto fino a che punto si è spinto l’amore di Dio per le creature – «fece tutte le cose suddette per te» –, che la beata torna a sottolineare il peccato dell’uomo, un peccato colto soprattutto come egoismo ed orgoglio – da cui l’invito a morire a se stessi –, che conduce l’essere umano a non riconoscere l’amore di Dio. È l’infinito amore di Dio che svela l’uomo peccatore a se stesso. Notiamo anche l’altra caratteristica del peccato, così come viene inteso in questo testo: esso è l’ostacolo posto dall’uomo all’ascensione che porta alla comunione divinizzante con Dio. Morire a se stessi, morire al peccato, equivale ad ascendere alla «grande dignità», alla stessa dignità abbandonata dal Figlio per conformità al volere del Padre. 1.5.3. Il legame indissolubile tra creazione e redenzione Prima di tentare qualche osservazione conclusiva, vogliamo soffermarci su un ultimo testo a cui abbiamo già fatto riferimento. È il brano in cui Angela fa esperienza della potenza e della volontà di Dio, dopo aver chiesto al Signore – a Cristo – perché ci avesse salvato in questo modo, cioè con tanta passione per i nostri peccati. «Ero in tanta pienezza dello splendore divino, che con la massima letizia capivo in quella potenza e volontà di Dio non solo ciò che avevo chiesto, ma capivo ed ero pienamente soddisfatta riguardo a tutte le creature. Ed ero soddisfatta riguardo ai salvati, a coloro che si sarebbero salvati e a coloro che si sarebbero dannati, ai demoni e a tutti i santi. Tuttavia questo non posso esprimerlo assolutamente con alcuna parola, perché sono assolutamente al di sopra della nostra natura. Sebbene capissi pienamente che Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto fare diversamente, tuttavia non potevo capire come avrebbe dovuto fare per farci conoscere meglio la sua potenza e la sua bontà…

103

Mem., V, 67-72.

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E da allora resto così contenta e rassicurata che, se sapessi in modo certissimo di essere dannata, per nessuna ragione potrei dolermene, e non meno lavorerei e mi ingegnerei per pregarlo e onorarlo. E lasciò nella mia anima una pace e una quiete e una solidità, che non ricordo di averle avute così pienamente e in cui sono continuamente. Mi sembra che tutte le cose del passato non fossero uno stato così grande. E mi lascia una mortificazione dei vizi e una sicurezza delle virtù, per le quali amo ogni azione buona e cattiva, nel senso che non ne provo dispiacere. E disse a me frate che potevo e dovevo capire, che lei in quella potenza di Dio e in quella volontà di Dio, che vide, era pienamente soddisfatta di ogni questione e di coloro che si sarebbero salvati e dannati e dei demoni e dei santi…» 104. Questo brano può essere posto in relazione a due testi analizzati nel paragrafo precedente. La nostra attenzione sarà rivolta a cogliere i dati che compaiono nelle diverse esperienze, per notare come esse, pur nascendo in contesti diversi, abbiano uno strettissimo legame di fondo 105. Nel primo brano visto in precedenza la beata sostiene di cogliere la presenza di Dio in ogni creatura dagli angeli ai demoni, passando per ogni cosa creata 106; nel secondo afferma di cogliere, in una particolare manifestazione di Dio, tutta la verità presente in cielo, all’inferno e nel mondo 107. In entrambi i casi siamo sulle vette più alte dell’esperienza angelana. Nell’esperienza appena esposta – siamo al quarto passo supplementare – sembra esserci un anticipo di quanto Angela ha vissuto, in maniera più intensa ed elevata, alla fine del suo itinerario. Iniziando dalla differente portata delle due esperienze, si noti come in questa ad Angela è dato di capire pienamente ciò che riguarda ogni creatura, mentre in quella abbia avuto tutta la verità – che comprende anche la verità sul Creatore e non solo sulle creature –; qui Angela rimane «contenta e rassicurata» e nell’anima le rimane «una pace e una quiete e una solidità» che non ricorda di aver avuto mai Mem., VI, 309-328. Nel brano appena citato il contesto è “redentivo”, negli altri analizzati precedentemente il contesto è “creativo”. 106 Cf. Mem., IX, 324-338. 107 Cf. Mem., IX, 403-419. 104 105

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così pienamente, mentre là si vede sola con Dio e si sente «tutta monda, tutta santificata, tutta vera… tutta celeste in lui». Sembra che nell’esperienza del quarto passo supplementare, abbia la sicura speranza di vivere in comunione con Dio, mentre nell’esperienza oltre la tenebra, colga proprio quella comunione sperata. D’altra parte, se ne possono riconoscere dei rimandi in alcune affermazioni fondamentali: anzitutto, la pienissima intelligenza riguardante ogni creatura. Questa intelligenza rinvia, da una parte, all’intuizione sulla presenza di Dio in ogni cosa avente l’essere, dall’altra alla verità su ogni cosa creata. In secondo luogo, notiamo il rimando alla conoscenza rispetto «ai salvati, a coloro che si sarebbero salvati e a coloro che si sarebbero dannati, ai demoni e a tutti i santi», come a dire il rinvio alla conoscenza su tutta la verità che attiene a coloro che sono sulla terra, all’inferno e in paradiso. Un ulteriore elemento di rimando sembra essere la particolare percezione del peccato. Nell’ultimo testo citato Angela riceve una particolare «mortificazione dei vizi e sicurezza delle virtù», per cui ama tutto – «ogni azione buona e cattiva» – o, almeno, oltre ad amare le cose buone non prova dispiacere per quelle malvagie 108. Tutto ciò rinvia – nel brano riguardante la visione della presenza divina nelle creature – ad Angela che coglie Dio negli angeli e nelle cose buone, non meno che nei demoni o in un adulterio. In quel caso ella ha la percezione di non poter peccare. Ricordiamo, inoltre, che anche in un’altra esperienza Angela si scopre amante di tutto il creato, senza porre distinzione tra bene e male, anzi comprendendo nel suo amore creature che tradizionalmente rappresentano il male 109. Nel commento al brano a cui ci riferiamo, abbiamo sottolineato come l’amore per ogni essere che Angela sperimenta, sia il risultato della contemplazione dell’azione redentrice di Cristo nella sua portata cosmica. Tutto il creato è investito dall’opera salvifica di Cristo, così come voluta dal piano eterno di Dio Padre. Concludiamo con l’ultima nota di rimando tra il testo del quarto passo supplementare e quello del settimo sull’intuizione della verità. 108 San Tommaso parlando dell’amore di Dio per tutte le creature, sostiene che Egli non ama – anzi odia – ciò che nelle creature è menomato per il peccato, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 20, art. 2. 109 Cf. Mem., VII, 167-170.

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In entrambi i casi la beata sottolinea lo stato in cui rimane dopo l’esperienza. Pur avendo già indicato la differente profondità e intensità del vissuto nelle due esperienze, non possiamo non notare come in entrambi i casi la mistica folignate rimanga in uno stato di eccezionale benessere. Per i legami sin qui individuati, riteniamo che l’esperienza del capitolo VI sia da cogliere in strettissima relazione con ciò che Angela sperimenta nel capitolo IX, che abbiamo già indicato come l’esperienza suprema che intuisce l’identità tra l’Essere di Dio come Creatore e come Redentore e che sembra cogliere la continuità tra l’atto creativo e l’atto redentivo. Proprio la stretta relazione tra le esperienze appena indicate, sebbene vissute in contesti diversi, è un ulteriore elemento di conferma del legame indissolubile tra creazione e redenzione. Concludiamo con qualche breve osservazione. Per quanto sin qui visto a proposito della «divinam dispensationem», ma anche sulla base di altre esperienze vissute da Angela, possiamo concludere che nelle intuizioni della beata Dio Padre, origine della divinità e creatore di tutto ciò che è, progetta eternamente l’azione redentrice che vede come protagonista il Figlio, il quale è e si vuole per tale azione. Egli, infatti, riceve dal Padre, prima che l’uomo peccasse, la croce e la triplice società, che accoglie e ama. In tal senso, la Trinità creatrice si manifesta, al contempo, redentrice. Nell’eternità divina, Angela ci fa cogliere la presenzialità dell’atto creativo e redentivo. I due atti sono in Dio eternamente presenti, congiunti dalla volontà atemporale dell’Amore divino. L’azione redentrice non è, perciò, conseguenza del peccato, pur se da questo redime. Trova, invece, il proprio fondamento nell’eterno progetto del Padre. È l’essere Amore di Dio, che dà origine alla creazione e alla redenzione. Si potrebbe dire che la beata non vede la redenzione come un ritorno all’innocenza edenica, ma come uno slancio in avanti verso la piena comunione divinizzante con Dio, che rischia di essere impedita dal peccato. Il peccato, come ostacolo alla comunione con Dio, viene svelato proprio dall’Amore divino che crea e salva l’uomo, abbassandosi e umiliandosi per innalzarlo alla massima dignità. A questo punto, possiamo accostarci alle intuizioni della beata riguardanti proprio il Figlio di Dio, comunque consapevoli di non aver 64

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concluso l’analisi delle suggestioni derivanti dalle esperienze di Angela a proposito della «divina disposizione salvifica». 2. IL FIGLIO In questo capitolo è nostra intenzione sottolineare alcune delle più importanti intuizioni di Angela da Foligno sulla figura di Gesù Cristo, consapevoli che risulta impossibile darne tutte le sfaccettature 110. Facendo una breve ricerca sul modo con cui Angela si riferisce a Gesù Cristo, non possiamo fare a meno di notare un dato interessante: nel Memoriale non compare mai il termine «Gesù» in bocca ad Angela 111. Ella si riferisce a Lui soprattutto chiamandolo «Cristo» 112, «Figlio di Dio» 113 – talvolta soltanto «Dio» 114 – e «Signore» 115. Abbiamo già incontrato anche la locuzione «Dio uomo», per il quale «passionato» 116 è l’unica qualificazione attribuita nel Memoriale.

110 Sulla centralità di Cristo nel Liber angelano si è tenuto un Convegno organizzato dal Cenacolo della beata Angela, cf. AA.VV., Cristocentrismo nel “Liber” della beata Angela. Atti del Convegno (Foligno, 25-26 novembre 2005), Ed. Cenacolo beata Angela, Foligno 2006. 111 Il termine «Jesus» nelle varie declinazioni compare 2 sole volte nel Memoriale, in frasi proprie del frater scriptor. Nelle Istruzioni, invece, il termine compare ben 73 volte. 112 Il termine Cristo, anche escludendo la declinazione al genitivo che viene utilizzata in molti modi e non solo in relazione al Figlio di Dio – si pensi alla dicitura «fidelis Christi» che individua costantemente Angela –, compare ben 42 nel Memoriale. 113 Nel Memoriale il lemma «Figlio di Dio», in tutte le declinazioni, compare 12 volte di cui 2 nella forma «Figlio di Dio incarnato». Il termine «Figlio» è presente una trentina di volte; 3 volte Gesù è il «Figlio della beata Vergine Maria». Chiudiamo sottolineando che in un’occasione Angela stessa si rivolge a Gesù invocandolo come «figlio», in Mem., VIII, 54. 114 Un esempio molto chiaro appare in Mem., VI, 133-135. 115 Angela utilizza il termine «Dominus» per rivolgersi a Cristo – un caso, ad esempio, appare in Mem., III, 139 –, tuttavia, questo termine non sembra essere esclusivamente rivolto al Figlio, bensì attribuibile a Dio in modo generale, come si evince, ad esempio, da Mem., I, 281-282, oppure da Mem., I, 19. 116 La locuzione «Dio uomo» compare nelle diverse declinazioni 9 volte; la locuzione «Dio uomo passionato» compare in Mem., VI, 254.

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2.1. Dio uomo passionato 2.1.1. «Ego sum qui fui crucifixus pro te» Iniziamo la nostra esposizione partendo dall’esperienza che coinvolge la mistica folignate sulla strada verso Assisi, raccontata nel primo passo supplementare. Questa vicenda ci offre l’opportunità di sentire le parole del Figlio di Dio, nel momento in cui parla di sé alla beata. Dopo che lo Spirito Santo si presenta e parla con Angela, ella si sente rivolgere queste parole: «Io sono colui che fu crocifisso per te e ebbi fame e sete per te e sparsi il mio sangue per te, tanto ti amai. E diceva tutta la passione» 117. Le parole che vengono rivolte ad Angela da parte di Gesù, sembrano le più adatte per rivolgersi e lei: Egli non si presenta con i propri titoli onorifici – come Cristo o Signore o Figlio di Dio –, bensì affermando il dono totale di sé alla beata. Infatti, nel momento in cui Angela si dirige verso Assisi convinta a lasciare tutti i propri beni per avere solo Dio 118, Cristo si presenta come colui che ha dato tutto di sé per avere lei. La triplice sottolineatura del «per te» e l’affermazione sul grande amore per lei indicano come il Figlio di Dio, per primo, abbia intrapreso la via sulla quale Angela ha intenzione di incamminarsi. Quindi, se Angela appare come colei che abbandona tutti gli averi materiali per ottenere un’esclusiva relazione d’amore con Dio, il Figlio appare come colui che abbandona addirittura se stesso sulla croce, per ottenere un’esclusiva relazione d’amore con la propria creatura. La donazione d’amore di Cristo appare come esemplare e preveniente ogni iniziativa della beata. L’esemplarità di tale donazione è un elemento fondamentale della relazione tra i due. 117 Mem., III, 65-67. Notiamo quella che sembra essere una formula di presentazione – «Io sono…» – qui usata da Cristo, mentre poco prima – riga 36 – e poco dopo – riga 87 – è usata dallo Spirito Santo. 118 Si ricordi che al diciannovesimo passo alla domanda di Dio su cosa Angela volesse, la risposta che lei diede fu: «Non voglio oro né argento… non voglio altro che te», a cui prontamente Dio replicò «Impegnati, perché subito, quanto quello che stai facendo sarà fatto [cioè quando avrà finito di espropriarsi di tutti i propri beni], tutta la Trinità verrà in te», in Mem., I, 285-187.

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Sin dagli inizi del cammino, ancora sostanzialmente connotato dalla fase ascetica, Angela ebbe davanti Cristo come riferimento ed esempio costante. È al settimo passo il primo momento: il momento dell’incontro. In quella occasione il suo rapporto con Dio, iniziato in precedenza con la consapevolezza del peccato e con la confessione, trova nel Crocifisso un elemento essenziale: «Nel settimo, mi si dava di guardare alla croce, nella quale vedevo Cristo morto per noi. Ma era una visione insipida, sebbene avessi allora un grande dolore» 119. Notiamo subito la centralità di Cristo rispetto alla croce, come a dire la centralità della morte «per noi» rispetto alla sofferenza patita dal Figlio di Dio 120. La croce rimanda al Crocifisso, colto come colui che ha dato la vita per noi e non, principalmente, come colui che ha patito sino alla morte. In altre parole, la visione del Cristo morto non è separata dall’intuizione dell’aspetto donante insito nella sua morte. La visione, tuttavia, non soddisfa Angela e viene avvertita come «insipida». La beata appare interdetta – quasi stupita –, dal fatto di provarvi grande dolore. Perché non “trova” nulla nel Crocifisso? L’ottavo passo sembra illuminarci sulla risposta: «Nell’ottavo, nel guardare la croce, mi è stata data una maggiore cognizione di come il Figlio di Dio fu morto per i nostri peccati. E allora riconobbi tutti i miei peccati con grandissimo dolore e sentivo che io l’avevo crocifisso. Ma ancora non capivo quale fosse il più grande beneficio, se l’avermi tolto dai peccati e dall’inferno e indotto alla penitenza, o l’esser stato crocifisso per me» 121. La mistica folignate ci riferisce subito di aver avuto una maggiore cognizione dell’avvenimento della croce. Il passaggio fondamentale sembra essere dovuto alla piena consapevolezza della morte del Figlio di Dio per i nostri peccati – «pro peccatis nostris» –. Mem., I, 59-61. L’aspetto della donazione, a cui a nostro avviso rimanda proprio il «pro nobis», che è rimarcato tre volte nel primo incontro della “fase” mistica, appare chiaro sin dal primo della “fase” ascetica. 121 Mem., I, 62-67. 119 120

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La centralità dell’aspetto donante della croce viene a essere ulteriormente approfondito. Il dono della vita che Cristo ha fatto, non è un più “generico” morire «pro nobis», bensì il morire «pro peccatis nostris», vale a dire per azioni malvagie che sono di nostra responsabilità. È il dono della vita dell’innocente per dei peccatori, che vengono a essere sollevati dalle responsabilità delle loro azioni. Da qui il successivo passaggio di Angela: ella riconosce i propri peccati e la propria responsabilità in essi e, quindi, riconosce di averlo crocifisso 122. La responsabilità sul peccato commesso, si identifica con la responsabilità sulla crocifissione di colui che è morto per i peccati. La consapevolezza di questa responsabilità fa scattare un altro passaggio fondamentale: Cristo non è più «morto per noi», bensì è stato crocifisso «per me», lemma che rimanda chiaramente al triplice «per te» presente nella locuzione del pellegrinaggio verso Assisi. Il Figlio di Dio viene colto in maniera nuova, in maniera profondamente relazionale. La percezione che Angela ha di Cristo non è più insipida, al punto da farla addolorare quasi senza motivo. Cristo ora diventa una figura estremamente chiara: Egli è colui che è morto per lei, a causa sua e delle sue azioni consapevolmente malvagie, delle quali Lui ha reso conto per lei. Cristo diventa l’amico intervenuto nel momento del bisogno, colui che ci difende a ogni costo per non farci perdere la vita 123. Gesù non è più colui che è morto – genericamente – per noi, ma è colui che ha dato la vita – personalmente – per lei 124. L’intuizione fondamentale è il passaggio dal generico “per tutti”, al personale “per ciascuno”. 122 Nella Lettera ai fedeli (seconda recensione), I, 11, Francesco d’Assisi scrivendo che il Padre ci ha dato il Figlio, sottolinea sia il «pro nobis» sia il «pro peccatis nostris». Inoltre, nelle Ammonizioni, II, 3-4, Francesco sostiene come ancora Cristo venga crocifisso con i comportamenti peccaminosi. 123 La mistica folignate ha confessato più volte la paura della dannazione. Così, ha riferito che al primo passo ebbe la cognizione del peccato e la paura di dannarsi; al quarto passo riconobbe la misericordia di Dio e la liberazione dall’inferno; al quinto era sicurissima di meritare l’inferno; al sesto pregò tutte le creature di non accusarla davanti a Dio. 124 La sottolineatura del personale rapporto di Gesù con ogni peccatore giustificato, ha profonde radici neotestamentarie. È riscontrabile chiaramente in san Paolo quando si esprime sulla questione degli idolotiti: «Per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo», 1 Cor 8, 11-13.

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In questo senso, sembra emergere in Angela la consapevolezza che Cristo ha intessuto una relazione personale con ciascuno dei peccatori salvati, perché a ciascuno ha dato la propria vita 125. Da qui la confusione che alberga nella sua anima: è un bene più grande essere salvati dall’inferno o il fatto che Cristo sia stato crocifisso per lei? Di fronte al suo amore totale, non sa dire se sia più contenta per aver ritrovato la salvezza o per aver trovato un amico presso Dio, che non ha risparmiato se stesso per lei. La relazione con Cristo scoperta in modo nuovo la conduce a tralasciare i benefici della relazione stessa, per soffermarsi sull’eccezionalità del partner. È quanto viene raccontato nello stesso passo subito dopo: «In questa cognizione della croce mi si dava tanto fuoco che, stando vicino alla croce, mi spogliai di tutti i miei vestiti, e mi offrii totalmente a lui. E benché con timore, tuttavia allora promisi a lui di osservare castità perpetua e di non offenderlo con alcuno dei miei membri, accusando a lui tutte le membra singolarmente. E lo pregavo che mi facesse osservare questo predetto, cioè la castità di tutti i miei membri e sensi; perché da una parte temevo di promettere e dall’altra parte il fuoco predetto mi costringeva a promettere quella cosa, e non potevo fare altro» 126. Ci soffermiamo solo per qualche osservazione. Anzitutto, notiamo come la beata sia stata tolta dallo stato di dubbio e abbia trovato un’adeguata risposta alla domanda che si era posta. Infatti, nell’atto di denudarsi, abbandona tutto e, con un gesto di W. Kasper, a proposito della “sostituzione vicaria”, come idea centrale nel Nuovo Testamento, ha affermato: «Questo concetto è espresso con la formula “per voi”, “per noi”, “per molti”, avente un triplice significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al posto” di noi peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo aiutarci da soli… Il primo significato è dunque quello dell’intervento personale di Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita “per noi” e “per molti”; è quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene, in nostro favore. Infine la formula indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a causa” nostra, spinto da compassione verso di noi. Agire in modo vicario significa quindi che Dio interviene al posto del peccatore, operando uno “scambio”, per la sua misericordia ed il suo infinito amore», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, in «Lateranum» 72 (2006), 427-428. 126 Mem., I, 67-75. 125

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grande coinvolgimento emotivo dovuto al fuoco dell’amore divino, si offre totalmente al Crocifisso. Dimentica della paura della dannazione e dell’inferno 127, Angela riconosce in Cristo il bene totale, il maggior bene a cui si possa ambire. Quindi, non si accontenta della salvezza ottenutale da Gesù, ma si rivolge al Salvatore per legarsi a Lui castamente in sposa: «mi offrii totalmente a lui». Sottolineiamo, in secondo luogo, la presa di responsabilità della beata davanti al Cristo crocifisso. Assistiamo a quella che potremmo definire una “seconda confessione”: l’accusa di ogni parte del proprio corpo. Angela ha acquisito la consapevolezza della propria responsabilità nella morte di Cristo, colto come l’amante che si fa carico degli errori dell’amata. La beata non può fare altro, colpita da quest’amore donante, che rendere conto delle proprie colpe. Infine, notiamo come sia l’azione preveniente di Cristo e il suo esempio d’amore – elementi riscontrati nel pellegrinaggio assisiano – a far innamorare Angela, che si sente investita proprio da questo amore, il fuoco, da lei rimarcato più volte. L’innamorata decide, quindi, di condividere la vita con il proprio Amante, da qui l’idea di seguire nuda il Cristo nudo sulla croce 128. Giungiamo al decimo passo. Sulla linea che abbiamo indicato, Angela contempla i segni della passione che Gesù ha sostenuto per lei e si rende conto di come nulla possa dargli che sia, in confronto, minimamente significativo. Ecco una parte del brano in questione: «Nel decimo, mentre chiedevo a Dio come potessi fare per piacergli di più, egli per la sua misericordia mi apparve più volte crocifisso sulla croce, mentre dormivo e mentre ero sveglia. E mi diceva di guardare nelle sue piaghe, e in modo meravigliso mi mostrava come avesse patito tutto per me; e questo fece più volte. E dopo avermi mostrato una per una singolarmente tutto quanto aveva patito per me, mi diceva: Cosa, dunque, puoi fare che ti basti?» 129. Si noti l’abbondante frequenza, sino a questo punto, di parole e concetti legati all’inferno – la parola «inferno» sin qui compare 4 volte –, frequenza mai così abbondante nel resto del Memoriale, se si eccettua il capitolo che espone il sesto passo supplementare in cui la parola «inferno» compare 3 volte. 128 In questo Angela segue perfettamente l’esempio di san Francesco, cf. Leggenda Maggiore, II, 4. 129 Mem., I, 96-102. 127

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La relazione tra i due, dunque, appare sproporzionata: Cristo ha dato tutto se stesso e Angela non può dare nulla che basti a colmare la profondità di quel dono d’amore. Subito dopo, Gesù mostrando le ferite al volto e contando i segni della flagellazione afferma: «Tutto questo sostenni per te», confermando la domanda «Cosa puoi fare per me che ti basti?» 130. A quel punto Angela, accogliendo il dono offertole in maniera totalmente gratuita e personale da Cristo, non può far altro che sfociare in un pianto ardente. Aprendo una breve parentesi alla luce del passo appena visto: ci sembra che vada ripensato – almeno in parte – il senso dell’offerta di sé che Angela nuda fa davanti al Crocifisso. Certamente il valore di tale offerta è presente nel gesto – la beata lo dice chiaramente: «mi offrii totalmente a lui» –, tuttavia, l’accento deve essere posto, soprattutto, sulla condivisione della vita di Cristo nella sequela. La beata ha sin troppo chiara la sproporzione dei doni delle rispettive vite, che emerge in maniera molto esplicita nel decimo passo. Ella ritiene la propria vita talmente bassa da definirla in seguito nulla, perciò non deve avere molto senso per lei donarla, come qualcosa di prezioso, al suo Salvatore. Ha molto più senso, invece, offrire tutta se stessa per suggellare il rapporto personale d’amore propostole da Cristo. Secondo noi, in quel gesto, Angela ha inteso “sposare” Gesù, donandogli la propria vita per concludere un patto d’amore e condividere la vita di Lui, in tutti gli aspetti e per sempre: Lui è puro e senza peccato e lei chiede di seguirlo in castità, promettendo di non peccare con il suo corpo; Lui è nudo e povero e lei, denudatasi, riceve l’illuminazione divina sulla povertà. Quindi, l’offerta di sé che Angela compie davanti al Crocifisso va intesa, innanzitutto, come risposta di accoglienza al dono della vita che Cristo ha fatto a lei, una risposta che suggella un legame indissolubile, sponsale. In secondo luogo, il gesto di Angela – per il legame instauratosi – diviene l’inizio solenne della condivisione della vita di Cristo nella sequela. Da quanto sin qui esposto, emerge un dato estremamente importante nella visione che Angela ha di Cristo, come «Dio uomo passionato»: la passione e la morte del Figlio di Dio vanno colte nel loro 130

Mem., I, 107.112-113.

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aspetto di donazione. Le continue sottolineature sulle finalità dell’azione di Cristo – ricordiamo «pro te», «pro nobis», «pro peccatis nostris», «pro me» –, permettono di cogliere la morte di Gesù come dono totale, come voluto atto d’amore donante nei confronti di ciascun peccatore. L’attribuzione a Gesù dell’espressione «passionato», quindi, non indica primariamente “colui che ha sofferto”, ma “colui che ci ha amato sino alla fine” o “colui che ha dato tutto se stesso per noi”. Infatti, il suo amore donante ha comportato la passione e la morte, quindi, queste sono – soltanto – luminosi rimandi e conferme di quello 131. Il coinvolgimento amoroso nella vita di Cristo consente ad Angela l’approfondimento continuo del mistero del Figlio di Dio incarnato. In particolare, la contemplazione progressivamente più profonda della sofferenza patita da Cristo nell’umanità, le permette di cogliere il mistero divino che da essa traspare. Il legame indissolubile tra umanità e divinità appaiono anche prima del pellegrinaggio di Assisi. Infatti, è proprio la contemplazione della divinità e dell’umanità di Gesù, a offrire alla Mistica folignate la prima grande consolazione. Siamo al diciannovesimo passo, dopo l’illuminazione ricevuta attraverso il «Padre nostro». Queste le parole scritte da Frate A.: «Nel diciannovesimo, ma nel mezzo di questo tempo delle strida, dopo quella meravigliosa rivelazione che ebbi nel Pater noster, sentii in questo modo la prima grande consolazione della dolcezza di Dio. Una volta mi fu ispirata e fui tratta a considerare il piacere che c’è nella contemplazione della divinità e dell’umanità di Cristo. E allora ebbi una consolazione maggiore rispetto a quelle di cui ero esperta, tanto che per gran parte di quel giorno stetti in piedi nella cella dove pregavo, sola e raccolta, e il mio cuore era in quel piacere. E dopo svenni e persi la parola» 132.

In questo senso l’amore di compassione attribuito ad Angela, non deve essere inteso come un amore nato dalla pena per le sofferenze di Cristo, ma come quell’amore che le fa condividere in tutto la vita dell’Amante-Amato, il quale ha amato per primo con amore totale e coinvolgente. 132 Mem., I, 268-275. 131

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L’enorme piacere provato dalla contemplazione di Cristo coinvolge Angela anima e corpo. Ella, infatti, rimane in piedi per gran parte del giorno come per non perdere nulla del diletto della consolazione, che aumenta via via d’intensità fino a farla svenire e a toglierle la parola. Quanto qui sperimentato appare come prefigurazione o, meglio, caparra dei benefici che otterrà nella relazione sempre più profonda con il Figlio. Infatti, subito dopo questa esperienza di intenso diletto, Angela viene invitata a non perdere tempo nella distribuzione dei suoi beni, con la promessa che appena avrà terminato la Trinità verrà in lei. 2.1.2. La visione della divinità di Cristo La via contemplativa è la via privilegiata dalla beata per conformarsi pienamente al Crocifisso. Proprio le meditazioni sull’umanità passionata di Gesù, le dischiudono la visione della divinità. «Una volta pensavo al grande dolore che Cristo sostenne in croce e pensavo a quei chiodi, perché avevo sentito dire che quelli delle mani e dei piedi portarono dentro il legno la sua carne. E desideravo vedere almeno un poco della carne di Cristo che portarono i chiodi nel legno. E allora ebbi tanto dolore per quella sofferenza di Cristo, che non potei stare in piedi, ma mi piegai e mi sedetti e piegai il capo sulle braccia che avevo disteso a terra. E allora Cristo mi mostrò la gola e le braccia. E allora la tristezza di prima fu mutata in tanta letizia di cui non posso dire alcunché, e fu una nuova letizia diversa dalle altre, e non udivo né vedevo né sentivo se non quello… Era tanta la bellezza di quella gola, che capivo che quella bellezza veniva dalla divinità, cosicché attraverso quella bellezza mi sembrava di vedere la sua divinità e mi sembrava di stare davanti a Dio, ma non mi si mostrava altro se non quello» 133. L’inizio del brano ci colloca nel mezzo delle meditazioni angelane sull’umanità, anzi, meglio, sulla corporeità di Cristo. Ella è talmente concentrata sull’immagine concreta di Gesù, da desiderare di vedere anche i minimi dettagli della sua carne straziata. 133

Mem., III, 209-219.

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La visione intensa della sofferenza di Cristo le provoca un tale dolore da farla ripiegare su se stessa, un dolore che la porta ad abbandonarsi, a lasciarsi andare, quasi a disperarsi; si noti la posizione che viene ad assumere Angela che sembra accasciarsi, abbandonarsi verso terra anche fisicamente. Ella appare immersa nella visione della morte di un uomo o, meglio, nella visione del “suo” uomo morto, cosa che le provoca un dolore eccezionale. È a questo punto che le viene concesso di cogliere la straordinarietà di Gesù: la sua divinità. Nella crudezza dell’immagine della corporeità distrutta del Cristo, nelle sue braccia trafitte e nella sua gola flagellata – si pensi ai brandelli di carne confitti nel legno o alla barba strappata dal viso menzionata in un’altra visione 134 –, ella vede la bellezza che proviene dalla divinità, una bellezza, quindi, che non ha nulla a che fare con i canoni della bellezza umana. È una bellezza sovrumana, che si manifesta nella disumana bruttezza del Crocifisso. Come la stoltezza della croce predicata da Paolo 135, anche la bruttezza del Crocifisso confonde i sapienti della terra: non possono trovare con le proprie sole forze la bellezza della presenza divina, sotto le sembianze di un’umanità distrutta. Eppure in quella gola e in quelle braccia, agli occhi dell’amore credente, è dato di vedere la bellezza esplosiva di Dio che squarcia il velo, il manto, imposto dalla bruttezza di una umanità straziata. Il triplice «e allora» – in riferimento prima al dolore, poi all’ostensione della gola e delle braccia, infine alla massima letizia – cadenza i momenti di questa apparizione improvvisa e inaspettata. A questo punto della contemplazione, l’umanità di Cristo passa in secondo piano e Angela è totalmente assorbita dalla presenza divina, che proprio in quell’umanità le si mostra. Più avanti nel Memoriale, la stessa beata ci riferisce di come Dio stesso la inviti a meditare sulla divinità di Gesù. «All’anima fu detto anche: Ti meravigli di questo corpo di Cristo così afflitto o passionato? Quanto più ci si deve meravigliare della divinità che questo permise che avvenisse nel suo mantello, cioè nell’umanità in cui è questa divinità.

134 135

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Cf. Mem., I, 102-107. Cf. 1 Cor 1, 18-25.

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E, perché capissi, mi si dava un esempio di un uomo nobilissimo che non può essere offeso nella persona ed è stato offeso e annientato nella sua casa, che è stata distrutta al posto della sua persona. E qui mi si mostrava che, sebbene Dio fosse impassibile, tuttavia, per amore nostro, permise che una grande offesa fosse arrecata alla divinità davanti a tutti. Ma questo esempio lo curai poco» 136. È Dio che fa notare ad Angela – forse troppo colpita dall’immagine corporea – che la sua attenzione deve essere rivolta alla divinità. È la divinità, infatti, ad aver sostenuto la sofferenza nell’umanità. Emerge, così, come la passione di Cristo non sia soltanto la passione di un uomo, ma anche la passione di Dio che l’ha sostenuta. La straordinarietà del gesto donante di Gesù deriva dalla straordinarietà della sua persona. Il sacrificio-dono di sé che Egli compie è tanto superiore al sacrificio-dono di chiunque altro, quanto è superiore il suo essere Dio rispetto all’essere creaturale. Nessun uomo può dare la vita come l’ha data l’uomo Dio Gesù Cristo. Angela utilizza due immagini per indicare come la divinità sia presente nell’umanità in Cristo. La prima immagine è quella del mantello indossato dalla divinità. La seconda immagine è quella della casa in cui abita la divinità. Per quanto riguarda la prima immagine, un rimando vicino alla beata potrebbe essere Ubertino da Casale, che nell’Arbor vitae crocifixae Iesu parla della «veste umana» tessuta e cucita da Maria sulla «divinità splendente» di Gesù 137. Anche Tommaso d’Aquino per indicare l’umanità di Cristo utilizza l’immagine dell’abito, perché mostra il Verbo, come un vestito mostra l’uomo, anche se sottolinea che l’unione tra la di-

Mem., V, 55-63. Così il testo di Ubertino da Casale nella traduzione di M. Damiata: «O bambino Gesù, trai più nutrimento dal cuore in cui la vergine Madre ti generò che dal seno di quel corpo, dal quale – dopo essere stato concepito per opera dello Spirito santo – oggi volesti uscire nascendo nella vita temporale. Con le cui fibre durante il tempo dovuto essa ti fece una piccola tunica come un novello Samuele. Te la tessé nel giro di nove mesi; te la adattò, Dio bambino, con l’ago preso dallo Spirito santo; con esso ti cucì la veste umana sulla tua divinità splendente», in M. DAMIATA, Ubertino da Casale. Testi estratti da Arbor vitae crocifixae Iesu, in E. CAROLI (coord.), Mistici francescani. Secolo XIV, vol. II, EFR, Milano 1997, 630. 136 137

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vinità e l’umanità non è accidentale 138. Per quanto riguarda la seconda immagine utilizzata, che il frater scriptor «poco curò», ci sembra significativo il rinvio scritturistico al prologo giovanneo, una cui citazione apre il Memoriale. Il Verbo divino assumendo l’umanità prende dimora tra noi, viene ad abitare in mezzo a noi 139, per cui l’umanità assunta è paragonata da Angela a una casa, all’abitazione della divinità. Entrambe le immagini aprono la questione sul coinvolgimento della divinità nella passione. Nel primo caso, infatti, Angela afferma che la divinità è da ammirare perché la sostenne – nel suo mantello –, nel secondo caso che, «sebbene Dio sia impassibile», permise che gli fossero fatti degli oltraggi. Per cogliere a pieno la prospettiva angelana, occorre vedere la frase che conclude poco dopo l’intero brano: «E allora l’anima fu infuocata d’amore e poco quasi reputò la passione del corpo di Cristo rispetto all’amore della divinità» 140. È l’«amore della divinità» che la infiamma e le fa sembrare poca cosa i patimenti del corpo. Per Angela è evidente che Dio, in quanto permette agli uomini di oltraggiarlo, subisce la vergogna, ma in questo suo subire ingiurie si rivela Amore divino. L’impassibilità nonostante la vergogna subita, perché liberamente permessa, sembra trovare la propria spiegazione nell’amore della divinità. La beata non giunge ad affermarlo 141, ma è il fatto che Dio sia Amore a renderlo impassibile alla vergogna ed è il subire oltraggi a rivelare che Egli è Amore divino che non cambia, non diminuisce e tanto meno cessa, nonostante tutto. Quest’Amore la infiamma d’amore. Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 2, art. 6, ad 1. Cf. Gv 1, 14. 140 Mem., V, 65-66. 141 In questo caso, ella non collegando il pensiero dell’impassibilità a quello di Dio Amore, sembra rimanere legata a un concetto d’impassibilità come impossibilità di soffrire. A tal proposito W. Kasper afferma: «La croce crocifigge il concetto che abbiamo di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e muore, è il contrario dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo. La croce mette in discussione uno degli assiomi fondamentali della metafisica tradizionale, la quale a priori, considera come caratteristiche quasi imprescindibili di Dio immutabilità e apatia», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, cit., 421. Negli esempi angelani, infatti, gli oltraggi arrecati a Cristo riguardano “solamente” la «casa» o il «mantello». Rimane evidente, tuttavia, il coinvolgimento della divinità nella vicenda: sostiene la passione e permette gli oltraggi. 138 139

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Da quanto sin qui esposto, emerge come divinità e umanità in Cristo non siano separate e, anche là dove si approfondisce la contemplazione dell’una o dell’altra, si possono rinvenire gli elementi che le legano in unità: il dono gratuito e totale che il Figlio incarnato fa di sé agli uomini, per condurli alla comunione con Dio, secondo il volere amoroso del Padre. Ancora una volta è l’Amore divino, a legare divinità e umanità in Cristo. Concludendo, possiamo affermare che la locuzione «Dio uomo passionato» esprime due caratteristiche estremamente importanti. Anzitutto, il dono gratuito e preveniente che Cristo fa di sé per ciascun uomo, un dono che porta ogni essere umano alla relazione personale con Lui. In secondo luogo, l’inseparabilità di umanità e divinità nel Figlio, che dischiude la possibilità reale della comunione divino-umana attraverso l’accoglienza del dono che è Cristo. L’intera economia della salvezza appare racchiusa nelle poche parole angelane: «Dio uomo passionato». 2.2. La croce e la «società» di Cristo 2.2.1. La croce nell’anima di Angela Il percorso mistico angelano è totalmente connotato dalla croce di Cristo, ne è segno fondamentale il dono della croce stessa posta nell’anima di Angela, sulla via del ritorno dopo il pellegrinaggio di Assisi. «E nel ritorno sulla via di san Francesco mi disse, tra le altre, questa parola: Ti do questo segno che sono io a parlarti e ad averti parlato, ti do la croce e l’amore di Dio in te, e questo segno sarà in te in eterno. E subito io sentivo quella croce e quell’amore dentro nella mia anima, e mi rendevo conto che sentivo quella croce corporalmente e, sentendo, l’anima mia si scioglieva nell’amore di Dio» 142.

142

Mem., III, 121-126.

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Tale dono la guiderà lungo tutto il cammino di conformazione a Cristo, conducendola a penetrare sempre più profondamente il mistero del Figlio di Dio 143. Riprenderemo alcuni pensieri già accennati a proposito della «disposizione salvifica divina», riferendoci a brani riguardanti la parte finale del percorso mistico. Angela ritornando dalla visione tenebrosa alla visione del «Dio uomo» esplode in un canto di lode: «Ho il desiderio di cantare lodare e dico: Lodo te, Dio diletto, nella tua croce ho fatto il mio letto; per cuscino o capezzale trovai la povertà; dall’altra parte del letto, dove sono a riposare, trovai il dolore col disprezzo» 144. In questa lauda Angela canta a un tempo la sua profonda ammirazione per il Figlio di Dio e la ferma convinzione di seguirlo sulla croce, la quale sembra comportare come corollari fondamentali la povertà, il dolore e il disprezzo. Povertà, dolore e disprezzo, infatti, sono rinvenuti da Angela sopra il letto-croce, come elementi che lo caratterizzano. Alla domanda di chiarificazione di Frate A. la beata risponde in questi termini: «In predetto letto, perché Egli nel letto nacque, conversò e morì, e perché Dio Padre questo letto amò prima che l’uomo peccasse (antequam homo peccaret) – e Dio Padre amò questo amore di questa società, cioè della povertà e del dolore e del disprezzo –, e Dio Padre amò talmente tanto la predetta società che la diede a suo Figlio, il Figlio in questo letto volle continuamente giacere e in continuo amore e concordanza con il Padre. Tommaso da Celano ci dice che anche Francesco aveva radicata nel cuore la croce e, inoltre, afferma che le stimmate ne sono la conseguenza, cf. TOMMASO DA CELANO, Vita secunda, CLX, 211; la versione italiana in Fonti Francescane. Nuova edizione, 355-510. 144 Mem., IX, 104-107. Gli Editori rimandano a un dipinto raffigurante san Francesco presente nel Museo della Porziuncola, quale fonte più prossima per l’idea della croce come letto, cf. nota 15 a questo testo. 143

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Perciò questo letto è il mio letto… e in questo letto credo di morire e per questo letto credo di salvarmi» 145. Dal brano emerge la convinzione della beata che vede la relazione tra la croce e il Figlio di Dio tutt’altro che accidentale. Sulla croce Cristo nacque, visse e morì, perciò lei, decisa a seguire il suo Amante e Amato, non esita a farne il luogo d’incontro con Lui. È perché il Figlio l’accolse, l’amò e vi giacque, che lei vuol fare altrettanto e, attraverso la croce, avere la possibilità di morire ed essere salvata. Proprio le affermazioni secondo cui l’intera vita di Gesù si svolse in relazione alla croce, ci inducono a soffermarci su questo termine. Concordiamo sostanzialmente con gli Editori, per quanto riguarda l’inserimento nel testo dei segni grafici che indicano un inciso 146. Questo avrebbe lo scopo di esplicitare la frase sull’amore di Dio per il letto-croce. A questo proposito, ci pare si debbano fare alcune considerazioni, per cogliere il significato profondo che Angela dà alla «società» di Cristo, cioè povertà, dolore e disprezzo. Anzitutto, occorre osservare che croce e «società» risultano sostanzialmente interscambiabili. Infatti, viene detto che il Padre ama il letto-croce e, in seguito, Angela parla di «questo amore» come dell’amore per la «società»; successivamente la beata afferma che il Padre amò e diede al Figlio la «società» e che il Figlio amò e volle giacere sulla croce concordando con il Padre. Del resto, se l’amore del Padre per la croce è l’amore per la «società» e il Padre dà al Figlio la «società» e Questi accoglie la croce, le due cose si identificano.

145 Mem., IX, 108-117. A proposito della croce come letto, Ubertino da Casale nell’Arbor vitae crocifixae Iesu usa la stessa immagine. È Maria a lamentarsi sotto la croce: «Oh, croce dura e crudele verso il tuo autore, con quale temerarietà osi stendere con tanta crudeltà sul tuo duro e rigido letto il mio dilettissimo figlio, Dio vivo ed eterno, legandolo a te tanto crudelmente con chiodi di ferro?», in M. DAMIATA (a cura di), Ubertino da Casale. Testi estratti da Arbor vitae crocifixae Iesu, in E. CAROLI (coord.), Mistici francescani. Secolo XIV, cit., 638. 146 L’inciso apparirebbe tra le righe 110 e 113. Gli Editori ne danno le ragioni in nota 16 al testo, sostenendo che il periodo è staccato e, quindi, l’inciso è una spiegazione della frase che lo precede.

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A questo punto, potremmo dire che il concetto di croce trova la propria traduzione in termini esistenziali 147, attraverso i concetti di povertà, dolore, disprezzo. Tuttavia, pur stando così le cose, riteniamo che croce e «società» non debbano essere semplicemente identificate. Angela, pur accostandole significativamente, non le identifica espressamente. Infatti, per il Figlio di Dio, la croce non indica solamente uno stile di vita, come potrebbe essere per ogni discepolo, ma anche l’evento storico di donazione totale di sé, attraverso una morte che solo Lui ha vissuto. Tale morte, lo ha reso unicamente povero, addolorato e disprezzato. Perciò, se da un lato Angela traduce il termine croce con povertà, dolore, disprezzo, d’altro lato ha piena coscienza che l’evento della croce appartiene in maniera unica alla storia di Gesù: il Maestro ha portato una croce che nessun discepolo potrà mai portare, anche se questi abbraccia totalmente la «società» 148. Sulla linea della lettera ai Filippesi, possiamo dire che il Figlio di Dio ha vissuto povertà, dolore e disprezzo, dal momento che si abbassò dalla dignità divina alla povertà umana. Tuttavia, la morte di croce non è un morire “normale”, perché conferma e oltrepassa il tentativo di traduzione che Angela opera. Cristo ha dato se stesso per noi non solo sino alla morte, ma sino «alla morte di croce» 149. Questo scarto va colto e Angela lo ha ben presente. Come a dire che Egli accoglie la «società» amata dal Padre in maniera inaudita, come solo Lui – «Dio uomo» – può: non solo sino alla morte – insita nel mistero dell’incarnazione, dal momento che viene assunta la natura umana – ma sino

147 A tal proposito si pensi, ad esempio, alla frase gesuana in Mc 8, 34: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Il «prendere la croce» significa adottare lo stile di vita di Gesù, lo stile di vita evangelico. 148 Sulla triplice «società», ricordiamo l’esortazione di santa Chiara d’Assisi alla beata Agnese di Boemia nella Lettera seconda, 18-20: «Abbraccia, vergine poverella, Cristo povero. Vedi che Egli per te si è fatto oggetto di disprezzo, e segui il suo esempio rendendoti, per amor suo, spregevole in questo mondo. Mira, o nobilissima regina, lo Sposo tuo, il più bello tra i figli degli uomini, divenuto per la sua salvezza il più vile degli uomini, disprezzato, percosso e in tutto il corpo ripetutamente flagellato, e morente perfino tra i più struggenti dolori sulla croce. Medita e contempla e brama di imitarlo»; le Lettere in Fonti Francescane. Nuova edizione, 1805-1817. 149 Fil 2, 8.

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alla morte di croce, ossia sino alla morte infamante e vergognosa decisa dalla libertà umana, che il Figlio di Dio, accogliendo la «società», ha permesso per condurre l’uomo alla comunione con Dio 150. C’è una frase che colpisce l’attenzione: il Padre amò la croce «prima che l’uomo peccasse…». Questa ci proietta oltre la storia, oltre quell’Adamo – primo uomo e peccatore – che segna il compimento dell’atto creativo. La locuzione ci proietta in Dio, nelle eterne relazioni intratrinitarie. Quindi, ciò che si rivela nella dimensione storica del Cristo – nacque, visse e morì sulla croce – rispecchia quanto voluto nell’eterno divino. È ciò che abbiamo affermato in riferimento alla «disposizione salvifica divina». A conferma di quanto appena proposto, riportiamo un altro brano nel quale la beata richiama gli stessi argomenti, per dire di averli superati nella contemplazione. «E fui tolta da tutto ciò che avevo prima e in cui prima solevo dilettarmi, cioè dalla vita e dall’umanità di Cristo e dalla considerazione di quella profondissima società che Dio Padre tanto amò dall’eternità (ab aeterno) da darla a suo Figlio… vale a dire nel disprezzo e nel dolore e nella povertà del Figlio di Dio, e nella croce che soleva essere mio riposo e mio letto» 151. Anche in questo caso compaiono croce e triplice «società», pur se in ordine inverso. La beata sottolinea la sua relazione a Cristo e alla croce, attraverso l’immagine del letto. Il brano, quindi, per evidenti affinità è da legare al precedente. Stavolta, però, Dio non amò la «società» da prima che l’uomo peccasse, ma «dall’eternità». Ci viene confermato come fosse corretto pensare al piano divino atemporale, in riferimento alla locuzione «antequam homo peccaret» – detta dell’amore per la croce –, dal momento che ora la locuzione «ab aeterno» viene detta dell’amore per la «società», che della croce è la traduzione esistenziale.

150 È quanto abbiamo colto nel paragrafo precedente, analizzando il brano in cui Dio invita Angela alla contemplazione della divinità che sostiene la passione, cf. Mem., V, 55-65. 151 Mem., IX, 303-309.

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Dal momento che la beata afferma un legame eterno tra il Figlio di Dio e la croce – nei termini di povertà, dolore e disprezzo –, perché eternamente amata e accolta dal Figlio, occorre indagare su cosa questo comporti per Lui. 2.2.2. La croce «ab aeterno». Alcune questioni fondamentali A questo punto si delineano alcune domande fondamentali. Per Angela il fatto che il Padre ami «dall’eternità» la croce, implica il fatto che «dall’eternità» la diede al Figlio? Oppure, detto in altri termini: il Figlio – il Verbo eterno – è voluto dal Padre eternamente – quindi sostanzialmente –, povero, addolorato, disprezzato, o tali attribuzioni sono da legare soltanto all’azione rivelatrice e redentrice di Cristo, perciò al Figlio di Dio incarnato? O ancora: la croce ha a che fare solo con la Trinità economica – come qualcosa fondamentale nella rivelazione e nella redenzione, ma storicamente connotato e da legare solo alla vicenda terrena di Cristo – o anche con la Trinità immanente – come qualcosa che attiene al Verbo eterno presso il Padre, perché tale da Lui generato –? A proposito della povertà del Figlio di Dio incarnato, c’è un importante brano nel quale la beata Angela riferisce di averne avuto la contemplazione: «Una volta stavo meditando sulla povertà del Figlio di Dio incarnato. Io vedevo la sua povertà – tanto grande quanto egli la mostrava nel mio cuore e voleva che io la vedessi – e vedevo quelli per cui si fece povero. E allora ebbi e sentii tanto dolore e reprensione, che il mio corpo quasi veniva meno. E ancora fu volontà di Dio mostrarmi di più di quella povertà. E allora lo vedevo povero di amici e parenti, e lo vedevo povero di se stesso e tanto povero che non pareva si potesse aiutare. E siccome si dice che allora la divina potenza era nascosta attraverso l’umiltà, sebbene si dica che allora la divina potenza era nascosta attraverso l’umiltà, io dico no, e di questo ho ricevuto una testimonianza da Dio di come non era nascosta» 152.

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Mem., VII, 18-29.

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La mistica di Foligno, nella meditazione sulla povertà di Cristo, vede coloro per i quali Egli si fa povero. Ne consegue un particolare dolore – probabilmente per il senso di responsabilità – dal momento che Cristo si fa povero per gli uomini. A questo punto sembra che la povertà del Figlio non gli appartenga sostanzialmente, ma sia funzionale all’azione salvifica: Egli si è fatto povero per la nostra salvezza. Successivamente notiamo un salto di qualità nell’esperienza: «fu volontà di Dio mostrarmi di più di quella povertà». Angela vede Cristo povero di amici, di parenti, di se stesso al punto tale che non sembra possibile fare alcunché. In questo frangente ella coglie come quella povertà, non nasconda la sua potenza nell’umiltà, dal momento che la potenza non viene nascosta per nulla. Ne consegue un maggior dolore, dovuto alla superbia che lei coglie in sé, al cospetto della povertà che vede in Lui. La prospettiva che caratterizza la seconda parte dell’esperienza non è più storico-salvifica, ma cristologica 153. La beata viene condotta attraverso la meditazione sulla povertà esteriore di Cristo, alla contemplazione della sua natura. A questo punto, coglie che ciò che si mostra nella vicenda storica di Gesù è la conseguenza di tale natura e non soltanto una modalità per rivelare la potenza della sua azione salvifica. Un altro brano interessante in riferimento alla povertà, si trova poco oltre sempre al quinto passo supplementare. «La fedele di Cristo disse che in una locuzione fattale da Dio udì lodare la povertà per tanto insegnamento per tanto bene che assolutamente eccede ogni nostro intelletto. E disse Dio: Se non fosse tanto bene io non l’avrei amata; e se non fosse così nobile io non l’avrei assunta. G. Pozzi nota che, a differenza di molti teologi del tempo che ritenevano la povertà di Cristo funzionale alla manifestazione della potenza salvifica di Dio, «Angela sceglie… l’altra soluzione, proponendo l’idea che la povertà (reale e metafisica congiuntamente) di Cristo riveli la potenza divina, e ciò per una ragione non già finalistica (per manifestarla meglio nel contrasto), ma ontologica, perché ne è un attributo proprio», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 143. Il fatto che la potenza di Dio non fosse nascosta nell’umiltà e nella povertà della vita di Cristo è un tratto da riferire ad Angela. Ne è prova un testo in Instr. III, 310-317, nel quale la prospettiva è completamente diversa. 153

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Inoltre, la fedele di Cristo, riprese così dicendo: La superbia può essere solo in quelli che credono di avere qualcosa. E l’angelo che decadde e il primo uomo perciò si insuperbirono e decaddero perché stimarono e credettero di avere qualcosa. Né l’angelo, né l’uomo, né qualcosa ha l’essere se non uno solo, cioè Dio. E l’umiltà è in quelli solamente che sono così poveri che vedono di avere nulla. E poiché Dio ogni male, che permette si faccia, lo fa accadere per i buoni, Dio fece essere suo Figlio, che ha più di quanto possiamo dire, più povero di quanto mai fosse alcun santo né alcun uomo. E lo fece essere così povero come se non avesse l’essere, ma questo fu visto dai peccatori che erano privi della vera luce ma non così era visto e non così è visto da quelli che capiscono» 154. Notiamo subito i termini «amata» e «assunta» riferiti alla povertà. Il primo termine ci rimanda alla triplice «società» amata eternamente da Dio. Il secondo, invece, ci rimanda al mistero dell’incarnazione, momento in cui il Verbo eterno diviene il «Dio uomo passionato». Il Padre, amando eternamente la povertà, fa essere il Figlio più povero di qualsiasi uomo, «come se non avesse l’essere». Chi però intende con la «vera luce» vede il suo essere, vede che la sua natura si mostra. In relazione ai testi visti in precedenza possiamo tentare qualche osservazione. Anzitutto, ci pare si possa estendere quanto detto della povertà alle altre componenti della «società», poiché il dolore e il disprezzo si possono intendere come corollari della povertà stessa. Infatti, il dolore e il disprezzo di Cristo sembrano rappresentare l’aspetto personale e sociale della povertà estrema, colta come espropriazione-donazione totale di sé. In altri termini: il dono della vita compiuto da Cristo, deve essere inteso, secondo l’idea angelana, in termini di rinuncia alle proprie ambizioni umane, alle relazioni interpersonali e, infine, alla propria dignità. Questa espropriazione totale di sé non può che provocare dolore – spirituale e fisico – e disprezzo – ossia rigetto da parte degli uomini per la scandalosità, l’incomprensibilità, la bruttezza dell’espropriazione –. 154

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Mem., VII, 498-502.

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Il dolore – in termini di fatiche, frustrazioni, delusioni, ma anche fame, sete e altri bisogni – è l’aspetto personale della rinuncia, della povertà a ogni bene per sé. Il disprezzo – in termini di incomprensioni, allontanamenti, derisioni e, persino, di ingiuste condanne nei confronti di chi appare “diverso” e con tale diversità mina i pilastri di un certo stile di vita – è l’aspetto sociale della povertà 155. In secondo luogo notiamo che la povertà qualifica Cristo nell’azione terrena, sia come qualcosa che gli appartiene eternamente, sia come qualcosa che ha assunto nell’incarnazione. A questo punto, compare una prima risposta alle questioni poste sopra: se la povertà è stata assunta, evidentemente appartiene alla natura umana assunta e non alla natura divina eterna. Tuttavia, se le cose stessero “semplicemente” in questo modo, risulterebbe difficile comprendere il motivo per cui nella povertà non si nasconda la potenza di Dio, ma si mostri. Infatti, se la povertà attiene alla natura di Cristo, in quanto appartenente alla sola umanità assunta, dovrebbe nascondere la natura del Verbo eterno. Angela, però, afferma espressamente che la potenza divina – attributo del Verbo eterno – non si nasconde nell’umiltà e, quindi, si mostra. Come a dire che la povertà dell’uomo Gesù non nasconde, ma mostra gli attributi del Verbo eterno. Così l’apparente assenza di «essere» del Figlio di Dio incarnato, a causa della povertà, mostra, agli occhi di chi ha il vero lume, l’«essere» dell’«uno, cioè Dio», che possiede veramente l’essere. A questo punto la questione si sposta sull’«essere» che si mostra. Quale «essere» potente può mostrarsi nell’umile povertà della natura umana? La risposta non può essere che una sola: un «essere» a un tempo potente e umile, ossia che ha la potenza di spogliare se stesso, rimanendo se stesso. Così avviene sia nella creazione – Angela vede Dio come Essere umile in ogni essere – che nella redenzione – il Padre si “spoglia” del Figlio perché ce lo dona, Questi si spoglia di sé donandosi –. Del resto, ciò che è del Verbo incarnato – nel nostro caso, la povertà –, deve essere “connaturale” a ciò che è del Verbo eterno – nel nostro caso, la potente umiltà o l’umile potenza. Se così non fosse, A questo proposito si pensi al brano Della vera e perfetta letizia predicata da san Francesco, vissuta là dove la povertà è amata con pazienza, soprattutto quando comporta il dolore per l’indigenza e l’allontanamento per il disprezzo. 155

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l’essere del Verbo eterno sarebbe nascosto oppure alterato, nel senso che ciò che si coglie nel Verbo incarnato è qualcosa di altro rispetto a ciò che è il Verbo eterno, per cui non vi sarebbe corrispondenza tra il contenuto della rivelazione e la sua ricezione a motivo del Rivelatore. Se ne conclude che – nell’incarnazione – il Verbo eterno si mostra nella natura assunta che gli è “connaturale”. L’umiltà e la potenza della natura del Verbo eterno, si rivelano nella povertà della natura umana assunta del Verbo incarnato. Riprendendo la risposta data in precedenza, possiamo, quindi, affermare che la povertà estrema – delle cose, degli altri e di sé –, del Verbo incarnato, intesa come potente umiltà di Dio capace di spogliare la divinità persino di se stessa, appartiene eternamente, sostanzialmente, al Verbo eterno. Ci soffermiamo brevemente per qualche riflessione sulla croce di Cristo, in relazione al Verbo eterno. Tale relazione è intuibile nel fatto che Dio è Amore. Nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato come il lemma «Dio uomo passionato», indicasse il dono d’amore gratuito e preveniente, che il Figlio fa di sé agli esseri umani. Un dono amoroso tale da comportare l’espropriazione massima di sé, sia della dignità divina, incarnandosi, che di quella umana, sul patibolo. Eppure, afferma Angela, coloro che hanno la vera luce possono vedere che Egli apparendo «come se non avesse l’essere» mostra, rivela, il suo «essere». Quale «essere» espropriando se stesso – perché si dà – si mostra essendo? La risposta non può che essere l’amore. Solo l’amore, infatti, può donare totalmente se stesso essendo se stesso, perché vive in altri fuori di sé. Quale «essere» amante può espropriare talmente se stesso da apparire «come se non avesse l’essere»? L’«essere» puro Amore: Dio. La croce, dunque, rivela l’Amore che è Dio 156. Essa, che tradotta nel concetto di povertà – che comporta dolore e disprezzo – attiene 156 Così Kasper: «Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). Se la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio non è “qualcosa” che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è presente. L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, cit., 430.

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alla natura di Cristo, trova il suo corrispettivo teologico nell’Amore che è Dio 157. Da una parte, quindi, il Verbo eterno appare connotato dalla croce, intesa come dono totale dell’Amore puro, dono dell’«essere» Amore capace di espropriarsi totalmente essendo se stesso. Il Verbo eterno appare come Amore dall’Amore 158. D’altra parte, la croce appare come la concretizzazione storica dell’«essere» Amore del Verbo, per cui ciò che è di Cristo non è altro da ciò che è del Verbo eterno. A questo punto è evidente che, per Angela, abbracciare la croce – cioè impegnarsi nell’accogliere e praticare la triplice «società» –, non è solo un modo per entrare in relazione con Gesù Cristo, ma è il modo adeguato per entrare in relazione con l’Essere stesso di Dio, che è Amore. 2.3. La presenza di Cristo nell’anima e le visioni in contesto eucaristico 2.3.1. Presenza di Cristo e visioni in contesto eucaristico In questo paragrafo ci soffermeremo principalmente su alcune esperienze vissute da Angela in ambito eucaristico, dal momento che tale contesto, e più in generale quello liturgico 159, è un luogo privilegiato per le visioni e per l’intuizione della presenza di Dio nell’anima. L’indagine tenterà di far emergere le tematiche teologiche sottese alle esperienze indicate. 157 «Dio è in se stesso kenotico… Ma in questo suo essere kenotico, Dio non rinuncia a se stesso, non si trasforma in qualcosa di diverso, non abbandona la propria divinità. In questa sua esistenza kenotica, Dio è Dio. Come la croce è la rivelazione dell’amore intratrinitario di Dio, così l’amore intratrinitario di Dio è la condizione interna che rende possibile la compassione di Dio fino alla morte in croce… La croce è dunque la forma più esterna dell’amore divino che si dà, è la forma più esterna dell’amore costitutivo di Dio, ovvero id quo maius cogitari nequit», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, cit., 432. 158 Sant’Agostino partendo dall’affermazione giovannea che Dio è Amore, esplicita chiaramente che ciascuna Persona divina è Amore (cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, XV, 17, 28), risultato a cui – per altre vie – è giunta anche Angela. 159 Si pensi, ad esempio, all’esperienza in cui l’anima entra nel costato di Cristo o a quella dell’abbraccio di Cristo nel sepolcro avvenute in ambito liturgico, anche se non eucaristico. Rispettivamente in Mem., VI, 255 e Mem., VII, 98.

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A tal proposito, lo stesso frater scriptor ci riferisce l’abitudine di interrogare la beata dopo che si è comunicata e la volontà di Angela di comunicarsi ogni giorno, viste le grazie ricevute continuamente: «Una volta io, frate scrittore, la comunicai. E poiché in ogni comunione soleva ricevere una nuova grazia, io frate, come più volte avevo fatto, le chiesi se fosse contenta della predetta comunione. Ed ella mi rispose dicendo, che se fosse possibile ogni giorno vorrebbe comunicarsi» 160. Iniziamo col dire che le esperienze legate all’Eucaristia accompagnano la Folignate lungo tutto il suo percorso mistico. Proprio per tale motivo, osserveremo alcuni brani nella successione con cui compaiono nel Memoriale. Il primo interessante dettato della beata su un’esperienza in contesto eucaristico è posto in relazione alla visione della bellezza della divinità, che emerge dalla gola di Cristo crocifisso 161. Tale bellezza non trova altro paragone nella mente di Angela, se non con la bellezza che emerge dal pane eucaristico. A questo punto Frater A. la obbliga a raccontargli ciò che le accade alla presenza dell’Eucaristia. Questa la risposta della beata: «Talora vedo l’ostia, come vidi quella gola, con tanto splendore e con tanta bellezza, poiché mi sembra venire da dentro più di quanto sia lo splendore del sole e da quella bellezza mi è dato di capire certamente che vedo Dio senza alcun dubbio, benché a casa in quella gola avessi visto una maggiore bellezza, tanto che su quella visione della gola non credo di poter perdere la letizia. E non so spiegarla se non attraverso la similitudine dell’ostia del Corpo di Cristo, perché è apparsa una più bella bellezza che nel sole e molto maggiore» 162. Possiamo subito notare che, come per l’esperienza della visione della gola – il paragone è istruito dalla stessa Angela –, la bellezza che sprigiona dall’ostia rimanda alla bellezza della divinità. Ella afferma senza alcun dubbio di vedere Dio. Il mistero eucaristico è pienamente Mem., IX, 217-221. Cf. Mem., III, 209-225. 162 Mem., III, 236-244. 160 161

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intuito dalla beata di Foligno, al punto tale da farle affermare che nel Corpo di Cristo appare una «più bella bellezza», molto maggiore della bellezza del sole e, per quanto detto in precedenza della visione della gola 163, non paragonabile ad alcuna cosa esistente in natura. Nel mistero eucaristico, quindi, sono presenti insieme la realtà creaturale e la realtà divina. Notiamo, infatti, che proprio nell’elevazione dopo la consacrazione 164, la bellezza di Dio si mostra agli occhi dell’anima. Un’ulteriore esperienza eucaristica, caratterizzata dalla bellezza inestimabile della visione, permette ad Angela di cogliere Cristo bambino seduto sul seggio reale, con in mano un simbolo di potere. Questa l’esperienza di Angela nelle parole di Frate A., prima di lasciare spazio alle affermazioni angelane che ribadiscono come tutto sia visto con gli occhi del corpo: «Un’altra volta disse che vide nell’ostia come Cristo bambino, ma sembrava essere grande e molto dominante (multum dominans) come colui che detiene la signoria (teneret dominationem). E mi sembrava tenere qualcosa in mano come segno di signoria (signum dominationis) e sedere in trono; ma non so dire cosa tenesse in mano» 165. Subito dopo Angela ribadisce il tipo di visione:

Infatti, se le due bellezze – della gola e dell’ostia – sono simili e una delle due non è paragonabile ad alcunché di reale, non lo sarà nemmeno l’altra. A dire il vero, l’affermazione sulla superiore bellezza della gola, rispetto a quella dell’ostia, appare chiaramente nel testo. Tuttavia, a nostro avviso, l’affermazione deve essere presa con qualche cautela. Infatti, il paragone tra le due visioni è riferito due volte in questo testo e una volta nel brano della gola. Per entrambe le visioni l’ulteriore termine di paragone è lo splendore del sole, superato da ambedue con i termini «più che (plus quam)» – la prima – e «molto maggiore (multo maior)» – la seconda. Quindi, al di là di quell’affermazione, le due bellezze sembrano equivalersi. 164 Il momento dell’elevazione non compare in questo testo, ma viene menzionato nel brano della visione della gola, in Mem., III, 227. Sempre nello stesso contesto la beata riferisce di aver visto nell’ostia due bellissimi occhi, così grossi che di questa si potevano vedere solo i bordi. Ebbe la stessa visione un’altra volta nella sua cella, cf. Mem., III, 246-252. 165 Mem., III, 253-256. 163

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«Ed era di tanta bellezza e di tanto ornamento, e mi sembrava un bambino di dodici anni; ed ebbi tanta letizia, che non credo di perderla in eterno» 166. Appare chiaramente l’ambivalenza delle caratteristiche di Cristo. Da un lato Egli è un bambino – un ragazzetto dodicenne –, dall’altro già detiene la signoria, simboleggiata sia dalla grandezza riconosciutagli, che dal trono sul quale siede e dal segno di dominazione tenuto in mano. Gesù dodicenne è il grande dominatore coperto di tanta bellezza: l’antitesi dichiara apertamente la grandezza della potenza divina nell’umiltà della creaturalità umana. Infatti, il Figlio di Dio, potente signore ricoperto di gloria, abbraccia totalmente l’umanità, indicata qui nella sua fase di crescita e, quindi, nella piccolezza. Tuttavia, è nell’umiltà della creaturalità assunta che si rivela la potenza della signoria divina. La visione di Angela, quindi, propone un’immagine particolare che racchiude in sé molte delle caratteristiche di Cristo, che approfondirà nel suo percorso mistico: Egli è Dio e uomo, potente e umile, glorioso e piccolo. È il Figlio eterno di Dio che spoglia se stesso e diviene figlio dodicenne di uomo, rimanendo sempre se stesso. Anche se mancano le caratteristiche della passione e della croce di Cristo, ci sembra apparire implicitamente l’idea di spoliazione nell’immagine della fanciullezza di Gesù. Il Figlio si è sottoposto alle leggi della temporalità, abbandonando la potenza divina per essere inerme bambino. In altre parole, Gesù si è fatto povero di sé e questo non può non essere legato alla passione e alla croce. A livello tematico, il brano si può senz’altro porre in relazione con i testi visti a proposito della potenza e dell’umiltà di Dio, attributi che sono stati ostentati in contesto eucaristico 167. Essi si mostrano in modo mirabile al momento dell’elevazione del Corpo di Cristo, lo stesso momento in cui Angela ha avuto la visione che abbiamo appena analizzato: «E quando giunse il momento dell’elevazione del Corpo di Cristo, disse: Ecco la potenza di Dio come è sopra l’altare. E sono 166 167

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Mem., III, 261-263. Cf. Mem., VI, 60-73.

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dentro in te, e se tu non mi ricevi, tu già mi ricevesti. E comunicati con la benedizione di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo. Io che sono degno rendo te degna» 168. Nel Corpo di Cristo, dunque, la beata di Foligno trova tutto il mistero di Dio, colto sempre più in profondità, perché sempre più profonda è la relazione con Lui. Se al primo passo supplementare troviamo l’immagine di Cristo fanciullo e Signore – in cui si accennano solamente le caratteristiche dell’uomo Dio che rivela il Padre –, al quarto passo supplementare incontriamo la rivelazione della potenza e dell’umiltà di Dio. Ne consegue l’eccezionale esperienza della presenza di Cristo nell’anima, una presenza che precede e culmina nel momento della comunione. Infatti, pur se già presente in Angela, Cristo la invita a comunicarsi, sottolineando come il rapporto tra loro sia in realtà un rapporto con tutta la Trinità, come si evince dalla benedizione trinitaria. La relazione tra Dio e la Folignate si esplicita nella dignità ricevuta dalla beata: «Io che sono degno rendo te degna!». È la stessa presenza divina che, attraverso la grazia impartita nell’intervento benedicente, permette ad Angela di stare al cospetto di Dio. In termini biblici di reminiscenza isaiana potremmo dire che Dio, il Santo, santifica il fedele, che, per ciò, può essere ammesso alla sua presenza 169. Concetti molto simili a quelli appena analizzati si trovano in un’altra esperienza vissuta dalla mistica folignate. In questo caso Dio presente nell’anima è nominato «ogni bene», così come il Corpo di Cristo al quale Angela sta per comunicarsi. «Ella disse così: Prima di comunicarmi e quando venni per comunicarmi, mi fu detto: Amata, ogni bene è in te, e ogni bene vai a ricevere. Allora, come mi sembrò, vedevo Dio onnipotente. E io frate scrittore chiesi se vedeva qualcosa secondo qualche forma. Mi rispose dicendo: Non lo vedevo sotto alcuna forma» 170.

Mem., VI, 79-82. In riferimento alla visione di Cristo fanciullo e Signore, Angela si lamenta per il fatto che il sacerdote depone troppo velocemente l’ostia sull’altare, cf. Mem., III, 260-261. 169 Cf. Is 6, 1-6. 170 Mem., VII, 220-222. 168

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Notiamo come Dio sia presente nell’anima di Angela prima che questa si accinga alla comunione in maniera molto simile alla precedente, anche se, in questo caso, la visione di Dio onnipotente avviene in relazione al momento della comunione. Il fatto che sia Dio nell’anima sia il Corpo di Cristo vengano colti come l’«omne bonum», sembra una conferma del fatto che il rapporto con Cristo, comporta il rapporto con il Padre e l’intera Trinità. Angela a questo punto vede Dio, senza alcuna forma concreta – materiale, creaturale –, solamente una pienezza, una bellezza, ogni bene 171. Ella rimane colpita dalle parole di Dio e si pone una domanda molto interessante in rapporto al Sacramento eucaristico: perché ricevere l’Eucaristia se Dio è già nell’anima? La risposta divina sembra andare nella direzione del bisogno concreto – quasi materiale –, dell’uomo di incontrare Dio nella propria storia, nella quotidianità della vita. «E allora cominciai a pensare: Se ogni bene è in me, perché vado a ricevere ogni bene? E subito mi fu data risposta: Uno non scaccia l’altro. E prima di entrare nel coro per comunicarmi, mi fu detto così: Adesso il Figlio di Dio è sull’altare secondo l’umanità e la divinità, ed è assieme a una moltitudine di angeli. E come ebbi il grande desiderio di vederlo con gli angeli, così come mi era stato detto, allora mi fu mostrata quella bellezza e pienezza. E quando poi mi stavo avvicinando all’altare vedevo similmente Dio, e mi si diceva: Così starai alla sua presenza nella vita eterna» 172. La presenza di Dio nell’anima non esclude la necessità che lo si vada a ricevere tangibilmente nel Sacramento dell’altare. La visione dell’onnipotente Dio, colto come pienezza di bellezza e bontà, lascia il posto a un’immagine molto più vicina alla sensibilità dell’essere umano: il Figlio si mostra nella sua signoria divina e fattezza umana attorniato da schiere angeliche 173. Ciò che Angela coglie è nuovamenCf. Mem., VII, 224-227. Mem., VII, 231-239. 173 B. Faes de Mottoni, che analizza i brani più significativi del Memoriale in cui compaiono gli angeli, indica come questa sia «una visione eucaristica che nella sua pienezza associa liturgia terrestre e celeste», in B. FAES DE MOTTONI, Gli angeli del Liber, in G. BARONE - J. DALARUN (edd.), Angèle de Foligno. Le dossier, cit., 190. Ca171 172

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te un senso di pienezza e bellezza, anche se attraverso un altro tipo di immagine: «allora mi fu mostrata quella bellezza e pienezza». Nel testo appare anche l’idea della grande dignità ricevuta dalla beata. Infatti, la grazia che deriva dalla presenza di Dio le consente di esperire quella presenza. Essa compare nell’indicazione dell’essere al cospetto di Dio nella vita eterna. La certezza di quello stato di vita – l’affermazione «così starai alla sua presenza nella vita eterna» non lascia dubbi –, deriva dall’attuale intima relazione tra l’«omne bonum» e la fedele. Giova ricordare, inoltre, che il mistero della presenza divina nell’anima della mistica e nell’Eucaristia, che ha coinvolto i sensi della vista – con le visioni – e dell’udito – con le locuzioni –, trova anche un altro modo di espressione molto concreto, attraverso i sensi del gusto e del tatto 174. Il diletto provato per l’indicibile bellezza della visione, diventa la soavità provata per lo sconosciuto sapore della carne di Cristo, non paragonabile ad alcunché di mondano. L’idea di pienezza, invece, viene richiamata dal senso del tatto, che coglie l’ostia estendersi in bocca e scendere integralmente nella gola 175. L’importanza del Corpo di Cristo, quale realtà tangibile che consente l’incontro con Dio nella storia, è sottolineato in un altro brano nel quale Angela associa all’Eucaristia tutta la Trinità: «E diceva la predetta fedele di Cristo: La mia anima allora era in molta letizia, ed era dentro nella Trinità, dentro in quel cassetto in cui è riposto il Corpo di Cristo, e capiva che era in ogni luogo e riempiva tutto, e l’anima si meravigliava perché tanto si dilettava in quel cassetto… E siccome tu Signore sei ovunque, perché io non mi diletto ovunque così tanto? E mi rispose con parole oscure, che non ricordo pienamente. Ma disse: Per le parole che faccio dire, io sono chiuso in questo tabernacolo; e questo faccio per singolare miracolo» 176. ratteristica fondamentale della sacramentalità liturgica, è di creare spazi e tempi adeguati perché la natura umana incontri e si relazioni con la natura divina. Diremmo, quindi, che siamo di fronte ad una immagine sacramentale, che unisce attributi umani e divini, perché attraverso i primi, i fedeli possano entrare in relazione con i secondi. 174 In questo modo Angela da Foligno sembra inserirsi in quella tradizione che conosce la dottrina dei sensi spirituali. San Bonaventura sostiene l’importanza di recuperare i sensi spirituali grazie a Gesù Cristo, perché questi sono necessari per la contemplazione di Dio, cf. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario, IV, 3. 175 Cf. Mem., VII, 242-257. 176 Mem., IX, 208-216.

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Il brano sembra sintetizzare alcuni elementi fondamentali della presenza di Dio nel contesto eucaristico. Sottolineiamo brevemente qualche passaggio. Anzitutto, in linea con quanto già emerso, la presenza nell’Eucaristia è indicata come particolare presenza divina. Essa avviene «per singolare miracolo» e non è paragonabile ad alcuna altra presenza di Dio nel mondo. Angela è cosciente che Dio è in tutto il creato, tuttavia, il modo con cui è presente nel tabernacolo è unico. Ella sente che in «quel cassetto» la presenza divina è diversa che altrove, perché diverso è il suo modo di dilettarsi in essa. In secondo luogo, ci pare di cogliere l’importanza della celebrazione liturgica: è per le parole che Dio fa dire, che Egli compie il miracolo della presenza eucaristica. È Dio il celebrante, è Lui che fa dire le parole 177. Potremmo pensare che, sulla linea dell’incarnazione, è Lui che nuovamente vuole farsi creatura, che ogni volta decide di incontrare l’essere umano in quella materialità che sembra ostacolare il rapporto tra l’uomo e Dio. Il Corpo di Cristo sacramentale – come fu il suo corpo carnale –, è il luogo dell’incontro tra il Creatore e le sue creature, un incontro che avviene nella concretezza della realtà mondana, resa sacramentale dalla presenza divina 178. Infine, notiamo che Angela afferma di trovarsi nella Trinità, a sua volta presente nel tabernacolo. In riferimento a quanto rinvenuto nei testi precedenti possiamo parlare di una relazione di mutua immanenza. Se prima veniva affermata la presenza di Cristo – e conseguentemente della Trinità – in Angela, ora è lei che si coglie nella Trinità. Il rapporto di comunione intima tra Dio e la mistica folignate si esplicita ora in tutta la sua portata: i due amanti accogliendosi reciprocamente vivono nella vita dell’amato. Così, Angela, per la comunione con Cristo, si scopre alla presenza dell’Amato, in quel tabernacolo in cui si 177 Nella Lettera a tutti i Chierici sulla riverenza del Corpo del Signore, san Francesco richiama l’importanza delle parole della consacrazione, che rendono presente il corpo e il sangue di Cristo nell’Eucaristia. 178 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 73, art. 1, ad 2-3. San Tommaso, inoltre, sostiene come l’Eucaristia sia l’unico sacramento che contenga qualcosa di sacro in senso assoluto – il Cristo stesso –, e non solo in forza dell’azione santificante – così l’acqua del Battesimo, “santa” perché opera in chi la riceve. Francesco paragona la presenza di Cristo nel Sacramento dell’altare a quella secondo l’umanità. Il fedele è chiamato a credere a questa presenza, pena la condanna eterna, cf. Ammonizioni, 8-9.

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trova tutta la Trinità. Viene rinnovata anche l’idea secondo la quale dove si trova Uno della Trinità – in questo caso il Figlio –, tutta la Trinità è presente. L’intima relazione d’amore tra Dio e la Folignate, che comporta una mutua immanenza amorosa, non è estranea alla concretezza della natura umana, anzi. Proprio la creaturalità dell’uomo necessita dell’incontro sacramentale con Dio. Egli, come nell’incarnazione, vuole incontrare l’uomo in quella mondanità in cui vive. L’esperienza dell’Essere divino – in se stesso o nei suoi attributi –, non toglie l’esperienza sacramentale, l’esperienza di Dio mediata dalla/nella/per la creaturalità dell’essere umano. Lo stretto legame tra il contesto sacramentale e la presenza di Dio nell’anima, si coglie nuovamente in un altro brano nel quale Cristo parla espressamente del suo venire e sostare nei fedeli. L’ambito è nuovamente eucaristico e la centralità della scena è riservata a una visione che riguarda Cristo, presente nel Sacramento dell’altare con una schiera innumerevole di angeli. Alla beata fu detto che questi angeli erano «Throni» 179. Nel pieno di questa visione le furono rivolte queste parole: «E lì ci fu una locuzione divina che disse: Ci sono anime in cui vengo, e passo. E disse che non c’era anima in un grande numero di città, in cui mi fermo come mi fermo nella tua anima» 180. Possiamo notare l’idea di movimento interno al testo: Cristo, nelle anime di fedeli di molte città, viene, passa e si riposa. È Cristo il protagonista assoluto della vicenda. Giustamente, gli Editori del Liber accennano all’idea di Cristo colto come «Pellegrino» 181, che cerca ospitalità nelle anime dei fedeli disposti ad accoglierlo. In Angela la volontà di accoglienza è totale, perciò Cristo trova modo di fermarsi molto più che in altri fedeli.

179 Cf. Mem., IX, 268-280. Per un’analisi del brano cf. B. FAES DE MOTTONI, Gli angeli nel Liber, cit., 190-193. 180 Mem., IX, 280-282. 181 Mem., VII, 273-276. Cf. la nota 22 al presente testo.

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2.3.2. Il Pellegrino ospitato nell’anima Il tema di Cristo come «Pellegrino» trova spazio nel Memoriale soprattutto nel quinto passo supplementare, dove vengono esposti diversi modi attraverso i quali Dio viene nell’anima 182. La riflessione di Angela nasce da una domanda del frater scriptor, il quale chiede se l’anima può essere certa della venuta di Dio. La beata allora espone alcuni dei modi con i quali ha colto la venuta e la presenza di Dio, secondo un graduale aumento della certezza dell’intervento divino. Nel primo modo di intuire Dio, l’anima non è certa della presenza divina perché non lo vede, ma si diletta della sua grazia e del suo amore che sente dentro se stessa 183. Un altro modo di cogliere Dio nell’anima è caratterizzato dalle locuzioni divine. In questo grado sente da Dio parole altissime, al punto che lo sperimenta in maniera molto diversa – maggiore –, rispetto a prima. Proprio questo la certifica della presenza, sebbene resti qualche piccolo dubbio, dovuto alla malizia dell’anima o alla volontà di Dio che non vuole renderla più sicura 184. Un terzo modo è caratterizzato dalla conformazione della volontà personale al volere di Dio. Questa conformità di volere, che coinvolge anche tutte le membra del corpo, è un dono della grazia di Dio. Il risultato è che tra Dio e l’anima si forma una società nell’amore reciproco 185. Ancora l’anima vede Dio come un uomo vede un altro uomo, sebbene lo veda come una «pienezza spirituale non corporale» di cui non si può parlare. La visione del divino senza forma è ineffabile, poiché la sua realtà non è tangibile né immaginabile 186. 182 Mem., VII, 273-415. Sull’immagine di Cristo come Pellegrino dell’anima, in relazione con la tradizione del tema, cf. l’articolo di L. THIER, Christus Peregrinus. Christus als Pilger in der Sicht von Theologen, Predigern und Mystikern des Mittelalters, in K. AMON - B. PRIMETSHOFER - K. REHBERGER - G. WINKLER - R. ZINNHOBLER (herausgegeben von), Ecclesia Peregrinans. Josef Lenzenweger zum 70. Geburstag, Verlag: Verband der wissenschaftlichen gesellschaften Österreichs, Wien 1986, 2941, in particolare 35-38; cf., inoltre, le pagine introduttive al relativo brano nell’antologia di G. Pozzi, ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 160-163. 183 Cf. Mem., VII, 281-285. 184 Cf. Mem., VII, 288-301. 185 Cf. Mem., VII, 310-323. 186 Cf. Mem., VII, 326-334.

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A questo punto dell’esposizione la mistica folignate sottolinea come vi siano molti altri modi attraverso i quali l’anima conosce la presenza di Dio in sé. Subito dopo ne elenca altri due. Il quinto modo di presenza è caratterizzato da una unzione che rinnova l’anima e pone il corpo in una relazione mansueta con essa. Questa unzione ineffabile le fa capire in modo chiarissimo e certissimo la presenza di Dio, perché nessun’altra persona del paradiso potrebbe farle provare ciò che prova in quello stato 187. Un altro modo è l’abbraccio che Dio fa all’anima. Questo abbraccio è talmente amoroso e dolce, che nessun uomo può immaginarlo se non lo sperimenta. L’anima arde dell’amore per Cristo e le viene donato un lume tanto grande da farle comprendere la bontà di Dio. Nulla che si può dire gli è comparabile e l’anima è riempita di «tanta superpienezza di letizia», che anche le amarezze e le ingiurie si trasformano in dolcezze 188. A questo punto Angela conclude l’esposizione con alcune riflessioni a proposito dell’ospitare il «Pellegrino». Frater A., infatti, aggiunge: «E disse a me frate scrittore quella fedele di Cristo che in tutti i suddetti modi l’anima conosce che Dio è venuto presso di lei, ma ancora nulla abbiamo detto su come l’anima lo ospita (hospitata est eum). E tutto quello che abbiamo detto è molto meno di quanto sia quello, cioè quando l’anima conosce che ospita il Pellegrino (est hospitata Peregrinum)» 189. La questione che si pone ora è se le riflessioni a proposito dell’ospitare il Pellegrino indichino un ulteriore modo – e grado – di presenza di Dio nell’anima, oppure se siano una sorta di sottolineatura di quanto detto prima. Nel primo caso, saremmo davanti alla riproposizione del percorso angelano appositamente rielaborato a tavolino 190. Nel se-

Cf. Mem., VII, 338-348. Cf. Mem., VII, 349-370. 189 Mem., VII, 394-397. 190 Affermano gli Editori in nota 23 a p. 313: «L’inserimento del capitolo sul “Peregrinus” non è stata una elaborazione estranea, ma profondamente legata a tutti i passi del Memoriale, in modo tale che si tratta di tutto il Memoriale in miniatura, in quanto indice della trasformazione mistica dell’anima di Angela». 187 188

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condo caso, si tratterebbe più semplicemente dell’esposizione del dialogo penitente confessore, su un tema particolare. Esponiamo brevemente le riflessioni di Thier e Calufetti, e Pozzi a questo proposito. Anzitutto, occorre dire che la posizione di Thier – in Christus Peregrinus – risente, purtroppo, della teoria della duplice redazione. Secondo l’Autore, infatti, il brano non appartiene alla prima redazione, ma è un inserto successivo basato sull’intero percorso mistico della Folignate. L’itinerario, composto di sette gradi, in linea con la tradizione spirituale medievale – si cita Bonaventura –, è connotato da una sempre maggiore esperienza e certezza della venuta e presenza di Dio nell’anima. I primi sei passi tratterebbero della venuta del «Pellegrino», mentre il settimo del «Pellegrino» in quanto ospitato. Questo sarebbe stato aggiunto per illustrare meglio il contenuto dell’esperienza di Dio e per raggiungere quei sette passi cari alla tradizione spirituale. Al di là del problema della duplice redazione, ciò che interessa in questa ipotesi è che l’elaborazione del brano si riferisca all’intero Memoriale e, quindi, sarebbe una riflessione successiva all’intera esperienza mistica angelana. A questo proposito, gli Editori avrebbero individuato i passi del Memoriale ai quali si riferiscono i modi della venuta di Dio. Per quanto riguarda l’ospitare il «Pellegrino», ci si riferirebbe alle esperienze vissute dalla mistica folignate dal V al VII passo supplementare, mentre l’«hospitata est Peregrinum» sarebbe un’altra espressione per dire l’esperienza tenebrosa di Dio. Pozzi, invece, divide il testo in questo senso: «All’inizio l’anima avverte l’entrata di Dio, ma non lo sente dimorare presso di sé; alla fine ne è rassicurata. In mezzo la santa descrive cinque segni della divina entrata, che, congiunti coi due estremi, formano il numero canonico di sette» 191. Inoltre, per quanto riguarda la relazione dei gradi intermedi con il percorso mistico angelano, l’Autore nota: «Passano rispondenze rilevanti fra questi modi e alcuni di quelli precedentemente descritti nel Memoriale… ma non è possibile senza forzature riconoscervi un’identica successione» 192. In questo caso il tema del «Pellegrino» illustrerebbe quanto vissuto da Angela fino a quel punto del percorso mistico. 191 192

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ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 160. Ibid., 161-162.

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A nostro avviso, sono necessarie alcune puntualizzazioni. Anzitutto, notiamo come i concetti della venuta del «Pellegrino» e dell’ospitare il «Pellegrino», pur se riferiti ad Angela, sono sostanzialmente all’interno dei brevi riassunti del frater scriptor 193. Tant’è che quando Angela parla in prima persona dell’anima che ospita il «Pellegrino», non fa alcuna distinzione di grado tra la venuta di Dio e il fatto di ospitare il «Pellegrino». Semplicemente ribadisce il concetto dell’incomunicabilità dell’esperienza, concetto già sottolineato a proposito della visione di Dio senza forma, dell’unzione e dell’abbraccio. Queste le affermazioni di Angela: «Quando l’anima conosce che ha ospitato il Pellegrino (quod est hospitata Peregrinum), perviene a una tale cognizione di Dio e dell’infinita bontà divina, che rientrata in me, conobbi certissimamente che quelli che più sperimentano Dio, meno possono parlare di lui» 194. A questo aggiunge un’ulteriore sottolineatura, sostendendo l’impossibilità del frate a predicare qualcosa su Dio, se avesse esperito ciò che lei ha vissuto. Per quanto detto non possono non sorgere dei dubbi sulla distinzione nei gradi tra la venuta del «Pellegrino» e l’ospitare il «Pellegrino», e di conseguenza sui sette modi di Dio di venire nell’anima. In secondo luogo, quello che viene individuato dagli Editori come il settimo modo di venuta – l’ospitare il «Pellegrino» –, ci pare una sottolineatura di Angela su quanto ha sperimentato e precedentemente descritto. Quindi, se è vero che compare una certa gradazione nei modi di esperire la venuta e la presenza di Dio, la scala dei sette passi lascia qualche dubbio. Cosa rilevata, anche se in toni diversi, sia da Thier che da Pozzi. Quindi, in terzo luogo, se è vero che manca il settimo gradino, più esplicativo che effettivo, riferito dagli Editori agli ultimi passi – V-VII supplementari –, l’idea che il tema del «Pellegrino» riassuma l’intero percorso mistico appare dubbiosa. 193 Questo vale sia per l’affermazione che apre la lunga sezione: «Disse che sapeva che il Pellegrino era venuto nell’anima, ma non sapeva se lei lo avesse ospitato», in Mem., VII, 275-276, sia per l’affermazione citata sopra, cf. Mem., VII, 394-397. 194 Mem., VII, 398-401.

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Inoltre, se è vero che il termine «Peregrinus… appare quasi all’improvviso nel testo del Memoriale» 195, è altrettanto vero che è stato introdotto, per sua stessa ammissione, dal frater scriptor, che pone una propria questione ad Angela. Ella prima espone le proprie esperienze parlando della venuta di Dio – tralasciando il termine «Pellegrino» –, poi riprendendo il termine esplicita maggiormente la risposta data al frate. Infine, nel linguaggio di Angela, non riusciamo a percepire la distinzione tra venuta e presenza di Dio nell’anima, in quanto nella sostanza la prima equivale alla seconda. La distinzione, nelle parole di Frate A., non ci sembra trovare riscontro nelle affermazioni successive della beata. Trova solamente riscontro l’idea che quanto detto, è molto meno di quanto sperimentato dall’anima. Per quanto sin qui esposto, propendiamo per l’idea che in questa parte del Memoriale, sia stato semplicemente esposto un dialogo tra la beata e il frate, su un tema particolare, per chiarire maggiormente le esperienze mistiche, senza alcuna volontà di sistematizzazione. Almeno da parte della mistica. L’immagine di Cristo «Pellegrino» rinvia all’episodio di Emmaus 196: Gesù è il viandante che accompagna coloro che lo cercano, percorrendo con le anime disponibili quel tratto di strada che le può condurre in seno al mistero divino. Cristo è Dio che si fa uomo e condivide la storia umana nelle speranze e nelle difficoltà, nascondendomanifestando nella povertà del suo essere pellegrino bisognoso di ospitalità l’eccezionalità della sua Persona. I due volti del Figlio di Dio sono rappresentati nell’episodio evangelico: Cristo è il povero pellegrino e l’inestimabile meta, è lo sconosciuto rivelatore, è il Crocifisso Risorto 197. Angela parla di Cristo come del povero, passionato, disprezzato Figlio di Dio, il quale per amore nostro condivide la bassezza della natura umana. Al tempo stesso, però, Egli è Dio e la sua bellezza, la sua potenza, la sua sapienza sono inestimabili. Cristo appare, quindi, co-

Così gli Editori in nota 22 a p. 312. Cf. Lc 24, 13-35. 197 In questo senso giustamente Thier ha affermato che la figura di Cristo come «Pellegrino», per certi versi, riassume l’esperienza che Angela fa del Figlio di Dio, cf. L. THIER, Christus Peregrinus…, cit., 38. 195 196

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me la verità di Dio Amore che si dischiude a noi per elevarci a Lui, attraverso le modalità che si confanno a Dio Amore e a noi. Concludiamo notando come la prospettiva del tema di Cristo «Pellegrino» sembra essere la prospettiva del Prologus, che offre una primissima interpretazione autorevole – per l’antichità e l’autore – dell’esperienza angelana, probabilmente dovuta al frater scriptor. Nel Prologo si cita il Vangelo secondo Giovanni e si afferma che l’esperienza dei veri fedeli prova, coglie e contempla il Figlio di Dio fatto uomo – il Verbo della Vita Incarnato –, proprio come Egli stesso ha promesso: chi lo ama e conserva la sua parola è amato dal Padre e il Padre e il Figlio si manifestano e dimorano nella sua anima 198. Emerge nuovamente la figura di Cristo – Verbo incarnato – che offre con la propria vita all’uomo la possibilità della relazione con Dio. È l’incarnazione a fornirci l’opportunità di conoscerlo e la sua accoglienza comporta l’inattesa possibilità di accedere, per Lui, al Padre e alla Trinità. 2.4. Riflessioni conclusive: Cristo, la Via verso il Padre Concludiamo il paragrafo riguardante il Figlio con alcune sottolineature su come Egli sia la via per la comunione con Dio Padre. Tutto il percorso mistico della Folignate è contrassegnato dalla relazione con Cristo, una relazione voluta dal Padre per far ascendere i propri figli alla comunione intratrinitaria nel Figlio. Angela si inserisce nel percorso salvifico che il Figlio opera, concordando con la volontà salvifica del Padre, un percorso che consta di due momenti: il primo di discesa-kenosi, il secondo di ascesa-glorificazione. È quanto emerge in un testo estremamente significativo che, per certi versi, sembra riassumere il pensiero di Angela sul rapporto con Dio attraverso Cristo: «E allora fu detto all’anima: Poiché Dio fece tutte le cose suddette per te e volle nascere per te, come dire “discendere a tanta indegnità o bassezza” per te, conviene che l’anima così nasca a Dio e muoia a se stessa, ai vizi e ai peccati, che è “ascendere a grande

198

Cf. Prologus, 15-19. I riferimenti evangelici sono a Gv 14, 21 e 23.

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dignità”; perché dopo essere morta a se stessa e aver riconosciuto tanto amore, le è data la vita della grazia e vive in Cristo» 199. L’annullamento di sé del fedele – da intendersi come dono totale di sé nella sequela amorosa del Figlio di Dio, che ci ha amato per primo, ma anche come umile riconoscimento della propria distanza rispetto all’essere del Creatore –, inserisce il credente nel percorso ascensionale, fino a farlo giungere nella vita intratrinitaria. Cosa ora possibile perché, parafrasando san Paolo, «non è più il fedele che vive, ma Cristo vive in lui» 200. È la partecipazione nella grazia alla vita divina del Figlio, che consente la partecipazione alla vita intratrinitaria. Proprio perché l’azione amorosa di Cristo ha fatto della nostra carne «una società» 201 con Dio, è possibile per ciascun uomo accedere nella grazia alla vita divina. Con l’esempio dell’invito al banchetto, esteso a tutti coloro che vogliano parteciparvi, Cristo fa intuire ad Angela l’universale volontà salvifica di Dio. È il Figlio a proporre l’invito, a imbandire la mensa – al punto che questa è Lui stesso –, a darsi come cibo. «E io chiedevo…: Signore, quando è che tu inviti tutti, dimmelo. E rispondeva: Io chiamai e invitai tutti alla vita eterna; coloro che vogliono venire vengano, perché nessuno può scusarsi di non essere chiamato. E [per capire] quanto li amai e li volli volentieri, guarda la croce. Poi diceva: Ecco i chiamati vengono e sono posti a mensa. E dava a capire che egli era la mensa e il cibo che dava» 202.

199 Mem., V, 67-72. San Paolo a proposito del Battesimo parla del morire al peccato e del risorgere alla vita in Cristo, cf. Rm 6, 1-11. 200 Cf. Gal 2, 20. 201 Mem., VI, 241. A proposito di questa affermazione, notiamo in filigrana l’idea di sostituzione vicaria che Kasper ha indicato come concetto teologico chiave nella theologia crucis cattolica: «I Padri della Chiesa, hanno accostato a questo concetto quello di commercium, ovvero di pio scambio. In modo conciso, si può dire che Dio è diventato uomo, è entrato pienamente nella condicio humana, affinché noi siamo divinizzati», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, cit., 428. A proposito dell’admirabile commercium, cf. H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, III, Jaca Book, Milano 1983, 222-229. 202 Mem., V, 19-24.

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La croce è l’invito, poiché è il dono di sé che il Figlio fa a ciascun uomo. Chi guarda alla croce, chi accoglie l’invito, è posto alla mensaCristo, ossia in relazione con Lui. La relazione consente di condividere la vita del Figlio, infatti, i commensali si nutrono del cibo-Cristo. La sua azione, ripresentata nell’Eucaristia per il bisogno di concretezza dell’essere umano, dà origine, se accolta nella sequela, a una relazione di mutua appartenenza o, meglio, di mutua immanenza. La presenza del Figlio di Dio dà forma all’anima che lo ospita. Angela da Foligno, nei momenti più alti di questa conformazione cristica si sente dire: «Tu sei me e io sono te» 203. A questo punto può essere posta al cospetto del Padre. Il percorso mistico della Folignate mostra che sulla via tracciata da Cristo, anzi, sulla via che è Cristo si giunge al Padre. Angela, con le meditazioni sull’umanità sofferente e sulla divinità amante di Cristo, col dono di sé al Crocifisso, con la partecipazione ai misteri della passione e morte – si pensi alla presenza nel sepolcro 204 –, con la partecipazione al mistero dell’abbandono del Figlio da parte del Padre – così nel sesto passo supplementare 205 –, con la sua mistica conformazione a Cristo sul letto della croce, viene accolta dal Padre alla propria presenza – così nell’esperienza nella tenebra e oltre la tenebra –. Il fatto che il Figlio di Dio sia la via verso il Padre, non è teorizzato o espresso sistematicamente, ma è semplicemente vissuto dalla beata, al punto tale che tutto il suo percorso mistico ne è testimonianza. 3. LO SPIRITO SANTO In questo capitolo tenteremo di delineare la figura dello Spirito Santo, come emerge da alcune esperienze della beata Angela. Il compito, in realtà, non è particolarmente facile, poiché sono rari i momenti in cui la mistica folignate parla espressamente dello Spirito. Tuttavia, due episodi risultano molto significativi per la nostra indagine. Su questi cercheremo delle acquisizioni. «Tu es ego et ego sum tu», in Mem., IX, 92-93. Cf. Mem., VII, 98-111. 205 Ricordiamo l’urlo di dolore e abbandono che Angela rivolge a Cristo in quei frangenti: «Figlio mio, figlio mio, non mi lasciare (non me dimittas), figlio mio!», che rimanda inequivocabilmente all’urlo del Figlio verso il Padre. 203 204

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3.1. Colloqui con lo Spirito nel pellegrinaggio ad Assisi 3.1.1. L’iniziativa dello Spirito Santo nella relazione intima tra Dio e Angela L’esperienza di Angela da Foligno è fortemente connotata dalla relazione d’amore con il Figlio. Egli è la via che conduce al Padre e l’unico modo per seguire questa via è guardare alla croce. In tale contesto, risulta estremamente interessante notare come uno dei momenti decisivi del suo percorso spirituale, abbia preso avvio attraverso una particolare iniziativa dello Spirito Santo. Infatti, l’intervento inaspettato dello Spirito di Dio dà inizio a quella che può essere denominata come “fase mistica” del suo percorso. L’esperienza avvenuta durante il pellegrinaggio ad Assisi, per la verità, è un’esperienza che ha un chiaro sfondo trinitario. Ne danno prova, oltre all’iniziativa dello Spirito Santo, l’intervento di Cristo con alcune affermazioni chiaramente da attribuire a Lui 206 e la rilettura che la beata farà in seguito assieme a Frater A. 207, che indicherà chiaramente la presenza e l’azione di tutte le Persone trinitarie. Proprio per i caratteri trinitari dell’episodio assisiano, occorre avere sempre presente la difficoltà – e in alcuni casi l’impossibilità della certezza – nell’attribuire una particolare locuzione a una Persona trinitaria, piuttosto che a un’altra 208. D’altra parte, proprio gli elemenSi pensi a «Io sono colui che fu crocifisso per te», in Mem., III, 65; ma anche a «Io fui spesso con gli apostoli, e mi vedevano con gli occhi del corpo ma non sentivano quello che senti tu, e tu non mi vedi ma mi senti», in Mem., III, 147-148, detta ad Angela ritornata da Assisi. 207 La riflessione nasce per una questione sollevata dal frate. Angela, infatti, nell’ambito dell’esperienza vissuta verso Assisi, attribuì alcune locuzioni prima allo Spirito Santo e poi a Cristo. La cosa non è sfuggita al frate che ne chiede spiegazione. Ella riceve in proposito un’illuminazione divina con la risposta da dare: «Di’… allora in te c’era il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo»; l’episodio in Mem., III, 193-195. 208 Riferendosi alla risposta di Angela al frate, Bernard ha notato: «La risposta data fa riferimento al mistero dell’inabitazione trinitaria, equivalendo a dire: poiché le tre Persone abitano simultaneamente nell’anima di Angela, non è contraddittorio che lo Spirito parli e che il medesimo Spirito, che è lo Spirito di Cristo, si esprima come si sarebbe espresso Cristo. Questa spiegazione susseguente può sembrare imbarazzata. Sarebbe senza dubbio più semplice ritenere che l’esperienza mistica di Angela comprendeva due locuzioni differenti contratte in un solo racconto», in C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 126. Noi propendiamo per la linea 206

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ti trinitari dell’episodio, sono importanti per cogliere la figura dello Spirito Santo, fortemente legata alle altre Persone della Trinità. Questi alcuni brani dell’esperienza angelana. Angela si sta dirigendo verso Assisi per chiedere a san Francesco l’intercessione presso Gesù Cristo per il suo ingresso nel Terz’Ordine, quando, lungo la strada all’altezza di Spello, viene sorpresa dalle parole che lo Spirito le rivolge: «Tu pregasti il mio servo Francesco, ma io non volli inviarti un altro nunzio. E io sono lo Spirito Santo che viene a te per darti una consolazione che mai gustasti; e verrò con te dentro di te fino a San Francesco e nessuno se ne accorgerà; e voglio venire con te parlando per questa via e non darò fine alle locuzioni e tu non potrai fare altro perché io ti ho presa (legavi; in A levavi); e non mi allontanerò da te fino a che non verrai la seconda volta a San Francesco, e allora mi allontanerò da te secondo questa consolazione, ma da te non me ne andrò mai se mi amerai» 209. Dal brano emerge con chiarezza come lo Spirito Santo prenda l’iniziativa. Angela è stata disposta sin qui a mettersi in gioco completamente – sta per ultimare la cessione di tutti i suoi beni –, decisa a mantenere fede al patto d’amore stipulato davanti al Crocifisso, per essere tutta di Dio e avere solo Lui. Ora, però, quello che sta accadendo supera enormemente le sue capacità di sequela. L’enorme divario tra la capacità umana e la proposta divina appare chiaro già dalle prime righe: Angela prega Francesco, ma lo Spirito non ha voluto mandare nessun nunzio. Egli in Persona si è presentato, nessun intermediario, nessun altro protagonista. È lo Spirito di Dio a venire in lei per darle una consolazione mai sperimentata prima. Angela è inerme davanti a questa iniziativa divina – «e tu non potrai fare altro perché ti ho presa» –. Il cammino umano di Angela, attraverso l’esempio e l’aiuto del Santo di Assisi, non corrisponde all’eccedente proposta divina. Dio vuole darle molto di più di ciò che lei si attende. Per questo motivo lo della semplicità, ritenendo che si tratti di due locuzioni, da attribuire ora allo Spirito ora a Cristo, avvenute nella stessa esperienza a motivo dell’inabitazione trinitaria. 209 Mem., III, 35-42.

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Spirito, gratuitamente, interviene per elevare il cammino angelano e la conseguente relazione con Dio. Ora la relazione si fa estremamente intima. Il tema dell’inabitazione divina nell’anima di Angela appare chiaramente – «e verrò con te dentro di te» –, ma anche la portata delle locuzioni assume un tono diverso: familiare, «e voglio venire con te parlando per questa via». Sinora, nelle esperienze di Angela una simile familiarità con Dio non era conosciuta 210. Notiamo, inoltre, come la forza dell’amore divino lasci spazio all’amore umano, infatti, la relazione deve essere voluta da ambo le parti. Angela, pur se resa prigioniera dall’iniziativa dello Spirito, ha la libertà di sciogliere il vincolo d’amore propostole da Dio, semplicemente smettendo di amarlo: lo Spirito non la lascerà, finché lei lo vorrà amare. Sottolineiamo, infine, un ultimo importante dato: lo Spirito Santo viene ad Angela per darle una consolazione mai sperimentata prima. Egli, quindi, si mostra come Colui che vuole e può elargire doni di grazia, carismi utili per instaurare un modo nuovo di relazionarsi con Dio. Infatti, la nuova consolazione mai provata, sembra da associare alla nuova relazione mai vissuta con Dio. A questo punto, potremmo dire che lo Spirito Santo è il principale protagonista della familiarità con Dio. Le parole attribuite dalla beata allo Spirito continuano in questo senso: «E cominciò a dire: Figlia mia, a me dolce, mio diletto, mio tempio, figlia, diletto mio, amami, perché tu sei molto amata da me, e molto più di quanto tu ami me. E spessissimo diceva: Figlia e sposa mia dolce. E disse: Io ti amo più di ogni altra che sia nella valle spoletina. E poiché io mi sono collocato in te, allora tu collocati in me. Tu pregasti il mio servo Francesco; e perché il mio servo Francesco mi amò molto, molto gli feci. Se ci fosse qualche persona che mi amasse di più, io le farei di più» 211.

210 Questa è la fase del percorso angelano che Bernard ha definito “familiarità divina”, cf. C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 125-126. 211 Mem., III, 43-51. Il codice A, riporta: «Io ti amo molto» invece che riportare: «Io ti amo più di ogni altra che sia nella valle spoletina».

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I temi di fondo sono quelli della relazione d’amore tra Dio e la sua fedele e dei doni che derivano da questo amore. L’attribuzione della locuzione allo Spirito Santo, potrebbe venire provata dal fatto che ci sono evidenti paralleli con il testo sopra riportato. Ritorna un’altra volta il tema dell’inabitazione dello Spirito in Angela, come elemento fondamentale del rapporto tra i due, questa volta con la richiesta che la mistica si collochi a sua volta in Dio, in modo tale che vi sia una mutua immanenza nell’amore. Nuovamente si fa menzione di Francesco e delle preghiere rivolte a lui. Inoltre, è sottinteso il fatto che non v’è alcun intermediario nella relazione tra Dio e la beata; infatti, il Santo di Assisi è posto come esempio in parallelo al loro legame amoroso e non come mezzo per raggiungerlo. Da qui, il fatto che se Angela ama Dio più di Francesco, lo Spirito non esiterebbe a offrirle dei doni addirittura maggiori. Sono molto significativi gli appellativi rivolti ad Angela 212, che indicano una relazione del tutto personale, quindi, unica tra Dio e la sua fedele. Accostando questa terminologia a quanto affermato a proposito del dono di sé del Figlio a ciascun uomo, emerge come al singolare rapporto di donazione di Cristo, corrisponda la singolare relazione d’amore 213 di Dio nello Spirito Santo 214. Una relazione d’amore che, se accolta dal fedele, culmina con l’eccezionalità dei doni divini offerti dallo Spirito. Ancora una volta lo Spirito di Dio è elargitore delle grazie divine – «molto gli feci… le farei di più» –. Pozzi sottolinea come gli epiteti rinviino esplicitamente al Cantico dei Cantici e siano «tanto più significativi in quanto il ricorso a concetti e vocaboli propri della mistica nuziale è episodico nel Memoriale (l’attributo di “sponsa” è attestato solo qui). Fra gli appellativi, particolarmente pregnante è quello di “tempio” (non a caso spesso ripreso in questo testo), che definisce il concetto teologico di “inhabitatio”», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 101. 213 In questo senso si possono cogliere affermazioni del tipo: «Io ti amo più di ogni altra…». Dal punto di vista dei partner, la relazione d’amore tra il credente e Dio è unica. La comunione-relazione che avviene per opera dello Spirito, tra Cristo e ciascuna persona per cui è morto, è unica. 214 San Francesco attribuisce allo Spirito del Signore il desiderio della relazione con Dio, cf. Regola non bollata, XVII, 14-16. Sant’Agostino esorta ad amare Cristo nello Spirito: «Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo, che ci è stato dato», in AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, VII, 3, 5. 212

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Tuttavia, all’insieme di queste locuzioni, seguono i forti dubbi di Angela, la quale afferma che se a parlarle fosse lo Spirito Santo non le direbbe queste cose, perché lei è fragile e potrebbe cadere in vanagloria. Lo Spirito risponde così: «Allora pensa se tu in tutto questo puoi avere vana gloria che ti esalti, e scappa da questi discorsi se puoi. E io cominciai e mi sforzai di voler avere vana gloria, per provare se era vero quello che diceva e se era lo Spirito Santo. E incominciai a guardare per le vigne per sfuggire da quello, cioè da quella locuzione, ma ovunque guardassi mi diceva: Questa è una mia creatura. E sentivo una dolcezza divina ineffabile» 215. Colpisce l’affermazione «questa è mia creatura», frase che sembra più consona al Padre o, per lo meno, al Dio Trino 216. Tuttavia, non fa particolare problema pensare che lo Spirito del Dio Creatore, potente alito vivificante, indichi la creazione come propria. Del resto, occorrerebbe chiedersi se ciò che sperimenta Angela, sia la percezione di Dio nel creato – in termini di presenza vitale, azione potente e vivificante –, forse da legare più alla figura dello Spirito Santo, o sia la percezione dell’opera che rimanda al Creatore – in termini di bellezza, di armonia, di disposizione –, in questo caso, probabilmente, da legare più alla figura del Padre e a tutta la Trinità 217. Comunque, lo Spirito dissipa i dubbi di Angela dandole prova della sua presenza in lei. Anzitutto, vi è la conferma del fatto che, con la sua iniziativa, l’abbia legata a sé – «Io ti ho presa» –. Ella, infatti, non solo non riesce a insuperbirsi, ma nemmeno riesce a distogliere il pensiero dalla sua presenza, al punto che, cercando di distrarsi guardandosi attorno, altro non coglie se non la sua azione. In secondo luoMem., III, 54-59. Un riferimento molto vicino potrebbe essere san Francesco. Egli nella Regola non bollata, XXIII, 1, attribuisce la creazione a tutta la Trinità, menzionando ciascuna Persona. 217 Il fatto che la creazione rimandi al divino, inteso sia come origine che, soprattutto, come presenza, ci sembra un tratto fortemente francescano. Così, Pozzi a riguardo: «Nel ricorso, per distrarsi dalla locuzione interna, alle vigne e ai campi, si fa luce un tratto tipicamente francescano, dato da una percezione estetica di Dio nel creato; lo descrive come abituale a san Francesco il Celano», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 101. 215 216

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go, per la prima volta dall’inizio dell’episodio, Angela afferma di provare un’ineffabile dolcezza divina. È il risultato della consolazione promessa, della nuova relazione instauratasi con Dio. 3.1.2. L’intervento di Cristo rivela la presenza della Trinità Nella vicenda compare ora un nuovo interlocutore: Cristo. Infatti, mentre Angela si vede piena di difetti e peccati, si sente dire che il Figlio di Dio e della Vergine Maria si è chinato su di lei. In questo frangente, per fugare i dubbi della beata, Gesù si presenta come colui che è stato crocifisso per lei, ricordandole l’intera passione 218. A questo punto diventa difficile dire se l’interlocutore di Angela sia lo Spirito Santo o il Figlio di Dio. Il discorso, infatti, sembra continuare in maniera logica come detto da Cristo: «E diceva: Chiedi qualsiasi grazia vuoi per te e per i tuoi soci e per chiunque voglia, e preparati a riceverla, perché sono molto più pronto io a dare che tu a ricevere. E io dissi e urlò l’anima mia: Non voglio chiedere perché non sono degna. E mi tornavano alla memoria tutti i miei peccati» 219. Tuttavia, la risposta della mistica di Foligno è rivolta allo Spirito Santo: «E disse l’anima: Se tu fossi lo Spirito Santo, non diresti a me queste cose tanto grandi; e se me le dicessi, dovrebbe seguirne tanta maggiore letizia che l’anima non dovrebbe poterla sostenere» 220. Mentre l’ulteriore spiegazione di Dio, potrebbe essere riferita a entrambe le Persone divine: «E rispose: Poiché nulla può essere o essere fatto se non come io voglio, perciò non ti do più letizia di questa. Io a un altro dissi meno di questo e quello cadde, non sentendo e non vedendo. E tu vieni con i tuoi soci e non sanno nulla, perciò non ti do un magCf. Mem., III, 65-67. Mem., III, 68-72. 220 Mem., III, 72-74. 218 219

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gior sentimento. E questo segno ti do: mettiti a parlare coi tuoi compagni e pensa ad altra cosa buona o cattiva, e non potrai pensare altro se non a Dio» 221. Come abbiamo avuto modo di accennare, l’intervento di Cristo colloca l’intera vicenda su uno sfondo trinitario. Probabilmente il luogo adatto, per cogliere a pieno le illuminazioni ricevute dalla beata sullo Spirito Santo. La consolazione promessa dallo Spirito Santo, intesa come familiarità divina, nella quale Angela è stata posta, non riguarda solamente una Persona della Trinità, ma riguarda tutta la Trinità. La presenza dello Spirito di Dio in lei comporta il fatto che Dio sia in lei, perché lo Spirito è lo Spirito della comunione divina. Quindi, non deve stupire il fatto che, mentre lei colloquia con lo Spirito, possa pensare a Cristo e, mentre, Lui le parla, lei attenda risposte dallo Spirito. Proprio la “confusione” degli interlocutori – notata anche dal frater scriptor –, sembra essere un dato importante da cogliere. Si potrebbe pensare, guardando la relazione tra le Persone divine dal punto di vista dello Spirito Santo, che Egli sia talmente “legato” al Padre e al Figlio da darsi sempre con Loro. La presenza dello Spirito, quindi, dischiude in sé la presenza congiunta del Padre e del Figlio e un’azione dello Spirito è un’azione congiunta del Padre e del Figlio. Essendo lo Spirito colui che procede dal Padre e dal Figlio, se mancasse una delle prime due Persone non ci sarebbe alcuna processione e, quindi, alcuna presenza dello Spirito 222. Viceversa, se siamo in presenza dello Spirito, siamo in presenza della processione e, quindi, del Padre e del Figlio. In questa vicenda, dunque, è la presenza dello Spirito Santo ad assicurarci che lo sfondo è trinitario. La confusione che sembra apparire nel testo, deriva da una certa “consonanza” nelle azioni indicate dagli interlocutori alla Mistica. Infatti, lo Spirito promette una consolazione e Cristo promette grazie per lei e per i suoi soci; lo Spirito obbliga Angela a pensare solo a Dio Mem., III, 74-79. Distinguendo le Persone trinitarie nell’unità di Dio, sant’Agostino afferma la diversità di attribuzione di alcune operazioni ad extra, dichiarando, tuttavia, l’inseparabilità della Trinità in tali operazioni, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, I, 4, 7. Lo Spirito Santo, inoltre, è la carità che unisce tra loro il Padre e il Figlio (ibid., VII, 3, 6) e procede da entrambi come da un solo principio (ibid., V, 14, 15). 221 222

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e Cristo – o lo Spirito – la obbliga a fare altrettanto; la beata polemizza con lo Spirito a riguardo dell’insostenibile letizia se fosse Lui a parlare e la risposta accenna alla conversione di Paolo – «Io a un altro dissi meno di questo e quello cadde, non sentendo e non vedendo» – in cui il protagonista, però, è Cristo 223. Se non si tratta di una mancanza di comprensione da parte di Angela, bensì di una profonda consonanza nell’azione delle Persone trinitarie, si potrebbe allargare la questione e tentare qualche domanda. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere quali siano, nell’azione, le peculiarità proprie di ciascuna Persona e quali, invece, le relazioni con l’agire delle altre Persone? In questo senso, abbiamo già notato la libertà dello Spirito Santo nel porsi in una nuova relazione con Angela, attraverso la volontà e la capacità di elargire grazie divine, quali manifestazioni della propria presenza 224. È Lui il protagonista promotore della relazione familiare con Dio, oppure è il Figlio la via indicataci da Angela per giungere al Padre? Per il momento lasciamo in sospeso queste domande, con l’intento di dare delle risposte in seguito. Torniamo ancora sulla vicenda assisiana, per vedere qualche altro brano molto interessante. Angela continua il cammino verso Assisi, ma è totalmente coinvolta nell’esperienza, al punto che anche i suoi amici se ne accorgono. Tuttavia, continua a nutrire dei dubbi sul fatto che sia lo Spirito Santo a parlarle e, a modo di verifica, attende l’esito della vicenda. Lo Spirito di Dio, infatti, le aveva promesso che sarebbe rimasto con lei sino alla seconda visita nella basilica di San Francesco. Così avviene. Allora, entrando nella basilica del Santo, davanti alla vetrata raffigurante Cristo con in braccio Francesco, sente queste parole: «Così ti terrò stretta e molto di più di quanto possa considerare con gli occhi del corpo. E ora è il momento, figlia dolce, mio tempio, mio diletto, di adempiere ciò che ti dissi poiché per questa consolazione ti lascio, ma non ti lascerò mai finché mi amerai» 225. Cf. At 9, 4-5. Si potrebbe aggiungere anche il tema della percezione di Dio nel creato: lo Spirito che afferma «questa è mia creatura», mentre Cristo dice ad Angela, per la propria presenza in lei, «tutto il mondo è venuto da te», cf. Mem., III, 63-65. 224 Cf. 1 Cor 12, 4-11. 225 Mem., III, 97-101. 223

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Stiamo giungendo alla conclusione dell’esperienza vissuta da Angela. Per l’attribuzione della locuzione allo Spirito Santo, possiamo notare, oltre alla realizzazione della promessa riguardante la seconda venuta alla basilica, come vi sia un chiaro parallelo tra quanto detto in questo frangente e quanto detto all’inizio della serie di locuzioni, in riferimento alla durata della consolazione, ma anche alla presenza costante nell’anima per l’amore di lei – «e allora mi allontanerò da te secondo questa consolazione, ma da te non me ne andrò mai se mi amerai» –; notiamo, infine, il ricorso ad alcuni degli appellativi usati all’inizio. Tuttavia, si potrebbe propendere per attribuire al Figlio l’affermazione divina secondo la quale Angela sarà tenuta stretta al seno di Cristo come san Francesco, interpretando la frase in questo modo: «Come sto tenendo stretto Francesco – concetto sott’inteso nella raffigurazione –, così ti terrò stretta e molto di più». Noi preferiamo considerare lo Spirito Santo come l’interlocutore di Angela, notando come, ancora una volta, compaiano delle “consonanze” nell’agire delle Persone trinitarie. Alla fine della locuzione, la beata cerca di vedere con gli occhi del corpo e della mente e vede «una cosa piena, una maestà immensa», di cui non sa dire nulla se non che è «omne bonum» 226. A questo punto prorompe drammaticamente in grida: «Amore sconosciuto, e perché mi lasci?»; e ancora: «Amore sconosciuto, e perché, perché, perché?» 227. Conclusa l’esperienza ha la certezza assoluta di aver colloquiato con Dio. 3.1.3. I doni dello Spirito e l’anello dell’amore di Cristo Ci sono ancora due interventi divini estremamente significativi di cui Angela parla, che sono conseguenti all’esperienza mistica di Assisi: il primo è avvenuto sulla strada del ritorno dal pellegrinaggio; il secondo a casa di Angela appena tornata. A nostro avviso, vanno colti in parallelo. Così tenteremo di fare.

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Mem., III, 105-106. Mem., III, 110-113.

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«E nel ritorno sulla via di San Francesco mi disse, tra le altre, questa parola: Ti do questo segno che sono io a parlarti e ad averti parlato, ti do la croce e l’amore di Dio in te, e questo segno sarà in te in eterno. E subito io sentivo quella croce e quell’amore dentro nella mia anima, e mi rendevo conto che sentivo quella croce corporalmente e, sentendo, l’anima mia si scioglieva nell’amore di Dio» 228. Non conosciamo il protagonista del messaggio. Crediamo sia lo Spirito Santo. Infatti, nel cammino verso Assisi, Egli è stato il partner privilegiato nel dialogo con Angela, un dialogo richiamato chiaramente: «sono io a parlarti e ad averti parlato». Inoltre, trattandosi di una grazia che ha il valore di segno, si scorge un rinvio ai dubbi sull’identità dello Spirito Santo 229. Infine, la durata temporale del segno – «questo segno sarà in te in eterno» –, sembra da associare alla promessa fatta dallo Spirito, il quale sarebbe rimasto sempre con Angela, se lei lo avesse amato. Il secondo brano racconta di una consolazione dolcissima, durata otto giorni e iniziata appena Angela fece ritorno da Assisi. In questo periodo, la beata di Foligno non riusciva ad alzarsi dal letto, a stento poteva parlare e recitare il Padre nostro. Questa esperienza le era stata annunciata. In questo caso però, la mistica folignate non parla dello Spirito Santo, ma accenna a parole dette da Cristo 230. «E mi aveva detto per quella via verso Assisi: Io fui spesso con gli apostoli, e mi vedevano con gli occhi del corpo ma non sentivano quello che senti tu, e tu non mi vedi ma mi senti. Mem., III, 121-126. Si noti che, anche dopo l’intervento di Cristo, i dubbi di Angela riguardano sempre l’identità dello Spirito Santo: «Se tu fossi lo Spirito Santo non diresti questo a me, perché non conviene»; «E io cominciai e mi sforzai di voler avere vana gloria, per provare se era vero quello che diceva e se era lo Spirito Santo»; «Se tu fossi lo Spirito Santo, non diresti a me queste cose tanto grandi». Nel suo intervento Cristo, per rassicurarla dal dubbio, si presenta come «colui che fu crocifisso per lei», ma il dubbio sembra sempre rivolto nei confronti dell’interlocutore principale, ossia lo Spirito. È lo Spirito Santo, quindi, a essere chiamato da Angela a dare prova di sé, a dare un segno. 230 Di diversa opinione sembra essere Commodi, il quale attribuisce anche questo secondo brano allo Spirito Santo, cf. B. COMMODI, Francesco d’Assisi e Angela da Foligno, cit., 348. 228 229

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E dopo che vidi che le cose suddette stavano per finire, egli si allontanò molto quietamente e disse queste parole: Figlia mia, dolce a me più che io a te. E disse ciò che aveva detto sopra: Mio tempio, mio diletto. E non volle che io allora rimanessi coricata, ma a queste parole balzai in piedi. E disse: Tu hai l’anello del mio amore e sei legata a me e non ti allontanerai da me. Tu e la tua socia abbiate la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E disse questo nel partire, poiché io chiedevo la grazia per la mia compagna, mi rispose questo: Alla tua compagna io do un’altra grazia» 231. L’attribuzione dell’intervento divino a Cristo è evidente per il paragone che Egli stesso istituisce: gli apostoli lo videro, ma non lo sentirono come lei lo sente pur senza vederlo. Quindi, è Lui che se ne va con delicatezza e le parla prima di andarsene. Gli appellativi rivolti ad Angela potrebbero rimandare alle affermazioni dello Spirito Santo negli episodi di Assisi, ma potrebbero, più facilmente, indicare la speciale relazione esistente tra Dio e la Mistica. Inoltre, proprio per la menzione della grazia richiesta e data alla socia di Angela, il brano rimanda alle affermazioni di Cristo verso Assisi, quando invitò la beata a chiedere delle grazie per lei e i suoi accompagnatori. In tal senso, questo episodio potrebbe essere il compimento di quello. Confrontiamo i brani. Anzitutto, entrambi derivano dall’esperienza vissuta nel pellegrinaggio assisiano, del quale sono conseguenze. In secondo luogo, notiamo la menzione dell’amore di Dio. Nel primo brano, infatti, il segno dato dallo Spirito Santo alla beata consta di due cose: la croce e l’«amore di Dio», a cui fa eco nel secondo testo l’«anello del mio amore», abbinati all’indicazione secondo la quale per Angela, non si darà separazione da questo amore – da un lato si parla di amore «in aeternum», dall’altro del legame indissolubile: «non ti allontanerai da me» –. Quello che nella prima locuzione è chiamato segno dallo Spirito, corrisponde alla grazia di cui parla Cristo in casa di Angela. È proprio la distinzione rispetto alla «altra grazia» data alla socia, che ci permette di capire come la grazia donata ad Angela, venga indicata con le parole 231

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Mem., III, 146-156.

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«tu hai l’anello del mio amore e sei legata a me». Il Figlio di Dio afferma con chiarezza che la beata è la sua promessa sposa. Tra i due vi è una relazione unica, che non può essere estesa a nessun’altra persona 232. È proprio il segno – il dono dell’amore di Dio e della croce – a far divenire Angela la promessa sposa di Cristo. Angela, nel suo cammino spirituale, si è talmente avvicinata a Lui da scegliere di seguirlo sin sulla croce, spogliando tutta se stessa. È proprio mentre sta ultimando il suo percorso di espropriazione – prefigurato nel gesto davanti al crocifisso –, che lo Spirito Santo sancisce con la sua grazia l’unione di mutua donazione tra i due amanti. La croce data in segno diviene il simbolo della vita di Cristo, che la beata è chiamata a condividere in maniera sponsale. La croce, dunque, non è un simbolo da contemplare, ma qualcosa da vivere. Ella, infatti, non solo la sente nell’anima, ma anche nel corpo – «E subito io sentivo quella croce e quell’amore dentro nella mia anima, e mi rendevo conto che sentivo quella croce corporalmente» –. Angela, in maniera sponsale, diviene con la croce – ossia con la vita di donazione di Cristo –, una cosa sola, una carne sola 233. Quindi, il dono della croce e dell’amore di Dio sanciscono l’inizio del matrimonio mistico tra Cristo e Angela. L’amore di Dio è il motivo e il fine della donazione della croce. Dio ha tanto amato Angela da darle suo Figlio, perché lei potesse

232 Così, sulla questione, Pozzi: «Il senso è che la grazia di essere sposa è riservata alla sola Angela. Non posso affermarlo in maniera assoluta, ma da quanto ho indagato, ogni veggente si ritiene unica sposa di Cristo (inteso il termine in relazione alla pienezza del matrimonio mistico), per quanto ognuna di loro sappia che il fenomeno è esteso ad altre; in questo caso Angela, nel volersi associare la compagna, potrebbe costituire un’eccezione», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 104. 233 G. Pozzi afferma a riguardo: «Il segno datole sulla via del ritorno delimita la relazione singolare che la santa stabilirà con la croce; non l’avrà presente al modo delle mistiche della sua età (Matilde, Gertrude), come una figura da contemplare in visione, ma come un elemento consustanziale a sé, corporalmente e spiritualmente inerente a sé, quasi un’impronta indelebile, emergente sia nel dolore che nella gioia», in ANGELA DA FOLIGNO, Il libro dell’esperienza, cit., 104. La consustanzialità, corporale e spirituale, con l’impronta indelebile nel dolore e nella gioia, non può non rimandare a dei concetti insiti nella tematica nuziale. Il Matrimonio è l’accoglienza del dono di sé totale – corporeo e spirituale – che due persone si offrono reciprocamente nell’amore indissolubile, il quale cambia le vite degli sposi sino a fare dei due una sola realtà.

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amare Dio. È nell’amore di Dio che avviene il reciproco dono e la reciproca accoglienza delle vite dei due sposi. È lo Spirito Santo con il suo segno-dono di grazia, a offrire ad Angela la possibilità di unire la propria vita nelle nozze mistiche con il Figlio di Dio. Notiamo, infine, come il tutto si concluda con l’accenno alla benedizione trinitaria, che scende su di lei e sulla sua compagna. Ricorda una benedizione sulla sposa – che coinvolge anche la damigella d’onore –, in modo da sottolineare che tutta la Trinità è coinvolta nella relazione d’amore. Tutta la “famiglia” di Dio si è impegnata per le nozze del Figlio con la mistica folignate. La compagna di Angela, toccata dalla grazia divina, d’ora in avanti avrà la possibilità di seguire la beata nel suo percorso. Ella diverrà sua confidente, suo sostegno e aiuto. È proprio la compagna a raccontare a Frater A., di aver udito una voce che le ha detto: «Lo Spirito Santo è dentro in L.» 234. La cosa avvenne nel periodo degli otto giorni successivi al ritorno da Assisi. 3.2. Lo Spirito è dato da Dio «ad mensuram» Un altro episodio molto significativo nel quale Angela da Foligno parla dello Spirito Santo, appartiene al settimo passo supplementare. Angela ha già vissuto, almeno in parte, l’esperienza di vedere Dio nella tenebra e l’esperienza di essere attirata dal «Dio uomo». 3.2.1. Lo Spirito «ad mensuram». Proposte interpretative Dopo tali esperienze, la beata racconta al frater scriptor un episodio particolare che riguarda lo Spirito. «La fedele di Cristo disse a me frate scrittore, che la sua anima si dilettava e l’anima nuotava nella predetta dilettazione di lui, cioè perché l’amore è misurato (in mensura) e che lo Spirito è dato in 234 Mem., III, 167. «L.» sta per «Lelle» o «Lella», abbreviazione del vezzeggiativo “Angelella”.

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misura (in mensura). E diceva: L’anima si diletta e nuota in quella [dilettazione]. E a me frate scrittore che resistevo a lei attraverso la divina Scrittura rispose che era vero quello che diceva la divina Scrittura, e non era ad esso contrario. E disse così: È vero ciò che ha detto lui, che Dio non dà lo Spirito a misura (ad mensuram); ma la mia anima nuota e si diletta, che Dio anche a suo Figlio e a tutti i santi [lo] dà a misura (ad mensuram)» 235. Il brano non è di facile interpretazione. Angela afferma che la sua anima si diletta e nuota in una «dilettazione» di Dio, cioè nel fatto che l’amore e lo Spirito vengono dati in misura. Il frate subito richiama alla memoria il brano del Vangelo secondo Giovanni 236, attraverso il quale resiste a quelle affermazioni. Angela concorda con Frate A. sul rinvio alla Scrittura, ma ribadisce che la sua anima nuota e si diletta proprio nel fatto che, anche al Figlio e ai santi, il Padre dia lo Spirito a misura. La beata di Foligno sostiene che le due tesi non sono contrarie. La questione si potrebbe risolvere in questo modo: come afferma Commodi «se consideriamo il Donante, il dono dello Spirito si riversa senza misura sulle creature, come dice Giovanni; ma se consideriamo il beneficiario, il dono prende misura in base alla capacità di accoglierlo che un’anima possiede, per cui Gesù Cristo, il Figlio di Dio ne riceve più di tutti, e anche i santi ne ricevono in abbondanza» 237. Con questo tipo di soluzione ci sembra si ponga un ulteriore problema, dovuto al fatto che il Figlio sembra ricevere lo Spirito al modo dei santi, seppure con una diversa capacità ricettiva. Occorre chiedersi cosa questo voglia dire e per quale motivo possa essere detto. Anche nel tentativo di spiegazione del testo che dà P. Lachance, sembra emergere il problema dello Spirito dato al Figlio. L’Autore, basandosi sulle richieste di liberazione da parte di Angela, grazie ai «santi giudizi» di Dio – «Domine, per sancta iudicia tua libera me Domine» –, sostiene che lei spiega che lo Spirito è dato a misura «perché ora comprende… che Dio manifesta la sua bontà nella stessa misura “in bono et sancto viro et in multis bonis et sanctis, quam in uno Mem., IX, 143-150. Cf. Gv 3, 34. 237 B. COMMODI, Francesco d’Assisi e Angela da Foligno, cit., 349. 235 236

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damnato vel in multitudinem damnatorum”» 238. Secondo questa interpretazione, il Figlio non solo riceve lo Spirito alla maniera dei santi, ma lo riceverebbe anche alla maniera dei dannati. A nostro avviso, occorre aver presente che una cosa è il dono dello Spirito, altra cosa è l’amore di Dio che si manifesta nei suoi giudizi. Dal momento che è Dio Amore a giudicare, nei suoi giudizi non si potrà non riconoscere l’opera dell’Amore, qualsiasi sia l’esito del giudizio: salvezza o condanna. Gli Editori del Liber, d’altra parte, affermano che la risposta di Angela può essere letta in riferimento ai passi di Rm 12, 3 e a Ef 4, 7-13 239, secondo i quali il concetto di misura va colto in relazione alla propria capacità di ricezione, ma questa deve essere considerata all’interno della comunità, dal momento che ogni dono personale è per l’edificazione di tutta la Chiesa. Con questo tipo di soluzione, invece, ci pare si mettano sullo stesso piano il dono dello Spirito e i doni che lo Spirito stesso offre, per l’edificazione della comunità. Ci sono alcune domande utili a chiarire l’esperienza angelana e il suo insegnamento, a partire proprio dai tentativi di spiegazione che si è cercato di darne. Anzitutto, parlare del dono dello Spirito dato «ad mensuram», equivale a dire che i doni divini vengono dati secondo le capacità di ciascuno? Come ad affermare che lo Spirito corrisponde, per i beneficiari, ai doni di Dio per l’edificazione comune? In secondo luogo, perché il Figlio di Dio è associato ai santi nel ricevere lo Spirito? Anche a Lui è stato dato come conviene alle sue capacità, alla maniera di qualsiasi altro beneficiario? La diversità del rapporto dello Spirito con Cristo e quello dello Spirito con un credente, è dato solo da una diversa capacità di ricezione? Per tentare alcune risposte, è necessario leggere il testo con alcune attenzioni. Distinguiamo, per cominciare, le operazioni delle diverse Persone divine. Angela, infatti, si trova al cospetto di Dio, ma identifica chiaramente i protagonisti che coglie nell’esperienza.

P. LACHANCE, Il percorso spirituale di Angela da Foligno, cit., 183. In relazione al tema dello Spirito dato «in mensura» o «ad mensuram» si vedano, nell’Edizione critica, le note 19 e 30 rispettivamente alle pp. 366 e 377. 238 239

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In tal senso, possiamo notare che lo Spirito Santo è colto come colui che viene dato; il Figlio di Dio come colui che riceve lo Spirito e, conseguentemente, il Padre come colui che dona lo Spirito. La seconda sottolineatura è che Angela parla dello Spirito donato, dopo aver affermato che l’amore è «in mensura». Il che sembra voler dire che il dono dello Spirito «in mensura» o «ad mensuram», trova il suo motivo originario nell’amore «in mensura». Ne consegue che lo Spirito Santo è un dono del Padre, che va associato con il suo amore. A questo punto veniamo alla prima domanda. Il dono dello Spirito è equivalente ai doni divini, che vengono dati secondo le capacità di ciascuno? Se, come afferma Paolo nella Prima lettera ai Corinzi 240, i doni sono distribuiti dallo Spirito – ed eventualmente sono sue manifestazioni –, questi si distinguono dalla Persona dello Spirito Santo. Una cosa sono i doni da parte dello Spirito, altra cosa è il dono dello Spirito da parte del Padre, di cui qui parla Angela. I primi sono dati secondo le capacità di ciascuno e, soprattutto, per l’edificazione della Chiesa, ma per il Secondo, la cosa potrebbe essere diversa. Nel pellegrinaggio assisiano assistiamo a un evento nel quale lo Spirito Santo offre ad Angela dei doni, per lei e per l’edificazione di chi le sta vicino. Durante le locuzioni divine, inoltre, sentiamo lo Spirito rispondere alla beata, a riguardo dell’immensa letizia che lei dovrebbe sperimentare visto l’interlocutore. Egli sottolinea come la sua azione, sia commisurata alla capacità di Angela di ricevere il dono del dialogo divino. In questo caso, lo Spirito Santo è il protagonista; Egli non è il dono, ma il donatore. I doni destinati alla Mistica sono commisurati alla sua capacità ricettiva. Tornando al nostro brano, a conferma di quanto appena detto, ci pare di poter aggiungere la seconda questione posta. Se il dono dello Spirito equivale ai carismi donati ai cristiani, allora Cristo non si distinguerebbe dai fedeli nella propria relazione con lo Spirito. A nostro avviso, dunque, il concetto di «mensura», perché Cristo possa essere associato ai santi, deve rimandare a qualcosa di diverso.

240

Cf. 1 Cor 12, 7-11.

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Detto in altri termini: la misura a cui si fa riferimento è posta dal beneficiario del dono dello Spirito o è posta da Dio Padre che offre tale dono? Nei due casi il termine rimanderebbe a concetti diversi. 3.2.2. Un’ulteriore proposta di interpretazione Notiamo che il termine «mensura», nel Memoriale, compare anche altre volte 241. In due occasioni compare il binomio «con misura (cum mensura)» «senza misura (sine mensura)», usato prima per la letizia provata per un incontro con san Francesco 242, poi per la visione delle schiere dei Troni 243. Quindi, sempre nella stessa occasione, alla domanda di Frater A. se la schiera angelica avesse qualche misura, la beata risponde che non aveva alcuna misura 244. In questi brani il concetto di «misura» ha a che fare con l’idea di misurabile, quantificabile, stimabile. In entrambi questi casi, il protagonista del «fare con misura» è Dio, è Lui che pone la misura opportuna della letizia e della schiera dei Troni. C’è un ultimo episodio in cui il termine «mensura» compare rimandando, però, a concetti un po’ diversi. Siamo nel sesto passo supplementare, Angela sta facendo delle riflessioni su quanto ha vissuto e giunge a una importante conclusione: quanto ha subìto in questo passo è servito per far divenire l’anima umile. Inoltre, quanto più l’anima è stata umiliata, tanto più sarà innalzata, perché nessuna anima può essere elevata se non quanto è stata umiliata. Questa l’ultima parte delle considerazioni della mistica di Foligno: «Quanto più l’anima è abbassata e impoverita o umiliata, tanto maggiormente si prepara e purga e purifica cosicché sia maggiormente elevata, perché nessuna anima si può elevare se non quanto 241 Nelle diverse declinazioni, il termine «mensura» compare 10 volte nel discorso diretto di Angela, di cui 4 nel nostro brano. 242 «E allora fu data nell’anima una così grande letizia e ineffabile che, se non fosse che so che Dio fa tutto con misura (cum mensura), direi che quella letizia massima fu senza misura (sine mensura)», in Mem., IX, 254-256. 243 «Ed era quella compagnia una schiera… che se non fosse che capisco che Dio fa tutto con misura, crederei che quella compagnia fosse di un numero senza misura», in Mem., IX, 277-280, il corsivo è nostro. 244 «Non aveva alcuna misura in longitudine o latitudine», in Mem., IX, 185-286, il corsivo è nostro.

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si è umiliata e abbassata. Bella misura (Pulchra mensura) di lui è questa predetta» 245. Innalzare le anime quanto, e più, si sono – o sono state – umiliate, è la bella misura di Dio, è la misura che – ancora una volta – Egli pone. In questo caso l’idea di misura, pur contenendo l’idea di una quantità e, quindi, di qualcosa di misurabile o stimabile, sembra rimandare principalmente a concetti legati al volere salvifico di Dio, alla «disposizione divina», secondo cui saranno molto innalzati coloro i quali sono molto umiliati. In tal senso, dire che la misura con la quale un’anima viene innalzata è bella, equivale a dire che la volontà salvifica di Dio è bella. L’idea di «bella misura» rimanda alla perfezione del volere salvifico di Dio, secondo il quale chi si umilia – o è umiliato per volere di Dio – sarà innalzato 246. Anche nel nostro brano, il termine «mensura» potrebbe portare con sé il rimando alla volontà salvifica di Dio, alla «divina disposizione di salvezza». Provando a rileggere il brano in un’ottica soteriologica, l’interpretazione potrebbe essere la seguente: Dio dà lo Spirito Santo secondo la propria misura – e non quella dei beneficiari –, ossia dà lo Spirito secondo la propria volontà salvifica, distribuendo questo dono in modo tale da innalzare gli umili fino alla comunione con sé. E chi sono gli umili nel nostro testo? Il Figlio e i santi e – aggiungeremmo – tutti coloro che riconoscendosi bisognosi di salvezza accolgono il dono di Dio. Perché il Figlio e i santi sono associati nel ricevere il dono dello Spirito Santo? Per rispondere a questa domanda occorre chiedersi cosa comporti il dono dello Spirito di Dio. Ci basiamo sulle affermazioni di Paolo nella lettera ai Romani, un testo che ha molte affinità con quello di Angela: «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per 245 246

Mem., IX, 192-196. Il rimando scritturistico a Lc 18, 14 ci sembra evidente.

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vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» 247. Notiamo alcuni elementi in parallelo con il testo di Angela sul dono dello Spirito. Infatti, si distinguono i ruoli delle diverse Persone divine. Il Padre è il protagonista della vicenda: è Lui, infatti, che ha risuscitato Cristo dai morti e che risuscita i fedeli. Il Figlio, venendo risuscitato dal Padre per mezzo dello Spirito, è colui che riceve. Lo Spirito è colui che viene dato al Figlio e ai fedeli, per operare la risurrezione. Gesù e i cristiani, nel paragone sulla risurrezione, sono posti sullo stesso piano. Cristo, in questo senso, è il primo di molti fratelli. In relazione al brano di Angela appartenente al sesto passo supplementare, possiamo notare che all’idea che chi si umilia sarà esaltato, in Paolo fa eco l’idea che, per partecipare alla gloria di Dio, occorre partecipare alle sofferenze di Cristo, che significa far morire le opere della carne – grazie allo Spirito – per vivere. Con parole angelane potremmo parafrasare in questo modo le affermazioni di Paolo: Dio ha disposto, nella sua volontà salvifica, di dare la croce al proprio Figlio, perché, risuscitandolo per mezzo dello Spirito, noi potessimo partecipare, per mezzo dello stesso Spirito, alla sua gloria ed essere innalzati alla comunione con Dio. In questo contesto, l’affermazione paolina accomuna il Figlio di Dio e i fedeli, infatti, «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio». 247

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Rm 8, 11-17.

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Venendo ora all’interpretazione del testo angelano è possibile leggerlo in questi termini: Angela è immersa nel piacere datole dal fatto che l’amore del Padre, conformemente alla disposizione salvifica divina, innalza chi si umilia sino alla comunione con Dio. Questa è la misura: tanto quanto ci si umilia si verrà innalzati. Per far questo Egli dà lo Spirito Santo «in mensura», cioè in modo tale da far raggiungere ai credenti – gli umili – la comunione con Lui. Inoltre, il Padre dà al Figlio lo Spirito «ad mensuram», cioè gli dona lo Spirito in modo tale che sia – nel presente eterno – il Risorto Glorioso, e ai santi dona lo stesso Spirito, in modo tale che partecipino alla sua gloria. L’associazione del Figlio con i santi nella ricezione del dono dello Spirito, è comprensibile solo nella prospettiva soteriologica paolina: come Cristo è Figlio di Dio così lo sono anche loro, perché chi ha lo Spirito di Dio è figlio di Dio; come Lui, che è Figlio, eredita dal Padre la gloria divina, così anche loro, che sono figli, partecipano alla sua eredità. Venendo, quindi, all’affermazione parsa contraddittoria, nella nostra interpretazione diverrebbe così: lo Spirito è dato secondo misura, cioè in maniera adeguata a elevare il Figlio e i santi, dalla morte terrena alla vita divina, in base alla volontà amorosa del Padre di innalzare gli umili-umiliati a sé. Il dono dello Spirito senza misura ha a che fare, invece, almeno con due sproporzioni: la prima è data dal fatto che il dono è riservato a tutti coloro che vogliano accedervi – perciò è senza misura, non ha i posti contati, non è a esaurimento –; la seconda appare nel fatto che il dono dello Spirito eleva esseri che sono “nulla” – il Cristo per volontà di Dio, i santi per propria natura – al Sommo Essere, perché questi “nulla” siano in eterno. Questa «bella misura» è – dal punto di vista umano –, una “misura smisurata”, poiché è la misura divina. In questo episodio, dunque, lo Spirito Santo è colto come co-protagonista nella vicenda della redenzione umana. Il passaggio redentivo dell’essere umano dal “nulla” della morte alla comunione con l’Essere, avviene attraverso il dono dello Spirito Santo. Egli, come dono del Padre, è colui per mezzo del quale si attua la comunione con la Trinità 248, è il punto di congiunzione e il legame che trae il Figlio verso Per sant’Agostino «dono di Dio» è uno degli appellativi dello Spirito, il quale è dono sia del Padre che del Figlio, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, V, 11, 12. Inoltre, per il Vescovo di Ippona, Cristo è stato «unto» con lo Spirito nel momento 248

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il Padre, dopo l’abbandono-umiliazione sino alla morte di croce. I santi, partecipi dell’azione di Cristo proprio nello Spirito di Dio, vengono anch’essi condotti al Padre, con il Figlio. 3.3. Riflessioni conclusive sulla figura dello Spirito Santo Concludiamo questo paragrafo con alcune brevi riflessioni, tese a ricomporre le acquisizioni ottenute dall’analisi delle esperienze angelane riguardanti lo Spirito Santo. In relazione alla seconda esperienza analizzata, secondo cui lo Spirito Santo è dato da Dio in misura, possiamo affermare che la Terza Persona della Trinità ha un ruolo da protagonista nella vicenda della redenzione umana. Da quanto emerso, risulta come Egli sia il dono del Padre per mezzo del quale si giunge alla comunione trinitaria. L’amore di Dio Padre è il motore che muove il suo piano salvifico, così da donare lo Spirito al Figlio: per farlo essere il Risorto Glorioso; e ai santi: per farli partecipare della sua gloria. Il dinamismo d’amore che nasce dal Padre e coinvolge il Figlio nella comunione è lo stesso Spirito Santo. Egli, in quanto dono del Padre, diviene forza traente che solleva il Figlio dal “nulla” della morte di croce al “tutto” di Dio. Lo Spirito, quindi, è dono dell’amore di Dio che fa essere la comunione intratrinitaria. Inoltre, se lo Spirito Santo è Colui per mezzo del quale Cristo è risorto, è anche Colui per mezzo del quale i santi sono associati al Figlio nella risurrezione. Infatti, come afferma san Paolo, ogni cristiano riceve il dono dello Spirito di Dio per il quale è divenuto figlio di Dio. La condivisione della figliolanza divina che Cristo, secondo la volontà del Padre, ha offerto a coloro che lo hanno accolto è opera dello Spirito Santo che, dal Padre, è stato donato ai santi.

dell’incarnazione, mentre non accenna al momento della risurrezione, come invece Paolo, cf. ibid., XV, 26, 46. Infine, in due occasioni Cristo donò agli uomini lo Spirito Santo: la prima volta nel cenacolo il giorno di Pasqua (cf. Gv 20, 22) e la seconda volta – dal cielo – il giorno di Pentecoste (cf. At 2, 4), cf. ibid., XV, 26, 46. Sullo Spirito Santo come «Dono», cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 38.

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I. La Trinità nell’esperienza mistica di Angela da Foligno

Sulla base di quanto appena espresso, si innesta l’opera dello Spirito Santo colta nell’esperienza assisiana di Angela da Foligno. In quell’occasione, infatti, lo Spirito si è mostrato come Colui che elargisce doni di grazia capaci di instaurare un modo nuovo di relazionarsi con Dio. Infatti, attraverso il suo intervento è stato l’artefice principale della familiarità divina che ha coinvolto la mistica folignate. L’inabitazione dello Spirito ha portato la beata a intuire e – pur limitatamente – a sperimentare, quella comunione trinitaria adombrata nell’esperienza del dono «ad mensuram». Infatti, tutta la Trinità partecipò allo straordinario evento sulla via di Assisi. Per consentire ai fedeli di raggiungere la comunione divina, lo Spirito offre i propri doni di grazia. È il caso della «croce» e dell’«amore di Dio» posti nel cuore di Angela, che le hanno permesso un nuovo tipo di relazione con il Figlio e, per Lui, con la Trinità. All’interno di questo episodio, vista l’iniziativa dello Spirito e la diversità dei doni di grazia da Lui dispensati, si può cogliere come Egli abbia una relazione particolare, unica, con ciascun uomo. Alla singolare relazione di Cristo con ciascun fedele, quindi, corrisponde una singolare relazione dello Spirito, che permette e attua – con i propri doni –, la relazione con il Figlio di Dio. Lo Spirito Santo, dunque, è Dono dal Padre, che offre i propri doni di grazia affinché, per con e in Cristo, ogni credente possa accedere alla relazione d’amore che è la Trinità.

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II. Riflessioni sulla Trinità a partire dalle intuizioni angelane

In questa parte del lavoro è nostra intenzione proporre alcune ulteriori riflessioni sulla Trinità, a partire da quanto emerso nelle esperienze di Angela da Foligno. La prospettiva da cui muoviamo può essere sintetizzata attraverso alcune domande. Ad esempio: i dati che abbiamo colto, attraverso le esperienze angelane, possono essere ulteriormente rilanciati e approfonditi? È possibile, proseguendo sul solco da lei tracciato, individuare e seguire delle piste di riflessione sulla Trinità, che lei non ha affrontato in prima persona, ma che sono state adombrate dalle sue esperienze? Angela, al pari di altre grandi figure in ambito teologico e spirituale del passato – alcuni dei quali abbiamo chiamato e chiameremo in causa per qualche accostamento –, può essere illuminante per l’odierna comprensione di Dio Amore trinitario 1? Secondo quanto indicato da Giovanni Paolo II a proposito della «teologia vissuta dei santi» (NMI, n. 27), capace di illuminare il mistero della croce di Gesù – e, quindi, la rivelazione di Dio Amore trinitario –, accosteremo le intuizioni della beata da Foligno considerandola tra quelle persone che hanno ricevuto la grazia di “vivere la teologia”, alle quali si può “attingere” continuamente – ieri come oggi – qualche intuizione per illuminare maggiormente il mistero della rivelazione di Dio in Cristo. Quanto tenteremo di proporre, dunque, prende le mosse dalle esperienze e dalle intuizioni della mistica, per cercare di oltrepassare Tra le molte opere di teologia trinitaria si possono vedere: L.F. LADARIA, La Trinità, mistero di comunione, Paoline, Milano 2004; G. GRESHAKE, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000; P. CODA, Dio uno e trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20003; B. FORTE, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1985; infine, un’opera di più ampio respiro, P. CODA, Il logos e il nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 2003. 1

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II. Riflessioni sulla Trinità a partire dalle intuizioni angelane

ciò che da lei è acquisito. Angela, in altre parole, non delinea in maniera sistematica le conseguenze delle proprie esperienze del Dio trino: tenta di esporre queste ultime, tra difficoltà, negazioni e silenzi; ella non riflette a proposito dell’Amore come atto d’essere delle Persone trinitarie: sperimenta “soltanto” la Trinità; non si sofferma a indagare le implicazioni dell’agire relazionale della Trinità: “semplicemente” lo vive. Occorre, infine, aver presente che le nostre osservazioni saranno a tal punto debitrici dalle esperienze e dalle intuizioni angelane, che risulterà quanto mai difficile distinguere ciò che è in esse contenuto – più o meno implicitamente –, da quanto diciamo noi in dialogo con Angela. È proprio nella prospettiva del dialogo, che si dovrebbero leggere queste riflessioni sulla Trinità: un dialogo con un maestro con cui si progredisce nella riflessione e assieme al quale si giunge a qualche ulteriore aspetto della verità indagata. Iniziamo, dunque, questa sezione tentando di porre l’accento sulle relazioni della Trinità – ad intra e ad extra –, relazioni che, almeno in parte, sono già state delineate dal momento che si è parlato delle Persone divine. È impossibile, infatti, parlarne senza aver presente la loro relazionalità, pena la spersonalizzazione della Persona e, conseguentemente, l’annichilimento della trinitarietà e, quindi, di Dio stesso 2. Richiameremo alcuni episodi dell’esperienza di Angela da Foligno, pur nella consapevolezza che nell’intero percorso si possono riscontrare elementi trinitari. In questo senso, tre momenti possono essere significativi su tutti gli altri: il primo, al diciannovesimo passo, la promessa fatta da Dio ad Angela secondo cui, se si fosse spogliata completamente dei propri beni, tutta la Trinità sarebbe venuta in lei 3; il secondo momento, al ventesimo passo o primo supplementare, quando, durante il pellegrinaggio ad Assisi, tutta la Trinità prende di«È nella relazione stessa che si fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella relazione egli viene a noi. Nell’essere di Dio per noi e con noi, egli rivela la sua natura più profonda», in W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, cit., 432. Affrontando il tema delle relazioni trinitarie avremo presente il saggio di C.L. ROSSETTI, La pericoresi: una chiave della teologia cattolica. A proposito della recente riflessione trinitaria, in «Lateranum» 72 (2006), 553-575, in particolare le pp. 566-575, in cui l’Autore offre delle tesi atte a cogliere i principali elementi della pericoresi trinitaria. 3 Cf. Mem., I, 286-287. 2

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mora in Angela adempiendo – come dice Frater A. 4 – la promessa fatta; il terzo, nel settimo passo supplementare, quando Angela si sente in mezzo alla Trinità 5. Come si può notare i momenti più significativi del cammino verso Dio, sono momenti “trinitari”. 1. LE RELAZIONI INTRATRINITARIE 1.1. Le relazioni intratrinitarie alla luce dell’esperienza di Assisi 1.1.1. Considerazioni a proposito dell’esperienza di Assisi In riferimento allo Spirito Santo, abbiamo già avuto modo di indagare diffusamente l’esperienza mistica sulla via di Assisi del ventesimo passo o primo supplementare. Essa è stata colta dal frater scriptor e, molto probabilmente, da Angela, come l’esperienza trinitaria che portò a compimento la promessa fatta da Dio, nel passo precedente 6. Per la verità, a questa conclusione il frate giunge dopo aver posto alla beata una questione riguardante gli interlocutori intervenuti nel dialogo mistico 7 e dopo che lei ebbe una locuzione divina tendente a chiarire i suoi dubbi sugli avvenimenti 8. Ne risulta che il collegamento tra la promessa e il compimento, soffre di una certa mancanza di consequenzialità. Come a dire che l’esperienza di Assisi non è stata subito riconosciuta, nel suo farsi – da Angela – e nel suo tradursi per iscritto – dal frate –, come adempimento delle promesse divine. Secondo gli Editori del Liber – al di là delle problematiche legate alla questione della duplice redazione – la promessa che la Trinità sarebbe venuta in Angela al diciannovesimo passo, ha sostanzialmente un valore redazionale. Essa, oltre che per spiegare teologicamente i fatti assisiani 9, sarebbe servita al frate per collegare quanto era accaCf. Mem., III, 205-206. Cf. Mem., IX, 80-81. 6 «Quello cioè “Tutta la Trinità verrà in te” annotato nel precedente passo, nel XIX alla fine, nel XX fu adempiuto», in Mem., III, 205-206. 7 Cf. Mem., III, 181-184. 8 Cf. Mem., III, 185-201. 9 Cf. la nota 29 a p. 154 e la nota 24 a p. 190 del Liber. 4 5

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II. Riflessioni sulla Trinità a partire dalle intuizioni angelane

duto prima della sua collaborazione con la beata e quanto, poi, avrebbe scritto in presa diretta. A prescindere, dunque, dalla questione della duplice redazione, ci sembra che la proposta degli Editori possa cogliere nel segno. Infatti, pensando alle questioni poste da Frater A., colpisce che Angela non abbia ricordato al redattore la promessa divina, prima di cadere nel circolo vorticoso dei dubbi. La fermezza angelana colta in tante occasioni, qui non si è mostrata. D’altra parte, però, occorre sottolineare come l’esperienza di Assisi, sia la prima esperienza propriamente mistica e c’è da pensare che la Folignate non l’avesse ancora intesa appieno, cosa avvenuta, invece, proprio attraverso i dubbi insinuatile dal frater. In tal senso, non fa problema pensare che, vista la portata dell’episodio, sia servito del tempo a un’Angela inesperta, per poter capire quanto le era accaduto. Comunque, ciò che a noi preme sottolineare è che l’esperienza di Assisi è stata riconosciuta come esperienza di profonda relazione con la Trinità, che si colloca in continuità con il precedente percorso di Angela. L’evento assisiano, infatti, da un lato si pone come punto di inizio dell’esperienza propriamente mistica – con Bernard si parla di “familiarità con Dio” –, dall’altro si colloca al culmine dell’importante impegno di Angela assunto dopo la conversione e l’incontro con il Crocifisso: quello di essere spoglia di tutto per volere e avere solo Dio. A questo proposito, possiamo affermare che tale evento di comunione con la Trinità, indica anzitutto due cose: la prima è data dal fatto che chi cerca Dio sinceramente lo trova, poiché Lui si lascia trovare; la seconda, che continua e supera la prima, riguarda il fatto che è proprio Dio a farsi incontro a chi lo cerca, offrendo la possibilità di una relazione inaspettata, che apre orizzonti inaspettati. Infatti, se il risultato immediato è che Angela diviene la promessa sposa di Cristo, attraverso il dono dell’«amore di Dio» e della «croce» che lo Spirito Santo le ha offerto, l’orizzonte ultimo è quel «giacere in mezzo alla Trinità», a cui arriverà alla conclusione del percorso spirituale narrato nel Memoriale. Le premesse della relazione di mutua inabitazione tra Angela e il Dio trino, sono contenute nel pellegrinaggio di Assisi, nel quale notiamo all’opera le tre Persone divine, con il medesimo fine: quello di far raggiungere alla beata di Foligno la comunione trinitaria. 129

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A questo punto c’è da chiedersi – prendendo come riferimento le esperienze angelane – quali sono le peculiarità di ciascuna Persona della Trinità divina? Quali, invece, le relazioni tra le Persone? In tale riflessione sono importanti due elementi non disgiungibili del pensiero angelano: il concetto che Dio è Amore 10, il concetto della «disposizione salvifica divina». Il primo fondamentale punto fermo da tenere presente è che Dio è Amore 11. Nel considerare l’agire trinitario occorre considerare che è l’Amore ad agire, quindi, ad amare. In tal senso, l’agire trinitario risulta essere l’Amore che ama e, per questo, è se stesso proprio nell’atto di amare: Dio è Amore amante 12. In altri termini, l’agire trinitario è Dio stesso nell’atto di essere, perché l’Essere di Dio è l’Amore e l’Amore è se ama, se è in atto 13. Sul fondamentale concetto che Dio è Amore, occorre inserire un’ulteriore intuizione fondamentale di Angela: quella riguardante la «disposizione salvifica divina». Infatti, secondo il pensiero della beata, è il piano divino di salvezza voluto dall’amore del Padre a stabilire l’azione del Figlio e a ordinare il dono dello Spirito Santo. Il disegno sal10 Questo appellativo è usato da Angela in diversi gradi del percorso spirituale, cf. Mem., I, 55-56; Mem., III, 110; Mem., VII, 298. Abbiamo, inoltre, visto che anche la definizione di Dio come «ogni bene» conduce all’idea di Dio Amore. Ricordiamo, infine, che Angela, sulle vette più alte della sua esperienza, non riuscirà più a definire Dio. La nostra interpretazione a riguardo ci ha fatto pensare che Dio in sé non sia indefinito, bensì, indefinibile. Egli, infatti, è “più che pienezza” di amore e bontà e, per questo, non intuibile dal pensiero umano. 11 Per il nostro lavoro risulta interessante un’affermazione di Greshake: «Se l’essenza divina è letteralmente l’amore, ovvero il mutuo gioco pericoretico dell’amore, allora la differenza delle Persone va determinata a partire da tale gioco», in G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 230. 12 Sull’atto d’essere della Trinità, atto puro che è Dio stesso, si veda, ad esempio, san Tommaso sulla prima via all’esistenza di Dio, TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 2, art. 3; sulla coincidenza in Dio tra essenza ed esistenza, ibid., p. Ia, q. 3, art. 4. 13 Per Tommaso, Dio è immutabilmente se stesso in quanto atto puro, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 9, art. 1; quindi, se non fosse Amore amante – Amore in atto – Dio non sarebbe Dio. Parlando della pericoresi in divinis in riferimento a Dio Amore, Rossetti afferma che «essa inerisce all’agape come suo modus essendi et agendi… L’unione pericoretica comporta perfetta complementarità e comunicazione, mutua in-essenza, totale reciprocità, inconcepibilità dell’uno senza l’altro: è il movimento stesso dell’amore che trascende la forma dell’et… et, per dare spazio a quella dell’in…in. Esiste vera pericoresi solo in Dio trino e consustanziale (homoousios) che è amore perfetto e assoluto», in C.L. ROSSETTI, La pericoresi…, cit., 566.

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vifico di Dio è, dunque, lo sfondo per cogliere l’agire trinitario per noi, ma anche lo sfondo per cogliere le relazioni di Dio in sé, dal momento che l’azione salvifica del Figlio nello Spirito secondo il volere del Padre è il luogo della rivelazione storica della Trinità. 1.1.2. Le peculiarità delle Persone e le loro relazioni Il Padre. Iniziando la nostra riflessione dalla figura del Padre, possiamo dire che, dal punto di vista dell’agire-essere trinitario, Egli è colui che ama, che vuole e che dà. Il Padre è l’origine dell’azione trinitaria e, quindi, delle relazioni intratrinitarie. È Lui a stabilire il disegno salvifico secondo il quale il Figlio agisce, incarnandosi, morendo e risorgendo, è Lui a donare lo Spirito Santo per mezzo del quale il Figlio è risorto. In quanto origine dell’azione trinitaria, il Padre è all’origine dell’Amore che è Dio 14 e, quindi, della comunione tra le persone divine. Egli, dunque, è Amore originario e originante, è il «profondissimo abisso» 15 dell’Amore, dal quale sgorga eternamente l’atto amoroso che fa essere la comunione trinitaria. L’atto amante del Padre consta di due momenti, così come si possono evincere dal Memoriale: generare il Figlio e volerlo per il piano di salvezza 16, donare lo Spirito Santo in relazione a tale piano 17. Ne risulta che l’Amore che è il Padre è nella generazione del Figlio e nello spirare dello Spirito che dona al Figlio, e agli uomini, in relazione al Figlio. 14 Per quanto riguarda la tradizione ci possiamo riferire a sant’Agostino. Per lui, infatti, il Padre origina l’amore divino: Egli ama colui che genera, il Quale ama colui che lo genera, dando origine a un eterno legame d’Amore, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, VI, 5, 7. 15 Mem., IX, 300 e 355. La seconda tesi proposta da Rossetti, sottolinea come la mutua inabitazione non contraddica la monarchia del Padre: «La pericoresi non contraddice la monarchia del Padre, ma ne è la conseguenza e ne costituisce la vera dinamica agapica. Il Padre è la prima e fontale persona essenzialmente pericoretica, ovvero totalmente esistente per, con e nel Figlio», in C.L. ROSSETTI, La pericoresi…, cit., 566. Ladaria afferma che è proprio nella originarietà paterna che si trovano la radice e il fondamento dell’unità divina nella comunione, cf. L.F. LADARIA, La Trinità…, cit., 179. 16 Cf. Mem., IX, 303-309; e, sulla stessa linea, Mem., IX, 108-117. 17 Cf. Mem., IX, 143-150.

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La comunione d’amore che è la Trinità, quindi, è originata e sostenuta dal Padre, il quale genera il Figlio e, nello Spirito 18, lo lega indissolubilmente a sé. Inoltre, possiamo affermare che il Padre è il punto d’arrivo del percorso d’amore trinitario. Il percorso dell’amore che inizia dal Padre, infatti, torna al Padre attraverso due momenti: il primo dovuto al Figlio, che si accoglie dal Padre concordando con il suo volere e, quindi, gli ritorna l’amore generativo nell’atto di accogliere se stesso; il secondo dovuto allo Spirito, che donato al Figlio, ritorna al Padre nella comunione tra i due. La Trinità, come circolo amoroso, vede il Padre quale fonte e culmine, centro sgorgante e punto d’arrivo. In base alla nostra interpretazione del percorso angelano, è proprio al cospetto del Padre che la beata viene condotta nell’itinerario mistico, dovuto alla relazione d’amore con la Trinità. Infine, il Padre è per il Figlio: Egli è Padre in quanto ama e genera il Figlio. La paternità nell’amore non può prescindere dalla relazione con il Figlio. La paternità del Padre, infatti, altro non è se non questa relazione d’amore. Potremmo dire che il Padre è se stesso come Padre nella generazione del Figlio, quindi, la Prima Persona della Trinità è in quanto genera la Seconda 19. Il Figlio. Passiamo ora alla figura del Figlio di Dio. Egli appare sostanzialmente come colui al quale è dato dal Padre e come colui che accoglie dal Padre. Anzitutto, accoglie il proprio essere in quanto generato dal Padre. In secondo luogo, accoglie il proprio essere come il volere paterno lo dispone. In questo senso, poiché il Padre ama la «società» – povertà, dolore, disprezzo in cui si traduce la croce – «ab aeterno» e la vuole per il Figlio, Egli accogliendola, si vuole dalla volontà eterna del Padre. La triplice società, come abbiamo visto, è un elemento fondamentale dell’esistenza storica di Cristo. Tuttavia, poiché mostra l’essere del Figlio – a coloro che hanno «la vera luce» –, non è qualcosa che appartiene alla sola vicenda terrena – perché propria dell’umanità assunta –, Sullo Spirito come amore del Padre per il Figlio, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 37, art. 2. 19 Cf., a riguardo, AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, VI, 2, 3. 18

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ma è qualcosa che attiene all’essere stesso del Figlio. Infatti, per poter mostrare l’«essere» del Figlio e non nasconderlo nella concretizzazione storica, la triplice società – che vede la propria risoluzione nella povertà – deve essere “connaturale” all’essere del Figlio. A questo punto, dobbiamo pensare che il volere «dall’eternità» del Padre, non solo dispone la vicenda storica di Cristo, ma pone il suo stesso essere eterno in relazione alla missione salvifica 20. Il Figlio, quindi, è Amore potente e umile, capace di ricevere se stesso dal Padre in vista del dono di sé, nella missione voluta dal Padre, secondo la «disposizione salvifica divina». In quest’ottica, il Figlio è colui che è dal Padre e questo per due motivi: il primo è dato dal fatto che Egli viene generato e trova la propria ragione d’essere nel Padre; il secondo è dato dal fatto che il suo essere è secondo la volontà paterna: Egli è come il Padre vuole che sia. In altre parole, se il Padre genera il Figlio, questi accoglie la generazione; se il Padre vuole il suo essere in modo da inviarlo al mondo, questi accoglie il proprio essere missionario 21. Il Figlio è l’Amore accogliente che dà senso e, per questo, fa essere l’Amore donante: il Padre. È proprio nell’accoglienza amorosa della generazione paterna, che il Figlio consente al Padre di essere se stesso come Padre. L’accoglienza della relazione filiale da parte del Verbo, per cui il Figlio è dal Padre, consente la relazione paterna per cui il Padre è per il Figlio. In secondo luogo, il Figlio riceve dal Padre lo Spirito e lo accoglie. Nelle parole di Angela da Foligno, abbiamo inteso il dono dello A proposito del rapporto tra Figlio e Padre, in relazione all’evento della croce Coda afferma: «È grazie a questa esperienza abissale di sofferenza e di abbandono che Gesù, nella sua umanità, giunge alla pienezza della sua esperienza e della sua realtà di Figlio. La risurrezione si mostra così come l’attestazione escatologica di questa piena e definitiva figliolanza. Lo capirà molto bene la tradizione apostolica primitiva che applicherà proprio al momento della morte e della risurrezione di Gesù l’espressione del salmo messianico: “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato” (Sal 2, 7…). In questo senso la risurrezione è l’evento della piena e definitiva figliolanza di Gesù. È opera del Padre, che lo “genera” come Figlio», in P. CODA, Dio uno e trino, cit., 115. 21 A proposito della libertà in Dio, Coda si chiede: «Che ne è… dell’evento gratuito e libero della rivelazione, che apre definitivamente lo squarcio sul dinamismo d’infinita e paradossale libertà che Dio stesso è? Mi riferisco alla libertà del Figlio, Gesù Cristo, che s’attua come tale nell’adesione alla volontà del Padre: dalla kenosi dell’incarnazione sino a quella, consumata, della croce e dell’abbandono; e alla libertà dello Spirito, che “soffia dove vuole” (cf. Gv 3, 8). Libertà, quella del Figlio e quella dello Spirito, che rinviano e orientano all’infinita libertà d’amore e misericordia del Padre», in P. CODA, Il logos e il nulla, cit., 319. 20

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Spirito Santo in relazione al piano divino di salvezza, volto a elevare il Figlio nella risurrezione sino alla gloria della comunione con il Padre. In questo senso, la relazione del Figlio con lo Spirito sembrerebbe “secondaria”, perché avrebbe luogo solamente per ristabilire l’essere del Figlio. Tuttavia, se la «disposizione salvifica» del Padre pone l’essere del Figlio per la missione, allora anche il dono dello Spirito attiene a tale essere, essendo legato alla missione – quindi, al volere eterno del Padre e non solo alla vicenda storica –. Inoltre, è proprio lo sfondo dato dal disegno salvifico, che ci permette di intuire come il Figlio accolga il dono dello Spirito. Dal momento che Egli accetta il proprio essere come l’essere di colui che è dal Padre, accetta il proprio essere connotato dall’umiltà kenoticoamorosa. Il Figlio, quindi, accoglie eternamente la propria espropriazione e il bisogno di essere eternamente “riabilitato” dal Padre per lo Spirito, alla comunione con Lui 22. Accoglie se stesso come eternamente voluto per la missione, che comporta, da un lato, l’espropriazione nella donazione di sé e, dall’altro, la riappropriazione di sé per mezzo del dono dello Spirito dal Padre. Il suo essere Amore accogliente dall’Amore donante del Padre è totale 23: Egli, infatti, si vuole come colui che dona-perde il proprio essere per riaverlo nello Spirito Santo. Potremmo, quindi, affermare che il suo legame di figliolanza con il Padre, è dovuto a due azioni complementari: la propria generazione e lo spirare dello Spirito. Dunque, anche la relazione tra il Figlio e lo Spirito è estremamente intima: lo spirare della Terza Persona non è 22 In Fil 2, 6-11 emerge chiaramente come sia il Figlio a spogliare e umiliare se stesso, accogliendo la volontà del Padre. D’altra parte, è il Padre a ristabilirlo nella dignità divina, in modo che il Figlio se ne riappropri. Inoltre, in Rm 8, 11 si evince che è attraverso il dono dello Spirito che il Padre ha risuscitato Cristo dai morti. Secondo Rossetti è l’essere Amore di Dio che comporta l’essere estatico in divinis e il corrispettivo essere kenotico nell’economia salvifica: «La carità è estatica. La pericoresi essendo l’amore scambievole che intercorre tra le divine persone, è connotata anche come estasi (ek-stasis) ossia come uscita di sé da sé, piena di “disappropriazione” e rifiuto di esistenza solitaria. Il Padre è la prima persona pericoretica e quindi estatica. Tale uscita da sé si riflette nell’economia come kenosi e spoliazione. La pericoresi estatica intradivina è la condizione di possibilità della kenosi storico-salvifica», in C.L. ROSSETTI, La pericoresi…, cit., 569. 23 «Dio viene definito come Amore», quindi, «egli dev’essere in se stesso una perfetta dedizione di se stesso, alla quale da parte dell’Amato non è possibile rispondere che con una altrettanto perfetta gratitudine, disponibilità, dedizione», in H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica, V, Jaca Book, Milano 1986, 71.

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accidentale all’essere del Figlio di Dio. Anzi, per il fatto che l’essere del Figlio è per la missio per amore del Padre, è anche per il soffio dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo. Veniamo alla Terza Persona della Trinità: lo Spirito Santo. Lo Spirito di Dio appare a un tempo come colui che è dato e che è accolto. Anzitutto, Egli è il dono dato dal Padre al Figlio. Lo Spirito è la forza vivificante dell’amore – Amore a sua volta, perché originato dall’Amore – che lega il Figlio al Padre, poiché l’essere del Figlio è voluto dal Padre come bisognoso dello Spirito. Lo Spirito Santo, quindi, è Spirito di comunione trinitaria, perché sostiene la relazione paterna e filiale 24. Dalla relazione tra Padre e Figlio, possiamo comprendere come lo Spirito sia colui che è accolto. È proprio per il fatto che l’essere del Verbo è dallo Spirito per volere del Padre, che si intuisce come lo Spirito venga ricevuto dal Figlio, nell’atto stesso di essere-accogliere se stesso. In altre parole, il Figlio accoglie il dono dello Spirito Santo dal Padre, nell’atto stesso di accogliersi come generato dal Padre, perché il suo essere è per la missione come espropriazione-donazione e riappropriazione di sé nello Spirito. Senza un ricevente amato che acconsentendo diventa a sua volta amante, il dono dell’amore non sarebbe più tale, poiché manca la relazione-amore. Lo Spirito Santo è Amore donato dall’Amore e accolto per Amore. È proprio l’accoglienza del dono dello Spirito che ne permette la donazione 25. In quest’ottica, lo Spirito del e dal Padre diviene anche lo Spirito del e dal Figlio. Infatti, lo Spirito che spira originariamente dal Padre diviene del Figlio in quanto dono a Lui offerto. Quindi, sulla base Lo Spirito Santo «può essere considerato come la “Pericoresi in persona”. La sua caratteristica (idion) è appunto l’essere personalità interpersonale… La personalità dello Spirito Santo sorge “quando” Padre e Figlio si riconoscono uniti e distinti nella loro comunione reciproca», in C.L. ROSSETTI, La pericoresi…, cit., 568. 25 Agostino distingue lo Spirito come «dono» e come «donato», indicando col primo termine l’essere dello Spirito in sé, mentre col secondo l’essere dello Spirito per le creature. Quindi, afferma che «lo Spirito è eternamente dono, ma temporalmente donato», in AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, V, 15, 16. La stessa in TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 38, art. 1, ad 4. 24

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dell’accoglienza del dono, il Figlio “permette” al Padre di far spirare lo Spirito. La Terza Persona trinitaria, perciò, non procede più solamente dal Padre, ma anche dal Figlio che accoglie il dono 26. A questo punto possiamo dire che, se l’essere del Verbo è per lo Spirito, anche l’essere dello Spirito è per il Verbo. L’essere dello Spirito, infatti, è di essere forza vivificante che spira perché è donata e accolta. Quindi, non solo la donazione del Padre, ma anche l’accoglienza da parte del Figlio pone l’essere dello Spirito. Se mancasse uno dei due termini della relazione – Padre o Figlio –, non ci sarebbe la processione e, quindi, lo Spirito Santo. A questo punto ci preme porre una questione: lo Spirito Santo è anche colui che si dà? Se sì, cosa vuol dire per le altre Persone della Trinità? Stando a quanto emerge nell’esperienza sulla via di Assisi, lo Spirito di Dio è protagonista dei doni che Angela riceve, in vista della comunione con la Trinità. Ci potremmo chiedere se Egli dispone solo delle grazie legate alla sua presenza o se dispone anche di se stesso. Dal momento che offre liberamente le proprie grazie, come elargitore dei doni divini, lo Spirito mostra di volere se stesso come colui che viene donato. Del resto, il Padre – Amore donante –, non potrebbe dare lo Spirito – Amore donato –, se questi non si volesse tale. Non concorderebbe con l’essere Amore di Dio. Allora lo Spirito è agente e dispone di sé 27, in questa particolare – passiva – attività di dono dell’Amore. Egli è Dono-Amore dell’Amore donante all’Amore accogliente e, per questo, è colui che si dà, nella passività dell’essere Dono di un Altro per un Altro – e altri –. In quanto è colui che si dà, lo Spirito Santo è “co-protagonista” nella generazione del Figlio. La sua attività passiva di essere dono del Padre fa essere il Figlio ciò che è. Così B. FORTE, Trinità come storia, cit., 132: «Lo Spirito è il vincolo personale di unità fra il Padre e il Figlio: è l’amore donato dall’Amante e accolto nell’Amato, altro dal Padre perché ricevuto dal Figlio, altro dal Figlio perché donato dal Padre, uno con loro perché amore donato e ricevuto nell’unità del processo dell’amore eterno. In tal senso egli procede dal Padre, principio e sorgente dell’amore divino, e, in quanto il Padre comunica all’Amato l’amore e questi nell’amore ricevuto è uno col Padre, procede anche dal Figlio». 27 San Tommaso sostiene che lo Spirito Santo è donatore di se stesso, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 38, art. 1, ad 1. 26

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Inoltre, sempre in quanto è colui che si dà, lo Spirito interviene anche nell’azione del Padre, come colui che dà. Il fatto che lo Spirito si voglia come dono dell’Amore, consente al Padre di porre se stesso come Amore donante nei confronti del Figlio. Quindi, lo Spirito consente al Padre di essere Padre, dal momento che interviene nella generazione del Figlio, come dono d’amore che lo fa essere 28. 1.2. L’atto d’essere Amore trinitario In tal modo, emerge un dato molto interessante: l’agire intratrinitario è un agire trinitario, perché ogni Persona è coinvolta in ciascuna relazione che costituisce l’atto d’amare-essere. L’agire intratrinitario quale atto d’essere della Trinità, mostra l’essere trinitario come essere relazionale. In questo senso, ad esempio, per quanto riguarda il Figlio, la generazione vede coinvolti il Padre come colui che genera, il Figlio come colui che accoglie la propria generazione e lo Spirito come colui che consente tale generazione. Così, anche in riferimento allo Spirito Santo, la processione vede agire il Padre come colui che dona, il Figlio come colui che accoglie il dono – e perciò a sua volta lo dona – e lo Spirito come colui che si dona lasciandosi donare. Sulla stessa linea, anche l’azione dell’originare propria del Padre, come colui che genera il Figlio e dà lo Spirito, è per le altre due Persone divine. Il Padre non sarebbe Padre se il Figlio non si accogliesse come tale. Il Figlio, infatti, permette al Padre di porsi in quanto Padre, per l’atto filiale di accogliere se stesso. Similmente avviene per la donazione dello Spirito da parte del Padre. Questi è colui che dà lo Spirito, dal momento che lo Spirito si vuole come colui che viene donato. Per il fatto che nella Trinità la relazione tra Donante e Dono è in atto, il Padre è come colui che dona e lo Spirito è come colui che viene do«Il simbolo trinitario della co-originarietà del Padre, del Figlio e dello Spirito, da un lato suggerisce che, se lo Spirito è certo frutto del riconoscimento del Padre e del Figlio e dunque viene “dopo” di Essi, Egli però è anche contemporaneo a Loro. Come il Padre non sarebbe Padre senza il Figlio, così il Padre non potrebbe porre l’atto originario di libertà/amore, ch’Egli stesso è generando il Figlio/Lógos, senza quello Spirito che è il soffio incoercibile della libertà dell’amore. E altrettanto può dirsi, nel modo a Lui proprio, del Figlio/Lógos», in P. CODA, Il logos e il nulla, cit., 330. 28

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nato. Se venisse meno questa relazione, il Padre non sarebbe donante e perciò non sarebbe Padre; lo Spirito non sarebbe dono e perciò non sarebbe lo Spirito del/dal Padre. A questo punto possiamo dire che ogni Persona è per le relazioni con le altre Persone, in modo tale che se Una non fosse le Altre non sarebbero. Ne risulta che il Padre è grazie al Figlio e allo Spirito, il Figlio è grazie al Padre e allo Spirito, lo Spirito è grazie al Padre e al Figlio. Da quanto detto emerge che l’Essere di Dio e la Trinità delle Persone divine sono inscindibili. Anzi, si deve affermare che la Trinità delle Persone è l’Essere di Dio, poiché Dio è Amore trinitario 29. Quindi, senza Amore la Trinità non è e senza la Trinità l’Amore non è 30. Stando così le cose, non dovrebbe più stupire la confusione creatasi a proposito delle azioni delle Persone trinitarie, durante il pellegrinaggio di Assisi. Infatti, la presenza di una sola Persona della Trinità, a motivo delle relazioni intratrinitarie, comporta anche la presenza in sé delle Altre. Al centro di questa pura relazionalità amorosa che è la Trinità, Angela viene condotta in due esperienze. Il primo episodio è legato alla visione tenebrosa di Dio, nella quale la beata è attirata dalla Trinità in modo mai sperimentato prima:

29 Sull’identità tra relazione ed essenza in Dio cf., TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 28, art. 4. Così Rossetti a riguardo dell’essenza divina in riferimento alla pericoresi: «La pericoresi in quanto comunione di amore reciproco tra le persone divine può essere considerata come la stessa essenza di Dio Amore. O meglio: la pericoresi trinitaria è la dinamica nel contempo personale ed essenziale per cui ognuna delle tre Ipostasi possiede la comune essenza divina», in C.L. ROSSETTI, La pericoresi…, cit., 567. Cf. G. GRESHAKE, Il Dio unitrino, cit., 219-224. 30 «Da una parte occorre affermare che Dio è uno nel costituirsi originario e nel sussistere relazionale delle tre divine persone, in quanto Egli è l’atto o l’evento tripersonale del Padre che ama il Figlio generandolo nello Spirito, del Figlio che è generato dal Padre e lo ama a Lui ridonandosi nello Spirito, dello Spirito Santo che procede dal loro reciproco amore e a loro si ridona – in modo tale che Dio non sarebbe se non fossero le persone, ed è solo in esse e in tutte e tre simultaneamente in modo che ciascuna è Dio, l’Unico Dio. Dall’altra parte, occorre affermare contemporaneamente che Dio è Uno per e nelle relazioni d’amore delle tre divine persone, proprio per il fatto che ciascuna di esse, nel modo a lei proprio, si dona compiutamente alle altre sino al punto che esse tutte, per così dire, “si consumano” in Uno – essendo l’unico Dio: “Io e il Padre siamo uno”», in P. CODA, Il logos e il nulla, cit., 314-315.

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«E in quella Trinità che vedo con tanta tenebra mi sembra di stare e giacere in mezzo. E quello mi attira più che qualsiasi cosa che ebbi in precedenza o qualsiasi bene che dissi in precedenza, e tanto più che nulla è comparabile; e qualunque cosa dica mi sembra di dire nulla o dire male» 31. Il secondo episodio, invece, è legato all’esperienza oltre la tenebra: «E mi sembrava di stare in mezzo alla Trinità, in modo maggiore di quanto consueto, perché ricevevo beni maggiori che di consueto, e perché ero in questi beni continuamente. E in questo predetto modo di essere in Dio, ero piena di letizia, piena di delizie. E sentendomi in quei beni e in quei diletti massimi e inenarrabili, che sono assolutamente sopra ogni cosa mai sperimentata prima, si venivano facendo nell’anima operazioni divine tanto ineffabili che nessun santo né angelo le potrebbe raccontare né spiegare. E vedo e capisco che quelle operazioni e quel profondissimo abisso nessun angelo e nessuna creatura è così larga e capace (capax) da poterle comprendere. Ciò che dico è detto così male che è una bestemmia» 32. A questo punto dice di essere tolta da ciò che sin qui la dilettava, cioè dalla contemplazione della vita e dell’umanità di Cristo e dalla contemplazione della triplice società e della croce. Inoltre, dice di essere tolta dal modo di intuire Dio nella tenebra. L’esperienza di intima relazione con la Trinità cominciata ad Assisi, trova nei frangenti del settimo passo supplementare il suo vertice. Angela si scopre «in mezzo alla Trinità», coinvolta nel circolo di relazioni d’amore che è la Trinità. Questo è il punto d’arrivo dell’agire di Dio nei suoi confronti, un agire che ha visto all’opera le Persone divine nelle loro relazioni. Infatti, l’opera del Figlio voluta dal Padre nello Spirito – secondo la «disposizione salvifica divina» –, ha aperto ad Angela la possibilità di accogliere lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, in modo tale che le elargisse i propri doni per sperimentare una particolare intimità divina. Lo Spirito, ricevuto da Angela come dono del Padre nel Figlio – è a Lui che viene dato e a colo31 32

Mem., IX, 80-83. Mem., IX, 293-303.

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ro che credono in Lui –, l’ha legata indissolubilmente a Cristo, quale promessa sposa. Proprio questo legame – l’anello nuziale dell’amore –, le ha permesso l’accesso all’eredità propria del Figlio: la comunione con il Padre per mezzo dello Spirito Santo. Quanto sin qui detto varrebbe per ogni cristiano. La peculiarità del rapporto di Angela con Dio è dovuto ai particolari doni dello Spirito, per mezzo dei quali lei ha accesso all’intuizione mistica di ciò che avviene a ogni cristiano. Quindi, Angela si coglie in mezzo alla Trinità. A questo proposito, proprio il dato dell’«in mezzo» ci pare interessante. Sembra rimandare, infatti, al tessuto delle relazioni intratrinitarie, per cui lo stare in mezzo comporta proprio l’essere al centro di queste relazioni, dunque, a contatto con l’essere stesso di Dio Amore trinitario. In questa situazione Angela sperimenta i rapporti tra le Persone divine, divenendo partecipe delle relazioni tra Padre, Figlio e Spirito Santo nell’atto d’essere amore della Trinità. Questo potrebbe voler dire che Angela sperimenti, in quanto relazioni trinitarie, la generazione del Figlio, la spirazione dello Spirito e la “posizione” del Padre, cioè il fatto che al Padre è dato di porre se stesso come Padre-Origine in rapporto alle altre Persone. Inoltre, si deve aggiungere che l’unione con Dio che caratterizza l’esperienza di Angela, è un’unione relazionale: una comunione. L’unione che lei sperimenta è, e deve essere, senza confusione. Infatti, proprio la comunionalità dell’essere di Dio che è amore, comporta la personalità dei partecipanti all’unione divina. L’unità divina è tri-personale, perciò ogni altra unione deve essere personale, relazionale: una “unione con” Altri. A confermare la partecipazione di Angela alle relazioni amorose che sono la Trinità, ci sembra di poter addurre l’esperienza divina che compare poco dopo nel Memoriale. In essa Dio afferma che la Trinità riposa in Angela – come ella si raccoglieva in Dio – che così le può dire «tu tieni me e io tengo te» 33, in un rapporto di reciproca immanenza e appartenenza tra Dio e la sua creatura.

33

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Mem., IX, 419.

II. Riflessioni sulla Trinità a partire dalle intuizioni angelane

2. LE RELAZIONI DELLA TRINITÀ CON LE CREATURE 2.1. Il rapporto con le creature In questo capitolo, attraverso i dati fornitici dalle esperienze angelane 34, cercheremo di indagare le relazioni tra la Trinità e le creature 35. Nel percorso mistico di Angela da Foligno, la figura di Dio come Creatore non è scindibile dalla visione di Dio come Redentore. Vale a dire che lei è condotta a intuire il rapporto di Dio con le creature, nella comprensione del suo amore salvifico. Infatti, le intuizioni sull’essere di Dio come amore e sulla «disposizione salvifica divina», portano la beata a indicare una connessione indissolubile tra creazione e redenzione. 2.1.1. Dio Amore creativo Il fatto che la Trinità si voglia eternamente come Amore salvifico, non può non influire sul suo agire come Amore creativo 36. A questo punto, ci soffermiamo brevemente su alcune esperienze. Nel pellegrinaggio ad Assisi, mentre dubita di colloquiare con lo Spirito Santo, Angela si sente dire dalla Terza Persona della Trinità che ogni cosa che la circonda è sua creatura e che non può non pensare a Lui, osservando i campi e i vigneti circostanti. Alle parole dello Spirito «questa è una mia creatura», Angela viene colta da una «dolcezza divina ineffabile» 37.

Rileviamo subito come, per Angela, la conoscenza di Dio possa avvenire attraverso le creature, sebbene sia molto migliore la conoscenza di Dio in se stesso, cioè attraverso la rivelazione di sé che Egli ci offre. A tal proposito, le fu dato un esempio da Dio, perché rispondesse a Frater A. su una questione postale, cf. Mem., V, 211-219. 35 Un intervento in proposito è già stato elaborato, con particolare riferimento all’essere umano, da L. IAMMARRONE, L’uomo in Cristo nel pensiero della beata Angela da Foligno, in C. SCHMITT (ed.), Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, cit., 261-286. 36 «Alla luce dell’evento pasquale – e della riflessione condotta a partire da esso sull’immanenza del mistero – è possibile perciò riconoscere la presenza propria delle tre divine Persone sull’unità della storia delle origini», in B. FORTE, La Trinità come storia, cit., 161. Nell’elaborazione di questa parte avremo presente le riflessioni proposte da Forte, sul rapporto tra la creazione e le Persone trinitarie, in particolare alle pp. 161-164. 37 Mem., III, 59. 34

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Lo Spirito di Dio, dunque, dopo averle dichiarato il proprio amore e la volontà di ricolmarla di doni, per fugare i dubbi angelani, si mostra come il Signore della creazione. Tutto il creato rimanda a Lui perché ogni cosa è sua creatura. La creazione, quindi, rinvia al Dio Creatore, il quale, anzitutto, si presenta come colui che ama e si dona a coloro che lo accolgono. In un’altra occasione, sempre legata ai dubbi di Angela quanto alla presenza divina in lei, la beata è intrattenuta in un colloquio da Cristo. Riportiamo il brano del secondo passo supplementare: «E iniziai a dire: Se tu sei il Figlio di Dio onnipotente, come la mia anima non riceve così tanta letizia da non poterla sostenere? Sentendo che tu sei in me e io in te sono così indegna. E rispose: Perché non voglio che sia in te maggiore letizia, e a te viene temperata. E mi rispondeva: È vero che tutto il mondo è pieno di me. E allora io vedevo che ogni creatura era piena di lui. E mi diceva: Io posso fare tutto: che tu mi veda come quando fui insieme con gli apostoli e non mi senta, e posso fare che tu mi senta e non mi veda come ora» 38. Ancora una volta, il contesto del brano è quello della risposta al dubbio sulla presenza divina. Stavolta, però, riguarda il Figlio di Dio. Il motivo è dato dalla letizia provata, che dovrebbe essere insopportabile visto l’interlocutore divino 39. La risposta di Cristo è legata alla creazione: tutto il mondo è pieno di Lui. Questo viene mostrato ad Angela che conferma: «ogni creatura era piena di lui». L’affermazione di Cristo e la visione connessa, servono per dimostrare alla beata come il Figlio di Dio possa fare tutto. La dichiarazione «Io posso fare tutto», pur continuando con un ulteriore esempio, ci sembra da legare alla rivelazione della presenza in «tutto il mondo» e in «ogni creatura». Proprio tale connessione, ci

38 Mem., IV, 44-51. La frase «come quando fui insieme con gli apostoli…», rimanda alla locuzione ricevuta da Angela appena tornata da Assisi, sempre ad opera di Cristo, cf. Mem., III, 146ss. 39 Lo stesso motivo di dubbio è presente nelle locuzioni di Assisi. Là era rivolto allo Spirito Santo, anche se la risposta sembrerebbe data da Cristo, cf. Mem., III, 72-76.

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consente di capire come la presenza del Figlio nel mondo, sia in relazione al suo fare creativo, «fare tutto». Il rimando alla creazione serve come prova della veridicità dell’incontro con Cristo, in un contesto in cui si parla dell’amore di Dio offerto ad Angela e alla sua socia. Lo sfondo del brano appare salvifico, dal momento che si parla della possibilità della salvezza e del giudizio divino 40. Infine, ci sembra interessante notare come, nei brani appena osservati, alcuni elementi creativi vengano attribuiti sia allo Spirito Santo che al Figlio. Un ulteriore momento in cui Angela sperimenta la relazione tra il Creatore e le creature, riguarda la visione della potenza di Dio. Siamo al quarto passo supplementare. Abbiamo già commentato il brano. Qui proponiamo brevemente qualche riflessione. «Figlia mia, a me dolce, nessuna creatura può darti una consolazione, io solo. E dopo disse: Io voglio mostrarti la mia potenza. E subito furono aperti gli occhi dell’anima, e vedevo una pienezza di Dio nella quale comprendevo (comprehendebam) tutto il mondo, cioè l’al di là del mare e l’al di qua del mare e l’abisso e ogni cosa. E in tutto ciò non discernevo altro se non la potenza divina, in modo assolutamente inenarrabile. Allora l’anima mia piena di ammirazione gridò dicendo: Questo mondo è pregno di Dio!» 41. Angela è resa misticamente capace di cogliere il mondo intero, in una visione che le permette di vedere il rapporto Dio-mondo dalla parte del Creatore: tutto, in quel momento, le è contemporaneamente presente. Le appare chiaro che la potenza divina è presente ovunque, poiché non discerne altro. A questo punto esplode nell’affermazione: «Questo mondo è pregno di Dio!», il cui rimando più immediato sembra essere, nel brano precedentemente esposto, la dichiarazione di Cristo secondo cui tutto il mondo è pieno di Lui. Tuttavia, l’affermazione angelana supera quella del Figlio di Dio 42. Cf. Mem., IV, 31-40. Mem., VI, 60-65. 42 Similmente, Agostino afferma che la creazione è piena di Dio come una spugna è piena del mare, in AGOSTINO DI IPPONA, Le Confessioni, VII, 5, 7. 40 41

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Se nella prima locuzione viene dichiarata la presenza del divino nel mondo, come avviene in questo caso in relazione all’attributo della potenza, nel secondo brano si afferma che il mondo è gravido di Dio, «pregno di Dio». Per chiarire al meglio la questione consideriamo il genitivo sia soggettivo che oggettivo. Da un lato – se Dio è colui che ingravida il mondo –, emergerebbe come la presenza divina nel creato, ponga questo in grado di generare creature la cui paternità è da attribuire a Dio. Il contesto del brano è un contesto eucaristico, che rimanda a uno sfondo soteriologico. Per tale motivo, l’idea che il mondo sia «pregno di Dio» potrebbe rinviare a un duplice senso: anzitutto, in relazione alla creazione: essa è da intendersi come atto generativo continuo di Dio, che la fa essere una creazione continua 43; in secondo luogo, in relazione alla salvezza: Dio è presente a tal punto nel mondo, da offrire a tutte le creature la possibilità di mettersi in relazione con Lui, il rapporto è tale da “generare figli” di Dio 44. D’altro lato – se Dio è colui che viene generato – emergerebbe l’idea che la creazione è in grado, per l’opera di Dio, di portarlo nel mondo. Potremmo pensare che, poiché il mondo esiste nel Figlio, esso sia «gravido di Dio» per l’essere del Figlio, come generato eternamente dal Padre. In altri termini, il mondo che è pieno del Figlio di Dio, si scopre gravido di Dio, perché porta in sé colui che è il Generato dal Padre. L’essere del mondo per l’essere del Figlio lega Figlio e mondo a tal punto da non essere separabili. L’immagine lascia intuire un interessante rapporto tra la generazione del Figlio, l’incarnazione e la creazione. A nostro avviso, è corretto considerare tutti i significati dati alla dichiarazione, che non sembrano escludersi reciprocamente. Ci pare Intendiamo la creazione continua come conservazione. Se Dio cessasse di pervadere l’esistente in quanto sua causa, esso cesserebbe di esistere. Cf. in proposito TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 104, art. 1. 44 L’impronta potrebbe essere paolina: «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi», in Rm 8, 22. Le creature sarebbero condotte attraverso il «parto» a una relazione nuova con il Creatore. Potrebbe essere quanto san Tommaso chiama “governo” delle cose da parte di Dio, che ha come fine Dio stesso, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 103, artt. 1-2. 43

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di poter concludere che la relazione tra il Creatore e le creature appare, anzitutto, come una relazione estremamente intima e continua. Inoltre, come una relazione che tende sempre più ad approfondire se stessa, sino a offrire alle creature di condividere – per quanto loro possibile – la gloria del Creatore. Un’altra esperienza molto importante in questo senso, è presentata nel settimo passo supplementare. La beata da Foligno intuisce la presenza divina nel creato, non attraverso qualche attributo di Dio, ma attraverso il suo stesso essere. Angela sente la presenza di Dio nell’anima e, quindi, le è dato di coglierlo presente in ogni creatura e in ogni cosa avente l’essere, tanto in un demone quanto in un angelo, tanto all’inferno quanto in paradiso, tanto in una cosa turpe quanto in un’opera buona. Proprio per questa visione, Angela non prova meno diletto intuendo Dio in un demone piuttosto che in un angelo. Mentre è in questo tipo di intuizione la mistica folignate non coglie il peccato, salvo ritrovarlo subito dopo nell’intuizione sull’umiltà di Dio che, unico a essere per sé, fa essere ogni cosa, anche quella malvagia 45. In un momento successivo del percorso spirituale, sopra la visione tenebrosa e nel massimo grado del rapporto con la Trinità, Angela ha un’altra immagine di Dio in relazione alle creature, da cogliere in stretta connessione con quella appena citata. In questo caso però, non intuisce la presenza divina nel creato come in precedenza, ma contemplando Dio in sé, lo coglie come l’«essere» e coglie come sia l’«essere» di ogni creatura: «E vedo colui che è l’essere e in che modo è l’essere di tutte le creature. E vedo in che modo mi ha fatto capace di capire le cose predette meglio di quanto lo fu finora, quando lo vedevo in quella tenebra in cui tanto soleva dilettarmi e vedo me sola con Dio, tutta monda, tutta santificata, tutta vera, tutta retta, tutta sicura e tutta celeste in lui» 46.

Cf. Mem., IX, 324-338. Mem., IX, 410-415. È proprio nel massimo grado del rapporto con Dio, che Angela si sente dire come la loro relazione sia di mutua immanenza: «In te riposa tutta la Trinità, tutta la verità, cosicché tu tieni me e io tengo te», in Mem., IX, 418-419. 45 46

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È notare come, ancora una volta, in relazione con l’Essere che è Dio, Angela scopra il proprio essere mondo di ogni peccato, retto, vero e come, proprio in questo frangente, sia in grado di cogliere l’Essere che è Dio, come mai prima. L’essere umano è reso capace da Dio di fare esperienza del divino, al punto tale da poterne condividere gli attributi. Angela fa misticamente l’esperienza della divinizzazione per grazia dell’uomo. Una domanda che ci si potrebbe porre a questo punto, sulla base di quanto riportato nel Memoriale, è se l’uomo sia naturalmente predisposto a essere capace di fare esperienza di Dio, oppure se questa capacità gli sia data solamente dall’intervento della grazia divina. In altre parole, ci potremmo chiedere se all’uomo è, in certo senso, connaturale entrare in relazione con il Dio trino, oppure se questa relazione avvenga per grazia 47, indipendentemente dalla natura umana creata. Anzitutto, occorre osservare come le esperienze mistiche, vissute da Angela, siano dono dello Spirito Santo. Infatti, la particolare relazione con Dio e, soprattutto, l’esperienza mistica di tale relazione, sono una particolare grazia offerta dallo Spirito alla beata. Tuttavia, il contenuto di alcune esperienze, come ad esempio cogliere la relazione tra l’Essere e ogni cosa avente l’essere, è un dato che riguarda tutte le creature. Dalle esperienze analizzate, ci sembra si possano evincere tre tipi di relazione tra Dio e l’uomo: una prima relazione – universale – si basa sull’Essere di Dio come essere delle creature; una seconda relazione – per grazia, offerta universalmente da Dio Padre per l’opera di Cristo nello Spirito, ma non sempre accolta – nasce dalla sequela del Figlio, attraverso il dono – e i doni – dello Spirito Santo; una terza – per grazia, particolare e personale – è offerta ad Angela per mezzo dei doni dello Spirito. Quest’ultima relazione, particolare – mistica – e personale, fa parte dell’insieme più grande delle relazioni per grazia. Proprio partendo dall’idea della relazione d’essere del Creatore con le sue creature, possiamo affermare che l’essere umano è naturalmente predisposto alla relazione con Dio, anzi, egli è già in relazione Sulla necessità della grazia cf., tra gli altri, TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. Ia, q. 109. Si è espresso a proposito il Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica Dei Filius, in cui si afferma che l’uomo è capax Dei: egli ha in se stesso la capacità di cogliere l’Essere divino come principio e fine della creazione, cf. DS 30013005. Cf. sulla questione B. FORTE, Trinità come storia, cit., 166-183. 47

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con il Dio trino. In tal senso, esplicitando, l’essere umano è in relazione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come Trinità creatrice che si vuole ab aeterno come Trinità redentrice. La relazione d’essere con il Dio trino, quindi, comporta in sé una relazione implicita con l’eterno piano salvifico. Più volte nel corso di questa trattazione, ci siamo posti la domanda su ciò che comporti per il Figlio l’essere eternamente per la missione, secondo il volere del Padre. In questo caso, vorremmo riprendere il problema, per affrontarlo dal punto di vista della relazione con l’essere delle creature, in quanto, proprio a motivo della missione, il Figlio assume l’essere creaturale. Alcune delle conclusioni alle quali siamo giunti a proposito del Verbo, ci hanno fatto cogliere come Egli sia Amore potente e umile, dal momento che perdendo se stesso – offrendosi ed espropriandosi nella sua missione d’amore – rimane se stesso nell’atto di amare. Inoltre, abbiamo intuito come sia proprio la missione d’amore voluta dal Padre e accolta dal Figlio, a fare del Figlio colui che espropria-annichilisce totalmente se stesso, per “riaversi” per mezzo del dono dello Spirito dal Padre. In questa prospettiva, quale spazio e quale ruolo ha la creaturalità assunta dal Verbo? La questione potrebbe essere posta in questi termini: la missione del Figlio, intesa come potente umiltà del Verbo che espropria-annichilisce se stesso secondo la «disposizione salvifica» del Padre, comporta in qualche modo la creaturalità dell’umanità, come luogo in cui il Figlio è povero, addolorato, disprezzato? E, quindi, la creaturalità è legata ab aeterno all’essere del Figlio 48? Ora, occorre riflettere sulle due categorie non separabili di Eterno e di Essere, per le quali il divino è divino. A nostro avviso, gli opÈ interessante notare come Ubertino da Casale, nell’Arbor vitae, parli della volontà ab aeterno di Dio, riferendosi all’assunzione della carne da parte del Figlio: «Anima mia, abbi il coraggio di uscire completamente da te stessa… Passa in Gesù, nel quale insieme a lui sei Dio… indubbiamente è cosa molto migliore ciò che Dio ama fare ab aeterno nell’assunzione di Gesù, che se avesse fatto ciò che la fantasia tua o di altri può immaginare, ne consegue chiaramente che sia molto meglio per l’anima dilettarsi che l’umanità di Gesù è unita a Dio», in M. DAMIATA (a cura di), Ubertino da Casale. Testi estratti da Arbor vitae crocifixae Iesu, in E. CAROLI (coord.), Mistici francescani. Secolo XIV, cit., 647. Il lemma ab aeterno compare a proposito della generazione del Figlio: «Ora Dio Padre con amore eterno ci ha dato il Figlio che ha generato ab aeterno», in ibid., 635. 48

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posti di queste categorie, ossia il loro rispettivo annichilimento – ottenuto per l’espropriazione di sé che il divino compie –, sono la temporalità e l’esistenzialità: la temporalità intesa come divenire che comporta l’annullamento dell’eterna presenzialità nello scorrere del mutamento, che riduce il futuro a passato e, quindi, ciò che non è ancora a non essere più; l’esistenzialità intesa come nulla chiamato a essere – e che perciò non è più nulla – e intesa come essere che per sé non sarebbe – e può divenire nulla – e che, perciò, non è essere in sé. L’esistenzialità, quindi, è l’annichilimento dell’Essere, in quanto non è né nulla in sé, né essere in sé. Dunque, l’annichilimento dell’Eterno è tale se diviene temporale, ossia se entra nel ciclo del divenire – per il quale non è più eternamente presente – e l’annichilimento dell’Essere è tale se perde in se stesso la propria ragione d’essere, diventando “esistente”, cioè qualcosa che è chiamato all’essere senza possederlo e, a un tempo, non è né nulla né essere 49. In questa prospettiva, occorre osservare che l’essere del Figlio è legato, attraverso la missione, alla croce e non al nulla. Egli, infatti, è generato per essere colui che amando espropria se stesso sino ad annullarsi per riaversi e non come colui che è nulla e viene chiamato all’esistenza per donarla, raggiungendo in questo modo la relazione con il Padre. In questo secondo caso sarebbe un esistente, quindi, una creatura, seppure la più importante. Il Figlio è colui che è Essere eterno, chiamato dal proprio essere a espropriare-annichilire se stesso, rimanendo per questo Essere eterno. Quindi, se l’annichilimento dell’Essere eterno comporta la temporalità e l’esistenzialità – in quanto suoi opposti –, e se l’essere del Figlio è caratterizzato dall’annichilimento del proprio Essere eterno, temporalità ed esistenzialità appartengono all’essere del Figlio, in quanto Egli è generato e si accoglie come colui che annichilisce il proprio essere, per riaverlo dal Padre nello Spirito Santo, rimanendo così in sé Essere eterno 50. Angela parla del nulla creaturale per distinguerlo dall’essere di Dio, Unico avente l’essere, cf. Mem., VII, 503-507. 50 Siamo davanti alla “coincidenza degli opposti” in Dio. Infatti, Eterno ed Essere e temporalità ed esistenzialità, sono nell’essere divino del Figlio. All’idea della coincidentia oppositorum, ossia del “tutto”, presente in Dio, sembra rimandare anche il tema della tenebra attraverso le parole di Angela: «E nulla assolutamente vede l’anima che si possa raccontare con la bocca o col cuore, e nulla vede e vede tutto assolu49

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Ne consegue che, se temporalità ed esistenzialità appartengono all’essere del Figlio di Dio, allora la creaturalità appartiene all’essere del Figlio 51, in quanto questa si esplicita in quelle. Ora, se la creaturalità appartiene all’essere del Verbo ne consegue che la creazione, in quanto “posizione in essere della creaturalità”, avviene nel Figlio e per mezzo del Figlio. Egli, infatti, in conformità al proprio essere pone in se stesso la creaturalità – temporalità ed esistenzialità – annichilendosi. Ne emerge che la creazione – come evento originario della storia – è nel Figlio e per mezzo del Figlio: «senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3) e che tutto ciò che è temporalità ed esistenzialità, ossia creaturalità, è perché il Figlio annichilisce il proprio Essere eterno secondo il volere del Padre 52. A questo riguardo, si noti come a seguito dell’intuizione della presenza di Dio nelle creature, l’anima si umilia molto e ne risulta colpita. Questa è la conseguenza del riconoscimento dell’essere umile di Dio, che pone il proprio essere a fondamento di ogni creatura: «E allora lo intuisco presente, e capisco in che modo è presente in ogni creatura o in ogni cosa avente l’essere… E allora l’anima intuendolo presente si umilia molto, e ne riceve confusione per i propri peccati. E riceve qui una grande dote di sapienza e una grande consolazione divina e letizia» 53. In questa prospettiva è comprensibile l’affermazione di Cristo ad Angela: «Tutto il mondo è pieno di me», dal momento che Egli è la ragione d’essere di ogni esistente, perché annichilisce-espropria il proprio Essere eterno ponendo in essere il creato. Poiché l’intera creazione è posta in essere nel Figlio, per Angela è possibile osservare ogni creatura nella Trinità creatrice. Infatti, se nell’esperienza mistica in riferimento alla presenza di Dio, lei può cogliere la presenza divina nella creazione – secondo la relazione d’estamente», in Mem., IX, 34-35. Proprio perché il “tutto” è presente in Dio, il “tutto” è visibile, ma dal momento che è la creatura a vedere nulla è visibile. 51 La particolare creaturalità che la volontà paterna ha voluto per il Figlio è l’umanità. 52 È il Padre a pronunciare-generare eternamente il Verbo-Figlio e, quindi, a dire-porre in Lui ogni cosa dall’eternità, cf. AGOSTINO DI IPPONA, Le Confessioni, XI, 7, 9. 53 Mem., IX, 324-338.

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sere Creatore-creatura – a partire dalle creature, nell’esperienza dell’essere in sé di Dio, le è dato di cogliere la verità sull’essere di ogni cosa esistente, proprio a partire dalla contemplazione dell’essere stesso di Dio. In questo secondo caso Angela può cogliere le creature nel Creatore 54. La Trinità creatrice, dunque, ha posto in essere la creaturalità nel Verbo. Infatti, essendo la generazione del Figlio un evento trinitario che coinvolge il Padre e lo Spirito Santo, la creazione, come “posizione in essere della creaturalità” nel Verbo – a motivo dello stesso essere filiale, secondo il libero volere del Padre e la libera accoglienza del Figlio –, è un evento trinitario. Ritorniamo, riassumendo, su una domanda posta in precedenza: la creaturalità è legata eternamente all’essere del Figlio? La risposta è affermativa, dal momento che l’eterna generazione del Figlio lo pone, per la libera accoglienza della volontà del Padre nello Spirito, come colui che annichilisce-espropria il proprio Essere eterno rimanendo se stesso. L’annichilimento dell’Essere eterno da parte del Figlio, pone in essere in Lui la temporalità e l’esistenzialità, quali opposti dell’Eterno e dell’Essere. L’essere del Figlio è Essere eterno che annichilendo se stesso, nell’esistenzialità e nella temporalità, rimane se stesso. Egli, infatti, è Amore che si dona e si espropria sino a perdere se stesso annullandosi, per essere sempre Amore. Proseguendo, occorre tentare qualche riflessione a proposito dell’incarnazione del Verbo, dal momento che l’essere del Figlio, come voluto ab aeterno dal Padre, è legato alla creaturalità. Il particolare legame nel Figlio tra divinità e creaturalità, infatti, potrebbe indurci a pensare che lo straordinario evento storico per il quale «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14) mostrandosi agli occhi del mondo duemila anni fa, sia da collocare nella sua dimensione meta-storica, eterna, nella generazione stessa del Figlio. Quanto accaduto storicamente nelle terre di Palestina, ossia l’assunzione dell’umanità da parte del Verbo, se colto sul piano metastorico rivela un atto eterno che pone la storia e la fa essere. «E in quel manifestarsi di Dio è tutta la verità; e in quel manifestarsi di Dio intuisco e ho tutta la verità che è in cielo e nell’inferno e in tutto il mondo e in ogni luogo e in ogni cosa…», in Mem., IX, 405-413. 54

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Tentando di dirlo in altri termini: l’incarnazione, quale assunzione-posizione della creaturalità nel Figlio 55, dal punto di vista storico avviene nel preciso momento in cui Gesù di Nazareth è concepito, per opera dello Spirito Santo, nel seno di Maria. Tuttavia, dal punto di vista meta-storico, l’incarnazione quale posizione-assunzione della creaturalità nel Figlio, avviene eternamente nell’atto libero del Figlio di accogliere se stesso dal Padre come annichilentesi-espropriantesi. Nella sua portata meta-storica, dunque, l’incarnazione “precede” la storia, poiché con la posizione-assunzione della creaturalità nel Figlio, avviene la “posizione in essere della creaturalità” da cogliere come creazione. L’incarnazione di Cristo, quindi, pur se avvenuta in un determinato momento della storia, risulta esserne il fondamento, il centro irradiante, il principio, la ragione d’essere. In questa prospettiva, riflettiamo sulla relazione tra l’incarnazione del Figlio e la creazione. La creazione trova proprio nell’incarnazione la sua ragione d’essere. In altre parole, la “posizione in essere della creaturalità” nel Figlio – la creazione –, trova la propria ragione d’essere nel Figlio, voluto dal Padre nello Spirito come espropriantesiannichilentesi, come incarnantesi 56. Da ciò emergono altri dati importanti sulla creazione: è conseguenza dell’essere espropriantesi-annichilentesi-incarnantesi del Figlio di Dio, ossia dell’incarnazione del Verbo; è dal nulla, infatti, è dall’Essere che annichilisce se stesso ponendo l’esistente, che è nulla che diviene realtà; è ontologicamente altra rispetto all’Essere eterno di Dio, dal momento che è posta dall’Essere eterno nell’atto di annullare se stesso in esistenzialità e temporalità; è in relazione d’essere con l’Essere eterno del Figlio, in quanto l’Essere eterno – Amore accogliente –, nell’annichilimento di sé essendo se stesso, pone la creazione in sé; è continuamente posta all’esistenza da Dio, poiché l’annichilimento dell’essere del Figlio di Dio, essendo un atto eterno, è sempre attuale.

Sull’assunzione dell’umanità da parte del Figlio si veda, ad esempio, TOMMASO Summa Theologiae, p. IIIa, q. 3. L’Aquinate nell’art. 4, indica l’assunzione come evento trinitario, sebbene la natura umana sia unita alla sola persona del Figlio. 56 L’annichilimento del Figlio nella creaturalità, che comporta l’incarnazione, nell’eterno presente divino è un atto sempre attuale, perciò il Figlio eternamente espropria-annichilisce-incarna se stesso. 55

D’AQUINO,

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2.1.2. Redenzione e libertà umana. Fede e peccato Detto questo sulla creazione, è necessario chiedersi qual è la relazione tra la “posizione in essere della creaturalità” nel Figlio, come atto eterno che pone la creazione in Dio, e l’incarnazione, come azione salvifica disposta eternamente da Dio, avvenuta storicamente per portare le creature alla redenzione. In altri termini: qual è il rapporto tra la creazione e l’incarnazione che consente la redenzione? Quale spazio ha la libertà umana nella redenzione e come va colto il peccato che nega la possibilità della relazione con Dio? Iniziamo con distinguere i diversi modi di relazione con Dio. Anzitutto occorre dire che la grande differenza tra la relazione con Dio per la creazione – relazione universale d’essere – e quella per la redenzione – relazione di grazia universalmente offerta, ma non sempre accolta – è il dono dello Spirito 57. Lo Spirito Santo, infatti, è un dono che pone la creatura in relazione filiale con il Padre nel Figlio. Perciò, se nella creazione si ha una relazione d’essere, attraverso lo Spirito Santo la relazione con Dio diviene personale, comunionale. La “posizione in essere della creaturalità” nel Figlio – creazione –, pone la possibilità della redenzione, intesa come un nuovo livello di relazione con Dio, una relazione iniziata nella creazione e che culmina con il rapporto personale, intimo, con la Trinità. Se nella creazione, la creatura è in relazione con Dio come esistente opposto all’Essere eterno, presente nella coincidentia oppositorum divina, nella redenzione la creatura è in relazione con Dio quale essere in grado di relazionarsi a Lui come partner, attraverso l’Essere stesso della Trinità, cioè l’Amore eterno. Con la redenzione, la creatura diviene in grado – per lo Spirito – di entrare in relazione d’Amore con Dio e, quindi, di accedere alla partecipazione all’Essere Amore stesso, essendo coinvolta e abilitata ad amare Dio con l’Amore che è Dio 58. Attraverso la redenzione la creatura non è solo nell’Amore che annichilisce se stesso essendo 57 La presenza dello Spirito Santo nella creazione è evidente, poiché la creazione nel Figlio è evento trinitario, essendo evento trinitario la generazione. Tuttavia, tale presenza dovuta alla sola relazione d’essere, è altra cosa rispetto alla presenza dovuta al dono dello Spirito per la relazione personale di grazia con la Trinità. 58 È quanto sembra emerge nell’esperienza mistica in cui Angela vede se stessa come divisa da una strada. Da una parte vede l’«ogni bene» di Dio, dall’altra vede se stessa priva di qualsiasi bene. Il risultato è l’unione dell’essere Amore che è Dio con il vuoto dell’essere umano, proprio nell’essere Amore divino. Cf. Mem., VII, 149-155.

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Amore, ma è partecipe dell’Amore e ne dispone come proprio essere per partecipazione 59. È la figliolanza adottiva per la quale si ha l’eredità di Cristo 60, è la divinizzazione che permette all’uomo di essere Dio per partecipazione. Inoltre, occorre dire che se la generazione del Figlio – come colui che espropria-annichilisce se stesso nella creaturalità – è disposta dal Padre ab aeterno e se la relazione che il Figlio instaura con le creature porta loro il dono dello Spirito Santo, per una rapporto personale e comunionale con Dio, allora l’incarnazione e la creazione trovano la loro ragione d’essere nella redenzione, quale divinizzazione delle creature esistenti nel Figlio ed elevate alla relazione trinitaria nello Spirito Santo. Infatti, il Padre che vuole – e perciò genera – il Figlio espropriantesi nella creaturalità, vuole nel Figlio le creature in modo tale che queste possano ricevere lo Spirito Santo, che consente loro una relazione personale con il Padre. Del resto, se il Figlio è Amore accogliente e riceve dal Padre il dono dello Spirito per la relazione con Lui, allora tutto ciò che è nel Figlio riceve il dono dello Spirito per la stessa relazione. Perciò, nel Figlio tutta la creazione riceve il dono dello Spirito. Se ne evince che a tutti, indistintamente, è offerta la possibilità della redenzione come relazione d’amore con il Padre, nel Figlio per lo Spirito Santo. A questo punto entra in causa la libertà umana, capace di accogliere o rifiutare il dono di Dio per la relazione eterna con Lui. In questa prospettiva si inseriscono la fede e il peccato dell’uomo. Infatti, la possibilità di accesso al dono dello Spirito Santo, si ha solo nel momento in cui si coglie il proprio essere come “nulla” per sé e si riconosce di vivere nel e per il Figlio, affidandosi completamente a Lui. Del resto, il dono dello Spirito è al Figlio e, per partecipazione nella fede-affidamento, alle creature. Stando così le cose, coloro che non riconoscono il proprio essere nel Figlio e credono di essere per sé – i superbi 61 –, si pongono fuori 59 A tal proposito si possono pensare i miracoli attribuiti ai santi, come azioni che loro compiono disponendo dell’essere Amore di Dio per partecipazione. 60 Rm 8, 17: «Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria». 61 Il termine superbia occorre ben 11 volte nel Memoriale, di cui 5 negli ultimi brani del sesto passo supplementare, quando la beata parla della “purificazione” più significativa, cf. Mem., VIII, 130-195. Non risulta presente nel settimo passo supplementare.

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dalla relazione di grazia con il Figlio – pur rimanendo nella relazione universale d’essere – a causa del peccato, cioè a motivo della volontaria negazione della relazione con Dio. Invece, dal momento che si riconosce il proprio “nulla” creaturale – ci si umilia, direbbe Angela 62 – allora si viene elevati, nel Figlio, secondo la misura voluta dal Padre, cioè sino alla relazione intima e comunionale con Lui, per mezzo del dono dello Spirito Santo. In questa prospettiva, l’idea di redenzione che emerge non è principalmente quella della riparazione del peccato e del ritorno alla perfezione edenica, ma quella della possibilità dell’accesso alla divinizzazione come intima relazione comunionale con Dio, una relazione che è partecipazione all’essere Amore eterno. Sembra emergere un continuo processo di elevazione della creatura che riconosce la propria nullità, un processo che è eternamente predisposto e offerto da Dio e che è fruibile dall’uomo attraverso l’affidamento a Lui. La divinizzazione è il destino della creatura, dal momento stesso in cui viene posta in essere nel Figlio, così come voluto e disposto dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Il peccato, quindi, quale volontario rifiuto dell’affidamento a Dio, nega la relazione di grazia e lascia l’essere creaturale a livello di esistente, non portandolo alla partecipazione dell’essere Amore eterno. La conseguenza è il “nulla” che l’esistenza creaturale è destinata a sopportare, essendo opposta all’Essere eterno che è la sua ragione d’essere. Quindi, si può cogliere l’inferno 63 come esistenza opposta a ciò che realmente è per sé: l’essere Amore eterno che è Dio. Riassumendo, dobbiamo concludere che la volontà del Padre è di partecipare il proprio essere Amore eterno. Per questo genera il Figlio come Amore accogliente che espropria-annichilisce se stesso, essendo se stesso dal Padre nello Spirito Santo. Proprio in questo essere Amore eterno accogliente del Figlio, la creazione trova la propria esistenza. Le creature, quindi, sono destinate – per volere del Padre nell’essere del Figlio grazie al dono dello Spirito Santo – a partecipare all’esCf. Mem., VIII, 193. L’inferno, esistendo, è posto in essere nel Figlio ed è mantenuto nell’esistenza per quella che abbiamo chiamato “relazione universale d’essere” con l’essere del Figlio. Tuttavia, per il rifiuto del rapporto di grazia con Dio, esso non avrà mai accesso all’essere Amore eterno, quindi, alla vita eterna. Rimarrà un esistere che si vuole rinchiuso in se stesso, nella sofferenza del non essere Amore eterno. 62 63

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sere Amore eterno, entrando in relazione comunionale con le Persone divine. Infatti, la relazione con le Persone comporta la partecipazione alle relazioni trinitarie che sono Dio Amore. Dunque, coloro che si riconoscono nel e per il Figlio, ritenendosi “nulla” in se stessi e affidandosi a Lui, vengono elevati alla partecipazione dell’essere Amore eterno secondo la «misura» stabilita da Dio 64, ma coloro che ritengono di essere qualcosa – i superbi di questo mondo –, peccano non riconoscendosi debitori all’essere Amore eterno e, quindi, non affidandosi a Dio 65. In tal modo, ponendosi al posto di Dio, rompono la relazione con Lui e perdono la vita eterna 66. Ci sembra di poter dire che la vita eterna non si guadagna, dal momento che ci viene offerta 67, però si può liberamente rifiutare 68. A questo punto, si coglie come sia centrale la libertà della creatura, la quale essendo voluta per partecipare all’essere Amore divino non può che essere libera. Infatti, la partecipazione avviene attraverso il rapporto personale – quindi libero – con Dio. La possibilità del peccato, in quest’ottica, inteso come eventuale scelta della libertà appartiene all’esistenza creaturale: è insita nella natura umana. Infatti, come il Figlio concorda con il Padre sul proprio essere, così la creatura è chiamata a concordare con il Padre sulla propria esistenza nel Figlio, per partecipare – nel Figlio – dell’Essere eter64 La misura stabilita da Dio, è quella che Angela chiama «bella misura», secondo la quale tanto ci si umilia-annulla, tanto si viene elevati. L’elevazione consiste nel passaggio dall’esistenza creaturale per e nel Figlio per la coincidenza degli opposti, alla partecipazione dell’Essere eterno del Figlio per grazia. 65 Cf. Mem., VII, 503-509. In questa prospettiva, si capisce il valore salvifico della povertà – come riconoscimento del nostro “nulla” –, che è la radice dell’umiltà – come nostra consapevolezza di avere tutto da Dio –, la quale “permette” a Dio la nostra divinizzazione. 66 Il percorso di allontanamento dall’essere Amore divino, è spiegato ad Angela nella parabola del Regno, cf. Mem., IV, 248-256. Vi si afferma chiaramente la scelta libera di lasciare il Regno di Dio da parte di alcuni figli, un Regno nel quale si sarebbe già presenti in relazione con il Padre. 67 Angela afferma che quando si è introdotti nella verità sulla povertà-nulla di sé, si agisce senza alcuna intenzione e senza rispetto per i propri meriti, cf. Mem., VII, 542-543. 68 A proposito della relazione strettissima che Dio ha voluto con le creature, si badi che anche quando l’uomo pecca, pecca in Dio. Infatti, «nel corso dell’operazione peccaminosa stessa Dio ci mantiene nell’esistenza, rimanendo il fondamento ontologico della nostra libertà peccatrice», in C.A. BERNARD, Il Dio dei mistici II. La conformazione a Cristo, cit., 162.

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no. Se ciò non avviene è per la libera volontà della creatura, che sceglie l’esistere creaturale piuttosto che l’essere Amore eterno, per con e in Dio. La “vera” morte 69 della creatura, dunque, è la morte per il peccato, quale rifiuto della vita eterna accessibile per partecipazione all’Essere di Dio, nella chiusura in un’esistenza mancante della propria ragione d’essere. Infatti, mentre la fine dell’esistenza nella creaturalità dischiude, per volere di Dio, la nuova modalità d’essere per partecipazione all’Essere eterno, la morte per il peccato rinchiude la creatura in se stessa, in quella esistenzialità destinata, per natura, a essere altra rispetto all’Essere eterno. Concludiamo queste riflessioni sulla fede e sul peccato con qualche ulteriore considerazione. Anzitutto, l’accesso alla relazione con Dio che avviene per mezzo della fede-affidamento a Lui, è un processo continuo della libertà umana. L’affidamento non è dato una volta per tutte, ma è sempre scelto di nuovo. All’interno del percorso spirituale di Angela, questo è uno dei grandi insegnamenti del sesto passo supplementare: dopo aver avuto accesso a esperienze mistiche altissime, è stata chiamata a una nuova e più profonda conversione. In secondo luogo, non si deve dimenticare la dimensione espiativa dell’azione redentrice di Cristo. Se la redenzione è offerta eternamente da Dio, la libertà umana si attua nella storia dell’uomo, una storia fatta continuamente di progressi nella fede, ma anche di cadute nel peccato. La missione del Figlio non solo offre la possibilità della relazione d’amore con l’Amore, ma ci consente di accedervi nonostante i peccati, poiché è stato Lui a farsene carico. Sin dall’inizio dell’esperienza mistica di Angela le parole di Cristo crocifisso le parlano in questo senso: Egli è colui che ha patito la fame e la sete, che ha sparso il proprio sangue e che è stato crocifisso per lei, per i suoi peccati 70. Ad un tempo, quindi, l’azione di Cristo dischiude all’uomo la relazione con la Trinità e, inoltre, la possibilità di accedervi nella fede, nonostante i nostri peccati. Utilizzando un’immagine evangelica, poA questo proposito ricordiamo che san Francesco nel Cantico di Frate Sole, 12-13, loda Dio per «sorella nostra Morte corporale» e afferma che saranno guai per coloro che moriranno nei peccati mortali, mentre saranno beati coloro che la morte troverà nella volontà di Dio, perché la Morte seconda non farà loro del male. 70 Cf. Mem., III, 60-67. 69

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tremmo dire che oltre ad aver preparato il banchetto nuziale, Cristo esce per le strade a raccogliere gli invitati, i quali devono solo vestirsi a festa – affidarsi – per condividere la gioia dello Sposo 71. 2.2. Il rapporto con Maria Nel percorso spirituale angelano la figura di Maria è posta in particolare rilievo. La Madre di Dio, infatti, Vergine che è nella gloria, intercede presso Dio per Angela, la benedice e prega per il genere umano. In questo paragrafo, dopo aver visto i più importanti testi riguardanti le esperienze sulla Vergine, tenteremo di collocare Maria in relazione alla Trinità 72. 2.2.1. Maria nelle esperienze angelane La figura di Maria, che compare quasi subito nel Memoriale, rimarrà presente lungo tutto il cammino della beata sino alle soglie delle vette più alte – al sesto e al settimo passo supplementari –, dove lascerà il posto all’esperienza immediata della Trinità. Il primo momento in cui Maria compare è al sesto passo. Angela, profondamente illuminata sui propri peccati, sente di offendere tutto il creato. A questo punto inizia a pregare ogni creatura di non accusarla dei peccati commessi, invocando la beata Vergine e tutti i santi perché intercedano per lei presso Dio, affinché le ridoni la vita dal momento che si considera morta 73. Maria, collocata tra i santi – e le altre creature –, ha il potere di intercedere presso l’Amore e di pregarlo, potere concesso anche ai santi, a differenza delle altre creature. Ella, dunque, riconosciuta come creatura e posta con i santi al cospetto di Dio, spicca come figura particolare. Anche in altri passi la Madre di Dio è capace di intercessione. Sempre per l’amarezza e la vergogna per i propri peccati, Angela trova Cf. Mt 22, 8-14. Sulla figura di Maria si possono vedere, tra gli altri, S. DE FIORES, Maria madre del Signore. Sintesi storico-salvifica, EDB, Bologna 1992; G. COLZANI, Maria. Mistero di grazia e di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996. 73 Cf. Mem., I, 53-58. 71 72

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in Maria un sicuro sostegno. È il caso del sedicesimo passo, nel quale Dio pone nel cuore della beata il Pater noster, per mezzo del quale riceve una maggiore cognizione dei peccati. Colta da profonda vergogna, la Mistica si presenta alla Vergine per essere aiutata. In questo caso, Maria appare come colei che chiede indulgenza per i peccati di Angela: «Siccome nel “Padre nostro” mi fu indicata la mia indegnità e i miei peccati, cominciai a essere nella vergogna, al punto che non osavo alzare gli occhi; ma mi presentai alla beata Vergine che impetrasse per me l’indulgenza dei peccati. E ero ancora nell’amarezza per i peccati» 74. Il rapporto di Angela con Maria non si limita alle richieste della beata per lenire le difficoltà. Ella, infatti, è importante anche per i progressi spirituali 75. Nel brano che riportiamo di seguito, la Vergine interviene per acquisire una grazia per Angela. Siamo al diciassettesimo passo: «E dopo questo, mi è stato dimostrato che la beata Vergine mi acquisì una grazia che mi diede una fede diversa da quella che avevo; perché mi sembrava che fino ad ora la mia fede fosse quasi morta a paragone, e le lacrime che avevo fossero quasi per forza a paragone; ma poi mi addolorai più efficacemente per la passione di Cristo e per il dolore della Madre di Cristo. E da allora, qualunque cosa facessi e in qualsiasi modo la facessi, mi sembrava di fare poco, e avevo la volontà di fare maggiore penitenza. E allora mi chiusi nella passione di Cristo, e mi è stata data la speranza che lì potevo liberarmi. E qui cominciai ad avere consolazione attraverso i sogni; e avevo bei sogni e mi si dava consolazione in essi. E cominciò ad essermi data una dolcezza di Dio continuamente dentro l’anima, da sveglia e da dormiente; ma, poiché ancora non

Mem., I, 194-198. Occorre ricordare che anche nei momenti in cui Angela ha bisogno di sostegno per sopportare la pena del vivere dopo alcune esperienze del divino, la sua invocazione è rivolta soprattutto a Maria. Ne fa menzione il frater scriptor in un brano redazionale; cf. Mem., VII, 131-139. 74 75

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sentivo certezza, ancora era mescolata all’amarezza e volevo avere altro di Dio» 76. Ci sono alcuni importanti passaggi da notare. Anzitutto, è per l’intervento di Maria che Angela ha un forte progresso spirituale: in comparazione la fede che aveva prima sembrava quasi morta. In secondo luogo, proprio per la grazia acquisita tramite la Vergine, è concesso ad Angela di entrare in maggiore relazione con la passione di Cristo e di sua Madre. La relazione compassionevole con il Figlio, elemento portante del suo cammino verso Dio, trova un fondamentale progresso per l’intervento della Madonna 77. In terzo luogo, rinchiusa nella passione di Cristo, Angela inizia a sperare nella liberazione dai peccati e a sperimentare le prime importanti consolazioni divine, pur se ancora nell’incertezza. Per superare le incertezze provocate, la beata ricorrerà nuovamente a Maria, quale aiuto estremamente efficace. A tal proposito, incontriamo un chiaro esempio nel quarto passo supplementare, quando Angela, sempre dubbiosa a riguardo delle locuzioni divine, ottiene dalla Madre di Cristo una grazia rassicurante. Questa la locuzione: «Dio si mostrò a te, ti parlò, ti diede un sentimento di sé, affinché eviti di vedere, dire e sentire ogni cosa che non sia secondo lui» 78. Se lei farà quanto Dio le indica, allora riceverà dal Figlio la grazia richiesta alla Madre, ossia di non ingannarsi sulle parole divine. «E disse: Fai quelle tre cose che ti sono state dette. Prova, perché quando l’avrai fatto, quello che chiedesti a mia Madre, quello che ancora non hai avuto, ti avverrà. E io chiedevo alla beata Vergine che per quella festa che veniva, mi ottenesse la grazia da suo Figlio, di sapere di non essere ingannata nelle locuzioni che mi facevano. E rimasi allora con una letizia della predetta locuzione, e

Mem., I, 205-218. Angela prega Maria perché le faccia conoscere quanto più possibile la passione del Figlio, cf. Mem., VII, 48-52. 78 Mem., VI, 28-30. 76 77

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nella grande speranza che la beata Vergine mi avesse ottenuto quello che chiedevo, come mi era stato promesso allora» 79. La grazia della certezza nelle locuzioni divine, quindi, viene accordata ad Angela, grazie all’impegno della Vergine presso il proprio Figlio. L’impegno da parte di Maria nei confronti di Angela non deve stupire. La beata, infatti, proprio per il rapporto privilegiato con Cristo, viene amata da sua Madre e da tutti i santi. È l’amore di Dio a muovere le azioni della Madonna. Lo si può capire da un intervento divino, nel quale viene affermato il molto amore di Dio per la mistica, cui fa seguito l’amore di Maria e dei santi, in attesa che lei possa essere con loro nella contemplazione eterna. «Mi fu detto: Figlia mia amata, dolce a me, tutti i santi del paradiso e mia Madre provano per te un amore speciale, e sarai unita con loro a me. E tutto questo mi sembrava molto poco, cioè dei santi e di sua Madre, ma tutta mi dilettavo in lui, tanta era la dolcezza che sentivo di lui. Ed egli mi diceva: Del molto amore che provo per te, io te ne nascondo per i tuoi difetti, perché non lo potresti sopportare» 80. Il punto di riferimento dell’intera esperienza è il Figlio di Dio. È Lui al centro della scena e, proprio per questo, si intuisce che l’amore speciale di Maria e dei santi nei confronti di Angela, è la conseguenza del suo straordinario amore per lei. Infatti, la beata, pur cogliendo la Vergine e i santi nell’esperienza, si diletta totalmente nel Figlio e a Lui verrà associata. La compagnia dei santi sarà – semplicemente – la conseguenza di questa associazione. 2.2.2. Maria esempio sulla via di Cristo La Madre di Dio, inoltre, è presentata come esempio fondamentale da seguire, per camminare sulla via tracciata da Cristo. Riportiamo la risposta data da Angela a una questione postale dal frater scriptor:

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Mem., VI, 19-25. Mem., IV, 133-139.

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«Una volta io frate la pregai perché pregasse Dio, affinché un frate detto della Marca non fosse ingannato. E come ella efficacemente pregò, subito le fu data risposta, che diceva: Tutto l’altrui (totum alienum) deve essere reso con grande sollecitudine, e sempre mentre l’uomo vive, deve ritenere (retinere) a sé il suo. E così [con grande sollecitudine l’uomo deve ritenere il suo, così] con grande sollecitudine deve rendere (reddere) l’altrui; e non deve mescolare alcunché di suo con l’altrui. E mi poneva l’esempio della beata Vergine, quindi mi si diceva: Vedi l’esempio di mia Madre, come ritenne sempre il suo e rese l’altrui. E mi poneva similmente l’esempio di se stesso, come ritenne il suo, sebbene non fosse indigente, perché egli era sempre in Dio Padre e Dio era in lui» 81. La questione posta da Frater A. verte su ciò che è da ritenere e ciò che è da rendere. Per capire meglio di cosa si tratti, occorre fare riferimento ad altri testi presenti nel Memoriale. Il primo testo al quale fare riferimento appartiene al quarto passo supplementare. Dio offre una grazia ad Angela, secondo la quale la beata non solo gioverà a tutti coloro che la vedranno, ma anche a quanti la penseranno o la sentiranno nominare. Di fronte a una tale grazia, Angela teme di poter avere vanagloria. Questa è la seconda parte del dialogo tra Angela e il suo interlocutore divino: «Non voglio questa grazia, perché temo che mi noccia e ne possa avere vanagloria. E subito mi rispose dicendo: Tu non hai da farci alcunché, perché non è qualcosa di tuo, ma ne sei solo custode. Conservalo bene, e restituiscilo a colui di cui è. E allora l’anima comprendeva che in questo modo non mi poteva nuocere. E mi fu detto: Mi piace che tu abbia questo timore, come a me sembra» 82. Mem., V, 233-244. Tra parentesi [ ] una frase non presente nel ms. A e in altri codici. In ogni caso non cambia il senso del brano. Giustamente, per cogliere il significato di «reddere» e «retinere», gli Editori del Liber, rimandano a Mem., VI, 14ss. e Mem., VII, 481ss., in nota 30 a questo testo. 82 Mem., VI, 12-18. 81

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Al di là dell’importanza della grazia ricevuta dalla mistica di Foligno, ciò che ci preme mettere in risalto è il fatto che il dono di Dio non è suo possesso, bensì è qualcosa di cui lei può disporre solamente. Angela per sé non avrebbe nulla, tuttavia, può amministrare il dono divino, rimanendo pronta a restituirlo al Proprietario quando sarà il momento. In questo caso, ciò che è suo è niente: ella è semplicemente chiamata al servizio, rispetto al dono divino che è d’Altri 83. Il secondo testo a cui ci riferiamo, appartiene al quinto passo supplementare. Angela sta spiegando al frater, che quando l’anima sente Dio ed è nell’amore e opera con cuore ottimo e puro, allora non vuole piacere al mondo, bensì vuole piacere totalmente a Dio, così da raccogliersi e da sentirsi completamente in Lui. A questo punto afferma che l’anima deve saper conservare ciò che è proprio e restituire a Dio ciò che è di Dio. Perché lo sappia fare, Egli permette che subisca qualche inganno, in modo da conservarla. Inoltre, l’anima viene condotta alla piena conoscenza di se stessa 84 e alla piena conoscenza della bontà divina. Giunta a tal punto l’anima non può più subire inganni, anzi è condotta alla piena verità. «E allora è tutta dentro in Cristo con massima letizia e inenarrabile, e si sente tutta abbracciata a Cristo; tuttavia affinché l’anima sappia conservare ciò che è suo e rendere ciò che è di Dio, Dio talvolta permette che avvenga in lei qualche inganno affinché sia conservata, perché la ama e non trasgredisca. E ancora non è sufficiente all’anima questo predetto, finché essa [non] è condotta alla piena cognizione di se stessa e alla piena cognizione della bontà di Dio, e ivi nulla assolutamente potrà ingannarla, anzi l’anima è condotta alla piena cognizione della verità» 85. Ci pare di poter dire che il legame tra il ritenere il proprio e restituire l’altrui, con il conoscere sé e la bontà di Dio, risulti piuttosto evidente. Infatti, il restituire e il ritenere sono una tappa obbligata verso la conoscenza di sé e di Dio, cioè verso la conoscenza della verità. 83 Nel Proemio, al capitolo III del De Trinitate, rivolgendosi al lettore parlando di ciò che scrive, Agostino indica come non sia suo ciò che c’è di vero e come invece lo sia ciò che c’è di errato, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, III, 1, 2. 84 Sulla conoscenza di sé in linea con quanto vissuto da Angela, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, IV, 1. 85 Mem., VII, 479-487. In A è omesso «non».

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Sebbene l’anima sia totalmente raccolta in Cristo, se non conosce se stessa e la bontà divina, non saprebbe distinguere ciò che è proprio e ciò che è di Dio. Quindi, non sarebbe capace di ritenere quanto le appartiene per natura e quanto dovrebbe restituire a Dio, perché da Lui ricevuto come dono per grazia. Proprio questa incapacità non le permetterebbe di giungere alla piena conoscenza della verità 86. In questo brano ciò che è di altri corrisponde a ciò che è di Dio. In parallelo, se ne può evincere che nel primo brano – quello di Maria portata come esempio –, ciò che Angela dice sia da restituire ad altri, equivale a ciò che è da restituire a Dio. Del resto, se il ritenere e il restituire sono legati alla conoscenza di se stessi e della bontà di Dio, non si può non concludere che tutto ciò che l’uomo ha ed è, è tale per la bontà divina. Infatti, l’uomo per sé non avrebbe e non sarebbe nulla. A questo riguardo la beata fa delle affermazioni molto chiare durante tutto il suo percorso spirituale e, soprattutto, è questa la «verità» a cui è condotta nelle esperienze di fruizione di Dio come «essere» e «essere di ogni creatura» 87. A questo punto possiamo pensare a Maria, come a colei che – conoscendo se stessa e la bontà di Dio – ha colto pienamente la verità sul proprio essere e sull’Essere di Dio e, quindi, ha restituito a Dio tutto ciò che questi le ha dato: tutta se stessa. Ci sembra confermare quanto abbiamo appena detto, un’ulteriore esperienza in riferimento alla povertà, come insegnamento della divina sapienza nei confronti della Vergine. Riportiamo il brano, i cui rimandi al testo precedente sulla conoscenza di sé e della bontà divina ci sembrano chiari: «E capisco che la povertà è la madre di ogni virtù ed è insegnamento della divina sapienza. Come la divina sapienza istruì la beata Vergine nell’incarnazione di Cristo (in incarnatione Christi): anzitutto le fece conoscere se stessa e, dopo che si conobbe, le fece perdere ogni dubbio su Dio e immediatamente le fece confidare nella bontà di Dio. Conoscendo se stessa e la bontà di Dio disse: Ecce ancilla Domini, fiat La conoscenza piena della verità rimanda a un altro testo in cui ad Angela è dato di cogliere totalmente la «veritas», in relazione a Dio e al creato. È l’esperienza nella quale, cogliendo Dio come Essere ed essere di ogni esistente, si scopre «totam veram»; cf. Mem., IX, 398-416. 87 Cf. ibid. 86

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mihi secundum verbum tuum; similmente la divina sapienza istruì noi nell’umanità di Cristo (in humanitate Christi), il quale, sebbene fosse Dio, volle che la sua umanità fosse legata all’obbedienza del Padre, a ogni volere del Padre» 88. In questo brano emerge come la povertà – insegnamento della divina sapienza –, sia legata alla conoscenza di sé e della bontà di Dio. Infatti, proprio questi due fattori, insegnati a Maria nell’incarnazione di Cristo, conducono la Vergine ad accogliere pienamente la volontà divina, nella spoliazione totale di sé. Poniamo ora il concetto di povertà in parallelo con il binomio ritenere-restituire, parallelo possibile dal momento che questi sono legati alla conoscenza di sé e della bontà di Dio, come loro conseguenze. Sulla base dell’esempio di Maria, ci pare di poter dire che nel concetto di povertà siano contenuti entrambi i significati del binomio. Infatti, proprio a partire dal “nulla” creaturale, da un lato possiamo cogliere come la vita stessa sia da restituire a Dio, dal momento che non è un possesso della creatura; d’altro lato, appartiene alla creatura – quindi è da ritenere – la possibilità della restituzione, come possibilità di relazione con Dio secondo la sua volontà. In altri termini: ciò che è da ritenere è il “nulla” creaturale che esiste in quanto dono di Dio, un dono che permette alla creatura la relazione con l’Essere divino, secondo la sua volontà; ciò che è da restituire è l’essere stesso creaturale, che per sé è “nulla”, in quanto appartiene all’Essere divino. Maria, nel suo fiat, ritiene se stessa come “nulla” creaturale e restituisce, la propria vita a Dio – perché a Lui appartiene – amministrandola come un dono ricevuto secondo la volontà divina. In questo appare compiutamente la povertà, come insegnamento della divina sapienza 89. Sulla stessa linea è l’esempio riguardante l’umanità di Cristo. Infatti, pur essendo il Figlio di natura divina, la sua umanità è legata al Mem., VII, 529-538. Per cogliere appieno quanto appena esposto è utile rivedere il testo sul dono che Dio ha dato ad Angela, proposto poco sopra. Il dono divino non appartiene a lei e, quindi, è da restituire al proprietario, come la vita. Tuttavia, appartiene ad Angela il fatto di non possedere il dono, di doverlo conservare servendosene e di doverlo restituire, secondo la volontà di Dio, sempre come la vita. Infine, il dono da amministrare – ancora una volta come la vita – permette ad Angela la relazione con Dio, che è il Proprietario del dono. 88 89

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“nulla” creaturale. Cristo, dunque, è chiamato alla stessa scelta compiuta dalla Madre: la povertà di sé, come accoglienza – ritenere – del proprio “nulla” creaturale e offerta – restituire – della vita al Padre, secondo la sua volontà. Gli esempi di Maria e di Cristo ci riportano nuovamente alla risposta data inizialmente al frater scriptor. Le parole di Angela – «E mi poneva l’esempio della beata Vergine… e mi poneva similmente l’esempio di se stesso» – sottintendevano concetti teologici molto più profondi, che non il rispetto più o meno rigido della regola sulla povertà. Del resto, con la risposta angelana siamo andati ben lontano dal punto di partenza: una semplice questione posta dal frate scrittore. Infatti, se all’inizio la domanda poteva riguardare l’idea di povertà applicata ai beni materiali – se fosse giusto o meno avere dei beni, oppure se si dovesse solamente usufruirne senza possederli –, la risposta di Angela, colta attraverso altre esperienze avvenute nel corso dell’itinerario spirituale, ha compiuto un incremento di significato sulla questione postale. La risposta, dunque, potrebbe essere esplicitata in questi termini: ciascuna persona è chiamata a vivere secondo la propria natura, che è quella di essere “nulla” di fronte a Dio. Perciò, ciascuno deve vivere come se “nulla” gli appartenesse, perché per sé non possiede “nulla”: questo è ciò che è ed è ciò che gli appartiene. Tutto, infatti, appartiene a Dio. Ciascuna persona, quindi, è chiamata a questa povertà – che nasce dalla conoscenza di sé e di Dio – sull’esempio di Maria e di Cristo. Le motivazioni che stanno alla base della povertà, secondo Angela, sono teologiche, ontologiche e soteriologiche: attengono, infatti, alla volontà creatrice e redentrice di Dio. Maria, accogliendo la volontà divina – grazie all’illuminazione della Sapienza su se stessa e su Dio –, si colloca perfettamente all’interno del piano di redenzione del Padre e diviene, in tal modo, luminoso esempio per tutti. In questa prospettiva la Vergine appare come una particolare creatura tra le altre. A lei, infatti, viene concesso l’insegnamento della divina sapienza, come avverrà per tutti – «similmente la divina sapienza istruì noi» –, ma la sua partecipazione al piano divino è unica. Ella, infatti, è chiamata a pronunciare il suo fiat sulla base dell’insegnamento che avviene «in incarnatione Christi» e non in riferimento a quanto rivelato «in humanitate Christi», come avverrà per tutti gli uomini. 165

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2.2.3. Maria nel piano divino di salvezza La fondamentale differenza tra le creature e Maria è data dal fatto che la Vergine è voluta dal Padre come parte integrante del piano divino di salvezza, disposto eternamente per il Figlio nello Spirito Santo 90. Infatti, Maria entra a far parte della «disposizione salvifica di Dio», nel momento stesso in cui il Padre vuole per le creature la relazione di grazia con Lui, rivelata attraverso la manifestazione della croce-annichilimento per il Figlio. Quindi, se il disegno divino è eternamente disposto e la croce è voluta dal Padre per il Figlio ab aeterno, eternamente Maria è voluta in tale disegno di salvezza. Ne consegue che l’accoglienza sul piano creaturale e storico della volontà del Padre da parte di Maria, la colloca in una particolare relazione con la Trinità sul piano eterno. In questo senso, il fiat mariano può essere avvicinato all’accoglienza della volontà paterna propria del Figlio di Dio 91. In altri termini: se il Padre ha voluto ab aeterno l’espropriazioneannichilimento-incarnazione per il Figlio, in modo da condurre le creature alla relazione d’amore con Lui per grazia, il fiat di Maria ha permesso che tale eterna volontà trovasse il proprio spazio di evento rivelativo sul piano temporale. Se, dunque, la via di accesso per la relazione di grazia tra il piano divino e il piano creaturale è insita nella relazione tra la divinità e la creaturalità nella persona del Figlio 92 – grazie al quale, come dice An90 Tommaso indagando sulla partecipazione di Maria alla nascita di Cristo, pur escludendola come principio attivo nella formazione del suo corpo, sostiene che concorse attivamente prima del concepimento, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 32, art. 4. In riferimento al piano divino di salvezza, il Vaticano II sembra insegnare appieno quanto adombrato nelle esperienze angelane: «La beata Vergine, predestinata fino dall’eternità, all’interno del disegno d’incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l’alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a titolo assolutamente unico… ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, coll’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia» (LG, 61). 91 Madre e Figlio, perciò, possono essere accostati da Angela come esempi della restituzione di ciò che non appartiene loro. 92 La relazione d’essere tra Creatore e creature, in quanto appartenente alla “posizione in essere della creaturalità”, è presente con l’atto creativo. La relazione di grazia, invece, avviene nel Figlio per mezzo della partecipazione alla vita nello Spirito Santo, liberamente offerta da Dio e accolta dalle creature.

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gela, esiste una «società» 93 tra Dio e l’uomo –, il fiat di Maria, per volontà del Padre, consente sul piano storico l’eventualità di tale rapporto di grazia 94. Del resto, se la relazione eterna con Dio Amore può avvenire solamente nell’amore e, quindi, nella libertà creaturale che accoglie l’Amore, diviene fondamentale l’irruzione storica di Dio, come proposta di relazione gratuita alla libertà dell’essere umano, poiché sia la proposta divina che la libertà umana sono parte integrante del progetto di salvezza. Questo pone Maria, in quanto Vergine Madre di Dio, in una prospettiva unica in riferimento a tutta la creazione, poiché unica è la sua relazione con la Trinità, che non appartiene solo al piano storico, ma anche al piano eterno 95. Il particolare rapporto di Maria con la Trinità, è chiaramente indicato dallo straordinario potere di intercessione proprio della Vergine. A questo proposito la beata ha una visione molto importante. Infatti, la Vergine nella gloria prega a favore di tutta l’umanità. «Una volta, disse la fedele di Cristo, l’anima fu elevata – e non ero allora in preghiera, ma mi ero messa a riposare perché era dopo il pasto e perciò non pensavo a questo e subito fu elevata l’anima –, e vedevo la beata Vergine nella gloria. E comprendendo una donna posta in tanta nobiltà e gloria e dignità come stava, e come stava pregando la beata Vergine per il genere umano, molto mi dilettavo. E la vedevo inenarrabilmente con tanta attitudine di umiltà [umanità] e di virtù, perciò io inenarrabilmente mi dilettavo. E mentre così guardavo alla predetta, subito apparve Cristo seduto accanto a lei nell’umanità [umiltà] glorificata» 96.

Mem., VI, 241. In tal senso LG, 56 afferma che Dio ha predestinato Maria perché «come una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna contribuisse a dare la vita». 95 Per san Tommaso, ad esempio, Maria è santificata – purificata dal peccato originale – sin dal seno materno, inoltre, le è stata accordata la grazia di non peccare mai, cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, p. IIIa, q. 27. Il Concilio Vaticano II a questo proposito afferma: «Il Padre delle misericordie ha voluto che l’accettazione da parte della predestinata madre precedesse l’incarnazione», per questo «da Dio è stata arricchita di doni consoni a tanto ufficio» (LG, 56). 96 Mem., VII, 186-195, tra parentesi due possibili varianti. 93 94

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La Trinità nell’itinerario mistico di Angela da Foligno

Un’ulteriore indicazione sulla dignità di Maria, per lo speciale rapporto con la Trinità, è chiaramente riscontrabile in una particolare richiesta di lode da parte di Dio ad Angela. Un giorno, mentre la beata era a letto inferma, le viene richiesto di alzarsi e di percuotersi il petto, denunciando le colpe alla presenza della socia. Spronata dalla richiesta, Angela si alza e, non accusando dolori o infermità, confessa le proprie colpe. A questo punto Dio interviene dicendo: «Di’ queste parole: “Sia lodata e benedetta la santa Trinità e la santa Vergine Madre Maria”» 97. Collocando la figura di Maria all’interno del piano divino di salvezza, potremmo porci alcune domande, col fine di approfondire ulteriormente le relazioni tra la Trinità e la Madre di Dio. Come può essere inserita Maria all’interno del disegno salvifico divino, cioè qual è la sua particolare relazione con la Trinità? Il fiat mariano, dal momento che è voluto dal Padre come fondamentale momento della rivelazione storica del Figlio, ci consente di fare qualche riflessione sulla Trinità? Quali sono le peculiarità di Maria in quanto creatura che è Madre di Dio? Iniziamo con il dire che Maria, in quanto creatura, trova la propria esistenza nel Figlio. Infatti, se nell’annullamento di sé dell’Essere eterno del Figlio si ha la “posizione in essere della creaturalità” – la creazione –, allora Maria è posta all’esistenza nel Figlio e in Lui trova la propria ragione d’essere. Inoltre, come per tutti gli esseri umani, nell’Essere eterno del Figlio trova la propria salvezza, accogliendo per partecipazione il dono dello Spirito Santo dato dal Padre al Figlio. Tuttavia, ci pare di poter dire che, a differenza di ogni altro essere umano, l’accoglienza del dono dello Spirito da parte della Vergine, avviene «in incarnatione Christi». Infatti, se nell’incarnazione il Figlio è presente in Maria, in Lei è presente anche lo Spirito dato dal Padre al Figlio 98. La creaturalità di Maria, quindi, viene toccata dal dono delMem., VI, 106-107. Agostino sottolinea come lo Spirito abbia «unto» il Figlio nel momento dell’incarnazione e non nel momento del battesimo nel Giordano, cf. AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità, XV, 26, 46. 97 98

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II. Riflessioni sulla Trinità a partire dalle intuizioni angelane

lo Spirito in modo del tutto particolare. Ella, infatti, non riceve solamente i doni dello Spirito – come può accadere a ogni credente –, ma riceve il dono dello Spirito in quanto Madre del Figlio. La peculiarità della relazione di grazia di Maria con la Trinità, le ha dischiuso sin dall’incarnazione di Cristo nel suo grembo la relazione personale con il Dio Amore, ossia la vita eterna. Durante la sua vicenda storica Maria, per volontà del Padre, ha ricevuto il dono dello Spirito nel Figlio, un dono che l’ha abilitata alla relazione personale con il Dio Amore e, quindi, l’ha abilitata alla partecipazione alla vita trinitaria. In questo senso, la Madre di Dio, in certo qual modo, ha avuto accesso alla vita eterna non dopo la morte fisica – come per tutti gli esseri umani redenti –, bensì durante la vita terrena. Ne potremmo dedurre che, dal punto di vista dell’“importanza ontologica”, la creaturalità di Maria è la seconda – dopo quella del Figlio –, a essere posta in relazione eterna personale con il Dio Amore trinitario. A questo proposito si potrebbe parlare di “assunzione” al cielo della creaturalità mariana. Tentiamo qualche altra riflessione. Il fatto che il Padre abbia disposto l’intervento della creaturalità mariana, nell’evento storico dell’incarnazione, potrebbe fornirci qualche ulteriore indicazione proprio sul Figlio, in quanto espropriantesi-annichilentesi dall’eternità. Come a dire che nel disegno divino, il servizio compiuto dalla creaturalità di Maria – senza la quale il Figlio non porrebbe in sé la natura umana, dal momento che si vuole nel mondo come nato da donna –, potrebbe avere un valore rivelativo dell’evento dell’incarnazione ab aeterno. Secondo questa ipotesi, potremmo pensare che il Figlio si voglia sottomesso a quella creaturalità che pone in essere in sé – crea –, una creaturalità di cui vuole aver bisogno per essere ciò che il Padre ha voluto che fosse: l’Essere eterno Amore accogliente, che annulla se stesso per riceversi totalmente dal Padre nel dono dello Spirito Santo. In tal senso, la creaturalità mariana e il fiat di Maria – in quanto Madre di Dio –, diverrebbero icona di quella creaturalità posta dal e nel Figlio ab aeterno, una creaturalità alla quale il Figlio si vuole sottomesso, ma anche una creaturalità immacolata e pura – così come da Dio voluta e posta – dal momento che consente al Figlio la relazione con il Padre per il dono dello Spirito Santo, secondo la «disposizione divina di salvezza». 169

La Trinità nell’itinerario mistico di Angela da Foligno

Se le cose stanno in questo modo, se ne potrebbe dedurre la “concezione immacolata” di Maria, dal momento che ella, nel suo contributo alla rivelazione di Dio, è immagine di quella creaturalità posta in essere dal e nel Figlio, una creaturalità che consente la relazione con la vita divina trinitaria, perché voluta ab aeterno come capax Dei. La creaturalità mariana, infine, potrebbe essere colta come immagine della creazione buona, perché tale è posta in essere nel Figlio, una creazione che consente all’uomo-Adamo la relazione divina proposta dalla Trinità. Grazie alla rivelazione di Cristo, nuovo Adamo, sappiamo che la creaturalità, voluta da Dio per il Figlio come capace della relazione con Lui è, nel Figlio, in comunione eterna con il Padre per opera dello Spirito. La prima creatura a entrare in relazione con l’Amore eterno trinitario è Maria, la Madre di Dio.

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Conclusione generale

Ci accingiamo alla conclusione del nostro lavoro riservando un breve spazio per alcune osservazioni finali, nella consapevolezza che le intuizioni di Angela da Foligno possono essere ulteriormente indagate e rilanciate in diverse prospettive. Per questo, oltre a puntualizzare quelle che a nostro avviso sono le acquisizioni più significative, vorremmo cogliere qualche suggestione, nella prospettiva della teologia delle religioni, sulla linea tracciata dal Convegno che ha proposto una lettura interreligiosa del Liber 1. Inoltre, tenteremo di abbozzare brevemente qualche riflessione su cosa possa comportare per la Chiesa – e, conseguentemente, per la teologia – l’intuizione angelana sul mondo «pregno» di Dio Amore. 1. LE PRINCIPALI ACQUISIZIONI RIGUARDANTI LA VICENDA DI ANGELA DA FOLIGNO Le prime riflessioni riguardano il percorso spirituale che la beata ha vissuto nella sua relazione con la Trinità. Il cammino, iniziato con le forti connotazioni della sequela e dell’imitazione di Gesù Cristo, ha condotto Angela in una relazione d’amore trasformante, tale che l’amata si è conformata all’Amante – perché l’Amante vive nell’amata –, in linea con l’affermazione paolina: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Attraverso le varie esperienze, ella ha colto in maniera chiarissima come il Figlio di Dio sia morto per amore di lei. Vivendo spiritualmente questa intuizione è stata condotta alla relazione con le Persone della Trinità: ha colloquiato con lo Spirito, si è dilettata nella visione del Dio-uomo, ha esperito l’abisso profondissimo di Dio. Nello SpiriCf. COMUNE DI FOLIGNO - CENACOLO BEATA ANGELA - ISTITUTO TEOLOGICO DI ASSISI, L’esperienza mistica della beata Angela da Foligno. Il Liber: una lettura interreligiosa, cit. 1

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Conclusione generale

to attraverso il Dio-uomo sino all’abisso divino originario, Angela si è trovata per grazia inserita nella vita trinitaria. Per quanto riguarda i momenti di contemplazione della Trinità, ci è sembrato di poterne individuare due estremamente particolari, ai vertici dell’avventura mistica. Nel primo, in relazione al Figlio, ella ha colto la Trinità dal punto di vista economico – per noi –, come Amore kenotico che offre se stesso alle creature, nell’opera di Cristo morto e risorto nello Spirito. Nel secondo momento, in relazione soprattutto al Padre, la beata ha esperito la Trinità immanente – in sé –, parlandone in termini di profondissimo abisso e assoluta trascendenza, negandone ogni definizione. Se è stato possibile cogliere e balbettare qualcosa di Dio come Amore, in relazione al Figlio incarnato, è risultato impossibile dare una qualche definizione di Dio in se stesso. Infatti, nel primo caso la Trascendenza divina si è incarnata svuotando se stessa rimanendo sé, nel secondo caso è rimasta inaccessibile a qualsiasi concettualizzazione da parte della creaturalità umana. Passando alle più importanti acquisizioni angelane in relazione alle Persone della Trinità, ricordiamo anzitutto le esperienze riferite al Padre. In esse Angela ha sperimentato la paternità divina, la sua signoria sul creato, la trascendenza di Dio rispetto al mondo. Di qui la comprensione della straordinarietà dell’amore divino che si riversa sui figli. Angela, inoltre, ha conosciuto Dio attraverso i suoi attributi: la sapienza – che le appare nella sua illimitatezza e inenarrabile pienezza –, la potenza e l’umiltà divine – nella loro rilevanza cosmica in termini di creazione e redenzione –, la pienezza e la bellezza di Dio, che oltrepassano ogni comprensione e misurazione nella perfezione umanamente non raggiungibile. Non possiamo non sottolineare un’affermazione tipica di Angela su Dio: Egli è «omne bonum», è Amore. Dio, però, è talmente tanto amore da divenire non solo inenarrabile, ma addirittura «non amore», perché è “più che pienezza di Amore”. L’idea che Dio sia Amore non ha abbandonato la mistica folignate nemmeno quando ha colto Dio come l’Essere di ogni essere, in esperienze dal sapore cosmico. Ella, infatti, ha esperito la presenza di Dio in ogni creatura avente l’essere, tanto in quella buona quanto in quella turpe, negli angeli come nei diavoli. A questo, infatti, giunge l’Amore che è Dio. 172

Conclusione generale

Per quanto riguarda la relazione tra il Padre e il Figlio, abbiamo indicato nella «disposizione salvifica» uno degli elementi fondamentali del pensiero angelano. È per essa, infatti, che il Figlio riceve-accoglie se stesso dal Padre come voluto per la propria missione. La missione di Cristo ha lo scopo di coinvolgere l’uomo nel movimento amoroso di Dio, sino a condurlo nello Spirito Santo alla relazione trinitaria. Il Figlio, dunque, per volontà del Padre è il «Dio uomo passionato»: Dio che si è incarnato subendo la passione e la morte di croce, per portare gli uomini alla relazione con il Padre nel dono dello Spirito Santo. Il Figlio è la via verso il Padre o, in altri termini, è colui il cui essere è eternamente voluto dal Padre come elemento di congiunzione tra divinità e umanità 2. Egli è il Dono donantesi di Dio Padre per noi. Tutta la vicenda storica di Gesù – che abbraccia la croce e la “triplice società” – è il modo migliore per farcelo capire, perché possiamo partecipare pienamente alla comunione con Dio. È nello Spirito che il Figlio porta a compimento la sua opera. È proprio lo Spirito Santo a intervenire in quello che è il primo momento mistico del percorso della Folignate: il pellegrinaggio ad Assisi, compiuto per chiedere a san Francesco la forza di appartenere al Terz’Ordine. È lo Spirito che pone nel cuore di Angela i primi doni: la croce e l’amore di Dio, doni che spingeranno la Mistica al legame nuziale con Cristo. Ancora a proposito dello Spirito Santo, ricordiamo l’intervento del frate redattore sull’affermazione dello Spirito dato a «misura». A questo riguardo abbiamo visto come la «disposizione salvifica» veda il coinvolgimento dello Spirito, quale dono del Padre dato al Figlio e a coloro che con il Figlio sono innalzati alla comunione trinitaria. Angela è immersa nel piacere datole dall’amore di Dio, che innalza chi si umilia. Nelle riflessioni che abbiamo proposto a partire dalle suggestioni angelane sulla Trinità, un dato interessante è che l’agire-essere della Trinità è un agire-essere relazionale. L’atto eterno d’essere Amore di Dio è un atto di comunione. Per cui se cerchiamo, per comprenderlo meglio, di “dividerlo” in una serie di azioni – quali la posizione del PaSu questo tema sono molto efficaci due pensieri di G. Gozzelino: «Dio non ha voluto la divinizzazione dell’uomo per rendere possibile l’incarnazione del Figlio, bensì l’incarnazione del Figlio per consentire la divinizzazione dell’uomo», e ancora: «In ultima istanza esistiamo solo per diventare in pienezza ciò che germinalmente già siamo nell’apparire alla ribalta della esistenza, e cioè figli nel Figlio incarnato», in G. GOZZELINO, “Io vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2). Riflessioni sulla dialettica simbolica o di unità dei distinti della cristologia con l’escatologia, in PATH 2 (2003), rispettivamente pp. 495 e 497. 2

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dre, la generazione del Figlio, la spirazione dello Spirito –, non possiamo che ritrovare l’unico atto d’essere Amore trinitario, soggiacente a ogni nostra ulteriore specificazione distintiva. Anche nel rapporto con le creature non viene meno l’essere Amore trinitario di Dio: per il fatto di essere in relazione d’essere con il Creatore queste sono legate al piano salvifico divino, infatti, le creature sono destinate a partecipare all’Amore. La creazione avviene nel e per mezzo del Figlio e a Lui è eternamente legata. Dal punto di vista meta-storico, infatti, l’incarnazione del Figlio può e deve essere colta come il fondamento e la ragione stessa della creazione. Tuttavia, una cosa è la relazione d’essere con Dio Amore avvenuta per mezzo della creazione, altra cosa è la relazione filiale con il Padre per il Figlio nello Spirito. Infatti, se nel primo caso la creatura è in relazione con il Creatore per la coincidentia oppositorum nell’essere divino – come esistenzialità dall’Essere eterno, per l’essere annichilentesi del Figlio –, nel secondo caso abbiamo una comunione tra partner – come figli per grazia dal Padre. I figli adottivi, infatti, per la partecipazione alla vita divina, vengono divinizzati e dispongono – come fosse proprio – dell’essere di Dio Amore. In questo senso si possono pensare anche i miracoli riconosciuti e “attribuiti” ai santi. 2. SUGGESTIONI ANGELANE NELLA PROSPETTIVA DELLA TEOLOGIA DELLE RELIGIONI

Le domande da cui prendere le mosse potrebbero essere poste in questi termini: cosa può voler dire, per esperienze religiose altre dal cristianesimo, che la creazione è posta nel Figlio, il cui essere è ab aeterno per la missio? E ancora, cosa può significare, per esse, che l’essere del Figlio è Amore eterno annichilentesi ed espropriantesi, così come concretizzato storicamente dall’evento della croce? Quale potrebbe essere, dunque, la relazione che intercorre tra Cristo e le religioni, accogliendo le suggestioni angelane nella prospettiva della teologia delle religioni 3? 3 Sulle principali questioni legate alla teologia delle religioni e al dialogo interreligioso, si veda la Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede. Per una panoramica su diverse posizioni teologiche, cf. CTI, Il cristianesimo e le religioni, in «La Civiltà Cattolica» 148 (1997), I, 146-183; inoltre, ATI - ISTI-

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Si potrebbe pensare che ogni esperienza religiosa autentica 4, dal momento che si colloca all’interno del naturale senso religioso dell’uomo 5, trovi la propria ragione d’essere nella creazione, quale “posizione della creaturalità” nell’essere eterno del Figlio. Quindi, dal momento che nel Verbo è posta in essere la creazione, anche le esperienze religiose autentiche trovano la ragione d’essere in Lui. Il Figlio è il “luogo” nel quale ciascun uomo, attraverso modalità storicamente e culturalmente connotate, incontra il Mistero che è Dio. Nella relazione d’essere con la Trinità creatrice, dunque, è posta la possibilità di una relazione diversa – attraverso le esperienze religiose –, che consente di conoscere il Mistero divino e di attuare una vera promozione umana. Questa relazione, ovviamente, non è ancora la relazione per grazia, ma non è più soltanto una relazione d’essere 6, nella quale Angela vede inseriti anche i demoni e le azioni malvagie. TUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI - PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE, Religione e religioni. Metodologia e prospettive ermeneutiche, a cura di G. LORIZIO, Messaggero, Padova 1998; ATI, Cristianesimo, religione, religioni. Unità e pluralismo dell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, a cura di M. ALIOTTA, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999; P. CODA (a cura di), L’unico e i molti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, PUL - Mursia, Roma 1997. 4 Per esperienza religiosa autentica intendiamo un’esperienza del Mistero, colto alla base della propria vita come causa, fine e senso, necessariamente mediata storicamente e culturalmente, ma in grado di attuare un’autentica promozione umana. Dal momento che il senso religioso è insito nella natura dell’uomo, un’esperienza religiosa per essere autentica deve essere orientata alla realizzazione della persona. Un’esperienza che non promuova la realizzazione della persona, della società e del creato, sebbene sia inserita all’interno di una religione – o di un contesto religioso –, non può dirsi esperienza religiosa autentica e, dal momento che non è tale, non è nemmeno un’esperienza religiosa. Sull’esperienza religiosa, si possono vedere, tra altri: B. WELTE, La luce del nulla. Sulla possibilità di una esperienza religiosa, Queriniana, Brescia 1983; E. MORANDI - R. PANAROTTI (a cura di), L’esperienza di Dio. Filosofi e teologi a confronto, Il Poligrafo, Padova 1996; R. PANIKKAR, L’esperienza di Dio, Queriniana, Brescia 1998; A.N. TERRIN, L’esperienza religiosa parametro per la storia comparata delle religioni e per l’esercizio del dialogo ecumenico, in «Studia Patavina» 42 (1995), 137-161. 5 «L’esperienza religiosa si rifà soltanto alla natura della persona umana nella sua capacità di autotrascendersi fino a riconoscere l’esistenza di un Mistero che la supera», in A. SCOLA, Questioni di antropologia teologica, Ares, Milano 1996, 118. 6 Seguendo il pensiero di Angela sulle relazioni della Trinità con la creazione, avevamo rilevato tre tipi di relazione: una relazione d’essere – per la quale tutto l’esistente è in relazione con il Creatore –, una relazione di grazia – universalmente offerta dal Padre per il Figlio nello Spirito, ma liberamente accettata dalle creature –, una particolare relazione di grazia – nel caso di Angela una relazione “mistica”, dovuta ai particolari doni elargiti dallo Spirito Santo ai fedeli.

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Possiamo aggiungere ancora qualcosa. Se la creazione ha il proprio fondamento nell’incarnazione – dal momento che il Padre genera il Figlio che si accoglie come annichilentesi –, allora anche le esperienze religiose trovano nell’incarnazione del Verbo il proprio motivo di esistere. Egli è il fondamento ultimo di tali esperienze. Quindi, ci sembra di poter collocare le esperienze religiose autentiche e, conseguentemente, le religioni che da queste nascono e che queste consentono – se e quando le consentono –, in una particolare relazione con il Figlio di Dio, «il mediatore tra Dio e gli uomini» 7, grazie al quale una “società” è stata fatta con Dio 8. Infatti, se le esperienze religiose trovano il proprio fondamento nella natura dell’uomo – quindi, nella creazione – e questa ha la propria ragione d’essere nell’incarnazione, allora non solo le esperienze religiose hanno una relazione col Figlio – inteso come Verbo per mezzo del quale «tutto è stato fatto» 9 –, ma hanno una relazione con l’evento dell’incarnazione del Figlio, che è ab aeterno per la propria missione comportante incarnazione, passione, morte, risurrezione. A questo punto, possiamo pensare che le esperienze religiose altre dal Cristianesimo siano in relazione con la croce e la risurrezione, quale sommo evento della rivelazione di Dio Amore trinitario, secondo l’eterno piano di salvezza. Gesù di Nazareth, quindi, non è una delle tante figure nelle quali il Mistero si è rivelato, ma è il volto – l’essere – nella storia dell’unico invisibile Mistero. Non vi sono altri misteri, non vi è un altro volto-essere del Mistero nella storia. Tuttavia, dire che Dio – Atto d’essere Amore trinitario – riveli se stesso nell’evento Cristo, sembrerebbe troppo poco. Occorrerebbe dire che Dio è in atto – quindi, è – nell’evento Cristo. Ne segue che l’evento Cristo è Dio Amore amante: l’Amore trinitario è per le relazioni tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. In queste relazioni intratrinitarie, la creaturalità viene coinvolta 10 e, per una sola volta, tutto questo si mostra in pienezza nella storia. Chi crede in questa rivelazione – che, “tolte” le mediazioni storiche, equivale a credere nel Dio trino, che si rivela essendo – e agisce 1 Tm 2, 5. Cf. Mem., VI, 241. 9 Gv 1, 3; si pensi, inoltre, alla conseguente teologia dei “semi del Verbo”. 10 A questo punto abbiamo colto un quarto tipo di relazione Dio uomo: 1. d’essere; 2. per grazia; 3. per grazia e per i particolari doni dello Spirito; 4. per le esperienze religiose. 7 8

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conseguentemente, entra a far parte della Chiesa nella relazione di grazia. Chi non crede a questa rivelazione, non ha accesso consapevole alla pienezza della verità sul Mistero divino, tuttavia, attraverso le esperienze religiose autentiche – se e quando ha la possibilità di viverle – entra in relazione con il Mistero trinitario 11. Vale a dire col Padre che genera e ci dona il Figlio; col Figlio che si riceve e si accoglie dal Padre come voluto per la missio; con lo Spirito Santo, Dono del Padre al Figlio e a coloro che sono in relazione con il Figlio. Chi non crede e non fa esperienze religiose, non è escluso dall’ambito divino. Questi, infatti, rimane nella relazione d’essere con il Creatore trinitario, essendo creato nel Figlio. In tale relazione, che di per sé non consente la partecipazione all’Essere eterno – dal momento che la relazione è per la coincidenza degli opposti in Dio –, Dio offre continuamente alle creature di poter entrare in intimità con Lui, per mezzo di un riferimento diverso all’evento Cristo. Ritorniamo, di conseguenza, a una delle altre due relazioni appena esposte. Approfondendo ulteriormente, notiamo come la relazione di grazia consenta ai credenti di partecipare alla vita trinitaria come figli nel Figlio, dal momento che Egli dischiude ai discepoli il dono dello Spirito Santo dal Padre. Diversa è la situazione di chi non crede nella rivelazione attuatasi nell’evento Cristo. Osserviamo che, per le relazioni che intercorrono tra l’esperienza religiosa, la creazione e l’incarnazione del Figlio, colui che vive un’esperienza religiosa entra in relazione con il Figlio nella cui incarnazione è posta la creazione. Per questa relazione – altra rispetto alla relazione di grazia – non può non dischiudersi anche il rapporto con l’intera Trinità. Non si tratta di una relazione filiale e fraterna, come quella dei «figli adottivi» 12, ma si tratta comunque di una relazione con la Trinità.

A proposito di queste esperienze religiose, così si esprime il Vaticano II: «La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (NA, 2). Quella «verità» è che Dio è Amore trinitario. 12 Rm 8, 15; cf. Ef 1, 5. 11

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3. A PROPOSITO DELLA CHIESA DAL/CON/PER DIO AMORE Visto l’importante ruolo assegnato da Dio alla Chiesa nel piano divino di salvezza rivolto a ogni uomo, ci sembra opportuno focalizzare brevemente la nostra attenzione su di essa. In particolare ci vorremmo chiedere cosa comporti per la Chiesa, mistero da/con/per il Mistero, l’essere voluta in tal modo da Dio Amore nei confronti del creato, degli uomini e di quanto essi vanno facendo. La comunità ecclesiale, infatti, quale Corpo mistico 13, trova la propria origine nella missione del Figlio e la sua presenza operante 14 la pone, nella prospettiva voluta dal Padre in continuità con la missione del Figlio, per il Regno di Dio. In effetti, Angela sembra stimolarci a dire qualcosa a proposito. Per quanto riguarda il creato, esso – ci dice Angela – è pieno e «pregno di Dio» 15, per cui se Dio è Amore, la creazione è colma e gravida d’amore. Inoltre, se l’essere di Dio è l’Amore allora anche ciò per cui il mondo è, è l’Amore, perché questo è posto dal/nel Figlio che espropria se stesso: l’espropriazione di sé dell’Amore per Amore è Amore. La Chiesa – la teologia – è chiamata, quindi, a cogliere e mostrare nel mondo non solo le vestigia di una qualche “trinitarietà”, ma l’immagine di Dio Amore, i cui tratti devono essere necessariamente, autenticamente, amorosi. Perciò l’atto d’essere Amore trinitario – per il quale l’Amore dona, si riceve e si espropria, si lascia donare – riempie il creato e svela se stesso. Tuttavia, tale scoperta avviene quando si coglie il creato in Dio. Infatti, le esperienze angelane ci dicono che è troppo poco – e quindi poco corretto – accontentarsi di cogliere Dio nel creato. Angela sostiene chiaramente che è meglio la conoscenza di Dio in se stesso 16. Proseguiamo dicendo che, una volta conosciuto Dio in sé, è possibile conoscere il creato posto in Lui. Compiere il percorso contrario espone al rischio di rappresentare Dio sulla base delle comprensioni umane della realtà, proiettando in Lui tutto ciò che soddisfa i nostri limiti creaturali. È la rivelazione voluta dal Padre attraverso l’evento Cristo alla cui pienezza lo Spirito ci guida, a consentirci la conoscenza di Dio e, in Cf. LG, 7. Cf. SC, 7. 15 Cf. Mem., VI, 65. 16 Cf. Mem., V, 202-218. 13 14

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Lui, della creazione 17. Il paradigma di riferimento nella comprensione del creato, quindi, non può che essere l’evento Cristo e, in particolare, la croce – che comporta «povertà, dolore e disprezzo» – quale momento culminante della rivelazione di Dio Amore 18. A questo punto osserviamo che la presenza di Dio Amore potrebbe essere colta, attraverso il modello della croce, nel fatto che le realtà mondane non trovano in loro stesse né la propria ragione d’essere – in quanto iniziano e sono da a/Altro – né il proprio fine – in quanto finiscono e sono per a/Altro –. Ecco, quindi, che i limiti creaturali fondamentali quali l’esistenzialità e la temporalità – opposti all’Essere e all’Eterno –, svelano nel creato l’Amore che è Dio, il quale eternamente pone e sostiene le proprie creature fino a condurle dall’esistenza all’eternità. La precarietà dell’esistenza, dunque, non è più solo morte e dolore – come assenza di essere e bene –, ma Vita nell’Amore, quale affidamento di sé all’Amore del Partner che unisce a sé 19. È evidente che, solo con la «vera luce» – direbbe Angela – si può cogliere questa verità e la «vera luce», che consente tale affidamento, è la fede. Infatti, nel momento in cui Cristo appare «come se non avesse l’essere» 20 – potremmo dire abbandonato anche da Dio 21 –, nel momento massimo di «La soteriologia pasquale dischiude l’ontologia relazionale della libertà come agápe reciproca in cui Dio e i molti suoi figli, nel Figlio unigenito, son chiamati a diventare uno per essere ciascuno se stesso. Di qui la questione… di ciò che rappresenta l’evento Cristo per chi agisce e vive da Lui prescindendo (anche non consapevolmente). Basti dire che tutti, ontologicamente, sono già inclusi in Lui, e che l’adesione al dinamismo profondo della libertà è già sempre a Lui riferita», in P. CODA, Il Logos e il nulla, cit., 217-218. Su questo argomento, cf. P. CODA - L. ŽÁK (a cura di), Abitando la Trinità. Percorsi verso un’ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1998. 18 A questo proposito non sembrano lontani dalle intuizioni di Angela – si pensi a Gesù come «Dio uomo passionato» legato ab aeterno alla croce per noi – alcuni pensieri di Chiara Lubich, riguardanti “Gesù abbandonato”, espressione centrale nella sua esperienza e dottrina spirituale; cf. C. LUBICH, La dottrina spirituale, a cura di M. VANDELEENE, Città Nuova, Roma 20092, 56-65. 19 Angela seguendo l’insegnamento di Francesco d’Assisi abbraccia la povertà estrema, che comporta un affidamento totale a Dio. Secondo P. CODA, Il Logos e il nulla, cit., 222, è necessario «recuperare la dinamicità trinitaria dell’evento dell’incarnazione e della pasqua, al cui interno va ricompreso l’evento della creazione gratuitamente proiettato verso la sua consumazione escatologica», consumazione che prevede, secondo il volere del Padre, la ricapitolazione in Cristo e, per Lui, nella Trinità. 20 Cf. Mem., VII, 512. 21 «In Gesù abbandonato infatti è rivelato tutto l’amore d’un Dio», in C. LUBICH, La dottrina spirituale, cit., 59; secondo lei, quindi, Gesù deve essere contemplato «nel culmine del dolore, che è vertice dell’amore». 17

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«povertà, dolore e disprezzo», Egli si affida totalmente a Dio “lasciandosi” risuscitare. In tal modo, agli occhi credenti, lo rivela come Trinità d’Amore che conduce le proprie creature, attraverso la via crucis, alla gloria eterna. Questo “salto” smisurato dall’esistenza all’eternità, che tutto il creato ha atteso soffrendo «le doglie del parto» 22, avviene – ed è già avvenuto per la Primizia – nello Spirito Santo secondo la «bella misura» 23 che Dio ha disposto eternamente. Secondo il paradigma della croce, dunque, il creato mostra Dio Amore proprio attraverso quella esistenzialità che lo pone come altro da Lui e lo fa sembrare abbandonato 24. Infatti, proprio l’alterità consente la relazione amorosa e proprio l’abbandono nella precarietà consente l’affidamento all’Amore 25. Sovvengono le parole dell’Apostolo: «Mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo [per l’Amore divino]: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» 26. Se questo è vero per tutto il creato, lo è in modo particolare per l’essere umano che all’interno della creazione ha un posto particolare. Ancora una volta è il paradigma della croce – evento massimo della rivelazione di Dio Amore – a consentirci qualche riflessione. L’evento pasquale indica Gesù come colui che accogliendosi per la volontà del Padre, si annichilisce per riaccogliersi gloriosamente nello Spirito donando a noi la vita eterna in Lui. Facciamo due sottolineature: la prima per rimarcare l’atto d’essere relazione amorosa della Trinità; la seconda per indicare la libera e gratuita iniziativa divina nei confronti dell’essere umano, iniziativa che svela Dio come libero Atto d’amore, libertà d’amare in atto 27. Rm 8, 22. Cf. Mem., VIII, 195. 24 Angela grida a Cristo: «Figlio mio, non mi lasciare!», in Mem., VIII, 54; ma attraverso l’abbandono del sesto passo supplementare, può giungere all’esperienza dell’immersione nella Trinità del settimo. 25 Possiamo dire, nuovamente con Coda, che «La relazionalità trinitaria tra il Padre e il Figlio nello Spirito, che è agapica e perciò kenotica, illumina la relazionalità di creazione: non per nulla il Nuovo Testamento parla di “filiazione adottiva”. Ma questo significa che la creazione, come evento dinamico, non si dà se non attraverso una kénosis reciproca in vista dell’énosis libera dei distinti», in P. CODA, Il Logos e il nulla, cit., 224. 26 2 Cor 12, 10, la parentesi è nostra. 27 Sulla Trinità come libertà, cf. P. CODA, Il Logos e il nulla, cit., 316-331. 22 23

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Conclusione generale

L’uomo creato nel Figlio a immagine di Dio, non può che trovare la propria realizzazione come relazione da Relazione. Gesù rivela questa verità con chiarezza. Egli vive la propria realizzazione nella relazione con Dio – l’Abbà delle preghiere e lo Spirito interiore –, nella relazione con gli altri – apostoli, discepoli e ciascuna persona per cui è morto – e con il creato, che comincia miracolosamente a rinnovare. Infatti, nella via della croce si pone, da un lato, come creatura tra le creature, solidalmente unito a ogni uomo in ogni tempo essendo «l’uomo» 28; d’altro lato, abbandonandosi-affidandosi a Dio nell’abbandono di Dio, si lascia condurre – viene condotto – alla massima relazione con il Padre nello Spirito Santo. In questo modo raggiunge la piena realizzazione nella risurrezione gloriosa. La risurrezione, inoltre, dischiude scenari cosmici: la ricapitolazione 29. Tutto in Cristo Mediatore è unito a Dio, in una relazione piena che va dal “nulla” dell’infima materia creata alla gloria del Sommo Creatore. Ora, se il creato è condotto alla relazione con il Creatore per la “solidarietà” creaturale con Cristo, l’uomo – particolare creatura tra le altre – è chiamato ad accogliere il dono di tale relazione. È lui a decidere se entrare in relazione con Dio, condividendone la vita divina. All’uomo la relazione con Dio non può essere imposta, può solo essere proposta. Se ne deduce che l’essere umano è chiamato a cooperare alla propria salvezza, proprio attraverso la relazione con Dio. Potremmo dire che è volontà di Dio Amore che l’uomo “salvi” se stesso, accogliendo l’offerta della salvezza e “facendo” di Dio Creatore il Redentore. Questo è quanto avvenuto per l’intera creazione nell’uomo Gesù ed è quanto accade per ciascun uomo nella libera accoglienza di Dio, che si propone nel farsi di un’esperienza religiosa autentica 30. Il dono della salvezza è offerto e disponibile per l’opera di Cristo, tocca a ogni essere umano accoglierlo per renderlo efficace per se stessi. In questo modo passiamo alla seconda caratteristica dell’uomo a immagine di Dio: la libertà. L’accoglienza del dono della salvezza – l’accoglienza della relazione con Dio Amore e, conseguentemente, con l’inGv 19, 5. Cf. Ef 1, 10. 30 Evidentemente occorre tenere in considerazione la varietà delle esperienze religiose e la diversità delle relazioni che attraverso queste si instaurano tra Dio e l’uomo. Una cosa è la relazione consapevole con la Trinità del cristiano nella Chiesa, un’altra è l’inconsapevole relazione al Mistero di colui che incontra Dio in altre esperienze religiose. 28 29

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Conclusione generale

tera creazione – è espressione della libertà umana che si realizza. L’incontro con l’a/Altro apre spazi nuovi di libertà, dal momento che dischiude la possibilità di una nuova relazione realizzante. Più ricco è il nostro tessuto di relazioni, più ricca è la nostra libertà. Ancora una volta, la logica con la quale comprendere questa libertà è la logica della croce. Come il Figlio accogliendosi liberamente lascia che sia il Padre a porre la sua libertà, così anche l’uomo deve lasciar porre la propria libertà dall’a/Altro. Parafrasando una frase evangelica, l’uomo deve perdere la propria libertà per averla in pienezza 31, nel senso che la deve porre nelle mani dell’a/Altro. In tal modo, dal momento che ciascuno pone le altrui libertà e vede posta la propria, si crea un tessuto di relazioni tale da consentire una comunione unificante e realizzante per i partecipanti. L’altro, quindi, non rischia di essere un alius – diverso, estraneo – che occupa uno spazio che può essere nostro limitandoci nella libertà, ma è un alter – come possibile partner – nelle possibilità-libertà di relazione che ci offre, che diviene proximus – come fratello nella famiglia umana – nelle possibilità di relazione che accogliamo liberamente. Se, invece, tentiamo di porre la nostra libertà come autonomia nei confronti dell’a/Altro, nel senso letterale di essere norma a noi stessi prescindendo da qualsiasi relazione, il risultato evidente è che l’a/Altro è la negazione della nostra libertà – e noi dell’altrui –, dal momento che si occupano reciprocamente degli spazi che potrebbero essere nostri – e altrui – per il solo fatto di esserci. Orgoglio ed egoismo allora diventerebbero la norma e l’autonomia sarebbe una solitudine angosciante. Il racconto genesiaco del peccato di Adamo ed Eva è esemplare in questo senso. Angela da Foligno, a questo proposito, sosterrebbe l’importanza di conoscere se stessi e, quindi, di tenere ciò che è nostro e di dare all’a/Altro ciò che è suo 32. Seguendo le indicazioni date dalla beata a proposito di Gesù e Maria 33, potremmo dire che nulla è nostro – nemmeno la libertà – dal momento che in tutto dipendiamo da Dio e siamo per Lui. Quindi, sarebbe contro natura arrogarci il diritto di essere autonomi ed essendo contro natura non sarebbe certamente realizzante. L’uomo che sa di essere “nulla” per sé, ripone in Dio e Cf. Gv 12, 25. Cf. Mem., VII, 481-487. 33 Cf. Mem., V, 235-244. 31 32

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Conclusione generale

negli altri tutto se stesso, in modo tale da ritrovare in Dio e negli altri il “tutto” di sé e molto di più 34. Concludendo, possiamo dire che tutto ciò comporta per la Chiesa un importante impegno rivolto alla promozione del dialogo tra popoli, culture, religioni. Essa è chiamata a essere segno e strumento di comunione nella famiglia umana, secondo la missione affidatale da Dio che la vuole compartecipe nella ricapitolazione in Cristo. La logica della croce, inoltre, illumina anche la modalità con cui la Chiesa deve compiere tale missione. Sulla linea tracciata dal Padre per il Figlio, i cristiani sono da/con/per Dio e per le sue creature. Quindi, sono chiamati continuamente a dare la propria vita, dal momento che non appartiene loro. La Chiesa è perché espropriandosi si dà agli altri, come il Figlio suo Capo, secondo il volere del Padre. È la missione indicata da Paolo con il farsi «tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» 35, cioè «perché Dio sia tutto in tutti» 36. Il continuo essere per gli altri e non per sé dei cristiani, consente a tutti gli uomini di intrecciare relazioni libere e liberanti, in grado di condurre alla piena realizzazione di ciascuno, nella ricapitolazione di tutto in Cristo: la creazione nell’uomo, l’uomo in Cristo, Cristo nel Padre per lo Spirito, ciascuno negli altri e tutti nell’Altro, in una relazione che pone l’“io” nel “tu” che diviene il “noi” della comunione d’amore che libera e dà vita. L’a/Altro, infatti, è la mia vita dal momento che sono perché lui/Lui è, come indica il Figlio nella relazione al Padre per lo Spirito, ma anche la creazione posta nel Figlio dalla Trinità. L’a/Altro inteso come Dio, il creato, l’uomo, il fratello nella fede, è colui che fa essere il cristiano, il quale per sé non sarebbe essendo solo se si espropria per l’a/Altro riaccogliendosi con l’a/Altro in lui/Lui.

Gesù stesso ha affermato che «non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (Mc 10, 29-30). 35 1 Cor 9, 22. 36 1 Cor 15, 28. 34

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Nota bibliografica

La bibliografia su Angela da Foligno sta crescendo continuamente e diviene difficile renderne conto in maniera adeguata. Per questo motivo rinviamo all’accurata raccolta bibliografica e di siti web sulla beata Angela da Foligno: S. ANDREOLI - E. DEGL’INNOCENTI - P. LACHANCE - F. SANTI (a cura di), Angela da Foligno e il suo culto. Documenti a stampa e nel web (1497ca-2003), Ed. del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, Firenze 2006. In questa raccolta vi sono anche due appendici di aggiornamento che giungono sino la 2005. Ulteriori lavori sono stati pubblicati soprattutto in vista del settimo Centenario della morte della beata. Per quanto riguarda gli studi più recenti, segnaliamo gli atti di due importanti convegni, successivi al nostro lavoro di studio: CENTRO ITALIANO STUDI SUL BASSO MEDIOEVO - ACCADEMIA TUDERTINA, Il Liber di Angela da Foligno e la mistica dei secoli XIII-XIV in rapporto alle nuove culture, Atti del XLV Convegno storico internazionale (Todi, 12-15 ottobre 2008), CISAM, Spoleto 2009. CENACOLO DELLA BEATA ANGELA - CONVENTO DI SAN FRANCESCO O.F.M. CONV. DI FOLIGNO - COMITATO NAZIONALE PER LE CELEBRAZIONI DEL VII CENTENARIO DELLA MORTE DELLA BEATA ANGELA DA FOLIGNO (13092009), Il Liber di Angela da Foligno: temi spirituali e mistici, Atti del Convegno internazionale di studio (Foligno, 13-14 novembre 2009), a cura di D. ALFONSI e M. VEDOVA, Collana del Centro italiano di studi sul basso Medioevo - Accademia Tudertina, Spoleto 2010. La bibliografia che segue menziona solo i testi essenziali per la stesura del presente lavoro. 185

Nota bibliografica

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Indice dei nomi

Agnese di Boemia: 80 Agostino di Ippona: 23, 24, 29, 38, 49, 50, 53, 87, 107, 110, 123, 131, 132, 135, 143, 149, 162, 168, 190 Alberzoni M.P.: 6 Alfonsi D.: 11, 185, 186 Aliotta M.: 175 Aliquò S.: 186 Amon K.: 96, 188 Ancilli E.: 189 Andreoli S.: 15, 24, 185, 186 Balthasar H.U., von: 14, 102, 134 Barone G.: 6, 7, 92, 186, 189 Bauer D.R.: 190 Bernard C.A.: 12, 27, 30, 37, 56, 104, 106, 129, 155, 189 Bernardo di Chiaravalle: 38 Beschin G.: 23, 190 Blasucci A.: 9, 11, 187 Bonaventura da Bagnoregio: 19, 22, 25, 29, 38, 50, 93, 98, 190 Bourgerol J.G.: 22, 190 Calufetti A.: 5, 7, 8, 10, 15, 98, 186 Caramello P.: 27, 191 Caroli E.: 18, 75, 79, 147, 187, 191 Casagrande G.: 9

Castiglione Humani M.: 186 Chiara d’Assisi: 80 Clemente V: 10 Coakley J.: 188 Coda P.: 126, 133, 137, 138, 175, 179, 180, 190 Colonna G.: 6 Colzani G.: 157 Commodi B.: 44, 113, 117, 187 Coppini B.: 187 Costantini P.V.M.: 9, 187 Dalarun J.: 6, 7, 92, 186, 187 Damiata M.: 75, 79, 147 De Andia Y.: 48 De Fiores S.: 157 De Libero G.: 186 De Lubac H.: 190 Degl’Innocenti E.: 185 Del Zotto C.: 22, 190 Dinzelbacher P.: 190 Donnini M.: 56 Epiney-Burgard G.: 190 Esser K.: 18, 191 Faes de Mottoni B.: 92, 95 Faloci Pulignani M.: 186 Ferré M.J.: 7, 187 Forte B.: 126, 136, 141, 146, 191 193

Indice dei nomi

Francesco d’Assisi: 9, 18, 19, 26, 29, 33, 38, 50, 59, 68, 70, 78, 85, 94, 105, 106, 107, 108, 111, 112, 120, 156, 173, 179 Fusco R.: 32, 187 Ghisalberti A.: 187 Giovanni della Croce: 14 Giovanni Paolo II: 126 Gordini G.D.: 8, 188 Gozzelino G.: 173 Grégoire R.: 190 Gregorio di Nissa: 38 Greshake G.: 126, 130, 138, 191 Guarnieri R.: 6, 8, 189 Higgins M.J.: 187 Hollywood A.: 187 Iammarrone L.: 141 Joergensen G.: 186 Kasper W.: 69, 76, 86, 87, 102, 127, 191 Lachance P.: 11, 12, 38, 54, 117, 118, 185, 187 Ladaria L.F.: 126, 131, 191 Leonardi C.: 12, 187, 188 Léthel F.M.: 191 Lorizio G.: 175 Lubich C.: 179 Matter E.A.: 188 Menestò E.: 5, 6, 7, 9, 12, 56, 187 Molinaro A.: 190 Monteverde F.: 23, 190 194

Mooney C.M.: 188 Morandi E.: 175, 190 Morrison A.M.: 188 Nebbiai-Dalla Guarda D.: 188 Nessi S.: 8 Nicolò IV: 9 Palumbo P.: 188 Panarotti R.: 175, 190 Panikkar R.: 175 Paoli E.: 188 Paparozzi M.: 189 Pasztor E.: 189 Poirel D.: 188 Pozzi G.: 10, 12, 15, 22, 24, 40, 41, 51, 54, 83, 96, 98, 99, 107, 108, 115, 186, 188 Primetshofer B.: 96, 188 Ravier A.: 190 Rehberger K.: 96, 188 Rossetti C.L.: 127, 130, 131, 134, 135, 138, 191 Ruh K.: 190 Ruhbach G.: 186 Sagnella M.A.: 188 Salmann E.: 190 Santi F.: 185, 187 Scaraffia L.: 189 Schmitt C.: 7, 8, 11, 12, 141, 188 Sciacca M.F.: 23, 190 Scola A.: 175 Sebastiani L.: 8, 188 Sensi M.: 7, 8, 189 Sileo L.: 22, 190 Spiteris Y.: 48, 190 Sudbrack J.: 186

Indice dei nomi

Terrin A.N.: 175 Thier L.: 5, 7, 8, 10, 15, 96, 98, 99, 100, 186, 188 Tommaso d’Aquino: 27, 51, 56, 63, 75, 76, 94, 124, 130, 132, 135, 136, 138, 144, 146, 151, 166, 167, 191 Tommaso da Celano: 78 Trapè A.: 23, 190 Ubertino da Casale: 6, 9, 10, 75, 79, 147

Valerio A.: 187 Vandeleene M.: 179 Vannini M.: 189 Vedova M.: 185 Welte B.: 175 Winkler G.: 96, 188 Žák L.: 179, 190 Zarri G.: 189 Zinnhobler R.: 96, 188 Zum Brunn E.: 190

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Indice generale

INTRODUZIONE. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cenni sulla vita di Angela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il percorso mistico: una possibile interpretazione. . . . . . . . . I. LA TRINITÀ NELL’ESPERIENZA MISTICA DI ANGELA DA FOLIGNO 1. Il Padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1. L’esperienza della paternità divina . . . . . . . . . . . . . . 1.2. Il Padre conosciuto attraverso gli attributi . . . . . . . 1.2.1. La sapienza di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2.2. La volontà di Dio mostra la sua potenza e la sua umiltà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2.3. Il senso del Dio infinito: la pienezza e la bellezza divine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3. Dio come Ogni Bene e Amore . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3.1. Dio «omne bonum» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3.2. Dio «Amor». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4. Dio Creatore ed Essere di ogni essere . . . . . . . . . . . 1.4.1. L’essere di Dio presente nella creazione. . . . . . 1.4.2. L’essere di Dio in sé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5. La «disposizione salvifica divina» come relazione tra il Padre e il Figlio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.1. La disposizione voluta dal Padre per il Figlio . 1.5.2. L’Amore divino all’origine dell’azione salvifica 1.5.3. Il legame indissolubile tra creazione e redenzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Il Figlio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1. Dio uomo passionato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1.1. «Ego sum qui fui crucifixus pro te». . . . . . . . 2.1.2. La visione della divinità di Cristo . . . . . . . . . .

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2.2. La croce e la «società» di Cristo. . . . . . . . . . . . . . . . 2.2.1. La croce nell’anima di Angela . . . . . . . . . . . . . 2.2.2. La croce «ab aeterno». Alcune questioni fondamentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3. La presenza di Cristo nell’anima e le visioni in contesto eucaristico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.1. Presenza di Cristo e visioni in contesto eucaristico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.2. Il Pellegrino ospitato nell’anima . . . . . . . . . . . 2.4. Riflessioni conclusive: Cristo, la Via verso il Padre . 3. Lo Spirito Santo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1. Colloqui con lo Spirito nel pellegrinaggio ad Assisi 3.1.1. L’iniziativa dello Spirito Santo nella relazione intima tra Dio e Angela . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.2. L’intervento di Cristo rivela la presenza della Trinità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.3. I doni dello Spirito e l’anello dell’amore di Cristo 3.2. Lo Spirito è dato da Dio «ad mensuram» . . . . . . . . 3.2.1. Lo Spirito «ad mensuram». Proposte interpretative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2.2. Un’ulteriore proposta di interpretazione . . . . . 3.3. Riflessioni conclusive sulla figura dello Spirito Santo II. RIFLESSIONI SULLA TRINITÀ A PARTIRE DALLE INTUIZIONI ANGELANE. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Le relazioni intratrinitarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1. Le relazioni intratrinitarie alla luce dell’esperienza di Assisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.1. Considerazioni a proposito dell’esperienza di Assisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1.2. Le peculiarità delle Persone e le loro relazioni 1.2. L’atto d’essere Amore trinitario . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Le relazioni della Trinità con le creature . . . . . . . . . . . . . 2.1. Il rapporto con le creature . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1.1. Dio Amore creativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1.2. Redenzione e libertà umana. Fede e peccato . . 2.2. Il rapporto con Maria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2.1. Maria nelle esperienze angelane . . . . . . . . . . . 198

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2.2.2. Maria esempio sulla via di Cristo. . . . . . . . . . . 2.2.3. Maria nel piano divino di salvezza. . . . . . . . . .

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CONCLUSIONE GENERALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Le principali acquisizioni riguardanti la vicenda di Angela da Foligno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Suggestioni angelane nella prospettiva della teologia delle religioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. A proposito della Chiesa dal/con/per Dio Amore . . . . . .

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NOTA BIBLIOGRAFICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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