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Italian Pages 291 [303] Year 2019
Pietro Cavallo
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO Risorgimento e Resistenza nel cinema italiano tra Ricotruzione e miracolo economico (1945-1965) L IGUORI E DITORE
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BIBLIOTECA
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Collana di storia contemporanea 10
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Collana diretta da Pietro Cavallo
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Pietro Cavallo
La Storia sul grande schermo Risorgimento e Resistenza nel cinema italiano tra Ricostruzione e miracolo economico (1945-1965)
Liguori Editore
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Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno
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2. Immaginario
I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Aggiornamenti: 2024
2023
2022
2021
2020
2019
10
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INDICE
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1
Prologo
PRIMA PARTE DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO 13
Introduzione
20
La Resistenza in differita
53
La Resistenza nella guerra civile fredda
86
Ritorna il Risorgimento
97
Risorgimento, neorealismo, realismo PARTE SECONDA GLI ANNI DEL MIRACOLO
117
Introduzione
122
Viva l’Italia. Il Risorgimento tra miracolo economico e celebrazioni per il centenario dell’Unità
141
Noi fummo i gattopardi, i leoni. Dalla celebrazione del Risorgimento alla visione critica
158
Il secondo Risorgimento
183
La Resistenza vince sullo schermo e al botteghino
216
Non si può stare sempre a guardare
233
Un western partigiano
249
La Patria sta dall’altra parte
261
La logica della clandestinità
273
Epilogo
281
Indice dei nomi e dei film
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PROLOGO Berlino. Steglitzer Park. Una bambina piange disperata. Un uomo, non vecchio ma con chiari nel volto e nel fisico i segni di una malattia che di lì a poco lo condurrà alla morte, le domanda cosa le sia successo. “Ho perso la mia bambola”, la risposta. L’uomo la rassicura: “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina, diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. E l’uomo corre a casa. Si mette a lavorare con grande impegno, «come si trattasse della creazione di un’opera […] Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione». Il giorno dopo l’uomo torna nel parco, trova la bambina e le legge la lettera. La bambola è partita per un viaggio, per vedere gente nuova, anche se sottolinea di volere molto bene alla sua amica. Le promette in conclusione di scriverle ogni giorno. E ogni giorno l’uomo porta al parco una nuova lettera in cui la bambola racconta le sue esperienze: è cresciuta, ha iniziato ad andare a scuola, ha conosciuto tante altre persone. Certo, non dimentica la sua amica, ma è troppo impegnata nella sua nuova vita. Passano tre settimane. Occorre un finale, non si può continuare a illudere la bambina in un possibile ritorno. E allora l’uomo, dopo aver a lungo riflettuto, scrive le ultime lettere. La bambola ha conosciuto un ragazzo, se ne è innamorata. I due hanno deciso di sposarsi. L’ultima lettera descrive i preparativi del matrimonio e per la nuova casa. Andranno a vivere lontano: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”, è la conclusione. Ma adesso la bambina è serena. Ha capito. Le lettere hanno dato senso e significato a quell’abbandono iniziale, alla nuova vita che dovrà affrontare senza la sua bambola.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
L’uomo è Franz Kafka: l’episodio è raccontato dalla sua ultima compagna, Dora Diamant, ed è stato ripreso da vari scrittori che l’hanno curvato alle proprie esigenze1. A me piace immaginare che i film di cui si parlerà in questo volume possano essere considerate come le lettere scritte da Kafka alla bambina. «La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione», scrive la Diamant. Una frase che nel nostro caso potremmo rielaborare più o meno così: le «ombre passeggere»2, le immagini che non hanno consistenza portano a una visione e a una rielaborazione della percezione della realtà. Dagli anni Trenta il cinema è stato «agente di storia» non solo perché induceva nuove mode e consumi, ma soprattutto perché contribuiva a ri-strutturare la realtà, dando un ordine e un’armonia ad elementi che, nella vita reale, sembravano eterogenei e non classificabili3. Come scriveva Italo Calvino: Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà d’un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma4.
In particolare dal secondo dopoguerra, il cinema è stato in Italia uno dei media (insieme alla radio e in un secondo momento alla
1 D. Diamant, “Quando Kafka mi venne incontro…” Ricordi di Franz Kafka, a cura di Hans-Gerd Koch, Roma, Nottetempo, 2007. Noto come La bambola di Kafka, il racconto è stato ripreso da vari autori (da Paul Auster in Follie di Brooklyn a Jordi Sierra i Fabria, autore di vari libri per l’infanzia, in Kafka e la bambola viaggiatrice, da Pietro Citati (Un anno nella vita di Kafka) a Stefano Massini in una puntata della trasmissione televisiva Piazza pulita il 26 aprile 2018. 2 È il titolo di un bel volume di Pierre Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Venezia, Marsilio, 2013. 3 Impossibile nello spazio di una nota riportare la bibliografia – ormai vasta – sul rapporto tra la storia e il cinema. Cito solo due volumi dell’autore che più ha innovato gli studi sul tema, Pierre Sorlin. Il primo è quello della nota precedente, Ombre passeggere. Il secondo, sempre di Sorlin, Introduction à une sociologie du cinéma, Paris, Klincksieck, 2015, è la riscrittura di un libro uscito nel 1979, Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979 che innovava profondamente la metodologia dell’analisi. 4 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. VII.
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PROLOGO
televisione) che più ha contribuito a creare un’immagine dell’Italia e degli italiani e che più – per riprendere Kafka – ha dato un senso e un significato alla nostra storia unitaria. Con le pellicole incentrate su “storie” ambientate nel Risorgimento e nella Resistenza il cinema ha concorso a far conoscere a masse ancora poco alfabetizzate due momenti chiave del nostro passato unitario e di conseguenza al formarsi di un’identità nazionale troppo a lungo confusa con il fascismo e crollata insieme al disgregarsi del regime (la bambola persa dalla bambina). Il che è ancora più vero per quanto riguarda la Resistenza. Bene o male il Risorgimento rientra (e rientrava) nei programmi scolastici. La Resistenza vi è entrata molto tardi (ancora alla fine dei Sessanta i programmi al massimo arrivavano al fascismo: più frequentemente si fermavano alla I guerra mondiale). Nella post-fazione della seconda edizione del suo L’identità italiana (volume che ha dato inizio all’omonima collana edita da Il Mulino), Galli della Loggia ricorda come, più che la famiglia o la scuola, a fornirgli una memoria della Resistenza sia stato il cinema: Della Resistenza, infatti, io a scuola non seppi mai nulla e all’ambiente familiare in cui ero vissuto – un ambiente tutto romano-napoletano – la lotta di liberazione era sempre apparsa tanto militarmente irrilevante quanto un’occasione in cui come in nessun’altra si erano manifestati i vizi pubblici e privati più tipici del carattere nazionale: dall’opportunismo al voltagabbanismo, al maramaldismo […] E fu dunque sempre attraverso il cinema che per la prima volta facemmo la tara, integrammo e correggemmo, il discorso familiare sul fascismo e la guerra vedendone tutti i limiti e le omissioni. Beninteso i sentimenti e i pensieri che “quel” racconto della Resistenza – di una Resistenza, come si capisce adeguatamente rivisitata, filtrata e depurata grazie ad appropriate sceneggiature – poteva risvegliare in un giovane negli anni Sessanta non avevano molto a che fare con ciò che la Resistenza era stata in realtà, e quindi con il giudizio storico da darne […] La Repubblica, comunque, era fino ad allora restata assente dal nostro orizzonte, e con essa in certo senso anche la democrazia, intendendo con questa parola l’insieme di vicende e di emozioni che essa aveva rappresentato per il Paese. Grazie al racconto cinematografico e al suo epos un po’ forzato, cominciammo invece a sentire la democrazia e la Repubblica come cose che ci appartenevano, come cose anche nostre. Credo che si debba anche a questa lontana esperienza il mio stupore attuale (in realtà dura da parecchio tempo) ogni volta che mi accorgo che chi oggi ha vent’anni quasi sempre non ha visto neppure uno dei grandi film che hanno fatto la storia del nostro cinema, non conserva dentro di sé nessuna delle emozioni che le loro scene memorabili hanno depositato nell’immaginario di quelli della mia generazione. In un
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Paese che non ha prodotto alcuna vera letteratura nazional-popolare il cinema ne ha rappresentato una sorta di surrogato. Ha raccontato non solo la storia della penisola – la grande storia così come quella quotidiana – ma anche i tipi umani e sociali, le città, i luoghi della scena italiana. Ci ha fatto conoscere a noi stessi5.
Non potrebbe essere descritta meglio l’azione esercitata dal cinema nel creare l’immagine della Resistenza, almeno, come sottolinea sconsolatamente Galli, per le generazioni nate prima degli Ottanta, prima cioè dell’avvento delle televisioni commerciali, della “neo-televisione”, molto diversa dalla “paleo-televisione” degli anni Sessanta e Settanta, che continuava a rincorrere un suo ideale pedagogico, trasmettendo programmi e film che oggi, in era Auditel, nella cosiddetta televisione generalista, possono essere programmati – saltuariamente – in orari notturni. Una considerazione, quest’ultima, che meriterebbe ulteriori riflessioni e che, comunque, esula dal tema di questo volume. Il cinema, dunque, il cinema di «finzione» (di fiction, per dirla in termini odierni) cui si riferisce Galli, ha costituito per gli italiani un momento fondamentale per la ricostruzione “emozionale” del loro passato, un momento, per quanto scientificamente non valido (come sottolinea lo storico romano), comunque fondante per la creazione, se non di un’identità, di un comune senso di appartenenza. Nel ricostruire, pertanto, l’immagine del Risorgimento e della Resistenza nel cinema italiano tra Ricostruzione e miracolo economico mi riferirò, pertanto, unicamente al cinema di finzione (i documentari richiederebbero tutt’altro discorso), scelti tra quelli che maggiormente consentono allo storico di decodificare il modo con cui questi sono stati visti negli anni che vanno dal secondo dopoguerra alla prima metà dei Sessanta. Un assunto che ci porta direttamente a un interrogativo: quando si può parlare di pellicola risorgimentale o resistenziale. Nel primo caso i dubbi sono minori, anche se va considerato che spesso il Risorgimento costituisce solo l’ambientazione per vicende che sarebbe stato possibile collocare anche in altre epoche e in altri ambienti. Più complicato il discorso per quanto riguarda l’altro oggetto di questa indagine. Quali film prendere in considerazione, dal momento che le filmografie sulla Resistenza divergono, anche in modo cospicuo, sul numero delle pellicole. Alcune comprendono solo i film incentrati 5 E. Galli della Loggia, Postfazione, in L’identità italiana, Bologna, Il Mulino, IIa ed. 2010, pp. 176-178. Una sintesi in Id., E il cinema ci insegnò un nuovo patriottismo, «Corriere della Sera», 4 novembre 2010.
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PROLOGO
sulle vicende del nostro paese nel 1943-1945, altre anche quelli che abbracciano gli anni del fascismo (All’armi siam fascisti! di Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè) o che si soffermano sulla “resistenza” al fascismo (Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci), altre ancora includono pellicole che parlano della resistenza, ma all’interno di un arco temporale molto più vasto (Novecento, ancora di Bertolucci, Una vita difficile di Dino Risi, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, per citare i titoli più conosciuti). Inoltre, non mancano le filmografie che comprendono anche i documentari e i film incentrati su vicende di altri paesi europei o addirittura non legate alla lotta contro il fascismo e il nazismo, ma contro dittature e dispotismi di ogni genere. Il che fa capire come non sempre sia facile identificare gli elementi che fanno di una pellicola un film sulla Resistenza. L’interrogativo, peraltro, su quali caratteristiche debba presentare il cinema resistenziale ha origini lontane. Già nel 1959 Giovanni Vento e Massimo Mida si domandavano se era cinema resistenziale quello incentrato sulle azioni di resistenza ai nazifascisti ambientate, dunque, nell’Europa continentale negli anni della II guerra mondiale, o se fosse possibile allargare il concetto fino a includervi movimenti quali il colonialismo, la rivoluzione ungherese, le lotte sindacali. Alla fine concludevano che un film sulla Resistenza implica principalmente una resistenza al fascismo o al nazismo6. Ad aumentare la “confusione” arrivava un convegno, tenutosi a Grugliasco «città martire» (tra il 29 e il 30 aprile 1945 erano stati trucidati dai tedeschi 68 abitanti) il 6 e 7 luglio 1963, su «Tendenze attuali del cinema antifascista italiano». La relazione introduttiva era tenuta da Gianni Rondolino che specificava come non esistesse differenza tra cinema antifascista e cinema resistenziale: Sarei propenso a confondere le definizioni di “antifascista” e di “resistenziale” in una sola, la prima, che mi pare possa comprendere anche l’altra e al tempo stesso abbracciare anche fenomeni storici e politici che escono dai confini della “Resistenza” […] Il termine antifascista potrebbe agevolmente superare i limiti cronologici del ventennio nero per giungere fino ai giorni nostri, tali e tanti essendo i fatti della nostra vita politica e sociale di questi ultimi anni chiaramente ispirati a direttive fasciste, sia per le persone preposte a pubblici uffici, sia per le leggi antidemocratiche ancora in vigore, sia infine per una diffusa mentalità che aleggia in più d’un settore del potere economico e politico, la quale deriva da uno “stile” di vita dichiaratamente fascista7. 6 7
Cfr. G. Vento, M. Mida, Cinema e resistenza, Firenze, Luciano Landi Editore, 1959. Tendenze attuali del cinema antifascista italiano, a cura dell’ARCI, Torino, 1964, pp. 9-10.
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Cinema antifascista, dunque, poteva essere qualsiasi manifestazione cinematografica nutrita di ideali democratici, per cui il termine “resistenziale” non poteva limitarsi agli anni 1943-1945, ma poteva comprendere ogni episodio di resistenza al fascismo. Certo molti film, da Roma città aperta a Le quattro giornate di Napoli mostravano l’intento antifascista degli autori e il loro successo testimoniava l’interesse del pubblico al tema. Però, concludeva, altri argomenti dovevano ispirare i nostri registi: «la disoccupazione e l’insicurezza nel lavoro, la discriminazione e la miseria, l’opportunismo della classe dirigente e lo spreco, le condizioni di vita del nostro Mezzogiorno e in molti quartieri delle nostre città più evolute, la libertà e la giustizia sociale»: Se di Resistenza occorre parlare, Resistenza è oggi l’opposizione al conformismo e al risorgere del fascismo sotto altre spoglie, l’opposizione all’ingiustizia e la difesa degli ideali di libertà e d’uguaglianza, che furono gli ideali della Resistenza armata al fascismo e al nazismo8.
Non va dimenticato che il convegno di Grugliasco si svolgeva all’indomani del governo Tambroni e dell’estate 1960 che aveva visto la polizia reprimere con forza le manifestazioni di protesta anti-governative, ma anche all’indomani della fine del governo di centro-sinistra “programmatico” di Fanfani con l’abiura, durante la campagna elettorale, da parte della segreteria DC del progetto di riforma urbanistica presentato dal ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, e in presenza di un risultato nelle elezioni del 28 aprile 1963 negativo per la DC (che scendeva dal 42,36% al 38,39%) e con la forte opposizione della sinistra di Riccardo Lombardi che il 16 giugno nella riunione del comitato centrale PSI votava contro la partecipazione dei socialisti al governo perché nel programma non compariva più la riforma urbanistica. Il che preludeva al primo governo “balneare” della storia con Giovanni Leone alla guida di un monocolore DC. Insomma, quando il 6 luglio 1963 si aprì il convegno “Tendenze attuali del cinema antifascista italiano” la situazione politica si presentava ancora incerta e confusa, aggravata dal rallentamento dell’economia e con il ricordo dell’estate 1960 ancora vivo. Peraltro, sia il volume di Vento e Mida che il convegno di Grugliasco identificavano la Resistenza come movimento armato e organizzato. Negli ultimi anni, la ricerca storica, concentrandosi sulla resistenza civile, non armata né politicamente organizzata, ha mostrato come 8
Ivi, pp. 34-35.
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PROLOGO
essa vada anche intesa nel senso etimologico del termine, includendo anche quella di chi materialmente non prese le armi per combattere i nazifascisti: ha trovato così spazio e pari dignità la “resistenza” dei deportati politici e razziali, degli internati militari, delle vittime delle stragi naziste, delle donne che accoglievano e salvavano i soldati sbandati dopo l’8 settembre9. Inoltre, a partire dalla fine degli anni Settanta gli stessi autori sembrano riprendere le suggestioni di Rondolino. Valentino Orsini sottolineava, al momento di iniziare le riprese di Uomini e no, tratto dal romanzo di Elio Vittorini, che non si trattava di una pellicola sulla Resistenza. Era, piuttosto, «la storia di un intellettuale che, intensamente impegnato nei confronti del proprio momento storico, vive in maniera schizofrenica. Da una parte, c’è una realtà che di per se stessa, non può non assorbirlo quasi totalmente; dall’altra la vita dei sentimenti, l’indispensabile attenzione alla propria sfera emotiva»10. A film completato aggiungeva che «non vuole essere e non sarà una lettura storica della resistenza attraverso i personaggi, ma piuttosto una storia di uomini in un tempo di necessità. La necessità di cambiare le cose, di un senso giusto per la vita, di capire e scegliere. In questo senso, anche oggi è tempo di necessità»11. Ancora più esplicito Guido Chiesa. In un’intervista concessa a Maria Pia Fusco per «la Repubblica» il regista, nel momento in cui si accingeva a tradurre in immagini il romanzo di Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, annotava come la sua «ambizione» fosse «quella di superare il tema della Resistenza»: Vorrei utilizzare il romanzo per un racconto sulla coerenza e l’autenticità: la storia di un buono che vuole essere giusto. Superando i riferimenti alla realtà italiana, il romanzo di Fenoglio potrebbe svolgersi in Kosovo, in Guatemala o a Timor est, ovunque ci sia una situazione di conflitto che pone un giovane davanti alla necessità di scegliere12.
In definitiva, occorre delimitare il campo. Prenderò in considerazione – per quanto riguarda la Resistenza – esclusivamente quelle pellicole incentrate sulla lotta ai nazi-fascisti in Italia negli anni 19431945, mentre per il Risorgimento la faranno da padrone quei film che 9
E. Tonizzi, La resistenza in Italia, «Il mestiere dello storico», III, 1, 2011, p. 41. o.r., Amore e guerra con Bucci e Guerritore nel film di Orsini da «Uomini e no», «La Stampa», 26 giugno 1979. 11 G. Quarenghi, Vite da uomini in un tempo di necessità, «l’Unità», 6 settembre 1990. 12 M.P. Fusco, Dalle Langhe con amore, «la Repubblica», 25 settembre 1999. 10
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
hanno tentato in vario modo di esplorare la storia della formazione dell’unità italiana, seguendo e, talvolta, anticipando le conclusioni (il che, per la verità, si verifica anche con il cinema resistenziale) cui approda la storiografia. Un ultimo chiarimento. Perché fermarsi al 1965? La spiegazione è semplice. Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta il cinema perde la sua capacità, descritta sommariamente in precedenza, di costruire mondi, di – per usare l’espressione di Giaime Pintor – modificare «la storia e la geografia dei nostri cervelli»13, cambiare cioè le coordinate spazio-temporali del nostro agire nel mondo. In una parola, i film non sono più “agenti di storia”. Rispecchiano certamente la visione del mondo dell’equipe che li produce, ma non possono più, per dirla con la Diamant citata in apertura, trasformare «la menzogna» (le immagini in movimento) «in verità attraverso la verità della finzione». È la televisione ormai che fin dalla seconda metà dei Sessanta si incarica di prendere il testimone e prosegue velocemente nel processo di nazionalizzare gli italiani creando un «senso comune», un patrimonio di valori indiscussi, come negli altri paesi, un’identità nazionale condivisa. Il tutto non seguendo pedissequamente le indicazioni dell’american way of life, ma al contrario recuperando la tradizione nazionale italiana e i valori della morale cattolica14. Il volume è diviso in due parti, gli anni della Ricostruzione e quelli del Miracolo economico. Anni in cui il cinema ha raccontato in modo diverso Resistenza e Risorgimento, con film che riflettono le stagioni del dibattito storiografico e nel contempo ci parlano anche dei sentimenti, dei valori e dei modelli culturali dei periodi presi in esame in un continuo gioco di rimandi che costituiscono il fascino irresistibile delle immagini in movimento. Forse si dovrebbe dire, costituivano, dal momento che la fruizione cinematografica oggi è completamente cambiata. Ma questo è un altro discorso che a sua volta potrebbe essere oggetto di indagine storica!
13 G. Pintor, Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1977, p. 156. 14 Cfr. G. Guazzaloca, Una e divisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975), Firenze, Le Monnier, 2011.
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AVVERTENZA E RINGRAZIAMENTI Tutte le notizie riguardanti i film, dall’anno di produzione agli autori e agli attori, sono prese da R. Chiti, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano. I film, vol. 2, Dal 1945 al 1959, Roma, Gremese, 1991; R. Poppi, M. Pecorari, Dizionario del cinema italiano. I film, vol. 3, Dal 1960 al 1969, Roma, Gremese, 1992. Gran parte del volume è inedita, con l’esclusione dei capitoli sui film del Risorgimento che riprendono, con diverse integrazioni, P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2009, pp. 337-388. Infine, un doveroso ringraziamento a quanti, con suggerimenti, consigli, idee e ipotesi affacciate nel corso di dibattiti e seminari, hanno contribuito, magari in modo anche non consapevole, alla costruzione del volume: Gian Piero Brunetta, Gianni Canova, Simona Colarizi, Giovanni De Luna, Annibale Elia, Marco Gervasoni, Paolo Mattera, Carmine Pinto, Maurizio Ridolfi, Pierre Sorlin, Christian Uva, Vito Zagarrio. Un ringraziamento infine ai miei colleghi salernitani con i quali, da ormai più di quindici anni, condivido l’affascinante esperienza di «Filmidea – Giornate di studio su storia, cinema, musica e televisione»: Gino Frezza, Pasquale Iaccio, Margherita Platania, Marcello Ravveduto, Elio Frescani, Mariangela Palmieri. E grazie a Maurizio Nobili, prezioso e infaticabile co-autore di alcuni film di montaggio destinati ad uso didattico. Come sempre grazie a Sara.
Abbreviazioni usate ACS PCM MI MTS DGPS Gab. Div. Cin. Agr ctg. L. b. f.
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PRIMA PARTE
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DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
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INTRODUZIONE «Non è facile farsi un’idea della vita italiana in questo dopoguerra. L’uomo della strada non è una fonte raccomandabile. Milano non ha quasi più “uomini della strada” espressione di una mentalità normale», scriveva Franco Fortini, allora redattore di «Milano Sera», in una lettera intercettata dalla censura nell’agosto 1945. All’amico in Svizzera Fortini raccontava come, nonostante la criminalità dilagante, nonostante la prostituzione, «seppure molto meno diffusa che a Roma e a Napoli», quella di Milano non fosse una situazione disperata. Malgrado gli ostacoli «alla ricostruzione materiale e morale» fossero «numerosi e quasi insormontabili, senza gli aiuti degli alleati», nella città meneghina c’era voglia di ricominciare a vivere: La Galleria, nonostante che pioggia e sole penetrino dalla cupola infranta, vede sempre la consueta animazione. Qua due negri dell’esercito americano contrattano “Camel” o “Luky Strike” a 500 lire il pacchetto; là dei ragazzi armati di pentolini di colla affiggono manifesti multicolori di falci e martelli comunisti o di croci democristiane; davanti alle vetrine dei librai, la gente si affolla a contemplare le novità, carissime, o entra a comperare la stampa in arrivo da Roma. Al Castello Sforzesco, nel grande teatro all’aperto, c’è stagione “d’opere” popolari. I teatri di prosa (una poltrona 200 lire) ci promettono Wilder e Sartre. Milano si sveglia, dopo i lunghi anni di guerra, dopo le orribili ferite inferte al suo organismo industriale. Dalla Bovisa a Rogoredo, dai capannoni della Falk alle barracche trogloditiche di Porta Romana Milano si sveglia faticosamente, confusamente, vecchio gigante europeo1.
Milano, però, era un’eccezione. Era lo stesso Fortini ad ammetterlo («La tragedia d’Italia bisogna cercarla fuori di Milano, sulle strade dove transitano i camion carichi di rimpatriati, tra i nugoli di polvere delle distruzioni, ai traghetti forzati, o là dove la guerra ha spianato 1
L. da Milano in Svizzera del 9 agosto 1945, ACS, PCM 1944-1947, 1.2.2, f. 14884.
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ogni traccia di vita civile, come in Romagna»2) e la sua lettera, improntata come era a un ottimismo diffuso, costituiva un caso isolato. A guerra finita, infatti, soprattutto là dove meno forte era stato il processo resistenziale, altri erano i sentimenti dominanti, sostanzialmente riassumibili in due strettamente intrecciati e diffusi un po’ in tutta la popolazione: disagio e insofferenza nei confronti della rinata dialettica democratica e sgomento di fronte a fenomeni come la prostituzione e il mercato nero, espressione di una crescente disgregazione del tessuto sociale. A questi se ne aggiungeva un terzo, di stupore e di rabbia, che caratterizzava in particolare i ceti di piccola e media borghesia impiegatizia, asse portante del passato regime fascista, spaventati per l’emergere, dal punto di vista economico e sociale, di strati fino ad allora subalterni che ne minacciavano la tradizionale egemonia. Su tutti, comunque, una sensazione di angoscia, di smarrimento, di perdita3 di cui si facevano interpreti, ancora una volta, film, canzoni, lavori teatrali: Dimane?… Ma vurria partì stasera! / Luntano no… nun ce resisto chiù! / Dice che c’è rimasto sulo ’o mare, / ch’è ’o stesso ’e primma… chillu mare blu! / Munastero ’e Santa Chiara… / tengo ’o core scuro scuro… / ma pecché, pecché ogne sera / penzo a Napule comm’era, penzo a Napule comm’è?! / Funtanella ’e Capemonte… / chistu core mme se schianta / quanno sento ’e dì d’ ’a ggente / ca s’è fatto malamente, ’stu paese… Ma pecché? / No… nun è overo! No… nun ce crero. / E moro pe’ sta’ ’sta smania ’e turnà a Napule… / ma ch’aggia fa… mme fa paura ’e ce turnà! / Paura?… Si… Se fosse tutto overo? / Se ’a ggente avesse ditto ’a verità? / Tutt’ ’a ricchezza ’e Napule… era… ’o core! / Dice… ch’a perzo pure chillu llà!
Così nel 1945 in Munastero ’e Santa Chiara Michele Galdieri, uno degli autori di riviste di varietà più prolifici, acuto osservatore dei mutamenti della società, descriveva, con l’aiuto della musica di Alberto Barberis, la Napoli del dopoguerra. Una Napoli cambiata. I valori di prima, quelli che organizzavano il tessuto sociale della città e che ne costituivano la vera ricchezza, il «core», erano crollati. E il dato più significativo del cambiamento era riscontrabile nel mutato atteggiamento delle donne: «Munastero ’e Santa Chiara… / ’nchiuse dint’a quatto mura, / quanta femmene sincere / si perdevano n’ammore, se spusavano a Gesù. / Funtanella ’e Capemonte… / mo’ si perdono n’amante / già ne teneno ’ati cciento… / ca ’na femmena nnuccente – dice ’a ggente – nun c’è cchiù». 2 3
Ibid. Cfr. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 5-36.
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
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Era un grido di allarme, quello di Galdieri. Non dissimile quello di Eduardo De Filippo, lanciato nello stesso anno, il 1945, con Napoli milionaria. È il protagonista della commedia, Gennaro Jovine, a farsene interprete. Jovine ritorna e trova tutto cambiato: una grande malattia morale che ha stravolto il modo di vivere e di comportarsi degli abitanti della città partenopea, facendo venir meno antiche solidarietà. Sia Munastero ’e Santa Chiara che Napoli milionaria non indicavano colpe o responsabilità precise, sottolineando come la guerra e la presenza alleata (su questo aspetto la canzone glissava) avessero finito per alterare e sconvolgere il tessuto economico e sociale della città partenopea (dell’Italia intera: Eduardo era esplicito), causando uno sfacelo morale senza precedenti: Amalia – E pecché me guarde? Aggio fatto chello che hanno fatto ll’ate. Me so’ difesa, me so’ aiutata […] Gennaro – Aggia parla’? Me vuo’ sentere proprio ’e parla’? E io parlo […] Ama’, nun saccio pecché, ma chella creatura ca sta llà dinto me fa penza’ ’o paese nuosto. Io so’ turnato e me credevo ’e truva’ ’a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma pecché?… Pecché io turnavo d’ ’a guerra… Invece, ccà nisciuno ne vo’ sentere parla’. Quann’io turnaie ’a ll’ata guerra, chi me chiamava ’a ccà, chi me chiamava ’a llà. Pe’ sape’.., pe’ sentere ’e fattarielle, gli atti eroici… Tant’è vero ca, quann’io nun tenevo cchiù ca dicere, me ricordo ca, pe’ m’ ’e lleva’ ’a tuorno, dicevo buscie, cuntavo pure cose ca nun erano succiese, o ca erano succiese all’ati surdate… Perché era troppa ’a folla, ’a gente ca vuleva sèntere… ’e guagliune… ’O surdato! ’Assance sèntere, conta! Fatelo bere! Il soldato italiano! Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parla’? Primma ’e tutto pecché nun è colpa toia, ’a guerra nun l’he’ vuluta tu, e po’ pecché ’e carte ’e mille lire fanno perdere ’a capa… […] Che t’aggi’ ’a di’? Si stevo cca, forse perdevo ’a capa pur’io… A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi’ ’a fa’? ’A piglio pe’ nu vraccio, ’a metto mmiez’ ’a strada e le dico: – Va fa’ ’a prostituta? – E quanta pate n’avessser’ ’a caccia ’e ffiglie? E no sulo a Napule. Ma dint’ ’a tutte ’e paise d’ ’o munno. A te che nun he’ sapute fa’ ’a mamma, che faccio, Ama’, t’accido? Faccio ’a tragedia? E nun abbasta ’a tragedia ca sta scialanno pe’ tutt’ ’o munno, nun abbasta ’o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante… E Amedeo? Amedeo che va facenno ’o mariuolo? Amedeo fa ’o mariuolo. Figlieto arroba […] Tu mo he’ capito […] Mo avimm’aspetta’, Ama’… S’ha da aspetta’. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare la nottata. Amalia [vinta, affranta, piangente, come risvegliata da un sogno di incubo] – Ch’è ssuccieso… ch’è ssuccieso… Gennaro – ’A guerra, Ama’! Amalia – E che nne saccio? Che è succieso! […] ’A matina ascevo a ffa’ ’o ppoco ’e spesa… Amedeo accumpagnava a Rituccia a scòla e
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ghieva a fatica’… Io turnavo ’a casa e cucenavo… Ch’è ssuccieso… ’A sera ce assettavamo tuttu quante attuorno ’a tavula e primma ’e mangia’ ce facevamo ’a croce… Ch’è succieso…4.
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La commedia fu rappresentata per la prima volta, fortunosamente (i teatri erano destinati tutti agli spettacoli per le truppe alleate), al teatro «San Carlo» di Napoli il 25 marzo 1945. Quattordici anni dopo Eduardo avrebbe rievocato quel giorno, raccontando di aver provato allora «la più profonda commozione» della sua vita: C’era la fame, e tanta gente disperata. Ottenni il «San Carlo» per una sera. I professori dell’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo mistico. «Vedrete che ci diffamerà», pensava qualcuno allarmato dal titolo […] Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta, la battuta finale: «Deve passare la notte», e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti5.
Quel «silenzio», quell’«applauso furioso», quel «pianto irrefrenabile» confermavano come l’autore napoletano fosse riuscito a dar voce a sentimenti che costituirono per molti italiani, soprattutto nelle zone «liberate», la cifra dominante del periodo come emergeva dai rapporti di questori, prefetti, carabinieri o dagli articoli di giornali e quotidiani, soprattutto dalla corrispondenza, dove sempre più affiorava un’Italia nella quale lo smarrimento e l’angoscia di fronte all’incertezza dell’avvenire si sposavano con un pessimismo crescente («Si vive alla meglio, si spende un sacco di moneta e chi lavora non riesce a migliorare la 4 E. De Filippo, Napoli milionaria!, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1957, pp. 123-125. È da sottolineare che negli ambienti comunisti degli anni Cinquanta la celebre battuta conclusiva della commedia eduardiana («S’ha da aspetta’, Ama’. Ha da passa’ ’a nuttata») veniva letta «come un invito a lottare perché torni la luce nelle coscienze e nella vita e non una astratta esclamazione fideistica» (P. Ricci, Nuovi contenuti nella letteratura e nell’arte del Mezzogiorno, «Cronache meridionali», n. 3, marzo 1954, citato in N. Ajello, Intellettuali e Pci 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 231). Non mancava, però, chi – sempre nell’ambito del Pci – la pensava diversamente, temendo soprattutto che si accentuasse in Eduardo, col passare degli anni, la vena di fatalismo e di rassegnata passività che l’autore napoletano mostrava ad esempio con La paura numero uno (ivi, pp. 230-233). 5 E. Biagi, La «dinastia» dei fratelli De Filippo. Mezzo secolo di teatro in tutto il mondo, «La Stampa», 5 aprile 1959.
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
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sua posizione, anzi la peggiora»6), alimentato, tra l’altro, anche dalla constatazione del venir meno di ogni forma di solidarietà («Siamo gli uni contro gli altri senza capire che, nella tragedia che viviamo, dovremmo tenderci la mano, non per salvarci ma per morire di buona armonia»7), che induceva a rimpiangere – così scriveva un reduce – persino gli stenti e le sofferenze dei campi di concentramento tedeschi: Tu non ci credi, ma sono stomacato a tal punto di tutti gli Italiani che spesso rimpiango Dachau! […] Lì si rischiava la vita, si lottava ora per ora, un sacrificio continuo, ma almeno da parte mia e tua c’era della vera amicizia! Ci si spartiva la patata e la galera, la fatica continua e la cicca raccolta per la strada. Ricordi Dachau? Cosa non abbiamo sofferto! Tutto, eppure nel bisogno non siamo mai scesi, un biscotto metà per uno, un pugno d’erba, metà per uno. Quello è l’uomo, quella è la vita. Mentre qui dovunque vai, trovi solo ladri, mascalzoni, vigliacchi… nessun spirito di collaborazione, anzi desiderio di vendetta o di rappresaglia politica8.
La ricerca della solidarietà costituiva la chiave di interpretazione di un film, girato avventurosamente («La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo – mi sembra – è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà», scriveva Ennio Flaiano, nella sua recensione su «Domenica» del 6 maggio 19459) nel ’44 e prodotto dalla casa cattolica Orbis. La porta del cielo10 raccontava le vicende di alcuni pellegrini diretti al santuario della 6 L. da Pentone, Catanzaro, a New York, del 4 luglio 1945, ACS, PCM 1944-1947, 1.2.2., f. 11244. 7 L. da Catania del 7 ottobre 1944, ACS, MI, Gab. 1944-1946, b. 15, f. 1119, sf. 1. 8 L. da Roma a Vaud, Svizzera, del 9 luglio 1945, ACS, PCM 1944-1947, 1.2.2, f. 14884. 9 E. Flaiano, Lettere d’amore al cinema, a cura di C. Bragaglia, Milano, Rizzoli, 1978, p. 69. 10 La regia del film era di Vittorio De Sica; il soggetto era tratto da La casa dell’angelo, copione di Piero Bargellini (comunque, non accreditato); la sceneggiatura di De Sica, Cesare Zavattini, Diego Fabbri, Adolfo Franci, Carlo Musso e, non accreditato, Enrico Ribulsi. Questa la didascalia iniziale: «Durante la prigionia di Roma, lottando contro difficoltà di ogni genere, uomini del cinematografo italiano realizzarono questo film sospinti dal desiderio di servire, con l’arte, la fede cristiana». Il film richiese molti mesi di lavorazione sia per le difficoltà legate al momento sia per evitare il trasferimento di De Sica e della troupe al Nord, a Venezia (cfr. G. De Santi, Vittorio De Sica, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 45-47). La genesi e la produzione del film avrebbero dovuto costituire il soggetto di una pellicola diretta e interpretata dal figlio di De Sica, Christian, nei panni del padre. Già nella conferenza stampa di presentazione del progetto, Christian ricordava come il padre riuscisse a salvare, scritturandoli come comparse, circa trecento ebrei (cfr. G. Grassi, Film su De Sica salvatore di ebrei, «Corriere della Sera», 22 febbraio 2002, R. Rombi, La guerra di De Sica, «la Repubblica», 22 febbraio 2002, G.L. Paracchini, De Sica L’ultima giocata con i soldi di Christian, «Corriere della Sera», 23 luglio 2002). L’anno successivo, il «Corriere della Sera», dava nuovamente la notizia della prossima realizzazione del film, ricordando
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Madonna di Loreto. Tanti i personaggi le cui storie si intrecciano nel «treno bianco», da Claudio, un bambino paralitico, e Maria [Maria Mercader], la ragazza che gli è vicina come una sorella, entrambi soli e senza famiglia, a Mario [Massimo Girotti], l’operaio divenuto cieco in seguito a un incidente sul lavoro, da Giovanni [Roldano Lupi], il brillante pianista, disperato per la paralisi che lo ha colpito alla mano, all’anziana governante [Elettra Druscovich] che va a Loreto per impetrare pace ed armonia per la famiglia presso la quale ha lavorato tanti anni (la sua speranza è che il padrone, rimasto vedovo, non sveli mai ai figli che la moglie lo tradiva). E ancora tante sofferenze e preghiere: riacquistare la vista, l’udito, la voce, ricominciare a camminare, a correre, semplicemente poter vivere ancora qualche mese. Alla fine, uno soltanto sarà il vero miracolo (una paralitica che si alza dalla carrozzella e riprende a camminare), ma tutti i protagonisti ancora una volta come De Sica, grazie a La porta del cielo, riuscisse a salvare centinaia di ebrei (M. Porro, De Sica salvatore di ebrei ispira due film, «Corriere della Sera», 19 agosto 2003). Lo stesso giorno, sempre sul «Corriere», Marco Roncalli ricordava come la pellicola evitasse a De Sica il trasferimento a Venezia, al servizio della Repubblica Sociale (M. Roncalli, Il retroscena, «Corriere della Sera», 19 agosto 2003). Di diverso avviso Gualtiero De Santi («Non corrisponde tuttavia a verità – o almeno non risulta – che De Sica e alcun altro approfittassero di quella loro fortunata condizione per nascondere e salvare ebrei braccati dai nazifascisti», che ricorda come la deportazione della comunità ebrea di Roma si fosse già compiuta «senza che nessuno volesse o potesse arrestarne il corso, neppure il Vaticano» (De Santi, Vittorio De Sica, cit., p. 47). La vicenda è tornata d’attualità nel 2008 in occasione della pubblicazione di un volume di Christian De Sica: in un capitolo, infatti, l’autore ricordava il suo desiderio, irrealizzato, di girare un film su La porta del cielo (C. De Sica, Figlio di papà, Milano, Mondadori, 2008, pp. 118-123). È stato il modo per ricordare ancora una volta la vicenda de La porta del cielo e del salvataggio di centinaia di persone ricercate dalla Gestapo: «Tutti imbarcati da De Sica per un film che portò lo scompiglio pratico e morale nell’austero chiostro benedettino, piegato dai nuovi saltimbanchi del cinema ad una inedita versione del diritto d’ asilo. La porta del cielo diventò così, fino all’arrivo degli americani, una porta della terra. Uno dei tanti racconti che la generazione di noi che non siamo più ragazzi abbiamo sentito raccontare fin da quando eravamo piccoli: storie di estro e dignità, favole di un mondo che s’allontana, mescolando torti e ragioni nel più furbo dei colori, il grigio. E che in un film mai girato, nelle parole di Christian De Sica, ritrova il bianco, ritrova il nero» (A. Melloni, De Sica, il finto film e gli ebrei salvati, «Corriere della Sera», 18 novembre 2008). Nel 2000 La porta del cielo fu oggetto di un’imbarazzante gaffe dei quotidiani che – riprendendo una notizia d’agenzia – ne parlarono come di una pellicola inedita di De Sica, ritrovata negli archivi vaticani (cfr. Un inedito di De Sica nell’archivio vaticano, «la Repubblica», 9 luglio 2000; Spunta un film di Vittorio De Sica prodotto e poi bloccato da Pio XII, «Corriere della Sera», 9 luglio 2000). In realtà il film era tutt’altro che sconosciuto, come avrebbero rettificato gli stessi quotidiani qualche giorno dopo, sottolineando che il negativo era posseduto dalla Cineteca nazionale e che era circolato nelle sale anche in tempi recenti in festival e rassegne (cfr. A. Farassino, L’avventura di De Sica, «la Repubblica», 12 luglio 2000), ma dimenticando che la pellicola aveva costituito anche il piatto forte di un Fuori Orario andato in onda sulla terza rete Rai diversi anni prima.
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guariscono dai loro incubi, riconciliandosi con se stessi e con gli altri. Si rafforzerà l’amicizia tra Mario e Carlo [Carlo Ninchi], il compagno responsabile dell’accaduto, che nel santuario troverà il coraggio di confessare all’amico la verità; Giovanni, il pianista, lascerà, vicino alla stampella della paralitica miracolata, la pistola con la quale pensava di uccidersi; soprattutto – è la storia, infatti, sulla quale il film si sofferma di più – Claudio e Maria troveranno nel ricco commerciante [Giovanni Grasso] con il quale dividono lo scompartimento il padre che non hanno e quest’ultimo i figli desiderati e mai avuti («Faremo grandi cose insieme noi tre», esclama nel finale). E così, quel lungo viaggio del «treno bianco» da Salerno a Loreto, attraverso un’Italia nella quale le distanze erano drammaticamente aumentate (il viaggio «è lungo!… quattordici ore!… e quattordici al ritorno sono ventotto», sottolinea Maria rivolta a Claudio), poteva essere letto come la metafora della ricerca di una solidarietà che gli eventi della guerra sembravano aver fatto scomparire dall’orizzonte degli italiani: «Grazie, Signore, uno di noi è guarito… uno come noi!», è la preghiera finale recitata in coro dai pellegrini. Solo la vicenda della governante, a differenza di tutte le altre, non trovava il suo epilogo: la figura della vecchina, all’arrivo nel santuario, scompariva nella massa dei pellegrini, lasciando nello spettatore il dubbio circa l’esaudimento della sua richiesta. E se leggiamo la sua preghiera come metafora di un’invocazione alla pacificazione nazionale, ne viene di conseguenza che, probabilmente, con una guerra civile ancora in corso (il film era girato durante l’occupazione nazista di Roma e sarebbe stato presentato cinque mesi dopo la liberazione della città), gli autori, se da una parte auspicavano la riconciliazione tra gli italiani, dall’altra non se la sentivano di affermare che l’armonia della nazione potesse basarsi sul silenzio e sulla rimozione delle lacerazioni e delle fratture verificatesi.
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LA RESISTENZA IN DIFFERITA Una lunga premessa, necessaria per capire in quale contesto irrompeva il racconto della Resistenza sviluppato dal cinema italiano. Tra il 1945 e il 1947 sarebbero stati girati, oltre alle due pellicole di Rossellini molto note, Roma città aperta e Paisà, poco più di una decina di film incentrati sul momento resistenziale (il numero cresce se si considerano anche quelli che non ebbero circolazione nelle sale1). Quali erano le principali caratteristiche delle pellicole che, per la loro vicinanza temporale ai fatti narrati, potremmo definire «Resistenza in differita»? Anzitutto, i film, almeno quelli del triennio 1945-1947, sono una sorta di instant movies. La location, sempre per usare termini odierni, è pronta. Non occorrono studi. Macerie e rovine stanno lì ad attestare la guerra appena finita: analogamente, facce e corpi, scavati, emaciati, confermano la “tempesta” passata. Della Resistenza viene accentuato l’aspetto di una reazione, di natura essenzialmente morale, che nasce dal basso, spontanea e interclassista. È tutto un popolo che, compatto, sa da subito come e dove schierarsi, si ribella, “resiste” ai tedeschi: sono questi ultimi il nemico, i fascisti compaiono poco e, comunque, sono ridotti a un ruolo marginale e subalterno. Lo sguardo, sul quale si modellerà gran parte della produzione immediatamente successiva, è quello di Rossellini che nel biennio 1945–1946 realizza due film, Roma città aperta e Paisà, accomunati da molti elementi – non ultimo la sceneggiatura dovuta, tra gli altri, al trio Amidei-Rossellini-Fellini2 – che ne fanno quasi un corpus unico. 1
Una prima stesura in A. Giannarelli, Cinema, cortometraggio e documentario sulla resistenza italiana, in AA. VV., Cinema storia resistenza 1944–1985, Milano, Franco Angei, 1987, pp. 105ss. Cfr. anche C. Wagstaff, Il cinema europeo e la resistenza, in L. Cigognetti–L. Servetti–P. Sorlin, a cura di, L’immagine della resistenza in Europa: 1945–1960. Letteratura, cinema, arti figurative, Bologna, Il Nove, 1996, pp. 39–61. 2 Il soggetto di Roma città aperta era di Sergio Amidei e, non accreditato, Alberto Consiglio. Tra gli sceneggiatori, oltre al trio citato nel testo, Amidei–Rossellini–Fellini, va ricor-
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Le due pellicole, sosteneva il regista romano, non si discostavano da quella che sarebbe stata la sua produzione successiva, caratterizzata da una valenza pedagogica molto forte (si pensi al progetto di raccontare attraverso le immagini la storia dell’umanità a partire dalle origini3). Avrebbe scritto nel 1972 che «non c’era nessuna differenza sostanziale» tra i suoi lavori televisivi, di natura essenzialmente didattica (il regista citava esplicitamente La presa del potere e La lotta per la sopravvivenza dell’uomo), e quelli cinematografici dell’immediato dopoguerra: Comunque si considerino, anche Roma città aperta e Paisà erano didattici, anche Germania anno zero era didattico, proprio perché lo sforzo che facevo – questo credo di saperlo in modo molto preciso – era di prendere coscienza degli avvenimenti nei quali ero rimasto immerso, dai quali ero stato travolto. Era l’esplorazione non solo di fatti storici, ma proprio di atteggiamenti, di comportamenti che quel certo clima, quella certa situazione storica determinavano4.
«Anche allora – concludeva – sentivo il bisogno di essere ben orientato a capire le cose; ecco, questo è il punto, questo è quello che mi muove ancora oggi: partire dal fenomeno ed esplorarlo e far scaturire da questo liberamente tutte quante le conseguenze, anche politiche; non sono mai partito dalle conseguenze e non ho mai voluto dimostrare niente, ho voluto soltanto osservare, guardare, obiettivamente, moralmente, alla realtà e cercare di esplorarla in modo che da essa scaturissero tanti dati dai quali si potevano poi trarre certe conseguenze»5. Si trattava di affermazioni molto interessanti che chiarivano e completavano, in certo senso, quelle apparse molti anni prima in un’intervista sui «Cahiers du cinéma». In questa Rossellini spiegava l’essenza del “suo” neorealismo: «Il neorealismo consiste nel seguire un essere umano con amore, in tutte le sue scoperte, in tutte le sue
dato anche Carlo Celeste Negarville. Il soggetto di Paisà era di Amidei, Fellini, Rossellini, Marcello Pagliero, Victor Alfred Hayes. La sceneggiatura di Amidei, Fellini e Rossellini. Non accreditato, Vasco Pratolini collaborò alla sceneggiatura dell’episodio fiorentino. 3 Cfr. P. Iaccio, Interpretazione e divulgazione della storia nell’opera di Roberto Rossellini (con un inedito del regista), «Storia e problemi contemporanei», n. 23, 1999, pp. 21–52. Ripubblicato, con il titolo La storia tra cinema e televisione in P. Iaccio, a cura di, Rossellini dal neorealismo alla diffusione della conoscenza, Napoli, Liguori, 2006, pp. 135–159. Cfr., inoltre, R. Rossellini, “Diffondere la conoscenza”. Uno degli ultimi scritti di Roberto Rossellini, ivi, pp. 160–167. 4 R. Rossellini, L’intelligenza del presente, in S. Roncoroni, a cura di, La trilogia della guerra, Bologna, Cappelli, 1972, p. 13. 5 Ibid.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
impressioni»6. Da qui scaturiva un modo di utilizzare la macchina da presa completamente diverso rispetto al passato:
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D’abitudine, nel cinema tradizionale, si “taglia” una scena in questo modo: piano totale, si precisa l’ambiente, si scopre un individuo, ci si avvicina ad esso, piano medio, piano americano, primo piano, e si comincia a raccontare la sua storia. Io procedo nella maniera esattamente opposta: un uomo si sposta e grazie al suo spostamento si scopre l’ambiente in cui si trova. Comincio sempre con un primo piano, poi il movimento di macchina che accompagna l’attore scopre l’ambiente7.
Non era un caso allora, se teniamo presente quanto sopra riportato, che i due film fossero accomunati anche da un altro elemento, la presenza di uno «straniero», di un estraneo che per la prima volta guarda e si muove – e noi con lui – all’interno di un paesaggio, di un territorio a lui sconosciuto: Manfredi in Roma città aperta, le truppe alleate che risalgono la penisola in Paisà8. Cosa vede lo «straniero»? In Roma città aperta Manfredi [Marcello Pagliero] si aggira in una realtà inquietante, dove – e qui il film di Rossellini non si discostava da quanto registravano altre pellicole dello stesso periodo – le regole tradizionali sono state sovvertite. Si pensi al dialogo tra Agostino [Nando Bruno], il sagrestano di don Pietro, e il brigadiere [Eduardo Passarelli] mentre è in corso l’assalto delle donne al forno (ad Agostino che chiede: «E voi che fate?», il brigadiere risponde: «Io, purtroppo, sono in divisa»9) o a Pina [Anna Magnani] che si confessa per strada con don Pietro [Aldo Fabrizi]. Vede però anche una comunità molto salda e unita (un caseggiato popolare dove le famiglie sono legate da un comune senso di appartenenza, le porte sono aperte e si passa da un’abitazione all’altra e il parroco è la figura centrale che rappresenta l’intera collettività) contro il «comune nemico»10. Una comunità dalla quale si sono volontariamente autoesclusi alcuni individui, anzi, per essere precisi, a parte la 6
L’intervista apparve sui «Cahiers du cinéma», n. 50, agosto–settembre 1955. Tempestivamente tradotta da «Cinema nuovo», è ora compresa in R. Rossellini, Il mio dopoguerra, a cura di G. Fofi, Roma, Edizioni e/o, 1995, pp. 19–21. 7 Ivi, p. 21. 8 Cfr. P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 175ss. 9 Ivi, p. 176. 10 A don Pietro che gli chiede come mai non si faccia vedere da tempo in parrocchia Marcello risponde che «de ’sti momenti» non si può perdere tempo in Oratorio: «Lei fa il prete e nun po’ capì. Ma bisogna strigne un blocco compatto contro il comune nemico».
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figura del questore e dei pochissimi fascisti che si vedono (il tenente toscano durante la retata in cui troverà la morte Pina e qualche milite che si vanta delle sue conquiste amorose grazie alla paura di «via Tasso», la caserma dove la Gestapo rinchiudeva e torturava i prigionieri politici), solo due donne: Lauretta [Carla Rovere], la sorella di Pina, vicina ai tedeschi, ma comunque con un ruolo marginale (non è «cattiva» – terrà a precisare Pina – «è stupida!»), e l’«attrice di riviste» (così ce la presenta il maggiore Bergmann, interpretato dal ballerino austriaco Harry Feist, doppiato da Giulio Panicali) Marina [Maria Michi], tossicomane, dai facili costumi, lesbica: un personaggio in definitiva immediatamente riconoscibile come negativo, la cui devianza sessuale è il segno più eclatante della sua sostanziale diversità11. Ma c’è di più. Il tradimento di Marina è la conseguenza dell’abbandono delle proprie origini e delle proprie tradizioni: Pina – Si meraviglia lei, eh? Chi sa quante bugie gli avrà raccontato, che abita chi sa dove, eh?… Si vergogna de noi, perché dice che lei fa l’artista e noi siamo poveri operai […] Ma lei come conosce Lauretta? Oh, scusi tanto, sono indiscreta… Manfredi – No. Lauretta è molto amica di una ragazza che io conosco. Pina – Chi?… Marina?… Manfredi – Ah!… la conosce? Pina – Oh, da quando è nata. La madre faceva la portiera a via Tiburtina, dove mio padre c’aveva un negozio da stagnaro. Lei e Lauretta si può dire che so’ cresciute insieme. Ma mi raccomando… non dica niente a Marina di quello che gli ho detto, mi raccomando proprio… eh!… Manfredi – No, non dubiti. E poi io non la vedrò più. Pina – E perché? Manfredi – Non so perché, ma sento che è una cosa che deve finire. Del resto è durata anche troppo […]… non è una donna per me. Forse l’avessi conosciuta prima, quando era a via Tiburtina…
Marina è colpevole prima di tutto di essersi allontanata da quei modelli e da quei valori che hanno regolato e scandito la vita della comunità (lo stesso cammino intrapreso da Lauretta che vedremo abbandonare la casa di Pina) per rincorrere un illusorio benessere. Si è allontanata, in definitiva, dalla sua cultura, che non può che essere – su questo il film sembra non avere dubbi – quella cattolica. 11 Cfr. R. Ben–Ghiat, Liberation: the Italian Cinema and the Flight from the Past, in AA.VV., Italy and America 1943–44. Italian, American and Italian American Experiences of the Liberation of the Italian Mezzogiorno, Napoli, La città del sole, 1997, p. 469.
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La conferma viene dalla centralità del personaggio di don Pietro: a Manfredi che le chiede come mai si sposi in chiesa, Pina risponde: «Sì, Francesco non voleva, veramente, ma io gli ho detto: è meglio che ci sposa don Pietro, che almeno è uno dei nostri, piuttosto che andacce a fà sposà al governatorato da un fascista, ve pare?», aggiungendo subito dopo: «Sì, la verità è… che io… ci credo a Dio». Parallelamente, è dalla parrocchia di don Pietro che si dipartono le azioni più significative del film, anche la più terribile, quella che sanziona il passaggio alla Roma “chiusa”, “scura”, “altra” in definitiva, del comando Gestapo a via Tasso12: la cattura di don Pietro, Manfredi e del disertore austriaco, infatti, avviene all’uscita dalla chiesa. Come è stato notato, don Pietro, a differenza di Manfredi, che non parla mai del suo credo politico, spesso fa riferimento alla carità cristiana e alla sua fede: ancora, Manfredi, morente, viene inquadrato e raffigurato come un Cristo13, mentre la morte di Pina ricalca una delle icone classiche della cristianità, la deposizione–pietà, in particolare quella di Michelangelo, con una significativa inversione dei ruoli: non una madre che sostiene il corpo di un uomo-dio, ma un uomo, rappresentante di Dio in terra, che sostiene il corpo di una donna-madre. Una conferma di quanto fosse diventato centrale il ruolo della donna con la seconda guerra mondiale14. E non è improbabile – anche questo è stato sottolineato – ipotizzare un significato preciso anche nel nome assunto da Manfredi nell’ultima parte del film: Giovanni Episcopo («episcopo», un termine desueto per indicare «vescovo»)15. Di derivazione cattolica, inoltre, è l’immagine della guerra come castigo divino volto a punire gli uomini per i loro peccati: «Tanti mi fanno questa domanda, sora Pina. – afferma don Pietro rispondendo a Pina nella citata “confessione” per
12
«Da una parte gli spazi “aperti”, luminosi delle abitazioni e della canonica di don Pietro, dall’altra quelli “chiusi, oscuri, claustrofobici dei tedeschi. E poi gli spazi di confine: la terrazza da cui Manfredi fugge, la cantina e i lavatoi del casamento di Pina, la tipografia della stampa clandestina, quasi una sorta di «spazi catacombali» per novelli cristiani che vi trovano «l’unico rifugio possibile per sfuggire alla furia dei nazisti, animati da una ferocia pagana». Cfr. D. Bruni, Roberto Rossellini. Roma città aperta, Torino, Lindau, 2006, pp. 126ss., che ricorda come il luogo più importante del film, «tra quelli disposti in prossimità della soglia e con la funzione di attraversamento, è la rampa di scale del casamento popolare» (p. 129). 13 Sorlin, La storia nei film, cit., p. 179. 14 Cfr. E. Galli della Loggia, Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in A. Bravo, a cura di, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma–Bari, Laterza, 1991, pp. 26–27. 15 E. Seknadje–Askénazi, Il “dopoguerra” di Rossellini, «Il nuovo spettatore», n. 2, 1998, p. 38.
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strada – Cristo non ci vede? Ma siamo sicuri di non averlo meritato questo flagello? Siamo sicuri di aver sempre vissuto secondo le leggi del Signore? E nessuno pensa di cambiar vita, di ravvedersi. Poi, quando i nodi arrivano al pettine, tutti si disperano e si domandano: ma non ci vede il Signore, non ha pietà di noi il Signore?». Tutti sono colpevoli. Gli unici innocenti – per ragioni anagrafiche – sono i bambini. Sono gli unici, infatti, che non pagano per l’attentato commesso. A loro è affidato il futuro, che si presenta ancora incerto (si pensi alla scena finale con i bambini che, dopo aver assistito alla fucilazione di don Pietro, si incamminano verso la città, sotto un cielo livido), a loro è affidato quel «mondo migliore» che i semplici e gli umili istintivamente sentono che arriverà. Nell’unico dialogo del film tra Francesco [Francesco Grandjacquet] e Pina, quest’ultima è affranta e sconsolata: spaventata per l’assenza del figlio Marcello (e di tutti gli altri bambini del condominio) ha finito per litigare con la sorella Lauretta che minaccia di non partecipare al suo matrimonio il giorno dopo. Storia privata e storia collettiva si intrecciano: «Ma quando finirà?… Ci so’ dei momenti che non ne posso proprio più. St’inverno sembra che non debba finire mai!» E Francesco di rimando: Finirà, Pina, finirà… e tornerà pure la primavera, e sarà più bella delle altre, perché saremo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo!… Vedi… io queste cose le so, le sento, ma… non te le so spiegare. Lui sì saprebbe farlo: lui è un uomo istruito, che ha tanto studiato, viaggiato… Sa parlare bene, lui… Ma io credo che sia così; che non dobbiamo aver paura né oggi, né in avvenire. Perché siamo nel giusto, nella via giusta. Capisci, Pina? […] Noi lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire! Forse, la strada sarà un po’ lunga e difficile… Ma arriveremo, e lo vedremo un mondo migliore! E soprattutto lo vedranno i nostri figli! Marcello e… e lui: quello che aspettiamo. Per questo non devi aver paura mai, Pina… qualunque cosa succeda…
Sarà Marcello [Vito Annichiarico] a salvare Francesco, richiamandolo per dargli la sciarpa di Pina. Ma è don Pietro che si occupa di Marcello dopo la morte della madre. È la parrocchia il luogo dove i ragazzi si ritrovano. È a don Pietro che Marcello ricorre per evitare che i tedeschi trovino le armi nascoste da Romoletto. Come dire che alla Chiesa è dato il compito di educare, guidare e assistere coloro cui toccherà ricostruire l’Italia, perché solo la cultura cattolica può salvare l’Italia. Non altre, che vengono dall’esterno, da uno «straniero». Don Pietro dà a Manfredi una nuova identità («Mi ha ringiovanito di due anni», esclama quest’ultimo, sorridendo, quando il prete gli consegna
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il nuovo documento di riconoscimento) e in definitiva finisce con il “salvarlo”, infondendogli la forza di non tradire i generali badogliani: «Non hai parlato!», esclama, vedendone il corpo martoriato. Poco prima, Bergmann aveva ironizzato con il maggiore Hartmann: «Un prete pregherà per lui perché non parli». Al contrario, Manfredi non riesce a “salvare” Marina: nell’ultimo drammatico colloquio tra i due, la donna conclude: «Se tu mi avessi veramente amata mi avresti cambiata, ma tu sei come tutti gli altri. Anzi peggio… perché almeno gli altri non mi fanno la predica!». Roma città aperta ebbe uno straordinario successo all’estero (un anno e mezzo in programmazione al World Theatre di New York), e, contrariamente a quello che si verificherà negli anni successivi per gli altri film neorealisti, più apprezzati fuori d’Italia, un buon risultato anche nel nostro Paese: primo posto nella stagione 1945/1946. Un’affermazione, frutto sicuramente della sua validità: Flaiano scrisse che il film raccontava quanto era successo pochi mesi prima «senza sforzo apparente e senza grandi invenzioni. Rossellini si serve di case vere, di uomini veri, di frasi vere: l’effetto è raggiunto così con mezzi quotidiani, copiando la vita con la puntigliosità di chi la vede soltanto nelle apparenze. Rossellini si vieta di proposito ogni indagine lirica»16. Dal canto suo Mario Gromo si entusiasmava per un film «nostro, sentito e sincero, meditato e sofferto: un film che affonda le sue radici nel nostro più recente passato, e sa esprimerlo con una semplicità pensosa, immune d’incrostazioni retoriche, di virtuosistiche variazioni»: «Andatevelo a vedere, – concludeva – non lasciatevi sfuggire quest’ottima occasione per sinceramente ricredervi sulle più vere possibilità del nostro cinema»17. Il successo della pellicola fu, però, anche il risultato della strategia promozionale messa in atto, sulla quale si tende spesso a sorvolare18, e soprattutto dell’immagine della Resistenza che ne usciva 16 E. Flaiano, Città aperta, «Domenica», 30 settembre 1945, successivamente in Id., Lettera d’amore al cinema, cit., p. 82. 17 M.G., Cinema e teatri. Roma città aperta, di R. Rossellini, «La Nuova Stampa», 18 novembre 1945. 18 Il film, dopo l’anteprima del festival del Cinematografo a Roma il 24 settembre 1945 e due proiezioni il 27 e 28 settembre al «Quirinetta», iniziò a circolare a Roma il 9 ottobre al Capranica e all’Imperiale, due sale capaci di 2500 posti complessivi. «Il lancio pubblicitario sui quotidiani fu pari a quello dei film americani, con lo spazio dei tamburini dedicato solo a Roma città aperta a partire dal 3 ottobre» e con bene in vista i nomi dei due protagonisti, Fabrizi e la Magnani (assente quello di Rossellini), nomi che campeggiavano già da mesi sui manifesti della città per i loro spettacoli di varietà. La tenitura romana in prima visione fu di 48 giorni, per cui, quando la pellicola uscì in seconda visione a novembre poté essere pubblicizzata come «il più grande successo della stagione». «Complessivamente,
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fuori. Presentare un popolo compatto e unito contro i tedeschi, con i fascisti quasi assenti del tutto e, comunque, relegati a un ruolo marginale, veniva incontro a esigenze e bisogni largamente diffusi, in primo luogo l’eliminazione di ogni aspetto della Resistenza come guerra tra italiani e, contemporaneamente, la rimozione di un passato recente dove una qualche connivenza con la barbarie e la ferocia dei tedeschi si era pur verificata. Temi, soprattutto il primo, graditi ai moderati ma anche a sinistra, come mostrano le recensioni di Montanelli sul «Corriere d’Informazione»19 e di Barbaro su «l’Unità»20, e che avrebbero costituito nei primi anni del dopoguerra i cardini sui quali si sarebbe basata la rappresentazione della Resistenza messa in campo dalle classi dirigenti repubblicane21. L’adesione alla Resistenza, dettata dal sentimento e non dalla ragione («Vedi… io queste cose le so, le sento, ma… non te le so spiegare»), diventava una scelta “naturale” della quasi totalità del popolo italiano, che, istintivamente, era portata a schierarsi contro i tedeschi, riconoscendo nella religione cattolica le radici vere della nostra cultura («don Pietro è uno dei nostri»). Era, d’altra parte, quanto notava la critica americana allo “sbarco” di Roma città aperta negli USA. Su «l’Unità» Umberto Barbaro ricordava l’ampio studio di
per il film di Rossellini, ci fu pertanto un lancio scintillante e dinamico, che contrastava curiosamente con la povertà di mezzi con cui era stato girato, se si pensa che solo un mese prima dell’uscita non c’era il denaro per registrare il sonoro» (P. Lughi, Il neorealismo in sala. Anteprime di gala e teniture di massa, in A. Farassino, a cura di, Neorealismo. Cinema italiano 1945–1949, Torino, E.D.T., 1989, pp. 53–54). 19 Dopo aver sottolineato che si trattava di «un film notevole» Montanelli evidenziava come Rossellini, dopo aver in sostanza resistito alla retorica del regime, avesse saputo opporsi anche a quella imperante nel dopoguerra: «Resistere alla retorica allora era difficile; ma forse ancora più arduo era opporvisi all’indomani della liberazione in un film sulla resistenza. Non nascondiamo che, affrontando la prova, eravamo noi stessi prevenuti. Invece non c’è nulla da eccepire. E crediamo di non dire niente di esagerato affermando che forse questa è la prima pellicola europea del dopoguerra che può reggere vittoriosamente il confronto con quelle americane sulla lotta anti–fascista […] Rossellini ha diretto con implacabile mano senza mai consentire agli attori di recitare senza nulla concedere alla propaganda senza nemmeno lasciar pronunciare una sola volta la parola “fascismo”» (i.m., Rassegna cinematografica. Roma città aperta, «Corriere d’Informazione», 24 ottobre 1945). 20 «La vita di un casamento popolare e l’unanime sentimento di odio di tutti gli inquilini per i nazi–fascisti, la scellerata casa di via Tasso e tutti i suoi sporchi e miserabili retroscena di corruzione e di perfidia, lo squallore delle vie cittadine nelle notti del coprifuoco e gli arresti, le torture, i delitti, le bieche figure di Caruso e di Dollmann, tutto qui è ricordato, con oggettività priva di retorica e con implicita una valutazione politica così assennata ed equa che il film merita indubbiamente il plauso di tutti gli onesti» (U. Barbaro, Roma città aperta, «l’Unità», 26 settembre 1945). 21 Cfr. M. Ponzani, Il mito del secondo Risorgimento nazionale. Retorica e legittimità della resistenza nel linguaggio politico istituzionale: il caso delle Fosse Ardeatine, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, n. 37, 2003, Firenze, Leo S. Olschki, 2004, pp. 202ss.
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Dorothy Thomson sul film di Rossellini significativamente intitolato I costruttori della pace. La «solidarietà» tra gli antifascisti – notava la giornalista americana – nasceva non da un’identità di visioni politiche, ma dai più elementari diritti umani calpestati e oltraggiati dai nazifascisti: non era un caso che i due protagonisti fossero un prete e un capo comunista. In definitiva, il film mostrava l’aspirazione alla pace di tutto un popolo costretto a fare una guerra non voluta. E qui, nel dare un’immagine di un’Italia fortemente contraria alla guerra e all’«avventura fascista», risiedeva – notava Barbaro – il valore “politico” della pellicola di Rossellini che tanto giovava alla causa italiana negli Stati Uniti22. La Resistenza e gli ultimi anni della guerra costituivano il tema centrale della quasi totalità dei lungometraggi italiani presentati alla Mostra di Venezia che il 31 agosto 1946 riapriva i battenti dopo tre anni di silenzio. Dei cinque film, Montecassino, Paisà, Il sole sorge ancora, Pian delle stelle, Eugenia Grandet l’unico che non avesse niente a che fare con guerra e resistenza era l’ultimo. Il «Corriere della Sera» notava come i nostri autori si fossero gettati sui recenti avvenimenti senza «il necessario distacco» e «con un’irruenza eccessiva», finendo con il ricalcare «i più noti luoghi comuni»: Il pubblico, quanto a sé, non nasconde una certa noia o una certa delusione davanti a questi film i quali non fanno che ripetere male quello che tutti ormai conoscono bene. Ad un certo punto si domanda, non senza ragione, se tali sfoghi di retorica patriottica non nascano da calcoli di opportunità politica che interessano unicamente i loro autori. Una cosa comunque è certa: tutti raccontano storie di guerra e storie partigiane, ma nessuno ancora è riuscito a raccontarle sullo schermo col tono e l’ispirazione di chi ha scoperto un mondo: cioè da artista»23.
Era una critica ingenerosa, almeno per quanto riguardava alcuni film, anche se va sottolineato che coglieva un atteggiamento del pubblico che, vuoi per aver già vissuto “dal vivo” le scene riproposte sullo schermo, vuoi per la retorica o le tinte fosche e prive di ogni speranza che caratterizzavano alcune pellicole (in Pian delle stelle, ad esempio, gran parte dei protagonisti moriva sopraffatta dall’attacco tedesco e i partigiani sembravano, come notava Arturo Lanocita sul «Corriere della Sera», non partecipare attivamente al conflitto, limitandosi «a 22 U. Barbaro, Successo artistico e politico di “Roma città aperta” in America, «l’Unità», 4 aprile 1946. 23 g.v., Cinematografia della resistenza, «Corriere della Sera», 17 settembre 1946.
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segregarsi e a difendersi»24), iniziava a rifiutare le produzioni che potevano ricordare avvenimenti dolorosi e tragedie ancora presenti per rifugiarsi in pellicole d’evasione e di intrattenimento. Lo confermavano gli incassi al botteghino dove film comici, operistici e feuilletton soppiantavano le pellicole di marca neorealista25. Era quanto succedeva ad esempio con Paisà, girato nel 1946 e arrivato nelle sale a ridosso della primavera dell’anno successivo. Il film suscitò l’entusiasmo della critica26, in particolare di quella straniera: negli USA i critici cinematografici del National Board of Review definirono Paisà «il miglior prodotto cinematografico del 1948, e il suo
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lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 23 marzo 1947. Cfr. P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932–1962), Napoli, Liguori, 2009, pp. 391ss. D’altra parte, già nel 1957 Callisto Cosulich notava che, se era indiscutibile la supremazia dei film neorealisti nel primo anno del dopoguerra, bisognava sempre tener presente «la inondazione del mercato» da parte delle pellicole americane «che il pubblico accorre in massa a vedere, spinto soprattutto dal quinquennale, forzato distacco dai film americani e dai beniamini di Hollywood. Al cinema italiano non vanno che le briciole di questo pantagruelico pasto, ed è sulle briciole che si eserciterà la effimera prevalenza del neorealismo». Se l’annata successiva era ancora «buona» per il neorealismo, il 1947 segnava «un primo tracollo della produzione neorealistica, sia sul piano della quantità che su quello della qualità e del rendimento. Il miglior film dell’anno, Caccia tragica, si classifica ventottesimo sui 54 film immessi in circolazione, con un incasso irrisorio. Si salva L’onorevole Angelina, grazie all’enorme popolarità di cui allora godeva Anna Magnani» (C. Cosulich, La battaglia delle cifre, «Cinema Nuovo», n. 98, 15 gennaio 1957, pp. 19–20). 26 Due esempi, Umberto Barbaro su «l’Unità» iniziava la recensione scrivendo che Rossellini aveva, «per dirla col gergo degli sportivi, battuto gloriosamente il suo stesso record: ha dato cioè un’opera altissima, ancor più complessa e valida, artisticamente, del suo precedente Roma città aperta […] La caratteristica peculiare del Rossellini, che ne fa una personalità spiccata e pressoché unica fra gli artisti del film, è la pronta aderenza ai più sentiti, vivi, attuali, problemi; e la sua vena poetica sa esprimerli, con stupenda immediatezza drammatica, soffusa tuttavia di un sapore di trepida e delicata energia» (U. Barbaro, Paisà: un film che fa onore all’Italia e alla resistenza, «l’Unità», 8 marzo 1947). Non diversi i toni di Gian Luigi Rondi su «Il Tempo»: «Con Roma città aperta l’occupazione nazista ha trovato in Roberto Rossellini il narratore crudo e angosciato. La liberazione lo ha oggi con Paisà poeta tragico e amaro; la facilità retorica delle bandiere al vento non ha avuto posto in questa cupa vicenda che ripete in tutte le lingue d’Italia, senz’ombra di epopea, la faticosa resurrezione della nostra gente» (G.L. Rondi, Prima delle “prime”. Film italiani 1947–1997, Roma, Bulzoni, 1998, p. 37). Qualche riserva su «La Stampa». Glauco Pellegrini giustificava, alla prima del film a Venezia, qualche momento non felice con l’impossibilità di ultimare il montaggio: «C’è però – concludeva – in Paisà un’umanità vista con occhio affettuoso, consapevole; e ci sono pagine della cronaca dei nostri ultimi due anni. Cosi, a Rossellini, spetta in definitiva il merito di aver fatto il miglior film che l’Italia abbia quest’anno presentato a Venezia» (gl. p., Chiusura a Venezia con “Paisà” di Rossellini, «la Stampa», 19 settembre 1946). Più netto il giudizio di Mario Gromo: «È una formula assai difficile, quella del film ad episodi […] Così il breve bozzetto si alterna al brevissimo dramma, ma nessuno dei sei episodi giunge a una sua convincente evidenza. Ci spiace, e molto, di doverci così esprimere dei nostri migliori, più intelligenti registi, ma appunto perché tale, non è Rossellini che debba essere trattato con ipocriti riguardi o evasive allusioni» (m. g., Cinema. Paisà, di R. Rossellini, «La Nuova Stampa», 11 dicembre 1946). 25
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regista, Roberto Rossellini, il miglior regista comparso sugli schermi americani». Era la prima volta, tra l’altro, che tale riconoscimento andava a una pellicola straniera27, che invece in Italia non fece breccia nel cuore del pubblico: quattordicesimo posto nella classifica degli incassi. Meno immediata e più articolata, ma in sintonia con quella di Roma città aperta, era l’ipotesi di fondo di Paisà: l’incontro tra italiani e americani, due popoli così diversi, poteva avvenire solo nel momento nel quale il popolo italiano avesse ritrovato i valori fondanti sui quali ricostruire la sua identità e una nuova idea di comunità nazionale. All’inizio i soldati alleati che risalgono la penisola trovano una società disgregata con la quale è impossibile comunicare28, anche se fin dal primo momento, istintivamente, qualcuno si schiera con loro: una ragazza siciliana, Carmela, si offre di accompagnare il drappello americano nel castello dove sono asserragliati i tedeschi. In Sicilia, comunque, prevale la diffidenza: «Luca… l’americano di Gela è…», afferma uno dei paesani che si sono rifugiati nella chiesa e l’altro, di rimando: «Non c’è nessun Mascali a Gela… Iddu non è di Gela… Vengono qua e contano un sacco di storie. E vonno che ci credete». Diffidenza ricambiata dai soldati, che ostentano disprezzo nei confronti degli italiani (chiamati «Eyeties»): «This guy says the Krauts went north». Nella rocca poi assistiamo al tentativo di dialogo tra Joe e Carmela, ma anche qui regnano l’incomprensione e la diffidenza: «Site tutti uguali: voi, i tedeschi, i fascisti. Tutti chiddi ch’avete u fucile in mano. Tutti istessi site». Joe cerca di rabbonirla, inizia a ricordare casa: «I wish I were home», ma Carmela capisce «comme». È l’epilogo, comunque, a darci il senso dell’impossibilità dell’incontro. Tutto procede per istantanee che sembrano quasi slegate le une dalle altre. Prima Joe viene ammazzato dai tedeschi penetrati nella rocca. Poi Carmela scopre il cadavere e prende il fucile. La vediamo sparare sui tedeschi. Bruscamente ricompaiono i soldati americani che hanno udito gli spari (nel frattempo i tedeschi se ne sono andati). Inutile il loro arrivo: non trovano nessuno se non il cadavere di Joe, ma non riescono a vedere quello di Carmela buttato giù sulla scogliera. Il commento è un laconico: «Why, little dirty Eyetie?». Il secondo episodio mostrava un incontro, ma era un incontro tra emarginati (il soldato nero, Joe, che di fronte al degrado e alla 27
Paisà il miglior film visto in America nel 1948, «Stampa Sera», 22 dicembre 1948. R. Campari, La presenza dell’America e i rapporti con il cinema americano, in G.P. Brunetta, a cura di, Identità italiana e identità europea nel cinema italiano, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, pp. 194–195. 28
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miseria della grotta nella quale vive il piccolo Pasquale rinuncia alle sue scarpe): rimane, comunque, ancora l’impossibilità di uno scambio culturale (a Pasquale non piace lo spiritual Nobody Knows che Joe suona con l’armonica)29. Il terzo rendeva in immagini la scomparsa – sottolineata già dalla stampa30 – di quel «clima amichevole, e quasi diremmo idilliaco» che aveva caratterizzato i rapporti tra italiani e Alleati nei primi mesi dello sbarco. «Girls were all happy and laughing and fresh… full of color… beautiful… gave us a funny feeling. And now it’s all different», ricorda Fred tra i fumi dell’alcool, pensando al buffo tentativo di incontro con Francesca, tra note strimpellate e improbabili brani di conversazione tratti da manuali scolastici. Ma, passata la sbornia, il ritorno al passato si rivelerà impossibile. Francesca aspetterà inutilmente Fred, come Fred non ritroverà la ragazzina innocente che gli ha alleviato la sete e la stanchezza in un caldo giorno di giugno. Alla fine, gettando il foglietto datogli da Francesca, esclamerà: «Aw, the address of a whore». Per inciso, era questo l’episodio che più convinceva il critico del «Corriere della Sera, Arturo Lanocita che sottolineava nell’episodio romano la mancanza di «quell’aura di ottimismo un tantino ridondante» che caratterizzava la pellicola: «La maggiore vigoria del film è nella sua pagina più amara»31. Il quarto episodio ci porta a Firenze. Ma è una Firenze particolare quella che il film ci presenta: una Firenze dove la vita si svolge in compartimenti stagni e c’è un’altra città che vive sui tetti e nelle scale dei palazzi, una città spettrale, dove si passa rapidamente da una luce violenta e accecante (in alcune scene Massimo inforca gli occhiali scuri) a zone di profonda oscurità32, dove il procedere del piccolo corteo della Croce Rossa finisce per sembrare una processione di monatti che trasportano il cadavere di un appestato. E tale è la Firenze non ancora «liberata»: una città “appestata”, dove regnano la morte e la malattia, una sorta di “città–tabù» (Massimo e Harriet riescono a penetrarvi a fatica, dopo molteplici divieti), dove gli opposti si toccano, fascisti e partigiani sono a pochi metri di distanza, morte e vita si alternano continuamente. Un luogo, pertanto, indecifrabile e, soprattutto, inenarrabile. Massimo compare per la prima volta nel cortile di Palazzo Pitti. Lo vediamo aggirarsi alla ricerca di informazioni sulla sua famiglia. Riconosce una signora che abitava di fronte. 29 30 31 32
Ibid. 1° Ottobre, «Risorgimento», 1° ottobre 1944. lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 14 dicembre 1946. Seknadje–Askénazi, Il “dopoguerra” di Rossellini, cit., p. 72.
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Le chiede notizie e questa risponde con aria assente: «Eh, l’è la fine del mondo, figliolo mio, la fine del mondo, perché si è tanto peccato». Anche l’uomo che le sta vicino, il figlio, non ne sa di più: «Ma che la vuole lei che si sappia noi, con tutto quello che è successo!» Non sappiamo che esito avrà la ricerca di Massimo. Quella di Harriet risulterà negativa: l’amico che cercava, il pittore Guido Lombardi, il partigiano che col nome di Lupo è diventato un vero e proprio mito per i compagni, è morto. E l’episodio si chiudeva con Harriet che, seduta per terra, tiene in grembo un partigiano ferito (una sorta di rovesciamento dell’immagine di Roma città aperta con don Pietro che sosteneva il corpo esanime di Pina), invocando accoratamente il nome dell’amico ucciso: «Lupo, Guido!». Al nome di battaglia segue, dunque, quello da civile. Anche qui, come nel caso di Manfredi che assumeva la nuova identità di Giovanni Episcopo, il nome – è stato sottolineato – non è casuale e va inteso in senso letterale: «Guido, è o era la guida, colui che ha mostrato e mostra il cammino»33. Ed è stato altresì notato come il «modello figurativo» dell’episodio possa essere quello della «Passione di Cristo», per cui l’intero percorso diventa una sorta di viaggio iniziatico, con l’immagine finale di Harriet che significativamente richiama quella classica della Madonna che regge Gesù34. Occorre, dunque, una «guida» per orientarsi in una realtà labirintica e ormai incomprensibile (più volte Massimo ed Harriet sono costretti a chiedere informazioni e a compiere lunghi giri per raggiungere la mèta desiderata, che sembra allontanarsi sempre) e questa guida non può che essere la religione cattolica. Si inizia a chiarire la tesi centrale del film. Le incomprensioni, le differenze, la distanza tra i due popoli, che ne hanno marcato la prima parte, pian piano iniziano a sfumare per annullarsi nel sesto e ultimo episodio, «Porto Tolle, sul delta del Po» («Al di là delle linee, i partigiani italiani e i soldati americani dell’OSS, fraternamente uniti, combattono una battaglia che i bollettini non registrano, ma forse più dura, più difficile, più disperata», è il commento iniziale affidato alla voice over), in quella comunione esemplificata dal pranzo dell’americano Dale in casa dei contadini, che poi, proprio per questo, verranno uccisi dai tedeschi. Finale che viene subito dopo l’episodio «Appennino Emiliano» (girato a Minori in Costiera Amalfitana), nel quale tre cappellani 33
Ibid. F. Casetti, F. di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, 1990, pp. 42ss. Per «modello figurativo» si intende «quello che fornisce del testo analizzato una sorta di “immagine” complessiva, in grado di concretizzarne andamenti e strutture» (ivi, p. 42). 34
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dell’esercito statunitense (un prete cattolico, un pastore protestante e un rabbino ebreo) trovano ospitalità in un convento di frati. Qui le certezze di Bill Martin, il prete, vengono infrante dalla loro fede: di fronte al digiuno con cui i monaci implorano la misericordia divina perché converta alla «vera religione» gli altri due cappellani, Bill ringrazia i suoi ospiti per avergli dato «quella serenità di spirito» perduta «negli orrori e nelle miserie della guerra. Bella e commovente lezione di umiltà, semplicità e pura fede». Come dire che il modello americano, quel modello che tiene insieme religioni e culture diverse, non era applicabile all’Italia. L’indicazione di Paisà – soprattutto se si tengono presente gli episodi precedenti, in particolare quello fiorentino, con la città «appestata» e divisa in zone che non comunicano tra di loro – era, dunque, chiarissima. Solo partendo dalle vere radici della nostra civiltà millenaria («Sapete, non posso evitare di pensare che al tempo in cui questo monastero fu costruito, beh, l’America non era nemmeno stata scoperta… un immenso luogo selvaggio! – afferma Martin rivolto agli altri due cappellani – Questi muri… questi ulivi… quel campanile erano già qui… Vedete come sono consumate queste scale? I passi dei monaci per cinquecento anni»), quelle cattoliche, diventava possibile confrontarsi con gli altri e ridare un’identità forte a un Paese uscito distrutto, dal punto di vista dei valori fondanti della comunità nazionale, dall’esperienza del fascismo e della guerra35. Le due pellicole di Rossellini sottolineavano come la Resistenza assumesse i caratteri di una reazione di natura principalmente etica, dando luogo a un’azione, interclassista e quasi sempre spontanea, che vedeva impegnata, istintivamente, “naturalmente”, la quasi totalità della popolazione italiana. Tra il 1945 e il 1947 avrebbero circolato per le sale – come si diceva – poco più di una dozzina di film incentrati sulla Resistenza. Tra questi ne ricordiamo solo alcuni, iniziando da O sole mio, definito da Goffredo Fofi, una «sceneggiata resistenziale», di gran lunga preferibile 35 Un’interpretazione, questa, in certo senso avvalorata dallo stesso Rossellini, che, in un colloquio con Mario Verdone pubblicato su «bianco e nero» del febbraio 1952, affermava: «La capacità di vedere l’uno e l’altro aspetto dell’uomo, la benevolenza nel considerarlo, mi sembra un atteggiamento squisitamente latino e italiano. È il frutto di una data civiltà, è l’abitudine nostra, antichissima, di considerare l’uomo sotto ogni suo aspetto. Per me è straordinariamente importante essere nato in siffatta civiltà. Ritengo che ci siamo salvati dai disastri della guerra, e da sciagure non meno terribili, proprio per questa nostra concezione della vita, che è prettamente cattolica» (Ora, in R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 93–94).
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«al ben più retorico e populista Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy»36. Come nelle sceneggiate tradizionali il Bene (il popolo napoletano e i partigiani) e il Male (i tedeschi e i pochi italiani schierati con loro) si fronteggiano e alla fine è il primo a trionfare. Né manca la storia d’amore e, persino, una sorta di triangolo: il protagonista, Giovanni [Tito Gobbi], sembra oscillare (in realtà ha già deciso dal primo momento) tra due donne: una, Graziella [Adriana Benetti], semplice, pura, tipica rappresentante della parte migliore del popolo napoletano, l’altra, Clara [Vera Carmi], fredda, cinica, una persona che persino nel fisico – bionda e longilinea – somiglia a quei tedeschi ai quali si è legata. La situazione si risolverà grazie alla morte di quest’ultima, che, sacrificandosi per salvare il fratello Lorenzo [Carlo Ninchi], un colonnello dell’esercito che guida gli antifascisti napoletani, e i suoi compagni, riscatta il suo passato di spia. Ma forse, più che di sceneggiata, per O sole mio si potrebbe parlare di melodramma37: d’altra parte, la storia di Giovanni, il baritono italo–americano, ufficiale dell’esercito USA paracadutato nella città partenopea, che riesce a trasmettere preziose informazioni agli alleati cantando da Radio Napoli, costituiva il pretesto per mettere in rilievo le grandi doti canore di Gobbi. In ogni caso, la pellicola aveva il merito non solo di celebrare tempestivamente le Quattro Giornate, ma anche di farlo senza cadere nella vuota retorica, con una ricostruzione talmente realistica del clima della Napoli occupata dai tedeschi da far sì che in epoca successiva molte sequenze fossero ritenute vere, girate cioè sul momento e come tali inserite in alcuni documentari sulle Quattro Giornate38. Il film inoltre fornisce – e per noi questo è un dato importante – un quadro molto interessante della resistenza partenopea: per gli autori essa nasce anzitutto dalla stretta collaborazione tra ufficiali alleati (Giovanni) e gli antifascisti locali, in gran parte esponenti della classe media. Le classi popolari stanno ancora a guardare, anche se si va diffondendo un’illegalità di massa che si manifesta nella diffusione del mercato nero. Solo in un secondo momento, di fronte alle vessazioni e alle crudeltà messe in atto dai tedeschi (che culminano nella 36 G. Fofi, Erano tempi bui, in Cineromanzo. Il cinema italiano 1945–1953, a cura di L. Pellizzari, Milano, Longanesi, 1978, p. 5. Il soggetto di O sole mio era di Mario Amendola e Vincenzo Rovi, apprezzati autori di riviste di varietà, la sceneggiatura di Akos Tolnay e Mario Sequi, i dialoghi di Gaspare Cataldo, la regia di Giacomo Gentilomo. Sul film, cfr. anche P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi immagini testimonianze, Napoli, 2000, pp. 110ss. 37 F. Di Giammatteo, Lo sguardo inquieto. Storia del cinema italiano (1940–1990), Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 78–79. 38 Iaccio, Cinema e storia, cit., p. 113.
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sequenza del marinaio fucilato sullo scalone dell’università), esse prenderanno parte attiva alla rivolta39. È il momento migliore del film: le sequenze diventano brevissime, le azioni veloci, concitate. Un popolo intero combatte vicolo per vicolo, casa per casa la battaglia fino alla capitolazione tedesca, quando la gente festante si riversa nelle strade e la macchina da presa si sofferma sui volti sorridenti di Giovanni e Graziella. Un film strano, dunque, che oscillava tra una visione spesso tradizionale della città partenopea, venata di nostalgia per una Napoli che sta scomparendo, stravolta (e in questo la pellicola riprendeva l’assunto di Monastero ’e Santa Chiara e di Napoli milionaria) dal mercato nero e dalla «ricchezza facile»40, e una sorprendente capacità di registrare la tragedia di una città terribilmente provata dalla guerra. Come è stato finemente sottolineato, «la caratteristica che rimane più impressa di tutto il film, è la particolare atmosfera che si respira, quell’aspetto dimesso della maggior parte dei personaggi, perfino di attori di primo piano, i loro volti scavati, gli abiti lisi, la materialità povera degli oggetti, i muri sbrecciati, i selciati polverosi dei vicoli»41. Nel 1946, in Avanti a lui tremava tutta Roma, Carmine Gallone, coadiuvato nella sceneggiatura da Gherardo Gherardi e Gaspare Cataldo, ambientava la vicenda della Tosca pucciniana nella Roma occupata dai tedeschi alla vigilia della offensiva alleata, giocando sul parallelo Ada-Tosca e Franco-Mario Cavaradossi. Ada [Anna Magnani, doppiata nelle parti liriche da Renata Tebaldi] e Franco [Gino Sinimberghi] sono due celebri interpreti lirici, legati anche sentimentalmente. Stanno preparando la messa in scena della Tosca davanti a tutto lo stato maggiore tedesco. La gelosia della prima, come nell’opera pucciniana, rischia di far scoprire la vasta rete antifascista della capitale e soprattutto mette a repentaglio la vita di Franco. Questi si salva grazie a un ingegnoso stratagemma elaborato dai macchinisti del teatro dove si sta svolgendo la rappresentazione dell’opera. Anche qui, come nei film precedenti, vediamo un popolo compatto nella lotta ai nazisti: tra l’altro Franco non sa che anche Ada fa parte della resistenza e si accompagna ai generali tedeschi unicamente per procurarsi denaro da 39
Ivi, pp. 118–119. Si veda ad esempio il dialogo tra Graziella e Giovanni, quando la prima sottolinea come l’agiatezza derivata dalla borsa nera abbia finito con lo stravolgere i modi di vita tradizionali: «Ecco… Quando uno ha preso le abitudini del ceto superiore, il giorno che la mutata fortuna lo costringe a ritornare nel suo ambiente non sa adattarsi […] A casa ora c’è l’abbondanza. Ma era meglio quando faceva il pescatore… cantava… rideva… ora invece vuol cambiare casa… anche mia sorella se ne vuole andare…». 41 Iaccio, Cinema e storia, cit., p. 120. 40
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destinare ai partigiani: «Ma sì, non sono quella che credi! – afferma rivolta a Franco – ci sono dentro anch’io… e non per combinazione come te!». Ancora una volta Gallone, dunque, ricorreva all’opera lirica, intrecciandola questa volta con un passato da poco trascorso, immaginandosi – scriveva Mario Gromo su «La Stampa» – «un Cavaradossi al cubo, Cavaradossi sulla scena e nella vita», anche se poi il film finiva per ricercare troppo «l’effetto per l’effetto», «il melodrammatico nel melodramma»42. Analogamente, Lanocita sul «Corriere della Sera» metteva in luce che il «parallelismo» che poteva anche risultare un’ingegnosa trovata della pellicola era «troppo accanitamente voluto», per cui le «due teatralità sovrapposte che dovrebbero fare del protagonista un eroe doppio non riescono a dare un doppio interesse al film, il quale poggia tutto sull’effetto, discutibile, ma di popolaresca comunicativa, della finale evasione». In coda Lanocita diventava feroce domandandosi per quale motivo la resistenza romana venisse rappresentata da questa e da altre pellicole come un movimento nato all’interno di «saloni sfarzosi pieni di stucchi e di dorature»43. Abbiamo già detto come tra le pellicole presentate a Venezia comparisse anche Il sole sorge ancora (regia di Aldo Vergano, soggetto di Giuseppe Gorgerino, sceneggiatura di Vergano, Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani). Il film era certamente il più politico tra quelli sulla Resistenza, anzi, come è stato definito, non «solo un film sulla resistenza, ma della resistenza» (Gorgerino e Vergano erano stati partigiani e la pellicola era prodotta dall’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, produttore già di Giorni di gloria e, successivamente, di Caccia tragica44): per Gian Piero Brunetta «esprime il punto di vista di chi ha fatto la lotta armata e, all’indomani della guerra, vuole avanzare un giudizio in termini di classe»45. Giuseppe De Santis ha rievocato in un’intervista concessa a Carlo Antonio Vitti i momenti precedenti la realizzazione del film, che doveva essere la 42
m.g., Cinema. Davanti a lui tremava tutta Roma, «La Stampa», 31 ottobre 1946. lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 3 ottobre 1946. 44 F. Cereja, La cinematografia sulla resistenza nella storia italiana (1944–1964), in AA. VV., Cinema storia resistenza 1944–1985, cit., p. 19. In un primo momento si candidò alla regia Goffredo Alessandrini, il cui nome suscitò la strenua opposizione di Giuseppe De Santis, Massimo Mida, Carlo Lizzani e Guido Aristarco: «… anche se oggettivamente Alessandrini era una persona perbene, – ha ricordato Giuseppe De Santis a Franca Faldini e Goffredo Fofi – il suo smaccato passato cinematografico di regista del fascismo strideva con il finanziamento dell’ANPI» (F. Faldini, G. Fofi, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935–1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 119). 45 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. III, Dal neorealismo al miracolo economico 1945–1959, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 450. 43
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rappresentazione della Resistenza così come si era svolta al nord, una sorta di «risposta del nord a Roma città aperta»:
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Infatti il film di Rossellini è un film che si sente che è stato prodotto in una capitale dove c’erano i ministeri, dove c’erano i politici, dove c’era il Parlamento, quindi è un film più di mediazione fra le varie forze politiche, mentre il nostro, fatto nel nord, dove si respirava un’aria un tantino più passionale e direi anche più radicale, è un film con un’ottica più di sinistra. La Resistenza è guardata con un’ottica più di sinistra perché, allora si diceva nell’ambiente politico, il vento del nord e il vento del sud per definire due fronti, il vento del nord che era un vento di sinistra e il vento del sud che era un vento di mediazione, di centro, di forze più conservatrici46.
Dedicata – come recita la didascalia iniziale – «ai caduti per la resurrezione della Patria», la pellicola narra le vicende di Cesare [Vittorio Duse]: il suo ritorno a casa, in paese, dopo l’8 settembre, il suo non volersi schierare («Non voglio più perdere altri anni inutilmente. Non sono più un ragazzo. Devo pensare al futuro. Un buon posto negli uffici della fornace, una vita tranquilla, un avvenire sicuro… Avrò diritto anch’io di farmi una famiglia!») e poi, successivamente, la crisi e l’adesione alla lotta armata contro i nazifascisti, fino alla sconfitta tedesca. Non manca, come in altri film, la storia d’amore. Anche qui un triangolo: Cesare e due donne, Laura [Lea Padovani], fiera antifascista, figlia di un operaio che è tra i capi della Resistenza (e questa è una novità rispetto ai film precedenti), e Matilde [Elli Parvo], la moglie di Stefano [Riccardo Tassani], il ricco proprietario terriero padrone della fornace dove lavora Cesare, bella donna dai molti amanti, che, come la Clara di O sole mio, si riscatterà nel finale avvertendo i partigiani e trovando nella morte l’espiazione dei suoi peccati. Il contrasto tra Laura e Matilde è, più che un fatto personale, un dato di classe, come emergeva da un dialogo tra le due che vale la pena di riportare: Matilde – Lei mi odia vero? Adesso no perché l’ho fatto scappare, però mi disprezza. Laura – Lei personalmente no. Ma la gente come lei, tutta insieme, sì. Matilde – Ed ha anche il coraggio di dirmelo? Laura – Me lo ha chiesto. E poi… non è nemmeno disprezzo, pietà forse… Matilde – Pieta di me, lei?… 46
C.A. Vitti, Lezioni di cinema e di regia, Firenze, SEF editrice, 2013, p.140.
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Laura – No, non di lei. Vede com’è difficile spiegarsi? Dico magari delle scortesie e non vorrei, specialmente adesso. A lei non riesco a voler male, non ci sono mai riuscita nonostante tutto. Quello che è successo tra me e lei non importa più. Importa invece l’ingiustizia che lei rappresenta. Matilde – Quale ingiustizia? – Laura – Forse lei non se ne rende neanche conto. Ecco, vede la serra degli ananas? Di giorno e di notte, per tutto l’autunno e l’inverno bisogna tenerli caldissimi perché maturino. E intanto per tutto l’autunno e l’inverno, qui intorno, nelle case, fa freddo. Gliel’ho detto… Non so spiegarmi.
Film che guardava, dunque, alla resistenza da un’ottica di classe e, come tale, film corale, che intendeva far risaltare la superiorità delle vicende collettive rispetto a quelle dei singoli individui. Un assunto che probabilmente causava una scarsa caratterizzazione proprio dei personaggi positivi, mentre più definiti apparivano i “cattivi”: Matilde, Mario [Checco Rissone], il fratello di Cesare, che sfrutta il momento per esercitare i suoi loschi traffici, il maggiore tedesco [Massimo Serato]47. A differenza di Roma città aperta, Il sole sorge ancora dava un’immagine molto negativa della borghesia, vista come una classe priva di scrupoli, tarata moralmente, opportunista: «Io sto alla finestra a guardare che succede. Poi… vedrò quello che si può fare di meno sconveniente», afferma convinto Stefano. Un elemento che non sfuggiva all’ufficio di censura cinematografica che continuava a essere diretta da burocrati del passato regime e il cui giudizio risultava fondamentale per la realizzazione e la circolazione dei film. La revisione cinematografica preventiva rientrava, infatti, nelle competenze della VII Divisione (diretta da Annibale Scigluna Sorge, un funzionario formatosi, sotto il regime fascista, nel Gabinetto del Ministero della Cultura Popolare) della Direzione Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. A capo della Direzione Generale era Nicola De Pirro, anche egli alto dirigente fascista (dal 1934 al 1944 era stato ispettore generale e poi direttore generale del teatro presso il Ministero della Cultura Popolare). Il giudizio preventivo, che si basava di solito su una sceneggiatura provvisoria, era opzionale. Tuttavia la quasi totalità delle case di produzione fece domanda di quella che possiamo considerare una vera e propria “precensura”. Se infatti il giudizio risultava negativo, il copione tornava 47
M. Mida, I film di Venezia. Il sole sorge ancora, «La Critica Cinematografica», supplemento al n. 3–4 del settembre 1946, p.1.
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agli autori per le modifiche del caso, prima ancora che il film iniziasse la lavorazione. Di solito, a “condannare” una pellicola erano quelle scene ritenute o troppo violente o immorali, soprattutto sotto il profilo sessuale, o lesive della dignità nazionale. Era interesse degli autori avere un giudizio positivo perché anche da questo dipendeva la possibilità che la pellicola ottenesse la certificazione di nazionalità italiana ai fini della iscrizione della stessa nel Registro Cinematografico e dell’inclusione nella categoria «film eccezionali», condizione indispensabile per poter realizzare contratti di coproduzione con Case Cinematografiche straniere, ma soprattutto per accedere al «premio di qualità», che permetteva di ottenere finanziamenti e agevolazioni fiscali48. Per Il sole sorge ancora la Commissione di censura cinematografica preventiva sottolineava come tutta l’azione del film si svolgesse «in una ambientazione scrupolosamente volgare come se lo scopo degli autori non fosse che quello di illustrare la volgarità stessa in tutti gli aspetti, compreso il patriottico». Seguiva un lungo elenco di sequenze che avrebbero dovuto essere cancellate, da quella iniziale, nella casa di tolleranza, dove un soldato travestito da prete scambiava un bacio appassionato con una prostituta, alla stessa figura del parroco, don Camillo, «privo della più elementare dignità sacerdotale. Tra l’altro, lo si vede, fumare viziosamente le cicche che gli danno in dono operai e contadini». Avrebbero dovuto essere cancellate, inoltre, tutte le scene che in qualche modo contenevano riferimenti o allusioni di carattere sessuale (che occupavano, secondo il solerte censore, buona parte della pellicola)49. Successivamente, in una lettera all’ANPI dell’11 maggio 1946 si metteva in evidenza che la sceneggiatura dava «adito a numerosi rilievi, specie di carattere morale» e che, comunque, dal momento che all’atto della presentazione della sceneggiatura la pellicola era quasi ultimata, si restava «in attesa di visionare il film per le determinazioni da adottare al riguardo». Infine, il 7 settembre la Commissione, nel mentre riconosceva «una certa pregevole fattura del film», era dell’opinione che non fosse «possibile autorizzare la programmazione nelle pubbliche sale cinematografiche nell’edizione attuale, sia per l’eccessivo verismo di talune scene, sia per le allusioni e pervertimenti sessuali, sia per la presenza di battute offensive per l’onore dell’esercito 48 Una presentazione del fondo Revisione Cinematografica Preventiva in P. Ferrara, Dal teatro al cinema. Un nuovo filone di ricerca presso l’Archivio centrale dello Stato, «Archivi per la storia», n. 1–2, Gennaio–Dicembre 2004, pp. 337–356. 49 Revisione Cinematografica Preventiva, 17 aprile 1946, ACS, MTS, Div. Cin., b. 4, f. 417.
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italiano». La Commissione rilevava anche «il carattere polemico del film che, per esaltare l’apporto popolare alla guerra di insurrezione contro i tedeschi, ha coperto di tare morali l’unica famiglia borghese rappresentata nella pellicola, esasperando l’impostazione classista di tutta la vicenda. Infine, non ha potuto sottacere come di uno sporco collaborazionismo e di una egoistica concezione di vita siano investiti troppi italiani per non fare sì che questo film possa ripercuotersi sfavorevolmente presso un pubblico straniero, confermando il giudizio negativo nei nostri confronti»50. Paradossalmente, anche qui, come in Roma città aperta, la religione diventava il simbolo dell’intera collettività: lo attesta la bellissima sequenza – «tra le più felici del nostro cinema», la definiva Glauco Pellegrini su «La Stampa»51 – della fucilazione di don Camillo [Carlo Lizzani] e di Pietro [Gillo Pontecorvo] scandita dal coro delle litanie che tutta la popolazione del paese, rispondendo al prete, recita a voce sempre più alta, fino a urlarle in una progressione parossistica: un rito collettivo reso con grande efficacia, alternando primi piani di don Camillo a quelli dei paesani, di Pietro e degli ufficiali tedeschi e del loro comandante, che, spaventato dalla reazione popolare, darà il comando di far fuoco, senza aspettare neanche che i due arrivino al luogo stabilito per l’esecuzione. L’idea di usare la preghiera come atto supremo di ribellione alle ingiustizie era venuta a De Santis – è ancora lui la fonte – dalla lettura di un racconto di Maupassant La maison Tellier, la storia di un gruppo di prostitute che si trasferisce al completo in un piccolo paese dove si celebra la prima comunione di una nipote della maitresse. Le prostitute venivano scambiate per delle gran signore e dall’altare il prete le elogiava per la loro fede e per averne dato testimonianza venendo nel piccolo paesino. Una delle prostitute iniziava a piangere e ben presto la commozione diventava generale: «Da questo io, chissà come mai, avevo trasferito questo meccanismo all’episodio di Il sole sorge ancora, per dire quanto sono casuali certe volte i percorsi della creazione artistica»52. Il sole sorge ancora si concludeva riaffermando la speranza di un mondo diverso e più giusto e, nel contempo, il timore che neanche la lotta antifascista, con quel che aveva significato in termini di solidarietà e di consapevolezza della propria forza e delle proprie ragioni, 50
Ibid. gl.p., Il primo film italiano, «La Stampa», 5 settembre 1946. 52 Vitti, Lezioni di cinema e di regia, cit., pp. 141–142. 51
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
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avrebbe poi realmente modificato modi consolidati di vedere la società e i rapporti tra le classi. L’ultima sequenza mostrava Cesare e Laura sorridenti guardare la festa che si svolge nella piazza: Cesare – Sono passati due anni, ma siamo arrivati dove si voleva. Il più ora è di non farci mandare indietro un’altra volta. Laura – Almeno per tutti quelli che sono morti! Cesare – Guarda là in fondo. Le carrozze dei padroni. Se ne vanno! Laura – Loro dei morti non sanno che farsene… Cesare – Mio padre in quel giorno è invecchiato di dieci anni. Eppure crede ancora che sia un grande onore chiudere lo sportello a quella gente. Per tanti questa lotta non ha significato nulla e continueranno a non sapere che cosa devono fare della loro vita […] Sai Beppe cosa diceva quando eravamo… Se dovessi morire… cercate di essere più giovani… cercate di vivere anche per noi…
Il film era la prima pellicola italiana a essere presentata alla Mostra di Venezia 1946. Le accoglienze furono diverse, molto influenzate dalle posizioni politiche dei quotidiani. Sul «Corriere della Sera» Lanocita sottolineava come Il sole sorge ancora, pur inficiato da una partenza scialba, «generica o gratuita nei ritratti», prendesse piano piano quota, arrivando a sequenze «potenti»: «la voce della folla» che risponde con toni sempre più alti alle litanie intonate da don Camillo «è uno dei più superbi motivi d’emozione che la lotta per la libertà abbia offerto sinora al cinema»53. Sostanzialmente sulla stessa linea era il già citato Pellegrini che evidenziava come la sequenza della fucilazione di don Camillo e Pietro non fosse sufficiente ad assolvere gli autori del film: «In possesso d’una simile materia, i cui difetti di sceneggiatura non sono pochi, la regia di Aldo Vergano avrebbe dovuto puntare su una più attenta indagine psicologica dei personaggi, né perdere occasione per valersi dell’ambiente che si finisce per trovare falso, convenzionale. Non ci si può accontentare, se vogliamo che il nostro cinema viva, delle solite buone intenzioni»54. Diverse le valutazioni a sinistra. Il sole sorge ancora – scriveva Umberto Barbaro su «l’Unità» – è bello non perché antifascista, ma perché «ci trasmette, intatto e nuovo, un mondo mai saputoci rivelare dalle precedenti trasfigurazioni artistiche (nemmeno letterarie) di qualche validità: il mondo della provincia lombarda a due passi proprio dalla Madonnina del Duomo, durante la bestiale occupazione e repressione tedesca». Il film, pur con alcune 53 54
lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 12 gennaio 1947. gl.p., Il primo film italiano, cit.
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imperfezioni, tralasciava i singoli personaggi per abbracciare una «trama collettiva e unanime»: Trama grandiosa accanto al nobile tema e allo svolgimento attuatesi in una non comune forza e bellezza nello spoglio e dimesso narrare. E verità tratta senza sforzo apparente da un interno sconnesso e affollato, da un esterno martoriato dai bombardamenti e dove l’inseguimento accanito toglie il respiro; c’è un gesto drammatico, da un sospiro appassionato e persino da una calza smagliata o una toppa ai pantaloni, un film questo, con le sue manchevolezze e difetti, che segna una data nella cinematografia italiana, nella quale tenta di introdurre l’amore per le cose e per gli uomini, la pregnanza degli oggetti quotidiani usati e sofferti, il segno di un destino ineluttabile, perché segnato dalla storia. Storia configurata ottimamente come lotta di classe, dove la scelta degli ambienti e dei tipi è sempre, e anche solo figurativamente, (cioè ottima), eloquente come nei più famosi classici dei muti. E i conflitti vanno oltre (e intelligentemente lo dichiarano) la temporaneità degli episodi narrati55.
All’uscita del film nelle sale Pietro Ingrao, ancora su «l’Unità», rinfocolava la dose, notando come Il sole sorge ancora non godesse di un’adeguata distribuzione, pur avendo riscosso grandi consensi all’estero dove avevano riconosciuto alla pellicola anzitutto la «qualità di essere un film intriso del nostro paesaggio, delle nostre canzoni, della storia del nostro popolo»56. Eppure, nei cinema, anche in quelli di prima visione dove il pubblico notoriamente era più “freddo”, ci si accalorava e si partecipava alle vicende narrate: La vittoria del nostro popolo diviene favola e romanzo che appassiona la fantasia e, mentre persuade, muove l’entusiasmo. Non sono queste le qualità del film popolare che cerchiamo, il quale sappia parlare della nostra storia, della nostra lotta alla larghe masse e giungere fino ai più semplici? E non è questa la vocazione del cinematografo?57.
Ingrao chiamava in causa Blasetti, ricordando come più volte il regista romano avesse sottolineato l’esigenza per il cinema italiano di utilizzare «volti che “spacchino lo schermo” con la forza delle loro esemplari caratteristiche e della loro fotogenicità», cosa che era puntualmente avvenuta con Il sole sorge ancora, soprattutto nel personaggio di don Camillo. 55 56 57
U. Barbaro, Un film popolare italiano, «l’Unità», 5 settembre 1946. P. Ingrao, Una pagina di storia: “Il sole sorge ancora”, «l’Unità», 26 gennaio 1947. Ibid.
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Non era un’accusa quella di Ingrao, piuttosto un rilievo. Anche Blasetti, infatti, si era cimentato con il tema resistenza. In Un giorno nella vita (soggetto di Blasetti, Mario Chiari, Diego Fabbri, Edoardo Anton; sceneggiatura di Anton Giulio Majano e Cesare Zavattini) il regista romano riprendeva quell’invito alla pace già adombrato in La corona di ferro58. Qui la vicenda acquistava un sapore decisamente pacifista, di rifiuto di ogni violenza. L’ingenuità e la gentilezza delle suore costituiscono gli elementi della loro superiorità etica non solo rispetto ai tedeschi, ma anche nei confronti dei partigiani. Olga [Elisa Cegani], entrata in convento dopo l’uccisione del marito assumendo il nome di Maria, saprà perdonare il partigiano Luigi Monotti [Massimo Girotti] che, da fascista, era stato responsabile di quell’assassinio («Che sporca cosa è il mondo, sorella! Spari a della gente solo perché non la pensa come noi… poi passano gli anni e ci ritroviamo con le idee di quelli che hai ammazzato»). Analogamente, un’altra suora, quando verrà a conoscenza delle rappresaglie operate dai tedeschi, implorerà per loro il perdono di Dio. E ancora suor Maria quando i partigiani giustizieranno un prigioniero tedesco, esclama: «Nostro Signore morì e chiese perdono per tutti. Tutti quelli che non sanno quello che fanno. Senza di lui nessuno di noi sa quello che fa». E sarà proprio suor Maria a salvare la vita a Monotti e a Carlo [Dante Maggio], soprannominato «Napoli» per la sua provenienza, scappato dalla sua città appena sposato per non essere catturato dai tedeschi. Le suore pagheranno con la vita l’aiuto offerto ai partigiani. Ma il loro esempio farà sì che alla fine del film questi ultimi rinunceranno alla fucilazione dei tedeschi colpevoli dell’eccidio: «Quelle non vogliono essere vendicate», esclama Monotti al quale, poco prima, suor Maria, in un ultimo supremo sforzo ha preso la mano in segno di perdono. Nella pellicola, insomma, gli autori ci presentavano un’altra resistenza, dove le armi non avevano un posto di primo piano, dove si poteva essere anti–tedeschi anche senza imbracciare il fucile, come fa «Napoli» che più volte sottolinea di non voler essere ucciso, ma anche di non volere ammazzare nessuno. Si combattono i tedeschi, ma nella consapevolezza che la guerra di per sé è un atto orribile. Se Monotti poco prima di essere operato proprio con l’assistenza di suor Maria 58 Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. III, Dal neorealismo al miracolo economico 1945–1959, cit., p. 453. Anche la VII Divisione della Direzione Generale dello Spettacolo in sede di revisione cinematografica preventiva metteva in rilievo come il film apparisse di «largo respiro ed intonato a nobili motivi umani e cristiani» (Revisione Cinematografica Preventiva, 18 marzo 1946, ACS, MTS, Div. Cin., b. 1, f. 55).
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è convinto che si partecipa alla lotta anti-tedesca con motivazioni che variano da persona a persona («C’è sempre una ragione, ma la tua non è la sua e la sua non è la mia, siamo otto: otto ragioni!»), il capitano De Palma [Amedeo Nazzari] urla che la ragione è invece «una, una!» Loro sono diversi dai tedeschi: «Bisogna dimostrarlo finché c’è tempo, perché tutto quello che è successo io me lo sento addosso come una rogna. Una rogna, capito?». Di lì a poco De Palma si scuserà con suor Bianca [Mariella Lotti] per la confusione portata nel monastero e con una smorfia di amarezza esclamerà: «Ma la guerra, si sa, è come la polvere… entra dappertutto». Ancora De Palma chiede a Brusan [Arnoldo Foà], che non mette piede in una chiesa da quando era piccolo («Mi ci portavano»), se adesso, nell’imminenza di un’azione in cui potrebbe trovare la morte, vi sarebbe entrato. Dopo aver ricevuto risposta negativa, esclama: «Bel coraggio! Io ci vado!». La sequenza successiva mostra i partigiani che timidamente si affacciano nella piccola cappella e vinti dalla dolcezza del canto delle suore uno alla volta si inginocchiano davanti alla statua della Madonna. Facilmente intuibile che Un giorno nella vita presentasse aspetti sicuramente non graditi ai critici comunisti. Non meraviglia, pertanto, che sulle colonne de «l’Unità» Barbaro sottolineasse come, nel tentativo di dimostrare «la vanità di ogni umana e terrena agitazione», la pellicola risultasse confusa e incapace di pronunciarsi di fronte alle atrocità commesse dai nazifascisti, cercando rifugio nell’individualismo e nell’apoliticità. E così anche quegli ex fascisti che cercavano di riscattarsi con la partecipazione alla guerra partigiana, sembravano continuare a seguire, «anche nei nuovi panni», «metodi consueti e loro caratteristici di ladri e profittatori»: Motivi e problemi che costituiscono, nelle soluzioni accennate, un quadro tematico di struttura reazionaria e di grave e persino stravagante incomprensione storica, che stride di inesattezze pungenti come – per non altra citare – quella del cerimonioso lei che si scambiano tra loro gli strani e quasi inauditi partigiani del film. Così l’amara incomprensione dell’antico assassino fascista “sarò sempre dalla parte sbagliata della barricata” è presentata come superiore e poetica; ed indulgente e pieno di una simpatia, che rasenta l’omertà, è il sorriso e la piacevolezza con cui è guardata la colpevole e triste ignavia dello sventurato marito partenopeo, razziato dai tedeschi il giorno stesso dell’inconsumato matrimonio59.
59
U. Barbaro, Un giorno nella vita, «l’Unità», 18 aprile 1946.
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Tuttavia, Barbaro sottolineava come, nei suoi «valori figurativi e sonori», nell’«esaltante valore del bene in lotta senza quartiere col male», nell’affermazione di una «sana fiducia nella vita», il film di Blasetti esprimesse «una visione del mondo che va oltre, o addirittura in contrasto con le intenzioni dimostrative dipendenti dalla volontà» e, pertanto, fosse «da classificare fra le poche opere d’arte dello schermo»: «Un giorno nella vita è anzitutto un film che documenta la felicità quasi costante dell’ispirazione figurativa: in tagli, inquadrazioni [sic!] e angolature personalissime, in cui la luce, colla accentuazione giusta dà rilievo a particolari che, nell’irreversibile istanza formale, traggono allusività e significazioni impensate. Film bellissimo dunque, nonostante tutte le riserve che era doveroso premettere»60. Va comunque sottolineato che Blasetti accostava il film a Roma città aperta, notando come alla Resistenza avessero contribuito, «uniti», comunisti e cattolici: «C’è comunque una differenza – aggiungeva – perché in Un giorno nella vita il cattolico tra i partigiani si può intuirlo ma non lo si definisce né si manifesta come tale […] Il film, oltretutto, è visto non considerando già più il tedesco come nemico in quanto tedesco ma considerando invece il soldato tedesco, ossia la Wermacht, come strumento della tirannide»61. Non era questo l’unico elemento che legava i due film. In entrambi, ma anche in altre pellicole del 1945-1947, l’adesione alla lotta anti-fascista, anche senza imbracciare le armi, come fa «Napoli», è spontanea, immediata e istintiva: «Vi ho visto. I tedeschi vi sparavano. – afferma – Ho pensato: questi saranno persone perbene!». Le stesse suore, chiamate a scegliere da che parte stare («Siamo sole e dobbiamo decidere», afferma suor Maria a chi le chiede perché bisogna abbandonare il convento) istintivamente si schierano dalla parte dei partigiani. Di fronte alla minaccia del capitano tedesco che intima loro di rivelare dove sono i partigiani rispondono recitando il Pater noster. I tedeschi sono gli invasori e gli oppressori. È facile scegliere da che parte stare. Parallelamente, i film non si interrogavano sul passato più recente. Nessuna pellicola cercava di indagare sui motivi che avevano reso possibile la dittatura e la guerra, non solo perché gli autori della cinematografia postfascista erano in massima parte gli stessi che avevano operato sotto il fascismo, così come gli stessi erano gli attori e 60
Ibid. Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935–1959, cit., p. 99. 61
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identico il loro modo di rappresentare i personaggi, fossero eroi fascisti o arditi partigiani: era il caso di Carlo Ninchi, il maggiore Castagna in Giarabub, e il partigiano in O sole mio e in Due lettere anonime, o di Amedeo Nazzari (eroico tenente in Quelli della montagna e coraggioso comandante partigiano in Un giorno nella vita). Ma anche perché era lo stesso pubblico a preferire un cinema d’evasione e di intrattenimento o, comunque, che non ponesse domande imbarazzanti che avrebbero implicato traumatiche risistemazioni del proprio vissuto. La parola d’ordine, insomma, era quella lanciata da un film del 1945, La vita ricomincia62, uno dei primi girati alla fine della guerra. Tre i protagonisti: il Professore [Eduardo De Filippo, qui in veste di attore, ma alcune battute inducono a pensare che abbia contribuito anche alla sceneggiatura e ai dialoghi], Paolo e Patrizia, interpretati da Fosco Giachetti e Alida Valli, volti molto noti al pubblico, che peraltro già avevano furoreggiato in uno dei film più discussi negli anni della guerra, Noi vivi (1942)63. Brevemente la trama: dopo sei anni di lontananza da casa, Paolo ritorna dalla guerra. Sbarcato a Napoli, riesce ad arrivare a Roma grazie a un passaggio offertogli da due «borsari neri», Scorcelletti e Righetto. Qui ritrova la moglie Patrizia, il figlio Sandrino e un nuovo amico, il Professore, che negli anni della sua assenza è stato vicino alla sua famiglia. Sembra non sia cambiato niente. La vita può ricominciare: «Tutto come prima. Mia moglie, mio figlio, la mia roba. Mi sembra di essere tornato da una passeggiata. Una passeggiata di sei anni!», è l’amaro commento di Paolo, che scopre ben presto però come sia cambiato l’ambiente circostante. Si sta affacciando una Roma che ha una gran voglia di dimenticare il recente passato, volgare e maneggiona, dove predominano quelli che hanno fatto fortuna con mezzi il più delle volte illeciti. Sono cambiate persino le persone che gli stanno intorno: il suo socio, Croci [Carlo Romano], ha smantellato il laboratorio farmaceutico per trasformarlo in una distilleria, la stessa Patrizia appare sempre più preoccupata e tesa. Una sera invano se ne attende il ritorno: Patrizia è in prigione, accusata di avere ucciso un uomo. Paolo accorre e la moglie decide di 62
Regia di Mario Mattoli; soggetto di Aldo De Benedetti; sceneggiatura di De Benedetti, Mattoli e, non accreditato Steno [Stefano Vanzina]. 63 Regia di Goffredo Alessandrini; soggetto tratto dal romanzo omonimo di Ayn Rand nella riduzione di Corrado Alvaro e Orio Vergani; sceneggiatura e dialoghi di Anton Giulio Majano e, non accreditati, Alessandrini e Oreste Biancoli. Per la sua lunghezza il film fu sdoppiato in due parti, Noi vivi e Addio Kira. Sulle reazioni del pubblico, che lo lesse come un film antifascista, cfr. Cavallo, Italiani in guerra, cit., pp. 177ss.
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raccontargli cosa sia successo durante la sua lunga assenza. Sandrino era stato colpito da una malattia «strana, incomprensibile». Sempre più costose le cure, fin quando si era prospettata la necessità di un intervento chirurgico, difficile ma soprattutto estremamente oneroso. Vane le ricerche di prestiti presso banche, amici e conoscenti. Ma il denaro alla fine lo aveva trovato. Nell’unico modo che le era stato possibile, vendendo il suo corpo. L’uomo che le aveva dato l’ingente somma necessaria per l’intervento era ora ricomparso, ricattandola e minacciando di rivelare tutto al marito. In un drammatico colloquio Patrizia aveva tentato di convincerlo ad abbandonare i suoi propositi: l’uomo era diventato sempre più violento e brutale. Ne era seguita una lite e alla fine Patrizia aveva sparato uccidendolo. Paolo è sconvolto. Da una parte, non riesce ad accettare che la moglie lo abbia tradito, dall’altra si rende conto del dramma di Patrizia. Tenta di addossarsi la responsabilità del delitto. Ma la sua versione dei fatti è troppo improbabile per essere creduta dal giudice: Giudice – E allora lei vorrebbe che io la aiutassi a ingannare la giustizia? Paolo – E cosa importa alla giustizia se chi ha ucciso sia io o mia moglie? La giustizia vuole un colpevole, uno che paghi, pago io… è lo stesso. Giudice – La giustizia deve punire solamente chi ha commesso il reato. Paolo – E chi può dire, signor giudice, chi sia il vero colpevole? Giudice – Come? Paolo – Sì, forse lo siamo stati tutti quanti in questi ultimi tempi. Non è una riparazione che io compio, mi creda. Forse, in tutta questa tragedia la meno colpevole è proprio mia moglie.
Arriva il giorno della sentenza: Patrizia è assolta, ma Paolo non vuole più incontrare la moglie. E qui, per bocca del Professore, viene presentata con grande chiarezza la tesi del film: «Questa è una guerra che non ha risparmiato niente, non ha rispettato niente. In certi posti sono cadute le bombe e si sono sfasciate le case. Qui le case sono rimaste in piedi, ma la rovina è la stessa. Tutto è stato rovinato. Qui c’è da rifare tutto!». Urge una ricostruzione che sia non solo materiale, ma anche e soprattutto morale: «Se uno ha una casa rovinata che fa? – continua il Professore – Non credo che dice: “Io me ne vado, ti saluto, non se ne parla più”. Prende un pezzo di legno, comincia a puntellare, raccoglie i mattoni, le pietre, sgombra le macerie e a poco a poco la rimette su. Voi vi trovate in queste condizioni. La vostra casa è crollata. Ma se ve ne andate non ne ricavate nulla. Questo è il momento di ricostruire». Paolo non è ancora convinto: «C’è un fatto, professore,
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che non si può dimenticare, ed è che mia moglie mi ha tradito. No, non potrei continuare a vivere con lei». La replica è secca e precisa:
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Queste sono le solite frasi fatte, i luoghi comuni […] Dottò, qui ci vuole più coraggio a perdonare che a scappare via. Io ho perduto mia moglie e mia figlia a Napoli, a mezzo metro da me. Sono rimasto in piedi per miracolo. E se è stato un miracolo vuol dire che quel poco che faccio nella vita serve. Perciò non sono scappato via […] Se mia moglie mi avesse mancato, pur di rivederla, pur di riavvicinarmi a lei, l’avrei perdonata non una, ma mille volte… Dottò, qui c’è stato il diluvio universale…
Di fronte alla guerra, «il diluvio universale», le vecchie regole, i vecchi valori, le vecchie norme (come adombrato anche in Roma città aperta) non valgono più. Il «borsaro nero» Scorcelletti, poco dopo aver superato, proprio grazie alla presenza di Paolo ancora in divisa di capitano, un posto di blocco dei carabinieri, esclamerà, di fronte all’espressione stupita di Paolo: «Ah sor dottò oggi in Italia in regola c’è lei solo, perché è sbarcato ieri!». La ricostruzione poteva realizzarsi – suggeriva la pellicola – solo sulla base della rimozione completa degli avvenimenti trascorsi. Nel finale, a Paolo che chiede cosa debba fare, il Professore risponde: «Niente, è la vita che ricomincia come prima. Non è successo niente, non c’è stato niente». C’è stata una guerra, ma non si sa a chi attribuirne le responsabilità. Certamente non ai soldati: «Adesso ci vorrebbe un brindisi per il reduce. Ma una volta per il reduce c’erano fiori, bandiere, discorsi, musiche… adesso si può dire solamente: caro reduce, non è stata colpa tua!», sottolinea il Professore, ripetendo quasi letteralmente quanto dice nel finale di Napoli milionaria! Gennaro Jovine rivolto alla moglie Amalia: «nun è colpa toia, ’a guerra nun l’he’ vuluta tu». D’altra parte, Patrizia viene assolta. E non è azzardato leggere in questa assoluzione della donna l’autoassoluzione di tutto un popolo che così poteva rimuovere una guerra lunga e dolorosa, una dittatura di venti anni (sui quali il film tranquillamente sorvolava) e – last but not the least – il trauma dell’8 settembre. Insomma, il futuro poteva essere costruito solo sulla base della rimozione del passato (come aveva suggerito, l’anno precedente, la canzone di Fiorelli e Valente, Simmo ’e Napule, paisà64). La se64 «Tarantella, facennoce ’e cunte / nun vale cchiù a niente / ’o passato a penzà… / […] / Basta ca ce sta ’o sole, / ca c’è rimasto ’o mare, / ’na nenna a ccore a ccore / ’na canzone pe’ cantà… / Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… / Chi ha dato, ha dato, ha dato… / Scurdammoce ’o passato, / simmo ’e Napule! Paisà… / Tarantella, stu munno è ’na rota, /
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quenza finale prevedeva il ritorno a casa di Patrizia con il Professore che, rendendosi conto dell’imbarazzo dei due coniugi, invitava tutti a prendere posto a tavola: «Sandrino al suo posto, la signora qua […] Dottò, prego, accomodatevi. Quello è il mio posto e guai a chi me lo tocca!». Una metafora fin troppo esplicita: la ricostruzione, materiale e morale, passava per una ritrovata unità familiare, dove i ruoli (i “posti” attorno alla tavola) dovevano essere quelli di sempre. Su questa base la comunità nazionale, esemplificata nella famiglia di Paolo, si sarebbe potuta ricostituire. La guerra (e il regime) era stata una parentesi. Tutto si sarebbe riaggiustato come faceva presagire la carrellata finale sulla famiglia riunita e sorridente65. E così, paradossalmente, tra le pellicole sulla “resistenza in differita”, quelle girate nel biennio 1945–1946, l’unica che invece metteva in luce il travaglio di una scelta – né scontata né facile – e ne seguiva il percorso lungo e accidentato, era proprio quella più stroncata dalla critica dell’epoca, Due lettere anonime (regia di Mario Camerini su soggetto di Ivo Perilli e sceneggiatura di Camerini, Perilli, Carlo Musso, Nino Novarese, Turi Vasile). Umberto Barbaro su «l’Unità» definiva i personaggi del film «rivoluzionari da vaudeville»66, mentre sul «Corriere d’informazione» Arturo Lanocita si domandava dove fossero il garbo e la poesia che avevano contraddistinto l’opera del regista: Due lettere anonime era «un film qualunque […] che non è privo di pregi, ma difetta di personalità, e manca della soave intima grazia che effondeva dalla celluloide cameriniana», trasandato nei particolari, grossolano nelle truccature, con «quei congiurati con gli occhiali neri che portano scritto sulla fronte. “Io sono un congiurato”» e «quei teatralissimi spari»67. Dal canto suo Antonio Pietrangeli su «Star condivideva l’intento del regista chi saglie ’a sagliuta, / chi sta pe’ ccadé! / Dice buono ’o motto antico: / ccà se scontano ’e peccate… / oggi a te… dimani a me! / […] / Tarantella ’o cucchiero è n’amico, / nun ’ngarra cchiù ’o vico / addò m’addà purtà… / Mo redennno e mo cantanno / s’è scurdato ’o coprifuoco… / Vò sultanto cammenà… / Quanno sta a Santa Lucia / “Signurì” – ce dice a nuie – / “ccà ce steva ’a casa mia… / so’ rimasto sultant’ ’j…” / E chiagnenno chiagnenno s’avvia… / ma po’ ’a nustalgia / fa priesto a fernì… / Basta ca ce sta ’o sole…» (Fiorelli–Valente, Simmo ’e Napule, paisà, 1944) 65 Nella sua recensione Alberto Moravia stigmatizzava l’assunto del film: «la vita italiana è tutta una sola rovina; ricominciamo; ma come? con le stesse idee, negli stessi modi che hanno appunto portato a questa rovina […] Veramente questi due tipi di italiani nuovi ci sembrano molto vecchi, né ci pare che, almeno nella vicenda del film, niente ricominci se non le antiche e più ottuse abitudini» (A. Moravia, La vita ricomincia, «La Nuova Europa», n. 45, 11 novembre 1945, p. 6). 66 Citato in Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. III, Dal neorealismo al miracolo economico 1945–1959, cit., p. 702. 67 lan., Sette giorni di cinema, «Corriere d’informazione», 20–21 dicembre 1945.
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di mantenere nel film il «tono semplice, grigio, dimesso che è proprio della realtà quotidiana, anche la più drammatica e movimentata», ma aggiungeva che ridurre alla «quotidianità di umili personaggi» i motivi del conflitto equivaleva a «minimizzare, impoverire la vicenda narrata, motivandone ogni avvenimento con i dati di un dramma passionale e riducendone i protagonisti alle proporzioni di personaggi da operetta»68. Più articolato il giudizio di Moravia che scriveva di Resistenza «trattata negli stessi modi ed espressa nello stesso genere di personaggi dei piccoli intrighi amorosi di Gli uomini che mascalzoni… e altri suoi film passati», ma poi finiva con il riconoscere che «quanto a pulizia e dosaggio è uno dei migliori film di Camerini» e che bisognava «ammirare la sobrietà con la quale sono tratteggiati il delitto e certe scene nella tipografia»69. L’unico che si pronunciava positivamente era Mario Gromo che parlava di «un film solido, un po’ grigio, un po’ monocorde, ma quasi sempre efficace», con un «nucleo drammatico che Camerini ha sostenuto con un nerbo non sempre costante ma in complesso eccellente»70. La pellicola era incentrata sulla resistenza nella capitale. Bruno [Andrea Checchi], un tipografo, torna dalla guerra e scopre che la sua fidanzata, Gina [Clara Calamai], che lavora anche lei in tipografia, credendolo morto, sta per sposarsi con Tullio [Otello Toso], un collega che ha traffici di varia natura con gli occupanti tedeschi. Bruno ha un primo momento di sbandamento. Rivolto a Rossini, un partigiano suo amico [Carlo Ninchi], esclama: Basta, mi hai seccato! Sono affari miei. Di che t’impicci? Se ho detto che me ne infischio della guerra, dei tedeschi, della politica è perché credo di averne il diritto. Vacci tu a sparare, ci vada il tenente e tutti quelli come lui che sono rimasti a casa tutta la guerra. Diglielo, diglielo al tuo tenente che avrei fatto volentieri a cambio… Lui in Russia e io qui a distribuire giornaletti clandestini… […] Ma non lo capite che le volevo bene… Quando ero lassù non pensavo ad altro… Dicevo sempre quando torno, se torno, farò questo, farò quest’altro… tanti pensieri… tanti progetti e in tutti c’era lei… c’era sempre lei…
68
A. Pietrangeli, Sala di proiezione. Due lettere anonime, «Star», n. 46, 8 dicembre 1945, p. 2. A. Moravia, Due lettere anonime, «La Nuova Europa», n. 49, 9 dicembre 1945, p. 6. Si veda anche un piccolo florilegio di critiche, non dissimili da quelle riportate nel testo, in «Cinema», nella rubrica “Film Index” dedicata a Camerini: cfr. G. Vittorini, a cura di, “Film Index” di Mario Camerini, nota introduttiva di G. Viazzi, «Cinema», n. 79, 1° febbraio 1952 p. 43. 70 M. G., Cinema. Due lettere anonime, di M. Camerini, «La Nuova Stampa», 28 febbraio 1946. 69
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Ben presto, però, Bruno supera le delusioni personali ed entra nella resistenza, mentre Gina inizia a nutrire dubbi sempre più consistenti sull’operato di Tullio. Alla fine, dopo aver scoperto che quest’ultimo è responsabile dell’arresto di Bruno e di altri antifascisti, lo uccide. Il film si concludeva mostrando l’arrivo degli alleati e la festa che ne seguiva. Bruno usciva da «Regina Coeli» dove era chiuso come prigioniero politico: non così Gina, in prigione perché accusata di aver ucciso l’amante: «Ma dimme un po’… Che è reato politico quella là?, – chiede una detenuta a un’altra – Macché!… l’aveva piantata l’amante», è la secca risposta. La scena finale ci mostra Bruno e Gina a colloquio: ««Se c’è giustizia, uscirai presto, vedrai… vedrai…», promette Bruno, mentre Gina in lacrime gli chiede di andare via. Il film, pur non essendo una gran cosa, fornisce allo storico importanti indicazioni. Anzitutto, esalta il ruolo delle donne, impegnate attivamente nella Resistenza: Gina, le operaie della tipografia che dichiarano apertamente di non poter più lavorare «per questi assassini», Giulia [Dina Sassoli], la partigiana che suscita nel burbero e scontroso Rossini sentimenti di grande ammirazione. Anche in questo caso, come in Roma città aperta sembrerebbe che tutti i romani siano contro i tedeschi. Qui però è ancora più accentuato l’aspetto interclassista (il ruolo di guida del cavaliere Pacetti, proprietario della tipografia; quando Bruno arriva, gli dirà: «Ci hai lasciato col fascio e ci ritrovi con Matteotti»; l’inno nazionale che accompagna la sfilata per la liberazione di Roma) e, contemporaneamente, quello «militare» della resistenza. Nel film di Rossellini la resistenza assumeva più un carattere spontaneo, viscerale, molto poco organizzato. Qui no. È un movimento strutturato, con capi, gregari, portaordini, ecc. Inoltre, Due lettere anonime affronta un discorso totalmente assente negli altri film e che riguarda i sentimenti, sottolineando come l’adesione alla Resistenza possa nascere anche da sentimenti “privati” che però finivano con il diventare pubblici e collettivi: Gina inizia a impegnarsi nella lotta ai tedeschi sulla base dello sdegno suscitato dal manifesto di Kappler. Solo dopo inizia la sua rottura con Tullio, che diventerà – attraverso passaggi graduali e sofferti – odio quando scoprirà che Tullio, affascinato dal lusso e dall’agio, è una volgare spia. L’esistenza di un “triangolo” amoroso permetteva di sottolineare le difficoltà e le sofferenze di una scelta, che era, nello stesso tempo, individuale e collettiva, privata e politica. Non era un caso che fosse Camerini, il precursore, se si vuole della «commedia all’italiana», da sempre il cantore dei sentimenti (magari dei buoni sentimenti), degli affetti privati,
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delle piccole storie all’interno della grande storia (si pensi a Il signor Max dove il popolo è preferito alla grande borghesia o all’aristocrazia, classi che non hanno più niente da dire), ad affrontare per la prima volta il problema dei sentimenti privati, di quanto essi possano incidere nelle scelte, anche politiche, degli individui. E non è un caso che, negli anni successivi, sarà la commedia a segnalare questo fattore. Probabilmente, però, Camerini all’epoca (il film venne girato nel 1945) non se la sentiva di sottolineare un elemento che poteva in qualche modo sminuire il valore fondante di una resistenza che aveva accomunato tutto un popolo che, secondo l’immagine predominante, immediatamente, istintivamente, naturalmente, si era ribellato ai tedeschi. Da qui il finale, che riconducendo la scelta di Gina a un fatto privato e individuale, che riguardava unicamente lei e non la collettività («Ma dimme un po’… Che è reato politico quella là? – Macché!… l’aveva piantata l’amante»), lasciava interdetti quei critici che avevano visto in Due lettere anonime la solita “commediola” sentimentale di Camerini. Il già citato Pietrangeli, ad esempio, non riusciva a capire o, se non altro ad accettare, una conclusione senza il classico happy ending. Il traditore era morto, pagando così le sue colpe, scriveva: che bisogno c’era di infierire «sulla povera ragazza ravveduta», negandole il riconoscimento dell’atto eroico compiuto? Forse proprio questo finale drammatico avrebbe dovuto mettere sull’avviso il critico e futuro regista Pietrangeli, che invece riconduceva il tutto «solo» alla «smania di far “nuovo”, di far “originale”». Era solo per questi motivi che «Camerini e i suoi collaboratori si sono sentiti indotti ad appiccicare – questa è la parola – un finale così sconsolato e drammatico ad un film che, coerentemente alla sua scadente qualità, meritava il più classico e prolungato dei baci finali a francobollo»71.
71
Pietrangeli, Sala di proiezione. Due lettere anonime, cit.
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LA RESISTENZA NELLA GUERRA CIVILE FREDDA Il titolo del paragrafo riprende una definizione di Aurelio Lepre che con «guerra civile fredda» descriveva il clima vissuto in Italia tra le elezioni politiche del 18 aprile 1948 e i primi anni Cinquanta1. A partire dal 1948 la Resistenza iniziava a scomparire dagli schermi: dal 1949 al 1955 contiamo solo quattro film, ma il primo, un documentario peraltro, Un piccolo esercito nelle Langhe (regia di Folco Lulli) ebbe una circolazione pressoché nulla. La riduzione era certamente il frutto dello sviluppo della guerra fredda con le sinistre che chiedevano di completare il cammino di libertà e progresso civile iniziato con la Resistenza e la Democrazia Cristiana protesa da una parte a contestare alle stesse sinistre il «monopolio» della Resistenza e dall’altra a sottolineare come i partigiani cattolici (i migliori – aveva affermato De Gasperi – perché avevano combattuto «per la Patria e solo per la Patria, senza riservare nulla al Partito») avessero lottato per «l’indipendenza e la libertà», testimoniando quindi l’avversione profonda verso ogni forma di regime totalitario, compreso quello sovietico2. Nel 1949 arrivava nelle sale La fiamma che non si spegne3, una pellicola ispirata al sacrificio di Salvo D’Acquisto, ma dove era possibile intravedere, nel luogo scelto dai tedeschi per la fucilazione degli ostaggi, una cava abbandonata, anche accenni alle Fosse Ardeatine. Il Ministero della Difesa autorizzava il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri «a contribuire con personale e mezzi (esclusi quelli finanziari)» alla realizzazione del film purché la società produttrice, la O.R.S.A. FILM, si impegnasse ad escludere dal film «qualsiasi riferi1 A. Lepre, Storia della prima Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1993, capitolo IV, pp. 119-156. 2 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 22-27. 3 La regia era di Vittorio Cottafavi; soggetto e sceneggiatura di Oreste Biancoli e Giuliano Conte dal romanzo Itala gens di Franco Navarra.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
mento di natura politica o richiamo al regime fascista ed alla cessata forma istituzionale»4. Impegno prontamente sottoscritto dal presidente della società, il generale Franco Navarra Viggiani che peraltro qualche mese dopo mostrerà il copione al colonnello Rinaldo Fiore-Vernazza del Ministero della Difesa-Esercito, sezione Stampa, ricevendone complimenti e apprezzamenti per «il nobilissimo scopo del film»5. Lo stesso Fiore-Vernazza, ricevendo la «brochure» con i dialoghi, le foto e la sceneggiatura completa, scriverà che il film «è sintesi ed esaltazione schietta dei valori spirituali del popolo italiano»6. Stesso giudizio espresso qualche giorno dopo da Eitel Monaco, allora presidente dell’ANICA: «Sono anche io convinto che è ormai tempo di mostrare il vero volto della nostra gente e del nostro paese»7. Una breve sintesi dello scambio epistolare tra militari (se si esclude Monaco) che dà l’idea dell’impostazione della pellicola. Brevemente la trama. Il carabiniere Luigi Manfredi, figlio di un altro carabiniere, Giuseppe [entrambi i personaggi sono interpretati da Leonardo Cortese] morto da eroe nella Grande Guerra, si immola per salvare i venti civili che dovranno morire per l’uccisione di due soldati tedeschi. Il film si chiudeva con un finale retorico, giudicato stranamente «bellissimo» da Mario Gromo su «La Stampa»8, a meno che il critico non volesse riferirsi più che al finale vero e proprio alle sequenze immediatamente precedenti, che costituivano certamente la parte migliore della pellicola. Le riassumiamo rapidamente. Luigi apprende della rappresaglia e corre al comando tedesco, invaso dalle donne di tutto il paese. Qui il capitano si mostra inflessibile, anche se nell’espressione del viso è possibile intravedere un accenno di pietà, come d’altra parte conferma la sua risposta: gli dispiace, ma deve eseguire gli ordini. Luigi guarda in soggettiva prima le donne che attendono il suo intervento, poi gli ostaggi. Segue un lungo primo piano. Torna indietro e domanda quando scade l’ultimatum per la consegna dei responsabili dell’uccisione 4 L. del Ministero della Difesa alla società O.R.S.A. FILM, 8 ottobre 1948, ACS, MTS, Div. Cin. B. 8, f. 769. 5 Fiore-Vernazza a Navarra Viggiani, 15 dicembre 1948, ivi. 6 Fiore-Vernazza a Navarra Viggiani, 5 febbraio 1949, ivi. 7 Monaco a Navarra Viggiani, 8 febbraio 1949, ivi. L’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini era stata fondata nel 1944. Cfr. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. III, Dal neorealismo al miracolo economico 1945–1959, cit., pp. 7ss. Id, I cinquant’anni dell’Anica, «Cinema d’oggi», 1994, n. 18-19, 20 ottobre 1994, consultabile anche in rete: http://www.anica.it/online/allegati/CINEMA_D_OGGI_50_ANNI_ANICA.pdf Eitel Monaco fu Direttore Generale della Cinematografia fino al 25 luglio 1943. Tra i fondatori dell’Anica ne divenne presidente nel 1945. 8 M. Gromo, “Manon” di Clouzot, «La Stampa», 1° settembre 1949.
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
dei due soldati. Tre ore, è la risposta. Chiede allora all’ufficiale una motocicletta. Va a salutare la mamma alla quale dice che deve andare via subito («Sono venuto per servizio», «Credevo fossi venuto per restare – risponde la mamma – Lo fanno tanti!»). Torna alla motocicletta dove uno dei due soldati tedeschi gli offre un frutto staccato precedentemente da un albero. Al comando non c’è più nessuno. Luigi capisce che manca pochissimo tempo alla scadenza dell’ultimatum. Implora di far presto e si fa condurre alla cava dove avverrà l’esecuzione. La motocicletta con i due militari e Luigi sorpassa una lunga teoria di persone (il prete avanti a tutti e poi donne, vecchi e bambini) che corrono verso la cava. Qui Luigi si accusa: è lui il colpevole. Il capitano non gli crede, ma acconsente allo scambio e lascia liberi gli ostaggi. Prima della fucilazione, un soldato leva la pistola d’ordinanza a Luigi: ma l’ufficiale comanda di ridargliela. E qui seguiva il finale retorico cui si accennava: Luigi vede il padre in sella a un cavallo bianco affiancato da un altro dello stesso colore. Giuseppe lo chiama. «Eccomi papà», è la risposta, mentre si ode la scarica dei fucili. Luigi monta a cavallo e i due partono al galoppo, seguiti da altri carabinieri, in una carica che ricorda quella di Pastrengo raffigurata in un quadro comprato da Giuseppe e trovato, nascosto in un baule, da Luigi. Il film mostrava, per così dire, una resistenza “istituzionale” (si avverte la vittoria democristiana del 18 aprile 1948), sottolineando non solo lo spirito di sacrificio dell’Arma, ma anche i valori cattolici che caratterizzano le energie “sane” della nazione, non a caso riscontrabili soprattutto in quel mondo delle campagne che fa da sfondo a tutta la vicenda. Quasi all’inizio del film il vecchio Manfredi [Gino Cervi], nonno di Luigi, esalta la fedeltà della famiglia ai valori “governativi” e a quelli cattolici: «Io penso che sia meglio andare d’accordo anche col governo, con Dio e col governo!». Del resto, lo stesso Luigi, prima di arruolarsi tra i carabinieri, va a studiare in seminario. E proprio quando la sua strada sembra quella di farsi prete, durante una sparatoria tra i carabinieri e un bandito evaso, capirà, mentre cerca di soccorrere uno dei militari morente, quale è la sua vera “vocazione”. Alla madre Maria [Maria Denis], che ha fatto di tutto per distoglierlo dall’idea di seguire le orme del padre, racconterà che nel carabiniere morente gli è sembrato di vedere il padre: Tu, il nonno, tutti… mi avete sempre detto che io sono il suo ritratto… ed è vero! In quel momento ho sentito che è così! E ho capito che quest’abito che indosso non è fatto per me! La mia strada è un’altra, la sua! […] Non puoi rimproverarmi, mamma, perché sei tu che mi
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hai fatto così! Un giorno capirai che il modo migliore di ricambiarti è quello di assomigliare a mio padre, di comportarmi come lui si è comportato. Ho sempre desiderato che in me tu rivedessi lui!
Un assunto, quello sopra riportato, garbatamente criticato sul «Corriere della Sera» da Arturo Lanocita. Recensendo i film presentati alla Mostra del Cinema di Venezia 1949, scriveva che La fiamma che non si spegne «ha un titolo enfatico […] e un enfatico assunto. Si propone di esaltare l’eroismo dei carabinieri, ed è un proposito meritorio: sostiene che quest’arma ha una sua missione, ed è giusto. Ma pretende che carabinieri si nasce o si diventa per vocazione, e qui ci sono la stessa enfasi del titolo e il punto debole della pellicola»9. Lanocita parlava anche di «una strana indulgenza» verso i nazisti. In una seconda recensione l’accusa era precisata meglio: Nuoce anche qui una stortura politica, in cui virtù [sic!] i nazisti sono raffigurati, benché sevizino e uccidano innocenti, come brava gente, amareggiati dalla carneficina che, poveracci, sono costretti a compiere […] Non so se il film sia, come dicono, filonazista: so che falsa la storia, almeno in questa parte. Il resto della pellicola è sorridente e gentile, di una dolciastra gentilezza deamicisiana, fra gente di campagna tutta buona e tutta con il cuore in mano10.
Lanocita era fin troppo cortese e generoso. Su «Cinema» Guido Aristarco sottolineava che nella pellicola erano riscontrabili – e lo virgolettava – «gli “estremi di una rivalutazione delle guerre fasciste e un travisamento della lotta di liberazione”». Peraltro, aggiungeva, il film era privo «di qualsiasi requisito non diciamo artistico ma addirittura tecnico»11. Si scatenava la polemica politica. Già «l’Unità», nella presentazione dei film della Mostra, aveva parlato de La fiamma che non si spegne come di un film «dedicato all’opera dei carabinieri come modesto omaggio a Scelba»12. Nel frattempo trenta, tra giornalisti e scrittori, indirizzavano al presidente della Mostra, il democristiano Giovanni Ponti, una vibrante protesta «per la scandalosa presentazione» del film al Festival, sottolineando come la pellicola avesse «offerto lo spunto a parte del pubblico presente per inscenare, durante e dopo la proiezione, manifestazioni di carattere neofascista». La lettera si concludeva con la 9 A. Lanocita, Sconcertante “Manon” di Clouzot che giustifica tutto: lodi e biasimi, «Corriere della Sera», 1° settembre 1949. 10 lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 23 novembre 1949. 11 G. Aristarco, Aveva ragione Duvivier, «Cinema», n. 22, 15 settembre 1949, p. 125. 12 E. Macorini, Il Festival diVenezia quest’anno è una fiera del film, «l’Unità», 11 agosto 1949.
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
richiesta alla direzione della Mostra di non ammettere La fiamma che non si spegne «allo scrutinio della giuria» e alle autorità di esaminare se nella pellicola non si ravvisassero «gli estremi del reato di apologia del fascismo»13. Suscitava polemiche persino il lancio promozionale del film al «Supercinema» e all’«Adriano» di Roma sul quotidiano del PCI «l’Unità» il 23 settembre 1949 («Nella tragedia della Patria, un’epopea di gloria»), tanto che il giornale si vedeva costretto a pubblicare il giorno dopo un trafiletto, in cui si dava notizia delle proteste, «giustificate», di molti lettori del giornale per la promozione del film e si precisava che la pubblicità era a pagamento: «i consigli in essa contenuti non esprimono il pensiero del giornale. Nel caso particolare il giudizio del giornale sul film in programmazione è quello espresso dal nostro critico nelle recensioni di terza pagina e di cronaca»14. Macorini, nella recensione, ribadiva quanto scritto già qualche tempo prima presentando i film di Venezia e sottolineava come fosse dato particolare risalto alla “prima” romana facendo intervenire il ministro Scelba: Questo fatto e il film non varrebbero una parola di commento se la retorica e mal raccontata storia de “La fiamma che non si spegne” non fosse occasione, come era avvenuto a Venezia e come si è ripetuto iersera, di manifestazioni di tipo neofascista che nessun spettatore onesto può essere costretto a tollerare. La trama, carica di tutti i luoghi comuni del pateticume cinematografico, si svolge attraverso un paio di generazioni e più se si considerano anche i nonni e gli annunciati pronipoti: e sotto l’apparenza di glorificare l’Arma dei carabinieri, riesce a contrabbandare nella parte finale una non troppo celata rivalutazione delle guerre d’aggressione fasciste e a denigrare i combattenti della lotta antinazista mentre gli ufficiali hitleriani vengono rappresentati come corretti “gentlemen” che si limitano ad eseguire ordini. È dunque legittimo chiedere che la circolazione di questo film in Italia e all’estero sia vietata15.
Nel 1951, dopo aver girato alcuni documentari16 ed essere stato aiuto regista di Rossellini, De Santis e Lattuada, Carlo Lizzani girava il 13
U. Casiraghi, Trenta giornalisti contro un film fascista, «l’Unità», 3 settembre 1949. Tra i trenta firmatari: figuravano alcuni tra i critici più affermati, nonché giovani che si sarebbero imposti in seguito. Alcuni nomi: Umberto Barbaro, Massimo Bontempelli, Alfredo Orecchio, Renzo Renzi, Callisto Cosulich, Ugo Casiraghi, Arturo Lanocita, Rudi Berger, Guido Aristarco, Giulio Cesare Castello, Tullio Cicciarelli, Aldo Nascimbene, Tullio Kezich, Vito Pandolfi, Paolo Jacchia, Corrado Terzi, Edgardo Macorini, Paolo Gobetti. 14 Comunicato della redazione, «l’Unità», 24 settembre 1949. 15 E. Macorini, Le prime, «l’Unità», 24 settembre 1949. 16 I due più importanti erano Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949) e Modena città dell’Emilia rossa (1950). Nel primo Lizzani prendeva l’avvio dai lavori dell’Assise per la
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
suo primo lungometraggio, Achtung! Banditi! (soggetto e sceneggiatura di Rodolfo Sonego, Ugo Pirro, Giuliani De Negri, Giuseppe Dagnino, Carlo Lizzani, Massimo Mida, Enrico Ribulsi, Mario Socrate), la storia di un piccolo drappello di partigiani che, nei giorni a cavallo del proclama di Alexander (trasmesso per radio il 13 novembre 1944), scendono dalle alture del retroterra genovese per prendere in consegna un carico di armi nascosto in una fabbrica. La staffetta che li deve mettere in contatto con i compagni in città però è stata uccisa dai tedeschi. Devono sbrigarsela da soli. Il commissario Lorenzo [Giuliano Montaldo] e il Biondo [un vero partigiano, Bruno Berellini], vanno dunque in esplorazione a Genova e trovano una città deserta, spettrale. È in corso uno sciopero generale. I pochi mezzi pubblici che circolano sono controllati da fascisti in armi. Dopo non pochi ostacoli, riescono a trovare il loro contatto. I partigiani possono così raggiungere la fabbrica a Pontedecimo, alla periferia di Genova, per prendere le armi. Qui trovano una situazione nuova: furiosi per lo sciopero, i tedeschi hanno deciso di smontare i macchinari e trasportarli in Germania. Molti operai tentano di fuggire e vengono presi in ostaggio dai tedeschi: a nulla valgono le proteste delle donne accorse in difesa dei loro uomini. La fabbrica sarà smantellata. Arriva la notte. Partigiani e operai decidono di fare azione comune. I pochi tedeschi di guardia vengono sopraffatti. Sotto la guida dell’ingegnere [Andrea Checchi] operai e partigiani nasconderanno i pezzi indispensabili al funzionamento dei macchinari. In una notte di febbrile lavoro l’operazione viene portata a termine. Nel frattempo, uno dei soldati tedeschi prigionieri riesce a liberarsi e ad avvertire gli altri. I tedeschi arrivano e catturano Marco, l’operaio–partigiano [Lamberto Maggiorani, l’Antonio Ricci di Ladri
rinascita del Mezzogiorno tenutesi tra il 3 e il 4 dicembre 1949 in Campania, Lucania, Puglia e Calabria, cui parteciparono uomini politici, sindacalisti, intellettuali e artisti per soffermarsi successivamente sulla realtà delle città e delle campagne del meridione d’Italia e sulle lotte operaie e contadine per combattere la miseria e l’arretratezza. Il documentario, che si concludeva con la grande manifestazione politica a Melissa, cui parteciparono esponenti politici e intellettuali di tutta Italia, costituiva la più ampia inchiesta cinematografica girata nel Mezzogiorno negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Nel secondo, «tipico film di propaganda del Pci deli anni Cinquanta», il regista romano descriveva la rinascita dopo la guerra della città amministrata dalle sinistre (V. Giacci, Carlo Lizzani, Milano, Il Castoro Cinema, 2009, pp. 62–63). Cfr. anche M. Palmieri, I documentari sul Mezzogiorno dagli anni del dopoguerra al miracolo economico, «Giornale di storia contemporanea», n. 2, dicembre 2007, pp. 127–128; Ead., L’immagine dell’Italia nella propaganda audiovisiva della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano (1948–1964), «Meridione. Sud e Nord nel Mondo», nn. 2–3, aprile–settembre 2014, pp. 188–190.
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di biciclette], e l’ingegnere. Entrambi pagheranno con l’impiccagione il loro silenzio. I tedeschi iniziano un’opera di rastrellamento che porta alla morte di alcuni partigiani e al ferimento di Lorenzo. La sorte dei superstiti sembra segnata, quando l’arrivo degli alpini della divisione “Monterosa” spezzerà l’accerchiamento. Al vecchio nucleo, ridotto a poche unità, si uniranno nuove forze, gli operai scampati ai tedeschi («Siamo troppo compromessi, ma non vogliamo nasconderci. Veniamo in montagna. Beh, di armi ne abbiamo abbastanza!», afferma risoluto uno di loro) e gli alpini della “Monterosa”. Una nuova formazione partigiana potrà così formarsi. Questa, in estrema sintesi, la trama della pellicola realizzata nel 1951 e arrivata nelle sale cinematografiche a metà dicembre. L’anno precedente, Lizzani si era chiesto su «Cinema» se avesse senso girare un film sulla resistenza, dal momento che a detta di molti il pubblico italiano era stanco di pellicole sulla guerra. L’assunto, notava, era contraddetto dal successo riscosso da alcune pellicole straniere, in particolare americane, sull’ultimo conflitto: era altrettanto ovvio, inoltre, che non era possibile ripetere il modello di Roma città aperta o Il sole sorge ancora. La Resistenza era stata «un’esperienza collettiva di milioni di uomini e di donne», che aveva «investito tutta una nazione», determinando «la scoperta di nuovi rapporti umani, e la nascita di una società nuova»17. Trasferire questa esperienza in immagini significava, pertanto, «fare un film storico», dare la possibilità a un «pubblico più largo – che finora è stato lontano dalle scuole o nelle scuole ha appreso tanta storia di maniera e si è imbevuto di tanta oleografia – il senso profondo delle nostre vicende nazionali»: Il pubblico diventa generoso, ed è felice di poter distribuire danaro e applausi, quando può ritrarre dallo spettacolo cinematografico non soltanto l’emozione momentanea, l’eccitazione superficiale e passeggera, ma la riflessione e lo stimolo per futuri ricordi, quando può ricavare dalle vicende che passano davanti ai suoi occhi, dai sentimenti e dalle passioni che lo tengono allacciato allo schermo, ragioni di fiducia e di ottimismo per il proprio avvenire18.
A sostegno della sua tesi Lizzani portava l’esperienza che si stava realizzando a Genova dove un pubblico, in gran parte composto da operai, stava partecipando, tramite l’acquisto di azioni, al finanziamen17 C. Lizzani, Temi da ritrovare. Resistenza e storia, «Cinema», n. 52, 15 dicembre 1950, p. 326. 18 Ivi, p. 327.
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to di un film sulle Resistenza19. Nel 1950 nasceva, infatti, ad opera di Giuliani De Negri (il suo vero nome era Gaetano, ma De Negri preferì continuare a usare quello da partigiano) e Giuseppe Virgilio Dagnino la cooperativa «Spettatori Produttori Cinematografici» con lo scopo dichiarato di realizzare un film sulla Resistenza. All’appello lanciato dall’Anpi aderirono addetti ai lavori, operai, impiegati, studenti. Per raccogliere finanziamenti furono realizzate varie manifestazioni con la partecipazione di volti noti dello schermo, tra i quali Carla Del Poggio, Andrea Checchi, Massimo Girotti20. Ogni azione costava 500 lire. Ne furono vendute migliaia che costituirono il quaranta per cento del capitale. Un altro trenta venne dalle prestazioni dei tecnici e degli attori. Il resto fu «coperto dalle anticipazioni di noleggio»21. Lizzani, dunque, aveva chiari i suoi obiettivi. Li ribadiva qualche giorno dopo su «l’Unità»: riprodurre una vicenda nella quale potessero risaltare «i dati fondamentali dell’esperienza partigiana e la portata che essa ha avuto e nella difesa e salvaguardia dei beni materiali del popolo e nella formazione morale del nuovo cittadino». Non lasciarsi «distrarre, dagli aspetti marginali, dai “pretesti” romantici o estetizzanti», ma «puntare diritto al racconto di un’esperienza umana singolare e non ancora sufficientemente illustrata da tanta cultura italiana». Da «troppo tempo» la Resistenza era scomparsa dagli schermi: «Qualcuno ha creduto evidentemente che la Resistenza fosse un “pretesto” momentaneo e poteva restare soltanto una moda, una formula come un’altra. Gli antifascisti combattenti e tutti i cittadini veramente democratici sanno invece che la resistenza è ancora e dev’essere ancora il fondamento della nostra vita democratica attuale e aspettano un contributo più largo e fattivo dalla cultura italiana, dal cinema italiano. Noi speriamo, col nostro film, di non deludere l’aspettativa, crediamo, fermamente, nelle grandi possibilità, anche spettacolari, e diciamolo pure commerciali, di un film impostato oggi sul tema della Resistenza»22. Si avverte nelle parole del giovane regista il clima politico dell’epoca, con un tentativo sempre più accentuato da parte della classe governativa di sminuire il significato e i meriti della Resistenza. Non meraviglia, pertanto, il giudizio espresso sulla sceneggiatura del film da parte della Commissione di censura preventiva. È necessario aprire una piccola parentesi. Abbiamo già detto che l’invio del copione alla Commissione 19 20 21 22
Un film sulla resistenza prodotto dai lavoratori, «l’Unità», 22 ottobre 1950. Ibid. l.p., Gina Lollobrigida staffetta partigiana, «Stampa Sera», 26 agosto 1951. C. Lizzani, “Achtung! Banditi!”, «l’Unità», 7 gennaio 1951.
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era opzionale. Nel caso della pellicola di Lizzani i produttori ritennero non opportuno mandarlo. Tuttavia questo invio evidentemente ci fu, anche se in modo informale. Andreotti, allora sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio in una lettera indirizzata alla Cooperativa e per conoscenza al Ministero della Difesa, pur evidenziando che la società produttrice non aveva inviato il copione per la “precensura”, notava che tuttavia erano state «ripetutamente» esercitate «pressanti comunicazioni agli uffici» intese a conoscere le opinioni della Commissione (il sottosegretario ricordava l’ultima, quella del senatore Terracini)23. Il giudizio, dunque, ci fu. Sconsigliava di produrre il film, anche se – come sottolineava Andreotti – un giudizio negativo non pregiudicava le decisioni che sarebbero state adottate in sede definitiva a film ultimato. Vale comunque la pena di riportare ampi stralci del rapporto che esordiva sottolineando che se il film fosse uscito subito dopo la Liberazione, «avrebbe potuto testimoniare, sia pure in forma parziale, certi aspetti della nostra guerra di Liberazione, documentando 1’apporto dei partigiani comunisti e del popolo minuto in genere (operai, contadini, umili donne ecc.) alla conquista della libertà democratica»: Ora, a distanza di tanti anni da tali eventi e con situazioni radicalmente mutate in campo internazionale, il lavoro, che non ha il freddo distacco delle documentazioni storiche, ma che vive su motivi di calda ed appassionata fantasia, si ammanta volontariamente od involontariamente (ma noi propendiamo per il primo senso) di spunti di polemica politica che scaturiscono dallo stesso racconto cinematografico. È bene premettere che il lavoro illustra un episodio di guerra partigiana, portandoci nel crudo e sanguinoso clima dell’epoca. Non c’è un episodio, non c’è una parola d’umanità che lasci intendere, anche negli spasimi della morte, la possibilità di una conciliazione futura fra i due blocchi in lotta24.
È vero che non si accennava a un preciso partito politico, ma da alcuni elementi (la presenza di un commissario politico, «la ripetuta menzione» dei Gap e delle Sap, il termine «compagni» per definire gli operai «ed infine la particolare forma mentale dei personaggi») faceva intuire facilmente che si trattasse del partito comunista. Come per Il sole sorge ancora (di cui si ricordava che Lizzani «era stato ispiratore, sceneggiatore e collaboratore nella regia») anche Achtung! Banditi! at23 Bozza di lettera senza data del sottosegretario di Stato da inviare alla Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici e al Ministero della Difesa, ACS, MTS, Div. Cin., b. 24, f. 1126. 24 Revisione Cinematografica Preventiva, 5 febbraio 1951, ivi.
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tribuiva il merito della Liberazione ai comunisti, capaci di «galvanizzare la resistenza e trascinare il proletariato ed il popolo in genere verso le conquiste delle idee democratiche». E come nel film di Vergano anche in questo la borghesia veniva descritta come «assenteista, spregiudicata, cinica, con sfumature di doppio gioco […] oppure al rimorchio dell’idea insurrezionale come avviene nel personaggio dell’ingegnere amico degli operai»25. Ma non finiva qui. La pellicola di Lizzani si macchiava di un’altra colpa, far intravedere il tema della guerra civile: «La lotta è rappresentata da una parte e dall’altra con toni così accesi e cruenti che, se anche un partigiano ammette che i giovani delle brigate nere hanno aperto gli occhi e sono passati nell’altro campo, si ha la sensazione che una frattura irrimediabile si sia ormai verificata nel popolo italiano. La confluenza finale degli alpini, in un primo momento odiati dagli italiani convinti che siano al servizio dei tedeschi, nel movimento partigiano non riusciva ad attenuare «lo spettacolo penoso di una guerra fratricida, dannoso in questo momento alla formazione di una coscienza unitaria italiana e lesiva verso l’estero del nostro prestigio di popolo civile»26. Inoltre, Achtung! Banditi! faceva spesso cenno alla necessità della ricerca delle armi: «Se tali esigenze risultavano allora pienamente giustificate dalla necessità della lotta partigiana, dubitiamo ora che questo richiamo all’armamento individuale su di un piano rivoluzionario possa giovare a quel voluto disarmo dei cittadini per trasferire la difesa su di un piano organizzato, in senso nazionale, da parte dello Stato». Inevitabile la conclusione, dove pure era messo in rilievo come la pellicola, «nei punti in cui tralascia qualsiasi polemica sociale per dedicarsi unicamente allo sviluppo del racconto drammatico» contenesse pagine «notevoli in cui il dramma umano si fonde quasi plasticamente col paesaggio»: Tutti questi motivi ci portano ad esprimere ampie riserve sulla opportunità di una realizzazione del genere nel momento attuale, sia per i riflessi interni, in quanto il lavoro contrasta con l’auspicabile pacificazione e distensione degli animi, sia per i riflessi esterni, in quanto il film ripropone, in tutta la sua asprezza, l’odio contro i tedeschi che faticosamente si cercano di inserire nel quadro di un’Europa riorganizzata democraticamente27.
25 26 27
Ibid. Ibid. Ibid.
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È facilmente intuibile che un tale giudizio avrebbe di fatto impedito la realizzazione della pellicola se a produrlo non fossero stati semplici cittadini riuniti, come si è detto, nella «Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici». D’altra parte, la lettera inviata per conoscenza al Ministero della Difesa aveva avuto i suoi effetti: furono negate – come ricordava lo stesso Lizzani il 26 ottobre 1994, a Torino, nella serata inaugurale del convegno “Il sole sorge ancora” organizzato dall’Archivio Nazionale Cinematografico della resistenza – le armi vere, costringendo i tecnici a costruirne di finte in legno28. Ci fu anche chi rivolse a Lizzani rilievi opposti a quelli mossi dalla Commissione censura, di aver «dato ai tedeschi un’umanità che allora, quando ci fucilavano o ci impiccavano o distruggevano interi paesi certamente non avevano. E questo in fondo sarebbe un atto simpatico se non facesse sorgere in molti il dubbio di aver combattuto contro della gente come noi onesta e non contro gli autori delle più grandi persecuzioni e dei più mostruosi massacri». A esprimersi così era, su «Cinema», Abele Saba, giornalista, partigiano della prima ora, catturato dalle SS il 27 gennaio 1944 e deportato in Germania, che pure promuoveva a pieni voti un film dal «linguaggio pulito e serenamente onesto»29. Saba probabilmente si riferiva all’ordine del comandante tedesco di sparare in aria per allontanare dai cancelli della fabbrica le donne o alla frase sempre del comandante che rivolto all’ingegnere esclama: «Io non sono buono a torturare e non mi interessa mandarla in campo di concentramento». Comunque, l’uscita del film fu salutata con grande entusiasmo dalle forze di sinistra. Su «l’Unità» Paolo Gobetti sottolineava la «strada nuova per il cinema italiano» rappresentata da Achtung! Banditi!: «sono gli spettatori stessi, le masse lavoratrici quelle che possono dare nuova vita e nuovo vigore alla nostra cinematografia», minacciata dai colossali interessi che vogliono ridurre il cinema italiano a cinema comico–sentimentale. Da qui la necessità di favorire il successo, in ogni parte d’Italia, del film per dimostrare quali fossero «veramente le preferenze del pubblico popolare»: Achtung! Banditi! è il film dei lavoratori genovesi, ed è quindi il film di tutti gli uomini della Resistenza d’Italia e del mondo: è il film che
28 Cfr. P. Olivetti, a cura di, Cinema e Resistenza in Italia e in Europa. Atti delle rassegne e seminari “Il sole sorge ancora” ed “Europa ritrovata”, «I Quaderni del nuovo spettatore», n. 20, 1997, p. 15. Cfr. anche T. Chiaretti, Il genero di De Gasperi monopolizza i documentari, «l’Unità», 10 giugno 1951. 29 A. Saba, Equilibrio morale in Achtung! Banditi!, «Cinema», n. 80, 15 febbraio 1952, p. 68.
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tutti dobbiamo vedere perché è veramente il nostro film, e non quello che gli speculatori ci vogliono imporre30.
Il film, smentendo tutte le previsioni, fu, per esprimerci con le parole dello stesso Lizzani, «un grande successo commerciale», realizzando «ottimi incassi anche nel Sud d’Italia»: «Ricordo l’euforia della Cooperativa […] per questi incassi anche in zone da cui ci aspettavamo un riscontro debole, perché erano regioni dove la Resistenza, la parola “Resistenza” stessa, era vissuta non con calore, ma addirittura con diffidenza31. Il che non poteva non fomentarne ancora maggiormente l’ostilità dei ceti conservatori, che spesso sfociò in numerosi incidenti tra spettatori di simpatie politiche opposte32. Probabilmente, a dar fastidio era proprio l’assunto scelto da Lizzani e dai suoi collaboratori. Non gesta eroiche, non dettati di natura ideologica, ma il racconto di azioni concrete. I nostri partigiani si trovano a dover operare una scelta: prendere le armi e ritornare in montagna o aiutare gli operai a salvare dai tedeschi la fabbrica che questi vogliono smantellare. Scelgono la seconda opzione. La loro azione guarda dunque al futuro: salvare dai tedeschi una fabbrica, smontando e nascondendo i pezzi più importanti dei vari macchinari: «La fabbrica è la nostra vita. – afferma Marco, rivolto ai compagni di lavoro – Se i tedeschi si portano via i nostri impianti, chi ci darà da lavorare? Oggi c’è qualcosa di importante da salvare oltre la pelle». Lizzani, in definitiva, ricordava a un’Italia che cercava di dimenticare e rimuovere quanto successo pochi anni prima, che erano stati i partigiani e gli operai, salvando le fabbriche, a consentire alla nazione la possibilità di avere un futuro. Da qui, anzitutto, un ambiente nuovo, sia dal punto di vista geografico (le alture intorno a Genova in quel “territorio di mezzo” dove finiva la campagna e iniziava la periferia
30 P. Gobetti, In “Achtung! Banditi! rivivono lo spirito e le lotte della Resistenza, «l’Unità», 12 dicembre 1951. Gobetti sottolineava come gli incassi del film stessero superando «ogni primato», dimostrando che il vero cinema italiano «non è quello delle speculazioni comicosentimentali-finanziarie, ma è quello che sa trovare nella nostra storia, nella realtà, la fonte dei propri soggetti». 31 A. Petricelli, Da Achtung! Banditi! a Maria José: la Resistenza nel cinema di Carlo Lizzani, in P. Iaccio, a cura di, La storia sullo schermo. Il Novecento, Cosenza, Pellegrini Editore, 2004, p. 43. 32 Ad esempio, «Stampa sera» in prima pagina riportava i tafferugli avvenuti al cinema «Metropolitan» di Roma che avevano richiesto l’intervento della polizia e che erano proseguiti anche fuori dal cinema (Incidenti a Roma per la proiezione d’un film, «Stampa Sera», 14 gennaio 1952).
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industriale33), sia da quello sociale rappresentato da uno spazio, quello della fabbrica, fino ad allora (ma sarebbe stato così anche in futuro) quasi del tutto assente nella cinematografia italiana. Una novità che veniva evidenziata dagli stessi personaggi del film: «L’ambiente questa volta è nuovo e forse questo fatto… ci mette una strana inquietudine addosso», afferma il commissario Lorenzo. In secondo luogo, anche Achtung! Banditi! presentava, come le altre pellicole viste in precedenza, una resistenza unitaria con gli italiani schierati compatti contro i tedeschi. Sono sempre questi ultimi ad avere un ruolo di primo piano: i pochi fascisti in divisa che si vedono sono figure scialbe e incolori, che si limitano a controllare i mezzi pubblici e a qualche azione di pattugliamento, senza nessuna autonomia rispetto ai soldati tedeschi. Anche nel film di Lizzani si verificava la presenza di più ceti sociali, una caratteristica peraltro notata dalla critica dell’epoca: Arturo Lanocita sul «Corriere della Sera» del 13 gennaio 1952 scriveva che al film «conferisce importanza il prestigio dell’assunto; la Resistenza ebbe il merito di unire gli italiani, al di sopra delle fazioni, nella lotta contro il nazifascismo»34. La borghesia, rappresentata dall’ingegnere ha un ruolo attivo e di fattiva collaborazione con gli operai (l’ingegnere morirà insieme all’operaio Marco, entrambi impiccati alle gru). È tutto un popolo che si ribella ai tedeschi e contribuisce in vario modo alla resistenza, dalla contadina che nasconde e aiuta il gruppetto di partigiani alla barista che li avverte della presenza dei fascisti, alle donne che, incuranti del pericolo, manifestano contro i soldati tedeschi che hanno preso in ostaggio i loro uomini. A questo proposito va detto che nel montaggio fu eliminata la sequenza nella quale le donne accorse ai cancelli della fabbrica aggrediscono con insulti e sputi gli alpini della “Monterosa”. Apprendiamo dalle parole dell’ingegnere, infatti, che questi ultimi, pur di lasciare i campi di concentramento in Germania, hanno accettato di combattere a fianco dei nazifascisti: «Sarà un disgraziato come tanti altri, – afferma a proposito di Domenico [Vittorio Duse], un alpino della “Monterosa, fratello di Anna [Gina Lollobrigida], una sua collaboratrice – ma comunque è gente che oggi è… dall’altra parte». Per la verità, Lizzani stesso non ricordava, in un’intervista concessa ad Assunta Petricelli, se la sequenza delle donne che insultano i militari italiani fosse stata tolta per ordine dell’Ufficio Revisione censura preventiva (nei documenti conservati in Archivio 33 34
Cfr. U. Casiraghi, Maggiorani è tornato nei panni d’un operaio, «l’Unità», 12 maggio 1951. lan., Achtung! Banditi!, «Corriere della Sera», 13 gennaio 1952.
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c’è un cenno in tal senso) o per altre ragioni35. Fatto sta che in un primo momento gli alpini non sono visti di buon occhio dalla popolazione civile: «La gente incomincia a parlare male degli alpini. Dice che li impiegheranno contro i partigiani», sussurra Anna a Domenico, alpino della “Monterosa”. E proprio la parentela di Anna e Domenico indurrà l’ingegnere, gli operai e i partigiani a vedere in Anna una spia al soldo dei tedeschi. Ma dopo – e probabilmente proprio in seguito all’episodio cancellato (o censurato) sopra riportato – gli alpini guidati da Domenico si schieravano con i partigiani. Certo, questi ultimi non vedono di buon occhio il loro ingresso nelle fila della resistenza: «Vi siete tenuti addosso questa divisa per tanto tempo, fin che vi ha fatto comodo!», esclama Franco, l’unico studente della piccola pattuglia partigiana. Si accende immediatamente un piccolo dibattito che alla fine sarà risolto dal comandante Vento [Giuseppe Taffarel, anche lui, come molti altri attori, aveva combattuto nelle formazioni partigiane36]: Vento – Quello che hanno fatto finora a noi non interessa. Franco – Gli eroi degli ultimi cinque minuti non li sopporto. […] Vento – Noi vogliamo soltanto della gente capace di combattere contro i tedeschi. Altri sono venuti a noi. Mica è una novità! Un partigiano – Se hanno aperto gli occhi e sanno combattere bene nessuno li respingerà. Un operaio – Li ho visto io che sparavano contro le SS. Franco – Non ho detto che non debbono venire con noi, però non li voglio vedere armati: ecco tutto! Vento – Ti stai dimenticando che dobbiamo ancora uscire dall’accerchiamento e che per ritirarci dovremo sparare ancora? E avremo ancora di nuovo addosso tedeschi e fascisti? Il rastrellamento mica è finito!
Non è questo il solo, animato dibattito che si sviluppa all’interno del piccolo gruppo partigiano. Come muoversi, come lottare, come vincere questo conflitto che è diverso da quelli combattuti in prece-
35
Petricelli, Da Achtung! Banditi! a Maria José: la Resistenza nel cinema di Carlo Lizzani, cit., pp. 41–42. Aristarco su «Cinema» scriveva che la sequenza fu tagliata per ordine della censura: G. Aristarco, Film di questi giorni. Achtung! Banditi!, «Cinema», n. 79, 1° febbraio 1952, p. 52. 36 Il quotidiano del PCI, «l’Unità», metteva in risalto come nel film fossero utilizzati molti attori non professionisti, in gran parte provenienti proprio dalle brigate partigiane: «D’altra parte nessuno dei “pivelli” si spaventava dinanzi alla macchina da presa. Uno di essi tranquillamente mi diceva che lavorare gli è facile perché si tratta di rifare cose già fatte in altri tempi» (K. Marzullo, I partigiani fanno un film sulle montagne di Genova, «l’Unità», 2 marzo 1951).
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denza, come evitare rappresaglie che possano colpire la popolazione civile. Tutto questo è materia di discussione, in particolare dopo l’annuncio alla radio del proclama di Alexander (che provoca sgomento tra i partigiani, tanto che Vento si sente in dovere di intervenire per rassicurarli: «Non ci siamo spaventati quando abbiamo incominciato dal nulla e ora siamo abbastanza forti per resistere»). Forse queste continue discussioni frenano un po’ la linearità del film, ma fanno comprendere quanto fosse difficile e complicata la battaglia che si stava svolgendo: Lorenzo – Sei preoccupato per quell’annuncio alla radio? Vento – No, è per i ragazzi… Sono sempre pronti a criticare. Adesso sono morti di sonno, ma tu vedrai domani. Ricominceranno. Ogni passo una discussione! Lorenzo – Eh, se ti aspetti che cambino! Ogni giorno i problemi aumentano. Prima di giocare la pelle, la gente vuole ragionare con la propria testa! Vento – Ma è giusto, ne hanno il diritto, chi dice il contrario. Ognuno deve essere responsabile di se stesso. Ma quando torniamo lascio il comando della squadra! Lorenzo – Non fa ridere! Vento – Io me la sento di pagare di persona, ma la responsabilità per la vita degli altri è una cosa difficile, insomma… Lorenzo – … e chi se la dovrebbe prendere? Vento – Chi è meglio di me! Lorenzo – Ti domando chi? Vento – Ma insomma, tu non hai mai dei dubbi? Perché mi vuoi convincere per forza? Lorenzo – Io non ti voglio convincere… Stiamo facendo la guerra più difficile e complicata, sempre staccati dai comandi, con mille questioni da risolvere e nessuno che ti dica mai: “hai fatto bene”, “Hai fatto male” o te lo dicono dopo perché prima è impossibile! Eppure ogni giorno un piccolo passo avanti si fa! Vento – Sì, questo lo capisco, ma gli altri? Franco, per esempio… Lorenzo – Franco ha delle qualità. E sai quale è il metodo per tirargliele fuori? Dargli una responsabilità, farlo agire mettendo lui al primo posto. Non sei d’accordo? Vento – Ma sì, sono d’accordo! Io non voglio parlare con te, ma ci casco sempre! Lorenzo – Ma qualche volta un po’ bisogna chiacchierare…
Sono frasi che già all’epoca suonavano ingenue e finivano con l’inficiare le magnifiche sequenze di massa del film. Su «La Stampa» Mario Gromo rilevava come a Lizzani andassero «tributate parecchie lodi, con altrettanti rimproveri», tra i quali anzitutto le «molte inutili
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parole. Inquadrature anche superbe, e istanti anche vibranti, sono come avvolti, e in parte annullati, da un verbalismo che risolve i suoi eccessi in altrettanti disguidi»37. Sul «Corriere della Sera» Lanocita non era da meno, sottolineando che alla capacità di documentarista di Lizzani, evidente in alcune inquadrature («le panoramiche della folla in movimento, le boscaglie, i dirupi, i ponti, le incastellature metalliche delle officine») non era corrisposta un’eguale capacità narrativa: La maggior parte degli errori del suo film è stata compiuta a tavolino, quando si sono preparati soggetto e sceneggiatura; altri durante le riprese, quando li si sono tradotti nell’azione. La quale risulta arruffata e difetta, oltre che di ordine, di chiarezza. Era un film di folla, difficile da governare; ma a parte il fatto che alcuni personaggi risultano pletorici o inessenziali (la donna che vive con il diplomatico, per esempio) tutti gli altri si muovono incessantemente, corrono, si affannano, senza che mai risulti chiaro dove vadano e perché38.
Anche Aristarco, che in Achtung! Banditi! vedeva «il primo film storico italiano dopo 1860» di Blasetti e che parlava di «un’opera più che bella, importante», notava la «debolezza» dei personaggi, appena accennati, tutti messi sullo stesso piano, nonché alcuni repentini passaggi di schieramento (come quello degli alpini) attribuendoli a una «sceneggiatura difettosa», ma anche ad alcuni tagli dovuti a pressioni politiche39. Analisi sostanzialmente giuste. Eppure, il non aver delineato sufficientemente i caratteri dei personaggi rispondeva forse proprio all’esigenza di Lizzani e dei suoi collaboratori di presentare una resistenza diversa da quella dei film precedenti: da una parte un’esperienza di massa, dove non esistevano le “prime donne”, dall’altra un evento talmente nuovo e inconsueto da richiedere la ricerca continua, per poter combattere (soprattutto dopo il proclama di Alexander), di motivazioni profonde, che non potevano essere ideologiche o istintive (come nelle pellicole precedenti) e che – e qui veniva fuori il Lizzani documentarista – dovevano essere facilmente comprensibili dalle generazioni future, che quell’esperienza non l’avevano vissuta. Si parla molto, dunque, in Achtung! Banditi! Parlano molto i partigiani e gli operai, parlano molto quei due personaggi, l’ex diplomatico Ignazio [Pietro Tordi] e la sua amante [Maria Laura Rocca], che ai critici del tempo sembrarono inessenziali, quasi delle “macchiette” 37 38 39
m.g., Achtung! Banditi!, «La Stampa», 13 dicembre 1951. lan., Achtung! Banditi!, cit. Aristarco, Film di questi giorni. Achtung! Banditi!, cit., pp. 52–53.
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incomprensibili in un film drammatico. Eppure proprio loro ci aiutano a scoprire quanto fosse necessaria la parola per comprendere quello che stava succedendo. Il loro è un linguaggio, anche sintatticamente e grammaticalmente, molto diverso da quello degli operai e dei partigiani, legato a un vecchio mondo che sta crollando: si pensi alla donna, la cui unica preoccupazione è quella di salvare l’«onore» e la reputazione di moglie rimasta fedele al marito lontano, prigioniero in Sud Africa: «anche lui è un combattente, un uomo d’onore, una persona perbene», dice a Lorenzo nel momento in cui gli sta dando i suoi vestiti. E così Ignazio, l’ex diplomatico, che pure confida molto nelle sue capacità di eloquio e non si accorge di usare un linguaggio desueto, che non è in grado di leggere e quindi di agire nella realtà. Rivela ai partigiani che, come ogni sera, passerà il tenente Wolff, ma non c’è da preoccuparsi, con lui ci si può mettere d’accordo: «È un anti–militarista». E alla domanda di Franco su cosa pensi il tenente dei partigiani risponde convinto: «Vi metterete d’accordo. Certo dovete avere fiducia in me! Naturalmente, nella nuova situazione le armi non servono, vero?». Morirà proprio tradito dal suo eloquio. Prima infatti tenterà di far capire al tenente, preso in ostaggio dai partigiani, che questi sono tutto sommato bravi ragazzi, che forse stanno compiendo un’azione senza logica, almeno dopo il proclama di Alexander: «Ma sa com’è, sono spinti da un loro sentimento, da un loro desiderio….». Successivamente, quando la situazione si invertirà e il tenente sarà liberato dai suoi soldati, continuerà a nutrire una fiducia incrollabile nel potere delle parole. E muore, ucciso dal tenente, proprio mentre imperturbabile sta promettendo ai partigiani prigionieri che lui riuscirà ad accomodare tutto: «Vuol sapere dove sono i partigiani. Chi ha dato l’ordine di venire in città. Tu naturalmente non glielo dire. Il tenente è un amico!». Diverso – e ne abbiamo fatto cenno sopra – il linguaggio di partigiani e operai e anche quello di chi, pur appartenendo a un ceto diverso, si è schierato contro i tedeschi, come Franco, l’unico studente del gruppo che con grandi sforzi arriverà a capire che è inutile il bel gesto, se poi provoca la rappresaglia su civili inermi, e che bisogna allearsi anche con chi ha – o ha avuto in passato – convinzioni politiche diverse. O l’ingegnere che è stato in certo senso “allievo” dell’operaio Marco (all’affermazione di quest’ultimo, «La gente è stufa della guerra», risponde con lieve accento ironico: «Eh no! Non vorrai mica farmi lezione adesso! Queste cose me le dicevi un anno fa. Le ho capite fin da allora! E poi non voglio diventare troppo rivoluziona-
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rio!»). Al comandante tedesco che vuole sapere dove siano nascosti i pezzi senza i quali le macchine della fabbrica non possono funzionare risponde con grande semplicità, con parole che ribadivano l’essenza del film: «Ma perché insiste? Tanto lo so che la mia condanna è già stata decisa. A che vi servono le nostre macchine messe insieme alla meglio? Non ve ne fareste niente e non ci potete certo costruire le armi segrete […] Quel poco che ci è rimasto noi lo difendiamo con le unghie e con i denti. Il reparto l’avevo messo su io coi miei operai. È stato bombardato già due volte. Abbiamo ricominciato: pensavamo al domani. E ora ci siamo difesi!». In definitiva, un film dal punto di vista formale certamente con gravi pecche, giustificate però dall’intento di ribadire, forse in modo eccessivamente ripetitivo, come era stata vissuta un’esperienza nuova, inconsueta, difficilmente decodificabile con le vecchie categorie. Soprattutto, come scriveva Tommaso Chiaretti su «l’Unità», che pur riconosceva la debolezza di alcuni personaggi, un film dove la resistenza era vista come «lotta complessa di popolo, cui ha partecipato tutto il popolo, rappresentato in ogni suo strato»: «Lizzani dice in sostanza, a coloro che oggi si accaniscono contro gli uomini della Resistenza, che l’offesa alla resistenza è offesa a tutto il popolo italiano»40. Le parole di Chiaretti fanno capire dunque quale era il “peccato” maggiore commesso dal film: quello di non “museificare” la Resistenza, di renderla qualcosa di vivo, che aveva unito tutti gli italiani e aveva permesso la ricostruzione di un Paese uscito distrutto, materialmente e moralmente, dalla guerra. In definitiva, Achtung! Banditi! affermava chiaramente che l’esperienza resistenziale era quella sulla quale bisognava costruire il futuro. Un “messaggio”, questo, destinato a rimanere quasi isolato nel panorama cinematografico di quegli anni e per il drastico diradarsi dei film incentrati sulla Resistenza e perché – come avveniva in una pellicola del 1952, Penne nere (regia di Oreste Biancoli; soggetto dello stesso Biancoli e di Giuseppe Driussi; sceneggiatura di Biancoli, Giuseppe Berto, Paola Ojetti, Alberto Albani Barbieri, con la collaborazione di Salvator Gotta) – l’immagine della Resistenza veniva completamente stravolta. La conferma del cambiamento di rotta veniva “annunciata” dalla Commissione di revisione preventiva il cui giudizio suonava molto diverso da quello testé visto sul film di Lizzani:
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Soggetto di ampio respiro, articolato con sobrietà, con misura e spesso con commozione. L’azione si sviluppa su poche linee essenziali, con un ritmo narrato, con personaggi vivi e nel quadro di atmosfere semplici, ma sane e sincere. La storia di questi personaggi è la storia di uomini e donne travolti da eventi e da circostanze molto più grandi di loro; è storia di gente semplice ma con sentimenti tanto elementari quanto profondi, sempre devoti alla Patria e alle tradizioni delle “Penne nere”41.
Penne nere, che iniziò a circolare l’anno successivo con un buon risultato al botteghino (decimo per incasso tra i film italiani con più di 550 milioni), si apriva con lunghe panoramiche sulle casette di un paesino della Carnia, mentre in voice over si tracciava quella che ne sarebbe stata l’indicazione principale: «I personaggi di questa storia sono uomini e cose. Gli uomini li conosceremo un po’ alla volta andando avanti, per ora presentiamo le cose. Un paese come ce ne sono tanti nelle vallate della Carnia, ricche di prati e di boschi che danno pastorizia e legname. Sono le uniche risorse di questi abitanti che raccolti in pochi gruppi familiari e legati da affetti e da antiche tradizioni vivono in case semplici e linde, protette dal campanile della chiesa». Nell’atmosfera idilliaca del borgo, dove gli abitanti si conoscono tutti e tutti sono profondamente legati alle loro montagne, nasce l’idillio tra Gemma [Marina Vlady], poco più di una ragazzina, e Pietro [Marcello Mastroianni], soprannominato Pieri. A turbare la tranquillità del paesino è la guerra: prima si manifesta con la chiamata alle armi (ovviamente nel corpo degli alpini) dei più giovani, tra cui Pieri, poi con un terribile bombardamento in cui muore il padre di Gemma. Rimasta sola, la ragazza viene accolta come una figlia a casa del fidanzato. Nel frattempo il prolungarsi della guerra fa sì che venga richiamato anche Olinto [Guido Celano], fratello maggiore di Pieri, sposato e con un figlio, Tonino, impersonato da Enzo Stajola, il ragazzino Bruno in Ladri di biciclette. Pieri e Olinto si ritrovano in Albania e lì – annuncia la voice over – vengono «colti dai tragici eventi dell’8 settembre». Il battaglione di cui fanno parte Olinto e Pieri ha subito gravissime perdite e perso i contatti con il grosso dell’esercito. Gli alpini sono sbandati, non sanno come comportarsi: l’unica certezza che hanno è quella di non voler cadere prigionieri. Chiedono consigli all’unico superiore rimasto, il maggiore medico. Una carrellata da sinistra verso destra ci mostra i volti stanchi e cupi degli alpini mentre 41
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ascoltano la risposta del maggiore che è in certo senso in linea con il comunicato di Badoglio: «Non è facile dare dei consigli, ragazzi! Posso dirvi solamente che ormai, dopo quello che è successo, ciascuno di noi vale per se stesso, quello che è! Eravamo dei reparti armati e… ora non lo siamo più! Non c’è niente di vergognoso in tutto questo. Tutti, voi, noi, quei poveri feriti là dentro, gli altri… tutti abbiamo fatto il nostro dovere. Ora è come se vivessimo in un mondo nel quale gli uomini hanno già imparato a non volere più la guerra. Non so se sono riuscito a spiegarmi!». I «ragazzi» hanno un unico desiderio: tornare a casa. A nulla valgono le argomentazioni del maggiore: «A casa? Tutti vorremmo tornarci, ma non è facile! Sentite? [allude al rombo del cannone] E poi la popolazione che ci odia… e infine il mare da attraversare…». Gli alpini sono irremovibili: Olinto – Ma noi andiamo a piedi, per terra! Maggiore – È una pazzia: di là da quelle montagne c’è la Iugoslavia, è lunga quanto l’Italia, sareste catturati dopo pochi chilometri come degli sbandati. Un alpino – Noi staremo uniti! Pieri – E non scenderemo mai a valle. Maggiore – Vi rendete conto di quello che dite? Catene e catene di monti a non finire…. E poi l’inverno che arriva…
Alla fine al maggiore (che rimane unicamente per alleviare le sofferenze dei tanti feriti) non resta che augurare buona fortuna al gruppetto che si mette in marcia. Il film ci mostra una parte di questa marcia su distese bianche di neve e asperità da superare, mentre sempre la solita voice over ci dà indicazioni sui pensieri e sulle motivazioni dei nostri. Non sono più un gruppo indistinto, ma ognuno acquista una sua identità: «E sognando la loro casa lontana, iniziano il loro aspro cammino su per la costa della montagna. Non sono più un reparto, non hanno più vincoli di disciplina. È un gruppo di uomini uniti da una stessa sorte. Olinto che considerava fratelli minori non solo il suo Pieri, ma anche gli altri compagni della grande avventura: Zoltan, abile bracconiere, Zuan, rigido guardiacaccia, Carniel, preoccupato sempre del mangiare, Gardin, che ancora troppo giovane non sa misurare le proprie forze, Biasutt che pensa sempre al bambino che gli è nato e che lui non ha nemmeno visto, Berto che faceva il pastore sulle montagne ed è abituato alla solitudine. E tutti gli altri, uomini semplici, montanari, senza grandi idee. Eppure, in quella decisione di non rassegnarsi al destino più facile e più triste e di affrontare un viaggio disperato
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per arrivare a casa, c’era tutto ciò che si poteva salvare della patria in quel momento: il senso della dignità umana e la volontà di andarsi ad unire alla famiglia, rifugio al quale tutti tendiamo nella buona e nell’avversa fortuna!». Dopo una lunghissima marcia i nostri arrivano al loro borgo e si rifugiano in montagna dal momento che i tedeschi hanno occupato il paese. E qui il film introduceva una grossa novità. Qualche fascista nelle pellicole precedenti s’era pur visto: qui – per riprendere quanto scriveva Lanocita sul «Corriere della Sera» – «di fascisti e nazisti nemmeno l’ombra»42. I nemici sono i tedeschi, ma anche loro rivestono un ruolo secondario. I nemici sono soprattutto… i russi43! Sì, siamo in piena guerra fredda, con i rapporti con la Iugoslavia sempre più tesi, e gli autori ritengono opportuno inserire come nemico i cosacchi, rappresentati come individui selvaggi, crudeli, stupratori di donne. Così il parroco dal pulpito si rivolge alle donne del paese: Non è la prima volta che soldati stranieri invadono il nostro paese. È la triste sorte di queste regioni di confine. Ora abbiamo qui i cosacchi, vengono dalla Russia. Li hanno portati qui i tedeschi, promettendo loro che diventeranno padroni delle nostre terre. Questo, con l’aiuto di Dio, non avverrà! Può darsi che non siano cattivi, ma guerre e invasioni rendono cattivi tutti quanti. Noi ci dobbiamo difendere e soprattutto non bisogna spaventarsi. Sono selvaggi: guai a far vedere che si ha paura! Bisogna farsi rispettare! Il comando tedesco mi ha assicurato che sarà mantenuto l’ordine e nessun sopruso sarà permesso ai danni della popolazione. Ma dovete essere prudenti, nessuna donna vada in giro da sola, specialmente le giovani. Se qualcuno di questi uomini volesse entrare nella vostra casa, anche con le buone, non aprite, non rispondete. Tutti i nostri soldati sono lontani! Preghiamo per loro! Chiediamo al Signore la forza di poter resistere e che li faccia tornare presto!
Ora, è vero che il film rispecchia la verità storica44, ma arrivare a inquadrare in primo piano un cosacco con tanto di stella rossa sul 42
lan, Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 1° dicembre 1953. Ovviamente, il quotidiano del PCI, «l’Unità» reagiva immediatamente sottolineando l’assurdità del racconto: «Inutile proseguire il racconto di simili insulsaggini; meglio dimenticare tutto al più presto e sperare che non si moltiplichino episodi del genere che non rendono certamente onore al cinema italiano e sono l’indice più evidente di un dilettantismo degenere» (Penne nere, «l’Unità», 4 maggio 1952). 44 Circa 35.000 cosacchi, alcuni dei quali soprattutto nei primi momenti dell’occupazione, si macchiarono di violenze nei confronti della popolazione civile, erano presenti in provincia di Udine al seguito dei tedeschi: avrebbero dovuto opporsi all’avanzata degli alleati, ma si arresero senza combattere, dichiarando che il loro nemico era Stalin e non gli anglo–americani (cfr. N. Bethell, The Last Secret, London, Coronet Books-Hodder & 43
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colbacco sa tanto di manifesto da campagna elettorale del ’48. Sono loro, i cosacchi, a compiere, infatti, il “lavoro sporco”. I tedeschi hanno deciso di far saltare in aria la diga, costringendo così gli abitanti ad evacuare il paese, ma affidano ai cosacchi il compito di porre le mine. E lo scontro sarà appunto tra gli alpini (al nucleo originario se ne sono aggiunti altri) e i cosacchi. E ancora sarà un cosacco a sparare a Gemma. La giovane viene portata da Pieri in chiesa e qui l’alpino chiede a padre Angelo di sposarli in extremis. La cerimonia avviene, mentre Pieri implora la Madonna di salvare la sua amata. «E – racconta la solita voice over – «la Madonna fece il miracolo! A rallegrare il matrimonio di Gemma e Pieri venne un piccolo Olinto». L’happy ending veniva così rispettato e il film si concludeva con la pace tornata nel borgo e con la nuova famiglia (di alpini) che si costituiva: «Così finisce la nostra storia di uomini e di cose. C’è una leggenda da queste parti. Dice che quando nasce un bambino un’aquila scende sulla sua culla e vi lascia cadere una penna nera, che poi verrà riportata in alto verso il cielo sul cappello di un alpino!». Non potrebbe esserci prova migliore di come un film dica molto più sul momento in cui viene girato che sugli avvenimenti di cui parla. Venivano rispettati tutti gli stereotipi della guerra fredda, dai russi, brutti, cattivi e stupratori di donne alle madonne che compivano miracoli. Da una parte la tranquillità e la pace del paesino di montagna, la gente rude e vigorosa, profondamente onesta, la chiesa e il parroco al centro della vita della piccola comunità. Dall’altra il nemico, non i tedeschi («Il comando tedesco mi ha assicurato che sarà mantenuto l’ordine e nessun sopruso sarà permesso ai danni della popolazione», sottolinea il parroco), ma i cosacchi. Non i nazisti, ma i comunisti insomma. Penne nere raccontava a suo modo la guerra fredda, in un momento di contrasto con la vicina Iugoslavia sempre più aspro per il problema di Trieste (si pensi agli scontri del marzo 1952 tra manifestanti e polizia alleata) che ebbe un riverbero perfino al festival di Sanremo con la vittoria di Vola colomba cantata da Nilla Pizzi. La canzone di Bixio Cherubini e Carlo Concina iniziava con i celebri versi che auspicavano un ritorno di Trieste all’Italia: «Dio del Ciel se fossi una colomba / Vorrei volar laggiù dov’è il mio amor, / Che inginocchiato a San Giusto / Prega con l’animo mesto: / Fa che il mio Staughton, 1987. Cfr. anche il film presentato dall’Università di Udine e dalla Regione Friuli: Carnia 1944 un’estate di libertà: http://repubblicadellacarnia1944.uniud.it/liniziativa/ film-documentario.html.
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amore torni / Ma torni presto». Il 1952, inoltre, era l’anno della legge Scelba sul divieto di ricostituzione del partito fascista, ma anche quello dell’operazione Sturzo tesa a sottrarre il comune di Roma alle sinistre e infine l’anno dell’inizio della discussione di un’altra legge firmata da Scelba, che prevedeva un premio di maggioranza alla formazione politica o al raggruppamento di partiti che avesse raggiunto il 50 per cento più uno dei voti: la legge passata alla storia con la celebre definizione di Piero Calamandrei «Legge truffa». Un anno, dunque, di forti contrasti che si auspicava potessero risolversi, come nel film, solo con la ricostituzione e la valorizzazione degli elementi costitutivi dell’identità italiana, in primo luogo la religione e la famiglia. Nel 1955 alla Mostra di Venezia veniva presentato Gli sbandati girato da un Francesco Maselli appena ventiquattrenne su soggetto di Prando [Eriprando] Visconti, sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico, Vasco Pratolini, Aggeo Savioli, Maselli e Visconti. Il film ebbe problemi con la censura fin dall’inizio. Il 13 novembre 1954 l’ufficio di Revisione Cinematografica Preventiva scriveva di nutrire non poche perplessità sul soggetto e sulla sceneggiatura. Il primo (in realtà si trattava, come era scritto sulla copertina, di una «scaletta generale di massima» intitolata provvisoriamente Quando l’estate finì) presentava una nota nella quale si sottolineava come si trattasse di un film «essenzialmente psicologico» incentrato su «tre personaggi colti in quello straordinario momento della vita, in cui dall’adolescente sboccia improvvisamente l’uomo»: L’analisi insomma del come e del perché da tre astrusi “bambinoni” che troviamo all’inizio del film, arriviamo ai tre uomini maturati, sia pure in diverse direzioni del finale. La ragazza che determina la crisi e la maturazione del più interessante dei nostri personaggi è un po’ il perno poetico e morale di tutto il film: una ragazza del popolo arrivata a una precoce maturità attraverso la sofferenza e le privazioni e che illuminerà della sua forza d’animo, della sua sofferta esperienza della vita, della sua serenità, l’arida esistenza del nostro protagonista maschile. Il film è ambientato nel ’43, un periodo di alta tensione drammatica per gli italiani, un periodo in cui ogni giorno poneva una nuova domanda, obbligava a una nuova decisione45.
L’ufficio però non si faceva trarre in inganno e sottolineava che non era estraneo al passaggio da “bambinoni” a uomini maturi una impostazione ideologica chiaramente di sinistra: l’ambientazione stori45
Quando l’estate finì, ACS, MTS, Div. Cin., b 120, f. 2091.
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ca, peraltro, permetteva agli autori di «raffigurare quello che, secondo loro, sarebbe stato l’atteggiamento di certi altolocato strati borghesi, indifferenti di fronte all’evolversi di una nuova situazione politica, in ciò naturalmente ispirati da un istinto di conservazione dei loro interessi privati». Certo, la sceneggiatura addolciva e smussava certe punte polemiche del soggetto, ma rimaneva inalterata la «tendenziosità» dell’opera «scarsamente convincente, come del resto molto poco convincente è il lavoro sul piano spettacolare»46. Il 23 dicembre 1954 il ministro dello spettacolo, il senatore Giovanni Ponti, scriveva al presidente del Consiglio Mario Scelba rispondendo ad alcuni quesiti circa i film in lavorazione. Tra questi anche Gli sbandati (nella lettera indicato come Fine d’estate) il cui soggetto era subito apparso ai funzionari dell’ufficio censura, seppure «in forma molto coperta», politicamente alquanto «insidioso», «per il colore politico dei produttori» (Nicola Caracciolo ed Eriprando Visconti: dei due venivano citati anche i padri, Filippo ed Edoardo) e del regista, «militanti, a quanto sembra, in partiti di sinistra». La richiesta di informazioni era subito stata inoltrata al prefetto di Roma. «Comunque sono state impartite istruzioni perché gli uffici non agevolino in alcun modo l’iniziativa», era la conclusione47. Infine il 4 aprile 1955 era lo stesso direttore generale Nicola De Pirro a scrivere al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega allo spettacolo Oscar Luigi Scalfaro. Riassumeva l’iter con cui era stato seguito il film ormai completato. Dal momento che era stato richiesto dalla casa produttrice il premio speciale il film era stato visionato dai funzionari più alti in grado, Annibale Scigluna e Rosario Errigo, che avevano confermato le riserve già espresse in passato: «Naturalmente, la pratica del finanziamento sul fondo speciale sarà ancora accantonata». Infine, De Pirro ricordava che era venuto a chiedere informazioni il principe Caracciolo, «padre del giovane produttore». Gli erano stati dati i chiarimenti opportuni confermando che le riserve avrebbero potuto essere sciolte solo dopo la visione del film da parte delle competenti commissioni di censura48.
46
Revisione Cinematografica Preventiva, 13 novembre 1954, ivi. Ponti a Scelba, 23 dicembre 1954, ivi. 48 De Pirro a Scalfaro, 4 aprile 1955, ivi. Nell’intervista con Toffetti Maselli ricordava che il film era stato girato «tutto con soldi anticipati, senza il minimo garantito, cioè i soldi della distribuzione […] Nicola Caracciolo mise tutti i soldi di questa sua eredità che erano una sessantina di milioni se non di più» (S. Toffetti, Intervista a Maselli, DVD Ripley’s film, 2007). 47
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Il film fu presentato a Venezia dove ebbe la medaglia speciale dalla giuria e iniziò a circolare «dopo cinque mesi di battaglie con la censura» che voleva costringere il regista «a modificare il finale»49. All’uscita nelle sale probabilmente contribuirono anche le modifiche apportate in fase di doppiaggio: «Con Ennio Flaiano abbiamo cambiato molto dei dialoghi perché c’era Nicola De Pirro, che allora era il plenipotenziario di tutto il cinema italiano, che diceva che queste cose andavano tolte perché erano istigazione all’odio fra i popoli»50. Gli sbandati sottolineava un elemento non adeguatamente messo in luce nelle pellicole precedenti: la responsabilità – e la drammaticità – della scelta nei convulsi giorni seguiti all’annuncio, l’8 settembre, dell’armistizio. Ci troviamo nella tenuta di campagna, La Malga, di una ricca famiglia aristocratica milanese: qui si sono rifugiati, per sfuggire ai bombardamenti, la contessa Luisa [Isa Miranda doppiata da Elena Zareschi], che dalla morte del marito cura le numerose aziende familiari, suo figlio Andrea [Jean Pierre Mocky], il cugino Carlo [Antonio De Teffé], figlio di un importante gerarca fascista rifugiatosi in Svizzera, e Ferruccio [Leonardo Botta], un amico d’infanzia di Andrea. La vita a La Malga sembra procedere nel più completo disinteresse di quello che sta succedendo. I nostri giovani passano il tempo tra gite e bagni al fiume e amoretti tipicamente estivi. L’unico a sembrare preoccupato di quel che sta succedendo è Carlo, che però non parla con gli altri due. Rivelerà quanto pensa solo in un drammatico colloquio con la contessa, che gli riferisce di aver saputo dal padre «cose abbastanza gravi» sul suo conto: Contessa – Non capisco questo tuo atteggiamento. Tuo padre è molto abbattuto, sai? Carlo – Non è facile neppure per me agire così! Contessa – E allora, perché? Carlo – Perché mi è molto difficile intendermi con lui. Contessa – Carlo, cosa dici? Dovresti arrossire. Tuo padre ha sempre lavorato, anche per te! Carlo – Sì, certo. Ha lavorato, hanno lavorato in tanti, accaniti, a ridurci al punto in cui siamo! Contessa – Carlo, Carlo… Non sono discorsi per la tua età! Tuo padre non ha che te! Questo conta… e tu gli devi almeno rispetto! Carlo – Io voglio bene a mio padre… ma quanto all’età, permettimi! Non c’è rimasto più niente! Tutto da rifare! E toccherà proprio a noi che abbiamo quest’età… 49 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935–1959, cit., p. 324. 50 Toffetti, Intervista a Maselli, cit.
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La vita tranquilla della Malga viene bruscamente interrotta dall’arrivo di una famiglia di sfollati. Se il futile e cinico Ferruccio si rifiuta di prendere atto della “novità”, Andrea inizierà a confrontarsi con la realtà, anche perché si innamora di una giovane operaia, Lucia [Lucia Bosè]. Nel frattempo arriva l’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio. Per il paesino passano i treni con i vagoni piombati che portano gli internati militari nei campi di concentramento. Grazie a un ferroviere, un gruppo di soldati riesce a fuggire. Andrea, profittando dell’assenza della madre partita per Milano per badare agli interessi della famiglia, li accoglie nella villa, conquistando la stima di Carlo e l’amore di Lucia: «È un bene che sia successo questo – dice rivolto a Lucia dopo un bacio appassionato – perché ho capito molte cose, molte. Sono cambiato, credimi!». Tra i soldati si accendono discussioni su cosa fare, tornare a casa o darsi alla macchia. Qualcuno propende per la prima ipotesi, ma viene subito smontato dalla logica ferrea di un commilitone: «Perché lui crede che i tedeschi lo lasceranno in pace a Rovereto! No, ci sono troppo affezionati, te lo dico io! E poi certamente non saranno soli. Quando ci hanno preso, a Torino, sono stati dei fascisti a dirgli dove stavamo e li hanno persino ricompensati. E in Francia era la stessa cosa. Solo se li aiutate vi lasceranno in pace! Ma è una pace che dura poco, credimi! Ti ricordi che fine facevano i collaborazionisti in Savoia? Te lo ricordi?». Alla fine, tutti convengono che bisogna restare uniti e rifugiarsi in montagna. Decisione rafforzata dalla delazione di Ferruccio: è andato dal podestà a denunciare quanto sta succedendo in villa. Bisogna agire subito. Si trova un camion che porterà gli “sbandati” in montagna: a loro si uniranno Carlo, Lucia e Andrea. Ma proprio quando il camion sta per partire arriva l’auto della contessa con un alto ufficiale tedesco: Contessa – Carlo, dove state andando? Carlo – Come evidentemente ti devono aver riferito, un gruppo di soldati italiani ha cercato riparo nella villa e noi li abbiamo aiutati. C’è stato però qualcuno che ci ha denunciato. E ora i tedeschi stanno per arrivare… […] Contessa – Andiamo svelti. Ho trovato il modo di farvi passare in Svizzera tutti e tre! Carlo – Noi andiamo con loro. È già deciso! Contessa – Ma Carlo cosa dici? Siete impazziti? Tuo padre non l’approverebbe mai! Carlo – Appunto per questo, zia Luisa! Andiamo Andrea, non c’è tempo da perdere.
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Contessa – Tu fa quello che vuoi. Andrea resta con me! […] Andrea – Mamma, non sono più un bambino! Contessa – Dici di non essere un bambino e ti butti in questa maniera allo sbaraglio. Ti getti nella prima avventura, rischi tutto per un assurdo puntiglio! Andrea – Non si tratta di un puntiglio, mamma! Contessa – Ma cosa credi che sia se non un puntiglio da infatuati. Andrea – Ma sarebbe un’azione vile! Non capisci che non posso abbandonarli. Non posso, non posso, non posso… Contessa – È il tuo dovere, invece. Pensa al nome che porti, agli uomini cui devi dare lavoro, alla tua posizione, alle tue responsabilità, Andrea! Andrea – Ma c’è Lucia, mamma. Tu non sai: ho promesso… Contessa – Andrea, non ho che te nella vita! Sono una donna sola!
Queste ultime parole convincono Andrea. Arriva la sequenza più bella del film. Andrea si volta verso Lucia: «Lucia, ti vorrei spiegare!». Carrellata in avanti in soggettiva sul volto di Lucia. Una lacrima le solca il viso. Lucia si volta e con Carlo raggiunge il gruppo che è salito sul camion51. Arrivano i tedeschi. L’ufficiale dice che la casa non deve subire danni. La proprietaria è una «collaboratrice». I prigionieri hanno pochi minuti di vantaggio. I tedeschi partono all’inseguimento. Primo piano di Andrea: nell’auto che lo porterà in Svizzera sente gli spari, urla fino a coprirsi il viso con le mani e piange disperatamente. Inquadratura successiva di due soldati tedeschi. Uno è ferito: la moto si è rovesciata. Sulla strada due cadaveri. Un uomo e una «mädchen [ragazza]», esclama il soldato dopo averne rovesciato il corpo con un piede. Lucia giace immobile sulla strada mentre vediamo il camion dei fuggitivi uscire dal nascondiglio dove si era riparato e riprendere la strada. Gli “sbandati” per il momento si sono salvati! Compare la scritta 5 ottobre 1943. Ci siamo dilungati sul finale perché è sicuramente la parte migliore del film come già mise in luce la critica al primo apparire del film a
51 Non sfuggiva all’ufficio censura come la sceneggiatura avesse “addolcito” soprattutto il finale. Nel soggetto si sottolineava, infatti, la durezza di Lucia nel momento in cui comprende la “resa” di Andrea alla madre: «Lucia non risponde niente, il suo sguardo è diventato duro, quasi freddo […] Le si è spento dentro qualcosa: Andrea era davvero nel fondo dell’animo un “signorino” […] Non c’è ombra di lacrime nei suoi occhi secchi e chiari nella luce che cresce. Chi piange ora dirottamente nella soffice macchina che lo porta in Svizzera è Andrea. Andrea vinto, vittima in fondo di un’educazione e di una classe sociale che non ha saputo fare di lui un vero uomo, un uomo moralmente costruito e robusto», Quando l’estate finì, cit., pp. 17-18).
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Venezia52. Il successo di pubblico verificatosi alla Mostra non si ripeté quando la pellicola arrivò nelle sale. Un esito dovuto probabilmente al tema, quasi rimosso dalla vita pubblica (nel 1955, decennale della Resistenza, il ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Giuseppe Ermini, invitava tutte le scuole d’Italia a celebrare il 25 aprile come festa per la nascita di Guglielmo Marconi53), e al modo con cui era trattato, come metteva in luce lo stesso Maselli: I tre ragazzi borghesi del film devono scegliere, devono fare una scelta di campo e di classe. Uno di loro, Andrea, non ce la fa, resta nella borghesia, non partecipa alla Resistenza. Andrea era visto come, insieme, complice e vittima della sua situazione, un personaggio complesso, sfumato. Quello che provocò imbarazzo a un certo tipo di critica (oltre alle accuse prevedibili che mi arrivarono dalla destra) era che non fosse un film sulla Resistenza di tipo celebrativo, era un tentativo – come scrissi allora, creando, mi ricordo, un putiferio nel partito, tanto che dovette intervenire Salinari a difendermi – di rimettere in termini di classe il discorso fascismo/antifascismo, collaborazionismo-Resistenza che sembrò una bestemmia perché era un’infrazione della logica ciellenistica, alla visione accreditata della Resistenza. Sicuramente non era un film banale rispetto ai tempi […] L’ottica e la scelta non erano né sulla celebrazione né sul cronachismo. Per questo non piacque neanche a certi miei compagni di partito. Casiraghi a Venezia, per esempio, ne parlò male su «l’Unità»…54.
In realtà, non è del tutto vero che Casiraghi avesse scritto una recensione negativa sul quotidiano del PCI. Anzi, sottolineava i grandi meriti acquisiti dagli autori per aver portato sullo schermo «un momento tipico della storia italiana, con il proposito di illuminarla attraverso i destini di alcuni sbandati». Certo, la scelta che Andrea doveva compiere tra la madre e i partigiani era così «spietata, da diventare caso singolo e non più illuminante della situazione di una classe». Comunque, nonostante l’«aridità» con cui era visto il paesaggio e «i difetti di sceneggiatura, di dialogo e di direzione degli attori» (comuni, aggiungeva Casiraghi, a gran parte del cinema italiano) il film riusciva a «dire delle cose originali in modo sufficientemente chiaro», sottolineando 52
Ad esempio, Mario Gromo su «La Stampa» scriveva che il film era «ingenuo, incerto, persino dilettantesco nella prima parte; poi più serrato, e con tocchi sorprendenti, e due o tre bellissimi nel finale» (M. Gromo, Bilancio della Mostra, «La Stampa», 13 settembre 1955). 53 Cfr. G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 43. 54 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935–1959, cit., p. 324.
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«le responsabilità di una classe nella storia tragica del nostro paese»55. Anche Lanocita sul «Corriere della Sera» trattava con benevolenza il film. Suo merito principale consisteva nel non essere «una pellicola a tesi»: «non sostiene la validità dell’una scelta e non infierisce contro la scelta opposta, sebbene non nasconde, e non potrebbe non farlo, la sua simpatia per coloro che abbracciano la causa della lotta destinata al riscatto dall’oppressione nazista». Ma erano sufficienti la mancanza di «enfasi», «l’obiettività», la «serenità e pacatezza di accenti» a fare de Gli sbandati un buon film? Lanocita non si pronunciava, ma la conclusione della sua recensione era eloquente: si trattava di «un’opera prima di buon rilievo; anche se il grande film sul 1943 resta ancora da fare»56. Su «La Stampa» Leo Pestelli evidenziava «il coraggio» di Maselli per aver scelto di soffermarsi sull’«anno più tragico della guerra, il 1943, che vide l’illusorio armistizio, lo sbandamento del nostro esercito e la sanguinosa occupazione tedesca; scelta che si indovina non occasionale e fredda, ma conscia e ispirata». Il finale del film riscattava le «non poche e quasi inevitabili acerbità e oscillazioni del rimanente», riscontrabili soprattutto nei «dialoghi, insieme dimessi e rarefatti»57. In definitiva, si riconosceva a Maselli di aver innovato la visione usuale della Resistenza sullo schermo, con la presenza della grande borghesia imprenditrice del nord e soprattutto con l’aver messo l’accento sulla difficoltà di compiere una scelta difficile per giovani vissuti sempre sotto il regime e per di più appartenenti a classi privilegiate. Ma alle buone intenzioni non erano seguiti i fatti. Gli sbandati accompagnava i diversi percorsi dei tre giovani, senza riuscire però a delinearne la complessità: la vicenda risultava così – per riprendere ancora una volta quanto scriveva la stampa – «arida» e gli interpreti finivano, prigionieri del ruolo loro attribuito, con l’essere «abbozzi di personaggi, più che personaggi veri e propri, simboli più che gente fatta di sangue e di nervi»58. «Se mai ci fu dialogo più banale – scriveva Pasquale Ojetti nel suo resoconto della Mostra su «Cinema» – è quello de “Gli sbandati”. Si parla a vuoto: domande e risposte, interruzioni, battute di spirito, risentono di composizioni
55
U. Casiraghi, Un dramma di giovani agli albori della Resistenza, «l’Unità», 31 agosto 1955. A. Lanocita, I ragazzi degli anni terribili nel primo film italiano a Venezia, «Corriere della Sera», 30 agosto 1955. 57 L. Pestelli, Un marito incompreso e il dramma della guerra, «La Stampa», 30 agosto 1955. 58 P. Bianchi, Dalla pianura lombarda ai giardini del Mikado, «Corriere d’informazione», 30–31 agosto 1955. 56
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liceali ad uso del teatrino della scuola»59. Su «bianco e nero» Nino Ghelli, pur «apprezzando lo sforzo notevole di un autore esordiente», sottolineava come il film fosse «un’opera fondamentalmente sbagliata», caratterizzata «da una superficialità di indagine», con personaggi «sommari e retorici, forse anche a causa degli scadenti interpreti (tra cui la Miranda è del tutto inadatta al ruolo e Mocky è di addirittura irritante inespressività»60). Quest’ultima osservazione, l’inadeguatezza degli interpreti, in particolare di Jean Pierre Mocky (Andrea)61, veniva rilevata un po’ da tutta la stampa. Si salvava «una sorprendente Lucia Bosè»62, una «rivelazione»63, un’attrice «che offre qui i primi piani più intensi di tutta la sua carriera»64, «compresa nel compito e intensa come non mai negli altri suoi film»65, «persuasiva nella sua impostazione, con una recitazione unitaria e sensibile»66, che raggiungeva, «nella sua breve, intensissima parte», «momenti toccanti»67. Secondo Maselli, avrebbe potuto vincere il Leone d’oro, se non fosse stata doppiata (da Gabriella Genta) e quindi per regolamento esclusa da qualunque riconoscimento68. Per inciso, il Leone d’oro per la migliore attrice protagonista quell’anno non fu assegnato. Le recensioni cambiarono tono quando il film iniziò a circolare. Tutte erano concordi nel mettere in luce come la versione arrivata nelle sale fosse molto più «scorrevole» di quella presentata a Venezia, attenuando così i giudizi più duri dati “a caldo”. Ad esempio, Casiraghi, pur non sottacendo i punti negativi della pellicola, faceva ammenda di avere a Venezia «con troppa ingenerosità calcato la mano» per concludere che il «finale potente, in cui la tragedia è graduata con un ritmo perfetto, e tutti i personaggi esplodono inequivocabilmente 59 P. Ojetti, Dal 25 al 31 agosto. I primi film della Mostra di Venezia, «Cinema», n. 150, 10 settembre 1955, p. 825. 60 N. Ghelli, Gli sbandati, «bianco e nero», nn. 9–10, settembre–ottobre 1955, p. 36. 61 «Jean Pierre Mocky… ecco quello per esempio avrebbe potuto essere un personaggio, e invece è niente, è solo un viso con un’unica espressione che non cambia mai, il viso d’un allucinato, e la colpa non è sua, ma evidentemente del regista il quale crede che per ottenere un “clima” siano necessarie le espressioni “intense” senza un attimo di rilassamento» (Tre figli di papà negli anni terribili, «Corriere d’informazione», 10–11 marzo 1956). 62 Gli sbandati, «Messaggero», 29 maggio 1956. 63 A. Scagnetti, Gli albori della Resistenza ne “Gli sbandati” di Maselli, «l’Unità», 29 maggio 1956. 64 Casiraghi, Nel panorama del conformismo imperante “Gli sbandati” confermano la vitalità del neorealismo, cit. 65 Lanocita, I ragazzi degli anni terribili nel primo film italiano a Venezia, cit. 66 P. Valmarana, Nasce un nuovo regista, «Il Popolo», 31 agosto 1955. 67 Bianchi, Dalla pianura lombarda ai giardini del Mikado, cit. 68 Toffetti, Intervista a Maselli, cit.
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nella loro realtà storica, basta da solo a laureare un regista»69. Finale di cui scriveva entusiasta Gaetano Carancini su «La voce repubblicana», arrivando a paragonare l’emozione provocata dalla «stupenda inquadratura della strada con in primo piano i due morti» a quella dell’uccisione di Pina in Roma citta aperta. E anche se il film non era privo di difetti, restava un’«opera prima» che dimostrava come il cinema italiano potesse «ormai contare su un regista nuovissimo che si chiama Francesco Maselli»70. Su «Paese Sera» Maurizio Liverani non nascondeva i difetti della pellicola, che però aveva il grande merito di andare «contro corrente, nell’impegnarsi nel generale scadimento del gusto, nell’evocazione di un dramma che ha prodotto ferite non ancora cauterizzate»71. Su «l’Unità» compariva, a firma di Aldo Scagnetti, una recensione, “viziata” da motivazioni squisitamente politiche. Il giornalista, infatti, accusava il governo di aver ritardato volutamente la circolazione del film nelle sale di quelle città, come Roma, dove erano in corso il 27 e il 28 maggio 1956 le elezioni comunali: Alle ore quattordici di ieri, come è noto, si sono concluse le operazioni elettorali. Poche ore dopo, guarda il caso!, in due sale cinematografiche della Capitale veniva presentato in «prima» il film italiano Gli sbandati del regista Francesco Maselli […] Ci si immaginava che il film venisse presentato sugli schermi romani nel pieno della stagione cinematografica, così come è avvenuto nel Nord e così come è avvenuto per gli altri film dati a Venezia. Lo si immaginava anche perché Gli sbandati guarda ad un’epoca di risveglio delle coscienze degli italiani, quella che ha veduto il nostro paese calpestato dall’invasore tedesco, passare all’offensiva e profilarsi gli albori della gloriosa resistenza. Si era difatti parlato di una presentazione del film in febbraio, poi di una presentazione in aprile. I “consigli e i suggerimenti”, così cari ai governanti nostrani, debbono avere avuto la loro presa se si è pensato di “scivolare” sul periodo elettorale ed al suo esaurimento di presentare il film in sordina nella Capitale del nostro Paese. Se si guarda all’argomento trattato dal film, se si guarda all’attuale situazione di crisi del cinema nazionale, se si guarda alla paccottiglia americana che da qualche tempo invade gli schermi romani, non resta altro da arguire che, non solo rammemorare la resistenza agli spettatori di cinema italiano disturba i nostri governanti, tanto da ritenerla motivo di propaganda elettorale di parte, ma che essi e i loro sciocchi ascoltatori vengono a mostrarsi ancora una volta come i più accaniti nemici del 69 U. Casiraghi, Nel panorama del conformismo imperante “Gli sbandati” confermano la vitalità del neorealismo, «l’Unità», 10 marzo 1956. 70 G. Carancini, Le prime del cinema, «La voce repubblicana», 30 maggio 1956. 71 m. liv., Gli sbandati di Francesco Maselli, «Paese Sera», 29-30 maggio 1956.
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nostro cinema migliore boicottandolo, di quel cinema che per le sue peculiarità ha trionfato all’interno e all’estero, di cui Gli sbandati sta a rappresentare la coraggiosa continuità ideale, dimostrando, attraverso la voce di un gruppo di giovanissimi autori, che il neorealismo non è affatto morto, come vorrebbero far credere le sciocche impostazioni di produzione dell’ANICA, le imposizioni dei clericali e i lamenti funebri di certi nostri “teorici” governativi e che, piuttosto, esso ha tutte le possibilità, in piena libertà di espressione, di affinarsi nella ricerca di strade di diversa ispirazione, le quali abbiano, come punto di partenza, quella scoperta dei valori umani che ci dettò il secondo Risorgimento72.
Nell’ultima parte del lungo articolo (cinque colonne) Scagnetti accennava ad alcuni «difetti» del film, evidenti soprattutto nella prima parte, «dove per introdurre lo spettatore alla conoscenza dei personaggi, il regista indugia perdendosi in ghirigori». In ogni caso, concludeva, si trattava di un film «così impegnato anche quando rivela cedimenti e momenti restati sul piano delle intenzioni, che invitiamo caldamente i nostri lettori di andare a vedere»73. Tutto sommato, le recensioni, soprattutto quelle apparse sulla stampa quotidiana, non furono malvage con il film. C’è da aggiungere che su Gli sbandati «Cinema Nuovo» promuoveva, come aveva fatto per altre pellicole, una sorta di referendum. In realtà il termine non era appropriato: si trattava, infatti, di un piccolo sondaggio eseguito davanti al cinema «Manzoni» di Milano. Gli spettatori erano invitati a depositare oppure a inviare alla sede del “Gruppo milanese critici cinematografici” una scheda con un commento. I giudizi furono quasi tutti positivi: un tenente degli alpini scriveva che il film «dovrebbe essere molto caro a tutte le donne perché molto significativo della loro effettiva partecipazione» alla resistenza». Un’insegnante sottolineava che la pellicola avrebbe dovuto essere proiettata in tutte le scuole, «dove è necessario, anzi “urgente”, che si impari cosa è stato il fascismo e la Resistenza». Un impiegato osservava che il «merito» di Maselli era quello di aver messo in primo piano lo «sbandamento di tanti suoi coetanei», mentre un medico contestava chi aveva parlato di mancato approfondimento psicologico dei personaggi: la Resistenza era nata proprio così, «solo pochi la iniziarono consapevolmente da un punto di vista strettamente politico». E non mancava chi invece osservava che Andrea, Carlo e Ferruccio gli ricordavano l’Antonioni de I vinti o il Fellini de I vitelloni, «sovraccaricati» come erano «di una problematica 72 73
Scagnetti, Gli albori della Resistenza ne “Gli sbandati” di Maselli, cit. Ibid.
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esistenziale che non gli apparteneva ancora»74. Come dire che Maselli avrebbe attribuito ai giovani del ’43 psicologie e problematiche che meglio si sarebbero adattate ai giovani della generazione successiva, più vicini agli «anni facili» (per riprendere il titolo di un film di Zampa) del miracolo economico (giovani che lo stesso Maselli avrebbe ritratto ne I delfini), che a quelli terribili del biennio 1943–1945.
74
G.D.A., Due referendum, «Cinema Nuovo», n. 81, 25 aprile 1956, p. 250.
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RITORNA IL RISORGIMENTO Si diceva che con il 1949 la Resistenza iniziava a scomparire dagli schermi. Parallelamente ricompariva invece il Risorgimento, assente dal 1943. In realtà, per quanto possa sembra strano, i film sul Risorgimento nel ventennio fascista furono pochi (ci riferiamo alle pellicole sonore, quelle girate a partire dal 1930). E solo tre meritano di essere ricordati: 1860, Piccolo mondo antico e Un garibaldino in convento. Il primo, oltre tutto, nonostante fosse un film in perfetta sintonia con il dettato fascista, verrà, anche dopo la caduta del regime, celebrato e messo a confronto con la produzione repubblicana1. Nel 1949 era la volta di Cavalcata d’eroi (regia di Mario Costa; soggetto dello stesso Costa; sceneggiatura di Costa, Anton Giulio Majano, Fulvio Palmieri, Piero Ghigne, Lamberto Giovagnoli), uscito nelle sale l’anno successivo. La vicenda era imperniata sulla storia d’amore tra un fervente patriota, Massimo Ruffo [Cesare Danova] costretto all’esilio dal governo borbonico di Napoli, e una ricca fanciulla, Giulia Fabbri [Carla Del Poggio], di famiglia papalina, sullo sfondo della lotta contro i francesi nella Roma del 1849. Su «Cinema» Renzo Renzi scriveva che il film era l’ennesima conferma di come il cinema italiano, con la sola eccezione di 1860, non uscisse fuori da una visione melodrammatica, «nazionalista e patriottarda» del Risorgimento, che «si adeguava all’ignoranza generale, agitando fantocci popolari (e suscitando perciò i consueti facili applausi delle folle di fronte ai loro idoli nebulosi), senza accrescere di un pollice la conoscenza di quel particolare fenomeno storico»: Vi si parla della Repubblica Romana e della lotta tra mazziniani da una parte e papalini e francesi dall’altra. Non si riesce mai a capire, però, che cosa difendessero gli uni e perché lo difendessero così accanitamente; che cosa rappresentassero gli altri, quali fossero le loro ragioni e quali motivi storici, politici legassero i papalini ai francesi. 1
Cfr. Cavallo, Viva l’Italia, cit., pp. 308-337.
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Si vede soltanto della gente che si bastona, simpatici contro antipatici, atteggiati, nei momenti migliori, secondo la fisionomia di alcune stampe popolari dell’epoca. Tutto rimane cioè nei limiti di una infarinatura per scuole elementari, intorno ad un dramma privato assolutamente inutile perché ovvio e niente affatto rappresentativo della particolare situazione della città2.
Un giudizio negativo (che qualche anno dopo, come vedremo, si sarebbe ritorto contro il suo autore), dettato dall’insofferenza per una versione del Risorgimento decisa «una volta per sempre», cui il nostro cinema si era adeguato. Tuttavia in Cavalcata d’eroi qualche novità merita di essere segnalata: era il primo film – a partire dall’avvento del sonoro – che trattava della sfortunata esperienza della repubblica romana e che riservava grande attenzione alla figura di Garibaldi [Ugo Sasso], la cui popolarità era frutto – almeno questo sembrava suggerire il film – anche del contrasto con i «politici» dell’assemblea costituente. Contrasto sottolineato per ben due volte. Nella prima, i repubblicani sono riusciti a sconfiggere i francesi di Oudinot. Garibaldi vorrebbe inseguirli per ricacciarli in mare definitivamente. Nel momento in cui sta per dare l’ordine arriva un messo con un dispaccio del triumvirato: Garibaldi – Mi si ordina di non inseguire il nemico in rotta. Dovrei rinunciare a sfruttare la vittoria rendendola decisiva, ma io… [appallottola il dispaccio] Messo – Il triunviro Mazzini vi raccomanda personalmente l’esecuzione dell’ordine dettato da alti motivi politici che vi saranno poi resi noti. G – Dite al triunvirato che obbedisco […] Alti motivi politici?!? Mi auguro che non abbiano poi a pentirsi!
La seconda volta il disaccordo non è con i triumviri, ma con l’Assemblea. La situazione è disperata. Garibaldi, forte dell’appoggio dei suoi e del popolo romano, è determinato a combattere «fino alla morte». Anche in questo caso, tempestivo, arriva il solito messo che comunica il «cessate il fuoco» deciso dall’Assemblea: Garibaldi – Cosa avete detto? Messo – Sì, Generale. Purtroppo è l’ora della resa. Garibaldi – Ma perché l’ordine mi viene dalla Costituente e non dal triunvirato? Messo – Generale, il triunvirato si è dimesso non avendo voluto la Costituente accettare la proposta di Mazzini di continuare la lotta 2
R. Renzi, Conformismo delle “patrie glorie”, «Cinema», n. 47, 1° ottobre 1950, p. 168.
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fin entro la città o di uscire da Roma con il governo e le truppe per portare la guerra negli altri territori della Repubblica. Garibaldi – Mazzini ha ragione! Messo – Pur tuttavia la maggioranza della Costituente ha ritenuto impossibile un’ulteriore difesa. Garibaldi – E sia! Manara dai l’ordine di cessare il fuoco. Signori, la repubblica romana è finita, ma noi porteremo la sua fede dovunque si combatta per l’Italia!
Se la fortuna non arrideva alle sorti della repubblica (come ricordava Garibaldi nel suo discorso di addio), nella vicenda privata dei due protagonisti prevaleva il lieto fine. Giulia fuggiva di casa per sposare Massimo, mentre il conte Monis [Vittorio Sanipoli], un turpe individuo al soldo dei francesi, promesso dal padre di Giulia alla figlia, faceva di tutto per fermarla e riportarla a casa. Alla fine, Monis moriva, vittima del suo ennesimo atto di vigliaccheria, e i due giovani seguivano Garibaldi verso il nord, con la benedizione del padre di Giulia, pentitosi nel frattempo dell’atteggiamento avuto sia nei confronti della figlia sia nei confronti dell’altro figlio: «Ma ricordatevi: io vi aspetto», aveva concluso rivolgendosi a Mario, Giulia e Massimo. Una speranza che faceva tutt’uno con quella di un altro ritorno. Il film si concludeva, infatti, con Massimo che, nel passare nei luoghi dove aveva salvato, insieme a Goffredo Mameli, Luciano Manara e Angelo Masina, Giulia e la zia dall’assalto dei briganti, quei luoghi che avevano visto nascere l’amicizia con i tre sfortunati patrioti periti nella difesa di Roma e dove era nato fulmineo l’amore per Giulia, esclama: «Non sono morti. Sono rimasti a Roma ad attendere l’Italia», mentre, in trasparenza, comparivano i tre a cavallo sulle note di Fratelli d’Italia. Nel 1951 venivano girati (sarebbero arrivati nelle sale l’anno successivo) due film, molto diversi ma entrambi incentrati sulla lotta al brigantaggio meridionale nel periodo post-unitario3. Nel primo, Il 3 Va sottolineato che il brigantaggio meridionale compariva anche in altri due film degli anni Cinquanta anche se ambientati il primo all’inizio del Novecento e il secondo negli ultimi anni del Settecento: Il brigante Musolino (1950; regia di Mario Camerini; soggetto di Antonio Leonviola, Mario Monicelli, Steno [Stefano Vanzina]; sceneggiatura di Camerini, Franco Brusati, Ennio De Concini, Ivo Perilli, Vincenzo Talarico) e Donne e briganti (1951; regia di Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura di Pierre Lestringuer, Vittorio Nino Novarese, Soldati, Nicola Manzari), incentrato sulla figura di Michele Pezza, Fra’ Diavolo. La vicenda di Michele Pezza era stata già raccontata a cinema nel 1942 da Luigi Zampa in Fra’ Diavolo, anche se si trattava di un Michele Pezza più in sintonia con i dettati della propaganda fascista in tempo di guerra che con la storia, visto il suo forte atteggiamento anti-inglese (cfr. M. Argentieri, Il cinema in guerra. Arte, comunicazione e propaganda in Italia 1940-1944, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 149-150).
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tenente Giorgio (regia di Raffaello Matarazzo; soggetto tratto dall’omonimo romanzo di Nicola Misasi; sceneggiatura di Aldo De Benedetti), questa costituiva solo lo sfondo per una tormentata e melodrammatica storia d’amore. Il tenente Giorgio Biserta [Massimo Girotti], impegnato a combattere i briganti, viene ospitato una sera nel castello del conte di Monserrato dove trascorre una notte d’amore con una fanciulla sconosciuta [Milly Vitale] che si rifiuta di mostragli il volto. Alcuni anni dopo, Giorgio torna in Calabria come amministratore: in realtà, nella segreta speranza di incontrare la donna misteriosa. Alla fine scopre che si tratta della contessa Elisa, moglie del menomato conte Stefano di Monserrato [Paul Müller], il quale aveva architettato il tutto solo per poter garantire un erede alla sua famiglia. L’amore alla fine trionferà: Stefano muore e Giorgio può così sposare Elisa, che da quell’incontro di tanti anni prima ha avuto una bambina. Da questa sintesi si può già intuire come il film rischiasse più volte di cadere nel ridicolo, rasentando il grottesco e l’assurdo: «Ma la vetta dell’inaudito – scriveva Arturo Lanocita sul «Corriere della Sera» – si raggiunge alla conclusione quando Girotti si fa riconoscere dalla Vitale su per giù così: “Permette? Sono il padre della bambina”. “Piacere; io sono la madre»4. Molto diverso e di ben altro spessore il secondo, Il brigante di Tacca del Lupo del 1951 (regia di Pietro Germi; soggetto dalla novella omonima di Riccardo Bacchelli; sceneggiatura di Germi, Federico Fellini, Tullio Pinelli, Fausto Tozzi). Gli stilemi e la struttura del western alla John Ford servivano al regista genovese per costruire un film che, raccontando – come precisa la didascalia iniziale5 – la lotta al brigantaggio, descrivesse la difficile integrazione tra culture e mondi diversi, impersonati dai due personaggi principali, entrambi protesi alla vittoria e all’annientamento dei briganti: il capitano Giordani [Amedeo Nazzari], il settentrionale tutto d’un pezzo, integerrimo e inflessibile, e l’uomo del sud, il commissario di polizia Siceli [Saro Urzì], molto attento a volgere a suo vantaggio le tradizioni e i modelli culturali del meridione. Un contrasto evidente fin dal loro primo incontro. Il 4
lan, Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 9 dicembre 1952. «1863 Col disfacimento del regno Borbonico, l’unità d’Italia è appena compiuta. L’entusiasmo che il passaggio liberatore di Garibaldi aveva suscitato tra le popolazioni meridionali, si era in gran parte spento. I contadini, oppressi da una povertà antica, erano portati ad attribuirne la colpa al nuovo governo piemontese, e rimpiangevano il Re di Napoli. Così, tra i resti dispersi dell’Esercito Borbonico e i contadini del Sud miseri e delusi, si sviluppava il fenomeno del brigantaggio, che impegnò lungamente i soldati del Nord in una crudele guerriglia». 5
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brigante Raffa Raffa e i suoi uomini hanno appena assalito il paese di Melfi, saccheggiando, uccidendo, incendiando case e violentando le donne. Giordani pensa di poter risolvere tutto con la forza: «Sa perché il brigantaggio resiste, commissario? Perché la gente ha più paura dei briganti che di noi. Ora bisogna che si mettano bene in testa che il regno borbonico è finito, che l’Italia è fatta e che i più forti siamo noi». Siceli, invece, conosce bene la mentalità degli abitanti e consiglia di ricorrere ad altri metodi: Siceli – È una situazione delicata, complessa e lei vuol risolverla con le schioppettate? Ci vuol tempo, capitano mio… Tempo, pazienza e… politica! Giordani – È un punto di vista strettamente borbonico, il suo. Io credo che i maggiori responsabili di questa situazione siano quelli che pensano e agiscono come lei. Le vittime dei briganti le avete voi sulla coscienza! Siceli – Vedo che anche lei ci considera noi meridionali come gli abitanti della terra dei fiori e dei carmi, come scrivono i giornali del nord. Gente da colonizzare! Ah certo, capitano, noi abbiamo molte cose da imparare… ma consideri che il povero cafone vive fra gli stenti e l’ignoranza da secoli, tollera e sopporta allo stesso modo i soldati del nuovo governo e i briganti. Anzi, è vero, sì: parteggia per i briganti, ma che idee vuole che abbia… sa che cosa è la terra che lavora e il santo a cui chiede aiuto per faticare e pane per la famiglia. E sa anche che il nuovo governo gli ha portato le tasse che prima non aveva. Ma lei vuole usare la forza! Faccia capitano…
Alla fine sarà la strategia di Siceli a risultare vincente: i rastrellamenti di Giordani, gli arresti delle autorità locali, le perquisizioni nelle povere case di un villaggio, Cervara, e la fucilazione di alcuni abitanti accusati di aver dato ospitalità ai briganti non sortiranno altro effetto che quello di provocare vittime e inasprire i rapporti tra le truppe e la popolazione locale. Sarà il commissario a scoprire il covo dei banditi, facendo leva sull’onore offeso di un contadino («In questo paese, le questioni d’onore sono una cosa seria!», commenta rivolto a Giordani), Carmine [Vincenzo Musolino], la cui moglie, Zitamaria [Cosetta Greco], è stata rapita e violentata da Raffa Raffa. Il film si conclude in perfetto stile western con l’«arrivo dei nostri» in aiuto del capitano Giordani e dei cinque volontari che stanno per essere sopraffatti dai briganti. Il duello con il coltello tra Raffa Raffa e Carmine chiude la vicenda. L’onore è salvo e Carmine può, dopo una titubanza iniziale, incitato dai soldati, riabbracciare la moglie (si tenga presente che in un primo momento quest’ultima era stata rifiutata dai fratelli del
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marito: «Non puoi rimanere qui, Zitamaria. Torna da tuo padre. Lo sappiamo che non hai colpa, ma non devi portare il disonore nella casa di nostro fratello»). Il capitano chiede scusa al commissario per aver dubitato dei suoi metodi, mentre soldati e civili si abbandonano alla gioia della vittoria suonando e ballando. Insomma, una metafora, fin troppo esplicita, della possibilità di integrazione e coesistenza e forse della complementarità tra le due culture, anche se Germi, abilmente, era molto attento a sottolineare come il battaglione di bersaglieri (definiti sprezzantemente dalla popolazione «i piemontesi») fosse per lo più composto da contadini (prevale il dialetto nei loro discorsi), pronti, pertanto, a solidarizzare facilmente con altri contadini. Sembrerebbe, dunque, tutto a posto: l’happy ending che tranquillizza tutti. E invece il film non si chiudeva così. Dal ballo si passa, in dissolvenza, all’inquadratura della compagnia, decimata, che presenta le armi, mentre un ufficiale comunica il numero dei morti e dei feriti: i soldati ripartono e la macchina da presa si sposta inquadrandoli di fronte finché, passata la colonna, rimangono in primo piano gli stessi due grossi speroni rocciosi visti all’inizio, che si ergono, minacciosi, in un paesaggio brullo che, ancora una volta, ricorda in modo impressionante il West di tanti film americani. Insomma, non c’è – e questa era una differenza notevole rispetto proprio ai film western – nessun finale rassicurante e ottimista: il ballo è finito e ognuno, soldati e contadini, ha ripreso la propria strada. Germi si limitava a registrare con occhio freddo e impassibile, senza prendere posizione, una situazione in cui, almeno in apparenza, non pare fosse cambiato alcunché. Presso la critica dell’epoca il film riscosse pareri discordi, in gran parte negativi. «Cinema» sottolineava come Il brigante di Tacca del Lupo avesse «il merito di aver segnato una direzione che potrebbe essere feconda per il cinema italiano». Secondo la rivista, infatti, il neorealismo era «rimasto o paradossalmente inclinato su una disposizione lirica (vedi Ladri di biciclette) o legato a impegni polemici (vedi Roma, ore undici) ma finora si era inibita la strada che potremmo definire del “romanzo d’avventure”. La pellicola di Germi è una prova in questo senso, per più lati positiva e in ogni caso eccitante per le possibilità che propone»6. La maggior parte delle recensioni era più incline a mettere in luce i difetti del film. Pestelli su «La Stampa» parlava di «favola militaresca», con personaggi che finivano per essere stereotipi 6
Film di questi giorni. Il brigante di Tacca del Lupo, «Cinema», n. 97, 1° novembre 1952, p. 247
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«su un fondo piuttosto convenzionale e sommario», nonostante un inizio che annunziava «un grande affresco, il dramma di quel popolo che si sentiva più vicino a quei briganti che a questi pennuti soldatini di cui non capiva le parole e gli ideali»7. Veniva rimproverato a Germi il ricorso a schemi narrativi e strutture, il western, «lontani, nella loro forma esteriore, da tutte le nostre tradizioni»8. Guido Aristarco, sul primo numero di «Cinema nuovo», sottolineava come Germi continuasse «nell’involuzione iniziata dopo Il cammino della speranza»: Di una pagina di storia italiana, che andava studiata in ogni suo aspetto, anche negativo, Germi ha scelto soltanto i lati esteriori, individuando nelle imprese del capitano Giordani e dei suoi bersaglieri la possibilità di rifare – protetto dall’etichetta di un’Italia ufficiale – una vicenda epico-avventurosa tipo “western”, con precisi riferimenti a Ford (riferimenti che del resto sono riscontrabili in altri suoi film) […] Persino il paesaggio è da Massacro di Fort Apache; e da “western” sono i motivi musicali, i cori, il ballo dopo l’uccisione di Raffa-Raffa. Non manca neppure l’Arrivano i nostri! preceduto dall’immancabile tromba. L’etichetta di un’Italia ufficiale porta Germi […] su posizioni assurde come quella di riabilitare e glorificare […] un “cattivo arnese” quale “Don Filippo Siceli, già spia e uomo della polizia borbonica, odiato e disprezzato dai cittadini prima e poi”. Inoltre Germi […] trasforma il bacchelliano Don Diego Silvestre […] in un semplice ufficiale ribelle il quale, morendo, chiede perdono, (proprio come in certe opere di Ford); infine il capitano e i suoi bersaglieri non si avviano, come nel racconto e nella realtà, “a chiudere uno degli ultimi atti di una guerra civile triste e senza gloria”, ma la loro pare la conclusione melodrammatica e retorica di una “gloriosa avventura”9.
Proprio queste ultime righe di Aristarco fanno però intravedere come fosse sfuggito ai più il disincanto con cui Il brigante di Tacca del Lupo guardava all’avvenuta unità. Se ne accorgeva il solo Lanocita che sul «Corriere», alla presentazione del film alla Mostra di Venezia, riconosceva a Germi il merito di aver indicato quanto «laboriosa» fosse la «conquista della nostra unità nazionale»10 (giudizio sostanzialmente ribadito all’uscita della pellicola nelle sale, anche se il critico metteva in luce come sequenze felici, quali quelle della lunga marcia dei soldati in un paesaggio che ricordava il Texas, finissero con lo spezzettare l’u-
7
L. Pestelli, Il brigante di Tacca del Lupo, «La Stampa», 9 settembre 1952. G.L. Rondi, Il brigante di Tacca del Lupo, «La fiera letteraria», n. 49, 7 dicembre 1952. 9 G. Aristarco, Il brigante di Tacca del Lupo, «Cinema nuovo», n. 1, 15 dicembre 1952, p. 26. 10 lan, Il Festival del Cinema si avvia all’epilogo, «Corriere della Sera», 10 settembre 1952.
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nità del racconto11). Probabilmente alla base delle valutazioni negative giocava proprio l’essere il film in anticipo sui tempi: «un film storico più moderno della sua epoca» – è stato giustamente scritto – dal momento che faceva intuire come l’Unità al sud non avrebbe cambiato le condizioni di vita della maggior parte della popolazione12. Sembra che ai nostri critici risultasse inaccettabile la prospettiva di un meridione immobile (come gli speroni di roccia) dove i cambiamenti sarebbero stati solo superficiali. D’altra parte, non a caso, la pellicola suscitò più di una perplessità, in sede di revisione cinematografica preventiva, nei funzionari della Direzione Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, non soltanto per la violenza di alcune sequenze (nell’appunto per il direttore dell’ufficio si precisava causticamente che il film, «secondo gli ultimi annunci, si chiamerà “SANGUE AL SOLE”, titolo assai più appropriato dell’altro»), ma soprattutto per aver mostrato con grande crudezza come l’unificazione d’Italia avesse comportato al sud una vera e propria guerra tra italiani. Un «conto» – si legge nell’appunto – era «trattare certi argomenti in una novella, un conto è trattarli sullo schermo, dove acquistano di colpo maggiore evidenza e, soprattutto, un maggiore senso di veridicità»: I fatti narrati saranno realmente accaduti? Non crediamo. Ma se anche fossero (per pura ipotesi) accaduti a che gioverebbe portare sullo schermo, con evidenti amplificazioni e chiare forzature, gli episodi della lotta sanguinosa e cruenta impegnata dai “piemontesi” del nord contro i briganti del sud, subito dopo l’unificazione? […] Ebbene: un senso maggiore di carità di patria avrebbe dovuto consigliare i produttori (soprattutto la CINES che sostiene l’onere maggiore del film, il 50%) a non riproporre certi argomenti e perlomeno a riproporli con una maggiore misura, senza tanti spiegamenti di crudeltà, senza tanto “sangue al sole”, povero nostro sangue italiano sparso in mille lotte fratricide. Giustizia è fatta contro i “cafoni”, contro i briganti del Sud. Ma questa conclusione sbirresca, poliziesca, del tutto repressiva; e la stessa impostazione generale del lavoro, piuttosto equivoca, ambigua, dalle finalità non chiare e forse troppo esplicita (la eterna incomprensione tra Nord e Sud, tema già trattato dal Germi nel film “Il cammino della speranza”), tutto ciò – impostazione e conclusione – non possono soddisfare13.
11
lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 22 novembre 1952. E. Giacovelli, Pietro Germi, Milano, Il Castoro, 1997, pp. 46-48. 13 Revisione Cinematografica Preventiva, 16 ottobre 1951, ACS, MTS, Div. Cin., b. 42, f. 1292. 12
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Nel 1952 venivano girati tre film ispirati a vicende risorgimentali. Iniziamo da una pellicola di Gian Paolo Callegari, scrittore, sceneggiatore, più volte aiuto regista, anche di Rossellini in Stromboli, qui per la prima volta al suo esordio nella regia, Eran trecento… La spigolatrice di Sapri (regia e soggetto di Callegari; sceneggiatura di Giuseppe Mangione, Leopoldo Trieste, Arnaldo Marrosu e dello stesso Callegari): un «western risorgimentale» che racconta le gesta eroiche di un gruppo di liberali lucani, capeggiati dal misterioso Volpintesta [Rossano Brazzi], sotto cui si cela Paolo Cardia, intendente di un signorotto del luogo. Il gruppo cerca di unirsi ai patrioti sbarcati con Pisacane, ma non vi riuscirà anche per l’intervento della popolazione, aizzata dai borbonici. Lo scontro finisce in una carneficina. Paolo con alcuni superstiti si rifugia sui monti, dai quali scenderà, qualche anno dopo, per unirsi alle truppe di Garibaldi. In un’intervista a «Cinema» Callegari affermava di non aver rinunciato alla sua ispirazione neorealista e di aver girato un film storico «pulito, sgombro dalle solite convenzioni» e con un dialogo «scarno, privo di ampollosità convenzionali»: Come ogni genere, anche quello storico obbedisce a certi canoni convenzionali, la cui assurdità sembra sia legata strettamente ai motivi di successo commerciale del film. In un film in costume, a esempio, è regola che la gente non deve andar vestita male: anche gli straccioni devono essere “stracciati bene”. E si adoperano le scarpe moderne, che costituiscono una pacchiana stonatura, o, altrimenti, le scarpe rifatte a uso antico, le quali danno un’impressione di falsità come quelle delle coriste dell’opera lirica. Infine il dialogo: nel film storico il personaggio si sente sempre a cavallo, vuol parlare bene, forbito, altisonante. Se il dialogo non è importante, l’attore si sente menomato. Io invece sono riuscito a ottenere che i miei personaggi vestissero male sul serio, quando ce n’era bisogno, andassero a piedi nudi, oppure indossassero le “ciocie”, e infine che parlassero un linguaggio scarno e reale. Fatica non indifferente: è come aver travasato qualcosa del realismo dentro a un genere legato a schemi fissi e preconcetti. Sono questi schemi, del resto, quelli che fanno del film storico un film deteriore; mentre di per sé nulla è deteriore; nemmeno il film storico, l’unico anzi in cui favola e realtà potrebbero realmente fondersi, laddove oggi si deve indispensabilmente scegliere tra le due, o la favola o la realtà14.
In Eran trecento, comunque, le affermazioni del regista trovarono attuazione solo in parte. Il film fu stroncato dalla critica del tempo 14
S. Martini, L’uomo che uccise Pilato fra le spigolatrici di Sapri, «Cinema», n. 87, 1° giugno 1952, p. 296.
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che vi ravvisò confusione e mancanza di logica, manifestando peraltro «disappunto» per aver «con tanta disinvoltura […] profanato uno dei più begli episodi, il più rivoluzionario forse, delle nostre “rivoluzioni risorgimentali”, quello dell’impresa di Pisacane»15. Camicie rosse raccontava l’epilogo della repubblica romana del ’49 e la drammatica ritirata di Garibaldi e dei suoi uomini diretti al nord fino alla morte di Anita. Il film (soggetto di Enzo Biagi e Renzo Renzi; sceneggiatura di Biagi, Renzi, Mario Serandrei, Sandro Bolchi e, non accreditati, Suso Cecchi d’Amico, Nino Frank, Anna Magnani), iniziato da Goffredo Alessandrini, un esponente di spicco del cinema italiano del ventennio (suoi erano alcuni dei film di propaganda più famosi come Giarabub e Noi vivi-Addio Kira), fu terminato da un giovane Francesco Rosi. I motivi del ritiro di Alessandrini rimasero sconosciuti, anche se, probabilmente, riconducibili a dissidi con la produzione e soprattutto con la protagonista femminile del film, Anna Magnani (per giunta, co-produttrice del film), assai improbabile, per la verità, nelle vesti della sudamericana Anita16. Nonostante la presenza di autori di grande rilievo, il film non manteneva quelle promesse che uno degli autori, Renzo Renzi, aveva anticipato qualche anno prima su «Cinema»17, scrivendo su Cavalcata d’eroi e sui film risorgimentali. «Cinema nuovo», di cui Renzi era un autorevole collaboratore, ne ricordava le affermazioni («Pensate che cosa potrebbe diventare l’episodio avventuroso della fuga di Garibaldi da Roma. Potrebbe diventare, sgombrato dalle sciocche complicazioni melodrammatiche, una grande inchiesta sull’Italia del 1849») per concludere malinconicamente che nel film rimaneva «poco più di un’infarinatura di situazioni storiche e di personaggi del nostro Risorgimento. Produttore e autori non hanno esitato a ricorrere alla consueta struttura “melodrammatica” e avventurosa (ma non nel senso indicato da Renzi). Il personaggio più im15 Così si esprimeva Saverio Vollaro nella «Rassegna del Film», n. 8, novembre 1952, citato in Chiti, Poppi, Dizionario del cinema italiano, vol. II, I film dal 1945 al 1959, cit., p. 140. 16 Secondo le testimonianze di Suso Cecchi d’Amico, che collaborò alla sceneggiatura, e di Nanni Loy, aiuto regista, il film avrebbe dovuto essere affidato ad Aldo Vergano: fu Anna Magnani ad imporre alla produzione il suo ex marito Alessandrini. La convivenza tra i due si rivelò impossibile: «il temperamento di Anna – ricordava Nanni Loy – era realistico, neorealistico, spiccio, e la sua dimensione di attrice tutta nella verità, mentre lui era più nel gusto delle ricostruzioni di massa, nel sottolineamento della esteriorità dell’avventura… Quindi su questo c’erano dei continui litigi. In aggiunta ci rimetteva Raf Vallone che con la barba alla Garibaldi cercava anche lui di fare il divo e allora accadevano dei battibecchi a tre che ti facevano solo venire voglia di andartene» (Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, cit., p. 258). 17 Renzi, Conformismo delle “patrie glorie”, cit., pp. 168-170.
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portante non è Garibaldi, le azioni più rappresentative non sono quelle politiche e militari, bensì è Anita (e Anna Magnani è la mattatrice del film), sono le vicende sentimentali del suo attaccamento a Garibaldi»18. Insomma, un film meno convincente di Cavalcata d’eroi, con un Garibaldi [Raf Vallone] ampolloso e retorico (è lui stesso a raccontare la vicenda in flashback) che si sofferma volentieri sulle grandi capacità dei suoi uomini e, di riflesso, sulla sua abilità strategica: «Benché immensamente superiori di forze, non erano capaci di attaccare e sconfiggere la nostra piccola colonna. Questo prova che se lo spirito della generalità – popolo e militi – non fosse stato depresso, avrei potuto per molto tempo fare una bella guerra e porgere occasione alle genti italiane, rinvenute dalla sorpresa e dall’abbattimento, di scuotere il giogo di depredatori stranieri. Ma così non fu sventuratamente!». Da segnalare, infine, che anche qui, come in Cavalcata d’eroi, si metteva in risalto il contrasto tra Garibaldi e gli esponenti dell’Assemblea Costituente: «I politicanti cominciano a preoccuparsi», esclama quando arriva un messo che gli annunzia che l’assemblea ha intenzione di dichiarare la resa. Successivamente, davanti all’Assemblea rifiuta la resa, propone ai costituenti di rifugiarsi in una posizione forte sull’Appennino e chiede al governo di seguirlo, abbandonando gli agi e le comodità romane: «Ovunque noi saremo, là sarà Roma», conclude. Insomma, scriveva il «Corriere d’Informazione», Camicie rosse era «un’occasione perduta»: «il film su Garibaldi e su Anita resta ancora da fare»19.
18 19
Camicie rosse, «Cinema nuovo», n. 3, 15 gennaio 1953, p. 61. Art, Cronache del cinema, «Corriere d’Informazione», 20 dicembre 1952.
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RISORGIMENTO, NEOREALISMO, REALISMO Nel 1952 veniva girato anche La pattuglia sperduta (regia di Piero Nelli; soggetto e sceneggiatura dello stesso Nelli e di Franco Cristaldi, Yvon De Begnac, Oscar Navarro), uscito nelle sale, con scarsissimo successo (raccontava lo stesso regista nella trasmissione televisiva Cinema 701), soltanto due anni dopo. Il film, che si sarebbe dovuto intitolare Vecchio regno (il nuovo titolo fu imposto dal distributore)2, pur con tutti i limiti già segnalati dalla critica del tempo3, apriva una pagina nuova 1 «… è un film che è stato molto visto in circoli del cinema, in cineclub, ma non ha avuto il concorso del grande pubblico perché il film, per una serie di vicissitudini dipendenti sia dalla produzione, sia dalla distribuzione e sia anche da una certa situazione politico-culturale, in cui si muoveva in quegli anni con difficoltà e con asprezza il cinema italiano, fu messo sul mercato in piena estate e quindi…». Anche Giulio Cesare Castello su «Cinema», peraltro abbastanza critico sulla pellicola, che scontava, a suo parere, errori di inesperienza sia in sede di sceneggiatura sia di regia, non mancava di sottolineare come fosse stato messo in atto di tutto per scoraggiare la visione del film da parte del grande pubblico, distribuendolo due anni dopo, «in piena canicola», «in un cantuccio della stagione morta, con la certezza, quindi, di una resa economica disastrosa» (G.C. Castello, I film. La pattuglia sperduta, «Cinema», n. 139, 10 agosto, 1954, p. 468). 2 Cfr. R. Fiammetta, C. Recupito, P. Cirri, La pattuglia sperduta. Risorgimento e storia fra cinema, televisione e letteratura nell’opera di Piero Nelli, Novara, Interlinea Edizioni, 2004, pp. 52 e 56. 3 In generale, la critica accolse con un certo interesse l’opera di Nelli, pur notandone le molte «ingenuità» (N. Ghelli, I film, «bianco e nero», n. 7, luglio 1954, pp. 68-69): va ricordato che le recensioni – salvo qualche rara eccezione – non riuscirono a oltrepassare il “territorio” delle riviste specializzate. Ne citiamo una per tutte: su «Cinema nuovo» Aristarco sottolineava la mancanza nel film di un’analisi dei motivi della disfatta del ’49, da ricercarsi «nell’assenza di una politica popolare, nell’intimidazione delle forze democratiche, nel fatto che il momento politico non prevalse su quello militare, nell’indirizzo del governo piemontese che “preferiva la sconfitta a un’insurrezione generale”, nell’Italia che fa da sé, in una condotta insomma incerta, ambigua, timida e anche avventata». La pattuglia sperduta, pertanto, non era un film storico, anche se costituiva «un tentativo di uscire dalla retorica più vistosa, dall’agiografia delle forze patriottiche». Se, concludeva, «non sempre i personaggi rimangono personaggi ma scadono nei limiti delle “figure”, non riescono cioè ad arricchirsi nei loro contorni, a prendere rilievo, a uscire dallo schematismo (si veda l’intellettuale)», il film presentava sequenze particolarmente felici: «la morte del tenente; l’attimo di perplessità che segue nel soldato che per la prima volta ha ucciso un soldato nemico; oppure la incertezza del soldato nella barca, che rimane ad attendere il tenente oltre la mezzanotte, cioè oltre il termine della consegna.
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nella storia del cinema risorgimentale, come rilevava «Cinema nuovo», mettendo la pellicola di Nelli in relazione con un’altra, allora ancora in lavorazione, Senso di Luchino Visconti4. La novità del film – scriveva Aldo Paladini – andava ricercata nella «giusta indicazione d’un modo realistico di rappresentare i fatti della storia risorgimentale, col sottolinearne le componenti fuori dagli schemi segnati ad arte da una sospettabile storiografia» che aveva visto nel Risorgimento unicamente l’«opera d’una minoranza capace di condurre gli avvenimenti, al di sopra e quasi a dispetto d’una plebe amorfa e sorda ad altro che alle angustie dei suoi bisogni elementari», mentre invece proprio a molti di questi personaggi mancò «ogni contatto vero col popolo, considerato piuttosto come la materia passiva di sogni e vagheggiamenti affatto privati»: Perciò il film di Nelli, che cerca di esaminare nell’animo di personaggi assai umili il riflesso degli avvenimenti storici a cui essi prendono parte, e nell’atto stesso in cui vi partecipano, si muove in una direzione originale e indica, sia pure per accenni, quello che potrebbe essere il senso d’una vera storia del cosiddetto movimento risorgimentale. Diremo di più. Nel caso di questa “pattuglia sperduta” che durante i brevi giorni della campagna del ’49 vaga senza una meta precisa nelle risaie della Bassa di là da Ticino […] l’osservatore attento può scorgere persino un’allegorica epitome di tutti gli errori e i vaneggiamenti e le false prospettive che viziarono alla base e ritardarono di tanto la nostra formazione unitaria: di qua una schiera di teorizzatori la più parte senza radici nella realtà dei problemi da affrontare e risolvere, e discordi tra loro anche in sede puramente dottrinaria, di là un popolo accusato d’inerzia da quelli stessi che non sapevano commisurare i loro atti o disegni alle sue vere necessità, o ritenevano addirittura di poterle ignorare senza danno5.
La pattuglia sperduta si segnala per l’assenza programmatica di qualunque forma di retorica. Su «Cinema nuovo» il regista si interrogava su quale fosse la «via narrativa» migliore per rappresentare sullo schermo un Risorgimento «né retorico, né bozzettistico»: «Evidentemente, a mio avviso, quella capace di superare le aureole e i limiti del tempo, per un’interpretazione drammaticamente moderna dei fatti Ma c’è sopra tutto una simpatia umana per questi personaggi (o figure), un amore per la terra: le “risère”, la campagna, il Po. Un amore, sottolineato dalla partitura musicale, che si congiunge alla tradizione migliore del nostro neorealismo» (G. Aristarco, La pattuglia sperduta, «Cinema nuovo», n. 41, 15 agosto 1954, pp. 114-115). 4 A. Paladini, Il Risorgimento scende da cavallo, «Cinema nuovo», n. 28, 1° febbraio 1954, pp. 41-42. 5 Ivi, p. 42.
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storici, una interpretazione cioè capace di raccontare la storia come vita degli uomini. Ciò che avvenne nel lontano 1849, sui campi della pianura piemontese, non è mito né cronaca, ma sono le azioni, gli stati d’animo degli uomini di allora che vivendo la loro avventura facevano la storia del loro tempo»6. Ed aggiungeva di aver seguito un’impostazione stilistica «che trascura di creare l’effetto drammatico sequenza per sequenza, attraverso fatti e avvenimenti sensazionali, ma si affida, piuttosto, a un effetto generale che dovrebbe dare del Risorgimento un’idea drammatica, avventurosa, mossa da personaggi vivi, narrativamente moderni». Un tentativo, dunque, di fare «del Risorgimento materia di racconto moderno», anche se questa rappresentazione, – ammetteva – «spoglia, o quasi, di quegli elementi di cronaca, di costumi, di fantasia del tempo, potrà forse rendere eccessivamente scarna l’atmosfera del mio film»7. Probabilmente, l’atmosfera «scarna» contribuì a causare l’insuccesso della pellicola, cui non fu estraneo, comunque, l’azione stessa del governo che negò a La pattuglia sperduta il premio governativo del 18 per cento e, secondo qualcuno, fece di tutto per impedirne la partecipazione al festival di Cannes8. La didascalia iniziale («Gli interpreti di questo film non sono attori professionisti. Nella vita sono borghesi, intellettuali, contadini, operai, artigiani, uomini come quelli che dal tempo del risorgimento e della unità, fino a giorni a noi più vicini, sempre sono stati protagonisti della storia d’Italia, nella cattiva e nella buona sorte») richiamava immediatamente la vicenda cinematografica neorealista. D’altra parte, nel racconto dimesso e sotto tono di una vicenda di guerra, nei volti «comuni» dei protagonisti, nell’attenzione agli aspetti più minuti della quotidianità, nell’importanza data al paesaggio, dai contorni incerti e confusi per la nebbia, che bene esprimeva lo stato d’animo dei soldati, nello sguardo rivolto alle componenti più povere della società italiana, nell’uso dei dialetti, il film apertamente dichiarava la sua appartenenza alla sensibilità neorealistica. 6
P. Nelli, Per la mia prima regia ho scelto il vecchio regno, Cinema nuovo», n. 8, 1° aprile 1953, p. 204. 7 Ibid. 8 Paladini, Il Risorgimento scende da cavallo, cit., p. 42. Sempre nella trasmissione televisiva Cinema 70 lo scrittore Libero Bigiaretti sosteneva che il film fu invitato a partecipare a Cannes, ma questa partecipazione fu di fatto impedita dal governo italiano che mandò un telegramma che ne sconsigliava la proiezione, «perché il film era deprimente, perché metteva in luce una fase caporettiana, e non una fase di esaltazione eroica, di esaltazione dinastica. E poi perché dava fastidio quel tanto che c’era di neorealistico che sembrava già per tramontare…».
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
La pattuglia sperduta racconta le vicende di un gruppo di otto soldati dell’esercito piemontese, provenienti da varie zone d’Italia, che tra il 20 e il 23 marzo del 1849, cerca, nella nebbia delle risaie piemontesi, di raggiungere la divisione del generale Ramorino che dovrebbe essere attestata vicino Pavia. Quattro muoiono nel corso del tentativo: i superstiti arrivano stremati nei pressi di Novara. Uno di loro si chiede il perché di tanti sacrifici e sofferenze. E la risposta del capitano, il napoletano Salviati [Sandro Isola, pseudonimo di Oscar Navarro, uno degli sceneggiatori del film, peraltro intellettuale noto negli ambienti culturali torinesi, professore di filosofia, poeta, cronista de «La Gazzetta del popolo»9], chiarisce il senso della pellicola: Documento acquistato da () il 2023/04/26.
Senti, Barra, ora che tutto va male è difficile dire perché siamo qui! Eppure pensa al nostro passato, ai pochi giorni che abbiamo trascorso insieme. Forse noi siamo qui perché Malan possa riattraversare il fiume senza più essere colpito, perché il tenente Airoldi riveda la sua bella pianura lombarda, perché Valfrè prenda i suoi libri, perché Ronco torni a tendere trappole alle lepri e a lavorare in risaia e tu nella tua Liguria. Tu sei ligure, Barra, e proprio dalla Liguria è incominciato il mio esilio. Sono fuggito da Napoli e ho lasciato il mio amico Settembrini e tanti altri, anche loro con le nostre stesse sofferenze, dubbi, speranze. E con loro e con noi altri uomini e donne, contadini, studenti, borghesi, popolani, delle Venezie e della Calabria, della Sicilia e delle Marche, uniti dagli stessi dolori e speranze, divisi solo da una striscia di terra, da qualche collina, da poche braccia d’acqua, Credo, Barra, che solo per questo noi siamo qui e solo più in quattro. Proprio perché quella striscia di terra, quelle colline, quelle poche braccia d’acqua non ci dividano più… [pausa, carrellata su volti stanchi, corpi accasciati: si sente un rombo di cannone] Il cannone tuona ancora… A Novara si combatte… Iamme, guagliò!»
Ma a Novara si è consumata la sconfitta. I quattro si aggirano tra cadaveri e macerie, con la macchina da presa che indugia sui loro volti sgomenti finché uno si china a raccogliere un tricolore. Su questa immagine si chiude il film, mentre in voice over si ribadisce il ragionamento del capitano Salviati: «È il tramonto del 23 marzo: sulla pianura di Novara si è combattuto aspramente… […] Qui, su questa pianura, finisce la breve guerra del ’49 e qui finisce la storia della nostra pattuglia, del capitano Salviati e dei suoi uomini. A Brescia, a Venezia, a Roma, soldati e popolazione continuano a combattere e 9
Cfr. il capitolo Isola, Salviati, Navarro: tre nomi per il filosofo, in Fiammetta, Recupito, Cirri, La pattuglia sperduta, cit., pp. 65-69.
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a resistere. Da queste lotte, da queste sconfitte, da questo sacrificio comune venivano infrante le barriere tra regione e regione. Al di là di una disfatta nasceva una nazione!». La nazione, insomma, era quella che si stava creando nella lotta comune di uomini di classi sociali e provenienze geografiche diverse. Un’affermazione che ricorda il celebre dialogo tra Kim e Ferriera ne Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino (1947) in cui si sostiene che proprio nel corso della lotta ai nazifascisti si potrà ridare senso e linfa ad «una patria fatta di parole, o tutt’al più di qualche libro»10. È evidente che il parallelo con la Resistenza – che per qualcuno costituiva il grande «difetto» de La pattuglia sperduta11 – percorreva in filigrana tutto il film (in molte sequenze non è difficile intravedere l’influenza dell’ultimo episodio di Paisà). Gli autori, pur rispettando rigorosamente la scansione degli eventi bellici (a firmare la consulenza storico-militare era stato chiamato Piero Pieri12) giocavano molto sulle somiglianze: come nella resistenza, civili e soldati combattono insieme contro «invasori» di lingua tedesca che non hanno pietà neanche di donne e bambini, come nella Resistenza, partecipano alla lotta tutte le classi sociali (tra gli otto vi sono borghesi benestanti, operai, intellettuali, contadini), come la Resistenza, infine, anche questa era una guerra necessaria. E, a ben guardare, il parallelo con la lotta dei partigiani permette di chiarire anche il senso della perorazione del capitano Salviati e del messaggio finale che sembra in contrasto con il tono anti-eroico e «pacifista» della pellicola. La guerra era sicuramente un evento triste e doloroso, ma c’erano guerre che era necessario combattere. E la prima guerra d’indipendenza era una di quelle. Questa la tesi, ribadita nel finale, come si diceva, ma presente fin dall’inizio, nel dialogo tra i soldati che hanno appena lasciato la caserma per raggiungere il grosso dell’esercito. Ed è significativo che non vengano inquadrati i volti di chi pronunzia le frasi (sono tutti 10 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, vol. I, Milano, Mondadori, 2003, pp. 104-107. 11 Già Aristarco all’uscita del film ricordava che, se era vero «che esistono concordanze e incidenze tra Risorgimento e Liberazione», certamente «i partigiani non combatterono per la maggior gloria della dinastia sabauda, per conservarle il suo posto di classe dominante, per difendere i privilegi di una classe; la Resistenza non è stata una conquista regia ma popolare, non fenomeno di una minoranza ma insurrezione dal basso…» (Aristarco, La pattuglia sperduta, cit., p. 115). Qualche anno dopo, con altre parole, Mino Argentieri avrebbe ripetuto il concetto: Argentieri, Il cinema italiano e il Risorgimento, cit., p. 89. 12 All’epoca Pieri, uno dei maggiori studiosi di storia militare risorgimentale (il suo Storia militare del Risorgimento, che a quasi sessanta anni dalla pubblicazione, 1961, rimane un punto di riferimento imprescindibile della storiografia militare del Risorgimento), era docente all’Università di Torino.
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ugualmente protagonisti), ma solo il paesaggio, filari di alberi immersi nella nebbia, quasi a ribadire – sulla scorta di quanto succedeva al Fabrizio della stendhaliana Certosa di Parma – come la guerra presenti aspetti difficilmente comprensibili a chi vi combatte:
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- Sergente, a ’sa ’ndo ’nduma? - Fa il soldato per essere comandato e fare il tuo dovere, Capai, non per fare domande! - Lo senti, volontario Valfrè, com’è la vita militare! Altro che entusiasmi. Qui fai il soldato e in fanteria per di più. A me non piace fare il soldato, Barra, ma ora bisogna farlo. Questa guerra, come quella dell’anno passato, è necessaria per tutti, per me e per te!
Insomma, un film inconsueto, «un’opera nobile» dove i protagonisti erano uomini e donne «direttamente tolti dalla genuina vita dei luoghi», con una «narrazione indiretta» e «sobria», con poche concessioni alla retorica e qualche ingenuità13. Siamo arrivati così al film più rappresentativo degli anni Cinquanta, quel Senso14 che per molti critici rappresentò una svolta nel panora13 Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera» 22 luglio 1954. Il «Corriere d’Informazione» sottolineava l’incongruità di ricorrere a una pattuglia di fanti laddove sarebbe stato necessario usare un drappello di uomini a cavallo, «unico mezzo di comunicazione rapido allora esistente» (C. Caleffi, Vanno guidati da strateghi anche i soldati dei film, «Corriere d’Informazione», 6 agosto 1954). 14 Regia di Luchino Visconti; soggetto dal romanzo omonimo di Camillo Boito; sceneggiatura di Visconti e Suso Cecchi d’Amico; collaborazione alla sceneggiatura di Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi; collaborazione ai dialoghi di Tennesse Williams e Paul Bowles. Sia «Cinema nuovo», sia «Cinema» dedicarono alla pellicola, prima ancora che fosse completata, un numero speciale. «Cinema nuovo» usciva addirittura il 1° dicembre 1953, con il film da poco in lavorazione, e comprendeva anche due articoli (di Gianni Puccini, uno degli sceneggiatori, e di Guido Aristarco) sul primo film di Visconti, Ossessione, stabilendo volutamente un legame tra le due pellicole: «Dedicando l’altra parte di questo fascicolo ad Ossessione non pretendiamo tracciare qui un diagramma dell’opera di Visconti, che risulterebbe ovviamente incompleto. Ma ci interessa sottolineare appunto questo: come è nato ieri Ossessione, e perché oggi Visconti dirige Senso, le analogie che esistono purtroppo fra la situazione in cui maturò allora l’incerta protesta di Ossessione e quella in cui si rifugia oggi la protesta travestita di Senso. Più consapevole protesta certo, quest’ultima, ma ugualmente affidata al fluido espediente dell’allusione […] Dal tentativo di Visconti ci attendiamo naturalmente un esempio efficace di ciò che può essere il film storico, e in questo senso sopra tutto Visconti non avrà lavorato inutilmente. Tuttavia restano chiari i motivi di una preoccupazione, che si aggiunge a non poche altre già chiaramente confessate: che i film “in costume” diventino il ripiego forzato e ambiguo di un cinema realistico che invece ha ancora tutto da dire, o comunque molto, sulla vita contemporanea» (Realtà e metafore, «Cinema nuovo», n. 24, 1° dicembre 1953, p. 327). Anche «Cinema» dedicò a Senso un intero fascicolo, che comprendeva, oltre a un’intervista a Visconti, scritti dello stesso regista e di alcuni collaboratori, da Francesco Rosi a Franco Zeffirelli, aiuto-registi, da Suso Cecchi d’Amico a Piero Tosi, autore dei costumi, da Claudio Forges Davanzati, direttore di produzione, all’arredatore Gino Brosio. Nell’editoriale,
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ma del cinema italiano, innescando discussioni interminabili sulla fine del neorealismo e il passaggio al realismo, ma soprattutto scatenando molte polemiche, spesso di natura più politica che cinematografica. Mario Gromo su «La Stampa» argutamente notava come le opinioni spesso derivassero dall’appartenenza di Visconti al partito comunista15, mentre Aristarco nella sua entusiastica recensione ammetteva che il film potesse lasciare «sconcertato e perplesso certo pubblico (questa volta meglio individuabile e circoscritto) e certa critica, imbarazzata, inibita quasi di fronte a strutture e contenuti, a risultati artistici che si distaccano da quelli consueti e pervengono a conclusioni diverse e originali»16. Fatto sta che la critica si divise17: lo stesso pubblico ebbe reazioni contrastanti, a giudicare dal sondaggio lanciato dal quotidiano di Milano, «La notte», e dal referendum promosso da «Cinema nuovo» tra gli spettatori di un cinema milanese (i risultati ovviamente non avevano nessuna pretesa di natura scientifica, visto il campione estremamente ristretto)18. la scelta della rivista veniva giustificata in nome «dell’interesse particolarissimo» del film: «Poiché Senso è un film “storico”. Termine, quest’ultimo, che in Italia (e non soltanto in Italia) è da anni sinonimo di ampolloso ciarpame retorico e romanzesco, o tutt’al più di “colossale” spiegamento di mezzi produttivi […] Ma Senso costituisce il primo esempio di un’applicazione dello stile realistico alla nostra storia del lontano ieri, retaggio tradizionale di un manieristico romanticismo da oleografia» (Significato di “Senso”, «Cinema», n. 136, 25 giugno 1954, p. 347). 15 «È così accaduto che, nei crocchi, benpensanti di destra si scagliassero a priori contro Senso senza averne, matematicamente, visto un metro; e che benpensanti di sinistra vi inneggiassero, senza averne, matematicamente, visto un metro» (M. Gromo, Vivo successo di Senso il nuovo film di Visconti, «La Stampa», 4 settembre 1954). 16 G. Aristarco, Senso, «Cinema nuovo», n. 52, 10 febbraio 1955 17 Impossibile dare un se pur schematico resoconto di quanto fu scritto sui giornali. Due esempi per tutti: «Di che storia si tratta? […] Ma no, qui la storicità del film assume subito un ben più intenzionale profilo: gli austriaci dominatori in Venezia sono un po’ come i nazisti; gli italiani sono un po’ come i regolari “badogliani” affiancati agli alleati e i veri difensori della libertà sono questi patrioti veneti che hanno tutta l’aria di essere visti come partigiani comunisti; li guida un nobile, il signor marchese Ussoni, ma costui sa che conto fare della sua classe, si è liberato dei pregiudizi e non ignora che l’Italia dell’avvenire non sarà dei generali piemontesi, né dei patrizi come lui, ma dei patrioti operai che “faranno davvero l’Italia” con il loro sangue» (G.L. Rondi, Senso, sensibilità e storia reale, «Il popolo lombardo», 19 febbraio 1955); «L’accostarsi da parte del nostro migliore cinema ai temi umani del risorgimento senza il fastidioso pungolo dell’esaltazione ma con l’obiettività delle ragioni esclusivamente storiche è indice di intelligenza scelta e di chiaro coraggio tanto più che oggi di fronte alla generale confusione dei valori ed alla orchestrata offensiva della censura molte forze vive del nostro cinema stanno purtroppo abdicando ad un’autonomia espressiva preferendo il “prodotto” anonimo, ambiguo e ben lontano dall’impegno artistico» (T. Cicciarelli, Senso, «Il lavoro» 29 gennaio 1955). 18 Le domande del quotidiano milanese, pubblicate sul numero del 21/22 febbraio 1955, erano le seguenti: «Che cosa pensa lei di Senso; quali ne sono i pregi e i difetti; quanti cerchietti – seguendo il sistema del nostro giornale – assegnerebbe lei al film». Le risposte,
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Nato dalla stretta collaborazione tra la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico e Luchino Visconti (era stata la prima a proporre al regista il racconto di Camillo Boito19), il film è un vero e proprio capolavoro, dove l’esile storia d’amore di Boito diventa materia per una riflessione più ampia sul problema del Risorgimento come «rivoluzione tradita» e della fine di un mondo che ha come sua cifra il melodramma e la musica sinfonica romantica (Verdi e Bruckner)20. La trama è nota: una nobildonna veneziana, Livia Serpieri [Alida Valli], si innamora follemente di un giovane tenente dell’esercito austriaco, Franz Mahler [Farley Granger], più giovane di lei. Franz in realtà è un individuo vile e abietto: fin dall’inizio rivela la sua natura, non esitando a denunciare, per evitare il confronto, il cugino di Livia, il marchese Roberto Ussoni [Massimo Girotti], fervente patriota, che l’ha sfidato a duello. Si scoprirà che di Livia gli interessa principalmente il denaro, che gli serve per corrompere i medici e farsi esonerare dal servizio militare. Livia non ha la somma richiesta: ma, folle d’amore, dà a Mahler il denaro raccolto dai patrioti e consegnatole dal cugino. Ottenuto lo scopo, Franz scompare. Livia si mette alla sua ricerca e lo trova a Verona, ubriaco, in compagnia di una prostituta. Mahler la irride e la insulta più volte: «Che differenza c’è fra voi due», domanda sfrontatamente a Livia dopo averla fatta sedere accanto alla prostituta. almeno a giudicare da quelle riportate dal giornale, si divisero esattamente a metà, tra chi sosteneva entusiasticamente il film e chi invece riscontrava limiti di ogni tipo (Cfr. Vi è piaciuto «Senso»?, «La notte», 3/4 marzo 1955). Le circa duecento risposte raccolte dal referendum di «Cinema nuovo» erano, nella stragrande maggioranza, ricche di elogi per il film e di invettive nei confronti della censura (un operaio arrivava a scrivere: «Solo una censura codina e reazionaria come quella che opera nel nostro paese poteva permettersi di manometterne il contenuto storico») e dei giurati della Mostra di Venezia: «Se i Soloni di Venezia non hanno avuto il coraggio e l’onestà di riconoscere i meriti artistici sociali e morali di un film come questo, allora bisogna proprio amaramente pensare che “qualcuno” abbia definitivamente messo a “dormire” la sua cosiddetta e mai sufficientemente sbandierata “libertà di pensiero” (G. Dell’Acqua, Insegna a odiare la guerra, «Cinema nuovo», n. 53, 25 febbraio 1955, p. 126). Si veda anche la rubrica Lettere al direttore, «Cinema nuovo», n. 56, 10 aprile 1955, p. 241, con ampi stralci delle lettere arrivate alla direzione della rivista sul film di Visconti. 19 Racconta Suso Cecchi d’Amico che lei e Visconti stavano lavorando alla sceneggiatura di un film, commissionato dalla Lux, sul matrimonio cattolico e che la produzione, per motivi di natura politica, ben presto rinunciò al progetto, chiedendo però ai due autori altre proposte: «Presentammo cinque idee, una di queste era la novella di Boito ch’io ricordavo di aver letto nella piccola raccolta curata da Giorgio Bassani e di averne parlato col Bassani stesso». La testimonianza della d’Amico è riportata nel volume che raccoglie tutto il materiale legato al film, dalla novella di Boito alle due sceneggiature ed al continuity (la sceneggiatura per il doppiaggio): L. Visconti, Senso, a cura di G. Cavallaro, Bologna, Cappelli, 1977, p. 17. 20 G. Nuvoli, Storie ricreate. Dall’opera letteraria al film, Torino, Utet, 1998, p. 113.
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Fuori di sé Livia corre al comando tedesco e denuncia l’amante come disertore. Il film si conclude con la fucilazione di Franz, «con una inquadratura simmetrica a quella iniziale: lo spiazzo dell’esecuzione simile a un palcoscenico nudo»21. In realtà, il finale doveva essere un altro e lo stesso film si sarebbe dovuto intitolare Custoza, come specificava, in un’intervista apparsa sui «Cahiers du Cinéma», lo stesso regista: Quello che mi interessava era raccontare la storia di una guerra sbagliata, fatta da una sola classe e che fu un disastro. Anche il finale in origine era completamente diverso da quello che si vede ora. L’ho girato davvero di notte, in una via di Trastevere, proprio quella in cui Livia corre e grida nella seconda versione. Ma la prima non si concludeva con la morte di Franz. Vi si vedeva Livia passare fra gruppi di soldati ubriachi, e la sequenza finale mostrava un piccolo soldato austriaco, molto giovane, di sedici anni circa, completamente ubriaco, appoggiato contro un muro, che cantava una canzone di vittoria, come quella che si sente nella città. Poi si interrompeva e piangeva, piangeva, piangeva gridando: “Viva l’Austria” […] Ho dovuto apportare dei tagli e il negativo è stato bruciato. Si sono spesi ancora dei milioni per girare la morte di Franz […]… ma per me non era quella la fine di Senso: la fine vera era quel giovane soldato, un piccolo contadino austriaco che non ha alcuna responsabilità e che piange perché è ubriaco. O piuttosto canta perché è ubriaco, piange perché è un uomo, grida “Viva l’Austria” il giorno di una vittoria che non serve a niente, perché l’Austria sarà ben presto distrutta, come ha detto Franz nella sua camera, quel grido di “Viva l’Austria” e le lacrime del piccolo soldato assumevano un’importanza enorme. In breve, il film doveva chiamarsi Custoza e finire con “Viva l’Austria”. Questo era Senso22.
Il titolo fu giudicato disfattista: censura e produzione tagliarono anche molte sequenze del film, soprattutto quelle che riguardavano il rifiuto dello Stato maggiore italiano di far partecipare alla lotta i volontari, per timore di possibili allusioni a quanto era successo con i partigiani23. Alla Mostra del cinema di Venezia «il film fu considerato così antitaliano – sono parole di Suso Cecchi d’Amico – che le autorità non presenziarono alla proiezione. Fu boicottato e furono fatte tutte le pressioni politiche perché il film non avesse riconoscimenti»24 (il che 21
A. Bencivenni, Luchino Visconti, Milano, Il Castoro, 1994, p. 36. Intervista apparsa sui «Cahiers du Cinéma», n. 93, marzo 1959, citata in Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, cit., pp. 326-327. 23 Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p. 35. 24 La testimonianza di Suso Cecchi d’Amico è in M. Cardillo, a cura di, Da Quarto a Cinecittà. Garibaldi e il Risorgimento nel cinema italiano. Materiali e documenti, s. l., Ammini22
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si realizzò puntualmente, provocando forti rimostranze nel pubblico che assisteva alla cerimonia di premiazione25). Qualche giorno dopo la proiezione, Visconti spiegava ad alcuni giornalisti che il Ministero della Difesa aveva chiesto di visionare preventivamente il film dal momento che aveva fornito il materiale bellico necessario: «Il giudizio del Ministero è stato naturalmente negativo. Si gettavano ombre sull’esercito e da parte nostra fu fatica vana ricordare che l’esercito era quello del ’66». Il regista raccontava di avere in parte acconsentito alle richieste, ma i problemi non erano finiti: subito dopo era stata la volta del Sottosegretario allo Spettacolo che insisteva perché fosse modificata la sequenza del tradimento di Livia che infangava «senza rimedio la purezza del Risorgimento!». «Credetemi, – concludeva sconsolato Visconti – non è facile fare del buon cinema»26. Quasi un anno dopo, «Cinema nuovo» ricostruiva la cronistoria dei tagli, iniziata – come sosteneva Visconti nell’intervista sopra riportata – prima ancora che il film venisse proiettato alla Mostra di Venezia, con la visione da parte del Ministero della Difesa e la richiesta di alcune modifiche al dialogo tra Ussoni e il capitano Meucci (modifiche accettate da Visconti), e proseguita, dopo Venezia, con la richiesta del taglio dell’intera scena, che, essendo una delle prime ad essere girate, era stata interamente strazione provinciale di Frosinone, 1984, p. 201. Cfr. anche la testimonianza di John Francis Lane, attore e critico cinematografico, che ricordava a Franca Faldini e a Goffredo Fofi come a Venezia il film suscitasse scandalo, «perché si parlava di Custoza, perché mescolava una storia d’amore con la politica del Risorgimento, perché ancora non tutti apprezzavano l’aspetto “opera lirica” del cinema di Visconti, e infine perché il pubblico veneziano della prima si era sentito offeso dal personaggio della contessa Livia, veneziana […] A Visconti, un aristocratico addirittura, non si perdonava di essere amico dei comunisti» (Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano 1935-1959, cit., pp. 332-333). 25 Una colorita cronaca della cerimonia in L. Penna, L’ora dei fischietti, «Cinema nuovo», n. 43, 25 settembre 1954, p. 166. Cfr. anche la cronaca – più “neutrale” – di Pietro Bianchi, La maggioranza ha applaudito, la minoranza ha usato anche i fischietti, «Corriere d’Informazione» 8 settembre 1954. Aristarco per bollare il giudizio dei giurati ricorreva a De Sanctis: «Quanto alla critica (e quasi tutti critici erano i membri della giuria), il suo ufficio non è stato dunque, come direbbe il De Sanctis, “di tenere alto e immacolato l’ideale dell’arte”: – “Se non si può uscire dal mediocre, se ne abbia almeno coscienza; e se l’arte è fiacca, rimanga sano il giudizio”. È avvenuto invece di confondere il Castellani di Giulietta e Romeo o il Fellini della Strada, per non dire il Wise di Executive suite, con il Visconti di Senso: così come a un di presso si confuse, ai tempi di De Sanctis, Felice Romani con Giacomo Leopardi. Chi ricorda oggi il “molto famoso e discusso” (allora) professore di belle lettere nominato a Milano poeta dei regi teatri del regno italico?» (G. Aristarco, I leoni fischiati, «Cinema nuovo», n. 43, 25 settembre 1954, p. 167). I premi della XV Mostra furono così distribuiti: Leone d’oro a Giulietta e Romeo di Renato Castellani, leoni d’argento a On the Waterfront [Fronte del porto] di Elia Kazan, I sette samurai di Akira Kurosawa, L’intendente Sansho di Kenji Mitzoguchi, La strada di Federico Fellini. 26 E. Fachinelli, Interviste a botta calda, «Cinema nuovo», n. 43, 25 settembre 1954, p. 199.
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pubblicata su «Cinema nuovo» del 1° dicembre 1953. Vale la pena, pertanto, di riportare il dialogo incriminato: USSONI – Abbiamo fatto l’impossibile per costituire queste formazioni volontarie. Il loro compito è di operare alle spalle del nemico, e ora lei mi dice… Ma giustamente si è gridato ai quattro venti che tutte le forze vive d’Italia dovevano prendere parte alla guerra. Abbiamo risposto all’appello… Abbiamo dato un contributo superiore a ogni aspettativa… MEUCCI – Capisco la sua preoccupazione. D’altro canto lei sa meglio di me che le guerre si combattono con un esercito fedele, saldo, compatto. L’esperienza ha sempre dimostrato che i volontari arruolati nell’esercito regolare sono di scarso sussidio, se armati e dispersi in guerriglia […] Comunque, il lasciapassare lo ha avuto. USSONI – Non sono venuto a chiedere l’elemosina di un lasciapassare! Ci si rende conto dei sacrifici, delle vite, che questa organizzazione è costata? MEUCCI – E lo riconosciamo… il vostro servizio di informazioni è stato perfetto. USSONI – Vede? Ma al momento di riconoscere questo nostro contributo, ecco qua… Parliamoci francamente, capitano, l’ordine che lei mi ha trasmesso rispecchia la ripugnanza di tutto l’esercito, a cominciare dal signor generale Lamarmora, per le forze rivoluzionarie. È chiaro che si vogliono escludere queste forze dalla guerra, impedire loro… MEUCCI – Mi ascolti, Marchese, da ieri mattina l’avanzata è cominciata su tutto il fronte. E dall’alba di stamane notizie che pervengono dal Comando informano che le nostre forze sono impegnate in durissimi scontri. Non possiamo che rallegrarcene. L’esito della guerra è sicuro… L’esercito regolare basterà alla Patria…27
Seguivano altri tagli di minore importanza e quando la vicenda sembrava risolta, con le copie pronte, la censura richiedeva un’altra ventina di tagli. La Lux si opponeva e si arrivava a un compromesso di quattro tagli che riguardavano la scena nella camera da letto a Venezia (tolta la prima metà), una battuta della scena d’amore nella villa di Aldeno («Oh Franz, ti prego resta!»), la battuta nella camera a Verona («È un’aristocratica italiana») e la sequenza finale delle donne italiane con i soldati austriaci28. Ancora una volta Visconti sottoline-
27 Non dissero solo obbedisco, «Cinema nuovo», n. 24, 1° dicembre 1953, p. 335). Qualche anno dopo, sempre su «Cinema nuovo», Aristarco avrebbe riproposto il brano in questione, cfr. G. Aristarco, Risorgimento senza film, «Cinema nuovo», n. 151, maggio-giugno 1961, p. 204. 28 U. Lisi, Paura della storia, «Cinema nuovo», n. 52, 10 febbraio 1955, p. 88.
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ava come le sue reazioni alle richieste della censura fossero state di «assoluto stupore»:
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Sinceramente, non riesco a giustificarle, a capirne il motivo. Perché, ad esempio, tagliare mezza scena d’amore e lasciare l’altra metà? Perché tagliare a caso un certo numero di baci? Forse per diminuirne il numero? Perché togliere la battuta “Oh Franz, ti prego resta!”, quando poi Franz “resta”? Perché, infine, impedire che si accenni – anche di sfuggita – a un aspetto documentato della storia del nostro Risorgimento, ai rapporti cioè che esistevano fra l’ufficialità piemontese e i corpi dei volontari? Dovremo dunque mentire sempre? Quanto poi all’intervento del Ministero della Difesa, mi sembra che sia anch’esso del tutto arbitrario. Accettando questo principio non ci sarà più una sola censura, ma tante censure per quanti sono i ministeri29.
In ogni caso, nonostante i tagli, sui quali pose l’accento soprattutto la stampa comunista quando la pellicola iniziò a circolare nelle sale e alcuni tentativi di boicottaggio30, il film si prese la sua «rivincita» al botteghino31. 29
Ibid. La denunzia dei tagli apportati alla pellicola veniva sottolineata dalla stampa comunista all’uscita del film. Ad esempio, su «l’Unità» del 25 gennaio 1955 Aldo Scagnetti anzitutto sottolineava che il colloquio tra Ussoni e Meucci in un primo tempo era stato solo ridoppiato, attenuando i toni polemici; solo dopo la proiezione del film alla Mostra di Venezia il dialogo fu del tutto espunto insieme ad altre sequenze, soprattutto quelle tra Franz e Livia (A. Scagnetti, Tre ministeri contro “Senso”, «l’Unità», 25 gennaio 1955). Sempre su «l’Unità», commentando il successo che stava arridendo alla pellicola dopo «lo scandalo della non premiazione a Venezia» Ugo Casiraghi notava: «Fin dalle scuole elementari abbiamo appreso che Custoza fu una battaglia praticamente perduta da entrambe le parti, ma sui libri di testo il motivo di quella doppia sconfitta era rimasto un mistero. Il film di Visconti ha anche il merito di far luce su una fase oscura del nostro Risorgimento, sebbene i nostri censori con la mutilazione più grave apportata all’opera, quella del colloquio tra il marchese Ussoni […] e il capitano Meucci dello stato maggiore di Lamarmora… […[ abbiano cercato di trattenere ancora nell’ombra i fatti storici, con l’intento di salvaguardare l’onore dei comandanti d’armata. Ma l’ipocrisia di questi censori non è servita a niente, perché, nel film di Visconti, la stessa storia d’amore fra Livia e Franz […] spiega in maniera impressionante perché la vittoria o la sconfitta di Custoza siano state comunque un macello inutile, essendo le due classi che vi parteciparono già abbondantemente debellate dall’interno» (U. Casiraghi, La rivincita di Visconti davanti al pubblico italiano, «l’Unità», 29 gennaio 1955). Secondo il quotidiano comunista, infine, in alcune località si erano verificati anche tentativi di boicottaggio: a Carpi, al Supercinema, ad esempio, gli agenti di P.S., con la scusa che il film era proibito ai minori di 16 anni, chiedevano i documenti a tutti, proibendo inoltre, a posti esauriti, ogni altra ulteriore vendita di biglietti, mentre in un altro cinema la calca «era addirittura eccezionale» (Assurdi rigori polizieschi contro «Senso» a Carpi, «l’Unità», 12 febbraio 1955). 31 Secondo Spinazzola il film si collocò al nono posto nella classifica degli incassi con 600 milioni di lire (V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 19451965, Roma, Bulzoni, 1985, p. 140). Più o meno sulle stesse cifre si attestano Chiti, Poppi, 30
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Su Senso e su Visconti sono stati scritti fiumi di inchiostro. Esulano dal tema di questo saggio (e dalle competenze di chi scrive) giudizi e rilievi artistici sulla pellicola, anche se non si può non rilevarne la «bellezza figurativa eccezionale»32, con citazioni pittoriche che spaziano da Il bacio di Hayez a La toeletta del mattino di Signorini, a La battaglia di Custoza di Fattori e con un uso del colore che passa, in sintonia con lo stato d’animo dei protagonisti, dai toni chiari e luminosi a quelli bruni e, infine, neri della notte di Verona e dell’abito di Livia33. Mi limito, pertanto, a sottolineare quegli aspetti che più possono riguardare lo storico. Anzitutto, la «sprovincializzazione»34 operata da Visconti: la partecipazione dell’Italia alla guerra austro-prussiana, esaltata molto più di quanto non fosse dalla dizione stessa di «Terza guerra d’indipendenza», viene ampiamente ridimensionata, così come la battaglia di Custoza, evento tutto sommato marginale nell’economia del conflitto e che di fatto non impedirà il passaggio del Veneto all’Italia e la sensazione della “finis Austriae”, presagita e annunciata nel film da Mahler: Dizionario del cinema italiano, vol. II, I film dal 1945 al 1959, cit. (628 milioni) e il Catalogo Bolaffi del cinema italiano, diretto da G. Rondolino, a cura di O. Levi, Torino, Bolaffi, 1967, che riferisce un incasso – a tutto il 31 marzo 1965 – di 627.740.272 lire. 32 Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p. 36. Fu questo l’aspetto sul quale più si soffermarono positivamente le critiche dell’epoca che riscontrarono molti difetti nei dialoghi e nel «ritmo» della pellicola. «Ma il resto – scriveva ad esempio Pietro Bianchi sul «Corriere d’Informazione» – è una pura meraviglia; meraviglia dei colori […]… meraviglia della battaglia […]… meraviglia di certi “interni” ricostruiti con minuzia da fiammingo, con l’occhio intelligente e partecipe di chi riesce a rievocare dentro si sé, con pure linee, semplici masse e colori la melodiosa e incorrotta poesia del passato. Sarà difficile dimenticare la dolce pianura veneta, al tempo della piena estate con i contadini al lavoro mentre si leva la polvere sollevata dai cavalli al galoppo che trascinano i pezzi di artiglieria; né i bersaglieri che avanzano all’attacco fra i mucchi gialli di paglia; né le figure concitate ed empie dei tragici amanti sullo sfondo della magnifica villa dalle pareti maestrevolmente affrescate, vera dimora di re» (P. Bianchi, Senso di Visconti è una meraviglia con qualche difetto, «Corriere d’Informazione», 3 settembre 1954). Qualche giorno dopo la fine della Mostra di Venezia Mario Gromo su «La Stampa» metteva in rilievo come di rado si fossero avute «sullo schermo visioni paragonabili alle inquadrature di Senso. Una sapientissima composizione del quadro e un uso ancora più sapiente del colore ci hanno offerto mirabili accordi di toni, di luci e di ombre». Aggiungeva però che il dramma raccontato dalla pellicola «non risulta convincente, malgrado concitazioni esteriori i due protagonisti sono più enunciati che viventi. È questa la carenza più grave del film, e tale da mettere in secondo piano altre non lievi manchevolezze, sempre di toni umani e di vicenda» (M. Gromo, A schermo spento, «La Stampa», 9 settembre 1954). Ancora più “severo” Arturo Lanocita che sul «Corriere della Sera» sottolineava l’accuratezza di fattura, «quasi sempre squisita», e l’uso «magistrale» del Technicolor e della fotografia, ma accusava Visconti di aver mancato di «equilibrio […] quando dal paesaggio passa all’uomo»: «Visconti in definitiva ha assai meglio descritto che raccontato […] Tutto è ammirevole e tutto è gelido, più pensato che sofferto» (A. Lanocita, Più mosaico che quadro “Senso” di Luchino Visconti, «Corriere della Sera», 4 settembre 1954). 33 Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p. 36. 34 Ivi, pp. 34-35.
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«Cosa m’importa che i miei compatrioti abbiano vinto una battaglia in un posto chiamato Custoza, quando so che perderanno la guerra e non solo la guerra. E l’Austria fra pochi anni sarà finita e un intero mondo sparirà, quello a cui apparteniamo tu ed io. Il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha nessun interesse per me». Acutamente Visconti coglie il lento disfarsi di un mondo al tramonto (evidenziato dalla scelta di sorreggere parte del film con la Sinfonia n. 7 in mi maggiore di Anton Bruckner, «il musicista che in certo senso preannunciò la decadenza del mito asburgico»35) e lo traduce in sequenze di fulminante bellezza che danno al tempo stesso una sconcertante sensazione di falsità o, se non altro, di straniamento. Pensiamo all’inizio, quando, con macchina fissa si inquadra la scena della fine del terzo atto de Il Trovatore con il duetto di Manrico e Leonora cui si aggiunge Ruiz. Lo sguardo è quello dello spettatore. Ma ecco che l’inquadratura lentamente si avvicina al palcoscenico, fino a svelare, sulla destra, la presenza, tra le quinte, dei macchinisti ben presto raggiunti da Ruiz che ha lasciato la scena. E mentre Manrico avanza sul proscenio per intonare la romanza Di quella pira, la macchina da presa ruota su se stessa e inquadra orchestrali e pubblico, con le prime file occupate da ufficiali austriaci: «La prospettiva è stata dunque invertita: sullo sfondo del melodramma, comincia ad essere descritta e interpretata la società che ne è spettatrice»36. La realtà, insomma, viene raccontata al modo del melodramma, ma svelandone, per dir così, la finzione: vediamo la scena, ma contemporaneamente possiamo vedere anche quello che avviene dietro le quinte. Fuor di metafora, dietro lo splendore degli stucchi e degli ori della Fenice (o degli arazzi e degli affreschi della villa di Aldeno dove i due amanti si ritrovano), Visconti svela i tristi e grigi «meccanismi» di un’esistenza molto più mediocre di quel che le grandi passioni di cui si ammanta farebbero sospettare. Contribuisce a questa sensazione di falso il continuo ricorso a immagini riflesse da specchi disseminati un po’ ovunque. Quando Mahler accede al palco dove è Livia (Ussoni l’ha già sfidato a duello) entra nel campo visivo 35
G. Rondolino, Luchino Visconti, Torino, Utet, 1981, p. 314. Ivi, pp. 32-33. Nella già citata intervista ai «Cahiers du Cinéma» Visconti asseriva: «La storia di Senso è questa, un melodramma: per questo ho cominciato con la sequenza del teatro, mentre avrei potuto trovare altri mille inizi. Infatti la sceneggiatura primitiva iniziava in un modo completamente differente, con l’arrivo delle truppe italiane a Verona. In un ospedale, si scopriva una specie di folle che non sapeva più chi era, né da dove venisse. Era la contessa Serpieri. Ma quando ho cominciato a girare, ho capito che attraverso tutto il film si doveva perseguire la ricerca dello stesso clima, quello del melodramma italiano, del Trovatore» (Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano 1935-1959, cit., p. 326). 36
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dello specchio dove Livia in precedenza ha studiato la sua espressione (intende chiedere a Mahler di non battersi con il cugino). L’immagine cioè è rovesciata e contribuisce a dare un senso di irrealtà, così come – Visconti sembra molto didascalico in queste prime sequenze – risulta irreale la trasposizione della tragedia dal palcoscenico alla realtà, come si affretta a precisare Livia (e per ironia della sorte, il suo destino sarà proprio quello di vivere la realtà come un melodramma cui ha tante volte assistito in teatro): Livia – Le piace l’opera, tenente Mahler? Franz – Sì, a me piace molto l’opera, contessa Serpieri, quando è un’opera che mi piace. E a lei? Livia – Sì, a me piace molto, non mi piace quando si svolge fuori scena. Non è che ci si possa comportare come un eroe da melodramma senza riflettere alle conseguenze, gravi, di un gesto impulsivo e dettato solo da qualche imperdonabile leggerezza!
Lo specchio tornerà più volte nelle sequenze successive. Livia va a salutare il cugino, costretto dalla denunzia di Mahler ad andare in esilio, e poco dopo ritroverà Franz. Inizia un lungo corteggiamento che si snoda per le calli di Venezia, finché i due si fermeranno in un campiello. Qui Franz trova un pezzo di specchio e inizia a rimirarsi: Livia – Perché si guarda con tanto interesse? Le piace tanto guardarsi? Franz – Sì, mi piace! Non passo mai davanti a uno specchio senza guardarmi. Livia – E perché le piace tanto? Franz – Mi piace guardarmi per essere sicuro che sono… io. Livia – Soltanto allora ne è sicuro? Franz – No! Anche quando vedo una donna che mi guarda come lei mi sta guardando in questo momento.
Così come più volte Livia si guarderà allo specchio, senza vedersi, nella camera presa in affitto alle Fondamenta nuove dove si incontra con Franz. E lo specchio comparirà ancora nella villa di Aldeno: quando Mahler entra nella camera di Livia la macchina da presa inquadra la sua figura e, contemporaneamente, la sua immagine riflessa nello specchio. Successivamente, Livia esce dalla stanza per tranquillizzare i familiari che hanno udito rumori sospetti: quando rientra si siede davanti a un piccolo specchio e proprio in questo vediamo avvicinarsi Franz. Livia cede e Franz si addormenta tra le sue braccia: questa volta è un grande specchio a rimandarci l’immagine dei due amanti. Gli specchi scompariranno nel finale del film, quando non ci sarà più
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
bisogno di immagini riflesse, ma la realtà apparirà a Livia in tutta la sua crudezza. Lo specchio, in definitiva, capovolgendo l’immagine, in certo senso tradisce la realtà, così come Franz tradisce Livia, Livia i compatrioti e tutti, comunque, mancano il loro appuntamento con la storia37, come sembra intuire, molto di sfuggita, il marchese Ussoni: «È da tanto che aspettavamo questo momento e adesso che è giunto è come se ci avesse colto di sorpresa, vero? Mette sgomento!». Da questo punto di vista l’opera di Visconti (si ricordi che siamo nel 1954) è sicuramente non soltanto in sintonia con le tesi di Gramsci sulla rivoluzione mancata (nell’imminenza dello scontro il film ci mostra i contadini di Aldeno che, indifferenti alla guerra, continuano il loro lavoro), ma esprime anche il disagio, tutto viscontiano, per la mediocrità della società e il rimpianto di un mondo finito per sempre (Senso è anche un’anticipazione de Il Gattopardo) e, contemporaneamente, la disillusione e il tradimento di quelle aspettative e di quelle speranze nate con la Resistenza. Da questo punto di vista il film si poneva veramente come ideale conclusione delle pellicole risorgimentali girate negli anni Cinquanta. Non a caso, sui cinque film più significativi e che sicuramente possono definirsi risorgimentali – Cavalcata d’eroi (1949), Il brigante di Tacca del Lupo (1951), Camicie rosse (1952), La pattuglia sperduta (1952), Senso (1954) – quattro erano incentrati su episodi caratterizzati dalla sconfitta e di questi ben due sulla sfortunata esperienza della repubblica romana (la repubblica romana faceva da sfondo anche alla vicenda raccontata in Cento anni d’amore, dall’episodio risorgimentale, Garibaldina, che vedeva lo sbocciare di un amore tra Maria, la nipote del parroco di Monterotondo, don Pietro, interpretato da Aldo Fabrizi, e il garibaldino Nico: ma qui il senso della sconfitta veniva attenuato dalla forte convinzione, espressa da tutti i protagonisti, compreso il prete, nella futura unità d’Italia38). In quattro su cinque faceva capolino l’allusione (evidente ne La pattuglia sperduta, più o meno velata in tutti gli altri), alla Resistenza: basti pensare a Cavalcata d’eroi con Livia che ribatte al conte Monis, che ha definito «straccioni» i patrioti: «Andatevene! O volete che vi faccia buttare fuori 37
Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p. 34. Il film veniva stroncato da «Cinema»: «Ancora una volta si tratta di un film casuale, il quale allinea (senza cercare artificiosi collegamenti, questo è il suo piccolo gesto di coraggio) pretesti attinti, senza troppa finezza, da una letteratura di secondo e terzo piano. Il De Felice aveva palesato, fin dal suo primo film, Senza bandiera (1951), un certo possesso del mestiere. Sarebbe ora che si cercasse migliori occasioni per affinarlo» (G.C. Castello, Film di questi giorni. Miscellanea, «Cinema», n. 130, 31 marzo 1954, p. 183). 38
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PARTE PRIMA - DALLA FINE DELLA GUERRA ALLE SOGLIE DEL MIRACOLO
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da qualcuno di questi straccioni, feriti dallo straniero che voi e altri come voi hanno chiamato a Roma?». O, ancora, in Camicie rosse, al dialogo – in cui è avvertibile la polemica nei confronti di coloro che durante la Resistenza preferirono «stare alla finestra» senza prendere posizione – tra due avventori in un’osteria dell’Italia centrale che così commentano la sconfitta della repubblica romana: - In fondo a me di Garibaldi non me ne importa proprio niente, io voglio solo la tranquillità e credo che ce la meritiamo! - Non ce la meritiamo! - Perché? - Non abbiamo mai saputo fare niente per conquistarcela, anzi critichiamo Garibaldi che lotta anche per noi. È un modo come un altro per giustificare la nostra vigliaccheria, il nostro tradimento.
D’altra parte, solo a una lettura superficiale Il brigante di Tacca del Lupo sembra rappresentare un’eccezione, dal momento che la vicenda si concludeva positivamente, con quel ballo che accomunava contadini e soldati, metafora evidente della possibilità di costruire un’Italia fondata su culture diverse, ma complementari. Ma – come abbiamo visto – il finale era lì a smentire ogni ipotesi ottimistica e, a ben guardare, anche il film di Germi, soprattutto laddove veniva sviluppato il tema dell’incomprensione tra l’esercito italiano e i contadini meridionali, che percepivano il nuovo stato come diretto prosecutore della politica del vecchio regime borbonico, presentava lo stesso disincanto e la stessa disillusione di Senso e delle altre pellicole. Si pensi all’amara considerazione del capitano Giordani («Bella idea quella di Garibaldi di venire a liberare il meridione. Potrebbe venire lui adesso a far la guerra contro i briganti») o al giudizio estremamente negativo espresso da Giordani, ma anche da Siceli («Questi signori, capitano mio – gente meschina, gente inutile – sanno soltanto riscuotere le rendite delle terre che non lavorano e sono capaci di qualunque viltà per difendere i loro privilegi»), sulle classi dirigenti locali. Scriveva Tommaso Chiaretti su «l’Unità», il quotidiano del Partito comunista, all’uscita del film: Sembra che Germi si sia reso istintivamente conto della sostanza dei problemi, ed è opportuno notare che questa presa di coscienza ha l’aria di nascere, più che da un approfondito studio storico dall’esame delle attuali condizioni del Mezzogiorno. E ciò è in un certo senso assai più interessante, anche se scoraggiante39. 39
T. Chiaretti, Il brigante di Tacca del Lupo, «l’Unità», 30 novembre 1952.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
Insomma, se è vero che un film storico dice qualcosa più sull’epoca in cui è stato girato che sul periodo in cui è ambientato, è inevitabile concludere che le pellicole citate riflettano sentimenti di delusione e amarezza per le vicende contemporanee40. Ne La pattuglia sperduta, che, come si diceva, è il film in cui l’allusione alla Resistenza è più trasparente, la frase del capitano Salviati, riferita all’impossibilità di trovare una via di scampo dagli austriaci, in questa ottica assume tutt’altro significato: «Anche quando mi sono accorto che la nostra missione non era facile ho voluto conservare la speranza di guidarvi verso le nostre divisioni, dove a fianco di altri uomini come noi avremmo potuto vivere i giorni e le ore che decideranno di noi. Ormai non posso più comandarvi questa speranza. Me lo dice la stanchezza, il freddo, la sfiducia, la tristezza che leggo nei vostri occhi». E subito dopo, a mo’ di corollario, Valfrè, l’intellettuale del gruppo, esclama: «E dire che si doveva cacciare il nemico, entrare in Milano tra i fiori. E invece dobbiamo fuggire, nasconderci e sempre questo fango…». La pattuglia sperduta operava però grande professione di ottimismo (come, in qualche misura, Il brigante di Tacca del Lupo). La speranza non è finita: anche se per il momento i punti di riferimento a stento si intravedono per la nebbia, la méta si raggiungerà. Diverso il discorso di Visconti: sappiamo quello che avviene dietro le quinte. Il meccanismo è svelato e non consente illusioni di sorta: «Cerca di vedermi come veramente sono, non come mi ha creato la tua immaginazione. – afferma Mahler rivolto a Livia – L’idea che ti sei fatta di me è pura fantasia, inventata da te e non ha niente a che vedere con quello che sono!»
40
Cfr. Sorlin, La storia nei film, cit., pp. 118-119.
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PARTE SECONDA
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GLI ANNI DEL MIRACOLO
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INTRODUZIONE Il 25 maggio del 1959 il quotidiano londinese «Daily Mail» definiva «l’efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano un miracolo economico». Sul momento la definizione inglese non attecchì presso gli italiani, che le preferirono quella di “boom”: ma in realtà questa non era del tutto sbagliata, dal momento che l’impetuosa crescita registrata a partire in particolare dal 1958 fu «davvero imprevista e improvvisa»1. Quello che il quotidiano non riportava era però che il «miracolo» riguardava non solo l’economia, ma l’intero “sistema” Italia, compreso la cultura, sia umanistica che scientifica: il 10 dicembre dello stesso anno Salvatore Quasimodo ed Emilio Segrè ritiravano a Stoccolma il premio Nobel rispettivamente per la letteratura e per la fisica. Il cinema italiano viveva, per così dire, la sua “age d’or”, aggiudicandosi ben quattro premi Oscar tra il 1957 e il 1963 (nel 1957 con Le notti di Cabiria, di Fellini, miglior film straniero; nel 1961 con Sophia Loren, miglior attrice per La Ciociara, primo Oscar consegnato a un’attrice per un film non in lingua inglese; nel 1962 con Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Pietro Germi con Divorzio all’italiana per la migliore sceneggiatura originale; nel 1963 Fellini si ripeteva con 8 e ½, miglior film straniero), mentre gli incassi al botteghino testimoniavano l’affermazione dei film d’autore, probabilmente grazie anche a una maggiore scolarizzazione e a un incremento della popolazione studentesca universitaria: nel 1960 ai primi quattro posti per gli incassi si piazzarono rispettivamente La dolce vita (Fellini), Rocco e i suoi fratelli (Visconti), Tutti a casa (Comencini), La Ciociara (De Sica) relegando al quinto posto il kolossal hollywoodiano Ben Hur 2. Trasmissioni 1 Così Silvio Lanaro in un’intervista al «Corriere della Sera» che celebrava la ricorrenza cinquanta anni dopo (M. Farina, L’altra Italia del «miracolo economico», «Corriere della Sera», 24 maggio 2009). 2 E. Biagi, I film italiani incassano di più dei «colossi» prodotti ad Hollywood, «La Stampa», 12 gennaio 1961. Un anno dopo Nicola Adelfi ribadiva il concetto, ricordando come ormai gli
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
televisive (nel 1958 il 12% delle famiglie possedeva un televisore, nel 1965 la percentuale saliva al 45%) come Lascia o raddoppia? e Campanile Sera facevano conoscere l’Italia agli italiani, mentre Carosello divulgava nuovi modelli di comportamento e Non è mai troppo tardi, condotto dal maestro Manzi, contribuiva all’alfabetizzazione del paese (nel 1960, grazie alla trasmissione ben 35.000 persone ottenevano il diploma di licenza elementare). Insomma, l’economia italiana cresceva a ritmi forsennati. Mentre i salari aumentavano del 46,9%, la produttività operaia saliva a un +63% e la produzione industriale cresceva dell’89% (ampliando così il margine di profitto per gli imprenditori), il PIL viaggiava tra il 5% e il 7% e la disoccupazione scendeva dal 10,3% al 3%. La struttura sociale ed economica cambiava radicalmente. Nel 1952 la percentuale di popolazione attiva addetta al settore Agricoltura era del 42,40%, nell’Industria del 31,69%, nei Servizi del 25,90%. Dieci anni dopo i dati si modificavano radicalmente: nel 1962 l’Agricoltura occupava il 27,44% della popolazione attiva, l’Industria saliva al 40,38% e i Servizi al 31,27%. Come una sorta di gigantesco “shakeraggio” le migrazioni interne mutavano il volto del Paese: nel 1958 erano 85.175 i meridionali che abbandonavano le loro terre, nel 1959 scendevano a 79.829 per poi risalire rapidamente a 135.018 l’anno successivo e toccare l’acme nel 1961 con 240.723. Complessivamente, alla fine dei Sessanta saranno 1.637.512 gli italiani emigrati dal sud al nord. Le nostre strade si intasavano di auto (dalle 342.000 del 1950 si passava ai 4.670.000 del 1964) e di moto (700.000 nel 1950, quattro milioni nel 1964). Il 7 dicembre 1956 veniva inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del sole (Milano-Parma). Nel 1964 l’autostrada sarà completata arrivando a Napoli Sempre più nelle famiglie italiane arrivavano gli elettrodomestici (nel 1958 il 3% delle famiglie possedeva una lavatrice, il 13% un frigorifero; nel 1965, il 23% una lavatrice, il 55% un frigorifero). Erano gli anni insomma in cui iniziava a concretizzarsi in Italia l’aspirazione a quei beni di consumo che aveva già fatto capolino, americani ammettessero «tranquillamente che è finita l’ora di Hollywood ed è incominciata quella di Roma» (N. Adelfi, Come il “povero” cinema italiano ha sconfitto i colossi di Hollywood, «La Stampa», 21 gennaio 1962). Il “sorpasso” del cinema italiano su quello americano continuava anche nella prima metà del 1963, con il secondo che nel corso di tre stagioni era passato dal 47,09% degli incassi al 41,31%, mentre i film italiani dal 42,53% erano saliti al 47,83% (cfr. Al. Cer., Visconti batte Fellini, «Corriere d’informazione», 25 giugno 1963).
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
anche se sotto forma solo di sogni, nella seconda metà degli anni Trenta («Se potessi avere mille lire al mese» recitava la canzone portata al successo dal film Mille lire al mese) e della cui influenza nefasta per il regime Mussolini si era reso conto. Nel discorso tenuto il 25 ottobre 1938 al Consiglio Nazionale del Pnf il duce aveva parlato di un nemico che minacciava «il nostro regime»: «Questo nemico ha nome “borghesia”». Non «una categoria economica», aggiungeva, bensì «una categoria morale», «uno stato d’animo», «un temperamento», «una mentalità nettissimamente refrattaria alla mentalità fascista»3. E non a caso il discorso veniva subito dopo l’incontro di Monaco quando, nel viaggio di ritorno, Mussolini, sgomento, si era visto acclamare come il salvatore della pace. Tornando ai Sessanta erano gli anni in cui iniziava a verificarsi la «cetomedizzazione» (De Rita) dell’Italia e iniziava quell’omologazione di cui avrebbe parlato successivamente Pasolini, anche se un altro autore, troppo spesso dimenticato, anticipava di un buon decennio lo scrittore friulano. Sull’«Avanti!» dell’8 gennaio 1960 Luciano Bianciardi scriveva: La festa della cristianità si va inoltre scattolicizzando. L’onda dell’americanismo batte anche su questa spiaggia, e non sembra che il Vaticano voglia far qualcosa per arginarla. Quasi mai si è sentito, alla radio e alla televisione, cantare la vecchia e celebre pastorale di Alfonso dei Liguori. Quasi sempre invece, si è sentito Heilige Nacht (naturalmente in lingua inglese), che è canzone natalizia a diffusione protestante. E addirittura si son riascoltate le note di un motivo (nenia irlandese in origine, e per nulla natalizia) che ci è rimbalzato dall’America, ed è piombato fra di noi quale sigla musicale di una marca di benzina. La gente lo ascolta e non sa se farsi il segno della croce o correre al distributore4.
Un ceto medio che è quello della piccola borghesia commerciante, propensa – probabilmente proprio per il suo mestiere – a vedere tutto nel territorio circoscritto della “bottega”, e quindi con un’ottica individualista e attenta al tornaconto personale. Ma è anche quello, ormai preponderante, delle professioni “intellettuali” (avvocati, architetti, ingegneri, ecc.), frutto di una scuola e, successivamente, di un’università di massa, maggiormente attento alla “cultura”, intesa in senso vasto: 3 B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di D. ed E. Susmel, 36 voll., Firenze, La Fenice, 1951-1963, vol. XXIX, p. 189. 4 L. Bianciardi, Chiese escatollo e nessuno raddoppiò. Diario in pubblico 1952-1971, Milano, Baldini&Castoldi, 1995, p. 51.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
un ceto medio che viaggia, si esalta nel visitare la Mostra Italia 61 a Torino di cui diremo tra poco, che va a cinema e a teatro e sempre più prova fastidio per una censura ottusa che arriva a vietare qualunque rappresentazione possa sembrare “scabrosa”. Solo nel novembre 1960 i fulmini della censura si abbatterono su Il Gobbo di Lizzani, La giornata balorda di Bolognini, I dolci inganni di Lattuada, sequestrato, peraltro, a più di un mese di distanza dall’entrata in circolazione, quando ormai era in proiezione nelle sale di terza visione, mentre per quanto riguardava il teatro veniva colpito Visconti per l’allestimento de L’Arialda di Testori e non cessavano gli attacchi, anche da parte del ministro dello spettacolo, il democristiano Alberto Folchi, a Rocco e i suoi fratelli, arrivato peraltro sugli schermi con molte sequenze oscurate. E sono anche i figli di questo ceto medio ad animare la «nuova Resistenza» dell’estate del 1960 contro il governo Tambroni. Si veda l’inchiesta di Romano Ledda su «Rinascita» che segnala tra l’altro come il movimento sia sfuggito all’attenzione delle organizzazioni tradizionali della sinistra: sono giovani che non frequentano le sezioni PCI, che spesso si disinteressano dei grandi temi della politica, ma che non tollerano il ritorno a modelli del passato rappresentati dai partiti di destra, in primo luogo il MSI5. Insomma, un primo delinearsi di quella frattura generazionale che troverà spazio e compiutezza negli anni successivi e che è frutto, oltre che di una scolarizzazione più accentuata, anche di una diffusione della cultura, sorretta – si è detto – dal cinema e dalla televisione, ma anche dalla musica: la “pandemia” del rock ’n’ roll legittimava atteggiamenti un tempo censurati, marcando una netta differenza con il mondo degli adulti («for ever young and beautiful», cantava Elvis Presley) e le case discografiche individuavano nei giovani un target preciso passando dai nove milioni e mezzo di dischi venduti nel 1956 ai quasi 17 milioni del 1968, mentre il 45 giri soppiantava il vecchio 78. Negli stabilimenti balneari – ma non solo – arrivava il juke-box, la «scatola per ballare» (dai 500 del 1956 si passava ai 4000 del 1960). Il corpo seminudo dei giovani, sempre più snello e longilineo (La voglia matta, film del 1961, regia di Luciano Salce, con Ugo Tognazzi e Catherine Spaak), si incontrava, si sfiorava e si allontanava con nonchalance nei nuovi balli che si alternavano al classico “lento”. Certo, l’Italia di quegli anni non fu solo luci, ma anche ombre (e di non poco conto). Il «miracolo» fu a due, o più, velocità. Al dua5
R. Ledda, I ragazzi di Porta S. Paolo, in La nuova resistenza, supplemento a «Rinascita», nn. 7-8, luglio-agosto 1960, p. 662.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
lismo industria-agricoltura si aggiunse quello della stessa industria, con lo sviluppo soprattutto di quei settori (metallurgico, meccanico, chimico) legati alle esportazioni e concentrati per la quasi totalità nel triangolo Milano-Torino-Genova. La crescita impetuosa comportava scompensi notevoli, dalla «distorsione dei consumi» (sviluppo frenetico di quelli privati a scapito di quelli pubblici) all’ampliamento del divario Nord-Sud. Alla lacerazione del tessuto urbano delle metropoli del triangolo industriale si accompagnò lo sviluppo esponenziale delle città (nel 1955 il 21,6% della popolazione italiana viveva in città con più di centomila abitanti; questa percentuale saliva nel 1968 al 28%) con la conseguente crescita disordinata dei centri urbani (le «coree» e la distruzione dei centri storici) e il parallelo spopolamento delle campagne del meridione, soprattutto di quello interno. Un disagio cui dettero voce (e immagine) soprattutto gli intellettuali e il cinema d’autore che vedevano i guasti e le ombre della modernizzazione del boom. Molto meno critici erano gli italiani medi, i piccoli borghesi e anche le plebi meridionali che emigravano in cerca di qualche beneficio materiale che il boom prospettava come cambiamento possibile, come benessere economico (magari con una montagna di cambiali, come mostrava Dino Risi nell’episodio de I mostri, Vernissage, dove Tognazzi, dopo aver comunicato alla moglie di aver acquistato la «Seicento grigio alba», esclamava: «Ho firmato cambiali per venticinque minuti. Ho ancora il braccio che mi fa male!»). Insomma – ma il discorso è complesso e non è possibile affrontarlo in questa sede – in quegli anni si assisté a una sorta di divaricazione tra gli intellettuali e gli italiani che del miracolo furono beneficiari. Come ha scritto Aurelio Lepre, i primi guardarono alle realizzazioni del miracolo «dall’esterno», come nel caso delle nuove abitazioni, giudicandole elementi che alteravano il paesaggio, senza capire che chi le abitava le vedeva invece, dopo anni passati in baracche, «dall’interno: uno spazio finalmente abitabile a misura umana»6. Certo, il boom comportò in molti casi il “sacco” delle città: un “sacco”, frutto però soprattutto dell’incapacità della classe politica dirigente di guidare e governare il cambiamento (si pensi all’abortita riforma urbanistica di Fiorentino Sullo)7.
6
A. Lepre, Storia degli italiani nel Novecento, Milano, Mondadori, 2003, p. 273. G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Roma-Bari, Laterza, 1977. 7
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VIVA L’ITALIA. IL RISORGIMENTO TRA MIRACOLO ECONOMICO E CELEBRAZIONI PER IL CENTENARIO DELL’UNITÀ Nel 1961, inoltre, in pieno miracolo, l’Italia compiva cento anni, un “compleanno” che veniva celebrato con grande rilievo, persino oltre-Oceano. Alla cerimonia commemorativa del centenario tenutasi a Washington, il presidente Kennedy, in un appassionato discorso, ricordava che per tutti gli americani, e non solo per quelli di origine italiana, era importante ricordare la nascita dell’Italia unita: «Il Risorgimento che ha fatto nascere l’Italia moderna – come la Rivoluzione americana che ha dato vita al nostro paese – è stato una rinascita degli ideali più gelosamente custoditi della civiltà occidentale, il desiderio di libertà, di protezione dei diritti dell’individuo». E di fronte alle forze che «minacciano i principi sui quali sono stati fondati Italia e Stati Uniti», concludeva, «dobbiamo dimostrare ai nostri popoli ed al mondo occidentale – come noi abbiamo già detto in altra ed importante sede – che quegli uomini che agiscono nella tradizione di Mazzini, Garibaldi, Cavour, Lincoln e Washington, possono dare agli altri uomini una vita più ricca e più valida. Questo è il compito del nuovo risorgimento. Un risveglio dell’antica aspirazione dell’uomo per la libertà e per il progresso, finché la torcia accesa nell’antica Torino, un secolo fa, guiderà la lotta dell’uomo ovunque, in Italia, negli Stati Uniti e nel mondo che ci circonda»1. Il centenario diventava così l’occasione per tracciare un bilancio del paese, ripercorrendone la storia unitaria. Il presidente della repubblica Giovanni Gronchi, in un discorso tenuto davanti ai due rami del Parlamento, si soffermava con grande enfasi sulla necessità di portare a completo compimento il processo iniziato cento anni prima, 1
A. Barolini, Kennedy parla della «fiaccola della libertà accesa da un secolo nell’antica Torino», «La Stampa», 17 marzo 1961.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
realizzando quegli obiettivi «di ordine morale e sociale» ancora «lontani dal loro raggiungimento»: «l’irrobustimento dell’assetto produttivo ed umano dell’agricoltura, l’assorbimento della disoccupazione e della sotto-occupazione croniche, l’espansione dell’istruzione in generale e di quella professionale in specie, ad una dimensione veramente sociale, l’eliminazione dei divari economici fra nord e sud, l’ulteriore elevamento nel genere e nel tenore di vita delle classi lavoratrici e del ceti medi, la distribuzione più giusta del reddito ai vari livelli della piramide sociale; distribuzione necessaria alla difesa dei valori umani nel cittadino». Se nel secolo precedente l’obiettivo (raggiunto) era stato quello di realizzare l’«unione politica», ora – ricordava – diventava urgente la soluzione del «problema sociale che poi strettamente condiziona l’effettivo compimento della unione politica. Ormai esso ha il primo posto anche nel campo internazionale: è la nuova frontiera della civiltà». Non ci si poteva limitare, dunque, «ad una mera rievocazione di ricordi del passato»: Operando nel presente, noi siamo ansiosi di valutare la linea di sviluppo delle nostre azioni anche come cointeressati e quasi come contemporanei del futuro. Soprattutto noi siamo impegnati a stimolare la fedeltà al dovere di conciliare sana conservazione e ardito progresso, perché sia sempre garantita ai nostri figli la tutela delle legittime prerogative della democrazia politica insieme con la giusta soddisfazione delle insopprimibili aspirazioni di una operosa democrazia economica2.
Come è facilmente intuibile, l’intervento di Gronchi suscitò reazioni contrastanti. Interessanti soprattutto quelle di una sinistra che andava assumendo posizioni diverse nei confronti del governo. Se il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, apprezzava il discorso, ma lamentava che l’operato dei governi DC era andato in tutt’altra direzione (nessun accenno – concludeva – era stato fatto alla «Resistenza antifascista e ai suoi valori. Non è possibile l’unità della Nazione se non su quella base»), il segretario socialista Pietro Nenni adombrava nella sua dichiarazione un possibile terreno di incontro con la Democrazia Cristiana: «È un invito alla nazione a pensare all’opera che ancora è da compiere sul piano in primo luogo sociale per dare un contributo alla democrazia»3. L’intervento del presidente della Repubblica, d’altra parte, arrivava a nemmeno un anno dal trauma dell’estate 1960, con gli scontri in piazza 2 Il discorso del presidente veniva riportato per intero su «Stampa Sera» del 25 marzo 1961: Gronchi davanti alle camere riunite legge il suo messaggio agli italiani. 3 Cfr. Dichiarazioni di Togliatti e altri leader, «l’Unità», 26 marzo 1961.
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per la politica del governo Tambroni. Urgeva, dunque, un ripensamento critico del passato: un compito cui il cinema italiano (che peraltro stava vivendo un notevole momento di crescita4) non si sottraeva, sia per quel periodo più lontano in cui erano state poste le basi dell’unità del paese, sia per quanto atteneva anni più recenti. Intervistato da Enzo Biagi agli inizi del 1961 il produttore Goffredo Lombardo accennava ad alcuni film in fase di progettazione ambientati tra gli ultimi anni del fascismo e la resistenza e concludeva: «avremo modo di ritrovare, attraverso i fotogrammi, qualcosa del nostro passato e di giudicarci»5. Emblema delle celebrazioni del centenario fu la Mostra Italia 61 che si tenne a Torino, la città che era stata la culla del processo risorgimentale e dove il “miracolo”, più evidente che altrove, permetteva la ripresa di quella «missione unitaria» – sottolineava Guido Piovene su «La Stampa» – che da sempre caratterizzava il suo «destino»: È giusto che questo avvenga a Torino, non soltanto perché il Piemonte promosse l’unità d’Italia, ma anche perché divenendo la regione che oggi accoglie il maggior numero di immigrati, ha ripreso dopo un periodo di relativa stasi la propria missione unitaria: ogni regione ha il suo destino. E ha ripreso la propria funzione pedagogica, coi Gobetti, coi Gramsci, con altri che sono viventi, con il concorso dato alla Resistenza nel momento in cui l’unità si è rimessa in cammino6. 4 Tra il 1956 e il 1959 la produzione cinematografica aumentò notevolmente. Dai 132 film girati nel 1956 (67 nei primi sei mesi) si era passati ai 142 (80 del primo semestre) del 1957, ai 149 del 1958 (84 nei primi sei mesi) per arrivare, nel primo semestre del 1959, alla consistente cifra di 104 pellicole, nonostante la diminuzione degli incassi delle sale cinematografiche. Una contraddizione che si poteva spiegare – sottolineava Angelo Nizza su «La Stampa» - solo alla luce dell’«aumentato interesse» per le pellicole italiane (a.n., Si stanno effettuando le riprese di trentacinque nuovi film italiani, «la Stampa», 13 agosto 1959). 5 Lombardo faceva riferimento a Nanni Loy che insieme a Festa Campanile e a Franciosa stava scrivendo Le quattro giornate di Napoli, ad Antonio Pietrangeli alle prese con Una storia italiana, la biografia di un antifascista, un deputato liberale, che prima si oppone al regime, poi affascinato da una donna diventa una spia dell’Ovra e alla fine della guerra, leggendo sui giornali che dalle liste degli informatori della polizia politica fascista sarebbero stati cancellati soltanto i morti, si uccide, e a Valerio Zurlini che «sta studiando Dio con noi» un film sulle fosse Ardeatine (Biagi, I film italiani incassano di più dei «colossi» prodotti ad Hollywood, cit.). 6 G. Piovene, Gli aspetti del Paese più vario d’Europa, «La Stampa», 26 marzo 1961. L’articolo di Piovene era inserito all’interno di un paginone dedicato all’allestimento della Mostra Italia 61. Tra gli altri articoli, un’intervista di Paolo Monelli a Pier Luigi Nervi, l’architetto autore dell’edificio che avrebbe ospitato l’esposizione internazionale del lavoro (P. Monelli, I calcoli esatti e temerari di un architetto-poeta tradotti in un’enorme costruzione di aerea leggerezza), la presentazione della Mostra Storica del Risorgimento (G. Giovannini, Dalla coscienza nazionale del 700 alle glorie della lotta di Resistenza), la descrizione dei lavori che stavano trasformando l’aspetto del «Parco del Valentino» (G. Nebiolo, Una città che si trasforma in grande affascinante giardino).
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Tre le linee guida alla base delle celebrazioni. Anzitutto, la repubblica era l’erede diretta del Regno d’Italia che si era formato nel crogiuolo del processo risorgimentale; in secondo luogo il Risorgimento – e questo era evidente nell’ordinamento della Mostra storica di Palazzo Carignano a Torino – era stato una grande rivoluzione liberale, inserita in un più complesso percorso europeo, e, nel contempo, un grande fatto popolare (la rivalutazione dell’aspetto popolare era necessaria e funzionale a far sì che la Resistenza diventasse parte integrante dei cent’anni della storia italiana); infine – non dimentichiamo che siamo in pieno boom – il benessere era il frutto di quelle basi poste un secolo prima realizzando l’unità7. In questo clima era evidente che il “posto d’onore” sarebbe toccato all’impresa dei «Mille». E così, se la stagione teatrale 1961 fu caratterizzata dalla commedia musicale di Garinei e Giovannini, Rinaldo in campo, incentrata sulle vicende di un brigante che per amore di una nobile siciliana, Angelica, sostenitrice di Garibaldi, si unirà alle truppe di Garibaldi (allo spettacolo, anche per la presenza di interpreti come Domenico Modugno, Delia Scala, Paolo Panelli, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, arrise un successo strepitoso), l’anno cinematografico (ma di un film sulla spedizione guidata da Garibaldi se ne parlava dalla primavera del 19598) si apriva il 27 gennaio con Viva l’Italia di Roberto Rossellini (il soggetto era di Sergio Amidei, Antonio Petrucci, Luigi Chiarini, Carlo Alianello; la sceneggiatura di Sergio Amidei, Diego Fabbri, Antonello Trombadori, Petrucci, Rossellini). In un primo momento Amidei aveva proposto di intitolare il film Paisà 1860, dal momento che, come in Paisà ci si trovava «di fronte a un esercito di liberatori che conquistano paesi e popolazioni di cui ignora i problemi reali» e come nel film del 1946 «si verifica un incontro tra persone che stentano a capirsi, riversando i liberati un carico di speranze troppo pesante sulle spalle dei liberatori e avendo questi ultimi
7 M. Merolla, Italia 1961. I media celebrano il Centenario della nazione, Milano, Franco Angeli, 2004. 8 Nel maggio 1959 il «Corriere della Sera» riportava un comunicato dell’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed affini) sull’accordo fra i produttori Franco Cristaldi e Gianni Hecht-Lucari per la realizzazione di un film ad episodi dal titolo provvisorio I Mille. Registi sarebbero stati Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Federico Fellini e Luchino Visconti (In preparazione un film sull’epopea garibaldina, «Corriere della Sera», 30 maggio 1959).
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idee di libertà troppo vaghe, astratte, utopistiche, per esercitare un potere d’attrazione sulle masse affamate del Mezzogiorno»9. Viva l’Italia è il racconto della spedizione dei Mille in chiave antiretorica e anti-eroica: «In un paese come il nostro dove si mente sempre e dove la storia patria è spesso una palestra per le più grossolane menzogne noi abbiamo cercato di ricostruire l’impresa di Garibaldi sulla scorta delle cronache e delle testimonianze senza alcuna deformazione, senza alcuna tendenziosità […] Pur di non tradire la storia abbiamo rinunciato a certe esigenze drammatiche»10. Così rispondeva Rossellini a Maurizio Liverani che l’intervistava per «Paese Sera» ribadendo un concetto già espresso all’inizio della lavorazione. Il film sarebbe stato «fedele, in ogni particolare, alla vicenda storica», mettendo in luce la «straordinaria umanità di Garibaldi, un personaggio straordinariamente dolce ed insieme un abilissimo condottiero»11. A film arrivato nelle sale il regista romano ribadiva che Viva l’Italia narrava «in forma piana, didattica, adatta al popolo e specialmente ai giovani ignari, le vicende della spedizione, inquadrandola entro margini rigidamente storici, senza abbandonarsi ai facili scostamenti dalla verità per amore dell’episodio o dell’effetto»12. Era «una cronaca cinematografica del 1860», dove nulla era stato «inventato»: Ci siamo tenuti fedeli alla realtà degli avvenimenti e delle cronache. Ho detto che il film è stato attinto alle fonti più autentiche, cioè quelle che non hanno risentito delle glorificazioni posteriori. Ho cercato di mettermi di fronte agli avvenimenti di un secolo fa nella posizione di un documentarista che aveva avuto la fortuna di seguire con le sue macchine da presa l’impresa garibaldina e che, successivamente, avesse “montato” insieme gli episodi salienti della campagna per realizzare un film a lungo metraggio. Ho girato gli episodi con lo stesso scrupolo da documentarista, ma ho dovuto riprenderli, purtroppo, un secolo dopo13.
Affermazioni che confermano come il cinema di Rossellini andasse evolvendo verso quel cinema didascalico che troverà applicazione nel 9
Citato in S. Masi-E. Lancia, I film di Roberto Rossellini, Roma, Gremese, 1987, p. 87. M. Liverani, Rossellini ci parla di “Viva l’Italia”, «Paese Sera», 28 gennaio 1961. A. Ceretto, Renzo Ricci con barba e poncho per un film sull’impresa dei Mille, «Corriere della Sera», 29 giugno 1960. 12 a.v., “Viva l’Italia” è un omaggio del cinema alle celebrazioni centenarie, «Stampa Sera», 2 febbraio 1961. 13 Così Rossellini in un polemico articolo su «Il Tempo» del 29 ottobre 1960, successivamente in R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Venezia, Marsilio, 1987, p. 232. 10
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progetto di enciclopedia storica14, di cui Viva l’Italia costituiva un po’ la prova generale (un esempio: l’ampio uso di cartine e animazioni per illustrare il percorso seguito dalle truppe garibaldine). All’epoca il film ebbe un discreto risultato al botteghino15, mentre la critica era divisa. Pestelli su «La Stampa» vedeva in Viva l’Italia «un film popolare nel senso buono del termine: sobrio esatto chiaro, commosso senza declamazione, e possiamo ben dire anche informativo, posto che tutti s’empion la bocca del Risorgimento ma pochi sono quelli che lo conoscono bene»16. Sul «Corriere d’informazione» Sala sottolineava la “novità” del personaggio Garibaldi, raffigurato «senza le forzature del panegirico e le ingenuità della rettorica. Vi grandeggia proprio per la sua domesticità: i suoi reumatismi, le sue maglie di lana, i suoi pasti frugali, pane, sale e olive nere»17, mentre sul «Corriere della Sera» Lanocita maliziosamente notava che, «nonostante lo squillare di “Fratelli d’Italia” nella colonna sonora, una vera commozione non si raggiunge se non nel riuscito brano in cui si narra la partenza da Napoli di Francesco secondo. La sconfitta affascina più della vittoria»18. Né mancò chi manifestasse più di un dubbio sulla sua validità dal punto di vista estetico e storico. I contrasti, comunque, solo in parte rispecchiavano le tradizionali divisioni ideologiche e gli schieramenti politici. Ad esempio, su «Il Popolo», il quotidiano della Democrazia Cristiana, Paolo Valmarana annotava che a parlare di un episodio così noto si correva un triplice pericolo: annoiare, «cadere nella convenzione» o, viceversa, arrivare a deformare la storia pur di dire qualcosa di originale. Rossellini 14 Cfr. A. Aprà, Rossellini: bilanci, prove tecniche, progetti, in G. De Vincenti, a cura di, Storia del cinema italiano, vol. X, 1960/1964, Venezia, Marsilio, 2001, p. 58. 15 Secondo il catalogo Bolaffi, a tutto il 31 marzo 1964 il film aveva incassato la somma di 363.799.919 lire. Giusto per un raffronto con film dello stesso anno: Accattone di Pasolini, £ 385.491.414; I briganti italiani di Camerini, £ 234.509.173; I due marescialli con Totò e De Sica, £ 502.706.130; Il giudizio universale di De Sica, £ 527.999.182; La notte di Antonioni, £ 465.591.461; Tiro al piccione di Montaldo, £ 329.546.481; Totòtruffa 62, £ 548.824.272; Vanina Vanini di Rossellini, £ 109.482.380; La viaccia di Bolognini, £ 499.995.589. Si tenga comunque presente che i dati vanno presi con molta cautela, dal momento che per alcuni film il catalogo riporta l’incasso, anziché al 31 marzo 1964 come per le pellicole sopra riportate, al 30 giugno 1965: ad esempio, Divorzio all’italiana di Germi, £ 1.240.058.105; Il federale di Salce, £ 826.854.316; Io amo… tu ami di Blasetti, £ 653.336.284; Una vita difficile di Risi, £ 942.099.827. Su tutti, sempre al 30 giugno 1965, Barabba di Richard Fleischer con Anthony Quinn, Silvana Mangano, Valentina Cortese, Vittorio Gassman con 1.628.132.532 lire (cfr. Catalogo Bolaffi del cinema italiano, diretto da G. Rondolino, a cura di O. Levi, Torino, Bolaffi, 1967). 16 L. Pestelli, “Viva l’Italia” di Rosseliini presentato a Torino in una serata di gran gala al Teatro, «La Stampa», 3 febbraio 1961. 17 A. Sala, Viva l’Italia, «Corriere d’informazione», 11 febbraio 1961. 18 lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 11 febbraio 1961.
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era sfuggito al «triplice pericolo, affidandosi per il disegno generale al fatto storico accertato e accreditato, ma preoccupandosi poi di inserire in questo una più viva e sincera umanità dei suoi personaggi». Il miglior risultato il regista l’aveva conseguito con il personaggio di Garibaldi, di cui il film offre un ritratto preciso e affettuoso, non tanto, o almeno non solo, nella civetteria con cui sono ricordati certi marginali, sorridenti episodi, gli occhialini d’oro di cui si servì per leggere il proclama di Quarto, i reumatismi a causa dei quali si affidava ai bagni turchi, lo spicchio d’arancio offerto ai plenipotenziari palermitani […] quanto piuttosto per quello che attiene alla sostanza dell’uomo: il suo modo di guardare all’impresa e alla singola battaglia, le sue umanissime esitazioni, i suoi rapporti con garibaldini e patrioti, il suo preoccuparsi di tutto e di tutto conservava una visione saggia e serena, il suo non lasciarsi trascinare dagli entusiasmi improvvisi, il suo resistere agli scoramenti […] Ed è appunto in questo perenne riscontro tra l’umanità di Garibaldi e l’epicità dell’impresa che il film acquista un suo solenne, scandito equilibrio, un respiro ampio, e acquista valore e fascino evocativo e spettacolare. L’affresco che ne risulta, così, fa onore non solo alla grandezza dell’impresa ricordata, ma anche al miglior cinema italiano19.
Invece, su «Il Tempo», quotidiano conservatore, Gian Luigi Rondi non esitava a ricordare le sfasature di Viva l’Italia, sottolineando come «la sola novità del film» consistesse nell’aver messo «in luce i lati più domestici ed umani, la miopia, la necessità di leggere i proclami e non di improvvisarli, i reumatismi, le pantofole, il caffè a letto, ed altro ancora» della figura di Garibaldi. Senza però riuscire «a dar vita a un vero personaggio: a tanto, invece, non si arriva e non si può dire che ci si arrivi neanche con le altre figure di contorno, Nino Bixio, Vittorio Emanuele II, Mazzini e i caratteri minori, tutti abbastanza approssimativi e sfocati, tutti affidati ad uno schema narrativo che non li giustifica e che solo di rado riescono a giustificare nella sua scricchiolante imprecisione»20. Severo anche «Il Paese», quotidiano molto vicino al Partito Comunista, dove Tommaso Chiaretti sosteneva che era difficile dire cosa fosse Viva l’Italia, «poiché francamente è poco più che nulla, un film di scadente livello formale (a parte la bella fotografia di Luciano Trasatti), tecnico, ideologico, narrativo e spettacolare, un film che non sai da che parte prendere»21. Viceversa, su 19
P. V., «Viva l’Italia» di Rossellini ieri in anteprima a Roma, «Il Popolo», 28 gennaio 1961. G. L. R., Viva l’Italia, «Il Tempo», 28 gennaio 1961. 21 T. Chiaretti, “Viva l’Italia” di Rossellini ieri sera al Teatro dell’Opera, «Il Paese», 28 gennaio 1961. 20
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«Paese Sera», quotidiano “gemello” (entrambi erano diretti da Mario Melloni, entrambi erano editi dal PCI) Maurizio Liverani scriveva una recensione di tutt’altro tenore, sottolineando come Viva l’Italia avesse aperto «nuove strade al film storico», riuscendo nell’intento, da una parte, di «mettere a nudo le radici del “fenomeno” Garibaldi e scoprire le ragioni della sua complessità» e, dall’altra, «di renderci partecipi di un dramma umano che riuscisse efficace sul piano dello spettacolo»: La migliore commozione è stata ottenuta con una specie di pacata immediatezza, facendo apparire un ritratto animato del generale: nulla è stato aggiunto, nulla degenera nel colore, nell’enfasi, nella falsa grandiosità. È quel modo che si può dire realistico (ohibò) di concepire il film storico, un modo che fu tentato, ma non così decisamente, in 1860 di Blasetti. Non gli episodi spiccioli, quasi le debolezze della vita privata dei grandi, contrapposti abilmente alla solennità e alla magnificenza della loro vita pubblica, ma piuttosto un ricercare quali furono i loro aspetti, le loro parole, i moti e i soprassalti della loro verità nelle più drammatiche crisi. Perciò la storia passa davanti ai nostri occhi, direi quasi illustrata da un pittore che ha il commosso sentimento del suo oggetto che ritrae dal vero […] Tutto il film è presieduto dalla lodevolissima intenzione di voler reagire all’oleografico di troppo cinema in costume22.
A completare il quadro delle critiche dei contemporanei va citata, infine, anche quella dell’organo di stampa del Partito Comunista, «l’Unità». Enzo Muzii, autore della recensione, ammetteva che la tesi interpretativa del film era «di chiara ispirazione democratica: da un lato ci sono Garibaldi, i Mille, i “picciotti”, le popolazioni di Palermo, di Napoli, i patrioti siciliani, calabresi, napoletani, cioè il popolo del nostro Risorgimento; e dall’altra Cavour, i militari piemontesi, la classe politica del Piemonte che operava perché il Risorgimento avvenga dall’alto con impronta regia»23. Nella sequenza del Garibaldi, che, dopo l’incontro con il re, sconsolato mangia il pane e il formaggio offertigli da un contadino, la pellicola intendeva «simboleggiare il Risorgimento tradito, il problema di un’unità dal basso, che è ancora il problema di una democrazia in Italia». Una tesi, questa, che avrebbe avuto bisogno, però, «di ben altra profondità drammatica, che non sia quella da opera dei pupi cui si affida Roberto Rossellini». Il regista, insomma, aveva ripetuto «l’errore di fondo» già commesso nei suoi due film precedenti, Il generale Della Rovere ed Era notte a Roma: «È un errore di paternalismo. 22 M. Liverani, Un Garibaldi senza retorica nel nuovo film di Rossellini, «Paese Sera», 29 gennaio 1961. 23 Enzo Muzii, L’impresa dei «Mille» nel film di Rossellini, «l’Unità», 28 gennaio 1961.
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I suoi racconti procedono per una sorta di forza d’inerzia (sintetizzata visivamente dall’uso straripante del pancinor, o carrello ottico), quasi che demiurgo della storia non fosse la volontà e la coscienza degli uomini, ma la buona grazia di Rossellini che si degna di evocare dalle tenebre uomini e fatti confondendoli in un miscuglio cronachistico, dove le individualità sono appiattite e dove le affermazioni morali hanno un risalto puramente verbale»24. Con Viva l’Italia si chiudeva, dunque, «la parabola aperta da Paisà (più ancora che da Roma città aperta)». Pur rimanendo apparentemente fedele alla propria tematica, Rossellini se ne era completamente distaccato: «la cronaca che allora, nella sua scheletrica nudità, fu l’invito a una presa di coscienza storica, adesso, paludata di tutti orpelli esteriori della storia, è un invito all’evasione e all’oleografia […] In tema risorgimentale, era molto più vicino a Paisà il 1860 di Blasetti, che non questo magniloquente Viva l’Italia»25. Furono proprio le critiche provenienti da sinistra a suscitare l’amarezza e l’irritazione di Rossellini, al quale sembrava inconcepibile che la parte politica, che più avrebbe dovuto essere attenta all’obiettivo di un cinema educativo, mostrasse così tante riserve sulla pellicola. In una risentita lettera indirizzata a Mario Melloni, direttore del «Paese» e di «Paese Sera», il regista faceva notare la sostanziale difformità delle recensioni comparse sui due quotidiani: quella di Chiaretti, molto negativa («La veemenza e l’insolenza del critico del “Paese” mi pare annullino il valore della sua critica e perciò il suo articolo mi colpisce profondamente sul piano umano»), l’altra, di Maurizio Liverani comparsa su «Paese Sera», come abbiamo visto, di tono completamente diverso: «Un film può piacere o dispiacere, – scriveva il regista romano – ma mi sembra assurdo che due giudizi siano così opposti come quelli pronunciati dai due giornali che tu dirigi». Mario Melloni si limitava a rispondere sostenendo che recensioni così diverse dimostravano soltanto «che in questi due giornali scrivono uomini liberi. A cui nessuno, a cominciare dal direttore, limita mai, in nessun caso, la facoltà di giudicare secondo il proprio gusto e la propria coscienza»26. Successivamente, in una lettera del 1° marzo 1961, il regista si rivolgeva direttamente al segretario del PCI, Palmiro Togliatti, accusando la cultura di sinistra, preda di «uno sconfortante conformismo», di essere incapace di scorgere l’«insidia intimista che si nasconde nella 24
Ibid. Ibid. 26 Una lettera di Rossellini, «Il Paese», 1° febbraio 1961, successivamente in Rossellini, Il mio metodo, cit., pp. 234-235. 25
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pseudocultura moderna»: «Perché non ha denunciato che si interiorizzano tutti i problemi dell’uomo moderno invece di esteriorizzarli in rapporto al mondo e alla società? Non nasconde questo atteggiamento un amore per l’organizzazione degli uomini così com’è, invece che il vero amore per gli uomini?»27. Era evidente che l’oggetto degli strali di Rossellini era il cinema di Antonioni, che in quel periodo aveva girato la trilogia: L’avventura, La notte, L’eclisse. Tre giorni dopo, il 24 marzo, Togliatti rispondeva dando sostanzialmente ragione al regista romano: «L’essenziale mi pare sia il quadro che ella offre, e che per gran parte corrisponde al vero, della decadenza delle attività culturali a un livello odiosamente mercantile e basso, da un lato; e della tendenza, dall’altro, a un’astratta evasione individualistica, priva di qualsiasi prospettiva»28. Viva l’Italia è certamente un film discontinuo, che alterna sequenze notevoli (ad esempio, quando, nell’imminenza della battaglia di Calatafimi, la macchina da presa quasi sorprende i garibaldini che mangiano sdraiati sull’erba, mentre, tutto intorno, è un intrecciarsi continuo di dialetti diversi) ad altre molto meno riuscite, dove prevale la retorica e le immagini della spedizione e di Garibaldi non si discostano da quelle prevalenti della tradizione. Si pensi, ad esempio, al Garibaldi raffigurato in perfetta sintonia con il personaggio che viene santificato già in vita: buono, coraggioso, pietoso. Al prete che gli dice che in chiesa ci sono dei feriti dell’esercito borbonico, «feriti gravi che affidiamo alla vostra pietà», il Generale risponde: «Ma che pietà, di che pietà mi state parlando? Non sono anche loro degli uomini come noi? Sono degli italiani, dei fratelli italiani!». Subito dopo, rifiuta di farsi baciare le mani dagli abitanti: «A cosa vi ha ridotto la tirannia! Baciamoci così, sulle gote!». Nel finale, a chi gli chiede di bombardare Capua, dove si annidano le truppe borboniche, risponde sdegnato: «Bombardare una città con la popolazione civile? Meglio perdere una battaglia!». In piccola parte, questi aspetti negativi erano il riflesso proprio dello «scrupolo da documentarista» di Rossellini, che rivendicava l’assoluta fedeltà dei dialoghi, costruiti con frasi e parole rintracciate nella cronaca 27 Nella lettera Rossellini anticipava alcuni temi che avrebbero costituito parte integrante del suo intervento alla tavola rotonda «Un nuovo corso per il cinema italiano» organizzata da «Cinema nuovo» nel luglio 1961 a Milano: cfr. R. Rossellini, Un nuovo corso per il cinema italiano, «Cinema nuovo», n. 152, luglio-agosto 1961, pp. 304-313. 28 Le lettere di Rossellini e di Togliatti sono conservate nel fondo Palmiro Togliatti, Serie 5, Corrispondenza politica, UA 18, cc. 22-32 presso l’archivio della Fondazione Gramsci. Sono state pubblicate, con alcuni tagli, in N. Ajello, E Rossellini scrive a Togliatti, «la Repubblica», 14 gennaio 2006. Sono altresì consultabili nel sito del senato, www. archivionline.senato.it.
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di Giuseppe Bandi, I mille da Genova a Capua (Bandi compare anche nel film e ha il volto di Franco Interlenghi), o in discorsi e lettere dei protagonisti: «Un dialogo siffatto può riuscire un po’ noioso – aggiungeva il regista romano – per la forma antiquata e per l’uso di parole che sono uscite dal nostro linguaggio. Ne consegue che l’aspetto realistico del dialogo non è più tale se riportato ai nostri tempi, ma resta realistico perché è storicamente esatto»29. Il problema però era proprio questo. Scriveva Gian Luigi Rondi, nella già citata recensione su «Il Tempo», che per evitare la retorica Rossellini aveva «lasciato che i suoi personaggi pronunciassero a freddo le grandi frasi storiche, servendosi tutti dell’italiano letterario in uso cento anni fa, e così ha finito per ottener quasi un risultato opposto, perché la retorica l’ha avuta vinta egualmente, imponendosi, anziché sul piano caldo e pur sempre suggestivo della commozione, soltanto attraverso quello grigio e uniforme dell’iterazione»30. Non dissimile l’analisi di Muzii, a riprova di quanto le posizioni ideologiche, nel caso di Viva l’Italia, incidessero non più di tanto: L’ambizione di Rossellini, evidentemente, è stata quella di fare della cronaca, lasciando la massima libertà alla macchina da presa rispetto all’impianto narrativo della sceneggiatura […] per dare il senso di una caotica avventura sorretta dall’affascinante personalità di un capo, e da un caldo empito popolare. I guai sono cominciati quando ha dovuto fare parlare i suoi personaggi: la cronaca, infatti, ha bisogno di una lingua viva, rapida, anti-letteraria. Rossellini, invece, aveva a disposizione soltanto memorie, lettere e proclami e, rifiutandosi, per coerenza con il suo assunto cronachistico, di fornire i suoi personaggi di una dimensione psicologica (e, quindi, di una lingua dialogata) gli ha messo in bocca, virgolettandole, frasi ricavate di peso da una letteratura preesistente. Questa magniloquenza ha dilatato a dismisura il tono oleografico dell’affresco31.
In altri termini, non era con le frasi originali e documentate che si poteva evitare la retorica, tanto più se si tiene presente che queste stesse frasi erano state accuratamente vagliate e preparate dai protagonisti, peraltro molto attenti a esercitare una comunicazione il più efficace possibile, valendosi spesso delle loro stesse azioni se non della 29
Cfr. Rossellini, Il mio metodo, cit., p. 232. Sempre Rossellini sosteneva che «persino» per l’incontro a Napoli tra Garibaldi e Mazzini. che non ebbe testimoni, si era valso della corrispondenza tra i due e di alcune lettere di Mazzini sull’argomento: «Ho cercato di ricostruire questo episodio con tutti gli elementi a mia disposizione e anche sulla base di una certa logica, travasando questi elementi specialmente nel dialogo» (Ivi, p. 319). 30 G. L. R. Viva l’Italia, cit. 31 Muzii, L’impresa dei «Mille» nel film di Rossellini, cit.
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loro figura32. Insomma, il testo verbale finiva con il tradire quello visivo, con dialoghi desunti, come si è detto, dagli scritti dei protagonisti o dai lavori degli storici, che, anche se si svolgono in privato, risultano inevitabilmente, se non retorici, certamente letterari: in certo senso, sanno di «scritto» e non di «parlato». Gli aspetti negativi della pellicola erano riconducibili anche ad altro e lo suggeriva, con grande perspicacia, Guido Fink su «Cinema nuovo» che imputava il «fallimento» di Viva l’Italia «alla sua natura di compromesso». Nel film, scriveva, «si può trovare una prudente e decolorata, ma riconoscibile, applicazione della tesi dell’Omodeo, il Risorgimento come frutto di una “discordia” occasionalmente concorde, del convergere casuale di forze contrastanti»33. Il fatto è – e Rossellini, probabilmente, ne era in qualche modo consapevole – che Viva l’Italia nasceva come film che doveva celebrare il centenario: doveva, sostanzialmente, sulla scia di quello che era il leit-motiv delle celebrazioni prima sommariamente delineato, glorificare un «Risorgimento “pluriculturale”, vale a dire sintesi e conciliazione di tutte le anime politiche: cavouriani, mazziniani-garibaldini, giobertiani, ecc.; e, naturalmente, in questa visione, i cattolici trovavano pari dignità come protagonisti dell’intera vicenda unitaria»34. La ricostruzione del passato risentiva così del “consociativismo”, per dir così, della forze politiche. Se il Risorgimento era mito fondativo per l’intera classe politica, compresa la sinistra comunista, ne veniva di conseguenza che occorreva evitare lacerazioni e accontentare un po’ tutti (e questo spiegherebbe anche la composizione del pool di sceneggiatori, ugualmente spartiti tra area cattolica – Fabbri e Petrucci – e area di sinistra, Amidei e 32 Cfr. L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 2007, in particolare il capitolo sesto, Il Risorgimento e il nazionalismo italiano con le acute osservazioni su Mazzini «comunicatore», e A.M. Banti, P. Ginsborg, a cura di, Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, in particolare il saggio di Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione, Torino, Einaudi, 2007. Cfr., inoltre, D. Mengozzi, Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Manduria, Lacaita, 2008; L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza, 2007; M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore all’origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000. 33 g.f., Viva l’Italia, «Cinema nuovo», n. 150, marzo-aprile 1961, pp. 156-157. Fink faceva riferimento al volume di Adolfo Omodeo, L’opera politica del Conte di Cavour, Roma, Ricciardi, 1968 (la prima edizione del libro era stata stampata da Laterza nel 1940). 34 Merolla, Italia 1961, cit., p. 95. Nelle file dei garibaldini a un certo punto vediamo accorrere anche dei frati, con fucili in spalla. E uno di loro esclama: «Giuseppe Garibaldi, non disprezzare questa mia tonachella perché ti dico in verità che sarà più salda della tua corazza e non disprezzare questa croce perché vedrai che balenerà tra i nemici più terribile della tua scimitarra. Benedici!».
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Trombadori)35. Il che, ovviamente, non poteva non riflettersi sul film che oscillava tra un 1860 visto come realizzazione di un’unità che partiva dal basso (l’impresa dei Mille come vera rivoluzione popolare, un po’ sulla scorta del 1860 di Blasetti) e una antitetica, più portata ad accentuare gli aspetti della conquista e dell’annessione. Viva l’Italia, pertanto, metteva la sordina al contrasto con la Chiesa e il Papato, parlava bene sia dei moderati sia dei democratici, cercava di non sbilanciarsi sulla figura del re. Da una parte, infatti, Vittorio Emanuele II era il re galantuomo, quello che, se avesse potuto, avrebbe appoggiato senza riserve l’impresa di Garibaldi (e così si accontentavano anche i nostalgici della monarchia). Una breve sequenza ci mostra Garibaldi a colloquio con Litta-Modignani, aiutante di campo di Vittorio Emanuele. Litta-Modignani ha portato al generale un messaggio in cui il re chiede a Garibaldi di non passare lo stretto: Garibaldi – È un brav’uomo, Vittorio Emanuele! […] Io non mi nascondo le difficoltà, ma quando un popolo vuole la libertà non ci sono soldati che bastino! Litta-Modignani – Sua Maestà vi ha scritto da re. Ma credo potervi dire che se voi doveste disubbidirgli perché i doveri verso l’Italia ve lo impongono… Garibaldi [facendogli cenno di tacere] – L’ho sempre detto che Vittorio Emanuele è un gran brav’uomo… Peccato che sia così mal circondato… Grazie!
Il finale ci mostra però anche l’altra faccia di Vittorio Emanuele II, quella di chi licenzia, senza troppi fronzoli, Garibaldi, a cui non rimane altro, mentre sbocconcella un pezzo di formaggio, che ripetere con espressione attonita: «Mi hanno detto che ora dobbiamo metterci nella riserva!». Ed era ovvio che a fare le spese di una simile impostazione finisse con il rimanere il solo Cavour: «Cavour basa tutti i suoi piani sul consolidamento della monarchia, non sullo sviluppo della democrazia. Egli vuole rimettere la bandiera dell’unità d’Italia nelle mani del Piemonte, vuole cancellare il mito di Garibaldi, l’eroe del 35 Lo notava Gaetano Carancini su «La voce repubblicana», a proposito delle oscillazioni del film, ipotizzando che la contraddizione fosse dovuta proprio al «diverso modo di vedere il periodo storico dei diversi sceneggiatori, alcuni dei quali tendono a considerare la “spedizione” esclusivamente come un fatto rivoluzionario popolare, mentre altri vogliono includere nel “movimento” anche altri strati della popolazione appartenenti ad altre classi, quando non addirittura al Clero, come nella scena dell’arruolamento volontario dei frati siciliani. E questo diverso modo di vedere la storia in più di un momento fa subire al film ondeggiamenti e scossoni» (G. Carancini, Viva l’Italia, «La voce repubblicana», 30/31 gennaio 1961).
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popolo che dà ombra alla figura del re, del suo re», sostiene Mazzini nel colloquio a Napoli con Garibaldi. E dopo la battaglia sul Volturno, nella riunione dello stato maggiore garibaldino, è sempre Cavour – il Cavour che «non vuole essere secondo a nessuno», il Cavour che «ha sempre esortato Vittorio Emanuele a farla finita con Garibaldi e vuole che venga ad occupare Napoli» – l’obiettivo di tutti gli attacchi. La negatività della sua figura è in piena sintonia con un altro dato che esce dalla pellicola: la diffidenza nei confronti non solo degli uomini «politici», ma della stessa politica, considerata foriera di divisioni e, conseguentemente, di ritardi nella realizzazione del sogno dell’unità. Quando l’esercito garibaldino arriva allo stretto di Messina, mentre scorrono le immagini della costa calabra, in voice over si commenta: «Avrebbe saputo Garibaldi attraversare quel tratto di mare? Avrebbe trovato la forza militare e la decisione politica per lanciare i suoi uomini contro tutte le difficoltà, malgrado tutti i complotti che si andavano tramando per mandare a fallimento la sua impresa?». In seguito, una sequenza ci mostra Alexandre Dumas, inviato speciale al seguito della spedizione, a colloquio con alcuni garibaldini poco prima che Garibaldi si decida a varcare lo stretto per raggiungere Napoli. Lo scrittore francese sottolinea la grandezza del generale e un garibaldino prontamente ribatte: «Sì, ma non altrettanto un grande politico!»: Bandi – Quel che temo è che, quando c’è tregua, la politica torna a far capolino anche in mezzo a noi. Si fa di tutto per frastornare l’impresa! Garibaldino – E ora si congiura per farci rimanere qui. Anche certi siciliani che vogliono l’unione immediata con il Piemonte. Dumas – Il generale è cupo e pensieroso… Bandi – Eh, ne ha ben d’onde! Ma io sono certo che non ascolterà i suoi prudentissimi consiglieri!
In definitiva, il merito maggiore di Viva l’Italia era proprio quello di sfatare alcuni luoghi comuni della retorica risorgimentale36 e di raccontare gli aspetti più quotidiani e dimessi della spedizione dei Mille e della figura di Garibaldi (impersonato da Renzo Ricci, doppiato da 36 Anche Guido Aristarco, peraltro molto critico con Rossellini che a suo dire non era sfuggito in Viva l’Italia a una visione oleografica dell’Eroe dei due mondi, non poteva fare a meno di sottolineare come il film, «sia pure in mezzo a non poche ambiguità», presentasse «il tentativo di una qualche revisione storica – della storia addomesticata – di far luce su certi contrasti tra Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, su uno incontro a Teano che esclude la visione di un’ottimistica e ingenua concordia. “Donava un regno e gli mancava il pane”. Questo motivo dumasiano è presente in Rossellini…» (G. Aristarco, Risorgimento e cinema, «La Stampa», 19 aprile 1961).
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Emilio Cigoli per via della pronunzia – affermava Rossellini – «troppo toscaneggiante come certo non era quella di Garibaldi»37), nonché di non nascondere i contrasti, anche molto aspri, tra i protagonisti della vicenda risorgimentale. Ma tutto questo veniva sommerso dalla mancanza di un filo interpretativo unitario che finiva, più frequentemente di quello che riteneva Rossellini, proprio con il mettere in secondo piano i suoi obiettivi educativi. Come scriveva Fink nell’articolo sopra citato, «Viva l’Italia può essere persino un film utile, se paragonato a certi testi scolastici retoricamente “unitari” e sfacciatamente monarchici […] Ma se persino un film sbagliato come Viva l’Italia può servire a infrangere certi miti oleografici, ciò significa soltanto che il livello della cultura storica è nel nostro paese ancora molto insoddisfacente»38. Nel 1961 va segnalata un’altra pellicola di Rossellini, VaninaVanini (la sceneggiatura era di Rossellini, Franco Solinas, Diego Fabbri, Antonello Trombadori, Jean Gruault), tratta dall’omonimo racconto di Stendhal. Anche questo film tradiva lo spirito del testo originario. Era già successo, in modo ancora più evidente, in una pellicola del 1940, opera di Carmine Gallone, Oltre l’amore, dove addirittura si assisteva, nel finale, alla riconciliazione tra i due protagonisti. Qui non c’era nessuna riconciliazione tra Pietro Missirilli, il carbonaro in “missione” a Roma, e la nobildonna Vanina Vanini: il carbonaro veniva condannato a morte e la sequenza eseguita. Però, mentre nel racconto la protagonista dava prova di tutto il suo cinismo, consolandosi ben presto con un suo pari, nel film l’ultima sequenza ci mostra Vanina mentre si appresta a entrare in convento. In Vanina Vanini l’intento didattico di Rossellini, mostrato in Viva l’Italia, sembra attenuarsi: certo, come ha sostenuto lo stesso regista, c’era alla base del film un grande «lavoro di ricerca storica», teso a portare sullo schermo la rappresentazione della vita della Roma papalina e di come il Romanticismo, che allora prendeva piede, potesse influenzare – e qui c’è un’intuizione notevole che solo da qualche tempo gli storici sembrano aver raccolto39 – modelli di comportamento e atteggiamenti che finivano poi per assumere anche valenze politiche40. Ma se questo era il progetto – ricostruire, attraverso il dramma d’amore e morte della principessa 37 a.v., “Viva l’Italia” è un omaggio del cinema alle celebrazioni centenarie, «Stampa Sera», 2 febbraio 1961. 38 g.f., Viva l’Italia, cit. 39 Cfr. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione, cit.; A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. 40 Cfr. l’intervista di Rossellini ad Adriano Aprà e Maurizio Ponzi pubblicata su «Filmcritica», n. 156-157, aprile-maggio 1965 (successivamente in Rossellini, Il mio metodo, cit., pp. 341-342).
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Vanina con il carbonaro Pietro Missirilli, tensioni intellettuali, politiche e sociali di un’epoca – l’attuazione ne risultò molto distante, rimanendo il tutto in un ambito cronachistico, mentre la dimensione storica rimaneva sullo sfondo e la passione non assurgeva a modo di intendere e percepire il mondo, ma rimaneva un fatto meramente individuale. Come è stato notato, Vanina Vanini «è un film sul tradimento»: «il giudizio di Rossellini è senza appello: la passione mal riposta ottunde la mente, e non c’è salvezza […] ridotta a soggetto sessuale la donna è “demoniaca”, e distrugge l’uomo»41. Fin dal suo primo apparire, alla Mostra di Venezia (era tra i quattro film italiani in concorso), l’accoglienza dei critici fu pessima. Su «Stampa Sera» Leo Pestelli si domandava il motivo per cui il film fosse stato presentato: per decretare il «declino del regista di Roma città aperta e Paisà», per dare ragione a chi sosteneva che «quattro film italiani su quattordici erano troppi»? E aggiungeva: Dispiace dover usare parole dure, ma Vanina Vanini non fa onore né al suo autore né alla rassegna che lo ospita; non ha nemmeno uno di quei barbagli che rompevano anche le più sbagliata opere rosselliniane, ed è inferiore allo stesso Viva l’Italia, con cui ha in comune l’opportunità risorgimentale, ma non la presa popolaresca e il nitore oleografico […] Si ha un bel ripassare nella mente il film, non si sa che cosa salvare42.
Probabilmente, portarono a questo risultato la “fretta” con cui il film fu girato (in un’intervista Sandra Milo, l’attrice protagonista, raccontava dei tanti contrattempi che avevano punteggiato la lavorazione43), ma soprattutto le tensioni tra gli sceneggiatori e il regista e i contrasti con il produttore, Moris Ergas La pellicola venne disconosciuta da Rossellini che accusò Ergas, allora marito di Sandra Milo, di aver apportato tagli e modifiche tali da alterarne il contenuto e arrivò a tentare anche un’azione legale per bloccarne la visione44. A sua volta il produttore ricordò al regista la clausola del contratto che concedeva alla casa cinematografica il diritto di apportare alla pellicola tutte le modifiche ritenute opportune45. Una querelle che dette origine sulla stampa a un ampio dibattito sul tema della proprietà intellettuale, 41
A. Aprà, In viaggio con Rossellini, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2006, pp. 64-65. L. Pestelli, Rossellini ha deluso con la scialba “Vanina Vanini”, «Stampa Sera», 28 agosto 1961. 43 Cfr. F. Fasolo, Sandra Milo parla del film di cui è protagonista, «Stampa Sera», 28 agosto 1961. 44 La causa Rossellini-Ergas per i tagli a «Vanina Vanini», «Corriere della Sera», 23 agosto 1961. Cfr. anche Masi-Lancia, I film di Roberto Rossellini, cit., p. 91. 45 Senza tagli a Venezia il film di Rossellini, «Stampa Sera», 25 agosto 1961. 42
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dibattito che vide addirittura la partecipazione di Eugenio Montale46. Tornando al film: qualche ragione il regista romano l’aveva. Era stato ridoppiato (da Paolo Ferrari) l’attore protagonista, Laurent Terzieff, era stata ridoppiata, per poter avere la possibilità di vincere la coppa Volpi, da se stessa, Sandra Milo (che in un primo momento aveva la voce di Andreina Pagnani), erano state tagliate alcune sequenze (dall’inseguimento di Terzieff, preso per un ladro, alle scene d’amore tra l’attore francese e Martine Carol, che nel film impersonava la contessa Vitelleschi, amante del padre di Vanina) e alcune battute anticlericali pronunziate dal protagonista, come pure la scena della flagellazione del prete innamorato di Vanina, eseguita davanti alla statua della Vergine; d’altro canto, erano state aggiunte altre sequenze, probabilmente girate dallo stesso produttore o montate utilizzando degli scarti: il ridoppiaggio, infine, aveva consentito di modificare alcune battute pronunziate dai due protagonisti47. Il risultato fu un vero e proprio disastro, sia dal punto di vista economico, sia artistico: alla Milo fu appioppato il soprannome di «Canina Canini» mentre i giornali provvedevano – con qualche eccezione48 – a stroncare senza pietà la pellicola49. Sempre nel 1961 Mario Camerini tornava sul tema del brigantaggio (già affrontato nel 1950 con Il brigante Musolino) girando I 46
E. Montale, Salvarsi da soli, «Corriere della Sera», 1° settembre 1961. Aprà. In viaggio con Rossellini, cit., p. 70. Marcella De Marchi ha raccontato che alle due di notte, da Santa Marinella, la chiamò Rossellini per dettarle un telegramma di due pagine da spedire a Venezia, «perché aveva saputo dal montatore – che non aveva retto a fare ’sto tradimento a Roberto e gli aveva confessato tutto – che il film era stato manomesso, e che avevano mandato per di più a Venezia una copia doppiata dalla Milo, tagliando scene e rimescolando secondo i desideri del produttore. E sì che Vanina Vanini era stupendo, prima, tutti quelli che l’avevano visto lo dicevano. Quando ho saputo ’sta cosa da Roberto, ho capito che il film era rovinato. E dopo, cause su cause…» (F. Faldini, G. Fofi, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 226). 48 Alberico Sala sul «Corriere d’informazione» sottolineava la ricostruzione accurata della Roma dei primi decenni dell’800: «La fotografia è come intrisa di cenere azzurra: conferisce alla storia una patina di favola assai suggestiva. Le scene del Conclave, affollate di personaggi. E quelle girate all’aperto, s’impongono per grandiosità e movimento». Più che una vicenda d’amore il film era incentrato su un «messaggio di libertà che la storia conteneva e che è stato ravvivato, attualizzato, in qualche momento, persino con audacia». La recensione si concludeva con un elogio all’attrice protagonista: «Sandra Milo ha affrontato qui la prova più impegnativa della sua carriera: ha superato se stessa» (A. Sala, Amore e Risorgimento, «Corriere d’informazione», 28 agosto 1961). 49 Sia Lanocita sul «Corriere della Sera» che Pestelli sulla «Stampa» avrebbero ribadito, quando il film iniziò a circolare nelle sale, quanto già scritto in occasione della Mostra veneziana. Il primo concludeva la sua recensione citando perfidamente l’affermazione di un cardinale che, alla confessione della Vanini del suo amore per Missirilli, aveva affermato di sentire «la presenza del diavolo»: «Non so se il maligno si occupi di cinema: 47
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briganti italiani (il soggetto era di Luciano Vincenzoni dal romanzo omonimo di Mario Monti; la sceneggiatura di Camerini, Vincenzoni, Ghigo De Chiara, Diego Fabbri, Ivo Perilli, Carlo Romano). Il film vantava la presenza di grandi star, in primo luogo Rosanna Schiaffino, Vittorio Gassman nella parte di Vincenzino Esposito, «’o caporale», Ernest Borgnine in quella di Sante Carbone, il brigante che, all’indomani dell’Unità, combatte «i piemontesi» in nome dei Borboni, e Bernard Blier, il colonnello Breviglieri, comandante del corpo di spedizione italiana. La trama è molto semplice: Carbone riesce a catturare il colonnello Breviglieri e propone uno scambio di prigionieri: la sua donna, Assuntina (l’attrice messicana Katy Jurado, moglie nella vita reale di Borgnine) prigioniera degli «italiani», con il colonnello stesso. Lo scambio viene accettato. Nei momenti passati con il brigante, il colonnello cerca di fargli capire che ormai la realtà sta cambiando: un nuovo ordine sta per essere instaurato che porterà pace e giustizia e per quelli come Carbone non c’è alcuna possibilità di mutare il corso degli eventi. Il brigante appare turbato. Successivamente, vengono meno le sue illusioni iniziali: la flotta borbonica viene distrutta dai piemontesi e i capibanda che si erano uniti a Carbone lo abbandonano. Sante incontra di nuovo Breviglieri che gli promette salva la vita in cambio dei nomi dei baroni che hanno incoraggiato e finanziato la sua banda. Carbone non cede e Breviglieri gli predice che morirà ucciso proprio dai suoi amici che ormai hanno interesse a farlo tacere per sempre. L’ultima illusione di Carbone crolla quando Zelluso, il brigante più fidato, tenta di ammazzarlo e gli confessa che sono stati proprio i baroni a pagarlo per ucciderlo. Sante, con Vincenzino Esposito, l’unico amico rimastogli, tenta di rifugiarsi dai pastori, ma anche questi rifiutano di aiutarlo. Non gli rimane che consegnarsi a Breviglieri. Al “caporale” confessa che si consegna non per paura:
ma, ammesso che se ne occupi, forse si deve a lui il temporaneo declino di un regista geniale come è Rossellini» (lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 13 ottobre 1961). Dal canto suo Pestelli, dopo aver sottolineato che il giudizio del pubblico avrebbe concordato con «la cruda sentenza» del festival, concludeva perentorio: «Non dubitiamo che Rossellini abbia voluto mettere molte cose in questo film, anche il suo amore a Stendhal; ma non sarebbe la prima volta che le buone intenzioni determinano un risultato squallido, e che dall’ardore della disposizione esce un gelo. Perché anche la seconda impressione di questa Vanina è di sfocatura e svogliatezza, senza che nemmeno vi si senta una risoluta piega verso le attrattive del genere popolare» (l. p., Sullo schermo, «La Stampa», 18 febbraio 1962).
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Carbone - Io mi sono deciso a questo perché ho una speranza […] Questi che so’ venuti adesso, noi non li conosciamo. Ma peggio di quelli che ci governano da sempre non possono essere! Esposito – Ma quelli sono di un’altra razza! Chissà che pensano! Tu non li conosci! Carbone - Ma io conosco Breviglieri! Quella è gente che vuol cambiare le cose, ma per cambiarle nessuno deve avere più paura di parlare. Questi hanno bisogno di aiuto e io glielo porto. Gli porto Sante Carbone sulla piazza di Stigliano. E allora dopo tutti cominceranno a capire che le cose devono cambiare. Esposito – Ma tu, Carbone, che ci guadagni? Carbone - Vincenzì, mi deve nascere un figlio. E quando ci sarà un po’ di giustizia in questo paese spero che mio figlio e i figli di tanta povera gente non dovranno più fare i briganti come noi.
Sante si reca a Stigliano, presieduta dalle truppe italiane, ma, appena entra nel paese, viene ucciso da una fucilata sparatagli da una finestra: «Colonnè, volevo aiutarti, ma ho capito troppo tardi, troppo tardi!». In conclusione, una pellicola cui forse – come scriveva Leo Pestelli su «La Stampa» - mancava «un po’ di sangue (la tenerezza di Camerini non si smentisce mai)», ma nella quale il regista romano, con «garbo e misura», adombrava, «dentro la pittoresca avventura, dolorosi e tutt’altro che risolti problemi sociali»50. In ogni caso I briganti italiani non si discostava dalla linea di celebrazione imperante, come sottolineava il 1° agosto 1961, in sede di revisione cinematografica preventiva, il rapporto dei funzionari della Direzione Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che mettevano in rilievo come il film evidenziasse «la grande importanza dell’unificazione nazionale anche sotto il profilo di una moralizzazione politica e sociale»51.
50
l.p., I briganti italiani: un patetico furfante, «La Stampa», 14 gennaio 1962. Revisione Cinematografica Preventiva, 1° agosto 1961, ACS, MTS, Div. Cin., b. 311, f. 3683. 51
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NOI FUMMO I GATTOPARDI, I LEONI. DALLA CELEBRAZIONE DEL RISORGIMENTO ALLA VISIONE CRITICA Mentre si spegnevano le ultime luci sulle celebrazioni del centenario, nel 1962, esattamente cento anni dopo l’episodio che viene ricordato nel finale del film (il ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte), nell’anno in cui si andavano già manifestando i sintomi del rallentamento dell’economia italiana, Luchino Visconti iniziava a girare Il Gattopardo, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con la sceneggiatura di Visconti, Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa. Il film ebbe una lunga e faticosa gestazione. In un primo tempo il produttore Goffredo Lombardo, che aveva acquistato i diritti del romanzo, ne aveva affidato sceneggiatura e regia a Ettore Giannini; successivamente, esautorato quest’ultimo, il produttore si rivolgeva a Visconti. Dopo un faticoso travaglio durato più di un anno (la stesura della prima sceneggiatura era in corso già nel marzo 1961, l’ultima, la definitiva, che subirà comunque ulteriori notevoli variazioni, porta la data del 9 marzo 1962 e la firma dello stesso Visconti e degli autori citati nel testo), le riprese ebbero inizio lunedì 14 maggio 19621. Ed anche queste presentarono più di un problema. A Palma di Montechiaro dove Visconti aveva intenzione di ricostruire la villa di Donnafugata gli abitanti pretesero che venisse costruita una nuova strada. Si parlò addirittura di mafia che avrebbe intimato a regista e produttore di ricorrere a imprese “gradite” per svolgere i lavori necessari2. In realtà è vero che fu scelta un’altra località, ma non ci fu nessuna pressione mafiosa come si affrettarono a specificare Visconti 1 La vicenda è raccontata da A. Anile-M.G. Giannice, Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra”, Genova, le Mani, 2013, pp. 107-175. 2 La mafia obbliga Visconti a lasciare il paese del “Gattopardo”, «Corriere d’informazione», 3 maggio 1962.
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e Lombardo. Semplicemente «un paese poverissimo» aveva visto nelle riprese del film l’occasione per un vecchio progetto di una strada panoramica che non avrebbe mai potuto permettersi3. Il Gattopardo sarebbe arrivato nei cinema l’anno successivo, diventando con due miliardi e circa 223 milioni la pellicola italiana di maggior successo del 19634 e avrebbe costituito un vero e proprio contraltare all’idea e all’immagine del Risorgimento che ne avevano dato Viva l’Italia e I briganti italiani. Come è stato acutamente notato, il film «è contemporaneamente un racconto epico, un trattato di sociologia (il ritratto dell’aristocrazia siciliana è quanto di più perspicuo sia mai stato pensato), una serie di sottili digressioni psicologiche, un saggio storiografico»5. La vicenda è nota per cui diventa inutile raccontarne la trama (che rispecchia peraltro abbastanza fedelmente il romanzo di Tomasi di Lampedusa discostandosene solo nel finale: il film si chiude, infatti, con il ballo a casa Ponteleone)6 e, soprattutto, eviteremo di soffermarci sulle qualità artistiche di una pellicola straordinaria, superiore – ha scritto qualcuno (ed è un giudizio che mi sento di condividere) – al libro7. Con Il Gattopardo Visconti proseguiva la sua riflessione sul Risorgimento come «rivoluzione tradita» e, parallelamente, sulla scomparsa 3 M. Cervi, Il paese del “Gattopardo” voleva una strada in regalo, «Corriere della Sera», 6 maggio 1962. 4 Il primo posto in classifica de Il Gattopardo, unitamente al successo di film di generi diversi, da Viridiana a Il sorpasso, da Mafioso a L’ape regina, da Il giorno più lungo a West Side Story, faceva ipotizzare a Guido Aristarco un’evoluzione nei gusti del pubblico «rispetto al cinema inteso come divertimento di evasione»: «Anche se in misura relativa, il pubblico è certo in progresso rapportato a quello dell’anteguerra. I suffragi non vanno più e sempre, automaticamente, ai film peggiori» (G. Aristarco, Il cinema come svago, «La Stampa», 26 giugno 1963). 5 F. Di Giammatteo, Lo sguardo inquieto. Storia del cinema italiano (1940-1990), Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 273. 6 Nel rapporto dell’ufficio Revisione cinematografica la fedeltà al romanzo era sottolineata («Certo, data la mole del romanzo, il testo è stato abbondantemente sfoltito e il racconto cinematografico è assai più breve di quello letterario») così come veniva rilevato che il film introduceva nel racconto «qualcosa di nuovo» (ad esempio, la fucilazione dei soldati disertori) con «l’evidente intento di socializzarlo». «Quello che nella riduzione cinematografica risulta, se non del tutto perduto assai indebolito, è il tono di disincantata ironia, l’aura intensa di svagato distacco che caratterizza il romanzo e che costituisce uno dei principali motivi del suo innegabile fascino» (Revisione Cinematografica Preventiva, 14 giugno 1962, ACS, MTS, Div. Cin., b. 341, f. 3941). 7 «E adesso, a rischio di sentirmi dare dell’imbecille, voglio dirlo perché non ne posso fare a meno, perché lo sento: il film è superiore al libro. Visconti è riuscito a fare una cosa che almeno io non ho mai visto: a tradurre alla lettera un romanzo in immagine rispettando tutto, lo sfondo, i personaggi, i fatti, i dettagli, i dialoghi, i gesti sino ai più minuti particolari (la disputa a letto tra il principe e la moglie, compreso il pugno sul ginocchio), nel tempo stesso asciugandoli artisticamente delle sbavature di uno stile corrivo e malsicuro, dando loro una più alta verità e compattezza creativa» (F. Sacchi, Visconti ha vinto una scommessa con se stesso, «Epoca», n. 654, 7 aprile 1963, pp. 121-122).
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di un mondo. In un colloquio con Antonello Trombadori sottolineava che, se da un lato concordava con il «pessimismo» di Tomasi sulla decadenza dei tempi, dall’altra se ne discostava: Col punto di vista di Lampedusa, e diciamo pure con quello del suo protagonista, il principe Fabrizio, io concordo non soltanto fino al limite del momento analitico dei fatti storici e delle situazioni psicologiche da essi derivanti, ma oltre questo limite: vale a dire laddove è adombrata la loro considerazione pessimistica di quei fatti. Il pessimismo del principe di Salina porta quest’ultimo a rimpiangere la caduta di un ordine che per quanto immobile era sempre un ordine, mentre il nostro pessimismo si carica di volontà, e in luogo di rimpiangere l’ordine feudale e borbonico mira a postularne uno nuovo. Ma in conclusione partecipo anch’io della definizione del Risorgimento come “rivoluzione mancata”, o meglio “tradita”8.
Il regista milanese indicava tre punti decisivi per la sua interpretazione e traduzione in immagini del libro (non dimentichiamo che al suo apparire il romanzo provocò accese contrapposizioni tra chi lo classificava come un’opera reazionaria e chi invece vi leggeva per la prima volta nella letteratura italiana contemporanea un’attenzione notevole per la storia e i problemi più impellenti della formazione del nostro Stato): il dialogo tra il principe e don Ciccio Tumeo (che nel film ha le fattezze di Serge Reggiani) all’indomani del voto al plebiscito, il colloquio con Chevalley, il funzionario piemontese che è venuto a Donnafugata per offrire a Fabrizio, il principe di Salina, un posto di senatore nel neonato parlamento del regno, e, infine, il ballo a casa Ponteleone, che occupa da solo un terzo del film9. Nel primo Fabrizio, uno strepitoso Burt Lancaster che esprimeva «come meglio non si poteva il senso di una fine che scava e corrode una quercia maestosa»10, spiega a don Ciccio, il quale al plebiscito per l’annessione ha votato no (ma il suo voto è scomparso11), perché, invece, si è espresso, platealmente, per il sì: Ammiro la vostra fedeltà e devozione, don Ciccio, ma dovete capire che il popolo era sovreccitato per le vittorie di questo Garibaldi. E il 8
L. Visconti, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, a cura di S. Cecchi d’Amico, Bologna, Cappelli, 1963, p. 23. 9 Ivi, p. 29. 10 A. Todisco, «Il gattopardo» di Luchino Visconti presentato al gran pubblico di Roma, «La Stampa», 28 marzo 1963. 11 «Ma io avevo detto di no. E quei porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e la cagano via come vogliono loro! Io dissi nero e mi hanno fatto dire bianco.
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plebiscito era il solo e urgente rimedio per l’anarchia, credetemi. E per noi non è che il male minore. I Savoia in fondo… una monarchia sono! Gli interesse delle persone che amate e a cui siete devoto escono da questi avvenimenti frustrati, sì, ma ancora vitali, ancora validi. Qualcosa doveva cambiare, perché tutto restasse com’era prima! L’ora della rivoluzione finì. Speriamo che l’Italia nata oggi, pure qui a Donnafugata, possa vivere e prosperare.
Insomma, il tentativo, che era stato già lucidamente formulato dal nipote Tancredi [Alain Delon] quando era corso ad arruolarsi tra i garibaldini (a Fabrizio che gli ricorda che un «Falconieri sta con noi, per il re!», Tancredi risponde: «Credimi, zione! Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattro otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi!»), è quello di dominare gli eventi, di una transizione, per dir così, «dolce», che lasci inalterate le cose. D’altra parte, già nell’incontro con padre Pirrone [Romolo Valli] Fabrizio si era espresso in tal senso: Fabrizio – Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro paese? Niente, succede niente! Solo un’inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo… prendere il nostro posto… con le maniere più dolci. Mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è! Capite, padre? Il nostro è il paese degli accomodamenti! Padre Pirrone – In poche parole, voi signori vi mettete d’accordo con i liberali, addirittura con i massoni. A spese nostre, sì, a spese della Chiesa. Perché è chiaro che tutti i nostri beni, quei beni che sono patrimonio dei poveri, verranno arraffati e malamente divisi tra i caporioni più impudenti! E dopo?… Chi sfamerà quella moltitudine di infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e guida? Come si farà allora per placare quelle turbe di disperati? Ve lo dico io, eccellenza. Si comincerà col dar loro in pasto prima una porzione, poi un’altra… e alla fine, l’intero delle vostre terre! Nostro Signore guariva i ciechi del corpo… ma i ciechi di spirito dove finiranno? Fabrizio – Non siamo ciechi di spirito, caro padre, ma solamente esseri umani… in un mondo in piena trasformazione. Che dovremmo fare? Alla Chiesa è stata fatta esplicita promessa di immortalità! A noi come classe sociale no! Per noi un palliativo che ci promette di durare ancora 100 anni equivale all’eternità! Al di là di quanto possiamo accarezzare con le nostre mani, noi non abbiamo obblighi. La Chiesa, sì! Lei deve averne perché è destinata a non morire. Nella sua disperazione è implicito il conforto […] Credete voi, padre, che se mai un giorno Ero un fedele suddito e sono diventato un borbonico schifoso. Ora tutti savoiardi sono. Ma i savoiardi li mangio cu’ ’u cafè, io!»
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la Chiesa potesse salvarsi sacrificando noi, esiterebbe a farlo? Non esiterebbe… e farebbe bene!
Con Chevalley [Leslie French] Salina è ancora più chiaro: «Abbiate pazienza! Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due… e per di più io sono completamente senza illusioni». Inutile – aggiunge – proporgli un seggio senatoriale: che se ne farebbe il Senato di una persona come lui, incapace di «ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?». Meglio un esponente dei nuovi ceti, quel Calogero Sedara [Paolo Stoppa] la cui figlia Angelica [Claudia Cardinale] sta per sposare il nipote Tancredi: Egli, più di quel che voi chiamate prestigio, ha il potere. Se non ha meriti scientifici, ne ha di pratici. Quasi eccezionali. La sua attività è stata utilissima durante la crisi di maggio. In quanto a illusioni… non credo ne abbia più di me… ma se occorre è abbastanza furbo per crearsele. È l’uomo che fa per voi!
È qui, nel colloquio con l’onesto funzionario regio, che il principe, sgomento, confessa, prima di tutto a se stesso, che la «transizione», per quanto dolce, comporta la scomparsa del suo mondo. Il suo tentativo di rivivere, attraverso Tancredi, la gioventù e di ridare vitalità al suo ceto tramite il matrimonio del nipote con Angelica («Questo matrimonio non è la fine di niente, anzi, è il principio di tutto. E questo rientra nelle migliori tradizioni. Queste sono cose che voi non potete capire» ha risposto in malo modo a don Ciccio convinto che l’unione sia «la fine dei Falconieri e anche dei Salina!») è solo un’illusione, un ingenuo tentativo di allontanare la morte (la sua e quella del suo ceto): «Il sonno, caro Chevalley, un lungo sonno: questo è ciò che i siciliani vogliono. Ed essi odieranno sempre tutti quelli che vorranno svegliarli, sia pure per portar loro i più meravigliosi doni. E detto tra noi, io dubito sinceramente che il nuovo Regno abbia molti regali per noi nel suo bagaglio. Da noi, ogni manifestazione, anche la più violenta, è un aspirazione all’oblio. La nostra sensualità è desiderio di oblio. Le schioppettate e le coltellate nostre è desiderio di morte. La nostra pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti… desiderio di voluttuosa immobilità… cioè ancora di morte!». Anche Lancaster (come già abbiamo visto nel colloquio di Visconti con Trombadori),
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in un’intervista a Caterina d’Amico nel 1986, sottolineava quanto il regista milanese ritenesse la sequenza fondamentale per la comprensione della storia tanto da farla ripetere e da suggerire come si dovesse comportare il protagonista: «Quando parli con quest’uomo devi essere mezzo addormentato. Lo ascolti, ma ogni tanto chiudi gli occhi, le sue parole ti irritano… sei un leone e sei infastidito dalle mosche che ti volano intorno alla testa. Vuoi solo liberatene […]… non sei maleducato, sei solo annoiato. Mentre ascolti le sue parole devi anche pensare che Chevalley in fondo è ingenuo su alcuni aspetti pratici della vita, ma è fondamentalmente onesto, una persona perbene. E allora ritorna il tuo charme, la tua gentilezza, e gli parli sinceramente della Sicilia, di quello che significa, del mondo che sta cambiando, del passato, della tua stirpe»12. Successivamente, nel commiato l’indomani all’alba, attraversando un paese sporco, dove quei manifesti inneggianti al plebiscito visti in precedenza ora appaiono consumati e logori e dove la povertà si avverte in modo eclatante, a Chevalley che tenta l’ultima carta e si dice convinto che «questo stato di cose non durerà. La nostra efficiente, moderna e agile organizzazione cambierà ogni cosa», risponde: Non dovrebbe poter durare, ma durerà sempre. Il sempre umano, certo: uno o due secoli. E dopo forse tutto sarà diverso, ma sarà peggiore! Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore… continueremo a crederci il sale della terra!
L’ultimo «capitolo» del film, il ballo in casa Ponteleone, che da solo dura quasi un terzo della pellicola (Visconti nella già citata intervista a Trombadori parlava di «dilatazione iperbolica dei tempi del ballo»13), riannoda e rappresenta il crollo di una triplice illusione: quella individuale, di Fabrizio, di sopravvivere attraverso il nipote Tancredi (nel film questi appare per la prima volta riflesso nello specchio dove Fabrizio 12
C. d’Amico, Un leone infastidito dalle mosche, «bianco e nero», nn. 576-577, maggiodicembre 2013, p. 27. 13 Visconti, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, cit., p. 26. È interessante ricordare una lettera di Palmiro Togliatti a Visconti in cui il segretario del PCI esortava il regista a non apportare tagli alla scena, la cui lunghezza permetteva all’opera di assumere «quel carattere ossessivo che è proprio delle grandi creazioni artistiche» (La lettera di Togliatti a Visconti è riprodotta in C. d’Amico, Album Visconti, citata in L. De Giusti, La transizione di Visconti, in G. De Vincenti, Storia del cinema italiano, vol. X, 1960/1964, Venezia, Marsilio, 2001, p. 77). Cfr. anche P. Spila, Quell’Ossessione che piacque anche a Togliatti, «bianco e nero», cit., pp. 65-67.
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si guarda per farsi la barba), quella di impedire la fine del suo mondo e infine – l’illusione di Chevalley – quella dell’avvento di un mondo migliore. Fin dall’inizio del «capitolo» l’imponente figura del principe di Salina appare isolata dal contesto. Fabrizio è stanco, accaldato: si accascia su una sedia in un angolo e si asciuga il sudore. È sempre più solo, disgustato dalla folla scomposta e vociante di giovani donne che gli si accalca intorno senza degnarlo di uno sguardo (poco prima, rivolto a un invitato, indicando le ragazze, aveva esclamato: «La frequenza di questi matrimoni fra cugini non favorisce la bellezza della razza. Eccole là! Sembrano scimmiette pronte ad arrampicarsi in cima ai lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani!»). Si inoltra nella biblioteca. Tutta la scena è in penombra, come in penombra e in un’altra biblioteca, a Donnafugata, si era svolto il colloquio con Chevalley. Se lì aveva confessato, forse prima di tutto a se stesso, di non avere più illusioni, qui, di fronte al quadro di Greuze, La morte del giusto, fievolmente illuminato da candele, quasi un’offerta votiva, Fabrizio prova la acuta percezione della fine, sua e del suo mondo, e dell’inutilità di ogni tentativo: fallito quello di rivivere attraverso Tancredi, fallito quello di far rivivere il suo mondo attraverso gli innesti di una borghesia risoluta e più in sintonia con i nuovi tempi. Certo, il suo esempio – dare nuova linfa al casato mediante il matrimonio di Tancredi con Angelica – sarà presto imitato, come gli sussurra un amico. E, d’altra parte, già nel miscuglio cromatico del nero dei frac e dell’azzurro delle fasce delle uniformi dell’esercito regio è avvertibile il cambiamento. Non a caso, non appena Tancredi, che in precedenza aveva già mostrato di sapersi adattare alle mutate circostanze, abbandonando la camicia rossa per la divisa dell’esercito14, in presenza di Angelica e della cugina Concetta [Lucilla Morlacchi], ha annunziato con convinzione la prossima fucilazione di quegli elementi garibaldini che hanno disertato per raggiungere 14 Significativo il dialogo che si svolge tra Fabrizio, Tancredi e il conte Cavriaghi [Mario Girotti] la sera in cui i due ritornano per la seconda volta a Donnafugata: Fabrizio – Ma io non vi capisco, ragazzi… l’ultima volta che ci siamo visti mi pare eravate rossi come aragoste… Tancredi – Che cosa vuoi dire, zio? Fabrizio – Dico… insomma… voi altri garibaldini, non portate più la camicia rossa? Tancredi – Ma che Garibaldi e garibaldini! Lo siamo stati! Ora basta! Cavriaghi ed io, grazie al cielo, siamo ufficiali dell’esercito regolare di sua maestà, il re d’Italia. Quando l’esercito di Garibaldi si sciolse, si poteva scegliere: o ritornare a casa o restare nelle armate reali. Lui, io, come tanti altri, abbiamo deciso di entrare nell’esercito vero. Con quelli lì non si poteva stare, non è così, Cavriaghi? Cavriaghi – Mamma mia, che gentaglia! Uomini da colpi di mano! Buoni per sparacchiare e basta. Adesso siamo ufficiali sul serio. La gente non ha più paura che rubiamo le galline!
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Garibaldi («È vero, il nuovo regno ha bisogno di ordine, di legalità, di leggi. Bisogna soffocare prima di tutto qualsiasi tentativo anarchico. Niente più avventure e disordini. Anche se ciò implica metodi severi e spesso dolorosi, come la fucilazione di quegli esaltati che hanno disertato per tornare con Garibaldi»), un lungo serpente di uomini e donne, dove spiccano le fasce azzurre degli ufficiali, coinvolge nel ballo Angelica e Tancredi, lasciando sola Concetta, l’emblema della sconfitta (innamorata di Tancredi, ha dovuto arrendersi alla bellezza di Angelica), l’unica, comunque, che ricorda a Tancredi i suoi «ideali» passati: Tancredi – Mia cara, ti sbagli. Ho sempre parlato così. Comunque, queste… sono cose che non puoi capire. Concetta – Credo di capire benissimo. Ho detto che una volta tu non avresti parlato così. E questo mi basta.
C’è un momento – il ballo con Angelica – in cui Fabrizio, il vecchio leone, sembra tornare al suo antico splendore. Ma è un attimo. Sempre più stanco e avvilito Salina si aggira tra i commensali, non nascondendo una smorfia di fastidio quando è costretto a sedersi al tavolo dove il colonnello Pallavicino [Ivo Garrani] sta raccontando l’episodio del ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte: Pallavicino - Ed adesso la sinistra vuole mettermi in croce perché ho ordinato ai ragazzi in agosto di far fuoco addosso al Generale. Ma, mi dica lei, principe, cosa potevo fare di altro con gli ordini scritti che avevo addosso? Devo però confessare quando lì, all’Aspromonte, mi sono trovato davanti quelle centinaia di scamiciati, con quelle facce di fanatici incurabili alcuni, altri con le grinte dei rivoltosi di mestiere… sono stato felice che questi ordini fossero tanto aderenti a ciò che io stesso pensavo. Poi – glielo dico in confidenza – la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto a lui, a Garibaldi. Lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, che si serviva di lui per chissà quali fini, forse però voluti dalle Tuileries e da palazzo Farnese… Tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati a Marsala con lui due anni fa. Gente che credeva che si può fare l’Italia con una serie di “quarantottate”. Lui – il generale, voglio dire – questo lo sa, perché al momento del mio, ormai famoso, inginocchiamento, mi ha stretto la mano. E sa cosa mi ha detto a bassa voce? “Grazie colonnello”. Grazie di che?, gli chiedo io. Di averlo reso zoppo per tutta la vita? No… ma di avergli fatto capire e toccare con mano le smargiassate, le vigliaccherie e peggio forse di quei suoi dubbi seguaci! Fabrizio – Ma vogliate scusare, caro colonnello. Non credete voi, con tutti questi inchini, scappellate, complimenti vari di avere un poco esagerato?
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Pallavicino – No, sicuramente no. Bisognava vederlo, quel povero, grand’uomo, steso per terra, sotto un castagno, dolorante nel corpo, ma ancora più indolenzito nello spirito, Una pena! Non lo ha detto lui stesso sbarcando di nuovo in Sicilia? “Andiamo verso l’ignoto”. Era difficile resistere alla commozione. Perché d’altronde avrei dovuto resistere? Io la mano la bacio soltanto alle signore. Anche allora, principe, ho baciato la mano alla salvezza del Regno, che è anch’essa una signora, cui noi militari dobbiamo rendere omaggio.
Il colonnello Pallavicino con le sue parole ha sanzionato l’avvenuto cambiamento. Fabrizio è solo. Una lacrima gli solca il viso mentre si guarda allo specchio. Nella stanza affianco si intravedono orinali colmi di urina, mentre la festa si avvia alla fine: Tancredi va a svegliare don Calogero stravaccato sul divano, nel grande salone alcune coppie ancora ballano e nell’ingresso gli ufficiali si congedano: «Noi andiamo direttamente in caserma. Così vuole la tradizione di noi militari. Il nostro dovere lo impone. Del resto, i compiti di questa notte non sono ancora terminati», esclama il colonnello riferendosi all’imminente fucilazione. E tra la folla degli ospiti che stanno andando via intravediamo Fabrizio, che si sta annodando la sciarpa, una sciarpa bianca, che sempre più finirà con l’assomigliare a un sudario15. È l’alba. Al passaggio di un prete e di un chierichetto, che hanno portato, probabilmente, l’estrema unzione ai soldati che saranno fucilati, Fabrizio si inginocchia: «Oh stella, oh fedele stella, quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero, lontano da tutto, nella tua regione di perenne certezza?». Si odono gli spari e Sedara, in carrozza con Angelica e Tancredi, commenta: «Bell’esercito, fa sul serio! È proprio quello che ci voleva… per la Sicilia. Ora possiamo stare tranquilli!». Il film si chiudeva con l’alta figura del principe che a piedi si allontana inghiottita dall’oscurità di un vicolo. A differenza di quanto era avvenuto con Senso, dove le critiche negative provenivano in gran parte dai giornali di centro-destra ed erano per lo più dettate da motivi politici, qui perplessità – ed elogi – non erano immediatamente riconducibili a posizioni politiche. Su «Il Tempo» del 28 marzo Gian Luigi Rondi dava del film un giudizio poco lusinghiero (in parte attenuato qualche settimana dopo, il 14 aprile), parlando di «interpretazione tutta populista», con «lungaggini sparse qua e là, ma specialmente nei prolissi e quasi sempre pleonastici colloqui politici». Pur ammettendo la presenza di «belle pagine figura15
Sacchi, Visconti ha vinto una scommessa con se stesso, cit., p. 121.
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tive», «gli scompensi di un doppiaggio che reca evidenti i segni della fretta non consentono al film di raggiungere gli scopi ambiziosi che con ogni evidenza si proponeva»16. Altrettanto faceva Paolo Valmarana su «Il popolo», affermando perentorio che Il Gattopardo, dispersivo e frammentario, nonostante lo splendore di alcune sequenze, «non è un grande film»: «Se la cura che è stata posta, e con grande dispiego di mezzi, nel ricreare cornici, fosse stata posta nel rendere i valori del libro, il risultato certo sarebbe stato di assai maggior rilievo»17. Pietro Bianchi invece su «Il Giorno» individuava il principale merito del film «nell’aver cercato le radici del nostro malessere nazionale senza insistere in prevaricazioni predicatorie […] “Il Gattopardo” ha l’andamento di una vicenda dal corso fatale, è un “Via col vento” di linea italiana, più modulato, più geniale, più autentico, ma altrettanto grato allo spettatore comune di quello hollywoodiano»18. Paradossalmente, terreno di scontro diveniva il tema della fedeltà al romanzo, rinverdendo le critiche che si erano manifestate, soprattutto a sinistra, al tempo della sua pubblicazione e del suo fulmineo successo. Aggeo Savioli su «l’Unità» sottolineava come la «stretta aderenza fra il testo originale e la rappresentazione» costituissero «il fascino e i limiti» del film: «Certo Visconti ha reso palpabile la cornice dell’azione, ha mostrato al vivo i “Mille” nella battaglia di Palermo, le crudeltà dei borbonici, l’infuocata rabbia plebea che si abbatte sugli sbirri e sui gendarmi: ma tutto questo è visto, e sia pure attraverso immagini di nitida perspicuità, da un occhio già conscio del tradimento che seguirà, e dunque incapace di commuoversi dinanzi a sì vano sacrificio»19. Gli «squilibri narrativi del film», ribadiva sull’«Avanti» Mario Gallo, erano dovuti a una impostazione che non aveva preso le distanze da quella del romanzo: «Visconti non ha saputo colmare le lacune evidenti nella struttura del libro e si è dedicato con eccessivo e inutile zelo alla accurata ricostruzione dell’ambiente, alla minuziosa descrizione dei particolari, alla puntigliosa analisi del protagonista»20. Per Gaetano Carancini i meriti principali di Visconti erano costituiti invece proprio dall’essersi attenuto strettamente al libro di Tomasi di Lampedusa, comprendendone il senso più recondito. Su «La voce repubblicana» concludeva la recensione sottolineando come la «quasi identificazione 16
G. L. R., Il doloroso tramonto del principe di Salina, «Il Tempo», 28 marzo 1963. P. Valmarana, «Il Gattopardo» di Visconti, «Il popolo», 29 marzo 1963. 18 P. Bianchi, È un «Via col vento» più geniale e ben più autentico, «Il Giorno», 28 marzo 1963. 19 A. Savioli, Il Gattopardo: un dramma immerso nello spettacolo, «l’Unità», 29 marzo 1963. 20 M. Gallo, Destinato al successo il Gattopardo di Visconti, «Avanti», 29 marzo 1963. 17
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con lo scrittore» permettesse a Visconti di essere «contemporaneamente se stesso, e Tomasi di Lampedusa, e il Principe di Salina, per cui il tono da “de profundis” è diventato naturale, non viziato dal sia pur minimo sforzo per entrare nei panni di un altro». Anche se qualcosa era cambiata rispetto al romanzo, «anche se il finale è mutato, lo spirito e la costruzione della narrazione sono rimasti intatti: intatti e, nello stesso tempo, svincolati, perché il film pur rimanendo [sic!] il romanzo, è anche un’opera cinematograficamente compiuta, autonoma: perché i personaggi sono “uomini vivi: uomini vivi nelle cose, non cose per se stesse”»21. Sul «Corriere della Sera» Giovanni Grazzini scriveva che, rispetto al romanzo, Visconti aveva accentuato «la consapevole malinconia» del principe di Salina nell’assistere al «crollo di un mondo senza ritorno». Il film però andava oltre l’opera di Lampedusa. Il «tormento personale» di Fabrizio veniva inserito in «una più precisa cornice storica», rappresentando così «quella crisi del Risorgimento che per la storiografia di derivazione marxista si identifica con l’equivoco fondamentale della storia unitaria italiana». In definitiva, con Il Gattopardo Visconti continuava il «discorso cominciato da una parte con La terra trema (il risveglio della Sicilia), dall’altra con Senso (lo sfacelo morale dell’aristocrazia): due film che in certo modo vengono a sboccare nel Gattopardo come due fiumi a una foce»22. Non dissimile l’argomentazione di Maurizio Liverani su «Paese Sera». Come era successo per Viva l’Italia, il giornale di area comunista presentava un’opinione diversa da quella espressa su «l’Unità» da Savioli. Dilatando la «parte storica e sociale» del romanzo, la pellicola rispondeva, «più di tanti libri di storia», alla domanda che «ha assillato e assilla i meridionalisti siciliani, i quali si chiedono perché mai la loro terra si muova con un ritmo che è meno rapido del dovuto sulla via del progresso. Delle meditazioni sulle ragioni della storia che hanno ispirato a Lampedusa pagine assai vive, Visconti se ne serve per un’analisi critica spietata e intensa di come sono andate le cose in Sicilia quando sembrava che cambiassero in meglio e invece rimanevano come prima»23. Anche Alfredo Todisco su «La Stampa» faceva notare come Visconti avesse sottolineato ciò che nel romanzo era «molto più sfumato: l’adesione 21 G. Carancini, Il tramonto di una società in una raffinata cornice, «La voce repubblicana», 28/29 marzo 1963. 22 G. Grazzini, Il Gattopardo di Luchino Visconti non ha (troppo) tradito il romanziere, «Corriere della Sera», 28 marzo 1963. 23 M. Liverani, «Il Gattopardo» è un grande film che onora l’arte del cinema, «Paese sera», 28/29 marzo 1963.
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trasformistica dei “galantuomini” siciliani alla vittoria dei piemontesi. Il vero telaio del film è l’illustrazione di questa operazione trasformistica di cui Tancredi è il portabandiera e il teorico»24. Qualcuno infine, per concludere questa breve rassegna, pur riconoscendo che Il Gattopardo era «uno dei rari film “storici” degni del nome, cioè di quella storia che, come ci ha insegnato Croce, è sempre storia contemporanea, penetrazione del presente nel passato», pur sottolineando come, «dei famosi tre miliardi», uno in più del previsto25, «non una lira sembra sprecata. Magnificenza di esterni e di interni, e della più rara. Splendore di scenografie e di costumi. Resa cromatica superlativa. Visconti ha dato fondo al suo gusto antiquario, alla sua cultura pittorica», pur mettendo in rilievo la bravura degli interpreti, in primo luogo Burt Lancaster, con la sola esclusione dell’«inguaribile modestia dell’attrice Claudia Cardinale», ravvisava nel film un’eccessiva lunghezza, «certi tratti sordi e digressivi, sfoggi di decorativismo fine a se stesso, e, per scendere alle minuzie, risate di suono falso che fa specie non siano state sentite dall’orecchio teatrale di Visconti»26. A ravvivare la polemica arrivava su «Cinema nuovo» e su «La Stampa» un lungo articolo di Guido Aristarco che, in precedenza, all’annunzio della prossima realizzazione della pellicola, si era sbilanciato sostenendo che Visconti avrebbe dato con Il Gattopardo «un altro grande e autentico film storico»27. A film uscito, in un articolo scritto sotto forma di lettera aperta al regista, il critico sosteneva che la fedeltà al romanzo, fin «nei minimi particolari» («I veri sceneggiatori de Il Gattopardo non sono Suso Cecchi d’Amico, e Medioli e Festa Campanile, e tu stesso. L’autentico sceneggiatore del film è Lampedusa; anche i dialoghi sono suoi»), aveva impedito a Visconti di continuare il discorso iniziato con Senso: Nel film non avverto quell’ampiezza di visione storica, rispetto al romanzo, che attendevo […] Il Risorgimento fu conquista regia e non popolare, riaffermi sulla falsariga di storici quali lo Smith e di romanzieri come Pirandello e Verga, De Roberto e Lampedusa stesso. Ma senza la prospettiva storica di Senso, che del movimento oltre i limiti
24
Todisco, «Il Gattopardo» di Luchino Visconti presentato al gran pubblico di Roma, cit. Cfr. G. Piazzesi, «Il Gattopardo» è costato un miliardo in più del previsto, «Corriere della Sera», 23 marzo 1963. Nell’articolo si affacciava l’ipotesi – immediatamente smentita da Lombardo – che alla base del ridimensionamento della Titanus ci fosse l’eccessiva spesa per il film di Visconti e per Sodoma e Gomorra. 26 L. Pestelli, «Il Gattopardo» di Visconti a Torino, «La Stampa», 30 marzo 1963. 27 g.a., Il Gattopardo di Visconti, «Cinema nuovo», n. 158, luglio-agosto 1962, p. 266. 25
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metteva in rilievo, e con forza polemica e civile, anche i valori: la nuova coscienza che, nel passaggio dai “gattopardi” agli “sciacalli”, o meglio nella loro sinistra intesa, veniva attuandosi in una parte degli italiani. Qui, invece, vedi nel Risorgimento un fenomeno inutile e del tutto negativo, una completa “bancarotta”. Riapprodi cioè alla tematica de Le notti bianche, e dello stesso Lampedusa: che la natura umana è tale (e in specie quella dei siciliani) che nulla si può fare per cambiarla; metti sullo stesso piano la sconfitta contingente, di un periodo della nostra storia, e l’immobilismo inteso come condizione eterna e fatale, immutabile per principio28.
Era un giudizio dettato, probabilmente, dalla delusione di non vedere nel film alcun eroe positivo, come invece accadeva in Senso, dove, «inequivocabilmente», Visconti si schierava dalla parte del conte Ussoni, «che, aperto a una realtà veramente nuova, autentico garibaldino, non era della risma né di Salina né di Tancredi Falconeri»29. Aristarco, peraltro, non teneva conto di almeno tre aspetti: anzitutto, il diverso contesto in cui Senso e Il Gattopardo vennero prodotti. Abbiamo già rilevato come nel primo, al pari delle altre pellicole della prima metà degli anni Cinquanta, fosse presente la delusione per un’Italia che si presentava molto diversa da quella sognata, dove – è bene ricordarlo – il cinema pagava un prezzo molto alto a una censura sempre pronta a tagliare scene e sequenze che adombrassero minimamente un’esaltazione del comunismo o contravvenissero alle norme della morale cattolica30. In secondo luogo, forse ancora più di Senso, ne Il Gattopardo Visconti sottolineava quanto fosse complessa e difficile la narrazione delle vicende storiche, soprattutto quando si trattava di descrivere la percezione che i contemporanei ebbero di avvenimenti di cui furono, per lo più, spettatori non disinteressati e, talvolta, anche protagonisti. In questa prospettiva acquista grande rilievo la sequenza iniziale, che non è una semplice descrizione di Villa Salina. La ricordiamo brevemente: con un lento movimento la macchina da presa si avvicina alla villa, mentre compaiono i titoli di testa. Viene inquadrato prima il cancello, poi, il giardino con in primo piano alcune statue, successivamente l’intero edificio: si sentono delle voci che pregano. Gradualmente l’inquadratura si sofferma prima sulla terrazza, poi sui balconi 28 G. Aristarco, Il Gattopardo e il telepata, «Cinema nuovo», n. 162, marzo-aprile 1963, pp. 124-125. 29 Ivi, p. 125. 30 Cfr. U. Lisi, È accaduto nel ’54, «Cinema nuovo», n. 50, 10 gennaio 1955, pp. 9-11.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
dove le tende nascondono gli interni (nel primo, il vento, sollevando i lembi della tenda, rivela piccoli squarci della stanza): solo al terzo balcone, finalmente, possiamo accedere dentro, nel salone dove, di fronte all’altare, si sta recitando il rosario. Un lento percorso di avvicinamento ai personaggi per far capire che accedere all’«interno» degli individui, descrivere come percepiscono gli eventi e come li giudicano è difficile, così come entrare nel palazzo dei Salina, tanto più se si tratta, come nel nostro caso, di eventi (il ritrovamento in giardino del cadavere di un soldato e le prime informazioni che arrivano da Palermo) che sconvolgono antiche certezze e rituali radicati (la recita del rosario): «È la rivoluzione!», esclama padre Pirrone. Il film, insomma, sembra giocare su un doppio registro: da una parte la macchina da presa esplora e descrive «in oggettiva», come un occhio esterno e asettico, gli eventi e le reazioni delle persone a questi stessi eventi. E nello stesso tempo non rinuncia a raccontare la percezione di questi eventi «in soggettiva», identificandosi con l’occhio, «smagato» (il termine ricorre nel romanzo31), ma partecipe, del protagonista assoluto, il principe di Salina. Insomma, Visconti è contemporaneamente fuori e dentro le vicende narrate, l’analisi minuziosa si sposa alla partecipazione empatica: indaga e racconta, senza sconti, la fine di un mondo e, nello stesso tempo, partecipa al lutto per la fine di questo mondo (che poi questa percezione sia quella dei Lampedusa e dei Visconti e non quella dei baroni siciliani all’epoca dei fatti del biennio 1860-1862 è tutt’altro discorso: un film, come si è già detto, racconta prima di tutto qualcosa sull’epoca in cui viene girato). Un esempio ci è dato dal finale: attraverso le immagini, che sono quelle che vedono gli occhi di Fabrizio, «in soggettiva» noi siamo partecipi della consapevolezza di Fabrizio di aver perso. Contemporaneamente, però, il suo volto sempre più terreo – che richiama quello dello stesso Fabrizio e dei suoi familiari al loro arrivo a Donnafugata – e quella sciarpa/sudario ci danno, «in oggettiva», la dimensione della sconfitta. In terzo luogo, mentre, nella prima metà degli anni Cinquanta abbiamo visto prevalere, nelle pellicole risorgimentali, il settentrione, Il Gattopardo, al pari di Viva l’Italia e I briganti italiani, era ambientato nel meridione (l’unica eccezione era rappresentata da Vanina Vanini). Con il passare di un decennio, insomma, la questione meridionale 31 «Non nego che alcuni siciliani, trasportati fuori dall’isola, possano riuscire a smagarsi», afferma Salina nel colloquio con Chevalley (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 235).
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
veniva avvertita, in presenza di un flusso migratorio da sud verso nord sempre più accentuato (e non dimentichiamo che poco prima Visconti aveva girato Rocco e i suoi fratelli), sempre più come la vera questione nazionale, che minacciava di corrodere alla base «le magnifiche sorti e progressive» dell’Italia del miracolo economico. Il Gattopardo era – almeno fino agli anni Sessanta – l’unico film che si poneva simili interrogativi (cui, peraltro, avevano appena accennato Il brigante di Tacca del Lupo e I briganti Italiani), mentre Viva l’Italia sorvolava sulla questione non potendo, per ovvi motivi, inficiare l’entusiasmo per il centenario (a parte un piccolo cenno quando un gruppo di garibaldini va a vedere il tempio di Segesta e uno di loro esclama: «Ma è possibile che gente capace di tanta grandezza si sia ridotta in tanta miseria!»). E qui Visconti – un aspetto che sfuggiva ad Aristarco – non veniva meno alla sua impostazione democratica e progressista, sottolineando non solo il ruolo ormai superato dell’aristocrazia siciliana (la sequenza dell’arrivo a Donnafugata della famiglia Salina, con quei volti quasi cadaverici per la polvere del viaggio, lo stato di abbandono delle stanze della villa in cui si inoltrano Tancredi e Angelica con la polvere che ricopre mobili fatiscenti e armadi cigolanti, dà immediatamente e visivamente l’idea di un’aristocrazia ormai decrepita e fuori dal mondo, come spiega, d’altronde, in modo altrettanto efficace, la risposta di padre Pirrone a un contadino che, in una sosta del viaggio di trasferimento a Donnafugata, gli ha chiesto cosa dicano i signori «di questo fuoco grande»32), ma anche, come in Senso, il «tradimento» operato dai fautori delle istanze unitarie che avevano portato avanti – sono parole dello stesso regista nel già citato colloquio con Antonello Trombadori – «il “nuovo” servendosi unicamente degli strumenti più menzogneri e deprimenti del “vecchio”: la malafede, la sopraffazione, l’inganno»33. In questo senso, l’annullamento del voto di don Ciccio Tumeo faceva tutt’uno con il discorso del colonnello Pallavicino, con la fucilazione
32 «Vedete, i signori, come dite voi, non sono facili a capirsi. Loro vivono in un universo particolare, che è stato creato non direttamente da Dio, ma… da loro stessi, durante secoli e secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie, di gioie loro. Loro si turbano, si allietano per cose delle quali a voi, a me, non importa un bel niente, ma che per loro sono vitali. Non voglio dire che i signori siano cattivi, tutt’altro! Sono… sono… differenti. Loro non badano a certe cose che per noi altri sono molto importanti… e magari hanno dei timori che noi ignoriamo. Il principe Salina, per esempio. Eh per lui sarebbe un dramma dover rinunciare alla villeggiatura a Donnafugata, dove stiamo andando. Ma, se uno gli chiede che cosa ne pensa della rivoluzione, lui dice che non c’è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima!». 33 Visconti, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, cit., p. 29.
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dei garibaldini che avevano disertato (episodio assente nel libro), con la «doppiezza» di Tancredi:
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Ti sei mai chiesto, leggendo ”Il Gattopardo”, se un uomo come Tancredi avrebbe un giorno potuto dire di sì non solo alla repressione dei moti del ’96, ma addirittura al fascismo? Io mi sono posta questa domanda, e debbo dire che il barlume che Lampedusa getta in direzione di una risposta affermativa mi ha profondamente scosso. Il personaggio di Tancredi lo ho seguito durante tutto il film sotto questa luce sconcertante e contraddittoria34.
Come dire: l’aristocrazia aveva sicuramente le sue colpe, ma la borghesia – che nei mesi in cui si girava Il Gattopardo stava celebrando se stessa e le sue capacità di avere realizzato «una nazione» – poteva esserne considerata esente? La risposta di Visconti era tutta contenuta all’interno del colloquio tra Salina e Chevalley. Al secondo convinto che la «nostra efficiente, moderna e agile organizzazione cambierà ogni cosa», Fabrizio risponde capovolgendo letteralmente l’affermazione di Tancredi («Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi!») che aveva fatto sua: «E dopo forse tutto sarà diverso, ma sarà peggiore! Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene». Qui Visconti va oltre Rocco e i suoi fratelli, la pellicola del 1960 incentrata sul tema del difficile incontro tra la tradizionale cultura contadina del Sud e quella industriale e moderna del Nord che aveva suscitato l’entusiasmo della sinistra comunista e dello stesso Aristarco il quale nel personaggio di Ciro aveva visto il messaggio di progresso lanciato da Visconti. Certo, Visconti non aveva «ricette» (compito, d’altra parte, che non tocca al cinema, ma alla politica: e questo sfuggiva ad Aristarco, convinto che il cinema potesse realmente incidere sulla realtà). Visconti si limitava a denunciare, con l’occhio disincantato, «smagato», di Salina, le ombre del processo di unificazione che gravavano ancora sul presente. Nel far questo Visconti finiva con l’iniziare una linea, avallata come già si è visto dal “principe” dei critici marxisti, Guido Aristarco, che troverà accoglienza soprattutto nella cinematografia risorgimentale, comunque estremamente scarsa: dagli anni Settanta in poi (comprendendo anche le pellicole sulla Roma papalina di Magni) fino al Noi credevamo di Mario Martone del 2011 non arriviamo a più di una dozzina di film). Una visione che vedeva il Risorgimento come conquista 34
Ibid.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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regia piemontese e come tradimento di quelle istanze democratiche patrimonio soprattutto di mazziniani e garibaldini: linea che troverà paradossalmente spazio in tempi più recenti nelle posizioni dei neoborbonici e in quelle di gruppi politici che la curveranno secondo le esigenze del momento e per meri scopi propagandistici. Non rientra nei fini di questo lavoro approfondire tale discorso. Sottolineiamo solo che questa impostazione, al pari di quella più celebrativa di Rossellini, avrebbe impedito di fatto che il Risorgimento potesse assurgere, al pari del western americano, a epopea di un intero Paese35. Poteva esserlo la Resistenza?
35
Cfr. P. Iaccio, a cura di, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini, Napoli, Liguori, 2001, pp. 19ss.
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IL SECONDO RISORGIMENTO Di film sull’8 settembre, nell’ultima stagione se n’è avuta una fioritura. Belli o tirati via, non ha importanza. Importante è che il cinema italiano, a quindici anni di distanza dalla “cronaca” cui attinsero i capolavori della sua rinascita, abbia riaperto davanti ai nostri occhi, pagine di una “storia” della quale fummo interpreti e testimoni. E che troppo spesso nei tre lustri di poi, si preferì dimenticare. Episodi che vivemmo, o che allora avevamo ignorato, adesso ci sorprendono. Ci esaltano, ci inorridiscono, ci commuovono, ci costringono a meditare. E per le nuove generazioni, tante pagine di western e di edificazione. Un’Italia, a volte per noi stessi incredibile, che dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, visse il suo secondo Risorgimento1.
Così Vasco Pratolini in L’ammuina, il soggetto da cui Nanni Loy trasse il film Le quattro giornate di Napoli. Si è detto come la Mostra Italia 61 avesse evidenziato il collegamento tra Risorgimento e Resistenza. L’immagine di quest’ultima come «secondo Risorgimento» era nata molti anni prima, quasi a ridosso della fine della guerra. Era un modo per rimuovere la drammatica lacerazione del biennio 1943-19452. Nel marzo 1952 il primo numero della rivista dell’ANPI, 1 V. Pratolini, L’ammuina, a cura di M.C. Papini, Firenze, Firenze University Press, 2017, p. 33. Il soggetto del film è conservato presso l’Archivio contemporaneo «Alessandro Bonsanti» di Firenze ed è stato curato e pubblicato da Maria Carla Papini. Il titolo, L’ammuina, viene concepito dallo stesso Pratolini. Alla fine della Premessa spiega che la data di partenza del film è l’8 settembre: «in tempo di pace, non è un giorno come gli altro. È il giorno della natività di Maria Santissima; è il giorno di Piedigrotta […] E dalla Vergine si cerca protezione, se ne impetra il soccorso. “Scampaci dalle bombe. Dacci pace e salute”. In questo e in quel quartiere, la gente porta in processione per i vicoli, tra le macerie, il ritratto o la statua della Madonna. È da questo punto, le tre dopo Mezzogiorno dell’8 settembre 1943, che incomincia la storia di QUANDO GENNARO RITROVÒ LA MADRE ovvero L’AMMUINA» (ivi, p. 34). 2 L’espressione era nata – ricorda Gianpasquale Santomassimo – in una mostra tenutasi a Milano nel 1946 sul «primo e secondo Risorgimento» (citato da P. Cooke, La Resistenza come “secondo Risorgimento”: un topos retorico senza fine?, in A. Agosti, C. Colombini, a cura di, Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria, Torino, Seb 27, 2012, pp. 61-62.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
«Patria indipendente», già nella testata faceva riferimento al Risorgimento. Nel terzo congresso nazionale dell’Associazione, tenutosi a Roma nel giugno del 1952 e caratterizzato dallo slogan «Per l’onore e l’indipendenza della patria», il collegamento era ancora più esplicito. Il documento politico ribadiva la necessità dell’unità di tutte le forze che avevano contribuito al successo della Resistenza. Solo così – concludeva – sarebbe stato possibile mantenere viva «la fiamma ideale del I e del II Risorgimento»3. Nel 1955, in occasione del decennale del 25 aprile, l’Istituto Poligrafico dello Stato pubblicava una raccolta di saggi intitolata significativamente Il secondo Risorgimento. Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia (1945-1955). Nel volume di quasi 500 pagine non vi era traccia della presenza social-comunista nella Resistenza, né si accennava alla visione di classe propria di alcune formazioni partigiane4. Nello stesso anno usciva, in contrapposizione al volume “ufficiale”, un libro edito da una casa editrice di sinistra, Il secondo Risorgimento d’Italia, con in copertina la figura di un «partigiano decisamente rosso» disegnato da Guttuso. Il titolo confermava quanto la dizione «secondo Risorgimento» si rivestisse di significati molto diversi5. Nel 1961 la ricorrenza del 25 aprile fu celebrata con grande enfasi costituendo l’occasione per rinsaldare e pubblicizzare il nesso Risorgimento-Resistenza. Un aspetto particolarmente evidente – e non sarebbe potuto essere altrimenti – nella manifestazione tenutasi a Torino. Il sindaco Peyron metteva in luce il «collegamento ideale e storico fra i due Risorgimenti»: «Come esaltiamo la gloria della storia passata, esaltiamo quello della Resistenza che, per quanto recenti, sono anch’esse affidate alla storia del nostro Paese». Il legame veniva ulteriormente enfatizzato dall’altro oratore, Sandro Pertini, comandante delle formazioni partigiane intitolate a Giacomo Matteotti, all’epoca deputato socialista: «Il nostro ricordo deve riandare non soltanto alle lotte della Resistenza: oggi nel centenario dell’unificazione d’Italia, in questa città culla del movimento per l’indipendenza della Patria, che rappresenta una meravigliosa sintesi del primo e del secondo Risorgimento, dobbiamo ricordare anche le lotte condotte dai nostri padri per la libertà e l’onore del popolo italiano». Attorno alla bandiera italiana – sottolineava – c’erano sia i morti del Risorgimento (i 300 di Sapri, 3 P. Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra ad oggi, Roma, Viella, 2015, pp. 108-109. 4 S. Peli, Le stagioni de dibattito storiografico sulla Resistenza, in Agosti, Colombini, Resistenza e autobiografia della nazione, cit., p. 27. 5 Cooke, La Resistenza come “secondo Risorgimento”: un topos retorico senza fine?, cit., p. 72.
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i mille di Novara, quelli di Custoza, di San Martino e Solferino, di Curtatone e Montanara, di Belfiore, di Mentana), sia i caduti nella lotta contro il fascismo e il nazismo (Matteotti, Gramsci, don Minzoni, Amendola, Gobetti, i 300 trucidati delle fosse Ardeatine, i massacrati di Marzabotto, quelli sterminati nei campi di concentramento, «accanto a Sciesa, Montanari, Calvi, Menotti, sono Bevilacqua e Giambone, Perotti, Balbis, Braccini, Galimberti; con i fratelli Bandiera i fratelli Cervi»: Non vi è soluzione di continuità fra la storia recente e quella di allora: la stessa fede, gli stessi ideali, lo stesso amore per la Patria mossero i nostri padri ed i patrioti e partigiani artefici del secondo Risorgimento […] Protagonista del primo e del secondo Risorgimento fu con questi uomini il popolo che si riscattò dagli errori della dittatura fascista6.
Insomma, ancora una volta si guardava, almeno a livello di celebrazioni ufficiali, alla Resistenza come movimento “spontaneo” di tutto un popolo compatto contro i tedeschi. Eppure se questa era stata in precedenza l’immagine prevalente nel cinema, con gli anni Sessanta qualcosa iniziava a cambiare, appena intravista nel film di Maselli del 1955. Ad aprire un nuovo percorso era ancora una volta Roberto Rossellini con Il generale Della Rovere. L’Emanuele Bardone del film, seguito dal tenente Innocenzi di Tutti a casa (Comencini, 1960), dal Michele di Un giorno da leoni (Loy, 1962) (e aggiungerei anche dal Silvio Magnozzi della pellicola di Risi, Una vita difficile, con il memorabile schiaffo finale al commendatore Bracci) inaugurava una nuova serie di figure che testimoniavano il bisogno di riscattare un passato dove non erano mancate ambiguità e complicità: «C’è stato in quegli anni, sul finire dei Cinquanta e a partire dal Generale Della Rovere, – ricordava Giuliano Montaldo – un ritorno ai temi della Resistenza dopo un periodo di silenzio […] Non è stato un fenomeno di emulazione ma direi un fatto generazionale, un voler riproporre un discorso. Che il cinema degli anni Cinquanta, con l’eccezione di poche cose, era stato costretto ad abbandonare dal contesto politico e dalle sue pressioni»7. Un passato che andava riesaminato «criticamente», avrebbe confidato Rossellini a Mino Argentieri in un’intervista su «l’Unità» del 30 gennaio 1960, vedendolo «forse con minore incisività di una volta, 6 Torino esalta la sua Liberazione con rinnovato spirito risorgimentale, «Stampa Sera», 25 aprile 1961. 7 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 19601969, cit., p. 69.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
ma con maggiore coscienza delle ragioni rintracciabili al fondo degli avvenimenti vissuti»:
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Oltre tutto questa ricerca di un tempo che fu cioè imposta dalla necessità morale e civile di ricordare a chi ha dimenticato e di informare coloro i quali non sanno. In un’Italia dove rispuntano le croci uncinate, sarebbe criminoso sottrarsi alle responsabilità che attendono i democratici e quanti hanno combattuto per un mondo nuovo e migliore8.
Il soggetto de Il generale Della Rovere era tratto da un racconto di Indro Montanelli edito nel 1945 e ripubblicato dal «Corriere d’informazione» il 31 gennaio 1959. Il giornalista, imprigionato a San Vittore nel quinto braccio, quello dei detenuti politici, aveva conosciuto il generale Della Rovere. Grazie a lui era pronto ad affrontare la morte con coraggio e dignità. Il racconto si concludeva con i funerali dei 65 partigiani fucilati nel campo di concentramento di Fossoli nel 1944: Questa bara che oggi 22 maggio 1945, primo anniversario dell’eccidio, mi sta davanti nella cattedrale di Milano, non contiene il cadavere del Generale Della Rovere, è vero, ma solo quello del pregiudicato Bertoni, genovese, ladro e baro, che arrestato dai tedeschi per delitti comuni, si offerse di fare per loro la spia in carcere e ci riuscì. Che importa? Il cardinale arcivescovo ha fatto bene a benedirla con tutte le altre perché il pregiudicato Bertoni, ladro e baro, fu effettivamente il generale Della Rovere, al momento di morire, e senza dubbio era convinto, cadendo, di essere amico e collaboratore di Badoglio nonché consigliere tecnico di Alexander. Per lui una notte io fui eroe nella mia cella […] per lui chi non aveva coraggio lo trovò9.
Come si vede, Montanelli raccontava solo l’epilogo della vicenda. Successivamente, a film terminato, avrebbe scritto un romanzo (dove il cognome del protagonista diventerà Bertone) che ricalcava molto da vicino le vicende della pellicola, suscitando le proteste di Sergio Amidei, autore, insieme a Montanelli e Diego Fabbri, della sceneggiatura10. Nel film Bertoni diventava Emanuele Bardone [Vittorio De 8 Citato in G. De Santi, B. Valli, a cura di, Carlo Lizzani. Cinema, Storia e Storia del Cinema, Napoli, Liguori, 2007, p. 34. 9 I. Montanelli, Un “eroe” di Montanelli per un film di Rossellini, «Corriere d’informazione», 31 gennaio-1° febbraio 1959. 10 A Franca Faldini e a Goffredo Fofi Amidei dichiarava di aver avuto rapporti con Montanelli quando aveva effettuato un «trattamento» dall’articolo che il giornalista aveva scritto. «Poi i rapporti si sono guastati decisamente quando Montanelli ha pubblicato il romanzo Il generale Della Rovere copiando paro paro dalla sceneggiatura e scrivendo nella prefazione, che di solito la gente non legge, che lui aveva ricavato il romanzo dalla sceneggiatura, cosa che poi
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Sica], un lestofante cialtrone che, presentandosi sotto il nome di colonnello Grimaldi o ingegnere Grimaldi, estorce denaro alla famiglie di quegli italiani catturati dai tedeschi e destinati o all’internamento in Germania o alla fucilazione, promettendone la liberazione. Il denaro serve a Bardone principalmente per soddisfare la sua smodata passione per il gioco d’azzardo. Le cose funzionano fin quando Bardone non viene scoperto. Finisce così nelle mani del colonnello Müller [uno straordinario Hannes Messemer] che pensa di utilizzarne le doti di camuffamento per i suoi scopi. Bardone deve assumere l’identità di un generale badogliano, Giovanni Fortebraccio Della Rovere, che, sbarcato da un sommergibile sulla costa ligure, era stato ucciso dai tedeschi, mandando in frantumi il piano di Müller: usare il generale per arrivare a scoprire il comandante delle brigate partigiane lombarde, Fabrizio, con cui Della Rovere avrebbe dovuto incontrarsi. Bardone in passato è stato «ufficiale di cavalleria, espulso dall’esercito per debiti e malversazioni» (così inizia l’elenco dei reati commessi da Bardone e letti da Müller). Da qui l’idea del colonnello di usare Bardone nel ruolo del falso generale Della Rovere e farlo imprigionare nel braccio dei detenuti politici a S. Vittore, dove probabilmente c’è anche Fabrizio. D’altra parte, in passato Bardone ha sempre mostrato di trovarsi a suo agio nei panni di militare. A uno sbigottito Müller Valeria [Giovanna Ralli], una delle tante amanti del protagonista, racconta come a Mondovì si era trovata a far tardi non accorgendosi del coprifuoco: una pattuglia l’aveva fermata e il «colonnello» Grimaldi era intervenuto facendo rilasciare lei e i suoi amici. Avviene però l’imprevedibile. Pian piano Bardone si immedesima nella parte del generale fino addirittura a morire fucilato, pur di non tradire i partigiani. Il film si concludeva con un attonito Müller che, stringendo in mano la fotografia della moglie e dei figli del vero Della Rovere sul cui retro Bardone ha annotato «Il mio ultimo pensiero è per voi. Viva l’Italia», ripete, rivolto al tenente che gli fa notare che si sono sbagliati, fucilando undici prigionieri anziché dieci (come prevede la rappresaglia per l’uccisione del federale di Milano), prima in italiano e poi in tedesco: «Io, mi sono sbagliato, tenente! Io!».
è scomparsa nelle altre edizioni e nelle edizioni straniere […] Mi pareva strano che una persona come Montanelli avesse questa libidine di poter scrivere un romanzo, ma forse ce l’aveva proprio perché non ne è capace. Allora mi sono limitato a non incontrarlo più. La gente che si comporta così mi fa vergognare al posto loro» (F. Faldini, G. Fofi, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 398).
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Il film fu girato a tempo di record per poter essere presentato (era la condizione messa dal produttore Moris Ergas) alla XX Mostra di Venezia. Montato e doppiato in soli 56 giorni con ritmi di lavoro impressionanti11, smentiva la leggenda di un Rossellini «abituato ormai a trascinare a rilento il suo lavoro, spaziando le riprese attraverso le settimane e imprimendo a tutto il suo stile di attività un carattere estroso e saltuario»12. Il regista romano si era rivelato – annotava Mario Gromo su «La Stampa» – «come il più scrupoloso e il più metodico degli artigiani. Evidentemente, Robbe’, non ha ancora finito di sorprenderci»13. La presenza alla Mostra era stata preceduta da varie polemiche che riguardavano principalmente tre film selezionati senza che fosse stato completato il montaggio: i due che avrebbero vinto ex aequo il Leone d’oro, Il generale Della Rovere e La Grande Guerra di Monicelli, ed Esterina di Carlo Lizzani14. A suscitarle era stato un telegramma dei produttori Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi che avanzavano «ampie riserve sulla regolarità della XX Mostra del Cinema e sulla sua premiazione finale», minacciando persino azioni legali. L’accusa si riferiva anzitutto alla mancata visione dei due film da parte della commissione selezionatrice, composta da Floris Ammannati, Gaetano Carancini, Ernesto Laura e Mario Verdone: le pellicole infatti 11 Angelo Nizza su «La Stampa» sottolineava come il film fosse stato girato di seguito, secondo l’ordine del racconto, «con la sceneggiatura a seguire. Il regista ha così finito la prima parte del film prima di attaccare la seconda». Rossellini non si era risparmiato, girando per otto ore al giorno e montando i pezzi alla moviola per cinque o sei ore: «Questo sforzo, già di per sé notevole, è stato ancora maggiore nelle due ultime settimane, durante le quali Rossellini ha lavorato ininterrottamente ogni giorno dalle 14 alle 24, per poi chiudersi in sala di montaggio per il resto della notte. Una inquadratura seguiva all’altra, senza interruzioni. Gli attori – da De Sica a Sandra Milo e a Hannes Messemer – erano letteralmente prostrati dal caldo e dallo sforzo che veniva loro richiesto di continuo, ma il regista non mollava. Il suo ritmo era intenso come quello che impiegano i giovanissimi della nouvelle vague. I dialoghi venivano registrati in presa diretta quasi al completo, di modo che, in sede di doppiaggio, solo il 40 per cento di essi obbligò a rifacimenti e messa a punto della colonna. Eppure talune sequenze girate a questo ritmo, sono a detta di coloro che hanno visto i “pezzi” montati, degne del miglior Rossellini» (A. Nizza, Rossellini ha battuto ogni primato per non mancare all’appuntamento con Venezia, «la Stampa», 25 agosto 1959). Cfr. anche A. C., Pronto per Venezia Il gen. Della Rovere?, «Corriere d’informazione», 31 luglio 1959 e Un sommergibile a Rossellini per il «Generale Della Rovere», «Corriere della Sera», 2 agosto 1959, dove si sottolineava come la concessione da parte del Ministero della Difesa di un sommergibile per realizzare alcune sequenze iniziali del film avesse concluso le difficoltà burocratiche di una pellicola girata a «ritmo di record» e in via di realizzazione. 12 Nizza, Rossellini ha battuto ogni primato, cit. 13 M. Gromo, Ha ottenuto vivissimo successo il nuovo film di Roberto Rossellini, «La Stampa», 31 agosto 1959 14 Si inaspriscono le polemiche per la scelta fatta a Venezia, «Corriere d’informazione», 3-4 agosto 1959.
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erano ancora in fase di montaggio al momento della scelta dei film. In secondo luogo i produttori si lamentavano del mancato inserimento de I magliari di Francesco Rosi. Un’assenza – insinuavano – causata dal Leone d’argento conferito a Rosi l’anno precedente. La Direzione della Mostra reagiva prontamente sostenendo la liceità delle scelte della Commissione secondo l’articolo 24 del regolamento che lasciava ampia libertà di scelta ai selezionatori, tenuti, peraltro, al segreto, per cui quella che veniva considerata un’esclusione, I magliari, era semplicemente un’illazione destituita di qualunque fondamento: «Eventuali anticipazioni e precisioni della stampa in ordine ai film presentati riguardano solo la fonte che li ha pubblicati e non infirmano minimamente né il giudizio né la riservatezza dei lavori dello Commissione di selezione»15. Qualche giorno dopo, comunque, Lombardo e Cristaldi rinunciavano ad ogni azione legale nei confronti della Mostra16. La settimana successiva la Mostra premiava con il Leone d’oro, conferito ex aequo, proprio due dei tre film “incriminati”: Il generale Della Rovere e La Grande Guerra. Tra i critici qualcuno non gradì la “divisione”. «Verdetto all’italiana. Trionfo del compromesso. Il “Leone d’oro”, che credevamo uno e indivisibile, è stato diviso in due parti – annotava risentito Giovanni Mosca sul «Corriere d’informazione» – sottolineando che il premio era «troppo poco» per il film di Rossellini, «troppo» per quello di Monicelli: Un’opera nobile il primo, un film di cassetta il secondo, il quale, poi, oltretutto, deve i calorosi applausi che ha riscosso allo spappolamento morale di questo nostro Paese che sembra si diverta a veder avvilito e messo in ridicolo quanto d’onore e di gloria i nostri padri hanno messo insieme […] E poi dicono che l’Italia è un paese che geme sotto la censura! È il Paese, invece, più libero del mondo. È il Paese dove per dare una cornice alle battute dialettali della coppia Sordi-Gassman si può impunemente adoperare il sacrificio di seicentomila morti […]… permettetemi di ripetere di non aver mai visto un “ex aequo” così poco equo e, soprattutto, così inopportuno. Ma come! Si va affermando nel mondo, così ben lanciata dai francesi, la “nouvelle vague” e noi che, in Rossellini, ne abbiamo l’ispiratore e il maestro, non cogliamo il destro che il suo bellissimo film ci offre di consacrare con il “Leone d’oro” un primato tutto italiano?17. 15 A. Nizza, S’è scatenata una polemica sui film italiani a Venezia, «La Stampa», 3 agosto 1959. 16 Cfr. Nessuna azione legale contro la Mostra di Venezia, «Corriere della Sera», 7 agosto 1959. 17 Mosca, Premiato a Venezia il cinema italiano, «Corriere d’informazione», 7-8 settembre 1959.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Mosca si era schierato, fin dalla prima visione, a favore della pellicola di Rossellini. Il suo articolo iniziava esprimendo non un «giudizio», ma «il piacere, la gioia che il trionfo di Rossellini ha procurato a me e a quanti s’entusiasmano delle vittorie dell’intelligenza e dell’arte»18. Un giudizio abbastanza diverso da quello che esprimeva il suo collega del giornale “parallelo”. Sul «Corriere della Sera» Arturo Lanocita, pur annotando che il film era «eccellente», non poteva fare a meno di sottolineare come gli ultimi dieci minuti fossero «uno sbaglio»: «Qui c’è esorbitanza, gonfiezza, soprattutto c’è dannoso distacco dalla linearità austera del film; e c’è anche con quel commosso biglietto di saluto finale alla famiglia del vero Della Rovere, un miscuglio di finzione e di sincerità inimmaginabile nel momento estremo. Ripetiamo, in coscienza, che, pur con queste riserve, il film di Rossellini è da giudicare ottimo. Ma con queste riserve»19. Lanocita, inoltre, a differenza di Mosca condivideva la decisione della giuria sulla divisione del premio: «non c’è motivo di scandalo; esistevano ragioni valide per preferire l’opera di Rossellini, sul piano dell’arte, e altre valide in vantaggio di quella di Monicelli, sul piano dello spettacolo»20. D’accordo con la decisione della giuria anche Ezio Muzii che su «l’Unità» sottolineava come questa, assegnando il premio a Rossellini e a Monicelli, avesse voluto indicare «una linea di possibile rinascita del cinema italiano. Una linea contraddistinta dal ritorno a temi che investono, seppur indirettamente, la coscienza civile e che rompono con il monotono e squallido paradigma della commedia dialettale»21. Era questo, d’altra parte, il leit motiv del quotidiano comunista, che salutava con grande entusiasmo il ritorno di Rossellini a un cinema di impegno civile. La «decadenza» del regista romano dipendeva – scriveva Ugo Casiraghi – «essenzialmente dal suo progressivo allontanarsi dai temi storici della vita nazionale». Rossellini «ha ripreso contatto con la “sua” Italia, con la “nostra” Italia, con la tragedia dell’occupazione, con la devastazione della guerra, con il sacrificio e la virilità della Resistenza […] Non un capolavoro […] ma un film nobile, serio, elevato…»22. Certo, a distanza di quindici 18 Mosca, Ritorna e trionfa il miglior Rossellini, «Corriere d’informazione», 31 agosto-1° settembre 1959. 19 A. Lanocita, Il “Generale Della Rovere” di Rossellini ha risollevato il tono della rassegna, «Corriere della Sera», 1° settembre 1959. 20 A. Lanocita, Si è risvegliato il cinema italiano, «Corriere della Sera», 8 settembre 1959. 21 e.m., Il generale Della Rovere, «l’Unità», 8 ottobre 1959. 22 U. Casiraghi, Grande ritorno di Rossellini con “Il generale della Rovere”, «l’Unità», 31 agosto 1959.
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anni da Roma città aperta era cambiato tutto, «anche il paesaggio»: «Non si trattava più di captare, ma di ricostruire; non più di cogliere sul fatto la verità, ma di rievocarla. Ecco, quindi, il teatro di posa in luogo del teatro delle operazioni; ecco frammenti di città, in luogo di una città…»23. Un mese dopo, a ottobre, il film arrivava nelle sale, riscuotendo un notevole successo (non mancarono alcuni incidenti provocati da elementi neo-fascisti24). Sul «Corriere d’informazione» Mosca attenuava il giudizio di Venezia, adeguandosi sostanzialmente alle riserve di Lanocita. Il generale Della Rovere, scriveva, era «un film «perfetto; nella seconda penetra, attraverso piccole crepe, un po’ di pericolosa retorica e l’eroe non muore proprio così sommessamente come sarebbe dovuto morire il vero generale Della Rovere»25. Dal canto suo, Lanocita riaffermava quanto scritto a Venezia: «Accettare il sacrificio era giusto, per l’eroe di Rossellini e De Sica, urlare scompostamente per reclamarlo è aberrante. Volendo significare una morte gloriosa si è narrata una morte da melodramma, cioè falsa»26. Torneremo fra poco su queste affermazioni. Aggiungiamo che nel frattempo il successo del film risvegliava la curiosità dei giornalisti. Si moltiplicavano gli articoli sulla storia del «vero» Giovanni Bertoni27 e qualcuno arrivava ad affermare che Bertoni era ancora vivo dal momento che contro di lui erano stati spiccati due mandati di carcerazione nel 1949 e nel 195028. Venivano rintracciate a Milano la moglie e la figlia29 che, qualche tempo dopo, chiedevano il sequestro del film perché la pellicola offendeva la memoria del loro congiunto30. La vertenza si risolveva in tempi brevi: il tribunale 23
Ibid. Cfr. Incidenti alla proiezione del film “Generale Della Rovere”, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1959; Ancora disturbata la proiezione del film “Il generale Della Rovere”, «Corriere della Sera», 10 ottobre 1959. 25 Mosca, Le prime del cinema, «Corriere d’informazione», 4-5 novembre 1959. 26 lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 4 novembre 1959. 27 A Trieste ricordano il “generale Della Rovere”, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1959. 28 È ancora vivo il presunto generale Della Rovere?, «Corriere d’informazione», 22-23 ottobre 1959. 29 Rintracciate la moglie e la figlia del generale Della Rovere di S. Vittore, «Corriere d’informazione», 23-24 ottobre 1959. 30 Si discute il sequestro del “Generale Della Rovere”, «Corriere d’informazione», 18-19 novembre 1959; I film del “Leone d’oro” motivo di due vertenze civili, «Corriere della Sera», 27 novembre 1959. In questo secondo articolo si dava notizia della richiesta di sequestro anche per La Grande Guerra: a chiederlo Giovanni Busacca, un organizzatore di incontri di pugilato, che chiedeva venisse tolta l’omonimia con uno dei protagonisti del film, Giovanni Busacca, interpretato da Vittorio Gassman. 24
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
stabiliva che vicenda e dialoghi non potevano essere considerati lesivi della dignità del Bertoni. D’altra parte, le due donne rinunciavano a proseguire nell’azione giudiziaria31. Torniamo al film di Rossellini. Abbiamo visto come Bardone accetti la “parte” propostagli da Müller e inizi la sua “commedia”. D’altra parte, il film è molto teatrale. Bardone recita: il suo essere un attore che impersona un personaggio è accentuato dalla scenografia. Rossellini, infatti, anche per contenere i tempi di lavorazione, vista la necessità di completare la pellicola per la Mostra di Venezia, ricostruisce quasi tutto in studio. L’aveva già fatto, in alcune sequenze dei film precedenti, ma qui, a differenza del passato, accentua – come è stato giustamente notato – «il carattere di ricostruzione artificiale dello spazio»32. La falsità delle scenografie è palese fin dalle prime sequenze, in quell’incontro casuale tra Müller e Bardone, che si presenta come ingegnere Grimaldi. Rossellini ricostruisce gli esterni in studio, sottolineandone la inattendibilità, persino nell’ultima sequenza, quella della fucilazione che si svolge davanti a un muro sul quale sono disegnati i profili di alcune città italiane. Si accentua ancora di più la sensazione di una recita: il muro sembra un fondale davanti al quale gli attori si esibiscono, pronti a riscuotere l’applauso finale del pubblico (tra l’altro, nell’edizione del film che è circolata, Rossellini tagliò la scena in cui Bardone/Della Rovere nell’ora d’aria vedeva un prigioniero dipingere il muro33). Parallelamente, Rossellini diminuisce la sensazione di falsità nelle sequenze degli interni, come ad esempio nel braccio di S. Vittore interamente ricostruito. Un gioco continuo tra verità e finzione, insomma, come tra verità e finzione si muove il personaggio principale, interpretato da quel Vittorio De Sica che già in passato aveva rappresentato personaggi duplici (il giornalaio Gianni e il conte Max Varaldo in Il signor Max di Camerini): peraltro un gioco di rinvii continui anche tra l’attore De Sica e il personaggio Bardone, prima fra tutti la passione per il gioco d’azzardo che accomuna entrambi34. Un continuo oscillare tra verità e finzione che probabilmente sfuggì ai critici dell’epoca: si pensi a quanto scriveva Lanocita sulla scena della fucilazione o alle affermazione di Casiraghi sulla necessità di rievocare quella verità che in Roma città aperta era invece colta sul fatto. Rossellini voleva il melodramma perché la morte in scena 31
«Il generale Della Rovere» non verrà sequestrato, «Corriere della Sera», 23 dicembre 1959. Aprà, in viaggio con Rossellini, cit., p. 208. 33 Aprà, Rossellini: bilanci, prove tecniche, progetti, cit., p. 60. 34 Aprà, in viaggio con Rossellini, cit., pp. 212-213. 32
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nel melodramma è quanto di più artificioso esista ma nel contempo permette di mostrare una gamma di sentimenti che altrimenti non troverebbe spazio. Insomma, nel 1959 la Resistenza tornava sugli schermi in una veste se si vuole più dimessa (come suggeriva Rossellini nell’intervista prima citata), ma con maggiore attenzione sia ai percorsi di adesione alla lotta antifascista, non più immediati e “naturali” come era accaduto in precedenza, ma incerti, ambigui, addirittura “falsi” (anche se poi, successivamente, la menzogna diventava verità), sia alle ragioni per cui la grande maggioranza degli italiani era stata, se non complice, vicina e contigua, magari anche soltanto con il silenzio, al fascismo, come, con grande sincerità, quasi una sorta di auto-confessione, Rossellini sottolineava nel finale del film. È la notte che precede la fucilazione dei condannati. Uno dei prigionieri si lamenta: non ha «fatto niente, niente!», esclama, subito redarguito da tutti gli altri: Scalise - Gliene frega assai di noi, al signor generale! Ma ancora non l’avete capito? Lui è un eroe! È per colpa sua che noi siamo qui e di quelli che come voi han la mania di fare l’eroe. Potevate starvene tranquilli! Ma no! Loro, no! Come se dipendesse da loro!- Ma che vi credevate di fare buttando quattro bombe e ammazzando due tedeschi! Credevate di vincere la guerra? Ma io non c’entro. Io non ho fatto niente! Per un generale fare l’eroe è il suo mestiere. Lo pagavano per questo! […] Un ebreo – Neanche noi abbiamo fatto niente! Scalise – Ma voi siete ebrei! […] Fabrizio - Si calmi signor Scalise, vede, lei si agita, lei grida “Io non ho fatto niente” […] È proprio questo il suo torto, di non aver fatto niente. Mi scusi, perché non ha fatto niente? Da cinque anni il mondo è in guerra, milioni di uomini sono morti, centinaia di città sono state rase al suolo e lei non ha fatto niente! Bisognava fare qualcosa, bisognava stare da una parte o dall’altra, con gli uni o con gli altri, ma lei non poteva pensare di stare in mezzo al macello e pensare di non fare niente o meglio pensare di fare gli affari suoi, perché lei mi ha detto che ha fatto degli affari e anche dei buoni affari, mentre gli altri si scannavano. Troppo comodo! […] Scalise - Perché, lei che cosa ha fatto? Fabrizio - Poco, ma spero di aver fatto il mio dovere, perché questo solo conta: fare il proprio dovere, qualunque cosa accada. Se tutti l’avessero fatto, forse non ci troveremmo qui dentro!
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Bardone, come si è detto, morirà eroicamente, gridando Viva l’Italia. Non è più lui: è il generale Della Rovere che parla e agisce. La trasformazione avviene lentamente: dal Bardone iniziale, un uomo col vizio del gioco, che vive truffando le persone e rimanendo indifferente alle tragedie che gli accadono intorno, come se per lui la guerra non fosse altro che una situazione dalla quale poter trarre vantaggio per i bisogni personali, dal cialtrone che, dopo essersi presentato al colonnello Müller come napoletano, tiene a precisare, dopo l’ironica allusione di Müller alla cacciata dei tedeschi da Napoli, di essere «di Sora» (come De Sica, del resto) e di sentirsi più romano che napoletano, si passa gradatamente al generale Della Rovere che incita, sotto un bombardamento alleato, gli altri prigionieri ad avere coraggio: «Amici, vi parla il generale Della Rovere! Calma! Dignità! Contegno! […] Dimostrate a queste canaglie che non temete la morte! […] Ognuna di queste bombe che cade avvicina la loro fine, il nostro riscatto!». È un percorso lungo, tortuoso, a volte ambiguo, ben diverso da quello che lo stesso Rossellini aveva disegnato quattordici anni prima. Si pensi all’invettiva di Bardone di fronte al corpo martoriato del tipografo Banchelli [Vittorio Caprioli] – «Maledetti! Maledetti! […] Perché non hai parlato? Non è giusto! Ma perché devi pagare tu per un altro?» – che è una citazione rovesciata di Roma città aperta: lì don Pietro, in certo senso, si rasserenava di fronte a un Manfredi che, nonostante le torture, non aveva parlato. E ancora, quando avviene il riconoscimento tra Fabrizio e Bardone, nel colloquio tra i due è presente, ancora una volta, il ricordo di Roma città aperta: lì Francesco rassicura Pina: «… lo vedremo un mondo migliore! E soprattutto lo vedranno i nostri figli! Marcello e… e lui: quello che aspettiamo. Per questo non devi aver paura mai, Pina… qualunque cosa succeda». Qui, Fabrizio confessa di essere un semplice impiegato di banca che si è trovato a comandare migliaia di uomini: «Quello che mi ha dato la forza è stato credere di combattere per un mondo migliore. Lo vedremo? Lo vedranno gli altri? Io credo di si!». Le certezze di Francesco si sono notevolmente attenuate! Cambia anche la rappresentazione dei tedeschi. Quanto è lontano Müller dal Bergmann di Roma città aperta o dall’ufficiale tedesco dell’ultimo episodio di Paisà che arriva, nel suo delirante discorso, ad affermare che con la guerra il popolo tedesco vuole costruire una «nuova civiltà» che durerà più di mille anni e che pertanto bisogna «distruggere tutto il passato»: «E noi tedeschi lo distruggeremo! L’abbiamo promesso al mondo. È la nostra missione». Certo, in Roma città
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aperta il maggiore Hartmann confessava i suoi dubbi sulla superiorità della razza ariana:
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Hartmann - Venticinque anni fa ho comandato una compagnia in Francia. Allora ero un giovane ufficiale. Anche io credevo che noi tedeschi appartenessimo ad una razza superiore. Ma i patrioti francesi, prima di parlare, preferivano morire… Bergmann – Siete ubriaco, Hartmann! Hartmann – Già, sono ubriaco. Sì mi ubriaco ogni sera per dimenticare. E il risultato? Vedo sempre più chiaro.
Ma è ubriaco. Il giorno dopo sarà lui a comandare il plotone di soldati italiani che dovrà fucilare don Pietro e sarà sempre lui, dopo che i soldati hanno volutamente sbagliato il bersaglio, ad ammazzare il sacerdote con un colpo alla testa. Müller, invece, da sobrio non ha più certezze incrollabili. Crede nella guerra, ma iniziano ad affiorare dubbi sui metodi usati dai militari tedeschi. Con Bardone, che si è fatto sorprendere a dare, su sua indicazione per far uscire Fabrizio allo scoperto, il bigliettino a Banchelli, Müller si lamenta di dover ricorrere alla tortura per costringere il tipografo a parlare: «Sono cose che mi ripugnano». Ripeterà la stessa espressione al diretto interessato: «Banchelli, le chiedo per l’ultima volta di risparmiarmi di usare mezzi che ripugnano alla mia coscienza di soldato». Infine, tergiversa con i dirigenti fascisti sulla rappresaglia che questi chiedono ai tedeschi per l’uccisione del federale: «La guerra partigiana è una realtà, eccellenza! Le rappresaglie la inaspriscono!». Ribadirà lo stesso concetto al comando supremo, ma dovrà obbedire all’ordine: «Fa preparare una lista di venti nomi – intima all’attendente – Specifica per ognuno professione e razza. Tra essi ne sceglieremo dieci». Sono passati quattordici anni da Roma città aperta, tredici da Paisà. Rossellini ci dà un’altra rappresentazione degli ufficiali tedeschi. Quella rigidità, ben esemplificata nel modo di muoversi e di atteggiarsi di Bergmann, non esiste più. Con molta prudenza e tante cautele il regista romano metteva in luce gli aspetti umani degli ufficiali tedeschi, toccati per la prima volta dal dubbio di «avere sbagliato», come affermava Müller in chiusura del film. Infine, Il generale Della Rovere aveva il merito di accennare alla tragedia degli IMI (Internati Militari Italiani), deportati in Germania: «Poi venivo a sapere delle verità terribili: che dormivano in dieci in una cella in piedi come i cavalli, che venivano picchiato, torturati, che venivano messi in un vagone piombato per Mathausen… e… tacevo!»,
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
esclama Bardone di fronte a gran parte di quelli che ha raggirato. Furono tra i 650.000 e i 700.000 i soldati internati nei campi tedeschi: di questi ben 65.000 non fecero più ritorno. Una tragedia che nelle pellicole precedenti era stata accennata solo ne Gli sbandati. Nel 1959 arrivava sugli schermi anche Estate violenta (regia e soggetto di Valerio Zurlini; sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico, Giorgio Prosperi, Zurlini). A rigore il film non potrebbe essere annoverato nel genere resistenziale. L’«estate violenta», infatti, è quella del 1943, nel periodo compreso tra i giorni prima dell’annunzio delle “dimissioni” di Mussolini e quelli precedenti l’armistizio. A Riccione si intrecciano le storie di giovani della buona borghesia per i quali la guerra sembra un evento lontano (anche se i due protagonisti si conosceranno proprio grazie a un’incursione di un aereo nemico sulla spiaggia), che non può e non deve intaccare la loro voglia di divertirsi. «Uffà» è il commento di una di loro, Rossana [Jacqueline Sassard], quando la radio dà l’annuncio di una nuova linea difensiva sulla via Emilia. Analogo l’atteggiamento dei due protagonisti: Carlo [Jean Louis Trintignant], figlio di un alto gerarca fascista [Enrico Maria Salerno] e Roberta [Eleonora Rossi Drago], vedova di un eroe di guerra e madre di una bambina di pochi anni. Il primo non è partito militare, grazie a «esami, proroghe, rinvii…», ma soprattutto – lo confesserà successivamente – grazie alla protezione del padre. Dal canto suo Roberta mostra una totale indifferenza, se non rancore, per la guerra in corso, come è possibile desumere dal breve dialogo tra lei e l’ufficiale di marina che è venuto a Riccione per esprimerle la sua commossa partecipazione per la perdita di «un grande comandante e un uomo giusto»: Ufficiale - Certo, non le ho detto nulla di nuovo, ma spero che le faccia ugualmente piacere! […] Ho chiesto di essere trasferito su un’unità combattente. Roberta - Ma la guerra è finita e l’abbiamo perduta. Io credo che quello che conta sia uscirne vivi. Ufficiale - Non lo so! Suo marito mi ha insegnato che conta anche fare il proprio dovere e tenere fede alla parola d’onore! Comunque, non mi sembra che Rimini sia il mio posto!
L’amore che nasce tra la trentenne Roberta e il ventenne Carlo è ben diverso da quelli che si intrecciano tra i giovani amici del secondo che passano le giornate estive tra balli e ascolto di dischi vietati dal regime. L’estate 1943 diventa così la metafora di un cambiamento in atto: niente sarà più come prima. Per gli amici di Carlo che assistono
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sconcertati alla “intrusione” nella loro comitiva di una donna matura e alla successiva nascita della passione tra i due; per Roberta che per amore è decisa a rinunziare alla sua reputazione di vedova di un eroe di guerra, mamma per giunta («Comportati come una donna di trent’anni che ha una figlia», le ha ingiunto la madre); per Carlo disposto a disertare la chiamata alle armi non per ragioni ideologiche o per antifascismo, ma per seguire la donna di cui si è perdutamente innamorato. L’estate 1943 è dunque uno spartiacque, come lo era stato d’altra parte per molti italiani e per lo stesso Zurlini: «Io mi ero sempre rammentato quell’ultima, incredibile, drammatica e strana vacanza che era stata l’estate del ’43, dopo la quale per me, per due anni, non ci furono più vacanze né estati perché andai in guerra. E mi ricordo che aveva uno strano fascino, un fascino che forse si ritrova nella sola bella sequenza che c’è in Estate violenta – quella di questi ragazzi che ballano mentre un ricognitore manda giù un bengala…»35. Nel film il 25 luglio rappresenta una frattura che riguarda essenzialmente i due protagonisti. Le sequenze che raccontano le reazioni all’annuncio della radio, con l’assalto alla sede del fascio e l’abbattimento del busto di Mussolini, così come la comparsa rapidissima (tre minuti e quattordici secondi) del padre di Carlo, che si appresta a fuggire, accusando di tradimento e di vigliaccheria i suoi compagni di partito («Guardali adesso! La guerra continua! E così non sanno approfittare neanche della sorpresa… perché sono dei vigliacchi, oltre a essere dei buffoni! Tra un mese voglio vederli io, con i tedeschi a letto! E non sanno neppure che se i tedeschi non ci hanno schiacciato come una cimice è per un riguardo personale di quello schizofrenico epilettico di Hitler»), sono funzionali all’evolversi della situazione dei due amanti. Il 25 luglio rappresenta per Roberta la consapevole accettazione dell’amore per Carlo: nella notte Roberta accorre nella villa del giovane, ma il padre non fa aprire la porta. Successivamente Carlo la raggiunge. I due passeranno insieme tutta la notte: «Io sono stata sposata per molti anni, – confessa la donna – ma non sapevo che si potesse amare tanto così, in questo modo! È meraviglioso!». La passione li travolge e i due passano ogni notte insieme, fin quando una pattuglia non li sorprende sulla spiaggia. La licenza di Carlo è scaduta. Il giovane deve presentarsi l’indomani, il 30 luglio, al comando di Bologna. Nel frattempo il suo 35
Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 94.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
documento d’identità viene sequestrato. Roberta prende l’iniziativa: decide di abbandonare la famiglia e di rifugiarsi con Carlo in una sua villa a Rovigo:
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Roberta – Io ho già pagato abbastanza per questa guerra. Ora ho il diritto di difendere la mia vita! Carlo – Ma così è la mia che difendi! No, lo vorrei, ma non avrò mai tanto coraggio. Lo so che sarebbe giusto, coerente, ma dovrei avere un altro carattere. Io vado dove va il branco. Così mi sento meno solo.
Successivamente troviamo i due in treno, mentre si leva il canto Sono un povero disertore36. Carlo ha dunque deciso di accettare la proposta di Roberta: «Non mi odiare», esclama quest’ultima. Tutto sembrerebbe concludersi in questo modo, ma un terribile bombardamento (realizzato con sequenze di grande efficacia drammatica) durante una sosta del treno, richiama bruscamente i due alla realtà. La visione del corpicino di una bimba morta tra i binari sconvolge Roberta, che angosciata si chiede cosa sia successo alla sua bambina lasciata a Riccione. Spinta da Carlo si infila in un treno che parte alla volta di Ancona, mentre Carlo chiude la porta, deciso a rimanere: Carlo – No, Roberta, non vengo con te. Lasciami qui. Devo restare. Tutto questo massacro mi fa orrore, ma io sono come tutti gli altri, non riuscirò mai a ribellarmi. Ti scongiuro per il bene che mi vuoi non dirmi più nulla. Torna a casa. È l’unica cosa che vuoi veramente. Finiresti per odiarmi. Ti prego, aiutami, Roberta. Lasciami solo. Adorata perdonami. Ti supplico, cerca di capirmi. Presto quest’inferno finirà, sai! E allora, se Dio è giusto, vedrai… Roberta – No, è finita, è finita. Non ci rivedremo mai più. Lo sai tu come lo so io! Mai più!
Il film si chiudeva così, con Carlo che vedeva il treno allontanarsi. Non scioglieva il dubbio sul futuro del protagonista (andrà a presentarsi al comando a Bologna o si sottrarrà, magari aderendo alla resistenza?), però faceva intuire la sua trasformazione, sottolineandone la capacità di prendere finalmente una decisione (far tornare Roberta a casa, mentre lui rimane). Insomma, quell’inerzia mostrata per quasi 36 La canzone che risale probabilmente agli anni Trenta dell’Ottocento narra della diserzione di un soldato italiano dall’esercito austroungarico. Era molto diffusa nelle regioni italiane di dominazione asburgica, soprattutto nel corso della Grande Guerra. Fu riadattata nella Resistenza. Cfr. www.museosanmichele.it/apto/schede/ero-un-povero-disertore-2/. È possibile ascoltarla al seguente link: www.museosanmichele.it/apto/wp-content/uploads/ sites/2/2016/02/012-Sono-un-povero-disertore-Coro-SAT-11-02-2016.mp3.
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tutta la pellicola con sguardi, silenzi, primi piani che esprimono dolore e angoscia e, nello stesso tempo, stupore, incertezza, quell’incapacità di assumere decisioni, espressa da Carlo a chiare lettere nell’ultima notte a Riccione («Io vado dove va il branco») sembra essersi dissolta. Vi accennava il solo Lanocita sul «Corriere della Sera», che però sottolineava come la «preoccupazione del parallelo fra gli avvenimenti esteriori e l’interiorità» finisse con il costituire «il difetto del film», quello «di aver voluto dire troppo e troppo lasciare intendere»37. Molto più critico ovviamente il quotidiano del PCI, «l’Unità», che, pur sottolineando i pregi del film in alcune sequenze e la bravura dei due protagonisti, soprattutto della Rossi Drago, rilevava un «primo e fondamentale errore» nell’avere dimenticato di sottolineare l’appartenenza dei protagonisti a una classe sociale, «la cui viltà morale» si era mostrata «proprio nel corso di quegli avvenimenti che fanno da sfondo all’estate violenta» e nel non aver voluto soffermarsi sulla svolta rappresentata dalla Resistenza che aveva costretto anche quei borghesi che si erano ostinati «a ignorare la guerra» a cambiare idea: «Ebbene non si può rappresentare quel tempo, senza indicare nella società di allora ciò che già era in movimento: in movimento verso la consapevolezza rivoluzionaria»38. Critico ma più “sfumato”, infine, il giudizio di Adelio Ferrero su «Cinema nuovo». Zurlini peccava di «mancanza di prospettiva», di «reticenza o timore programmatico» che gli impedivamo di rappresentare le diverse sfaccettature di una realtà in rapida evoluzione. Lo testimoniava il finale «così sfuggente ed elusivo». Eppure, nonostante «le reticenze, le inibizioni interne, la mancanza di prospettiva critica» il film – concludeva – era «una delle opere più significative dell’ultimo cinema italiano, rivelatrice anche degli interessi e degli stimoli di un gruppo di giovani registi da seguire con attenzione»39. A pochi mesi dal trionfo di Venezia, Rossellini riprendeva a occuparsi di Resistenza tornando, dopo quindici anni, alla Roma in mano ai tedeschi con Era notte a Roma (regia di Roberto Rossellini; soggetto di Sergio Amidei; sceneggiatura di Rossellini, Amidei, Diego Fabbri e Brunello Rondi). In un’intervista al «Corriere d’informazione» spiegava i motivi che l’avevano spinto ad occuparsi ancora una volta di Resi-
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lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 14 novembre 1959. e.m., Estate violenta, «l’Unità», 6 dicembre 1959. 39 a.f.., Il mestiere del critico. Estate violenta, «Cinema nuovo», n. 144, marzo-aprile 1960, p. 145. 38
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
stenza, un periodo storico che non andava dimenticato come invece alcuni episodi facevano intravedere:
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Pensi che nell’anniversario dello sbarco alleato in Normandia, quest’anno, quindici ragazzi, che nacquero proprio quel giorno, sono stati portati alla televisione francese. Ebbene, essi non hanno saputo rispondere quando è stato loro chiesto chi era Mussolini, uno di essi ha risposto che si trattava di un regista neorealista italiano. La storia passa troppo in fretta, fugge via vertiginosamente. C’è qualcosa che non bisogna dimenticare, invece, ed è per questo ch’io torno volentieri a ricordare nel mio film un momento importante, storicamente e umanamente40.
Come Il generale Della Rovere, anche Era notte a Roma venne girato velocemente, in cinque settimane, per poter portare la pellicola a Cannes fuori concorso. Secondo la critica dell’epoca la fretta di Rossellini era dettata probabilmente «da una riposta intenzione polemica» nei confronti di Fellini presente in concorso con La dolce vita41, “oscurando” con una sorta di «anti-Festival» il successo già annunciato del film (che di lì a poco avrebbe vinto la Palma d’oro). La fretta però aveva giocato un brutto scherzo al regista romano: «Voleva fare dispetto a Fellini, – scriveva Mosca sul «Corriere d’informazione» – ha finito col farlo a se stesso. Non è il grande film che alcuni si aspettavano. Anzi, forse, è un piccolo film senza ispirazione e senza verità»42. Su «l’Unità», prendendo spunto dalla presenza fuori concorso di Era notte a Roma, Enzo Muzii sottolineava come il film avrebbe potuto prendere il posto di Ombre bianche, «che batte bandiera per comodità di dogana», ma che non aveva niente di italiano. Si sarebbe andati al festival con un «tris di grandi artisti», Fellini, Rossellini e Antonioni (in concorso con L’avventura). E insinuava il sospetto, accennando al «sabotaggio» subito da La lunga notte del ’43 «negli ambienti clerico-fascisti del ministero dello spettacolo», che la mancata partecipazione al concorso fosse il segnale dell’«ostracismo» che colpiva i film «antifascisti e antitedeschi»43.
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A. Ceretto, Rossellini inizia un nuovo film sui tempi della Resistenza, «Corriere d’informazione», 16-17 gennaio 1960. 41 l.p., Rossellini arriva con un film girato in sole cinque settimane, «La Stampa», 11 maggio 1960. 42 Mosca, Un Rossellini troppo in fretta, «Corriere d’informazione», 12-13 maggio 1960. 43 Enzo Muzii, “Era notte a Roma” sugli schermi di Cannes, «l’Unità», 12 maggio 1960. Muzii non aveva tutti i torti: Ombre bianche, ambientato in Lapponia, era una coproduzione Italia-Usa con due versioni, una destinata agli Stati Uniti (regista Nicholas Ray) e una all’Italia (regia di Baccio Bandini). Il soggetto era tratto dal romanzo di Hans Ruesch, di nazionalità svizzera, Top of the World, e l’interprete principale era Anthony Quinn.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
Era notte a Roma presenta alcuni tratti in comune con Il generale Della Rovere tanto da poter costituire quasi un «dittico»44. Anzitutto, il passaggio tra finzione e autenticità: qui ribadito dalle false suore dell’inizio e dai falsi preti della seconda parte45. Come l’Emanuele Bardone de Il generale Della Rovere, la protagonista Esperia [Giovanna Ralli] inizialmente attraversa la guerra, disinteressandosi di quello che le succede intorno, pensando solo ai suoi piccoli traffici legati al mercato nero (travestita da suora va in giro per i paesi del circondario romano in cerca di viveri da rivendere). Solo in seguito si ritrova ad essere complice di un gruppo di partigiani, di cui fa parte il fidanzato Renato [Renato Salvatori], ospitando nella sua soffitta tre prigionieri di guerra, con i quali stringe amicizia e trascorre la notte di Natale. Nel film – come già era avvenuto in Roma città aperta e in Paisà – le azioni sono dettate dall’etica cristiana, di aiuto ai deboli e agli indifesi. Un assunto esplicitato all’inizio della pellicola. Le prime immagini si soffermano sulla campagna romana e su carri trainati da buoi e carichi di masserizie seguiti da uomini, donne e bambini (in seguito apprenderemo – dalla contadina presso la quale si riforniscono le false suore tra le quali Esperia – che i tedeschi hanno fatto sgombrare tutti i paesi sul mare). La macchina da presa continua a inquadrare gli sfollati fino al paesino dove qualcuno cerca di trovare alloggio e i più improvvisano una sorta di accampamento fatto di teli e coperte disposti a mo’ di tende. Su queste immagini in voice over, in inglese, il maggiore Pemberton [Leo Glenn] enuncia la tesi del film: Vorrei dire una cosa, che è stata detta da altri prima di me, ma che non è male ripetere. Dopo l’8 settembre del 1943, quando l’Italia firmò l’armistizio, migliaia, anzi decine di migliaia di prigionieri alleati, per la maggior parte inglesi, evasi dai campi di concentramento, vagarono per l’Italia in cerca di asilo. Abbiamo viaggiato per settimane e mesi, da nord a sud, confondendoci con i rifugiati italiani fuggiti dalle loro case bombardate nei villaggi lungo la costa, case che i tedeschi avevano costretto loro ad abbandonare, spingendoli a chiedere ospitalità nelle campagne e nelle città. Nessuno ci ha mai negato ospitalità e sui muri di quelle case che erano il nostro nascondiglio erano affissi i proclami dell’Alto Comando Tedesco che minacciavano con la pena di morte chiunque avesse dato asilo o aiuto ai militari alleati prigionieri. Le nostre vite erano protette dalla divisa che indossavamo. Se eravamo catturati il peggio che ci poteva succedere era ritornare in un campo
44 45
Aprà, In viaggio con Rossellini, cit., p. 60. Cfr. il Commento di Adriano Aprà, nel DVD Era notte a Roma, Medusa Video.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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di concentramento. Ma per gli italiani che ci aiutavano non c’era che un’alternativa: la fucilazione. Malgrado questo, nessuno ci ha mai negato ospitalità, nessuno ci ha mai traditi. Nessuna di queste persone agiva per interesse. Molti non erano neanche dalla nostra parte. Credo che, in gran parte dei casi, le loro azioni fossero guidate esclusivamente da un senso di carità cristiana.
Con la sua grande generosità che vince sul suo senso pratico, Esperia (metafora dell’Italia fin dal nome) pagherà cara l’accoglienza data ai prigionieri. Tradirà Renato, sperando che la sua confessione possa salvarlo dalla fucilazione: «Ho detto io quello che non ha voluto di’ lui». E sarà solo il conforto e il sostegno di Pemberton e soprattutto di don Valerio [Sergio Fantoni], un prete che tiene i collegamenti tra i partigiani e gli ambienti ecclesiastici (antifascisti, ebrei e i due prigionieri alleati sono nascosti in convento), a impedirle di farla finita: Don Valerio – Ma questo… questo non è fare la spia! Esperia – E che d’è… se non è fa’ la spia? È inutile scusarme don Vale’… io so’ ’na carogna… me faccio schifo… me fa schifo tutto… tutto! Dovevo dirvelo prima. Sarebbe stato meglio, meglio per tutti… Ma io non ne posso più, non ce la faccio più…
Il film si chiudeva con lo scampanio di campane a festa per l’arrivo degli alleati con uno zoom sul volto rigato di lacrime di Esperia, mentre Pemberton abbracciandola mormora: «E così la lunga notte è finita e ora va tutto bene…». In un primo momento la sceneggiatura – pubblicata in un volume curato da Renzo Renzi – prevedeva il suicidio di Esperia, compiuto nel momento in cui don Valerio e Pemberton si recano nel giardino del convento per seppellire il corpo di Tarcisio, il traditore ucciso dal maggiore inglese46. Come ha notato lo stesso Renzi, il nuovo finale, senza il suicidio di Esperia, conduceva a soluzioni «egualmente dolorose ma più attuali». Con il primo (il suicidio di Esperia e la fuga dei tedeschi) si poteva parlare di «un tempo concluso». Con il nuovo «l’angoscia resta sospesa nell’aria. La catarsi è stata sostituita da un’attesa che provoca una speranza lontana oltre il film. Tutto deve ancora succedere. Il film vuole parlare più decisamente per l’oggi»47. Molti – come si è già accennato – i richiami alle prime due pellicole del dopoguerra, evidenti addirittura nelle riprese. Ad esempio 46 47
Era notte a Roma di Roberto Rossellini, a cura di R. Renzi, Firenze, Cappelli, 1960, p. 207. Ivi, pp. 86-87.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
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la panoramica orizzontale, da sinistra verso destra, sulla Roma punteggiata di chiese, fino a fermarsi sulla sagoma di S. Pietro al centro dello schermo, è identica a quella finale di Roma città aperta. Anche qui, come Pina, Esperia cerca il conforto del suo compagno. Quando scopre che Renato è implicato nella resistenza e che insieme al sor Giacinto fabbrica bombe, esclama: Vedi, io non ti rimprovero mica, anche se quello che fai è pericoloso, anche se c’ho paura per te. Vedi, adesso che so quello che fai, so’ contenta. No, contenta, no, cerca di capirmi. Me so’ detta: Renato è meglio di quello che me credevo. Almeno c’ha un’idea, uno scopo… Io non so se quello che fai è bene o male. Chi ce capisce ormai quello che è bene e quello che è male. Ma io c’ho fiducia in te. Se farai una cosa è perché è giusta… e io poi te voglio bene. Mannaggia, io non so parlà, non me so’ spiegà…
Anche in Era notte a Roma il personaggio negativo ha in sé qualcosa che lo diversifica dal resto della comunità: come in Roma citta aperta Marina, cocainomane e lesbica, ha abbandonato il suo quartiere d’origine, quel popolo istintivamente pronto a schierarsi contro i tedeschi, qui Tarcisio, l’uomo subdolo, lascivo, pronto a tradire i suoi antichi amici, ha abbandonato l’abito talare (la sua comunità) e, per di più, la sua “diversità” viene accentuata e rappresentata anche nel fisico (zoppica vistosamente). Come in Paisà, il film era caratterizzato dal plurilinguismo e come in Paisà, all’inizio gli alleati diffidano degli italiani: «Lei è come tutte queste persone, carina, disponibile, – afferma Pemberton riferendosi ad Esperia – ma in un certo senso non riesco a fidarmi di loro!». Successivamente chiederà al dottore Costanzi [Enrico Maria Salerno] chiamato per curare le ferite del pilota americano come mai, tra i tanti italiani conosciuti, nessuno si dichiarasse più fascista. Scontata la risposta, come sottolinea con amarezza e pur tuttavia con dignità il dottore (sarà fucilato insieme agli altri partigiani): «Gli italiani sono come… bandiere al vento. Quando le cose andavano bene erano tutti fascisti. E ora che le cose stanno andando male, non c’è più neanche un fascista. È un dato di fatto. Stanno cercando di passare dalla parte opposta»48. Anche qui infine la Chiesa e la religione 48 Nel Commento del DVD Adriano Aprà sottolinea anche altri rimandi ai film precedenti: le fughe sui tetti ricordano quelle dell’episodio fiorentino di Paisà, il refettorio dove don Valerio legge il resoconto delle Fosse Ardeatine quello dei frati nel quinto episodio, la decisione di Fëdor di partecipare alla lotta clandestina fa pensare alla presenza di Dale nell’ultimo. Inoltre Paolo Stoppa interpreta il personaggio di un principe come nel successivo Vanina Vanini. «Tutta l’opera di Rossellini, – conclude – se la si guarda attentamente, è fatta di
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
cattolica erano centrali in tutta la vicenda, come laconicamente notava anche l’ufficio di censura cinematografica49. Ancora più che in Roma città aperta o in Paisà era accentuato il ruolo attivo della Chiesa, non soltanto degli umili parroci, come don Pietro o dei monaci che accolgono i cappellani militari alleati o dei preti che ne Il generale Della Rovere si intuisce aiutino i partigiani («I preti sono tutti delle spie», afferma convinto Müller), ma di tutta la Chiesa che protegge e aiuta gli antifascisti, dando loro copertura e ospitalità nei conventi e nei palazzi apostolici (d’altra parte, la casa di produzione, la Golden Star, era controllata dai gesuiti e sembra che la supervisione del film fosse affidata al cardinale Siri). Il che induceva Lorenzo Pellizzari a scrivere che «i meriti e le responsabilità, un tempo dominio comune delle forze democratiche, sono divenuti appannaggio dei palazzi apostolici»: Nel quadro che così si precisa, chi muove le file della Resistenza sono unicamente i religiosi: fra uno svolazzare di tonache (autentiche o fittizie), la popolazione civile non pensa che alla borsanera (e non, semplicemente, alla sussistenza) e i prigionieri alleati si incaricano di fornire la nota di colore tramite gli impossibili dialoghi e le letterarie elucubrazioni loro attribuite; né importa che le due vittime siano proprio il comunista e il russo, ché anzi la loro sparizione improvvisa lascia un vuoto ancora maggiore50.
Un giudizio forse ingeneroso. Non era il solo. La pellicola, fin dalla sua presentazione a Cannes, non suscitò grandi consensi sulla stampa. «Un film nato morto. – scriveva Giovanni Mosca – Un lavoro non sentito e buttato giù alla brava, direi con scarsa serietà professionale». «L’indolenza» del regista romano lo aveva portato «a ricalcare le comode strade troppe volte percorse»51. Se II generale Della Rovere era sembrato la replica di Roma città aperta – aggiungeva Pestelli su «La Stampa» – Era notte a Roma appariva «un po’ la replica d’una replica»52. Anche Paolo Valmarana su «Il popolo», il quotidiano della Democrazia Cristiana, il giornale che in teoria maggiormente avrebbe echi fra un film e l’altro. E quando Rossellini negli ultimi anni della sua vita ha dichiarato che il suo cinema, nel suo insieme, va considerato una grande Enciclopedia ha detto una cosa giustissima […]: i film sono collegati fra di loro», Commento di Adriano Aprà, cit. 49 «Tra questa umanità, che si agita e si muove quali fantasmi nella notte romana, ci sono anche dei sacerdoti, ospitali e comprensivi per la causa alleata» (Revisione Cinematografica Preventiva, 6 febbraio 1960, ACS, MTS, Div. Cin., b. 257, f. 3249). 50 l.p., Schede, «Cinema nuovo», n. 149, gennaio-febbraio 1961, p. 56. 51 Mosca, Un Rossellini troppo in fretta, cit. 52 L. Pestelli, I drammi della Roma occupata nel nuovo film di Rossellini, «La Stampa», 12 maggio 1960.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
dovuto valorizzare il film, non era tenero con Rossellini, sottolineando che la pellicola certamente conservava la capacità del regista romano di «costruire climi e vicende di alta tensione drammatica», ma a differenza di quello che era avvenuto in altre opere non apriva «discorsi nuovi»: «Qui la poesia civile scade a volte nella cronaca, una cronaca sapiente, che sa cogliere, di storia e personaggi, le indicazioni essenziali e determinanti, senza trovar sempre la forza di creare quell’immediato rapporto tra spettatore e personaggio che annulla la distanza, quella degli anni e quella, materiale postulata dallo schermo. Alla partecipazione intima con i suoi eroi, Rossellini sostituisce qui una visione accesa, generosa, ma esterna»53. Valmarana finiva però per cogliere un aspetto (per lui negativo) del film: il cambiamento di prospettiva rispetto ai due film dell’immediato dopoguerra, già presente ne Il generale Della Rovere ma probabilmente oscurato dall’interpretazione di De Sica. Un cambiamento che Rossellini con grande lucidità esponeva a Renzo Renzi in un’intervista su Era notte a Roma. Subito dopo la guerra si era intolleranti verso gli uomini, ma tolleranti verso le idee: «Oggi è viceversa, c’è il desiderio di una scoperta più profonda, oggi si deve manifestare una maggiore tolleranza per le persone e una più penetrante intolleranza per le idee sbagliate per la loro etica». Pertanto il film voleva essere una pellicola di «significati più segreti, intimo, psicologico, una psicologia tra diverse posizioni civili, una psicologia delle mentalità»54. Siamo nel 1960. In Italia si è avuto il governo Tambroni, con tutto quello che ne è seguito. La guerra fredda non consente mediazioni. Del fascismo e di quello che ha significato si sta perdendo – si pensi a quanto Rossellini aveva già detto al «Corriere d’informazione» prima della realizzazione del film – la memoria. Non si trattava dunque di descrivere le azioni eroiche, ma di capire come in quel periodo buio potesse a un certo momento, senza che ce ne fosse addirittura consapevolezza, nascere non l’atto eroico, ma quello appunto della “resistenza” nel suo significato etimologico. Il film cercava di raccontare non avvenimenti, ma le emozioni che stavano alla base di quegli stessi avvenimenti. Emozioni che facevano superare le barriere linguistiche (e che era auspicabile mettessero in grado gli individui di superare all’inizio del decennio dei Sessanta quelle ideologiche). È solo in questa ottica che si può capire l’episodio del Natale, con il discorso di Fëdor, iniziato prima in un 53 54
P.V., Un film di Rossellini che in parte ci delude, «Il Popolo», 15 ottobre 1960 Era notte a Roma di Roberto Rossellini, cit., pp. 47-48.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
italiano stentato e poi in russo. Gli altri forse non capiscono tutto, ma intuiscono e alla fine abbracciano il russo che ha saputo comunicare sentimenti che appartengono a tutti:
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Noi parliamo diverse lingue, ma ci comprendiamo. Intorno a noi ci sono la guerra, la morte, la distruzione. Non abbiamo voluto questa guerra, ce l’hanno imposta. Quante sofferenze e disgrazie ha portato questa guerra. Fiume di sangue umano. Ed eccoci qui. Tu, Michael, e tu, Peter, quanto avete dovuto soffrire! Per non parlare di me, neanche io so come sono sopravvissuto. Ma questi anni di guerra ci hanno unito. Siamo amici! Questo io lo ricorderò sempre. Ma io non posso più stare qui. Io devo stare là a combattere, a cacciarli dalla nostra sacra terra, una volta per tutte. È meglio morire lì, che aspettarli qui seduti!
In un momento di accentuata frattura, si diceva, il film voleva essere un richiamo all’unità. Certo, ancora una volta il collante era individuato nella religione cattolica. Ma erano lontani i tempi di Roma città aperta e di Paisà. Qui, come si è sottolineato, non c’era l’umile clero di don Pietro o dei frati. C’era tutta la Chiesa, c’era la nobiltà papalina, c’era un prete, don Valerio, che già nel fisico è lontanissimo dal Fabrizi di don Pietro. C’è un partigiano, Renato, distante anni luce da Manfredi: uno che almeno all’inizio sembra quasi giocare a fare il partigiano e che, con i modi di un bambino, esterna la sua ammirazione unicamente per «tovarich» Fëdor. E c’è Esperia: a differenza di Pina consapevole della scelta operata, disposta a sposarsi in chiesa perché don Pietro «è uno di noi», Esperia si trova per caso in qualcosa di più grande di lei, di cui non riesce appieno a rendersi conto, fino ad arrivare all’ingenuità di diventare delatrice pur di salvare il suo amore. Insomma, è veramente “notte” a Roma. Persone e avvenimenti non sono chiari come sembrava fossero a guerra appena finita. L’espressione che più compare sul volto dei protagonisti è di stupore. Si stupisce Esperia quando scopre di essere stata abbandonata dalle sue compagne, si stupisce quando scopre la festa di Natale organizzata dai prigionieri; si stupisce Renato quando vede che nella soffitta di Esperia sono nascosti i tre prigionieri alleati e che uno di questi è niente meno che un soldato sovietico; si stupisce Pemberton quando scopre, aprendo la finestra e vedendo il panorama, che si trova a Roma. Rossellini qui, forse ancora più che ne Il generale Della Rovere, si assume il compito di capire, di andare oltre la mera descrizione degli avvenimenti. Che poi questo assunto sia riuscito è tutt’altra questione. Il film è sicuramente discontinuo e le varie versioni circolate (che
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
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presentano variazioni di notevole rilievo) attestano quanto, secondo il giudizio dello stesso autore, fossero superflui alcuni brani. Tuttavia, rimane il merito di aver cercato di andare al di là dell’avvenimento in sé, di aver tentato di dare immagine a comportamenti non sempre dettati da convinzioni radicate o da riflessioni accurate.
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LA RESISTENZA VINCE SULLO SCHERMO E AL BOTTEGHINO Era notte a Roma non riscosse vasti consensi presso il pubblico. Però, proprio a partire dal 1960 iniziarono a moltiplicarsi le pellicole ispirate ai fatti accaduti tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945. Tra il 1960 e il 1961 erano ben quindici le pellicole sul tema, anche se nel numero erano compresi anche film che rientravano (si veda quanto scritto nel Prologo) solo in parte nell’ambito di cui ci occupiamo: ad esempio, La Ciociara, che metteva l’accento sulle lacerazioni e sulle sofferenze causate dalla guerra e dall’arrivo delle truppe alleate, Una vita difficile, il cui arco temporale partiva dalla Resistenza per arrivare fino agli anni del miracolo, L’oro di Roma sulla deportazione degli ebrei romani o Il federale con Ugo Tognazzi e I due marescialli, con Totò e Vittorio De Sica, che giocavano soprattutto sugli aspetti comici e grotteschi. Ma soprattutto va sottolineato un dato: gli italiani mostrarono di gradire le pellicole ispirate alla nostra storia recente. Se nel 1959 La Grande Guerra aveva incassato un miliardo e 750 milioni piazzandosi al primo posto e Il generale Della Rovere al sesto con 713 milioni, nel 1960 Tutti a casa, La Ciociara, Il Gobbo, La lunga notte del ’43, Kapò si piazzarono per incasso tra le prime venti pellicole italiane battendo perfino quelle di Totò (presente in classifica però con tre film: Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, Letto a tre piazze, Signori si nasce)1. Iniziamo da La lunga notte del ’43 (regia di Florestano Vancini; soggetto dal racconto di Giorgio Bassani Una notte del ’43; sceneggiatura di Vancini, Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini) dove compariva per la prima volta il tema della Resistenza come guerra civile. Lo rivendicava lo stesso regista intervenendo a Torino in un incontro tra storici, studiosi di cinema, registi e protagonisti della lotta partigiana: 1
Gli incassi delle pellicole italiane a partire dal 1945 sono riportati in P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2009, pp. 391-407.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
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Fino ad allora, e anche successivamente con qualche altro esempio, il conflitto principale del cinema resistenziale era quello tra il patriota italiano e l’oppressore tedesco. Il mio film è il primo che mette in scena quel conflitto – che è stato tipico dell’Italia centro-settentrionale – tra fascisti e antifascisti che è stato sempre negato. E non capisco come possa essere negato questo […] In realtà questo film ebbe un impatto fortissimo con il pubblico, ma non altrettanto con la critica, forse perché non proponeva quella celebrazione della resistenza così come veniva fatta dalla storia del Battaglia2.
La lunga notte del ’43 era uno dei quattro film (gli altri tre erano Adua e le compagne, I delfini, Rocco e i suoi fratelli) presentati in concorso alla Mostra di Venezia – un’edizione contestata per la presidenza di Lonero, già segretario del Centro Cattolico Cinematografico, dai registi e dai soggettisti aderenti all’ANAC (Associazione Nazionale Autori di Cinema che si rifiutarono di parteciparvi – dove vinse il premio come migliore opera prima (lo stesso Vancini non si presentò alla premiazione). La stampa accolse il film in modo differente. Veniva riconosciuto al giovane regista e alla sua opera prima una capacità notevole «di sintesi e di evocazione», frutto della sua esperienza di documentarista. Questo il giudizio molto positivo di Leo Pestelli che all’indomani della proiezione alla Mostra parlava di «un film notevole» che aveva saputo sapientemente intrecciare la tragedia pubblica con una storia privata e che con pochi tratti e con «oggettiva impassibilità» riusciva a descrivere l’orrore della Ferrara dell’autunno 1943: Ci sono momenti che tutta l’angoscia dell’ora sembra raccogliersi in una semplice notazione del costume di quegli anni: per esempio le scarpe a suole ortopediche su cui Anna, la farmacista, zampetta pesantemente sul selciato di Ferrara, o la partita a bridge con cui, fra una trasmissione e l’altra di Radio Londra, la famiglia Villani inganna la noia del coprifuoco. Senza che sia stato ancora introdotto nulla di cruento, già ci troviamo in un’atmosfera tesa e insopportabile, con una sua perfetta coloritura locale; e quasi non aspetteremmo dal film altro soggetto che questa città prona e tremante3. 2 F. Vancini, Il tema della guerra civile, in P. Olivetti, a cura di, Cinema e Resistenza in Italia e in Europa, Torino, Regione Piemonte Ancr, 1997, p. 82. L’incontro, tenutosi il 5 novembre 1994 sul tema «Cinema, memoria, storia, Resistenza», si tenne nell’ambito del primo dei due convegni organizzati dall’ANCR (Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza) per il cinquantesimo della Liberazione: Il sole sorge ancora (Torino, 26 ottobre-6 novembre 1994). Il secondo, Europa ritrovata – Una società divisa, si svolse sempre a Torino nell’aprile 1995. I convegni si tenevano a margine delle rassegne cinematografiche. 3 L. Pestelli, Felice esordio di un giovane regista, «Stampa Sera», 29 agosto 1960.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Su «Il Popolo», quotidiano della DC, Valmarana parlava invece di «opera degna anche se mancata», non essendo riuscito il film a trasportare in immagini il racconto di Bassani, fatto più di stati d’animo e psicologie che di azione. «Portata dalle necessità stesse del cinema […] la storia perde in profondità e si fa schematica e didascalica più del necessario»4. “Politico” il parere di Ugo Casiraghi su «l’Unità» che esultava perché, dopo «tanti anni» si era in presenza di «un film antifascista chiaro, senza mezzi termini, senza compromessi. Un film italiano in cui gli uomini in camicia nera avessero il ruolo storico di carnefici, che nei nostri schermi era stato, anche nei casi migliori, trasferito ai nazisti tedeschi»5. Per Lanocita sul «Corriere della Sera» la pellicola rappresentava una nota positiva per il cinema italiano, «un buon esordio»6, mentre sul quotidiano “gemello» Dino Buzzati si soffermava molto sinteticamente sugli aspetti positivi7, soffermandosi soprattutto su quelli negativi, dalle «varie inverosimiglianze della storia» alla «forzatura retorica con cui sono rappresentati i fascisti, volgari, malvagi e crudeli dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi, senza la minima sfumatura», alla «piattezza» del dialogo, scontato e prevedibile»: «Nel complesso a me sembra che, come peso, i difetti superino le qualità. Un film simile, comunque, spontaneamente io non andrei mai a vederlo», concludeva perentorio8. Una recensione caratterizzata da un tono così astioso da indurre il sospetto di un Buzzati arrabbiato perché tutti gli chiedevano come mai non fosse venuto a Venezia il critico ufficiale del «Corriere d’Informazione», Giovanni Mosca. Ma quest’ultimo, all’uscita del film nelle sale, avrebbe ribadito le critiche in modo ancora più netto facendo intuire come l’aspetto negativo del film fosse costituito proprio dal suo tema centrale, quello della guerra civile: I fascisti di Vancini fanno già ridere come i bravi di don Rodrigo e i coristi dell’Andrea Cheniér. Un film inutile. Mancando d’arte e di convinzione, non ammonisce. Dà soltanto fastidio. C’è una certa società 4
P. Valmarana, «La lunga note del ’43», «Il Popolo», 29 agosto 1960. U. Casiraghi, “La lunga notte del ’43” ha rivelato un nuovo regista: Florestano Vancini, «l’Unità», 29 agosto 1960. 6 A. Lanocita, Ora che la Mostra è chiusa cerchiamo di dimenticarla, «Corriere della Sera», 9 settembre 1960. 7 «La fotografia efficace senza alcuna smania virtuosistica. L’atmosfera grigia, fredda e sinistra di quella Ferrara invernale desolata dal terrore. La bellezza fisica di Belinda Lee. La battuta finale («Non credo….)» (D. Buzzati, La finestra del prof. Barilari, «Corriere d’Informazione», 29-30 agosto 1960). 8 Ibid. 5
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politica, operante nel cinema, che ha ormai annoiato tutti, inattuale com’è, anzi polverosa: è rimasta ancora ferma all’antifascismo, mentre la Nazione, scrollatasi di dosso il passato, è tutta proiettata, nel suo vitalissimo slancio, verso il futuro9.
Mosca non era il solo. Già in precedenza Goffredo Lombardo aveva rifiutato di produrre il film se gli autori non avessero sostituito i fascisti con i tedeschi10. Lo stesso Vancini ricordava come proprio a Venezia gli fosse stata mossa l’accusa di aver dimenticato la presenza in Italia dei tedeschi: «ma i tedeschi – rispondeva il regista – a Ferrara in quelle settimane non c’erano proprio»11. Un’assenza che la pellicola si preoccupava di sottolineare fin dall’inizio, nell’incontro casuale tra Anna [Belinda Lee], la moglie di Pino Barilari [Enrico Maria Salerno], il farmacista che, costretto all’immobilità a causa di una malattia venerea, trascorre le sue giornate accanto alla finestra, guardando ciò che accade fuori, e Franco [Gabriele Ferzetti], un amore dei tempi del liceo: Anna – Cosa fai adesso? Franco – Niente! Sono scappato da Avellino l’8 settembre e adesso sono rintanato a casa aspettando di vedere come si mettono le cose… Anna – Però oggi sei uscito… Franco – Beh, un giorno alla settimana, al massimo due… per prendere un po’ d’aria… – se no divento una candela, grasso, flaccido… Anna – Ma perché hai paura a uscire? Perché sei scappato dall’esercito! E non sono scappati tutti, forse? Franco – Ma in che mondo vivi tu? Non lo sai che a Bologna i tedeschi hanno preso centinaia di persone nelle strade, nei cinema, nei bar? Li hanno caricati su un treno e spediti diritti in Germania… Anna – Sarà anche vero! A Ferrara però i tedeschi chi li ha visti…
Insomma, protagonisti assoluti, nel male, erano i fascisti, responsabili della strage che si perpetra sotto gli occhi di Pino Barilari, il solo a sapere che a ordinare l’uccisione di tanti cittadini inermi, accusati di avere ammazzato il federale di Ferrara, è Aretusi, soprannominato “Sciagura” [Gino Cervi], il caporione fascista, vero responsabile della morte di Bolognesi, ucciso per provocare la reazione violenta dei fascisti e sgombrare il campo dai moderati, «scribacchini inchiodati dietro le scrivanie buoni solo a tenere la segretaria sulle ginocchia». 9
Mosca, La lunga notte del ’43, «Corriere d’Informazione», 16-17 settembre 1960. G. Gambetti, Florestano Vancini, Roma, Gremese, 2000, p. 40. 11 Vancini, Il tema della guerra civile, cit., p. 82.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
Procediamo con ordine ricordando brevemente la trama. Il film, che si discostava notevolmente dal racconto di Bassani, iniziava con fotografie che mostravano cosa era successo in Italia dalla dichiarazione di guerra fino alla liberazione di Mussolini il 12 settembre 1943 e alla creazione della Repubblica sociale con la ricostituzione del partito fascista repubblicano. La scelta delle fotografie serviva certamente a inserire le vicende dei protagonisti nella cornice più generale della tormentata storia italiana del periodo (i giorni della Costituente di Verona, anche se nel film – come nel romanzo – gli episodi venivano spostati da novembre a dicembre 1943) e probabilmente era anche un retaggio della formazione da documentarista di Vancini. Ma la fissità delle immagini dà subito il senso dell’immobilità fisica di Pino. Non solo. Anche dell’incapacità – o dell’impossibilità – degli altri tre protagonisti (Anna, Franco e “Sciagura”) di uscire dagli schemi entro i quali si muovono12. D’altra parte, a conferma di quanto si diceva, i tre fisicamente si muovono in un perimetro estremamente ristretto che va dalla farmacia Barilari, adiacente al Bar della Borsa dove si radunano gli amici di Sciagura, e la casa dei Villani. Solo due volte la pellicola abbandona l’ambito cittadino: nella andata in bicicletta di Anna e Franco in campagna per rifornirsi di cibo dai contadini e nel brevissimo episodio, che innescherà la rappresaglia fascista, dell’uccisione del federale Bolognesi diretto a Verona ad opera di Vincenzi, un fedelissimo di Aretusi13. Si diceva di Pino Barilari, che, immobilizzato, passa il suo tempo tra lo stare – come dice Anna – «alla finestra, a prendere in giro la gente che passa» e le riviste di enigmistica, anche se si mostra informatissimo sui film e su quanto succede in città: «Sai sempre tutto, tu! Sei un fenomeno!», esclama la moglie. È Pino che consiglia ad Anna di andare a vedere Violette nei capelli (film con Lilia Silvi e Roberto Villa) ed è lì, al cinema, durante un allarme aereo che Anna incontrerà Franco e tra i due si riaccenderà l’antica passione. Facciamo anche la conoscenza della famiglia di Franco con il padre, l’avvocato Villani, vecchio antifascista che secondo la moglie negli ultimi tempi 12 T. Pedrini, La concezione del tempo ne La lunga notte del ’43, in Una regione piena di cinema. Florestano Vancini, Bologna, Regione Emilia-Romagna, Cinecittà Holding, 2004, pp. 84ss. 13 In realtà il console si chiamava Igino Ghisellini e fu ucciso la sera del 13 novembre 1943. A tutt’oggi ancora non è stata detta una parola definitiva sui responsabili dell’omicidio, se sia stata una faida all’interno del partito fascista (come raccontano il romanzo e il film) o invece un’operazione condotta dai partigiani (cfr. Gambetti, Florestano Vancini, cit., pp. 45-46).
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si è troppo esposto, e le due sorelle. E qui, durante la cena, tra considerazioni varie, più o meno serie (in queste ultime si distingue la sorella più piccola, Ines, una giovanissima Raffaella Pelloni, la futura Carrà: «È vero che i tedeschi hanno liberato cinque scienziati ebrei e loro adesso hanno inventato un’arma segreta? I siluri acustici!», chiede, rimproverata immediatamente dal padre che si domanda dove abbia potuto sentire simili sciocchezze), che abbiamo un primo indizio di quello che sarà la cifra di tutto il film. Al padre che prevede disastri in futuro che non si limiteranno solo alla sconfitta in guerra («Voi altri non potete nemmeno immaginare tutto quello che dovremo pagare per tirarci fuori da queste sabbie mobili») Franco risponde: Si capisce. Toccherà a noi di pagare le colpe del fascismo […] Sì, mi dispiace per papà. Papà è uno dei pochi che aveva capito fin dal ’22. Però io voglio dire che, a un certo punto, è meglio troncare nettamente col passato. I giovani sono stanchi di essere traditi!
Nella sceneggiatura originale la battuta di Franco era diversa: «Lo so… tocca a noi scontare le colpe di chi ha sbagliato… […] Non parlo per papà… Vero papà, tu lo sai… sei stato uno dei pochi che aveva capito fin d’allora… Io volevo dire che tutti i giovani dovrebbero avere questa coscienza: riparare gli errori commessi dall’altra generazione…»14. Evidentemente, in corso d’opera, gli sceneggiatori cambiarono un’affermazione che avrebbe “stonato” con il finale del film, come vedremo tra breve. Intanto la storia d’amore tra i due ricomincia, con lo stesso trasporto di quando erano al liceo. I due si incontrano più volte di nascosto fin quando un rastrellamento fascista induce a una maggiore cautela. È la stessa Anna a sostenere che è meglio non vedersi, ma nel contempo ammette di non poter resistere «senza questi incontri. Come potrò vivere… mi bastava vederti per la strada di corsa, qualsiasi cosa». Ma uscire di casa, ammette Franco, è «diventato troppo pericoloso, l’hai visto tu stessa oggi. Stai tranquilla, però… ci vedremo ancora…». La soluzione escogitata è quella di vedersi la notte, quando Pino si addormenta. Anna ha, come farmacista, il lasciapassare per poter circolare anche con il coprifuoco. Può dunque raggiungerlo a
14 La lunga notte del ’43, Ferrara, Liberty House, 1993, pp. 69-70. A inizio volume veniva sottolineato che la sceneggiatura originale non rispecchiava «del tutto l’andamento del film»: nelle versione definitiva alcune sequenze erano state tagliate, altre aggiunte, alcune modificate».
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
casa sua, nella stanzetta a piano terra, mentre i suoi già dormono. Nel colloquio che si svolge all’interno della Certosa più volte Anna afferma di sentirsi prigioniera e collega la sua condizione alla guerra (e dunque al fascismo, anche se il regime non viene nominato) che ancora dura. Ma il conflitto finirà e allora lei sarà libera di lasciare il marito: «E allora sarà più facile, vero? […]… potremo organizzare le cose in modo differente, sarà possibile, Franco, dimmi….». «Certo amore. – è la risposta – Non può durare molto. Gli Alleati stanno per arrivare a Roma. Ma non pensiamo a questo adesso, non pensiamoci. L’importante è sopravvivere, Anna, e noi dobbiamo farcela. Sento che siamo alla fine e che tra poco verrà la pace e tutto cambierà. Bisogna soltanto che riusciamo a sopravvivere». Ci avviamo verso l’epilogo. L’uccisione di Bolognesi sconvolge la vita cittadina. Dalla radio arrivano le minacce di rappresaglia dei fascisti riuniti a Verona. Ma Anna ha comunque deciso. Dopo aver accompagnato a letto il marito, esce di casa per raggiungere, in una Ferrara tetra e nebbiosa, Franco. Arrivano le squadre fasciste da Padova e Verona. Aretusi comanda le operazioni di rastrellamento di ebrei e antifascisti. Una squadra irrompe a casa Villani. L’avvocato si consegna ai fascisti, mentre Franco, uscito dalla cameretta dove era con Anna, si nasconde per volere del padre. Gli undici ostaggi presi vengono portati proprio davanti casa Barilari. Il trambusto sveglia Pino che di nascosto segue tutta l’esecuzione e scorge “Sciagura” che poco dopo si allontana. Nel frattempo, Anna silenziosamente scivola fuori da casa Villani e si dirige verso la sua abitazione non distante. Ormai è l’alba. Da lontano si scorgono i cadaveri degli ostaggi. Anna è sconvolta. Uno sguardo in alto e vede il marito che la guarda dalla finestra. Corre a casa ma trova Pino che finge di dormire. Il mattino successivo Pino è di nuovo lì alla finestra. Arrivano i parenti delle vittime e giunge anche Aretusi. Si accorge dello sguardo di Pino e gli strizza l’occhio con un cenno di intesa. Anna ha assistito alla scena e investe con furia il marito, cercando di convincerlo a parlare. Pino continua a tacere. Al colmo dell’esasperazione gli grida in faccia il suo tradimento: «Ero a casa sua, da suo figlio. – urla, indicando il corpo dell’avvocato Villani – Pino hai capito da chi ero? E adesso se non lo sapevi te l’ho detto. E adesso ci torno, torno da lui. Gli vado a dire che tu hai visto chi ha assassinato suo padre, che tu sai chi è stato, lo so anch’io. Hai visto tutto! Hai visto tutto!». Pino rimane chiuso nel suo silenzio e Anna corre a casa di Franco che nel frattempo ha accettato “prontamente” la proposta dell’ingegnere Magnozzi, un
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amico del padre, di riparare in Svizzera. Nonostante le rimostranze del figlio dell’ingegnere, Gilberto – «non si può continuare a subire […] È ora di reagire» – Franco non ha dubbi: «Sì, tu hai ragione, ma per me adesso è difficile! […] Esporsi in questo momento sarebbe un rischio, un rischio pazzesco… e poi mia madre non resisterebbe». È in questo frangente che arriva Anna. Descrive a Franco quanto ha visto tornando a casa: «Correvo come una pazza. E me li sono ritrovati lì davanti, sotto casa mia, contro il muretto del castello. Sembravano un mucchio di stracci. Un povero mucchio di stracci abbandonato sul marciapiede […] E anche lui ha visto, sai, Pino! Lui ha visto tutto, era là, alla finestra. Ha visto come sono morti. Ha visto chi è stato a comandare la strage. E anche io lo so! Lo so, Franco. Sono venuta qua per dirtelo… perché voglio che anche tu sappia chi ha ucciso tuo padre». La reazione di Franco è inaspettata. «Va via», le intima con voce strozzata. «Che cosa vuoi da me? Che cosa c’entri tu con me e con la mia famiglia? Non voglio saper niente! Basta! Non voglio sentir niente! Vai via!». Anna è sola. Non può tornare a casa e ha perso Franco. Ha perso l’occasione per dare una svolta alla sua vita. È l’unica che ha tentato di cambiare, che ha mostrato un coraggio sconosciuto a tutti gli altri personaggi (in precedenza ha salvato dal rastrellamento fascista uno sconosciuto rifugiatosi in farmacia). Ma i suoi sforzi sono stati inutili. La vediamo seduta su una panchina, con lo sguardo perso nel vuoto: persino due bambini che giocano, intimoriti da quel dolore muto, fuggono via. Arriviamo così al doppio finale. Aretusi va a trovare Barilari per accertarsi del suo silenzio. E in quest’occasione scopriamo che è stato lui, dopo la marcia su Roma, tornando a Ferrara, ubriaco, nell’euforia della vittoria («E a me in quel momento chi sa che cosa mi passava per la testa»), a costringere, con un revolver puntato alla schiena, il giovanissimo Pino, ancora vergine, ad andare con la prostituta che gli ha trasmesso la sifilide. Alla domanda precisa di “Sciagura” – «Francamente, da vecchi camerati, voi, sì voglio dire te e tua moglie, stanotte, eravate svegli, magari alla finestra, oppure a nanna come tutte le notti?», – Pino risponde dopo aver lungamente guardato l’interlocutore: «Dormivamo! Dormivamo come tutte le notti!». Rassicurato («E pensare che oggi ci sarebbe tanto bisogno di uomini come te, di quelli sicuri!»), Aretusi se ne va. Successivamente vedremo Anna passare per l’ultima volta davanti alla farmacia, allontanandosi dalla affollata manifestazione fascista, mentre Pino, guardandola dalla finestra, si ab-
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
bandona a un pianto dirotto e dalla strada sentiamo la voce tonante di Aretusi concludere il suo comizio: «Il passato sarà cancellato, le colpe saranno redente. Ne possiamo dare garanzia assoluta al segretario del partito. E con tutti i mezzi, con quelli della persuasione e della fede, se ci si lascerà procedere in pace, con quelli della fredda energia se saremo ancora provocati e disturbati. Da Ferrara purificata parte oggi il monito per l’Italia tutta: ferrarizzare l’Italia». C’è, si diceva, un secondo finale. Stavolta non è la Ferrara tetra e nebbiosa vista in precedenza, ma una città assolata, dove sulle note del Barattolo cantata da Gianni Meccia guardiamo una grande automobile fermarsi proprio davanti al Bar della Borsa (dove si sente la telecronaca di una partita della Nazionale di calcio). Ne scende un Franco, leggermente invecchiato, con la moglie straniera e il figlioletto che parla solo in francese. I tre passano davanti alla lapide che ricorda l’eccidio. Mentre moglie e figlio si siedono al bar, Franco con una scusa entra nella farmacia adiacente per chiedere notizie di Barilari e della moglie. Apprende che Barilari è morto da tempo, forse da prima che finisse la guerra: della moglie l’attuale titolare non sa niente, anzi non pensava neanche che fosse sposato. Ritorna al bar da dove esce un vecchio e furibondo Aretusi che impreca per il gioco della Nazionale. Riconosce Franco e, nonostante quest’ultimo lo guardi con ostentato disprezzo, i due si stringono la mano. Aretusi rientra nel bar non senza aver prima raccomandato a Franco di farsi vivo se torna a Ferrara. Incuriosita la moglie gli chiede chi sia: «Era una specie di gerarca fascista […] Ho saputo che durante la repubblica di Salò, quando noi abbandonammo Ferrara, divenne una figura importante. Anzi, adesso che mi ricordo lo chiamavano Sciagura […] Un poveraccio! Non credo che abbia mai fatto niente di male». Il film si chiude con la famiglia Villani che riparte mentre la macchina da presa va a inquadrare con una veloce carrellata in avanti la lapide che ricorda gli undici morti «per la libertà». La lunga notte del ’43 metteva in luce due aspetti: il ruolo attivo e violento dei fascisti nella repressione del dissenso e la presenza estesa di quella parte di popolazione che preferì stare «alla finestra» (e qui la metafora diventava, con Pino Barilari, immagine reale). Soprattutto il primo risultò non gradito alla commissione di censura che parlava di «superficiale prospettiva storica come avviene per le opere di troppo vicino e palpitante interesse politico». Non garbava al censore la «tendenziosa puntualizzazione» tra «l’arroganza, il cinismo, la ferocia degli uni (calci, schiaffi, crudezza della fucilazione, abbandono sulla
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piazza dei cadaveri ecc.) e la umile e dimessa accettazione del sacrificio da parte degli altri, che appaiono dei pacifici cittadini non ancora impegnati nell’attiva organizzazione clandestina». Un lavoro, dunque, destinato a «suscitare vivaci polemiche» con un solo aspetto positivo soprattutto per le giovani generazioni alle quali «potrà insegnare che la strada della violenza e delle sopraffazioni è sbagliata»15. Qualche mese dopo, in un appunto destinato al sottosegretario Helfer, De Pirro sottolineava l’«intonazione polemica» del film» che traspariva «soprattutto nel finale, un’appendice inquadrata a molti anni di distanza dall’epoca clandestina, che raffigura il feroce responsabile dell’eccidio ferrarese mentre vive la sua vita indisturbata e stende tranquillamente la mano al figlio di una delle sue vittime». De Pirro concludeva che era stato concesso il nulla osta al film, vietandolo però ai minori di sedici anni: «Tale divieto trova giustificazione in alcune scene di particolare crudezza (fucilazione, cadaveri degli uccisi stesi sul marciapiede, rastrellamenti, ecc.) e in altre scene moralmente scabrose inerenti alla relazione adulterina fra i due giovani protagonisti»16. Il soggetto del film era tratto dal racconto di Bassani, ma se ne discostava in gran parte. Soprattutto in Una notte del ’43 era assente il personaggio di Franco: mancava quindi la storia d’amore di Anna (si accennava soltanto ai suoi numerosi tradimenti) e non c’era quel finale che riportava il film ai tempi del miracolo economico. Nella pellicola Vancini aveva riversato la sua esperienza di quando, diciassettenne, aveva visto gli undici morti trucidati dai fascisti, rimanendone sconvolto: «Pochi giorni dopo vidi un altro spettacolo che all’orrore aggiunse ripugnanza: una lunga fila di ombrelli davanti alla Casa del fascio. Erano decine e decine di persone che, sotto la pioggia, facevano la coda per iscriversi al nuovo partito fascista repubblicano»17. Una testimonianza che coincide con quanto scriveva Bassani nel racconto: E sembrerà strano che l’esecrazione pressoché unanime dell’assassinio potesse accompagnarsi immediatamente al proposito abbastanza diffuso di fare buon viso agli assassini, di fare atto di pubblica adesione e sottomissione alla loro violenza. Ma così accadde, anche questo sarebbe inutile nasconderlo, se è vero come è vero che in nessun’altra città dell’Italia settentrionale il fascismo rinato a Verona avrebbe potuto 15 Revisione Cinematografica Preventiva, 18 febbraio 1960, ACS, MTS, Div. Cin., b. 261, f. 3272. 16 Appunto in data 10 settembre 1960 del direttore generale De Pirro al sottosegretario Helfer, ivi. 17 Gambetti, Florestano Vancini, cit. p. 46.
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contare da allora in poi su un numero talmente alto di iscritti, tanto da vedere fin dal mattino del giorno 17 lunghe, silenziose file di cittadini sostare nel cortile della Casa del Fascio, in viale Cavour, aspettando sotto la pioggia a rovesci che gli uffci della Federazione venissero aperti. Curvi, dimessi, avviliti nei curvi pastrani di stoffa autarchica, si trattava dell’identica marca di gente silenziosa che il pomeriggio del giorno precedente aveva seguito passo passo lungo corso Giovecca, via Palestro, via Borso, fino a piazza della Certosa, il feretro del console Bolognesi, e nei cui volti illividiti le poche persone, rimaste dentro le case a spiare da dietro le persiane il corteo, avevano riconosciuto rabbrividendo il proprio stesso volto18.
Bassani va oltre e racconta quello che succede dopo la Liberazione, quando inizia il processo per la strage del 15 dicembre che vede imputato come mandante “Sciagura”. Aretusi si difende con tutti mezzi a sua disposizione. Mancano le prove. L’unico di cui ha paura è Barilari. Sa che ha visto. Ma Pino, alla domanda del giudice, risponde «Dormivo». Una parola che – annota Bassani – «di colpo, come la puntura di uno spillo in una vescica colma d’aria, aveva risolto in nulla l’enorme tensione generale»19. “Sciagura” sa che nessuno vuole la sua condanna perché tutti «al pari di lui erano stati più o meno fascisti: e nessun verdetto di tribunale sarebbe mai riuscito a cancellare una verità come questa»20. Nel film, in definitiva, i due finali sono l’uno funzionali all’altro, traducendo in immagini le affermazioni sopra riportate, del consenso – per paura o per convenienza – che pure ci fu nei confronti della Repubblica Sociale. Si aspetta la fine della “tempesta”. Lo dice Franco ad Anna per rassicurarla («Bisogna soltanto che riusciamo a sopravvivere»); lo afferma il mite dottore Luigi [Andrea Checchi] che lavora nella farmacia Barilari. È da tempo innamorato di Anna e quando la vede per l’ultima volta tenta inutilmente di convincerla a non andare via: «Torni a casa, dia retta a me. Non sono tempi questi per fare queste cose. Dopo, magari, dopo, ma adesso…. Non vede? Nessuno può essere sicuro! Mi dia retta!» Insomma il film metteva in luce una sorta di immobilità mentale (le fotografie che aprono la pellicola) dalla quale la sola Anna tenta di uscire. È lei l’unica che prova a cambiare 18 G. Bassani, Una notte del ’43, in Id., Cinque storie ferraresi. Dentro le mura, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 195-196. Il racconto uscì per la prima volta sulla rivista «Botteghe oscure» nel 1955. L’anno successivo venne pubblicato da Einaudi nella raccolta Cinque storie ferraresi che valse a Bassani il premio Strega. 19 Ivi, p. 209. 20 Ivi, p. 206.
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la sua condizione (da qui l’importanza della storia d’amore che nel racconto non c’è): tornare ad essere la giovane donna che è («Ho appena ventisei anni», esclama affranta) e non la mamma/infermiera di Barilari. Ma è un tentativo che fallisce. E non può essere diversamente: Anna immagina un futuro (che è però un tornare al passato), mettendo così anche lei tra parentesi il presente. E in questa ottica si comprende il “secondo” finale: il benessere del miracolo economico facilitava la rimozione della violenza fascista di pochi anni prima. Si mette tra parentesi il passato fascista. Si chiude con il “ventennio” senza fare i conti con quello che il fascismo aveva significato («meglio troncare nettamente col passato», aveva risposto Franco al padre durante la cena), probabilmente perché questo passato aveva, come pensa “Sciagura” nel racconto, coinvolto tutti. La stretta di mano, dunque, tra vittima e carnefice è non soltanto una rimozione, ma può addirittura essere interpretata come una sorta di complicità. Si chiude con il passato anche per paura di scoprirsi uguali a come si era prima: Franco, un ignavo (Aristarco lo paragonava al Mahler di Senso21) che finge, con se stesso e con gli altri (prima Anna, poi la moglie), di essere diverso da quello che è; Aretusi, un violento che nasconde la sua ferocia dietro un’apparenza paciosa, loquace e gioviale. Quel finale, dunque, che trovò – stando almeno alla testimonianza del regista – l’opposizione degli altri sceneggiatori e in primo luogo di Pasolini22, è invece centrale. Conferma quello che Vancini ha sostenuto fin da quando il film iniziò a circolare nelle sale, essere la pellicola non soltanto «una condanna del fascismo, che del resto non potrebbe essere più esplicita, ma soprattutto la condanna dell’indifferenza»: «Proprio così, un film contro l’indifferenza […] o, se si preferisce, un invito (fatto con la secchezza e la violenza necessarie) a non dimenticare, a non lasciarsi cloroformizzare dal conformismo. L’idea del film mi è nata, potrei dire, dallo sgomento che mi assaliva ogni qual volta, col ricordo di quei momenti che ho vissuto da adole-
21 Il critico affermava che le «parentele» con il personaggio viscontiano erano «palesi»: «i legami con Anna Barilari, del tutto egoistici, la ripulsa per la donna quando non gli serve più, il rifiuto di conoscere il nome dell’assassino del padre, la salvezza fisica quale unica preoccupazione, la fuga in Svizzera, l’inettitudine insomma alla vita, agli avvenimenti che incalzano» (G. Aristarco, La lunga notte, «Cinema nuovo», n. 147, settembre-ottobre 1960, p. 451) 22 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 96.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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scente e che mi è rimasto attaccato alla pelle come una cosa viva, mi soffermavo ad osservare la realtà di oggi»23. Qualche anno dopo, nella testimonianza resa a Franca Faldini e Goffredo Fofi aggiungeva un altro aspetto messo in ombra nell’intervista a «l’Unità» (e non poteva essere diversamente, visto che l’articolo appariva non solo sull’organo ufficiale del PCI, ma anche a ridosso della “calda” estate 1960). Il suo non era un film sulla Resistenza, bensì sulla «non resistenza»: Perché anche questo, secondo me, era un discorso importante da fare, non si poteva continuare a fare un film celebrativo, ormai erano trascorsi molti anni da quel periodo ed era il caso di incominciare a guardare alle cose un po’ di più, e a dire che ci fu una grossa parte del popolo italiano che la Resistenza non la fece e che o se ne stette a guardare o addirittura si rifiutò di farla senza magari schierarsi dall’altra parte, e alcuni anche schierandosi dall’altra parte24.
Vancini non andava più in là. Zurlini in Estate violenta (di cui peraltro Vancini aveva scritto il soggetto ed era stato aiuto regista) si fermava all’8 settembre e non scioglieva il nodo su quale sarebbe stato l’atteggiamento futuro di Carlo. La lunga notte del ’43 va oltre, ma di tutti i personaggi uno solo decide di opporsi al fascismo: Gilberto, il figlio dell’ingegnere amico dell’avvocato Villani. Ma la sua è una apparizione tanto fugace da non suscitare memoria nello spettatore. In definitiva nei film di questo primo scorcio del “miracolo” la Resistenza è una resistenza “casuale” (come l’Emanuele Bardone de Il generale Della Rovere che per caso si trova a diventare un eroe) od “occasionale” (Era notte a Roma). Vedremo come nelle pellicole successive qualcosa invece inizi a cambiare e la partecipazione alla Resistenza diventi attiva e consapevole. Con Il Gobbo [regia di Carlo Lizzani; soggetto di Luciano Vincenzoni, Elio Petri, Tommaso Chiaretti; sceneggiatura di Lizzani, Ugo Pirro, Mario Socrate, Vittoriano Petrilli] si abbandonava il nord (Genova, Milano, Ferrara) e si tornava alla capitale, non quella del Rossellini di Era notte a Roma, ma quella delle borgate. Il film, suo malgrado, costituì nella seconda metà del novembre 1960 oggetto di attenzione da parte di quasi tutta la stampa. E questo non per i suoi meriti artistici (presenti sicuramente) ma semplicemente perché colpito dagli strali 23
F. Dolcetti, Vancini: «Il mio film è un invito a ricordare», «l’Unità», 20 settembre 1960. Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 96. 24
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della censura che giunse ad accusare la pellicola di «apologia di reato». Un’accusa gravissima, che peraltro arrivava mentre il film era in fase di lancio: l’inizio della programmazione, fissato per il 18 novembre, dovette essere spostato causando danni economici non indifferenti al produttore Dino De Laurentiis (che qualche tempo prima, intervistato, aveva risposto che più che i rigori temeva la «troppa liberalità» della censura: «Oggi l’Italia è il paese più libero del mondo»25). Un’accusa dalla quale Lizzani subito si difese sottolineandone l’infondatezza dal momento che la pellicola si concludeva «con il trionfo della giustizia e della legge» e augurandosi che il verdetto della commissione d’appello fosse «positivo, ma anche sollecito: «già fin d’ora se ne risente un danno dovuto al rinvio dell’annunciata programmazione»26. Il Gobbo non era l’unica pellicola – se ne è accennato in precedenza – ad essere oggetto di attenzione da parte della censura, particolarmente “attiva” in quel periodo tanto da suscitare un ampio dibattito sulla stampa. Ad iniziare era Indro Montanelli che, in un lungo articolo sul «Corriere della Sera», in primo luogo sottolineava come la commissione di censura avesse «il potere di vietare, ma non quello di approvare»: ogni pellicola, pur approvata in commissione, su segnalazione di un «qualunque cittadino che può essere anche un baggiano», poteva successivamente essere bloccata dalla procura della città dove era in programmazione (Montanelli ricordava Rocco e i suoi fratelli, Il passaggio del Reno, La giornata balorda). La conseguenza era che il produttore non era mai sicuro della «commerciabilità del prodotto, eternamente in balia delle iniziative di un privato e dei capricci moralistici di un magistrato». Una situazione assurda che, danneggiando i produttori esposti «alla bizza di un procuratore della Repubblica, il quale può benissimo essere un genio in fatto di diritto, ma non capire un’acca in fatto di cinematografo», si risolveva in un enorme danno per la cinematografia italiana che aveva il grande merito di aver riportato l’Italia al centro del dibattito culturale internazionale27. Occorreva dunque fare ordine stabilendo quale fosse l’organo destinato a vigilare sulla «moralità» del film: «Non è più possibile continuare in questo pastrocchio all’italiana, fatto di poteri che si contraddicono e si annullano a vicenda, di gusti
25
M. Argentieri, Censurato «Il Gobbo», «l’Unità», 14 novembre 1960. a.n., Apprensioni e polemiche per i nuovi “veti” della censura, «la Stampa», 15 novembre 1960. 27 I. Montanelli, Per non avere censura bisogna saperlo meritare, «Corriere della Sera», 16 novembre 1960. 26
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
soggettivi, di opinioni personali, di ghiribizzi e di bizze»28. Montanelli concludeva ricordando però come «alle colpe dello Stato» si sommassero anche «quelle dei diretti interessati». Non citando titoli né tanto meno facendo riferimento a Il Gobbo da cui era partito, il giornalista ricordava come spesso prevalessero nel mondo del cinema (con cui lui stesso aveva «fornicato») le esigenze di «cassetta»: «Noi stessi molto spesso non sappiamo se tale scena “a effetto” ci è proprio imposto da un preciso motivo di verità artistica. Ci diciamo di sì per tranquillizzare la nostra coscienza. E parlo di coloro che una coscienza l’hanno, anche se ne evadono gli interrogativi, cioè dei migliori. Figuratevi i peggiori». Insomma, non si poteva chiedere l’abolizione della censura se non si era capaci autonomamente di «discriminare l’artista dal pornografo». Per evitare che lo Stato intervenisse – «malissimo», aggiungeva – era necessario responsabilizzare tutti i protagonisti: «produttori, registi, sceneggiatori, scrittori, giornalisti, gente insomma qualificata a esprimere un giudizio che, una volta pronunciato, dovrebbe impegnarci tutti, solidalmente, a difenderlo»29. Cosa certamente non facile per un «pollaio rissoso» quale era il mondo del cinema, ma indispensabile se non si voleva rimanere «esposti non dico agli intenzionali soprusi, ma alle inevitabili ambiguità e confusioni di una censura governativa, fatalmente e fiscalisticamente borbonica. Come tutte le altre libertà, anche quella del cinematografo e del teatro la si difende in un modo solo, autodisciplinandola, non abusandone. Altrimenti si genera l’anarchia. E l’anarchia chiama sempre i carabinieri»30. Lo stesso giorno (16 novembre) in cui era apparso l’articolo di Montanelli sul «Corriere della Sera», Antonio Orvieto, sul quotidiano “gemello”, il «Corriere d’informazione», promuoveva, con un articolo intitolato Referendum sulla censura e i limiti tra arte e morale (sottotitolo, Apriamo le colonne del “Corriere d’informazione” a eminenti personalità che hanno qualcosa da dire in proposito), un dibattito che coinvolse numerosi esponenti del mondo della cultura, della politica, della magistratura, del giornalismo e ovviamente del cinema31. È impossibile citare tutte le numerosissime voci di una discussione che si protrasse per circa un mese. Ricordiamo le più note: tra gli scrittori Alberto Moravia, Giovanni Titta Rosa, Piero Bigongiari, Romano Bilenchi, Mario Luzi, Goffre28
Ibid. Ibid. 30 Ibid. 31 A. Orvieto, Referendum sulla censura e i limiti tra arte e morale, «Corriere d’informazione», 16-17 novembre 1960. 29
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do Bellonci, Elio Vittorini, Piero Bargellini, Goffredo Parise, Giorgio Bassani, Leone Piccioni, Dino Buzzati, Alberto Bevilacqua, Giacomo Debenedetti. Inoltre, Eugenio Montale e Giorgio De Chirico. Tra i tanti esponenti politici, Egidio Ariosto (era stato sottosegretario allo Spettacolo), Giuseppe Saragat (segretario PSDI), Giovanni Malagodi (segretario PLI), Renzo Helfer (sottosegretario allo spettacolo). Non mancavano registi e sceneggiatori (Federico Fellini, Luigi Zampa, Carlo Lizzani, Luciano Salce, Vittorio De Sica, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile) e attori: Tino Carraro, Lea Padovani, Anna Proclemer, Giulietta Masina, Sylva Koscina, Sandra Milo, Marisa Merlini, Vittorio Caprioli, Umberto Orsini, Arnoldo Foà, Lilla Brignone. Inoltre il produttore Moris Ergas e i critici cinematografici e teatrali Pietro Bianchi, Eligio Possenti, Vittorio Buttafava, Leonardo Borgese, Vincenzo Talarico. Tra i giornalisti, vanno ricordati almeno i direttori Giorgio Fattori («L’Espresso»), Edilio Rusconi («Gente»), Nando Sanpietro («Epoca»), Nino Nutrizio («La Notte»), nonché Giovanni Mosca, Vittorio G. Rossi, Domenico Bartoli, Camilla Cederna, Giovanni Russo. Presenti, infine, anche se poche, le osservazioni di esponenti ecclesiastici: su tutti, spiccava il nome del cardinale di Milano Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI). Altrettanto impossibile riassumere l’intero dibattito fatto di interventi, alcuni molto articolati (per tutti in nota citiamo parte di quello di Fellini32), altri lapidari, altri ancora, un po’ “fuori tema”, 32 «La censura, così come è sempre stata contraddittoriamente esercitata in Italia, è il segnale d’allarme più clamoroso per avvertirci di un fallimento della democrazia e della circolazione della cultura libera e moderna […] Nessun paese al mondo è più pagano del nostro, assistiamo da sempre alla glorificazione grossolana del sesso come oppio della vita. Ci sono alluvionali esempi di pornografia e immoralismo gaiamente circolanti nelle edicole e sugli schermi d’Italia, ma tutte le volte che la cultura affronta ricerche tendenti a giudicare e ad analizzare questo stesso modo la censura insorge ipocritamente perché non vuole che la cultura autentica tenti di impossessarsi criticamente di questa maniaca febbre erotica che circola per la vita moderna. Non vuole che venga sminimizzata, derisa, distrutta con una rappresentazione spietata, libera, priva di compiacimenti, leale […] Comunque dietro l’offensiva attuale della censura c’è ben più che la riscossa dell’immorale pudore del bigotto; c’è la forza frenante statica del viluppo retorico, esoso, interessato di un mondo morto che rifiuta il passo ad un mondo vivo e che scandalosamente vuole identificarsi con le leggi del nostro Stato democratico e asservirle ai suoi infimi scopi. Spetta alla storia, al lento passare del tempo, all’accettazione o al rifiuto da parte della coscienza nazionale, e non a singole persone, più o meno competenti, giudicare quando un’opera abbia o meno vera forza di cultura, di arte, di poesia. Impiegati dello Stato afflitti da una scala di valori immortalmente ginnasiali, non possono fissare la tavola dei valori morali di una Nazione moderna. La moralità è dinamismo, è apertura; la staticità è immorale perché è contro le leggi naturali della vita» (Censura, arte e morale, «Corriere d’informazione», 22-23 novembre 1960).
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
che riducevano un problema vasto e complicato a singoli esempi, scagliandosi contro il cinema «commerciale», in particolare quello comico con protagonista Totò33. Ne era consapevole lo stesso Orvieto che si limitava, nell’articolo conclusivo, a sottolineare come tutti gli intervenuti si mostrassero scontenti dello stato attuale suggerendo urgenti rimedi. Ma su questi le opinioni divergevano nettamente. Orvieto pertanto si chiedeva se, in attesa di nuovi provvedimenti legislativi, ci si potesse affidare alla «responsabilità» e alla «moderazione» delle parti in causa, magari con «reciproche concessioni». Ma argutamente concludeva: «Non vorrei essere considerato un ingenuo, fervidamente augurandolo»34. Dopo questa ampia e necessaria parentesi torniamo al film di Lizzani che se la “cavò” con qualche piccolo taglio e usciva nelle sale con solo due settimane di ritardo35. Anzi, per qualcuno costituiva addirittura un merito il fatto che la pellicola fosse incappata negli strali della censura. Il film «sotto sotto, – scriveva su «Filmcritica» Ettore Zocaro – ha un suo fermento antifascista, un suo fervore di idee e una sua logica: Pur raccontandoci una storia di un bandito egli ha messo, strada facendo, le cose in chiaro. Se si fosse trattato di una delle solite pellicole d’avventura, uno dei tanti prodotti su un “eroe” qualsiasi, romanzato secondo usuali schemi, non avrebbe subito insospettito36. 33 Era il caso, ad esempio, della giornalista Flora Antonioni, parente del regista, che se la prendeva con la volgarità di Letto a tre piazze (il film con Totò e Peppino De Filippo), «di cui non si sa che cosa sia di più miserando e più sconcio: se il soggetto, la sceneggiatura, il dialogo, le situazioni, le battute di una pornografia da caserma. Un film in cui niente si salva, in cui tutti i sentimenti umani e tutti gli aspetti del vivere sono avviliti ad una miseria senza nome. Non credo che registi del valore di Visconti, di Fellini, di Lattuada e di Antonioni possano meritare censure maggiori di quelle che avrebbero dovuto bollare senza pietà il regista di “Letto a tre piazze”. Evidentemente deve esserci qualcosa che non va nella faccenda della censura. Qualcosa a cui è bene pensare seriamente» (S’arroventa la polemica sulla censura e l’arte, «Corriere d’informazione», 19-20 novembre 1960). 34 A. Orvieto, Concludiamo sulla censura, «Corriere d’informazione», 13-14 dicembre 1960. 35 I tagli riguardavano la sequenza in cui alcuni popolani inchiodano una targa, intitolando una via al bambino amico del Gobbo ucciso dai fascisti, alcune modifiche ai dialoghi tra il protagonista e le suore, la sequenza in cui il “gobbo” asciuga il sudore al maresciallo dopo averlo minacciato di morte (e.m., Prime rappresentazioni. Il gobbo, «l’Unità», 3 dicembre 1960). Va sottolineato comunque che rispetto alla sceneggiatura originale il film era stato ampiamente rivisto prima ancora che iniziassero le riprese. Cfr. Revisione Cinematografica Preventiva, 8 luglio 1960, ACS, MTS, Div. Cin., b. 273, f. 3377. Si veda anche l’appunto, datato 9 luglio 1960, del direttore generale De Pirro al ministro Umberto Tupini (governo Tambroni) in cui si ricordava che la Società De Laurentiis aveva assicurato di aver eliminato le scene scabrose e molte battute che potevano risultare volgari o sconvenienti (ivi). 36 E. Zocaro, Il gobbo, «Filmcritica, n. 105, gennaio 1961.
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Il Gobbo era ispirato alla vicenda di Giuseppe Albano, un ragazzo di diciassette anni che «dopo l’8 settembre 1943, fu a capo di una piccola banda di sottoproletari come lui, che si batterono coraggiosamente contro i tedeschi a Porta San Paolo e, durante l’occupazione, contro i nazisti e i fascisti collaborazionisti. La banda del “Gobbo”, un esempio della spontaneismo che (come ebbe a ricordare Rosario Bentivegna), caratterizzò parte della Resistenza romana, faceva capo al Movimento Bandiera Rossa, molto presente alla periferia della Capitale e nelle campagne del Lazio, sino a toccare Tarquinia e Viterbo, ed era orientata dai socialisti di Franco Napoli, pure lui oriundo calabrese»37. Questo afferma il sito ufficiale dell’ANPI. Sembrerebbe che le cose però non siano così chiare. Qualcuno ha raccontato di un Albano dalle due vite, una di partigiano, l’altra di delinquente comune; non manca chi ha collegato il “gobbo” a un’equivoca organizzazione politica, l’Unione Proletaria (sigla dietro la quale si nascondevano personaggi ambigui del vecchio regime), che, in contatto con Umberto II, tentava di frenare il processo democratico in atto in Italia38. In ogni caso è incontrovertibile che la figura di Giuseppe Albano assunse, fin dall’inizio della sua ribellione ai tedeschi (in una celebre fotografia, ancora con i calzoni corti lo si vede sparare insieme ai soldati italiani contro i tedeschi39), i contorni della leggenda. Un personaggio, dunque, che ben si prestava all’intento di Lizzani che sottolineava, a riprese appena iniziate, di non avere alcuna intenzione di effettuare una «rievocazione cronachistica», ma un «racconto tra cronaca e leggenda»40. A conferma veniva cambiato il nome del protagonista, Alvaro Cosenza [Gérard Blain], e il film iniziava con una voice over che, sull’immagine di una cartina di Roma, chiariva immediatamente l’intento della pellicola: «Roma è circondata da una catena di borgate disseminate nella campagna e nascoste fra i ruderi. Sono costituite in gran parte da immigrati delle campagne e del Meridione. Alla fine del 1943, quando Roma era occupata dai 37
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/322/giuseppe-albano. Come è intuibile, si tratta di ricostruzioni ancora non attendibili sul piano storico: S. Corvisieri, Il re, Togliatti e il gobbo. 1944: la prima trama eversiva, Roma, Odradek, 1998; M. Musu, E. Polito, Roma ribelle: la Resistenza nella capitale, 1943-1944, Milano, Teti, 1999; B. Gemelli, Il gobbo del quarticciolo: vita e morte del calabrese Giuseppe Albano, Reggio Calabria, Città del Sole, 2009; M. Recchioni, G. Parrella, Il gobbo del Quarticciolo e la sua banda nella Resistenza, Milano, Milieu edizioni, 2015. 39 La fotografia comparve sulla copertina del volume curato da L. D’Agostini e R. Forti, Il sole è sorto a Roma: settembre 1943, Roma, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, s.d. [1965]. 40 V. Ciuffa, Cinecittà farà rivivere il gobbo del Quarticciolo, «Corriere della Sera», 1° luglio 1960. 38
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
tedeschi, cominciò a far parlare di sé, in una di queste borgate, un ragazzo gobbo di 19 anni che sarebbe diventato poi uno dei più feroci criminali del dopoguerra». La prima immagine mostrava il manifesto con la foto di Alvaro e l’annuncio di una taglia di 30.000 lire. Seguiva immediatamente una bella sequenza nella quale si riprendeva quanto era realmente avvenuto: la retata dei gobbi della borgata ad opera dei soldati tedeschi. Nel film però questa costituiva un’incongruenza: nella realtà la retata fu effettuata perché l’unico elemento fisico di Giuseppe Albano di cui i tedeschi erano a conoscenza era appunto la gobba, mentre la pellicola – come si è detto – si apriva con la foto di Alvaro. Subito dopo compare in scena lui: «Porta fortuna la gobba», esclama, irridente e beffardo, dopo aver sbaragliato i tedeschi e liberato i prigionieri. Ma non è finita. Nonostante l’opposizione dei compagni decide di andare a punire a casa sua il maresciallo Moretti [Ivo Garrani], il suo implacabile nemico che è andato a cercarlo dai genitori. E lì, dopo aver attirato fuori Moretti, stupra la figlia Ninetta [Anna Maria Ferrero]. Da queste prime sequenze si comprende subito come la pellicola di Lizzani si muovesse su registri diversi da quelli usuali dei film incentrati sulla Resistenza. Prevaleva la gangster story condita da una tormentata e drammatica vicenda d’amore e da un’esplorazione delle borgate romane con annesso sottoproletariato che bene rendeva – come scriveva sul «Corriere della Sera» Lanocita – l’atmosfera cupa e desolante dell’ultimo periodo della guerra: La regia di Lizzani si è esercitata con particolare felicità nella colorazione dell’atmosfera, quella cruda e dolorosa dell’ultimo tempo di guerra: ferocia e viltà degli egoisti, mitezza e generosità dei buoni ricorrono negli episodi di quel mondo convulso affollato di borsaneristi, di falsi e veri combattenti, di donne in vendita, di reputazioni rifatte. In questo, e nel disegno di certi personaggi, Lizzani ha reiventato il vero, con vena ricca e invenzione fluida41.
Una Roma “brutta, sporca e cattiva” (per parafrasare il titolo di un celebre film del 197542), dove la perfidia si manifesta già nei soprannomi che fanno cenno al difetto fisico (il “gobbo”, ma anche il “monco”, Leandro, uno splendido Pier Paolo Pasolini qui per la prima volta in
41
lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 2 dicembre 1960. Brutti, sporchi e cattivi (regia di Ettore Scola; soggetto e sceneggiatura di Scola e Ruggero Maccari). 42
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veste di attore43) o all’estrema povertà (“Pezze ar culo”, il bambino che partecipa alle azioni di Alvaro e che morirà per salvare l’amico). Questo il teatro dove si svolgono le vicende, caratterizzate da un ritmo molto serrato, “americano”, che probabilmente costituì anche uno dei motivi del successo della pellicola (un miliardo di incasso). Ai numerosi scontri armati, dove suona e fiammeggia il mitra, si alterna la storia di amore-odio tra Ninetta e Alvaro: sarà lei a nascondere in soffitta il “gobbo” ferito dopo uno scontro con i tedeschi («È ferito. A casa tua i tedeschi non lo verranno a cercà mai. – la implora “Pezze ar culo” – Lui si fida soltanto di te. Mo’ litiga pure con li amici sua pe’ te»), sarà lei che ad un Alvaro ormai guarito confessa di esserne innamorata e, fattasi promettere che non ucciderà il padre, di aspettare un bambino. Nella sua ingenuità immagina che questa nascita possa cambiare tutto: «Non è pe’ paura, adesso. – risponde tremando ad Alvaro – Noi due non contiamo più niente. Mo’ è lui che comanna. Pensaci». Alvaro non terrà fede alla promessa. Si vendicherà di Moretti, che ha tentato di farlo passare per un infiltrato, uccidendolo. Di conseguenza Ninetta abortirà e non vorrà più vederlo. Successivamente, espropriata della sua casa («Adesso tocca ai traditori annà ad abità nelle grotte. – le urla Leandro, il “monco” (ha perso la mano per le torture subite da Moretti e dai fascisti) – Pe’ noi è finita la carestia. Oggi tocca a noi a sta’ bene, provateci voi a annà a rubà, provateci voi a batte’ er marciapiede»), inizierà a prostituirsi. Nel frattempo le imprese del “gobbo”, ormai allontanatosi dai suoi vecchi compagni, diventano sempre più frequenti (veloce carrellata di titoli di quotidiani che parlano di omicidi, rapine, scontri a fuoco e alla fine dell’uccisione di un soldato alleato): Alvaro è una sorta di leggenda anche perché 43 Pasolini in un’intervista dichiarava di aver accettato la proposta di Lizzani per distrarsi: «Con tante noie e tante seccature che ho in questo periodo, non posso concedermi neppure una piccola vacanza. Per questo il “set” costituisce, per me, un diversivo, un luogo di riposo» (Solo per distrarsi Pasolini fa il monco, «Corriere d’informazione», 21-22 luglio 1960). In realtà – come ricorda lo stesso Lizzani – Pasolini utilizzò quell’esperienza proprio per fare “pratica” come regista: «si divertiva molto a stare sul set anche quando non era prevista la sua posa. Lo vedevo che interrogava gli operatori, la segretaria di edizione. Era molto attento insomma all’importanza degli obiettivi…» (V. Zagarrio, Tre volte nella polvere, tre volte… Intervista a Carlo Lizzani, in V. Zagarrio, a cura di, Carlo Lizzani. Un lungo viaggio nel cinema, Venezia, Marsilio, 2010, p. 6). Pasolini aveva anche partecipato a una prima stesura della sceneggiatura, ma in seguito, per dissensi con lo stesso Lizzani, aveva ritirato la firma. Voleva fare «un racconto-cronaca anziché un racconto-romanzesco. Poi c’era il linguaggio da lui adoperato, che io, che sono romano e conosco bene dialetto e gergo, trovavo eccessivo e a volte di maniera. Mi ha dato però delle idee che sono rimaste di fondo» (Il gobbo e la storia senza schemi. Colloquio con Carlo Lizzani, in «bianco e nero», nn. 576-577, maggio-dicembre 2013, p. 13).
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devolve una parte degli incassi a un istituto di suore affinché gli orfani ospitati possano nutrirsi e vivere bene (tra le suore compariva Maria Laura Rocca, moglie dell’ex presidente dell’Assemblea Costituente e senatore Umberto Terracini). Ed è proprio nell’istituto che andrà a trovarlo un coraggioso maresciallo dei carabinieri [Bernard Blier] che, dopo aver sottolineato come la misura fosse ormai colma (le «autorità hanno deciso di riportare l’ordine nella città, a qualsiasi costo»), tenta di convincere Alvaro a costituirsi: «Sei ancora in tempo per salvarti. Sei giovane. Credi a me: ci saranno le amnistie», gli ricorda: Alvaro – Le amnistie vanno bene per i delinquenti comuni, ma non pe’ mme! Maresciallo – Ma tu lo sei un delinquente comune, non t’illudere. Oggi sei forse più forte di me, della legge. Ma non durerà molto!
Colpito dal suo coraggio (il maresciallo, benché sotto minaccia delle armi, si rifiuta di gridare «Viva il gobbo!»: non può, ha moglie e figli, ma è un militare), Alvaro lo lascia andare. Ninetta comunque è sempre nel suo cuore. In un drammatico incontro in cui lei gli rinfaccia di essere per colpa sua «piena di veleno, piena di veleno, capito? Fino in fondo alle ossa! So’ marcia dalla testa ai piedi e non me ne importa niente», Alvaro le confessa di essere venuto per «chiedere un favore», che Ninetta cambi mestiere. «Questo è un mestiere che non se cambia», è la risposta che provoca la reazione rabbiosa e violenta del “gobbo”, che scuotendo di pugni la porta le urla che «ha finito de fa’ la vita, te con tutte le compagne tue». Cosa intenda lo si capisce dalla sequenza successiva in cui si vedono gruppi di prostitute costrette dalla banda di Alvaro a salire su alcuni camion. Un’operazione che così viene commentata da un ragazzo che ha assistito alla scena: «Sembra proprio una retata della Buoncostume: se le sta a portà via tutte. Ahò, nun ne lassa neanche una!». Nel covo della banda Alvaro intima alle prostitute di «farla finita, da stanotte. con ’sta infamia della prostituzione». I soldi glieli darà lui. E pronunciando queste parole lancia rotoli di banconote, mentre uno della banda commenta: «Pane a li ragazzini, soldi a ste disgraziate. E a che serve se c’hai le mani sporche di sangue». Il “monco” però non ci sta. Si riprende la sua Nella e fa per andare via. Alvaro lo minaccia: Leandro [estraendo una pistola] – Ma chi sei? Ma chi te credi d’esse’? questa è la donna mia e deve fa’ quello che dico io, no quello che dichi te! Ce siamo capiti una volta pe’ tutte? Ma che te sei messo in testa?
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Ti so’ rimasti i giorni contati e proprio adesso tiri fuori le unghie? Nun lo fai il bravo con me […] mo’ fai sta scenata perché c’è Ninetta e vuoi fa il bravo di fronte a lei… Alvaro – Lascia sta’ Ninetta! Leandro – E perché? Ninetta è come tutte ste disgraziate che stai a illude’… e magari è pure peggio… all’ospizio la devi manna’ […] Questo s’è messo a fa’ er redentore… ma per gelosia…
Alvaro spara e uccide Leandro. Le prostitute fuggono. I compagni di Alvaro lo guardano con riprovazione. In quel momento una voce proveniente da un megafono intima al “gobbo” di arrendersi. È circondato. Alvaro e Ninetta fuggono nel canneto, inseguiti dai carabinieri. «Nun te dovevo portà con me, Ninetta. Torna a casa tua!», ma la donna con fermezza gli ricorda che questa volta è stata lei a volerlo seguire e gli confessa che dovrebbe odiarlo, ma le pare di non avere al mondo altri che lui. E Alvaro: «Questo mi dà coraggio, ora vorrei vivere… sapessi, vorrei fa’ tante cose pe’ te, ma me dispiace… ho paura che è troppo tardi». Ninetta crede che non sia tutto perduto. A casa ha tanti soldi: «Coi soldi se po’ fa’ tutto! Ce ne possiamo annà dove non ci conosce nessuno, dove tutti ci tratteranno come dei cristiani, non come dei cani arrabbiati». Il piano sembra riuscire. Ninetta torna con i soldi. Ma la donna è stata seguita dai carabinieri. È l’alba. I due vengono circondati. Alvaro urla a Ninetta di andarsene mentre lei lo implora di non sparare. Alvaro non intende ragioni. Spara. I carabinieri reagiscono e colpiscono Ninetta. Alvaro si volta verso di loro e sarà proprio il maresciallo a ucciderlo con una sventagliata di mitra. Il film si concludeva mostrando i due corpi esanimi sul greto del fiume: successivamente la macchina da presa, in dissolvenza, inquadrava l’acqua e poi saliva verso il cielo, mentre in sovraimpressione compariva – una citazione del finale di Paisà – la scritta: «Era il marzo del 1945. Al Nord la guerra non era ancora finita». Il Gobbo era, come si è notato, una pellicola diversa da quelle viste in precedenza. Certamente per il modo in cui fu girata, con un ritmo molto veloce e ricorrendo, dal momento che si trattava di una produzione a basso costo, a stratagemmi di varia natura per risparmiare. Ad esempio, Lizzani ricordava, in un incontro con i docenti e gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia tenutosi nelle ultime settimane del 1960, che la sequenza della fuga nel canneto era girata tutta «in un teatrino di posa minuscolo, quanto un’aula di lezione o poco più. Girarla dal vero, all’aperto, di notte, con i carrelli tra le canne, lunghi, tra gli acquitrini, avrebbe comportato almeno una
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
settimana di lavoro; così l’abbiamo girata in un giorno. Far muovere gli attori in uno spazio ristretto e dar l’impressione di uno spazio vasto, aperto, costituiva una grossa difficoltà. Io l’ho risolta così: ho piazzato la macchina da presa al centro di questo spazio rotondo come un piccolo circolo; poi ho usato un obiettivo 100 che schiacciasse molto togliendo il senso della circolarità e dando l’impressione […] di carrelli lunghissimi di cinquanta metri, che sembrano fatti con la ferrovia»44. Ed era un film diverso anche per la tematica, uscendo fuori dall’«autocensura» – specificava il regista in un’intervista apparsa nel 2004 – fino ad allora praticata da chi si sentiva a sinistra: «certi aspetti della Resistenza, certe degenerazioni imputabili a fattori puramente individuali, non a una deviazione del movimento nel suo complesso, potevano sembrare tabù»45. Nel film, infatti, non c’erano più i partigiani “buoni” a tutto tondo. Certo, già c’era stato l’Emanuele Bardone de Il generale Della Rovere. Lì però il cialtrone si trasformava in eroe. Qui invece Alvaro rimane quello che è all’inizio: «Ma non t’illude’, Arva’! – esclama Cencio [Nino Castelnuovo], qualche mese dopo la liberazione di Roma – Guardate attorno. Hai voglia a dì; tu sei un bandito […] Ti fai solo gli affari tui». È un personaggio ambiguo, contraddittorio, capace di slanci generosi, ma anche spietato e crudele, cinico e calcolatore, però con l’ingenuità e i sogni di un bambino46. Forse gli si avvicinava, ma solo nel suo rimanere immutato, dall’inizio alla fine del film, il protagonista de La lunga notte del ’43. Non a caso Lizzani citava, tra gli altri, la pellicola di Rossellini e quella di Vancini quando metteva in luce, nell’incontro sopra citato, il cambiamento di prospettiva rappresentato dalla sua pellicola: In questi ultimi tempi tutto il cinema italiano sta riesaminando se stesso e il proprio mondo poetico e si può dire che tutti, e la cosa vale anche per me, vogliamo rivedere la nostra storia in termini più dialettici, più problematici. I personaggi dei film degli ultimi due anni sono, si osservi, per lo più personaggi negativi: il “Generale Della Rovere” è un truffatore; in Rocco e i suoi fratelli i personaggi più appassionanti sono quelli negativi, quelli che vibrano appunto sotto la spinta di passioni negative; Kapò è la storia di una ragazza 44
Ivi, p. 10. A. Petricelli, Da Achtung! Banditi! A Maria José: la resistenza nel cinema di Lizzani, in P. Iaccio, a cura di, La storia sullo schermo. Il novecento, Cosenza, Pellegrini, 2004, p. 47. 46 A questa immagine del protagonista – sottolineava Lizzani – aveva contribuito proprio la censura: «Il consiglio dei censori infatti era proprio questo: rendere il personaggio più crudo, renderlo […] più negativo, in modo che ci sia meno attaccamento da parte del pubblico e quindi il film sia meno pericoloso» (Il gobbo e la storia senza schemi, cit., p. 11). 45
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che tradisce la sua gente; La lunga notte del ’43 è la vicenda d’un vile. E questo non perché ci sia compiacimento nel descrivere il male nel male, o in altre parole andare a trovare in un periodo oscuro le cose più oscure, ma perché abbiamo avvertito che ora dovevamo guardare più a fondo nel tempo di ieri e restituire la nostra storia in film in forma più complessa, più dialettica47.
Il Gobbo – aggiungeva – era il tentativo di cominciare a vedere i personaggi «nella loro complessità» e, nella «cornice» della Resistenza, «individuare un personaggio ambiguo, vederlo in quell’epoca e misurare la mia capacità o meno di andare in fondo a questa strada, al passo con quanto oggi chiede il pubblico ed esige lo sviluppo stesso del cinema italiano»48. Purtroppo la sceneggiatura e i dialoghi, non all’altezza della regia (se ne accorse immediatamente la critica dell’epoca, ma ne era consapevole lo stesso Lizzani49), spesso non riuscivano ad essere in sintonia con la drammaticità e la cupezza suggerite dalle immagini e a rendere la complessità dei personaggi, il guazzabuglio dei loro sentimenti. Probabilmente, in parte anche per l’assunto del film, teso a mostrare come i protagonisti non fossero in grado di uscire dai ruoli loro assegnati. Alla figlia che gli chiede perché non sia possibile lasciare tutto, cambiare casa e tornarsene al paese, Moretti risponde: «E che risolvi?». Ninetta insiste: perché sta con i fascisti se forse, come lui stesso ha affermato, «vinceranno gli altri»? E il padre: «E con chi dovrei sta’?». La guerra civile era laconicamente spiegata così da Ninetta a Peter, il soldato americano che la salva dall’aggressione di Alvaro e la riaccompagna a casa: Peter – Tu fascista? Ninetta – No! Mio padre fascista. Capito? Peter – […] Perché tuo padre fascista? Ninetta – Non lo so! Peter – E ora dove sta? Ninetta – È morto 47
Ivi, p. 9. Ivi, p. 11. 49 Cfr. lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 2 dicembre 1960; l.p., Lettere di una novizia: le confessioni di un’anima nera, «La Stampa», 3 dicembre 1960. A una precisa domanda di Mario Verdone, nell’incontro con studenti e docenti del Centro Sperimentale, il regista dichiarava di non essere «soddisfatto» della sceneggiatura, ma di assumersene comunque la responsabilità. La colpa delle sceneggiature “deboli” andava fatta risalire «alla mancanza di una grande tradizione drammatica di teatro e di una grande tradizione narrativa […] Certo che sulle nostre spalle grava appunto l’onere di fare, attraverso il cinema, teatro in un Paese che non ha teatro, romanzo in un Paese che non ha romanzo (a parte quei pochi nomi che tutti sappiamo» (Il gobbo e la storia senza schemi, cit., pp. 12-13). 48
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Peter – Why è morto? Ninetta – L’hanno ammazzato. L’ha ammazzato quello là, quello con la gobba, il gobbo, capisci? Peter – Ammazzato? Why? Perché? Ninetta – Perché i partigiani ammazzavano i fascisti e i fascisti i partigiani.
Un mondo chiuso, con ruoli prefissati, dal quale non si esce (come non riusciranno a uscire, se non con la morte, Ninetta e Alvaro), incomprensibile per Peter che, dopo aver esclamato per l’ennesima volta «Why?», abbandonerà Ninetta: «Prego no – le dice non facendola risalire sulla jeep – Io non capire niente». Nel film di Lizzani affiora per la prima volta un tema che caratterizzerà altre pellicole degli anni successivi: la contrapposizione tra spontaneismo e organizzazione, esemplificata nello scontro tra Alvaro e Cencio, il capo partigiano, ma anche l’amico che cerca inutilmente di riportarlo all’osservanza delle regole e della disciplina: Cencio - Arvà, il comando ha dato ordine che tu devi lascià questa zona […] tu della lotta partigiana non hai mai capito niente. Tu non pensi di esse’ dentro un’organizzazione, che ci sono degli ordini, c’è una disciplina. Tu te la fai per conto tuo la guerra, coi nemici che te pare e quanno te salta in testa. Sei un pericolo pure per noi, non fai altro che danni. Alvaro – Ah, non faccio che danni? Allora so’ danni quelli che faccio io! Ma io ho messo il terrore ai fascisti qui intorno. Ho fatto fuori più tedeschi io che tutti voi messi assieme. Altro che sporcà la carta co’ l’inchiostro e distribuì i manifestini!
Cencio intima ad Alvaro di restituire le armi: «Noi le armi le levamo ai tedeschi, no ai partigiani!», è la risposta del “gobbo” che però obbedisce consegnandogli la pistola. Strettamente connesso al tema dell’organizzazione che sta stretta a uno come Alvaro è un altro argomento fino ad allora mai sfiorato dalla cinematografia: la consegna delle armi da parte dei partigiani agli alleati. Quando arriva l’ordine tocca a Cencio convincere i compagni che sono restii: «Pe’ tre anni gli italiani gli hanno sparato in faccia. Non si fidano perché non possono immaginà quello che è successo, quello che abbiamo passato». Qualcuno accoglie le parole di Cencio, buttando le armi. Non così Leandro, il “monco”. Dopo essersi strappato il nastro tricolore dal braccio, esclama: «Dopo tutto la patria mia è la panza, ecco quello che è la patria mia!». In definitiva, Lizzani non si esimeva dal trattare temi che potevano risultare scabrosi per la retorica resistenziale così come si era venuta
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delineando. Il Gobbo ebbe, come si è notato, una buona accoglienza dal pubblico, ma non altrettanta fortuna presso la critica dell’epoca, sia quella legata al mondo cattolico50 che quella più vicina a posizioni di sinistra. Alla pellicola erano riconosciuti alcuni momenti felici (la figura del soldato americano che non riesce a comprendere il mondo nel quale è stato catapultato, la consegna delle armi, il ritorno di Alvaro in borgata seguito dai fascisti e la morte del piccolo “pezze ar culo”), ma nel complesso veniva rimproverata la scarsa attenzione al contesto storico. «Peccato perché proprio qui attendevamo Lizzani alla prova», concludeva «l’Unità»51. Era mancata – scriveva «Cinema 60» – un’indagine «scandagliata sul travagliato mondo del dopoguerra»: Lizzani aveva trasformato il gobbo del Quarticciolo in una sorta di leggendaria figura di fuorilegge «umanitario», un’operazione analoga a quella Nicholas Ray con Jesse James: «Gli schemi dello spettacolo a sensazione hanno sopraffatto l’esigenza di una ricerca rigorosa»52. Molto simile il giudizio di «Cinema nuovo». Adelio Ferrero, dopo aver notato che il film era lontano dalle opere quasi contemporanee di Zurlini e Vancini, sottolineava che Lizzani era approdato «con almeno vent’anni di ritardo (Pépé-le-Moko è del ’36 e Quai des brumes è del ’38) al ritratto violento e malinconico di un ribelle votato in partenza alla sconfitta». Sicuramente era lecito fare un film sulla Resistenza con un eroe negativo: «Ma l’Alvaro di Lizzani non ha proprio nulla dell’eroe negativo, tutt’altro». La sua non era la storia della formazione di un giovane mentre stavano crollando i miti del fascismo. «E non è neppure il ritratto controluce di un ragazzo cresciuto troppo in fretta che vive intensamente un’esperienza di così profonda disintegrazione di pseudovalori e continua poi in una sua lotta isolata e assurda, ma generosa, per la delusione di non vedere realizzate certe aspirazioni confuse, ma schiette, di più radicali e intransigenti rotture»53. Insomma, Lizzani si era spinto troppo in là: era ancora difficile ammettere che nel mondo
50 “Feroce” la recensione di Nino Ghelli su la «Rivista del Cinematografo»: si trattava – scriveva – di «un’opera fiacca e senza nerbo, confusa e retorica, grossolana e pretenziosa» in cui era possibile vedere «addirittura il tentativo di una giustificazione del crimine», con personaggi di «assoluta inconsistenza: vuoti manichini di un mondo di fantocci e di cartapesta». Il Gobbo era «un infame polpettone che ancora una volta taluni critici hanno lodato come “coraggiosa indagine di costume”. Nei confronti di film siffatti l’unico coraggio è, ci si creda, quello dello spettatore» (N. Ghelli, Il gobbo, «Rivista del Cinematografo», gennaio 1961). 51 e.m., Prime rappresentazioni. Il gobbo, cit. 52 F. Viani, Romanticismo duro a morire, «Cinema 60», n. 5, novenbre 1960. 53 a.f., Schede. Il gobbo, «Cinema nuovo», n. 149, gennaio-febbraio1961, p. 54.
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della Resistenza potessero aggirarsi gli Alvaro Cosenza, tanto più che la storia del protagonista veniva raccontata «con un’adesione sincera e scoperta, che è confermata dalla pietosa partecipazione del finale»54. Nel 1961 Filippo Walter Ratti girava, su soggetto di Vincenzo Petti e Luigi Angelo e sceneggiatura sua e di Angelo, Dieci italiani per un tedesco, arrivato sugli schermi l’anno successivo con un incasso molto modesto (poco più di ottanta milioni), frutto anche probabilmente della scarsa attenzione riservatagli dalla stampa quotidiana. La didascalia iniziale chiariva come il tema del film – l’eccidio delle Fosse Ardeatine dove i tedeschi fucilarono, in seguito all’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo 1944, 335 italiani – non era ancora stato oggetto di «una precisa documentazione storica». La pellicola si atteneva «scrupolosamente ai fatti conosciuti e non controversi». Quasi tutti i personaggi, pertanto, esclusi quelli storici, erano «creati dalla fantasia degli autori e non hanno quindi alcun riferimento con le persone che hanno realmente vissuto il tragico, mostruoso episodio». Il film alternava sequenze di grande efficacia ad altre molto più banali e retoriche. Stranamente, le prime si trovano all’inizio e alla fine della pellicola. Dieci italiani per un tedesco comincia con titoli di testa che scorrono mentre la macchina da presa inquadra il selciato della strada. Successivamente sentiamo il rumore di passi in marcia fin quando non si inquadrano gli stivali dei soldati tedeschi. Vediamo il plotone tedesco che avanza segnalato da uno spazzino che si leva il cappello mentre un altro accendendosi la sigaretta innesta la miccia. Esplosione e brevissima inquadratura sulla targa Via Rasella, cui fa seguito una carrellata da sinistra verso destra sui corpi dilaniati dall’esplosione. Dissolvenza. La scena diventa notturna. La macchina da presa va su e giù per via Rasella. Sia in oggettiva, inquadrando i soldati dislocati a intervalli regolari che sorvegliano gli ostaggi, mentre altri, presumibilmente gli ufficiali, percorrono nervosi la strada. Sia in soggettiva: lo sguardo diventa quello degli ufficiali e dei soldati. Una lunga carrellata da sinistra verso destra mostra gli ostaggi, addossati alle pareti delle case, con le mani incrociate dietro la nuca, che aspettano tremanti la loro sorte: tra loro un prete che cerca di sorreggere un vecchio che non ce la fa più a rimanere in piedi. Segue una seconda carrellata, sempre in soggettiva, stavolta da destra verso sinistra, a scendere lungo la strada, scandita dal rumore dei passi dei tedeschi con in “controcanto” voci che si intrecciano. Chi tenta di 54
Ibid.
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scambiare qualche parola con il vicino, chi si fa coraggio perché lui «ha la coscienza pulita» (ha presentato come documento di riconoscimento la tessera fascista). Da dietro le persiane due ragazze chiedono ai prigionieri i loro numeri di telefono per avvertire le famiglie. Una sventagliata di mitra interrompe il tutto. Un inizio fulminante (il tutto, compresi i titoli di testa, con inquadratura fissa sul selciato, dura meno di sette minuti), dove prevalgono sulle parole i rumori – degli stivali dei tedeschi che successivamente si confonderanno con quelli dei piedi battuti sul terreno dagli ostaggi infreddoliti, in una sorta di marcia comune! – e dove le sciabolate di luce delle fotoelettriche traggono fuori dall’anonimato alcuni volti che ritroveremo successivamente. Quella che segue però è una storia costruita su intrecci e situazioni stereotipate, raccontata con uno stile e tecnica tradizionali e che in alcuni casi mima sequenze di film precedenti. È uno scontro tra cattivi e buoni. I primi sono ovviamente i tedeschi, in primo luogo il colonnello Kappler [Carlo D’Angelo] che arriva ad accusare Kesselring di essere troppo tenero: «Un vecchio quartiere di case sudice, di stradine scomode, inadatte al traffico. Bisognava raderlo al suolo!» – esclama rivolto al tenente generale Mälzer – E fucilare tutti, uomini, donne, tutti! È stato un errore, signor generale, avvertire il maresciallo Kesselring. Bisognava reagire immediatamente e senza esitazione, come abbiamo fatto in tutta Europa… e con ottimi risultati! Il maresciallo Kesselring è un uomo all’antica, religioso, ha il cuore gentile. Riuscirà a convincere il Führer a fucilare soltanto pochi ostaggi… un vero peccato! […] Generale Mälzer, se nel futuro dovessero verificarsi altri incidenti come quello di oggi, spetta a noi SS provvedere, non dimenticatelo!»55. Ratti non è Rossellini. I tedeschi del film non hanno le sfumature del Müller de Il generale Della Rovere. O sono totalmente cattivi o hanno un fondo di bontà che emerge. È il caso del tenente Weiss, ad esempio, che implora l’attendente di Kappler, Schwartz, di non fucilare i quindici ostaggi in più messi in lista per un conteggio sbagliato: Schwartz - … e riportarli indietro perché facciano da testimoni a quanto è successo! Andiamo, Weiss, siate ragionevole! Weiss – Schwartz, sono io il responsabile di… questi quindici uomini… Non abbiamo il diritto di ucciderli! Schwartz – Forse, non ne abbiamo il diritto, ma ne abbiamo il potere! 55
Sull’alternarsi del numero degli ostaggi da fucilare, cfr. A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999, pp. 204ss.
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Oppure il soldato tedesco che si mostra migliore della camicia nera italiana e comprende che all’operaio Ferroni [Ivo Garrani], colpevole di aver infranto il coprifuoco, non si può sequestrare – sotto casa per giunta – la bicicletta, strumento indispensabile per poter lavorare («Se me levate la bicicletta, io perdo il posto»: chiara allusione a Ladri di biciclette): «Un momento camerata, lui bravo uomo, lui fatto tardi. Piccola, piccola colpa», afferma dopo aver sottolineato che anche lui è un operaio. Del soldato tedesco non sapremo più nulla. Weiss invece morirà ucciso dall’attendente Schwartz, su ordine di Kappler preoccupato che il tenente, in preda a rimorsi e a pentimenti, parli e racconti della strage che si sta commettendo: «Fate portare Weiss dentro la galleria. – intima a Schwartz – Resterà sepolto sotto la cava… insieme a loro». Il film intrecciava varie storie, che avranno tutte lo stesso epilogo: la fucilazione alle Fosse Ardeatine. Una è quella (cui si è accennato) dell’operaio Ferroni: per aver aggredito la camicia nera che gli voleva sequestrare la bicicletta, verrà portato con il figlio Mariuccio uscito di casa per difendere il padre, in questura. Ma lì non c’è posto – afferma il maresciallo – «nemmeno se me portano er gobbo del Quarticciolo». I due saranno condotti a Regina Coeli e finiranno nell’elenco degli ostaggi da fucilare. Ferroni tenterà con il tenente Weiss una carta estrema: è disposto a confessare dove sono nascosti alcuni ebrei, «gente ricca», e a denunciare alcuni compagni di lavoro, comunisti in contatto con i partigiani in cambio della salvezza almeno del figlio. Il tenente, di fronte alle implorazioni dell’uomo di salvare almeno il figlio («non ci ha nemmeno sedici anni… non è umano… non è umano»), risponde di non essere che un ufficiale e di dover eseguire gli ordini. E aggiunge: «Io capisco il vostro stato d’animo, ma scusate la franchezza! Io considero il patto che mi avete proposto poco dignitoso per me, ma soprattutto per voi. La vita di venti, trenta persone non si offre in cambio della propria… […] Non posso far niente per voi e ammesso che vostro figlio possa salvarsi, sono sicuro che si vergognerebbe di essere vivo perché suo padre ha fatto la spia!». Weiss acconsente che Ferroni possa scrivere una lettera alla moglie (gli ha confermato che saranno fucilati) a patto di non rivelare agli altri prigionieri la loro sorte: «Signor tenente, grazie! Non per la lettera! Per avermi fatto vergognare di me stesso!», è la risposta, poco credibile e molto retorica: nel giro di pochi istanti un uomo si trasforma, grazie alle parole di chi comunque lo condurrà a morte, da vile in eroe. Accenti più sinceri invece nella lettera scritta da Ferroni alla moglie: «Adesso te devo dì ’na cosa e non so come dirtela. Fatte coraggio, Mena mia, oggi i tedeschi fucileranno me e Mariuccio, insieme a tanta gente. Non so perché…».
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Senza un perché sarà anche la fucilazione di Sergio [Dante Posani], un mese in galera «per un chilo di burro». Il 24 marzo termina la detenzione e il 24 sposerà finalmente Mariella [Cristina Gaioni] che lo sta aspettando fuori: proprio mentre sta per uscire vengono chiusi i cancelli e anche il suo nome finirà tra i cinquanta che Caruso, su ordine perentorio di Kappler56, deve trovare a tutti i costi. Mariella saprà da un secondino della sorte toccata a Sergio, si dispera e corre dietro al camion che porta via i prigionieri fino a cadere in strada (una sequenza fin troppo allusiva a quella analoga di Pina in Roma città aperta). Perché deve morire si domanda anche il fascista visto nella prima sequenza: è figlio di uno squadrista, è iscritto al fascio, odia i comunisti e gli ebrei: «Io e lei – urla rivolto al professore Rossi – non abbiamo niente da spartire. Lei e questa massa di farabutti, ebrei, comunisti, traditori, spie… tutti al muro vi metterei!». Una figura che ricorda quella di Scalise ne Il generale Della Rovere, ma qui non c’è nessuno che possa spiegargli perché comunque è colpevole anche lui. Perché deve morire, si domanda anche un tenentino in cella rivolto a Gilberto Sanseverino [Sergio Fantoni], ricco e scapestrato giovane, di nobile famiglia (il padre, impersonato da Gino Cervi, ha fatto di tutto per salvarlo), che ha deciso di unirsi ai partigiani: «Io ho 22 anni, capisce? 22 anni! E quando mi hanno preso era da tre giorni che portavo questa divisa, da tre giorni che ero ufficiale… Non ho fatto niente… niente…». Gilberto Sanseverino e il professore Rossi [Andrea Checchi] sono gli unici che hanno combattuto i tedeschi: il primo con le armi, il secondo con i libri, scritti con grande «coraggio» (il termine è pronunciato da Weiss) in pieno regime fascista. L’unico reato di Rossi è quello di avere scritto un libro in cui sottolinea, rivolto a Weiss, che il soldato quando «obbedisce a un ordine criminale non è un buon soldato, ma un criminale egli stesso». Ed è probabilmente, da questo colloquio che inizierà la crisi del tenente che, poco prima di essere ucciso da Schwartz, chiederà perdono a Rossi. 56 Nel film in un primo momento Caruso ribatte a Kappler che non tocca a lui stilare la lista dei 320 condannati a morire dal momento che le vittime appartengono alla «polizia germanica». «Tipico gesto italiano – commenta Kappler – Viltà, ipocrisia, timore di assumersi la responsabilità, inettitudine!». Successivamente, vista la ristrettezza dei tempi, 24 ore, in una drammatica telefonata Kappler ricorderà a Caruso che mancano ancora cento nomi nella lista: cinquanta li troverà lui e cinquanta il questore. E aggiungerà che nell’elenco degli arrestati di via Rasella c’è anche un prete (l’abbiamo visto nella sequenza iniziale): «Mettetelo nella vostra lista, Caruso. Io detesto gli uomini in sottana!».
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E veniamo alle sequenze finali, le più suggestive del film. Vediamo i soldati tedeschi al lavoro, alla luce delle fotoelettriche, che scavano nella cava, mentre Kappler ordina di bloccare tutte le vie di accesso («Per un raggio di un chilometro voglio il più assoluto deserto») e chiede al fedele Schwartz se si è ricordato del cognac per il plotone d’esecuzione. Successivamente, una panoramica circolare, da sinistra verso destra mostra la cava. Sulle alture, intervallati a distanza regolare, le sagome scure di decine di soldati tedeschi che imbracciano le armi. Si stagliano contro il cielo terso dell’imbrunire, inquadrati in soggettiva dagli ufficiali dal basso. L’effetto è strano. Nella loro immobilità non hanno niente di umano: gli ultimi vengono inquadrate di profilo, con il mitra imbracciato. Assomigliano a delle croci. La macchina da presa si abbassa a inquadrare il convoglio che sta arrivando. Vengono fatti scendere i prigionieri che passano attraverso due file di soldati. Una fotoelettrica piazzata all’interno della cava illumina il loro profilo. Le loro sagome, inquadrate da dietro, diventano ombre circonfuse di luce. Man mano che si incamminano verso la cava i soldati che li seguono dietro aprono il fuoco. Inizia l’eccidio. Qualcuno tenta di scappare, qualcuno inciampa e cade: gli ebrei intonano i loro salmi. Sta per scendere la notte. «Ci vorrà più di quanto avevo previsto! Fate dare il cambio al plotone d’esecuzione – comanda Kappler. È buio. Il massacro continua. A turno un soldato conta gli ostaggi che si avviano verso la cava. Una sequenza di grande presa emotiva, interrotta dalle affermazioni di un generale che ricorda ai soldati di morire con onore gridando «Viva l’Italia!». Non contento, intima al tenentino di smettere di piangere provocando la reazione di Gilberto Sanseverino (e anche qui ritorna alla mente Il generale Della Rovere): … non sia assurdo… pretende di dare ordini anche adesso! In questi ultimi minuti smettiamola con la retorica, cerchiamo piuttosto di avere il coraggio di essere sinceri e di… questo ragazzo lo abbiamo condannato noi a morte… con i nostri venti anni di indifferenza al fascismo, con la nostra vigliaccheria! Avremmo potuto opporci con le nostre forze… e allora sarebbe stato il momento di gridare Viva l’Italia… ma non l’abbiamo fatto! Ci siamo ribellati troppo tardi per pretendere di avere le mani pulite! Perciò non abbiamo nessun diritto di dirgli che cosa deve dire o fare davanti al plotone d’esecuzione!
Arriva l’alba. Kappler chiede quanto manchi. «Ne avremo per altre due o tre ore, credo. C’è rimasta poca benzina. Temo che non basterà fino alla fine», è la risposta di Schwartz. Al che Kappler ordina di spegnere i motori e di accelerare i tempi. Un’altra interruzione mostra il
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prete che ricorda agli altri le parole di Gesù sulla croce, di perdonare «perché non sanno quello che fanno». Immediata la risposta del professore Rossi: «Padre, non siamo dei santi… e loro sanno molto bene quello che fanno! Nella nostra morte non ci deve essere né perdono né amore, ma dobbiamo morire odiando. E che il nostro odio sopravviva a noi più grande della nostra morte». Mentre Rossi pronunzia queste parole la macchina da presa inquadra il fascista che ha tentato invano di salvarsi. Si ripete infine la sequenza dei soldati immobili sulle alture inquadrati dal basso e in dissolvenza lo scoppio delle mine che chiudono l’ingresso alla cava. Il film si concludeva con il comunicato del Comando tedesco che dava notizia dell’attentato annunciando «che per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito». In definitiva un film che, pur non avendo una struttura ben definita, pur in certi tratti caratterizzato da dialoghi poco felici e scarsamente credibili, presentava non solo sequenze di grande rilievo non facilmente riscontrabili in molte altre pellicole del tempo, ma si valeva anche dell’apporto di attori notevoli (Carlo D’Angelo, Sergio Fantoni, Andrea Checchi, Ivo Garrani, Gino Cervi: quest’ultimo ingiustamente sacrificato in un ruolo del tutto secondario, il padre di Gilberto Sanseverino). Ma soprattutto aveva il merito di raccontare un episodio fino allora trascurato dalla cinematografia. Da cosa deriva allora l’ostracismo nei confronti del film, evidente nella scarsissima attenzione prestatagli dalla stampa? Dalle poche e scarne recensioni dei quotidiani sembra di capire che il “peccato originale” di Dieci italiani per un tedesco fosse, oltre agli elementi prima considerati, proprio quello di aver fatto ricorso a storie di personaggi inventati («episodi “simbolici”», li definì la «Gazzetta del Popolo»57). «La Stampa» confrontava il film di Ratti con quello di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, arrivato sugli schermi qualche mese prima. Dopo aver sottolineato come la pellicola di Rosi andasse in una direzione opposta a quella dei film americani, dove lo spettacolo prevaleva sul rigore storico, il quotidiano riportava le affermazioni del regista: «man mano che procedevamo nel lavoro cadevano le scene scritte con criteri spettacolari […] la serietà del problema che avevamo affrontato ci spingeva verso un’espressione nuda, rigorosa». Insomma, la qualità maggiore di Salvatore Giuliano stava «nel carattere di autentico documentario che ha assunto il film»58. Era 57 58
Dieci italiani per un soldato tedesco, «Gazzetta del Popolo», 11 maggio 1962. A. Blandi, Anatomia di un bandito: Giuliano, «La Stampa», 3 dicembre 1961.
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questo allora l’«errore» di Dieci italiani per un tedesco. Al film di Ratti «La Stampa» rimproverava di mescolare «episodi e personaggi storici […] con altri di fantasia» e concludeva: «È una storia sanguinosa e che ancora sanguina: anche per questo sarebbe forse stato meglio raccontarla con uno stile ed una tecnica meno convenzionali (Salvatore Giuliano non ha ancora insegnato nulla?)»59. Insomma, unire personaggi di fantasia con una storia vera e tragica sembrava un’offesa alla realtà dell’eccidio, non rendendo giustizia all’efferatezza dell’atto o, viceversa, suggerendo che la crudezza delle immagini fosse un espediente cinematografico per coinvolgere emotivamente gli spettatori, rendendo poco verosimile la spietatezza dei tedeschi. C’era tuttavia un punto debole in queste analisi. Dieci italiani per un tedesco non era l’unico film sulla Resistenza in cui personaggi inventati erano inseriti in vicende reali. Prevale allora il sospetto che anzitutto il film venisse meno alla “convenzione” dell’antifascista come eroe: qui – con l’eccezione di Sanseverino e del professore Rossi, personaggi comunque non di primo piano, che consapevolmente avevano contrastato il fascismo – i protagonisti sono vittime incolpevoli, trovatisi per caso in una vicenda della quale non capiscono i contorni e fino all’ultimo all’oscuro del destino cui sono destinati. In secondo luogo, si avvertiva il rischio – d’altra parte soltanto nel 1973 la cinematografia si sarebbe occupata delle Fosse Ardeatine con Rappresaglia, regia di Pan Cosmatos – che il film potesse rafforzare un dibattito di natura storica ed etica, nato praticamente già all’indomani di via Rasella, sulla liceità degli attentati che potessero avere ripercussioni sulla popolazione civile60, gettando ombre su una Resistenza che (si pensi a quanto scritto nell’introduzione) con la Mostra Italia 61 aveva trovato legittimazione e spazio all’interno della storia nazionale.
59
Sullo schermo, «La Stampa», 11 maggio 1962. Per quanto il campione sia limitato numericamente e circoscritto a un solo ambiente sociale (borghesia medio-alta), le cinquanta intercettazioni telefoniche pubblicate da Aurelio Lepre ormai più di venti anni fa forniscono un quadro completamente diverso da quello immaginato, anche sulla scorta di alcune pellicole come Roma città aperta, di una società romana compattamente ostile ai tedeschi. Anzi in esse la condanna degli attentatori appare unanime. Per quanto riguarda l’eccidio prevalse la pietà anche se in alcuni casi fu espressa soddisfazione per l’esecuzione (cfr. A. Lepre, Via Rasella. Leggenda e realtà della resistenza a Roma, Roma-Bari, Laterza, 1996). Cfr. anche M. Ponzani, Il mito del secondo Risorgimento nazionale. Retorica e legittimità della resistenza nel linguaggio politico istituzionale: il caso delle Fosse Ardeatine, «Annali della Fondazione L. Einaudi», 2003, Firenze, Leo S. Olschki Editore, XXXVII, pp. 199-258; R. Bentivegna, M. Ponzani, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, Torino, Einaudi, 2011. 60
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NON SI PUÒ STARE SEMPRE A GUARDARE Il trend positivo, visto in precedenza, sarebbe continuato almeno fino al 1963. Sulla scorta de La Grande Guerra si affermava la commedia, anche se talvolta con risultati deludenti. Era la prova da una parte che l’argomento era fonte di ispirazione per gli autori e dall’altra che non dispiaceva – visti gli incassi – al pubblico. Anche in questo caso ci soffermeremo solo su quelle pellicole che più distintamente si possono ascrivere al filone resistenziale. Nel 1960 arrivavano, con risultati assai diversi al botteghino, due film ispirati entrambi all’8 settembre: Il carro armato dell’8 settembre (regia: Gianni Puccini; soggetto e trattamento, Tonino Guerra, Elio Petri, Puccini, da un’idea di Rodolfo Sonego; sceneggiatura, Bruno Baratti, Elio Bartolini, Goffredo Parise, Giulio Questi, Pier Paolo Pasolini) e Tutti a casa (regia di Luigi Comencini; sceneggiatura di Age & Scarpelli, Marcello Fondato, Comencini). Le due pellicole avevano molti elementi in comune (l’annuncio dell’armistizio e il conseguente disgregarsi dell’esercito, la struttura a episodi che metteva in evidenza la confusione e il panico dei soldati, il viaggio verso casa). Ma il primo, nonostante la presenza di un folto gruppo di sceneggiatori (e forse proprio per questo), risultava un film confuso, caratterizzato – scriveva Guido Fink su «Cinema nuovo» – da una recitazione e da dialoghi «raramente» riscontrabili nel cinema italiano. Il protagonista, Carlo Pollini [JeanMarc Bory], viaggiava in un’Italia (in una regione, l’Emilia, per essere precisi) «caotica e indecifrabile, dai molteplici inviti erotici», con risvolti macchiettistici (l’incontro con i due inglesi, la contessa antifascista, il colonnello che si uccide alla vista degli inglesi). Alla fine la pellicola sembrava – il giudizio di Fink era senza appello – «un film più “nostalgico” che antifascista»1. La recensione di Fink, a pellicola arrivata 1
g.f., Schede. Tutti a casa Il carro armato dell’8 settembre, «Cinema nuovo», n. 150, marzoaprile 1961, p. 160.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
sugli schermi, non si discostava dalla valutazione della commissione censura che sottolineava come il soggetto fosse, al pari «del quadro umano e storico» delineato, «altrettanto sbandato e confuso, senza una precisa linea narrativa»:
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L’Italia dell’8 settembre colta in una regione (Emilia) ai confini delle due forze contrapposte vi è rappresentata nei suoi molteplici aspetti di smarrimento morale o di incosciente eccitazione o di caotico avvilimento collettivo. Questo avvilimento è fissato anzitutto nel tono, volgare e spregiudicato di molte delle esclamazioni verbali di cui è infiorato il dialogo2.
È un giudizio sostanzialmente condivisibile. Eppure il film inizia con una sequenza che nella sua stravaganza (un carro armato che avanza sulla riva del mare) mostra il paradosso di quello che sarà l’Italia dell’8 settembre. I nostri protagonisti non sanno ancora niente dell’armistizio, ma colgono l’incongruità della situazione. Sono stati mandati lì perché è stato avvistato un sottomarino nemico: «Dopo lo sbarco in Sicilia vedono commandos dappertutto», afferma Carlo mentre l’altro protagonista, Tommaso Carminati [Gabriele Ferzetti], un uomo leggero e incurante delle regole, aspirante attore, risponde: «Un carro armato contro un sommergibile io non l’ho mai visto!». Ben presto il piccolo drappello si disperde: mentre il tenente decide di tornare al comando per avere spiegazioni sulla mancanza di ordini (in realtà se ne andrà a casa: lo vedremo in abiti borghesi verso la fine del film), gli altri, avuta notizia dell’armistizio (Tommaso lo ha appreso recandosi in un sanatorio dove sono ricoverati dei soldati che si fingono feriti per imboscarsi: «Ora che c’è la pace, che tossisco a fare», esclama uno di loro) decidono che di guerra ne hanno abbastanza. Imbattutisi in un gruppo di prostitute abbandonano gli abiti militari e si uniscono a loro. Rimane il solo Carlo che vuole a tutti i costi riportare il carro armato al comando. Dopo varie vicissitudini incontra nuovamente Tommaso che ha fondato una compagnia di varietà con i soldi rubati a un capitano tedesco: «Sono soldi italiani, no? – si giustifica – Questi li avevano requisiti, se no come ce li avevano? Poi arrivano gli americani e gli inglesi che li portano via ai tedeschi e noi sempre fissi. Ma ecco il signor Carminati Tommaso che li ha requisiti lui. Dà retta a me, nella vita conta essere svelti e 2
Revisione Cinematografica Preventiva, 8 giugno 1960, ACS, MTS, Div. Cin., b. 269, f. 3339.
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LA STORIA SUL GRANDE SCHERMO
noi due lo siamo […] Ma perché parli di rubare? Tu non hai capito niente. Qui si sta sfasciando il mondo!». Abbiamo riportato la battuta di Tommaso per due motivi: la pochezza e la banalità dei dialoghi che percorrono tutto il film; la sottolineatura – ricorrente nella pellicola – che è finito un mondo e quindi tutto è lecito. «È finita la guerra. È l’ora nostra, della povera gente. Non c’è più legge, non c’è più proprietà», esclama un contadino all’arrivo del carro armato condotto da Carlo. Così Tommaso tenta di convincere Carlo ad abbandonare gli abiti militari e a mettersi in società con lui: ««Ah ma sei fissato. Guarda che non scherzo, questi sono momenti che se uno ci sa fare si arricchisce con la confusione che c’è. Ci dovrebbe essere per ogni uomo nella vita un momento come questo: è il caos, l’anarchia, il caos allo stato puro». Lo sbandamento con la conseguente assenza di regole veniva esemplificato e rafforzato dalla volgarità del linguaggio, dall’accenno alla omosessualità (anche se i nostri autori si premurano di attribuirla a due ufficiali inglesi), soprattutto dagli atteggiamenti licenziosi delle donne. Una sorta di Carnevale, dove tutto è lecito, dalla “ragazza ricca” che bacia Carlo solo per poter salire sul carro armato alla donna che, durante un’incursione aerea abbraccia e bacia Carlo e subito dopo lo porta a casa, gli mostra il figlioletto di tre anni, gli racconta che il marito è morto in Grecia tre anni prima e va a letto con lui. Tutto questo non per paura, ma per il desiderio di essere almeno per un giorno felice anche lei. Era uscita sotto le bombe – confessa – proprio per incontrare qualcuno: Donna – Dovrei vergognarmi. Invece… non mi vergogno Carlo – Non ti devi vergognare. Oggi non è un giorno come tutti gli altri. Io non ci capisco più niente, non so dov’è il bene, dov’è il male. Se è un giorno felice o terribile.
Come la donna non si vergognava, neanche gli italiani dovevano vergognarsi dell’8 settembre: era una sconfitta che riguardava solo chi la guerra l’aveva voluta. Un sottinteso che percorreva tutta la pellicola e che diventava esplicito nel finale. Carlo riusciva ad arrivare al comando e lo trovava abbandonato da tutti tranne da un colonnello [Romolo Valli] che gli intimava di sparare sulla folla che si era abbandonata al saccheggio e alla razzia: Carlo – Ma perché non spara lei, colonnello. Io sono venuto solo a consegnare il carro. Colonnello – Ma è possibile che siano bastati due giorni per far sparire un esercito!
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
I due si rifugiavano in una villa di una contessa, amica del colonnello, che di nascosto aveva ospitato due ufficiali inglesi. Di fronte a questa ennesima umiliazione il colonnello si suicidava. Si arrivava così ad esplicitare la tesi della pellicola: a perdere la guerra non erano stati i soldati. All’ufficiale inglese che gli chiede cosa si provi a sentirsi sconfitto Carlo risponde convinto: «Non sono un ufficiale. Io sono un semplice soldato e i soldati semplici non sono mai sconfitti!». Carlo riprendeva il cammino e raggiungeva casa con il suo carro armato. Il giorno dopo vediamo il mezzo usato come un trattore: «Ecco a che serve un carro armato», esclama contento. In quell’istante, un campo lungo mostra all’orizzonte il profilarsi di soldati tedeschi. Il nostro protagonista con il suo carro ingaggia una battaglia dalla quale esce vincitore mentre risuonano le note di Fischia il vento. Tutto bene? No! Il film si chiudeva con le parole della madre che implorava il figlio di fuggire: «Figlio mio scappa, che quelli ritornano… ritornano». Su questa affermazione infatti compariva la parola «fine». Un finale sgangherato, in linea con tutta la pellicola, faceva intravedere il tragico futuro che attendeva gli italiani. Il giudizio della Commissione Censura citato in apertura veniva ribadito qualche mese dopo, a film visto, in un appunto al sottosegretario Helfer: «Si tratta di un film, a sfondo corale, che vorrebbe avere un carattere rappresentativo di un tragico momento della nostra vita nazionale, ma che, in realtà, anche per la forzatura dei personaggi e degli episodi, riesce a conseguire un risultato filmistico piuttosto modesto, con effetti alquanto gratuiti»3. Né si discostavano alcune recensioni (per lo più la pellicola veniva ignorata dai quotidiani): «Anche se un po’ letteraria» – scriveva Alberico Sala sul «Corriere d’Informazione» – l’idea «non era male. Ma il soggetto e la sceneggiatura sono stati pasticciati da troppi, e ognuno vi ha inserito qualcosa del proprio genere: così il film risulta sbandato, assurdo, senza essere favoloso, inconcludente». Con l’eccezione di Romolo Valli, neanche gli attori si salvavano: «Ferzetti è una macchietta», concludeva Sala4. In definitiva, pensando al regista, agli autori della sceneggiatura e del soggetto, Il carro armato dell’8 settembre, per dirla con le parole di Alberto Crespi, «è forse il film italiano in cui il massimo apporto di talento si traduce nel minimo risultato»5. Di gran lunga superiore risultava Tutti a casa. Il titolo – spiegava Comencini in un’intervista a Mino Argentieri a lavorazione appena ini3
Appunto per il sottosegretario Helfer, 20 settembre 1960, ivi. A.S., Le prime del cinema. Il carro armato dell’8 settembre, «Corriere d’Informazione», 19-20 dicembre 1960. 5 A. Crespi, Storia d’Italia in 15 film, Bari-Roma, Laterza, 2016, p. 81. 4
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ziata – era tratto da «uno slogan che qualcuno scrisse nella confusione su un muro […] e fu l’ordine o il consiglio più bello ricevuto durante tre anni di guerra6. Il film – recitava il giudizio della Commissione censura preventiva – alternava «toni ora comici ora grotteschi, ora caricaturali ora estremamente drammatici», ripercorrendo «con aspra crudezza» quanto era successo e sottolineando nel contempo «l’opera repressiva dell’ex alleato tedesco nei confronti dei nostri soldati dispersi e delle popolazioni»7. La vicenda che vede coinvolti il tenente Alberto Innocenzi [Alberto Sordi] e il suo drappello, cui si aggiunge il geniere Assunto Ceccarelli [Serge Reggiani doppiato da Aldo Giuffré] in licenza per malattia, all’indomani dell’8 settembre è nota. È un viaggio dal Veneto, dove è di stanza il drappello comandato da Innocenzi, fino a Napoli, compreso tra due date. La prima, l’8 settembre, il giorno in cui Badoglio per radio annuncia la firma dell’armistizio con gli angloamericani. Un armistizio di cui i soldati sono totalmente all’oscuro. Innocenzi arriva a pensare che sia successa l’incredibile: «i tedeschi si sono alleati con gli americani» urla al telefono e disperatamente chiede al comando quali siano «gli ordini», mentre il colonnello [Claudio Gora], cui è stata posta la domanda, commenta amaramente: «Cose da pazzi. L’hanno saputo i tedeschi prima di noi e l’unico ordine che abbiamo ricevuto è quello di far cantare i militari durante la marcia». La seconda, il 28 settembre, il giorno in cui nella città partenopea scoppia la rivolta contro i tedeschi. Venti giorni in cui un gruppo di “sbandati”, che perderà pezzi per strada (alla fine rimarranno solo Innocenzi e Ceccarelli), cerca faticosamente di raggiungere casa. Un viaggio all’interno di un paese squassato dalla guerra, dove i soldati sono lasciati soli e ognuno è chiamato a compiere le sue scelte, assumendosene la responsabilità. La prima, dettata alla necessità, è quella di spogliarsi della divisa per indossare vestiti borghesi. In casa di un contadino che aiuta i soldati a disfarsi delle uniformi dando loro indumenti civili Innocenzi ritrova il capitano Passerini [Mario Feliciani] e gli domanda se «sarà ben fatto mettersi in abiti borghesi». Secca la risposta: «E che cos’è ben fatto o mal fatto? Ben fatto! E tutto quello
6
M. Argentieri, L’otto settembre di Alberto Sordi, «l’Unità», 24 luglio 1960. Revisione Cinematografica Preventiva, 7 luglio 1960, ACS, MTS, Div. Cin., b. 264, f. 3293. L’appunto comunque sottolineava che nella sceneggiatura presentata molte sequenze erano «appena accennate». Il giudizio pertanto si basava su un copione provvisorio che sarebbe stato modificato in seguito: ad esempio, nel copione esaminato il drappello comandato da Sordi risultava di stanza in Liguria. 7
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
che è successo le sembra forse ben fatto? E tutti questi anni di guerra a che cosa sono serviti, eh?». Innocenzi insiste:
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Innocenzi – Povera divisa! Che brutta fine che ha fatto! Passerini – Lasci andare… quello che conta non è la fine che ha fatto la sua divisa, ma quella che sapremo fare noi! Innocenzi – Che fine? Andiamo a casa!
È chiaro che per il tenente la scelta è una sola: salvare la pelle e tornare a casa. Poco prima Innocenzi e Ceccarelli hanno dovuto nascondersi tra gli sterpi di fronte all’arrivo di un treno merci, scortato da militari tedeschi, con vagoni piombati dai quali provengono lamenti e grida. Il treno riparte e una bambina con grande cura raccoglie i bigliettini lanciati dai deportati, quasi fossero fiori delicati: una sequenza molto bella che mostra uno degli aspetti di un’Italia sospesa tra solidarietà e lotta feroce per la sopravvivenza (la sequenza dell’assalto di un intero paese al camion – su cui ha trovato un passaggio Innocenzi, abbandonando i suoi compagni di viaggio – che trasporta farina di contrabbando, con gli abitanti che si contendono ferocemente ogni grammo, sopraffacendo i più deboli e arrivando addirittura a sottrarre a un bambino il secchiello faticosamente riempito). Insomma, il grande merito del film è quello di mostrare senza enfasi, riprendendo in soggettiva, con l’occhio dei contemporanei cioè, gli aspetti contraddittori di un paese in preda alla confusione e all’incertezza. Emblematico l’episodio nel quale i nostri fuggiaschi si imbattono in un camion con a bordo alcune persone. Anche loro sembrano scappare per tornare a casa. Si inizia a parlare degli avvenimenti. È «sempre Badoglio che li fa gli imbrogli» – sottolinea il sergente Fornaciari [Martin Balsam doppiato da Corrado Gaipa], mentre uno degli astanti aggiunge: «Badoglio quando disse. “La guerra continua” era finita. E adesso che ha detto che è finita, la guerra continua!». «Ma in che senso continua? Ma insomma voi… dov’è che andate?» chiede Innocenzi. Non ha neanche finito di parlare che si accorge di essere seduto su un carico di armi: «Ma chi ve le ha date tutte queste armi», chiede. Immediata la risposta: «Ce le siamo prese! È per i tedeschi! Ci stiamo radunando per darci addosso!». Qualcuno ha dunque deciso di ribellarsi, di “resistere” e cerca di organizzarsi. Innocenzi non ci sta. Prima formula una domanda che ovviamente non può avere risposta, («Ma l’ordine ce l’avete? Chi ve l’ha dato?»), ma è rappresentativa del suo modo di pensare. Dopo il suo rifiuto diventa esplicito: «Eh già, e uno fa presto a dire “Andiamo alla macchia” […] Ma come,
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prima quando c’era la guerra non volevate e proprio adesso vi viene la voglia? Oh! A me non me ne frega più niente di nessuno, sapete! Tre anni di naia, fronte occidentale, otto mesi in Albania… io me ne vado a casa… Signor capitano che fa? Non viene con noi?». «No! Io resto con loro! Buon viaggio tenente!», risponde Passerini. In tre seguiranno Innocenzi: l’artigliere Codegato [Nino Castelnuovo], Fornaciari e Ceccarelli. Nessuno però raggiungerà il traguardo: Codegato sarà ucciso da un soldato tedesco perché ha cercato disperatamente di difendere una ragazza ebrea, Silvia Modena [Carla Gravina]; Fornaciari verrà imprigionato dai fascisti perché in casa sua la moglie ha ospitato un prigioniero americano; Ceccarelli sarà ammazzato a pochi metri dalla sua abitazione a Napoli. Lo stesso Innocenzi arriva sì a Latina (allora Littoria) dove viveva prima di partire militare, ma si vede costretto a scappare perché il padre [Eduardo De Filippo], un po’ perché nostalgico del fascismo e ancora convinto che esistano le armi segrete che permetteranno al duce di vincere la guerra, un po’ per motivi di convenienza (al figlio che cerca di fargli capire che «tutto è finito» risponde: «Per ora è finito lo stipendio tuo… e sai quanto mi danno di pensione? Che ci mangiamo?»), lo vuole arruolato nel ricostituito esercito repubblichino. Innocenzi troverà la sua meta (diversa da quella originaria). Arriverà a Napoli con il fedele Ceccarelli quando scoppia la rivolta. Sorpresi dai tedeschi i due insieme ad altri vengono costretti a rimuovere le macerie che ostacolano il passaggio dei carri tedeschi. Approfittando di una momentanea distrazione delle guardie Innocenzi insieme ad altri si rifugia in una chiesa, mentre Ceccarelli non ce la fa. Su indicazione del prete il gruppo sale per una scala che scricchiola vistosamente sotto i loro passi rischiando di mandarne a monte la fuga (i soldati tedeschi sono entrati nella chiesa). I cigolii saranno coperti dalle litanie recitate dai fedeli con toni sempre più alti (una sequenza che ricorda quella analoga de Il sole sorge ancora) fin quando il gruppo riuscirà a raggiungere un nascondiglio sicuro nel campanile. Da lassù Innocenzi e gli altri assisteranno all’inizio della rivolta napoletana e al tentativo di fuga di Ceccarelli. Il geniere non riesce nel suo intento. E il nostro tenente, quello stesso personaggio pavido e borioso che all’inizio del viaggio, quando incontra i partigiani che vogliono rivolgere le armi contro i tedeschi, aveva affermato che non gliene fregava «più niente di nessuno», di fronte al ferimento dell’amico, nonostante gli altri gli dicano che non si può fare niente, esclama: «Eh no! No, no! Non si può stare sempre a guardare» e si precipita a soccorrerlo. È inutile. Ceccarelli muore e Innocenzi im-
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
braccia la mitragliatrice portata dagli insorti e inizia a sparare contro i tedeschi. Il film si chiudeva sulle immagini dei combattimenti con in sovrimpressione la scritta: «Napoli 28 settembre 1943». Al centro di Tutti a casa era la necessità di compiere – assumendosene la responsabilità – una scelta. Un atto, all’epoca, non facile. Come operare una scelta quando mancava proprio la concezione della scelta? L’8 settembre era crollato un regime “totalitario” che, organizzando l’intera vita dell’individuo («dalla culla alla bara»), aveva abituato gli italiani a considerare la vita un’ininterrotta sequenza di non-scelte. Quasi un anno prima, in una lettera da Roma del 27 novembre 1942 uno studente scriveva che si aspetta la vittoria «come la pioggia dal cielo» e concludeva che la colpa di questo atteggiamento era da attribuire proprio al fascismo: «Il Regime che è tutto, che pensa a tutto, che può tutto secondo una certa idiota propaganda, ha intorpidito la sensibilità individuale. Vanno male le cose? c’è lui, ci pensa lui, tocca a lui, farà lui»8. Non potrebbe essere descritto meglio quello che sarebbe successo agli italiani nella drammatica fine dell’estate 1943. Innocenzi la sua scelta riesce a farla solo alla fine del viaggio, dopo aver scoperto l’esistenza di tanti altri italiani “sbandati” come lui, abituati a eseguire ordini senza chiedersene la ragione9. Lo scopre solo di fronte alla morte dell’amico. Solo allora ritrova una sua identità, abbandonando definitivamente l’uniforme psicologica dietro la quale si trincerava (ai partigiani aveva chiesto chi avesse loro dato l’ordine di prendere le armi e combattere i tedeschi). Un percorso individuale, lungo e faticoso, comune però (da qui la scritta finale che non comparve nell’edizione del 1960) a molti italiani che nella lotta ai tedeschi e ai fascisti avevano iniziato a scoprire un’identità quanto meno diversa da quella precedente, miseramente crollata insieme al fascismo. Non a caso a impersonare il tenente Innocenzi era Alberto Sordi, l’italiano qualunque, un po’ pavido, un po’ cialtrone, timoroso e ossequioso, pronto a sfruttare ogni situazione per suo vantaggio personale, ma capace, nei momenti di emergenza, di atti impensabili e coraggiosi. Quello stesso Sordi, protagonista de La Grande Guerra dove aveva impersonato il soldato Oreste Jacovacci che insieme al suo amico Giovanni Busacca [Vittorio Gassman] moriva da eroe (non
8 L. da Roma del 27 novembre 1942, ACS, MI, DGPS, Agr, ctg. A5G, seconda guerra mondiale, b. 39, f. «Pisa». 9 Cfr. J.A. Gili, Luigi Comencini, Roma, Gremese, 2003, p. 45.
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riconosciuto come tale) pur di non rivelare agli austriaci la posizione dei soldati italiani. Un collegamento che non sfuggiva a Paolo Valmarana che sul quotidiano della Democrazia Cristiana «Il Popolo» scriveva che quella seguita dalle pellicole di Monicelli e di Comencini era «la strada giusta»: Non è l’unica, ma è una di quelle buone, che non rinuncia alla verità e che la media in modo sincero e popolare a un pubblico che si dimostra assai più sensibile e ricettivo di quanto non sia soliti crederlo. Se Monicelli aveva scelto la grande guerra per un suo film in cui la storia d’Italia si vestiva d’umanità umile e amara di fronte alla tragedia di Caporetto, oggi è l’otto settembre, il suo smarrimento, la sua confusione, tutti quei soldati infagottati negli abiti borghesi che girano per l’Italia e non sanno né dove andare, né cosa fare, né come affrontare quei giorni che li pongono bruscamente, ciascuno solo e ciascuno per suo conto, senza direttive di fronte alla realtà che ignoravano. E sono ancora gli umili, gli sprovveduti ad essere oggetto di un film di questo genere e ad acquistare faticosamente, fra mille discordanti suggerimenti, la coscienza del proprio dovere e della solidarietà nazionale. Il tutto senza retorica e, quel che più conta, senza nemmeno quella programmatica antiretorica che sembra essere diventata la fastidiosa e monotona divisa di tanto cinema d’oggi. È questo, mi sembra, il grande merito di Comencini oggi e di Monicelli, ancor prima, ieri. È il merito di aver trovato un giusto equilibrio, di non rinunciare a nessuna delle tradizionali capacità di attrazione del cinema nei confronti del pubblico, il dramma, la farsa, la commedia, l’avventura, e di averle rielaborate in modo unitario e omogeneo10.
Valmarana era un’eccezione. Tra i grandi giornali, solo Lanocita, sul «Corriere della Sera», mostrava di aver apprezzato il film, «frammentario e tuttavia compatto; concede molto alla facezia, senza deformare la drammaticità del tema; ed è lodevolmente onesto, nel senso che riproduce con fedeltà situazioni e stati d’animo». Una pellicola, concludeva, che riusciva a dare dell’Italia di quel tragico periodo «un quadro efficacemente evocativo»11. Al contrario, «La Stampa» indicava nella frequente mancata «fusione di elementi tragici e comici» l’aspetto negativo del film, pur riconoscendo che i dialoghi, la ricostruzione accurata del clima dell’epoca, l’efficacia delle scene di masse e la presenza di un Sordi al massimo delle sue capacità espressive salvavano la pellicola12. Su «l’Unità» Ezio Muzii andava oltre, sottolineando che 10 11 12
P.V., Le prime del cinema. «Tutti a casa», «Il Popolo», 30 ottobre 1960. lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 3 novembre 1960. Tutti a casa: l’Italia dell’8 settembre, «La Stampa», 29 ottobre 1960.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
«il continuo passaggio dal tono satirico (con alcuni slittamenti farseschi) agli accenti drammatici» risultava «equivoco»: «consente infatti la soluzione più facile facendo scadere l’impegno morale e politico della scelta antifascista in una sorta di retorica». Sarebbe stato meglio se gli autori «avessero avuto il coraggio di farci vedere la necessità di una presa di posizione antifascista, attraverso il controluce di una figura (quella del tenente Innocenzi) scandagliata fino in fondo in tutta la sua viltà e pochezza morale»13. Sfuggiva a molti che i continui mutamenti di registro, dal tono drammatico a quello farsesco, e la stessa frammentarietà del racconto erano funzionali alla descrizione di un popolo che tentava di rimettere insieme i singoli frammenti di una situazione disgregata, dove si erano dissolte non solo le gerarchie che avevano caratterizzato l’Italia fascista, ma lo stesso concetto di società gerarchicamente ordinata dove ognuno poteva trovare facilmente il suo posto e la sua funzione. Il viaggio del tenente Innocenzi era simile a quello di tanti italiani: un viaggio prima di tutto interiore che alla fine poteva talvolta portare a una scelta dettata, più che dall’analisi razionale, dal sentimento e dall’emozione (il ferimento e la morte del geniere Ceccarelli). Non dimentichiamo inoltre che la critica, in particolare quella di sinistra, guardava sempre con sospetto al genere “commedia”, soprattutto quando si trattava di raccontare eventi – magari recenti e tragici – che riguardavano l’intera comunità nazionale. Ne è testimonianza l’intervista sopra citata, di Comencini ad Argentieri. Il regista affermava che il suo prossimo lavoro sarebbe consistito nell’adattamento cinematografico del romanzo di Cassola, La ragazza di Bube, e Argentieri concludeva così l’articolo: «Che Comencini abbia definitivamente abbandonato i film leggeri per un genere di maggior nutrimento?»14. Insomma, a sinistra non si perdonava a Comencini di aver tradito con film come Pane, amore e fantasia – lo scriveva Alberto Crespi su «l’Unità» del 7 aprile 2007 nel ricordo del regista appena scomparso – il neorealismo, «quando invece ne era la prosecuzione in chiave leggera e nazional-popolare»: Viene da pensare che se l’ortodossia marxista avesse capito la natura profondamente popolare del cosiddetto “ottimismo” alla Pane, amore e fantasia, forse lo stesso Pci ne avrebbe guadagnato in termini di elasticità ideologica e di consenso15. 13 14 15
e.m., Tutti a casa, «l’Unità», 29 ottobre 1960. Argentieri, L’otto settembre di Alberto Sordi, cit. A. Crespi, Comencini, pane, amore e cinema, «l’Unità», 7 aprile 2007.
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In definitiva, per dirla sempre con Crespi, il film di Comencini era caratterizzato da «una prodigiosa intuizione», quella di far vedere non l’otto settembre come una “commedia”, ma quanta “commedia” ci fosse «davvero nell’otto settembre»16. D’altra parte, era lo stesso Comencini a ricordare che l’idea del film era venuta a lui e ad Agenore Incrocci (lo sceneggiatore che con Furio Scarpelli dette vita alla coppia Age & Scarpelli) quando si erano interrogati su che cosa ci si ricordava dell’8 settembre ed avevano convenuto che «l’8 settembre era una data incredibile nella storia d’Italia, perché non credo sia accaduto in nessun altro paese al mondo che un popolo sentisse da un disco radiotrasmesso che la guerra è cambiata e l’alleato diventa nemico… e questo senza che nessuno lo illumini, lo inquadri, gli dia delle consegne»17. Anche una terza pellicola ambientata nel periodo successivo all’8 settembre ricalcava i moduli della commedia. Un giorno da leoni (regia di Nanni Loy, sceneggiatura di Alfredo Giannetti e Loy), girato nel 1961, si ispirava a una vicenda vera, quella dell’attentato al ponte ferroviario «Sette Luci» sulla linea Roma-Formia, un’operazione condotta dai partigiani in condizioni difficili e rischiose: nel darne notizia i comandi tedeschi, favoriti anche dal silenzio del Cln che, per prudenza, non ne diede notizia sulla stampa clandestina, parlarono (vi accenna anche il film nel finale) di atto compiuto da guastatori alleati paracadutati dietro le linee18. In un’intervista a Mino Argentieri su «l’Unità» del 12 gennaio 1961 «il giovane regista» precisava che non sarebbe stato un film d’azione. Gli interessava «scandagliare i motivi che sospingono tre individui, piuttosto reticenti, a prendere le armi. In poche parole, mi propongo di descrivere le fasi attraverso le quali alcuni uomini, pavidi, asociali e non sostenuti da un ideale di libertà, giungono a una maturazione di coscienza»19. Qualche mese dopo, mentre era in corso la lavorazione del film, Loy ribadiva il concetto: I personaggi del mio film cercano di rappresentare quale fu il dramma del mattino dopo la proclamazione dell’armistizio, in special modo per gli abitanti di una città come Roma che aveva vissuto per anni a con16
Crespi, Storia d’Italia in 15 film, cit., p. 81. Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 89. 18 La storia è raccontata da uno dei protagonisti, P. Levi Cavaglione, Guerriglia nei castelli romani, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2006. Il libro fu pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1945. 19 M. Argentieri, Nanni Loy fa due film ispirati alla Resistenza, «l’Unità», 12 gennaio 1961. 17
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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tatto con il nucleo politico del Paese e che aveva, nel complesso, quasi una posizione di indifferenza nei confronti della guerra. I partigiani del mio film non si può dire che siano alla macchia per vocazione, ma piuttosto per necessità20.
La pellicola metteva in evidenza come la scelta di aderire alla resistenza spesso fosse dettata più dalle circostanze, che da una marcata convinzione politica. Danilo [Nino Castelnuovo], lo studente universitario, di estrazione borghese; Michele [Leopoldo Trieste], il ragioniere ministeriale, miope e pavido; Gino [Tomas Milian], che tenta di aiutare la famiglia esercitando il mercato nero, sono tre italiani qualunque, che si trovano, più per caso che per scelta, a unirsi a un gruppo di partigiani guidati da Orlando [Renato Salvatori] e da Edoardo [Romolo Valli], gli unici con una coscienza antifascista radicata fin dal 1935, uniti da un’amicizia cementata dai lunghi periodi trascorsi in carcere. D’altro canto anche Moratti [Corrado Pani], amico di Danilo, almeno all’inizio sta dalla parte dei fascisti non tanto per convinzione politica, quanto per superare gli esami universitari senza aver studiato. Un giorno da leoni raccontava una maturazione di coscienza graduale, sofferta, tortuosa, che, alla fine, trasformava il ragioniere Michele, il più pavido e incerto di tutti (aveva avuto anche parole di elogio per il fascismo: «Ma ricordati che la massa deve essere disciplinata, – aveva esclamato rivolto a Danilo – deve sentirsi comandata, insomma, un capo, un vero capo deve esistere… e deve avere il suo fascino»), uno che stava per tradire, per paura della tortura, i compagni, a trasformarsi in eroe: sarà lui, con il suo sacrificio, a permettere la riuscita dell’attentato. E alla progressiva crescita morale e civile dei protagonisti corrisponde una perdita di convinzione da parte dei fascisti stessi nei confronti di una lotta destinata alla sconfitta. Nella sequenza finale la macchina da presa entra (letteralmente, con una carrellata in avanti che attraversa il portone per sbucare nel cortile) in una caserma di camicie nere. Il comando tedesco ha appena annunciato che l’attentato non è opera di «sbandati» ma di nuclei di paracadutisti alleati, smentendo «categoricamente l’esistenza di bande irregolari operanti nel Lazio». L’inquadratura si sofferma su un milite che sta addestrando le reclute. È quello che in precedenza ha picchiato Gino, reo di avere difeso Mariuccia [Carla Gravina], la staffetta partigiana di cui si è innamorato. Pian piano l’inquadratura si restringe in un primo 20
G. Barni, Salvatori tra i partigiani che fanno saltare un ponte, «Stampa Sera», 4 aprile 1961.
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piano sul suo volto. Non ha più l’espressione tracotante e spavalda, bensì smarrita. Il suo sguardo si fa sempre più vacuo, perdendosi nel vuoto. La voce tende ad affievolirsi. I comandi, prima netti e incisivi, diventano una sorta di monotona e stanca litania. Un primissimo piano ci mostra negli occhi una lacrima. Anche qui, inoltre, come ne La lunga notte del ’43 e in parte ne Il Gobbo, affiorava la tragicità e la crudeltà della guerra civile, evidente nel pianto disperato di Danilo, quando Osvaldo uccide Moratti, il compagno di scuola fascista, che si è arruolato volontario nella RSI e che ha la “sfortuna” di chiedere un passaggio a Gino, Danilo e Osvaldo vestiti da camicie nere: «Quando lui è sceso dalla macchina – racconta Danilo tra le lacrime a Edoardo – e dopo un po’… quando ho sentito lo sparo… io… non so perché… ma ho sempre davanti agli occhi una fotografia di scuola, alla licenza ginnasiale, nel cortile del “Mamiani”. Moratti è il terzo della seconda fila e c’ha un maglione accollato, con la manica destra arrotolata. E io… io sto vicino a lui… e ridiamo… tutti e due». «Credimi Danilo, – è la risposta – se voi l’aveste lasciato andare lui avrebbe parlato… e sarebbe stata la fine, la fine di tutto! Te lo giuro. Credimi, è così! Lui avrebbe parlato, ma non per cattiveria… è che non avrebbe resistito all’idea di stare zitto, di non raccontare. Lo capisci?». Inoltre, nel film non mancava – era il genere scelto, la commedia, che lo permetteva – una riflessione su quanto la militanza nella Resistenza finisse con annullare ogni possibilità di vita privata, con i suoi affetti e i suoi doveri. Nella pellicola affiora due volte, con due domande, la prima retorica, con risposta scontata. Orlando chiede a Michele e Danilo, persone che hanno studiato e, dunque, sono in grado di chiarire i motivi per cui i partigiani siano «così pochi»: Ma che fa la gente a Roma? […] Io non capisco. Noi dovremmo esse’ in tanti… ce dovremmo esse’ tutti qui, tutti, tutti! A me me fanno ride’ quanno me dicono: “Io c’ho moglie, c’ho famiglia”. Ma perché [rivolto a Danilo] tu vivi a casa co’ tu’ madre, co’ tu’ padre e invece stai qui. E [rivolto a Michele] pure tu c’avrai qualcuno, no? Eppure state qua. È soltanto paura. È la paura, ve lo dico io.
La seconda volta la domanda non è affatto retorica: la moglie [Regina Bianchi] di Edoardo, l’organizzatore dell’attentato che morirà sotto tortura per non aver parlato, dopo aver ricordato che il marito non ha mai voluto piegarsi a lavorare con i fascisti, esclama, tra le lacrime, rivolta ai nostri protagonisti: «Ma è giusto, è giusto quando uno mette
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
al mondo i figli? Rispondete voi: che forse è giusto ragionà così?». Una domanda che, sul momento, negli astanti, non trovava – e non poteva trovare – risposta! Però era l’esempio di Edoardo, come si è detto, a trasformare gli incerti, i pavidi in «leoni». Non quelli della canzone fascista («Battaglioni della Morte, / Battaglioni della vita, / ricomincia la partita / – senza l’odio non c’è amor. / “M.” rossa, uguale sorte, / fiocco nero alla squadrista / – noi la morte l’abbiam vista, / con due bombe e in bocca un fior. / […] / Contro Giuda e contro l’oro sarà il sangue a far la storia / […] / Battaglioni del lavoro, / battaglioni della fede, / vince sempre chi più crede, / chi più a lungo sa patir»21, citata mentre, sulle immagini di un Mussolini che ha dato vita alla Repubblica Sociale, scorrono i titoli di testa), privi di ogni umanità, senza sfumature e incrinature, ma i «leoni» che sono eroi proprio perché arrivano a sacrificare, con un percorso non sempre limpido e lineare (Danilo vuole abbandonare la lotta, dopo l’uccisione di Moratti, Michele sta per tradire, Gino aderisce alla Resistenza perché si innamora di Mariuccia), abitudini e affetti consolidati: sono pronti, in una parola, a sacrificare prima di tutto la loro vita precedente. Come in Tutti a casa – e l’accostamento era sottolineato da «l’Unità», seppure per sottolineare ancora una volta il “qualunquismo” del film di Comencini22 – anche qui la presa di coscienza si traduceva in una scelta di campo netta, che sembrava non ammettere incertezze e tentennamenti: Edoardo – Tu li odi i tedeschi? Danilo – Non lo so! Edoardo – È difficile rispondere, eh? Io sì. Io li odio. I tedeschi e i fascisti. Ma per me è più facile. Sai io ho avuto tanto tempo per pensarci su. Ci sono stati anni in cui non avevo altro da fare: pensarci su e imparare a odiare. E alla fine ci sono pure riuscito. Sai… è che per combatterli è necessario odiarli. Dicono che odiare sia, sia sbagliato. Ma io non ci credo. Io so che adesso la cosa che conta di più è proprio combatterli!
Non sappiamo se Danilo arriverà a odiare i tedeschi (e i fascisti). L’affermazione di Edoardo all’interno della pellicola rimane isolata 21
D’Alba-Pellegrino, Battaglioni «M», «Canzoni del tempo di guerra», n. 1, maggio 1942, p. 5. 22 Il quotidiano comunista sottolineava che nella pellicola di Comencini la trasformazione avveniva in base a «reazioni istintive, dettate da motivi privati, e sconfinava in un elogio di stampo qualunquista». Nel film di Loy invece avveniva «all’insegna degli ideali antifascisti e dei sentimenti che nutrirono la lotta contro la dittatura» (Un giorno da leoni, «l’Unità», 9 settembre 1961).
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così come isolata e non autentica appare quella di Orlando che, dopo aver portato Danilo e Michele a vedere i corpi degli uomini impiccati dai tedeschi, esclama: «Erano tutti bravi ragazzi, mai ve lo dovete scordà, mai!». D’altra parte, le sequenze che precedono l’attentato sembrano andare in un’altra direzione. Vediamo una pattuglia tedesca che perlustra la linea, intonando sotto una pioggia torrenziale O sole mio. Scherzano e ridono: la loro è un’aria e un’andatura assai poco marziale, anzi nello strascinare i piedi mostrano la stanchezza che provano. Quando il treno si ferma perché il segnale è rosso, la macchina da presa inquadra dall’esterno delle carrozze gli ufficiali e i soldati tedeschi: alcuni giocano a carte, altri scherzano, altri cantano accompagnando con armonica e fisarmonica canzoni dal tono melanconico. Un occhio esterno, che si limita a registrare senza commenti: anzi, soprattutto quando si inquadrano i soldati, sembra di cogliere anche un accenno, se non di simpatia, di umana comprensione. Una lunga sequenza, necessaria sicuramente per aumentare la suspence: il treno è fermo, inizia ad albeggiare e si intravede la miccia («Fra un po’ ci avremo addosso tutte le SS del treno», esclama qualcuno). Sarà allora che Michele si inerpicherà sul ponte, richiamato invano dagli altri, e riuscirà a sbloccare il segnale mettendolo al verde: verrà ucciso subito dopo, ma il suo sacrificio consentirà il successo dell’attentato. La lunga sequenza però ribadiva anche come agli autori interessasse sottolineare più l’atto di eroismo compiuto da eroi che rimarranno anonimi che mostrare la crudeltà e la ferocia dei tedeschi. Il giudizio della commissione di censura preventiva suonava ambiguo. Iniziava con toni perentori, sottolineando come il lavoro «avesse una marcata intonazione anti-nazista ed anti-fascista». Parallelamente metteva in evidenza che il film, più che sulla realizzazione dell’attentato, traesse «vita dall’orchestrazione dei personaggi […] dal maturare e dall’evolversi delle loro idee in senso collettivista: dal superamento del loro quietismo casalingo per il raggiungimento di una visione ideale della vita, anche se non agganciata a particolari indirizzi di partito». E concludeva riconoscendo al lavoro «dei momenti notevoli che, con la loro validità artistica, contribuiscono a superare una qualche artificiosità d’ambientazione, che deriva dall’avere eccessivamente marcato una lotta fratricida, fra antifascisti e brigatisti neri, nella zona dei castelli romani»23. In definitiva, quello che “guastava” il film erano 23
Revisione Cinematografica Preventiva, 8 marzo 1961, ACS, MTS, Div. Cin., b. 297, f. 3560.
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proprio quei momenti in cui veniva messa in risalto la guerra civile. A questo era dovuto – scriveva Argentieri su «l’Unità» – l’intervento della censura che vietava la visione della pellicola ai minori di sedici anni. Nel film non vi erano scene scabrose né «donnine nude» né sequenze «crude o raccapriccianti». Tutto era nato dal rifiuto di Loy di levare la sequenza citata sopra con la battuta di Osvaldo che di fronte ai cadaveri dei partigiani impiccati ricorda a Danilo e Michele di non dimenticare «mai»24. Il film era stato presentato fuori concorso alla Mostra veneziana. Quasi tutti i critici furono d’accordo nel condannarne l’esclusione. Un «madornale errore», scriveva Argentieri sottolineando come la pellicola, nella messa a fuoco dei sentimenti, che animarono e nutrirono la Resistenza, e nella rievocazione di un clima rivissuto dall’interno», raggiungesse «momenti di alta intensità e vibrazione»25. Non dissimile il giudizio di Lanocita che sul «Corriere» parlava di «un’azione di guerra anonima, silenziosa, disordinata, che non presuppone medaglie, vi prende parte una Resistenza borghese, senza organizzazione né uniformi. Ma anche così, anzi proprio così, induce alla simpatia e all’ammirazione»26. Sul quotidiano “gemello” Alberico Sala, dopo avere anche lui sottolineato l’ingiusta esclusione da Venezia, scriveva che, pur con qualche riserva, il film di Loy risultava «forte e amaro, con momenti rapidi e precisi»27. Anche Pestelli su «La Stampa» non si sottraeva al coro di critiche nei confronti dei selezionatori della Mostra: il film di Loy confermava «che i nostri giovani registi sono i più adatti a rappresentare sullo schermo le tragiche vicissitudini del recente passato, e soprattutto a darcene per ragioni autobiografiche, le ripercussioni sulle giovani generazioni»: Il film non è senza difetti, ma li riscattano un piglio sincero, una indagine non superficiale e sfumata degli eventi e dei caratteri, l’astinenza dalla pur comoda retorica esecratrice, e una condotta di racconto asciutta e avvincente. Quel che Loy voleva dimostrare, cioè la scaturigine popolare della Resistenza, la sua fatalità storica prima ancora dei suoi aspetti eroici, ci sembra che lo abbia pienamente dimostrato attraverso una vicenda mescolata di luci e di ombre, tolta, si direbbe 24
M. Argentieri, L’ombra della censura, «l’Unità», 2 settembre 1961. M. Argentieri, La rivincita dell’escluso, «l’Unità», 30 agosto 1961. 26 lan, Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 8 settembre 1961. 27 «… alcuni personaggi sono un po’ troppo caratteristici, fino alla macchietta, forse per equilibrare, spettacolarmente, una materia aspra […] Alcune suture sono ingenue o disinvolte; altre battute del dialogo sono un po’ didascaliche, si ascoltano come se provenissero da fuori campo» (a.s., Un giorno da leoni, «Corriere d’informazione», 8 settembre 1961). 25
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(e in parte è vero), dalla cronaca di quei giorni. Tre dei giovani di cui parla il film non hanno nulla d’eroico, soltanto la paura è la molla delle loro azioni […] Dal tremore e dall’ignavia alla fortezza e all’eroismo, i passaggi sono graduali, necessari e persuasivi28.
Non si sottraeva al coro di lodi (accentuate probabilmente dalla scarsa credibilità di cui godeva Loy dopo aver girato il seguito de I soliti ignoti 29) Valmarana che su «Il popolo» scriveva di una Resistenza vista con occhi nuovi. Anche se la pellicola presentava qualche difetto, il risultato era «positivo». Andava lodato lo forzo – non sempre riuscito – di fare un film «popolare» e nello stesso tempo «anticonvenzionale». «Che poi la retorica bandita dalla porta si riaffacci ogni tanto dalla finestra», come accadeva nel finale, «è un’indulgenza allo spettacolo che non deve scandalizzarci troppo»30. In conclusione, con Un giorno da leoni Loy aveva mostrato di essere – sottolineava «l’Unità» – un regista dal quale era lecito attendersi «altre liete sorprese»31.
28
l.p., Sullo schermo, «La Stampa», 8 settembre 1961. Scriveva Argentieri che Un giorno da leoni aveva mostrato un Loy «insospettabile» dopo L’audace colpo dei soliti ignoti, dove aveva mostrato di essere tecnicamente preparato, «ma troppo pressato da preoccupazioni di natura commerciale. Un giorno da leoni ha capovolto le carte in tavola e ha svelato un autore che, per la prima volta, partecipa al suo lavoro con un’adesione completa e un ragguardevole impegno intellettuale» (Argentieri, La rivincita dell’escluso, cit.) 30 P.V., Le prime del cinema, «Il popolo», 9 settembre 1961. 31 Le prime rappresentazioni. Un giorno da leoni, «l’Unità», cit. 29
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UN WESTERN PARTIGIANO La «lieta sorpresa» era rappresentata da Le quattro giornate di Napoli dove Loy veniva meno alla dichiarazione resa a Mino Argentieri l’anno precedente quando si accingeva a girare Un giorno da leoni. In quell’occasione aveva sottolineato che, pur non negando l’efficacia di una rievocazione in chiave epica degli avvenimenti successivi all’8 settembre, un «western partigiano, che sotto forma di racconto popolare e di chanson de geste, rendesse accessibile a milioni di italiani un’aneddotica resistenziale», non era «quella la direzione» nella quale si sentiva «sollecitato»1. Le quattro giornate di Napoli (regia di Nanni Loy; soggetto di Vasco Pratolini; sceneggiatura di Pasquale Festa Campanile, Carlo Bernari, Massimo Franciosa, Loy) era forse l’unico film che cercasse di creare, grazie anche allo sforzo produttivo di Lombardo2, un epos della resistenza. In un incontro al Centro Sperimentale di Cinematografia Loy spiegava i motivi profondi che l’avevano portato a concepire, dopo Un giorno da leoni, un altro film sulla Resistenza. Sua intenzione era mettere in risalto come nella società italiana fossero sempre meno presenti «quei valori che si possono definire civici o anche nazionali». Forse anche per via del «nostro piccolo miracolo economico» gli sembrava stessero venendo meno «il senso dell’amicizia fra gli uomini, l’esigenza di un rapporto serio, onesto, chiaro, autentico, il rispetto per la personalità e le opinioni altrui, cioè una serie di valori che forse schematicamente si potrebbero riassumere nella parola democrazia: 1
Argentieri, Nanni Loy fa due film ispirati alla Resistenza, cit. Su «Stampa Sera» Gino Barni riferiva che il produttore Goffredo Lombardo, napoletano, aveva dichiarato di avere in mente da tempo la produzione di un film importante incentrato su Napoli. Le quattro giornate gliene davano l’occasione per cui non aveva badato a spese: «saranno impiegate oltre diecimila comparse, tremila figurazioni, centinaia di attori e circa mille automezzi bellici di ogni genere, molti dei quali devono essere rifabbricati perché non ne esistono più» (G. Barni, Si gira nei vicoli di Napoli il film sulle quattro giornate, «Stampa Sera», 19 maggio 1962). 2
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una democrazia effettiva, alquanto diversa dalla democrazia formale e che mi pare nel nostro paese non sia ancora pienamente attuata»3. Per questo era tornato alla Resistenza: nella lotta di liberazione erano emersi i valori «della solidarietà, della fratellanza fra gli italiani, dello spirito di sacrificio […] si erano poste le radici per una autentica democrazia effettiva e vissuta, radici che poi non hanno ramificato in modo sufficiente». La cultura italiana, aggiungeva, con «la sola eccezione del cinema», non aveva «fatto tutto quanto sarebbe stato necessario per ricordare quei momenti, per fermarli e fissarli nella vita di tutti i giorni del cittadino italiano»4. Loy ricordava di aver presentato a Goffredo Lombardo «parecchi» soggetti5. Alla fine la scelta – compiuta di comune accordo con il produttore e gli altri sceneggiatori – era caduta sull’insurrezione napoletana: La vicenda di una popolazione civile che prende le armi per scacciare dalla propria città i militari, cioè la guerra, mi sembrò potesse esprimere quella somma di interessi e di stimoli di cui parlavo prima. E più che mai questo mi sembrò che avesse valore in quanto ciò era avvenuto nella città più freneticamente, direi animalescamente individualista: che proprio qui fosse scattata la molla della solidarietà, del sacrificio e dell’altruismo mi sembrò presentare una singolare coincidenza con i miei interessi6.
Prima di dare inizio alle riprese c’era stata una lunga fase dove era stata raccolta una considerevole documentazione culminata nella compilazione di «un vero e proprio “diario cronologico della vita della città di Napoli dal 1° settembre al 2 ottobre 1943”7. La ricostruzio3
Le ragioni delle quattro giornate. Colloquio con Nanni Loy, «bianco e nero», n. 12, dicembre 1962, p. 50. 4 Ivi, p. 51. 5 Diversa la versione di Pasquale Festa Campanile resa a Franca Faldini e a Goffredo Fofi: la proposta di un film sull’insurrezione napoletana era stata posta da lui e da Massimo Franciosa a Loy e a Lombardo (Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 105). 6 Le ragioni delle quattro giornate, cit., p. 52. 7 «Abbiamo letto tutti i libri – pochi – che sono stati scritti sull’argomento, tutti gli articoli di giornale; ho consultato tutti gli atti dell’Interno riguardanti personaggi ed episodi delle 4 giornate; presso le associazioni dei partigiani ho consultato pacchi interi di documenti riguardanti le richieste di concessione della qualifica di patriota e le successive indagini compiute dalla Commissione campana per le attribuzioni di tale qualifica e l’assegnazione di decorazioni. Inoltre abbiamo cercato di parlare con i vari protagonisti delle 4 giornate. Non tutti naturalmente li abbiamo trovati, e non tutti hanno voluto parlare… […] Abbiamo recuperato tutti i bandi, i manifesti, le ordinanze promulgate dalle residue autorità civili rimaste in città. I manifesti che si vedono nel film sono appunto la riproduzione fedele di documenti originali» (ivi, p. 53).
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ne cronologica, però, non poteva esprimere cinematograficamente «il disordine, l’improvvisazione, la casualità di quelle giornate»8. La fase successiva, pertanto, era consistita nel disorganizzare e frantumare quanto era stato raccolto e ordinato. Su quella base Pratolini, forte anche della sua esperienza napoletana (arrivato a Napoli per insegnare in un liceo subito dopo la liberazione della città, aveva raccolto svariate testimonianze di prima mano) aveva scritto il trattamento, «in una forma anche letterariamente molto pregevole»9. Successivamente Carlo Bernari, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Loy avevano messo mano alla sceneggiatura (anzi, alle sceneggiature, visto che le versioni erano state almeno una dozzina). Tutto questo aveva comportato un notevole ritardo nell’inizio delle riprese, dall’autunno 1961 all’8 maggio dell’anno successivo, e uno slittamento dell’arrivo della pellicola nelle sale, dal marzo al novembre 196210. Ne era venuto fuori un film concepito come una sorta di «romanzo epico», che si muoveva – sottolineava Loy – «su una strada che vorrei chiamare di storicizzazione cinematografica», dove l’«ingente documentazione» costituiva «il sottofondo su cui bisognava costruire l’edificio narrativo del film»11. Il primo elemento sul quale poggiava l’«edificio narrativo» era la coralità dell’azione, evidenziata nei titoli di testa: «Il produttore ringrazia gli attori che in omaggio al “Popolo Napoletano” – vero interprete delle “Quattro Giornate” – hanno aderito a partecipare in anonimo al film». Interpreti più o meno noti (Lea Massari, Frank Wolff, Gian Maria Volonté, George Wilson, Jean Sorel)12, si mescolavano con attori napoletani di straordinaria bravura (Regina Bianchi, Aldo Giuffré, Pupella Maggio, Enzo Turco, Enzo Cannavale, Giuseppe Jodice, Franco Sportelli, Eduardo Passarelli, Carlo Taranto, Antonio Casagrande, Luigi De Filippo, per citarne solo alcuni) e con quelli presi dalla strada come Domenico Formato (Gennaro Capuozzo, soprannominato Cazzillo, medaglia d’oro), un orfano ospite della città dei ragazzi di Maddaloni, o il sorprendente Raffaele Barbato che nel film è Ajel-
8
Ibid. Ibid. 10 Ivi, p. 54. 11 Ivi, p. 61. 12 «Esigenze di produzione e di co-produzione hanno imposto a un certo momento la presenza di numerosi attori noti e forse io non sono stato abbastanza fermo o abile per rifiutarli (anche se è vero che sono riuscito ad evitare alcune presenze che certo avrebbero stonato moltissimo» (ivi, p. 55). 9
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lo, il leader della banda di ragazzi evasi dal carcere minorile13. Tutti, dai volti più conosciuti a quelli meno o addirittura mai visti prima, sarebbero stati inquadrati – avrebbe dichiarato Loy più volte mentre era intento alle riprese – solo «in brevi sequenze, nessuno avrà una storia a sé, ma ogni storia andrà a sorreggere il susseguirsi degli eventi, sino a determinare una coralità, sfociante nelle quattro giornate». Il regista rinunciava al “classico” intreccio, definendo questo procedere «un disordine ordinato»14. «Ogni attore che interpreterà queste scene sarà il protagonista per quel minuto di proiezione, ma nell’insieme il film è interpretato dal popolo napoletano. Nel mio precedente film Un giorno da leoni raccontavo sì un episodio della Resistenza, ma mettevo in evidenza lo stato d’animo di un gruppo di giovani romani. Nelle Quattro giornate invece, voglio narrare i sentimenti che mossero tanti oscuri protagonisti»15. Una coralità che veniva esaltata dall’uso frequente del “campo lungo”, un tipo di inquadratura non a caso molto utilizzato nel cinema western cui Loy aveva fatto riferimento nell’intervista dell’anno precedente quando aveva parlato della possibilità di girare una pellicola che potesse avere un grande riscontro popolare: un «western partigiano», l’aveva definita. Nell’incontro al Centro Sperimentale il regista sottolineava come la scelta stilistica del campo lungo fosse dettata dal carattere stesso della narrazione: Anzi avrei voluto abbondare ancora di più nel campo lungo, avere prospettive profondissime, inquadrare interi quartieri; ma naturalmente questo non sempre è stato possibile per ragioni di traffico e anche per il pericolo di inquadrare edifici moderni e anacronistici. Mi pare comunque che l’alternarsi improvviso di primi piani a campi lunghi e a visioni complessive dia una certa efficacia alla vicenda creando un rapporto fra gli individui e la coralità degli avvenimenti, il che è proprio quel che volevo ottenere16. 13 Barbato – specificava Loy – «dopo pochi giorni si improvvisò mio assistente nel guidare i suoi compagni, interrompendo magari una azione quando gli sembrava che uno non avesse rispettato una pausa o avesse prolungato troppo la durata di una certa battuta. Era come se avesse un metronomo nelle orecchie». E altrettanto straordinari erano gli altri ragazzi che compaiono nel film: «Io davo il segnale di inizio di una scena, l’azione cominciava e uno dei ragazzi interveniva dicendo: “no non è venuta bene, bisogna ricominciare perché quello ha fatto la pausa troppo corta”» (ivi, p. 65). 14 L. Settimelli, Cominciate le riprese delle Quattro giornate, «l’Unità», 9 maggio 1962. 15 Barni, Si gira nei vicoli di Napoli il film sulle quattro giornate, cit. 16 Le ragioni delle quattro giornate, cit., p. 66. Un’affermazione sostanzialmente ribadita nell’intervista concessa a Franca Faldini e a Goffredo Fofi. Cfr. Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 105.
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D’altra parte il campo lungo dava la possibilità, portando in primo piano il paesaggio urbano, di confermare ancora una volta l’assunto del film: protagonista era Napoli e la sua popolazione. Una Napoli però che nel corso della pellicola perde la sua identificabilità, per dir così, “turistica” per concentrarsi sulle zone meno conosciute e più popolari. Se è vero che nelle prime sequenze compare la basilica di piazza Plebiscito, ben presto segue – è stato giustamente notato – una topografia poco riconoscibile: «A prova di ciò basterebbe il riscontro della totale invisibilità del golfo e del Vesuvio. Queste e altre palesi esclusioni sono tutte a favore della Napoli dei vicoli, delle rampe e delle salite, delle piazzette nascoste dietro schiere di palazzi»17. L’accento messo sul paesaggio era funzionale sia ad accentuare la coralità del film, sia ad esaltarne l’aspetto di epopea (favorito dalla “tarantella” di Carlo Rustichelli che metteva in risalto le azioni più audaci degli insorti) sottraendo le quattro giornate a una visione storica che inevitabilmente le avrebbe ricondotto alla quotidianità e alla cronaca. Non a caso l’unica data presente nel film è l’8 settembre 1943. Per il resto non ci sono indicatori temporali, se non qualche fuggevole distinzione tra giorno e notte. Sensazione di un tempo non lineare, ma orizzontale, quasi a creare un senso di attesa. Loy fa proprio il sentimento di Concetta [Regina Bianchi], la madre di Gennarino/ Cazzillo («Che so’ state ’ste giornate pe’ me… quante ne so’ passate? Tre? Ho perduto il conto della notte e del giorno»). Le quattro giornate, insomma, venivano «restituite con i contorni di un tempo vago, impreciso, quasi a volerne trasformare il ricordo in leggenda»18. Veniva eliminato inoltre ogni accenno alla resistenza come guerra civile. Nelle Quattro Giornate c’è un popolo compatto, senza distinzione di classe, che lotta e combatte contro i tedeschi. La guerra è una guerra patriottica per scacciare l’invasore nazista. Sui corpi dei due caduti portati sul tetto del taxi, con l’incitamento ai napoletani a ribellarsi, viene posta la bandiera tricolore. È un popolo, quello napoletano, che fa la guerra solo per necessità, che cura i nemici feriti (all’ospedale le donne non vogliono far entrare un giovane tedesco ferito; un partigiano intima a un medico di curarlo: «Perciò perdimm’ ’a guerra», esclama una donna. E il partigiano, pronto: «Noi ’a guerra non ’a facimm’ p’ ’a 17 M. Gaudiosi, Scrivere la città. Gli spazi urbani nelle Quattro Giornate di Napoli, in U.M. Olivieri, M. Rovinello, P. Speranza, a cura di, L’onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015 p. 12. 18 M. Diana, Le quattro giornate di Napoli, in S. Cortellazzo, M. Quaglia, a cura di, Cinema e Resistenza, Torino, Celid, 2005, p. 49.
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accide’ ’a gente!»), a cui la guerra, in definitiva, non piace: «Fagli capire che a noi le guerre non ci piacciono… – dice, al momento di trattare la resa con i tedeschi, uno degli insorti al capitano Stimolo [Gian Maria Volonté] che funge da interprete – Basta che loro se ne vanno… Insomma, se ne devono andare!». Il film si chiudeva con i tedeschi che si arrendevano e si allontanavano dalla città inseguiti dagli improperi e dai coloriti epiteti di una folla esultante. Parallelamente scompaiono alla nostra vista i protagonisti che abbiamo imparato a riconoscere. Primi fra tutti, Salvatore il ferroviere [Frank Wolff], il capitano Stimolo (il cui nome peraltro risulta nel soggetto pratoliniano, ma non nel film: «Mi pare che non ce l’ha detto mai», esclama uno dei due studenti che hanno presentato il capitano al professore Rosati), Maria [Lea Massari] che, vedendo un bimbo disperso nella folla, si ricorda del suo dovere di madre, abbandona il suo antico amore Salvatore e torna – si intuisce – dal marito [Antonio Casagrande] che si era rifiutato di unirsi agli insorti19. Un finale che ancora una volta esaltava la coralità dell’insurrezione, ben diverso da quello previsto da Pratolini. In questo alcuni soldati tedeschi in fuga su una camionetta nel tentativo di raggiungere i loro commilitoni si fermano presso una casa colonica per chiedere agli abitanti se abbiano visto gli americani e dove siano. I contadini sono attoniti, confusi. Non hanno capito la domanda. L’ufficiale allora incalza domandando dove sia il nemico. Gli astanti tacciono: gli americani lì non sono ancora arrivati. E proprio in quel momento … una donna, una vecchia stordita… solleva una mano in direzione dei soldati tedeschi sul bordo della strada e, innocentemente è facile capirlo, dice “’O nemico… Eccoli sono loro…” Fulmineo, l’ufficiale le scarica addosso un colpo di rivoltella e l’uccide… Immediatamente, come per riflesso, i tre soldati aprono il fuoco dal bordo della strada dove si trovano… i quindici contadini cadono gli uni sugli altri: uomini, donne e bambini20. 19 Nella sceneggiatura contenuta nel volume pubblicato in occasione dell’uscita del film era previsto un altro finale. In questo si assisteva prima alla morte di Pitrella [Aldo Giuffré] che spirava a pochi chilometri dalla sua Sorrento senza riuscire a vedere il figlio appena nato e successivamente all’arrivo di una colonna americana costretta a fermarsi di fronte a un lungo corteo funebre di migliaia di persone che segue le bare, portate a spalla, dei caduti delle quattro giornate Tra tutte spicca una più piccola, portata dai ragazzi del carcere minorile capitanati da Ajello. La folla commossa assiste alla lunga sfilata. Nella folla Concetta che, quando vede passare la bara più piccola, chiede a uno degli scugnizzi se per caso il piccolo caduto si chiamasse Gennaro. «Noooo! Cazzillo, se chiamava, Cazzillo» è la risposta. E Concetta tornava «a respirare» e successivamente a inginocchiarsi e a pregare (cfr. Le Quattro Giornate di Napoli, a cura di V. Ricciuti, Roma, Edizione FM, 1962, pp. 148-149). 20 Pratolini, L’ammuina, cit., p. 147,
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Un finale molto più tragico, che metteva l’accento sulla crudeltà dei soldati tedeschi e che prevedeva una scritta conclusiva diversa da quella del film. Sulla camionetta che scompariva nell’orizzonte compariva la frase: «Questo film che ha inteso illustrare, tra cronaca e storia, la nascita della Resistenza italiana, è dedicato alla memoria del dodicenne medaglia d’oro Gennaro Capuozzo, del capitano Enzo Stimolo successivamente caduto combattendo nell’esercito italiano di liberazione, e di tutti i caduti delle quattro giornate di Napoli»21. La scritta finale della pellicola («Questo film è dedicato alla memoria del dodicenne medaglia d’oro Gennaro Capuozzo, al valoroso popolo napoletano ed a tutti gli italiani che hanno combattuto per la libertà») confermava invece l’accurata rimozione di ogni accenno alla dimensione antifascista della rivolta, evidente d’altra parte nell’inesistenza dei fascisti. L’unico che si dichiara tale [Enzo Turco], che ha indossato la camicia nera per salvarsi ed è inviso agli altri ostaggi, finirà, ucciso dai tedeschi. Eppure, in quei giorni non mancarono i cecchini fascisti la cui azione causò numerose vittime22. La mancanza dell’aspetto antifascista, evidente sia nell’assenza dei fascisti sia nei pochi e brevissimi cenni al coordinamento partigiano del Vomero veniva sottolineato dalla stessa commissione di censura: «La eroica ribellione, – scriveva un appunto del 4 giugno 1962 – maturata dalle sofferenze e dai patimenti della guerra e dalle angherie delle truppe naziste, non fu dunque promossa da enti partigiani ma esplose dapprima anarchica ed isolata di quartiere in quartiere fino all’insurrezione collettiva»23. L’assenza dell’impronta antifascista veniva denunciata con toni forti dai partigiani napoletani che in un primo momento arrivarono addirittura a chiedere il ritiro di un film che travisava «la gloriosa epopea di quelle giornate», non cogliendone lo spirito e rimuovendo episodi avvenuti, «producendo così una errata informazione dell’opinione pubblica italiana»24. Carlo Bernari, uno degli autori della sceneggiatura, di fronte alle rimostranze partigiane, rivelava che erano state tagliate «ben nove scene, tra cui quelle dove agiscono i tiratori fascisti»25. Nell’incon21
Ibid. F. Soverina, Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia, in L’onda della libertà, cit., p. 59. 23 Revisione Cinematografica Preventiva, 4 giugno 1962, ACS, MTS, Div. Cin. B. 341, f. 3936. 24 c.g., I partigiani di Napoli hanno chiesto il ritiro del film sulle “4 giornate”, «La Stampa», 18 novembre 1962. I partigiani peraltro deploravano anche che allo spettacolo inaugurale tenutosi al teatro «San Carlo» non fossero stati invitati i parenti dei partigiani caduti. 25 Soverina, Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia, cit., p. 60. 22
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tro al Centro Sperimentale Loy rispondeva che la presenza dei fascisti «avrebbe spostato alquanto l’asse tematico del film […] l’idea che noi volevamo esprimere della guerra alla guerra, quella di una popolazione civile e pacifica che prende le armi per scacciare l’invasore, non quella di una guerra civile – che in realtà poi a Napoli non c’è stata –, rappresentare la quale avrebbe imposto un andamento completamente diverso alla narrazione»26. L’argomento veniva ripreso in un incontro tenuto a Napoli. In quell’occasione Loy aveva sottolineato che lo scarso risalto dato al coordinamento dell’insurrezione (solo un brevissimo cenno al proclama al «popolo napoletano, anzi del Vomero» redatto da uno dei capi della rivolta, il professore Rosati, l’attore Franco Sportelli, nella palestra del liceo) non era casuale. In un primo momento era prevista una riunione «di intellettuali e patrioti». La sequenza era stata poi cancellata: per non «smorzare il carattere popolare e immediato che la sollevazione in effetti ebbe», ma anche perché «in realtà, specie gli intellettuali borghesi, non credevano possibile l’intervento armato contro i tedeschi e attendevano, piuttosto la liberazione dall’esterno»27. In definitiva l’impostazione del film avrebbe facilitato l’appropriazione della pellicola da parte di esponenti politici moderati, come l’allora presidente del consiglio, il democristiano Giovanni Leone. Un altro democristiano, Antonio Gava all’epoca presidente della provincia, insieme ai suoi compagni di partito si batté – e vinse – perché il monumento alle Quattro Giornate fosse dedicato allo Scugnizzo, «cioè ad una figura priva, per la sua tenera età, di connotazioni politiche, espressione della “sana istintività partenopea”28. Insomma, la realtà veniva modificata a favore della visione di un popolo pacifico che, però, di fronte al «sopruso» – scriveva Marotta nella prefazione al volume che accompagnò l’uscita della pellicola – perdeva il suo «oro», la pazienza: Il primo connotato del mio popolo è una remota, strenua pazienza […] Ma c’è una cosa tuttavia che i napoletani odiano al punto di non tollerarla: il sopruso. Fateli morir di fame o di freddo, stivateli nei lerci “bassi”, ignorateli e disprezzateli, ma non obbligateli ad assistere impassibili a una violenta coercizione, a una lotta dieci contro uno, a un linciaggio. L’antica pazienza napoletana, allora, si dissolve in un attimo29
26
Le ragioni delle quattro giornate, cit., p. 64. u.c., Come Loy ha visto le Quattro giornate, «l’Unità», 27 novembre 1962. 28 Soverina, Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia, cit., p. 60. 29 G. Marotta, Prefazione, in Le Quattro Giornate di Napoli, a cura di V. Ricciuti, cit., p. 8. 27
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In ogni modo, ad attenuare le proteste partigiane fino ad annullarle del tutto furono le rimostranze che provennero dalla Germania. Già nel luglio, a film non ancora arrivato nelle sale, lo «Stern», uno dei più diffusi settimanali tedeschi, era arrivato ad accusare la pellicola di falsificare il passato. Il settimanale ipotizzava che l’Unione Sovietica cercasse di staccare l’Italia dai suoi alleati occidentali, approfittando della sua debolezza politica ed economica e valendosi dell’apporto degli ex partigiani e degli intellettuali: «Fra tutti i nostri alleati, soltanto l’Italia continua a rinfacciarci i crimini di guerra: e ciò avviene proprio nel momento in cui più è necessaria la collaborazione fra i popoli occidentali. In realtà gli intellettuali italiani di sinistra si servono dell’odio contro la Germania come di un’arma contro la nuova Europa. La propaganda antitedesca è propaganda filo-comunista»30. A novembre gli attacchi si intensificarono. «Die Welt», giornale di Amburgo, se la prendeva con il governo italiano reo di aver permesso al film di «diffamare» i soldati tedeschi e invitava il governo Adenauer a chiedere spiegazioni dal momento che alla prima del film erano presenti esponenti governativi e parlamentari italiani31. In un dibattito al Circolo della Stampa a Roma, alla presenza di esponenti parlamentari di diversa tendenza (Caradonna del MSI, Sansone del PSI e Palermo del PCI) e di numerosi giornalisti italiani e stranieri Loy rispondeva alle accuse sottolineando che le vicende raccontate erano tutte realmente accadute: il film si era basato su un enorme lavoro di documentazione durato due anni. Ricordava non solo la «perfetta legalità» della Resistenza napoletana e italiana, basata sull’appello di Badoglio (reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»), ma anche gli ordini di Hitler di «ridurre tutta la città di Napoli ad un ammasso di macerie, cancellandola dalle carte geografiche, come esempio alle altre città europee per prevenire possibili sollevazioni». Il regista infine si proponeva di difendere la sua «onorabilità» in sede giudiziaria»32. Le polemiche comunque non accennavano a placarsi. Sui giornali italiani compariva la notizia che il ministro degli esteri della Repubblica Federale Tedesca, Gerhard Schroeder, aveva disposto 30 E. Altavilla, Attacco tedesco all’Italia per il film sulle giornate di Napoli, «Corriere della Sera», 25 luglio 1962. 31 G. Conato, Inferocita reazione di Bonn per le «Quattro giornate di Napoli», «l’Unità», 18 novembre 1962. 32 Cfr. g.n., Il regista Nanni Loy difende dai neo-fascisti «Le quattro giornate di Napoli», «La Stampa», 21 novembre 1962; Dibattito pro e contro un film, «Corriere della Sera», 21 novembre 1962; L. Settimelli, «Tocca ai tedeschi chiedere scusa» ha detto il regista delle «Quattro Giornate», «l’Unità», 21 novembre 1962.
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che fossero effettuare rigorose ricerche storiche per dimostrare la correttezza delle armate tedesche a Napoli33. Sostanzialmente la protesta della stampa tedesca si incentrava su un punto: erano falsi gli episodi dove veniva mostrata la crudeltà delle truppe tedesche, falsa in particolare la fucilazione del marinaio con la folla costretta ad applaudire, falso il mitragliamento da parte di una motovedetta su una barca con a bordo civili inermi. Addirittura, il settimanale «Stern» arrivava a scrivere che l’insurrezione non sarebbe stata altro che «un tafferuglio fra ruffiani e prostitute»34. Ancora una volta Loy reagiva ricordando che la documentazione raccolta annotava episodi ancora più sconvolgenti di quelli apparsi nel film, dai due giovani che nel bosco di Capodimonte erano stati costretti, con le mani insanguinate per i colpi ricevuti, a scavarsi la fossa alla fucilazione di alcuni ufficiali italiani sepolti, per spregio, vicino a una latrina35. Il suo, aggiungeva, non era un film «antitedesco, ma antinazista»36. Della stessa opinione era la quasi totalità della stampa italiana tesa a sottolineare come la pellicola di Loy rievocasse le atrocità dei soldati nazisti e non mostrasse alcuna ostilità nei confronti della Germania di Bonn. Film come Le quattro giornate – scriveva Alfredo Todisco su «La Stampa» – «non fanno che rinverdire il ricordo di episodi truci che è saggezza comune non dimenticare. Il rischio dell’oblio è fortissimo, specialmente per quanto riguarda le giovani generazioni; e di ciò sono consapevoli, primi di tutti, i tedeschi più sensibili»37. Comunque in Germania le rimostranze nei confronti del film non accennavano a placarsi, confermate dalle dichiarazioni dell’ambasciatore tedesco in Italia che, pur mettendo in evidenza che la pellicola non costituiva «un’offesa ai rapporti italo-tedeschi», ammetteva l’irritazione dell’«opinione pubblica»38. Alla base c’era sicuramente – come è stato sottolineato – il timore che si scaricasse sulla sola Germania la responsabilità della seconda guerra mondiale e delle atrocità commesse, rimuovendo pertanto le responsabilità italiane39. 33 a.v., Loy ribatte le accuse dei giornali tedeschi, «Stampa Sera», mercoledì 28 novembre 1962. 34 A. Todisco, Anche i tedeschi farebbero bene a ricordare le atrocità alle quali giunse l’hitlerismo, «La Stampa», 29 novembre 1962. 35 Ibid. 36 B. Visca, Partigiani e intellettuali difendono le «Quattro giornate», «l’Unità» 10 dicembre 1962. 37 Todisco, Anche i tedeschi farebbero bene a ricordare le atrocità alle quali giunse l’hitlerismo, cit. 38 L’ambasciatore tedesco smentisce che il film offenda la Germania, «Corriere della Sera», 5 dicembre 1962. 39 P. Speranza, Un film «marcatamente antitedesco» la Germania di Bonn contro il film di Loy, in L’onda della libertà, cit.
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Giocavano inoltre altri fattori: l’opinione pubblica tedesca era convinta che se le SS si erano macchiate di efferatezze indicibili, la Wehrmacht ne era esente (con la sola eccezione del territorio sovietico)40. Né è da escludere – come aveva commentato lo stesso Loy in un’intervista al settimanale comunista «Vie Nuove» – che i tedeschi non potessero «sopportare che sia stata proprio la città più tranquilla del mondo, la più pacifica, la più imbelle forse, certamente la più disorganizzata, a mettere in fuga il potentissimo esercito del grande Reich. Possono forse sopportare – e hanno sopportato – film che li accusano di atrocità spaventose, di delitti senza giustificazione, ma gli brucia che la loro perfetta macchina bellica sia stata battuta da un popolo senza armi, animato soltanto dal proprio coraggio e dalla propria disperazione»41. In ogni caso, le rimostranze tedesche (che sarebbero continuate anche l’anno successivo42) un risultato – come si è detto – lo sortirono: la polemica sostenuta dagli esponenti partigiani su alcune lacune della pellicola, soprattutto l’assenza dei fascisti, scompariva per far posto a un fronte compatto. Le loro critiche al film – si sosteneva in un incontro tenutosi al cinema «Fiamma» di Napoli coordinato da Giorgio Napolitano – erano state strumentalizzate dalla stampa fascista italiana e da quella tedesca. Alla seconda, che aveva messo in dubbio le efferatezze narrate dalla pellicola, rispondeva un operaio, che aveva partecipato alle quattro giornate, Gennaro Di Paola: «Noi eravamo troppo impegnati a sparare, ad aiutare le nostre donne e i nostri bambini a seppellire i nostri morti per fotografare le barbarie dei tedeschi e dei fascisti»43. Il film, probabilmente anche grazie ai momenti in cui il riso allentava la tensione e la commozione («L’idea di intercalare le sequenze spettacolari con quelle al limite del comico – ricordava Loy – fu di tutti noi, Pratolini, Festa Campanile, Franciosa, Bernari e io, perché ritenemmo giusto ricostruire la cultura della città, che è anche pittoresca, 40
Ivi, p. 70. C. Pillon, Li ha costretti a ricordare, «Vie Nuove», 6 dicembre 1962, citato in Speranza, Un film «marcatamente antitedesco» la Germania di Bonn contro il film di Loy, cit., p. 74, cui rimando per le altre numerose e intelligenti osservazioni. 42 Era soprattutto il deputato democristiano Berthold Martin, presidente della commissione del Bundestag per gli affati culturali, a mantenere alta la tensione, affacciando prima il dubbio che il film potesse non essere proiettato in Germania (V. Brunelli, Ai tedeschi scotta troppo il film sulla rivolta di Napoli, «Corriere della Sera», 22 dicembre 1962) e successivamente prendendosela con l’ANICA, rea di non aver rispettato un presunto accordo di non produrre più pellicole anti-tedesche (E.P., Nuovi attacchi tedeschi ai cineasti italiani, «Corriere della Sera», 7 aprile 1963. 43 Visca, Partigiani e intellettuali difendono le «Quattro giornate», cit. 41
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è anche ironica, dato che a Napoli si fa teatro persino nei momenti dolorosi»44), ebbe un notevole risultato al botteghino45. Un successo al quale contribuì anche la critica che fu quasi unanime nel giudicare positivamente la pellicola. Raramente anzi si era avuta una sintonia quasi totale tra i gusti del pubblico e le analisi dei critici sui quotidiani. Su «La Stampa» Pestelli scriveva che «l’epica cinematografica della Resistenza» si era arricchita «di un nuovo e degnissimo capitolo»: I maestri del neorealismo, che dalla piena partecipazione alla tragedia della guerra tolsero i loro capolavori, quando poi in questi anni sono tornati in argomento, non lo hanno fatto senza lasciare un’impressione di stanchezza e di polvere. Viceversa i giovani epigoni, o almeno taluni di essi, e sicuramente Loy (chi ricordi Un giorno da leoni e veda oggi questo film), sanno ritrovare nella loro memoria e sensibilità un’entusiastica presa diretta con quella ormai remota materia. Il primo pregio delle Quattro giornate di Napoli è la freschezza emotiva con cui ci rimette nella prima impressione di quei fatti, annullando i molti anni e i troppi film che si sono frapposti. E questo senza rivoluzioni formali, ma calcando l’usata strada della più assoluta fedeltà cronachistica, della più minuziosa ricostruzione documentaria46.
Loy era riuscito nel difficilissimo compito di ricostruire la «sommossa corale d’un popolo esasperato» senza «voler dare un centro al suo film che pertanto serba quel tanto di casuale e misterioso che fu effettivamente nelle “quattro giornate”. E il suo scrupolo di storico ha avuto la miglior ricompensa nell’afflato epico che restituisce ordine e unità a moltissime dì queste pagine sparse»47. Dello stesso tenore la recensione di Savioli che sottolineava come il cinema italiano avesse un «grosso debito» nei confronti di Napoli, «pagato oggi, rievocando in un’opera trascinante, impregnata di alta passione civile, l’epica rivolta antifascista e antitedesca dell’autunno 1943». Quello di Loy era un film di grande documentazione, che poco aveva concesso «alla reinvenzione romanzesca»: importante perché mostrava alle giovani generazioni «da 44 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 106. 45 Leonardo Settimelli scriveva che a Roma «la pellicola continua ad essere campione d’incassi. La media giornaliera è di 1.143.380 lire(in appena 13 giorni di programmazione). Tra i film programmati in un solo locale, Le quattro giornate ha fatto registrare mercoledì scorso un incasso di 475.000 lire contro le 558.000 del Giorno più lungo proiettato in due locali. Alla fine di ogni proiezione il film viene applaudito da un pubblico numeroso e commosso» (l.s., Difendere le quattro giornate, «l’Unità», 1° dicembre 1962). L’incasso complessivo sfiorava i 740 milioni (cfr. Cavallo, Viva l’Italia, cit., p. 407). 46 l.p., Sullo schermo, «La Stampa», 17 novembre 1962. 47 Ibid.
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quale somma di sacrifici, di dolore, di coraggio, di generosità è nata la nostra pur giovane repubblica»48. Valmarana su «Il Popolo» metteva l’accento (e, come abbiamo visto, non poteva essere diversamente) sul «carattere ampiamente popolare, spontaneo, immediato» della rivolta partenopea». Da qui la commozione suscitata dalla pellicola. Loy insomma aveva intuito che la Resistenza potesse apparire, anche grazie ai film, un fatto scontato, che non metteva in luce la fatica e i sacrifici costati al popolo italiano. Occorreva quindi trovare delle storie – magari inventate come aveva fatto Rossellini ne Il Generale Della Rovere – che offrissero al pubblico una struttura narrativa capace di suscitare emozioni nel grande pubblico. Loy però aveva seguito una strada diversa. Aveva seguito sì Rosselini, ma quello degli inizi: ha cercato cioè di fare della cronaca epica prendendo a protagonista dei suoi film cento e cento volti, episodi, notazioni di quelle quattro giornate. Molti dei quali, presi a sé, risentono l’approssimazione del bozzetto, della battuta, della coloritura non sempre misurata, ma che, ricomposti assieme nel disegno generale dell’opera, assumono, di inquadratura in inquadratura, validità ed emozione crescente49.
Non dissimile sul «Corriere il commento di Grazzini che notava come le Quattro Giornate costituissero anzitutto «un problema storico, e uno dei meno facili, perché comporta anche lo sforzo di penetrare, oltre i fatti, in una delle più complesse psicologie del popolo italiano». Il regista sardo si era documentato con grande scrupolosità e aveva cercato di sciogliere il nodo del problema che Grazzini riassumeva così: «perché e come il popolo pacifista per eccellenza è insorto in quei giorni, in che misura la sommossa popolare, istintiva e disorganizzata, rispecchiò un fermo convincimento politico, con che grado di consapevolezza i napoletani, difendendo se stessi, dettero il primo esempio di resistenza armata al nazifascismo»50. Convincenti le risposte di Loy. L’insurrezione napoletana era nata «da un coacervo di insofferenze», dal coraggio e dalla disperazione, dalla volontà «di affrettare la fine degli anni bui, di cancellare la presenza dell’odio, di dire no alla bestia che si affaccia nell’uomo e calpesta persino l’illusione del miracolo». Con «onestà e stringatezza» il film raccontava, «come in un lucido documentario di guerra, le fasi della rivolta, accennando alle
48 49 50
A. Savioli, La trascinante epopea delle «quattro giornate», «1’Unità», 17 novembre 1962. P.V., Le prime del cinema, «Il Popolo», 17 novembre 1962. G. Gr, Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 24 novembre 1962.
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sue più varie componenti psicologiche e opportunamente adeguandosi al linguaggio sentimentale proprio della città, anche con le sue inflessioni melodrammatiche […] Il film è bello perché spoglia il mito, e sostituisce la verità (o, si è detto, la verisimigliaza) alla retorica». Così operando Loy, concludeva Grazzini, aveva tracciato una nuova strada: quella «di un cinema, che pur con alta tensione artistica affronti temi nazional-popolari per indicare i nessi che legano la vicenda di ognuno alla storia di tutti, una via che i nostri registi hanno finora percorso timidamente per diffidenza verso il genere epico-avventuroso»51. Più strutturate, ovviamente, le recensioni comparse sulle riviste specializzate. Su «bianco e nero» Cincotti scriveva che Loy aveva «realizzato l’ultimo grande film del neo-realismo italiano, e certamente uno dei suoi capolavori». Si trattava di un’assimilazione dovuta al «particolare atteggiamento» del regista che ricordava – pur differenziandosene – quello di Rossellini in alcuni episodi di Paisà, in particolare quello fiorentino, il finale sul delta del Po e in parte il primo, l’episodio siciliano: Come il Rossellini degli episodi citati, Loy trascura di appoggiarsi a un racconto lineare e compiuto, per far ricorso a una serie di appunti, di brevi occasioni narrative, di rapidi scorci episodici nei quali si coagula drammaticamente un materiale assai vario e disteso; ma a differenza di Rossellini non si affida all’intuizione improvvisa, al raptus estemporaneo, ma si muove con un calcolo vigile e controllato dominando razionalmente la sua materia. Voglio dire che la dimensione epica, su cui Loy ha trasferito i fatti offertigli dalla cronaca di quelle giornate, corrisponde a una scelta meditata del regista e non a un incontrollato trasporto; senza che per questo però venga meno o si affievolisca la dinamicità delle emozioni e quindi l’immediatezza della rappresentazione52.
Il che permetteva anche di dissipare un equivoco che si era generato proprio sul neorealismo: dover rispondere cioè un’opera cinematografica a sfondo storico a criteri e norme proprie dello storico. Non competeva all’autore quello che invece era dovere del secondo, vale a dire chiarire della vicenda storica narrata «lo svolgimento in tutte le sue implicazioni logiche» nonché sottolineare i «moventi razionali, politici, ideologici» che ne erano alla base. «Ma questo è compito
51
Ibid. G. Cincotti, I film. Le Quattro Giornate di Napoli, «bianco e nero», n. 12, dicembre 1962, pp. 80-81. 52
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dello storico appunto che si attiene ai documenti per ricavarne un’intima connessione e una coerente interpretazione; mentre all’artista quei medesimi documenti non possono offrire se non uno stimolo fantastico, una intuizione alogica e immaginosa, ma non per questo meno coerente e meno prossima alla conoscenza, pur se si tratti di una diversa coerenza e di una conoscenza d’altro tipo»53. In definitiva Loy era riuscito a raccontare, «senza diaframmi intellettualistici», un episodio della nostra storia recente con uno «stile che bene è stato definito epico-popolare: fervidamente e corposamente epico, direi, e popolare. L’eroica kermesse vissuta dal popolo napoletano in quei giorni di settembre del 1943 non sopportava, io credo, un trattamento diverso, né per contro poteva ambire a una più esaltante e commossa raffigurazione»54. Di fronte a questa unanimità di consensi appariva stridente la recensione negativa di Adelio Ferrero su «Cinema Nuovo». Era stato giusto respingere la «ignobile» campagna contro il film della stampa reazionaria italiana e di «autorevoli personaggi filonazisti della Germania di Bonn», ma era altrettanto sbagliato confondere questa difesa «civile» con la valutazione critica del film. Questa doveva essere «necessariamente severa»55. Sostanzialmente (Ferrero articolava il suo ragionamento in modo alquanto contorto) Loy aveva peccato di mancanza di prospettiva storica, dal momento che la pellicola era «priva di un asse ideologico e di un significato riconoscibile per il presente, il nostro presente di uomini d’oggi, vivi in una certa circostanza storica e ideale, che cercano di ristabilire un nesso dialettico fra la passione rinnovatrice di ieri e le tormentate ragioni di oggi». Alla base del film c’era solo «un generico rifiuto della guerra e una astratta speranza di pace». Un «generico unanimismo privo di articolazioni» (evidente sul silenzio inerente il percorso antifascista dei rivoltosi) caratterizzava tutta la pellicola e svuotava di significato la lotta, non priva di limiti e contraddizioni, di un intero popolo che combatteva per la sua liberazione. «E qui, in questa totale assenza di acquisizioni storicistiche e in questa persistente eloquenza di stampo, diremmo, patriotticorisorgimentale più che democratico-rivoluzionario, è da rinvenire la vera natura dell’antifascismo del regista»56. Una sentenza inappellabile, 53
Ivi, p. 81. Ivi, p. 83. 55 a.f., Schede. Le quattro giornate di Napoli, «Cinema nuovo» n. 161, gennaio-febbraio 1963, p. 37. 56 Ivi, p. 38. 54
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dettata anche da uno schematismo ideologico che marcava tutta la rivista, fondata e diretta – è bene ricordarlo – da Guido Aristarco, grande studioso di impostazione marxista e critico “militante”, convinto, come abbiamo visto con Il Gattopardo, che il cinema dovesse avere una sua visione politica (democratica) degli eventi e la dovesse trasmettere “pedagogicamente” alla società cercando di influenzarne in modo “progressista” l’evolversi. Una sentenza peraltro che in quella doppia aggettivazione, «patriottico-risorgimentale», usata in modo spregiativo (o comunque negativa, rispetto alla positiva prospettiva “democraticarivoluzionaria”) non teneva conto che negli anni del Miracolo, caratterizzati dalla scomparsa dei valori e dei modelli tradizionali, occorresse un nuovo immaginario identitario basato anche su una rielaborazione in chiave epica e popolare dei due avvenimenti fondativi della nostra storia recente, Risorgimento e Resistenza. Rossellini ci aveva provato con Viva l’Italia, con risultati, almeno da questo punto di vista, mediocri. Loy era l’unico che vi tentasse con la Resistenza. E l’epopea per essere tale deve sottacere alcuni aspetti (come Loy aveva ammesso con grande sincerità nell’incontro al Centro Sperimentale) per esaltarne altri di maggiore impatto presso il pubblico e, soprattutto, più inclusivi (come insegna appunto l’epopea del West cui lo stesso regista sardo si era richiamato un anno prima di dare avvio all’impresa delle Quattro Giornate).
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LA PATRIA STA DALL’ALTRA PARTE Il 15 febbraio 1961 veniva consegnato dalla «Aiace – Produzione Cinematografica» alla Divisione Generale dello Spettacolo la sceneggiatura di Tiro al piccione. Tratta dall’omonimo romanzo di Giose Rimanelli e curata da Giuliano Montaldo, Luciano Martino, Fabrizio Onofri ed Ennio De Concini, se ne discostava – come è normale per ogni trasposizione cinematografica – in molti punti pur conservandone l’atmosfera. Il film saltava a piè pari sia la parte introduttiva del romanzo con il protagonista che non sopporta più la vita nel paese natio e scappa con i tedeschi che si stanno ritirando al nord, sia quella finale, con il ritorno a casa. Il che permetteva di far provenire il protagonista Marco Laudato (nella pellicola, Jacques Charrier doppiato da Riccardo Cucciolla) da Cremona e non da un paesino del Molise e di saltare l’ingombrante (nel romanzo) figura paterna: nel film Laudato specifica subito che il padre è morto combattendo nella guerra d’Africa. Inoltre, l’amico più caro, il sergente Elia (nel film ha il volto di Francisco Rabal e la voce di Alberto Lupo) nel romanzo moriva eroicamente, da fascista, anche se con molti dubbi sulla scelta fatta, mentre nel film disertava e veniva fucilato. Se l’opera di Rimanelli, pubblicata nel 1953 (ma la cui prima stesura risaliva al 1945) aveva destato parecchie perplessità1, la pellicola – secondo la testimonianza di Giuliano Montaldo – ne suscitò, destinato come era a una platea più vasta, molte di più, soprattutto a sinistra: Personalmente non ebbi un’esperienza molto simpatica della politica culturale del PCI […] Mi chiesero di vederlo, mi chiese Alicata di vederlo, e c’era già un’aria di sospetto che io non avvertii, forse perché non ero legato a clan o gruppi e allora nessuno mi ha consigliato. Era un po’ una chiesa, quel gruppo, e io ero uno strano credente perché 1
Cfr. l’introduzione di Sebastiano Martelli alla nuova edizione del romanzo nel 1991 nei tascabili di Einaudi (pp. IX-XXIII).
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infine in chiesa non ci sono andato e questo poté essere un boomerang. Il film trovò tutti impreparati, accigliati… […] Io avevo tanto frugato, avendo già fatto film sulla Resistenza, avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche le altre parti della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che mi brucia ancora è questa, perché non era vero […] Quello che mi aveva imbarazzato di più è stata l’accoglienza di certi miei amici, di quella parte che avrebbe dovuto capire il film e sostenerlo. Allora erano ancora stalinisti, c’era il rifiuto di capire l’altra parte, di tendere la mano… di qui l’accusa di ambiguità2.
D’altra parte, la commissione di revisione cinematografica nel suo giudizio del 10 aprile 1961 si premurava di sottolineare che, «nonostante l’aspro titolo» (il «Tiro» era quello dei partigiani che miravano a colpire il «piccione», il nomignolo con cui veniva definito dagli stessi repubblichini l’emblema – un’aquila con il fascio littorio – che ornava il berretto militare: da notare che i titoli di testa scorrono sull’immagine fissa del “piccione”), il film si soffermava non tanto «sugli orrori della guerra civile», ma «sul clima morale, psicologico, ambientale». Non si trattava di riproporre «astiose polemiche» quanto cercare di capire «i motivi per cui – ad un certo momento – gli italiani si trovano a combattere così aspramente nei campi opposti». Certo, non mancavano «momenti di sicura asprezza» (si citavano l’episodio del «milite che scarica, con ferocia, il mitra addosso all’ostaggio fuggito, caduto a terra», quello del tenente Nardi che dopo aver rimproverato il pastorello perché non è sotto le armi gli spara nella schiena, la fucilazione di Elia). Ma la relazione si mostrava più preoccupata dell’«aspetto morale» (le file e le battute davanti al casino o le scene d’amore del protagonista con l’infermiera Anna): «È evidente che il lavoro – qualora dovesse essere conservato nelle parti citate nella forma attuale – andrebbe incontro a gravosi, forse irrimediabili, tagli di censura per ragioni di pudore e di buon costume»3. Successivamente la produzione assicurava che molte delle sequenze incriminate sarebbero state eliminate4. In ogni caso, la cura messa per evitare eventuali ripercussioni dal punto di vista politico era evidente nella stessa struttura della pellicola che faceva ampi ricorsi a filmati d’epoca con citazioni tratte da
2 Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 19601969, cit., p. 105. 3 Revisione Cinematografica Preventiva, 1° agosto 1961, ACS, MTS, Div. Cin., b. 294, f. 3592. 4 Appunto per il ministro, 10 maggio 1961, ivi.
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discorsi del duce e con commenti (affidati alla voce narrante di Mario Colli) che miravano ad annullare qualunque effetto d’empatia potesse svilupparsi nei confronti dei combattenti repubblichini. Una caratteristica evidente fin dall’inizio del film. Su campo nero campeggia la scritta 1943. Iniziano a scorrere immagini di bombardamenti e devastazioni, cui seguono quelle di Mussolini liberato dai paracadutisti tedeschi e portato in Germania al cospetto di Hitler, quelle dello sbarco alleato con una cartina che mostra la spaccatura in due dell’Italia. Visioni di rovine e distruzioni si alternano a fotografie di manifesti italiani e tedeschi di chiamata alle armi firmati da Kesselring. Il repertorio si concludeva con una fucilazione di partigiani davanti a un muro su cui campeggia la scritta “Primo esempio”. Su questa sequenza si sentiva prima la voce di Mussolini: «Camicie nere, italiani e italiane. Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete». Seguiva il commento in voice over: ««Settembre 1943. Le forze armate italiane, battute in Albania, in Grecia, sul Don, in Africa, in Sicilia erano state abbandonate a se stesse dopo l’armistizio dell’8 settembre. Il re e Badoglio erano fuggiti a Brindisi. Prigioniero a Campo Imperatore l’uomo che aveva portato l’Italia alla disfatta venne liberato da paracadutisti tedeschi e trasportato in Germania. Il Führer – disse più tardi Mussolini – si preoccupava della mia sorte. Le forze anglo-americane occupavano un terzo dell’Italia. Dopo ventuno anni di monarchia fascista, Mussolini metteva in piedi una repubblica sotto la protezione delle armate naziste, la repubblica di Salò. Durò seicento giorni, i più drammatici e sanguinosi della nostra storia! Per ogni italiano allora una parola, un gesto furono una scelta grave, spesso un atto di vita o di morte! Per chi aveva vent’anni e ignorando quasi tutto del mondo aveva bisogno di vivere la sua avventura o la sua ribellione non fu sempre facile trovare la strada. Fu terribile allora farsi uomo!»5. La pellicola iniziava mostrando immediatamente la crudezza della guerra. La prima sequenza ci mostra un camion che arriva in una 5 Nella sceneggiatura originale la frase suonava diversamente: «Venivano al mondo, allora, quelli che oggi hanno diciotto anni. Molti non sanno, altri, più anziani, hanno dimenticato… Ma avere, allora, diciotto anni fu una terribile esperienza. Ogni parola, ogni gesto – lo si volesse o no – fu per tutti una scelta grave, spesso un atto di vita o d morte! Ma per chi aveva diciotto anni, e ignorava quasi tutto del mondo e aveva bisogno di farsi uomo, di correre – sulle strade che gli si offrivano – la sua avventura e la sua ribellione, in cerca di dignità e di giustizia, era facile sbagliare. Per qualcuno era fatale. Fu terribile farsi uomo… e qualche volta finì troppo presto, con una pallottola sul piccione, sull’aquila che sormontava il berretto militare» (Aiace. Produzione cinematografica, “Tiro al piccione”, pp. 3-4, ivi).
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caserma. L’autista tedesco invita il «fascista», mezzo addormentato, a scendere: è arrivato dove voleva. La prima persona che Marco Laudato incontra è il sergente Elia che lo invita ad aiutare gli altri a scaricare le casse. Sul fondo del camion Marco scopre due cadaveri. Un’altra sequenza da segnalare è quella del giuramento delle reclute. Mentre l’oratore sottolinea che soltanto i giovani possono salvare la patria e che non c’è guerra «più fascista e proletaria di questa», il vento soffia impetuoso e ricorda, con un effetto grottesco (ci sono solo le reclute e i capi militari), il vociare delle folle a un comizio di Mussolini. Assistiamo poi alla vita di caserma, dove Marco si mostra subito diverso dai suoi compagni: gli altri rimarcano continuamente, anche con battute volgari, il loro “gallismo”, le loro squallide distrazioni: vanno al casino mentre Marco preferisce girare per la città, una Vercelli desolata, triste e uggiosa, dove incontra «una donna sulla trentina» che gli chiede dello zucchero. Marco glielo dona: «Prendetelo. Non voglio soldi». La donna lo invita a casa per un caffè e gli racconta del marito disperso in Russia e della bambina da mantenere. Gli si offre. La bambina si sveglia e Marco va via. Fuori viene aggredito: «I fascisti non li vogliamo qui… Butta quella divisa… torna a casa, fascista!». Arrivano i suoi compagni. Non trovano nessuno e sfogano la loro rabbia lanciando bombe a mano sulla scritta «Fascisti! Preparatevi la bara». Insomma, la pellicola mostra un protagonista che è un fascista atipico, fedele agli ideali che l’hanno nutrito fino ad allora, ma nello stesso tempo lontano dai modelli e dai comportamenti dei suoi compagni. Non a caso l’unico amico, più grande di lui, una sorta di fratello maggiore, è il sergente Elia, un veterano che non nasconde un disincanto e uno scetticismo crescenti nei confronti degli eventi. D’altra parte, tra i fascisti abbiamo diverse sensibilità e atteggiamenti. Lo notiamo quando i partigiani attueranno un attentato nel quale muoiono un soldato tedesco e una camicia nera. Immediata la rappresaglia. Se gli autori non si presenteranno, saranno giustiziati venti civili. Assistiamo a un lungo piano sequenza (un minuto e quattro secondi): inizia con una panoramica orizzontale da destra verso sinistra che mostra i venti ostaggi con le mani incrociate sulla testa, davanti alla facciata della chiesa. La macchina da presa si muove lenta, passando prima dietro le schiene delle camicie nere e successivamente dietro i soldati tedeschi fino a inquadrare il tenente Nardi [Sergio Fantoni] che muovendosi ci permette di vedere le donne e i vecchi che assistono alla scena. È lui che con modi perentori annuncia quanto succederà se «entro un’ora» gli autori dell’attentato non si presenteranno: «Sarà un ammonimento
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ai traditori e ai loro complici. Uomini, donne, italiani! Se conoscete i responsabili dell’attentato, denunciateli! Aiutateci ad arrestarli!». Su queste parole seguiva uno stacco netto a inquadrare prima la figura di Nardi e poi, con panoramica orizzontale da sinistra verso destra, i volti in primo piano degli ostaggi, mentre Nardi continua: «Salverete la vostra vita e quella delle vostre famiglie! Come siamo implacabili con i nemici vogliamo essere irreprensibili con le popolazioni! Ma guai a chi è contro di noi!». Nel frattempo Laudato si chiede perché non si presentino. Sono dei vigliacchi. Al che Elia gli chiede se lui lo farebbe. Marco senza esitazione risponde di sì. Elia: «Io no! Non mi piacciono questi ricatti». La sequenza si concludeva con un breve dialogo tra Nardi e il capitano Mattei [Carlo D’Angelo] che metteva in luce la notevole dose di cinismo di quest’ultimo. Una camicia nera valeva quanto un soldato tedesco, dieci ostaggi: «È già un bel passo avanti!», concludeva. È interessante notare che in tutto il film il nemico non si vede mai. Una scelta dettata sicuramente da motivi economici, ma anche dalla necessità di non accentuare l’aspetto di guerra civile della Resistenza. Succede ad esempio in occasione della battaglia per la conquista del monte Cimbrone tenuto dai partigiani. Qui la pellicola si discostava dalla sceneggiatura presentata all’ufficio censura. Anzitutto nella seconda correttamente il monte indicato era il Cimone: peraltro, la battaglia era lontana e si svolgeva tra alleati e tedeschi e quando i repubblichini arrivavano in cima, la trovavano abbandonata. Mentre stavano ridiscendendo si verificava un’incursione di tre caccia inglesi che provocava morti e feriti tra i quali Marco. Il film invece aveva un lungo preambolo in cui un colonnello appena arrivato in caserma prometteva ai militi che presto avrebbero avuto il battesimo del sangue. Seguiva il viaggio verso le montagne, con i soldati che intonano Battaglioni M («Battaglioni del DUCE, battaglioni / della morte, creati per la vita: / a primavera s’apre la partita, / i continenti fanno fiamme e fior. / Per vincere ci vogliono i leoni / di Mussolini armati di valor»6) mentre la macchina da presa prima si sofferma sul volto entusiasta di Nardi per passare a quello di Elia, che a malapena riesce a smozzicare qualche parola con un’espressione sempre più attonita fino a quando intona anche lui con slancio, forse per tentare di rafforzare le sue convinzioni pericolanti, il ritornello finale di un’altra canzone («Vincere! Vincere! Vincere! / E vinceremo in cielo in terra in mare! / È la parola d’ordine 6
D’Alba-Pellegrino, Battaglioni «M», cit.
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/ d’una suprema volontà! / Vincere! Vincere! Vincere!»7). Era la volta poi di un dialogo, svolto di fronte alla vetta da conquistare, dove ancora una volta risaltavano lo scetticismo di Mattei e il fanatismo di Nardi: Mattei – Non mi piace quel monte. È inutile conquistarlo e inutile difenderlo. È inutile sotto tutti i punti di vista Nardi – Dimenticate lo spirito delle truppe! Debbono combattere… Mattei – Lei dimentica la materia… i cannoni, l’appoggio degli aerei, i mezzi corazzati… abbiamo le spalle scoperte come una donna in abito da sera… Nardi – La volontà e il coraggio risolveranno tutto anche questa volta! Conquisteremo il Cimbrone! Mattei – Certo… può darsi… Nardi – Non sembrate molto convinto… Mattei – Infatti, ma non c’è da aver paura! Si tratta solo di vedere le cose come stanno!
La battaglia si svolgeva di notte e il pessimismo di Nardi si confermava. I repubblichini venivano respinti e Marco era colpito mentre audacemente avanzava da solo verso la cima. Un’azione che gli varrà la nomina a sergente. Lo troviamo in ospedale dove viene festeggiato dai compagni e dove Elia, per la prima volta, fingendo di scherzare, manifesta la sua opinione sulla guerra. Si parla di una ragazza, Carla, fidanzata del fratello di “Bocia”, così chiamato perché è il più giovane, che se ne è andata con i partigiani: Elia – Non te la prendere, Bocia, che Carla vince la guerra! Marco – Perché Carla? Elia – Carla e… gli americani… e sulle montagne i partigiani! Garrani – Ehi, vuoi fare il buffone? Elia – Magari! Invece è proprio quello che penso: siamo belli che fregati! […] La guerra l’abbiamo perduta da almeno un anno!
Sarà nella lunga degenza che Marco conoscerà Anna [Eleonora Rossi Drago], l’infermiera di cui si innamorerà perdutamente. Anche Anna non è insensibile, ma non cede alla domanda di Marco di sposarla. Il ragazzo non riesce a capirne il perché: intuisce che c’è qualcosa nel passato della donna che gli sfugge. I due vivono comunque la loro storia d’amore, lontano dalla caserma, in una grande villa sul lago di proprietà di un amico di Anna. È un periodo felice che dura 7
Zambrelli-Arconi, Vincere! Vincere! Vincere!, «Canzoni del tempo di guerra», n. 1, maggio 1942, p. 18.
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poco. La donna scomparirà per alcuni giorni, senza motivo. Al ritorno rivelerà a Marco, ormai perfettamente guarito, che è arrivato l’ordine di ritornare in caserma. Lei è riuscita solo a rimandarne la partenza. Ancora una volta la pellicola fa ricorso a immagini di repertorio per illustrare le condizioni dell’Italia nell’autunno 1944, mentre la voce narrante ricorda come gli alleati fossero stati fermati sulla linea Gotica: «I partigiani, malgrado il proclama del generale Alexander che li invitava a desistere dalla lotta, continuarono, appoggiati dalle popolazioni, a battersi come un vero esercito… controllavano intere regioni. Fu contro di loro che si scatenò l’odio e la rappresaglia». A Marco tornato in caserma Elia racconta della morte di Bocia in un rastrellamento e sottolinea come la lotta ai partigiani abbia conseguito risultati contrari a quelli sperati8. Gli domanda di Anna («Verrà a trovarmi, verrà. Me l’ha promesso», è la risposta) e gli confessa che anche lui si è innamorato, di Ida, una donna del paese. Gli indica sulla montagna dei fuochi: sono quelli dei partigiani: «Ogni sera vedrai i loro fuochi più vicini». Nel frattempo si susseguono i rastrellamenti, ma i partigiani sono sempre più audaci. Arrivano a incendiare i camion dei fascisti. Per rappresaglia questi danno fuoco alle case del paese: «Sei case per tre camion», urla qualcuno. Un povero pastorello [Enzo Cerusico] fa le spese della rabbia dei fascisti: non è renitente, deve badare alla vecchia mamma e non sa leggere né scrivere. Nardi lo lascia andare e poi con una sventagliata di mitra lo uccide. Lo sgomento si legge sulla faccia di Marco e di Elia. Si esaurisce la relazione fra Marco e Anna (dopo una notte passata insieme la donna gli chiede se non sia stanco «di questo amore» e il giovane comprende che si tratta di un addio) come «nel freddo e nella fame si spegneva» la Repubblica sociale italiana: «Gli scioperi la cancellavano dalle città, le fucilate dalle montagne. – recita la voce narrante, mentre alle immagini degli scioperi seguivano quelle dei vagoni piombati diretti in Polonia – Soltanto una follia resisteva: le armi segrete e un proposito: “Faremo una sola Atene di tutta la valle del Po”». A gridare l’ultima frase era la voce di Mussolini. Continuiamo a seguire i repubblichini nei loro rastrellamenti e in uno di questi arriva l’incidente. I soldati sono stanchi, non ce la fanno più, 8 «… abbiamo usato ogni mezzo per terrorizzarli! Incendiato, fucilato, impiccato! Roba da farti venire il voltastomaco! Neanche in Abissinia! E con che risultato? Che adesso abbiamo tutti contro! Guarda il paese: non c’è più nessuno…nessuno. Tutti in montagna, con i bambini, i vecchi e le bestie. Capisci?».
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ma Marco, che comanda il plotone, è inflessibile. Saltano i nervi. Si rischia l’insubordinazione, se non ci fosse l’intervento di Elia che prende da parte Marco: Elia – Ma sei diventato pazzo? E tutto per quella donna. Dai retta a me: dimenticala! Marco, non vedi quello che succede? È tutto finito ormai e gli uomini lo sanno. Ecco perché sono così, capisci? Ormai pensano soltanto alla loro pelle! Marco – E la Patria? Elia – La Patria! La Patria sta dall’altra parte! È duro da capire per chi ha combattuto come noi. È che bisognerebbe sapere per che cosa si combatte! Noi invece siamo sempre andati avanti così, senza capire e senza ragionare. Lo sai perché Anna t’ha piantato? Perché è finito tutto! Tutto, capisci? Tutto e tutti! Il tenente è rimasto in paese perché Mattei ha tagliato la corda. Dai retta, Marco! Non te lo dico perché la guerra è perduta! Ho capito tante cose in questi ultimi tempi, anche le decorazioni e le ferite che portiamo sono una truffa! Marco – Le mie ferite si chiamano Monte Cimbrone! Elia – Il tuo monte Cimbrone era soltanto un mucchio di sassi inutili! Inutili, capisci? Anche per quelli che ti hanno decorato! Gli stessi che mi hanno mandato in Africa e che adesso scappano… Cerca di capire, Marco. Sei ancora in tempo! Anche tuo padre se fosse qui ti direbbe le stesse cose. Lui che ci ha creduto al fascismo… e ci è morto! Marco – Sta zitto, carogna! Sei un traditore, un vigliacco! Ecco quello che sei! Elia – Vattene Marco! Vattene! Il tuo posto è vicino a Nardi! Vattene via!
L’epilogo è vicino. Marco torna in villa e trova Anna che sta fuggendo con Mattei, vestito in abiti borghesi. In caserma apprende che anche Elia ha disertato e che Nardi gli sta dando la caccia. Elia finirà fucilato come si è detto, dopo aver raccomandato a Marco di andarsene: «Hai perso la tua balia. Ora devi cavartela da solo. Ricordati che non è mai troppo tardi». Dopo la fucilazione, il plotone ritorna in paese cantando, su perentorio ordine di Nardi, Battaglioni «M» e la macchina da presa si sofferma sui volti rigati di lacrime di Marco e di Garrani [Franco Balducci]. Ancora una volta, scorrono immagini di repertorio (Hitler che passa in rassegna i soldati, azioni di partigiani, liberazione di Bologna, Mussolini stanco e invecchiato circondato da gerarchi e soldati, una scritta su un muro con un vecchio slogan, «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi»), mentre la voice over ricorda: «La Germania stretta in una morsa. Il fronte italiano in movimento. Bologna insorta e liberata. Ancora una parola d’ordine di Mussolini: “Faremo della
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Valtellina le nostre Termopili”. E gli ultimi disperati avrebbero dovuto concentrarsi lì, intorno al loro duce». Ancora una volta seguiamo il plotone che si inerpica, con andatura stanca e molto poco marziale, su per la montagna. Arrivati in cima, il tenente si rifugia in una capanna, cacciando fuori chi tenta di avvicinarlo. Da una vecchia radio apprende la notizia che «si chiude per sempre il ventennio nero» e che Mussolini è stato giustiziato «questa mattina in una località ancora imprecisata sulla riva del lago di Como». Nasconde la notizia agli uomini e decide che si deve proseguire per la Valtellina. I soldati sono sempre più demoralizzati: Garrani chiede a Marco di portare ai suoi il berretto nel caso dovesse essere ucciso. Scende la nebbia e all’improvviso arrivano dall’alto i primi colpi. Molte le vittime tra le quali Garrani. Dall’alto una voce intima ai repubblichini di arrendersi: sono circondati. «Avrete salva a vita», aggiunge. Qualcuno alza le mani. Il tenente Nardi intima loro di abbassarle: «Piuttosto vi ammazzo io», minaccia. La battaglia riprenderà l’indomani, urla: «Oltre quel costone c’è la Valtellina e gli altri che ci aspettano». Scende la notte. Marco va a recuperare il berretto di Garrani e spiega a Nardi che ha promesso all’amico di portarlo alla famiglia. «Gli italiani! – commenta sprezzante il tenente – Stanno per crepare e tirano sempre fuori la famiglia! Ma quando uno s’è messo addosso questa divisa la famiglia l’ha sotterrata da un pezzo!». L’alba vede un’altura innevata con cadaveri disseminati un po’ ovunque. Marco e Nardi sono rimasti soli. Da lontano le voci dei compagni chiamano Marco e gli dicono di venire giù perché «è finita. È finita, Marco! Mussolini l’hanno preso vestito da tedesco… l’hanno ammazzato». Nardi ingiunge a Marco di raggiungere gli altri («Vai, Marco. Stanno chiamando te, non li senti? Cammina! Vai!») e subito dopo si spara. Primo piano sul volto affranto di Marco mentre la voice over commenta: «Addio, Marco Laudato! La tua triste illusione è finita! Credi ancora di arrenderti a quelli che hai considerato tuoi nemici? In realtà stai rientrando in patria perché, come Elia ti ha detto, la patria era dall’altra parte, dalla loro». Il film si chiudeva inquadrando di spalle Marco, esile sagoma nera che spiccava sulla distesa di neve, che raggiungeva altri puntini neri che scendono a valle. Il film fu presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia del 1961 dove – riferiva Alberico Sala sul «Corriere d’Informazione» – aveva suscitato tra gli spettatori vivaci discussione degenerate in qualche caso in «assaggi di pugilato»9. Su «La Stampa» Pestelli scriveva che 9
A. Sala, Gli anni che scottano, «Corriere d’Informazione», 26-27 agosto 1961.
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le cose migliori della pellicola riguardavano «la vita di caserma […] i fittizi entusiasmi, la tristezza della cattiva coscienza, i funesti presagi», mentre nuoceva al film «una grossa sacca fumettistica» con una «tentacolare infermiera». Nonostante questi difetti, si trattava di «un film coraggioso e impegnato che fa sperare bene sul futuro del suo regista»:
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Ha molte pagine che per autenticità non sono inferiori ai brani di documentario inseriti nella vicenda; e altre che fanno direttamente rivivere le angosce di quei giorni […] Questo senso tragico nel film c’è; e con esso un distacco che se non è ancora quello della storia, è già quello di una cronaca attenta e obiettiva, che sa essere tanto più eloquente quanto meno ricorre alla rettorica10.
Non dissimile il giudizio di Lanocita. Già in occasione della presentazione alla Mostra aveva scritto che gli elementi positivi erano evidenti soprattutto nell’epilogo: «la fucilazione dell’amico che aveva tentato di scappare, la rinuncia amara alla lotta sono raccontati bene, nella piena d’una commozione davvero avvertita»11. Ribadiva, a film arrivato nelle sale, il giudizio, sottolineando come Tiro al piccione presentasse «più d’un brano riuscito». Un neo era rappresentato dalle scene d’amore, «guastate da dialoghi e interpretazioni scadenti. Eleonora Rossi Drago, fataleggiante, ha prodotto danno al film»12. Più severo il giudizio di Valmarana. Il critico democristiano lodava il coraggio del giovane regista e del giovane produttore, Sandro Jacovone: «Il film che ne risulta è senz’altro interessante e stimolante, per l’impegno che rivela e per il lodevole sforzo, spesso anche se non sempre coronato dal successo, di dare, di quegli uomini e di quella loro trista battaglia, una prospettiva e una umanità decantata di ogni rancore e di ogni faziosità politica». La mancanza di una bibliografia «attendibile» non giustificava però una «fisionomia» dei protagonisti più enunciata che rappresentata, così come, il materiale documentario, «per quanto scelto con cura», non riusciva a «legare saldamente gli episodi e a darvi una sempre accettabile unità»: Insomma anche Tiro al piccione vale più per le intenzioni che rivela, per l’interesse alla storia d’Italia e degli italiani, che per i risultati conseguiti. I quali peraltro, data la giovane età di Montaldo che, tra 10 L. Pestelli, La triste odissea di un repubblichino e un convenzionale film cecoslovacco, «La Stampa», 26 agosto 1961. 11 A. Lanocita, Un film con le stampelle arriva dalla Cecoslovacchia, «Corriere della Sera», 26 agosto 1961. 12 lan., Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 16 ottobre 1961.
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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l’altro è, con questo film al suo esordio, non mancheranno, pensiamo, alle prossime prove13.
Negativo il giudizio a sinistra. Il quotidiano del PCI, «l’Unità», scriveva che il film avrebbe dovuto indagare sulle ragioni che indussero «migliaia di giovani a seguire una via sbagliata; nonché sulle laceranti contraddizioni emerse da un’esperienza destinata a smentire le facili infatuazioni retoriche e patriottarde». Montaldo, però, non era stato «all’altezza del compito assunto». Gli errori principali del «neo-regista» erano consistiti anzitutto nell’aver ceduto alle lusinghe dello spettacolo, inserendo un «intrigo amoroso assolutamente superfluo», ma soprattutto nella sceneggiatura superficiale che tradiva «un timbro ideologico ambiguo e una scarsa chiarezza d’impostazione problematica». Era mancata un’indagine rigorosa sui motivi culturali che erano all’origine dell’adesione dei giovani repubblichini (il quotidiano comunista citava, alla rinfusa, «il romanticismo fascista, il dannunzianesimo, il mito dell’attivismo eroico, il nazionalismo esasperato, la demagogia di un regime che, morendo, cercò di indossare paludamenti falsamente anticapitalistici, ecc.) e, parallelamente, un’analisi che ponesse in risalto la contraddizione tra la realtà di una dittatura «fondata sul crimine e sul privilegio» e le illusioni di «molti ragazzi sprovveduti». Montaldo aveva tradito queste aspettative, limitandosi a un «esame epidermico» in cui emergevano «i tratti emozionali di una crisi» che però non trovava spiegazioni logiche e persuasive. Il film avvolgeva «in un alone patetico un pugno di eroi, i quali ai nostri occhi appaiono nella dubbia veste di sfortunati soldati raccolti attorno a una bandiera dimenticata dalla felice sorte»14. Insomma, quella del quotidiano comunista, che pur concedeva al regista l’attenuante della buona fede, appariva come una condanna senza appello, ribadita due giorni dopo da Tommaso Chiaretti sul «Paese». Montaldo aveva avuto la possibilità di vedere la storia recente del nostro paese «da una nuova fonte e da una nuova prospettiva», ma avrebbe dovuto mantenere «fermo, tuttavia, come egli intendeva fare per moralità e convinzione, il suo giudizio di antifascista». Invece il film risultava «ambiguo»: non riusciva ad approfondire i «veri nodi morali e storici e sociali del fascismo e della Resistenza» e si perdeva tra «convenzioni» psicologiche e narrative. Chiaretti adduceva due esempi: «l’atmosfera da fumetto» per quello che riguardava 13 14
P.V., Le prime del cinema, «Il Popolo», 16 ottobre 1961. Cinema. Tiro al piccione, «l’Unità», 15 ottobre 1961.
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la storia d’amore tra Marco e Anna (ma qui la colpa ricadeva anche su «un troppo assorto e inespressivo Charrier e una Rossi Drago quasi abbarbicata alle tende») e la crisi di Elia, che avrebbe dovuto essere seguita e chiarita nel suo tormentato percorso. In definitiva, il film non riusciva a dare «alcuna spiegazione efficace e realistica della lotta tra i fascisti e gli antifascisti nel nostro paese»15. Era un giudizio severo e anche poco generoso, che non teneva conto – come pure qualcuno aveva sottolineato (Valmarana) – sia di una bibliografia più legata a quelli che sono stati definiti gli «storici-protagonisti»16 sia di una vicinanza agli avvenimenti che impediva di fatto – e gli articoli su «l’Unità» e il «Paese», quotidiani “gemelli”, ne erano una conferma – uno sguardo che non fosse quello ideologico-politico. Ne avrebbe costituito conferma la mancanza di pellicole in futuro, anche in anni a noi molto più vicini, sulla guerra vista dall’altra parte (o «dalla parte sbagliata», come si scrisse).
15 16
T. Ch., Cinema. «Tiro al piccione», «Il Paese», 17 ottobre 1961. Cfr. Peli, Le stagioni del dibattito storiografico della Resistenza, cit., pp. 23-28.
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LA LOGICA DELLA CLANDESTINITÀ Sul quotidiano della Democrazia Cristiana, «Il Popolo», il 27 agosto 1963 l’inviato alla Mostra di Venezia, Paolo Valmarana, si chiedeva se fosse ancora possibile fare un film sulla Resistenza. Dopo aver visto, nella sezione «Opera prima», Il terrorista la risposta era affermativa, a patto che fossero rispettate – come nel film in questione – «determinate condizioni»: presentando cioè quei fatti non più in chiave di sia pur realistica epopea popolare, come fece magistralmente Rossellini, e non più adattando su quella rovente materia gli schemi del cinema tradizionale, episodi coloriti e personaggi singolari, come fecero quindici anni dopo Puccini e Loy, ma riproponendo, senza infingimenti e senza smaccate mediazioni spettacolari, non solo un clima ma anche una serie di problemi e di interrogativi ben precisi, i problemi e gli interrogativi che si trovarono dinanzi i patrioti della guerra di liberazione1.
Diverse le culture e le sensibilità che avevano dato vita alla Resistenza così come mancava spesso l’accordo sui «mezzi» per raggiungere la libertà: «c’è l’integralismo un po’ aristocratico degli azionisti; la tenacia orgogliosa dei socialisti, il tatticismo dei comunisti, la responsabile e pacata presenza dei democratici cristiani, il generoso ma polveroso antifascismo dei liberali». Da queste contraddizioni, dall’apporto di tutti era nata «concordemente dall’iniziale discordia la volontà di operare, di contribuire alla liberazione della propria città, dell’Italia tutta»2. Anche Leo Pestelli su «La Stampa» scriveva de Il terrorista come di «un film sulla Resistenza in un certo senso inedito, giacché il suo accento batte sulla politica anziché sull’epica»:
1 2
P. Valmarana, Un buon film italiano sulla Resistenza, «Il Popolo», 27 agosto 1963. Ibid.
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La Resistenza si suol pensarla, e giustamente esaltarla, come un blocco di spiriti concordi e ciò fu vero nel sostanziale, ma non nei particolari. Essa contenne fin da principio i germi della futura lotta politica. Prendendo a modello, per esperienza personali, il C.L.N. di Venezia nel fosco dicembre del 1943, De Bosio e Squarzina hanno fatto risaltare, in scene di forte concitazione drammatica, appunto le differenze ideologiche che fecero di quegli strateghi della guerra per la libertà quasi un parlamento «in nuce», con contrasti e dissensi poi levati via dal martirio affrontato in comune. E che siano riusciti a darci questo «spaccato» ideologico e psicologico – da essi ricostruito con acume e precisione documentaria – senza pregiudizio di quello che s’usa chiamare «spettacolo» e che nell’accezione migliore è poi il film stesso, non è piccolo merito3.
Più misurate le recensioni – parliamo di quelle scritte “a caldo” in occasione della Mostra – de «l’Unità» che individuava nell’arresto dei capi superstiti della Resistenza uno dei punti meno chiari di tutta la pellicola, pur sottolineando comunque «la particolare, intima carica emotiva dell’opera, tanto sdegnosa di facili ammiccamenti verso il pubblico quanto rispettosa della sua intelligenza»4 , e del ««Corriere», firmata da Giovanni Grazzini, che individuava il limite del film nel suo «impianto didascalico» e nel tono «di una rievocazione in cui l’impegno civile sopravanza di gran lunga l’esito artistico»: Se si eccettua qualche momento di tensione durate gli attentati, e il livido della Venezia invernale, il film oscilla paurosamente fra il gusto di un’obiettiva illustrazione di documenti d’archivio (tutti i dibattiti del comitato di Liberazione), l’interesse per le problematiche di gruppo, e la preoccupazione che il pubblico si appassioni all’intrigo, e tenga il fiato sospeso fino alla tragica conclusione. I personaggi e i loro verbosi dilemmi non fanno dramma, il protagonista non ha personalità, la stessa recitazione, per l’insistenza dei primi piani, affidati ad attori disadorni (compresi Volonté, Leroy e Anouk Aimée), rivela l’ingenuità del regista di teatro che ha scoperto, nel cinema, il valore dell’espressione dei volti5.
Sul quotidiano “gemello”, Alberico Sala sottolineava che si trattava di un film «schematico e netto, quasi didascalico. Le riunioni del comitato di Liberazione clandestino sono dei piccoli saggi di diplomazia, 3 L. Pestelli, Noia e furore nel film dello spagnolo Bardem. Guerra partigiana nell’«opera prima» di De Bosio, «La Stampa» 27 agosto 1963. 4 A. Savioli, «Il terrorista»: problemi e uomini della Resistenza, «l’Unità», 27 agosto 1963. 5 G. Grazzini, “Non succede mai niente” ma scoppia la bomba del Terrorista, «Corriere della Sera», 27 agosto 1963.
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di dibattito politico e di tattica militare. Le posizioni dei vari partiti sono chiaramente fissate in una impalcatura che un poco denuncia il laboratorio teatrale dal quale De Bosio viene»6. È venuto dunque il momento andare al film. Ne Il terrorista (regia di Gianfranco De Bosio, direttore dello «Stabile» di Torino; soggetto e sceneggiatura di De Bosio e di Luigi Squarzina, studioso, autore e regista teatrale) De Bosio si rifaceva a «certe esperienze» fatte durante la Resistenza e che non potevano «passare in teatro, dove il rapporto tra situazioni di massa e pubblico pone sempre una quantità di problemi»7. In apparenza il personaggio principale del film, che si svolgeva in una Venezia spettrale, grigia e nebbiosa, è «il terrorista», l’ingegnere Braschi [Gian Maria Volonté], ispirato alla figura di Otello Pighin, medaglia d’oro della Resistenza (ma anche gli altri personaggi si rifanno a figure realmente esistite)8. In apparenza! Esiste, infatti, un altro protagonista, il Comitato di Liberazione Nazionale di Venezia. Il film, metteva in luce, come si sarà capito dalle recensioni sopra riportate, in modo crudo e diretto, le divergenze dei partiti sulle azioni messe in atto dai partigiani9. Attorno a un tavolo, nella biblioteca dell’Università, si svolge la lunga seduta del CLN veneziano con i rappresentanti dei partiti, ognuno con il suo nome di battaglia: Piero [José Quaglio] del PCI, Quadro [Franco Graziosi] del PSI, Smith [Tino Carraro] del PdA, Alvise [Giuseppe Sormani] del PLI, Nemo [Gabriele Fantuzzi] della DC. Il Gap veneziano, un gruppo «misto» lo definisce Smith, composto da militanti comunisti e azionisti, comandati da un esponente del Partito d’Azione, l’ingegnere Braschi, è riuscito a far esplodere una bomba nella sede del comando tedesco. Un attentato che, come dichiara il rappresentante del PdA nella seduta del CLN, «può dirsi pienamente riuscito»: «anche se il Platzcommandant se l’è cavata, i tedeschi e i fascisti sono avvertiti e la città si è finalmente scossa dal suo torpore». Immediata la replica di Alvise. Si
6
A. Sala, Odore di zolfo nell’aria del Lido, «Corriere d’Informazione», 27-28 agosto 1963. Così De Bosio in un’intervista comparsa sui «Cahiers du cinéma», n. 164, maggio 1965, citata in Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 83. 8 G. Ghigi, La memoria inquieta. Cinema e resistenza, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2009, p. 136. «Quasi tutti i personaggi del film per me hanno un nome e un cognome», ha affermato De Bosio (ivi, p. 133). 9 In particolare nella pellicola venivano citati, ma non seguendo l’ordine cronologico reale, due avvenimenti: l’attentato a Ca’ Giustinian del 25 luglio 1944 e la fucilazione, avvenuta il 3 agosto 1944, di sette detenuti politici sull’allora riva dell’Impero (oggi riva dei Sette martiri), ibid. 7
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lamenta di essere stato tenuto all’oscuro di un’azione che ha avuto come principale conseguenza la minaccia di una rappresaglia tedesca:
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Alvise – Prima di passare al terrorismo occorreva discutere qui due, tre… cento volte e poi non farne niente! A verbale! Smith – Terrorismo, Alvise? Proprio non vorrei che questa parola figurasse nei nostri verbali! I morti che i tedeschi ci hanno fatto trovare sulla scala vicino alla strada, quello è terrorismo! Piero – Mi associo! Il tentativo di liquidare il comandante tedesco era un obiettivo militare ben preciso, non c’era solo uno scopo intimidatorio! Quadro – E non dimentichiamo il rastrellamento al ghetto due settimane fa. Chi ne risponde è il comando della piazza!
Alla fine l’unità viene faticosamente raggiunta. Rimane l’interrogativo sulla sigla, GAP. Qui è interessante sottolineare come l’acronimo venga sciolto di volta in volta in «gruppi di azione partigiana» (Smith), «gruppi di azione proletaria» (Quadro), «patriottica» (Piero, in sintonia, dunque, con la scelta di interpretare la Resistenza come una guerra patriottica di liberazione dagli invasori tedeschi): «L’importante – conclude Nemo, l’esponente democristiano – è che si tratta di un gruppo di animosi che agiscono». La discussione, inoltre, sottolineava come la lotta ai tedeschi in ambito urbano assumesse caratteristiche molto diverse da quelle “tradizionali”: «In tutti i centri dell’Italia occupata occorre formare un’organizzazione militare cittadina diversa dalle bande partigiane della montagna. Con gli alleati bloccati a 200 km da Roma si è capito che non c’è da contare su una loro avanzata lampo», chiarisce Piero. Il film, insomma, pur se molto teatrale, un film più di interni che di esterni (come detto, sia De Bosio che Squarzina erano prima di tutto autori teatrali), chiariva bene in primo luogo il dibattito che agitava e divideva le varie anime della resistenza: aspettare l’arrivo degli alleati («Gli olocausti sono inutili: è meglio attendere che gli alleati siano più vicini…», dichiara Alvise), posizione che nel film veniva bocciata senza indugi da Smith («La solita parola è sempre quella: “attendere”… stare con le mani in mano!») o, viceversa, intervenire anche con azioni violente che potevano suscitare la reazione tedesca: Piero – A Firenze i Gap hanno presentato il biglietto da visita meno di quindici giorni fa. Il primo dicembre hanno eliminato il capo del distretto che fucilava i disertori. Come qui: l’azione militare ha preceduto l’inquadramento politico. A Torino si sono avuti diversi attentati. Quella di ieri, la prima per Venezia, è una delle migliori azioni fatte finora da un punto di vista tecnico!
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Smith – … e politico! Quadro – No, no. Su questo punto direi che c’è una riserva di partenza. Riserva che mi è sembrata di cogliere anche nel compagno Piero. Insomma, se alcuni partiti, se il Comitato di Liberazione Nazionale in fondo non sono stati consultati per decidere – c’è poco da dire – è stata una vera e propria dichiarazione di guerra in città, che può trovarmi più che consenziente in pratica… Alvise – Sì, se non fosse comprovata l’inutilità degli attentati ai fini della condotta complessiva della guerra. Sì, se non si giocasse con la vita del prossimo!
Una pausa del dibattito permetteva agli autori di chiarire meglio le posizioni del PCI e del PSI. Piero si avvicinava a Quadro per sottolineare come la presenza dei «monarchici antifascisti» nel CLN fosse assicurata dalla DC e dal PLI: Piero – Noi siamo contro la monarchia in sé e condanniamo quello che è stato nel paese […] ma non dobbiamo respingere il suo apporto concreto alla lotta! Quadro – Sulla repubblica non si discute! Piero – Sì, ma è un altro momento della lotta! […] Il sopravvento sulle forze conservatrici dobbiamo mantenerlo, ma senza provocare spaccature. L’interesse della Nazione non può… mai essere in contrasto con quello della classe operaia. Quadro – Siete forti! Piero – Anche voi. E insieme dobbiamo tendere la mano alle masse cattoliche. Quadro – Forti… e di bocca buona!
La riunione riprendeva, con l’accordo di affidare qualunque azione a un «comando militare competente sotto il controllo del CLN». Rimaneva il problema degli ostaggi in mano tedesca, «quasi la metà comunisti o parenti di comunisti», sottolineava Piero. E qui arriva un’altra notazione interessante, che illustra benissimo le dinamiche interne ai comitati di liberazione. Piero indicava nel patriarca di Venezia la persona più adatta per un tentativo di mediazione. Proposta accettata dal rappresentante democristiano, purché il patriarca potesse offrire ai tedeschi in cambio «la cessazione, dietro il rilascio degli ostaggi, degli attentati». Lo scambio suscitava da una parte il consenso di Alvise, che parla di «Venezia città aperta», ma ampie perplessità, soprattutto in Quadro e Smith: «Il Partito d’Azione è assolutamente ed esplicitamente contrario sul piano politico. La chiesa qui, e non solo qui, ha predicato e praticato per anni un felice connubio col regime. Le sue responsabilità sono pesanti. Se la mediazione a quelle
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assurde condizioni riesce, la Chiesa se ne rifà una verginità davanti all’opinione pubblica nazionale ed internazionale. No, mi dispiace ma le tue condizioni sono inaccettabili». Ma, smentendo il rappresentante del PdA, Piero appoggia la posizione di Nemo: In questo momento il Partito Comunista non può essere contrario alla impostazione del rappresentante Dc. E non per le ragioni di cautela raccomandate da Nemo ma per il senso di responsabilità che ha sempre caratterizzato il nostro partito. La tesi di Venezia città aperta non è realistica. Ma nella misura in cui offriamo la cessazione degli attentati in città, dietro rilascio degli ostaggi, noi inseriamo direttamente il CLN e il movimento di Resistenza in una dialettica viva. I tedeschi saranno costretti ad ammettere la nostra esistenza e la nostra forza. I fascisti dovranno rinunziare alla loro pretesa di essere i rappresentanti del popolo e noi saremo liberi di riprendere l’iniziativa a Venezia non appena essi facessero qualcosa contro la popolazione. Inoltre… inoltre, così guadagneremo un lasso di tempo molto utile per il lavoro organizzativo.
Nella successiva riunione qualcosa è cambiato. L’incontro non avviene più all’università, ma in una sorta di cantina: Alvise è stato arrestato in una retata avvenuta in seguito all’uccisione di un repubblichino da parte di Oscar, un gappista al seguito di Braschi che sarà successivamente catturato e torturato, e viene sostituito da Alfonso [l’editore Neri Pozza]. Emergono in modo ancora più evidente le divergenze tra i vari componenti del Comitato: Alfonso – Qui si agisce a casaccio, qui si fa la retorica del tritolo e quel che ci va di mezzo è il vecchio antifascismo, l’antifascismo liberale! Piero – Le perdite sono dure per tutte, Alfonso. Dobbiamo controllare i nostri nervi! Nemo – È tutta la situazione che ci sta sfuggendo dalle mani! Alfonso – Allora lo si sconfessa, bisogna sconfessarlo… Smith - Siamo impazziti! Radio Londra ha parlato dell’attentato di domenica. Venezia è in primo piano. Non abbiamo costruito il CLN per appiccicare manifestini nei pisciatoi… Quadro – La libertà si paga di persona, non la si aspetta in elemosina dagli eserciti altrui! Alfonso – Non accetto lezioni. O il vostro ingegnere viene messo subito in condizioni di non nuocere o il mio partito si ritira dal comitato di liberazione e deferisce la questione al governo di Bari! Smith – E andatevene pure. Non sarà la vostra mancanza a… Piero – No, non si lascia il CLN come una società per azioni. Nemo – La situazione è insostenibile e il rappresentante liberale non ha fatto altro che denunziarla. Oltretutto il mio intervento presso la gerarchia ecclesiastica è finita nel grottesco. Che cosa varrà in futuro la parola del CLN?
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[…] Piero – Siamo fuori dalla realtà con certi discorsi. A questo punto apprezzo di più l’intransigenza anarchica dell’ingegnere che la noncuranza delle norme cospirative di chi insiste a delegare alla direzione del lavoro clandestino persone illustri, rappresentative, nobili figure certo, ma note anche ai piccioni di piazza S. Marco per le loro idee, che finiscono per comprometterci tutti! Nemo – Ma perché questi timori da parte di Piero? Forse perché il prestigio cittadino che altri membri hanno può dare autorità ai loro punti di vista in confronto alla remissività che il suo partito vorrebbe anche qui? Ma siamo nel Veneto, non in Toscana o in Emilia! Piero – Il nostro spirito di collaborazione è fuori dubbio. Siamo noi che abbiamo proposto il passo verso l’arcivescovado e proprio in questo spirito sosteniamo fino in fondo azioni la cui responsabilità è di un altro partito… Smith - Del mio partito, sì. Noi non ci tiriamo indietro! Nemo – Ma non capisci perché vi difendono tanto? È un precedente molto comodo per loro, quello della violenza indiscriminata. Con gli anglo-americani bloccati giù in Campania e Tito qui a due passi si preparano a una lotta senza esclusione di colpi. Piero – Quella di sperare in un conflitto fra alleati per salvare i propri interessi… non è un’accusa da fare a noi e sa di propaganda hitleriana!… Lei sa che noi lottiamo per il totale rinnovamento democratico del paese e non per un’ennesima restaurazione dei vecchi privilegi… Nemo – Sulla pelle degli ostaggi voi lottate… Quadro – Non parli così, lui non faceva l’opposizione in parrocchia o al caffè Florian! È stato in galera, al confino, ha sempre pagato di persona! Alfonso – Giovanotto, mi pare di pessimo gusto in questo momento! Piero – Ha ragione! Smith – Sentite: investiamo della questione Gap il comando Alta Italia, direttamente. Più di questo! Piero – Mi pare una proposta consapevole! […] Alfonso – Tanto lo sappiamo come va a finire. Quella gente è tutta a sinistra e fa per sistema la fronda al governo di Bari. Nemo – Le garanzie a Milano sono serie, Alfonso, possiamo accettare! Alfonso – Dobbiamo! Ciò non toglie… Nemo – … che bisogna fermare l’ingegnere! Smith – Stiamo facendo di tutto per trovarlo! Quadro – Avrà delle difficoltà! C’è una logica in tutto quello che ha fatto… Nemo – La logica del cavolo! Piero – La logica della clandestinità! Se mi sono lasciato trasportare prima è perché ho informazioni precise. La rappresaglia fascista è ancora in corso e siamo presi di mira, chi più chi meno, tutti. Certo, se ad alcuni di noi toccherà di sparire i nuovi dovranno essere diversi, più duri di noi… e anonimi… facce senza un nome! Ma io mi auguro che
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tutti qui continuiamo a restare ai nostri posti. Perciò vi invito a non dormire più a casa vostra, fin da questa notte […] datemi retta! Per quanto mi riguarda, io ho già cambiato casa. Mica perché mi considero più prezioso di un altro, ma è che ho troppa curiosità di vedere cosa succederà… dopo! Alfonso – Io no! Le alternative puntano tutte sulla scomparsa del mondo al quale sono affezionato!
Si perdoni la lunghezza delle citazioni, ma Il terrorista è l’unico film che permette, in certo senso, di assistere “in differita” a una riunione del CLN (il dialogo era tra l’altro frutto anche della testimonianza diretta di De Bosio che aveva partecipato a più d’una riunione del CLN10). Fuori dalle logiche politiche è la filosofia del “terrorista”, Renato Braschi, l’ingegnere che vive lontano dalla sua famiglia, in clandestinità, e agisce senza cautela e senza preoccuparsi delle possibili rappresaglie, ma compiendo, nel contempo, errori madornali, dal dimenticare l’indirizzo di un gappista a casa sua all’attuare azioni inutili (far saltare in aria l’altoparlante che trasmette i proclami nazifascisti), addirittura sostituire all’ultimo minuto un compagno per l’azione alla sede de «Il Gazzettino»11. La pellicola sottolineava così un altro tema fino allora accennato solo ne Il Gobbo: l’insofferenza di alcuni partigiani rispetto alle regole dell’organizzazione. Un contrasto che caratterizzerà i film degli anni successivi, dove si trasporrà nella Resistenza il conflitto spontaneismo/organizzazione, leit motiv nella sinistra italiana della lotta politica tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. In un’intervista ai «Cahiers du cinéma» De Bosio ammetteva di schierarsi dalla parte dell’ingegnere, ma di aver cercato di essere il più possibile obiettivo, anche nei confronti di quelli schierati su posizioni antitetiche a quelle di Braschi, contrari dunque agli attentati: Sul problema di fondo sono d’accordo con l’ingegnere, ma ho tentato di dare una certa forza alle posizioni contrarie, perché quel problema non può veramente essere risolto, non ne esistono soluzioni in assoluto. È un problema esistenziale, nessuna risposta è del tutto chiara. Ho cercato di rendere questa ambiguità di un problema morale posto in modo che ognuno possa risolverlo a modo suo. Io non voglio imporre violentemente una soluzione, ma provocare una discussione piuttosto che un atto di fede. È per questo che ho cercato di dare una prospettiva ragionevole a tutti i punti di vista del movimento. Ho tentato di 10 11
Ivi, p. 132. Ivi, p. 136.
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evitare che il personaggio dell’ingegnere potesse passare per una specie di eroe presentando il personaggio all’inizio, in una prospettiva ristretta e poi via via più larga12.
Torniamo al film. Ugo Ongaro [Giulio Bosetti], amico di Braschi, riesce a rintracciarlo e a comunicargli l’ordine «tassativo» di lasciare la città da parte del Comitato militare Alta Italia. Secca la risposta di Braschi: «Per far piacere a quei due politici che mi hanno sempre avuto sulle scatole. Credi che non lo sappia?». Braschi comunque accetta di andarsene da Venezia, non prima però di vendicare Oscar, uccidendo il suo torturatore, e di liberare con un audace piano i membri superstiti del CLN nascosti nella clinica dove lavora Ongaro: se il primo tentativo riesce, il secondo finirà tragicamente, con l’uccisione in un agguato dell’ingegnere e la cattura dei componenti del CLN. L’unico che si salverà sarà Ongaro che invertirà la rotta del motoscafo sul quale avrebbero dovuto fuggire Braschi e gli altri per dirigersi verso la terraferma. Insomma, un modo per indicare che la battaglia era appena iniziata e sarebbe continuata con altre modalità e in altri luoghi. Infine, l’ultimo tema proposto da Il terrorista. A chi pensa che le azioni di Braschi non abbiano un senso, Piero – abbiamo visto – risponde che a guidarle è la «logica della clandestinità. A chiarire meglio di cosa si tratti è lo stesso Braschi in un drammatico colloquio di commiato dalla moglie Anna [Anouk Aimée]: Braschi – Anna, non ti ho perduta neanche un po’, vero? Anna – Cosa dici? Braschi – No, no, dico di me! Non ti sembra che mi sia allontanato? […] In tre mesi se ne può fare di strada… tanta! Da non sapere più a momenti da dove uno era partito! Invece non bisogna dimenticarsene mai! Anna – Invece sei sempre tu! Braschi – Un fanatico, no! Non sopporterei l’idea di diventarlo un po’ alla volta, senza accorgermene. Stamattina ho parlato con Ugo […] Parlavamo e d’improvviso ho avuto un paio di reazioni eccessive. Capisci? Per questo mi è venuta paura di essere cambiato, ma con te mi ritrovo, anche se penso a quanti ci lasciarono la pelle nel ’20-’22, per fermarli prima che arrivassero al potere. Ma più che la pelle, il lavoro, la casa… E poi mi viene in mente di dopo… Ma sì, i miei ricordi iniziano molti anni dopo, quando tutti parevano soddisfatti: c’era quell’aria di noia della gente ormai sazia. Chi non era così non poteva più vivere insieme con gli altri… e c’è voluto questo macello… 12
Intervista di De Bosio sui «Cahiers du cinéma», cit..
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la vergogna… solo per poter ricominciare un discorso… [….] A volte non posso fare a meno di chiedermi se dopo… venti trent’anni dopo che tutto questo sarà finito – perché ormai è chiaro ci si fa, chissà con quali perdite ancora, ma ci si fa – se dopo ci sarà ancora un periodo in cui la gente si lascerà addormentare, anestetizzare… da un po’ di pace e di abbondanza. L’abbondanza e la pace fanno comodo a tutti […] a tutti! E magari, per una questione di pane e minestra, si sarà pronti a lasciar perdere tutto un’altra volta, la libertà un’altra volta. Allora, c’è solo la lotta, ma siamo maledettamente in pochi, Anna!
Per inciso, questo colloquio – scriveva Grazzini sul «Corriere» – faceva intuire quanto complessa fosse la personalità di Braschi: «è un razionalista che non sopporta l’idea di divenire un fanatico». Sarebbe stato lo spunto su cui si sarebbe potuto costruire un bel film basato sul «ritratto del terrorista, l’unico che in un debole coro poteva avere la statura di un personaggio»13. La pellicola che a Venezia ebbe il premio Pasinetti, quello della critica, probabilmente secondo per importanza solo al Leone d’oro, ebbe un avvio piuttosto lento nelle sale: in molte città arriverà solo tra giugno e luglio del 1964, «alla chetichella, tra la calura imperante e le prime fughe verso mari e montagne», scriveva Micciché14. Contrastanti i giudizi. C’era chi lo giudicava, anche se il termine ormai appariva «logorato», un film «impegnato», «un documento da archiviare nella mente e da studiare come tutte le vere, sincere lezioni di storia»15. Chi apprezzava l’«impegno civile» pur rimproverando alla pellicola un’«eccessiva verbosità»16 e chi sottolineava l’«operazione limpidamente dissacratrice che opera nel corpo stesso della Resistenza, fuori dell’atmosfera elogiatoria e celebrante che avvolse i primi contributi cinematografici»17. Sull’«Avanti!» Lino Micciché scriveva che il merito principale dell’opera consisteva «nel suo proporre e riproporre, come elemento di dibattito, la necessità morale della ribellione e la falsità dell’alternativa violenza-non violenza quando le catene pesino sull’uomo». Le discussioni e le diversità di vedute all’interno del CLN 13
Grazzini, “Non succede mai niente” ma scoppia la bomba del Terrorista, cit. L. Miccichè, Due film sulla realtà, «Avanti!», 12 luglio 1964. Tullio Kezich, produttore del film insieme a Ermanno Olmi (la società fu chiamata 22 dicembre perché fondata il 22 dicembre 1960) ricordava che Il Terrorista «ebbe delle traversie vuoi commerciali vuoi politiche, che ebbero dell’incredibile: tutti i distributori consultati ci ingiunsero di tagliare le scene del CLN perché nel cinema “la politica è veleno”» (Faldini, Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 83). 15 Cinema. Le prime a Roma. Il terrorista, «Paese Sera», 11 luglio 1964. 16 Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 11 giugno 1964. 17 a. s., Il terrorista di De Bosio, «Corriere d’Informazione, 11-12 giugno 1964. 14
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PARTE SECONDA - GLI ANNI DEL MIRACOLO
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acquistavano un valore «didascalico» e rendevano «Il terrorista un’opera singolarmente matura, attuale davvero insolita in un panorama produttivo nazionale dove i conflitti vengono programmaticamente accantonati»18. Qualcuno vedeva nella pellicola l’espressione del momento politico attuale e in questa ottica ne sottolineava la validità. «Stavolta, anche stavolta, – scriveva su «Momento Sera» Ferruccio Disnan – in fondo si è voluto fare invece della politica, della politica spicciola di schieramento, quasi un antipasto del centro-sinistra»: Con personaggi-clichés: il liberale Alvise che predica prudenza; quel dc che tace incerto, ma che poi ci sta, perché “rappresenta un partito popolare”; con quel socialista che ha delle esitazioni “autonomistiche”, ma che non tradisce mai l’unità di classe; con quei due “azionisti”, uno professore e l’altro ingegnere – noblesse oblige –, che invece non hanno dubbi e sanno che bisogna sparare, magari attraverso i GAP comunisti, più organizzati; con quel comunista, infine, che sa tutto sull’ “inserimento” e sulle “dialettiche” tanto da sembrare l’on. Togliatti che difende a Montecitorio l’utilità e la moralità dell’alleanza momentanea tra il PCI e l’estrema destra19.
E non mancava infine chi riconosceva ne Il Terrorista, «nonostante la sua impostazione», «uno dei rari film» che non presentasse la Resistenza «come patrimonio esclusivo dei marxisti»20.
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Miccichè, Due film sulla realtà, cit. F.D., Il terrorista, «Momento Sera», 11/12 luglio 1964. Il terrorista, «Tempo», 11 luglio 1964.
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EPILOGO Il colloquio tra Braschi e Anna ci riporta al finale de La lunga notte del ’43 e a un episodio de I mostri 1. In Scenda l’oblio una coppia, benestante (a giudicare dai vestiti), sta assistendo sullo schermo alla fucilazione di un gruppo di partigiani effettuata da soldati tedeschi. La tensione, sottolineata dalla musica, è al massimo. L’uomo accende una sigaretta: è infastidito dal tossire di alcuni spettatori. Sullo schermo un giovanissimo soldato tedesco aspira lentamente il fumo di una sigaretta e impartisce l’ordine di far fuoco: i partigiani muoiono, mentre si sente il pianto di un bambino. L’uomo si avvicina alla donna: «Ecco, vedi, il muretto della nostra villa lo farei proprio come quello, semplice, solo con le tegoline sopra, eh?». «Sì… sì!», è la risposta annoiata della moglie. In un minuto e trentaquattro secondi l’episodio mostrava in modo agghiacciante la scomparsa, complice il crescente benessere, della resistenza dall’orizzonte mentale e culturale degli italiani. Siamo nel 1963. Due anni dopo Florestano Vancini girerà Le stagioni del nostro amore (soggetto e sceneggiatura di Elio Bartolini e dello stesso Vancini), arrivato nelle sale nel 1966. Il film raccontava la storia di un intellettuale di sinistra, un giornalista, che aveva partecipato alla Resistenza, militato nel PCI e che si trovava a vivere una crisi politica ed esistenziale: un matrimonio finito e l’abbandono della giovane amante, Elena [Jacqueline Sassard]: «l’unica cosa che oggi mi fa vivere», afferma. Il quarantenne Vittorio Borghi [Enrico Maria Salerno], la stessa età del Bruno Cortona de Il sorpasso (solo una notazione!), incarnava – secondo le intenzioni di Vancini – la crisi di una generazione, la «nostra generazione», che vedeva svanire i sogni della giovinezza: «Di mio, di personale – chiariva il regista in un’intervista a Giacomo Gambetti – c’è l’infanzia (il padre postino), la Resistenza, il mondo 1
Regia di Dino Risi; soggetto e sceneggiatura di Age & Scarpelli, Elio Petri, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Risi.
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contadino e la crisi ideologica […] Ma vi sono esperienze attraverso cui siamo passati tutti, e la delusione di cui parlo è un sentimento diffuso, non uno stato d’animo personale»2. La pellicola, che per certi versi ricordava il cinema di Antonioni3, attraverso vari flashback ripercorre la vita del protagonista, dalla adolescenza in poi. Per tentare di ritrovare se stesso Vittorio ritorna alla natia Mantova («Eccola lì, la Patria. Quello è il campanile di S. Andrea, la torre dell’orologio, la cupola del duomo, il palazzo ducale… Un presepio, come immaginavo che fosse Gerusalemme quando facevo il presepio… Quanti anni sono che non ci metto più piede?»), una Mantova che, nel paesaggio, nella lingua, negli accenti, nelle osterie, richiama molto la Ferrara de La lunga notte del ’434. Qui ritrova i vecchi compagni di lotta, quelli con i quali ha condiviso l’esperienza della Resistenza e delle successive grandi battaglie del sindacato e del Partito Comunista. Anche loro sono cambiati. A cominciare da Leo, Leonardo Varzi [Gian Maria Volonté], assessore comunista, che in un lungo colloquio rimprovera a Vittorio di essere uscito dal PCI (da sottolineare che, come Vittorio, Vancini abbandonò il partito comunista in seguito agli avvenimenti ungheresi del 1956): Leo – Insomma… perché sei uscito dal partito? Vittorio – Perché non sono più comunista! Leo – C’è un motivo di dissenso, di rifiuto, di crisi? Va bene, discutiamo. Ma tu non puoi rifugiarti nel vago o nelle barzellette […] Certo, Stalin che da dio in terra diventa Satana nell’altro mondo… l’Ungheria messa a tacere con i carri armati… Tito scomunicato, poi abbracciato da Kruscev… Kruscev poi a sua volta spazzato via dalla sera alla mattina… adesso lo scisma cinese… sono fatti, fatti grossi, lo so! È difficile inghiottire certo rospi! Vittorio – Ma no! Per me invece sono stati un bene, Leo, un’esperienza necessaria, come da ragazzi: deve pur venire il giorno in cui ti accorgi che tuo padre e tua madre non sono dei santi! No, Leonardo, non è questo! Leo – Ma allora… perché? Vittorio – Ma ti ricordi cos’era vent’anni fa per noi il comunismo?... Che cosa era? Era la dottrina capace di spiegare tutto, la storia dell’umanità, il suo passato, il suo futuro, ma soprattutto un modo diverso di essere uomini. Per noi, compagno allora era la prima parola di un linguaggio nuovo…
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G. Gambetti, Florestano Vancini, Roma, Gremese Editore, 2000, p. 66. Ivi, pp. 61-62. Ivi, pp. 66-68.
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EPILOGO
A Leo Vittorio confessa di non credere più al «sol dell’avvenire»: «L’avvenire si è fatto presente e non è quello immaginato! Sappiamo guardare le cose che ci stanno vicino ma… davanti a noi non c’è più orizzonte!». Invidia la sua «fede», vorrebbe essere come lui che è rimasto saldo negli ideali di un tempo: «mi dicevo c’è almeno uno che ha tenuto duro, uno che si salva, con la stessa intransigenza, con lo stesso rigore di un tempo!». E qui succede qualcosa che né Vittorio né noi spettatori ci aspettiamo. Leo inizia a piangere. Il suo matrimonio è distrutto: «Mia moglie… è una puttana! Cosa posso fare ormai! Ho due figli! E a loro devo nasconderlo! Devo nasconderlo! Mi fa quasi complice! Non posso fare più niente…». Ritrova Tancredi, nome di battaglia di Carlo Di Giusti [Gastone Moschin], un comandante partigiano, che ora lavora come guardia notturna e che ha pagato duramente la sua militanza nella Resistenza, sia per l’artrite contratta («Sarà stata tutta l’acqua che ho preso da partigiano»), sia per essere stato in prigione: «Prima liberatori, eroi, bravi di qua, bene di là… E poi davanti al giudice che vuole sapere perché quella volta o quell’altra avevo ucciso i fascisti! Ma come perché, gli ho detto! Perché c’era l’ordine! E lui: ma da chi veniva quest’ordine, da quale comando? Ma da quale comando doveva venire? Da me: ero io il comandante di brigata! […] Insomma, per fartela corta… un anno di gattabuia…». Con l’eccezione di Tancredi, l’unico personaggio ancora rimasto fedele ai suoi ideali (si rammarica perché Vittorio non scrive più per «i nostri giornali»), è tutto un susseguirsi di delusioni. A cominciare dal grande amore di gioventù, Francesca [Anouk Aimée], che alla sua proposta di matrimonio, aveva preferito accasarsi con un vecchio benestante e che ora vorrebbe riallacciare la relazione: «Tu perché mi hai cercato? Che cosa vuoi da me? – le domanda Vittorio – Ieri sera ti sarai magari chiesta per un momento chissà che non abbia fatto male a non sposarlo quest’uomo: allora non aveva una lira, ma adesso forse non se la passa male e visto che non l’ho sposato, perché almeno non riproviamo, come se tutti questi anni non fossero passati! Sì, tuo marito è una gran brava persona… certo che è una brava persona, ma ti annoia! E allora? Col vecchio amore c’è anche una bella giustificazione romantica! È questo che volevi, vero?». A finire con Olindo Civenini [Checco Rissone], allora segretario provinciale del partito, incorruttibile difensore dei lavoratori e dei loro diritti, e ora proprietario di un lussuoso negozio di stoffe: «il suo nome a Mantova – ricorda Vittorio in voice over – suonava come quello di un dio…
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temuto, amato… ma forse lui non lo sapeva e si ritiene più rispettabile oggi…». Anche Olindo ha abbandonato i suoi vecchi ideali, anche se sostiene che «l’idea è sempre quella, sai. Non si può cambiare! Sì, io aiuto come posso… tu capisci… ogni tanto i compagni vengono per la festa dell’Unità, per il congresso provinciale, per un convegno di studi… insomma, tutte queste cose!»: … sono convinto che in Italia la situazione non si muove più, né in un senso, né in un altro! Abbiamo fatto la lotta contro il patto atlantico, la lotta contro la legge truffa – questa l’abbiamo anche vinta – adesso fanno questa contro il centro-sinistra. Conclusione? Tutto fermo, tutto immobile, tanti milioni di voti ai comunisti, tanti ai democristiani. Variano le decine, le centinaia di migliaia, ma i milioni restano quelli […] Comunque, se verrà il momento di fare la rivoluzione, faremo anche quella!
Non resta allora che riandare al passato. In una sorta di pellegrinaggio laico Vittorio ripercorre le tappe della sua vita a Mantova. Va in un casolare dove c’è una lapide che ricorda tre partigiani massacrati dai fascisti: «C’è stato mai nella mia vita un momento di dedizione così totale come quello che nella mia gioventù ebbi per la Resistenza? Eppure, mentre ricordo, sento un distacco incolmabile… come se ricordassi qualche cosa che mi è stato raccontato da altri e che io non ho vissuto […] Luciano, il vecchio Costa e Manservigi forse avrebbero potuto barattare la loro vita in cambio di quella dell’organizzazione… preferirono farsi massacrare. La morte li ha inchiodati per sempre a quel loro istante di eroismo. Se fossero vivi sarebbero qui come noi, confusi con gli altri a vivere e basta… a sbranarsi l’un l’altro!», è il suo pensiero espresso come al solito in voice over. Va al cimitero dove sono le tombe dei genitori. E ripulendo le tombe dalle erbacce, rivede il rapporto con loro, soprattutto con il padre, un uomo che – come gli ricorda un vecchio in un’osteria – non aveva paura di nessuno, neanche dei fascisti: «Per voi vivere fu semplice e naturale: i figli, lottare perché loro non patissero, portarli avanti perché non conoscessero le vostre umiliazioni e tutto in una fatica di anni e anni… eppure eravate sereni… dove trovavate questa forza…la speranza della vostra vita […] Accettaste la vita come un dovere. Io, ora, sono qua: non ho più entusiasmi, non ho più fedi, ma forse so quale è la ragione del mio vivere: la testimonianza di una dignità, il rifiuto di ogni retorica e di tutte le divise». Forse il ritorno al passato è servito. Nell’ultima sequenza del film vediamo Vittorio seduto al tavolino di una balera in periferia. Osserva
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EPILOGO
sorridendo dei giovani che ballano sulla musica di un juke-box, mentre il gestore si lamenta («Tutto il giorno attaccati a quell’affare!») e si domanda cosa facciano e dove siano i genitori. Primo piano del volto di Vittorio che cambia espressione. Ripresa in campo lungo. Vittorio corre verso il bancone del bar, butta a terra bicchieri e bottiglie gridando «Nooo… Non mi avrete mai». Rovescia tavolini e sedie. Poi, sempre ripreso in campo lungo e sempre gridando la stessa frase, corre verso il palco dove i giovani stanno ballando e rovescia il juke-box. Cade a terra. Ripresa in primissimo piano del suo volto: inizia a piangere disperatamente. Si ricompone, si avvicina al gestore, tenta di scusarsi («Io… io… non so…»), gli dà un indennizzo e risale in auto. Una ragazza, sorridendo, gli riporta l’orologio caduto. Vittorio mette in moto e se ne va, mentre la macchina da presa inquadra il paesaggio che si allontana. Il film non ebbe un’accoglienza calorosa da parte della stampa. Vancini la imputò a una sorta di rifiuto da parte «di un certo tipo di intellettuali di sinistra»: Ritengo che questo rifiuto sia attribuibile al fatto che a volte, quando passano gli anni, non è piacevole guardarsi allo specchio; il film, invece, era proprio un invito a guardarsi e a dire in modo esplicito quello che poi ognuno di noi si diceva in privata sede o quando vuotava il sacco delle angosce inconfessate5.
Le stagioni del nostro amore fu presentato in anteprima nazionale a Bologna in occasione della consegna dei “nastri d’argento”. «l’Unità» scrisse che quello del film era «un discorso di lapidi: d’un uomo che non sa guardare le pietre miliari del recente passato, come accadeva al Ferzetti della Lunga notte del ’43, il quale però era un agnostico, mentre il Salerno di oggi è uno che aveva saputo scegliere la sua parte al momento giusto. Dopo vent’anni, dice il film di Vancini, i due si assomiglieranno, entrambi drogati dallo stesso equivoco benessere. E qualora vogliano ingoiare le loro incertezze arriveranno allo stesso punto: il sapore di un fallimento, di un amaro disinganno»6. Sempre sul quotidiano comunista Aggeo Savioli rimproverava a Vancini di aver scritto un film «in chiave di lamento: un cantico delle speranze perdute, dove ogni dialettica reale sembra annullata, ogni tensione ideologica dissolta. La Resistenza diventa un mito, una “stagione” irripetibile e conclusa: lo ieri e l’oggi 5 F. Faldini, G. Fofi, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 176. 6 Pietrangeli la spunta di misura su Bellocchio, «l’Unità», 25 marzo 1966.
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non si toccano». L’autore aveva commesso l’errore di aver trasformato una visione soggettiva della realtà in una sorta di rappresentazione oggettiva della società attuale. Il personaggio non veniva mai criticato, ma «compatito dal principio alla fine, ai limiti del vezzeggiamento». Insomma il film avrebbe potuto risultare accettabile se «non si volesse, nonostante tutto, identificare in lui la testimonianza di non si sa bene quale “dignità”, di non si sa bene quale rifiuto della “retorica” e delle “divise”»7. Sostanzialmente negativa anche la recensione di Grazzini sul «Corriere» che trovava il film scarsamente incisivo, «lento nel ritmo e pleonastico nei dialoghi». «Poco convincente» anche il nesso fra ragioni pubbliche e private: «Vittorio soffre più d’un carnale rimpianto per la giovinezza perduta, sullo sfondo d’una crisi esistenziale assai letteraria, che non delle nausee d’una generazione tragica». Unici elementi positivi alcuni brani di rievocazione dell’infanzia e della giovinezza: «Né dispiace l’aura malinconica, il profumo di vespero che fascia le incertezze di Vittorio, bene riassunti dal brumoso paesaggio padano e dalla musica»8. Perplesso anche Pestelli su «La Stampa», non convinto soprattutto dello scatto d’ira finale del protagonista, «che quantunque faccia spettacolo, trasporta all’esteriore una vicenda fino a quel punto delicatamente introspettiva», quasi che l’autore avesse voluto in certo qual modo addolcire «questa sua mesta elegia del tempo politico perduto»9. Non mancava chi parlava di un film «talvolta discontinuo», soprattutto nella sceneggiatura, pur sottolineandone «le pagine commosse e vibranti (ricordiamone due: il disperato distacco dall’amante e il gioioso “flashback” di una corsa in bicicletta con il padre del protagonista fanciullo)». In ogni caso si trattava di una pellicola «sincera», dove Vancini, ritornato ai temi della «sua prima e finora insuperata opera: La lunga notte del ’43», aveva avuto «il coraggio di affrontare temi scottanti per la loro attualità. Senza reticenze, senza faziosità. In questi tempi di conformismi e di paure, è già non piccola lode»10. Per Adelio Ferrero invece il film eludeva il vero discorso sul quale invece Vancini glissava: «la “sconfitta” della Resistenza, le incertezze del presente, il deterioramento di un’alternativa rivoluzionaria, la coscienza del grande conflitto internazionale che incombe sul movimento operaio»11. Durissima la conclusione: 7
ag. sa., Le prime, «l’Unità», 23 aprile 1966. G. Grazzini, Rassegna cinematografica, «Corriere della Sera», 1° aprile 1966. 9 l.p., Sullo schermo. “Le stagioni del nostro amore” un importante film italiano, «La Stampa», 31 marzo 1966. 10 A. Blandi, Ricerca se stesso negli amici d’un tempo, «Stampa Sera», 31 marzo 1966. 11 a.f., Le stagioni del nostro amore, «Cinema nuovo», n. 181, maggio-giugno 1966, pp. 218-219. 8
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EPILOGO
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Ci dispiace per Vancini che continuiamo a stimare per la coerenza con cui persegue un difficile discorso. Ma dopo un film come questo, ci sembra necessario ricordargli che la retorica che egli giustamente aborre, non assume sempre il passo di parata e la sonorità della celebrazione, ma ama talvolta le apparenze accattivanti e il suono flebile della rinuncia ammantata di nobiltà. E questa, a dire il vero, è ancora più vana e snaturante dell’altra12.
Si tratta di recensioni che denotano lo spirito del tempo. Era molto difficile accettare un film che con grande sincerità non parlava soltanto della crisi ideologica di un intellettuale di sinistra, dovuto al fallimento di una generazione che aveva fatto la Resistenza e che vedeva i propri ideali annegare nel benessere e nel conformismo del miracolo economico, ma sottolineava, insieme al rifiuto della società attuale («non mi avrete mai»), anche l’esigenza – la dichiarazione di Vittorio davanti alla tomba dei genitori – del rifiuto di «ogni retorica e di tutte le divise». Torniamo ancora una volta all’ultima sequenza. È un finale aperto, che a qualcuno ricordò immediatamente quello della Dolce vita13. Non sappiamo cosa farà e come vivrà Vittorio. Però è lecito ipotizzare che la grande sensibilità di un autore come Vancini, capace di intravedere meglio di altri quanto si agitava nella società italiana del tempo, desse un altro significato alla pellicola, ben diverso dalle recensioni. Non era possibile intravedere nella simpatia iniziale con cui Vittorio segue i balli dei giovani, nel sorriso della ragazza che gli porge l’orologio un atto di fiducia comunque nel futuro? La speranza di una nuova generazione, che libera dai dogmi, avrebbe saputo dare seguito ai sogni interrotti di quei giovani che venti anni prima avevano immaginato e lottato per una società più giusta? Il Sessantotto non era lontano!
12
Ivi, p. 219 Cfr. le recensioni di Blandi, Ricerca se stesso negli amici d’un tempo, cit.; A. Sala, Su doppio binario la crisi di Salerno, «Corriere d’Informazione, 1-2 aprile 1966. 13
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM In corsivo il titolo dei film. L’ordine alfabetico non tiene conto dell’articolo. Tra parentesi quadre sono riportati nomi e cognomi che risultano all’anagrafe e, nel caso dei giornalisti, le sigle con cui si firmavano. Accattone, 127 Achtung! Banditi!, 58, 61-62, 65, 68, 70 Adelfi Nicola, 118 Adenauer Konrad Herman Joseph, 241 Adua e le compagne, 184 Age [Agenore Incrocci], 216, 226, 273 Agosti Aldo, 158-159 Ajello Nello, 16, 131 Aimée Anouk [Nicole Françoise Florence Dreyfus], 269, 275 Albani Barbieri Alberto, 70 Albano Giuseppe, 200-201 Alessandrini Goffredo, 36, 46, 95 Alexander Harold, 58, 67-69 Alianello Carlo, 102, 125 All’armi siam fascisti, 5 Altavilla Enrico, 241 Alvaro Corrado, 46 Amendola Giovanni, 160 Amendola Mario, 34 Amidei Sergio, 20-21, 125, 133, 161, 174 Ammannati Floris Luigi, 163 Andreotti Giulio, 61 Angelo Luigi, 209 Anice Alberto, 141 Annichiarico Vito, 25 Anton Edoardo, 43 Antonioni Flora, 199 Antonioni Michelangelo, 84, 127, 131, 175, 274
L’ape regina, 142 Aprà Adriano, 33, 126-127, 136-138, 167, 176, 178 Arconi F. [Aristodemo Uzzi], 254 Argentieri Mino, 88, 101, 160, 196, 219220, 225-226, 231-233 Ariosto Egidio, 198 Aristarco Guido, 36, 56-57, 66, 68, 92, 97-98, 101-103, 106-107, 135, 142, 152-153, 155-156, 194, 248 Audace colpo dei soliti ignoti, 232 Auster Paul, 2 Avanti a lui tremava tutta Roma, 35 L’avventura, 131, 175 Bacchelli Riccardo, 89 Badoglio Pietro, 220, 241 Balducci Franco, 256 Balsam Martin, 221 Bandi Giuseppe, 132 Bandini Baccio, 175 Banti Alberto Mario, 133, 136 Barabba, 127 Baratti Bruno, 216 Barbaro Umberto, 27-29, 41-42, 44-45, 49, 57 Barbato Raffaele, 235-236 Barberis Alberto, 14 Barenghi Mario, 101 Bargellini Piero, 17, 198 Barni Gino, 227, 233, 236 Barolini Antonio, 122 Bartoli Domenico, 198 Bartolini Elio, 216, 273 Bassani Giorgio, 102, 183, 185, 187, 192-193, 198 Bellonci Goffredo, 198
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Ben Hur, 117 Bencivenni Alessandro, 105, 109, 112 Benetti Adriana, 34 Ben-Ghiat Ruth, 23 Benso Camillo, conte di Cavour, 134135 Bentivegna Rosario, 215 Berellini Bruno, 58 Berger Rudi, 57 Bernari Carlo, 233, 235, 239 Berthold Martin, 243 Berto Giuseppe, 70 Bertolucci Bernardo, 5 Bertoni Giovanni, 166-167 Bethell Nicholas, 73 Bevilacqua Alberto, 198 Biagi Enzo, 16, 95, 117, 124 Bianchi Pietro, 81-82, 106, 109, 198 Bianchi Regina [Regina D’Antigny], 228, 235, 237 Bianciardi Luciano, 119 Biancoli Oreste, 46, 53, 70 Bigiaretti Libero, 99 Bigongiari Piero, 197 Bilenchi Romano, 197 Bixio Nino, 128 Blain Gérard, 200 Blandi Alberto, 214, 278-279 Blasetti Alessandro, 42-43, 45, 68, 127, 134 Blier Bernard, 139, 203 Boito Camillo, 102, 104 Bolchi Sandro, 95 Bolognini Mauro, 120, 127 Bontempelli Massimo, 57 Borgese Leonardo, 198 Borgnine Ernest [Ermes Effron Borgnino], 139 Bory Jean-Marc, 216 Bosé Lucia [Lucia Borloni], 78 Bosetti Giulio, 269 Botta Leonardo, 77 Bowles Paul, 102 Bragaglia Cristina, 17 Brazzi Rossano, 94 Bravo Anna, 24 Il brigante di Tacca del Lupo, 89, 91-92, 112-114, 155
Il brigante Musolino, 88, 138 I briganti italiani, 127, 139-140, 142, 154-155 Brignone Lilla [Adelaide], 198 Brosio Gino, 102 Bruckner Anton, 104, 110 Brunelli Vittorio, 243 Brunetta Gian Piero, 9, 30, 36, 43, 49, 54 Bruni David, 24 Bruno Nando, 22 Brusati Franco, 88 Brutti, sporchi e cattivi, 201 Busacca Giovanni, 166 Buttafava Vittorio, 198 Buzzati Dino, 185, 198 C’eravamo tanto amati, 5 Caccia tragica, 36 Calamai Clara, 50 Calamandrei Piero, 75 Caleffi Camillo, 102 Callegari Gian Paolo, 94 Calvino Italo, 2, 101 Camerini Mario, 49-52, 88, 127, 138139, 167 Camicie rosse, 95, 112-113 Il cammino della speranza, 92 Campari Roberto, 30 Cannavale Enzo, 235 Canova Gianni, 9 Caprioli Vittorio, 169, 198 Capuozzo Gennaro, 235 Caracciolo Filippo, 76 Caracciolo Nicola, 76 Caradonna Giulio, 241 Carancini Gaetano, 83, 134, 150, 163 Cardillo Massimo, 105 Cardinale Claudia [Claude Joséphine Rose Cardinale], 145 Carli Guido, 121 Carmi Vera [Virginia Doglioli], 34 Carol Martine [Marie-Louise-Jeanne Mourer], 138 Carraro Tino [Agostino], 198, 263 Il carro armato dell’8 settembre, 216, 219 Caruso Pietro, 212 Casagrande Antonio, 235, 238
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Casetti Francesco, 32 Casiraghi Ugo, 57, 65, 80-83, 108, 165, 167, 185 Castellani Renato, 106 Castello Giulio Cesare, 57, 97, 112 Castelnuovo Nino [Francesco], 205, 222, 227 Cataldo Gaspare, 34-35 Cavalcata d’eroi, 86-87, 96, 112 Cavallaro Giambattista [g.b.c.], 104 Cavallo Pietro, 9, 29, 46, 86, 183, 244 Cecchi d’Amico Suso [Giovanna], 75, 95, 102, 104-105, 141, 143, 171 Cederna Camilla, 198 Cegani Elisa, 43 Celano Guido, 71 Cento anni d’amore, 112 Cereja Federico, 36 Ceretto Alberto [Al. Cer.], 118, 126, 175 Cerusico Enzo, 255 Cervi Gino, 55, 186, 212, 214 Cervi Mario, 142 Charrier Jacques, 249 Checchi Andrea, 50, 58, 60, 193, 212, 214 Cherubini Bixio, 74 Chiaretti Tommaso [T.Ch], 63, 70, 113, 128, 130, 195, 259, 260 Chiari Mario, 43 Chiarini Luigi, 125 Chiesa Guido, 7 Chiti Roberto, 9, 95 Cicciarelli Tullio, 57, 103 Cigognetti Luisa, 20 Cigoli Emilio, 136 Cincotti Guido, 246 La Ciociara, 117, 183 Cirri Paolo, 97, 100 Citati Pietro, 2 Ciuffa Vittorio, 200 Colarizi Simona, 9 Colli Mario, 250 Colombini Chiara, 158-159 Comencini Luigi, 117, 160, 216, 219, 224-226, 229 Conato Giuseppe, 241 Concina Carlo, 74 Consiglio Alberto, 20
Conte Giuliano, 53 Cooke Philip, 158-159 La corona di ferro, 43 Cortellazzo Sara, 237 Cortese Leonardo, 54 Cortese Valentina, 127 Corvisieri Silverio, 200 Costa Mario, 86 Cosulich Callisto, 29, 57 Cottafavi Vittorio, 53 Crespi Alberto, 219, 225-226 Cristaldi Franco, 97, 125, 163-164 Cucciolla Riccardo, 249 D’Acquisto Salvo, 53 D’Agostini Lorenzo, 200 D’Alba Auro, 229, 253 d’Amico Caterina, 146 D’Angelo Carlo, 210, 214, 253 Dagnino Giuseppe Virgilio, 58, 60 Danova Cesare, 86 De Begnac Yvon, 97 De Benedetti Aldo, 46, 89 De Bosio Gianfranco, 263-264, 268-269 De Chiara Ghigo [Gaetano], 139 De Chirico Giorgio, 198 De Concini Ennio, 88, 117, 183, 249 De Filippo Eduardo, 15-16, 46, 222 De Filippo Luigi, 235 De Filippo Peppino, 199 De Gasperi Alcide, 53 De Giusti Luciano, 146 De Laurentiis Dino, 196 De Luna Giovanni, 9, 80 De Marchis Marcella, 138 De Negri Giuliani [Gaetano], 58, 60 De Pirro Nicola, 38, 76, 192, 199 De Rita Giuseppe, 119 De Sanctis Francesco, 106 De Santi Gualtiero, 17-18, 161 De Santis Giuseppe, 36, 40, 57 De Sica Christian, 17-18 De Sica Vittorio, 17-18, 117, 125, 127, 162, 167, 169, 180, 183, 198 De Teffé Antonio, 77 De Vincenti Giorgio, 127, 146 Debenedetti Giacomo, 198 Del Fra Lino, 5
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Del Poggio Carla [Maria Luigia Attanasio], 60, 86 I delfini, 85, 184 Dell’Acqua Giampiero, 104 Delon Alain, 144 Denis Maria [María Ester Beomonte], 55 di Chio Federico, 32 Di Paola Gennaro, 243 Diamant Dora, 2, 8 Diana Mariolina, 237 Di Giammatteo Fernaldo, 34, 142 Dieci italiani per un tedesco, 209, 214- 215 Disnan Ferruccio, 271 Divorzio all’italiana, 117, 127 La dolce vita, 117, 175, 279 Dolcetti Flavio, 195 I dolci inganni, 120 Donne e briganti, 88 Driussi Giuseppe, 70 Druscovich Elettra, 18 Due lettere anonime, 46, 49, 51-52 I due marescialli, 127, 183 Dumas Alexandre, 135 Duse Vittorio, 37, 65 L’eclisse, 131 Elia Annibale, 9 Era notte a Roma, 129, 174-176, 178180, 186, 195 Eran trecento… La spigolatrice di Sapri, 94 Ergas Moris, 137, 163, 198 Ermini Giuseppe, 80 Errigo Rosario, 76 Estate violenta, 171, 195 Esterina, 163 Eugenia Grandet, 28 Fabbri Diego, 17, 43, 125, 133, 136, 139, 161, 174 Fabrizi Aldo, 22, 26, 112 Fachinelli Elvio, 106 Falcetto Bruno, 101 Faldini Franca, 36, 45, 77, 80, 95, 105106, 110, 138, 160-162, 172, 194195, 226, 234, 236, 244, 250, 263, 270, 277 Fanfani Amintore, 6 Fantoni Sergio, 177, 212, 214, 252
Fantuzzi Gabriele, 263 Farassino Alberto, 18, 27 Farina Michele, 117 Fasolo Furio, 137 Fattori Giorgio, 198 Fattori Giovanni, 109 Il federale, 127, 183 Feist Harry, 23 Feliciani Mario, 220 Fellini Federico, 2, 20-21, 84, 89, 117, 125, 175, 198 Fenoglio Beppe, 7 Ferrara Patrizia, 39 Ferrari Paolo, 138 Ferrero Adelio, 174, 208, 247, 278 Ferrero Anna Maria [Anna Maria Guerra], 201 Ferzetti Gabriele [Pasquale], 186, 217 Festa Campanile Pasquale, 124, 141, 198, 233-235 La fiamma che non si spegne, 53, 56-57 Fiammetta Renzo, 97, 100 Fink Guido, 133, 136, 216 Fiore-Vernazza Rinaldo, 54 Fiorelli Giuseppe, 48-49 Flaiano Ennio, 17, 26 Fleischer Richard, 127 Foà Arnoldo, 44, 198 Focardi Filippo, 53 Fofi Goffredo, 22, 33-34, 36, 45, 77, 80, 95, 105-106, 110, 138, 160-162, 172, 194-195, 226, 234, 236, 244, 250, 263, 270, 277 Folchi Alberto, 120 Fondato Marcello, 216 Ford John, 89 Forges Davanzati Claudio, 102 Formato Domenico, 235 Forti Roberto, 200 Fortini Franco, 13 Fra’ Diavolo, 88 Franchi Franco [Francesco Benenato], 125 Franci Adolfo, 17 Franciosa Massimo, 124, 141, 198, 233235 Frank Nino, 95 French Leslie, 145
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Frescani Elio, 9 Frezza Gino, 9 Fusco Maria Pia, 7 Gaioni Cristina, 212 Gaipa Corrado, 221 Galdieri Michele, 14-15 Galli della Loggia Ernesto, 3-4, 24 Gallo Mario, 150 Gallone Carmine, 35-36, 136 Gambetti Giacomo, 186-187, 192, 273274 Garibaldi Anita [Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva], 87, 95-96 Garibaldi Giuseppe, 94-96, 125-129, 131, 134-135, 141, 148 Un garibaldino in convento, 86 Garinei Pietro, 125 Garrani Ivo, 148, 201, 211, 214 Gassman Vittorio, 127, 139, 166, 223 Il Gattopardo, 112, 141-142, 150-156, 248 Gaudiosi Massimiliano, 237 Gava Antonio, 240 Gemelli Bruno, 200 Il generale Della Rovere, 129, 160-161, 163-164, 166, 175-176, 179-181, 183, 195, 205, 210, 212-213, 245 Genta Gabriella, 82 Gentilomo Giacomo, 34 Germi Pietro, 89, 91-92, 113, 117, 127 Gervasoni Marco, 9 Ghelli Nino, 82, 97, 208 Gherardi Gherardo, 35 Ghigi Giuseppe, 263 Ghigne Piero, 86 Ghisellini Igino, 187 Giacci Vittorio, 58 Giachetti Fosco, 46 Giacovelli Enrico, 93 Giannarelli Ansano, 20 Giannetti Alfredo, 117, 226 Giannice Maria Gabriella, 141 Giannini Ettore, 141 Giarabub, 46, 95 Gili Jean A., 223 Ginsborg Paul, 133, 136 La giornata balorda, 120, 196
Giorni di gloria, 36 Un giorno da leoni, 160, 226-227, 232233 Un giorno nella vita, 43-44, 46 Il giorno più lungo, 142 Giovagnoli Lamberto, 86 Giovannini Giovanni, 124 Giovannini Sandro, 125 Girotti Massimo, 18, 43, 60, 89, 104 Girotti Mario, 147 Il giudizio universale, 127 Giuffré Aldo, 220, 235, 238 Giulietta e Romeo, 106 Glenn Leo John, 176 Gobbi Tito, 34 Il Gobbo, 120, 183, 195-197, 200, 204, 206, 208, 228, 268 Gobetti Paolo, 57, 63, 64 Gobetti Piero, 160 Gora Claudio, 220 Gorgerino Giuseppe, 36 Gotta Salvator, 70 Gramsci Antonio, 112, 160 La Grande Guerra, 163-164, 166, 183, 216, 223 Grandjacquet Francesco, 25 Granger Farley, 104 Grassi Giovanna, 17 Grasso Giovanni, 19 Gravina Carla, 222, 227 Graziosi Franco, 263 Grazzini Giovanni, 151, 245-246, 262, 270, 278 Greco Cosetta, 90 Greuze Jean-Baptiste, 147 Gromo Mario [m. g.], 26, 29, 36, 50, 54, 67-68, 80, 103, 109, 163 Gronchi Giovanni, 122-123 Gruault Jean, 136 Guazzaloca Giulia, 8 Guerra Tonino, 216 Guttuso Renato, 159 Hayes Victor Alfred, 21 Hayez Francesco, 109 Hecht-Lucari Gianni, 125 Helfer Renzo, 192, 198, 219 Hitler Adolf, 241, 251, 256
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Iaccio Pasquale, 9, 21, 34-35, 64, 157, 205 Ingrao Pietro, 42-43 Ingrassia Ciccio [Francesco], 125 Interlenghi Franco, 132 Io amo… tu ami, 127 Isnenghi Mario, 133 Isola Sandro [Oscar Navarro], 100 Jacchia Paolo, 57 Jacovone Sandro, 258 James Jesse, 208 Jodice Giuseppe, 235 Jurado Katy [Maria Cristina Estela Marcela Jurado Garcìa], 139 Kafka Franz, 2-3 Kappler Herbert, 51, 210-213 Kapò, 183 Kazan Elia [Elias Kazanciog˘lu], 106 Kennedy John Fitzgerald, 122 Kesselring Albert, 210, 251 Kezich Tullio, 57, 270 Koch Hans-Gerd, 2 Koscina Sylva, 198 Kurosawa Akira, 106 Ladri di biciclette, 58-59, 71, 211 Lanaro Silvio, 14, 117 Lancaster Burt [Burton Stephen], 143, 145, 152 Lancia Enrico, 126, 137 Lane John Francis, 106 Lanocita Arturo [lan.], 28-29, 31, 36, 41, 49, 56-57, 65, 68, 73, 81-82, 89, 92-93, 109, 127, 138-139, 165-167, 174, 185, 201, 206, 224, 231, 258 Lattuada Alberto, 57, 120 Laura Ernesto, 163 Ledda Romano, 120 Lee Belinda, 186 Leone Giovanni, 6, 240 Leonviola Antonio, 88 Lepre Aurelio, 53, 121, 215 Letto a tre piazze, 183, 199 Levi Ornella, 109, 127 Levi Cavaglione Pino, 226 Lestringuer Piero, 88
Lisi Umberto, 107, 153 Litta Modignani Giulio, 134 Liverani Maurizio, 83, 126, 129-130, 151 Lizzani Carlo, 36, 40, 57-65, 68, 70, 120, 163, 195-196, 198-202, 204-208 Lollobrigida Gina, 65 Lombardo Goffredo, 124, 141-142, 152, 163-164, 186, 233-234 Lonero Emilio, 184 Loren Sophia [Sofia Villani Scicolone], 117 La lotta per la sopravvivenza dell’uomo, 21 Lotti Mariella, 44 Loy Nanni, 34, 95, 124, 158, 160, 226, 229, 231-237, 240-248 Lughi Paolo, 27 Lulli Folco, 53 La lunga notte del ’43, 175, 183-184, 191, 195, 205, 228, 273-274 Lupi Roldano, 18 Lupo Alberto [Alberto Zoboli], 249 Luzi Mario, 197 Maccari Ruggero, 201, 273 Macorini Edgardo, 56-57 Mafioso, 142 Maggio Dante, 43 Maggio Pupella [Giustina Maria], 235 Maggiorani Lamberto, 58 I magliari, 164 Magnani Anna, 22, 26, 35, 95-96 Magni Luigi, 156 Majano Anton Giulio, 43, 46, 86 Malagodi Giovanni, 198 Mameli Goffredo, 88 Manara Luciano, 88 Mangano Silvana, 127 Mangini Cecilia, 5 Mangione Giuseppe, 94 Manzari Nicola, 88 Manzi Alberto, 118 Marconi Guglielmo, 80 Marotta Giuseppe, 240 Marrosu Arnaldo, 94 Martelli Sebastiano, 249 Martini Stelio, 94 Martino Luciano, 249
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Martone Mario, 156 Marzullo Kino, 66 Maselli Francesco, 75-76, 80-82, 84-85, 160 Masi Stefano, 126, 137 Masina Angelo, 88 Masina Giulietta, 198 Massari Lea [Anna Maria Massatani], 235, 238 Massini Stefano, 2 Mastroianni Marcello, 71 Matarazzo Raffaello, 89 Matteotti Giacomo, 160 Mattera Paolo, 9 Mattoli Mario, 46 Maupassant Guy de, 40 Mazzini Giuseppe, 128, 132-133, 135 Meccia Gianni, 191 Medioli Enrico, 141 Melloni Alberto, 18 Melloni Mario, 129-130 Mengozzi Dino, 133 Mercader Maria, 18 Merlini Marisa, 198 Merolla Marilisa, 125, 133 Messemer Hannes, 162 Micciché Lino, 5, 270-271 Michi Maria, 23 Mida Massimo, 5-6, 36, 38, 58 Milian Tomas [Tomás Quintín Rodríguez], 227 Mille lire al mese, 119 1860, 86, 134 Milo Sandra [Salvatrice Elena Greco], 137-138, 198 Minzoni Giovanni, 160 Miranda Isa [Ines Isabella Sampietro], 77 Misasi Nicola, 89 Mocky Jean-Pierre [Paul Adam Mokiejewski], 77, 82 Modena città dell’Emilia rossa, 57 Modugno Domenico, 125 Monaco Eitel, 54 Monelli Paolo, 124 Monicelli Mario, 88, 163-165, 224 Montaldo Giuliano, 58, 127, 160, 249, 259
Montale Eugenio, 138, 198 Montanelli Indro, 27, 161, 196-197 Montecassino, 28 Monti Mario, 139 Montini Giovanni Battista [Paolo VI], 198 Moravia Alberto, 49-50, 197 Morlacchi Lucilla, 147 Mosca Giovanni, 164-166, 175, 179, 185-186, 198 Moschin Gastone, 275 I mostri, 121, 273 Müller Paul, 89 Musolino Vincenzo, 90 Musso Carlo, 17, 49 Mussolini Benito, 119, 171-172, 187, 229, 251-252, 255, 256-257 Musu Marisa, 200 Muzii Enzo (e.m.), 129, 132, 165, 174175, 199, 208, 224-225 Napolitano Giorgio, 243 Nascimbene Aldo, 57 Navarra Viggiani Franco, 53-54 Navarro Oscar, 97, 100 Nazzari Amedeo, 44, 46, 89 Nebiolo Gino, 124 Negarville Carlo Celeste, 21 Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, 57 Nelli Piero, 97-99 Nenni Pietro, 123 Nervi Pier Luigi, 124 Ninchi Carlo, 19, 34, 46, 50 Nizza Angelo, 124, 163-164 Nobili Maurizio, 9 Noi credevamo, 156 Noi vivi-Addio Kira, 46, 95 La notte, 127, 131 Le notti di Cabiria, 117 Novarese Vittorio Nino, 49, 88 Novecento, 5 Nutrizio Nino, 198 Nuvoli Giuliana, 104 O sole mio, 33-34, 37, 46 Ojetti Paola, 70 Ojetti Pasquale, 81-82 Olivetti Paola, 63, 184
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Olivieri Ugo Maria, 237 Olmi Ermanno, 270 Oltre l’amore, 136 Ombre bianche, 175 Omodeo Adolfo, 133 On the Waterfront [Fronte del porto], 106 Onofri Fabrizio, 249 Orecchio Alfredo, 57 L’oro di Roma, 183 Orsini Umberto, 198 Orsini Valentino, 7 Orvieto Antonio, 197, 199 Ossessione, 102 8 e ½, 117 Oudinot Nicolas Charles Victor, 87 Padovani Lea, 37, 198 Pagliero Marcello, 21-22 Pagnani Andreina [Andreina Gentili], 138 Paisà, 20-22, 28-30, 33, 101, 169-170, 176, 178-179, 181, 204, 246 Paladini Aldo, 98-99 Palermo Mario, 241 Pallavicino [o Pallavicini] Emilio, 148149, 156 Palmieri Fulvio, 86 Palmieri Mariangela, 9, 58 Pan Cosmatos George, 215 Pandolfi Vito, 57 Pane, amore e fantasia, 225 Panelli Paolo, 125 Pani Corrado, 227 Panicali Giulio, 23 Papini Maria Carla, 158 Paracchini Gian Luigi, 17 Parise Goffredo, 198, 216 Parrella Giovanni, 200 Il partigiano Johnny, 7 Parvo Elli [Elvira Gobbo], 37 Pasolini Pier Paolo, 119, 127, 183, 194, 201-202, 216 Il passaggio del Reno, 196 Passarelli Eduardo [Eduardo De Filippo], 22, 235 La pattuglia sperduta, 97-101, 112, 114 Pecorari Mario, 9 Pedrini Tiberio, 187 Peli Santo, 159, 260
Pellegrini Glauco [gl. p.], 29, 40-41 Pellegrino Francesco, 229, 253 Pellizzari Lorenzo, 34, 179 Pelloni [Carrà] Raffaella, 188 Penna Leo, 106 Penne nere, 70-71, 74 Perilli Ivo, 49, 88, 139 Pertini Sandro, 159 Pestelli Leo [l.p], 60, 81, 91-92, 127, 137140, 152, 175, 179, 184, 206, 231232, 244, 257-258, 261-262, 278 Petri Elio [Eraclio], 195, 216, 273 Petricelli Assunta, 64-66, 205 Petrilli Vittoriano, 195 Petrucci Antonio, 125, 133 Petti Vincenzo, 209 Peyron Amedeo, 159 Pezza Michele [Fra’ Diavolo], 88 Pian delle stelle, 28 Piazzesi Gianfranco, 152 Piccioni Leone, 198 Un piccolo esercito nelle Langhe, 53 Piccolo mondo antico, 86 Pieri Piero, 101 Pietrangeli Antonio, 49-50, 52, 124 Pighin Otello, 263 Pillon Cesare, 243 Pinelli Tullio, 89 Pinto Carmine, 9 Pintor Giaime, 8 Piovene Guido, 124 Pirro Ugo [Ugo Mattone], 58, 195 Pisacane Carlo, 94 Pizzi Nilla [Adionilla], 74 Platania Margherita, 9 Polito Ennio, 200 Pontecorvo Gillo, 40 Ponti Giovanni, 56, 76 Ponzani Michela, 27, 215 Ponzi Maurizio, 136 Poppi Roberto, 9, 95 Porro Maurizio, 18 Portelli Alessandro, 210 Posani Dante, 212 Possenti Eligio, 198 Pozza Neri, 266 Pratolini Vasco, 21, 75, 158, 233, 235, 238 La presa del potere, 21
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Presley Elvis Aaron, 120 Proclemer Anna, 198 Prosperi Giorgio, 102, 171 Puccini Gianni, 102, 216 Quaglia Massimo, 237 Quaglio José [Giuseppe Ferdinando], 263 Quarenghi Giusi, 7 Quasimodo Salvatore, 117 Le quattro giornate di Napoli, 6, 34, 124, 158, 233, 237, 242 Quelli della montagna, 46 Questi Giulio, 216 Quinn Anthony [Antonio Rodolfo Quinn-Oaxaca], 127, 175 Rabal Francisco, 249 Ralli Giovanna, 162, 176 Ramorino Gerolamo, 100 Rand Ayn [Alice Rosenbaum], 46 Rappresaglia, 215 Ratti Filippo Walter, 209-210, 214-215 Ravveduto Marcello, 9 Ray Nicholas [Raymond Nicholas Kienzle], 175, 208 Recchioni Massimo, 200 Recupito Claudio, 97, 100 Reggiani Serge [Sergio], 143, 220 Renzi Renzo, 57, 86-87, 95, 177, 180 Ruesch Hans, 175 Riall Lucy, 133 Ribulsi Enrico, 17, 58 Ricci Paolo, 16 Ricci Renzo, 135 Ricciuti Vittorio, 238 Ridolfi Maurizio, 9 Rimanelli Giose, 249 Risi Dino, 5, 121, 127, 160, 273 Rissone Checco, 38, 275 Rocca Maria Laura [Maria Laura Gayno], 68, 203 Rocco e i suoi fratelli, 117, 120, 155-156, 184, 196 Roma città aperta, 6, 20, 22, 30, 32, 3738, 40, 45, 48, 51, 59, 83, 165, 167, 169, 170, 176, 178-179, 181, 212, 215
Romano Carlo, 46, 139 Rombi Roberto, 17 Roncalli Marco, 18 Roncoroni Stefano, 21 Rondi Brunello, 174 Rondi Gian Luigi [G. L. R.], 29, 92, 103, 128, 132, 149-150 Rondolino Gianni, 5, 7, 109-110, 127 Rosi Francesco, 95, 102, 164, 214 Rossellini Roberto, 20-22, 26-30, 33, 51, 57, 94, 125-127, 130-133, 135138, 157, 160, 163-165, 167-170, 174-175, 180-181, 195, 205, 210, 245-246, 248 Rossi Vittorio G. [Giovanni], 198 Rossi Drago Eleonora [Palmina Omiccioli], 171, 174, 254 Rovere Carla, 23 Rovi Vincenzo [Vincenzo Campanile], 34 Rovinello Mario, 237 Rusconi Edilio, 198 Ruso Giovanni, 198 Rustichelli Carlo, 237 Saba Abele, 63 Sacchi Filippo, 142 Sala Alberico [a.s.], 127, 138, 219, 231, 257, 262-263, 270, 279 Salce Luciano, 120, 127, 198 Salerno Enrico Maria, 171, 178, 186, 273 Salvatore Giuliano, 214 Salvatori Renato [Giuseppe], 176, 227 Sanipoli Vittorio, 88 Sanpietro Nando, 198 Sansone Luigi Renato, 241 Santomassimo Gianpasquale, 158 Saragat Giuseppe, 198 Sassard Jacqueline, 171, 273 Sasso Ugo, 87 Sassoli Dina, 51 Savioli Aggeo, 75, 150-151, 244-245, 262, 277 Gli sbandati, 75-77, 84, 171 Scagnetti Aldo, 82-84, 108 Scala Delia [Odette Bedogni], 125 Scalfari Eugenio, 121
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Scalfaro Oscar Luigi, 76 Scarpelli [Furio], 216, 226, 273 Scelba Mario, 57, 75-76 Schiaffino Rosanna, 139 Schroeder Gerhard, 241 Scigluna Sorge Annibale, 38, 76 Scola Ettore, 5, 201, 273 Segrè Emilio, 117 Seknadje-Askénazi Enrique, 24, 31 Senso, 98, 102, 109, 112-113, 149, 152153, 155, 194 Sequi Mario, 34 Serandrei Mario, 95 Serato Massimo, 38 Servetti Lorenza, 20 I sette samurai, 106 Settimelli Leoncarlo, 236, 241, 244 Sierra i Fabra Jordi, 2 Il signor Max, 52, 167 Signori si nasce, 183 Signorini Telemaco, 109 Silvi Lilia [Silvana Musitelli], 187 Sinimberghi Gino, 35 Siri Guseppe, 179 Socrate Mario, 58, 195 Sodoma e Gomorra, 152 Soldati Mario, 88 Il sole sorge ancora, 28, 36, 38-42, 59, 61, 222 Solinas Franco, 136 I soliti ignoti, 232 Sonego Rodolfo, 58, 216 Sorel Jean [Jean de Combault-Roquebrune], 235 Sordi Alberto, 220, 223-224 Sorlin Pierre, 2, 9, 20, 22, 24, 114 Sormani Giuseppe, 263 Il sorpasso, 142 Soverina Francesco, 239-240 Spaak Catherine, 120 Speranza Paolo, 237, 242 Spila Piero, 146 Spinazzola Vittorio, 108 Sportelli Franco, 235, 240 Squarzina Luigi, 263-264 Le stagioni del nostro amore, 273, 277 Stajola Enzo, 71 Stendhal [Marie-Henri Beyle], 136
Steno [Stefano Vanzina], 46, 88 Stoppa Paolo, 145, 178 Strategia del ragno, 5 Stromboli, 94 Sturzo Luigi, 75 Sullo Fiorentino, 6, 121 Susmel Duilio ed Edoardo, 119 Taffarel Giuseppe, 66 Talarico Vincenzo, 88, 198 Tambroni Fernando, 6, 120, 124, 180, 199 Taranto Carlo, 235 Tassani Riccardo, 37 Tebaldi Renata, 35 Il Tenente Giorgio, 89 Terracini Umberto, 61, 203 Il terrorista, 261, 263, 269-270 Terzi Corrado, 57 Terzieff Laurent, 138 Testori Giovanni, 120 Thomson Dorothy, 28 Tiro al piccione, 127, 249, 258 Titta Rosa Giovanni, 197 Todisco Alfredo, 143, 151-152, 242 Toffetti Sergio, 76-77, 82 Togliatti Palmiro, 123, 130-131, 146 Tognazzi Ugo, 120-121, 183 Tomasi di Lampedusa Giuseppe, 141143, 150-151, 154 Tolnay Akos, 34 Tonizzi Elisabetta, 7 Tordi Pietro, 68 Tosi Piero, 102 Toso Otello, 50 Totò [Antonio De Curtis], 127, 183, 199 Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, 183 Totòtruffa 62, 127 Tozzi Fausto, 89 Trasatti Luciano, 128 Trieste Leopoldo, 94, 227 Trintignant Jean Louis, 171 Trombadori Antonello, 125, 134, 136, 143, 145-146, 155 Tupini Umberto, 199 Turco Enzo, 235, 239 Tutti a casa, 117, 160, 183, 216, 219, 223, 229
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Umberto II di Savoia, 200 Gli uomini, che mascalzoni…, 50 Uomini e no, 7 Urzì Saro [Rosario], 89 Uva Christian, 9 Valente Nicola, 48-49 Valli Alida [Alida Maria Altenburger von Marckenstein und Frauenberg], 46, 104 Valli Bernardo, 161 Valli Romolo, 144, 218-219, 227 Vallone Raf, 96 Valmarana Paolo [P.V], 82, 127-128, 150, 179-180, 185, 224, 232, 245, 258-261 Vancini Florestano, 183-184, 186-187, 192, 194-195, 205, 208, 273-274, 277-279 Vanina Vanini, 127, 136-137, 154, 178 Vasile Turi, 49 Vento Giovanni, 5-6 Verdi Giuseppe, 104 Verdone Mario, 33, 163, 206 Vergani Orio, 46 Vergano Aldo, 36, 62, 95 La viaccia, 127 Viani Franco, 208 Viazzi Glauco, 50 Villa Roberto [Giulio Sabetta], 187 Vincenzoni Luciano, 139, 195 I vinti, 84 Violette nei capelli, 187 Viridiana, 142 Visca Benito, 242-243 Visconti Edoardo, 76
Visconti Luchino, 98, 102-104, 106-107, 109-112, 114, 117, 120, 125, 141143, 145-146, 150-156 Visconti Prando [Eriprando], 75-76 Una vita difficile, 5, 127, 160, 183 La vita ricomincia, 46 Vitale Milly, 89 I vitelloni, 84 Vitti Carlo Antonio, 36-37, 40 Vittorini Elio, 7, 198 Vittorini Giusto, 50 Vittorio Emanuele II di Savoia, 128, 134 Viva l’Italia, 125-135, 142, 154, 155, 248 Vlady Marina [Marina Catherine Poljakova], 71 La voglia matta, 120 Vollaro Saverio, 95 Volonté Gian Maria, 235, 238. 263, 274 Wagstaff Christopher, 20 West Side Story, 142 Williams Tennessee [Thomas Lanier Williams], 102 Wilson George, 235 Wolff Frank, 235, 238 Zagarrio Vito, 9, 202 Zambrelli Mario, 254 Zampa Luigi, 85, 88, 198 Zareschi Elena [Elina Lazzareschi], 77 Zavattini Cesare, 17, 43 Zeffirelli Franco, 102 Zocaro Ettore, 199 Zurlini Valerio, 124, 171-172, 174, 195, 208
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Collana di Storia contemporanea diretta da Pietro Cavallo
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P. Cavallo, La storia attraverso i media. Immagini, propaganda e cultura in Italia dal Fascismo alla Repubblica P. Cavallo, P. Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà (1935-1943) M. Ravveduto, Napoli... serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici P. Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962) G. Panico, L’artista e la sciantosa. Il delitto Cifariello, un dramma della gelosia nella Napoli della Belle Époque E. Frescani, Il cane a sei zampe sullo schermo. La produzione cinematografica dell’Eni di Enrico Mattei P. Iaccio, L’intellettuale intransigente. Il fascismo e Roberto Bracco P. Cavallo, Tre atti. Teatro italiano tra fascismo e guerra Penso che un sogno così non ritorni mai più, P. Cavallo, P. Iaccio (a cura di) P. Cavallo, La Storia sul grande schermo. Risorgimento e Resistenza nel cinema italiano tra Ricostruzione e miracolo economico (1945-1965)
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ra il secondo dopoguerra e il miracolo economico il cinema era in Italia (come negli altri paesi occidentali) agente di storia, riusciva a modificare, come scriveva Giaime Pintor, «la storia e la geografia dei nostri cervelli», a influenzare cioè il modo di vedere e percepire il mondo e di conseguenza anche il passato. Un film storico inoltre racconta avvenimenti più o meno lontani e, contemporaneamente, ci parla del tempo in cui viene girato, risentendo del clima culturale e politico. Muovendosi all’interno di questa fitta ragnatela di interrelazioni tra spettatore, film e realtà circostante, il volume affronta il modo con cui il cinema di quegli anni costituì per gli italiani un fattore fondamentale per la ricostruzione “emozionale” del loro passato, in particolare dei due momenti fondativi della nostra nazione, il Risorgimento e la Resistenza.
COLLANA DI STORIA CONTEMPORANEA 10
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ietro Cavallo insegna Storia Contemporanea e Storia Contemporanea e Media Audiovisivi nell’Università di Salerno. È responsabile scientifico del Laboratorio Interdipartimentale di Storia e Media Audiovisivi. Tra i suoi ultimi lavori editi per i nostri tipi, Viva l’Italia. Storia cinema e identità nazionale, 2009; Cinema a passo romano. Trent’anni di fascismo sullo schermo (1934-1963), 2012 (con Luigi Goglia e Pasquale Iaccio); Tre atti. Teatro italiano tra fascismo e guerra, 2014; Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, 2016 (con Pasquale Iaccio). In copertina: fotogrammi tratti da Il brigante di Tacca del Lupo (Germi, 1951) e Le Quattro Giornate di Napoli (Loy, 1962).
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