La specificità dell'umano. Percorsi di antropologia filosofica 9788885716995, 9788855290135

L'antropologia filosofica contemporanea, corrente emergente nel panorama culturale del Novecento, si propone di get

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Italian Pages 367 [362] Year 2019

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Table of contents :
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Antropologia filosofica
Max Scheler e la «posizione dell’uomo nel cosmo»
Arnold Gehlen e l’uomo «progetto della natura»
Helmuth Plessner e l’“eccentricità” dell’uomo
Etica e antropologia in Max Scheler
L’uomo e la tecnica in Arnold Gehlen
Le modalità di organizzazione del vivente in Helmuth Plessner
Indice
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La specificità dell'umano. Percorsi di antropologia filosofica
 9788885716995, 9788855290135

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Maria Teresa Pansera

La specificità dell’umano Percorsi di antropologia filosofica

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 13 - Proposte

Maria Teresa Pansera

La specificità dell’umano Percorsi di antropologia filosofica

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 13 - aprile 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-99-5 ISBN – E-book: 978-88-5529-013-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: prehistoric hunter – cave painting reproduction © RuggedCoast – stock.adobe.com

A Matteo, Giulia ed Elena, il futuro

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Capitolo I Antropologia filosofica

1. L’antropologia filosofica contemporanea Nel complesso e variegato panorama filosofico del ’900, accanto alle grandi correnti del neokantismo, dello storicismo, della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del pragmatismo e del neopositivismo, trova spazio un orientamento di pensiero denominato “antropologia filosofica”, forse non altrettanto conosciuto e studiato, ma non meno ricco di fecondi stimoli e interessanti spunti di ricerca. Nell’ambito della più generale riflessione etico-antropologica, la disciplina si propone di gettare un ponte tra filosofia e scienza incardinandolo sul problema dell’uomo, al fine di presentarne un’immagine globale, la quale permetta all’essere umano di recuperare la comprensione di se stesso e di identificare i suoi tratti caratteristici, la sua natura e il suo posto nel mondo. Mentre in passato si tentava di dare una risposta al “problemauomo” traendola dal corpo generale di un sistema filosofico già strutturato, impostando così la questione antropologica alla luce dei problemi metafisici, ontologici, etici e gnoseologici, soltanto nei primi decenni del ’900 si è avvertita l’esigenza di dare una risposta diversa all’interrogazione radicale sull’uomo, tenendo conto sia del rapido sviluppo delle scienze, sia dell’esi­

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genza della filosofia di ribadire la propria competenza su un problema tanto specifico quanto essenziale. Di fronte alla “domanda sull’uomo”, che da sempre la filosofia si è posta, l’antropologia filosofica vuole difendere la sua funzione critica e metodologica nei confronti di tutte quelle scienze che trattano alcuni aspetti dell’essere umano e pretendono di occuparsene in esclusiva. Tenendo conto di una prospettiva biologica, tecnico-scientifica, politica, religiosa, economica, linguistica, socio-culturale, l’antropologia filosofica rilancia prepotentemente la centralità del rapporto tra individuo e ambiente, tra naturale e artificiale, tra innato e acquisito. Si presenta, pertanto come una dottrina ricca di tematiche trasversali e di grande attualità, volte ad affrontare le sfide della contemporaneità, dove i processi di omologazione e manipolazione dell’esistenza si scontrano con le esigenze di libertà, autonomia e rispetto dei diritti individuali.

2. L’uomo e le sue immagini nel corso della storia L’uomo ha da sempre creato immagini per conoscere, o meglio per conoscersi, nella consapevolezza di non essere mai dato a se stesso una volta per tutte, ma di doversi continuamente definire, spinto dalla necessità di agire, di realizzarsi, di completarsi attraverso il proprio operare. Riflettere sulle immagini dell’uomo che sono emerse nel pensiero filosofico occidentale è indispensabile per chiunque voglia descrivere le caratteristiche di una determinata epoca e gli elementi che la differenziano da tutte le altre. Inoltre, senza partire da un’analisi di ciò che l’uomo ha pensato di se stesso, non gli sarebbe possibile progettarsi e, così, incamminarsi verso il futuro. Nel mondo antico possiamo riscontrare un certo parallelismo tra la storia delle immagini artistiche dell’uomo e la storia della

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sua comprensione, della sua auto-immagine a livello filosofico. È facile intravedere, dietro la proporzione e l’equilibrio che caratterizzano la scultura greca, una filosofia di tipo platonico che riconduce ad un’idea soprasensibile ogni realtà ed esperienza terrena. La statua greca va ben oltre l’uomo concreto che vuol raffigurare, in quanto si riferisce ad un canone di proporzione, armonia ed equilibrio proprio dell’idea secondo la quale gli uomini sono stati modellati, dando così forma sensibile ad un universale. Quindi l’immagine dell’uomo che caratterizza un determinato periodo della storia del pensiero viene ad essere uno dei criteri determinanti per conoscerlo più a fondo e per distinguerlo dalle epoche che lo hanno preceduto e da quelle che lo seguiranno. In nessun’altra epoca, più che nelle nostra, le concezioni sul­ l’essenza e l’origine dell’uomo sono state così incerte, indefinite e molteplici nella loro polisemanticità. «Noi siamo la prima epoca – come sostiene Scheler – in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente “problematico” per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma nello stesso tempo sa anche che non lo sa»1. Ripercorrere, quindi, le “auto-immagini” che l’uomo ha dato di se stesso nel corso dei secoli potrebbe aiutare la moderna antropologia filosofica ad illuminare la situazione attuale. L’uomo, infatti, si è sempre soffermato a riflettere sulle sue caratteristiche fisiche e mentali, sui suoi rapporti con la natura, sul suo primo apparire nel mondo, sulle forze fisiche e psichiche che agiscono in lui, sulle linee direttive del suo sviluppo biologico, psicologico, sociale e spirituale. I filosofi, secondo le varie epoche e correnti, hanno dato diverse risposte a tali 1.  M. Scheler, Mensch und Geschichte (1926), in Id., Gesammelte Werke, vol. IX, Francke, Bern-München 1975, p. 121; tr. it. di R. Racinaro, Uomo e storia, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Guida, Napoli 1988, pp. 257-258.

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interrogativi, costruendo così numerose e differenti “immagini dell’uomo”. Queste possono essere ritenute come soluzioni al “problema-uomo” date all’interno di una determinata filosofia, cioè nell’ambito di una coerente e sistematica speculazione che coinvolge tutta la problematica del pensiero filosofico, nei vari settori della logica, gnoseologia, ontologia ed etica. Afferma, quindi, Coreth: L’uomo per lo più non diventa tema esplicito della filosofia e tanto meno il suo tema centrale. Fino ad epoca recente non c’era ancora un’antropologia come oggi viene richiesta. È vero però che il pensiero filosofico riflette fin dal tempo antico sul pensiero umano (logica) e l’agire morale (etica), come anche sul posto dell’uomo nella natura (fisica) e sul tutto o intero dell’essere (metafisica). In questo lavoro di riflessione emergono ripetutamente indizi ed intuizioni genuinamente antropologiche, che certo, da un punto di vista metodico e tematico, non pervengono affatto al pieno sviluppo, ma che, ciò nonostante, rivelano un’interpretazione e una valutazione dell’esistenza umana.2

Cercare di raccogliere, nei suoi punti salienti, una storia dell’autocoscienza che l’uomo ha di se stesso, è il compito che Max Scheler si propone per introdurre la sua antropologia filosofica. Si tratta di cinque rappresentazioni fondamentali circa l’essenza, la costruzione e l’origine dell’uomo, fornite dal pensiero occidentale nel corso della sua storia e che sono tuttora diffuse e dominanti nella nostra area culturale. La prima immagine, definita dell’homo religiosus3, trae origine dalle Sacre Scritture. Si ricollega all’eredità ebraico-cristiana imperniata sulla credenza in un mondo soprannaturale e su 2.  E. Coreth, Was ist der Mensch? Grundzüge einer philosophischen Anthropologie, Tyrolia Verlag, Innsbruck 1976; tr. it. di L. Buzzi, Antropologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1978, p. 20. 3. Cfr. M. Scheler, Uomo e storia, cit., pp. 262-263.

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conseguenti sentimenti di paura e di colpa ereditaria. Tratti da tale immagine sono la creazione dell’uomo ad opera di Dio, la sua provenienza da due primi progenitori che vivevano in un paradiso terrestre, la successiva caduta da questo stato di beatitudine ed infine la redenzione dell’umanità da parte del Dio fatto uomo. L’homo religiosus è caratterizzato da un profondo senso di angoscia, ansia e insoddisfazione, derivati dal mito della caduta e del peccato originario. Alla base della natura umana vi è, quindi, un’esperienza di rottura e di allontanamento, che grava ancor oggi su tutta l’umanità, alla ricerca di un bene posseduto e poi perduto, di una felicità provata e mai più sperimentata, di cui nutre un’inguaribile nostalgia, e su cui si fonda quell’atteggiamento di angoscia e di oppressione che costituisce specificamente la radice emozionale-pulsionale del mondo ebraico-cristiano. La seconda immagine dell’uomo deriva dalla cultura greca o, per meglio dire, da una delle scoperte più importanti e ricche di conseguenze nella storia dell’autovalutazione dell’uomo, che i greci hanno compiuto. Si tratta dell’idea dell’homo sapiens4, elaborata concettualmente e filosoficamente dai più importanti pensatori greci, come Anassagora, Platone e Aristotele. Questa concezione si fonda su una netta distinzione tra uomo e animale. Infatti non cerca di differenziare solo empiricamente l’uomo rispetto agli animali a lui più vicini, per esempio le scimmie antropoidi, constatando la presenza di elementi distintivi a livello morfologico, fisiologico e psicologico. Con un tale procedimento non riusciremmo mai a contrapporre l’uomo all’animale, bensì restringeremmo il nostro confronto al singolo oggetto preso in considerazione, lo scimpanzé, l’orango o altri antropoidi. Questo metodo, quindi, non potrebbe mai fornire il fondamento necessario per elaborare l’idea dell’uomo come un essere superiore e distinto da qualsiasi altro esistente in natura. 4. Cfr. ivi, pp. 263-268.

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Tale concezione dell’uomo, inteso come l’essere dominante su tutto il creato, deriva direttamente dall’idea di Dio e dalla sua somiglianza con la creatura prediletta. Al genere umano spetta un elemento specifico, a lui esclusivamente peculiare, assolutamente non riconducibile a quegli agenti elementari che spettano agli animali e alle piante: la ragione (logos, ratio). Il logos costituisce, dunque, il principium individuationis dell’essere umano, la sua facoltà precipua, assolutamente irriducibile e incompatibile con le altre che caratterizzano, invece, gli animali. La ragione umana è considerata come un’espressione parziale del Nous divino, che agisce attraverso la potenza delle idee e non cessa mai, come principio eterno organizzatore, di produrre questo mondo e l’ordine che lo regola. È possibile riassumere in quattro punti fondamentali ­questa concezione: 1) esiste, nell’uomo, una scintilla divina; 2) quest’ultima e la potenza che ordina il cosmo dal caos hanno la stessa origine; 3) tale scintilla può, senza bisogno dell’esperienza, mostrare il proprio potere spirituale (potenza dello spirito, autonomia dell’idea); 4) essa rimane costante attraverso il divenire storico. Su questi quattro punti concordano, nonostante tutte le loro differenze, pensatori come Aristotele, Tommaso ­d’Aquino, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant e Malebranche, fino a giungere, con la filosofia della storia di Hegel, all’ultima e più importante concezione filosofica nell’ambito dell’antropologia dell’homo sapiens. Tuttavia oggi non si può negare il fatto che questo grandioso sfondo religioso-metafisico non sia più così scontato e a questa immagine, che dal mondo greco si proietta, attraverso il pensiero di molti filosofi, fino all’età moderna, si affianca, a partire dalla rivoluzione scientifica, quella naturalistica dell’homo faber5: 5.  Cfr. ivi, pp. 268-275.

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l’uomo è inteso come l’animale più sviluppato, come l’artefice di strumenti altamente specializzati (si pensi al linguaggio), che usa una parte della sua energia animale in attività cerebrali. Secondo questa concezione, quindi, l’uomo non possiede una facoltà razionale che “essenzialmente” lo qualifichi, non si distingue dall’animale da un punto di vista “qualitativo”, ma si distacca da esso soltanto per una differenza di grado. Ciò che viene identificato come spirito o ragione non possiede un’origine metafisica, né un’autonomia propria che corrisponda alle leggi dell’essere, ma è soltanto uno sviluppo ulteriore delle capacità psichiche superiori, che incontriamo già presso gli antropoidi. L’umanità non sarebbe altro che una specie animale particolare, in cui vediamo all’opera gli stessi elementi, le stesse forze e le stesse leggi in atto in tutti gli altri esseri viventi, con la sola differenza di una più grande complessità nei risultati. L’immagine dell’homo faber è dunque quella di un uomo privo di un principio spirituale o razionale che abbia un’origine metafisica indipendente, di un qualcosa, cioè, che non obbedisca alle stesse leggi che regolano tutti i viventi: le sue attività e capacità peculiari, differenti da quelle degli animali, sono soltanto il risultato di uno sviluppo più pronunciato delle stesse attitudini psichiche presenti già nelle scimmie antropoidi. Questo vale, in particolare, per la sua “intelligenza tecnica” ossia per la sua capacità di adattarsi attivamente e senza inutili tentativi alle situazioni nuove e non tipiche, per mezzo di un’anticipazione delle strutture oggettive dell’ambiente. L’uomo soddisfa in tal modo, per questa via contorta e indiretta, le tendenze fondamentali della sua specie, peraltro comuni anche alle altre specie animali. Egli può essere definito, dunque, come: 1) l’animale che fa uso di simboli (ad es. il linguaggio); 2) l’animale che si serve di strumenti e utensili; 3) l’animale cerebrale, cioè un essere in cui per il cervello, in particolare per le funzioni della corteccia, viene usata una notevole quantità

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di energia in più rispetto all’animale. Anche i segni, le parole, i concetti non sono altro che strumenti psichici particolarmente raffinati. Non esiste nulla nell’uomo, dal punto di vista organico, morfologico e fisiologico, che non si trovi anche nei vertebrati superiori, e, nello stesso modo, non vi è alcun principio psichico o poietico che gli appartenga esclusivamente. L’immagine dell’uomo, inteso come homo faber, ha come suoi lontani antenati il naturalismo di Democrito e il materialismo di Epicuro, si è sviluppata nel mondo moderno attraverso le filosofie di Bacone e di Hume, degli illuministi e dei positivisti, quali Comte, Mill e Spencer, raggiungendo il suo apice con il trasformismo di Lamarck e l’evoluzionismo di Darwin. Molti argomenti in appoggio a questa concezione sono venuti da pensatori come Hobbes e Machiavelli, non meno che da studiosi come Feuerbach, Schopenhauer, Nietzsche, Freud e Adler. Le tre immagini dell’uomo finora ricordate (homo religiosus, homo sapiens, homo faber) hanno in comune una fiducia nel progresso della storia umana, nell’evolversi dell’uomo e della società verso forme di organizzazione sempre più elevate. Le altre due immagini, quella dell’homo dionysiacus e dell’homo creator, rompono, invece, con questa tradizione e annunciano un nuovo orientamento del pensiero antropologico. L’elemento radicale di questa nuova antropologia legata all’immagine dell’homo dionysiacus6 consiste nel fatto che essa sostituisce, alla fiducia nel progresso dell’umanità comune a tutte le precedenti teorie della storia occidentale, la convinzione di una necessaria decadenza dell’uomo. Questi appare come il “traditore della vita”, dei suoi valori fondamentali, delle sue leggi, del suo sacro senso cosmico, perché usando alcuni semplici surrogati ha accresciuto in maniera morbosa la coscienza di se stesso. 6. Cfr. ivi, pp. 275-284.

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L’uomo costituirebbe in tal modo un’impasse nella catena evolutiva, che non può più procedere oltre tramite l’anello rappresentato dall’umanità; questa è perciò destinata all’estinzione, come molte altre specie animali e vegetali. Anche se il suo organismo è in sé sano, l’uomo come tale è una malattia, una tendenza fondamentalmente patologica della vita stessa. Il suo spirito, o la sua pretesa ragione, si sono costituiti attraverso il processo di corticalizzazione, per il quale la maggior parte dell’energia umana non è al servizio dell’intero organismo, ma è utilizzata per il sostentamento del cervello, quindi l’uomo può anche essere definito come lo “schiavo della corteccia”. Tutto ciò denota allora una malattia, un orientamento morboso della vita stessa. Il lombrico, cosiddetto uomo, può ben sentirsi importante e ritagliarsi un ruolo sempre più da protagonista nel corso della storia al punto di fondare stati, creare opere d’arte, conquistare sempre nuovi traguardi scientifici, invece di rimanere, come l’animale, ancorato ad un unico ambiente: ciò non gli permetterà, tuttavia, di uscire dal “vicolo cieco”, di superare quella malattia che costituisce l’essenza della sua vita stessa. Il pensiero e la ragione, di cui va tanto orgoglioso, possono surrogare gli istinti deboli e insufficienti, ma non riusciranno ad evitare un’ineluttabile decadenza. Anche la libertà di scelta, di cui va così fiero non è che un eufemismo per nascondere la mancanza di direzione e la costante indecisione che lo caratterizzano, a paragone della sicurezza istintiva dell’animale. Tutte le istituzioni e le organizzazioni umane sono soltanto dei miserevoli surrogati che vengono in aiuto di una razza biologicamente destinata all’estinzione. La storia dell’uomo rappresenterà così la graduale decadenza di una specie che è venuta al mondo già mortalmente colpita e che, fin dalla sua origine, ha rappresentato un “passo falso” della vita. E sarà la civiltà stessa a distruggere l’uomo, come un meccanismo “infernale” che annienterà colui che lo ha prodot-

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to. Il passaggio dall’espressione spontanea alla comunicazione mediata, dall’attività impulsiva alla volontà cosciente, dalla comunità alla società, dalla concezione organica a quella meccanicistica del mondo, dalla società basata sul vincolo di sangue allo stato diviso in classi, dalle religioni della terra-madre alle religioni patriarcali e spirituali, dalla magia alla tecnica, dalla metafisica alla scienza, indica la direzione del camino dell’umanità verso la morte. Nell’immagine dell’homo dionysiacus, come nella precedente concezione dell’homo sapiens, lo spirito o ragione appare distinto dalla vita e dalle pulsioni dell’anima; i due aspetti costitutivi dell’essere umano, la razionalità e la vitalità, sono intesi come due entità tra loro irriducibili. Nell’immagine dionisiaca lo spirito è considerato come un demone, come la potenza distruttrice della vita. L’uomo dionisiaco, pertanto, si oppone all’homo sapiens o all’uomo apollineo di tipo greco, di cui costituisce l’ideale antitetico. Per lui l’unica via di salvezza è la ricerca, attraverso l’eliminazione dello spirito, grande usurpatore e despota della vita, di un contatto con l’originario impeto vitale per riacquistare l’unità perduta. Possiamo rinvenire echi di questa concezione in Lessing7, che definisce l’uomo come una specie di scimmia rapace divenuta a poco a poco megalomane per lo sviluppo del suo spirito, e in Bolk8, che lo vede come una scimmia infantile con un sistema disorganizzato di secrezioni interne, nonché nel pensiero di Bachofen, Schopenhauer, Nietzsche e Bergson, oltre che nelle moderne correnti psicoanalitiche.

7.  Cfr. Th. Lessing, Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen (1919), a cura di R. Bischof, Matthes & Seitz, München 1983. 8.  Cfr. L. Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Gustav Fischer, Jena 1926; tr. it. di R. Bonito Oliva, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006.

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Mentre la teoria dell’homo dionysiacus umilia l’uomo, o almeno quell’homo sapiens, che quasi tutta la storia del pensiero occidentale ha identificato con l’uomo tout court, come nessun altro sistema filosofico aveva mai fatto, al contrario, la quinta immagine dell’uomo, quella dell’homo creator, lo esalta e ne dà una visione così fiera ed elevata da non poter essere paragonata con nessun’altra precedente. Questa nuova forma di antropologia, che ha ripreso l’idea nietzschiana del superuomo dandole nuove basi razionali, assume un aspetto filosofico soprattutto in Heinrich Kerler, in Nicolai Hartmann e nell’esistenzialismo sartiano. La base di questa teoria è il rifiuto di qualsiasi forma di religiosità, inteso come postulato della serietà e della responsabilità. L’ateismo dei secoli precedenti (materialismo, positivismo, ecc.) considerava l’esistenza di Dio come qualcosa in sé desiderabile, ma indimostrabile. Lo stesso Kant, che aveva confutato le prove dell’esistenza di Dio nell’ambito della Ragion pura, aveva finito col porre questa esistenza come postulato universale della Ragion pratica. L’antropologia a sfondo ateo dell’homo creator sostiene invece che, indipendentemente da ciò che possiamo o non possiamo dimostrare, un Dio non può, non deve esistere, se la responsabilità, la libertà, il dovere non sono semplici parole, se l’esistenza dell’uomo deve avere un senso. La negazione di Dio, quindi, non dà all’uomo la sensazione di una liberazione dalle sue responsabilità. Soltanto in un mondo meccanico e non teleologico un essere ha possibilità di esistere, mentre dove c’è un Dio provvidenziale e onnipotente non c’è libertà per l’uomo di progettare responsabilmente il proprio destino. L’eliminazione della divinità viene avvertita non come uno sgravio di obblighi morali o come un’attenuazione dell’autonomia e della libertà dell’uomo, bensì come il massimo della responsabilità e della sovranità nelle scelte umane. Nella frase nietzschiana «Dio è morto» si esprime proprio l’obbligazione ultima dell’uo-

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mo che non può poggiarsi né su una divinità che gli comunichi cosa deve e non deve fare, né su brandelli di vecchie metafisiche, ma deve assumere su di sé gli attributi (predestinazione e provvidenza) caratteristici della divinità. L’analisi di queste immagini dell’uomo ci ha permesso di evidenziare come sia possibile enucleare dalle diverse teorie filosofiche una concezione dell’uomo, o meglio una risposta al “problema-uomo” che scaturisca dal corpo generale della disciplina, impostando così la questione antropologica alla luce dei più generali problemi metafisici, ontologici, etici e gnoseologici. Soltanto nel ventesimo secolo, invece, si è presentata l’esigenza di dare una risposta diversa all’interrogazione radicale sull’uomo, tenendo conto sia del rapido sviluppo delle scienze, sia dell’esigenza della filosofia di ribadire la sua competenza su un problema tanto specifico e significativo. È in questo contesto che l’antropologia filosofica si pone come una delle possibili strade che si aprono al pensiero filosofico del ’900, percorso certamente non agevole e pianeggiante, ma certamente indispensabile per svolgere il “tema-uomo” aperto, polisemantico, variabile e plurale, ma pur sempre questione cruciale di ogni umana ricerca.

3. La specificità dell’antropologia filosofica nel pensiero contemporaneo L’enorme sviluppo delle scienze che ha segnato il ventesimo secolo, in particolare delle cosiddette scienze umane, ha portato alla conoscenza di molteplici e diversi aspetti dell’uomo, da quello biologico a quello psicologico, da quello linguistico a quello sociale, da quello economico a quello culturale. Ma, questo progresso ha comportato soltanto l’approfondimento di singole sezioni dell’unica totalità dell’individuo, l’analisi di

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determinati settori della complessa “realtà-uomo”. Si è perciò avvertita l’esigenza di cogliere e pensare l’essere umano nella sua interezza, sintetizzando, integrando e armonizzando i risultati delle indagini scientifiche per ricomporre in unità i molteplici aspetti indagati e ottenere così un’immagine globale dell’uomo. Da questa esigenza prende le mosse la specificità dell’antropologia filosofica contemporanea. Rispetto alle filosofie del passato, che pur si sono occupate del “problema-uomo”, la nuova disciplina si caratterizza per il fatto di assegnargli un posto centrale e prioritario; di impostarlo in maniera relativamente indipendente rispetto agli altri problemi filosofici, di cercare di dargli una risposta attraverso strade nuove che comportano, in generale, un più stretto legame con le scienze e non attraverso una logica deduzione da un sistema filosofico già costituito; di tentare una soluzione che aspiri a un grado di “oggettività” il più prossimo possibile a quello delle scienze, almeno delle scienze umane. Si è avvertita, in conclusione, l’esigenza di una nuova antropologia filosofica. Maturata in connessione al fiorire di un “nuovo umanesimo”, rappresentato dalle correnti esistenzialistiche e fenomenologiche, nonché spiritualistiche e neo-idealistiche, riceve un forte impulso dalla crisi dell’ideologia positivista e scientista e dalla reazione della filosofia nei confronti del carattere totalizzante delle scienze, le quali sembrano relegarla, nel migliore dei casi, al ruolo di logica e metodologia della conoscenza scientifica. Il rapido progresso delle scienze, infatti, aveva inflitto all’uomo tre ben note “umiliazioni”: in primo luogo l’astronomia copernicana aveva rimosso la terra, ambiente naturale dell’uomo, dal centro dell’universo; in secondo luogo, l’evoluzionismo di Darwin aveva “disonorato” e “degradato” l’uomo, togliendogli la sua posizione di predominio rispetto a tutti gli altri viventi; infine la psicoanalisi, evidenziando le determinanti inconsce del comportamento, aveva tolto all’uomo anche la possibilità di poter governare la sua coscienza.

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Tali sviluppi che, dal punto di vista scientifico, avevano rappresentato senza dubbio un progresso, avevano però messo in crisi l’uomo e la sua auto-immagine, facendogli avvertire in modo più acuto il bisogno di un intervento filosofico per ricomporre in una visione unica i diversi brandelli in cui era stata smembrata la sua figura. Inoltre l’esigenza di impostare in modo nuovo il problema dell’uomo deriva anche da una accentuata maturazione delle cosiddette scienze umane (psicologia, sociologia, etnologia, antropologia culturale, ecc.) le quali hanno analizzato ciascuna un particolare aspetto del problema-uomo, facendo così sorgere il bisogno di un’interpretazione filosofica che sintetizzi, armonizzi e unifichi i loro risultati empirici. Nell’ambito di questo rinnovato interesse per aiutare l’essere umano a recuperare la sua posizione “particolare” rispetto agli altri viventi e grazie allo sviluppo delle scienze umane, il problema-uomo trova, dunque, una strada relativamente nuova per la sua impostazione e soluzione. Possiamo dire che nasca in tal modo l’attuale antropologia filosofica. Essa consiste, per esprimersi in una formula, in una riflessione sui risultati delle scienze che in qualche modo si occupano dell’uomo, al fine di recuperare una sua “immagine globale” ovvero di fornire una risposta al problema dell’uomo. È Max Scheler, considerato il fondatore della disciplina, ad offrirci una prima puntualizzazione della problematica propria dell’antropologia filosofica. Se c’è un problema filosofico – egli scrive – del quale la nostra epoca richiede con particolare urgenza la soluzione è quello dell’antropologia filosofica. Intendo con ciò una scienza fondamentale intorno all’essenza e alla struttura eidetica dell’uomo; al suo rapporto con i regni della natura (minerali, piante, animali) e con il principio di tutte le cose; alla sua essenziale origine metafisica e al suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo; alle forze e alle potenze che agiscono in lui e sulle quali egli agisce; alle direzioni e alle leggi fondamentali del suo svi-

25 luppo biologico, psichico, spirituale e sociale, considerate nelle loro essenziali possibilità e realtà. I problemi del rapporto tra lo spirito e la vita sono compresi in una siffatta antropologia, la quale soltanto potrebbe dare un valido fondamento di natura filosofica e insieme finalità determinate e sicure alla ricerca di tutte le scienze che hanno come oggetto l’uomo: scienze naturali e mediche, preistoria, etnologia, scienze storiche e sociali, psicologia normale ed evolutiva, caratterologia.9

L’antropologia filosofica nasce, quindi, come esigenza di cogliere e pensare l’essere umano nella sua interezza, integrando i risultati delle indagini scientifiche sull’uomo per giungere a dare di lui un’immagine sintetica10. Essa è in grado di tratteggiarla in quanto occupa una «posizione peculiare, intermedia tra la teoria e l’empiria» e quindi il suo compito può essere definito come «interpretazione filosofica di risultati scientifici»11. Suo oggetto di riflessione, pertanto, sono i risultati delle scienze empiriche particolari (quali la biologia, la psicologia, l’antropologia culturale, la linguistica, ecc.), cioè teorie scientifiche già costituite e non semplici dati empirici, a cui si rivolgono invece le singole scienze. Questo è un oggetto, che per certi versi, l’antropologia condivide con l’epistemologia, tuttavia con finalità profondamente diverse: la costituzione di un’immagine globale dell’uomo da un lato, la fondazione di una logica e metodologia della ricerca della ricerca dall’altro. L’antropologia filosofica si presenta in tal modo come la disciplina che elabora i dati forniti dalle singole scienze, in qualche modo attinenti all’uomo e al suo operare, ma che non avanza la pretesa di essere “fondamentale”, di porsi a loro sostegno (anche se non rinuncia a indirizzarle), né di ridursi ad una scienza 9.  M. Scheler, Uomo e storia, cit., p. 257. 10.  Cfr. E. Coreth, Antropologia filosofica, cit., p. 11. 11.  J. Habermas, Antropologia, in G. Preti (a cura di), Filosofia, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, vol. 14, Feltrinelli, Milano 1966, p. 20.

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particolare al pari di queste, in quanto, prendendo come suo oggetto teorie scientifiche già costituite, ne presuppone l’esistenza. Il suo scopo, l’obiettivo che si prefigge di raggiungere è quello di fornire un’immagine globale e sintetica dell’uomo, partendo dai risultati delle varie scienze, da conoscenze che devono essere integrate, armonizzate, sintetizzate, unificate in una totalità strutturata. Nei primi decenni del ’900 la filosofia si trova ad essere messa in discussione e, per superare la crisi dovuta al crollo dei grandi sistemi di pensiero, cerca di rivolgersi verso un campo di indagine che faccia parte del territorio classico delle sue competenze, ma sia al contempo strettamente collegato ai filoni di ricerca maggiormente sviluppati e all’avanguardia. «Scegliendo l’uomo come suo oggetto, la filosofia ritrovava accesso legale, per così dire, alle discipline specialistiche che l’avevano detronizzata»12. L’antropologia filosofica, ponendosi al crocevia tra filosofia, scienze della natura e scienze dell’uomo, vuole riallacciare i fili di un discorso che aiutino l’essere umano a recuperare la comprensione di se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza. Partendo dal diffuso senso di malessere e di crisi che segue la conclusione della prima guerra mondiale, che sembra aver spazzato via le certezze derivanti dalla solidità degli organismi sociali tradizionali e dalle forme politiche consolidate, l’uomo torna a interrogarsi sul senso della propria esistenza. Nel cercare una risposta a questi quesiti di fondo si possono prendere due diverse direzioni: la prima, nell’ambito delle filosofie dell’esistenza, è un’interrogazione diretta sul valore della vita umana e sul suo significato profondo, la seconda, propria dell’antropologia filosofica, è un’interrogazione indiretta, che

12.  B. Accarino, Tra libertà e decisione: alle origini dell’antropologia filosofica, in Id. (a cura di), Ratio imaginis. Uomo e mondo nell’antropologia filosofica, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, p. 18.

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cerca di stabilire quale sia «l’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo» attraverso un approfondito e serrato confronto tra uomo e animale. Le vie e i modi della ricerca passano, allora, attraverso un sistematico paragone tra l’uomo e gli altri esseri viventi, o meglio attraverso un costante raffronto tra quanto la biologia, la psicologia, la sociologia, l’etologia, ecc. ci rivelano dell’uomo e dell’animale. In tal modo si giungerebbe a costruire una compiuta teoria dell’essere umano, ad enucleare la sua “vera” immagine e a definirlo, per dirla con Aristotele, tramite «genere prossimo» e «differenza specifica». L’antropologia filosofica si prefigge, dunque, lo scopo di elaborare una rappresentazione unitaria dell’essere umano, muovendo dai risultati di varie scienze, da conoscenze settoriali che devono essere integrate, armonizzate, sintetizzate in una totalità strutturata sulla base di un’intuizione filosofica primaria. La ricomposizione da elementi sparsi e parziali di un’immagine sintetica dell’uomo non è un “atto scientifico”, nel senso della costruzione di una teoria che trae la sua validità dal rapporto con l’esperienza, ma è un “atto filosofico” nel senso dell’interpretazione e dell’attribuzione di significato e di valore. L’esigenza di non rinunciare a una sintesi e reinterpretazione, su base filosofica, delle conoscenze fornite dalle nuove scienze che si occupano dell’uomo determina, dunque, la genesi dell’antropologia filosofica contemporanea.

4. Antropologia e interpretazione Di fronte alle difficoltà e alla crisi della filosofia sistematica e dello scientismo, da un lato, e in presenza di un vertiginoso progresso delle scienze, dall’altro, l’antropologia filosofica si propone di riallacciare il dialogo tra filosofia e scienza focaliz-

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zandolo sul problema dell’uomo. Ma in che modo realizzare tutto questo, quale strada seguire? Gli esperti sostengono che occorre “integrare”, “sintetizzare”, “unificare” i risultati delle discipline scientifiche, ma in che modo procedere e quali regole seguire? Le conoscenze disponibili sono vastissime, come selezionarle? Si pone quindi la necessità di un criterio di classificazione, di un principio di ordinamento e di unificazione, di un punto di partenza, che si ponga come pre-condizione della possibilità di scelta e di sintesi. Ci si domanda da dove una sintesi di elementi eterogenei assuma il principio della propria unità e del proprio ordinamento. L’unificazione, compiuta in un secondo momento, di una molteplicità di singoli elementi presuppone come condizione della propria possibilità la previa unità del tutto. Tematizzare questa totalità presupposta è un compito filosofico. Una semplice raccolta di singoli risultati scientifici, che non ricuperi in sé, quale condizione, la previa unità e totalità presupposte, non è ancora antropologia filosofica.13

Il tentativo di costruire un’immagine dell’uomo, quindi, non può mai essere un meccanico e arbitrario accostamento di teorie particolari, relative soltanto ad alcuni fenomeni umani, ma è qualcosa che scaturisce da tali teorie attraverso la sintesi di una “tradizione filosofica”: in sostanza è un’“interpretazione” dei risultati delle scienze. Già con il semplice uso di questo termine ci avviciniamo al procedimento ermeneutico, come viene proposto da Gadamer14. L’interpretazione richiede sempre una “pre-comprensione”, cioè “pre-giudizi”, “attese”, “ipotesi”, “pre-supposizioni”, “congetture” da cui partire. 13.  E. Coreth, Antropologia filosofica, cit., p. 12. 14.  Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, ed. it. a cura di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972; Id., Il problema della coscienza storica, tr. it. di G. Bartolomei, Guida, Napoli 1974.

29 Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo quando lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo.15

Tale metodo di analisi continuamente aggiornata del testo costituisce il processo ermeneutico o atto interpretativo, che assume una forma circolare, in quanto si presenta come un ininterrotto passaggio dal testo all’interprete, dotato di proprie “pre-comprensioni”, e di nuovo al testo per un ulteriore approfondimento. Questo procedimento di continua e incessante interpretazione è definito da Gadamer “circolo ermeneutico”, intendendo con questa espressione la forma caratteristica del procedimento ermeneutico o dell’atto interpretativo. Si parte da testi forniti di un proprio senso, i quali inviano il loro messaggio all’interprete che si avvicina ad essi, non con la mente simile a una tabula rasa, ma con le sue pre-comprensioni, i suoi pre-giudizi, le sue pre-supposizioni, in ultima analisi le sue attese. Il lavoro ermeneutico prosegue poi con la stesura di un primo progetto che viene via via rielaborato in base all’ulteriore penetrazione del testo. La comprensione ermeneutica, quindi, non è soltanto un “atto interpretativo”, ma rappresenta anche uno “sforzo produttivo”. L’interprete è ben conscio della distanza tra il proprio orizzonte e il testo da interpretare, ma durante il processo della comprensione si instaura un nuovo orizzonte più largo e comprensivo che supera la domanda e i pregiudizi di partenza. Nel caso dell’antropologia filosofica, il testo da interpretare sarebbe 15.  H.-G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 314.

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costituto dai risultati delle ricerche scientifiche sull’uomo e l’insieme delle pre-comprensioni potrebbe essere individuato nella tradizione filosofico-culturale in cui i diversi studiosi si collocano e in una certa idea dell’uomo, ancorché indeterminata, generale e ancora “aperta”, che ciascun pensatore avverte come propria. Si attuerebbe così una sorta di “circolo antropologico”, infatti non si dà mai un punto di partenza assolutamente privo di presupposti, a partire dal quale si potrebbe sviluppare un’antropologia filosofica. È già sempre l’uomo concreto, successivamente determinato, che sperimenta e conosce se stesso nel suo mondo, a porre domande sulla vita dell’uomo. La precomprensione concreta non può essere posta fuori circolo. Noi non possiamo saltare oltre noi stessi. Non possiamo riflettere su di noi, astraendoci dalla nostra esistenza concreta, per collocarci in un puro “io penso”. Portiamo noi stessi già da sempre con noi: il nostro luogo storico, la nostra esperienza e l’esperienza del mondo, il nostro orizzonte di comprensione.16

L’attività del comprendere, che si evidenzia nel gioco dei pregiudizi e delle pre-comprensioni presenti in ogni processo ermeneutico, è tuttavia inconcepibile senza l’intervento del linguaggio, che è «il mezzo universale in cui si attua la comprensione stessa», infatti «ogni comprensione è interpretazione, e ogni interpretazione si dispiega nel medium di un linguaggio, che da un lato vuol lasciare che si esprima l’oggetto stesso e dall’altro, tuttavia, è il linguaggio proprio dell’interprete»17. Linguaggio e comprensione sono, dunque, strettamente connessi, in quanto è attraverso il linguaggio che passa la modalità di comprensione dell’essere. «Il rapportarsi al mondo […] richiede che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incon-

16.  E. Coreth, Antropologia filosofica, cit., p. 16. 17.  H.-G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 447.

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tro al punto da poterselo rappresentare come esso è. Questo potere è insieme aver-mondo e aver-linguaggio»18. Sul concetto di mondo, o meglio di “avere un mondo”, l’uomo viene a distinguersi da tutti gli altri viventi, per i quali è disponibile soltanto un’angusta nicchia ecologica, come colui che non ha un ambiente ma ha il mondo19. Questa libertà dall’ambiente implica che il mondo è costituito mediante il linguaggio. Le due cose si implicano reciprocamente. Elevarsi al di sopra della pressione esercitata da ciò che viene incontro nel mondo significa avere linguaggio e avere mondo. In questa forma, la moderna antropologia filosofica ha elaborato in contrasto con Nietzsche una dottrina della specifica posizione dell’uomo nel mondo, mostrando che la struttura linguistica del mondo non significa affatto che l’uomo sia prigioniero di un ambiente rigidamente schematizzato nel linguaggio. Invece, non solo dovunque c’è linguaggio e dove ci sono uomini c’è anche la capacità di innalzarsi al di sopra della pressione del mondo; ma questa libertà dall’ambiente è anche libertà rispetto ai nomi che diamo alle cose, come dice il profondo racconto della G ­ enesi, in cui si narra che Adamo ricevette da Dio il potere di dare nomi alle cose.20

Nonostante le affinità che si possono riscontrare, vi sono tuttavia anche notevoli differenze tra il “classico” procedimento ermeneutico condotto su un testo letterario e quello che noi vorremmo riferire all’antropologia filosofica. In quest’ultimo caso

18.  Ivi, p. 507. 19.  Cfr. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Wiesbaden 1978, ora in Id., Gesamtausgabe, Bd. 3, voll. 1 e 2, Klostermann, Frankfurt 1993; tr. it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli Milano, 1983, p. 108. 20.  H.-G. Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 507-508.

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infatti, il testo, costituito dai risultati di quelle scienze che si occupano dell’uomo, è sempre mutevole, essendo le conoscenze scientifiche soggette a continui aggiornamenti e cambiamenti, cosa che non riguarda assolutamente i testi letterari. Inoltre l’orizzonte delle “pre-supposizioni” è di solito molto più vasto di quanto non sia in genere per le interpretazioni letterarie. Possono, in realtà, presentarsi visioni del mondo tra le più varie e diverse e scelte filosofiche disparate e tra loro inconciliabili. In ogni modo il problema dell’antropologia filosofica, come per ogni procedimento che voglia adottare la metodologia ermeneutica, è quello delle “pre-comprensioni”, cioè dell’ottica particolare da cui si parte, in questo caso della “prospettiva filosofica” in cui ci si pone. Parlare di “prospettiva filosofica” non significa necessariamente, ben inteso, un sistema filosofico già articolato e strutturato, perché in questo caso, come accadeva nel passato, l’antropologia filosofica sarebbe una parte o una diretta conseguenza di esso; ma non significa neppure una pretesa neutralità filosofica: un’intuizione, anche generica, ci che cosa sia l’uomo, una tradizione di pensiero entro cui muoversi, sono sempre presupposti. Stabilita, quindi, la necessaria compresenza nel procedimento interpretativo antropologico-filosofico di una “pre-comprensione” filosofica e di un “dato di fatto” costituito dalle teorie scientifiche, occorre tuttavia sottolineare che, da autore ad autore, il punto di partenza, il presupposto teoretico è più o meno esplicito e cogente, potendo esso prevalere sui dati empirici o viceversa. Chi intende occuparsi di antropologia filosofica si trova, di solito, di fronte alla seguente alternativa: «o prende le mosse da un vasto materiale fornito dalla ricerca delle scienze particolari, oppure assume, in modo relativamente indipendente dalle scienze empiriche, un punto di partenza originariamente filosofico, spiegando fenomenologicamente l’autoesperienza dell’uomo e cercando in tal modo di scanda-

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gliarne a fondo l’essenza»21. Questa oscillazione tra i due poli del “circolo antropologico” non deve far dimenticare, tuttavia, che per fondare una valida antropologia filosofica è necessaria la loro com-presenza e la co-esistenza, pur con la possibilità che uno dei due momenti risulti più accentuato e assuma un ruolo predominante rispetto all’altro.

5. Le articolazioni dell’antropologia filosofica Da quanto siamo venuti finora esponendo appare evidente la difficoltà di inserire l’antropologia filosofica all’interno di una struttura ben delineata, poiché proprio l’indeterminatezza e la relatività del punto di partenza, la molteplicità delle tradizioni filosofico-culturali, rende sfumato e mobile il confine della disciplina, velato il suo volto, molteplici le sue branche, amplissima la schiera di coloro che, più o meno a ragione, possono essere inclusi tra i suoi cultori. I capitoli sull’antropologia filosofica nelle storie della filosofia e nei dizionari ed enciclopedie riflettono questa incertezza. Infatti non solo nelle diverse trattazioni vengono inclusi nella disciplina autori differenti, a parte un piccolo nucleo costante, ovvero lo stesso autore è variamente considerato o come facente parte a pino titolo o come precursore o come collaterale, ma anche la stessa disciplina è suddivisa secondo criteri ed ottiche diverse. Non è qui il caso di esporre e discutere le varie scelte, accenniamo solo ad una suddivisione che tenga conto della specificità, sopra accennata della disciplina. Il “problema-uomo”, come già è stato messo in evidenza, ha interessato i filosofi fin dai tempi più antichi; ma, di solito, esso

21.  E. Coreth, Antropologia filosofica, cit., p. 41.

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non era mai del tutto esplicito e trattato in maniera autonoma e, comunque, non occupava un posto centrale nella riflessione filosofica, in quanto rimaneva strettamente legato ad un sistema predeterminato. Per questo motivo, appare valida l’opinione di Helmuth Plessner22, secondo cui è fuorviante qualsiasi storia dell’antropologia filosofica23, che estrapoli la concezione dell’uomo dalle varie teorie sistematiche, senza tener conto della peculiare prospettiva in cui si pone oggi una ricerca di tipo antropologico-filosofico. Gli autori che seguono questo cammino, considerano il “problema uomo” secondo un’unica linea di sviluppo che parte dall’antichità per giungere sino ai nostri giorni, senza mettere in rilievo il salto che caratterizza la nascita della disciplina nel ’900, ed inoltre esponendosi al rischio di trattare di psicologia, sociologia, antropologia ante-litteram, cioè in epoche in cui queste discipline erano ancora al di là da venire. Indubbiamente, quindi, moltissimi sono coloro che possono essere considerati i precursori della moderna antropologia filosofica, invero quasi tutti i filosofi; tuttavia ci sembra che di precursori in senso proprio si possa parlare solo a partire dalla fine del XVIII secolo, non solo perché molte delle problematiche che avevano percorso i secoli precedenti sono state riprese e rielaborate dai pensatori dei secoli XVIII e XIX, ma soprattutto perché è possibile trovare in essi un accresciuto interesse al “problema-uomo” e rintracciare nelle loro speculazioni molti di quei temi che saranno al centro dell’attenzione degli antropologi-filosofi propriamente detti nel secolo successivo.

22.  H. Plessner, Anthropologie philosophique, in R. Klibansky (a cura di), Philosophy in the Mid-Century, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 85. 23.  Cfr. M. Landmann, Philosophische Anthropologie. Menschliche Selbstdeutung in Geschichte und Gegenwart, Berlin-New York 19825; B. Groethuysen, Antropologia filosofica, tr. it. di P. Doriano, Guida, Napoli 1969.

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Nel parlare di precursori non possiamo non prendere le mosse da Kant e dalla sua Antropologia pragmatica24 e, passando attraverso l’antropologia di Feuerbach25, giunge all’“uomo-­ economico” di Marx; non possiamo non ricordare, inoltre, le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit di Herder26, generalmente considerate come il punto di avvio della moderna antropologia filosofica. Dobbiamo anche tener presente la tradizione cartesiana27 e la radicale tensione tra esprit de géométrie e esprit de finesse, che Pascal scorge nel più intimo dell’animo umano e della cui influenza troviamo traccia nelle filosofie di Kierkegaard e di Bergson. Non possiamo fare a meno di ricordare Nietzsche e il suo homo dionysiacus e i molti altri pensatori che si sono occupati del “problema-uomo” nell’ambito delle loro speculazioni filosofiche. Ad essi forse mancava, per essere considerati “antropologi-filosofi” nel senso pieno del termine, un riferimento costante e programmatico ai risultati delle scienze, nonostante fossero comunque sensibili e attenti alle loro conquiste. Inoltre, il fatto che le scienze umane non fossero ancora mature, impediva a questi pensatori di tener conto dei loro progressi. Certo è che la loro riflessione ha posto una molteplicità di problemi che rimarranno al centro dell’attenzione anche nel XX secolo e in particolare

24.  I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, riv. da A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 1994. 25.  L. Feuerbach, La filosofia dell’avvenire, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1967. 26.  J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, a cura di V. Verra, Zanichelli, Bologna 1971; ried., Laterza, Roma-Bari 1992. 27.  Per questa tradizione, che da Cartesio giunge ad Herder, cfr. V. Cappelletti, Alle origini della ‘philosophia antropologica’, Guida, Napoli 1985; Id., Descartes antropologo, in G. Belgioioso - G. Cimino - P. Costabel - G. Papuli (a cura di), Descartes: il Metodo e i Saggi, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1990.

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serviranno come base di partenza per gli “antropologi-filosofi” propriamente detti. Oltre ai precursori, che abbiamo collocato nel XIX secolo, è possibile individuare un’altra “classe” di filosofi, che si potrebbero chiamare collaterali rispetto agli “antropologi-filosofi” veri e propri. Sono pensatori del XX secolo che costruiscono sistemi filosofici ben organizzati e, al loro interno, dedicano uno spazio ampio e importante allo studio dell’uomo. Ci riferiamo, in particolare, a correnti quali l’esistenzialismo, la fenomenologia, le filosofie della vita, il funzionalismo. La centralità che esse riservano al problema dell’uomo, le esplicite e coerenti soluzioni che di esso forniscono, potrebbero farli considerare “antropologi-filosofi” a tutti gli effetti. In realtà, poiché il “problema-uomo” trova per essi soluzione all’interno di sistemi filosofici più generali e non è impostato in maniera indipendente, come prevalente interpretazione dei risultati delle scienze, è bene distinguerli dagli “antropologi-filosofi” propriamente detti. I confini tra le correnti di pensiero di pensiero a cui si è accennato e l’antropologia filosofica sono naturalmente mobili e sfumati, in quanto è proprio dall’albero di quelle filosofie che si diparte il ramo della nuova disciplina, la quale perciò rimane ad esse strettamente collegata ed intrecciata. Stabilite queste premesse, possiamo giungere a identificare il ristretto gruppo degli studiosi che entrano a far parte a pieno titolo della moderna antropologia filosofica. Essi sono caratterizzati dal fatto che considerano il problema dell’uomo esplicito, centrale e prioritario, aspetto questo che hanno talvolta in comune sia con i “precursori” che con i “collaterali”. A differenza di questi, però, essi impostano tale problema in modo autonomo, relativamente indipendente da altri problemi filosofici, e ne ricercano la soluzione attraverso una riflessione sui dati scientifici, tramite un’interpretazione dei risultati delle scienze. Questa particolare attenzione verso le teorie scientifiche è

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indubbiamente più marcata per gli “antropologi-filosofi” che per i “precursori” e i “collaterali” della disciplina: per i primi le scienze umane non erano ancora mature e per i secondi la soluzione del “problema-uomo” era cercata più come una deduzione da un sistema filosofico costituito che attraverso un dialogo preferenziale con le scienze. Nell’ambito dell’antropologia filosofica propriamente detta, possiamo distinguere sei principali orientamenti: 1) un’antropologia filosofica dei fondatori; 2) un’antropologia filosofica socio-culturale; 3) un’antropologia filosofica biologica; 4) un’antropologia filosofica psicologica; 5) un’antropologia filosofica come critica della società; 6) un’antropologia filosofica teologica. Si può definire il primo gruppo “antropologia filosofica dei fondatori”, in quanto in esso rientrano i cosiddetti “padri” della disciplina: Max Scheler, Helmuth Plessner ed Arnold Gehlen. L’indagine di questi autori è caratterizzata da un “forte” presupposto filosofico, che gioca un ruolo preponderante nel rapporto con le scienze e nel tratteggiare di conseguenza un’immagine dell’uomo. La riflessione di Max Scheler, considerato il fondatore della disciplina, manifesta bene le caratteristiche che assume al suo nascere la moderna antropologia filosofica. La sua opera, La posizione dell’uomo nel cosmo28, fornisce la dimostrazione del modo nuovo con cui questo autore ha cercato una soluzione al “problema-uomo”. Scheler è partito da un presupposto filosofico di tipo fenomenologico-spiritualistico estremamente forte e coattivo, tuttavia non ha immediatamente tratto da questo una determinata immagine dell’uomo, bensì si è rivolto in

28.  M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, Reichl, Darmstadt 1928, ora in Id., Gesammelte Werke, vol. IX, cit.; tr. it., La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma 20063.

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modo programmatico e sistematico ai risultati delle scienze e ha cercato di ricavarne, attraverso un inevitabile filtro filosofico, un’interpretazione dell’essere umano. Il suo interesse si è concentrato sulla biologia e sulla psicologia, intesa in senso lato come scienza delle caratteristiche psichiche dell’uomo e dell’animale. Tenendo presenti i contributi offerti da queste discipline, Scheler ha compiuto un’attenta analisi comparata tra l’animale e l’uomo, al fine di individuare le caratteristiche tipiche di quest’ultimo. È giunto così a riconoscere all’essere umano un aspetto peculiare, la possibilità di “dire di no”, di “trascendere la realtà”, elemento che non può essere ridotto ad altre facoltà comuni anche agli animali; ed ha invocato, per giustificarlo, un’essenza, un principio diverso, un fattore opposto a quella vita che l’uomo condivide con tutti gli altri esseri viventi: lo Spirito. L’uomo di Scheler è dunque un essere a cui è toccata in sorte una scintilla divina, un’impronta di quello Spirito che lo rende capace di “dire di no”, di “trascendere la realtà data”, a differenza dell’animale che vive immerso nella realtà concreta e non può rifiutarsi di rispondere agli stimoli che riceve. L’essere segnato da un principio spirituale è per l’uomo il fondamento necessario e universale, l’essenza del suo essere nel mondo, ciò che lo rende unico e quindi diverso da tutti gli altri viventi. Nello stesso anno (1928) in cui Scheler pubblicava la sua opera antropologica fondamentale, vede la luce, Die Stufen des Organischen und der Mensch29, in cui Helmuth Plessner fonda la sua teoria antropologica, dalla quale si evidenzia un’immagine 29.  H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1928, ora in Id., Gesammelte Schriften, a cura di G. Dux, O. Marquand e E. Ströker, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1980 ss., vol. IV; tr. it., I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

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dell’uomo inteso come un’unità fisio-psichica, calata nel mondo della vita. Attraverso un’interpretazione degli studi biologico-somatici e morfologico-estesiologici, Plessner sostiene, in accordo con Scheler, che il tratto caratteristico dell’uomo è costituito dalla rottura con l’istinto, dal poter «dire di no» agli impulsi, dalla capacità di negare, di superare le costrizioni biologiche, ma, a differenza di quella scheleriana, la prospettiva filosofica di Plessner, rifiuta qualsiasi conclusione dualistica che opponga spirito e vita, anima e corpo, res cogitans e res extensa, in quanto si propone di unificare la procedura empiristico-­ materialistica con quella spiritualistico-idealistica. Solo se si stabilirà una cooperazione tra indagine empirica e metodo a priori sarà possibile, per Plessner, fondare un’antropologia filosofica30. Nel tratteggiare l’immagine dell’uomo non è più possibile distinguere un aspetto teoretico ed un aspetto pratico. La multiforme poliedricità dell’essere umano e la complessa varietà di comportamenti in cui si manifesta la sua vitalità richiedono un’indagine che, pur sviluppandosi su piani diversi, conservi un’ottica globale per analizzare l’essere vivente inteso come una struttura unitaria. Inteso come unità psicofisica di vita, l’uomo manifesta le sue capacità intellettuali nel linguaggio, nel pensiero, nell’arte e nella scienza; organizza la sua vita sociale determinandone i valori e le norme di comportamento. Struttura sensibile e struttura intellettuale trovano nell’uomo il loro perfetto punto d’incontro, dando così vita ad un essere che si distingue da tutti gli altri per la sua «posizione eccentrica», la quale «definisce ugualmente la sua organizzazione nelle zone intellettive che nelle zone vegetative, e in entrambi i casi in modo ugualmente peculiare»31. 30.  Cfr. V. Rasini, Filosofia della natura e antropologia nel pensiero di Helmuth Plessner, in «Annali del Dipartimento di Filosofia» (Università di Firenze), I, 1995, p. 63. 31.  J. Habermas, Antropologia, cit., p. 25.

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Il carattere distintivo dell’uomo plessneriano è dunque l’autocoscienza, grazie alla quale può superare quella necessità biologica a cui non può sfuggire l’animale. Questi vive al “centro” del proprio ambiente naturale e la sua vita è regolata da un rigido determinismo; non avendo consapevolezza della propria esistenza, non può mai uscire, porsi fuori da quel centro. Ciò è invece possibile all’uomo, il quale, grazie all’auto-riflessione è in grado di trascendere il centro biologico della propria vita e acquisire una posizione “eccentrica”. L’uomo non è semplicemente un corpo esistente, ma ha un proprio corpo; vi è in lui una continua difficoltà, un rapporto dialettico tra l’essere un corpo, cioè esistere senza averne consapevolezza come gli animali, e l’avere un corpo, cioè rendersi conto di disporre di un organismo che sperimenta come altro da sé. Da qui la “posizione eccentrica”, il “distacco originario” rispetto alla vita organica, che individua e qualifica peculiarmente l’uomo nei confronti degli altri esseri viventi. Questo “prendere le distanze”, questa “posizione eccentrica”, questo “distacco originario”, questa capacità di “porsi fuori” dalla propria realtà biologica ha una fondamentale “funzione mediatrice”. L’uomo non vive come l’animale nell’“immediatezza”, ma nella “mediazione”; è tipico della natura umana non poter vivere nell’immediatezza di una natura già data, ma solo nella mediazione che trasforma la natura in cultura: l’uomo è essenzialmente un essere culturale. Egli è in grado di strutturare il mondo secondo una sua idea e renderlo più consono alle esigenze della sua vita. L’uomo per realizzare se stesso deve superare la sua realtà meramente biologica per ricomporla come realtà culturale. L’esistenza umana, infatti, si presenta come una frattura, riscontrabile a livello biologico come perdita della sicurezza istintuale, a livello categoriale come duplicità dovuta alla sua posizione eccentrica, a livello psicologico come sensazione di disagio e di spaesamento, di qui emerge per l’uomo

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la necessità, antropologicamente fondata, di stabilizzarsi nella realtà, assumendo la direzione della sua vita e procurandosi ciò di cui la natura gli è debitrice. Il terzo autore che rientra a pieno titolo tra i fondatori della moderna antropologia filosofica è Arnold Gehlen. Nella sua opera principale L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, la cui prima edizione vede la luce nel 1940, quindi dodici anni dopo che Scheler e Plessner avevano pubblicato le loro opere antropologiche maggiori, egli cerca di tratteggiare una nuova immagine dell’uomo, ricercata attraverso un confronto costante con le scienze umane e, in special modo, con le discipline biologiche, psicologiche e sociali. Gehlen comincia col prendere in esame i risultati delle scienze bio-morfologiche ed instaura così un serrato e sistematico confronto tra l’uomo e l’animale. Da questa analisi trae la conclusione che l’uomo è un “essere carente”, cioè non dotato di organi e funzioni “specializzati” tali da adattarlo subito e adeguatamente ad un determinato ambiente naturale. La sua possibilità di adattamento e sopravvivenza, invece, è legata al fatto che, unico essere della natura, è in grado di creare un proprio ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale” nel quale vivere e prosperare. L’elaborazione di una “sfera culturale” in senso lato, è una caratteristica peculiare dell’uomo, è la condizione necessaria e sufficiente della sua sopravvivenza. L’essere umano, perciò, diversamente dall’animale, riesce a conservarsi in tutte le condizioni che l’ambiente può offrire, è in grado di sopravvivere sia all’equatore che al polo nord, in quanto può trasformare il “mondo naturale” in un “mondo artificiale” in grado di soddisfare le sue necessità vitali. E questa sua straordinaria capacità di adattamento lo qualifica come l’unico essere “aperto al mondo” e non chiuso, come l’animale in un’angusta nicchia ecologica.

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Al pari degli altri due “padri fondatori”, Scheler e Plessner, anche Gehlen avverte la “peculiarità” che identifica l’uomo rispetto a tutti gli altri viventi, intuisce che esso deve essere posto su un gradino diverso: ed è questa intuizione originaria che deve essere considerata il fulcro della sua antropologia filosofica. Tuttavia, a differenza di Scheler, non pone a fondamento della “singolarità” dell’uomo un qualche principio metafisico, bensì ritiene che essa sia conseguenza di un particolarissimo meccanismo biologico, per il quale tutte le funzioni propriamente umane derivano da una costituzione morfologica originariamente specifica e propria di quell’unico ed esclusivo «progetto della natura»32 che è l’uomo. Secondo Gehlen, dunque, non vi è alcuna necessità di spiegare la differenza tra l’animale e l’uomo, ricorrendo alla presenza in quest’ultimo di una “scintilla divina”, di un principio spirituale che lo informi e lo caratterizzi, ma è invece possibile qualificare l’essere umano come un “essere assolutamente naturale”, ma tuttavia privilegiato e assolutamente distante da tutti gli altri viventi. Perciò il suo pensiero è stato definito come una «filosofia empirica»33, volendo intendere che non vi è alcuno spazio per il trascendente in una concezione pur così elevata dell’uomo. Gehlen, quindi, è un filosofo empirico che ha un fortissimo senso della peculiarità e dignità dell’essere umano, che in alcun modo vuol ridurre allo stesso livello delle altre creature e, nello stesso tempo, non può sospendere a un “gancio” metafisico. Ed è questa, forse, una delle più significative caratteristiche del suo pensiero, una sorta di contraddizione, peraltro assai fertile e creativa: a un bisogno di esaltazione e di assolutezza dell’uomo, 32.  Cfr. M.T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Studium, Roma 1990. 33.  Cfr. K.-S. Rehberg, L’“antropologia elementare” di Arnold Gehlen. Introduzione a A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 9.

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non segue il rischio di un “salto” metafisico, il sospetto di un residuo d’immortalità. L’essere umano è, dunque, a paragone con gli altri viventi, un essere organicamente «carente»34. Ma, nonostante i suoi “primitivismi” e “non-specializzazioni”, l’uomo continua a conservarsi e a prosperare; e questo perché ha sempre agito in modo da surrogare le sue deficienze, perché è riuscito a sopperire con l’azione a quelle inadeguatezze biologiche che gli rendevano difficoltoso e precario l’adattamento all’ambiente, perché «ha sempre fatto quello che doveva fare»35. L’azione plasmatrice e adattativa è, perciò, il più potente strumento a disposizione dell’uomo, ma comporta anche rischi e pericoli. L’essere umano si trova ad essere esposto ad un “profluvio di stimoli” e ad un “bombardamento di pulsioni”, necessari per un’ampia e ricca potenzialità d’azione, ma pericolosi per l’adattamento se non tenuti sotto controllo. Tuttavia non si lascia sopraffare, ma riesce a «prendere le distanze» da essi e, grazie alla sua «plasticità», ovvero alla sua capacità di reagire in modo multiforme e vario, li disciplina e li domina con risposte adeguate scelte in base alle circostanze36. Nel suo agire per adattarsi all’ambiente e dominare il mondo, l’uomo dispone di un meccanismo molto efficace: l’«esonero». Con questo termine Gehlen vuole indicare la capacità dell’uomo di creare schemi standard di comportamento, i quali, una volta stabiliti, “scattano” automaticamente in circostanze simili e quindi “esonerano” l’uomo da continue risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne, liberando così energie per

34.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 60. 35.  Ivi, p. 64. 36.  Ivi, p. 383.

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ulteriori e più elaborate imprese37, che coinvolgono anche le funzioni rappresentative e simboliche. Possiamo concludere riconoscendo nell’uomo di Gehlen un intreccio fra due immagini classiche dell’uomo: l’homo faber e l’homo sapiens. Del primo conserva la capacità di agire, di costruire strumenti per trasformare il mondo naturale in quello artificiale, del secondo il logos, che presiede alla sua azione e dà vita alla cultura e al «mondo dello spirito». Vi è nel pensiero di Gehlen una grande fiducia nell’uomo e nel progresso dell’umanità: malgrado conflitti, miserie, degradazioni, repressioni, alienazioni, angosce, difficoltà di ogni genere, l’essere umano è in grado di salvarsi da solo, con la sua capacità d’azione e la sua intelligenza creatrice di scienze, tecniche, istituzioni, sistemi etici, religioni, arti, letterature, ecc. Si avverte nella sua elevata concezione dell’uomo una sorta di contraddizione tra un bisogno quasi “metafisico” di distinguerlo radicalmente dagli animali e la convinzione, d’ispirazione scientifica, di non staccarlo dalla natura. Gehlen risolve questa antinomia tratteggiando un’immagine dell’uomo, inteso come un «progetto particolare della natura», una creatura unica ed eccezionale, che si distingue da tutti gli altri viventi, pur restando nell’ambito di una filosofia assolutamente «empirica». Se nell’antropologia filosofica dei fondatori, Scheler, Plessner e Gehlen, si ha, in un certo senso, una preponderanza del “presupposto teoretico”, in quanto nel loro procedimento interpretativo il ruolo delle pre-comprensioni filosofiche è particolarmente determinante, viceversa negli altri orientamenti è il “dato empirico”, cioè il vasto materiale fornito dalle scienze ad essere in qualche modo prevalente. Gli studiosi inquadrabili in queste correnti partono più direttamente e immediatamente dalla scienza, cercano di porsi di fronte ai suoi risultati con 37.  Ivi, p. 93.

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l’atteggiamento più aperto e incondizionato possibile, ritenendo che essa possa, per così dire, “parlare da sola” e fornire, senza alcun intervento dell’interprete, l’immagine dell’uomo cercata. In realtà, a ben scavare nel pensiero di questi autori, è sempre rintracciabile un orizzonte di “pre-comprensioni” che ha guidato la “lettura” delle teorie scientifiche, ma esso giace sullo sfondo e di solito non può essere colto che genericamente come “tradizione culturale”, intendendo con essa anche un certo curriculum di studi scientifici. L’antropologia filosofica socio-culturale è interessata all’uomo e alle sue opere, alla storia culturale e alla sociologia, all’antropologia culturale e alla filosofia della storia. Si è occupata principalmente delle società sviluppate e delle “culture di alto livello” che hanno creato gruppi sociali dotati di un loro stile personale, al di là di quelle uniformità biologiche che caratterizzano il genere umano in quanto tale. Essa, dunque, sottolinea la multiformità piuttosto che l’uniformità della natura umana e basa le sue ricerche su uno studio comparativo delle società complesse. Erich Rothacker e Werner Sombart sono i tipici rappresentanti di questa corrente, ma in essa si possono inserire anche Niklas Luhmann con la sua teoria dei sistemi sociali, l’antropologo americano G. H. Mead e il tedesco M. Landmann. Rothacker38 ha classificato i fattori culturali in una scala secondo «leggi di polarità». Egli cerca di interpretare le culture nazionali attraverso un processo di «riduzione» ad uno «spirito nazionale» e ad un bagaglio archetipico proprio di quell’ambiente socio-­ culturale. Anche nell’antropologia di Sombart39 sono sottolineati i caratteri etnocentrici e quindi la «diversità irriconciliabile»

38.  Cfr. E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, Bouvier, Bonn 1964. 39.  Cfr. W. Sombart, Vom Menschen, Buchholz & Weisswange, Berlin 1938.

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piuttosto che l’«apertura al mondo» è stata considerata come l’aspetto che distingue e caratterizza la situazione umana. Tutti questi autori sono contraddistinti dall’interesse per la questione dell’uomo dal punto di vista dell’antropologia culturale e sociale che li porta ad analizzare gli “stili di vita” acquisiti storicamente dalle diverse società umane. Invece un interesse per il «modo di vivere innato» delle specie animali, e quindi anche della specie umana, è il punto di partenza dell’antropologia filosofico-biologica. Adolf Portmann40 può essere considerato il principale esponente di questo orientamento, al quale sono legati molti altri studiosi come Lodewijk Bolk, Otto Schindewolf, Frederik J. Buytendijk e Jakob von Uexküll. Portmann stabilisce, infatti, un rapporto preferenziale con le scienze biologiche, integrando le ricerche sul comportamento e sulle caratteristiche fisiologiche e anatomiche dell’uomo e degli animali con i dati di altre scienze umane. Analizza e pone così in evidenza da una parte la peculiarità dell’azione, del linguaggio e dell’intuizione dell’essere umano, dall’altra i suoi particolari parametri biologici, come il ritmo della crescita, la durata della gravidanza, le caratteristiche della prima infanzia, le proporzioni corporee. Sottolinea la diversità di maturazione psico-fisica dell’uomo nei confronti dell’animale: il primo raggiunge dopo un anno di vita un grado di maturazione che gli altri mammiferi presentano, invece, fin dalla nascita. Questi ed altri elementi che distinguono l’essere umano dall’animale deriverebbero da una correlazione tra fattori biologici ereditari e processi socio-culturali, intreccio che consente all’uomo una «apertura indeterminata» all’ambiente, in contrasto con il rigi-

40.  Cfr. A. Portmann, Aufbruch der Lebensforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1965; tr. it. di B. Porena, Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Adelphi, Milano 19892.

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do determinismo del mondo animale. Dall’insieme di queste analisi Portmann può concludere che l’uomo è già biologicamente orientato per le prestazioni spirituali e culturali, per le relazioni interpersonali e sociali, per quelle che sono, in sostanza, le attività precipuamente umane. L’attenzione quasi esclusiva alle dottrine psicologiche e psicoanalitiche, con l’idea che soprattutto da esse possa emergere una adeguata immagine dell’uomo, individua e caratterizza i rappresentanti della cosiddetta antropologia filosofica psicologica. Quanto Freud ha scritto sulla struttura psichica dell’uomo è considerato essenziale, onde la teoria freudiana, e in particolare la “metapsicologia”, sono considerate le dottrine di riferimento. Per tutta la sua lunga vita di studioso e di ricercatore, lo stesso Freud, infatti, non fa che proporre una sua “immagine dell’uomo”, che man mano approfondisce e arricchisce intrecciandola strettamente con le sue esperienze terapeutiche e le sue teorie psicologiche41. È significativo ed importante notare come l’uomo freudiano, quale emerge dalla teoria psicoanalitica, trovi molti punti di contatto con l’immagine costruita dagli antropologi-filosofi finora trattati, soprattutto sulla base delle scienze biologiche e sociali. Anche Freud, infatti, giunge a concludere che il carattere distintivo dell’uomo rispetto all’animale, il suo tratto peculiare consiste proprio nella capacità di staccarsi dal piano istintuale e di realizzare faticosamente se stesso sul piano culturale e sociale, pagando per tutto ciò un prezzo molto elevato. Sia a livello di ontogenesi che di filogenesi vi è sempre un conflitto tra le esigenze del singolo e quelle del vivere sociale, perché possa esistere un’organizzazione sociale è necessario che il singolo si sacrifichi, che reprima e sposti verso fini di comune

41.  Su questo tema cfr. M.T. Pansera, Per un’antropologia filosofica freudiana: il valore della negazione, in «Physis», XXIV, n. 1, 1982, pp. 75-108.

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utilità, socialmente apprezzati, le sue pulsioni sia erotiche che distruttive: di qui il «disagio della civiltà»42. L’uomo psicologicamente maturo dovrebbe essere in grado di risolvere equilibratamente questo conflitto, guidando i suoi istinti senza comprimerli, e di inserirsi in modo armonico nel contesto socio-culturale di cui fa parte. Ma tale processo risulta tanto più difficile quanto più sofisticata diventa la struttura sociale, cosicché aumenta la schiera di coloro che non riescono ad adattarsi alle regole della vita civile, sia perché si lasciano troppo guidare dalle spinte pulsionali, sia perché si lasciano sottomettere dalle forze della coazione sociale; la nevrosi e il disadattamento divengono così le caratteristiche sempre più diffuse dell’uomo contemporaneo. Questa creatura, che è separata da una lunga distanza rispetto a tutti gli altri esseri viventi ed è dotata di poteri intellettuali qualitativamente diversi e particolarmente esercitati, trova, proprio nelle sue smisurate capacità conoscitive e razionali, il “tarlo” che mette in crisi tutto il sistema. Ed ecco, quindi, l’uomo vittima delle sue stesse abilità, costretto a contrapporre la nevrosi e il male di vivere agli enormi passi avanti compiuti dalla società tecnologica. Tra i pensatori post-freudiani, possiamo considerare come antropologi-­filosofi Ludwig Binswanger con la sua analisi esistenziale, Erwin Strauss e Medard Boss, nonché Erich Fromm, Rollo May e Ronald D. Laing. Dopo l’antropologia filosofica dei “fondatori”, ovvero di coloro che utilizzano un forte presupposto filosofico, e dopo l’antropologia filosofica degli “scienziati”, siano essi antropologi culturali, biologi o psicologi, è utile, infine, considerare ancora due gruppi di pensatori che possono correttamente essere inclusi nella disciplina modernamente intesa. Ci riferiamo ai sosteni-

42.  Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Opere 1924-1929, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, pp. 625-628.

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tori della “teoria critica della società” e a quegli studiosi che ritengono possibile giungere all’essenza dell’uomo solo facendo riferimento a Dio. La teoria critica della società, propugnata dai pensatori della Scuola di Francoforte, è costituita essenzialmente da tre elementi: una descrizione e lucida analisi della crisi della società attuale, un’individuazione delle cause che hanno contribuito a determinarla, una ricerca di possibili rimedi per uscire dalla crisi. Il parametro su cui questa teoria si fonda è l’analisi della natura umana nella sua specificità. Si può infatti parlare di una effettiva crisi della società attuale in relazione alla sua incapacità di soddisfare i veri bisogni dell’uomo, di realizzare pienamente la sua natura. Così si possono ricercare le cause di una tale situazione analizzandola storicamente, per capire come, partendo dalla razionalità illuministica, si sia giunti ad una modernità dove non possiamo constatare che l’assoluto trionfo dell’alienazione e dell’estraneazione dell’individuo43. La possibilità di proporre rimedi a questa situazione richiede, come prima cosa, un riferimento, una prima intuizione, anche di carattere generale, su cosa sia l’uomo. Ebbene, la fondamentale intuizione o “pre-comprensione” dei sostenitori della teoria critica della società consiste nell’affermare l’individualità, la socialità e la storicità dell’uomo come elementi basilari e caratterizzanti. Essa considera l’uomo di per sé come un valore essenziale, che tuttavia realizza se stesso solo sul piano storico-sociale. Precisa Horkheimer: Qui non si mettono in evidenza i tratti che distinguerebbero l’uomo da un lato dall’animale e dalla pianta, dall’altro da Dio – l’interesse appassionato per concetti tanto ampi si spiega in 43.  Cfr. M. Horkheimer - Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1997.

50 ultima istanza con il bisogno di disporre di quell’orientamento metafisico nella realtà data –, bensì l’esserci e la trasformazione di qualità che possono diventare determinanti per il corso reale della storia. L’immagine dell’uomo qui non si presenta come unitaria, ma come un insieme di particolarità specifiche di un gruppo che sorgono con il processo di vita sociale, che si trasferiscono da una classe all’altra e in certe circostanze vengono assunte con un senso nuovo della società nel suo insieme o scompaiono. Ciascun tratto dell’epoca presente è assunto come tema in quanto fattore nella dinamica storica, e non in quanto momento di un’essenza eterna. Il motivo di tali studi non risiede tanto nella dubbia opinione dell’antropologia stessa “che in nessun’epoca storica l’uomo è stato tanto problematico per se stesso quanto lo è oggigiorno” – una circostanza che, anche ammettendo che fosse reale, non ci apparirebbe particolarmente tormentosa –, ma nei tormenti reali cui si tratta di por fine.44

Attraverso le ricerche compiute dai maggiori esponenti della Scuola di Francoforte, quali Adorno, Horkheimer, Marcuse e Habermas vengono esplicitati tutti quegli aspetti che caratterizzano l’uomo odierno ed emerge, così, la sua attuale immagine. Questi aspetti e questa immagine, tuttavia, non hanno valore assoluto, ma sono storicamente e socialmente determinati. La riflessione dei pensatori francofortesi, infatti, non si astrae in prospettive metafisiche intorno ad una iperuranica essenza dell’umanità, ma cerca di cogliere l’uomo nel suo concreto farsi, che è sempre un farsi storico-sociale. «La teoria dell’essere dell’uomo, così come ogni sorta di antropologia filosofica, si trasforma da ontologia nonostante tutto statica nella psicologia degli uomini che vivono in una determinata epoca storica»45. A questo punto l’immagine dell’uomo verrà ricercata non più attraverso un confronto con gli altri esseri viventi e con la di44.  M. Horkheimer, Teoria critica, vol. I, Einaudi, Torino 1974, p. 208. 45.  Ivi, p. 12.

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vinità, ma attraverso il complesso intreccio che si stabilisce tra individuo e società. Gli sviluppi dell’antropologia filosofica, dunque, tendono da un lato a connettersi verso una «teoria della natura», ma dall’altro verso una «teoria della società e della storia», legame questo che – come sostiene Habermas – è ancora in fase di avviamento46. L’ultima branca è rappresentata dall’antropologia filosoficoteologica. La concezione dell’uomo, che da essa emerge, è basata esclusivamente sul suo rapporto con Dio. Suo punto di partenza è la convinzione che solo in funzione del trascendente possa emergere la vera immagine dell’uomo. Tutte le scienze vengono dunque interpretate attraverso questa lente, per cui qualsiasi problematica inerente all’uomo è subordinata a quella del destino dell’umanità e della sua salvezza ad opera di Dio. Tra i maggiori esponenti di tale indirizzo ricordiamo: Martin Buber, Emil Brunner, Karl Barth e Rudolf Bultmann. Abbiamo visto come tutti questi pensatori, pur nella diversità delle loro correnti, delle tradizioni culturali e delle impostazioni, mirino alla conquista di una nuova immagine dell’uomo. L’antropologia filosofica contemporanea si pone dunque al crocevia in cui si articolano filosofia, scienze naturali e scienze umane, ma deve anche confrontarsi con tutti quegli indirizzi di pensiero che hanno contribuito ad analizzare e ad interpretare il complesso e articolato tema dell’umano. Di qui si evidenzia il carattere composito e integrante di questa disciplina che nell’affresco del paesaggio concettuale del novecento non può assolutamente essere lasciata in ombra.

46.  Cfr. J. Habermas, Antropologia, cit., p. 38.

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Capitolo II Max Scheler e la «posizione dell’uomo nel cosmo»

1. Cenni biografici Max Ferdinand Scheler nacque a Monaco il 22 agosto 1874 da genitori di religione ebraica: la madre Sophie Fürther, lo era per nascita, il padre Gottlieb, lo divenne per conversione. Il giovane Max fu, quindi, educato secondo le norme della fede giudaica, che però abbandonò all’età di quindici anni per convertirsi al cattolicesimo. Questa conversione segnò un momento decisivo e importante che lasciò tracce profonde in tutta la sua vita futura. Il rapporto di Scheler con il cattolicesimo fu, infatti, particolarmente difficile, in quanto, dopo l’entusiastica adesione giovanile, attraversò una fase di tormentato ripudio, poi di convinto e appassionato ritorno alla fede ed infine di definitivo distacco negli ultimi cinque anni della sua vita. Il suo temperamento lo rendeva incapace di trovare lunghi periodi di quiete e di pace e lo spingeva verso una continua ed instancabile ricerca di sempre nuove e imprevedibili sintesi. Conseguita la maturità a Monaco, si iscrisse dapprima alla Facoltà di Medicina di Berlino e poi si spostò a quella di Filosofia e di Sociologia, dove ascoltò le lezioni di Dilthey e di Simmel, e infine concluse gli studi a Jena. Wilhelm Dilthey e Georg Simmel, pur nelle loro differenze, facevano entrambi parte di

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quella corrente di pensiero denominata “filosofia della vita”, di quell’orientamento che esaltava la pienezza dell’esperienza vitale e che rifiutava di chiudersi nei limiti della sistematicità e del meccanicismo. Scheler inoltre entrò in contatto con la psicoanalisi e fu un acuto lettore dell’opera di Freud. Non dobbiamo poi dimenticare il suo interesse per Henri Bergson, ancora poco conosciuto nella Germania dei suoi tempi. Da ciò si deduce che il nostro Autore era uno spirito acuto e penetrante, e al contempo curioso e insaziabile, desideroso di estendere i suoi orizzonti dalle scienze alla letteratura, dalla storia alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia. Abbiamo di lui una testimonianza diretta di Gadamer1, il quale riferisce di essere stato colpito dall’«impressione demoniaca» che suscitava la sua complessa e trascinante personalità. Nelle discussioni scientifiche spesso strappava le pagine dei libri per darle a coloro che dibattevano con lui, quasi a voler sottolineare concretamente l’esattezza del suo punto di vista. La sua terza moglie, Maria Scheu, racconta ad un amico di famiglia che il marito «parlava da solo ininterrottamente con se stesso, cercando, respingendo, osando, portando alle estreme conseguenze le più varie possibilità del pensiero; un essere continuamente sotto pressione, un invasato della filosofia»2. Un altro aspetto tormentato e inquieto della sua vita fu il rapporto di Scheler con la religione. Sembra esserci un legame tra la sua vita sentimentale e le sue prese di posizione nei confronti della chiesa cattolica. Nel 1899, dopo il suo matrimonio con la divorziata Amelia von Dewitz, abbandonò il cattolicesimo, vi farà poi ritorno nel 1912 dopo il divorzio dalla prima moglie e il successivo matrimonio con Maerit Fürtwaengler. Durante gli 1.  H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero. Uno sguardo retrospettivo, Queriniana, Brescia 1980, pp. 57-58. 2.  Ivi, p. 66.

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anni in cui questo matrimonio rimase in essere Scheler entrò a far parte attivamente del cattolicesimo tedesco, che lo aveva prescelto come suo rappresentante. Tuttavia nel 1919 conobbe Maria Scheu, che diverrà la sua terza moglie. Dopo aver cercato invano di ottenere dalla chiesa l’annullamento del matrimonio per contrarre un nuovo vincolo secondo le regole cattoliche, ebbe inizio in quegli anni una nuova crisi religiosa. Il 1922 segna l’epoca della sua definitiva rottura con la chiesa e contemporaneamente il passaggio da un teismo personalista a una forma di panteismo: iniziava così l’ultimo e forse più travagliato periodo della sua vita. Il 19 maggio 1928 anche il corpo cedette a quei tormenti che ormai da anni affaticavano il suo spirito inquieto e angosciato. Per schematizzare il pensiero di Scheler e analizzare le sue numerose opere, possiamo distinguere tre grandi tappe nello sviluppo della sua speculazione. 1) Il “periodo spiritualistico” (1895-1910). Sono questi gli anni che vanno dal suo passaggio all’università di Jena (1895) e alla frequenza dei corsi di Eucken fino al 1910, anno in cui lascia l’insegnamento all’università di Monaco. In questo periodo si laurea (1897), discutendo la dissertazione Contributi per una determinazione dei rapporti tra i principi logici e i principi etici, che verrà pubblicata nel 1899. Nello stesso anno appare anche la sua tesi di abilitazione all’insegnamento universitario Il metodo trascendentale e il metodo psicologico, e vede la luce la sua terza opera: Lavoro ed etica. Dal 1901 insegna all’università di Jena, dove svolge corsi sull’etica e sulla storia della filosofia. In quello stesso anno incontra per la prima volta ad Halle, a una riunione della rivista «Kant-Studien», Edmund Husserl. Il metodo fenomenologico lo conquista e gli permette di uscire da quel dualismo che, a suo giudizio, paralizzava il neokantismo e lo spiritualismo di Eucken.

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2) Il “periodo cattolico” (1910-1921). In questi anni si fa più intensa la collaborazione con Husserl e con il gruppo fenomenologico di Gottinga. Vengono pubblicate nel 1913 e nel 1916 la prima e la seconda parte de Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, nello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» rivista di cui Husserl era il fondatore e che rappresentava il manifesto ufficiale di tutto il movimento fenomenologico. L’opera, ripubblicata nel 1916 in un volume unico, rappresenta uno dei più importanti contributi alla filosofia morale del novecento ed ha esercitato un notevole influsso sulla cultura tedesca del dopoguerra e sulla rinascita del personalismo nelle filosofie di ispirazione cattolica. Nella Pasqua del 1916, nell’abbazia benedettina di Beuron, prende avvio la sua seconda conversione al cattolicesimo. In questi anni vedono la luce alcune fra le sue opere più importanti: Risentimento e giudizio morale (1912), Fenomenologia e teoria del sentimento di simpatia (1913), Il pudore sessuale e le sue funzioni (1913), L’eterno nell’uomo (1921); in questo periodo il suo orientamento filosofico-religioso si può senza dubbio definire teistico-personalistico. La persona è per Scheler il cardine della vita morale, ed è dalla sua attività centrale che prendono vita gli atti spirituali. La persona umana, è, quindi, quell’attualità spirituale che supera i limiti che il «mondo ambientale» pone a tutti gli altri esseri viventi. Anche l’uomo, nella sua animalità biologica, possiede un ambiente tipico della sua specie e distinto da tutte le altre, ma, grazie all’attualità spirituale del suo essere persona, egli è capace di cogliere un mondo unico e comune, una realtà inoggettivabile, ma al contempo primaria e originaria, che presuppone la Persona Spirituale Suprema. Secondo Scheler l’idea di Dio ci è data nell’attimo stesso in cui l’unità e l’identità del mondo divengono pensabili.

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3) Il “periodo panenteista” (1921-1928). Questo arco di tempo è caratterizzato da una netta svolta nei confronti del precedente orientamento teistico-personalistico. Scheler si distacca sia dalla chiesa cattolica, sia dall’orizzonte culturale che fino ad allora aveva costituito il suo punto di riferimento; e, accanto alla dimensione personalistica, pone anche una dimensione cosmica del mondo e l’idea di uno spirito impersonale: il Dio creatore, Persona per eccellenza, viene sostituito da una deitas, che si realizza solo in un rapporto di cooperazione e collaborazione con l’uomo. In questa prospettiva vedono la luce le grandi opere antropologiche: la Visione filosofica del mondo del 1925, La posizione dell’uomo nel cosmo pubblicato nel 1928, e tutti i saggi inediti raccolti poi nel dodicesimo volume delle Opere, intitolato Antropologia filosofica e curato da Manfred Frings. Tra il 23 e il 24 escono, in quattro volumi, gli scritti di sociologia e quelli che presentano la sua Weltanschauung. In questi anni si manifestano le prime difficoltà di salute che tuttavia non impediscono al nostro Autore di continuare la sua intensa attività di insegnamento e di ricerca. Il 21 febbraio 1927 tiene ad Amsterdam il discorso commemorativo per il 250° anniversario della morte di Spinoza. Il 5 novembre dello stesso anno, pronuncia a Berlino una prolusione alla scuola superiore tedesca per la politica e presenta il saggio L’uomo nell’epoca dell’integrazione. Riceve numerosi inviti per recarsi a fare conferenze negli Stati Uniti, in Giappone e nell’Unione sovietica, ma le sue precarie condizioni di salute lo costringono a rifiutarli. Nel 1928 accetta la chiamata dell’Università di Francoforte sul Meno per la cattedra di filosofia; lasciata Colonia si trasferisce in quella città alla metà del mese di aprile. Colpito da infarto nella notte tra il 12 e il 13 maggio, muore il 19 all’ospedale di Francoforte a soli 54 anni.

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Alcuni mesi dopo la sua morte, il 28 dicembre, nascerà il figlio suo e di Maria Scheu, Max Scheler junior, che diverrà un noto fotografo della Germania federale. Così Martin Heidegger si esprimerà nel suo necrologio: «Caratteristiche della sua natura erano: la totalità del domandare […], una straordinaria capacità di percepire l’affermarsi di nuove possibilità, un impulso irresistibile a pensare e a interpretare in una visione d’insieme»3.

2. Dall’etica formale all’etica materiale L’interesse speculativo di Scheler si focalizza, fin dal periodo universitario di Jena, sulla concretezza della persona umana, che costituisce il punto centrale da cui prenderà le mosse la sua successiva speculazione filosofica. In quegli anni, chiunque volesse occuparsi di filosofia doveva tener conto sia del metodo trascendentale dei neo-kantiani della scuola di Marburgo, sia del metodo psicologico riproposto dai positivisti dell’epoca. Scheler iniziò le sue ricerche in questa atmosfera, ma si rese immediatamente conto che il metodo psicologico-genetico rimaneva sempre ancorato al dato psichico individuale, immediato, istantaneo e quindi capace soltanto di mostrare l’originarsi delle rappresentazioni, ma non il loro valore ideale, e che il metodo trascendentale era comunque incapace di comprendere quegli aspetti concreti ed esistenziali che caratterizzano la persona umana nella sua individualità. Per uscire da questa alternativa Scheler si rivolge ad una terza via, un metodo fenomenologico ad orientamento ontologico e realistico, che chiamerà, nella prospettiva del suo maestro Eucken, metodo «noologico». Questo metodo parte dall’affer3.  M. Heidegger, Andenken an Max Scheler, in P. Good (a cura di), M. Scheler in Gegenwartsgeschehen der Philosophie, Francke, Bern-München 1975.

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mazione dell’importanza e insostituibilità delle scienze della vita creatrici dello spirito, in contrapposizioni a coloro che considerano la vita mentale esclusivamente empirica. È quindi necessario riportare al centro dell’attenzione la sfera degli interessi vitali su cui lo spirito viene a innestarsi e in cui trova le sue basi e il suo fondamento. Con queste premesse avviene l’incontro tra Scheler e la dottrina husserliana, che gli appare come il mezzo più sicuro per superare la strettoia dello psicologismo e lo scoglio del formalismo kantiano Il principio dell’intenzionalità della coscienza appare a Scheler come il garante di una radice «spirituale» e «immateriale» della conoscenza e come la possibilità di superare ogni oggettualità o dato empirico e, al contempo, ogni impostazione trascendentale e formalistica dell’a priori nel fluire esperienziale del soggetto. L’intenzionalità, ossia il principio che non esiste coscienza senza un contenuto, senza un oggetto, e che quest’ultimo non è soltanto una modificazione della coscienza, ma è un qualcosa di autonomo e distinto e pur legato ad essa da una relazione inscindibile, serve al nostro Autore come base di partenza per la sua concezione dell’etica e in particolare per assolvere l’importante compito che egli si era proposto: la fondazione di un’«etica materiale dei valori». Con la pubblicazione de Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori Scheler vuole attuare una fondazione contenutistica e non formale dell’etica, che gli permetteva da un lato di mantenere l’idea kantiana di un’etica non relativistica, non utilitaristica e non eudemonistica, ma dall’altro di liberare la morale kantiana da quei condizionamenti formali che l’avevano privata di ogni contenuto. La critica di Scheler a Kant si basa sull’identità fondativa dell’etica kantiana: questa si configura come un’etica a priori che, nel desiderio di liberarsi da ogni condizionamento materiale, ha svuotato il suo imperativo categorico di ogni contenuto, divenendo così astratta e formale, assolutamente chiusa alla comprensione del valore e del significato delle emozioni. L’errore

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fondamentale di quel «colosso di acciaio e di bronzo», che fu il grande Kant, è stato di impedire alla filosofia di pervenire ad una concreta ed evidente dottrina dei valori etici, della loro gerarchia e delle norme che vi si fondano – una dottrina che sia al contempo libera da ogni condizionamento storico e psicologico – nonché di inserire, grazie ad un autentico discernimento, i valori etici nella vita dell’uomo. Sino a quando varrà quale unico risultato rigoroso ed evidente di ogni etica filosofica quella formula terribilmente elevata nella sua vuotezza, ci sarà impossibile cogliere la pienezza del mondo etico e le sue qualità e convincerci delle ragioni che rendono vincolante un tale mondo ed i rapporti in esso vigenti.4

Deriva con evidenza da questa critica il senso della nuova etica scheleriana che si fonda sulla possibilità di un «a priori materiale», che si origina dal superamento del falso dualismo tra ragione (Vernunft) e sensibilità (Sinnlichkeit). Così si esprime lo stesso Scheler: In contrapposizione a Kant, noi tendiamo quindi a sviluppare decisamente un apriorismo dell’emozionale e a spezzare la falsa identità sinora operata tra apriorismo e razionalismo. L’“etica emozionale”, a differenza dell’“etica razionale”, non è necessariamente un “empirismo” che desumerebbe i valori etici dall’osservazione e dall’induzione. La percezione affettiva, il preferire e il posporre, l’amare e l’odiare hanno nello spirito un loro contenuto a priori specifico che è indipendente dall’esperienza induttiva come lo sono le pure leggi del pensiero. Nell’uno e nell’altro ambito sussiste una intuizione eidetica degli atti e delle loro “materie”, dei loro rapporti di fondazione e delle loro correlazioni. Nell’uno e nell’altro ambito sussisto4.  M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neuer Versuch der Grundlegung eines ethisches Personalismus, Niemeyer, Halle 1913, ora in Id., Gesammelte Werke, vol. II, Francke, Bern-München 1954; tr. it., Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di G. Caronello, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 26 (30).

61 no l’“evidenza” e la più rigorosa esattezza dell’accertamento fenomenologico.5

Tale «a priori specifico», o «a priori materiale», altro non è se non la capacità emotiva dell’uomo di intuire il valore, che viene a costituire il concetto fondamentale dell’etica scheleriana, come il dovere lo era per quella kantiana. La costruzione dell’etica materiale dei valori si presenta su tre livelli, come chiarisce lo stesso Autore nella prefazione alla seconda edizione del Formalismo. Un primo livello è quello del riconoscimento dei valori assoluti: «Lo spirito che caratterizza la presente etica – scrive Scheler – è quello di un rigoroso assolutismo etico e dell’oggettivismo»6. Nel secondo livello si arriva a stabilire che la facoltà adatta a riconoscere questi valori è un’intuizione emozionale; perciò l’etica scheleriana «può venir definita come intuizionismo emotivo e come apriorismo materiale»7. Riconosciuta l’esigenza di valori assoluti e stabilito che sono raggiungibili attraverso la facoltà conoscitiva dell’intuizione, Scheler può passare al terzo livello del suo programma filosofico: la costruzione di un’etica personalistica. Egli, infatti, ritiene che «il principio basilare […] per cui tutti i valori, ivi compresi quelli reali e quelli delle comunità e delle organizzazioni impersonali, debbano essere subordinati al valore della persona, sia talmente importante da definire il suo lavoro anche come nuovo tentativo di personalismo»8. I valori, quindi, sono qualità oggettive, disposte in ordine gerarchico e valevoli a priori indipendentemente da ogni possibile

5.  Ivi, p. 94 (84). 6.  Ivi, p. 8 (14). 7.  Ibidem. 8.  Ibidem.

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realizzazione sul piano empirico. I beni, invece, sono le cose concrete che hanno in sé un valore; i fini sono la conclusione di un atto che può essere dotato o meno di valore. Per il nostro Autore, quindi, i valori sono entità oggettive, anteriori alla coscienza e immutabili. La nostra coscienza non è colei che li produce ma il luogo dove si rivelano. I valori non sono oggetti, mentre i beni sono oggetti che hanno un valore. I beni sono fatti concreti, i valori sono essenze. Sono beni le cose in quanto sono oggetti di possesso e di uso: un libro interessante, uno strumento musicale, un quadro. I valori sono le qualità che i beni posseggono e che li rendono cose buone: nel caso del libro è l’interesse che suscita, dello strumento l’armonia della musica, del dipinto il valore della bellezza. I beni quindi sono fatti reali, mentre i valori sono essenze a priori, unità-di-significato che si rivelano ad un’intuizione. La contraddizione insita nell’etica di Kant deriva, per Scheler, dal confondersi di valore, bene e fine, cosa che rende la morale puramente formale, basata sul rispetto di una legge imperativa e universale onde evitare sia la materialità che l’interesse personale e l’eteronomia della legge morale. Scopo di Scheler è dimostrare la possibilità di un’etica materiale, ricca di contenuti concreti, fondata su valori oggettivi e quindi autonoma sia nei confronti delle etiche finalistiche ed edonistiche, criticate da Kant, che dell’etica formalistica. L’originarietà dei valori si esprime nella loro autonomia sia dal soggetto conoscitivo sia dal soggetto psicologico e trascendentale: l’atto intenzionale in cui si mostra il valore è l’intuizione emozionale o sentire affettivo, molto vicina alla pascaliana raison du cœur. Con questa affermazione Pascal sostiene l’esistenza di «una modalità dell’esperienza i cui oggetti sono completamente inaccessibili alla “ragione” – irraggiungibili dalla ragione come lo è il colore per l’orecchio e per l’udito»9. Un analogo

9.  Ivi, p. 316 (261).

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concetto è espresso da Scheler nell’Ordo amoris: «ciò che chiamiamo “animo” o, con parlar figurato, il “cuore” dell’uomo non è un caos di ciechi stati affettivi», i quali si collegano e si avvicendano con i fatti psichici seguendo regole casuali, ma è «un articolato contraltare del cosmo in tutte le possibili cose degne di amore – ed è in quanto tale un microcosmo del mondo dei valori»10. Analogamente alla logica il cuore ha le sue ragioni, conoscenze chiare ed evidenti rispetto alle quali l’intelletto è cieco, «come il non vedente per il colore, il non udente per il suono»11. Egli afferma quindi il principio dell’intenzionalità emozionale, opponendosi al pregiudizio che la vita emotiva non possa avere un carattere intenzionale, come se tutto ciò che va oltre il pensiero e la ragione non possa essere che un semplice stato coscienziale. Kant, reputando l’emozionale irriducibile all’intelletto, lo aveva qualificato come caotico e incomprensibile senza l’intervento risolutivo della ragione, per questo aveva escluso dall’ambito morale i sentimenti, le passioni, le pulsioni. Esiste, dunque, un tipo di esperienza i cui termini sono inaccessibili all’intelletto e che si apre alla presenza di valori e all’ordine gerarchico che li lega. Le leggi che la regolano sono altrettanto determinate, esatte ed evidenti di quelle della logica, presentano perciò correlazioni e opposizioni e costituiscono il fondamento delle decisioni morali e delle leggi che le guidano. Così diviene fondamentale l’analisi della vita emozionale, perché questa è alla base dell’etica12. Se le essenze sono colte mediante un’intuizione, le essenze di valore sono colte attraverso un particolare tipo di intuizione di 10.  M. Scheler, Ordo amoris, in Id., Gesammelte Werke, vol. X, Francke, Bern-München 1957, p. 361; tr. it. in Id., Scritti sulla fenomenologia e l’amore, a cura di V. D’Anna, Franco Angeli, Roma 2008, p. 123. 11.  Ivi, p. 362; tr. it., p. 124. 12.  Cfr. G. Riconda, Analisi della vita emozionale ed etica materiale dei valori, in Id., L’etica di Max Scheler, vol. II, M&S, Torino 1972, pp. 3-4.

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carattere emozionale. La percezione affettiva (Fühlen) si riferisce originariamente ad un tipo specifico di oggetti, i valori, attraverso un particolare evento dotato di senso: il sentire emozionale. Questo sentire recettivo in grado di cogliere i valori, viene definito da Scheler come classe delle «funzioni affettivopercettive intenzionali»13. Il Fühlen, dunque, si indirizza verso la peculiare realtà oggettuale dei valori; l’originarietà di tale riferimento consiste nella sua immediata intrinsecità, che rinnega ogni connessione rappresentativa o mentale, di carattere meccanico o contingente, ed è radicata nella componente spirituale dell’uomo. Esaminando la sfera dei sentimenti, ed estendendo anche a questo settore della coscienza il metodo fenomenologico, Scheler evidenzia la presenza di un’“intenzionalità emotiva”, in grado di farci intuire valori non soggettivi, evidenti quanto le essenze ideali husserliane. Sulla base della percezione affettiva del valore, Scheler giunge a tracciare una scala gerarchica in cui si dispongono i valori. Si può quindi affermare che vi sono qualità di valore autentiche e vere, caratterizzate da relazioni e contesti particolari, che costituiscono un ambito specifico di oggetti e che possono, proprio in quanto qualità di valore, occupare una posizione superiore o inferiore ecc. Se ciò è vero, possono sussistere tra loro un ordine ed una gerarchia esperibili “a priori” poiché del tutto indipendenti dall’esistenza di un mondo di beni in cui si manifestano, come pure dall’evoluzione e dalla trasformazione di un tale mondo nella storia.14

13.  M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 321 (265). 14.  Ivi, p. 35 (38).

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3. La filosofia dei valori e la persona umana Scheler identifica cinque categorie di valori, procedendo dai più bassi ai più alti: 1) Valori sensoriali che si esplicano tra le modalità estreme di piacere-dolore, di godere-patire e di gioia-pena. 2) Valori tecnici o valori civili, che si esplicano tra le modalità estreme dell’utile e del dannoso. Mentre i precedenti valori riguardavano soprattutto la persona singola e il suo benessere, questi ultimi si riferiscono alla società e per questo vengono chiamati valori civili, in quanto producono miglioramenti nelle condizioni di vita dei gruppi e degli agglomerati urbani, per esempio con la costruzione di ospedali, autostrade e scuole. 3) Valori vitali, che si collocano all’interno dell’antinomia tra nobile e volgare. Sono questi i valori del benessere e della prosperità; le condizioni che ad essi corrispondono sono tutti i “modi” del sentimento vitale, come l’affermarsi o lo scomparire della vita, la salute e la malattia, il sentimento di prostrazione o quello di esuberanza e le corrispondenti reazioni di risposta impulsiva come il coraggio, l’angoscia, la collera, l’ira. 4) Valori spirituali che denotano, già nel loro manifestarsi, una particolare autonomia rispetto ai condizionamenti sia del corpo che dell’ambiente. Questi valori si riferiscono agli atti del preferire, dell’amare o dell’odiare spirituali, distinti dalle analoghe funzioni e atti vitali. Questi valori si suddividono a loro volta in tre categorie: a) valori estetici (bello-brutto), b) valori giuridici (giusto-ingiusto); c) valori filosofici o della “pura” conoscenza della verità (vero-falso). 5) Valori religiosi che si collocano all’interno della polarità sacro-profano e si realizzano sempre in “oggetti assoluti” o facenti parte della “sfera assoluta”. Si concretizzano in stati affettivi, che si trovano tra la beatitudine e la disperazione e che suscitano reazioni di risposta quali la fede, l’incredulità, la venera-

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zione, l’adorazione. L’atto in cui si realizzano i valori del sacro è sempre un atto d’amore interpersonale che si manifesta nel culto e nei sacramenti. I valori e la loro gerarchia sono colti e riconosciuti dall’uomo attraverso l’intuizione o la visione emozionale che lo mette immediatamente in contatto con la loro dimensione più nascosta: in tal modo essi si rendono disponibili per lui, gli vengono incontro attraverso un atto spirituale specifico, tramite una sorta di sensibilità particolare. La dicotomia tra comprensione razionale e conoscenza basata sull’esperienza sensibile viene superata da Scheler con quell’attività spirituale extra-teoretica che egli identifica con l’intuizione emozionale. Quando Pascal dichiarava che anche «le cœur a ses raisons» non voleva sostenere soltanto che bisogna accettare anche le esigenze del cuore e del sentimento per integrare così la visione del mondo costruita grazie ai metodi razionali, ma intendeva affermare che vi è un’esperienza, che pur essendo inaccessibile alla ragione «ci manifesta autentici dati oggettivi e un ordine eterno tra essi, appunto i valori e la rispettiva gerarchia»15. Gli studi sui valori e sulla loro gerarchia costituiscono per Scheler un’introduzione a una teoria della persona, o meglio a una comprensione fenomenologica della persona umana. Alla fondazione di un «personalismo etico» egli dedica un intero e vasto capitolo del Formalismo in cui vuole dimostrare che un’etica materiale dei valori, lungi dal distruggere – come pensavano i sostenitori dell’etica formale – la dignità della persona, le attribuisce la funzione di unificare la molteplicità e la differenzialità essenziale degli atti e di conferire concretezza allo spirito. Persona è l’unità-di-essere concreta e in se stessa essenziale di atti di diversa natura, tale da darsi in sé prima di ogni essen-

15.  Ivi, p. 316 (261).

67 ziale differenza d’atto e, in particolare, prima della differenza tra percezione interna ed esterna, tra volontà interna ed esterna, tra sentire, amare, odiare nella propria interiorità o nella sfera dell’alterità ecc. L’essere della persona “fonda” tutti gli atti essenzialmente diversi.16

È comunque piuttosto difficile capire cosa Scheler intende per “persona”, in quanto essa è, in senso proprio, inoggettivabile e, dunque, indefinibile; la sua essenza spirituale può essere intuita soltanto dopo che sono state rimosse tutte quelle barriere che impediscono il contatto con la sua essenza. Per superare questa difficoltà, sarà meglio cominciare da una serie di caratterizzazioni negative della persona, evidenziando ciò che essa non è, più che definire ciò che è. Non è l’io penso, in quanto l’io è il centro di funzioni che possono essere materia di studio oggettivo e impersonale da parte della psicologia scientifica, mentre la persona esegue azioni e partecipa agli atti che essa stessa compie; in questo caso sia l’atto che la persona non possono mai essere oggetto di analisi e di osservazioni. Non è la ragione e in particolare la ragione trascendentale kantiana, perché se c’è un principio razionale, logico, di carattere sovrapersonale del quale l’individuo concreto è una semplice manifestazione transitoria, non sarebbe possibile ammettere l’“individualità” degli uomini, che a questo punto andrebbe ricercata nel corpo o nelle funzioni psichiche. Per Scheler, invece, la persona è sin dall’inizio “individuata”, ogni uomo è un essere unico e diverso da tutti gli altri, così come il suo valore è specifico e singolare. Non è l’anima della vecchia psicologia sostanzialistica, per la quale l’individualità proveniva dalla “materializzazione” dell’a-

16.  Ivi, p. 473 (383).

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nima, entità spirituale, per mezzo del corpo, entità materiale. Anche in questo caso vi sarebbe una profonda contraddizione col significato che Scheler attribuisce alla persona, considerata un’unità psicofisica indissolubile. Di conseguenza non può essere neppure il corpo, perché – come abbiamo visto – esso non può coincidere con la persona di cui è soltanto uno strumento. Ritorna nella fenomenologia scheleriana la distinzione tra corpo-fisico (Körper) e corpoproprio (Leib): il primo è inerte ed esteriore e si presenta come resistenza ed ostacolo, il secondo è il corpo vissuto, che il soggetto percepisce come proprio, come punto di riferimento delle proprie esperienze e di inserimento nel proprio ambiente. La persona, dunque, non è il corpo come il corpo-fisico, rigidamente contrapposto all’anima. Non è una sostanza, in quanto Scheler rifiuta qualsiasi concezione sostanzialistica che tenda a ridurre l’essere-persona ad un oggetto; la persona non si riduce ad una somma di atti vissuti, ma è l’unità co-vissuta di questi atti. «All’essenza della persona pertiene il fatto d’esistere e vivere unicamente nel processo di compimento d’atti intenzionali. Per essenza essa non è quindi un oggetto»17. Non è il mondo, la persona vive nel mondo ma non è una parte di esso, né del mondo-fisico, né del mondo-ambiente, ma ne è piuttosto il corrispettivo; si attua una corrispondenza tra il macrocrosmo, un mondo unico, identico e reale, e il microcrosmo, cioè tutti i mondi personali e individuali18. Ed infine non è l’uomo, in quanto l’uomo è una semplice unità psico-fisica, mentre la persona è il suo principio spirituale. Pur se solo l’uomo può essere persona, non tutti gli uomini lo

17.  Ivi, p. 482 (389). 18.  Ivi, p. 489 (395).

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sono: né il bambino, né il pazzo, né lo schiavo, in quanto non basta soltanto la psichicità a definire una persona, ma occorre la capacità di effettuare atti intenzionali collegati in unità di significato. Scheler ha cercato di avvicinarsi alla comprensione della persona tramite delle caratterizzazioni negative che corrispondono all’esigenza del metodo fenomenologico di preparare il terreno, dopo averlo sgombrato dagli ostacoli, all’intuizione dell’esser persona. Quest’ultima non è dunque una realtà raggiungibile tramite la conoscenza, ma soltanto attraverso il suo stesso «compimento d’atto»19. L’uomo è persona in quanto è un soggetto spirituale centro di atti intenzionali. Potremmo anche dire che la sfera della persona e la sfera dello spirito coincidono e che non può sussistere una persona se non come persona-­ spirituale e uno spirito se non come uno spirito-­personale. Così, infatti, si esprime il nostro Autore: Noi connotiamo invece l’intera sfera degli atti con il termine spirito: definiamo come tale tutto quanto presenti l’essenza di atto, di intenzionalità e di pienezza di senso, a prescindere dall’ambito in cui tutto ciò possa effettivamente manifestarsi. Dalle considerazioni fatte è chiaramente evincibile che ogni spirito è personale per necessità di natura eidetica e che l’idea d’uno “spirito impersonale” è un “controsenso”. All’essenza dello spirito non ineriscono però né un io né la divisione tra io e mondo-esterno. La persona è piuttosto quanto si pone come unica e ontologicamente necessaria forma d’esistenza dello spirito, a condizione che si tratti di uno spirito concreto.20

La persona raggiunge la completezza del suo essere soltanto quando esercita le facoltà superiori dello spirito, mentre diventa sempre più simile agli altri esseri viventi, e quindi facilmente

19.  Ivi, p. 478 (386). 20.  Ivi, p. 481 (388-9).

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sostituibile, quando si limita all’ambito delle funzioni vitali. Questa persona, indefinibile, inoggettivabile, autonoma nella sua capacità di cogliere lucidamente i valori, stabilisce anche un rapporto particolare con la natura, con il prossimo e con Dio. Non assume nei confronti della natura un atteggiamento aggressivo, considerandola soltanto un deposito di energia da sfruttare, ma si apre ad un atteggiamento di ascolto e di ricerca, che deve servire ad aiutare la natura a realizzare le sue potenzialità ancora inespresse. Il rapporto con le altre persone si basa sulla comprensione e sulla partecipazione, e va dalle forme più basse di socialità alla sua più alta espressione che si realizza nel rapporto d’amore. La prima di queste forme è la massa, che si origina dal contagio emotivo; poi viene la società che si basa sul contratto; seguono la comunità vitale o nazione; la comunità giuridico-culturale come lo Stato, la scuola, i gruppi, le associazioni; infine la comunità d’amore, la Chiesa. Il fondamento di tutti i possibili rapporti intersoggettivi è identificato da Scheler nella simpatia21: quest’ultima infatti permette di conservare l’autonomia della persona e di essere al contempo aperti alla comunicazione e alla comprensione degli altri. In primo luogo è necessario distinguere la simpatia vera propria da altre forme di partecipazione emotiva. Tra queste possiamo includere: il provare immediatamente lo stesso sentimento di un altro, non perché questi ce lo ha comunicato, ma perché abbiamo vissuto entrambi la stessa esperienza (ad esempio madre e padre di fronte alla morte di un figlio); il contagio emotivo, che è un processo involontario che si manifesta nelle agglomera-

21.  Cfr. M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, Cohen, Bonn 1923², ora in Id., Gesammelte Werke, vol. VII, Francke, Bern-München 1975; tr. it. di L. Pusci, Essenza e forme della simpatia, introd. di G. Morra, Città Nuova, Roma 1980.

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zioni gregarie e nelle masse, e si basa sulla diffusione per contatto degli stati emotivi e non presuppone alcuna conoscenza dei sentimenti di gioia o dolore provati dagli altri; l’unipatia (Einsfühlung)22, che consiste nell’unificazione o fusione affettiva del proprio io con quello di un altro soggetto, in maniera inconscia, involontaria e automatica, ne sono esempi i misteri religiosi, l’ipnosi, certi riti totemici e taluni giuochi infantili. Fatte queste distinzioni e sgombrato il campo da possibili incertezze e fraintendimenti Scheler enuncia le «leggi di fondazione della simpatia»23. 1) L’unipatia fonda l’immedesimazione affettiva: vi è un passaggio graduale dall’unione inconscia e automatica, tipica dell’infanzia e dell’uomo primitivo, all’unità consapevole e riflessiva, propria dell’uomo adulto e civilizzato. 2) L’immedesimazione affettiva fonda la simpatia: la simpatia è partecipare all’emozione altrui, ma presuppone che questa adesione sia consapevole, altrimenti si rimane nella sfera del contagio emotivo. 3) La simpatia fonda la filantropia, in quanto l’unità emozionale tra i singoli individui che essa realizza sta alla base del più vasto amore per l’umanità. 4) La filantropia fonda l’amore acosmico delle persone e di Dio: pur essendo l’amore un atto spirituale e quindi superiore

22.  Einfühlung e Einsfühlung sono due termini che Scheler usa assai spesso. Il primo, di chiara derivazione husserliana, si potrebbe rendere in italiano con “entropatia” o “empatia” e designa la percezione dell’altro, intesa come una specie di “immedesimazione”. Il secondo, l’“unipatia” è qualcosa di diverso. Esso designa l’identificazione e la fusione affettiva che si verifica non soltanto negli affetti, ma in tutti quei casi di dipendenza che si stabiliscono tra gli individui, per esempio nel plagio e in certe forme di ipnotismo. 23.  M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 166.

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sia alla simpatia che alla filantropia, queste servono in qualche modo a prepararlo, a predisporne l’arrivo. La simpatia apre l’individuo al rapporto con l’altro e gli permette di raggiungere una condivisione della vita emozionale del prossimo. Si instaura così un rapporto di comprensione dell’alterità che ci consente, tramite la simpatia, di rivivere e risentire gli stessi sentimenti provati da un altro. «Il comprendere è la forma fondamentale, diversa da ogni percepire e niente affatto fondata sul percepire, della partecipazione di un essere che ha l’essenza all’esser-così di un altro spirito, così come l’autoidentificazione e la co-esecuzione è la forma principale della partecipazione alla sua esistenza»24. La profondità della persona è raggiungibile mediante questo tipo di partecipazione basato sulla simpatia e sulla immedesimazione affettiva, ma soltanto l’amore consente la comprensione totale dell’altro. «L’amore è il movimento in cui ogni oggetto concretamente individuale e portatore di valori perviene ai valori superiori possibili per esso e in base alla sua determinazione ideale, ovvero è quel movimento attraverso il quale tale oggetto raggiunge l’essenza del suo valore ideale, del valore che gli è proprio»25. Solo l’amore, dunque, consente la comprensione della persona e si rafforza nel desiderio sempre crescente del bene dell’altro, esaltandone l’autonomia e la diversità. Amare una persona significa non volerla diversa da quella che è, ma amarla per quell’individuum unicum et ineffabile che esso rappresenta. L’amore moralmente valido è quello che amando non fissa lo sguardo sulla persona perché essa ha queste o quelle proprietà ed esplica queste o quelle attività, perché ha questa o quella “dote”, perché è “bella”, ha delle virtù, ma è quell’amore che 24.  Ivi, p. 320. 25.  Ivi, p. 344.

73 coimplica nel suo oggetto quelle proprietà, attività, doti, per il fatto che esse appartengono a questa persona individuale. Soltanto questo, pertanto, è anche amore assoluto, giacché non dipende dal possibile mutamento di queste proprietà, attività.26

Proprio per la sua profondità e radicalità, l’amore raggiunge il suo culmine nel Cristianesimo, dove l’atto d’amore si realizza nella creazione e arriva fino al sacrificio volontario di sé per la salvezza dell’altro. La concezione scheleriana dell’amore permette di superare i limiti che lo psicologismo e il naturalismo avevano imposto al soggetto, considerando questo sentimento come un fenomeno universale e oggettivo, che è nell’uomo in quanto è nel cosmo ed è in Dio. L’amore dell’uomo è solo una particolare variante, a dire il vero una funzione parziale, di questa forza universale che agisce in ogni cosa e per mezzo di ogni cosa. L’amore è sempre, a tale riguardo, dinamicamente un divenire, un crescere, un dilatarsi delle cose verso la loro immagine originaria riposta in Dio. Insomma, ogni fase, che l’amore crea, di questa crescita interiore di valore delle cose, è sempre anche una tappa – seppur ancor lontana dalla meta, ed intermedia – nel cammino del mondo verso Dio.27

4. L’essenza dell’uomo e la sua «posizione nel cosmo» Anche se il tema antropologico diviene primario e prevalente negli ultimi anni della vita di Scheler, tuttavia esso aveva trovato il suo spazio già nello scritto del 1913 Sull’idea dell’uomo (Zur Idee des Menschen). In questo saggio si possono rintracciare molti elementi di continuità tra la prima e l’ultima fase del pensiero scheleriano. È il saggio del 1928 La posizione 26.  Ivi, p. 249. 27.  M. Scheler, Ordo amoris, cit., pp. 355-356; tr. it., p. 118.

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dell’uomo nel cosmo a costituire senz’altro l’opera centrale e più completa a questo riguardo. Si tratta del testo di una conferenza, dal titolo Die Sonderstellung des Menschen, tenuta l’anno precedente a Darmstadt. Esso era nato come la prima stesura di un’opera più vasta, la Philosophische Anthropologie, che Scheler stava ancora elaborando e pensava di poter pubblicare intorno al 1929. La sua morte improvvisa ha impedito che questo progetto andasse in porto e La posizione dell’uomo nel cosmo è rimasta la principale fonte d’informazione sulla sua antropologia filosofica. L’urgenza del tema antropologico nasce come esigenza propria del pensiero contemporaneo, il quale, di fronte ai molteplici dati forniti dalle scienze dell’uomo, trova difficoltà a collegarli per tracciarne un’immagine globale. Solo l’antropologia filosofica è in grado di servirsi dei risultati delle scienze per trascenderli in una concezione unificante. Ed è proprio Max Scheler, nel periodo che va dal 1922 al 1928, quando ormai le varie scienze umane erano abbastanza sviluppate, a compiere il primo significativo tentativo di delineare e chiarire il concetto di uomo attraverso un’interpretazione dei dati scientifici. Il metodo antropologico-filosofico da lui peculiarmente usato affonda le radici in quell’esigenza di concretezza, propria del metodo fenomenologico, che costituisce la matrice della sua formazione filosofica. L’orizzonte di “pre-comprensioni” in cui si muove è segnato da un lato dalla filosofia fenomenologica, e dall’altro da una aspirazione etico-religiosa, che tiene in particolare conto le esigenze spirituali ed esistenziali dell’individuo. Scheler, dunque, ha sentito il bisogno di fondare un’antropologia su basi biologiche, ma attraverso una riflessione filosofica. Questo nuovo tipo di filosofare, che caratterizza la corrente denominata «moderna antropologia filosofica», nasce da due esigenze diverse e tuttavia complementari: una è di tentare una unificazione ed interpretazione dei dati forniti dalla scienza, i

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quali, se restano sul piano scientifico rimangono isolati e privi di connotazione esistenziale; l’altra è l’esigenza di un tipo di riflessione filosofica più corposa che morda veramente la realtà concreta ma, nello stesso tempo, conquisti quel livello definito «metabiologico» e «metaculturale» nel quale sorge spontanea l’interrogazione sul senso e sul valore dell’esistenza e della vita. L’aspetto veramente interessante dell’antropologia scheleriana sta nell’impostazione biologica del problema antropologico e nel fatto che tale impostazione porti in realtà il discorso sul piano «metabiologico». Per Scheler, infatti, l’uomo proprio perché costituito biologicamente con certi caratteri, avverte il loro limite e li mette in discussione fino al punto di rifiutare l’impulso vitale puramente biologico per diventare «l’asceta della vita». Nel suo scritto Die Stellung des Menschen im Kosmos, Scheler ci presenta un denso compendio di tutta la problematica volta a dare «alcuni chiarimenti sull’essenza dell’uomo in rapporto alla pianta e all’animale e sulla sua particolare posizione metafisica»28. La sua indagine mira ad accertare se il «concetto, che attribuisce all’uomo come tale una posizione particolare del tutto differente da quella di qualsiasi altra specie vivente, sia legittimo o meno»29. Di qui la necessità di rivolgersi alle scienze, specialmente alla biologia e alla psicologia, «poiché la posizione particolare dell’uomo può essere chiarita solo esaminando l’intera struttura del mondo biopsichico»30. Dall’esame delle teorie biologiche e psicologiche allora in vigore, Scheler estrapola una visione unitaria e organica del mondo vivente, basata sulla costruzione di una «gerarchia delle energie e delle facoltà psichiche nell’ordine in cui sono state via via

28.  M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 118. 29.  Ivi, p. 119. 30.  Ibidem.

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poste in evidenza dalla scienza»31. Questa interpretazione gli consente di fornirci un’immagine dell’uomo la cui novità non consiste tanto nei contenuti, bensì nel modo in cui è stata ricavata: attraverso un’interpretazione dei risultati delle scienze, tramite una specifica metodologia che individua e fonda l’antropologia filosofica. Nell’esporre la gerarchia delle diverse forme di «energie e facoltà psichiche», Scheler prende l’avvio dal gradino più basso, proprio delle piante, che si manifesta come un «impulso affettivo del tutto privo di coscienza, di sensazione e di rappresentazione»32. Questo «impulso affettivo» si caratterizza soltanto come uno stato di «avvicinamento a…» o di «allontanamento da…» e quindi si risolve in un piacere o in una sofferenza del tutto privi di oggetto33. La pianta non possiede «nessuna sensazione» e «nessuna memoria», ma soltanto «un generico impulso di crescita e riproduzione»34, manifestazione del più generale impulso affettivo. A proposito della pianta, io parlo per l’appunto – sostiene Scheler – di un impulso affettivo extatico per mettere in evidenza la totale mancanza di quella segnalazione degli stati organici a un centro, propria della vita animale, la completa assenza di un ritorno della vita su se stessa, di una ancor primitiva re-flexio, e infine di una sia pur flebile interiorità cosciente.35

31.  Ibidem. 32.  Ivi, p. 120. 33.  Il piacere e la sofferenza, secondo Scheler, sono privi di oggetto in quanto l’impulso affettivo non possiede ancora una specifica direzione e una determinata finalità, ma può manifestarsi solo come moto di allontanamento o avvicinamento, come accade per esempio a una pianta che si rivolge verso la luce. (Cfr. ibidem). 34.  M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 121. 35.  Ivi, p. 122.

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Sarebbe quindi assente nella pianta qualsiasi capacità di comunicazione e la sua esistenza si esaurirebbe nella nutrizione nella crescita, nella riproduzione e nella morte. Nella gerarchia delle forme essenziali della vita psichica, all’impulso affettivo segue l’istinto. Scheler si rende conto dell’ambiguità e indeterminatezza di questo termine e, quindi, precisa di voler seguire, per giungere a una sua definizione adeguata, un metodo che non si basa esclusivamente su concetti psicologici, ma che parte dall’osservazione del comportamento dell’essere vivente (facendo riferimento al metodo behaviorista, che si stava affermando in quegli anni nella psicologia). Il valore del concetto di comportamento – scrive Scheler – consiste appunto nel fatto di essere un concetto indifferente dal punto di vista psicofisico. Il che è quanto dire che ogni comportamento è sempre altresì espressione di stati interni, perché non vi è nulla che appartenga alla interiorità psicologica che non si “esprima” anche nel comportamento in maniera immediata o mediata. Pertanto esso può e anzi deve essere chiarito sempre in duplice maniera, psicologica e fisiologica ad un tempo; per cui è ugualmente errato preferire la spiegazione psicologica a quella fisiologica e viceversa. Il “comportamento” è il campo “intermedio” di osservazione dal quale si deve partire.36

È possibile in tal modo giungere a una definizione e comprensione dell’istinto attraverso il comportamento corrispondente, che presenta le seguenti caratteristiche: deve avere un senso ben preciso, cioè deve essere finalizzato all’utilità dell’individuo che lo compie; deve mantenere un ritmo rigido e costante; deve rivelarsi utile alla specie; deve essere innato ed ereditario, in quanto l’atto istintivo è «una capacità specifica di comportamento» che non deriva da acquisizioni dovute all’abitudine, all’addestramento e all’intelligenza; infine, il comportamento 36.  Ivi, p. 125.

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istintivo deve essere completo sin dall’inizio, anche se suscettibile di specializzazione ad opera dell’esperienza. In conclusione gli istinti non sono atti intelligenti divenuti automatici, ma veri e propri automatismi particolarmente perfezionati, più evidenti in quegli animali che hanno un comportamento istintivo molto rigido e non presentano alcun tratto di comportamento intelligente. Al contrario l’uomo, in cui l’intelligenza e la memoria associativa si rivelano più plastiche e meglio individualizzate, ha «istinti molto più retrogradi»37. Dopo l’istinto, nella scala gerarchica delle energie e facoltà psichiche, Scheler pone in successione due ulteriori modi di comportamento, l’uno «conforme all’abitudine» e l’altro «intelligente»38. Al primo, che riassume in sé i fatti relativi all’associazione delle sensazioni e al riflesso condizionato, dà il nome di memoria associativa. Essa è attribuibile a tutti gli esseri viventi che sono in grado di modificare il loro comportamento in maniera lenta, costante e biologicamente utile. Questa modifica comportamentale si verificherebbe per mezzo di un esercizio basato sul «principio del successo e dell’errore»: l’animale compie spontaneamente dei «movimenti di prova» ed è spinto a ripetere più frequentemente quelli che gli tornano utili; esso acquisterebbe in tal modo un’abitudine qualitativamente diversa dalle precedenti, risultando, per così dire, «addestrato» spontaneamente. Ciò è possibile grazie ad uno sviluppo dei meccanismi nervosi, che permettono di automatizzare certi comportamenti che si sono rivelati utili. In ogni caso, per Scheler è importante sottolineare che l’emergere del principio associativo e della sua attività coincide con il declino della rigidezza istintiva e, quindi, con la crescente emancipazione dell’individuo dalla costrizione 37.  Ivi, p. 130. 38.  Ivi, p. 131.

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degli istinti. In questo senso, l’individuo si affranca dal legame con la specie ed è in grado di adattarsi a situazioni nuove. Occorre tuttavia ricordare che, se la memoria associativa appare come uno strumento di liberazione nei confronti degli istinti, essa si presenta ancora come un principio piuttosto rigido rispetto all’intelligenza pratica. L’emancipazione dall’istinto, la capacità di sottrarsi ad un com­ portamento istintivo presente già negli animali superiori, diventa ancor più evidente nell’uomo, che può addirittura scindere i suoi impulsi dal contesto delle esigenze biologiche. L’impulso sessuale, ad esempio, sciolto dal ritmo istintivo della vita, può trasformarsi in una fonte autonoma di piacere, che trova la sua ragione d’essere in se stesso, soffocando completamente il suo messaggio biologico. Per cui Scheler può concludere che «solamente nell’uomo questa capacità di isolare la tendenza dal comportamento istintivo e di separare il piacere funzionale e il piacere fine a se stesso, acquista le forme più mostruose; tanto che si è potuto a ragione affermare che l’uomo è sempre o superiore o inferiore a un animale ma non può mai essere un animale»39. La quarta forma essenziale della vita psichica è, secondo Scheler, l’intelligenza pratica, la cui caratteristica precipua consiste nella capacità di rispondere a una situazione nuova mai precedentemente sperimentata, di attuare un comportamento inedito, diversamente da quanto consente la memoria associativa che permette solo un comportamento acquisito tramite addestramento. L’intelligenza pratica, dunque, sempre produttiva e mai riproduttiva, si manifesta in circostanze che non solo sono atipiche e nuove per la specie, ma lo sono soprattutto per l’individuo. Il comportamento intelligente si attua all’improvviso ed è indipendente dal numero delle prove ed errori 39.  Ivi, p. 137.

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che lo hanno preceduto. Esso è determinato dalle «reciproche relazioni oggettive» dei vari elementi ambientali percepiti, da cui si origina la nuova rappresentazione che permette di risolvere il problema. Scheler giunge, così, al nodo centrale della sua problematica: può un comportamento intelligente essere attribuito anche agli animali? Le risposte degli scienziati, con riferimento in particolare agli studi sui primati, non sono uniformi; tuttavia Scheler è d’accordo con Köhler40 nel riconoscere che in alcuni casi, come nei ben noti esperimenti di quest’ultimo sulle scimmie antropoidi, ci troviamo di fronte ad atti di vera e propria intelligenza41, anche se si tratta di un’intelligenza legata esclusivamente ai fini pratici dell’organismo. Ma allora, «se bisogna attribuire l’intelligenza anche all’animale, vi è tra questo e l’uomo qualcosa di più che una semplice differenza di grado, vale a dire una differenza di essenza?»42. Il pensiero tradizionale, di fronte a questo problema, ha fornito per Scheler due tipi di risposte entrambi inaccettabili. Il primo tipo riconosce la specificità dell’uomo nell’intelligenza e nella possibilità di scelta, e nega questa facoltà agli animali; il secondo genere di risposte, rappresentato dall’evoluzionismo darwiniano e lamarckiano, sottolinea, al contrario, la continuità tra animale e uomo, negando che fra i due esista una differenza irriducibile, un «salto» qualitativo costituito dall’intelligenza. L’inadeguatezza di queste soluzioni consiste nel fatto che la discussione viene così ad essere imperniata sull’errata questione se sia o meno l’intelligenza, e la conseguente facoltà di scelta,

40.  Cfr. W. Köhler, L’intelligenza nelle scimmie antropoidi, tr. it. di G. Petter, Giunti, Firenze 1968. 41.  M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 140. 42.  Ivi, p. 142.

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quel fattore particolare che caratterizza l’uomo e lo distingue «essenzialmente» dall’animale. Occorre invece cercare la differenza qualitativa in un nuovo principio che si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita”. Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente “uomo”, non è un nuovo stadio della vita – e neppure di una delle sue manifestazioni, la “psiche”, – ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo che come tale non può essere ricondotto alla “evoluzione naturale” della vita; ma semmai, solo al fondamento delle cose stesse: a quello stesso fondamento, dunque, di cui la “vita” non è che una manifestazione.43

Questo nuovo principio è lo «spirito», il quale, nelle sfere finite dell’essere, si manifesta nella «persona». Questa è quel «centro di atti» che si distingue nettamente da tutti gli altri «centri funzionali», o meglio «centri psichici» della vita. La caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella sua capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con la “vita” e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria “intelligenza” ancora sottomessa alla tendenza.44

L’essere umano, dunque, si differenzia nettamente dall’animale, che vive immerso nella realtà concreta e non può rifiutarsi di rispondere agli stimoli che riceve, in quanto può opporre alla realtà un rifiuto. 43.  Ivi, p. 143. 44.  Ivi, p. 144.

82 Paragonato all’animale che dice sempre di sì alla realtà effettiva, anche quando l’aborrisce e fugge, l’uomo è colui che sa dir di no, l’asceta della vita, l’eterno protestatore contro quanto è solo realtà […] l’uomo è l’eterno “Faust”, la bestia cupidissima rerum novarum, mai paga della realtà circostante, sempre avida di infrangere i limiti del suo essere “ora-qui-così”, sempre desiderosa di trascendere la realtà circostante.45

In tal modo l’uomo di Scheler si avvicina a quello della psicoanalisi46, che reprime le proprie tendenze istintive sublimandole in attività spirituali. Infatti, come l’uomo scheleriano, grazie al “no” che è in grado di proferire nei confronti della realtà, può elevarsi verso il mondo ideale dello Spirito, così l’uomo della psicoanalisi, attraverso la sublimazione dei propri impulsi, può dirigere la propria energia libidica verso le più elevate attività di pensiero. Infine, secondo Scheler, l’essere “segnato” da un principio spirituale è per l’uomo condizione e spiegazione dell’idea di Dio. Infatti, nel momento in cui, grazie allo Spirito, l’essere umano riesce ad emanciparsi dal mondo circostante, subito si pone il problema della sua esistenza e di quella del mondo, trovando nell’idea di Dio, come «persona» infinita e perfetta, l’unica soluzione possibile. Attraverso questa rapida e sintetica panoramica del pensiero scheleriano e, in particolare, della sua più importante opera antropologica, La posizione dell’uomo nel cosmo, abbiamo voluto mostrare, al di là dei contenuti, il modo nuovo con cui l’Autore ha cercato una soluzione al problema-uomo. Egli è partito da un presupposto filosofico, di tipo fenomenologico-ontologico, estremamente forte e coattivo; ma da esso non ha dedotto una 45.  Ivi, p. 159. 46. Cfr. R. Padellaro, Itinerario teoretico di Max Scheler, in M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Fabbri, Milano 1970, p. 21.

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determinata immagine dell’uomo, bensì si è rivolto in modo programmatico e sistematico ai risultati delle scienze e ha cercato di ricavare da esse, attraverso un inevitabile filtro filosofico, un’interpretazione dell’essere umano. Il suo interesse si è concentrato sulla biologia (e le sue considerazioni possono essere in molti casi qualificate come etologiche, con una sorprendente anticipazione della moderna disciplina) e sulla psicologia, intesa in senso lato come scienza delle caratteristiche psichiche dell’uomo e dell’animale. Tenendo ben presenti i contributi offerti da queste scienze, Scheler compie un’analisi comparata fra l’animale e l’essere umano, al fine di individuare i tratti tipici di quest’ultimo. Giunge così a riconoscere all’essere umano un elemento peculiare, la possibilità di «dire di no», di «trascendere la realtà», elemento che non può essere ridotto ad altre facoltà comuni anche agli animali; e invoca per giustificarlo un principio “diverso”, un fattore opposto a quello vitale che condivide con tutti gli altri viventi: lo Spirito. Il presupposto filosofico riaffiora quindi nelle conclusioni; l’Autore tedesco ha infatti voluto salvare la specificità umana spostando il discorso su un piano metafisico e riattualizzando quelle che erano le sue presupposizioni di partenza, ossia l’esigenza ontologico-esistenziale e il bisogno di dare un fondamento metafisico all’essenza dell’uomo.

5. Il rapporto uomo-Dio Nelle sue ultime opere Scheler prende in considerazione la presenza di forze irrazionali, che acquistano ai suoi occhi sempre maggiore importanza e giungono a possedere un impeto e un’efficacia, di cui lo spirito sembra ormai privo. Questa consapevolezza dell’influenza e del peso di una realtà irrazionale non indebolisce affatto la precedente convinzione dell’irriducibilità

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dello Spirito, ma porta il nostro Autore a rifiutare a quest’ultimo una caratteristica che finora gli aveva sempre attribuito: l’efficienza, l’attitudine ad essere un principio di realizzazione. Il Geist non ha in se stesso il potere di portare all’esistenza, di attuare le idee e i fini che ha immaginato, ma deve prendere questa capacità dalle forze vitali. Lo Spirito è di per sé stesso impotente e non è in grado di compiersi con i propri mezzi. La forza vitale e irrazionale, su cui Scheler, nella sua analisi dell’uomo e della natura pone, l’accento, è da lui definita come Drang, un impulso irrazionale, una potenza cieca, che si colloca al centro della vita, per quanto elementare essa sia. Questo impulso fondamentale, che viene via via differenziandosi e moltiplicandosi in tendenze sempre più complesse man mano che si passa dal mondo vegetale a quello umano, rappresenta, in un certo qual modo, l’antitesi dello Spirito e del mondo spirituale. È paragonabile al demoniaco goethiano; è una forza temibile, priva d’intelligenza che come il caso gioca con la nostra esistenza, non radicalmente negativa, ma piuttosto indifferente al bene e al male. Dal conflitto tra la razionalità impotente del Geist e la forza cieca del Drang deriva la dottrina scheleriana dell’«impotenza dello spirito». Il Geist è originariamente del tutto privo di potenza, di forza, di attività; e perché possa averne, anche in quantità limitata, è necessario che intervenga l’ascesi, la repressione delle pulsioni istintive e la conseguente sublimazione. Nell’uomo, dunque, non esiste nessuna opposizione ontologica di corpo ed anima, esiste invece un’opposizione di tipo assai più elevato e profondo: quella tra spirito e vita. Ma per quanto siano essenzialmente distinti nella loro essenza, nell’uomo questi due principi sono interdipendenti: lo spirito ideifica la vita, ma solo la vita può rendere attivo ed effettivamente reale lo spirito, a partire dal suo atto più semplice fino

85 alla realizzazione di un’opera a cui attribuiamo un significato spirituale.47

Lo spirito designa nel Formalismo tutto quanto si presenta come atto, intenzionalità, pienezza di senso, ed è per essenza personale; la persona, quindi, si pone come «unica e ontologicamente necessaria forma d’esistenza dello spirito»48. Per l’ultimo Scheler, invece, lo spirito, nella sua forma pura, è totalmente privo di potenza, di forza, di attività. È un attributo dell’essere stesso che si manifesta nella persona umana e, distinguendolo dall’animale, gli permette di distaccarsi dall’ambiente biologico-naturale e di aprirsi al mondo. Il tradizionale problema del rapporto tra corpo e anima si trasforma nel rapporto tra vita e spirito ed è proprio nell’orizzonte antropologico che egli cercherà di risolvere in modo radicalmente nuovo la questione. L’uomo infatti si trova al confine tra lo spirito e la forza vitale, il suo compito consiste nel cercare di far compenetrare queste due dimensioni, cercando di spiritualizzare la vita e di vivificare lo spirito, il quale separato dall’impulso vitale sarebbe di per sé impotente. Scheler, quindi, si propone di realizzare una possibile conciliazione attraverso la cooperazione di entrambe le forze. Sebbene questi due elementi Geist e Drang siano essenzialmente distinti, nell’uomo divengono interdipendenti: se lo Spirito giunge a comprendere gli eventi, a trasformare un comportamento individuale o collettivo, a inserirsi nel divenire storico, non è mai dovuto soltanto alle idee pure, ma alla loro associazione con gli elementi pulsionali come le tendenze, le passioni e gli interessi. Possiamo paragonare il Geist a un paralitico e il 47.  M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma 20063, p. 180. 48.  M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 481 (389).

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Drang ad un cieco, solo insieme possono trovare la strada verso una spiritualità potente e verso una vitalità illuminata, a patto naturalmente che il cieco si prenda sulle spalle il paralitico e insieme compensino le loro carenze. La distinzione tra Spirito e Impulso ricalca l’analoga dicotomia tra un mondo spirituale, regno di verità eterne, idee e valori assoluti e un mondo reale, di natura dinamica, derivante da un impulso irrazionale e indeterminato. La sfera spirituale è sprovvista d’efficacia ed ogni energia appartiene, invece, al principio che crea la realtà, all’impulso fondamentale: le forze che qui agiscono sono tutte cieche, chiuse a ciò che è idea, forma e significato. L’antitesi tra realtà e spirito rende difficilmente comprensibile la formazione del mondo concreto. Infatti la realtà non è mai colta nell’esperienza ordinaria allo stato puro, cioè come un caos, ma è organizzata in un cosmo, in quanto la forza che agisce viene disciplinata e specificata dall’essenza. Così si costituisce l’«essente», di cui fanno parte un impulso primordiale e un’essenza. Ma come raggiungere questa sintesi? Come dare un senso alla realtà e permettere all’essenza di realizzarsi se lo spirito è privo di ogni energia e l’impulso è estraneo ad ogni contenuto ideale? A questa domanda Scheler tenta di rispondere, anche se a volte in modo un po’ ambiguo, nell’ambito della filosofia della storia, alla quale affida il compito di esprimere concettualmente le modalità di cooperazione tra lo spirito e la vita. Si tratta di scoprire una legge relativa all’efficacia dei fattoriideali e dei fattori-reali, legge in virtù della quale si realizza la vita dei gruppi sociali. I fattori ideali sono costituiti dal mondo delle essenze e dei valori, mentre i fattori reali, che si ricollegano all’impulso fondamentale, al Drang, sono rappresentati da tre tendenze: 1) la tendenza alla riproduzione, 2) la tendenza alla crescita e al potere, 3) la tendenza alla nutrizione. Queste tre tendenze fanno

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parte dell’essenza dell’uomo e sono presenti e determinanti in ogni momento della sua storia. La legge della collaborazione tra i fattori ideali e quelli reali deve essere concepita in funzione del dualismo fenomenologico e ontologico, sostenuto da Scheler e può essere così formulata: tutto ciò che, tra le essenze ideali, diviene reale, cioè accede all’esistenza storica concreta, deve questa esistenza all’opera degli impulsi fondamentali. In altri termini le idee acquisteranno potere e possibilità d’azione solo quando si uniranno a interessi, a pulsioni, a forze collettive. Così, quando una realtà spirituale (una religione, una corrente artistica) prende consistenza e si diffonde nel mondo e tra le masse, essa, in qualche modo, si degrada: è questa una legge inevitabile di qualsiasi attualizzazione umana di valori e significati. Inversamente più lo spirito è puro, più è impotente nel senso dell’azione efficace nella società e nella storia. Applicando alla filosofia della storia la sua concezione dualista dello spirito impotente e dello slancio vitale cieco, Scheler cerca di riavvicinare le interpretazioni idealiste e materialiste, conservando certi aspetti delle une e delle altre. Tra Geist e Drang si stabilisce così un rapporto ambiguo fatto di antitesi, ma anche di complementarità tra quei due termini che all’inizio sembravano antitetici. Ci siamo trovati così di fronte ad una crescita dell’idea di «impotenza dello spirito» e dell’importanza data da Scheler al peso delle forze istintive nella sua concezione del mondo e dell’uomo. Scheler proietta questa tensione tra spirito e impulso fin nel principio primo del mondo e giunge così ad abbandonare il suo originario teismo e a dare un’interpretazione dei rapporti tra Dio e l’uomo, che si pone in contrasto con la sua precedente filosofia della religione. Il rifiuto del teismo è infatti un altro degli elementi dominanti nel pensiero dell’ultimo Scheler. Certamente il concetto Essere assoluto rimane valido e la sua esistenza è confermata. Ma

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pur designandolo ancora come “Dio”, il nostro Autore non gli attribuisce più tutte quelle caratteristiche che da sole giustificavano l’uso del suddetto termine: l’essere assoluto non è più puro spirito, non è più persona, ha perso la sua onnipotenza e la perfezione assoluta. Lo spirito è ancora uno dei suoi attributi, ma, in Dio come nell’uomo, esso è impotente; anche l’idea di creazione è ormai superata. D’altra parte dobbiamo anche definire l’Assoluto come un Drang irrazionale, come la forza cieca che sta alla base del­ l’esistenza e che si dispiega con esuberanza nella natura inorganica e nella vita. La tensione tra spirito e impulso non si trova quindi soltanto nel mondo e nell’uomo, ma anche nell’essere assoluto. Non può esserci in Dio quella «pace perfetta» che non si riscontra neppure nell’uomo e nel mondo. L’auto­ realizzazione della divinità, dunque, non può giungere a compimento senza la storia del mondo, senza la storia dell’uomo. Il Dio è necessariamente un Dio che «si fa», che «diviene», non un Essere perfetto ed autosufficiente nella sua infinita trascendenza e neanche un creatore che ha dato vita al mondo soltanto «per la sua gloria». Al posto del Dio personale e creatore subentra un impersonale Weltgrund, che ha in sé la «tensione primordiale» dello spirito e dell’impulso, i quali devono cercare di raggiungere «una reciproca penetrazione» in quella «violenta tempesta che è il mondo» per conseguire così «la progressiva ideazione e spiritualizzazione delle forze oscure celate dietro le immagini delle cose e il simultaneo potenziamento vivificatore dello spirito»49. Il rapporto uomo-Dio si trasforma da una relazione tra creatore e creatura, in una collaborazione e in una reciproca cooperazione.

49.  M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 172.

89 Il principio delle cose, per realizzare la sua deitas, la propria pienezza di idee e di valori, per realizzare se stesso nel corso temporale del processo cosmico dovrebbe liberare l’impulso creatore del mondo; dovrebbe per così dire far suo tale processo con il quale e mediante il quale giunge nel tempo alla realizzazione della propria essenza. E l’“Essere-per-sé” potrà chiamarsi esistenza divina solo nella misura in cui realizzerà nell’impulso della storia universale, la deitas eterna nell’uomo e attraverso l’uomo.50

Questa ultima posizione di Scheler, che mette in luce una diversa concezione della divinità e del suo rapporto con l’uomo, è stata etichettata come un umanismo ateo, un pancosmismo o come un panteismo. Ma fra tutte queste definizioni la più centrata sembra quella di Maurice Dupuy che parla di «panenteismo evoluzionistico», intendendo che vi è in tutto il cosmo, compresa la divinità, una spinta ad evolversi, a realizzarsi e che l’uomo contribuisce a tale divenire e sviluppo. Sarebbe, quindi, possibile designare esattamente la posizione scheleriana soltanto con «un termine che evocasse, nello stesso tempo, una trascendenza di Dio nei confronti del mondo e un’azione divina all’interno del mondo per mezzo della quale l’essere-per-sé conquista a poco a poco una perfezione che la sua aseità non gli conferisce direttamente: forse l’espressione “panenteismo evoluzionistico” indicherebbe al meglio questa idea complessa e non esente da ambiguità»51. Nel lungo percorso dell’evoluzione universale la vita umana è appena una breve meteora e, tuttavia, soltanto l’uomo può contribuire alla determinazione e al progresso della divinità stessa. Ancora una volta, quindi, Scheler sottolinea l’importanza dell’uomo il cui compito, come evidenzia nel suo ultimo 50.  Ibidem. 51.  M. Dupuy, La philosophie de Max Scheler, Presses Universitaires de France, Paris 1959, vol. II, p. 699.

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scritto Philosophische Weltanschauung, pubblicato pochi giorni prima della morte, è di compiersi, realizzando al contempo anche Dio. Di nuovo riaffiora quel conflitto fondamentale che nel­l’etica aveva contrapposto ragione ed emozione e nell’antropologia contrappone Geist e Drang, spirito e vita. Mentre il primo Scheler aveva assolutizzato i valori, contenuti all’interno dell’intuizione emozionale, imponendoli all’uomo e alla storia, nelle sue ultime riflessioni colloca accanto al mondo ideale dello spirito quello della realtà emozionale ed esistenziale. La possibilità della sintesi è riposta nell’uomo, dato che ogni suo atto è al contempo spirituale e istintuale. Ma come raggiungere questa sintesi? Come dare un senso alla realtà e permettere all’essenza di realizzarsi se lo spirito è privo di ogni energia e l’impulso è estraneo ad ogni contenuto ideale? A questa domanda Scheler tenta di rispondere con la speranza in un’ultima armonia che riporti all’equilibrio la dicotomia del conflitto fondamentale. Egli ripone dunque una speranza di liberazione e di salvezza in una trasformazione spirituale di portata etica e metafisica. Ecco perché pose tante aspettative nella fenomenologia e soprattutto attribuì ad essa il ruolo di «rinnovamento della figura del cuore umano», vide in essa una promessa di liberazione.

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Capitolo III Arnold Gehlen e l’uomo «progetto della natura»

1. Cenni biografici Arnold Gehlen nacque il 29 gennaio 1904 a Lipsia, dove il padre Max faceva l’editore. Frequentò la scuola secondaria della sua città e poi si iscrisse alla facoltà di Filosofia, seguendo anche corsi di letteratura, storia dell’arte, fisica e zoologia. Dopo un semestre trascorso a Colonia, frequentando le lezioni di Max Scheler e di Nicolai Hartmann, nel 1927 si laureò con una tesi sul pensiero del suo maestro Hans Driesch e nel 1930 ottenne la libera docenza con un saggio intitolato Wirklicher und unwirklicher Geist (Spirito reale e spirito irreale). Nel 1933 è chiamato a Francoforte sulla cattedra di Paul Tillich, destituito dai nazionalsocialisti. Poco dopo, nel novembre del 1934, divenne professore ordinario di filosofia a Lipsia, succedendo a Driesch, costretto al pensionamento anticipato con l’accusa di «pacifismo». Nel 1938 si trasferì a Königsberg sulla cattedra di filosofia che era appartenuta a Kant. Nel 1940 si spostò all’Università di Vienna, dove ha insegnato fino alla fine della guerra, quando, come tutti i docenti «tedeschi del Reich» in Austria, venne privato della cattedra. Molto difficili e controversi sono stati infatti i suoi rapporti con il nazismo; se all’inizio della sua carriera accademica sembrava

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esserci un certo legame con il partito al potere, fin dai primi anni ’40 emersero tensioni con la classe politica, in particolare per quanto riguardava l’organizzazione della Società filosofica tedesca, di cui Gehlen divenne presidente nel 1942. L’allontanamento si fece ancora più evidente a causa dell’accoglienza, particolarmente fredda e distaccata riservata alla sua opera antropologica fondamentale: L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo. Come ricorda il suo allievo e curatore delle sue opere Karl-Siegbert Rehberg «il libro, anche nella sua prima edizione e nonostante diverse allusioni alla Weltanschauung del nazionalsocialismo, era un libro rigorosamente non razzista»1. Inoltre, come ha messo in luce il filosofo Wolfgang Harich, la polemica sostenuta da Gehlen contro ogni forma di biologismo era assolutamente l’opposto dell’ideologia su cui si fondava il presunto predominio della razza ariana. Il modello dell’uomo gehleniano appariva ad Harich incontaminato da ideologie razziste ed etnocentriche2. Questi due pensatori fuori dagli schemi erano uniti nel sostenere le istituzioni contro l’arbitrarietà di un liberalismo basato sul consumismo. Ascesi e coscienza del dovere rappresentavano per entrambi l’antidoto contro una società consumista ed edonista. Nonostante il lungo rapporto epistolare tra i due, le loro posizioni a livello sia filosofico che politico rimangono molto lontane, tuttavia la prima edizione italiana dell’Uomo del 1983 fu voluta da Inge Feltrinelli su sollecitazione proprio di Wolfgang Harich. 1.  K.-S. Rehberg, L’“antropologia elementare” di Arnold Gehlen, cit., pp. 24-25. 2.  «Nella sua opera principale (Gehlen) ha demolito tutti i presupposti teorici del nazismo. La sua onestà e integrità scientifica fecero di lui, nel suo stesso ambiente politico, uno scomodo e ispido anticonformista. L’opera è in ogni caso indirizzata contro ogni forma di biologismo, in quanto l’uomo non vi figura assolutamente in quanto essere istintuale, e anche la bestia bionda, in auge a quel tempo, fu con ciò messa in causa fin nelle sue fondamenta» (intervista rilasciata da Wolfgang Harich al «Frankfurter Rundschau» il 21-02-1976.).

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Nel 1947, dopo la fine della guerra, è nominato professore ordinario di sociologia alla Scuola superiore di scienze amministrative di Spira. In diverse università tedesche, come Gottinga, Heidelberg e Tubinga, si pose il problema di chiamare Gehlen a una cattedra di filosofia o di sociologia, ma questioni di opportunità politica misero a tacere il progetto. Dal 1961 al pensionamento, avvenuto nel 1969, ha insegnato sociologia alla Technische Hochschule di Aquisgrana, divenendo anche membro della Akademie der Wissenschaften di Vienna e dell’Institut International de Sociologie di Roma. Arnold Gehlen è morto ad Amburgo il 30 gennaio 1976.

2. L’uomo come «progetto particolare» della natura Come molti filosofi della sua generazione, Gehlen avverte in maniera molto intensa la “caduta” dell’immagine e del valore dell’uomo, la “perdita” della sua identità in seguito all’espansione della civiltà tecnologico-industriale di massa e ai risultati raggiunti dalle ricerche biologiche e psicologiche. Da un lato, infatti, gli sviluppi della teoria dell’evoluzione avevano finito per collegare strettamente l’uomo all’animale, considerandolo discendente diretto delle scimmie antropoidi; dall’altro la teoria psicoanalitica aveva finito per fondare la sua coscienza su una primaria pulsione di natura sessuale, ritenuta alla base anche delle prestazioni più nobili ed elevate. Di fronte a tale clima, a tale humus culturale e sociale, Gehlen intende reagire e ristabilire le distanze tra gli animali e l’uomo, interpretando quest’ultimo come un essere speciale, peculiare, unico, che non può essere ricondotto, per gli aspetti essenziali, agli altri mammiferi. Nel percorrere questa via, però, non vuole seguire le orme di Scheler, che aveva compiuto un “salto metafisico”, facendo derivare la peculiarità dell’essere umano

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dalla presenza di una “scintilla divina”. Seguendo l’orientamento della Lebensphilosophie, invece, preferisce considerare l’uomo figlio della natura, anche se un figlio speciale, un «progetto particolare»3: un essere capace di prestazioni incomparabili e stupefacenti, a cui nessun animale potrebbe mai avvicinarsi. Questo è il punto di partenza di Gehlen, ma anche il suo punto di arrivo; è la sua intuizione filosofica di base che egli cercherà di dimostrare attraverso un’attenta e articolata analisi dei risultati conseguiti dalle scienze biologiche, psicologiche e sociali. L’idea di un posto peculiare dell’uomo nella natura, diverso da quello di tutti gli altri organismi viventi, costituisce il punto di partenza dell’antropologia «elementare» di Gehlen: elementare perché muove dagli aspetti più semplici dell’essere umano, cioè da quei fattori che più lo avvicinano all’animale. Ma da questo primo gradino, l’indagine si estende poi verso “latitudini straordinarie”, ossia verso quelle attività precipuamente ed esclusivamente umane, come il linguaggio, l’immaginazione, la volontà, la conoscenza, la morale, che differenziano nettamente l’uomo dall’animale e che implicano, anche a livello evolutivo, l’ipotesi di un salto. Infatti l’uomo, per Gehlen, non solo occupa un posto privilegiato nel mondo, ma è egli stesso il prodotto di un «progetto particolare» della natura, non può essere considerato semplicemente come l’ultimo anello di un unico processo evolutivo che accomuna tutti gli esseri viventi, ma deve essere interpretato come il risultato di un progetto separato, di una qualche linea evolutiva distinta da quella degli animali. Quindi, se da un lato l’uomo si differenzia nettamente dagli altri viventi, non è semplicemente una scimmia particolarmente evoluta, dall’altro lato tale distinzione non trova il suo fondamento in un principio ontologicamente differente. Ponendosi in contrasto con l’antropologia scheleriana, Gehlen rifiuta la 3.  Cfr. M.T. Pansera, L’uomo progetto della natura, cit.

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concezione del vivente «a gradi»4, secondo la quale l’uomo ha in comune con tutto il mondo animale i primi gradini della vita psichica, comprendenti gli impulsi affettivi, gli istinti, la memoria associativa, l’intelligenza pratica, ma si differenzia per un principio spirituale che caratterizza l’umana capacità di ragionamento e di astrazione. Mentre l’uomo scheleriano, grazie al «no» che è in grado di affermare nei confronti della pressione degli istinti e dell’ambiente circostante, può elevarsi verso il mondo ideale dello Spirito e riconoscere, così, in sé la presenza di quella scintilla divina che lo rende unico e irripetibile, l’uomo gehleniano, invece, pur accogliendo tutti i tratti della specificità umana, dal «dire di no» alla capacità linguistica, dall’andatura eretta fino alla morale, rifiuta l’intervento di qualsiasi principio spirituale e riconduce tutte le funzioni umane, sia corporee che spirituali, ad un’unità strutturale in cui esse sono globalmente iscritte. Non ci si deve lasciar indurre – sostiene Gehlen – alla supposizione che l’uomo sia solo gradualmente diverso dall’animale, oppure a definirlo in base al solo “spirito”, e dunque, per lo più, nel senso di una caratteristica essenziale concepita in opposizione alla natura. L’antropologia conquista fondamentalmente il campo suo proprio soltanto se si lascia alle spalle siffatti pregiudizi; essa deve tener fermo a una legge strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratteristiche umane, e va compresa muovendo dal progetto posto in essere dalla natura di un essere che agisce.5

Quindi nell’ambito della costituzione bio-morfologica specifica di quell’unico e globale «progetto della natura» che è l’uomo, vengono iscritte tutte le capacità precipuamente umane, senza ricorrere né alla concezione evoluzionistica dell’affinamento e 4.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., cap. II: Rifiuto dello schema graduale, pp. 47-58. 5.  Ivi, p. 55.

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del potenziamento di qualità già esistenti nel mondo animale, né all’introduzione di un principio spirituale che “informerebbe” di sé l’uomo e lo renderebbe capace di prestazioni intellettuali di livello superiore. L’uomo rappresenta un’eccezione, ma sempre nell’ambito esclusivamente naturale. Infatti, pur essendo «carente di strumenti», privo cioè di armi di offesa e di difesa, e assolutamente «non definito», in contrasto con gli animali assai più specializzati e determinati da forti pressioni istintive, si è tuttavia diffuso su tutta la Terra e ha assoggettato, in misura sempre crescente, la natura alle sue esigenze. L’uomo, come essere agente, riesce, quindi, a crearsi una seconda natura, un mondo artificiale in cui sopravvivere agevolmente pur con una «difettosa dotazione organica». «Egli vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, manufatta e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può anche dire che egli è biologicamente condannato al dominio della natura»6.

3. L’essere carente e il principio dell’esonero Considerato dal punto di vista morfologico all’interno del mondo animale, l’uomo rappresenta, per così dire, un «problema biologico particolare». Egli, infatti, è privo di strumenti e armi naturali, è sprovvisto di rivestimento pilifero, manca di istinti altamente specializzati: è, in definitiva, un essere organicamente «carente». Dal punto di vista morfologico – a differenza di tutti i mammiferi superiori – l’uomo è determinato in linea fondamentale 6.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, tr. it. di. S. Cremaschi, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 68-69.

97 da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo. Manca in lui il rivestimento pilifero e pertanto la protezione naturale dalle intemperie; egli è privo di organi difensivi naturali, ma anche di una struttura somatica atta alla fuga; quanto a acutezza di sensi è superato dalla maggior parte degli animali e, in una misura che è addirittura un pericolo per la vita, difetta di istinti autentici; durante la primissima infanzia e l’intera infanzia ha necessità di protezione per un tempo incomparabilmente protratto. In altre parole: in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo a animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra.7

L’essere umano risulta, quindi, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione organico-istintuale è «primitiva», «incompiuta», «non specializzata». Inoltre, poiché non dispone di meccanismi selettivi che entrano automaticamente in funzione a secondo delle circostanze, è esposto ad una «profusione di stimoli» che lo sommerge in una «tempesta emotiva» non facilmente disciplinabile e regolabile con un comportamento consequenzialmente adeguato. Ma a questa concezione dell’uomo come essere carente, che ce lo presenta in maniera negativa come «un errore della natura» o come «la negazione della finalità naturale», segue il riconoscimento positivo che, nonostante tutte le sue carenze, primitivismi e inadeguatezze, l’uomo è riuscito a sopravvivere, adattandosi all’ambiente: privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente. Ricollegandosi al concetto di «apertura al mondo», usato da Scheler per designare uno dei tratti tipici dell’essere umano,

7.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 60.

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Gehlen caratterizza l’uomo come colui che non ha un «ambiente», ma ha il «mondo»8. Essendo, infatti, privo di organi specializzati, non è legato ad un determinato habitat, ma può sopravvivere nelle più diverse condizioni grazie alla «sua attività previsionale, pianificata e collettiva, che gli permette di preparare tecniche e mezzi della sua esistenza attraverso una trasformazione attiva e previsionale di ogni genere di costellazione di condizioni naturali»9. Quindi «l’uomo non vive in un rapporto di adattamento organico o istintivo a queste o a quelle condizioni esterne determinate» ma compie «un’attività intelligente e pianificante, che gli consente di ricavare, da ogni e qualsiasi costellazione di condizioni naturali, modificandole, delle tecniche e degli strumenti per la sua esistenza. Perciò lo vediamo vivere “dappertutto”, a differenza di tutti gli animali specializzati, i cui habitat sono geograficamente ben circoscritti»10. L’uomo si pone in tal modo come un «novello Prometeo»11, in quanto dotato di intraprendenza e spirito di iniziativa, grazie ai quali è riuscito a compensare le sue carenze organiche e a sopravvivere in ogni tipo di ambiente. In definitiva, è stato in grado di dominare la natura in virtù della sua attività creatrice di cultura, della sua capacità di costruirsi un ambiente artificiale. Anche Herder12 aveva sottolineato la sprovvedutezza biologica dell’uomo ed era stato il primo a coglierne l’aspetto prome-

8.  Ivi, p. 108. 9.  A. Gehlen, Un’immagine dell’uomo, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, ed. it. a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1990, p. 87. 10.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 108. 11.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 65. 12.  Cfr. J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit.; Id., Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di G. Necco, SES, Roma-Mazara del Vallo, 1954.

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teico, così che quello che poteva apparire come l’essere più debole risultava in realtà l’unico capace di dominare la natura. Il merito di Herder non sta solo nell’aver messo in luce sia le lacune e le manchevolezze biologiche dell’uomo, sia il suo non essere legato ad un ambiente determinato, ovvero la sua «apertura al mondo», ma anche quello di aver posto il conseguente problema del «risarcimento». L’uomo è in grado di compensare la sua carenza biologica per mezzo della sua capacità razionale. Il linguaggio, la ragione, la riflessione, in sostanza tutta la sua attività creatrice di cultura, costituiscono il «risarcimento» per la sua iniziale deficienza fisiologica e gli permettono di superarla tanto ampiamente da divenire l’unico essere in grado di dominare la natura, piegandola alle sue esigenze. Nell’affrontare questa complessa attività che lo vede impegnato con tutte le sue risorse, l’uomo dispone di un processo adattativo che si fonda su un particolare ed efficace meccanismo: l’«esonero». Alla concezione dell’uomo come essere carente si collega, dunque, quella del necessario alleggerimento ed esonero dell’azione umana dagli «oneri» che le derivano dalla sua costituzione «aperta al mondo», dall’essere potenzialmente disponibile a una grande varietà di risposte. Di fronte al bombardamento degli stimoli, l’uomo ha la capacità di «prendere le distanze» da essi, di non reagire con quei comportamenti istintivi, immediati e automatici, propri degli animali; ed è questo allontanamento dal proprio ambiente fisico, che gli consente, grazie alla sua «plasticità»13, intesa come possibilità di dare risposte multiformi e polivalenti, di progettare e orientare l’azione, di fornire prestazioni motorie, sensoriali e intellettive adatte allo scopo. L’uomo ha bisogno di affrancarsi dalla massa 13.  «Plasticità significa: da un ventaglio non ancora operante di possibilità occorre far risaltare, mediante l’autoattività nel maneggio delle cose, una scelta e costruire un variabile ordine di conduzione» (A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit. p. 200).

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di stimoli inadatti e non selezionati che pretenderebbero di sommergerlo, per crearsi un proprio mondo percettivo e un conseguente progetto motorio: è necessario, quindi, che tra l’uomo e il mondo si stabilisca una distanza sempre più ampia. La ricca e multiforme costellazione di risposte adattative, cioè, in ultima analisi, la creazione di un ambiente culturale, dipende dalla capacità dell’uomo di servirsi del «principio dell’esonero», ovvero di instaurare abitudini comportamentali che esonerino dal fare continuamente e ripetutamente tutte le scelte di risposta agli stimoli e, di conseguenza, liberino energie per prestazioni superiori. Tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ma anche in quello dell’affinamento motorio e operativo, sono pertanto sviluppate grazie al fatto che il costituirsi di stabili e basilari abitudini di fondo esonera l’energia in esse originariamente impiegata per le motivazioni, i tentativi, il controllo, liberandola per prestazioni di specie superiore.14

La condotta umana è particolarmente varia e polivalente, ha un elevato grado di potenzialità, è un puro «saper fare», una mera «allusione». Allora, quanto più la sfera rappresentativa si ampia e si dilata, tanto più è necessario rendere abituale una parte del comportamento, in modo da liberare la vita quotidiana da una molteplicità di sovraccarichi emotivi, mnestici, gestuali e riflessivi. In questo senso esonero significa che la costituzione di un centro di gravità nel comportamento umano compete sempre più alle funzioni “superiori”, a quelle cioè che meno richiedono fatica e che soltanto alludono; dunque alle funzioni coscienti o spirituali. Ne viene che questo concetto è addirittura un concetto chiave dell’antropologia: esso ci insegna a vedere le

14.  Ivi, p. 93.

101 massime prestazioni dell’uomo nella connessione con la sua natura fisica e con le condizioni elementari della sua vita.15

Il processo di esonero è posto, da Gehlen, a fondamento di tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ed inoltre ci aiuta a comprendere come tutte le prestazioni umane, anche quelle di grado superiore, abbiano una radice collegata con la struttura biologica dell’uomo. Tale processo è considerato presente e quindi analizzato a diversi livelli: a livello motorio, con la formazione dei riflessi condizionati; a livello percettivo, con la fissazione di «abitudini» nel vedere, nel toccare, nell’ascoltare, ecc.; a livello della comunicazione e del linguaggio, con lo stabilirsi di simboli, di parole che «alludono» a un’esperienza percettiva, che «sostituiscono» un oggetto reale; a livello del pensiero, con l’instaurarsi di una concatenazione di concetti, di rappresentazioni abituali. In tutti questi casi si realizza un processo che fa risparmiare energie, che non obbliga a ripetere ogni volta delle scelte, che consente di «distanziarsi» dal flusso copioso e ininterrotto di stimoli sensoriali e di pulsioni interne. Di fronte alla pressione degli istinti e dell’ambiente, dunque, l’uomo mette in atto, aiutato dal meccanismo dell’esonero, un comportamento adeguato, scelto fra tanti e finalizzato alla sua sopravvivenza16. Il concetto di esonero viene da Gehlen riproposto nell’esame di ciascun sistema percettivo-motorio (tattile, ottico, fonatorio, acustico) e poi nell’analisi del linguaggio e del pensiero rappresentativo. Ed esso appare come un concetto chiave, come un meccanismo peculiare dell’essere umano, che gli consente, attraverso la liberazione dalla pressione immediata degli stimoli, di costruire il suo mondo e di elevarsi verso quelle funzioni

15.  Ivi, p. 92. 16.  Ivi, pp. 89-90.

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simboliche di carattere puramente allusivo, dotate di un alto grado di astrazione.

4. La «non-specializzazione» e la teoria dell’evoluzione Nel prendere in esame l’uomo così come appare ad una prima analisi, Gehlen individua quella che, a suo avviso è la peculiarità che lo caratterizza e differenzia da tutti gli altri esseri viventi: la mancanza di organi altamente specializzati, cioè particolarmente adatti ad un determinato tipo di compito e di ambiente. Secondo le linee di tendenza proprie dell’evoluzione naturale, tutti gli organismi viventi dovrebbero raggiungere sempre più sofisticati livelli di specializzazione organica per utilizzare al meglio le possibilità dell’ambiente in cui si trovano a vivere e al quale cercano di adattarsi. Sia le vette dei monti più alti che gli abissi dei mari più profondi, sia il sottobosco delle foreste tropicali che i licheni delle gelide tundre, sono diventati l’ambiente adatto per quegli animali che si sono specializzati a vivere in esso. L’uomo invece, dal punto di vista morfologico, si può dire non abbia specializzazioni. Egli consta di una serie di non specializzazioni che sotto il profilo dell’evoluzione biologica appaiono primitivismi: la sua dentatura, ad esempio, ha una continuità primitiva e un’indeterminatezza di struttura che non le consente di essere né una dentatura da erbivoro, né una dentatura da carnivoro, cioè da animale predatore. Rispetto alle grandi scimmie, che sono arboricoli ad alta specializzazione dotati di braccia ipersviluppate atte all’arrampicata, di piedi prensili, di vello e di possenti canini, l’uomo è, in quanto essere naturale irrimediabilmente inadeguato. Egli è di una sprovvedutezza biologica unica, e si rivale di queste carenze soltanto grazie alla sua capacità di lavoro ovvero alle sue doti per l’azione, grazie cioè alle mani e all’intelligenza;

103 proprio per questo, egli è eretto, “circospetto osservatore”, con le mani libere.17

«Primitive», «non specializzate», «originarie»: con questi termini, dunque, Gehlen definisce le caratteristiche organiche dell’uomo, che lo individuano dal punto di vista biologico e lo fanno apparire un passo indietro rispetto alle scimmie antropoidi. Mentre, per specializzazione, egli intende l’affinamento di talune funzioni legate a determinati organi, che così si rafforzano e si strutturano meglio, parallelamente considera come involuzione la inutilità e non produttività di altri organi, con la conseguente e definitiva perdita delle funzioni ad essi collegate. Le specializzazioni raggiunte divengono poi irreversibili e costituiscono la meta evolutiva comune a tutti gli individui di un certo gruppo. Per esempio, tutte le scimmie antropoidi, scimpanzé orango, gorilla, gibbone, raggiungono lo stesso livello evolutivo di specializzazione. L’uomo, invece, pur sembrando appartenere allo stesso gruppo tassonomico, è caratterizzato da organi non specializzati, ancora embrionali o di tipo arcaico. Sorge così il problema di come sia possibile, o meglio se sia ancora concepibile, collegare la tesi della non specializzazione dell’uomo con le teorie evoluzionistiche. In ogni tipo di considerazione che, direttamente e senza avanzare alcuna ipotesi supplementare in rapporto a questa questione, derivi l’uomo da un animale, ci si trova di fronte a una difficoltà insormontabile per quanto concerne la spiccata nonspecializzazione degli organi umani: alla difficoltà per cui si dovrebbero far derivare stadi primitivi da stadi progressivi. Le grandi scimmie, che in primo luogo entrano in discussione per una derivazione siffatta, hanno una specializzazione di grado addirittura straordinario. È questa la difficoltà fondamentale della teoria evoluzionistica quando si applica all’uomo, non

17.  Ivi, p. 60.

104 essendovi, d’altra parte, alcun dubbio sulla parentela assai prossima di uomo e scimmia.18

Ci troviamo, dunque, di fronte a una sorta di contraddizione: da un lato, non possiamo disconoscere la stretta parentela tra l’uomo e le scimmie antropoidi; dall’altro, non possiamo interpretare questa parentela come una “derivazione” dell’uomo dalla scimmia, poiché la non-specializzazione dei suoi organi ci impedisce di porlo su un gradino più evoluto della stessa linea filogenetica. La soluzione adottata da Gehlen per superare questa apparente antinomia si discosta dalla teoria evoluzionistica “classica”. Il nostro autore suppone infatti che, a un certo stadio dell’evoluzione della specie, si siano diramati due tronconi indipendenti: uno che porta alle scimmie antropoidi seguendo la legge della specializzazione degli organi e delle funzioni in relazione alle condizioni ambientali; l’altro che conduce direttamente all’uomo attraverso una via che conserva il carattere «primitivo», «arcaico», non-specializzato degli organi e delle funzioni, ma che sviluppa enormemente le facoltà psichiche e finisce in tal modo per consentire ugualmente un adattamento all’ambiente, o meglio a molteplici ambienti. Questa ipotesi gli permette sia di ribadire una certa parentela tra le scimmie antropoidi e l’uomo, sia di differenziarlo nettamente da esse, di non considerarlo un loro discendente e di riservargli uno «speciale» posto nel mondo, come a una creatura unica e incomparabile rispetto a tutte le altre19. Nel confutare la tesi classica della teoria darwiniana Gehlen cerca di appoggiarsi alle teorie di alcuni biologi del suo tempo20 e, in particolare, nel rifiutare la teoria che fa derivare l’uomo da una scimmia antropoide adduce diverse motivazioni. 18.  Ivi, p. 116. 19.  Ivi, pp. 116-117. 20.  Cfr. L. Bolk, Ontologische Studien, 3 voll., Asher, Amsterdam 1919; Id., Die Entstehung des Menschenkinnes. Ein Beitrag zur Entwicklungs-

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In primo luogo, l’uomo con la sua scarsa dotazione di organi specializzati e di automatismi funzionali contraddice la tendenza classica dell’evoluzione a «creare» sempre maggiore specializzazione. La caratteristica dell’uomo è la «plasticità», la flessibilità, la capacità di assumere comportamenti differenziati secondo le circostanze. L’organo proprio della plasticità è il cervello; vi sarebbe cioè una corrispondenza tra un cervello, strutturato per organi non specializzati, e organi «arcaici», adatti a un cervello con circuiti neuronici «aperti». La selezione naturale, invece, spingerebbe a organizzazioni neuroniche rigide per risposte comportamentali determinate. In secondo luogo, per confermare la teoria classica dell’evoluzione sarebbe necessario trovare un «anello intermedio» tra l’uomo e la scimmia, ossia un essere dotato di caratteristiche sia umane che animali. Appare, però, estremamente difficile, se non impossibile, delineare i tratti schematici di un antropoide del genere, da cui l’uomo possa essere derivato per evoluzione diretta. In terzo luogo, Gehlen non riesce a spiegarsi come la prolungata e inerme giovinezza dell’uomo (Portmann lo definisce come un «parto prematuro tipicizzato» e descrive il suo primo anno di vita come un «anno embrionale extra-uterino», mentre l’animale in poco tempo è in grado di esercitare da solo tutte le funzioni necessarie alla sopravvivenza) possa aver costituito un

geschichte des Unterkiefers, Asher, Amsterdam 1924; Id., Das Problem der Menschwerdung, G. Fischer, Jena 1926; tr. it. di R. Bonito Oliva, Il problema dell’ominazione, cit. J. Versluys, Hirngrösse und hormonales Geschehen bei der Menschwerdung, Maudrich, Wien 1937. A. Portmann, Biologische Fragmente zu einer Lehre vom Menschen, B. Schwabe, Basel 1944, riedito da Burgdorf-Verlag, Göttingen 2000; Id., Biologie und Geist, Rhein-Verlag, Zürich 1956, riedito da Herder, Freiburg 1963; Id., Probleme des Lebens. Eine Einführung in die Biologie, Reinhart, Basel 1959; Id., Aufbruch der Lebensforschung, cit.; tr. it., Le forme viventi, cit.

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vantaggio, e quindi una evoluzione rispetto alle scimmie, nella lotta per l’esistenza. Infine, d’accordo con il «principio del ritardamento» dell’anatomico Bolk, gli sembra che l’uomo conservi nella maturità gran parte dei «caratteri fetali», cioè delle caratteristiche proprie del feto che non si sono trasformate durante lo sviluppo ontogenetico, come avviene per gli animali. E anche questo aspetto non sembra costituire un fattore evolutivo nei confronti dei primati, ma, semmai, avvalora l’ipotesi di un’evoluzione separata, che parte da speciali «forme fetali» dalle quali l’uomo ha derivato la singolare calotta cranica, la primitività della dentatura e molti altri caratteri. Per poter giustificare la sua particolarissima concezione dell’uomo, quindi, Gehlen ha bisogno di considerarlo come un essere molto «arcaico», che non ha seguito la linea evolutiva che, passando attraverso i primati, conduce alla specializzazione degli organi e delle funzioni, ma ha conservato intatti i suoi primitivismi e i suoi caratteri rudimentalmente embrionali. Poiché la sua antropologia si basa sulla concezione dell’uomo come essere unico e particolare, egli non può accettare l’idea di una derivazione diretta dall’animale, altrimenti verrebbe a cadere il presupposto basilare di tutta la sua teoria che considera l’uomo un essere «eccezionale» e incomparabilmente diverso da tutti gli altri viventi21. Il nostro autore considera, infatti, assolutamente basilare il presupposto che nell’uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato. Pertanto, ogni derivazione diretta dell’uomo dall’animale, poniamo dalle grandi scimmie, dallo scimpanzé e così via, non può che bloccare sin dall’inizio questa problematica; non solo, ma proprio il propo-

21.  Sul «peculiare posto morfologico dell’uomo», cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 115-161.

107 sito di ricercare quella derivazione disperderebbe ogni germe concettuale autenticamente antropologico.22

L’uomo, dunque, non può discendere direttamente dagli animali e non è in grado di adattarsi con il solo bagaglio biologico all’ambiente che lo circonda. Questa creatura, ancora indefinita, riesce solo attraverso la cultura a costruirsi il suo “nido” nel mondo. La sfera culturale si configura, quindi, come una «seconda natura», autonomamente elaborata e trasformata dall’uomo attraverso l’azione. «Proprio nel luogo in cui per l’animale c’è l’“ambiente” sorge, nel caso dell’uomo, il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausilii per la vita»23. La sfera culturale si configura quindi come l’ambito naturale trasformato dall’uomo attraverso l’azione. Egli appare così «come un architetto che edifica la “cultura” con materiale da costruzione naturale»24. In questo modo adempie ad una sua necessità vitale, essendo carente di qualsivoglia forma di adattamento innato all’ambiente. Se analizziamo la cultura di una società primitiva dobbiamo partire dallo studio degli utensili di cui quelle popolazioni si servivano per migliorare le loro condizioni di vita. Le loro capanne, le loro armi rudimentali, i loro primitivi strumenti agricoli non sono altro che «una natura formata ex novo dall’azione intelligente, la quale fornisce dappertutto essa stessa i punti di partenza, i mezzi tecnici atti a modificarla»25. Nel concetto di «natura trasformata attivamente dall’uomo» rientrano anche le più sofisticate apparecchiature tecnologiche del nostro seco-

22.  Ivi, p. 41. 23.  Ivi, pp. 64-65. 24.  A. Gehlen, L’immagine dell’uomo alla luce dell’antropologia moderna, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 210. 25.  A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 202.

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lo, come pure gli ordinamenti sociali secondo i quali abbiamo strutturato la nostra vita di relazione, modellando e rielaborando, secondo esigenze sociali di convivenza, quegli istinti naturali che altrimenti avrebbero impedito qualsiasi consorzio umano. Tutte le società, anche le più semplici e primitive, si basano su una loro interpretazione del mondo, su una loro cultura strettamente collegata con l’azione. Gehlen definisce la cultura come «l’insieme delle condizioni naturali padroneggiate, modificate e utilizzate dall’uomo con la sua attività, il suo lavoro, incluse le abilità e le arti più condizionate, esonerate, che divengono possibili solo su quella base»26. È in questo ambito che l’uomo ritrova il suo particolarissimo «ambiente naturale», mai dato semplicemente in natura, ma sempre costruito ed elaborato attraverso un’azione intelligente.

5. La teoria dell’azione e il mondo della tecnica Partendo dalla sua iniziale incompiutezza e cercando di disciplinare in qualche modo «la bella varietà della natura», che gli si offre in tutta la sua incomparabile, ma al contempo pericolosa ricchezza, l’uomo sviluppa una capacità di azione che gli consente di controllare e di guidare gli stimoli, che altrimenti lo sopraffarebbero, e quindi di sopravvivere. Attraverso l’azione, dunque, l’uomo riesce a compensare le sue carenze organiche, facendo così fronte a quella che è per lui la più urgente delle necessità: «trasformare questa natura selvaggia – e cioè una qualunque natura, in qualunque modo sia fatta – in modo che divenga utile alla sua vita»27. Sull’azione poggia pertanto la possibilità di sopravvivenza che si fonda sulla plasticità del26.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 65. 27.  A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia, cit., pp. 197-198.

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le risposte agli stimoli e sulla capacità di adattamento, perciò Gehlen giunge a definire l’uomo come un «essere agente» in grado «di elaborare in modo intelligente le costellazioni naturali che trova di volta in volta così da potersi mantenere»28. «Per questo bisogna collocare al centro di tutti gli ulteriori problemi l’azione e bisogna definire l’uomo come un essere che agisce, o anche come un essere in grado di prevedere e creare cultura, il che vuol dire la stessa cosa»29. Mentre il comportamento dell’animale non è che una risposta immediata, automatica, inconsapevole, istintiva alle stimolazioni sensoriali che provengono dal mondo esterno e alle pulsioni interne, l’azione umana si presenta, invece, come una risposta mediata, consapevole e finalizzata, nel senso che organizza e struttura di volta in volta il comportamento adatto alle circostanze. Per l’uomo il rapporto soggetto-oggetto, io-mondo, non può mai essere esclusivamente passivo, ma comporta sempre un intervento attivo del soggetto percipiente, un intervento che rende l’azione umana qualitativamente differente, anche nei più semplici rapporti di scambio e di informazione con il mondo esterno. La distinzione dell’uomo dall’animale è possibile solo concependo l’uomo come un essere che agisce e riferendo ogni considerazione particolare a tale punto di vista. La distinzione va però operata in primo luogo per le figure, in reciproco rapporto, dell’azione, sì da mostrare l’incomparabilità qualitativa dell’agire umano già nel suo grado più semplice, quello del maneggio comunicativo delle cose.30

Secondo Gehlen, nell’uomo si produce un rapporto «circolare» tra percezione e risposta motoria, tale da essere esso stesso suf-

28.  Ivi, p. 198. 29.  Ivi, p. 89. 30.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 190.

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ficiente al proseguimento dell’azione; e inoltre ogni azione si coglie nell’«autoavvertimento estraniato», cioè in modo che il soggetto, grazie ad un processo sensomotorio circolare, avverte contemporaneamente se stesso come agente e l’oggetto verso cui il suo agire si rivolge. L’uomo è attivo di fronte agli stimoli, non “subisce” la risposta, ma la plasma; e con questo suo peculiare modo di agire crea il “suo mondo”, un mondo che è al contempo sia esterno che interno. In ogni azione si manifesta una duplice valenza: una relativa al polo attivo del soggetto che si avverte come agente, l’altra relativa al polo passivo dell’oggetto che viene esperito. Ne abbiamo un esempio nel «sistema tattile della mano»31, in cui si palesano, al contempo, l’attività della mano che afferra l’oggetto e la passività costituita dalla sensazione tattile (di levigatezza, asperità, calore, freddezza, ecc.) trasmessa dall’oggetto; l’individuo cioè avverte tanto la propria mano che compie l’azione del toccare, quanto l’oggetto che si lascia sfiorare. Secondo questa prospettiva, si costituisce, quindi, un «mondo» che è tanto «interno» quanto «esterno», tanto «attivo» quanto «passivo»32. Si giunge così ad uno dei punti più delicati del pensiero gehleniano, che tocca il problema della conoscenza, della costruzione di un mondo culturale. Nella dinamica tra agire e conoscere si stabilisce un rapporto circolare che può essere descritto con l’esempio della chiave e della serratura. Quando si infila una chiave nella serratura si compiono una serie di tentativi per girarla a destra o a sinistra, per spingerla avanti o indietro, finché il meccanismo non inizia a scattare. In tutta questa operazione si mette in moto una serie di azioni e si prende atto dei successi e degli insuccessi avvenuti; in base a questi ultimi si orientano i successivi tenta31.  Ivi, p. 167. 32.  Ivi, p. 170.

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tivi, finché non si riesce ad aprire la serratura. Da tutto ciò si può evidentemente dedurre che la conoscenza implica sempre un’azione, è il risultato di un’attività. Si possono analizzare i complicati processi di coordinamento dei movimenti del corpo, dell’occhio e della mano che tasta fino al punto in cui diventa chiaro che l’esistenza ‘immediata’ del mondo che si è dato è in realtà in gran misura mediata dalla nostra attività specifica e che è dunque un risultato. Alla fine di questi processi […] sta comunque il fatto che ci ritroviamo in un mondo pienamente abbracciabile con lo sguardo, le cui particolarità vengono solo accennate (date simbolicamente) attraverso i contorni delle figure, la scala dei colori, le differenze di grandezza, le ombre, i rimpicciolimenti, ecc.33

Posto di fronte alla «pienezza del mondo» e al contempo «sprovvisto» di un meccanismo istintuale selettivo che guidi e disciplini gli stimoli, l’uomo deve tuttavia orientarsi e incanalare la multiforme realtà secondo un suo progetto critico: ciò è possibile solo con l’azione, senza la quale l’uomo non potrebbe «durare» nell’esistenza. «Si consideri l’insufficiente dotazione dell’uomo e sarà facile avvedersi che egli deve riconoscere per essere attivo e deve essere attivo per poter vivere l’indomani»34. Per Gehlen, come si è già chiarito, l’uomo è un «essere carente», che compensa, attraverso l’azione, la sua debolezza organica. Senza un ambiente specifico della specie al quale fosse adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa “istinto”), per carenza quindi di specifici organi e istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, istintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato

33.  A. Gehlen, Un’immagine dell’uomo, cit., p. 90. 34.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 78.

112 all’azione, alla modificazione intelligente di qualsiasi condizione naturale incontrata.35

L’azione che l’uomo può compiere con i suoi organi è tuttavia limitata e circoscritta, in definitiva insufficiente per la sopravvivenza. L’uomo, quindi, ha bisogno di arricchire la potenzialità dei suoi organi, di compensare «artificialmente» la propria carenza biologica, cioè di creare strumenti che siano i «prolungamenti» dei suoi arti, con i quali agire in modo più efficace nella realtà. Nasce così la tecnica, che è una delle più importanti realizzazioni dell’essere umano. Infatti la teoria gehleniana dell’uomo come «essere carente», incapace di sopravvivere in qualsiasi ambiente naturale per mancanza di organi e istinti specializzati, trova nell’abilità tecnica quel supporto necessario ad un miglior adattamento dell’individuo all’ambiente. La tecnica diviene così la misura dell’intelligenza umana, la quale acquista il suo peculiare significato soltanto in rapporto all’insufficienza degli istinti e alla incompletezza degli organi. Infatti solo attraverso l’intelligenza l’uomo può agire sulla natura e modificarla secondo le proprie esigenze e necessità. La tecnica, intesa come quell’insieme di «capacità e mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio», fa dunque parte dell’essenza stessa dell’uomo. Essa è un «vero specchio dell’essere umano»36 ed è da sempre insita nella sua propria natura, in quanto il suo agire, rivolto a migliorare e a produrre sempre nuove possibilità di sopravvivenza, è, fin dai primordi, «tecnico». Si può affermare che l’uomo stesso è un «tecnico» (Techniker), e che la tecnica costituisce per lui una concreta possibilità di mantenersi in vita.

35.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 129. 36.  A. Gehlen, Die Seele im Technischen Zeitalter, Rowohlt, Hamburg 1957; tr. it. di M.T. Pansera, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003, p. 33.

113 Se per tecnica si intendono le capacità e i mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio in quanto ne conosce le proprietà e le leggi, le sfrutta e le contrappone le une alle altre, allora la tecnica, in questo senso più generale, è insita già nell’essenza stessa dell’uomo.37

La tecnica è antica quanto l’uomo. I resti fossili dei primi umanoidi non hanno avuta sicura attribuzione finché non si è potuto dimostrare che essi usavano attrezzi elaborati e conoscevano il fuoco. Gli utensili, i congegni, gli strumenti costruiti dall’uomo possono adempiere, secondo Gehlen, a tre principali funzioni: sostituire, rimpiazzare organi di cui siamo privi e consentire così nuove prestazioni; potenziare, intensificare l’azione di organi già esistenti; alleggerire il lavoro dell’intero organismo. Le armi, ad esempio, rientrano tra i manufatti che compensano la mancanza di organi di aggressione e arricchiscono, «integrano» la nostra dotazione organica rendendola capace di nuove prestazioni. Strumenti tecnici che intensificano e potenziano facoltà già esistenti nel nostro corpo, sono, ad esempio, il martello, che accentua il potere d’urto della mano, il microscopio, che permette all’occhio visioni assolutamente insospettate, il telefono, che produce un effetto del tutto superiore alle capacità uditive umane. Infine vi sono tecniche di «agevolazione» che alleggeriscono il lavoro di vari organi, consentendo un notevole risparmio di energia e di fatica: basti pensare all’uso della meccanizzazione nei processi produttivi per capire di quale aiuto possa essere la macchina per l’uomo. Gehlen spiega questi tre principi con un unico e appropriato esempio: «chi viaggia in aereo ha i tre principi riuniti in uno; l’aereo sostituisce le ali che non ci sono cresciute, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche

37.  Ibidem.

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di volo e risparmia fatiche dirette a chi vuole recarsi in posti molto lontani»38. Il congegno, lo strumento creato dall’uomo prende avvio da un’idea astratta che non trova riscontro in natura. L’oggetto costruito, sia esso una ruota, una freccia, un coltello o un reattore nucleare, non trova un suo corrispondente in natura, è qualcosa di completamente «nuovo». In questo senso la tecnica è definibile come «natura artificiale» ed è una anomalia come l’uomo. Essa può essere considerata come un «“grande uomo”: geniale e ricco di astuzia, promotore e insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in poliedrico rapporto con la natura vergine. Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle»39. Nella creazione di manufatti che «sostituiscono», «potenziano» e «alleggeriscono» il corredo degli organi umani, si è passati, nel corso della storia, dall’uso di materiali «naturali» a quello di materiali sempre più «artificiali». Nell’antichità, per esempio, i metalli hanno sostituito i materiali più naturali come le pietre; oggi il legno è rimpiazzato dai materiali plastici, il cuoio e la canapa dai cavi d’acciaio, la luce delle torce o delle candele dall’elettricità, i coloranti vegetali da quelli sintetici, le pietre e l’argilla dal cemento armato e via dicendo. Questa crescente utilizzazione di sostanze «artificiali», «inorganiche», è dovuta al fatto che il mondo dell’inorganico è più facilmente conoscibile e manipolabile rispetto al mondo organico, il quale, avendo in sé un principio vitale, si presenta sempre più «sfuggente», «vario» e «irrazionale». La tecnica, quindi, intesa come sostituzione e potenziamento non solo degli organi umani, ma dell’organico in generale, ha

38.  Ibidem. 39.  Ibidem.

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consentito all’uomo di raggiungere una progressiva emancipazione dai limiti della natura vivente. L’avvento del regno della tecnica, tuttavia, non è stato un percorso lento e continuo, ma vi sono state svolte importanti, che hanno date brusche accelerazioni. Nell’epoca moderna, una prima svolta si è avuta con la cosiddetta «rivoluzione scientifica», allorché la conoscenza della natura si è trasformata in scienza sperimentale: la tecnica ha preso da quest’ultima «il ritmo pulsante del progresso», e la scienza ha ricevuto dalla tecnica «un tratto pratico, costruttivo, non speculativo»40. Caratteristica della rivoluzione scientifica è l’esperimento, il quale costituisce il punto di unione tra la tecnica e le scienze naturali. Una seconda svolta, che concorre a spiegare i «prodigiosi risultati dell’età moderna», si è avuta con la massiccia espansione dell’industrializzazione e con l’organizzazione capitalistica della produzione. Oggi scienze sperimentali, tecnica e sistema industriale sono intimamente collegati, si presuppongono a vicenda e devono essere studiati in stretta connessione e non più analizzati separatamente. Con l’automazione, che caratterizza la moderna società industrialmente avanzata, la tecnica ha raggiunto il massimo grado del suo sviluppo. Con gli utensili, cioè con gli strumenti che potenziano il rendimento organico, si ha ancora l’utilizzazione dell’energia fisica umana, che viene sfruttata al massimo grado. Con le tecniche di alleggerimento si sono cercate altre fonti di energia, con le quali compiere il lavoro al posto dell’uomo (sono queste tutte le macchine realizzate durante la rivoluzione industriale, che usano energia «naturale», come quella termica, elettrica, atomica, ecc.). Infine, gli apparecchi automatici moderni dell’era elettronica e della cibernetica sostituiscono l’uomo nelle funzioni di guida e di controllo, sostituiscono il lavoro e le energie «mentali». In questo modo, quindi, l’uomo

40.  Ivi, p. 37.

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è riuscito a trasferire nelle apparecchiature tecniche quel principio organizzativo che, fino ad allora, era stato di suo esclusivo dominio. Inoltre, attraverso una scienza come la cibernetica, ha cercato, da un lato, di studiare e, quindi, di realizzare macchine ad alto grado di automatismo, atte a sostituirlo nella funzione di guida e di controllo; dall’altro di servirsi delle stesse macchine per analizzare e comprendere meglio talune capacità intellettive umane. Con il passaggio all’era industriale l’umanità ha varcato una «nuova soglia culturale». Secondo Gehlen esistono infatti due «cesure», due «svolte rivoluzionarie» veramente decisive per la storia della civiltà41: in età preistorica, quando si attua il passaggio dalla vita nomade e dedita alla caccia, alla vita sedentaria e dedita all’agricoltura; e in età moderna, con l’avvento della civiltà industrializzata. In entrambi i casi si attua una «stabilizzazione del mondo esterno» che si realizza sia nella copertura dei bisogni primari, che nell’intero modo di essere dell’uomo, non solo a livello economico-produttivo e di organizzazione sociale, ma anche a livello culturale, morale e spirituale. Il rapido sviluppo della tecnica moderna ha prodotto una «complessificazione» sempre maggiore della vita, le cui ripercussioni si sono estese in tutti i suoi ambiti, a cominciare da quello socioculturale. Gehlen, quindi, analizza queste profonde trasformazioni del pensiero e delle relative «strutture della coscienza», causate dallo straordinario sviluppo della tecnica, fornendo così un quadro della civiltà contemporanea, con tutte le sue caratteristiche positive e negative, con i suoi benefici ma con i suoi limiti, con i suoi pericoli, ma anche con le indicazioni necessarie per superarli. Una delle più evidenti caratteristiche della moderna civiltà industriale è costituita dal «processo di intellettualizzazione», che 41.  Ivi, pp. 97 e 115.

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può essere riscontrato in particolare nelle arti e nelle scienze. Con questo termine Gehlen intende l’instaurarsi di una sempre più accentuata «specializzazione», per cui ogni individuo è padrone solo nel suo piccolo orticello o meglio nella sua aiuola, in quanto il campo del sapere è ormai così vasto, ma anche così specialistico, che ogni singola branca è accessibile soltanto all’esperto di quel settore. La sempre più spiccata «intellettualizzazione» del mondo ha, come conseguenza, una grande difficoltà nel raggiungere una buona conoscenza delle situazioni che compongono il reale. Quest’ultimo oltrepassa di solito la «normale sfera intellettuale e affettiva» dell’uomo comune. Ad avere un’ampia, sicura e dettagliata conoscenza del mondo sociale, politico, culturale ed economico sono ormai soltanto pochi individui particolarmente al dentro nei vari settori, ai quali sono affidate tutte le decisioni e responsabilità. Alla perdita di contatto con la realtà, di conoscenza del mondo, che caratterizza l’epoca moderna si cerca di rispondere inserendo una «istanza intermedia» tra le esperienze possibili al singolo e gli avvenimenti che si svolgono al di sopra di lui, prodotti da «superstrutture» economiche, sociali o politiche alle quali egli non può accedere. Sono perciò indispensabili «fonti di seconda mano», costituite dai media, per orientarsi nel labirinto della realtà odierna: sono esse che ci aiutano a uscire dall’insicurezza e a formarci un’opinione che ci restituisca una certa tranquillità42. La formazione dell’opinione, tuttavia, avviene secondo schemi astratti, «primitivi», che non corrispondono all’ampia gamma di sfumature che caratterizza la realtà. All’estrema raffinatezza dei procedimenti tecnico-scientifici si contrappone, così, una certa rozzezza e primitivismo per altri aspetti della vita culturale, in cui certe raffinatezze comunicative, basate sulle sfumature, sulle allusioni, sull’introspezione

42.  Ivi, p. 75.

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interiore, sono state sostituite da immagini evidenti e nitide nella loro primitività43. Nella nostra epoca si determina un’«interferenza»44, una sovrapposizione tra uno stadio di civilizzazione, che è più o meno analogo o paragonabile ad altri di epoche precedenti, e un processo di strutturazione dell’ambiente, raggiunto attraverso l’industrializzazione, che non ha affatto riscontro nelle epoche passate. La dicotomia che si stabilisce tra questi due aspetti, tra il livello di civiltà e il livello di dominio tecnologico dell’ambiente, l’uno rivolto all’indietro e l’altro proiettato nel futuro, genera l’ambiguità, il disorientamento e l’indeterminatezza che caratterizzano la nostra epoca. Manca un punto univoco a cui rivolgersi e un baricentro su cui stabilizzarsi. Le società moderne si sono trasformate in veri e propri apparati che richiedono comportamenti schematizzati e prestazioni standardizzate. La società industriale ha nello «specialista» il suo tipo rappresentativo per eccellenza, un tipo che, messe da parte le sue caratteristiche peculiari e individuali, raggiunge il massimo grado di adattamento a tutte le diverse coordinate del sistema sociale. Il comportamento che segue schemi automatizzati e atteggiamenti stereotipati ha portato ad un appiattimento delle personalità e ad un impoverimento dei valori legati alla singolarità e alla soggettività individuali. Nell’analizzare la sintomatologia che caratterizza coloro che fanno parte della società e della cultura occidentale contemporanea, Gehlen identifica alcune generali linee di tendenza: la mancanza di un centro verso cui rivolgersi; la sensazione di andare alla deriva, di abbandonarsi alla sorte; uno sfocamento della nitidezza concettuale e un appiattimento dell’attività intellettuale; una tendenza al rilassamento e al lasciarsi anda43.  Ivi, p. 60. 44.  Ivi, p. 116.

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re rifuggendo da tutte quelle attività che richiedono impegni troppo gravosi; la ricerca esclusiva del godimento e della stravaganza; il rifiuto di conformarsi ai grandi modelli esemplari. Si può quindi parlare di un «disagio della tecnica», intendendolo come il sintomo di una profonda trasformazione culturale che sta investendo l’intero pianeta45. La società di massa, basata sul consumismo e sul benessere, ha raggiunto uno stadio che rende più facile e libera la vita dell’uomo, ma al contempo crea in lui un senso di malessere e di disagio. Tuttavia, nonostante i rischi e i pericoli che la moderna società tecnologica comporta, Gehlen resta coerentemente fedele alla sua immagine dell’uomo, di un essere che tende essenzialmente a conservarsi e per farlo costruisce una civiltà basata sulla tecnica. Certamente poi vengono anche le difficoltà dovute all’alienazione, alla spersonalizzazione, al consumismo e all’aggressività, ma non si può e non si deve uscire dalla propria casa, non si può e non si deve abbandonare il proprio «posto nel mondo». Gehlen sostiene, quindi, l’assoluta imprescindibilità della tecnica e delle sue realizzazioni di cui l’uomo non può fare comunque a meno se vuole realizzare la «sua natura». Di conseguenza è possibile superare questa fase di insoddisfazione e di insicurezza non attraverso una negazione e un rifiuto della tecnica, ma semplicemente assumendo un comportamento diverso nei suoi confronti. «Una trasformazione radicale sarebbe possibile soltanto se attaccasse ai due estremi: al voler sapere, punto di partenza o al voler consumare, punto di arrivo del processo. In entrambi i casi l’ascesi, semmai comparisse, sarebbe il segnale di una nuova epoca»46. La tecnica è insita nell’essenza stessa dell’uomo e costituisce indubbiamente uno

45.  A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Id., Prospettive antropologiche, cit., pp. 133-139. 46.  A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., pp. 79-80.

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dei più importanti mezzi che egli ha a disposizione per conservarsi e migliorare la sua vita, ma quando la civiltà, costituita attraverso lo stretto rapporto tra scienza, applicazione tecnica e sfruttamento industriale, sfugge all’uomo stesso che l’ha realizzata, allora un ritorno all’«ascesi» che limiti sia la «volontà di sapere», sia la «volontà di consumare» lo aiuterebbe a non perdere di vista la propria essenza e a recuperare quei «caratteri individuali» e quegli «impulsi sociali» che si sono persi nella corsa dietro il benessere47.

6. Le istituzioni e la morale L’uomo ha la possibilità di sopravvivere e adattarsi all’ambiente che lo circonda perché, con la sua azione, è in grado di orientare, modellare, controllare la propria «sfera pulsionale», creando una «sfera culturale», costituita da produzioni «ideali» quali la tecnica, le istituzioni, le norme etiche, il diritto, l’arte e tutti i grandi fenomeni collettivi che fanno parte del mondo storico, culturale e sociale. Tutte queste realizzazioni, queste «prestazioni spirituali superiori» possono essere ritenute come mezzi per la sopravvivenza, come «sistemi direttivi» o «idee guida» che hanno permesso l’instaurarsi di norme e di divieti in grado di consentire la convivenza e l’azione coordinata tra gli uomini in vista di raggiungere finalità comuni. Per il controllo delle pulsioni e l’adattamento a un ambiente è di primaria importanza una valida struttura e organizzazione sociale, cioè la creazione di «istituzioni»; è poi all’interno di queste ultime che sorgono norme etiche e sistemi religiosi, giuridici, artistici, le cosiddette «scienze dello spirito». L’uomo, 47.  Cfr. A. Gehlen, L’immagine dell’uomo alla luce dell’antropologia moderna, cit., pp. 182-184.

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dunque, deve prendere posizione non solo contro gli stimoli derivanti dall’esterno, che tentano di travolgerlo, ma anche contro se stesso e le sue pulsioni interiori, e deve riuscire a crearsi dei «meccanismi inibitori» di cui non è stato provvisto dalla natura. Egli è così in grado di orientare e disciplinare tutti i suoi istinti attraverso appropriate inibizioni. L’uomo è un essere che prende posizione verso se stesso e perciò contro se stesso, e si impone un comportamento specifico verso l’esterno in luogo di un altro parimenti possibile. La riduzione degli istinti nell’uomo, che è il contraltare della sua coscienza e della sua plasticità pulsionale, comporta in pari tempo una profonda carenza di meccanismi inibitori autenticamente istintivi.48

L’essere umano, perciò, deve sempre «fare i conti» con la carenza della propria costituzione biologica; ma può imporsi perché la sua azione è sempre un’azione «doverosa», un’azione guidata da divieti, e il suo agire, che non può essere soltanto una modalità possibile rispetto a molte altre, è l’unico ed esclusivo comportamento perseguibile. Si attua, così, una “astuzia della ragione” che ribalta le mete istintive “primarie” in finalità sociali “secondarie”; in questo modo le istituzioni rappresentano la meta finale di tutto il processo teleologico naturale. Sono quindi le istituzioni, secondo Gehlen, a permettere la trasformazione di quella «carenza» e «incompiutezza», tipiche dell’uomo, in «cultura», «sicurezza», «bienfaisante certitude», come se la stessa forza vitale avesse trovato quell’escamotage attraverso cui trasformare quelli che all’inizio apparivano come ostacoli in garanzie di sopravvivenza. Affinché i divieti, indispensabili per limitare e incanalare le pulsioni individuali, non rimangano soggettivi, lasciati all’arbitrio del singolo, si impone un «limite esterno», che è rappresentato dalle istituzioni.

48.  A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 444.

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Quando Nietzsche parla dell’uomo come animale non ancora definito, non intende dire soltanto che si tratta di un animale per il quale è impossibile dare alcuna definizione, ma anche di un essere capace di degenerare, di finire nel caos. Le istituzioni si pongono come la «forma di esecuzione» di compiti e di realizzazione di attività determinanti per l’esistenza umana, quali la riproduzione, la difesa o la nutrizione, che richiedono una cooperazione organizzata e duratura; ed inoltre si pongono come «forze di stabilizzazione» necessarie affinché l’uomo, essere per natura instabile e sovraccaricato di oneri, si orienti in un ambiente sempre più difficile e complesso49. Gehlen, quindi, intende per istituzione un insieme di «istituti, leggi e norme di comportamento» che funzionano come «puntelli esterni», come «piloni di sostegno» per l’azione dell’uomo e la disciplina delle sue pulsioni. Le istituzioni di una società – sia i suoi istituti, leggi e stili di comportamento, che le forme costanti della loro interazione in quanto ordini economici, politici, sociali, religiosi – funzionano come puntelli esterni, come raccordi fra gli esseri umani che danno sostegno, che soli rendono affidabile il lato interno della morale. L’interiorità umana è un territorio troppo mosso perché si possa fare reciproco affidamento su di esso. Le istituzioni operano come piloni di sostegno e come puntelli esterni, la cui mutevolezza è provata dalla storia e dalla storia della cultura umana nel loro complesso. Ma l’importanza maggiore l’ha qui un postulato della gradualità. Se si distruggono le istituzioni di un popolo, si liberano l’insicurezza di base, la capacità di degenerazione e l’elemento caotico dell’uomo.50

Tra gli elementi della sfera culturale, Gehlen attribuisce alle istituzioni il ruolo maggiore per la strutturazione delle pulsioni, cioè per l’educazione e la formazione del carattere, e in defini49.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., pp. 97-98. 50.  A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia, cit., pp. 204-205.

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tiva le considera di grande importanza per l’adattamento e la sopravvivenza. Perciò, egli mostra di apprezzare molto società con istituzioni «forti» e bene organizzate. Un ruolo più sfumato e, a tratti, secondario sembra invece accordare alla morale, cioè ai sistemi di norme di comportamento fondate sui valori di bene e di male, ed altre espressioni della vita spirituale o intellettuale umana, come le religioni, le filosofie, le arti, le lettere, ecc. Dopo gli anni ’40, anche in seguito ai grandi rivolgimenti politico-sociali dell’Europa, rivede in parte la sua posizione, e finisce per attribuire ai sistemi etici un peso più incisivo nel disciplinare dall’“interno” la vita pulsionale, specialmente ove si verifichi una crisi o una minor presa delle istituzioni. Pensa, infatti, con riferimento alle vicende dello stato tedesco, che nel passaggio da una società a istituzioni “forti” ad una a istituzioni “deboli” vi sia contemporaneamente una transizione da un «ethos dello stato» a un «ethos umanitario», che quasi si sostituisce al primo nell’educazione dell’individuo. Nel momento in cui rilevanti cambiamenti politici avevano messo in crisi i ruoli precedentemente ben definiti, si sente il bisogno di ricercare le fonti della regolazione etico-sociale, ritornando a quella che è la costituzione propria dell’uomo e ricercando qui le radici filogenetiche dell’agire morale. Gehlen si riallaccia agli stoici per rivisitare il «topos del pacifico stato di natura»51 e delineare così quell’epoca felice in cui l’umanità non si era ancora divisa in stati e nazioni, ma «come un gregge pacificamente in pascolo vivevano armonicamente gli uomini, guidati soltanto dalle leggi della ragione, in quanto non c’era ancora bisogno di leggi scritte»52. Si può quindi stabilire un 51.  Ivi, p. 12. 52.  Ivi, p. 32.

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paragone tra la crisi della democrazia ateniese e quella degli stati nazionali europei, infatti come il filosofo stoico sostituiva al sentimento civico di appartenenza ad uno stato quello della solidarietà umana e il conseguente orgoglio di essere cittadino di un regno universale della ragione (cosmopolitismo), così i moderni intellettuali hanno superato il legame con la singola nazione e, in quanto cittadini del mondo, si aprono verso un nuovo tipo di rispetto e di accettazione per l’umanità nel suo insieme. Si tratta di un’«etica familiare allargata», che si presenta come una forma «pratica» di amore per l’uomo, come un’accettazione della sua natura e una fiducia nelle sue possibilità, con un’apertura e una disponibilità tipicamente “materne”. È, in fondo, un «ethos dell’amore per il prossimo» che, nato all’interno della famiglia, si estende poi a tutto il genere umano. Per comprendere il senso di questi avvenimenti, che hanno profondamente modificato la dimensione etico-sociale dell’umanità contemporanea, Gehlen si riporta alla sua concezione dell’uomo, inteso come un complicato incastro di “categorie biologiche” e di “elementi spirituali” derivanti dalla tradizione e dalla situazione storico-culturale. La difficoltà di mantenere il rapporto tra questi due aspetti, entrambi determinanti per strutturare il carattere dell’essere umano, si è rivelata evidente con la crisi che ha colpito la morale nell’epoca dell’accelerato sviluppo tecnologico. Gli scambi e i collegamenti tra gli sviluppi biologici, in sommo grado a lungo termine, e il tempo della cultura, impaziente e precipitoso, sono del tutto oscuri e si pongono alle spalle della coscienza. Che la morale dell’uomo non abbia tenuto il passo del veloce tempo della tecnica non è che un aspetto di questo fatto.53

53.  Ivi, p. 23.

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Quando l’uomo entra in crisi per la perdita di quelli che per lungo tempo erano stati i suoi sicuri punti di riferimento e si sente privo di quei baricentri54 che fino ad ora erano stati il sostegno e la guida delle sue azioni, Gehlen pone l’accento sull’esistenza di diversi elementi istintivi che sono alla base delle relazioni tra gli esseri umani, e che ne regolano i rapporti. Egli, quindi, vuole individuare le radici antropologiche dell’etica in quelle «innate predisposizioni ereditarie», in quelle «eredità filogenetiche»55, in quelle categorie che concorrono a determinare una pluralità di istanze morali basandosi sulla convinzione che ci siano «nell’uomo più istanze funzionali tra di loro, geneticamente indipendenti e da ultimo socialmente regolative»56. Il nostro Autore evidenzia, così, quattro richiami etici attraverso i quali coglie le radici socio-biologiche dei rapporti interpersonali che sono alla base della convivenza umana e quindi anche del comportamento morale. Il primo è la «reciprocità», a cui si rifanno diversi tipi di condotte tra cui la reazione di protezione e di cura, lo scambio e il rispetto dei contratti. La reciprocità o mutuazione del comportamento è riconosciuta da tempo come un fondamento della condotta umana e originariamente venne compresa attraverso formulazioni di diritto naturale, con le quali si sottolineava tanto le qualità innate (istintive) dell’impulso, quanto quelle prossime al giuridico. Si deve concedere reciprocità all’altro. Il dovere non esprime altro che il funzionamento, considerato idealmente appropriato alla situazione, di un impulso istintuale, la cui qualità antropologica viene inclusa in tale considerazione/pretesa: si deve contrac-

54.  A. Gehlen. Prospettive antropologiche, cit., p. 101; cfr. anche Id., L’uomo nell’era della tecnica, cit., pp. 69 ss. 55.  A. Gehlen, Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik (1969), Aula-Verlag GmbH, Wiesbaden 1986; tr. it. di U. Fadini e A. Bernini, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, Ombre corte, Verona 2001, p. 51. 56.  Ivi, p. 24.

126 cambiare bontà con bontà; si sente però infine anche l’impulso ad abbandonarsi alla cattiva coscienza e all’ingratitudine. Quelle forme del comportamento, adeguate alle situazioni e fondate istintualmente, contro la cui inosservanza la società interviene drasticamente e la cui validità normativa viene così affermata, sono indicate dalla consuetudine o dal diritto.57

Nelle società primitive i comportamenti basati sulla reciprocità costituivano l’unica possibilità di dar vita a un vincolo sociale58. Quello che inizialmente nasce come un semplice scambio commerciale non si limita soltanto all’aspetto economico, ma esercita una funzione di «cemento sociale»59. Ci si scambiano merci, ma anche ragazze da marito, formule magiche e riti propiziatori; attraverso il contraccambio in bovini si può compensare un omicidio, si può presentare un’offerta per i defunti o dare una dote alla propria figlia. Ci si rende così conto che non è soltanto l’aspetto mercantile a caratterizzare lo scambio, ma il suo significato di «rito sociale». La reciprocità del comportamento, dunque, «può perfino presentarsi al posto del linguaggio come una seconda via della comprensione», come un «procedimento che “parla da sé”»60 e che permette di comunicare, attraverso relazioni di reciproco scambio, con la stessa chiarezza ed evidenza di quelle linguistiche. Erodoto, ad esempio, nel ricordare i rapporti tra Cartaginesi e Libici, sottolinea come questi ultimi fossero intimiditi dal dispiegamento di forze e di merci dei primi e decidessero così di ritirarsi da un conflitto che appariva assolutamente impari. Diversi antropologi, tra cui Marcel Mauss, Claude Lévi-Strass 57.  Ivi, pp. 61-62. 58.  A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur, Aula-Verlag GmbH, Wiesbaden 1986; tr. it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, il Saggiatore, Milano 1994, p. 53. 59.  Ibidem. 60.  A. Gehlen, Morale e ipermorale, cit., p. 64.

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e Margaret Mead, hanno sottolineato l’importanza della reciprocità nelle società primitive, dove essa costituisce la base di tutti quei rapporti di scambio che hanno condotto alla trasformazione da una comunità basata esclusivamente su legami di sangue ad una società basata su patti e regole di convivenza. Il secondo gruppo di regolazioni sociali è rappresentato dalle «virtù fisiologiche», che sono finalizzate alla conservazione della specie e «sono radicate a livello istintuale o comunque prossime alla corporeità»61. Molte di queste virtù sono state studiate dagli etologi, i quali hanno dimostrato l’esistenza di reazioni di difesa e cura della prole, che vengono innescate dalle forme rotondeggianti morbide e sorridenti, proprie dei piccoli e dei cuccioli, compresi quelli umani. L’etica del benessere (utilitarismo) e quella della felicità (eudemonismo) vengono ricondotte alla base fisiologica, in quanto il loro dirigersi verso il piacere e l’appagamento trae origine proprio dalle virtù fisiologiche. Si tratta di un ampliamento di quelle regolazioni sociali prossime all’istinto che, nella trasformazione etica della modernità, vengono estese dall’ethos familiare fino ad abbracciare l’intera umanità e si concretizzano «nella eticizzazione del vivere bene»62. Dunque Gehlen riconosce come virtù fisiologiche per eccellenza sia la reazione compassionevole verso la sofferenza evidente, sia la risposta istintuale verso ciò che si presenta bello, ben riuscito, gradevole e quindi capace di suscitare ammirazione, interesse e cura, di qui la rivalutazione della vita come bene supremo (eudemonismo sociale) e la conseguente ricerca del benessere per il maggior numero di persone possibile vengono ricondotte all’«ampliamento di regolazioni originariamente prossime all’istinto»63. 61.  A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 67. 62.  Ivi, p. 73. 63.  Ivi, p. 68.

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La terza radice è identificata nell’«umanitarismo» o «indifferenziato amore per l’uomo reso dovere etico»64, il quale prende le mosse dalle tendenze filantropiche dell’etica stoica, basate sull’ideale dell’amicizia, della benevolenza e della moderazione nei confronti dell’intero genere umano, di cui facevano parte anche gli stranieri, i barbari, i prigionieri e gli emarginati. Anche questa volta Gehlen ci presenta questo ethos umanitario come un ampliamento di regolazioni di tipo istintuale: Ora abbiamo un nuovo caso, antropologicamente molto significativo, del processo di allargamento degli istinti residuali, che si possono dilatare come la gomma fino a comprendere ambiti molto estesi. Qui si tratta cioè della estendibilità e della indifferenziazione dell’originario ethos della stirpe o della regolazione delle condotte all’interno di gruppi sociali di carattere familiare.65

Attualmente, quindi, l’umanitarismo si presenta come una delle morali più diffuse. Gehlen ne sottolinea la derivazione antropologica, in quanto lo considera come un «allargamento» del­l’ethos primario della famiglia estesa e della fratellanza66. L’ethos dell’amore per il prossimo è senz’altro il più conosciuto; esso è presente, prima di tutto, all’interno della famiglia allargata, ma è passibile di estensione fino ad abbracciare l’intera umanità. Questo «ethos della stirpe allargato» può essere formulato sia da intellettuali laici che religiosi. Un tale tipo di ethos si va sempre più estendendo ben oltre i suoi confini originali, e quanto più l’aspetto umanitario ad esso connesso si rende chiaramente autonomo, tanto più riesce difficile all’uomo contemporaneo di riagganciarlo a quei pensieri di redenzione, immortalità e pentimento in cui quell’etica era all’inizio radicata. La forte mescolanza delle comunità politiche ed etniche 64.  Ivi, p. 92. 65.  Ivi, p. 95. 66.  Cfr. ivi, cap. 9: Religione ed etica, un nuovo stile, pp. 133-152.

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da un lato, l’emancipazione dal concetto di unità, intesa come potenza universale, dall’altro, hanno permesso la realizzazione dell’universalismo dell’amore. Inoltre, oggi, grazie all’incommensurabile aumento degli scambi nel mondo e grazie anche al clima distensivo che si è venuto a creare tra gli stati, molte asperità si sono smussate e l’ethos familiare si è ampliato e ha stretto nuovi legami con l’eudemonismo di massa. L’ethos umanitario non pretende nulla, inoltre è in sintonia con tutte le cose desiderabili, con la prevalenza degli interessi privati e della vita familiare, con l’aspirazione al benessere per tutta l’umanità. La famiglia allargata o comunità di sangue costituisce il centro da cui partono questi legami basati sulla reciproca assistenza e solidarietà; tuttavia, secondo Gehlen, essa non potrà mai essere il luogo di significativi progressi, in quanto le radici politiche, legate alle virtù statali e al patriottismo, vengono deviate a favore di «una morale domestica dilatata». L’ ethos familiare è indispensabile per raggiungere e mantenere l’equilibrio interiore e la salute dell’anima, «ma tutto ciò che ha grandezza, Stato, religione, arti, scienze, fu elevato al di sopra del suo ambito, e la stessa economia acquisì grandi dimensioni soltanto quando si liberò dal complesso dei suoi vincoli»67. La quarta regolazione sociale è identificata da Gehlen nell’«eti­ ca delle istituzioni». La convivenza tra gli uomini si fonda su regole e ordinamenti che trovano la loro origine «nella sfera prossima all’istinto e in nessun modo unicamente nelle riflessioni di tipo oggettivo e razionale»68. La connessione tra istituzioni e costituzione biologica umana costituisce uno degli aspetti basilari dell’antropologia elementare, indispensabile per la comprensione che l’uomo ha di se stesso.

67.  Ivi, p. 104. 68.  Ivi, p. 105.

130 Le istituzioni hanno un significato addirittura fondamentale se si considera l’inverosimile plasticità, plasmabilità e vulnerabilità di un essere che tanto facilmente viene mutato da ogni impulso non soggetto a vincoli. Dalle istituzioni dipende, infine, ogni forma di stabilità che raggiunge il cuore delle pulsioni, ogni capacità di durata e continuità di ciò che di più elevato vi è nell’uomo. Il fatto che l’uomo sia un essere storico comporta, viceversa, che egli debba venir utilizzato dalle realtà che nella storia si sono formate, ossia, nuovamente, dalle istituzioni: lo stato, la famiglia, le autorità economiche e giuridiche, eccetera. Se si comprende questo, ci si trova di fronte al nuovo compito di dedurre le istituzioni, ormai autonome e resesi indipendenti dal singolo, dalla natura dell’uomo, e ciò in termini più realistici di quanto facesse Hegel, riferendosi alla stessa realtà con il concetto di “spirito oggettivo”.69

Nello stabilizzarsi della convivenza attraverso le istituzioni si trasformano le finalità biologico-primarie dell’organismo-uomo in finalità secondarie e storico-sociali, attraverso il passaggio che porta dalla natura alla cultura, per mezzo di quella capacità d’azione, volta a conservare al meglio l’esistenza umana70. Ancora una volta Gehlen sottolinea il radicamento biologico delle istituzioni, sulle quali si fonda il compito di “stabilizzare” la condotta umana sia nei confronti del mondo esterno che delle pulsioni interne. Da questo punto di vista le istituzioni si manifestano come “attività”, come metodi storicamente condizionati del superamento di compiti vitali e di circostanze, così come l’alimentazione, la riproduzione, la sicurezza esigono una cooperazione regolata e duratura; esse, d’altra parte, appaiono come forze stabilizzanti e come le forme che, per natura, un essere vivente azzardato, instabile e sovraccaricato da uno stato di emotività, 69.  A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 14. 70.  Cfr. U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Franco Angeli, Milano 1988, p. 117, e F.G. Di Paola, La teoria sociale di Arnold Gehlen, Franco Angeli, Milano 1984, p. 147.

131 trova per se stesso e per un reciproco sopportarsi, qualcosa per cui è possibile contare su se stessi o in certa misura sugli altri.71

Fra le numerose istituzioni in cui appare evidente la legalità etica, lo Stato rappresenta per Gehlen l’ordine per eccellenza. Attraverso il diritto, il matrimonio, la proprietà si è data stabilità alle forze pulsionali dell’uomo, di per sé plastiche e incostanti nell’orientamento. Ogni organizzazione statale rappresenta secondo, un proprio stile, determinate forme di comportamento, rendendole obbligatorie ed esemplari per tutti i suoi membri. Quindi il comportamento «istituzionalmente regolato» si configura «come una riproduzione della perduta sicurezza degli istinti propria degli animali a un livello più elevato»72, al punto che, quando vengono scardinate quelle forme inibitorie rigide che hanno contribuito a stabilizzare l’esistenza umana attraverso lunghi periodi, si verifica una «insecurizzazione, che giunge fino in profondità, della persona in questione: il disorientamento colpisce i centri morali e intellettuali, perché anche qui è naufragata la certezza dell’ovvio»73. Tale processo è spesso accompagnato da forme di angoscia ed irritabilità che possono persino produrre una “primitivizzazione” dei comportamenti74. Attraverso le quattro radici dell’etica: la reciprocità, le virtù fisiologiche, l’umanitarismo e l’ethos delle istituzioni, Gehlen vuol sottolineare il radicamento biologico dell’agire morale e mettere in evidenza che nei momenti di crisi, quando l’equilibrio tra l’aspetto vitale e quello socio-culturale dell’uomo si interrompe, il ritorno a quei residui istintuali può servire da punto di partenza per ricercare un nuovo possibile assestamento.

71.  A. Gehlen, Morale e ipermorale, cit., p. 107. 72.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 93. 73.  Ivi, p. 99. 74.  Ivi, p. 100; cfr. anche A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 205.

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7. L’ethos ipertrofico Nella Germania del dopoguerra, sotto l’influsso di una sconfitta senza precedenti e dopo la distruzione di gran parte delle risorse interne, gli individui sono ricaduti nei loro interessi privati e hanno limitato le loro aspirazioni entro un orizzonte particolarmente ristretto. Al passo con l’Illuminismo e la cultura industriale, si è sviluppata nella maggior parte degli uomini, nel posto prima occupato da una fede trascendente, una sorta di “cavità emozionale” dove confluiscono sentimenti che, per loro natura, sono elargibili senza confini e che facilmente si mescolano a un pensiero razionale di tipo utilitaristico, così come si verifica nell’etica della stirpe allargata. Si tratta di un ethos dell’amore per il prossimo che, nato all’interno della comunità familiare, si estende poi a tutto il genere umano. L’aspetto etico si sposta così in primo piano, a spese di quello metafisico e di quello teologico: L’affermazione dell’«ethos umanitario» coincide con un ruolo e un peso sempre maggiori assunti dall’etica nella disciplina delle pulsioni e nella strutturazione del carattere, cioè con una «ipertrofia morale», concetto con il quale Gehlen intende accrescere la responsabilità dell’uomo, caricandolo in prima persona di scelte che in passato erano delegate alle istituzioni o ai sistemi religioso-culturali. All’inizio della nostra epoca industriale una vecchia morale basata su antagonismi ed alte tensioni ha potuto essere portata avanti ancora per diverso tempo come ideale, poiché essa trovava la sua controparte e la sua razionalità «informante» nella natura e nella relativa scarsezza dei guadagni economici derivanti dal suo sfruttamento75. Oggi, invece la natura è ben conosciuta e la sua trasformazione è una questione di preparazione, costanza e decisione. L’uomo si considera 75.  Cfr. A. Gehlen, Morale e ipermorale, cit., cap. 10: Ipertrofia morale, pp. 153-176.

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ormai capace di penetrarla fin nei suoi più riposti segreti e di sfruttarla in tutte le sue più nascoste risorse. In questo senso l’umanità non trova più nulla di superiore a sé, essa deve consolidarsi basandosi sulle sue sole forze e rivolgere sempre a se stessa richieste illusorie di felicità. La morale che fa riferimento a questo generale stato di cose può respingere e dissolvere tutto ciò che potrebbe contrastare il trionfo su una natura svuotata e su una storia ormai stanca. Il dio immortale abita oggi in un altro angolo dell’universo; il dio mortale non è certamente più rappresentato dallo stato, ma dall’intera presente umanità, le cui richieste gravano ora come un carico sempre più difficilmente sopportabile sull’animo del singolo, che non trova più un linguaggio per fondare quell’impossibilità di una morale assoluta che sente chiaramente dentro di sé. Da quando Dio ha fatto posto alla «storia» e questa alla «post-histoire», l’uomo deve imputare a se stesso tutto ciò che è successo nel gran numero di avvenimenti politici, economici, sociali in cui, pur non facendone direttamente parte, tutti erano indirettamente coinvolti76. Gli antichi potevano giustificarsi ricorrendo all’imperscrutabile volontà del fato, i cristiani si appellavano al «giudizio divino», noi moderni non possiamo più trovare sollievo fuori di noi. La morale non tollera alcun vuoto, e così arriviamo a sentirci colpevoli per ciò che è successo al di là della nostra partecipazione diretta, ma che noi comunque non abbiamo impedito che accadesse o meglio abbiamo lasciato compiere. La morale non permette alcuna ignoranza, quindi noi ci colpevolizziamo non solo per quanto abbiamo effettivamente compiuto, ma anche per ciò che è accaduto senza la nostra opposizione. In questa prospettiva Gehlen vuole mettere in luce una grave situazione

76.  Ivi, p. 142.

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di «ipertrofia morale», verificatasi proprio a causa dell’eccessivo espandersi dell’umanitarismo e dell’eudemonismo di massa. Gli ambiti da cui questo ethos ipertrofico prende le mosse e in cui è più facilmente rintracciabile, sono il mondo femminile e l’ambiente degli intellettuali77. Il pacifismo, la tendenza verso la sicurezza e il comfort, l’immediato interesse per il singolo, l’indifferenza per lo stato, la prontezza ad accettare le cose e gli uomini così come sono, rappresentano tutte qualità che hanno il loro legittimo luogo di origine in seno alla famiglia e a cui poi il femminismo aggiunge la sua forte colorazione, perché la donna introduce istintivamente in ogni valutazione gli interessi per la prole, le cure per la famiglia, la ricerca del minimo rischio e del massimo benessere. Nella vitalità e nella freschezza del pensiero femminile risiedono le premesse per un allargamento dell’etica in senso umanitario, quando l’ethos dello stato è ormai compromesso o eliminato. Tra gli strati sociali che hanno interesse alla propagazione di questa ipertrofia morale ci sono anche vasti gruppi di intellettuali: gli scrittori, i teologi, i filosofi, i sociologi, i docenti, gli studenti e gli artisti. In una parola si tratta di tutti quegli intellettuali che, non essendo attivi nella prassi politica, economica, amministrativa, sono in grado di lasciar espandere il loro ethos. Infine dobbiamo tener conto, nella nostra analisi dell’ipertrofia morale, di un ulteriore elemento: la privatizzazione degli interessi78. L’ethos del benessere umanitaristico si inserisce autonomamente nei bisogni di vita di uomini privatizzati, cioè di quelli che recepiscono con evidenza gli interessi più prossimi, che sono poi quelli della propria famiglia. E così l’ethos torna alla sua fonte naturale, perché non c’è differenza qualitativa tra il bene della famiglia e il bene dell’umanità. 77.  Ivi, p. 149. 78.  Ivi, pp. 155 ss.

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Oltre alla privatizzazione degli interessi, la moderna società industrialmente avanzata è caratterizzata anche dall’accentuato sviluppo dei mass-media, per cui si può dire che l’enorme aumento del nostro campo di informazioni ha comportato un corrispettivo accrescimento del nostro senso di responsabilità: si sta così delineando una specie di «morale a distanza», che si estende fino alla periferia dell’informazione ed è completamente libera da rapporti con la religione. «L’etica ipertrofica agisce come un prolungamento della vita familiare in tutto il mondo»79, si viene così a delineare una «teleetica», o un nuovo tipo di etica collegata con i moderni mezzi di comunicazione di massa, la quale stabilisce una forma di obbligazione anche nei confronti di coloro che sono solo virtualmente presenti. Il sistema di «morale umanitaria» che si sta affermando si fonda su due principali valori, talora contrastanti e comunque frutto della ricca società industriale di massa: l’egalitarismo e l’eudemonismo, valori che derivano dall’etica familiare (eguaglianza dei figli e il benessere di ciascun membro della famiglia). E invero, al sentimento di eguaglianza e fratellanza universali, tipico di certi ambienti culturali come le comunità religiose, i pacifisti, gli artisti, le femministe, ecc., si affianca e talvolta si contrappone l’«egoismo privato», il desiderio del benessere e della felicità personali. Il nuovo capitolo della storia dell’umanità, che aveva avuto inizio con l’avvento dell’industrializzazione, sta cominciando a scriversi. L’uomo contemporaneo ha acquisito sicurezza nella conoscenza della natura e nella possibilità di sfruttarne le risorse; per spiegare gli avvenimenti che turbano l’equilibrio naturale e le vicende umane non ha più bisogno di ipotizzare poteri occulti da neutralizzare con pratiche magiche, né di ricorrere al fato degli antichi o all’imperscrutabile volere divino. «Che la

79.  Ivi, p. 169.

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morale dell’uomo non abbia tenuto il passo del veloce tempo della tecnica non è che un aspetto di questo fatto»80. Di qui derivano anche tutte le situazioni di crisi e di conflitto che contraddistinguono la problematica etica del ’900, dove la morale familiare si contrappone a quella istituzionale, il relativismo e il nichilismo si oppongono al principio di responsabilità e l’indifferentismo alla morale ipertrofica. Il contrasto tra le diverse regolazioni etico-sociali mette in luce la difficoltà in cui si trova immerso l’uomo contemporaneo nella sua ricerca di un nuovo equilibrio. Il ricorso alle radici istintuali delle regolazioni etico-sociali potrebbe aiutarci a riavviare un processo che, al momento, sembra essersi bloccato. Come sostiene Gehlen occorre sempre tener presente il doppio aspetto sia biologico, sia spirituale nell’analizzare tutti i comportamenti umani, compreso naturalmente quello etico. Il fatto che si riparta dalle radici biologiche in un momento in cui l’elemento spirituale-ideativo appare più debole non vuol dire che non si auspichi un suo ritorno. Per ora il nostro tempo è caratterizzato dalla debolezza delle istituzioni e dalla caduta delle idealità in campo religioso, politico, socio-economico, dalla erosione di mete assolute e ideologie totalizzanti e dalla presenza di una «ipertrofica» morale umanitaria la quale, con la sua adattabilità e il suo allentamento di vincoli rigidi, si presenta rivolta al progresso e proiettata nel futuro, in quanto per l’uomo gehleniano, destinato a conservarsi e a sopravvivere al meglio, «non esiste via di ritorno e vi sono solo soluzioni in avanti»81.

80.  Ivi, p. 23. 81.  A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 186.

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Capitolo IV Helmuth Plessner e l’“eccentricità” dell’uomo

1. Cenni biografici Helmuth Plessner nacque a Wiesbaden nel 1892. Frequentò la facoltà di medicina e poi si trasferì ad Heidelberg, dove seguì corsi di zoologia e di filosofia. Nel 1914 frequentò i corsi di Husserl a Gottingen e in seguito, specialmente dopo la svolta husserliana del 1913, abbandonò la città e proseguì i suoi studi filosofici occupandosi di Kant. Si laureò nel 1916, discutendo presso l’Università di Erlangen una tesi dal titolo Vom Anfang als Prinzip der Bildung transzendentaler Wahrheit (Sull’origine del principio di formazione della verità trascendentale). Nel 1926 ottiene il suo primo incarico, come Professore straordinario, all’Università di Colonia e inizia così una lungo e produttivo periodo di studi e ricerche, che porterà alla pubblicazione della sua opera più significativa: Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica). Alla fine del 1932, a causa delle leggi razziali, fu costretto a lasciare la sua attività accademica e di ricerca e ad abbandonare la Germania. Dopo un breve soggiorno in Turchia, fu chiamato dall’amico Buytendijk, ad insegnare sociologia all’Università di

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Groningen in Olanda. Fino al 1950 rimase nei Paesi bassi, dove pubblicò Die verspäte Nation (La nazione in ritardo), in cui cerca di analizzare le cause del nazismo in Germania, e Lachen und Weinen (Il riso e il pianto), in cui analizza il significato e i limiti del comportamento umano. Nel 1951 avverrà il suo ritorno nel paese d’origine, dove ricoprirà la cattedra di sociologia all’Università di Göttingen. In questo periodo, pur insegnando sociologia, i suoi interessi filosofici si faranno sempre più forti ed evidenti. Lo testimoniano i programmi dei suoi corsi universitari, sull’estetica e l’antropologia filosofica, sul criticismo kantiano e sulla fenomenologia husserliana, e le sue opere Die Frage nach der Conditio Humana del 1961 e Die Emanzipation der Macht (L’emancipazione del potere) del 1962. In quegli anni svolse anche importanti attività di ricerca in collaborazione con la Scuola per le Ricerche Sociali di New York e l’Università di Zurigo. Plessner è morto a Göttingen all’età di 92 anni, il 12 giugno 1985.

2. La «posizionalità eccentrica» dell’uomo Per comprendere l’uomo, secondo Plessner, non si pongono più come criteri determinanti né l’antitesi tra filosofia e vita, né quella tra anima e corpo, res cogitans e res extensa di cartesiana memoria. La sua antropologia non si occupa di sostanze o di principi di valore assoluto, ma di strutture. La pianta, l’animale e l’uomo sono oggetto di studio non più come essenze in se stesse, ma in relazione con l’ambiente che le circonda. Il rapporto tra l’organismo e l’ambiente costituisce la base su cui si fonda l’antropologia plessneriana. L’uomo, dunque, non appare né come una realtà separata dal mondo della natura e dai vari gradi dell’organico che lo precedono nella scala evolutiva, né esprime l’opposizione dello

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spirito nei confronti della vita, come aveva sostenuto Scheler. L’aspetto fisico e quello spirituale sono entrambi egualmente costitutivi dell’essenza originaria dell’uomo. Quest’ultimo rappresenta un importante passo avanti, una «svolta radicale» nella sfera della vita, che con l’essere umano ha raggiunto il più alto grado di consapevolezza possibile. L’identità umana è un’identità particolarmente complessa che si riconosce sia nel suo essere-corpo che nel suo essere nel corpo, in altri termini l’io si riconosce pienamente sia nella sua dimensione fisica che nella sua dimensione psichica. Grazie alla sua «posizionalità eccentrica» l’uomo è capace di rapportarsi sia alla sfera della corporeità che alla sfera dell’interiorità, sia al mondo esterno che al mondo interno. L’uomo è se stesso ed ha se stesso: può considerare il suo corpo (Körper) come un qualsiasi altro oggetto o cosa esistente e analizzarne così l’estensione, il peso, il volume; oppure può identificarsi con il suo corpo (Leib), inteso come il centro delle proprie sensazioni, azioni, emozioni. Egli è un corpo vivente ed ha un corpo inanimato. Mentre l’animale è un corpo di cui diviene consapevole nelle diverse situazioni che si trova a vivere, l’uomo non solo è un corpo, ma ha anche un corpo, il corpo che egli è gli diviene, in qualche modo, oggetto. È dunque questo il carattere distintivo dell’uomo plessneriano, grazie al quale può superare quella necessità biologica a cui non può sfuggire l’animale. Esso vive «al centro» del proprio ambiente naturale e la sua vita è regolata da un rigido determinismo; non avendo consapevolezza della propria esistenza non può mai uscire, porsi fuori da quel centro. Ciò è invece possibile all’uomo, il quale, grazie all’autoriflessione, è in grado di trascendere il centro biologico della propria vita e di acquisire una posizione «eccentrica». Quest’ultima si esprime nel particolare rapporto dell’uomo con il suo corpo: egli non è semplicemente un corpo esistente, ma

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ha un proprio corpo; vi è in lui una continua difficoltà, un rapporto dialettico tra l’essere un corpo, cioè esistere senza averne consapevolezza come gli animali, e l’avere un corpo, cioè rendersi conto di disporre di un organismo che sperimenta come altro da sé. Da qui la «posizione eccentrica», il «distacco originario», che individua e qualifica peculiarmente l’uomo nei confronti degli altri esseri viventi. In conclusione, sottolinea Plessner, se la vita dell’animale è centrica, la vita dell’uomo, che non può spezzare la centratura e insieme ne è proiettato al di là, è eccentrica. L’eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, del suo posizionamento frontale rispetto al campo circostante. Come io che rende possibile il completo ripiegamento su di sé del sistema vivente, l’uomo non sta più nel qui ed ora, bensì «dietro» di esso, dietro se stesso, privo di luogo, nel nulla; egli si scioglie nel nulla, in un’assenza di luogo e di tempo spazializzante e temporalizzante. Privo di luogo e di tempo, egli rende possibile il vissuto di se stesso e insieme il vissuto della sua assenza di spazio e di tempo come uno stare al di fuori di se stesso, poiché l’uomo è una cosa vivente che non sta più soltanto in sé, bensì il suo «stare in sé» è il fondamento del suo stare. Egli è posto nel suo limite e perciò è al di là di ciò che lo limita come cosa vivente. L’uomo non soltanto vive ed esperisce, ma esperisce il suo esperire.1

Così ad individuare l’uomo in quanto tale non è solamente una particolare costituzione fisica, quanto la sua struttura centralistica e, nello stesso momento, la negazione e il superamento di questa struttura e il passaggio all’eccentricità. Si verifica, in questo modo, un completamento della vita animale, nel senso che nell’uomo l’intero sistema del corpo animale viene organizzato secondo il principio della riflessività. La vita che così risulta è capace di distanziarsi da se stessa e di porre tra sé e 1.  H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 315-316.

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gli eventi un intervallo. Posto al centro della propria esistenza, l’uomo sperimenta la centricità che lo caratterizza, ma, al contempo, si pone fuori da essa, proiettandosi oltre se stesso: egli è propriamente eccentrico. Per l’uomo trovarsi in una posizione eccentrica vuol dire decentrarsi, perdere la propria centralità nei confronti delle cose e delle persone che lo circondano fino a divenire anch’esso cosa tra le cose del mondo. Solo distanziandosi da sé, ponendosi – come sostiene Plessner – alle proprie spalle, l’uomo può vedere se stesso e la propria posizione nel mondo, quel centro provvisorio che occupa e da cui poi, in quanto essere eccentrico, si decentra. «“Coscienza” è il nome che la nostra tradizione ha assegnato a questa distanza da sé, a questa non coincidenza con sé, per cui è possibile dire che la coscienza è lacerazione»2. L’eccentricità ha dato origine a una frattura insanabile, che permane anche dopo che sia stata compiuta l’auto-riflessione e che si sia raggiunta la coscienza. Egli vive al di qua e al di là della frattura, come psiche e come corpo e come l’unità psicofisicamente neutrale di queste due sfere. Ma l’unità non copre la duplicità d’aspetto, non lo fa risultare da sé, non è essa il terzo che concilia gli opposti, che passa nelle sfere contrapposte, e non forma una sfera indipendente. Essa è la frattura, lo hiatus, il vuoto «ciò attraverso cui» della mediazione, che per il vivente stesso equivale all’assoluto carattere duplice e alla duplicità d’aspetto di corpo e anima, in cui egli la esperisce.3

La necessità di essere un corpo, in senso somato-psichico e al contempo di avere un corpo, in senso materiale, determina

2.  U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’era della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 198. 3.  H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 316.

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un’effettiva frattura nella vita umana: l’uomo è, per Plessner, questa frattura, è il centro della continua mediazione tra l’esterno e l’interno. Nell’ambito della continua dialettica all’interno di questo campo dinamico di trasformazioni, l’uomo deve condurre la propria vita, deve trovare una sua, sia pur paradossale unità. L’immagine dell’uomo, che emerge dalla filosofia plessneriana, va quindi ricercata nella naturale disposizione dell’io a non opporsi alla sua condizione antropologica fondamentale, che lo qualifica come perenne processualità, come campo di continue trasformazioni sulla base di nuovi elementi di identità che vengono via via acquisiti. Di qui emerge una conditio humana caratterizzata dall’inquietudine e dall’incertezza, dall’insicurezza e dalla precarietà, che sembrano essere i motivi dominanti di una certa sensibilità filosofica che percorre la dimensione dell’umano all’interno del secolo ventesimo4.

3. I gradi dell’organico Il nostro Autore si propone di sviluppare una fenomenologia dell’essere vivente che, servendosi di un solo principio di riferimento, sia in grado di spiegare la specificità che caratterizza i diversi gradi della vita nel mondo organico e, in particolare, la peculiarità della natura umana. Nella sua opera del 19285, Die Stufen des Organischen und der Mensch, Plessner presenta la «teoria dei modali organici», o la «teoria aprioristica dei caratteri organici essenziali», in cui elabora una deduzione 4.  Cfr. R. Troncon, Studi di antropologia filosofica. 1. La filosofia dell’inquietudine, Guerini, Milano 1991. 5.  Il 1928 è l’anno in cui vede la luce anche La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler.

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delle «categorie» e dei «principi a priori» da cui dipendono le caratteristiche tipologiche della vita in generale e di quella umana in particolare. Il fulcro attorno a cui si sviluppa tutta la questione è il principio della «posizionalità», da cui si deduce la differenziazione, a livello gnoseologico ed ontologico, tra realtà organica e inorganica e, all’interno di quest’ultima, tra mondo animale e mondo umano. La semantica della «posizionalità» è abbastanza vasta da poter rappresentare le forme di esistenza della vita nei tre livelli: vegetale, animale e umano. Plessner stabilisce, così, una differenza «posizionale» tra i tre diversi regni della natura, alla quale non attribuisce soltanto un valore di classificazione, ma la considera come un principio costitutivo della natura stessa, da cui prendono origine, seguendo una logica successione, i diversi livelli organici6. La gradualità si basa sulla coesione interiore del vivente, sulla capacità di rapporto con il mondo esterno e sull’autonomia interiore del proprio sé. Si stabilisce così una «scala posizionale» all’interno della quale i tre regni naturali si presentano secondo una gerarchia sistematica. Il primo grado dello sviluppo organico è quello vegetale. Esso è caratterizzato da una «forma aperta» nella quale la pianta si trova ad essere immediatamente inserita. L’organismo vegetale, quindi, si trova inglobato nell’area di cui fa parte senza potersi distinguere da essa, ma rimanendo legato al ciclo vitale a cui appartiene. In questo modo stabilisce un rapporto esclusivamente assimilatorio con l’ambiente favorevole al suo sviluppo, senza avere alcuna possibilità di distaccarsene per lasciar emergere la sua individualità. Vi è, quindi, nell’organismo vegetale, un’assoluta incapacità di distinzione tra mondo interno e mondo esterno, i quali risultano fusi nell’unica esigenza di favorire

6.  H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., in particolare il cap. VI: La sfera dell’animale, pp. 261-311 e il cap. VII: La sfera dell’uomo, pp. 312-368.

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la sopravvivenza, proprio perché manca un organo centrale, un Selbst, che dia consapevolezza al soggetto e lo guidi verso comportamenti intenzionali e coscienti. La pianta è una «forma aperta» in quanto si trova direttamente inserita nel proprio ambiente, la sua esistenza risulta dall’immediata interazione con la realtà, non dal libero divenire di un essere che conserva una sua autonomia rispetto al mondo che lo circonda; chi si distingue come una «forma aperta» è completamente integrato nel proprio habitat e privo di autosufficienza. «È aperta quella forma che inserisce l’organismo, in ogni sua esternazione vitale, immediatamente nell’ambiente e lo rende una parte non indipendente del ciclo vitale a lui corrispondente»7. I rappresentanti del regno vegetale sono quello che divengono spontaneamente entrando in contatto con la loro sfera biologica e si dissolvono completamente nel circolo della vita. Sono caratterizzati dalla mancanza di un nucleo centrale di riferimento che, mediando tutti i loro comportamenti, sia in grado di permettere una pausa tra lo stimolo e la risposta. La pianta non possiede tale centro e quindi non è in grado né di inserirsi attivamente nell’ambiente, né di raggiungere quel genere superiore di unità che è riservato agli animali. Non si può considerare la «forma aperta» un individuo, ma un Dividuum, in quanta manca di un qualsiasi organo centrale che rappresenti il corpo nel suo insieme, non è ancora presente quel genere superiore di unità che caratterizza l’individuo come singolo nell’ambito della vita animale. La pianta, inoltre, non possiede un movimento in senso proprio, ma può compiere solo impercettibili spostamenti involontari e privi di coscienza, come tendere verso la luce o indirizzarsi verso l’acqua. Infine la «forma aperta» non raggiunge mai, come la «forma chiusa» il proprio completamento, ma è sempre in continuo cambiamento. Sino al momento della sua morte continua 7.  Ivi, p. 244.

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a crescere, ad allungarsi verso l’alto, poiché la sua caratteristica peculiare è rappresentata da una eterna incompiutezza, che si realizza in un ininterrotto fluire che passa attraverso il ciclico divenire del regno vegetale. La «forma aperta», che caratterizza il mondo vegetale, si modifica, nel regno animale in «forma chiusa». In questo caso siamo di fronte a un nuovo livello vitale dove l’interazione è mediata da una struttura centrale che determina l’attiva immissione dell’animale nel suo ambiente e interrompe quella circolarità priva di ostacoli in cui si realizzava il ciclo biologico delle piante. L’animale è infatti un organismo autonomo che reagisce all’ambiente secondo i propri impulsi, istinti, sensazioni; egli recepisce gli stimoli che derivano dal mondo esterno e quindi agisce intervenendo direttamente su di esso. L’animale è, dunque, un vivente dotato di coscienza, in quanto è in grado di distinguersi dall’ambiente e, se necessario, di opporvisi. La sua è, tuttavia, una coscienza limitata, perché egli non è consapevole di tutto ciò. Egli ha un suo corpo, ha un ambiente che conosce e su cui è in grado di agire, ma non è consapevole di averli. Questo è il limite della riflessività animale. Plessner ci presenta questo secondo grado del mondo organico con la metafora spaziale della «centricità». L’animale occupa una posizione nello spazio la quale non è altro che il suo centro. In questo centro recepisce gli stimoli e le provocazioni che giungono dall’esterno e da questo centro mette in moto le sue reazioni di risposta. L’animale vive a partire dal centro e a ritornare nel suo centro, ma non vive come centro, egli è incapace di prendere le distanze è privo di riflessività8; è posto nel suo corpo vivente e si muove a partire dal centro che questo corpo rappresenta, ma senza che questo centro gli sia dato, senza che abbia coscienza del suo stesso modo d’essere. Esso ha un corpo

8.  Cfr. ivi, pp. 264-265.

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e un ambiente su cui agisce, ma non ha la consapevolezza di averli, non ha coscienza del suo avere coscienza. Questo è il limite della riflessività animale. L’organismo centrico non è ancora un io, nonostante sia in grado di sapere e conoscere, non sa di questo suo sapere, è privo di quella capacità riflessiva che lo renderebbe cosciente del suo stesso esistere. Così chiarisce lo stesso Plessner: Così come la forma aperta dell’organizzazione vegetale mostra i caratteri posizionali senza che la cosa sia ‘posta’ in relazione con la sua posizionalità e questa possibilità si realizza nella forma chiusa dell’organizzazione animale, così anche la forma d’essere dell’animale mostra una possibilità che può essere realizzata soltanto attraverso qualcosa d’altro. Nel grado animale la riflessività completa è impedita al corpo vivente. Il suo essere posto in sé, il suo vivere a partire dal centro, determina la tappa della sua esistenza, ma non sta in rapporto con lui, non gli è dato. Qui, allora, è ancora aperta una possibilità di realizzazione. La tesi è che essa sia riservata all’uomo.9

Il grado umano costituisce infatti il livello più elevato di realizzazione della legge posizionale. Rientra anch’esso, come il grado animale nella forma chiusa, ma, a differenza di questo, «si pone alle proprie spalle»10, con ciò si intende che riesce a distanziarsi da sé e a raggiungere il punto di maggiore riflessività di tutto il sistema vivente: l’autocoscienza. L’animale esiste a partire dal suo centro, vive nel suo centro, ma non vive come centro. Esso esperisce contenuti nel campo circostante, proprio ed estraneo, può anche acquisire il dominio sulla propria corporalità e formare un sistema riflessivo un Se stesso, un sé, ma non si vive.11

9.  Ivi, p. 313. 10.  Cfr. ivi, p. 351. 11.  Ivi, p. 312.

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La riflessività totale viene raggiunta esclusivamente dall’uomo, il quale è in grado di prendere le distanze da sé e di mettere fine al dominio incondizionato della centralità. È dunque questo il carattere distintivo dell’uomo plessneriano, grazie al quale può superare quella necessità biologica a cui non può sfuggire l’animale. Esso vive «al centro» del proprio ambiente naturale e la sua vita è regolata da un rigido determinismo; non avendo consapevolezza della propria esistenza non può mai uscire, porsi fuori da quel centro. Ciò è invece possibile all’uomo, il quale, grazie all’autoriflessione, è in grado di trascendere il centro biologico della propria vita e di acquisire una posizione «eccentrica». Quest’ultima si esprime nel particolare rapporto dell’uomo con il suo corpo: egli non è semplicemente un corpo esistente, ma ha un proprio corpo; vi è in lui una continua difficoltà, un rapporto dialettico tra l’essere un corpo, cioè esistere senza averne consapevolezza come gli animali, e l’avere un corpo, cioè rendersi conto di disporre di un organismo che sperimenta come altro da sé. Da qui la «posizione eccentrica», il «distacco originario», che individua e qualifica peculiarmente l’uomo nei confronti degli altri esseri viventi. In conclusione, sottolinea Plessner, per l’uomo il mutamento dall’essere all’interno della propria corporalità all’essere al di fuori della propria corporalità è un’insopprimibile duplicità d’aspetto dell’esistenza, una reale frattura nella sua natura. Egli vive al di qua e al di là della frattura, come anima e come corpo e come l’unità psicofisicamente neutrale di queste due sfere. Ma l’unità non copre la duplicità d’aspetto, non la fa risultare da sé, non è il terzo che concilia gli opposti, che passa nelle sfere contrapposte, e non forma una sfera indipendente. Essa è la frattura, lo hiatus, il vuoto “ciò attraverso cui” della mediazione, che per il vivente stesso equivale

148 all’assoluto carattere duplice e alla duplicità d’aspetto di corpo e anima, in cui egli la esperisce.12

Così ad individuare l’uomo in quanto tale non è solamente una particolare costituzione fisica, quanto la sua struttura centralistica e, nello stesso momento, la negazione e il superamento di questa struttura e il passaggio all’eccentricità. Si verifica, in questo modo, un completamento della vita animale, nel senso che nell’uomo il centro posizionale viene organizzato secondo il principio della riflessività. La vita che così risulta è capace di distanziarsi da se stessa e di porre tra sé e gli eventi un intervallo. Posto al centro della propria esistenza, l’uomo sperimenta la centricità che lo caratterizza, ma, al contempo, si pone fuori da essa, proiettandosi oltre se stesso: egli è propriamente eccentrico. Tutto questo comporta che l’uomo si presenta in una pluralità di forme. Posizionalmente si ha una triplice determinazione: il vivente è corpo, nel corpo (come vita interiore o anima) e fuori dal corpo, come il punto di vista da cui derivano entrambi. Un individuo posizionalmente caratterizzato in questo triplice modo si dice persona. È il soggetto del suo vivere, delle sue percezioni e delle sue azioni. Esso sa e vuole. La sua esistenza è veramente posta nel nulla.13

Mentre con l’animale si attua il passaggio dal dividuum all’individuum, cioè alla singolarità garantita dal centro, con l’uomo e con la sua eccentricità si attua il passaggio dall’individuo alla persona, intendendo con questo termine colui che è corpo, che è nel corpo e che è fuori del corpo. La persona rappresenta la più completa realizzazione dell’eccentricità e quindi il modo

12.  Ivi, p. 316. 13.  Ivi, p. 317.

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più peculiare per l’uomo di essere se stesso, di riflettere su di sé, e di raggiungere così l’autocoscienza. Dall’assunzione di questa prospettiva derivano delle conseguenze sul modo in cui l’uomo si rapporta al mondo. L’essere eccentrico, proprio in forza della sua capacità di prendere la distanza, è in grado di rapportarsi sia alla sfera della sua fisicità che a quella della sua psichicità, sia al mondo oggettivo che a quello soggettivo. L’uomo è se stesso ed ha se stesso: questa è la frattura costitutiva della natura umana. Posso rivolgermi al mio corpo come a un qualsiasi altro oggetto mondano e considerarlo esclusivamente nella sua estensione spaziale, ma, al contempo, sono il mio corpo, come centro delle mie azioni, sensazioni, esperienze psichiche: sono un corpo-vivo (Leib) e ho un corpo-oggetto (Körper). La frattura tra questi due aspetti identifica l’essenza più autentica e complessa dell’essere umano, inteso nel doppio aspetto di soggetto e oggetto, anima e corpo, spirito e vita. L’unica vera unità consentita all’uomo è la consapevolezza di questo distacco originario, di questo iato che lo rende una creatura inquieta, sempre alla ricerca di un’improbabile mediazione.

4. Le tre leggi antropologiche fondamentali In che modo l’uomo potrà assumere una giusta posizione nella sua vita? Su quali basi fonderà il proprio modus vivendi? L’opposizione tra eccentricità e vitalità costituisce un intralcio al modo di vivere umano. Nell’esporre le tre leggi antropologiche fondamentali14 Plessner vuole mostrarci in che modo l’uomo costruisce la sua vita nel distacco originario della «immediatezza mediata». 14.  Cfr. ivi, cap. VII, pp. 332-368.

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La prima è la legge dell’«artificialità naturale»15, secondo la quale l’uomo non vive in immediato contatto con l’ambiente che lo circonda, sentendosi naturalmente sicuro e protetto, ma ha bisogno di seguire «la strada più lunga delle cose artificiali». Mentre l’animale esiste semplicemente senza conoscersi e senza riflettere sull’ambiente di cui fa parte, l’uomo, invece, ha perso la naturalezza e deve condurre la propria vita trasformando l’ambiente naturale in un mondo artificiale. Egli si trova in una situazione di perenne disagio, nella necessità di agire per compensare la sua instabilità. Deve produrre strumenti che lo aiutino a vivere nella natura, ha bisogno di mezzi artificiali (utensili, abitazioni, vestiti, ecc.) che fungano da mediatori tra l’individuo e la realtà naturale. L’uomo trova nell’artificialità del mondo culturale la sua seconda terra natale e può così spezzare tutti quei limiti che lo vincolano ad un’esistenza esclusivamente naturale. Egli vive solo se è in grado di condurre autonomamente la propria vita, egli deve agire se vuole esistere e la sua deve essere un’azione intelligente, che gli permetta di superare quelle carenze che la natura gli ha imposto. L’animale può servirsi di quello che trova in natura, l’uomo è in grado di scoprire nuovi usi per quello che la natura gli offre. L’uomo rappresenta il grado più alto di tutto il processo vitale in quanto è l’unico essere vivente capace di condurre la sua vita servendosi di mezzi artificiali, che gli permettono di raggiungere un equilibrio che il mondo naturale non gli avrebbe mai offerto. La seconda legge, definita da Plessner dell’«immediatezza me­ diata»16, sottolinea la caratteristica dell’uomo di vivere, da un lato come organismo animale nell’immediatezza della natura, dall’altro come essere «eccentrico» nella mediazione culturale. 15.  Ivi, pp. 332-344. 16.  Ivi, pp. 344-363.

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Da una parte l’uomo non può rinunciare all’«immediatezza» della realtà che lo circonda, dall’altra ha la necessità di mediare costantemente, ad opera della propria azione formatrice, quanto gli viene semplicemente dato, per strutturare, servendosi di sempre nuove invenzioni e scoperte, il mondo umano. In questa seconda legge si mette in luce, come, nel comportamento umano si correlino gli aspetti a priori e quelli a posteriori; la produttività dell’uomo, la sua capacità di dar vita a ciò che prima non esisteva richiede sempre una trasformazione. Si parte da un’esperienza derivata dal rapporto immediato con la natura e la si trasforma in una creazione artificiale, si attua così il passaggio da una semplice possibilità ad una concreta verità. Il martello non esisteva prima che l’uomo lo inventasse, ma si sentiva l’esigenza di qualcosa che potenziasse la forza della mano nel colpire i cunei che si dovevano insinuare attraverso la pietra. Dall’immediatezza dell’esigenza, quindi, si passa all’artificiosità della mediazione, alla creazione di un oggetto che prima non c’era e che serve a risolvere il problema. In questa prospettiva di passaggio dall’immediatezza esperienziale alla mediazione logica, si collocano tutte quelle attività che individuano l’uomo in quanto tale, a partire dalle prime forme di espressività fino a giungere al linguaggio e alle sue astrazioni logico-concettuali. La terza legge è quella del «luogo utopico»17, in base alla quale l’uomo, come essere eccentrico, viene a trovarsi sempre oltre tutto quello che gli si presenta di fronte, oltre ogni sicurezza raggiunta; costretto a rinunciare a qualsiasi forma di stabilità, si trova a non avere un proprio domicilio, a non poter contare su una propria casa nel mondo. Da ciò deriva l’insicurezza e l’inquietudine che lo caratterizzano, in quanto, allontanandosi dall’immediatezza del semplice dato, sperimenta se stesso e 17.  Ivi, pp. 363-368.

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il mondo come nullità e quindi sente il bisogno di porsi alla ricerca di un fondamento assoluto. Dal momento che all’eccentricità non corrisponde nessuna precisa posizione, all’uomo non è dato sapere quale sia il luogo della verità. Il concetto di essere e di nulla, la causa dell’esistenza individuale e del mondo cambiano nel corso della storia, a secondo delle diverse culture e religioni. Le immagini di Dio possono cambiare insieme a quelle dei santi e degli uomini che a loro si rivolgono, ma il luogo della vita e della morte, il significato della verità, il senso del destino può darlo soltanto la religione. L’uomo è diviso tra un mondo interno e un mondo esterno, egli si trova «dietro» e «sopra» la sua vita e sperimenta il suo essere e quello del mondo come elementi contingenti e assolutamente deboli fino alla nullità. L’eccentricità nella sua forma di vita, la sua presenza da nessuna parte, il «luogo utopico» per l’appunto, aprono all’uomo le più diverse possibilità che vanno da un pessimismo nichilistico ad un’apertura verso il trascendente. La concezione dell’uomo sviluppata da Plessner poggia, a ben vedere, su una struttura dialettica. L’uomo, infatti, realizza se stesso (sintesi) attraverso una «mediazione» (antitesi) a partire dalla propria realtà biologica (tesi), diversamente dall’animale che non compie questo movimento dialettico, in quanto non può uscire dalla sua animalità, dal suo centro, dal suo essere soltanto un corpo, ma vive nell’immediatezza e nel determinismo dell’istinto. L’uomo per realizzare se stesso ha bisogno di superare il piano organico, di avere oltre che di essere un corpo, è necessario, quindi, che si distacchi dalla immediatezza di ciò che gli è dato come animale, che neghi la sua realtà biologica per ricomporla in una sintesi superiore come realtà culturale. Nella dialettica plessneriana il momento della scissione, della contrapposizione tra i due opposti poli è senza dubbio predominante. La capacità di dire di no, evidenziata da Scheler, la ritro-

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viamo nel conflitto tra l’immediatezza biologica e la mediazione culturale, che costituisce un aspetto fondamentale dell’intero comportamento umano. L’uomo, nell’attuare se stesso, media a sé il suo mondo, attraverso la sua capacità di negarsi come essere esclusivamente naturale e di trasformarsi in un essere artificiale. La «immediatezza mediata», intesa come distacco dal condizionamento biologico e ambientale per aprirsi ad un’esistenza pienamente umana, rappresenta l’aspetto motore di tutto questo processo e si avvicina a quell’«immane potenza del negativo» che Hegel aveva così ampiamente e approfonditamente trattato.

5. Antropologia della musica L’indagine sull’uomo come unità antropologica, come soggetto e oggetto dell’esperienza, trova negli studi plessneriani sulla musica un ambito particolarmente fecondo. La ricerca di un accordo tra sensatezza e sensibilità si realizza in questo caso in maniera particolarmente evidente. La geometria e la musica costituiscono il campo di applicazione delle estesiologie speciali, rispettivamente della vista e dell’udito, la prima per un accordo funzionale tra percepito e atto percettivo, la seconda per un accordo materiale. Nella direzione del raggio visivo la visione contiene già in se stessa la funzione del vedere, mentre la funzione uditiva non esiste nella coscienza: il mettersi in ascolto, disporsi a sentire rimangono esterni rispetto all’atto uditivo, devono collegarsi direttamente con il suono, quando questo viene emesso. Quindi il rapporto intenzionale tra soggetto e oggetto, la necessità per l’occhio di riferirsi ad una struttura fenomenica visibile, nella funzione uditiva diviene problematico, poiché l’esperienza sonora mette in crisi la stessa coscienza sensoriale e impone un’apertura sensata, ma carente di qualsivoglia riferimento oggettuale, alle qualità acustiche del suono.

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Lo schema uditivo legato all’esercizio del suono si presenta come un tentativo di cogliere il senso dell’esperienza in tutta la sua ampiezza, superando qualsiasi distinzione dualistica. Con l’udito viene meno il porsi di fronte dell’oggetto, l’intelletto entra in crisi e la coscienza perde la sua centralità. Resta, tuttavia, l’immediatezza dell’esperienza, dell’aisthesis, e la difficoltà di descriverla, di comunicarla in spazi, come quelli del suono, senza parola. La musica rappresenta così la possibilità di verificare la tenuta, l’autenticità delle qualità oggettuali dell’esperienza su un piano precategoriale e prelogico, che precede qualunque elaborazione concettuale. La musica, rispetto a tutte le altre formazioni artistiche, poesia, pittura, architettura, scultura, è quella più pura perché può fare del tutto a meno della componente visiva, oggettuale, legando totalmente la sua significatività all’evidenza percettiva, al peculiare accordo della materia acustica con la corporeità, quasi in un semplice gioco senso-motorio. Essa, infatti, come arte del movimento per eccellenza, permette quella particolare «funzione di mediare tra il comprendere e il mettersi in moto, con le possibilità molteplici di cui dispongono l’intelletto e il corpo vivente dell’uomo»18, quindi è in grado di esprimersi sia con la gestualità sia con la capacità di comprensione. All’interno del dibattito sulla musica, la danza riveste un ruolo privilegiato, in quanto attraverso i suoi movimenti e la sua gestualità dà forma a particolari relazioni che si connettono all’andamento musicale e lo esaltano attraverso i movimenti ritmici del corpo. 18.  H. Plessner, Sensibilité et raison. Contribution à la philosophie de la musique (1936), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, pp. 131-183; tr. it., Sensibilità e intelletto. Un contributo per la filosofia della musica, in Id., Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a cura di A. Ruco, CLUEB, Bologna 2007, p. 137.

155 Il tentativo della danza testimonia tuttavia una connessione interna tra linee sonore e movimenti corporei che scaturisce dalla realtà della voluminosità e del carattere di impulso della sonorità. La danza mostra che è possibile apprendere le linee sonore come gesti, o meglio che è possibile che queste trascinino nella direzione dei gesti, che dunque è possibile trovarsi in un rapporto con l’accadimento del suono che cancella la distanza tra l’ascoltatore e ciò che si ascolta, la distinzione tra l’apprendere e l’essere appresi.19

Si evidenzia qui la capacità di mediazione dell’udito tra la danza, come peculiare modalità del movimento, e la musica, come un accadimento di senso strutturalmente connesso alla materia percettiva e quindi come peculiare modalità del comprendere; «la funzione di mediazione della modalità acustica consiste nel fatto che l’udito cela in sé un intimo accordo tra intenzione espressiva e atteggiamento espressivo, tra motivazione e movimento, una modalità di connessione tra corpo e spirito che obbedisce a regole del gioco diverse dalla modalità che connette l’agire con la razionalità»20. I materiali sonori, con cui la musica si esprime, pur essendo privi di qualsiasi riferimento oggettuale, hanno una tale evidenza da riuscire a trascinare e coinvolgere l’ascoltatore. Il suono «si dà essenzialmente in modo voluminoso», ha una sua specifica corporeità, è un corpo sonoro ed occupa uno spazio proprio che, pur essendo privo di luogo, si dà direttamente nel vissuto esperienziale. Il suo significato risiede nella concretezza della prestazione sonora, nel suo «suonar giusto dentro di noi»21,

19.  H. Plessner, L’anthropologie de la musique (1937), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, pp. 184-200; tr. it, L’antropologia della musica, in Id., Studi di estesiologia, cit., p. 151. 20.  H. Plessner, Sensibilità e intelletto, cit., p. 140. 21.  L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2001, p. 113.

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come sostiene Wittgenstein, non in qualcosa che non appare, ma nella evidente immediatezza della percezione. Infatti, grazie al valore simbolico del materiale sonoro, la musica diviene per Plessner un terreno particolarmente fertile per indagare il rapporto costitutivo tra sensibilità e significato. L’analisi dell’esperienza musicale gli permette di riformulare il rapporto tra sensibilità e intelletto in una prospettiva che allarga lo spazio del significato al di là dei concetti e degli schemi verso la ricchezza qualitativa dell’esperienza sensibile. Plessner intende così rivedere il rapporto tra senso e sensibilità per dimostrare non solo che l’intelletto dovrebbe saper far tesoro dell’esperienza sensibile, ma anche che quest’ultima non è riducibile soltanto ai meccanismi quantitativi dello stimolo sensoriale. L’estesiologia della musica mostra infatti l’aspetto riflessivo, non esclusivamente legato all’immediatezza istintuale, dell’attività percettivo-espressiva che prende corpo nell’esperienza sonora, giustificando così la ricerca di un rapporto produttivo tra corpo e mente, che superi le visioni parziali sia del formalismo che dello psicologismo. Attraverso la logica dei sensi, quindi, cultura e sensorialità vengono considerate in sovrapposizione, recuperano un nuovo rapporto. I sensi non hanno dunque solo una funzione passiva di semplice registrazione di quanto proviene dall’esterno, ma anche una funzione attiva di trasformazione del mondo. Ne segue che con la rappresentazione sensibile si dà già vera conoscenza, un’elaborazione dell’oggettivo nel soggettivo, in quanto le modalità sensibili rappresentano il collegamento tra spirito e corpo. Tra la percepibilità del suono, la sua concretezza, la sua evidenza ed espressività, ovvero tra impressione ed espressione acustica vige un rapporto di stretta simbiosi. Viene immediatamente in luce il tema della ricettività del suono, che prende le mosse da semplici suoni e contenuti sonori per elevarsi verso

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un aspetto peculiare e straordinario che simbolizza significati psichici e spirituali. A questo punto entra in gioco a pieno titolo il soggetto con la sua capacità produttiva, che comprende e decide. Infatti nel fare musica, nell’accadere e nel succedersi dei suoni emerge l’aspetto riflessivo del comportamento specificamente umano, che si differenzia dalle dinamiche senso-motorie in quanto legato alla soggettività e al vissuto di chi ascolta. In questo caso il carattere di apertura dei suoni, la loro incompiutezza e flessibilità può essere considerata come una connotazione ancora generica e duttile che si determina nell’esperienza dell’ascolto e nell’accordo con il vissuto dell’ascoltatore, per cui l’esperienza musicale costituisce l’unica via d’accesso al mondo dell’ermeneutica degli affetti. La musica va oltre ogni possibile apparenza facendo a meno sia della mediazione visiva che di quella verbale in quanto si rende direttamente parlante. È proprio l’autonomia rispetto al testo che permette alla musica di non accompagnare le parole, ma di generarle di suo pugno. È a questo stadio che il suono riesce ad esprimere l’inesprimibile22, il silenzio che accompagna la parola. L’arte figurativa non può fare a meno di cogliere lo stato di fatto in cui l’oggetto si presenta, mentre l’arte dell’udito non ha bisogno di alcun riferimento oggettivo. Tutta l’arte figurativa è perciò possibile soltanto indirettamente cogliendo lo stato di cose, mentre l’arte dell’orecchio può farne a meno e, nel e con lo svolgersi di una molteplicità di suoni, vivere immediatamente non soltanto il ritmo, ma anche la sua motivazione, non soltanto la dinamica e i colori, ma anche il «perché» li si utilizza. La risposta alla domanda di come sia possibile, in generale, la musica pura, la offre dunque questa disciplina della fenomenologia che definiamo estesiologia

22.  Cfr. V. Jankélévitch, La musique et l’ineffable (1961), Éditions du Seuil, Paris 1983; tr. it., La musica e l’ineffabile, a cura di E. Lisciani-Petrini, Tempi Moderni, Napoli 1985.

158 dell’udito, poiché mostra come la spaziosità e la capacità di gonfiarsi della materia acustica motivano entro certi limiti lo svolgimento e la sua direzione, cosicché i suoni possano funger da veicolo immediato del simbolo.23

A differenza delle arti figurative, il suono non si lascia ridurre a mero segno, la struttura temporale della musica non si può legare soltanto alla misurazione quantitativa del metronomo, ma va ben oltre i suoni considerati singolarmente nella loro durata e intensità. La possibilità di percepire una sequenza sonora risiede nella sua struttura globale e progressiva che richiede da parte dell’ascoltatore una disposizione particolare in grado di coglierne il flusso unitario attraverso un atto interpretativo, un’ermeneutica della produzione sensoriale. Questa particolarità è propria esclusivamente dei suoni e non può essere attribuita a altri materiali sensibili come i colori. Plessner rifiuta la possibilità, sostenuta da Kandinskij, di «fare musica con i colori»24 in quanto è insostenibile la possibilità di disancorare il colore dal legame con l’oggettualità ad esso corrispondente. Egli, dunque, sostiene la non affinità tra ascolto e visione, musica e raffigurazione, arte non-oggettuale e arte oggettuale in quanto qualunque sperimentazione del visibile, come la frantumazione del soggetto nell’espressionismo o il musicare in colori di Kandinskij, è comunque una sperimentazione sulle dimensioni dell’oggettualità, e non è certamente un trasformazione della vista in ascolto. «La musica non è né proposizione né pittura, ma è un accadere che invita a una “consonante”

23.  H. Plessner, Zur Phänomenologie der Musik, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, pp. 59-66; tr. it., La fenomenologia della musica, in Id., Studi di estesiologia, cit., p. 108. 24.  H. Plessner, Die Musikalisierung der Sinne. Zur Geschichte eines modernen Phänomens (1972), in Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, pp. 479-492; tr. it., La musicalizzazione dei sensi. La storia di un fenomeno moderno, in Id., Studi di estesiologia, cit., p. 155.

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partecipazione, interpretabile e comprensibile appunto perché possiamo “accordarci” con il decorso sonoro, possiamo figurarlo con il corpo e i gesti»25. L’elemento essenziale dei suoni, sottolineato da Plessner, è che il loro svolgersi risulta assolutamente autonomo e non richiede alcun riferimento esterno, ma è legato allo stesso succedersi dei suoni all’interno dell’aisthesis, liberi dal riferimento oggettivo necessario per i colori. Strettamente correlata al fare musica risulta la dimensione del­ l’ascolto che ne esalta l’allusività e la simbolicità del messaggio26, infatti la dimensione più profonda della musica sta dentro di noi, il suono, espressione umana per eccellenza, ha bisogno della mediazione dell’ascolto, il quale assume i connotati di un’esplorazione all’interno della nostra interiorità, coinvolgendo il nostro sé, la nostra dimensione più profonda. In seguito alla svolta antropologica della riflessione plessneriana, l’estesiologia del suono rappresenta un elemento fondamentale per la comprensione dell’esperienza umana. Infatti nel fare musica, nella successione dei suoni si evidenzia l’aspetto riflessivo del comportamento precipuamente umano, che si distingue dalle dinamiche solamente sensoriali. In questo modo l’apertura, la plasticità e l’incompiutezza nella sua flessibilità e adattabilità si accorda con il vissuto dell’ascoltatore nelle diverse esperienze d’ascolto. La comunicazione musicale per la sua donazione di senso e per la sua struttura presimbolica rinvia ad un tipo di esperienza più ampia ed aperta rispetto a quella concettuale del linguaggio, ad un puro accadimento sonoro, la cui evidenza non ha bisogno

25.  H. Plessner, Anthropologie der Sinne, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. III; tr. it. di M. Russo, Antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 59. 26.  Cfr. E. Matassi, Musica, Guida, Napoli 2004.

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di alcun contenuto logico e formale. L’assenza di parole dei suoni rimanda, dunque, ad un particolare tipo di espressione, legato all’accordarsi e al succedersi dei suoni, alla necessità di decentramento dell’in sé, come immediata cassa di risonanza del sensibile, rispetto al fuori di sé, come condizione della comprensione e della comunicazione. Quindi, per Plessner, la musicalità non è niente altro che essere in potere, essere signore, del rapimento che provocano i suoni. Soltanto l’estraneità a questo rapimento rende comprensibili le linee sonore. Il dare ad intendere dei suoni deriva dalla loro connessione interna con una fine ancora velata, che il compositore predispone e che l’ascoltatore «comprende», nei cui segni essi risuonano. Il compositore può predisporre questa fine, l’ascoltatore comprenderla, perché il gioco socievole dei suoni con le sue leggi peculiari di attrazione e di perdita comprende il nostro strato del comportamento corporeo.27

Di qui la posizione speciale che la musica occupa all’interno dell’antropologia plessneriana in quanto il fenomeno sonoro, al contempo prodotto e recepito dall’uomo, ne denota la duplice appartenenza all’in sé e al fuori di sé, «qualcosa prorompe da lui e lo incontra di nuovo dall’esterno come suono; ciò che in origine gli era proprio gli ritorna come “suo” esternarsi»28, tutto ciò caratterizza la peculiarità dell’essere umano, il quale, unico tra tutti i viventi, ha in sé una duplice modalità: l’interno e l’esterno, l’organismo e l’ambiente, l’empirico e il metaempirico e, nella relazione dialettica di questi due piani, realizza la propria essenza.

27.  H. Plessner, L’antropologia della musica, cit., p. 152. 28.  Ivi, p. 143.

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6. Espressione, linguaggio, gestualità Come abbiamo chiarito, per l’uomo essere nel mondo vuol dire dirigere la propria vita, e questo comporta l’essere esposto alla invadente stimolazione che proviene dall’ambiente esterno, ma al contempo essere in grado di selezionare e scegliere le risposte comportamentali adeguate. Per poter fare tutto questo l’uomo deve crearsi un ambiente artificiale, un mondo culturale dotato di complessi strumenti che gli permettano di esprimersi e di entrare in rapporto con gli altri. Tuttavia egli conserva sempre uno stretto e vincolante rapporto con l’organicità naturale. Infatti, l’apertura al mondo che lo contraddistingue, non esclude assolutamente la sua appartenenza alla sfera fisico-biologica del reale. Il fenomeno espressivo, pur dimostrando l’esistenza di un forte vincolo corporeo, evidenzia, al contempo, la presenza di un qualcosa che di per sé non è corporeo, ma sembra appartenere ad un livello di interiorità psichica e mentale. Le sue manifestazioni si evidenziano solo attraverso la mediazione corporale, ma manifestano anche una componente spirituale e concettuale. Se fino ad ora Plessner aveva cercato di comprendere l’uomo attraverso quegli aspetti tipici e peculiari che lo rendevano diverso da tutti gli altri viventi per rintracciare così quei requisiti a-priori in grado di spiegare la specificità umana all’interno del mondo della vita, in questo caso29 il punto di partenza si trova nel mondo dei comportamenti e quindi il percorso da compiere dovrebbe essere inverso: dalla sfera delle espressioni corporee bisognerebbe risalire alla sfera dell’interiorità. Per conoscere la vera natura dell’uomo non si cercano più quegli elementi a-priori su cui si fonda il suo carattere eccentrico, ma si ap-

29.  Cfr. H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, tr. it. di V. Rasini, Bompiani, Milano 2000; Id., Il problema della conditio humana, a cura di M. Attardo Magrini, in I Propilei, vol. I, Mondadori, Milano 1967.

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profondiscono alcuni comportamenti espressivi come il gesto, il linguaggio, il riso e il pianto. La corporeità e le sue dimostrazioni costituiscono un’imprescindibile fonte di conoscenza dell’uomo, infatti non è possibile separare la persona dal suo corpo, anzi le manifestazioni corporee devono essere inscritte nell’ambito di uno studio globale dell’uomo che lo consideri come una inscindibile unità psico-fisica. «Che cos’è l’uomo? Ce lo dice il corpo e i suoi atti, non solo la sua anima. Se l’uomo è anche corpo ed espressione, anche il corpo e l’espressione saranno in grado di parlarci di lui»30. L’espressione, la gestualità, il linguaggio sono comportamenti che derivano dall’interazione tra l’uomo e l’ambiente e la loro spiegazione non può essere di tipo esclusivamente meccanicistico. Plessner non accetta la soluzione darwiniana secondo cui ogni atto espressivo deriva da un’eccitazione del sistema nervoso ed è riconducibile ad una ripetizione di comportamenti divenuti abituali, perché selezionati come utili alla sopravvivenza della specie. Nell’immagine mimica della rabbia, ad esempio, si presenta una deformazione della linea della bocca che mette in evidenza i denti canini. Darwin spiega questa smorfia ormai inutile in termini filogenetici. Le scimmie antropoidi, da cui l’uomo discende, possedevano una forte mascella con canini molto sviluppati, che servivano a difenderle dagli attacchi degli avversari, o semplicemente a minacciarli e a spaventarli. Quando l’animale era preso dalla rabbia il movimento della bocca precedeva la conseguente reazione offensiva. Questo atteggiamento è sopravvissuto al processo regressivo dei canini ed ha acquistato un carattere esclusivamente dimostrativo, che oggi ritroviamo in forma mimica nelle situazioni in cui si scatenano analoghe eccitazioni, ma soltanto a livello emotivo. Nello stesso

30.  O. Tolone, Homo absconditus. L’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, p. 136.

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modo, l’aggrottare le sopracciglia quando si è in collera o quando si è immersi nella riflessione potrebbe essere ricondotto all’atto di fissare intensamente il nemico prima dell’aggressione e l’espressione del viso amareggiata o serena alle reazioni dovute alle sensazioni gustative dell’amaro e del dolce. Queste spiegazioni sono considerate da Plessner troppo semplicistiche e riduttive, in quanto egli vuole interpretare il com­ portamento umano come uno specchio, una rivelazione dell’essenza dell’uomo. Si può affermare che il comportamento è la dimensione in cui l’uomo esprime se stesso e dalla quale è lecito partire per comprenderlo adeguatamente, è lo spazio in cui ogni analisi dualista cartesiana risulta impossibile. Qualunque esso sia, è un gioco (di corpo ed anima) nel quale non è dato sapere dove inizi e dove finisca la competenza della fisiologia; è vita in movimento, spirito oggettivato, indifferente unità psico-fisica che rifiuta ogni scissione tra interno ed esterno, così come rifiuta ogni approccio che sia puramente fisiologico, metafisico o addirittura antimetafisico. Il comportamento esprime la natura complessa dell’uomo, è la tipica manifestazione di un essere che è per natura in rapporto con il mondo, cioè corpo in possesso di una propria intenzionalità.31

La capacità espressiva umana si manifesta particolarmente in due ambiti: il linguaggio e la gestualità. Il linguaggio rappresenta il simbolo dell’essenza umana, che realizza per suo tramite la possibilità di designare ciò che non è al momento presente e di riattualizzarlo attraverso il ragionamento. Tra le forme espressive esso si colloca «in una posizione chiave per la definizione del monopolio specifico della natura umana, consente una comunicazione articolata e fondata sull’astrazione concettuale»32. 31.  Ivi, p. 138. 32.  V. Rasini, Il riso e il pianto nel pensiero di Helmuth Plessner, Introduzione a H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., p. 14.

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L’uomo è l’unico a disporre di questa possibilità; l’animale, invece, non parla, non è capace di avere un linguaggio perché non è affatto interessato a quelle informazioni che vanno oltre l’immediata necessità, che non sono legate a necessità contingenti. Lo scimpanzé può emettere suoni il cui valore non è altro che un avvertimento, un segnale utile a guidare il comportamento del suo branco; solo l’uomo si serve del linguaggio perché ha qualcosa da dire, perché dà al suono un contenuto e un significato ben precisi. I suoni emessi da molte specie animali per avvertire di un pericolo o per attirare il partner, il cinguettio degli uccelli e le grida di eccitazione delle scimmie sono delle semplici forme di segnalazione, che si realizzano nel contatto diretto tra individuo e individuo. Manca la mediazione del nominare una cosa sulla base di un’esperienza passata, la capacità esclusivamente umana di riferirsi all’assente e di entrare in rapporto di strumentalità nei confronti del nostro stesso corpo, a maggior ragione lo siamo nei confronti del mondo circostante, infatti tramite il linguaggio possiamo interessarci della realtà senza bisogno di entrarci necessariamente in contatto. Solo l’uomo è in grado di crearsi un mondo astratto di concetti e di significati, che gli permettono di non perdersi in quell’incontrollabile eccesso di stimoli che il mondo circostante continuamente gli invia. Il linguaggio quindi, come mezzo per orientarsi e al contempo distaccarsi dal mondo, aiuta l’uomo a conquistarsi la sua «posizione eccentrica». L’espressione mimica rappresenta, insieme al linguaggio, uno dei mezzi di cui l’uomo si serve per comunicare i suoi stati d’animo. La gioia e la collera, la paura e il coraggio, la tristezza e il terrore, l’eccitazione e l’indolenza si esprimono con tutto il corpo, anche se il raffinato gioco dei muscoli facciali, permette di osservare particolarmente intorno agli occhi e alla bocca i cambiamenti di espressione. La gelosia, la vergogna, il rimor-

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so e l’avidità si riflettono sulla superficie del nostro viso e lo trasformano in uno specchio, in una cassa di risonanza delle emozioni e delle eccitazioni psichiche. Se i gesti permettono all’uomo di esprimersi, pensiamo ad esempio al linguaggio gestuale dei sordo-muti, che va considerato come tale a tutti gli effetti, l’espressione mimica ha un significato in quanto in essa si manifesta uno stato interiore. La fronte corrugata, l’occhio brillante, il mento in fuori, i pugni stretti sono gli elementi che convergono a rendere un’immagine immediatamente espressiva, corrispondente ad un determinato stato emotivo, senza che ci sia bisogno di alcun intervento personale, come accade, invece, per i gesti. Il carattere immediato e involontario dell’espressione mimica si manifesta nell’impossibilità di sostituire o separare i movimenti dai contenuti espressivi. I gesti, come l’ammiccare, l’indicare con il dito, il portare la mano sul cuore, ecc. sono sempre sostituibili, sia con altri gesti che con le parole, ma quando si trasformano in movimenti dell’espressione mimica diventano insostituibili, legati al contenuto significativo e inseparabili dall’unità dell’insieme. La compenetrazione che si stabilisce tra il contenuto psichico e l’espressione corporea è talmente perfetta che risulta impossibile cogliere il contenuto di un affetto, di una disposizione, di un sentimento senza tener conto delle possibilità espressive dell’organizzazione corporea. La gioia potrebbe forse mostrarsi senza l’impulso ad allargarsi verso l’alto, la rabbia senza la furiosa spinta in avanti o la paura senza la tendenza a contrarsi e a ritirarsi verso il basso? Senza la componente esteriore il corrispondente stato interiore non può raggiungere la chiarezza che appartiene alla sua natura. Quindi è sicuramente valida la teoria di James-Lange quando sottolinea l’impossibilità di distinguere tra l’aspetto psichico e la sensazione organica che cooperano a dar vita ad un’unica espressione emotiva. La gioia, infatti, senza la sensazione di

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espansione e allargamento della regione toracica, non è certamente completa. Nell’espressione mimica, dunque, il contenuto psichico e la forma fisica, si comportano come i due poli di un unico insieme, che non può essere diviso senza distruggere la sua naturale e spontanea vitalità. Ci sono volti dall’aspetto imbronciato e dall’aspetto allegro, angosciati e splendenti, disponibili ed evitanti, immagini dotate di una trasparenza spirituale e di una evidente capacità simbolica. E per quanto sia possibile ingannare gli altri controllando la propria fisionomia e la propria gestualità per cercare di nascondere il nostro reale aspetto interiore, esiste comunque una modalità specifica dell’espressione corporea che è impossibile sostituire.

7. Il carattere espressivo del riso e del pianto Per Plessner, l’uomo si caratterizza non soltanto per la sua capacità di esprimersi attraverso il linguaggio, di compiere procedimenti di astrazione e razionalizzazione, ma anche di ridere (Laichen) e di piangere (Weinen). Si tratta di espressioni emotive proprie esclusivamente dell’essere umano, che non trovano alcun riscontro nel regno animale. Ma «se fossero solo manifestazioni affettive, moti espressivi emozionali, non ci sarebbe nulla di nuovo da cogliere, poiché allora, non meno dell’uomo, anche gli animali a lui prossimi potrebbero ridere e piangere»33. Appare quindi evidente che la spiegazione del coinvolgimento emotivo, dell’esperienza di gioia o di dolore non è sufficiente a raggiungere le cause approfondite di questi fenomeni. Occorre andare oltre i motivi occasionali che scatenano queste reazioni

33.  H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., p. 55.

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e indagare il rapporto che l’uomo ha con se stesso e, in particolare, con il suo corpo. Diversamente dalle espressioni guidate dall’emozione, nelle quali si estrinseca e si irradia una disposizione, una affezione, un moto dell’animo, nel riso e nel pianto manca tale passaggio dall’interno all’esterno. L’uomo può ridere e piangere – qui si mostra la loro affinità in quanto appartenenti a un determinato genus di modalità espressiva umana – solo se si consegna ad essi. Si abbandona al riso, si lascia andare al pianto. Mentre nel riso la mancanza di un passaggio ben si mostra nelle manifestazioni di scatto, di esplosione, di scoppio, nel pianto essa si nasconde dietro il peculiare comportamento riflessivo della persona, che per trovare la soluzione deve lasciarsi andare. Il motivo del riso ci assale ed esercita una costrizione. Spesso dobbiamo reprimerlo con la forza per non lasciarlo esplodere. Anche il motivo del pianto può assalirci e avanzare pretese sul nostro autocontrollo. Ma non gli siamo consegnati con la stessa immediatezza. Esso ci commuove e solo quando cediamo alla commozione sgorgano le lacrime.34

Scoppiare a ridere o a piangere sono espressioni che denotano una frattura, una scissione all’interno dell’equilibrio psico-fisico dell’uomo, quindi egli perde il controllo di se stesso e non è più in grado di esprimersi come fa d’abitudine, di affrontare con le normali procedure la violenta ondata emotiva che lo colpisce; a questo punto entra in crisi l’unità della persona e affiora così un comportamento disgregato e di rottura, nel quale i processi corporei si emancipano e l’individuo perde il controllo sull’aspetto fisico del suo esistere, che gli sfugge di mano e lo costringe a reazioni impreviste. Nell’eruzione del riso e del pianto l’uomo si sente improvvisamente spossessato, è come se perdesse il rapporto con l’aspetto fisico dell’esistenza, che si sottrae al suo governo e precipita in una reazione non più controllabile.

34.  Ivi, pp. 109-110.

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Quando l’essere umano, nonostante la capacità mediatrice che lo caratterizza, non è in grado di affrontare la situazione adottando un comportamento adeguato, la sua capacità di controllo viene meno. In quei momenti in cui nulla è più possibile e non sembrano esserci alternative, qualsiasi parola o gesto sembra completamente inefficace e vano. Il corpo serve ora come cassa di risonanza e come superficie di trasmissione di emozioni che sollecitano uno sfogo, ora come strumento linguistico, ora come mezzo di segnalazione e organo della gestualità, ora come mezzo per lo spostamento, la presa, il sostegno, il trasporto, l’urto, ecc. Ovunque, le circostanze situazionali consentono all’uomo – anzi lo esigono – di trovare rispetto a esse un rapporto chiaro con la singolarità della sua esistenza fisica, come corpo nel corpo. Ma se la situazione non può essere affrontata, diviene priva di una possibile risposta; e allora falliscono il linguaggio e i gesti simbolici, le azioni e gli atteggiamenti gestuali. Allora non c’è più niente da fare, non c’è più nulla da dire e nulla su cui dire. In simili, difettose circostanze sfugge necessariamente anche ciò rispetto a cui l’uomo, per la sua esistenza fisica, deve trovare un rapporto.35

Ogni volta che l’uomo perde il controllo e non è più in grado di mantenere l’unità tra l’essere un corpo e l’avere un corpo «si ha una disorganizzazione, vale a dire i due aspetti si separano restando non mediati, e il corpo si emancipa come strumento e come cassa di risonanza della persona»36. Se non si può più parlare, l’uomo reagisce con il riso o con il pianto, lasciando alla libera espressione della fisicità e della sua dirompente carica il compito di fornire una risposta. Benché espressione di una rottura e di una capitolazione, il riso e il pianto rappresentano ancora una risposta: la sola possibile in una situazione impossibile. In questo modo, anche nel mo-

35.  Ivi, p. 111. 36.  Ivi, p. 229.

169 mento in cui tutto sembra perduto, l’uomo – dice Plessner – “rimane persona”, mostrandosi capace di far fronte alla situazione e di venirne a capo. Soltanto un essere che può prendere distanza dal mondo e non si lascia assorbire completamente dalla situazione è realmente in grado di giocare l’ultima carta del riso e del pianto; solo una natura eccentrica è in grado di mostrare il proprio potere anche in una condizione di impotenza, di esercitare una forma di libertà quando ogni possibile libertà sembra perduta.37

Occorre, però, aggiungere ancora una cosa. Perché il riso e il pianto possano spontaneamente venir fuori è necessario che la situazione oltre ad essere non risolubile, sia anche non minacciosa per l’uomo. Quando ci si trova nell’impossibilità di rispondere e al contempo in una situazione minacciosa, siamo spesso assaliti da vertigini, capogiri, sudori, fino a giungere alla nausea, al vomito e allo svenimento. In questo caso «l’uomo capitola come persona, perde la testa»38. Nelle situazioni in cui non è possibile dare una risposta, ma non ci sono minacce di alcun tipo, abbiamo reazioni di riso e di pianto. L’uomo capitola come unità corporeo-spirituale, vale a dire come vivente; perde il rapporto con la sua esistenza fisica, ma non capitola come persona. Non perde la testa. Alla situazione a cui è impossibile rispondere egli trova comunque – grazie alla sua posizione eccentrica, per la quale egli non viene mai completamente assorbito dalla situazione – la sola risposta ancora possibile: quella di prendere distanza da essa e liberarsi. Il corpo, uscito dal rapporto con l’uomo, si incarica per lui della risposta, non più in qualità di strumento dell’azione, del linguaggio, del gesto simbolico o dell’atteggiamento gestuale, ma come corpo. Perdendo il dominio su di sé, rinunciando a un rapporto con se stesso, l’uomo testimonia ancora la sua sovrana comprensione dell’incomprensibile, ancora mostra il

37.  V. Rasini, Il riso e il pianto nel pensiero di Helmuth Plessner, cit., p. 17. 38.  H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., p. 112.

170 suo potere nell’impotenza, la sua libertà e la sua grandezza nella coercizione. Sa trovare una risposta anche là dove non c’è più nulla da rispondere.39

Possiamo, quindi, concludere che le condizioni essenziali del ridere e del piangere sono la reazione “repentina” ed “eruttiva” nei confronti di un evento non minaccioso a cui è impossibile rispondere. In entrambi i casi viene spezzato l’equilibrio tra fisico e psichico, corpo e mente, con un’improvvisa perdita di auto-dominio, ma nella “fulminea” esplosione del riso si interrompe il rapporto tra l’io e il suo corpo, lasciando a quest’ultimo la completa libertà di replicare; mentre nel “graduale” abbandono al pianto è l’uomo stesso che rinuncia a tale rapporto, lasciandosi trascinare dall’ondata emotiva. Nel riso l’uomo risolve una situazione. Con esso le risponde direttamente e in forma impersonale. L’uomo cade in un automatismo anonimo. Non ride lui stesso; qualcosa ride in lui, ed egli è per così dire solo teatro e contenitore di questo processo. Altra cosa è il pianto. Anche nel pianto l’uomo dà una risposta abbandonandosi a un anonimo automatismo che si innesca più o meno lentamente, ma che può avere il sopravvento su di lui. Questa risposta però implica l’uomo stesso. L’uomo è internamente coinvolto; è toccato, commosso, scosso. Quando gli si serra la gola e compaiono le lacrime, egli si lascia andare interiormente, viene sopraffatto e si abbandona al processo del pianto.40

Il pianto si differenzia dal riso poiché implica una chiusura dell’uomo in se stesso con una conseguente esclusione del mondo dal proprio orizzonte, da tutto ciò deriva un senso di impotenza e di isolamento. Le situazioni scatenanti sono tali da impedire una risposta tipica o abituale e, quindi, inducono l’individuo ad abbandonarsi a un puro meccanismo corporeo, 39.  Ibidem. 40.  Ivi, p. 181.

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dal quale, però, viene poi catturato, senza essere in grado di potersene distanziare. In questo caso, sia che si tratti di un dolore o di un turbamento emotivo, l’uomo è preso da una sensazione di debolezza e di spaesamento che gli impedisce di mettere in atto qualsiasi tipo di risposta sensata. Così egli cede e si abbandona, dando libero sfogo alle lacrime. Ancora una volta si tratta di un puro meccanismo corporeo, che si presenta come l’unica via d’uscita possibile di fronte ad una situazione che non lascia aperta alcuna possibilità. Nel riso e nel pianto, quindi, non si manifesta il superficiale dualismo tra piacere e dolore, ma «una doppia limitazione del comportamento umano in generale»41, in quanto entrambi reagiscono ad una situazione estrema. Dal momento che viene meno l’opposizione tra piacere e dispiacere, su cosa si fonda – si chiede Plessner – l’antitesi tra riso e pianto? La risposta è: il loro carattere di reazione a una crisi del comportamento umano in generale. Il contrasto è possibile solo tra cose che abbiano qualcosa in comune. Al riso e al pianto è comune il fatto di essere risposte a una situazione limite. Il contrasto si fonda sull’opposizione delle direzioni in cui l’uomo viene a trovarsi in queste situazioni limite. Essendo possibile individuare solo due forme di situazione limite in cui all’uomo viene inibito ogni possibile comportamento, si presentano anche due sole reazioni alla crisi aventi il carattere della risposta. Il riso risponde all’inibizione del comportamento per una inconciliabile molteplicità di punti a cui agganciarsi; il pianto all’inibizione del comportamento per la soppressione della relatività dell’esistenza.42

Ad ogni modo in entrambe le esperienze, sia del riso che del pianto, viene posta in evidenza la natura composita dell’uomo, che si presenta nella duplicità dialettica dell’essere un corpo e 41.  Ivi, p. 222. 42.  Ivi, p. 231.

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dell’avere un corpo. Questi due modi, che identificano e caratterizzano la peculiarità dell’esistenza umana, sono tra loro complementari e richiedono un continuo aggiustamento del loro equilibrio per impedire che uno dei due prenda il sopravvento sull’altro. Normalmente, attraverso una continua mediazione dialettica, l’uomo riesce a bilanciare le opposte esigenze; ma, a volte, in particolari situazioni in cui non ci si sente a proprio agio, il corpo diviene uno strumento con cui camuffare le difficoltà. Un sorriso stereotipato può spesso servire ad uscire da situazioni imbarazzanti, ma quando non esistono più vie d’uscita, allora il rapporto tra il proprio corpo e la propria mente si disorganizza e la corporeità prende il sopravvento attraverso il riso e il pianto, cioè per mezzo di espressioni emblematiche e incontrollabili, nelle quali il soggetto non gioca più alcun ruolo. Nel ridere e nel piangere l’essere umano vive l’impossibilità di replicare, di trovare una risposta adeguata ad una situazione che lo mette in crisi; a questo punto è il corpo a prendere l’iniziativa e a reagire per quanto gli è possibile. Ma questo può accadere solo a un essere che vive nella duplicità dell’immediatezza mediata, dell’essere e dell’avere un corpo. Solo chi assume una posizione “eccentrica” può al contempo prendere le distanze o decidere di annullarle. Solo chi è in grado di ridere o di piangere dimostra di poter prendere una doppia distanza. da sé e dal mondo, ed è solo l’uomo che ha questa capacità di essere e di avere un corpo, di esistere e di vedersi come esistente. In questa duplicità e nella necessità di una sua continua mediazione consiste il rischio e allo stesso tempo l’unicità della vita umana.

Antologia

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Capitolo I Etica e antropologia in Max Scheler

1. Max Scheler. Beni e valori* Scheler sottolinea la necessità di distinguere l’etica materiale dei valori dalle etiche dei beni e degli scopi, infatti mentre i primi sono oggettivi ed a-priori, i secondi sono relativi ed empirici, in quanto sono concreti e reali. Sono beni gli oggetti di possesso e di uso, mentre i valori, entità oggettive ed immutabili, sono le qualità possedute dai beni. Kant aveva giustamente confutato tutte le etiche basate sull’esperienza, ma con il suo formalismo aveva impedito ogni conoscenza della pienezza del mondo morale, con le sue qualità e le sue relazioni; Scheler con la sua Etica materiale dei valori vuole realizzare una fondazione contenutistica dell’etica che gli permetta di superare la vuotezza del formalismo kantiano, pur conservando il suo rifiuto di ogni condizionamento relativistico, utilitaristico e eudemonistico della morale.

Tanto poco i nomi dei colori connotano mere proprietà di cose corporee – sebbene nell’intuizione naturale del mondo le mani *  Da M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., pp. 32-35, 38-39, 42-45.

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festazioni cromatiche vengano per lo più osservate con precisione solo in quanto servono da tratti distintivi delle differenti unità costituite da cose corporee – altrettanto poco i nomi dei valori designano le mere proprietà di quelle unità date in forma di cose che definiamo come beni. Esattamente come è possibile osservare il rosso anche sotto forma di una mera «qualità» estesa (ad es. nella purezza del colore spettroscopico) senza concepirlo come rivestimento di una superficie corporea, ma come pura superficie o configurazione spaziale generica, così è possibile rilevare, in linea di principio, valori del tipo: piacevole, stimolante, grazioso, amichevole, sublime, nobile, senza rappresentarli quali proprietà di cose o di uomini. Cerchiamo di provare quest’affermazione riferendoci anzitutto ai valori più semplici della sfera del piacevole sensibile, nella quale è ipotizzabile la più stretta connessione tra la qualità assiologica ed il relativo supporto reale. Il sapore di ciascun frutto è connesso ad un particolare tipo di gusto. Lo stesso sapore, ad es. quello della ciliegia, dell’albicocca, della pesca, non si dissolve nelle diverse sensazioni provate nel gustare, nel vedere e nel toccare. In ciascuno di questi casi il sapore presenta una qualità specificamente diversa; non sono quindi i complessi di sensazioni tattili, visive o gustative provate nel singolo caso e nemmeno le molteplici proprietà che si manifestano nella percezione del singolo frutto a differenziare la specificità qualitativa del gusto. Le qualità assiologiche che caratterizzano in questi casi il «piacevole sensibile» sono autentiche qualità del valore stesso. È fuor di dubbio che le possiamo cogliere, a condizione che ne abbiamo la capacità e l’arte, senza riferirci all’immagine ottica o tattile del frutto o connessa ad una funzione sensoria diversa da quella del gusto, per quanto possa poi risultare difficile distinguere un frutto dall’altro senza avvalerci, ad es., dell’odorato, qualora vi fossimo abituati. Il non intenditore potrebbe avere delle difficoltà già nel distinguere al buio

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il vino bianco da quello rosso. Questo ed altri fatti dello stesso genere, ad es. l’incapacità di differenziare le percezioni del gusto senza ricorrere all’odorato, provano semplicemente quanto sia articolato il livello di assuefazione dei singoli individui e l’abitudine di cogliere e registrare i vari gusti in un unico modo. Quanto però vale già in questa sfera vale ancor di più in quegli ambiti di valore al di fuori della sfera del piacere sensibile. In questa sfera, infatti, i valori-sono intimamente connessi al mutare delle nostre condizioni ed alle singole cose che le provocano. È comprensibile che anche per questa ragione a livello linguistico non si siano affermate particolari connotazioni di tali qualità assiologiche, differenziate piuttosto in riferimento ai loro supporti reali (ad es. la piacevolezza del profumo delle rose) oppure in riferimento al fondamento della singola sensazione (ad es. la piacevolezza del dolce, la sgradevolezza dell’amaro). È certo, ad es., che i valori estetici connotati dai termini grazioso, affascinante, sublime, bello ecc. non sono mai concetti realizzati nelle comuni proprietà delle cose portatrici di questi valori. Ne fa prova il fatto che, se tentiamo di afferrare queste «proprietà comuni», in ultimo ci viene a mancare il referente reale. Queste proprietà comuni sono rilevabili solo se rapportiamo le cose ad un concetto di natura non assiologica, se ci chiediamo ad esempio quali siano le proprietà comuni a vasi o a fiori graziosi oppure a cavalli di razza. I valori di questo tipo non sono perciò definibili. Nonostante essi si presentino indubbiamente come «oggetti», devono manifestarsi come inerenti a determinate cose affinché queste stesse cose possano venir indicate come «belle», «graziose», «affascinanti». Ciascuno di questi termini condensa una serie qualitativamente graduata di fenomeni assiologici nell’unità d’un concetto di valore; quest’ultimo non si riferisce tuttavia a proprietà assiologicamente indifferenziate, che solo per il fatto di darsi nel loro

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insieme come costanti ci presentino come reale la parvenza d’un autonomo oggetto di valore. Lo stesso dicasi per i valori che appartengono alla sfera etica. Il fatto che un uomo o un’azione siano «nobili» o «volgari», «coraggiosi» o «vili», «puri» o «colpevoli», «buoni» o «cattivi» non è accertabile grazie alla semplice costanza delle proprietà attribuibili alle cose o agli eventi relativi, né questi valori sussistono in queste proprietà. È sufficiente talvolta un’unica azione o un unico uomo perché possiamo cogliervi l’essenza di questi valori. Viceversa, ogni tentativo di fissare un tratto comune per indicare ad es. il bene ed il male al di fuori della sfera dei valori comporta non solo un errore di carattere gnoseologico, ma anche un grave abbaglio morale. Ogniqualvolta si sia osato indicare il bene od il male ricorrendo ad un contrassegno extraassiologico, cioè a determinate qualità e proprietà umane fisiche o psichiche, all’appartenenza ad un ceto o ad un partito, e si sia conseguentemente parlato «di buoni e di giusti» oppure «di cattivi e di ingiusti» come d’una classe oggettivamente definibile e determinabile, si è necessariamente scaduti in una sorta di «fariseismo», scambiando i possibili portatori del «bene» e le loro caratteristiche comuni (in quanto meri portatori) con gli stessi valori corrispondenti e con l’essenza dei valori di cui erano un semplice supporto. Il detto di Gesù: «Nessuno è buono se non Dio stesso» (alla cui essenza inerisce la bontà) sembra avere semplicemente il senso di porre in evidenza questo dato di fatto contro i «buoni e giusti». Esso non intende affermare che nessuno è buono, nel senso che nessuno possa avere proprietà buone, ma piuttosto che il «bene» stesso non può mai consistere in una proprietà umana concettualmente determinabile: ha un significato opposto a quello attribuitogli da tutti coloro che intendono separare i buoni dai cattivi come le pecore dai capri, cioè secondo tratti caratteristici reali inerenti alla sfera della rappresentazione (il che costituisce l’eterna forma categoriale del fariseismo). Per formulare un’adeguata

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definizione del valore non è mai sufficiente far astrazione dai tratti e dalle proprietà non pertinenti alla sfera dei fenomeni assiologici; è necessario invece che lo stesso valore definito si dia in quanto tale nell’intuizione o che si presenti come un dato correlato a quest’intuizione. È privo di senso ricercare i tratti comuni a tutte le cose azzurre o rosse, poiché l’unica risposta possibile è che esse sono appunto azzurre e rosse; analogamente, è privo di senso cercare le proprietà comuni di azioni, intenzioni, uomini ecc. buoni o cattivi. In base alle riflessioni sinora condotte si può quindi affermare che vi sono qualità di valore autentiche e vere, caratterizzate da relazioni e contesti particolari, che costituiscono un ambito specifico di oggetti e che possono, proprio in quanto qualità di valore, occupare una posizione superiore o inferiore ecc. Se ciò è vero, possono sussistere tra loro un ordine ed una gerarchia esperibili «a priori» poiché del tutto indipendenti dall’esistenza di un mondo di beni in cui si manifestano, come pure dall’evoluzione e dalla trasformazione di un tale mondo nella storia. Tutti i valori, anche i valori «buono» e «cattivo», sono qualità materiali, ordinate reciprocamente secondo un rapporto di «superiorità» e di «inferiorità» ed indipendenti dalla forma d’essere in cui si presentano, ad esempio dal fatto di manifestarsi come pure qualità di oggetti, o come componenti di strutture assiologiche (l’esser-piacevole o l’esser-bello di qualcosa) o come momenti parziali di beni o come il valore «che una cosa ha». Questa indipendenza assoluta dell’essere dei valori da cose, beni, strutture reali si manifesta chiaramente in una serie di dati di fatto. Conosciamo uno stadio della comprensione assiologica in cui il valore di una cosa ci si manifesta con chiarezza ed evidenza senza che ci siano dati i supporti di questo valore. Un uomo ci risulta, ad es., ributtante o sgradito ovvero piace-

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vole e simpatico, anche se non siamo in grado di sapere da che cosa ciò dipenda, analogamente riteniamo da lungo tempo una poesia od un’altra opera d’arte «bella» o «brutta», «sublime» o «volgare» senza minimamente sapere a quali proprietà sia dovuta l’immagine concreta che ce ne facciamo. In questo senso una località o una stanza od il soggiorno in un luogo possono risultare «piacevoli» o «tediosi» senza che ci siano noti i supporti di questi valori. Tutto ciò vale egualmente per realtà di natura fisica e psichica. Né l’esperienza assiologica, né il suo grado di adeguazione e di evidenza (ove cioè l’adeguazione venga intesa «stricto sensu» come «pura datità» ed evidenza) risultano essere in un qualche modo condizionati dall’esperienza dei supporti di quei valori. Anche il significato dell’oggetto – «ciò» che esso è in questa prospettiva (il fatto, ad es., che un uomo sia maggiormente «artista» o «filosofo») – può oscillare notevolmente senza coinvolgere minimamente il valore. In tali casi è assolutamente evidente che i valori – nel loro essere – sono indipendenti dai rispettivi portatori: sia dalle cose, sia dai fatti. La capacità di distinguere tra i valori dei vini, ad es., non presuppone affatto la conoscenza della composizione e dell’origine di questa o quell’uva o del tipo di pigiatura. Analogamente gli «stati assiologici» non sono i meri valori degli «stati delle cose». Esse cioè non ci si presentano a condizione che conosciamo le strutture reali. Il fatto che un determinato giorno nell’agosto dello scorso anno sia stato «meraviglioso» può essere percepito senza essere contemporaneamente posto in correlazione al fatto che in quel giorno ho ricevuto la visita di un amico particolarmente caro. È come se nella sfumatura assiologica d’un oggetto (dato, ricordato, atteso, immaginato o percepito) si presentassero sia l’elemento originario che di esso ci colpisce, sia il valore del singolo insieme cui il dato inerisce come parte o componente. Questa sfumatura è, per così dire, il «medium» attraverso cui l’oggetto sviluppa pienamente il proprio contenuto come immagine o il proprio significato come concetto. In un

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certo senso, il suo valore lo precede: è il primo «messaggero» della sua natura specifica. Anche qualora l’oggetto si presenti come privo di chiarezza e distinzione, il valore può manifestarsi già come chiaro e distinto. Nella conoscenza dell’ambiente, ad es., cogliamo dapprima sia l’insieme non ancora analizzato, sia il valore del dato in riferimento a quest’insieme; nel valore dell’insieme cogliamo poi i valori parziali «inerenti» ai singoli oggetti della rappresentazione. Una cosa naturale, data alla percezione, può essere portatrice di un qualche valore ed essere in tal senso una cosa dotata di valore, se la sua unità come «cosa» non è costituita dall’unità di una qualità assiologica, ma possiede solo accidentalmente un valore, allora essa non è ancora un «bene». In tal caso potremmo definirla come «cosa-reale» – ricorrendo ad un termine con cui connotiamo le cose in quanto oggetti correlati ad un’esperienza vissuta e fondata su un valore nonché ad una capacità di disporne come oggetti del volere. La nozione di proprietà presuppone, ad es., «cose reali», non semplici cose in sé o beni. Il bene invece è una cosa-di-valore. La differenza tra le unità delle cose e le unità dei beni risulta particolarmente chiara nel fatto che, ad esempio, un bene può esser distrutto senza che con ciò venga annientata la cosa in cui si manifesta lo stesso oggetto reale (si pensi allo sbiadimento dei colori di un quadro, cioè di un’opera d’arte). Una cosa, inoltre, può venir suddivisa, mentre lo stesso oggetto reale in quanto «bene» non viene suddiviso ma annientato, potendo anzi rimanere illeso se la suddivisione non tocca l’essenza di ciò che lo caratterizza come bene. La trasformazione dei beni non è quindi identica alla trasformazione degli stessi oggetti reali in quanto cose, e viceversa. Solo nei beni i valori divengono «reali». Non lo sono ancora nelle cose dotate di valore. Nel bene il valore è al contempo

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oggettivo (come lo è sempre) e reale. Con il darsi di ogni nuovo bene si verifica una vera crescita di valore del mondo reale. Le qualità assiologiche sono invece «oggetti ideali» come le qualità dei colori e dei suoni. In altri termini, si può dire che beni e cose sono dati egualmente originari. Questo principio esclude due possibilità. Esclude, in primo luogo, la possibilità di riportare l’essenza della cosa, la «cosalità», ad un valore, riconducendo tutte le unità-della-cosa ad unità-di-beni. Questo tentativo è stato compiuto ogniqualvolta si sia riportata l’unità della cosa ad un’unità comprensiva, in termini meramente «economici», dei contenuti della sensazione (Ernst Mach) o all’unità della «fruibilità», della «dominabilità» o simili (es. H. Bergson), oppure qualora si sia ritenuto di poter concepire la cosa come una mera «richiesta» di riconoscimento identificandola, esplicitamente od implicitamente, con un contenuto emotivo partecipato. Secondo queste teorie, la semplice materia dell’intuizione non si configura come cosa indipendentemente da valori d’un determinato tipo, ma solo grazie a sintesi precedentemente operate in riferimento a valori. La cosa sarebbe in sé una semplice unità di valore. A prescindere da altri errori, qui viene scambiato evidentemente ciò che costituisce le particolari unità delle cose nella visione naturale del mondo con l’essenza di questa forma dell’unità, cioè con la cosalità. Il riferimento ai valori è possibile per comprendere le unità delle cose, non la cosalità. Secondo una prospettiva genetica il problema sembra porsi nei seguenti termini: nella visione naturale dei mondo gli oggetti reali non si manifestano, «in un primo tempo», né come pure cose, né come puri beni, bensì come «cose-reali»: sono cose unicamente in quanto sono dotate di valore, cioè essenzialmente utili; è tuttavia muovendo da questo centro, per così dire, che si è successivamente passati dalla sintesi alle pure cose (facendo espressamente astrazione da tutti i valori) ed ai

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puri beni (facendo espressamente astrazione dalla loro mera natura di cose). Viene così, però, parimenti respinta l’opinione secondo cui i «beni» debbano essere considerati come mere «cose dotate di valore». Per i beni è infatti essenziale che il valore non si manifesti come semplicemente costruito sulla cosa perché, in un certo senso, essi devono essere invece completamente permeati dal valore: l’unità di un unico valore orienta la fusione di tutte le altre qualità rilevabili nel bene (sia delle altre qualità assiologiche, sia di quelle non assiologiche, come forme, colori ecc., se si tratta di beni materiali). L’unità dei beni è fondata su un determinato valore che – in un certo senso – occupa nel bene la «posizione» della fisicità, senza peraltro «rappresentarla». In un mondo con le stesse qualità le cose potrebbero quindi essere totalmente diverse da ciò che sono e nondimeno il mondo dei beni rimarrebbe lo stesso. Il mondo delle cose naturali non esercita mai ed in nessun ambito di beni una funzione definitoria o semplicemente limitativa nella configurazione del mondo dei beni. Il mondo è così, originariamente, sia un «bene» che una «cosa». Ogni sviluppo del mondo dei beni non è quindi mai una mera continuazione dello sviluppo delle cose naturali, né viene condizionato dal loro «orientamento evolutivo». Ogni formazione d’un mondo di beni viene orientata piuttosto, in ogni suo aspetto, da una qualche gerarchia dei valori, come avviene, ad es., nell’arte di una determinata epoca. Sia nel rapporto gerarchico esistente tra i beni, sia in ogni singolo bene si riflette pertanto la gerarchia dominante. Questa gerarchia di valori non definisce univocamente il singolo mondo di beni. Esso ne delimita l’ambito di possibilità, al di fuori del quale non può verificarsi una formazione di beni. Rispetto al singolo mondo di beni essa è quindi a priori. L’effettiva formazione di determinati beni dipende dall’energia che viene investita in essi, dalle capacità degli uomini che li formano, dal «mate-

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riale», dalla «tecnica» e da innumerevoli altre circostanze. La formazione di un mondo di beni non è però mai comprensibile ove si tengano presenti solo questi fattori, senza cioè riferirsi al riconoscimento di quella gerarchia di valori come qualità ed all’attività che vi è orientata. I beni esistenti sono sottoposti, in sé, al dominio di questa gerarchia, che non costituisce peraltro una astrazione da essi o una loro conseguenza. Questa gerarchia di valori è una gerarchia materiale, un ordine di qualità assiologiche; essa, poi, non essendo assoluta, ma solo «dominante», si manifesta nelle regole di preferenza delle qualità assiologiche che animano la singola epoca. I sistemi di queste regole preferenziali sono definibili come «stile» nella sfera dei valori estetici e come «morale» nella sfera dei valori pratici. Anche in questi sistemi si manifesta un processo di evoluzione e di sviluppo. È uno sviluppo, però, del tutto diverso da quello del mondo dei beni e varia indipendentemente da esso. In base alle affermazioni precedenti risulta chiaro il punto di cui si tratta. Da un lato, ci riferiamo al principio che Kant ha giustamente posto in evidenza e che viene qui generalizzato: «Nessuna dottrina filosofica dei valori, sia essa l’etica o l’estetica ecc., può presupporre dei beni e, tanto meno, delle cose». È chiaro però, d’altro lato, che è comunque possibile scoprire una serie materiale di valori, ed in essa un ordine, del tutto indipendente ed a priori rispetto al mondo dei beni ed alle sue mutevoli configurazioni; è pertanto completamente erroneo dedurre dalla grande intuizione kantiana, ora citata, l’affermazione che ogni contenuto dei valori non etici (ed estetici) dipenderebbe per essenza e rapporto gerarchico dall’«esperienza» (intesa come induzione),mentre per i valori etici (ed estetici) si darebbe solo una legge formale, capace di astrarre da ogni valore come qualità materiale.

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2. Max Scheler. Scala delle modalità del valore* Prendendo le mosse dall’intuizione emozionale del valore, Scheler giunge a tracciare una scala gerarchica secondo cui si collocano i valori. Questi ultimi, infatti, non sono tutti sullo stesso piano, ma si dispongono secondo un ordinamento che va dai più alti ai più bassi. C’è un ordine dei valori, intuibile con particolare evidenza, nel quale si distinguono quattro gradi nettamente delimitati: i valori affettivi-sensoriali, quelli vitali, quelli spirituali e quelli sacri. Ma quali criteri giustificano questo ordinamento gerarchico? È soltanto l’«evidenza preferenziale intuitiva» che determina la superiorità di un valore e lo preferisce ad un altro. Possiamo dunque concludere con Scheler che non tutto ciò che non è razionale è sensibile, in quanto esiste un’attività spirituale extra-logica: l’«intuizione emozionale», i cui oggetti sono assolutamente inaccessibili all’intelligenza, senza per questo cadere in alcun empirismo o sensualismo.

Le più importanti e fondamentali relazioni a priori sono quelle esistenti all’interno della scala dei sistemi di qualità dei valori materiali da noi connotate come, modalità di valore. Esse costituiscono l’autentico a priori materiale del nostro discernimento assiologico e preferenziale. Il fatto che esse esistano rappresenta al contempo la più rigorosa confutazione del formalismo di Kant. L’ultima e più profonda ripartizione delle qualità di valore presupposte da queste correlazioni essenziali deve essere non meno indipendente da qualsiasi effettiva presenza dei beni e da ogni particolare organismo delle nature che percepiscono affettivamente i valori di quanto lo sia la gerarchia esistente tra le modalità. *  Da M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., pp. 141-148.

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Rileviamo i punti seguenti, non tanto per analizzare e fondare questi sistemi di qualità e le relative leggi di preferenza, bensì per addurli come esempio del tipo di gerarchia a priori esistente tra i valori.

La serie di valori del piacevole 1. Una prima modalità, rigorosamente delimitata, risulta essere la serie di valori del piacevole e dello spiacevole (già Aristotele vi fa cenno nella sua tripartizione dello ηδυ, del χρησιμον e del καλον). Ad essa fa riscontro, da un lato, la funzione della percezione affettivo-sensoriale (con i suoi modi del godere e del soffrire), mentre dall’altro lato le corrispondono gli stati d’animo dei «sentimenti di sensazione», il piacere ed il dolore sensibili. Vi sono in essa (come in ogni modalità) un valore reale, un valore della funzione ed un valore della condizione. La sfera assiologica, nel suo complesso, è «relativa» ad un essere di natura sensibile in quanto tale; non è però affatto relativa ad un determinato organismo di tale natura, ad esempio all’uomo, né è relativa a determinate cose o ad eventi del mondo reale che si presentino come «piacevoli» o «spiacevoli» per un essere dotato d’un determinato organismo. Per quanto lo stesso evento possa presentarsi come piacevole per un uomo e come spiacevole per un altro (lo stesso vale per animali diversi), la distinzione dei valori piacevole/spiacevole è in quanto tale assoluta e chiara a prescindere dalla conoscenza di queste cose. Anche la preferenza del piacevole rispetto allo spiacevole non rappresenta (coeteris paribus) un principio che si fonda sull’osservazione e sull’induzione; essa inerisce piuttosto all’essenza di questi valori ed all’essenza della percezione affettivo-sensoriale. Se ad esempio un viaggiatore, uno storico o uno zoologo ci descrivessero una specie animale o umana presso le quali avvenisse esattamente il contrario, «a priori» noi non presteremmo

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(né dovremmo prestare) loro fede, ma affermeremmo che ciò è da escludersi; questi esseri avvertono, al massimo, come piacevoli e spiacevoli cose che provocano in noi reazioni opposte, oppure essi non preferiscono lo spiacevole al piacevole. Per essi sussiste probabilmente il valore (a noi forse sconosciuto) di una modalità «più elevata» di quella della serie assiologica in questione; essi «accetterebbero» pertanto lo spiacevole nel preferire appunto un valore di tale serie. È possibile infine che si tratti di una perversione dell’appetito, per cui essi vivono «come piacevoli» delle cose nocive alla vita. Come tutte le correlazioni, quella che esprime il nostro principio è al contempo una legge di comprensione volta ad interpretare le manifestazioni vitali altrui e le loro concrete valutazioni, ad esempio di carattere storico (oppure le nostre stesse manifestazioni e valutazioni, ad esempio nel ricordo); in tal senso, questo principio viene presupposto da ogni os-servazione ed induzione. Esso è pertanto «a priori» rispetto ad ogni esperienza etnologica. Questo principio e il suo ambito empirico di riferimento non potrebbero nemmeno venir «spiegati» facendo riferimento ad una teoria dell’evoluzione. Non ha senso, ad esempio, affermare che questi valori (e la relativa legge di preferenza) si siano affermati come simboli di combinazioni meccaniche funzionali alle esigenze dell’individuo o della specie. Quanto può venir spiegato in questi termini è sempre e solo la connessione esistente tra uno stato d’animo e determinati impulsi ad agire orientati verso le cose, mai però i valori in quanto tali, né la loro legge di preferenza. Ciò vale indipendentemente da ogni tipo di organismo. Ai valori irrelati del piacevole e dello spiacevole corrispondono determinati gruppi di valori correlati (valori tecnici e valori simbolici) che non vengono qui trattati per esteso.

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I valori vitali 2. Come seconda modalità assiologica si presenta l’insieme dei valori della sensibilità vitale. I valori reali di questa modalità, nella misura in cui siano valori irrelati, sono le qualità articolate dall’antinomia tra «nobile» e «volgare», oppure dall’antinomia tra il bene (inteso nel senso rigoroso del termine, come corrispettivo della «abilità») ed il «cattivo», non inteso però come «male». I valori correlati corrispondenti (valori tecnici e simbolici) sono tutti quei valori che ineriscono alla sfera semantica del «benessere» e della «prosperità» e che sono subordinati al sublime ed al mediocre; le condizioni che corrispondono a questi valori sono tutti i «modi» del sentimento vitale (ad esempio il sentimento dell’«affermarsi» o dello «scomparire» della vita, il sentimento della salute e della malattia, il sentimento della vecchiaia e della morte, i sentimenti di «prostrazione» e di «esuberanza»). Quali reazioni di risposta affettivo-percettiva valgono, ad esempio, i sentimenti di gioia o di tristezza (di un determinato tipo). Come reazioni di risposta impulsiva valgono il «coraggio» e l’«angoscia», l’impulso di vendetta, l’ira ecc. L’immensa ricchezza di queste qualità assiologiche e dei loro correlati non può venir qui nemmeno approssimativamente descritta. I valori vitali sono una modalità assiologica completamente autonoma e non possono venir «ricondotti» né ai valori del piacevole e dell’utile, né a quelli spirituali. Pensiamo che l’errore fondamentale di tutte le dottrine etiche anteriori alla nostra consista appunto nell’aver ignorato questo fatto. Anche Kant presuppone tacitamente che i valori vitali possano venir ricondotti ai meri valori edonistici, sostenendo che tutti i valori possono essere suddivisi in buono/cattivo e piacevole/spiacevole. Ora, se ciò non vale per i «valori del benessere», varrà ancor meno per il valore vitale irrelato del «sublime». La ragione più profonda per cui venne ignorata la caratteristica specifica di questa modalità è però l’aver misconosciuto il fatto

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che «vita» è un’«autentica essenzialità», non quindi un «concetto generico ed empirico del valore» in cui vengano sussunte le «caratteristiche comuni» di tutti gli organismi terrestri. Non è però possibile, nel presente contesto, toccare esaurientemente l’argomento.

I valori spirituali 3. Una nuova unità modale, diversa da quella dei valori vitali, è costituita dall’ambito assiologico dei «valori spirituali». Già nel modo di manifestarsi, essi denotano una particolare autonomia ed indipendenza rispetto all’intera sfera del corpo proprio e dell’ambiente: questa loro unità si manifesta anche nella chiara evidenza che il loro raggiungimento «comporta» il sacrificio dei valori vitali. Gli atti e le funzioni in cui li comprendiamo sono funzioni della percezione affettiva spirituale ed atti del preferire, dell’amare e dell’odiare spirituali, distinti dalle funzioni o dagli atti vitali omologhi sia sul piano puramente fenomenologico, sia al livello delle leggi ad essi intrinseche, irriducibili a qualunque legge semplicemente «biologica». Questi valori si suddividono nelle seguenti categorie principali: 1. i valori del «bello» e del «brutto» e l’intero ambito dei valori puramente estetici; 2. i valori del «giusto» e dell’«ingiusto»: questi oggetti costituiscono ancora dei «valori», completamente diversi dall’«esatto» e dall’«erroneo», poiché sono relativi ad una legge e rappresentano l’ultimo fondamento fenomenico dell’idea d’un oggettivo ordinamento giuridico. Questa idea è indipendente in quanto tale da quella della «legge» e dello Stato o dall’idea della comunità di vita su cui lo Stato si fonda e, tanto più, da ogni legislazione positiva; 3. i valori della «pura conoscenza della verità» così come cerca di realizzarli la filosofia (diversamente da quanto fa la «scienza positiva», guidata anche dallo scopo di dominare i fenomeni). I «valori

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della scienza» sono pertanto correlati ai valori della conoscenza. I valori (tecnici e simbolici) correlati ai valori spirituali in genere sono i cosiddetti «valori culturali», inerenti per propria natura alla sfera assiologica dei beni (ad esempio: tesori d’arte, istituzioni scientifiche, legislazione positiva ecc.). A questi valori corrisponde la serie di quei sentimenti che presentano – analogamente, ad esempio, alla gioia ed alla mestizia spirituali (diverse dall’«allegria» e dalla «tristezza» vitali) – una precisa caratteristica fenomenica: si manifestano come condizioni dell’«io» non solo qualora il corpo-proprio si concreti «anzitutto» come corpo-proprio di una determinata persona, bensì perché si manifestano immediatamente grazie alla datità del corpoproprio in quanto tale. Essi variano inoltre indipendentemente dal cambiamento delle condizioni della sfera dei sentimenti vitali (e tanto più delle condizioni dei sentimenti sensibili): mutano direttamente in funzione della variazione degli oggetti in quanto tali, secondo leggi proprie. Vi appartengono infine particolari reazioni di risposta come l’«aver-piacere-che» e il «dispiacersi-di», l’«approvare» ed il «disapprovare», il «rispetto» ed il «disprezzo», la «tendenza al contraccambio» (diversa dall’impulso vitale della vendetta), la «simpatia spirituale» in quanto dia luogo all’amicizia ecc.

I valori del sacro 4. Rigorosamente delimitata rispetto a quelle sinora riferite è l’ultima modalità di valore, quella del sacro e del profano, che costituisce a sua volta un’unità, non ulteriormente definibile, di determinate qualità assiologiche. Esse si manifestano comunque ad una particolare condizione, ben definita: si concretano solo in oggetti intenzionalmente correlati come «oggetti assoluti». Con questa espressione non intendo una classe di dati, specificamente definibile, bensì (per principio) ogni oggetto

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nella «sfera assoluta». Questa modalità assiologica è a sua volta del tutto indipendente da ciò che in epoche diverse e presso vari popoli sia valso come «sacro» in riferimento a cose, forze, persone reali, istituzioni ecc. (dalle rappresentazioni feticiste al più puro concetto di Dio). Questa problematica tocca la consistenza dei singoli beni positivi di questa sfera di valori e non coincide con una dottrina a priori dei valori o con una dottrina della gerarchia dei valori. In riferimento ai valori del sacro tutti gli altri valori si manifestano come loro simboli. Le condizioni corrispondenti a questa serie di valori sono i sentimenti della «beatitudine» e della «disperazione», che sono completamente indipendenti dalla «felicità» e dall’«infelicità» e che come tali si affermano e si trasformano: nell’ambito dell’esperienza vissuta essi danno, per così dire, una misura della «vicinanza» e della «distanza» dal sacro. Le specifiche reazioni di risposta a queste modalità di valore sono la «fede», la «mancanza di fede», la «venerazione», l’«adorazione» ed atteggiamenti analoghi. L’atto in cui cogliamo originariamente i valori del sacro è invece l’atto di un determinato tipo di amore (il cui orientamento assiologico precede e determina ogni rappresentazione ed ogni concetto dei dati del sacro): per sua essenza è orientato verso persone, cioè verso qualcosa di esistente in forma personale, a prescindere dal contenuto che vi possa inerire e dal «concetto» di persona che vi venga presupposto. Il valore irrelato nella sfera dei valori dei «sacro» è pertanto, per sua essenza, un «valore personale». I valori correlati a quelli sacri della persona (valori sia tecnici che simbolici) sono le cose di valore e le forme di adorazione presenti in parte nel culto ed in parte nei sacramenti. Essi sono autentici «valori simbolici» e non meri «simboli di valore».

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3. Max Scheler. La persona* La persona è per Scheler inoggettivabile ed indefinibile e la sua essenza può essere soltanto intuita dopo che si siano rimosse tutte quelle barriere che impediscono di coglierla. A questa concezione essenziale della persona è indifferente la struttura psicofisica del soggetto, l’esistenza del corpo o dell’io-penso, non rimane nulla dell’idea di persona come essere ragionevole, cosciente e dotato di volontà. La persona si manifesta unicamente nel «processo di compimento d’atti intenzionali»; essa non è qualcosa di sostanziale da cui derivano gli atti, esiste in essi, ma non li produce. Da questo concetto della persona deriva il rapporto particolare che essa è in grado di stabilire con la natura, il prossimo e, infine, con Dio.

Cerchiamo di porre in evidenza quale sia il significato originario della parola persona, prescindendo in un primo momento dalla dottrina fenomenologica dello spirito. Due sono le componenti che colpiscono in modo particolare: 1. La parola «persona» non può certo essere applicata indifferentemente nei casi in cui comunemente ci si riferisca all’essere animato, all’egoità oppure alla coscienza della consistenza e del valore del proprio io (autocoscienza, coscienza del proprio valore). Anche gli animali, ad esempio, sono animati e, senza dubbio, dispongono persino d’una qualche forma di ego. Ciononostante, non sono persone. Accade addirittura che, ad esempio, essi vengano sottoposti a processo e regolarmente condannati a morte. Se però si considera più attentamente il caso, si scopre che situazioni del genere (o analoghe) si verificano sempre in base al presupposto che l’animale sia una *  Da M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., pp. 583-593.

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persona umana in fattezza magica oppure che unità personali extraumane (ad esempio, gli «spiriti cattivi») si manifestino nell’animale, venendo cioè «possedute» da persone. «L’uomo» in quanto tale non ha mai costituito un termine esaustivo di definizione dell’intero ambito di essenze acquisite come persone. Quanto viene espresso dal concetto di persona è piuttosto solo un determinato stadio dell’esistenza umana. Per quanto siamo in grado sia di ampliare il concetto di «persona» in base all’acquisizione della sua essenza fenomenologica, sia di cogliere (in un certo senso) tracce dell’essere personale già ai livelli non evoluti dell’essere umano (ad esempio nei bambini, nei malati mentali ecc.), è solo un determinato tipo d’uomo, non l’uomo in generale, il luogo in cui in un certo senso si disvela originariamente l’essenza della persona; è un tipo che, peraltro, cambia significativamente nella sua limitazione storico-positiva. Una prima condizione è la salute mentale, in contrapposizione, ad esempio, alla pazzia. Intendo ciò in senso fenomenologico, non positivamente scientifico. La salute mentale, nella sua accezione fenomenica, sussiste qualora cerchiamo semplicemente di «comprendere» le manifestazioni vitali di un uomo, non piuttosto di spiegarcele in termini di «causalità». Nel «comprendere», il dato di fatto non si manifesta mai come la fattispecie che nell’altro si verificano processi psichici causalmente determinati e tali da produrre come loro «effetto» delle manifestazioni vitali. Alla natura del «comprendere» pertiene piuttosto l’esperire direttamente e per immedesimazione gli atti (linguaggio, manifestazioni, azioni) che l’altro compie nei nostri confronti e verso l’ambiente come dotati di un proprio specifico orientamento intenzionale; il comprendere si riferisce direttamente al centro spirituale dell’altro così come già ci si manifesta nell’intuizione empatetica. «Giudicare per immedesimazione» le proposizioni formulate dall’altro, o i relativi giudizi, «sentire per partecipazione» i suoi sentimenti, «condividere» i suoi atti di volizione: tutto ciò viene compiuto

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senza conformarsi comunque all’unità di un «senso». Questo «giudicare, sentire, vivere in forma partecipativa» non significa peraltro «giudicare per immedesimazione» nel senso di condividere il parere altrui o, addirittura, di adeguarvisi o avvertire gli stessi e medesimi sentimenti. Si tratta semplicemente di una ricostituzione del «senso» che pertenga, come invariante, ad una molteplicità d’atti, colti in una loro qualunque fase di realizzazione e che siano intenzionalmente orientati verso entità identiche nel loro cambiamento. Questa uniformità di senso del flusso degli atti altrui, completamente indipendente dal fatto che quanto è dotato di senso sia vero o falso, buono o cattivo (categorie pertinenti ad una sfera totalmente diversa da quella del «senso») rappresenta nell’ambito del comprendere lo sfondo costantemente presente dei singoli atti di comprensione; essa costituisce però anche lo «sfondo» del «fraintendimento». Il nostro atteggiamento cambia in modo caratteristico solo qualora si frappongano alla nostra intenzione di comprendere difficoltà tali da risultare includibili anche ricorrendo all’ipotesi del fraintendimento. Si consideri il seguente esempio: qualcuno ci ha raccontato una storia strana e stravagante che ci risulta «difficile da comprendere». Nei suoi confronti noi abbiamo però un atteggiamento «comprensivo». Ci viene poi sussurrato all’orecchio: «Quest’uomo è pazzo». Subito il nostro atteggiamento cambia in modo caratteristico. Al posto del centro spirituale precedentemente dato, sulla cui base noi esperivamo in forma diretta e partecipativa gli atti dell’altro, subentra un vuoto; ad esserci dati intuitivamente sono ora solo il centro del suo corpo-proprio e della sua vita, nonché il suo ego. Nelle sue manifestazioni vitali non vediamo più concretarsi intenzioni orientate da un senso specifico; a presentarsi sono ora articolazioni espressive od altre forme cinestetiche, al di là delle quali noi cerchiamo come cause determinati flussi psichici. Al posto del «contesto significativo» di queste manifestazioni subentrano ora un «nesso causale» e l’insieme degli stimoli am-

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bientali che pongono in atto tali manifestazioni: gli oggetti colti in forma partecipativa nel comprendere scadono a «stimoli», le intenzioni diventano «fenomeni» e il «contesto significativo» un nesso causale, il centro personale d’atti si riduce all’unità oggettuale di un corpo proprio e di un ego, il «comprendere» si trasforma in uno «spiegare», la «persona» viene identificata con un frammento della natura. Si consideri invece un altro esempio. Una persona di cui io abbia fiducia mi dice: «Oggi fa bel tempo»; la mia reazione iniziale non si traduce nel giudizio: «il signor X dice che fa bel tempo», oppure «il vissuto dei signor X è la proposizione assertoria relativa al fatto che il tempo è bello». Il suo discorso costituisce per me semplicemente l’occasione per indirizzare la mia intenzionalità al dato difetto che il tempo è bello, riservandomi eventualmente la possibilità di correggere la sua osservazione circa la realtà effettiva. La reazione sarebbe invece totalmente diversa nei confronti di chi mi si presentasse come «malato di mente». Il mio giudizio in tal caso suonerebbe primariamente: «X dice che fa bel tempo», «X formula la proposizione assertoria: “fa bel tempo”», «ora egli ripete nuovamente questo o quello»; è questo accadimento, verificantesi nell’altro, quanto rientra per me in un nesso di causalità comprendente altri eventi psichici e l’ambiente. In entrambi i casi citati è del tutto irrilevante che la proposizione sia vera o falsa. Un uomo può comunque «errare», senza con ciò perdere la sua salute mentale. Qualora però un malato di mente scoprisse le verità più originali resterebbe, ciononostante, un pazzo. In base a quanto abbiamo sinora affermato, possiamo trarre le seguenti conclusioni: 1) ogni oggettivazione psicologica equivale ad una depersonalizzazione; 2) la persona è data sempre come soggetto d’atti intenzionali il cui contesto è costituito dall’unità di un senso. L’essere psichico è pertanto completamente distinto dall’essere personale.

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2. Con il termine persona viene connotato, in secondo luogo, solo un determinato stadio di sviluppo del singolo. Un bambino presenta i fenomeni dell’egoità, dell’essere animato, dell’autocoscienza: non per questo è già una persona morale. Solo il bambino «maggiorenne» è persona in senso pieno. La «maggiore età», d’altra parte, si fonda su determinati fenomeni, a prescindere dall’età anagrafica con cui la identifichino le varie norme del diritto positivo, nonché dalle mutevoli condizioni (vere o fittizie) che la definiscano come singola fattispecie. Quanto caratterizza sul piano fenomenico la «maggiore età» è la capacità di intuire in termini di vissuto la diversità dell’agire, del volere, del sentire, del pensare come propri e come altrui: questo vissuto è contestuale ad ogni altra forma di esperienza diretta (non fondato quindi unicamente sul relativo contenuto); quanto più conta è che ciò avviene senza implicare necessariamente un riferimento al fatto che il vissuto di un tale atto si manifesti (o si sia manifestato) esternamente nel corpo-proprio dell’altro od in quello del soggetto in questione. Ove questo riferimento sia ancora costitutivamente necessario, non si ha ancora la «maggiore età»: è il caso, ad esempio, di chi sia in grado di riconoscere un determinato pensiero o volere altrui (in quanto contrapposti al proprio) solo ricorrendo al ricordo di un terzo nell’atto di dare espressione somatica ad un determinato pensiero, cioè all’immagine mnestica di questa espressione e del suo soggetto (ad esempio, della bocca nell’atto di proferire determinate parole, del volto ecc.), oppure all’immagine della sua azione. Detto popolarmente: l’uomo non è maggiorenne nella misura in cui partecipi semplicemente all’attuazione delle intenzionalità proprie al vissuto ambientale, senza averle precedentemente comprese, cioè nella misura in cui la struttura relazionale che fondi il suo comportamento spirituale di base verso terzi sia quella del contagio, dell’agire insieme, della tradizione in senso lato e infine nella misura in cui egli voglia quanto vogliano i genitori e gli educatori o qualcuno del suo

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ambiente, senza riconoscere nella volizione di un determinato contenuto la volontà di un altro o di una persona diversa da sé. Solo agendo così egli ritiene, infatti, il volere «altrui» come «proprio», e il «proprio» come «altrui». Per quanto il minorenne possa in generale distinguere il proprio volere da quello degli altri, non lo farà mai in riferimento al semplice volere del contenuto di volizione ed al contesto significativo esistente tra questo e altri contenuti, bensì unicamente in riferimento alle espressioni ed alle manifestazioni del volere in corpi diversi, localmente distinti. Ove però manchi questo punto di riferimento (ad esempio, nella memoria), il minorenne non sarà in grado di distinguere tra il proprio volere e quello altrui. Certo, anche il maggiorenne può accidentalmente scambiare il proprio volere per quello altrui (ad esempio nella suggestione) oppure un pensiero altrui per quello proprio (nella reminiscenza inconscia); è possibile pertanto affermare che quanto costituisce l’essenza della maggiore età è il semplice poter distinguere, non l’avere di fatto distinto la semplice coscienza di questa capacità di distinzione. Possiamo anche affermare che questa è «l’autentica capacità di comprendere». 3. Il fenomeno della personalità non è però circoscrivibile semplicemente a coloro che siano davvero mentalmente sani e maggiorenni; si estende anche a coloro che manifestino un diretto dominio del proprio corpo e che abbiano direttamente un sentimento, un sapere ed un vissuto del fatto d’essere padroni del proprio corpo. La relazione fenomenica dell’uomo con il proprio corpo acquista qui il significato più profondo. Non è una persona colui che abbia abitualmente del proprio corpo una coscienza tale da indurlo ad identificarsi con i suoi contenuti. Come persona può essere definito solo colui che abbia del proprio corpo un vissuto tale da poterlo identificare nella percezione interna ed esterna come «appartenente» a se

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stesso grazie alla relazione «il mio corpo», questo fenomeno costituisce peraltro il presupposto anche dell’idea della proprietà. Diversamente da quella personale, l’unità del corpoproprio è oggettiva: pur non manifestandosi necessariamente come cosa (e tanto meno come corpo fisico), essa è un’unità data come «cosa fisica». Solo ove il corpo-proprio si dia come cosa fisica «appartenente» ad un qualcosa che operi su questa stessa cosa e che abbia diretta consapevolezza della sua capacità di agire, solo allora questo «qualcosa» è una persona. Le cose fisiche inanimate possono porsi come proprietà solo in quanto connesse alla persona grazie a quella «proprietà» originaria che viene mediata dal corpo-proprio. È questo il motivo per cui lo «schiavo» – inteso come l’opposto del «padrone» – non può essere proprietario, ma è in quanto tale proprietà altrui. Di particolare importanza è il fatto che la persona esiste unicamente qualora si dia un poter-fare come dato di fatto semplicemente fenomenico, cioè come un poter-fare che «compenetri» completamente il corpo-proprio (in riferimento sia a se stesso che agli altri): si tratta di un poter-fare che non si fonda sul ricordo di sensazioni organiche o di esperienze vissute nell’agire che abbiano avuto luogo grazie a precedenti movimenti, ma che è anteriore ad ogni agire di fatto. Alla persona pertiene non solo il volere, ma anche l’immediata coscienza della potenzialità del volere. Chi sia stato privato per legge d’una tale capacità (a ragione od a torto) non «vale» come persona; chi manchi poi d’una tale potenzialità e della relativa coscienza immediata, non è una persona. Non può quindi esercitare alcuna proprietà sul proprio corpo; può essere proprietà di un altro, dandosi quindi come cosa fisica. Inteso in questo senso, lo «schiavo» non era una persona sociale: lo schiavo autentico (tale cioè non solo nei termini del diritto positivo) veniva considerato come cosa fisica non solo dagli altri, ma anche da se stesso. Ciononostante, lo schiavo aveva un io, un’anima ed un’autocoscienza: è questa una prova che tali componenti non

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sono affatto identiche alla persona. L’uccisione dello schiavo non veniva quindi considerata come «assassinio», non diversamente da quella d’un animale. L’annientamento di cose fisiche, animate od inanimate, non costituisce infatti un assassinio. Lo schiavo non poteva nemmeno essere punito con la morte; la pena infatti, come è stato precedentemente esposto, è l’inflizione d’un male fisico e la confisca d’un bene: essa presuppone che l’esistenza di colui cui venga comminata sia indipendente da queste cose fisiche. Per lo schiavo si possono avere tutte le «cure» possibili: lo si può persino colmare di benevolenze. Egli non può però essere «amato», ma solo goduto ed usato. Lo schiavo non può «ubbidire», «promettere», «giurare» ecc. Non può «ubbidire» perché (come giustamente afferma Aristotele) «la sua volontà appartiene al padrone»; è il padrone la persona a cui appartengono il suo corpo-proprio ed il suo io. Egli non può «promettere», cioè compiere quell’atto elementare implicito all’idea di contratto, poiché un uomo che non sia persona non può disporre d’una continuità tra volere e poter agire che sia indipendente, per ragioni di principio, dalle sue condizioni somatiche. Contrariamente a quanto afferma lo psicologismo (ad esempio Hume), il promettere non è un atto «artificiale», fondato su convenzioni ed il cui contenuto sia esprimibile solo nei termini di un «farò questo se tu fai quello» (o viceversa); se così fosse, il contratto sarebbe la radice ed il fondamento di quest’atto (non invece una mera conseguenza). E invece un atto naturale in cui la persona, già nel presente atto del volere, pone uno stato di cose come «termine di realizzazione» (non però in quanto «immaginato» o «giudicato» come qualcosa da fare o da volere in futuro): «come» futuro si dà semplicemente l’agire inerente a ciò che essa deve realizzare. Perché ciò divenga possibile è però necessario che il poter fare ciò che è voluto venga vissuto direttamente ed indipendentemente dalle eventuali esperienze del proprio corpo e venga pertanto garantita la continuità tra il volere ed il relativo

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poter fare. Allo schiavo manca invece il vissuto di questo poter fare. L’istituzione della schiavitù non è stata pertanto un ordinamento che consentisse l’asservimento di persone oppure permettesse «che le persone potessero essere una proprietà»; al contrario, proprio perché lo schiavo non rappresentava né per se stesso, né per gli altri una persona, bensì unicamente un uomo, un io, un soggetto psichico ecc., cioè comunque una «cosa fisica», si affermò la consuetudine che fosse lecito ammazzarlo, venderlo ecc. Il «servo», al contrario, vale già come una persona che è semplicemente condizionata nell’esercizio dei diritti di proprietà sul proprio corpo. È noto che anche la donna in quanto donna ha dovuto combattere per essere riconosciuta come persona; nella storia di queste battaglie sono coglibili tutte le componenti essenziali precedentemente descritte. Possiamo addirittura distinguere chiaramente determinate fasi. Tra la monogamia ed il riconoscimento della natura personale della donna sussiste un indubbio rapporto di contestualità. Il fatto, ad esempio, che nella Turchia viga prevalentemente l’istituzione della poligamia dipende necessariamente dalla dottrina coranica per cui la donna non possiede l’«anima» (il cui significato viene evidentemente omologato a quello di «persona»). La cultura cristiana riconosce invece la natura personale e religiosa della donna, anzi nel trattare della Madre di Dio ha attribuito tale natura anche agli angeli (cioè a persone pure finite, le «formae separatae» di cui parla la Scolastica). La donna può inoltre essere «santa», mentre nella concezione islamica dell’aldilà essa è solo una prostituta priva di natura personale. Anche l’olocausto della vedova in India è dovuto alla convinzione che perlomeno nei confronti del marito la moglie non è una persona, ma una cosa fisica. D’altronde anche nella cultura cristiana la personalità sociale e giuridica della donna viene riconosciuta in generale solo sul piano del diritto privato, non però su quello del diritto costituzionale e pubblico; è noto infatti che nell’ambito del

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diritto matrimoniale essa ha ottenuto solo molto lentamente un pieno riconoscimento. Perlomeno sul piano giuridico (non su quello etico) persino Kant considera la donna sposata come «cosa materiale», per cui tratta il diritto matrimoniale nell’ambito del diritto reale. Già in base a questa serie di fatti è dimostrabile che anche nella sfera etica e giuridica l’idea della persona non presenta alcun tratto in comune con le nozioni di io, di essere animato o concetti analoghi. Come si danno un essere dotato d’ego ed uno animato (anche umano) privi di personalità (perlomeno sul piano semantico), così ha senso ritenere in linea di principio che si dia una personalità anche in mancanza di un io o di un essere animato: è questo, ad esempio, il caso della persona di Dio che non può essere contrapposta né ad un mondo esteriore, né ad un tu. 4. Per la stessa ragione l’idea di persona deve essere distinta nel modo più rigoroso da tutte quelle nozioni che siano fondate sui fenomeni dell’esperienza vissuta corrispondenti ai concetti precedentemente esposti. Tali sono i concetti reali e materiali dell’«anima-sostanza» e del cosiddetto «carattere». Tralasciamo per ora di trattare il problema se sia fondatamente ammissibile l’esistenza di un’anima-sostanza. È un fatto però che essa viene pensata come un oggetto reale e concreto e presupposta come implicita al vissuto individuale dell’io che sempre accompagna la percezione interna; le vengono anzi attribuite in via ipotetica proprietà, forze, capacità, disposizioni ecc. tali da rendere razionalmente comprensibile, in termini di causalità, il progressivo manifestarsi dei singoli contenuti dei vissuto dell’io individuale in riferimento ai vari condizionamenti esercitati sull’«anima» dalle forme d’incidenza reale degli stimoli. Tutto ciò si pone però su un piano totalmente diverso da quello dell’essenza della persona che è anche,

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tra l’altro, il soggetto concreto di tutti gli atti eideticamente qualificabili come intuizione interiore, tali cioè da oggettivare ciascuna manifestazione dell’anima ed appunto per questo da non essere mai oggettivabili in se stessi, né tanto meno identificabili con una «cosa» reale. La persona «esiste» unicamente in quanto unità concreta degli atti che essa compie e solo nel loro compimento; essa ha un vissuto originario di ogni essere e di ogni vita – quindi anche dei cosiddetti vissuti psichici – senza peraltro mai essere una vita ed un essere vissuto. Per questa ragione il noto problema dell’interazione tra anima e corpo si pone in termini completamente diversi dalla questione del come la persona sia correlata alla propria azione. È completamente illegittimo trasporre le difficoltà e le diatribe inerenti all’interazione tra corpo e anima nella questione del rapporto tra persone ed azione. Poiché nessun significato della persona è riducibile alla sfera psichica, è impensabile la questione del «come la persona possa agire» – perlomeno ove essa venga posta in questi termini. L’idea dell’azione ha il proprio corrispettivo unicamente nell’efficacia vissuta che l’azione ha sull’ambiente del corpo-proprio, sul corpo-proprio e sull’io relativo. La persona non agisce direttamente sul mondo esterno nello stesso modo in cui opera su quello interno, ad esempio mediante gli atti d’autodominio, in ogni forma di intervento personale sull’automatismo psichico. Non è quindi necessario che la persona agisca anzitutto sul mondo interno e solo mediatamente su quello esterno. Essa non è «più vicina» all’uno che all’altro ed ha al contempo un’immediata esperienza della «resistenza» d’entrambi. L’azione personale costituisce quindi sempre, come s’è già provato nella prima parte, un’indivisibile unità fenomenica che non può essere scomposta in una giustapposizione od in una successione di vissuti psichici e di movimenti o processi corporei. Il problema della cosiddetta «interazione», intesa «sensu lato», che ha così profondamente appassionato i secoli diciassettesimo e

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diciottesimo, perde il proprio significato metafisico se viene adeguatamente colto in base alle premesse da noi formulate (che coincidono peraltro sostanzialmente con le posizioni di Kant, perlomeno per quanto concerne il nucleo del problema). Poiché il concetto dell’anima ed il concetto del corpo non sono nozioni prime, correlate cioè a dati assoluti, non ha alcun senso chiedersi come sia possibile una reciproca interazione. Come ha giustamente osservato Kant, il noto problema si rivela essere «artificiale» poiché presenta in ultima istanza un interesse semplicemente gnoseologico. Ogni possibile relazione tra operazioni di carattere psichico e fisico diviene possibile e comprensibile unicamente grazie al contesto posto in atto dall’efficacia unitaria ed indivisa della persona. Ogni azione unitaria della persona può quindi essere considerata da due prospettive: in riferimento all’esteriorità ed all’interiorità; in ciascuna di loro si riflettono necessariamente in modo caratteristico le diversità, l’uguaglianza e la somiglianza delle singole «azioni» che vi siano in qualche modo connesse. Ciò vale ovviamente anche per ogni forma d’osservazione delle azioni personali altrui. Quest’ultime non si presentano mai in modo tale che a partire dai movimenti dati venga instaurata una «relazione di inferenza causale» con l’azione d’efficacia dell’anima. Tutte queste rappresentazioni presuppongono necessariamente la comprensione della persona e dell’unità della sua azione a partire dal centro della persona altrui nel momento in cui agisce. Come «carattere» intendiamo poi le disposizioni durature della volontà o altre «attitudini», come ad esempio le doti intellettuali, spirituali o mnemoniche – cioè l’insieme dei dati d’analisi di cui si occupano la caratterologia e la psicologia differenziale; in questi termini inteso il «carattere» non presenta alcuna componente in comune con l’idea di «persona», tanto più che esso dovrebbe essere a sua volta ricondotto a disposizioni dell’anima e del corpo qualora si ammettesse l’esistenza di un’animasostanza. In particolare, l’azione della persona non è affatto

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un’univoca conseguenza della somma delle sue disposizioni e delle varie situazioni esistentive estrinseche. Anche qualora si diano le stesse disposizioni psichiche e fisiche nonché le stesse situazioni, la persona e la sua azione potrebbero essere ipotizzate come variabili indipendenti. Voler ricondurre la libertà della persona alla semplice causalità del carattere (distinta peraltro dalla causalità dei singoli motivi, come ha tentato Lipps) significa collocarsi su un piano completamente diverso da quello in cui ha senso il problema della libertà. Intesi in questo senso le attitudini e il carattere devono essere infatti compresi a loro volta in base ad una relazione causale (di natura biologica e storica) essendo necessariamente condizionati in termini di causalità così come lo è il prodotto del carattere e della situazione. Per quanto potessimo quindi conoscere in questo senso (sia pure in grado idealmente perfetto) le disposizioni innate o acquisite d’un uomo nonché (in modo altrettanto ideale) tutti gli influssi che il mondo esterno esercita su di lui, il suo agire continuerà comunque a presentare molteplici aspetti, conformi alla diversità che contraddistingue la persona dotata di quel carattere e di quelle attitudini. Il problema della libertà (che non intendiamo trattare nel presente contesto) si pone pertanto ad un livello notevolmente più profondo di quello inerente alla soluzione proposta. Anche sul piano gnoseologico la persona ci si manifesta in modo completamente diverso da ciò che è stato precedentemente definito come «carattere». Il carattere non è altro che l’ipotetica X più o meno costante che viene presupposta per poter spiegare le singole azioni osservate in una persona. Se un uomo agisce in un modo che non corrisponde alle conclusioni che abbiamo tratte osservando l’«immagine» del suo «carattere», ipoteticamente acquisito come dato in una determinata situazione, si dovrà semplicemente dedurre che vi sia motivo di cambiare quest’«immagine» del suo carattere.

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4. Max Scheler. Sull’idea dell’uomo* Nella prospettiva scheleriana i saggi antropologici si propongono di ricondurre all’unità di un’idea autenticamente filosofica le diverse e molteplici immagini che le scienze particolari ci offrono riguardo all’uomo. Sull’idea dell’uomo (1913) è indubbiamente il primo saggio dedicato da Scheler alle tematiche dell’antropologia filosofica. Il possesso del linguaggio e della scrittura, la capacità di servirsi di utensili e di fabbricare macchinari, e tutte le altre abilità che qualificano l’homo faber non sono tuttavia sufficienti a distinguere l’uomo dagli animali, in quanto tra i primati e il «figlio di Dio» non vi è soltanto una differenza di grado, ma una più sostanziale differenza di essenza, «una insormontabile differenza eidetica».

Quanto è stato detto dimostra come l’essenza e il possesso della parola siano di già il presupposto di ogni possibile questione intorno alla cosiddetta origine del linguaggio e della scrittura. Ma di ciò non tengono conto quei positivisti e quei pragmatisti, i quali vogliono dedurre dapprima la parola dal linguaggio o dalla capacità di parlare, per poi tentare di dedurre il linguaggio stesso da quei «segnali» e da quelle «manifestazioni espressive» stabili, che si ripresentano automaticamente in condizioni analoghe, e rinvenibili già negli animali superiori. Per quanto si cerchi di tendere il filo del «passaggio», il «parlare» non può diventare parola, né le abitudini possono diventare linguaggio, vale a dire espressione mediante parole, nel senso più rigoroso del termine. Solo le parole possono esser parlate. All’inizio il linguaggio è la parola; e l’animale non parla, perché non possiede la parola. Una storia «positiva» può esserci solo relativamente all’inizio *  Da M. Scheler, Sull’idea dell’uomo (1913), in Id., La posizione del­l’uomo nel cosmo, cit., pp. 62-72.

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e al mutamento della rappresentazione della parola e del suo uso, ma non per quel che riguarda la parola stessa. Pertanto anche se l’affermazione «la parola (che ha fatto sì che l’uomo abbia parlato) è venuta da Dio», non porta ovviamente alcun contributo «scientifico» al problema dell’origine del linguaggio; essa si pone nondimeno come l’unica risposta sensata a una domanda priva di senso, se impostata da un punto di vista storico; si pone cioè come la trascrizione metafisica di un problema che, considerato come «storico», è uno pseudo-problema. La parola è un fenomeno originario. Quale presupposto significativo essa è pertanto anche uno strumento fondamentale per poter conoscere ogni «storia», che, come tale, si distingue completamente dall’obiettiva successione temporale degli avvenimenti. La storia infatti è una continuità di conoscenza e di significato intuita nel corso dell’essere e del divenire, in virtù della parola. Ed è appunto perché costituisce essa stessa tutta la «storia» che la parola non ha una «storia», e nessun «ponte» o «passaggio» la unisce alla cosiddetta storia naturale. «L’uomo esiste solo in virtù del linguaggio; nondimeno, per inventare il linguaggio egli doveva già esser uomo» (W. von Humboldt). La stessa cosa vale per lo strumento. Noi troviamo infatti che le scimmie superiori, gli elefanti e così via riescono a inserire, tra la loro attività e l’obiettivo, manipolazioni o spostamenti di oggetti affatto sensati e adeguati allo scopo: la scimmia per esempio getta sul suo «nemico» sassi e frutti. Ma non è il fatto di usare una cosa come mezzo volto a un fine, a conferirle l’unità essenziale dell’«utensile». Se io uso una chiave come martello per bussare alla porta, quella rimane una chiave e non diventa un martello. Se poi, per spiegare il «passaggio» da ciò che è usato come mezzo all’utensile, si ricorre, come fa il Romanes, al concetto di «utensile occasionale», non si fa altro che usare una parola priva di senso. Poiché a distinguere l’utensile

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da un oggetto «usato» come semplice mezzo, è per l’appunto l’unità rigorosa della forma di un materiale, la quale costituisce nel contempo l’unità intrinseca significativa, che trascende quel significato occasionale conferito all’oggetto stesso da tutti quegli scopi per cui viene momentaneamente usato. Secondo un’analisi più approfondita, l’utensile presenta sempre una sua struttura significativa, che è posta solo in un secondo momento a servizio solo di determinati scopi e trasformata poco per volta da questi; la quale struttura, quanto più possiede l’essenza a-teleologica di una piccola opera d’arte o di un oggetto ornamentale, tanto più ci rimanda alle sue «origini». Pertanto ciò che pone l’utensile al di sopra di un mezzo occasionale per le nostre esigenze biologiche, è essenzialmente quella stessa forza spirituale che agisce altresì nella genesi della cultura spirituale affatto a-teleologica; solo che, nella formazione dell’utensile, tale forza si pone liberamente a servizio dell’appagamento di un bisogno, mentre nella formazione della cultura, tralasciando codesto fine, rappresenta e porta a termine affatto liberamente un suo proprio contenuto. Proprio per questo, però, la formazione dell’utensile e di tutto ciò che appartiene alla «civilizzazione», o a quell’attività spirituale che è il correlativo della vita, acquista in ultima analisi senso e valore solo quando si pone come «via verso la cultura» e come libera attività spirituale a essa corrispondente. D’altra parte, è altrettanto evidente che l’utensile, considerato da un punto di vista vitale, non è, come credono i positivisti, una manifestazione positiva della vita che forma gli organi, ma è l’espressione e la conseguenza della deficienza biologica. Una facoltà atta a formare gli utensili, vale a dire l’«intelletto», fa la sua apparizione solo ove sia già venuta meno la possibilità di formare gli organi e la capacità vitale di svilupparli, e dove le forze naturali, per attaccare e abbattere gli altri animali o per trasformare l’ambiente mediante gli organi, si siano indebolite a tal punto da dover ricorrere all’astuzia. Un animale, però, la

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cui organizzazione si sia irrigidita e stabilizzata, e nel quale la vita – non essendo più in grado di allargare e trasformare il suo ambiente mediante la creazione di nuovi organi – si limiti ad «adattarsi» all’ambiente dato; un animale che sostituisca la carenza di denti e di artigli validi con la semplice astuzia, non è certo «superiore» al restante mondo biologico. Tutt’al più potrebbe essere definito l’«animale ereditariamente malato», talché la sua malattia costituzionale, l’«intelletto» – che sarebbe per così dire davvero la «malattia dello spirito» – verrebbe ad essere una specie di rimedio per la sua esistenza. Chi può negare che se lo spirito e l’intelletto costituissero solamente una sapiente precauzione (prudentia), un «voir pour prévoir», e fossero esclusivamente delle armi necessarie «alla lotta per l’esistenza», siffatte armi sarebbero altresì, tra tutte quelle possibili, le peggiori, le più elementari e le più comuni: e dunque solo quei deplorevoli surrogati della formazione di nuovi organi, la cui genesi diventa comprensibile solo se si ammette che lo sviluppo della vita verso organizzazioni più elevate ha subìto un arresto. Nell’ambito della specie umana, sono stati sempre le razze e i popoli intimoriti e soggiogati a usare «furbizia», «accortezza», «prudenza» e «calcolo», a servizio della vita. Ora quella «intelligenza» mobile – la quale, a differenza dello «spirito» da un lato e dell’«istinto» dall’altro, si esplica nelle relazioni obiettive, e che facendoci passare da A a B, tende nel contempo a perdere d’occhio la quiddità e l’essenza di A e di B – non è forse la massima espressione di quella stessa insufficienza di energie vitali, che si manifesta in modo straordinariamente accentuato in questi tipi razziali? Se noi approfondissimo la natura degli istinti con quella precisione con cui l’ha penetrata, per esempio, il Fabre nei suoi Souvenirs entomologiques, troveremmo che l’istinto è lo spirito che si identifica, compenetrandole, con le attività organiche, con la loro organizzazione, con l’ordine rigoroso del loro succedersi. Esso consiste esclusivamente in «trovate» assolutamente «buone», le quali sono perfettamente adeguate

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alle situazioni tipiche della vita, e si costituiscono nella misura in cui sono necessarie e in cui possono trasformarsi immediatamente in attività. Queste trovate, dunque, non contengono nulla di più e nulla di meno di quanto non sia necessario per indirizzare sensatamente i passi successivi alla soluzione di un compito, posto dall’organizzazione istintiva. L’istinto dunque non è affatto «attività intellettuale meccanizzata», ma è invece una forma speciale dello spirito; esso non è neppure un riflesso più complesso (nel senso di Loeb) qualcosa di riconducibile ai «tropismi»: esso è lo spirito che domina i più svariati movimenti verso un’azione avente un’unità significativa. Relativamente all’istinto, l’intelletto e pensiero possono esser definiti come un surrogato per la mancanza costitutiva di «buone trovate», la quale aumenta in concomitanza con la crescente insicurezza istintiva di una specie. L’intelletto non è una virtù originaria, ma solo la conseguenza di una originaria mancanza: esso è la virtù di una mancanza! Come l’utensile è in se stesso un semplice surrogato di un’evoluzione organica insufficiente, e si è formato anzitutto come conseguenza di un arresto e di una stabilizzazione dello sviluppo puramente vitale; così l’intelletto, che sussume i vari «casi» in regole generali e, calcolando, si affretta a prevenire la vita, è un surrogato dell’istinto che è venuto a mancare o che comunque è diventato malsicuro. Certamente l’istinto ha in sé la possibilità di sbagliare, possibilità che invece manca all’intelletto; esso abbandona subito un’attività non appena viene mutato un solo elemento in quella serie ordinata di stimoli, che comanda ogni ulteriore passo dell’organismo. Il sonnambulo che cammina sui cornicioni cade non appena gli appare nel risveglio qualcosa che non ha nulla a che fare con l’atto del camminare e con la «luna». Ma il principale elemento positivo dell’organizzazione istintiva, il suo perfetto adattamento a un ambito rigoroso di «situazioni», risiede appunto nel fatto che questa possibilità di sbagliare può intervenire solo in casi rarissimi e per lo più in seguito a un intervento voluto dall’uomo. La genesi dell’intelletto con la

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sua attività calcolatrice corrispondente interviene solo quando, venendo meno questo elemento positivo dell’organizzazione, un essere è in grado di riuscire «in tutte le situazioni possibili». Riconducendo dunque lo spirito, in generale, a una «esigenza vitale», come vuole Herbert Spencer, l’«animale dotato di intelletto e di strumenti» non può esser designato come coronamento dell’evoluzione vitale, ma come un animale costituzionalmente malato, nel quale la vita ha fatto un faux pas e che si è smarrito in vicolo cieco. La conseguenza del faux pas, il vicolo cieco, sarebbe appunto la «civilizzazione». Uno dei primi pensatori che si è accorto di questo errore è stato Friedrich Nietzsche, e in questo consiste un suo grande merito. Ma è un peccato che egli non abbia superato questo originale giudizio negativo e si sia limitato a trarre una conclusione, senza esaminare la premessa positivistica per la quale la dignità dell’uomo e il senso della sua vita consisterebbero appunto nell’«intelletto» e nell’«utensile». L’animale malato, l’animale intelligente e capace di costruirsi degli utensili – senza dubbio qualcosa di assai deforme – diviene subito magnifico, grande e nobile, quando si consideri la sua possibilità di trasformarsi in un essere che trascende ogni forma di vita, e nell’ambito di questa, anche se stesso, proprio in virtù di quella attività che, relativamente alla «conservazione della vita» e ai suoi fini, appare estremamente risibile. L’«uomo» inteso in questo senso del tutto nuovo, è l’intenzione e il gesto della «trascendenza» stessa, l’essere che prega e cerca Dio. Anzi l’«uomo» non «prega», egli è la preghiera che la vita eleva al di sopra di se stessa; «non cerca Dio», egli è quell’X vivente, che Dio cerca! E tutto ciò, esattamente nella misura in cui il suo intelletto, i suoi utensili e le sue macchine sono in grado di garantirgli un ozio libero per contemplare e amare Dio. Dunque ciò che può giustificare il suo intelletto e l’opera di questo, la civilizzazione,

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è solo il fatto che essi rendano sempre più permeabile il suo essere a quello spirito e a quell’amore che, in tutti i loro moti e in tutti i loro atti, si orientano come i segmenti di un unico arco verso qualcosa che si chiama «Dio». Dio è il mare, essi sono i fiumi: e fin dalla loro sorgente i fiumi presentono il mare verso cui corrono. La cultura spirituale è qualcosa di sublime; e tutto ciò che chiamiamo civilizzazione costituisce soltanto il luogo necessario e il meccanismo esteriore, indispensabile al suo apparire. Ma la sostanza della cultura spirituale, la radice anzi di ogni cultura, è quell’X verso cui dirigono la preghiera e il moto di un amore sacro: Dio. L’errore delle teorie dell’uomo, fino ai nostri giorni, consiste nel fatto che tra la «vita» e «Dio» si voleva inserire ancora una tappa che potesse definirsi un essere: l’«uomo». Ma questa tappa non esiste, giacché l’impossibilità di diventare oggetto di definizione costituisce l’essenza stessa dell’uomo. Questi è solo un «infra», una «frontiera», un «passaggio», un «apparire di Dio» nel corso della vita, e una eterna «trascendenza» della vita oltre se stessa. Solo così si può risolvere il problema di una definizione, giacché un uomo definibile non avrebbe senso alcuno. Quella mancanza di perfezione propria di un essere organico, quella mancanza di «buone trovate» che si chiama «pensiero», che riguardate dal punto di vista vitale appare come una malattia, è nondimeno la pioniera di qualcosa che è superiore alla vita e all’intelletto, pioniera della creazione spirituale, della cultura e, in ultima analisi, della grazia! Anche la grazia costituisce una «buona trovata». Solo che essa è una trovata che viene da Dio, anzi l’immediata «trovata» di Dio per entrare nella vita, e l’«uomo» è, per la grazia, la porta di tale trovata. Questa non è infatti la trovata dell’istinto, che fa sfociare dalla sapienza biologica dei piccoli gorghi a cui la vita dà la forma di organismi occasionali! Inteso come guida verso la grazia, l’«intelletto» – una malattia

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dal punto di vista biologico – acquista anzitutto il suo senso e il suo significato, ma, visto in relazione alla sua origine biologica, esso non è che un pessimo surrogato. Pertanto, tra le convinzioni più sciocche dei pensatori moderni c’è quella che l’idea di Dio sia «antropomorfica». Cosa che appare tanto più falsa, quanto più si riflette che l’unica idea dell’«uomo» che abbia senso è precisamente quella «teo-­morfica» di un X che sia immagine finita e vivente di Dio, una sua analogia, una delle sue innumerevoli ombre sul grande sfondo dell’essere. È vero che – come dice il vecchio nichilista Senofane, il rapsodo stanco, amareggiato, impotente e oppresso dall’invidia per opera di Omero e di Eschilo di cui si nutriva – «gli dèi dei negri sono neri e col naso camuso, quelli dei traci hanno gli occhi azzurri, e anche i buoi e gli asini immaginerebbero Dio come un bue o un asino». Ma il fatto che le cose stiano così, non dipende soltanto dall’immagine meschina e limitata che l’uomo ha di Dio, quanto forse dalla pienezza di Dio! Dio ha un cuore per i negri e per i traci, per i buoi e per gli asini, ed Egli è anche tutto ciò che questi possono credere di Lui; perché è, in qualche modo, tutte queste cose, e innumerevoli altre in misura infinitamente maggiore. Ma poiché anche il Dio nero e labbruto del negro, il Dio del bue e dell’asino è divinità, egli non è nessuna di queste cose: ma l’eterno modello secondo il quale si forma e cresce il loro essere, il loro principio e il fine. È appunto il loro «Dio», l’oggetto sacro del loro amore, che è sempre superiore a colui che ama. Da quando Gesù volle che i fanciulli «venissero a lui», intorno a essi aleggia un raggio particolare di purezza, di sublimità, di gloria, assente nell’antichità. Essi appaiono tutti come dei luminosi Bambino Gesù; e non perché Gesù Bambino è un «bambino idealizzato», ma al contrario perché il riflesso di Lui si posa sul bambino. È noto come le teorie sul sole siano state ancor più numerose, multiformi e stravaganti delle idee di Dio. Ma si trattava appun-

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to di teorie sul sole, e nessuno mette in dubbio per ciò stesso la sua esistenza reale, né la verità dell’odierna astronomia. Appunto perciò l’accusa di «antropomorfismo» suona strana sulle labbra di chi non riconosce nulla al di sopra dell’uomo; di coloro per i quali le idee e le leggi di ciò che ha senso o che non ha senso, del vero e del falso, del buono e del cattivo sono «conseguenze dell’evoluzione naturale» dell’uomo, «adattamenti» del suo «cervello» e dei suoi «processi psichici» all’«ambiente»; e non sono idee le leggi indipendenti dall’esistenza e dalla natura dell’«uomo», che nel loro insieme esprimono la struttura essenziale di uno spirito in generale e di tutti i mondi possibili: di uno spirito, dunque, che ha trovato nell’uomo la sua espressione migliore. Si può sensatamente parlare di «antropomorfismo» solo se l’uomo non è la «misura di tutte le cose», ma è semplicemente l’unico oggetto delle possibili misurazioni; se in lui, oltre a quella sua «natura», vigono altresì le leggi di una «sovranatura», che egli coglie nell’esperienza, per poi distinguere la semplice «forma umana» delle proprie idee, della loro eterna validità oggettiva. Bisogna perciò già possedere nel proprio spirito l’idea di Dio per poter parlare di «antropomorfismo» e anzi per poterne parlare con disprezzo. Di fatto, coloro, che sostengono esser quella di «Dio» un’idea antropomorfica, hanno già affermato in segreto un Dio, e precisamente un Dio precristiano, che è solo un ente «sublime». Quel disprezzo negativista che soltanto un soprannaturalismo puramente nominale poteva riversare sull’«uomo», trova la sua espressione in questa accusa di «antropomorfismo». Ora però è grottesco che proprio coloro i quali sono schiavi di valutazioni tradizionali centenarie che credono di deridere, dichiarino guerra al loro Signore remoto e «sublime» con un argomento che in realtà presuppone questo Signore, inteso come il «Signore»! Anziché dire: secondo la nostra opinione ogni pensiero e ogni rappresentazione è «antropomorfismo» (anche A=A, anche 2x2=4, giacché derivano dalla struttura cerebrale e psichica dell’uo-

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mo); dunque è «conveniente» e «vero» quel che, nell’idea di Dio, si presenta come «antropomorfismo», anzi il Dio antropomorfico esiste proprio in virtù di questo antropomorfismo; dunque, tutto quello che l’essere più elevato, l’«uomo», «vertice dell’evoluzione», pone come esistenza, esiste perché è Lui che lo pone. Anziché prender avvio da siffatte conclusioni logiche, essi partono da un integrale disprezzo per l’uomo, che avrebbe un senso solo qualora egli non fosse l’essere più elevato, ma un essere inferiore e lontano da Dio. Questi signori non si rendono conto di comportarsi come quell’egregio libero pensatore e «ateo» francofortese del 1848, il quale ogni mattina, inginocchiato dinanzi al suo letto, pregava: «ti ringrazio, o mio Dio, di avermi fatto diventare ateo!»; ovvero come quegli abitanti di. Meclenburgo, monarchici e «tedeschi» fino al midollo, il che è quanto dire tanto servili, da voler «la repubblica con a capo il granduca»! Il Renan ha ironizzato con molto spirito sugli «atei tedeschi», ancora «convinti di essere atei». ‘L’uomo creò Dio’ – replicate voi raffinati. E non deve amare ciò che ha creato? Deve forse negarlo proprio perché lo ha creato? Tutto ciò zoppica e ha lo zoccolo del demonio.

Con questi versi, Nietzsche mostra di aver chiaro quanto laida e volgare sia la dialettica dei sentimenti e delle idee dei nostri cari liberi pensatori monisti. Incapaci di servire Iddio, incapaci di sentirsi piccoli nei suoi confronti, ma ancor più incapaci di sentirsi grandi, anzi titanici, come avrebbe comportato tale negazione, e cioè così grandi da prestar fede a ogni forma di «antropomorfismo», ivi compresa l’esistenza di Dio; essi continuano a professare, con l’antico soprannaturalismo, quel disprezzo per l’uomo, superato dal Cristianesimo nell’umanità di Dio, e a negare nel contempo la sua unica sensata premessa. Concentrare – di fatto – tutti i valori positivi dell’idea di Dio (anziché riversarli sull’uomo, come han fatto i pensatori della corrente nobile del panteismo, per esempio Spinoza «ebbro di

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Dio», Bruno, Schelling, von Hartmann e altri) per poi eliminare questo insieme di valori, costituisce l’espressione più infame e spregevole del negativismo dei tempi moderni. Come appare nobile, di contro, il tentativo di Nietzsche, anche se è stata la sua stessa grandezza a farlo precipitare! Se l’«uomo» deve esser ricondotto all’unità di un’idea, non a partire dal terminus a quo, ma solo dal terminus ad quem – vale a dire se deve esser considerato come «colui che cerca Dio» e come il punto di apertura per una forma attiva, ricca di significato e di valore, posta al di sopra della restante esistenza naturale, e cioè come «persona» – in tal caso questa idea unitaria dell’uomo si opporrà in maniera immediata soprattutto a quel concetto di «uomo» che possiamo formarci da un punto di vista naturalistico e psicologico. Chi potrebbe infatti dimostrare che al pollice mobile, all’osso intermascellare, ecc. «corrisponde» un cercatore di Dio, un X che cerca Dio? Un quid che comincia a trascendersi e a cercare Dio è appunto un «uomo», qualunque possa essere il suo aspetto. La nuova divisione tra colui che cerca Dio e quell’esistenza che riposa in sé – il concetto di «filisteo» potrebbe forse esser formalizzato a tal punto da farci distinguere gli enti in cercatori di Dio e filistei – non coincide necessariamente con la distinzione tra organismi aventi la mascella mediana e organismi privi di tale caratteristica. Tutto ciò contribuisce a farci credere che questa divisione eidetica scinde l’«uomo» come unità naturale ed è indicativa di una divisione che si opera all’interno dell’umanità, e che è infinitamente più importante di quella che separa, in senso naturalistico, l’uomo dall’animale. Quest’ultima, infatti, è sempre arbitraria se si considera la rigorosa continuità di sangue e organizzazione tra l’uomo e l’animale; e non è imposta tanto dalle cose, quanto dall’arbitrio del nostro intelletto. Tra l’Adamo «rinato» e il «vecchio» Adamo, tra il «figlio di Dio» e colui che fabbrica utensili e macchine («homo faber») vi è una insormontabile differenza eidetica; mentre tra

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l’animale e l’homo faber vi è solo una differenza di grado. «Figli del mondo» più intelligenti o meno intelligenti, organizzati così bene da non aver bisogno dell’intelligenza o degli utensili, oppure organizzati in maniera tanto insufficiente da averne invece bisogno: ecco cosa sono gli animali e quegli uomini che non sono figli di Dio, che non sono «figli della luce». Là ove il desiderio di Dio chiama prepotentemente alla riscossa tutto l’essere e tutto lo spirito contro ciò che è solo «mondo», ecco l’homo bestia naturalis trasformarsi in homo: il che è quanto dire in una creatura stanca di essere solamente uomo. Solo nella prospettiva dell’«uomo-Dio» e del «superuomo» – un termine già coniato da Lutero – quel quid, che ha in sé le capacità per diventarlo, diventa uomo. L’idea di «persona» applicata a Dio non è dunque l’espressione di un antropomorfismo! Dio è piuttosto l’unica persona perfetta e pura, mentre quel quid che può chiamarsi col nome di uomo è solamente una «persona» imperfetta e analogicamente intesa.

5. Max Scheler. Uomo e storia* In questa conferenza del 1926 Scheler prende coscienza della centralità e al contempo della insolubilità del tema antropologico. Come incamminarsi per questo complicato percorso? Il punto di avvio sta sempre nelle scienze che si occupano dell’uomo, le quali però da sole sono incapaci di sintesi e unificazione concettuale. Solo l’intervento dell’antropologia filosofica potrà trasformare i risultati delle singole scienze in una visione armonica e globale dell’uomo.

*  Da M. Scheler, Uomo e storia (1926), in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, cit., pp. 257-260.

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Se vi è un compito filosofico, il cui assolvimento viene richiesto in maniera particolarmente pressante dalla nostra epoca, è quello di una antropologia filosofica. Intendo una scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione essenziale dell’uomo; una scienza fondamentale del suo rapporto con i regni della natura (regno anorganico, regno delle piante, regno degli animali) e con il fondamento di tutte le cose; una scienza della sua origine metafisica essenziale e del suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo; delle forze e delle potenze che lo muovono e che egli muove; una scienza delle tendenze e delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto delle possibilità essenziali (essentiellen) di questo sviluppo quanto delle sue effettualità. È qui contenuto il problema psicofisico anima-corpo e il problema noetico-vitale. Soltanto una tale antropologia sarebbe in grado di dare un fondamento ultimo di natura filosofica nonché, insieme, scopi della ricerca sicuri e definiti, a tutte le scienze che hanno che fare con l’oggetto ‘uomo’, colle scienze naturali e mediche, a quelle che si occupano della preistoria, alle scienze etnologiche, a quelle storiche e a quelle sociali, alla psicologia normale e alla psicologia evolutiva nonché alla caratteriologia. In nessun’epoca, più che nella nostra, le vedute circa l’essenza e l’origine dell’uomo sono state più incerte, più indefinite e molteplici – una pluriennale e attenta consuetudine con il problema dell’uomo dà bensì all’autore di queste pagine il diritto di fare quest’affermazione. In quasi diecimila anni di storia noi siamo la prima epoca, in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma allo stesso tempo sa anche che non lo sa. E solo in quanto si sia una buona volta intenzionati a far tabula rasa completamente di tutte le tradizioni concernenti questa questione e si apprenda a guardare l’essenza definita uomo con la più estrema estraniazione e meraviglia metodiche, si potrà

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nuovamente pervenire a vedute durevoli. Ma si sa quanto sia difficile fare questa tabula rasa. Perché qui siamo dominati dalle categorie tradizionali in maniera più inconsapevole e, pertanto, più forte che in altre questioni. L’unica cosa che si può fare per scuoterle lentamente è imparare a conoscere queste categorie nella loro origine storico-spirituale in maniera dettagliata e quindi superarle grazie a questa presa di coscienza. Una storia delle teorie mitiche, religiose, teologiche e filosofiche dell’uomo dovrebbe essere preceduta da una storia dell’autocoscienza che l’uomo ha di se stesso, una storia dei generi tipico-ideali fondamentali, in cui ha pensato, osservato, sentito se stesso e si è considerato disposto negli ordinamenti dell’essere. Senza entrare nel merito di questa storia stessa – essa deve introdurre L’“Antropologia” dell’autore di queste pagine val la pena tuttavia di mettere in rilievo soltanto una cosa: la tendenza fondamentale di questi ricchi sviluppi è stabilita – la tendenza verso un rafforzamento crescente della autocoscienza dell’uomo, che consegue, con sempre nuovi salti, in momenti emergenti della storia. Rispetto a questa tendenza fondamentale, i contraccolpi che si hanno qua e là hanno poca importanza. Non sono solo i cosiddetti primitivi a sentirsi ancora del tutto affini e uniti con il mondo degli animali e delle piante dei loro gruppi e del loro spazio vitale. Perfino una civiltà evoluta, come quella dell’India, si fonda sul sentimento indubitabile dell’unità dell’uomo con ogni vivente. Anche qui gli esseri, le piante, l’animale, l’uomo, stanno l’uno di fronte all’altro in maniera additiva e come uguali accanto ad uguali: collegati essenzialmente l’uno con gli altri in una grande democrazia dell’essente. La rigida separazione dell’uomo dalla natura, nell’esperienza vissuta e nel sentimento, nel pensiero e nella teoria, si è presentata soltanto all’altezza della grecità classica. Perché qui e soltanto qui è stata coniata quell’idea del logos, della ragione, dello spirito, che, in quanto agente specifico, deve spettare soltanto all’uomo, deve collocarlo molto al di sopra di tutti gli

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esseri – e lo pone in un rapporto con la divinità stessa, che nessun altro essere deve avere. Il Cristianesimo, con le sue teorie dell’umanità di Dio e della filiazione da Dio, significa, a sua volta, nell’insieme un nuovo accrescimento dell’autocoscienza dell’uomo: tanto se pensa bene, tanto se pensa male di sé, in ogni caso qui l’uomo si ascrive, in quanto uomo, un’importanza cosmica e metacosmica, che il greco e il romano del mondo classico non avrebbero osato ascriversi. Anche l’inizio del pensiero moderno, nonostante il fatto che l’antropomorfismo medievale cominciasse a divenir trasparente nelle sue implicazioni, significa un nuovo salto in avanti nella storia dell’autocoscienza dell’uomo. È un errore molto diffuso il supporre, per es., che la tesi di Copernico sia stata avvertita, all’epoca in cui si presentò per la prima volta, come fondamento per un declino e una diminuzione dell’autocoscienza dell’uomo. Giordano Bruno, il più grande missionario e filosofo della nuova immagine astronomica del mondo, esprime il sentimento opposto. Copernico ha scoperto soltanto una nuova stella in cielo… la terra. «Noi siamo già in cielo», crede di poter esclamare giubilante Bruno, e pertanto non abbiamo bisogno del cielo e della chiesa. Dio non è il mondo, è piuttosto il mondo stesso ad essere Dio. È questa la nuova tesi del panteismo acosmico di Bruno e di Spinoza; la visione medievale secondo cui il mondo esistente sarebbe dipendente da Dio, e secondo cui vi sarebbe una creazione del mondo e dell’anima è falsa. È questo il senso – e non un attrarre giù Dio verso il mondo – della nuova mentalità. L’uomo sa bensì di essere soltanto l’abitante di un piccolo satellite del sole; ma il fatto che la sua ragione abbia tuttavia la forza di penetrare e rovesciare l’apparenza naturale dei sensi – proprio questo accresce in misura significativa la sua autocoscienza. La ragione – che a partire dai greci costituisce l’agente specifico dell’uomo – assume poi anche, già da Descartes in poi,

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nella filosofia moderna, un rapporto fondamentale, rispetto alla divinità, di genere nuovo. Già Duns Scotus e Suarez avevano elevato, per così dire, il rango metafisico dell’uomo, in quanto attribuivano alla sua anima spirituale alcuni predicati, che Tommaso d’Aquino aveva esplicitamente attribuito soltanto all’‘angelus’, alla ‘forma separata’ e alla ‘substantia completa’: l’individuazione dell’uomo senza una ‘prima materia’ individuante, l’individuazione, cioè, grazie unicamente al suo essere spirituale stesso. Ma, a partire da Descartes e dalla sua poderosa dichiarazione di sovranità del pensiero nel «Cogito ergo sum», l’autocoscienza dell’uomo compie un vigoroso salto anche al di là di questi limiti. Autocoscienza e coscienza di Dio, che già la grande mistica del XIII e XIV secolo aveva spinto al limite dell’identificazione, si compenetrano, in Descartes, in maniera così profonda che non vi è più bisogno di un sillogismo che conduca dall’esistenza del mondo a quella di Dio, come in Tommaso d’Aquino, bensì, al contrario, è il mondo stesso che viene conseguito soltanto a partire dalla luce originaria della ragione sciente che si radica immediatamente nella divinità. Tutto il panteismo da Averroè a Spinoza fino a Hegel e Eduard von Hartmann ha quindi fatto dell’identità parziale dello spirito umano e di quello divino una delle sue dottrine fondamentali. Anche per Leibniz l’uomo è un piccolo Dio.

6. Max Scheler. La posizione dell’uomo nel cosmo* All’analisi della «posizione particolare» dell’uomo nell’universo, Scheler aveva deciso di dedicare un’ampia opera che, a causa della sua prematura morte, non vide mai la luce. Tut*  Da M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 142-147; 156159; 186-191.

223 tavia, nella Posizione dell’uomo nel cosmo, egli ci presenta il piano della progettata Antropologia. Dopo aver riconosciuto la necessità, per l’uomo, di raggiungere una conoscenza ampia e precisa del proprio essere, Scheler si rende conto che non è più possibile rispondere alla domanda sulla natura e sul compito dell’uomo secondo i tradizionali schemi filosofico-teologici, ma che bisogna stabilire un confronto tra i dati filosofici e le conoscenze scientifiche. Si serve quindi di esse per analizzare le diverse forme in cui la vita si manifesta: piante, animali, uomini. Vi è, però, nell’uomo un principio di cui ogni altro vivente è privo e che non può essere ricondotto a nessuna teoria evoluzionistica. Tale caratteristica va ricercata nello «Spirito», in quell’impronta impressa da Dio nella sua creatura prediletta. Scheler giunge così a riconoscere all’essere umano un aspetto a lui assolutamente peculiare: la capacità di «dire di no», di trascendere la realtà data opponendole un netto rifiuto. La compresenza di un principio spirituale e di una forza istintuale costituisce il problema dell’ultima parte dell’opera. Dal conflitto tra la potenza cieca del Drang e l’impotenza lucida del Geist deriva la dottrina dell’«impotenza dello spirito». Lo Spirito non è completamente autonomo e ha bisogno dell’uomo per la sua completa attuazione. L’autorealizzazione della divinità non può ottenere il suo totale compimento senza la storia del mondo, senza la storia dell’uomo.

A questo punto, ecco una questione decisiva per il nostro problema. Se bisogna attribuire l’intelligenza anche all’animale, vi è tra questo e l’uomo qualcosa di più che una semplice differenza di grado, vale a dire una differenza di essenza? Ossia: oltre alle forme psichiche essenziali fin qui notate, c’è nell’uomo anche qualche cosa di altra natura, che gli competa perciò specificatamente, e non riducibile all’intelligenza e alla capacità di scelta in generale? Qui le diverse opinioni si oppongono nella maniera più energica. Gli uni intendono riservare intelligenza e scelta all’uomo, negandole all’animale, vedendo però la differenza extra-quan-

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titativa, essenziale, là dove, a mio avviso, non esiste affatto. Gli altri, in special modo tutti gli evoluzionisti della scuola darwiniana e lamarckiana, negano con Darwin, con lo Schwalbe e anche con il Kölher che vi sia una differenza irriducibile tra uomo e animale, proprio perché anche l’animale possiede l’intelligenza. Con ciò si riallacciano in certo senso alla grande teoria dell’unità dell’uomo, da me chiamata teoria dell’homo faber; e naturalmente non ammettono di conseguenza nessuna specie di essere metafisico, né una metafisica dell’uomo, vale a dire nessun rapporto distintivo dell’uomo, in quanto tale, con il principio del mondo. Per quel che mi concerne, io rifiuto ambedue queste teorie, nell’atto di affermare che l’essenza dell’uomo, insieme con quella che possiamo definire la sua «posizione particolare», trascendono ciò che chiamiamo intelligenza e facoltà di scelta, e non possono essere intese, neanche aumentando queste due facoltà quantitativamente all’infinito. Ma sarebbe altrettanto sbagliato considerare quell’elemento nuovo che rende l’uomo tale, esclusivamente come un grado essenziale (aggiunto ai gradi psichici quali l’impulso affettivo, l’istinto, la memoria associativa, l’intelligenza e la scelta) di quelle facoltà e funzioni pertinenti alla sfera psichica e vitale, e il cui studio rientrerebbe nell’ambito della psicologia e della biologia. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che nei possiamo definire nel senso più lato come «vita». Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente «uomo», non è un nuovo stadio della vita – e neppure di una delle sue manifestazioni, la «psiche» –, ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo, che come tale non può essere ricondotto alla «evoluzione naturale» della vita; ma semmai, solo al fondamento ultimo delle cose stesse: a quello stesso fondamento dunque, di cui la «vita» non è che una manifestazione.

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Già i greci affermarono l’esistenza di tale principio, chiamandolo «ragione». Noi preferiamo usare, a proposito di questa X, un termine più vasto, un termine che, pur abbracciando il concetto di «ragione», contenga altresì, accanto al «pensiero ideativo», un certo genere di «intuizione», quella cioè dei proto-­fenomeni o dei contenuti essenziali, e inoltre una certa classe di atti emozionali e volitivi, quali la bontà, l’amore, il pentimento, il rispetto, la meraviglia, l’estasi, la disperazione e la libera decisione: noi preferiamo cioè usare il termine «spirito». Inoltre vogliamo designare come «persona» quel centro di atti entro il quale lo spirito appare nelle sfere finite dell’essere, distinguendolo nettamente da tutti i centri funzionali della «vita», che, considerati dal punto di vista interno, prendono altresì il nome di «centri psichici». Ora che cosa è questo «spirito», questo nuovo principio così radicale? Raramente si è fatta tanta confusione intorno a una parola a proposito della quale solo pochi hanno un’idea precisa. Se poi poniamo al sommo del concetto di spirito la sua particolare funzione conoscitiva, quella sorta di sapere che solo lo spirito può fornire, allora la caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la «vita» e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria «intelligenza» ancora sottomessa alla tendenza. Un essere «spirituale» non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è «libero», e perciò «aperto al mondo»; un essere siffatto possiede un suo «mondo», ed è altresì capace di trasformare quei centri di «resistenza» e di reazione del suo ambiente, che originariamente anch’egli possiede (i soli per l’animale

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che vi è immerso extaticamente) in «oggetti»; e soprattutto di comprenderne la quiddità stessa senza quella limitazione che il sistema degli impulsi vitali, come del resto le funzioni e gli organi sensoriali, che ne sono il prolungamento, impongono al mondo oggettivo e ai suoi dati. Lo spirito è dunque oggettività, capacità di essere determinati dalla quiddità delle cose stesse. Lo spirito «è» un’entità vivente capace della più completa oggettivazione. In breve, il «supporto dello spirito è solo quell’essere, il cui rapporto essenziale con la realtà esteriore, come del resto con se stesso, è, da un punto di vista dinamico, esattamente il rovescio di quello dell’animale anche intelligente». In che cosa consiste tale «rovesciamento»? Nell’animale – superiormente o inferiormente organizzato – ogni azione, ogni reazione, compresa quella «intelligente», proviene da uno stato fisiologico del suo sistema nervoso al quale si collegano, dal lato psichico, gli istinti, gli impulsi tendenziali e le percezioni sensibili. Tutto quello che non interessa questi istinti e questi impulsi non è neppur dato; mentre ciò che è dato, è dato all’animale esclusivamente come un centro di resistenza per il suo desiderio e per la sua avversione, vale a dire all’animale inteso come centro biologico. L’iniziale stato fisiopsichico rappresenta sempre il primo atto del dramma del comportamento animale nei confronti del suo ambiente. Infatti la struttura ambientale è perfettamente conforme e del tutto «limitata» alla natura fisiologica dell’animale e indirettamente anche a quella morfologica, e inoltre alla sua struttura tendenziale e a quella sensibile, le quali formano una rigorosa unità funzionale. Tutto ciò che l’animale può osservare e cogliere nel suo ambiente, è rigorosamente contenuto entro gli argini e i limiti strutturali di tale ambiente. Il secondo atto del dramma del comportamento animale è rappresentato da alcune modificazioni reali dell’animale, determinate da una reazione

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dell’animale stesso, nella direzione imposta dall’oggetto della tendenza. Il terzo atto è rappresentato dallo stato fisio-psichico, determinato da tali modificazioni. Il decorso del comportamento animale presenta costantemente questa forma: An ⟺ Am1

Un essere che ha lo «spirito» è completamente diverso. Un essere siffatto – se e fin dove usufruisce, per così dire, del suo spirito – è capace di un comportamento il cui corso ha la forma esattamente opposta. Il primo atto di questo nuovo dramma, il dramma umano, è il seguente: il comportamento viene «motivato» dalla quiddità pura di un insieme di intuizioni o di rappresentazioni elevate a oggetto, e ciò in maniera affatto indipendente dallo stato fisiologico e psichico dell’organismo umano, dai suoi impulsi tendenziali e dall’aspetto esteriore e sensibile dell’ambiente, il quale appare a tali impulsi sempre determinato qualitativamente (otticamente, acusticamente, ecc.). Il secondo atto del dramma consiste nell’inibizione libera, vale a dire operata dal centro della persona e nella liberazione di un impulso tendenziale precedentemente trattenuto (e di una reazione corrispondente). Il terzo atto consiste in un mutamento, sperimentato come di per sé valido e definitivo, dell’oggettività di una cosa. La forma di siffatto comportamento è quella dell’«apertura al mondo» e del rovesciamento del potere dell’ambiente: U ⟺ M →→2…

Ove sia costituzionalmente presente, questo comportamento è per sua natura suscettibile di una estensione illimitata, vasta quanto il «mondo» delle cose esistenti.

1.  An = animale; Am = ambiente. 2.  U = uomo; M = mondo.

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L’uomo è perciò quell’X capace di comportarsi come un essere illimitatamente «aperto al mondo». Diventar uomini significa elevarsi, in forza dello spirito, fino a potersi aprire al mondo. L’animale non ha «oggetti», esso vive solo extaticamente entro il suo ambiente, che porta strutturato in sé come la lumaca la sua conchiglia, ovunque vada, e non è in grado di oggettivare codesto ambiente. L’animale non sa quindi allontanare, distanziare l’«ambiente» in un «mondo», (o in un simbolo) come è in grado di fare l’uomo, e non sa neppure trasformare in «oggetti» i centri di «resistenza», affettivamente e tendenzialmente circoscritti. L’essere-oggetto rappresenta pertanto la categoria più formale dell’aspetto logico dello spirito. Vorrei dire che l’animale è attaccato alla realtà vitale corrispondente ai suoi stati organici, e vi è inserito troppo intrinsecamente per poterla cogliere «oggettivamente». Certamente l’animale non vive entro il suo ambiente in maniera dei tutto extatica (senza alcuna segnalazione interna dei propri stati organici, come avviene nell’impulso affettivo della pianta affatto privo di qualsiasi sensazione, rappresentazione e coscienza); l’animale è sempre ridonato a se stesso, a causa della scissione tra il suo sistema sensoriale e il suo sistema motorio, e a causa della costante segnalazione dei suoi successivi contenuti sensoriali: esso possiede uno «schema corporale». Nei confronti dell’ambiente, l’animale si comporta però sempre extaticamente, anche quando il suo comportamento è «intelligente», e la sua intelligenza conserva sempre un legame organico-tendenziale-pratico. Contrariamente a questa segnalazione elementare dello schema corporale animale e dei suoi contenuti, l’atto spirituale che l’uomo può compiere è essenzialmente legato a una seconda dimensione, a un secondo grado dell’atto riflesso. Noi vogliamo definire questo atto «unione», e chiamare «coscienza che il centro spirituale degli atti ha di se stesso», ovvero «autocoscienza», questo atto stesso insieme al suo oggetto, vale a dire

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all’oggetto di questa unione. A differenza della pianta, l’animale possiede la coscienza, pur mancando, come vide già Leibniz, dell’autocoscienza. Esso non si possiede, non è padrone di sé, e di conseguenza non è neppure cosciente di sé. Unione, autocoscienza, capacità di oggettivare ciò che originariamente resiste alla tendenza, formano pertanto un’unica e inscindibile struttura, che, come tale, è propria solo dell’uomo. Con il processo di autocoscienza, e con questo ulteriore ripiegamento e centralizzazione della propria esistenza, resi possibili dallo spirito, è data anche la seconda caratteristica essenziale dell’uomo. In forza del suo spirito, l’essere che chiamiamo «uomo» non è soltanto in grado di estendere l’ambiente fino alle dimensioni ontologiche di un mondo e di trasformare in oggetti le «resistenze»; ma, ciò che è più degno di nota, egli è altresì in grado di oggettivare la propria costituzione fisiologica e psichica, ogni singola esperienza psichica, ciascuna sua funzione vitale. Perciò questo essere può anche rifiutare liberamente la propria vita. L’animale ode e vede senza sapere di vedere e di udire. La psiche dell’animale funziona e vive, ma l’animale non ha la possibilità di essere uno psicologo o un fisiologo! Se noi vogliamo inserirci in qualche modo nello stato usuale dell’animale, dobbiamo pensare a quegli stati extatici dell’uomo, peraltro molto rari, che si determinano nella fase terminale dell’ipnosi, nell’assorbimento di determinate droghe, e in certe tecniche coscienti (operate perciò con l’aiuto dello spirito) ma volte a paralizzarlo; come avviene, per esempio, nelle varie forme dei culti orgiastici. Anche gli impulsi tendenziali non sono sperimentati dall’animale come tendenze sue proprie, bensì come trazioni e repulsioni dinamiche, provenienti dalle cose stesse dell’ambiente. Persino l’uomo primitivo, che per certe caratteristiche psichiche è vicino all’animale, non dice ancora «io ho orrore di questa cosa», ma «la cosa è tabù». Per la coscienza animale esistono solo attrazioni e repulsioni provenienti dalle

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cose ambientali; la scimmia che salta ora di qua ora di là, vive, per così dire, una serie puntuale di stati extatici, come avviene nell’uomo nella condizione patologica di fuga delle idee. L’animale non possiede una «volontà» che, superando i suoi impulsi tendenziali e il mutare di questi, conservi una continuità nel cambiamento dei suoi stati psico-fisici. Un animale non arriva mai ove «voleva» inizialmente, ma, per così dire, sempre altrove. È profondamente vero il detto di Nietzsche: «L’uomo è quell’animale capace di promettere». Se, dopo queste considerazioni, vogliamo penetrare nell’essenza dell’uomo, dobbiamo mettere in evidenza la struttura di quei singoli atti che conducono all’atto stesso dell’ideazione. Qui l’uomo segue, più o meno consciamente, una tecnica che consiste nel sopprimere a titolo di esperimento il carattere di realtà delle cose e del mondo. In questo tentativo, in questa tecnica per virtù della quale si colgono le essenze, il logos delle essenze stesse si spoglia del mondo concreto e sensibile, in quanto «oggetto». Come abbiamo visto, l’animale vive immerso nella realtà concreta, alla quale è di volta in volta connesso un punto nello spazio o nel tempo, un «hic et nunc», e inoltre un modo di essere contingente, dovuto a quell’«aspetto», di volta in volta, assunto nella percezione sensibile. Esser uomini significa proferire, nei confronti di questo tipo di realtà, un energico «no». Buddha intuiva tutto questo, quando diceva: «È meraviglioso contemplare ogni cosa, ma è terribile esser le cose», mettendo in atto una tecnica di derealizzazione del mondo e dell’io. E lo sapeva anche Platone, quando faceva dipendere la visione delle Idee dal distacco dell’anima dal contenuto sensibile delle cose e dal ritorno in se stessa, per ritrovarvi le cose «originarie». E questo pure intende Edmund Husserl, quando collega la conoscenza delle idee a una «riduzione fenomenologica», vale a dire a una «neutralizzazione» o

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a una «messa tra parentesi» dei coefficienti esistenziali contingenti delle cose del mondo, al fine di cogliere la loro «essentia». Naturalmente io non accetto la teoria husserliana della riduzione in tutti i suoi particolari; ma non posso, tuttavia, negare che essa indica quell’atto che caratterizza propriamente lo spirito umano. Per conoscere come si effettui questo atto di riduzione, bisogna sapere anzitutto in che cosa realmente consiste la nostra esperienza interiore della realtà. Non esiste alcuna sensazione specifica (duro, resistente ecc.), capace di darci l’impressione della realtà; anche la percezione, il ricordo, il pensiero e tutti i possibili atti percettivi non sono in grado di produrla: ciò che essi ci danno è sempre e solo il modo di essere (contingente), e mai l’esistenza delle cose. A testimoniarci la loro esistenza (realtà), è piuttosto l’esperienza interiore di una resistenza oppostaci da quella sfera del mondo, che ci si è già rivelata: resistenza che si esercita soltanto nei confronti dei desideri e delle tendenze della nostra vita e del nostro impulso vitale. Noi non giungiamo a porre la realtà del mondo esteriore (la cui sfera persiste, per esempio, anche nel sogno), in base a un ragionamento; ciò che ci dà l’esperienza interna della realtà non è né il contenuto intuitivo della percezione («forma», «figura» ecc.), né l’oggettività (che è anche il prodotto della fantasia), né un posto fisso nello spazio nei confronti dello spostarsi della nostra attenzione, e così via; ma è l’impressione interiore di una resistenza, sperimentata da quel grado elementare e primitivo della vita psichica (che, come abbiamo visto, appartiene anche alle piante), dall’«impulso affettivo», da quel centro delle tendenze, che agisce in tutte le direzioni e sussiste persino nel sonno e negli ultimi gradi di incoscienza. Nell’ordine rigoroso di elementi (colore, figura, estensione, ecc.), che forma, sia obiettivamente sia solo relativamente alla nostra percezione, un qualsiasi oggetto corporeo – ordine che

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possiamo studiare, per esempio, nel disgregamento patologico delle facoltà percettive – il momento in cui sperimentiamo interiormente la realtà, è quello che ne costituisce l’elemento originario. Se svaniscono e anche se spariscono per la coscienza i colori, gli elementi sensibili, le figure, i rapporti, la forma unitaria di cosa, rimarrà, spoglia da ogni modalità, una radicale impressione di realtà, di verità effettiva del mondo. L’originaria esperienza interiore della realtà, quale esperienza interiore della resistenza del mondo, precede qualsiasi coscienza, rappresentazione, percezione. Anche la più modesta percezione sensibile non è mai condizionata esclusivamente dallo stimolo e dalle consuete reazioni del sistema nervoso: la semplice sensazione è necessariamente preceduta da un orientamento tendenziale, sia esso di attrazione o di repulsione. E poiché la spinta del nostro impulso vitale è la condizione indispensabile di ogni possibile sensazione e percezione, le resistenze che i centri e i campi di forza sottostanti alle immagini dei corpi dell’ambiente oppongono alla spinta vitale – le «immagini sensoriali» non sono per sé agenti – possono di già essere interiormente sperimentate, allorché il corso temporale di una possibile percezione in divenire non ha ancora raggiunto lo stadio di una percezione cosciente dell’«immagine». Di modo che l’esperienza interiore della realtà è data prima e non dopo ogni nostra «rappresentazione» del mondo. Che cosa vuole dunque significare quel «no», di cui ho parlato? Che cosa significa «de-realizzare» o «ideificare» (ideieren) il mondo? Non significa, come vuole Husserl, sospendere il giudizio di esistenza (che è alla base di ogni percezione naturale); il giudizio: «A è reale» esige, con il suo stesso predicato, un contenuto vissuto interiormente, se non si vuole che «reale» si riduca a una parola vuota. Significa piuttosto abolire, annullare (quanto a noi), a titolo di prova, lo stesso momento della realtà: la totale, indivisa, potente impressione della realtà, con il suo

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correlato affettivo; significa eliminare l’«angoscia di quanto è terreno», che, come dice Schiller, si «dissolve» solo in quelle regioni abitate dalle «pure forme». Ogni realtà infatti, solo in quanto realtà e indipendentemente da ciò che essa è, esercita su ogni essere vivente anzitutto una pressione che limita e ­opprime, e che ha come suo correlato la paura «pura» (priva di un qualsiasi oggetto). Se è vero che l’esistenza è «resistenza», quest’atto fondamentale ascetico di derealizzazione può consistere solo nell’abolire e neutralizzare, appunto, quell’impulso vitale in rapporto al quale il mondo appare anzitutto come resistenza; quell’impulso che è altresì la condizione per percepire sensibilmente quell’esser «ora-qui-così» della realtà contingente. E poiché le tendenze e i sensi vanno insieme, filosofare, come dice Platone, è un «eterno spegnersi»: e perciò ogni forma espressa di razionalismo è fondata, in ultima analisi, su un «ideale ascetico». Questo atto di derealizzazione può esser compiuto solo da quel­ l’essere che chiamiamo «spirito». Solo lo spirito, nella sua forma di «volere» puro, può impedire con un atto di volontà, e cioè con un atto di inibizione, l’attualizzarsi di quel centro dell’impulso affettivo, nel quale abbiamo riconosciuto la via d’accesso alla realtà effettiva come tale. L’uomo è perciò l’essere vivente che, in virtù del suo spirito, è in grado di comportarsi in maniera essenzialmente ascetica nei confronti della sua vita, che lo soggioga con la violenza dell’angoscia; può soffocare e reprimere i propri impulsi tendenziali, vale a dire rifiutare loro il nutrimento delle rappresentazioni percettive e delle immagini. Paragonato all’animale che dice sempre «sì» alla realtà effettiva – anche quando l’aborrisce e la fugge – l’uomo è «colui che sa dir di no», l’«asceta della vita», l’eterno protestatore contro quanto è soltanto realtà. Tutto ciò è affatto indipendente dall’intuizione e dal problema cosmologico; sia che si cerchi (come nel caso di Buddha, che comunque

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ha dato a questo problema una risposta quanto mai profonda) un librarsi dello spirito verso le sfere irreali delle essenze, per attingere l’indifferenza, dato che si considera la realtà stessa come un male («omne ens est malum»); sia che, come sembra giusto, si cerchi di ritornare dalla sfera delle essenze alla realtà, all’esser «ora-qui-così», per rendere tale realtà migliore (considerando anzitutto l’esistenza indipendentemente dal bene e dal male); si viene così a identificare la vera vita e il vero destino dell’uomo con questo ritmo eterno di idee-realtà, spiritoimpulso: nel compromesso della loro costante tensione. In ogni caso – comparato all’animale, la cui esistenza è un’incarnazione dello spirito borghese – l’uomo è l’eterno «Faust», la bestia cupidissima rerum novarum, mai paga della realtà circostante, sempre avida di infrangere i limiti del suo essere «ora-qui-così», sempre desiderosa di trascendere la realtà circostante: e con essa anche i limiti della propria realtà personale presente. In questo senso, anche Freud vede l’uomo come «l’essere capace di reprimere le proprie tendenze». E solo in quanto tale – in forza di questo «no» proferito nei confronti delle tendenze, non per le circostanze ma per costituzione – l’uomo può elevare sopra il mondo delle proprie percezioni il regno ideale del pensiero; riconducendo d’altronde sempre più in quello spirito che lo abita le energie sopite delle tendenze represse. Ciò è quanto dire che l’uomo può «sublimare» l’energia delle proprie tendenze in un’attività spirituale. È compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, così come l’abbiamo brevemente delineata, tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la storicità, la socialità. Non

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potendo approfondire tutti questi punti, ci limiteremo a considerare le conseguenze relative al rapporto metafisico dell’uomo con il principio delle cose. Il risultato più soddisfacente del tentativo di descrivere il progressivo sviluppo della natura umana, a partire dai gradi di esistenza che le sono subordinati, consiste nel poter dimostrare la necessità intrinseca onde l’uomo, nel momento stesso in cui è diventato «uomo», per quella coscienza del mondo e di sé e per la oggettivazione della propria natura psico-fisica – che sono il segno fondamentale e specifico dello spirito – deve altresì cogliere l’idea più universale di un essere sovramondano, infinito, assoluto. Dopo essersi posto al di fuori della natura tutta e aver fatto di questa il proprio «oggetto», – atto che appartiene alla sua essenza e alla sua stessa apparizione – l’uomo si volge sgomento attorno, chiedendosi: «Dove sono, dunque, io stesso? Qual è il mio posto?». Invero egli non può più dire: «Io sono una parte del mondo, e sono compreso in esso», poiché l’essere attuale del suo spirito e della sua persona trascende le forme di questo «mondo» spaziale e temporale. Nel volgersi attorno, egli affonda necessariamente lo sguardo nel nulla, e scopre anzi la possibilità del «nulla assoluto». Il che lo porta a chiedersi: «Perché vi è un mondo? Perché ci sono io?». Occorre non lasciarsi sfuggire la rigorosa necessità essenziale di questo rapporto tra la coscienza umana del mondo, la coscienza del proprio io e la coscienza formale di Dio; e per «Dio» qui si intende un «essere per sé», di cui si può solo predicare la «santità», e che è suscettibile di accogliere innumerevoli e multiformi contenuti. Tuttavia questa sfera di un essere assoluto in generale, indipendentemente dal fatto se sia accessibile o meno all’Erlebnis o alla conoscenza, è costitutiva dell’essenza dell’uomo, allo stesso modo che l’autocoscienza o la coscienza del mondo. Ciò che Wilhelm von Humboldt ha detto del lin-

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guaggio, e cioè che l’uomo non avrebbe potuto «inventarlo», essendo uomo proprio in forza del linguaggio, vale con egual rigore per la sfera formale di quell’ente assoluto e venerabile per la sua santità, il quale trascende tutti i contenuti finiti dell’esperienza e il centro dell’essere dell’uomo stesso. Se con l’espressione «origine della religione» e «origine della metafisica» noi non intendiamo soltanto il contenuto di determinate ipotesi e credenze di questa sfera, ma l’origine di questa sfera stessa, possiamo dire che tale origine viene esattamente a coincidere con l’apparizione dell’uomo. Nell’istante preciso in cui diviene cosciente del «mondo» e di se stesso, l’uomo deve scoprire con un’evidenza intuitiva, il caso singolare, il fatto contingente «che vi è un mondo anziché non esservi» e «che egli stesso è, anziché non essere». È quindi del tutto errato premettere (Descartes) l’«Io sono» o (San Tommaso) «Il mondo è», alla proposizione generale «Esiste un essere assoluto», e voler dedurre la sfera dell’assoluto a partire da codesti modi dell’essere. La coscienza del mondo, di sé e di Dio formano un’unità strutturale inscindibile: così come la trascendenza dell’oggetto e l’autocoscienza scaturiscono proprio dall’atto stesso della «riflessione di terzo grado». Nel medesimo istante in cui quel reiterato «no» è intervenuto a negare la realtà concreta del mondo circostante, e si è costituito l’essere spirituale in atto con i suoi oggetti ideali; esattamente nello stesso istante in cui è nato il comportamento aperto al mondo, e la brama mai paga di penetrare illimitatamente la sfera dell’universo scoperto e di non trovare acquetamento in fatti di qualsiasi genere; proprio quando l’uomo è giunto a infrangere quei metodi della precedente vita animale, con cui si adattava passivamente o attivamente all’ambiente, e ha preso una direzione opposta adattando il mondo scoperto a sé e al suo organismo stabilizzatosi; nel medesimo istante in cui 1’«uomo» si è posto di fuori dalla «natura» per fare di questa l’oggetto del suo dominio e del nuovo principio dell’arte e dei

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segni: proprio in quel medesimo istante, l’uomo ha dovuto in qualche modo ancorare il suo centro fuori e di là dal mondo. Essendosi posto tanto audacemente al di sopra del mondo, egli non poteva più considerarsi come un semplice «elemento» e una semplice «parte» di esso! Dopo aver scoperto il valore contingente del mondo e dopo essere per un singolare caso divenuto ex-centrico all’universo, l’uomo aveva ancora la possibilità di comportarsi in due differenti maniere. Egli poteva anzitutto essere preso da stupore (ϑαυμαζειν) e, movendo dalla sua conoscenza spirituale, cogliere l’assoluto e incorporarsi in esso: è questa l’origine di tutte le forme della metafisica, apparsa molto tardi nella storia e solo presso qualche popolo. L’uomo però – spinto dall’irresistibile istinto di salvezza non solo del suo singolo essere, ma principalmente di tutto il suo gruppo, e con l’ausilio di quella fantasia traboccante di cui, a differenza dell’animale, era stato dotato – era anche in grado di popolare questa sfera dell’essere con qualsiasi forma. Poteva così rifugiarsi, con il culto e il rito, sotto la loro potenza, e «avere alle spalle» protezione e aiuto: e di ciò aveva bisogno dopo che l’atto fondamentale di allontanamento della natura e di oggettivazione di essa, vale a dire dopo che la genesi del suo essere autonomo e della sua autocoscienza sembrava precipitarlo nel puro nulla. La vittoria su questo nichilismo, vista sotto la forma della salvezza e della protezione, è ciò che noi chiamiamo religione. Essa è anzitutto religione del gruppo e religione del popolo, e solo più tardi, con l’origine dello Stato, essa diviene «religione avente un fondatore». Come il mondo è dato anzitutto quale resistenza alla nostra esistenza pratica, prima ancora che quale oggetto di conoscenza: così le rappresentazioni e le idee della nuova sfera, che danno all’uomo la forza di sostenersi nel mondo (dapprima il «mito», e più tardi la «religione» da esso scaturita) precedono storicamente tutte quelle conoscenze o quei tentativi di tipo metafisico, volti principalmente verso la verità.

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Consideriamo ora alcune concezioni religiose essenziali, che l’uomo ha sul rapporto tra sé e il fondamento cosmico, limitandoci al monoteismo dell’Asia Minore e dell’Occidente. L’uomo è rappresentato come colui che ha stretto un’«alleanza» con Dio, dopo che Dio ha eletto come suo un determinato popolo (antico giudaismo). Ovvero l’uomo appare, secondo la struttura della società, come lo «schiavo di Dio», ai cui piedi si prostra con umiltà e astuzia, cercando di commuoverlo con preghiere, minacce o mezzi magici. In una forma poco più elevata, egli appare a se stesso come il «servo fedele» dei «Signore» sovrano. L’immagine più alta e più pura è attinta, nell’ambito del monoteismo, dall’idea della «filiazione» di tutti gli uomini da un Dio «Padre», grazie alla mediazione del «Figlio» consustanziale, che ha rivelato agli uomini l’intima essenza di Dio, prescrivendo loro, in forza della sua autorità divina, alcune credenze e alcuni comandamenti. La nostra concezione filosofica del rapporto dell’uomo con il principio supremo rifiuta tutte le idee di questo genere, in quanto nega la premessa teistica di un Dio personale e spirituale, che è onnipotente nella sua spiritualità. Per noi il rapporto fondamentale dell’uomo con il principio del mondo consiste in ciò che questo principio coglie e realizza se stesso immediatamente nell’uomo, il quale, come essere spirituale e vivente, è solamente un centro parziale dello spirito e dell’impulso, propri dell’«Essere per sé». È il vecchio pensiero di Spinoza, di Hegel e di molti altri: l’essere primordiale si interiorizza nell’uomo, nell’atto stesso in cui l’uomo si vede fondato in esso. Noi vogliamo solo completare questo pensiero, sostenuto finora in maniera troppo unilateralmente intellettualistica, nel senso che la coscienza del nostro fondamento è solo la conseguenza dell’attivo inserirsi del centro del nostro essere nell’esigenza ideale della deitas, e del tentativo di realizzarla; nel senso cioè di cogenerare, in questa realizzazione, il «Dio» che scaturisce dal principio primordiale, per la penetrazione progressiva dello spirito.

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Il centro, quindi, di tale autorealizzazione, ovvero dell’autodivinizzazione che l’Essere-per-sé cerca, e per la quale si è legato il mondo come «storia»: questo centro è precisamente l’uomo, l’io umano, il cuore umano; essi costituiscono l’unico luogo a noi accessibile in cui Dio viene a formarsi, ma sono altresì una parte vera e propria di questo processo trascendente. Per quanto tutte le cose scaturiscano a ogni istante, nel senso di una creazione continua, dall’Essere-per-sé, da quell’unità funzionale formata dall’impulso e dallo spirito, solamente nell’uomo e nel suo io giungono a un rapporto vivente i due attributi dell’Ens per sé che possiamo conoscere. L’uomo è il loro punto di incontro; in lui quel logos, «secondo» il quale è formato il mondo, diviene un atto a cui ci è data la possibilità di partecipare. A priori dunque, secondo la nostra convinzione, la formazione umana e quella divina sono correlative. Come l’uomo non può compiere il suo destino senza la consapevolezza di esser partecipe dei due attributi dell’Ente supremo e di essergli immanente; neanche l’Ens a sé può compiere il proprio senza la cooperazione dell’uomo. Lo spirito e l’impulso, i due attributi dell’Essere, non sono completi in sé senza una mutua progressiva penetrazione, nella quale è iscritto il loro fine; l’uno e l’altro sviluppano se stessi proprio manifestandosi nella storia dello spirito umano e nell’evoluzione della vita universale. Si obietterà, come in effetti è stato fatto, che per l’uomo non è sopportabile gravarsi del peso di un Dio incompiuto, di un Dio in divenire! Rispondo che la metafisica non è un istituto di assicurazioni per uomini deboli e bisognosi di sostegno. Essa presuppone già nell’uomo un senso di forza e di fiducia. Pertanto è anche comprensibile che è solo nel corso della sua evoluzione e della sua autoconoscenza che l’uomo giunge a rendersi conto dell’azione e della lotta che ha in comune con la divinità. Il bisogno di trovare salvezza e protezione in una Onnipotenza

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che trascende l’uomo e il mondo è identificata con la Bontà e la Salvezza, è troppo forte perché non travolga, in tempi di minorità dell’uomo, tutti gli argini dei buon senso e della riflessione. A quell’abisso aperto in parte per infantilità in parte per debolezza tra l’uomo e Dio il cui rapporto è stato oggettivato, e quindi falsato, nella contemplazione, nell’implorazione, nella domanda; noi sostituiamo quell’atto elementare, onde l’uomo si inserisce personalmente nella divinità, autoidentificandosi con l’orientamento di ogni suo atto spirituale. La «realtà» ultima e vera dell’Essere-per-sé non è quindi oggettivabile, così come non lo è la persona altrui. Noi possiamo partecipare alla sua vita e alla sua attività spirituale, solamente agendo in comunione con esso, solamente se ci impegniamo con lui e con lui attivamente ci identifichiamo. L’Essere assoluto non esiste per sostenere l’uomo, né per colmare quelle debolezze e quei bisogni, che tendono sempre a trasformarlo in «oggetto». Certo esiste anche per noi un «sostegno»: ed è il sostegno fornito da tutta l’opera di realizzazione dei valori nella storia universale trascorsa, per quel tanto che essa ha fatto progredire verso un «Dio» il divenire della «divinità». Non si cerchino perciò mai certezze teoretiche anteriori a questo impegno. Poiché è solo l’impegno della persona stessa a dischiudere la possibilità di «conoscere» l’essere dell’Ens a sé.

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Capitolo II L’uomo e la tecnica in Arnold Gehlen

1. Arnold Gehlen. Primo concetto dell’uomo*1 La riflessione antropologica di Gehlen si avvicina, per mezzo della sua concezione dell’uomo come «progetto particolare della natura», alla visione umanistica volta a fare dell’uomo l’essere capace di costruire il proprio futuro. È la libertà di determinare il proprio destino che ripaga l’uomo di tutte le carenze organiche e che gli permette di superarle, facendo ciò che tutti gli altri esseri, pur non limitati da «inadattamenti», «non-specializzazioni» e «primitivismi», non riuscirebbero mai a realizzare: un «mondo culturale», o meglio una «seconda natura» artificialmente modificata. L’essere umano è una creatura eccezionale, ha la capacità di vedere e quindi prevedere ciò che accadrà, di essere aperto al mondo e adattabile a tutti gli ambienti.

A ben guardare, le leggi [sulle prestazioni animali e sui loro limiti] formulate dianzi sono applicazioni di quella considerazio-

*  Da A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 58-67.

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ne schiettamente biologica che si è imposta sotto l’autorevole guida Jakob von Uexküll. Dovremo soffermarci particolareggiatamente sulla teoria ambientale quando sarà il momento di discutere l’apertura dell’uomo al mondo. Per ora basterà ricordare che quasi tutti gli animali sono ampiamente legati a ambienti regionali piuttosto ben determinati e che in essi rivelano un «adattamento» tale che la considerazione della struttura organica in tutti i particolari dei loro organi di senso, delle armi difensive e offensive di cui dispongono, degli organi della nutrizione e così via consente conclusioni retrospettive sul loro modo di vivere e sul loro habitat, e viceversa. Un animale pressoché inerme, erbivoro, abitatore del fitto sottobosco qual è il capriolo sarà atto alla vita solo in quanto «animale pronto alla fuga», in altri termini se possiederà una «forma atta alla corsa» altamente specializzata, organi percettori del pericolo di grande efficienza, e così via. In questo contesto lavorano gli istinti. L’identificarli richiede una difficile indagine sperimentale; però in tutti i casi un istinto è una figura motoria assai specifica, tipica della specie, «orientata» su accadimenti ambientali altrettanto tipici della specie. È tuttavia il momento di dare uno sguardo d’insieme allo schema antropologico che verremo applicando in questo libro. L’uomo è l’essere che agisce. In un senso che dovremo precisare meglio, egli non è «definito», è cioè ancora compito a se medesimo; è, come si può anche dire, l’essere che prende posizione. Chiamiamo azioni gli atti del suo prender posizione verso l’esterno, e, proprio perché egli è anche compito a se medesimo, prende posizione verso se stesso e «fa di se stesso qualcosa.» Lungi dall’essere un lusso superfluo, questa «incompiutezza» appartiene alle sue condizioni fisiche, alla sua natura, e sotto questo profilo l’uomo è un essere cui inerisce la disciplina (Zucht): autodisciplina, educazione, «disciplinamento» (Zuchtung), nel duplice senso di acquisizione e di mante-

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nimento di una forma, sono tra le condizioni di esistenza di un essere non definito. E in quanto l’uomo, che non ha altro fondamento che se stesso, può anche mancare a tale compito tanto necessario alla vita, ne viene che egli è l’essere precario, «soggetto al rischio», con una possibilità costituzionale di fallire. L’uomo è l’essere che antivede e provvede (vorsehend). Come Prometeo, è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio nel tempo; vive – a differenza dall’animale – per il futuro e non nel presente. Questa determinazione è propria della condizione di un’esistenza caratterizzata dall’agire, e quanto nell’uomo è in senso autentico umana consapevolezza va compreso a partire di qui. In generale, queste determinazioni, cui dovremo tener fermo in tutta la nostra trattazione, non sono che sviluppi della determinazione fondamentale: l’azione. Attenendovisi, sono possibili un gran numero di singole asserzioni sull’uomo, come sviluppi dell’intuizione fondamentale: il progetto della natura di un essere caratterizzato dall’azione. A quanto io sappia, un avvio in questa direzione fu fatto per la prima volta nella Germania dell’età classica, ma non ebbe sviluppi. Troviamo una tale concezione in Schiller e in Herder: «Nell’animale e nella pianta,» dice Schiller in Über Anmut und Würde (Della leggiadria e della dignità), «la natura non dà semplicemente la determinazione, ma è essa stessa la realizzatrice. All’uomo invece essa dà unicamente la determinazione e lascia a lui stesso il compito di adeguarla… solo l’uomo in quanto persona tra tutti gli esseri conosciuti ha il privilegio di infrangere, per mezzo della volontà, la morsa della necessità che agli esseri puramente naturali non è dato di spezzare, e di dare avvio in se stesso a tutta una serie di fenomeni nuovi [è questa una definizione in senso kantiano della libertà, A.G.]. L’atto con il quale egli compie questo si chiama a preferenza azione». Herder – sul quale tornerò particolareggiatamente in seguito – dice che, «non più macchina indefettibile nelle mani

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della natura, egli diviene scopo a sé medesimo e meta della propria elaborazione». Queste intuizioni rivestono un grande valore quanto al problema dell’«animale non definito», dell’essere che è compito a se stesso; tuttavia non ebbero sviluppo nella filosofia del tempo, poiché l’atteggiamento filosofico coevo non poteva che sfociare nell’antica concezione dell’uomo come essere spirituale, troppo angusta perché vi possano rientrare le determinazioni di cui stiamo parlando. Ora, è soprattutto questa determinazione essenziale, che per il momento abbiamo descritto ancora sommariamente, a permettere di comprendere il peculiare posto fisico-­morfologico dell’uomo; e ciò è di straordinaria importanza. La physis del­ l’uomo in generale può scorgersi, infatti, solo muovendo dalla concezione di un essere non definito e agente, e mai la definizione dell’uomo come «essere spirituale» può, da sola, rivelare un nesso di questa struttura corporea con ciò appunto che si è soliti intendere per ragione o spirito. In altri termini, dal punto di vista morfologico – a differenza di tutti i mammiferi superiori – l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo. Manca in lui il rivestimento pilifero, e pertanto la protezione naturale dalle intemperie; egli è privo di organi difensivi naturali, ma anche di una struttura somatica atta alla fuga; quanto a acutezza di sensi è superato dalla maggior parte degli animali e, in una misura che è addirittura un pericolo per la sua vita, difetta di istinti autentici e durante la primissima infanzia e l’intera infanzia ha necessità di protezione per un tempo incomparabilmente protratto. In altre parole: in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo a animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra.

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La tendenza dell’evoluzione naturale, vogliamo dire, è a adattare forme di alta specializzazione organica ai loro rispettivi e ben determinati ambienti, dunque a utilizzare l’infinita molteplicità dei «milieux» che si danno in natura per gli esseri che vi si adattano. Le sponde piatte delle acque tropicali così come le profondità oceaniche, le brulle pendici delle Alpi settentrionali al pari del sottobosco delle rade foreste miste sono altrettanti ambienti specifici per animali specializzati capaci di vivere soltanto in essi; come è un ambiente specifico, per i parassiti, la cute degli animali a sangue caldo; e così in innumerevoli casi ogni volta particolari. L’uomo invece, dal punto di vista morfologico si può dire non abbia specializzazioni. Egli consta di una serie di non specializzazioni che sotto il profilo dell’evoluzione biologica appaiono primitivismi: la sua dentatura, ad esempio, ha una continuità primitiva e una indeterminatezza di struttura che non le consente di essere né una dentatura da erbivoro, né una dentatura da carnivoro, cioè da animale predatore. Rispetto alle grandi scimmie, che sono arboricoli a alta specializzazione dotati di braccia ipersviluppate atte all’arrampicata, di piedi prensili, di vello e di possenti canini, l’uomo è in quanto essere naturale irrimediabilmente inadeguato. Egli è di una sprovvedutezza biologica unica, e si rivale di queste carenze soltanto grazie alla sua capacità di lavoro ovvero alle sue doti per l’azione, grazie cioè alle mani e all’intelligenza; proprio per questo, egli è eretto, «circospetto osservatore», con le mani libere. È ancora una volta Herder, come mostrerò in seguito, a aver avuto quest’intuizione, in termini ancora vaghi, è vero, corrispondentemente alle scarse conoscenze specialistiche dell’epoca sua, ma, per quanto riguarda l’essenziale, in modo assai netto e deciso. Anche Kant, però, nel breve scritto Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico) del 1784, ebbe un’intuizione simile. La natura, egli dice, non fa

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nulla di superfluo, e poiché ha dato all’uomo la ragione e la «libertà del volere», gli ha negato gli istinti e la possibilità di conservarsi grazie a una «conoscenza innata». L’uomo «doveva piuttosto tutto ricavare da se stesso. Le provvidenze relative al cibo, alle vesti, ai mezzi di difesa e sicurezza esterna (per i quali la natura non gli diede né le corna del toro, né gli artigli del leone, né i denti del cane, ma solo le mani), ogni divertimento che potesse rendere piacevole la vita, la stessa sua perspicacia e avvedutezza e perfino la buona disposizione del volere dovevano essere interamente opera sua. Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo di un’esistenza iniziale, quasi volesse che l’uomo dall’estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la più grande abilità, l’interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse render grazie che a se stesso». In queste importanti proposizioni, la determinazione dell’uomo a essere strumentalmente e istintualmente carente e perciò affidato solo a se stesso, a dover «elaborarsi» e a trovare come «opera sua» l’esistenza quale compito in se stesso – bilancia e peso a un tempo, come dice in un suo passo Herder – è scorta con grande genialità, e soltanto la limitazione di questo compito all’«acquisizione di una moralità razionale» risente dei condizionamenti dell’epoca. I risultati della recente biologia ci danno la possibilità di collocare in una connessione più ampia la costituzione, tanto esposta e rischiosa, dell’uomo. L’«ambiente» (Umwelt) della maggior parte degli animali e per l’appunto dei mammiferi superiori è il milieu, non interscambiabile, al quale è adattata la costituzione organica dell’animale, all’interno del quale funzionano i movimenti istintivi innati, altrettanto peculiari alla specie. Costituzione organica specializzata e ambiente sono pertanto concetti che si presuppongono reciprocamente. Ora, se l’uomo

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ha un mondo, se cioè non è astretto a delimitare univocamente il percepibile alle condizioni della conservazione biologica, anche questo è dapprima un fatto negativo. L’apertura dell’uomo al mondo significa che egli difetta dell’adattamento animale a un particolare ambiente. La straordinaria disponibilità a reagire a percezioni prive di alcuna funzione congenita di segnale rappresenta senza dubbio un peso considerevole cui l’uomo è costretto a far fronte con atti particolarissimi. La non specializzazione fisica dell’uomo, la sua carenza di strumenti organici, al pari della deficienza stupefacente di autentici istinti sono dunque in connessione reciproca, il cui rovescio concettuale è la scheleriana «apertura al mondo» o, il che è lo stesso, il disancoraggio da un ambiente preciso. All’inverso, nell’animale la specializzazione degli organi, la gamma degli istinti e l’ancoraggio ambientale sono fra loro complementari. Sul piano antropologico tutto questo è d’importanza decisiva, poiché ora disponiamo di un concetto strutturale dell’uomo che non poggia sul solo contrassegno dell’intelletto, dello spirito e così via, e pertanto, da questo momento, ci muoviamo al di là della summenzionata alternativa, o di accogliere una differenza solo graduale tra l’uomo e gli animali superiori a lui più affini, o di dover porre la differenza sostanziale unicamente nello spirito. Ora, invece, abbiamo il «progetto» di un essere organicamente manchevole e perciò aperto al mondo, vale a dire incapace di vivere naturalmente in alcun particolare ambiente determinato. E comprendiamo anche per via di quali determinazioni l’uomo sia «non definito» ossia «compito a se medesimo»: la semplice vitalità di un tale essere è necessariamente problematica, e un problema è la stessa conservazione della vita, per risolvere il quale l’uomo non può contare che su se medesimo, dovendone attingere in se stesso le possibilità. L’essere che agisce sarebbe dunque questo. Essendo l’uomo vitale, le condizioni per risolvere questo problema devono trovarsi in lui, e se in lui già l’esistenza è un compito e una difficile impresa, quest’impresa ha

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da essere dimostrabile attraverso l’intera struttura dell’uomo. Tutte le particolari capacità umane vanno rapportate alla questione di come possa essere vitale un essere così «mostruoso», ciò che equivale a stabilire il buon diritto della problematica biologica. Una considerazione biologica dell’uomo non consiste dunque nel paragonare la sua physis con quella dello scimpanzé, bensì nel rispondere a questa domanda: in quale modo è vitale quest’essere incomparabile, per essenza, con qualsivoglia animale? Infatti, già l’apertura al mondo, se vista in questa prospettiva, è in linea di principio un onere (Belastung). L’uomo è soggetto a una profusione di stimoli assolutamente estranea alla natura animale, è soggetto alla piena «senza scopo» di impressioni che lo raggiungono e che egli deve in qualche modo padroneggiare. Non gli sta di fronte un ambiente in cui i significati siano articolati e istintualmente ovvi, ma un mondo – ossia, in termini negativi, un campo di sorprese, dalla struttura imprevedibile, che va elaborato, cioè esperito, con circospezione e prendendo ogni volta misure e provvedimenti. Già qui si prospetta un compito di grande rilievo fisico e vitale: l’uomo deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi la vita. Comincia a questo punto il compito scientifico più impegnativo che questo libro si pone. Nello schema complessivo da noi abbozzato abbiamo potuto orientarci attenendoci ancora, in questo o quel caso, come si è visto, ad autori che ci hanno preceduto; nessuno ha però sinora fornito la prova della validità di questo schema sin nei singoli particolari dei concreti nessi funzionali umani. E questo perché non è stato riconosciuto il principio dell’esonero (Entlastungsprinzip) che compare nella frase dianzi sottolineata e sulla quale richiamiamo l’attenzione. Questo principio è la chiave per comprendere la legge struttu-

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rale che regge tutte le prestazioni umane, assunto alla cui dimostrazione dedicheremo la seconda e la terza parte del libro. Incominciamo sin d’ora ad affrontare le molteplici connessioni che vi si collegano. La concezione fondamentale è che le «carenze» della costituzione umana, le quali in condizioni naturali, per così dire animali, rappresentano un onere estremo per la sua vitalità, sono trasformate dall’uomo, con l’attività su se stesso e con l’azione, in strumenti appunto alla sua esistenza; in esse si fondano in ultima analisi la determinazione dell’uomo all’azione e il suo particolare, incomparabile posto nel mondo. Gli atti con i quali l’uomo assolve al compito di render possibile la sua vita vanno quindi considerati sempre da due versanti: da un lato si tratta di atti produttivi, grazie a cui egli ovvia agli svantaggi rappresentati dalle sue carenze – cioè di esoneri, di agevolazioni –, dall’altro di strumenti che l’uomo attinge in se stesso per dirigere la sua vita, e che rispetto all’animale sono interamente di nuovo genere. In tutte le azioni dell’uomo accade una duplice cosa: per un verso egli padroneggia attivamente la realtà che lo circonda trasformandola in ciò che è utile alla sua vita, perché non esistono al di fuori di lui condizioni naturali d’esistenza spontaneamente adeguate ovvero perché le inadeguate condizioni di vita naturali gli riescono insopportabili; per un altro verso, egli compulsa in se stesso una gerarchia complicatissima di prestazioni, «fissa» dentro di sé un ordine strutturale di capacità, ordine che gli inerisce unicamente secondo il possibile, e che egli deve costituire traendolo da se stesso, attivamente, anche affrontando interiori contrarietà. In altri termini, l’insieme delle capacità umane, dalle più elementari alle più alte, è dall’uomo sviluppato, nello scontro e incontro con il mondo, soltanto grazie alla sua autonoma attività, sì da sfociare in un sistema di controllo e di subordinazione di prestazioni con le quali solo dopo lungo tempo è raggiunta la reale capacità vitale.

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Vogliamo chiarire in anticipo in alcuni punti chiave questo processo che seguiremo partitamente nei capitoli successivi. In conseguenza del suo primitivismo organico, e della sua carenza strumentale, l’uomo è incapace di vivere in ambiti realmente naturali e originari. Deve dunque surrogare i mezzi di cui organicamente difetta, e lo fa trasformando attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita. Si deve «preparare» le armi difensive e offensive che mancano al suo organismo, e analogamente il nutrimento che la natura non gli mette affatto a disposizione, al quale scopo dove fare esperienze concrete e sviluppare oggettive e adeguate tecniche di elaborazione. Deve provvedere per proteggersi dalle intemperie, alimentare e crescere i suoi figli, che permangono inetti per un tempo enormemente lungo, e già per questa necessità elementare ha bisogno della collaborazione e quindi dell’accordo. Per essere in grado d’esistere, l’uomo è costruito in vista di una trasformazione e di un dominio della natura, e perciò anche in vista della possibilità di esperire il mondo: egli è un essere che agisce, poiché non è specializzato e dunque difetta dell’ambiente a lui consono per natura. L’insieme della natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile alla propria vita dicesi cultura, e il mondo della cultura è il mondo umano. Per lui non si dà possibilità d’esistenza nella natura immodificata, non «addomesticata», e non esiste «uomo allo stato di natura» in senso stretto: non esiste cioè società umana che non conosca armi, il fuoco, il nutrimento frutto di preparazione e di artificio, abitazioni e forme di cooperazione «costruite». La cultura è pertanto la «seconda natura» – vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere; e la cultura «innaturale» è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso «innaturale», costruito cioè in contrapposizione all’animale. Proprio nel luogo in cui per l’animale c’è l’«ambiente», sorge quindi, nel caso dell’uomo, il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui

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dominata e trasformata in un complesso di ausili per la sua vita. Già per questo è radicalmente erroneo discorrere di un ambiente dell’uomo in senso biologicamente definito. Nell’uomo, alla non specializzazione della sua costituzione corrisponde la sua apertura al mondo e, alla deficienza strumentale della sua physis, la sua «seconda natura» da lui stesso creata. È questo del resto il motivo se a differenza di quasi tutte le specie animali l’uomo non ha spazi vitali geograficamente naturali e intrasgressibili. Quasi ogni specie animale è adattata a un suo «milieu» climaticamente, ecologicamente, eccetera costante; solo l’uomo è capace di vivere in ogni punto della Terra, al polo e all’equatore, sull’acqua e sulla terraferma, nelle foreste e nelle paludi, sulle montagne e nelle steppe. È capace di viverci quando può produrvi le possibilità di crearsi una seconda natura, nella quale, e non nella «natura», egli esiste. L’ambito culturale dell’uomo, cioè di ogni gruppo o comunità particolare, ha dunque in sé le condizioni della sua esistenza fisica, a cominciare dalle armi e dagli attrezzi agricoli che sono prerogativa di qualsiasi indigeno. Nel caso degli animali, invece, appunto queste condizioni sono contenute nel rispettivo ambiente al quale essi sono adattati. La distinzione tra «uomo civile» e «uomo allo stato di natura» è una distinzione equivoca. Nessuna popolazione umana, nei luoghi selvaggi, vive dei luoghi selvaggi semplicemente, ognuna possiede tecniche venatorie, armi, il fuoco e utensili. Analogamente non condividiamo la nota distinzione tra cultura (Kultur) e civiltà = civilizzazione (Zivilisation), che oltretutto non sarebbe formulabile in quasi nessuna lingua colta. Intendiamo per cultura: l’insieme delle condizioni naturali padroneggiate, modificate e utilizzate dall’uomo con la sua attività, il suo lavoro, incluse le abilità e le arti più condizionate, esonerate, che divengono possibili solo su quella base. Ciò posto, soffermiamoci sopra uno degli aspetti più importanti del principio che abbiamo menzionato: l’«apertura al mondo»

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il trovarsi esposti (situazione che gli animali non conoscono) a un flusso enorme, e di quasi nessuna rispondenza organica, di impressioni percettive, il quale, se dapprima costituisce un onere, rappresenta anche la condizione per poter condurre l’esistenza umana, qualora, si badi bene, tale apertura al mondo sia direttamente, attivamente padroneggiata. La ricchezza e la molteplicità del mondo accessibile all’uomo e che a lui affluisce celano anche, in questo o quel punto, l’opportunità di esperienze inattese e affatto imprevedibili, che è possibile trasformare in un aiuto nella lotta per la vita, in un passo avanti nella conservazione della vita. Ovvero, in diverse parole: l’apertura dell’uomo al mondo è tanto illimitata e inselezionata nella sua molteplicità, appunto perché l’uomo, nel caos delle circostanze, tra tutte le condizioni deve rinvenire anche quelle da cui possa trarre un ausilio, uno strumento, un’esperienza utilizzabili, se in generale deve poter esistere. Tale onere diretto dovrà dunque esser reso produttivo ai fini delle possibilità di esistenza. Seguiremo con precisione e nei particolari in qual modo il padroneggiamento della profusione delle impressioni sia sempre, nel contempo, un esonero, un’agevolazione attivamente e autonomamente attuata; sia per così dire una riduzione del contatto immediato con il mondo; e vedremo anche come, tuttavia, e proprio per questo, l’uomo si orienti, dia ordine alle impressioni che riceve, se le renda intelligibili e soprattutto le assuma in prima persona. Ci stiamo qui addentrando in un campo sinora poco esplorato, sicché si rende opportuna un’introduzione che in certo modo prepari il lettore. È da osservare in primo luogo: il mondo percettivo che alzando gli occhi vediamo intorno a noi è interamente il risultato dell’attività peculiare dell’uomo. Già sotto il mero profilo ottico, esso è, in altissimo grado, simbolico, cioè un campo di allusioni ad esperienze, che ci simboleggiano la natura costitu-

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tiva e l’utilizzabilità degli oggetti. L’esposizione a un profluvio di impressioni non delimitato dall’opportunità biologica pone l’uomo – già nella primissima infanzia – dinanzi al compito di padroneggiarlo, di esonerarsene, di passare cioè a un intervento attivo nei rispetti del mondo che invade i suoi sensi; questo intervento consiste in attività comunicative, di maneggio, dischiudenti l’esperienza e esaurienti, senza che ciò rivesta un valore di diretto appagamento. Il mondo è dunque «percorso» in movimenti e azioni comunicativi, non dettati da bisogni (essi stessi «esonerati»), la sua aperta profusione è acquisita all’esperienza, «riconosciuta» e accantonata; e questo processo, che riempie di sé la maggior parte dell’infanzia, ha come risultato il mondo percettivo che ci è dato. Questo è un insieme di cose «lasciate lì», potenzialmente note e scorte panoramicamente in meri accenni, cose di virtuale disponibilità; e la semplice, superficiale impressione ottica ci fornisce simboli che ci indicano il valore d’uso e le qualità di maneggio delle cose (forma, pesantezza, struttura [Textur], durezza, peso, eccetera). L’intima cooperazione dell’occhio con la mano e con i movimenti comunicativi di maneggio sfocia nel risultato per cui solo l’occhio, organo guida, coglie nell’insieme un mondo di molteplici simboli di fattispecie accantonate, scontate, ma ogni volta disponibili. In quanto in ciò si configura una separazione e un controllo reciproci delle prestazioni umane, poiché la mano e i movimenti del corpo si ritraggono a poco a poco dal compito di perseguire un’esperiente attività di maneggio e si rendono liberi per altri compiti, cioè per il lavoro programmato, mentre l’occhio soltanto è abilitato a mere «prove d’esperienza», le leggi che sottendono la costruzione e l’esonero delle prestazioni umane si manifestano ancora una volta in sede di considerazione interna. Entra qui in gioco una molteplicità di funzioni: dei sensi vicini e lontani, che in parte si controllano a vicenda, del linguaggio, del pensiero, dei fantasmi e di complessissimi bisogni «dislocati», cioè orientati su situazioni puramente possibili, non percepite,

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che nel complesso possiedono la proprietà di poter interreagire, con le più varie possibilità di controllo e subordinazione reciproci, sino alle prestazioni più libere e più disponibili, dotate di un carattere sempre piuttosto alto di variabilità.

2. Arnold Gehlen. La legge dell’esonero*2 La capacità di esonerarsi permette all’uomo di aprirsi al mondo e di non rimaner chiuso, come l’animale, in una «nicchia ecologica». L’esonero permette all’essere umano, attraverso l’instaurarsi di certe risposte comportamentali automatizzate e di talune abitudini, che lo liberano dal continuo bombardamento istintuale, di svincolarsi dal dominio della pura necessità e di aprirsi a quella libertà che gli permetterà di trasformare il mondo «naturale», per lui inadeguato, in un mondo «culturale» più idoneo alle sue esigenze.

Il concetto di esonero (Entlastung), che già abbiamo introdotto più volte, si rivela una categoria essenziale dell’antropologia. È decisamente illuminante che la coscienza umana, al pari di quella animale, possa essere compresa solo nel suo nesso con il comportamento, così che non si può che definirla una fase dell’azione. L’intuizione fondamentale del pragmatismo, fondato da Peirce e da James, ha indubbiamente una sua consistenza legittima. Sorel (De l’utilité du pragmatisme, Paris 1928) ha mostrato che persino Kant può essere considerato un «pre­ pragmatista». Il conoscere e il pensare umani, già per il fatto di essere commisurati al linguaggio, sono per loro essenza, in atto

*  Da A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 89-94.

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o in potenza, volti all’esterno; prendono le mosse dalla percezione, e l’indagine sulla struttura delle loro prestazioni appura in tutti i casi che si tratta sempre della concatenazione di percezioni e di azioni che danno luogo a una capacità. In condizioni sociali particolari, altamente sviluppate, l’aspetto dell’azione può ridursi a dei simboli. Ma anche la contemplazione, cui si danno uomini dotati di carisma, come il Buddha, non persegue, in ultima analisi, unicamente la visione, bensì una diversa dimensione della vita, né rinuncia alla comunicazione, per quanto verbalmente inespressa e per quanto simbolica questa sia, e presuppone, nella società alla quale si rivolge, due cose: che questa sostenga positivamente un tale comportamento considerandolo una capacità di specie superiore, e che esoneri gli interessati dall’attività lavorativa elementare, assumendosela essa stessa al posto loro. Per tornare al principio dell’esonero, quel che emerge per prima cosa è l’aspetto seguente. Le peculiari condizioni biologiche dell’uomo rendono necessario sciogliere dal mero presente i rapporti con il mondo, e per questo l’uomo deve compiere le suo esperienze faticosamente e attivamente in prima persona, sì che queste gli si rendano disponibili; e ciò per entro a una capacità altamente addestrata e variabile in forza di mere allusioni. La conclusione del processo vede edificati i grandi campi simbolici del vedere, del parlare, del rappresentare, nei quali ci si può già comportare «allusivamente»; inoltre, gli ambiti motori sono esonerati e messi a riposo, pur essendo grazie al loro comportamento allusivo «impegnabili» in qualsiasi direzione. Con dispendio minimo di energie e in prestazioni altissime e liberissime – cioè esonerate – noi siamo capaci di anticiparci e di riafferrarci, di sintonizzarci e di commutarci, di progettare e pertanto di impegnare la nostra attività nel lavoro, in un’azione orientata. Con espressioni motorie quali cambiare idea (umstellen), anticipare (vorgreifen), eccetera, la lingua designa con molta precisione le prestazioni della coscienza, la quale può

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essere definita in breve come un ambito di «fantasmi di capacità». Si intenderà la necessità di tutto questo processo qualora si scorga come la particolare situazione fisica dell’uomo, che è necessario perifrasare con i concetti di «non specializzazione» e di «apertura al mondo», lo ponga di fronte allo straordinario onore di doversi procacciare le chances della sua vita con la sua propria azione. Il compito dell’uomo consiste in primo luogo nel restare in vita in generale, e ciò è evidente ad esempio nel fatto che nessun altro compito riusciamo a scorgere per una comunità umana, per un popolo, all’infuori di quello di conservare la propria esistenza. Uno sguardo alla storia è sufficiente per comprendere quanto quest’impresa sia ardua: dove sono infatti i Cartaginesi o i Burgundi, popoli un tempo potenti? Possiamo pertanto fissare un primo punto nella formulazione del principio dell’esonero: con l’azione su se stesso l’uomo trasforma gli oneri elementari da cui è gravato in chances per conservare la propria vita, poiché le sue prestazioni motorie, sensoriali e intellettuali (liberate dal linguaggio) s’intensificano di conserva finché è possibile una condotta ben ponderata dell’azione. Meglio comprenderemmo questi processi estremamente complicati di esonero e di controllo se la neurologia sapesse dirci qualcosa di soddisfacente sopra quanto avviene nel sistema nervoso sensorio e motorio, poiché in esso è in certo modo «rappresentato» il complesso delle leggi che presiedono alle prestazioni umano. Non essendo così, ci vediamo costretti a tentare di ricostruire direttamente la struttura del comportamento umano. Per chiarire il concetto di esonero, del quale sinora abbiamo parlato soltanto in termini generali, è necessario indagarlo sin nel cuore dell’organizzazione umana mostrando come la particolare «tecnica» dell’uomo di conservare l’esistenza già si profili nelle strutture della sua vita sensomotoria. Si pensi in proposito, per prima cosa, al nesso di allusione e di visione panoramica nel campo visivo: le masse potenzialmente percepibili

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non pervengono affatto alla percezione nella loro pienezza e ricchezza; il campo percettivo invece è divenuto in alto grado simbolico, e precisamente nel corso del proprio sviluppo motorio. Facciamo un esempio: in un oggetto, poniamo una tazza, per solito noi in parte «ignoriamo» del tutto i riflessi e le ombre e anche l’ornamentazione, in parte l’occhio li assume come ausili allusivi per cogliere i rapporti volumetrici e formati, con il che, indirettamente, riusciamo ad «avere» i lati retrostanti e i volumi che sono orientati in modo da sfuggire alla nostra percezione. Anche le intersezioni sono messe a partito. Per contro, la struttura materiale («porcellana fine», ad esempio) e il peso dell’oggetto sono visti compiutamente e simultaneamente ma in maniera diversa e, per così dire, maggiormente «predicativa» che non il carattere di «recipiente», cioè di un che di cavo e rotondo, che spicca in primo piano; e, in modo ancora diverso, certi dati ottici, per esempio il manico o il punto «maneggevole» dell’intera forma, suscitano suggestioni motorie in ordine ai movimenti da compiersi nel maneggio della tazza. Tutti questi dati l’occhio però li abbraccia con un solo sguardo. Non solo, ma il nostro occhio è singolarmente indifferente nei riguardi di ciò che effettivamente può essere percepito, anzi dello stesso percepito che sta sullo sfondo, mentre ha una sensibilità estrema per allusioni di alta complessità. In questi processi, qui ci interessa soltanto lo stadio finale dal punto di vista dell’esonero. E al riguardo è possibile dire che l’immediatezza con cui affluisce e s’imprime la profusione degli stimoli viene a spezzarsi, e i punti di contatto con essa a ridursi al minimo, ma a minimi di altissima sviluppabilità potenziale. Così, l’ordine con cui avviene la percezione corrisponde al comportamento proprio dell’uomo, un comportamento indiretto e orientato sulle fasi future della realtà, allo stesso modo che questa scaturisce, a sua volta, solo da un comportamento non adattato, aspecifico, «sperimentante». Tutta questa struttura, così importante nei suoi risultati per la vita, presuppone

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naturalmente l’essere appunto sommersi da masse di stimoli inadattate, inselezionate, e soltanto grazie a questa condizione riesce quel «caricamento» graduale delle impressioni con simboli, quell’ordinarsi e articolarsi del campo visivo che, nel corso dell’attività di maneggio da parte dell’uomo, viene sviluppandosi e ci sta di fronte come mondo panoramicamente dominabile: essa esprime visivamente il fatto che noi abbiamo preso distanza, spezzato il cerchio dell’immediatezza, e che è possibile un comportamento previdente, ormai anticipatore delle impressioni future e il cui dominio si estende in un vasto ambito. In tal modo, da condizioni che rispetto a quelle animali sono abnormi, l’uomo trae appunto gli strumenti per la condotta umana della sua vita, e io designo questa non semplice connessione con il termine di «esonero» (Entlastung). Questa espressione vuol significare anche un altro aspetto della medesima fattispecie, cioè il progressivo carattere indiretto del comportamento umano, il contatto sempre più ridotto, ma anche più sottile, più libero e variabile. Tra l’azione e la sua meta si interpongono articolazioni intermedie le quali a loro volta divengono oggetto di un interesse derivato e più indiretto; fare umano è per noi non già l’uso casuale, per scopi immediati, di uno strumento che capiti sotto gli occhi, sibbene la fabbricazione di uno strumento per uno scopo lontano. Quel che dunque, visto dall’esterno, è comportamento indiretto, variabile, oltrepassante l’immediatezza, se visto dall’interno è invece comportamento progettato, antivedente e previdente, condotto e controllato dai rispettivi centri superiori. Sotto quest’ultimo riguardo il concetto di esonero assume un significato ulteriore. Affinché le funzioni inferiori possano diventare funzioni condotte e impegnate, quelle superiori debbono farsi carico di certe prestazioni che originariamente spettavano alle prime, soprattutto di quella della variazione o combinazione; però lo fanno in una forma non precipua, allusiva, maggior-

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mente simbolica. Esse sono dunque coscienti. Questo meccanismo, a guardar bene, è il presupposto per il quale suddividiamo le funzioni in superiori e inferiori. L’esempio più semplice ci viene da un progetto motorio. In principio, i movimenti delle braccia e delle mani sono ancora gravati dei compiti del movimento di localizzazione, e li dimettono con l’acquisizione della stazione eretta. Nella profusione dei movimenti di gioco, maneggio, palpeggiamento e afferramento, essi hanno sperimentato a fondo un gran numero di combinazioni e variazioni, a diretto contatto con le cose stesse. Questo però significa che non hanno compiuto alcuna azione in senso autentico, alcun lavoro programmato. Solo quando si è sviluppato un campo progettuale dell’immaginazione, tutte le variazioni e combinazioni possono essere di nuovo progettate a livello di rappresentazione, in un’immaginazione motoria e situazionale soltanto allusiva, e il movimento reale diviene, esso stesso, movimento operativo condotto, impegnabile. I compiti della variazione e della coordinazione motorie, a compitare i quali il bambino piccolo è impegnato per anni interi, più tardi sono dunque assunti dal movimento virtuale, e il movimento reale è dominato con semplicità e, in parte, può divenire automatico. Un progetto motorio è però un movimento soltanto accennato, un movimento virtuale e perciò, al tempo stesso, «antivedente», un movimento meramente possibile, ma vissuto come possibile nella direzione del futuro e di situazioni future. In questo senso, esonero significa che la costituzione di un centro di gravità nel comportamento umano compete sempre più alle funzioni «superiori», a quelle cioè che meno richiedono fatica e che soltanto alludono; dunque alle funzioni coscienti o spirituali. Ne viene che questo concetto è addirittura un concetto chiave dell’antropologia: esso ci insegna a vedere le massime prestazioni dell’uomo nella connessione con la sua natura fisica e con le condizioni elementari della sua vita.

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Da questo punto di vista v’è motivo di apprezzare anche il ruolo straordinario svolto dall’abitudine. Questa ha funzione esonerante, in primo luogo nel senso che in un comportamento abituale vengono a cadere l’impegno delle motivazioni e del controllo, lo sforzo delle correzioni e l’investimento affettivo. «Nella vita quotidiana, – dice Guillaume – i nostri atti abituati sono condizionati dalle percezioni di certi oggetti ai quali reagiamo automaticamente». Il comportamento in tal modo abitualizzato, proprio perché sfugge alla coscienza e sedimenta, si fa anche stabilizzato, inattaccabile da critiche e immune da obiezioni, diventando così la base di un comportamento di grado superiore, variabile, che su di esso cresce. Solo chi ad esempio domina con sicurezza e correntemente il lessico e le forme abituali di una lingua straniera può dedicare la sua attenzione ad elaborarne le finezze. Questo importante processo esonerante, nel quale il formarsi di abitudini pone il presupposto di un comportamento di specie superiore, può esser seguito sin sul piano del riflesso condizionato. In quest’ultimo processo, una reazione accoppiata a uno stimolo di prima mano (per esempio la secrezione di saliva alla vista di cibi) è evocata da uno stimolo casuale che proceda regolarmente quel primo stimolo, per esempio dal suono di un campanello. Senza dubbio, la prima, istintiva reazione si avvicina nella sua struttura a un’abitudine, giacché l’automatismo viene accoppiato a una situazione che con regolarità si ripete come la medesima, mentre stimoli qualsiasi, indifferenti in altre occasioni, acquisiscono, purché siano regolari, un valore disinibitorio. In tal modo la funzione basilare del formarsi delle abitudini si rivela già qui: questo processo, cioè, fissa un livello di comportamento rispetto agli stimoli, a partire dal quale nuovi, ulteriori contenuti ora divengono esperibili e entrano a far parte della sfera dell’utilizzabile. Il riflesso condizionato di secondo grado, che così si profila, significa un ampliamento del dominio sul mondo circostante ottenuto sulla base del primo. Pavlov ha osservato che il valore acquisito at-

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traverso un primo segnale può essere traslato su un altro. Se il rumore del metronomo che abbia annunziato il cibo già disinibisce il flusso della saliva, un segnale luminoso, che a sua volta abbia preceduto il metronomo, alla fine raggiunge esso stesso questo effetto. È questo un ampliarsi del campo degli stimoli che si dà sulla base di una prima acquisita abitudine. Tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ma anche in quello dell’affinamento motorio e operativo, sono pertanto sviluppate grazie al fatto che il costituirsi di stabili e basilari abitudini di fondo esonera l’energia in esse originariamente impiegata per le motivazioni, i tentativi, il controllo, liberandola per prestazioni di specie superiore. Si consideri a tale proposito, per esempio, il fatto che l’organizzazione della società provvede a soddisfare in permanenza, regolarmente e abitualmente, i bisogni biologici elementari. Sin dal Neolitico si utilizzano le crescenti eccedenze della produzione agricola e zootecnica per costituire delle scorte, cioè per il soddisfacimento abituale e permanente del bisogno di nutrimento. Quanti non sono occupati secondo la divisione del lavoro nella produzione primaria si rendono per ciò stesso liberi, in tutte le loro funzioni intellettuali e pratiche superiori, per modi di comportamento che, a meno di non essere sofistici, non è più possibile definire in termini di «comportamento appetitivo»; infatti costoro producono cose prive di utilità ma belle, oppure si dedicano a sviluppare, differenziare e arricchire singoli mestieri, arti e riti. Inoltre, in queste prestazioni culturali confluiscono tutti quei quanti pulsionali e affettivi che si vengono affrancando grazie alla «trivializzazione» del soddisfacimento abituale delle necessità biologiche. Come altrimenti spiegare la passione immensa con la quale tutte le culture primitive sviluppano strutture artificiosissime, quali ad esempio i rituali magici, nonostante gli esiti empirici palesemente assai dubbi? Se a tali strutture si tien fermo con tanta tenacia è indubbiamente perché esse possiedono un valore di appagamento altissimo

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di ingenti quanti pulsionali, i quali, esonerati in virtù del fatto che la copertura dei bisogni elementari è divenuta abituale e indifferente, ora impongono a se stessi un’elaborazione appunto nelle funzioni intellettuali e motorie così affrancate.

3. Arnold Gehlen. Linee fondamentali di una teoria globale dell’uomo*3 L’essere umano, a paragone con gli altri viventi, è un essere organicamente «carente». Ma, nonostante le sue insufficienze biologiche nei confronti di tutte le altre specie animali meglio adattate a sopravvivere in ambienti idonei, l’uomo continua a conservarsi e a prosperare; e questo perché, come un «novello Prometeo», ha sempre agito in modo da surrogare le sue deficienze, perché è riuscito a sopperire con l’azione a quelle inadeguatezze biologiche che gli rendevano difficoltoso e precario l’adattamento al mondo naturale.

Queste condizioni, qui brevemente segnalate, cerca di soddisfarle una concezione globale dell’uomo che io ho già presentato in un lavoro più esteso e in alcune trattazioni che lo accompagnano, e questo attraverso la valorizzazione di determinate impostazioni di Herder e Nietzsche. In questo lavoro di ricerca è venuto alla luce un inatteso accordo con molteplici risultati della ricerca di scienze specifiche, tanto in Germania che all’estero. La breve esposizione, che segue qui, di alcuni principi importanti informa perciò su una concezione che si

*  Da A. Gehlen, Un’immagine dell’uomo (1942), in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 85-89.

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sforza di mantenere il contatto tanto con la tradizione filosofica quanto con le scienze specialistiche contemporanee. Già da tempo si è osservato che l’uomo, considerato morfologicamente, rappresenta per così dire un caso d’eccezione. I progressi della natura consistono altrimenti nella specializzazione organica delle sue specie, dunque nella formazione di adattamenti, naturali e sempre più efficienti, a determinate condizioni ambientali. Un organismo animale ‘si mantiene’ in virtù della sua organizzazione specifica in una struttura di condizioni per la quale è ‘adatto’, senza voler qui interrogarci sul come si sia data questa armonia. Se si osserva ora l’uomo senza condizionamenti teorici si osservano alcune caratteristiche che è il caso innanzitutto di enumerare. 1) Egli è ‘senza mezzi da un punto di vista organico’, senza armi naturali, senza organi di attacco o di difesa o di fuga, con sensi privi di una efficienza particolarmente significativa: infatti ognuno dei nostri sensi è ampiamente superato dagli ‘specialisti’ nel regno animale. È privo di pelliccia e non è difeso dalle intemperie, e perfino molti secoli di auto-osservazione non gli hanno insegnato se abbia veramente istinti e quali. Già da tempo ci si è resi conto di questo, e sia Herder (1772) che Kant (1784) vi hanno richiamato l’attenzione. Solo recentemente però si è sviluppata, sotto la direzione dello scomparso anatomista di Amsterdam Bolk, una teoria che concepisce tutte le particolari caratteristiche della costituzione umana dal punto di vista della «primitività». Con ciò si intende da una parte il fatto che determinate particolarità degli organi – come la dentatura priva di spazi vuoti, la mano con cinque dita e altre ancora – devono essere ‘arcaiche’, ossia vecchie dal punto di vista della storia dell’evoluzione, che esse sono comprensibili solo come punti di partenza di specializzazioni del tipo che possiamo trovare nelle grandi scimmie (crescita dei canini, raccorciamento del pollice); dall’altra che le ulteriori particolarità (mancanza di

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pelliccia, curvatura del cranio con dentatura ortognata, struttura del bacino, ecc.) sono da intendersi come stati fetali fissati e divenuti permanenti. Questo ‘ritardamento’, a cui l’uomo deve un, per così dire, habitus embrionale, è un principio di spiegazione estremamente prezioso in quanto permette di comprendere anche altre tipicità umane, soprattutto la sproporzionata lunghezza del periodo di sviluppo, la lunga fase di dipendenza infantile, la tardiva maturazione sessuale, ecc. L’insieme di queste caratteristiche vengono sintetizzate dal concetto di ‘mancanza di specializzazione’, e da qui proviene la giustificazione della contrapposizione descrittiva e comparativa dell’uomo al­ l’animale e soprattutto ai suoi parenti più prossimi, le grandi scimmie, molto ben specializzate. Se si fa scientificamente, cioè adogmaticamente, un confronto bisognerà attendersi che gli antenati dell’uomo siano stati grandi scimmie con un habitus relativamente ben più ‘umano’ di quello delle attuali e che tutta questa linea evolutiva sia stata determinata dall’imperare di un principio che non si riscontra da nessuna altra parte se non, appunto, in misura ben più ridotta, principio che è stato trovato attraverso approssimazioni successive utilizzando diverse denominazioni (il ritardamento di Bolk, la proterogenesi di Schindewolf): appunto un ‘ritenere’ delle caratteristiche o vecchie da un punto di vista filogenetico o iniziali, giovanili, oppure embrionali, da un punto di vista ontogenetico. 2) Inoltre possiamo vedere, ovunque spingiamo lo sguardo, che l’uomo si è diffuso dappertutto sulla terra e, nonostante la sua mancanza di mezzi fisici, che assoggetta progressivamente la natura. In questo non si può indicare un ‘ambiente’, un insieme di condizioni naturali e originarie che dovrebbero essere soddisfatte perché ‘l’uomo’ possa vivere; al contrario lo vediamo ‘mantenersi’ dappertutto, al polo e all’equatore, sull’acqua e sulla terraferma, nella foresta, nella palude, in montagna e nella steppa. Cioè egli vive come ‘essere provvisto di cultura’, ossia dei risultati della sua attività previsionale, pianificata

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e collettiva, attività che gli permette di preparare tecniche e mezzi della sua esistenza attraverso una trasformazione attiva e previsionale di ogni genere di costellazione di condizioni naturali. Perciò è concesso chiamare il corpo delle condizioni originarie trasformate attivamente ‘sfera della cultura’, e l’uomo vive e può vivere solamente all’interno di essa. Qualunque tipo di tecnica di procacciamento o di preparazione del cibo, ogni arma, forma di organizzazione dell’attività comune e misura di difesa contro nemici e il maltempo, o altro ancora, appartiene perciò alle risorse anche della cultura più primitiva, e ‘uomini allo stato di natura’, ossia privi di cultura, non esistono affatto. Bisogna annoverare i risultati di questa attività progettante e trasformatrice, incluso i necessari mezzi materiali, strumenti di pensiero e di rappresentazione, tra le condizioni fisiche di esistenza dell’uomo, e questa asserzione non vale per nessun animale. Le costruzioni dei castori, i nidi degli uccelli, ecc., non sono mai progettati previsionalmente e vengono prodotti da un’attività puramente istintiva. Perciò indicare l’uomo come Prometeo ha un senso esatto e giusto. Se si considera il fatto che la sfera della cultura umana ha nei fatti un significato biologico sembra logico applicare anche qui, come generalmente succede, il concetto di ambiente, utilizzato con successo in zoologia. Tuttavia c’è una differenza essenziale: bisogna collegare senza dubbio la mancanza organica di mezzi dell’uomo con la sua attività edificatrice di cultura e concepire entrambi come due fatti che si condizionano strettamente a vicenda da un punto di vista biologico. Non si può parlare però, nel modo più assoluto, di un ‘adattamento’ dell’uomo ad un complesso di condizioni naturali di vita che sarebbero assegnate dalla natura specialmente a questa specie, ciò che appunto si intende in senso stretto con il concetto di ambiente. Come la specializzazione animale, organica da una parte e l’ambiente ritagliato per essa dall’altra stanno l’un per l’altro,

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così bisogna considerare la mancanza di specializzazione e la gracilità morfologica dell’uomo nella sua sfera della cultura. Poiché questa però è il corpo di circostanze naturali originarie che l’uomo ha trasformato in senso utile alla sua vita, allora non c’è a priori nessun limite naturale alla capacità umana di vivere ma solo limiti derivanti dalle condizioni tecniche: i confini dell’espansione umana non risiedono nella natura ma nei diversi gradi dell’arricchimento e del miglioramento della sua attività produttrice di cultura, innanzitutto degli strumenti di pensiero e dei mezzi materiali. L’uomo è dunque organicamente «l’essere manchevole» (Herder), egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, resa maneggevole, trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura. Si può anche dire che è costretto biologicamente al dominio sulla natura.

4. Arnold Gehlen. Uomo e azione*4 L’uomo compensa attraverso l’«azione» la sua debolezza organica e riesce così a trasformare in modo intelligente l’ambiente e a garantirsi la sopravvivenza. Egli, dunque, è attivo di fronte agli stimoli, non subisce la risposta, ma la plasma, e attraverso questo suo peculiare modo d’agire struttura il suo mondo e co-

*  Da A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia (1957), in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 196-203.

267 nosce la realtà. L’uomo, diversamente dall’animale, «agisce» e non «reagisce» in modo deterministico alla stimolazione. Il suo comportamento è sempre un’«azione», sia a livello di semplice reazione motoria a una percezione, sia a livello di condotte più complesse di carattere culturale e sociale.

L’uomo come essere agente La circostanza prima menzionata – il fatto che in Scheler si arrivasse infine ad un dualismo metafisico tra lo spirito da una parte e l’anima-corpo dall’altra – sembrava effettivamente mettere in discussione tutti i risultati e sorgeva quel problema che oggigiorno, guardando a ritroso, si potrebbe esporre esemplificativamente quasi come un problema di formulazione della questione: ossia se non si facciano passi in avanti nell’antropologia tentando, esattamente come prima, quando si era neutralizzato l’aspetto teologico, di evitare ogni tipo di dualismo. Infatti all’interno di un dualismo si pensava manifestamente in modo circolare, tutte le formulazioni del problema sembravano calcolabili ed anche esaurite. Rispetto alla domanda, come il corpo e l’anima, oppure il corpo, l’anima e lo spirito, in fondo e metafisicamente, si rapportassero l’uno all’altro, non si era potuto esperire nulla nonostante centinaia di anni di riflessione, e così si poteva dunque tentare di sospendere ogni impostazione del problema e ogni formulazione concettuale che conducesse verso un tale dualismo. È veramente sorprendente il fatto che una riflessione durata centinaia di anni sulle connessioni tra i due aspetti dell’uomo non abbia condotto a nessun risultato convincente; ed anche l’ipotesi di Scheler sembrava avere difficilmente più speranze. Nelle scienze empiriche, e come una di queste volevo considerare la filosofia, è un procedimento legittimo quando talvolta si cambia l’impostazione del problema. Sì, considerando determinati esempi dalla fisica, ma anche dalla psicologia, ci si poteva

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aspettare che, proprio in conseguenza di un mutamento del modo con cui si indagava, si raggiungessero i più sbalorditivi risultati. Non si poteva trovare, così si formulava ora la questione, una specie di tema-chiave che non sollevasse per niente il problema anima-corpo? E questo doveva essere un tema trattabile con i metodi delle scienze empiriche se si voleva cogliere il vantaggio consistente nell’escludere, insieme al dualismo, in generale tutte le domande metafisiche, ossia non suscettibili di risposta. E ad una tale impostazione si raccomandava l’azione, ossia la concezione dell’uomo come un essere che primariamente agisce, laddove ‘agire’, in una prima approssimazione, sta ad indicare l’attività diretta alla trasformazione della natura a vantaggio dell’uomo. Proposi dunque questo, non senza influenze di indirizzo filosofico americano chiamato pragmatismo, conservai comunque due tesi principali di Scheler, ossia il prendere come punto di partenza il paragone tra l’uomo e l’animale e la teoria dell’apertura al mondo, cioè la possibilità di essere eccitato da una quantità arbitraria di dati del mondo esterno, anche quando essi siano biologicamente indifferenti o addirittura nocivi. Ne risultava, se si continuava a pensare sulle conseguenze di questa diversa impostazione problematica, all’incirca la seguente concezione: innanzitutto una netta distinzione tra l’uomo e l’animale, perché di regola gli animali, attraverso istinti fissati ed innati, sono situati nei limiti di un ambiente che è tipico solo della loro specie. Pensate ad esempio che gli ambienti del ragno, della gazza e del capriolo non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro nell’ambito della stessa foresta: nessuna di queste specie si accorge di ciò che l’altra percepisce, nessuna si comporta in un modo simile all’altra, ogni specie invece recepisce con sicurezza innata e con ristrettezza innata solo ciò che è per lei vitalmente importante, ciò che le è adeguato in quanto a tana, partner, nemico, preda. E, all’interno di questo cerchio, che è molto stretto, l’animale si comporta con una adeguatezza innata, e appunto ciò lo chiamiamo ‘istintivo’.

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Ed anche la sua capacità di apprendimento, nella misura in cui è presente, lavora all’interno di questa cornice fissa ed innata. Ora su questo sfondo l’uomo può risaltare molto bene ed è possibile comprendere il suo posto particolare nella natura se si ha chiarezza sul fatto che l’uomo, già fisicamente, è talmente qualificato da una carente dotazione di armi organiche o di mezzi di difesa organici, dalla insicurezza e dal basso sviluppo dei suoi istinti, dalle mediocrità delle prestazioni sensoriali, che consideravo sostenibile applicare in questo contesto l’espressione «essere manchevole», già utilizzata una volta da Herder. Così com’è destino di queste formule estremamente pregnanti, proprio questo concetto si è reso nel frattempo indipendente e conduce una vita propria, non del tutto con la mia approvazione. In ogni caso si può dire: l’uomo, esposto alla cruda natura come un animale, con la sua physis innata e con la sua insufficienza istintuale, sarebbe incapace di vivere, e questo in ogni circostanza. Queste mancanze vengono però compensate dalla capacità che corrisponde alla più urgente necessità: il trasformare questa natura selvaggia – e cioè una qualunque natura, in qualunque modo sia fatta – in modo che divenga utile alla sua vita. La sua posizione eretta, la sua mano, la sua peculiare capacità di apprendimento, la plasticità dei suoi movimenti, la sua intelligenza, il suo obiettivismo – che Scheler aveva concepito –, l’«apertura» dei suoi sensi, certamente poco efficienti ma non limitati a ciò che è importante solo per gli istinti, tutto ciò può essere considerato un sistema, un contesto, che mette in grado l’uomo, in tutte le circostanze esterne pensabili – nella foresta vergine, nella palude, nel deserto o da qualunque altra parte, nelle zone artiche o sotto l’equatore –, di elaborare in modo intelligente le costellazioni naturali che trova di volta in volta così da potersi mantenere. Per rendere più chiaro questo pensiero è forse molto utile un concetto che è emerso a quel tempo nell’ambiente di Victor

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Weizsäcker, dunque di un medico, a Heidelberg: il «circolo dell’azione». Ho già detto che l’azione poteva offrirsi come un tema-chiave dell’uomo ed ho appunto chiarito questo punto di vista sull’azione: è una trasformazione della natura ed effettivamente fonda la cultura, è un processo biologicamente necessario, perché un essere, che per natura è così problematicamente dotato, deve fare di una natura trasformata il punto di appoggio della sua propria, dubbia, capacità di vivere. Considero adesso l’azione ancora sotto un altro punto di vista; bisogna rappresentarsi il circolo dell’azione molto semplicemente, ad esempio con il seguente esempio: quando provate una chiave in una serratura si produce una serie di trasformazioni fattuali a livello della chiave e della serratura, ad esempio quando questa si inceppa e voi dovete provare girando a destra e a sinistra. In queste operazioni c’è una serie di successi ed insuccessi a livello fattuale, che voi vedete, udite e sentite emotivamente, successi e insuccessi che vengono dunque restituiti alla fonte, che voi percepite; e, a seconda della percezione, modificate di nuovo la posizione della chiave, modificate i vostri movimenti di prova, ed infine a livello fattuale si produce effettivamente il successo e la serratura scatta. Così il processo è circolare, ossia si può descrivere un tale processo come un unico processo circolare che passa però attraverso degli anelli di raccordo psichici, le percezioni, attraverso anelli di raccordo motori, i propri movimenti, per poi ritornare al livello fattuale. Con questo esempio ho forse chiarito che, quando si parla dell’azione, si mette semplicemente tra parentesi l’intero dualismo. Una scomposizione in elementi psichici e fisici non apporterebbe nulla e creerebbe solo ostacoli alla descrizione, come, del resto, disturberebbe solamente ogni riflessione su questa differenza durante l’esecuzione, ossia mentre si prova con la chiave. La stessa azione è – direi – un complesso movimento circolare che inizia dalle cose del mondo esterno e nel quale il

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comportamento si trasforma a seconda delle informazioni di ritorno sui successi e gli insuccessi. Qui si può mostrare molto bene che, durante l’esecuzione dell’azione, ogni riflessione che non passa ad una trasformazione della presa per procedere in modo più liscio pone solamente ostacoli. Poiché però ogni lavoro umano procede, proprio secondo questo modello appena utilizzato dell’uomo con la chiave, in circoli di azioni – dal fare il fuoco con i bastoncini fino alla costruzione di una casa –, avevamo una base che ci permetteva di riflettere sull’uomo senza ricadere in quelle formule dualistiche che avevano ancora coinvolto Scheler.

L’uomo come essere che apprende Con ciò ho disegnato uno schema, molto generale ma sufficiente, di un pensiero fondamentale. Non posso affrontare qui una serie di conoscenze derivate, che emergevano semplicemente da questa trasformazione dell’impostazione del problema, e questo in modo inaspettato o, almeno, come sempre è, provocando lo stupore dell’autore; tutto ciò, come si è detto, si mostrò abbastanza fruttuoso. Questo sforzo incontrava anche altri tentativi contemporanei molto interessanti. Lo zoologo viennese Otto Storch aveva appena descritto, con interesse specialistico da zoologo, il rigido sistema motorio ereditario degli animali, ossia quella scala poco variabile di possibilità motorie e la loro limitata capacità di apprendere combinazioni motorie. Si può menzionare a titolo di esempio che nessun cavallo, che per caso si imbriglia, impara a mettere semplicemente la zampa indietro; questa è una azione sbagliata che, nel caso dei cavalli, si teme molto. Storch aveva contrapposto all’ambito relativamente più ristretto di movimenti animali, innati o appresi, l’infinita ricchezza del «sistema motorio acquisito» – come diceva lui stesso – dell’uomo, dunque il fatto che l’uomo può imparare le più complicate coordinazioni motorie con variazio-

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ni perfino infinite, così come ci viene provato da ogni artista, da ogni sportivo, da ogni conduttore d’auto, e in generale da ogni abilità professionale. Infatti le decine di migliaia di mestieri, lavori, abilità, con i quali è occupata l’umanità, richiedono ogni volta altre e particolari manipolazioni, che devono essere apprese, il che è solo possibile in quanto manca una giustezza innata di movimenti istintuali. Questa concezione di Storch si poteva ben collocare nello schema prima descritto, con il quale l’uomo e l’animale vengono distinti e collocati in netta opposizione: all’animale viene attribuita una adeguatezza, ma anche ristrettezza del suo comportamento e delle sue prestazioni sensoriali, all’uomo una plasticità e ampiezza, ma anche una ampiezza e modellabilità precarie, che lo costringono a strappare alla natura ciò che gli manca quanto a sicurezza innata nell’adattamento alla realtà. Lo svizzero Portmann, anche lui uno zoologo, aveva mostrato che il posto particolare dell’uomo come essere in grado di apprendere – che egli vedeva bene e pienamente – è in relazione con la particolarità del primo anno di vita umano, che bisogna perfino descrivere come una anomalia se si getta un’occhiata alle forme di comportamento altrimenti presenti nella natura, se si fa dunque di nuovo un confronto con l’animale. Per quanto riguarda la maturazione degli organi, delle prestazioni motorie, delle prestazioni degli organi di senso, la formazione della comunicazione e l’emissione di segnali tipicamente umane, ossia il linguaggio, il neonato deve essere concepito perfino come un parto prematuro normalizzato, tipicizzato. Solo con il primo anno di vita raggiunge una certa capacità di orientamento e, incominciando ora a fare i primi passi, la capacità di muoversi, e in più anche gli inizi della comunicazione con altri esseri umani, tutte prestazioni che gli animali superiori mostrano poco dopo il parto, spesso già dopo poche ore. Detto altrimenti: questa particolarità del primo anno di vita degli esseri umani, che Portmann ha descritto perfino come un anno

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embrionale «extra-uterino», cioè al di fuori dell’utero materno, ci dice infatti, vedendola sotto un altro punto di vista, che decisivi processi di maturazione nella percezione, nel movimento si sviluppano in un intero anno come situazioni di apprendimento, sotto l’influsso cosciente dell’ambiente. La capacità di apprendimento dell’uomo e questo cosciente influsso del suo ambiente sull’apprendimento sono inseriti per così dire nello sviluppo puramente biologico in quanto il bambino, in modo tipico e normale (ma del tutto anomalo in confronto agli animali), è tratto fuori dal corpo materno ed è sottoposto a questo influsso. Questa docilità all’apprendimento delle prestazioni sensoriali, dei movimenti e dei mezzi di espressione, l’uomo la conserva fino all’età avanzata, ed anche muovendo da questo problema si approderebbe all’idea che ciò che lo caratterizza è una strana stabilizzazione fino allo stadio della maturità di caratteristiche della prima infanzia, in parte perfino per tutta la vita, un’idea che, nella mia antropologia, avevo mutuato dall’anatomista olandese Bolk e che poi avevo raccomandato. Tutti questi autori potrebbero dunque unirsi sulla base dei lineamenti della concezione che vi ho accennato, cosicché l’emergere di un nuovo indirizzo dell’antropologia filosofica appare come una specie di lavoro di équipe, in ogni caso una équipe frutto dell’incontro fortuito. Comunque ora non sembra più essere utopico il domandarsi: non si può capire a partire dalle peculiari, strane ed uniche condizioni biologiche dell’uomo il perché è un essere culturale? Entrambi gli aspetti del problema sembrano illuminarsi, o illustrarsi, reciprocamente. In questo modo dunque, in ogni caso sotto rinuncia a opinioni o convinzioni metafisiche, che noi avevamo infatti escluso insieme al dualismo, è possibile disegnare un’immagine dell’uomo, e questo in modo che anatomia, psicologia, linguistica, ecc., appaiano adesso come aspetti parziali di un unico essere, molto particolare; ma, oltre a ciò, abbiamo anche guadagnato il posto per qualcosa come una scienza generale della cultura.

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La cultura: la natura trasformata attivamente dall’uomo Infatti, a partire da queste concezioni, la ‘sfera della cultura’ è, sicuramente in una prima approssimazione, l’ambito della natura trasformata dall’uomo, per così dire il nido inserito dall’uomo stesso nel mondo. Una necessità vitale, perché all’uomo manca l’adattamento innato dell’animale al suo ambiente. La cultura dei popoli primitivi consiste per questo innanzitutto nelle loro armi, nei loro strumenti, nelle loro capanne, nei loro animali domestici, giardini, ecc.; tutto ciò è natura trasformata, elaborata, raffinata, tutto ciò è una natura formata ex novo nell’azione intelligente, la quale natura fornisce dappertutto essa stessa i punti di partenza, i mezzi tecnici atti a modificarla. Nel concetto di ‘natura formata ex novo’ rientrano anche la famiglia e il matrimonio, anche gli ordinamenti sociali ne fanno parte: essi consistono comunque in un materiale la cui naturalità è stata modellata ed elaborata. E infine non va escluso ciò che nella mitologia e nella religione appare allo spirito curioso dell’uomo come ancora calcolabile e risolvibile. Infatti tutte le società umane, per quanto possano essere semplici, conoscono una interpretazione complessiva del mondo e del loro posto nel mondo, che pur tuttavia è in fondo collegata all’azione. Proprio nella misura in cui, infatti, il mondo si sottrae all’intervento umano, nella misura in cui esso non offre appigli all’azione trasformatrice e utile, dunque nei suoi aspetti immodificabili, viene interpretato secondo un senso e a queste interpretazioni vengono collegate delle serie di azioni, appunto quelle simboliche. Sotto il punto di vista che sto esponendo, una filosofia, o una concezione del mondo, o una mitologia, appare dunque come un’interpretazione del senso proprio delle componenti del mondo che non possono trasformarsi, laddove queste interpretazioni diventano motivi per un’azione in un primo momento cultuale oppure rituale, azione che si rapporta a quella parte del mondo alla quale bisogna adattarsi, come ad

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esempio la morte. Anche questo aspetto della cultura si può collegare all’uomo come essere che agisce, e con ciò possiamo inserire nel nostro schema, almeno idealmente, l’etnologia, la scienza della cultura, la scienza della preistoria e del folclore. L’antropologia culturale, alla quale si è fatto accenno più sopra, conferma nel modo più assoluto la nostra impostazione perché il più stupefacente risultato di questa ricerca pluridimensionale sulla cultura, coronata così dal successo in America, consiste nel fatto che ma ci fornisce una rappresentazione molto immediata della straordinaria plasticità e della straordinaria modellabilità umane. Quando, lasciandosi condurre da questo indirizzo, si getta uno sguardo d’insieme su un paio di dozzine di culture diverse, allora viene da dire: «non c’è niente che non esista». Questo è per così dire il risultato astratto di questa ricerca sulla cultura, se essa viene condotta con quell’ampiezza di impostazione che si addice, ed è allo stesso tempo una conferma della convinzione dello svincolamento umano dagli istinti e della non definitività umana, una conferma dell’energia, della ricchezza e della multiformità, persino della fantasia del suo agire. Ognuna delle migliaia di culture primitive rappresenta un proprio mondo ostinato e inconfondibile, e non è facile poi fare ancora affermazioni su delle costanti innate andando un po’ al di là di cose genericissime. La fluidità della vita pulsionale, l’eccitabilità della fantasia dell’uomo, la multiformità di circostanze esterne alle quali ogni volta si reagisce, tutto ciò dà come risultato una vegetazione talmente fantastica che ad ogni passo si aprono nuovi mondi. Come esempio a disposizione e ovvio si può indicare il libro di H. Schelsky, Sociologia della sessualità, uscito anch’esso nella Rowohlts deutsche Enzyklopädie (volume 2); l’autore argomenta antropologicamente, mette in relazione la molteplicità delle istituzioni e la sbalorditiva quantità di costumi contraddittori presenti in questo ambito con la mancanza di determinazione fissa dell’uomo, con la caratteristica di eccedenza della sua vita pulsionale. Le cose stanno come se

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una delle prestazioni principali della cultura umana consistesse nello strappare dell’utile alle circostanze vergini della natura che vengono trovate, e questo sotto la pressione della necessità. Oltre a ciò la cultura umana consiste essenzialmente nel creare ordine e nello stabilizzare. Perfino a prezzo di particolarità eccentriche ci si sforza di strappare un po’ di stabilità e di ordine al caos che manifestamente ribolle sempre nel cuore umano, ci si sforza di salvare dal tempo qualcosa della calcolabilità e continuità. Da ciò emerge manifestamente un secondo grande tema del concetto cultura e tuttavia si vede come anche questo secondo tema si adatti all’impostazione dalla quale sono partito.

5. Arnold Gehlen. Tecnica e antropologia*5 La questione della tecnica, per Gehlen, è la questione antropologica per eccellenza; egli infatti fa derivare dalla stessa natura umana la produzione tecnologica, senza la quale l’uomo non avrebbe potuto assumere il «suo posto nel mondo». L’essere umano è naturalmente sociale, ma anche naturalmente tecnico, poiché il mondo culturale e artificiale, che costituisce la casa in cui egli si trova a suo agio, è un mondo che può evolversi e costruirsi solo grazie agli artifici tecnologici. La tecnica, dunque, è uno dei più potenti fattori «culturali» che consente all’uomo di compensare la sua deficienza biologica e di adattarsi a tutti gli ambienti. Dalla costruzione dei più rudimentali utensili alla creazione delle più sofisticate apparecchiature odierne, la tecnica ha costantemente aiutato l’uomo ad «aprirsi al mondo», a conquistare e dominare tutta la terra, a vivere meglio e in condizioni più sicure, anche se non si può trascurare il ruolo negativo da essa svolto nell’approntare strumenti di ag*  Da A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia (1953), in Id., Prospettive antropologiche, cit., pp. 127-139.

277 gressione e di morte. Tuttavia, nonostante i rischi e i pericoli che la moderna società tecnologica comporta, Gehlen resta coerentemente fedele all’immagine dell’uomo come quella di un essere che tende, fondamentalmente, a conservarsi e per farlo costruisce la civiltà basata sulla tecnica.

La tecnica è antica quanto l’uomo. Lo dimostra a contrario il fatto che noi possiamo concludere con sicurezza solo a partire da tracce di utilizzazione del fuoco che abbiamo a che fare con esseri umani. Quando circa trent’anni fa sono stati trovati i primi resti fossili delle più antiche fra le forme umanoidi a noi note – si tratta di ritrovamenti sudafricani con un’antichità di tre o quattro milioni di anni – rimase il dubbio se si trattasse realmente di ominidi finché ulteriori ritrovamenti dimostrarono che questi esseri avevano sfracellato con colpi dati a regola d’arte i crani di grossi animali (e inoltre anche di membri della loro specie), e finché furono trovate tracce di utilizzazione del fuoco. La tecnica è quindi sempre servita ad aiutare a vivere e a far morire.

La superiorità della tecnica sulla natura Altrettanto originaria è l’ingegnosità, la costruttività e la superiorità sulla natura della tecnica. Essa procede nelle sue prime creazioni e in quelle successive in modo creativo e senza modello naturale. Ciò vale già, come ha dimostrato l’etnologo G. Kraft, ora defunto, per il coltello di selce. Risale al periodo interglaciale günz-mindeliano, circa mezzo milione di anni fa. Il taglio acuminato, che, nella prosecuzione della sua direzione in movimento guidato diritto o curvo, taglia qualcosa, non ha alcun modello naturale. Al tagliare ciò che è naturalmente legato si aggiunge il legare ciò che è naturalmente separato: nodi e corde. I cinesi significativamente attribuiscono l’invenzione del nodo al loro primo mitico imperatore. E come in natura

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non vi è nulla di annodato, così non vi è nemmeno il moto circolare intorno a un asse, il principio della ruota, o qualcosa di corrispondente alla freccia scagliata dalla corda dell’arco. La propulsione a scoppio non ha alcun esempio in natura e la propulsione per reazione, cioè il principio dei razzi, non ne ha, quanto meno nell’aria; infatti che le seppie si spingano in avanti nell’acqua i nostri costruttori non lo sapevano, o se lo sapevano non lo sapevano i cinesi che intorno all’anno 1000 inventarono i primi razzi dei fuochi d’artificio.

Senso della tecnica: sostituto dell’organo, esonero dell’organo, superamento dell’organo Fin dalla sua origine l’uomo è stato accompagnato dalla tecnica, ed essa è tanto originariamente sapiens quanto lo è l’uomo. Ci conduce più vicino a cogliere questa intima interconnessione una riflessione compiuta da Alsberg, Ortega y Gasset e altri, che hanno fatto discendere la necessità della tecnica dalle carenze in fatto di organi. Fra le più antiche testimonianze di manufatti rientrano in effetti le armi, che come organi sono mancanti, e sotto questa voce andrebbe contato anche il fuoco, pur essendo servito primariamente per il riscaldamento. Questo sarebbe il principio del sostituto dell’organo accanto al quale compaiono fin dall’inizio l’esonero dell’organo e il superamento dell’organo. La pietra impugnata per colpire esonera e nel contempo supera nel risultato il pugno. Il veicolo, la cavalcatura, ci esonerano dal camminare e ne superano ampiamente le capacità. Nella bestia da soma il principio dell’esonero (Entlastung) diviene intuibile in modo tangibile. L’aeroplano a sua volta sostituisce le ali che non ci sono cresciute, e supera ampiamente tutte le prestazioni organiche nel campo del volo. Alcuni di questi esempi indicano che esiste una tecnica dell’organico molto antica: l’addomesticamento, e anzitutto l’al-

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levamento di animali è un’autentica tecnica, riuscita solo dopo molti esperimenti. Questi sarebbero i principi del sostituto dell’organo, dell’esonero dell’organo e del superamento dell’organo in un campo estremamente vicino al corpo. Questo modo di procedere si estende ulteriormente verso l’esterno, impadronendosi tecnicamente di campi sempre più grandi dell’organico in generale. In questo contesto l’eliminazione del legno (come anche della pietra) con la scoperta della lavorazione dei metalli è un’autentica soglia culturale, ciò che è stato espresso da tempo coniando i nomi dell’età del bronzo e di età del ferro. Il metallo sostituisce e supera molto efficacemente questi materiali che possono venire trovati immediatamente, anzitutto nella tecnica delle armi. Questo fu il primo grande passo dell’emancipazione dai limiti della natura vivente: la eliminazione e il superamento non semplicemente degli organi propri, ma dell’organico in generale. Così il legno viene oggi espulso da molti campi dal ferro, dal carbone o da materiali artificiali, il cuoio e la canapa dai cavi d’acciaio, la luce delle candele dal gas o dall’elettricità, i coloranti artificiali come la porpora o l’indaco dai coloranti sintetici, eccetera. In molti casi in cui si rimane fedeli all’uso conservatore del legno o vi si ritorna, i motivi stanno in tradizioni di gusto, o motivi di natura sociologica, proteste dell’artigianato, ma non sono motivi tecnici. La presentazione che è qui svolta di un’interconnessione essenziale fra uomo e tecnica, o quindi fra l’intelligenza inventiva dell’uomo, la sua dotazione organica e la capacità di espansione dei suoi bisogni, non è conciliabile con qualsiasi antropologia. I fondamenti di una dottrina dell’uomo elaborati da me, insieme a numerosi altri autori, sembrano però prestarsi in una certa misura a ciò. Non posso considerarmi innocente dalla colpa di avere insieme allargato il concetto di «essere carente» nonostante la confessata validità soltanto approssimativa di questo

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concetto, che in primo luogo deve servire soltanto a richiamare l’attenzione sul fatto che l’uomo in qualsiasi ambiente naturale è incapace di vivere per carenza di organi e istinti specializzati. Senza un ambiente specifico della specie al quale fosse adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa «istinto»), per carenza quindi di specifici organi e istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, istintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato all’azione, alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale incontrata. Mani e cervello potrebbero venire considerati organi specializzati dell’uomo, ma lo sono in un senso diverso da quello degli organi degli animali: ambigui nella utilizzazione, specializzati per compiti e prestazioni non specializzate, quindi all’altezza degli imprevedibili problemi del mondo illimitato. La prova di sé di un essere tanto arrischiato, cioè di mantenersi in vita, può consistere nel suo strato di base solo in un superamento e in una compensazione della sua dotazione carente, e là dove scopriamo le più antiche culture, scopriamo anche gli attrezzi necessari alla vita, le amigdale, i coltelli di selce, le punte di lancia, sempre prodotte con tecniche andate perdute, le tracce del fuoco, eccetera. Questa concezione considererebbe l’attività tecnica direttamente un carattere distintivo della costituzione umana, e contemporaneamente rifiuterebbe di porla in relazione, secondo uno schema diffuso, con la «mera ragione» o la «mera utilità», con quel tono spregiativo che è proprio di questi discorsi. Questa polemica è in prima istanza palesemente di genere sociologico, e ciò che in essa è autenticamente metafisico è soltanto oscurato quando in essa vi è l’eco di un conflitto per la supremazia fra le Facoltà di Filosofia e i Politecnici. È ovvio che la portata delle facoltà mentali dell’uomo non si esaurisce in questa prestazione. Ciò si può dimostrare già in

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modo del tutto empirico, in quanto su una linea del tutto diversa dal comportamento si sono sviluppate le istituzioni della coesistenza sociale, come il diritto e la proprietà, eccetera, anche se non senza una stretta interazione storicamente data con le forme tecniche della condotta di vita, della costituzione del lavoro e dell’economia. Ma l’azione, in quanto fare costruttivo di un essere aperto al mondo e costituzionalmente incapace di vivere con mezzi puramente inorganici, è altrettanto centrale quanto qualsiasi altro tratto caratteristico e non va preso alla leggera. Giungiamo così seriamente in prima approssimazione all’immagine dell’uomo come essere «policentrico», un essere con molti centri, un’immagine per così dire non euclidea, per la quale in connessione con questo tema abbiamo altrettanto poco bisogno di occuparci degli altri centri quanto di affrontare le difficili questioni connesse alla determinazione della precedenza fra loro.

Tecnica e magia Quanto profondamente la tecnica sia radicata nell’uomo risulterà chiaro a chi osservi il fascino che i suoi fenomeni esercitano sulla nostra gioventù, a chi pensi ingegni a grandi quanto quello di Leonardo, o che concluda a partire dallo straordinariamente rapido, contagioso diffondersi di scoperte, il cui ritmo, anche in epoche precedenti, povere di scambi sulle più lunghe distanze, è stupefacente. Questo fascino sembra affondare le radici nelle stesse profondità in cui lo affonda la magia, che per millenni è stata uno dei «mezzi» del comportamento umano. Come dice Maurice Pradines, la magia consiste nell’impresa di «produrre cambiamenti a vantaggio dell’uomo, deviando le cose dalle loro vie al nostro servizio». Questa però è una definizione in cui possono rientrare tanto la magia quanto la tecnica. La credenza che la natura possa essere piegata a sopperire ai nostri bisogni è verisimilmente un a priori istintivo ed è la radice comune

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della magia primordiale o delle scienze naturali e della tecnica moderna. Secondo la nostra concezione la tecnica razionale è altrettanto antica della magia, ed entrambe sono antiche quanto l’uomo. La tecnica, nel corso di uno sviluppo molto lungo, ha invaso lo spazio che era in precedenza – quando la tecnica era soltanto tecnica degli utensili – dominato dalla magia: lo spazio che separa ciò che abbiamo in nostro potere attraverso un agire immediato da ciò che consiste in successi e insuccessi non più in potere dell’uomo. La formula magica era per così dire l’attrezzo per le distanze spaziali e temporali. Questo spazio è stato ristretto in modo decisivo dalla tecnica moderna. Se si considera però ciò che appare l’elemento propriamente affascinante nei due fenomeni, questo dovrebbe essere fatto risiedere nell’automatismo. Si può dimostrare quanto poco si capisce la tecnica quando la si colloca sotto le voci «utilità» e «potere», sulla base del fatto che il fascino dell’automatismo è indipendente dalla prestazione. Questo fascino sarebbe posseduto in grado massimo da un perpetuum mobile il cui scopo e le cui prestazioni si esaurissero totalmente in se stessi. Una tale macchina ha però l’aspetto di un automatismo pienamente razionale, trasparente, e qui risiede un problema significativo. Infatti si dà il fatto che anche nell’immagine dei primitivi le forze magiche non sono né arbitrarie né spontanee, ma costituiscono addirittura un meccanismo animato che passa attraverso il mondo intero e che si può mettere in moto con la formula giusta. Un residuo di questa immagine rimane ancora oggi nell’astrologia, in cui pure gioca un ruolo un enorme automatismo degli astri e dei destini, che perfino «gira», anche se non si crede più di poterlo «avviare». Quanto in profondità una cosa deve risiedere nell’uomo se si conserva a dispetto di tutte le sfide alla ragione offesa! Questo fascino dell’automatismo a nostro parere non si basa su una soddisfazione puramente intellettuale, e nemmeno lo si

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può ricondurre a un istinto in qualche modo definibile. Di ciò che si svolge nell’imperscrutabile anima umana, noi possiamo razionalizzare scientificamente soltanto alcuni campi parziali, che poi non possiamo nemmeno interpretare teoricamente. Da ciò che conosciamo dello spirito, dell’intelletto, dei residui istintuali, eccetera, non possiamo però far discendere il fascino dell’automatismo, di modo che dobbiamo introdurre qui una nuova categoria psicologica: questo fascino è un fenomeno di risonanza. Deve esserci nell’uomo una specie di senso interno per ciò che appartiene alla propria costituzione che reagisce a ciò che nel mondo esterno è analogo a questa costituzione propria. L’automatismo, dotato di un senso, finalizzato, è però qualcosa di specificamente umano, che inizia con il movimento, consapevole col suo scopo, del camminare, per giungere ai movimenti ritmici divenuti abituali del lavoro manuale che noi – obbiettivandoli su di noi – possiamo pensare di fare riprendere da una macchina. Se quindi noi percepiamo al di fuori di noi un tale automatismo dotato di un senso – e se il senso consistesse meramente nell’enigmatica ripetizione precisa come nelle perizie degli astri – entra in vibrazione qualcosa anche in noi, vi è in noi una risonanza, e noi comprendiamo senza concetto e senza parola qualcosa della nostra propria essenza. Ciò che è interessante in questa ipotesi sta nell’idea di una primaria autocomprensione a partire dall’esterno, e quindi nella possibilità di ricomprendere nuovamente il simbolo o la metafora. Il «moto» delle stelle, il «moto» delle macchine, non costituirebbero un paragone superficiale, e simboli primordiali, come il mare per le passioni, sarebbero, per via della loro risonanza, penetranti autointerpretazioni di caratteristiche specifiche della specie umana.

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Il disagio della tecnica: sintomo di una trasformazione culturale su scala mondiale Ma proprio quando dovrebbe essere valido ciò che si è fin qui detto, dovremmo occuparci di un evento decisamente di nuovo genere: la paura della tecnica. A questo fine bisogna ridefinire ancora una volta il concetto stesso. Abbiamo già compreso in questo concetto l’utilizzazione e la produzione di attrezzi, abbiamo poi considerato la lavorazione dei metalli, e ricordiamo ora che le grandi tappe del progresso tecnico a partire da tardo medioevo sono consistite nell’invenzione della stampa, delle armi da fuoco, e anzitutto in uno straordinario miglioramento delle costruzioni navali come pure degli strumenti nautici. Gli strumenti nautici, la bussola e le carte marinare stampate, permisero alla navigazione di staccarsi dalle coste. Siamo poi giunti però con uno sviluppo altrettanto lento a un movimento estremamente vicino. Napoleone I guerreggiò dal Portogallo alla Russia con un arsenale tecnico che, a parte le armi da fuoco, non si distingueva da quello di Cesare. C’erano le truppe di fanteria, tutte ancora con la spada al fianco come da tempi immemorabili, soltanto senza scudi e giavellotti perché si poteva sparare; la cavalleria, le interminabili salmerie. Entrambi si costruivano alle spalle le stesse strade e mandavano ordini scritti per mezzo di cavalieri che galoppavano avanti e indietro. Lo sviluppo tecnico compie, proprio a quel tempo, una svolta qualitativa sulla base del fatto che proprio a cavallo fra Settecento e Ottocento si collocano due importanti serie di eventi che hanno il significato di una cesura integrale nella storia della cultura. Abbiamo in un primo tempo l’invenzione o il miglioramento della macchina a vapore per opera di James Watt negli anni 1769-1790. Questa invenzione per di più era già stata finanziata da un imprenditore. Con la macchina a vapore, e in seguito col motore a scoppio inventato da Benz e Daimler nel 1886, l’umanità si emancipò infine dalla vita organica come

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fonte di energia. Contemporaneamente si verificò un eventochiave, perché per la prima volta dalle sue origini l’umanità divenne indipendente da ciò che cresce anno per anno, in quanto ci si rivolse ai giacimenti di carbone e petrolio immagazzinati nel sottosuolo. Che cosa significhi l’agricoltura meccanizzata in connessione con la concimazione artificiale (anche questa una sostituzione di materiale organico con materiale sintetico) per la nutrizione di masse crescenti non richiede di essere sottolineato. La seconda importante serie di eventi consiste nel fatto che la tecnica come «sistema industriale» meccanizza interi settori della produzione, mentre dall’altro lato entra in un rapporto di interazione sistematica e pianificata con le scienze naturali. Ogni macchina, ogni apparecchio di misurazione e osservazione, ogni apparecchio elettrico incorpora naturalmente un tesoro di formule, un deposito di teoria ed esperienza scientifica. E viceversa: la stessa ricerca nel campo delle scienze naturali viene portata avanti con strumenti tecnici sempre nuovi, la natura viene forzata tecnicamente. Sarebbe errato intendere il rapporto fra le due come se la tecnica fosse la scienza naturale applicata. Ciò fu vero per uno stadio precedente. Oggi la scienza naturale è completamente vincolata ai dati che la tecnica le fornisce. La fisica teorica si svolge, non meno che nelle stesse teste dei fisici, nei calcolatori elettrici, e le misurazioni svolte con il ciclotrone, in cui le particelle scisse possono assumere cariche di energia che giungono fino a molti milioni di volt, entrano anch’esse nei loro dati e nelle loro teorie. Così scienza naturale e tecnica in realtà non hanno concluso un’alleanza, ma divengono piuttosto due facce di un unico processo, che da un certo punto di vista diviene esso stesso automatizzato. Infatti il ricercatore non si sceglie i problemi, come crede il profano, ma ciò che diviene problema dipende da ciò che è già conosciuto e da ciò che è divenuto ora tecnicamente possibile, e la concatenazione tra scienza, riutilizzazione dell’utilizzazione tecnica, e

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sfruttamento industriale è divenuta da lungo tempo essa stesa una superstruttura. I «problemi di punta» sono dei vuoti nettamente delineati, molto precisi, e per lavorarci bisogna essere in grado di capirsi con i tecnici, perché il problema definisce insieme la strumentazione non disponibile di cui si ha bisogno. L’utilizzazione delle enormi riserve energetiche del sottosuolo e la sintesi di scienza, tecnica e produzione in un nuovo complesso esso stesso tecnico sono quindi i grandi eventi che hanno fondato la nuova epoca. E questa cultura moderna si diffonde senza sosta intorno al globo verso l’America, il Giappone, la Cina, la Siberia. E con ciò si è già suggerito dove conduce questo tragitto in uno dei prossimi secoli: a una forma per noi non ancora non immaginabile di governo e di amministrazione mondiali. Così considerato, è possibile chiamare il grande apparecchio di acciaio e senza fili industrializzato e scientifizzato «tecnica» in un senso ristretto della parola, e ad esso si aggancia il termine – che si può udire per lo più solo in Germania – di «demone della tecnica». Invece di un demone noi parleremo di un disagio della tecnica, concependo questo steso disagio come un sintomo, come un sintomo di una trasformazione culturale su scala mondiale. Altrove abbiamo paragonato questo profondo mutamento con la transizione dell’umanità dalla cultura dei cacciatori alla stanzialità e alla coltivazione dei campi. Quando si colloca in primo piano il punto di vista del far fronte all’esistenza, esistono verosimilmente soltanto due cesure realmente decisive dal punto di vista della storia della cultura: quella transizione neolitica della cultura dei cacciatori a un modo di vita stanziale e la transizione moderna all’industrialismo tecnicizzato. Anche allora la trasformazione fu incredibilmente profonda e passò attraverso gli esseri umani. Deve essere durata molti secoli. Allora ebbe origine la divisione del lavoro e la società stratificata, allora di-

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venne possibile la costituzione di scorte e di capitale di riserva e con esso la distinzione tra ricco e povero. Sorse il dominio durevole, e non più solo occasionale; gli dei divennero stanziali insieme agli esseri umani e quindi suscettibili di culto, e in presenza della incredibilmente crescente silenziosa popolazione sotterranea, per via della sepoltura dei morti nelle vicinanze dei villaggi, deve esser completamente mutato il rapporto con la morte. Tutto ciò non può essersi svolto senza le più gravi crisi morali, e nel linguaggio che si comprendeva allora, quello mitico, si è parlato naturalmente allora di un «demone del campo». Proprio le culture agricole antiche conoscono miti abbastanza sanguinosi sull’origine dei tuberi da divinità dei tempi precedenti fatte a pezzi. Ciò che vi è di angosciante nel processo attualmente in corso sta nel carattere eccentrico, eccedente, del processo intrapreso e altrettanto nella sua portata mondiale. Il carattere eccentrico non costituirebbe di per sé un’obiezione. Le culture umane hanno messo in essere al loro interno ultra-specializzazioni che da un altro punto di vista appaiono assurde, e che si rapportano a qualcosa che posiamo chiamare «concentrati astratti». Ciò avviene già perfino in situazioni primitive. Gli australiani per esempio conducono una vita povera e difficile con soltanto pochi beni culturali. Sono anche del tutto indifferenti all’offerta di questi beni, offerta che è stata disponibile da secoli da parte dei malesi. Noi sappiamo da poco tempo che cosa li interessa realmente e su che cosa hanno concentrato la loro intera capacità di creazione culturale: essi si sono specializzati in relazioni di schiatta, regole matrimoniali e strutture genealogiche. Qui hanno raggiunto però differenziazioni di inverosimile complessità, stupefacenti, per noi speso difficili da maneggiare. Come si potrebbe definirle, quando presso gli Aranda un matrimonio secondo le regole deve avvenire con la figlia della figlia del fratello della madre della madre? Sorgono così strutture tanto eccentriche, per esempio rotanti, che la ricerca moderna

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per chiarire le relazioni reali e fittizie infinitamente complesse deve servirsi di innumerevoli diagrammi e perfino di formule matematiche. Vi sono state dall’altro lato culture in cui apparentemente l’elemento religioso è stato spinto in modo paragonabile alle conseguenze più astratte. Così è avvenuto nell’«apatica estasi» (Max Weber) dell’antico buddismo, dove l’impulso di redenzione che spingeva verso il nulla ignorava con grande superiorità l’etico della famiglia, il biologico della riproduzione, il politico della vita associata, il lavoro, e tutto ciò che si può concepire come legato ai compiti positivi della vita. E infine la cultura egiziana ha elaborato il più puro concentrato di potere sovrano che sia mai stato ottenuto, dalla divinizzazione del re fino alla più precisa amministrazione statale e burocrazia della pianificazione, e fino al diritto del re a conferire in singoli casi l’immortalità. Entro il contesto di tali fenomeni andrebbe visto il processo similmente eccentrico della moderna tecnicizzazione. E se questo autoaccrescimento diviene di dimensioni mondiali, è perché si basa su condizioni in precedenza mai verificatesi: sulla indipendenza della razionalità tecnica con il suo linguaggio matematico da tutti i linguaggi naturali, e sull’indipendenza dei dispositivi tecnici dell’ambiente culturale in cui avevano avuto origine, di modo che improvvisamente vediamo crescere questi impianti nei deserti e nelle regioni ghiacciate, perché i problemi del clima, del trasporto, eccetera, possono venire affrontati anch’essi tecnicamente. Qui sta un motivo essenziale di disagio: noi avvertiamo che il soggetto della tecnica diverrà l’umanità, non singoli popoli, e che questi ancora ci pendono addosso come abiti troppo larghi. Però tutto ciò che abbiamo in noi di tradizioni e atteggiamenti morali attivi ha una coloritura regional-culturale o nazionale. Un’etica della solidarietà che abbracci l’umanità nel suo insieme è difficilmente immaginabile, tanto meno è realtà.

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È un errore frequente, quasi tipico dei filosofi, che essi, come affermò Madame de Staël, vogliano incatenare l’avvenire (enchaîner l’avenir). Se per esempio si pone la «domanda sul senso» a proposito della tecnica, cioè concretamente la si pone ai tecnici, si giungerà alla conclusione inconfessata che essi stabiliscono i confini del loro lavoro nel futuro stesso. Ora il progresso è però per sua essenza qualcosa del quale non può autenticamente rispondere la singola coscienza. Se non si realizza per un motivo qualsiasi in questo posto, si realizza senza ragione in un altro. Non ci si può più salvare nel modo un po’ ingenuo di Nobel, che inventò la dinamite e poi istituì un premio di milioni perché altri ne impedissero l’uso. Perciò si giungerà, forse dopo grandi catastrofi, a mettere il progresso tecnico sotto controllo e con esso anche la scienza, sotto il controllo di norme etiche sociali, indipendenti dai moti della coscienza singola. Ma anche chi non voglia delimitare la tecnica con la domanda sul senso, ma vuole tenersi ottimisticamente al suo interno, non può pianificare in anticipo il suo futuro senza cadere nelle assurdità della fantascienza. Abbiamo visto che la tecnica non è qualcosa che gli esseri u­ mani abbiano scoperto a un qualche punto con leggerezza o con malvagità. Bisogna anche intendersi sul fatto che le Geisteswissenschaften, che tanto volentieri le si contrappongono, sono divenute possibili solo per via dell’enorme prosperità della stampa nel secolo scorso. E innanzitutto sul fatto che solo pochi di noi sarebbero ancora in vita senza questo sistema tecnicoscientifico. Anche il più grande avversario della tecnica, quando è seriamente malato, vede con gioia una radiografia che dà speranze. I preparati vitaminici con cui si curano i lattanti sono prodotti di fabbrica tanto quanto il latte sterilizzato, e il trapano del dentista è un rumore tanto familiare quanto quello dei motori. La tecnica non si limita così a circondare l’uomo moderno, ma si spinge nel suo sangue.

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Ciò che oggi ci mozza il fiato è in primo luogo una crescita quasi esplosiva del ritmo dello sviluppo. E abbiamo visto come la causa di questo fenomeno stia nel confluire di due correnti, che già da lungo tempo scorrevano l’una accanto all’altra: la tecnica in senso proprio e la scienza naturale. La tecnica ha acquisito dalla seconda la sistematica onnicomprensiva e il metodo pienamente scientifico; la scienza naturale ha acquisito dalla prima l’automatismo dell’esecuzione. Così si è giunti al ritmo strabiliante per l’osservatore della reazione a catena fra scienza naturale, tecnica e industria. Questo ritmo va qualificato come progressivamente accelerato, perché le nuove invenzioni, già abbastanza grosse, si sovrappongono nei loro effetti, di modo che si avviano nuovi sviluppi prima che la tecnica più vecchia sia giunta a una specie di forma definitiva. Non si può più immaginare un fondamentale miglioramento della bicicletta, della ferrovia, dell’automobile e dell’aeroplano con motore a benzina, e anche della tecnica delle telecomunicazioni. È invece apparso l’aereo a reazione, il razzo e, dopo la bomba atomica, il motore atomico. Naturalmente faranno sorgere industrie del tutto nuove, con nuove armi di annientamento, nuove fonti energetiche e nuovi mezzi di trasporto. Ma è decisamente possibile che anche queste tecniche raggiungano relativamente presto il loro stato definitivo, per raggiungere il quale l’automobile con motore a benzina ha richiesto soltanto cinquant’anni. Siamo ora sul punto di penetrare nell’ultimo campo ancora inesplorato della natura inanimata, l’interno dell’atomo, e la famosa bomba atomica è solo un risultato parziale di questa impresa. Quando si pensa che ancora quarant’anni fa l’atomo era accettato da metà degli studiosi come mera ipotesi, come costruzione concettuale, come qualcosa che in senso proprio non esisteva, ci si stupisce anche qui della rapidità dello svolgimento del programma. È anche verosimile che lo sviluppo a un certo punto comincerà a oscillare, e altrettanto verosimile che non ci riuscirà nemmeno il balzo nell’universo che sarebbe

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rappresentato da un viaggio sulla Luna con ritorno. Ed è ancora da non dimenticare che non ci siamo seriamente avvicinati a una sintesi della materia vivente, benché la prima sintesi organica, quella dell’urea, sia riuscita già nel 1828. La tecnica è sempre servita, come abbiamo detto, ad aiutare a vivere e a far morire, anche se non ancora con violenza tanto grande quanto quella di oggi. Di fronte a questa ambivalenza gli esseri umani a ragione reagiscono con altrettanta ambivalenza, la amano e la odiano. Questo saggio dovrebbe condurre alle due conclusioni che le questioni morali veramente grosse diverranno visibilio soltanto quando il processo di distruzione creativa sarà uscito dalla fase di sviluppo esplosivo e sarà passato a una condizione più stazionaria.

6. Arnold Gehlen. La situazione etico-sociale del nostro tempo*6 Nella nostra epoca, sostiene Gehlen, si manifestano profonde modificazioni nel comportamento morale degli individui, in quanto, dopo il crollo sia delle istituzioni che dei sistemi religioso-­culturali, si è enormemente accresciuta la responsabilità dei singoli. La sfera etica è divenuta ipertrofica al punto da farci sentire colpevoli non solo per quanto abbiamo effettivamente compiuto, ma anche per quello che si è verificato senza che ci opponessimo. Si viene così a delineare una nuova etica, o meglio «teleetica», dell’obbligazione nei riguardi di coloro che sono solo virtualmente presenti.

*  Da A. Gehlen, La situazione sociale del nostro tempo (1961), in Id., Prospettive antropologiche, cit., pp. 181-187.

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Mutamento di valutazioni etiche Al bombardamento di informazioni corrisponde da parte del soggetto la costruzione di opinioni, che si fanno un quadro approssimato a partire da queste comunicazioni approssimate. Noi semplifichiamo efficacemente questa caotica immagine di seconda mano del mondo quando riusciamo a ordinare o ad afferrare alcune opinioni fondamentali sui nessi che vi regnano, e tali semplificazioni sono palesemente vitali per un essere con così alta esposizione agli stimoli quale è l’uomo; altrimenti non verrebbero formate con questa ovvietà e conservate tanto caparbiamente. Dato che noi non reagiamo però solo intellettualmente, ma anche sentimentalmente, bisogna sospettare che su questa base di informazioni si instaurino anche atteggiamenti o principi etici, che fino ad ora non erano ancora noti. Al nuovo livello di esistenza dell’umanità proprio della società industriale devono manifestarsi profonde modificazioni anche nel comportamento morale dell’uomo, e diviene gradualmente di interesse antropologico rintracciare le novità anche in questo campo. Per quanto possa essere sorprendente per qualcuno la tesi di una mutevolezza perfino di questi atteggiamenti, questa diviene facilmente comprensibile quando si pensa per esempio che l’umanità nelle condizioni di vita dell’età della cultura antica agraria aveva un contatto con la natura immediato, un contatto infinitamente più denso, quale oggi non è più possibile. Di fronte all’ingovernabile corso degli eventi naturali e alla costante dipendenza dell’uomo di allora dai raccolti e dalle malattie, è comprensibile che la sottomissione al destino e la rassegnazione alla propria sorte divenissero doverosi come la beneficenza e la compassione per le vittime della sfortuna, posto che esse giungevano al cuore immediatamente in modo concreto e tangibile con le loro sofferenze. Questa rassegnazione e capacità di sopportazione, nel nostro mondo basato sul dominio e l’u-

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surpazione, non rientrano più fra le virtù richiesto, e perciò si può dire che il passato permane anche dal punto di vista morale nella sua esemplarità, non per ogni aspetto, ma però in modo notevole in singoli aspetti. La storia stessa fa per così dire barcollare i profili morali. Lo si nota quando si prova su se stessi l’effetto del clima etico di letteratura autorevole precedente. Così Wilhelm Roscher in una delle sue opere principali poté definire sospetto l’amore degli uomini non patriottico e perfino affermare che egli avrebbe visto solo con preoccupazione la totale scomparsa della gelosia nazionale infondata. Particolarmente critica è la posizione delle virtù guerresche. Si sono fatte guerre per millenni, fin dal tempo a cui giunge la memoria umana, ma in un modo relativamente artigianale, pre-tecnico, e le guerre venivano attribuite come le epidemie al permesso divino, non all’iniziativa di singoli esseri umani. Ad esse erano collegate virtù tenute in gran pregio come il valere, la lealtà, l’obbedienza. Questo aspetto della cultura conferiva alla vita nel suo complesso in generale uno stile virile, e l’enorme distanza dai tempi d’oggi diviene chiara nella constatazione che soltanto la virtù guerresca nobilitava. Forse le generazioni future vedranno più chiaramente come l’interesse del capitalismo industriale a condizioni pacifiche, spesso sottolineato da Max Weber, si è tradotto in America in una nuova morale, che infine condusse con il patto Kellogg del 1928 a un bando dal diritto internazionale della «guerra offensiva»: là si trova il termine outlaw. Dall’altro lato le antiche rivendicazioni socialiste dei lavoratori industriali pacifisti vanno nella stessa direzione, e così da due guerre mondiali e dall’offensiva di pace del patto Kellogg e dei sovietici è derivata una specie di scuotimento della sicurezza morale delle virtù guerresche: la loro professione aperta è diventata oggi, specialmente in Germania, difficile.

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Utilizzo questo esempio da un lato per illustrare il cambiamento di contenuto delle valutazioni etiche ma anche per preparare un ragionamento più ampio.

Eccesso di esigenze morali dell’individuo Infatti da quando le guerre di massa tecnicizzate e industrializzate coinvolgono intere popolazioni, è divenuto possibile pensare e sentire da parte di ogni singolo il peso di una corresponsabilità per serie di eventi violenti. Questo singolo non aveva la minima possibilità di influire anche solo nel modo più ristretto sui processi e le concatenazioni causali, e di conseguenza viene sentito come imputabile già il suo atteggiamento ideale di coscienza di fronte ai grandi avvenimenti. Inoltre, ma sempre nella stessa direzione, ci viene oggi consigliato di respingere retroattivamente l’atteggiamento morale dei nostri nonni e dei loro antenati, specialmente quando, come nel caso delle colonizzazioni europee che sono oggi venute in odio, si tratta di processi di portata mondiale che si svolgono nel corso di secoli. Da tali impossibilità si può dunque soltanto concludere che qui c’è qualcosa che fondamentalmente non funziona, ma che è derivato un eccesso di esigenze morali del singolo essere umano dalla prospettiva errata secondo la quale il suo organo morale sarebbe assolutamente competente per eventi su scala mondiale. In precedenza lo si presupponeva solo per Dio. In realtà non è vero che l’organo morale umano abbia lo stesso ambito di competenza del sistema dell’informazione che copre il mondo intero: è messo a punto su ciò che sta vicino, per lo meno primariamente, e così si ha l’impressione che una teleetica sorta di recente si trovi per ora nello stadio dei tentativi ed errori. Per giudicare questa affermazione certamente sorprendente bisogna prima sapere che dal punto di vista antropologico vi sono molteplici radici separate dal comportamento morale, di cui ora farò un breve elenco.

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In primo luogo alcuni di questi moti dell’animo hanno indubbiamente fondamenti istintivi, come l’atteggiamento affettuoso nei confronti dei bambini piccoli, che è tanto spontaneo non solo nelle donne ma anche nel sesso maschile che un bambino abbandonato trova sicuramente chi se ne prende cura e riesce a rimanere in vita. Vi è anche una inibizione contro l’uccisione dei membri della stessa specie, il cui nocciolo istintivo è ancora percepibile nell’uccisione di animali, una inibizione che almeno entro il proprio gruppo funziona in modo in una certa misura affidabile. In entrambi i casi però le regolazioni istintive non funzionano in modo affatto sicuro. Qui agisce la tipicamente umana insecurizzazione degli istinti, e proprio per questo i moti naturali sono protetti da un esplicito dover essere, nella forma di una consapevole esigenza etica che per così dire porta ulteriori argomenti nella stessa direzione. Giungiamo a un gruppo totalmente diverso di fenomeni nel campo dell’etica quando prendiamo in considerazione le istituzioni, cioè strutture durevoli di cooperazione umana ordinata, e quando poi scopriamo che gli esseri umani in queste istituzioni fanno fronte insieme a tipiche situazioni della vita. Il tribunale giudica, la scuola educa: vi sono in questi casi esigenze deontologiche che sorgono chiaramente dai fini di queste istituzioni. E infine si può trovare qui il passaggio all’ethos professionale di professioni investite di particolari responsabilità, come nel caso del medico o dello scienziato ai quali si presentano esigenze deontologiche particolari. In terzo luogo un ulteriore catalogo di obbligazioni discende semplicemente dalla necessità di relazioni (Verkehr) dirette e di un accordo diretto fra gli esseri umani. Esiste un’etica razionale delle relazioni, senza la quale non sarebbe pensabile alcuna durevole coesistenza, ed essa si applica anche all’estraneo non appena entra nel nostro campo visivo. A questo livello le regole etiche degli stoici, formulate per la circolazione (Verkehr) nell’impero mondiale romano, non si distinguono da

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quelle che noi osserviamo nei viaggi. Si ha qualcosa come un muto scambio di reciproco comportamento razionale.

Sviluppo di una «morale di seconda mano» Ho però l’impressione che con queste tre classi di fenomeni non si sia ancora abbracciata tutta la vita del dominio etico e che noi ci troviamo in una delle rare fasi in cui nuovi problemi etici tentano di venire alla luce. Ho descritto in precedenza l’enorme portata del nostro campo di informazione, e sembra che il nostro senso di responsabilità cresca di pari passo. Sta così sorgendo una specie di morale a distanza, che si estende fino alla periferia dell’informazione e che soprattutto non ha una comprensione di se stessa in termini religiosi. Questa è un’altra novità, e l’evento sta ancora in visibile interconnessione con l’ampliamento realizzatosi per motivi puramente tecnici del nostro campo secondario di esperienza. Si tratta per così dire di una «morale di seconda mano», che però nel vissuto viene a valere come immediata, ciò che del resto vale anche per le nostre opinioni. Così oggi torniamo a sentirci responsabili non tanto per la salvezza dell’anima di esseri umani sconosciuti quanto per il loro benessere razionale e degno dell’uomo e siamo pronti anche a sacrificare qualcosa per questo. Quando l’opinione pubblica di paesi più ricchi sostiene gli aiuti ai popoli bisognosi di sviluppo, ai quali bisogna donare generi alimentari e medicinali e ai quali inoltre si vuole garantire investimenti e possibilità di produzione, non sono solo motivi di prudenza politica e di previdenza e l’interesse a trovare sfoghi per una sovrapproduzione a spingere in questa direzione. Si tratta invece del fatto che sorge un eudemonismo sociale direttamente come senso di obbligazione. Si tratta del rovesciamento menzionato in precedenza dell’accettazione ancora passiva di situazioni da sopportare. Questo fenomeno è

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del tutto nuovo anche in quanto si tratta di un partner astratto dell’informazione: nessuno di noi ha la conoscenza immediata di questi popoli, a parte rare eccezioni, e nessun singolo fra noi può agire lui stesso direttamente in senso proprio, e tuttavia su questo tema sta sorgendo qualcosa come un senso di responsabilità comune e del resto notevolmente popolare. Qui entriamo in un campo di fenomeni finora ignoti, e non sempre le responsabilità di nuovo genere sono così chiare come nell’esempio appena dato. In altri casi si tratta di pretese morali che sono semplicemente da respingere. Perché quando grandi sviluppi del tutto sovrapersonali e masse di eventi di dimensioni planetarie si semplificano e rimpiccioliscono nella nostra testa in modo tale che la coscienza riempita di principi etici e di intenzioni comincia a sentirsi responsabile, allora si giunge a un eccesso di pretese morali in forza di una illusione ottica interiore. Ho già citato anni fa un detto di Gustave Thibon che affermò che la condizione moderna costringe gli esseri umani «a farsi opinioni e sentimenti su realtà che vanno infinitamente al di là della loro sfera intellettuale e affettiva normale». Bisognerebbe prendere molto sul serio questo detto: esso ci consiglia di tenere decisamente sotto controllo i sensi di obbligazione troppo dilatati. Come esempio di una pretesa insostenibile ho citato la seguente dichiarazione di uno scienziato molto noto che dice: «La ricerca è responsabile della situazione contemporanea dell’umanità. Essa ci ha tolto dal paradiso legato alla natura dei nostri antenati, ha creato di fatto le armi, che oggi ci minacciano di autoannientamento». Ciò vale a dire: la ricerca è responsabile. Io lo nego. Io ritengo che del progresso, nel senso di sviluppo della scienza e della tecnica, comprese le loro irrimediabilmente innumerevoli conseguenze dirette e indirette, proprio nessuno sia responsabile. Questo progresso è diventato una inviolabile legge della vita dell’umanità. Nessun singolo deve portare una responsabilità

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morale per esso. Ci si è imbarcati da tempo su questo elemento: non esiste via di ritorno e vi sono solo soluzioni in avanti. La formulazione di una nuova etica dell’obbligazione nei confronti dei non presenti, di una teleetica di questo genere, rientra quindi nei compiti degli uomini pensanti. Atteggiamenti morali non dimostrati su questi temi sono insostenibili. Il nostro rapporto con il prossimo, con la professione e con lo stato è in una certa misura chiarito dal punto di vista morale e giuridico. L’umanità invece è, come concetto empirico, ancora non chiaro. Sta cominciando appena a fare conoscenza con se stessa e il prodotto di questo processo di conoscenza non è ancora tanto afferrabile da potergli attribuire un chiaro carattere vincolante. Ci troviamo ancora per questo aspetto in una situazione in cui prevalgono l’eccesso di pretese e la sconsideratezza, ma solo una situazione di sfinimento del pensiero ci potrebbe definitivamente togliere la parola.

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Capitolo III Le modalità di organizzazione del vivente in Helmuth Plessner

1. Helmuth Plessner. Ancora dell’antropologia filosofica?*1 Plessner è uno dei fondatori della moderna antropologia filosofica. In questo saggio egli ci presenta la nascita della disciplina, intesa in senso moderno, nei paesi di lingua tedesca intorno al 1920. Ne mette in luce i rapporti sia con la fenomenologia che con l’esistenzialismo e con le filosofie della vita e della storia, ma sottolinea, al contempo l’importanza delle scienze biologiche e naturali nell’analizzare l’organismo umano e il suo modo di esistere nel mondo realizzando così la sua natura essenzialmente sociale. La sua ricerca antropologia si articola così nella valutazione filosofica dell’uomo, della società e della storia.

L’esigenza di un’antropologia filosofica è il tardo riflesso di un lungo cammino percorso dal pensiero moderno applicatosi all’uomo, che ha immerso la sua natura in una luce tanto più chiara, quanto più il suo ruolo nel mondo diventava oscuro.

*  Da H. Plessner, Ancora dell’antropologia filosofica? (1963), in Id., Al di qua dell’utopia. Saggi di sociologia della cultura, tr. it. di F. Salvatori, Marietti, Torino 1974, pp. 187-199.

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Tardi, nel decorso di questa storia, si è svegliato l’interesse empirico per cose umane, tardi si è canalizzato in un metodo scientifico proprio, perché la teologia ha dominato la scena ancora nel Settecento. Solo più tardi le narrazioni di viaggi e le notizie di scoperte furono prese sul serio per la conoscenza, e si cominciò a confrontare il proprio mondo con quello non cristiano. Francesi e inglesi furono naturalmente i primi, data la loro esperienza di colonizzazione. La letteratura tedesca seguì titubante. L’antropologia di Kant, un’opera secondaria nella sua produzione filosofica, offre ancora, quasi come in una vetrina delle rarità, frammenti di una psicologia individuale e collettiva antelettera, dal punto di vista prammatico della conoscenza dell’uomo. Per la Germania la scienza empirica dell’uomo diventò rilevante filosoficamente soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, da quando cioè le scienze umanistiche e di tipo storico, la psicologia, la biologia e la sociologia, avevano privato la posizione dell’uomo nel mondo dei suoi ultimi sostegni tradizionali. La scoperta del pluralismo e della storicità dei sistemi di norme umani accese in modo violento la critica al proprio sistema di norme europeo. Con la relativizzazione della coscienza a forze vitali e sociali finì una storia dell’emancipazione dell’uomo dal mondo, svoltasi da Cartesio all’esistenzialismo. In questa situazione si trovano dal 1928 gli sforzi per una antropologia filosofica. È, stato determinante il fatto che essa avesse a disposizione lo strumento della analisi fenomenologica, che le permetteva di ricondurre in una luce originaria sia le affermazioni empiriche sia quelle filosofiche. Ogni volta che affiora il pericolo che le teorie si cristallizzino o i problemi diventino dogmatici, sul piano fenomenologico è sempre possibile un contatto «visivo» diretto, preteoretico, con la realtà che sta al di là del problema e della teoria. Come sia stato interpretato il metodo fenomenologico, è in questo caso del tutto indifferente. L’osservazione dell’essere (Wesensschau) è stata concepita in termini aristotelico-platonici, ma anche in un senso del

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tutto contrario, come ha fatto per esempio Heidegger. Di ciò il metodo fenomenologico non deve preoccuparsi. Sulla questione della sua teorizzazione sorse una controversia quando Husserl nelle Idee del 1913 fece del metodo fenomenologico una filosofia che, con sorpresa di tutti, si immetteva sulla strada dell’idealismo trascendentale. Nella stessa direzione, solo più radicalmente, ha continuato Heidegger, facendo saltare l’orizzonte della coscienza e gli elementi costitutivi dell’ente ereditati dal classicismo greco. Come Husserl, anche lui ha fatto del metodo fenomenologico un principio della filosofia. Ciò non ha niente a che fare con la antropologia filosofica, in quanto per essa i dati empirici della ricerca sull’uomo sono semplicemente premessi. Nel suo orizzonte sono racchiuse le questioni sulla costituzione di quell’organismo, chiamato uomo perché ha possibilità culturali-spirituali. Fin dall’inizio, cioè dalla fine degli anni Venti, queste riflessioni sorsero all’ombra dell’esistenzialismo, il quale si interessava dell’analisi della natura umana e della sua costituzione, solo nella misura in cui essa aveva un significato per il problema delle possibilità dell’uomo, nel mondo di oggi, considerato in una prospettiva religiosa e etico-politica. Poiché l’uomo di oggi attribuisce grande importanza al fatto di poter essere uomo quando vuole esserlo, mentre la fitta intelaiatura dei ruoli nella società industriale lo condanna all’anonimità e alla sostituibilità funzionale nella vita pubblica, a cui egli può resistere solo se si impone come persona, la filosofia esistenzialistica rivolge tutta la sua attenzione agli atti dell’autodecisione e dell’introspezione mentre lascia in ombra ciò che riguarda la natura. Tutto questo dovette comportare delle implicazioni difficilmente districabili tra asserzioni fenomenologiche e esistenzialistiche, non tanto per Jaspers, che è sempre rimasto un kantiano, quanto piuttosto per Heidegger e Sartre. I moralisti fanno di tutto per essere insensibili sia alla natura che alla civiltà (Kultur). I filosofi della morale trovano naturalmente dei validi motivi.

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La natura non risolve loro nessun problema. Ma la «civiltà», questa antica parola magica tedesca coniata nel secolo scorso, è diventata sospetta, da quando ha cominciato a mostrare un volto antiumano, da quando si è cristallizzata in complessi industriali: ha mostrato la sua seconda natura dopo che ha perso la libertà. Ad un pensiero che si occupa dell’uomo in questo suo abbandono, rimangono soltanto due vie d’uscita: una verso l’interiorità, l’altra verso l’azione rivoluzionaria. Ora, una filosofia non coincide con la sua ubicazione storica e sociale. Jaspers ha sempre impedito analisi fenomenologiche. Heidegger e Sartre al contrario le hanno applicate con virtuosismo, solo che per scopi diversi da quelli di tipo antropologico. Nel giovane Sartre e in Merleau-Ponty la problematica antropologica non assume un ruolo minore che nel giovane Heidegger. Tuttavia l’orientamento del tutto diverso dei loro sforzi filosofici rende difficile, se non impossibile, avere un’immagine esatta del loro contributo antropologico e attribuire ad essi un peso per la spiegazione strutturale della natura umana. In Heidegger, dopo la sua opera Kehre (La svolta), un tale tentativo è del tutto proibito. Qui si tratta di un rinnovamento della filosofia nel suo complesso, della revisione dei tradizionali elementi costitutivi dell’essere, alla luce della storicità di una natura aperta al mondo, quale l’uomo si attribuisce. In questo modo si ottiene un ritirarsi dell’uomo nell’essere, tentando così in modo diverso rispetto a Hegel o a Leibniz, ma con uguale ambizione, di bloccare la sua emancipazione come soggetto nella filosofia postmedievale. Seguiamo prima di tutto le tappe fondamentali di questa storia di emancipazione. In essa il soggetto umano assume sempre più nettamente una contrapposizione rispetto al mondo, quanto più esso perde il suo carattere di ordo cristiano e quanto più diventa problematico il ruolo che l’uomo vi deve svolgere. Fra le cause di questa perdita c’è senza dubbio la meccanizzazione della realtà fisica per opera delle scienze naturali esatte. Ai

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suoi inizi l’immagine teorica del mondo non contrasta con le concezioni morali. «Nel modello del mondo delineato da Cartesio, si dovette mettere in discussione il fatto che il meccanismo dell’universo avesse a che fare in qualche modo col fine dell’essere umano. Il meccanismo automatico del corpo che era stato sincronizzato in modo enigmatico e rimasto insoluto per tutta l’età moderna con un ego cogito, non aveva niente a che fare con la coscienza dell’uomo. In questo meccanismo dell’universo l’uomo si sentiva soltanto una funzione, ma nella “visione del mondo” cartesiana l’uomo rimane tuttavia al centro» (Blumenberg). Queste circostanze acquistarono un significato determinante per i secoli successivi. Infatti, la frattura tra il soggetto che accresce continuamente la sua individualità ed un mondo che sviluppa il suo carattere di oggettività fino a diventare una natura soggetta a leggi matematicamente formulabili, non è stata fino ad oggi superata. Appena il suo dinamismo fu avvertito come una minaccia per la libertà etica e per la fede – sono noti i tentativi del Settecento di fare del newtonismo l’etica ufficiale, come nell’Ottocento del darwinismo – e persero credibilità i tentativi di spiegazione metafisica secondo il modello di un’armonia prestabilita. O si limitava la portata delle affermazioni scientifiche – ma allora si pregiudicavano le leggi dell’ordine materiale, opera di Dio – o la libertà. Il noto sistema kantiano della «restrizione» trasforma il problema della natura dell’uomo, nel quale natura e libertà si devono bilanciare, in una questione di critica alle sue facoltà di conoscere, agire, sperare. Ma per poter esercitare questa critica, due cose si devono presupporre: la necessità della critica, e la possibilità della critica. La sua necessità è comprensibile se consideriamo l’insufficienza della precedente filosofia, ma la possibilità di questa critica? Kant si riferisce ad una struttura naturale (Naturanlage) dell’uomo, che stranamente non è conforme alle sue forze. Essa spinge l’uomo troppo in alto o troppo

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in basso, rispetto a quanto egli come uomo può e deve. Questa struttura naturale non fa ancora l’uomo. Questo processo formativo, che aiuta la mia formazione umana, usa uno strumento delle mie facoltà molto differenziato, ma non ulteriormente spiegabile in tutti i suoi aspetti. Kant mette continuamente in evidenza, dalle formule allegoriche di rappresentazione alle categorie, fino alla facoltà immaginativa e alla ragione, il loro carattere di casualità trascendentale. Nonostante che siano concepite come condizioni per il formarsi di una regolare esperienza, esse sono di per sé dei dati di fatto, cioè delle disponibilità sia verso la natura che verso la libertà, ma non ancora fatti della natura. Se la struttura naturale appartenesse alla natura, se fosse soggetta all’empiria, non ci sarebbe posto per la libertà. Da dove proviene questa conoscenza? Che carattere hanno queste asserzioni sulla struttura naturale, sulla serie delle sue facoltà, sulla necessità di moderarle per ridurle a proporzioni umane? Certamente non un carattere psicologico. Ma se questa conoscenza non proviene dall’osservazione personale, ma si acquista solo indirettamente, considerando la povertà di una filosofia insufficientemente progredita, si può dire ancora che si tratta di asserzioni? Ci troviamo dinanzi ad un’ipotesi antropologica posta come strumento di critica, cioè un’antropologia trascendentale con intenzioni critiche, oppure si tratta già dei primi tentativi di una futura metafisica che potrà farsi passare per scienza? Come è noto, i successori di Kant non hanno ancora risolto questa problematica. Basandosi sugli elementi centrali della sua concezione filosofica, essi hanno elaborato quella metafisica anti-ontologica che è sfociata nella filosofia dell’identità dell’idealismo tedesco. Il verdetto di Hegel riguardo ad una critica, che ha la presunzione di esercitarsi nell’orizzonte dell’uomo finale, fu severo: tentativo di imparare a nuotare, prima di avere

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il coraggio di tuffarsi in acqua. Il suo verdetto non solo pose termine a questo sviluppo, ma pose anche un segnale. Quando nella sinistra hegeliana si trattò di ricondurre a una situazione normale la filosofia universale, che era per così dire capovolta e poggiata sulla forza di manipolazione del concetto, e di riportarla a statura umana, si ripeté la stessa scena. Feuerbach volle cominciare dall’uomo concreto. La sua antropologia doveva rinnovare il tentativo di riduzione critica. E che cosa è rimasto dell’antropologia materialistica di Feuerbach nella critica di Marx? Un lodevole tentativo, che rimane prigioniero dell’illusione di poter riuscire a sostenere l’opposizione alla filosofia dell’Io e dello Spirito appoggiandosi sulla Carne, sul Sangue e sull’Amore terreno, e di riuscire a smascherare Dio e l’aldilà come l’ideale di un uomo che in questa vita viene ingannato. Al posto dell’uomo individualmente lacerato, Marx pone l’antagonismo storico-sociale della lotta di classe, al posto di una teoria del soggetto una teoria della storia. Da questa eredità speculativa ci separa un secolo di esperienza dialettica. Nel campo delle trasformazioni del soggetto imposte dall’industrializzazione, è illusorio pensare ad una qualsiasi fine conciliativa. La teoria della possibilità di liberare l’uomo dalla alienazione ha perso la sua forza speculativa in una realtà aperta a possibilità sconosciute. È diventato un concetto con il quale sociologi e esperti di psicoanalisi trattano ormai soltanto i fenomeni della perdita di individualità nella società burocratizzata. Il nostro mondo non ha più un suo momento conclusivo. Il suo progredire non descrive più un cerchio, ma una linea senza fine. Scienza storica e scienza naturale si sono armonizzate. Della storia si è fatto un processo che coinvolge anche il mondo dell’uomo, il suo sorgere e il suo sviluppo. Di fronte a questa concezione storica perde ogni consistenza una concezione chiusa dello sviluppo storico, in quanto esso gli toglie ogni sostegno. Secondo Dilthey il tipo «uomo» si dissolve

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nella corrente della storia e da questa constatazione deduce conseguenze per la conoscenza di se stesso: quello che egli è, lo può venire a sapere dalla storia. Ciò lo potrebbero affermare anche Hegel e Marx (naturalmente qui Marx avrebbe sostituito con preistoria il termine storia), ma allora la frase acquisterebbe un significato diverso. Essa si basa infatti sul concetto di storia finita. Per Dilthey invece la storia è un processo infinito, senza un’epoca centrale o un personaggio di particolare rilievo. La persona umana, plasmata dal classicismo greco e dalla tradizione cristiana, è uno fra i tanti «personaggi» in cui la vita – non il modo di essere – si esprime. Sul palcoscenico della storia, sullo sfondo sempre identico per ogni scena del dramma, la realtà dinamica della vita si svolge in figure storiche, che noi possiamo comprendere perché parlano di sé e del loro mondo in testi e testimonianze. Niente ci resta nascosto – secondo Misch – piuttosto tutto è costruito su qualcosa, che scaturendo dalla natura si spinge avanti nella vita e dalla vita continuamente si richiama alla natura. In Kant l’uomo è un personaggio che incarna l’ideale dell’umanità: un prodotto morale che fa attenzione in modo delicato alle abitudini umane. Per Dilthey l’uomo è piuttosto il prodotto tipico della storia umana che ha agito su di esso. Questo tipo si forma nel processo storico, è il risultato riconoscibile del pensiero cristiano-ellenistico con i condizionamenti inequivocabili dell’epoca borghese. Perciò l’uomo dobbiamo considerarlo anche in un senso diverso, storicamente non specificato: come forma di vita nella realtà dinamica, forma che, plasmata secondo una qualsiasi concezione, può anche trovarsi in contrasto con l’ideale dell’umanità. Tuttavia tutte le culture hanno diritto ad essere prese sul serio nelle loro norme etico-religiose. Il fatto che i popoli di cultura cristiano-ellenistica siano riusciti ad aprirsi verso una dimensione planetaria e a liberare così il loro sguardo, non ha nessun peso di fronte allo storicismo

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della filosofia dinamica. Al contrario, questa scoperta richiede un fondamento filosofico che sia agganciato più profondamente che non i fondamenti delle filosofie che non erano ancora consapevoli della loro storicità. Al tentativo del tardo Heidegger – pur discutibile sia riguardo al punto di partenza, sia al suo procedimento – non si potrà negare la serietà con la quale egli ha voluto rispondere a questa esigenza. In Dilthey l’uomo, in quanto costante dei suoi fattori storici, si annulla. Proprio per questo il suo concetto diventa un problema ermeneutico. La relativizzazione storica radicalizzandosi infrange la prospettiva centrale, costante nella storia del pensiero europeo, indirizzata sull’uomo «razionale», facendo di esso un excentrum, cioè un punto decentrato – la svolta copernicana di Kant si applica ancora una volta a questa relativizzazione, senza volgere lo sguardo indietro verso la concezione ontologica che ha abbandonato. Con questo decentramento dell’uomo il relativismo storico diventa un problema per l’antropologia filosofica, naturalmente solo come questione di lettura e valorizzazione di documenti e testimonianze. Una filosofia della vita sviluppatasi nell’ambito del pensiero umanistico non può infrangere questo orizzonte. La vita dinamica delle forme storiche è vita testimoniata, raccontata, è vita «in persona» non come oggetto fisico. La distanza degli avvenimenti del passato e il superamento di essa attraverso i mezzi artificiali della testimonianza costituiscono un esempio tipico anche dell’accessibilità conoscitiva di questa vita. In questo contesto acquista rilevanza anche ciò che è vitale, la passione, la malattia, la struttura del corpo. Ciò non sarebbe mai possibile in una prospettiva biologica, dove questi elementi vitali non acquistano importanza per l’azione ermeneutica. Limitandosi al prodotto culturale, la filosofia delle forme simboliche di Cassirer si trova in armonia con Dilthey. Solo che essa lavora con un arsenale di forme relativamente costante.

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Sotto questo aspetto Cassirer è rimasto indietro rispetto alla problematica di Dilthey. Anche per Cassirer una definizione della natura umana è possibile solo sul piano funzionale non su quello sostanziale. Non esiste un principio inerente, quasi un vinculum substantiale – come pensava la filosofia scolastica – e neppure esiste una capacità specifica, in base alla quale si possa caratterizzare l’uomo inequivocabilmente. Caratteristico è unicamente quello che egli produce: la lingua, il mito, la religione, l’arte, la scienza, la storia. Una filosofia dell’uomo ha il compito di mediare l’analisi della struttura fondamentale di tutte queste attività e di considerarle come un tutto organico. Così si può cogliere il vinculum functionale che esiste tra la lingua, il mito, l’arte, ecc.: vincolo che rende le diverse attività dipendenti fra loro e nello stesso tempo le individualizza l’una di fronte all’altra. Un tale sistema di funzioni sta alla sua origine: sorgente non occulta, da cui scaturiscono le funzioni. Esse non si possono organizzare in sistema da un punto di vista logico, ma piuttosto morale, come fasi della progressiva autoliberazione dell’uomo nell’edificare un mondo ideale. È evidente in questa impostazione l’influsso del carattere positivistico del tardo idealismo. Al posto delle domande dalla cui risposta dipende la mia esistenza umana, è subentrata la ricerca delle forme nelle quali l’uomo specificamente si esprime. Lo riconoscerete dai suoi frutti. Perché siano presenti questi frutti e non altri, non può essere rivelato dalla teoria, perché il suo legame funzionale non fa trapelare niente di tutto questo. Il legame funzionale deve rimanere in stretto rapporto con le manifestazioni che ora si verificano, perché l’uomo, che in esse si manifesta e per il quale esse funzionano, soltanto attraverso di esse è caratterizzabile, mentre non può presentarsi direttamente come soggetto comprensibile. Esiste solo come insieme di prestazioni. In Kant le cose stanno diversamente. Secondo Kant bisogna tener conto del sovrappiù di un elemento imponderabile, secondo Cassirer no. Il soggetto si dissolve sempre

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nelle sue prestazioni, che appunto per questo rappresentano simbolicamente il soggetto. Naturalmente lo sa anche Cassirer che l’uomo è un essere vivente, ma non ne fa uso filosoficamente. Le forme d’espressione degli animali gli servono solo come elementi di contrasto, per mettere in evidenza sul loro sfondo le forme espressive tipicamente umane. Il loro significato funzionale rimane oscuro, perché non si sa per chi esse funzionano. Una «antropologia filosofica», che già nei suoi primi tentativi si limita alla cultura in quanto prodotto, non può affrontare la problematica di questo significato funzionale. Ciò è possibile soltanto partendo da una posizione situata al di fuori dell’orizzonte, alla quale si riferisce la identificazione delle prestazioni umane con l’organismo umano. È dubbio che un kantiano come Cassirer o uno storico delle idee come Dilthey abbiano il coraggio o perlomeno l’interesse a vedere in questa identificazione tra organismo e prestazioni più di un semplice fatto empirico. Dove inizia la dimensione corporea, finisce per loro la filosofia. Secondo l’opinione oggi dominante, questo incantesimo è infranto con la fenomenologia dell’esistenza. Quello che c’è di vero è che il concetto di esistenza elimina la problematica, o se si vuole le toglie la sua validità, dal momento che esso sostituisce il soggetto della coscienza (Bewusstsein) – questo punto di fuga della riflessione, che è sì legato al corpo di un uomo, ma non è limitato ad esso – col soggetto dell’esistenza (Dasein): un modo di essere (Sein) che è tipico dell’individuo concreto in quanto natura finita e circoscritta dalla morte. In questo tipo di essere è inclusa in modo essenziale la «corporeità». È per questo che né i marxisti, né gli psicologi trovano difficile operare col concetto di esistenza. I marxisti possono conservare di fronte alle prospettive della filosofia esistenzialista lo stesso grado di libertà che ha l’analisi psichiatrica dell’esistenza nei confronti

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della psicanalisi o della speculazione ontologica. L’assunzione teoretica del concetto di esistenza e la sua motivazione fenomenologica come anche la sua applicazione costituiscono un affare a sé. Ma già il concetto stesso, non c’è dubbio, ha reso possibile che concezioni tra loro ostili, come il marxismo, la psicologia ermeneutica e l’analisi dell’esistenza, intravedano la possibilità di instaurare un dialogo. Ciò che tuttavia manca al concetto di esistenza, ciò di cui esso non tiene conto, è la immensa concatenazione tra il modo umano di essere e l’organismo dell’uomo. La corporeità, come momento strutturale dell’esistenza concreta, con la quale essa si deve confrontare e che la pervade con i suoi diversi modi di disponibilità e di resistenza, non assume rilevanza in quanto corpo. Ciò viene lasciato alla biologia e alla scienza che si occupa della natura organica. Tenendo conto essenzialmente anche della corporeità nel modo di esistere degli uomini nel mondo, l’analisi dell’esistenza elimina il fenomeno umano come problema della corporeità nella sua fattualità. Gli rende impossibile di trovare l’aggancio al mondo fisico, come faceva del resto anche il trascendentalismo critico, naturalmente con motivazioni diverse. Non ne resta colpito ciò che chiamiamo manifestazione esteriore dell’uomo in senso esistenziale, cioè il suo volto, il suo sguardo, le qualità rilevanti sul piano erotico-estetico, perché esse appartengono alle forme costitutive della corporeità. Nella linea di pensiero di Kant, della filosofia della identità e del neokantismo, la natura è l’altro, il costituito, il prodotto di funzioni creative. E anche come ente spirituale nella sua alterità non è altro che un momento intermedio sulla via del ritorno alla origine (anche per Marx nell’uomo come natura sociale l’accento è posto sul sociale, ed è il libro aperto dell’industria che contiene tutta l’antropologia). Anche Heidegger si deve considerare come un momento ulteriore sulla stessa linea. Al posto delle leggi della coscienza, abbiamo adesso le leggi

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dell’esistenza, nel cui orizzonte ricompaiono tutte le immagini concettuali già elaborate dal trascendentalismo, trasformate naturalmente in differenziazioni ontico-ontologiche. Nell’ambito delle scienze naturali la natura acquista significato dalla tecnica. Ma come physis e forza creativa esige che si completi quella svolta, per la quale per esempio non sarà più possibile contrapporre l’uomo, essere vivente che possiede il dono della parola, agli altri tipi di esseri viventi. Ciò deve subire il confronto con le esigenze dell’essere. Ma ciò significa che l’antropologia filosofica è qui come altrove un insopportabile ibrido, una problematica momentanea, senza senso in una filosofia dell’uomo. I tentativi di Bergson, Scheler, Teilhard de Chardin sono quindi già falliti in partenza. Con le dimissioni della «filosofia della vita» a favore della «filosofia dell’esistenza», anche il problema della concatenazione di monopoli specificamente umani con l’organismo dell’uomo scompare immancabilmente dal raggio visivo. Ma che cosa vuol significare il superamento dell’antropocentrismo? A vero che ha reso possibile la storicizzazione della natura umana e delle sue concezioni, ma si è arrivati al punto di non dare più nessun rilievo alla natura se non per la circostanza che se ne ha bisogno per morire. Se si ritiene il metodo fenomenologico capace di spiegare l’essere, perché poi fermarsi solo al fenomeno del linguaggio? Perché l’essere si esprime? La fissazione sul linguaggio come dimora dell’essere – un’eredità del metodo fenomenologico che vuole arrivare alla cosa attraverso il significato delle parole – è la controparte della tecnica liquidatoria di ogni questione metafisica con l’aiuto dell’analisi linguistica. Tra l’esaltazione della lingua e il suo depauperamento i fenomeni diventano irrilevanti. E non ci si deve allora meravigliare se la filosofia dell’esistenza favorisce involontariamente una teoria afilosofica dell’uomo, che si comporta come se il dimenticato problema della natura si potesse nascondere prendendo in prestito elementi dal museo del behaviorismo.

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Naturalmente, in questo superamento dell’antropocentrismo come ultima volontà testamentaria della storia dell’emancipazione del soggetto, tutto dipende dalla prossima mossa anche nel metodo. Questo passo in avanti segue il cammino che noi percorriamo dal tempo di Copernico e di Darwin, il cammino seguito dalla ricerca storico-culturale sull’uomo. Forse ci condurrà ad un punto in cui vedremo infranto il monopolio, oggi ancor valido, dell’uomo come unico essere razionale. Ma allora la problematica antropologica riceverebbe un aspetto pratico. La possibilità di altre forme di vita, a livello universale, che godano del dono della ragione, non è mai stata esclusa. Oggi che sul piano tecnico si pone già in questione il nostro provincialismo terreno, di quella possibilità si parla già come di una probabilità. Noi sulla terra conosciamo l’uomo solo come ominide. Ma chi ci dice che la sua forma di vita sia l’unica possibile per un essere finito, che goda di intelletto e forza creativa?

2. Helmuth Plessner. La posizionalità dell’esistenza vivente: pianta, animale, uomo*2 Plessner, all’interno della sua ricerca filosofica, dedica ampio spazio all’analisi delle condizioni in cui gli esseri viventi si manifestano nella loro realtà biologicamente determinata. La pianta è una “forma aperta”, inserita nell’ambiente di cui fa parte senza potersi distinguere da esso, l’animale è una “forma chiusa”, un organismo autonomo condizionato da un rigido determinismo biologico, i cui limiti sono precisi e intrascendibili. L’uomo è un corpo vivente, è nel suo corpo, è fuori del corpo: è un “essere eccentrico”; unico fra tutti i viventi, ha in

*  Da H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 243-251; 261-269; 312-317.

313 sé una duplice modalità: “essere un corpo” e “avere un corpo”, l’in sé e il fuori di sé, l’interno e l’esterno, l’organismo e l’ambiente, l’empirico e il metaempirico e, nella relazione dialettica tra questi due piani, realizza la propria essenza.

La forma di organizzazione aperta della pianta In nessun luogo di cui si abbia esperienza la vita compare in genere in una sola forma. La forma è sempre determinata e si lascia annoverare in ogni caso nel typus dell’organizzazione vegetale o in quello dell’organizzazione animale. Certo, negli organismi unicellulari si danno casi ambigui, come pure vi accade che la riproduzione e la morte possano coincidere. Ma nel passaggio ai pluricellulari si presenta palesemente l’alternativa obbligata tra la pianta e l’animale. E non è da negare l’ipotesi che in questa differenziazione obbligata si renda manifesta una legge essenziale del vivente in generale. Se è vero che l’organismo ottiene l’unità solo grazie a un ciclo vitale che lo tiene in sé e lo porta fuori di sé, e che con ciò esso raggiunge il suo scopo, sorge la domanda come questo stato di cose stia insieme alla inevitabile chiusura di un corpo. Ogni corpo spaziale è una cosa limitata e vincolata a delle pareti, e le superfici delimitanti sono in ogni caso presenti e dimostrabili, anche se nei loro diversi stati di aggregazione non sono determinabili con la stessa facilità dalla grossolana esperienza sensibile. Per la cosa vivente si presenta qui un conflitto radicale tra la costrizione alla chiusura come corpo fisico e la costrizione all’apertura come organismo. La cosa vivente trova la soluzione del conflitto nella sua forma, la cui impronta diviene sensibile nella rispettiva forma gestaltica del typus, senza tuttavia comparire essa stessa nel fenomeno. Essa indica qui l’idea di organizzazione – e un’idea è evidente essenzialmente solo in modo mediato –, secondo la quale il corpo vivente concilia la sua indipendenza cosale con la sua dipendenza vitale.

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Il presupposto del compromesso nella forma è naturalmente il conflitto che compare solo là dove abbia luogo l’organizzazione, in senso stretto quindi solo nei viventi che mostrano più gradi (pluricellulari). Gli unicellulari possono raggiungere un’organizzazione, ma qui, per il modellarsi dell’intero da una sostanza di base protoplasmatica continua, la parte rispetto all’intero rimane in una posizione per principio diversa da quella che si determina nei pluricellulari, fondata sulla specializzazione delle cellule e del tessuto. L’osservazione di Kühn sull’ameba, che in certe condizioni assumeva la forma di un flagellate, indica in modo particolarmente chiaro il problema di tutta la morfologia dei protisti. Così si è parlato sempre di organelli e non di veri e propri organi, nell’unicellulare. Una volta che la vita abbia imboccato la via pluricellulare, ha altresì imboccato quella del conflitto tra organizzazione e corporeità, e lo deve quindi ricomporre nella forma. Tale ricomposizione è possibile in due modi, nella forma aperta e nella forma chiusa. Se si effettua nella forma aperta si ha una pianta; se invece si realizza nella forma chiusa la cosa vivente presenta le caratteristiche dell’animale. Piante e animali sono dunque ben separati idealmente nella modalità dell’organizzazione; ragione per cui per molte proprietà si differenziano tra loro solo gradualmente e per alcune possono anche corrispondersi. Per questo una distinzione puramente empirica tra piante e animali urterà sempre contro le più grandi difficoltà, non potendo essa trascurare la considerazione delle forme intermedie. (L’uso dei concetti «forma aperta» e «forma chiusa» per distinguere l’organizzazione della pianta e dell’animale risale a Driesch. Driesch però non attribuisce a questa contrapposizione un significato assoluto, poiché per lui ci sarebbero «forme aperte» anche nel regno animale – nei coralli, negli idrozoi, nei briozoi e nelle ascidie – e analogie con la formazione della

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forma vegetale; e d’altra parte, poiché molte piante non rappresentavano propriamente degli individui ma delle colonie, cose di diverso grado vengono messe le une dinanzi alle altre). […] È aperta quella forma che inserisce l’organismo, in ogni sua esternazione vitale, immediatamente nell’ambiente e lo rende una parte non indipendente del ciclo vitale a lui corrispondente. Su piano morfologico, ciò si mostra nella tendenza allo sviluppo di superfici direttamente protese verso l’ambiente, verso l’esterno, cosa essenzialmente in relazione con l’assenza della necessità della formazione di un qualunque centro. I tessuti utili alla solidità meccanica, alla nutrizione, alla conduzione degli stimoli non sono «assemblati» anatomicamente o funzionalmente da organi particolari, bensì attraversano l’organismo dal suo strato esterno al suo strato interno. In seguito alla mancanza di qualche organo centrale in cui il corpo intero sia collegato o rappresentato, l’individualità dell’individuo vegetale non risulta come costitutiva, ma solo come momento esteriore della sua forma fenomenica e dipendente dalla singolarità della formazione fisica; in molti casi resta di fatto ampiamente salvaguardata l’autonomia reciproca delle parti (innesto, talea). Un grande botanico ha espressamente denominato la pianta «dividuo». […] Questa incompiutezza essenziale viene alla luce in modo caratteristico nelle cosiddette zone embrionali, che nelle piante meglio organizzate si trovano nei punti vegetativi delle gemme e nel cambio tra il legno e la corteccia, e da cui possono continuamente prendere avvio la differenziazione e la crescita. In questo modo si conserva sempre un materiale informe ma suscettibile di assumere una forma gestaltica, paragonabile al germe in quanto zona dell’organismo differenziato che ha immediatamente in sé una riserva per la propria formazione. Anche l’organismo animale ha delle zone embrionali nel-

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le cellule germinative, cioè ha dei sistemi di equipotenzialità armonica nel sistema equipotenziale armonico del suo corpo; essi sono però al servizio della produzione di nuovi individui, non (immediatamente) della differenziazione della sua propria corporalità. L’incompiutezza non coincide affatto con la mancanza di formazione. È anzi proprio la formazione matura a condizionare il carattere essenzialmente non chiuso dell’intero, che in tal modo si presenta nel fenomeno. Radici, foglie, fiori, frutti, dalle forme più primitive alle più differenziate, nel servire allo scopo della nutrizione, della conduzione degli stimoli e della sessualità, sottolineano, ciascuno in modo diverso, quella installazione nel medium circostante che è sempre stata indicata come assoluto abbandono, autosmarrimento e dissoluzione nel circuito funzionale della vita della specie e ha dato motivo, in particolare, all’interpretazione psichicista dei fenomeni vitali, affinché si potesse parlare di essenza estatica delle piante. Il preponderante significato della riproduzione nelle piante non è altro che l’espressione del senso transitorio, dell’essenza passeggera della forma aperta, che nello stesso modo regola nei suoi mezzi lo svolgimento della riproduzione. Il polline viene trasferito con l’aiuto dei venti e degli insetti; il colore e la forma dei fiori, i saccaridi dei nettari, le cere del polline, le sostanze aromatiche provvedono all’adescamento degli animali che devono trasferire il polline; sostanze chimiche provvedono all’adescamento degli spermatozoi per la fruttificazione. L’incorporamento immediato dell’organismo nell’ambiente, con le sue superfici che ne costituiscono la forma, si manifesta, come nel ciclo della riproduzione, nel percorso circolare del metabolismo complessivo. Una caratteristica specifica della vita vegetale consiste nel fatto che le piante, contenenti clorofilla, sono in grado di compiere la sintesi di sostanze organiche molto complesse oltre che dalle combinazioni organiche, an-

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che da corpi inorganici elementari presenti nell’acqua, nella terra e nell’aria con l’ausilio della luce solare (questa capacità si riscontra solo nelle piante). Ma la differenza generale tra il ricambio organico vegetale e quello animale si rileva nella differenza solo graduale tra la preponderanza di assimilazione, la scarsa produzione di calore e l’emissione di ossigeno nelle piante, e la preponderanza di dissimilazione, l’abbondante produzione di calore e l’emissione di anidride carbonica negli animali. Poiché le superfici che lo formano partecipano interamente al processo metabolico e tale processo è condizionato dal contatto diretto della corporalità con il medium – contatto che provvede al rifornimento delle sostanze inorganiche e organiche e della luce solare –, cade qualunque differenziazione dei tessuti in organi per la nutrizione, per la digestione e per l’espulsione. Una suddivisione in tappe della trasformazione delle sostanze è superflua. Anche quanto a questo la pianta è «né guscio né seme, ma tutto insieme». Le forme parassitarie saprofite, vincolate nel nutrimento alle sostanze organiche, così come quelle «normali», colorate, dotate di clorofilla, sono prive di una digestione specifica (come processo che si compie separatamente). Del resto, la considerazione istruttiva ed essenzialmente già altrimenti fondata secondo cui le forme verdi e libere esprimono al meglio l’essenza della pianta è autorizzata dal fatto che la sintesi delle preziose albumine, così come quella di tutto il materiale cellulare vivente da combinazioni elementari inorganiche, rappresenta comunque la prestazione più singolare della forma aperta in ambito nutrizionale. Qui dunque si mostra anche sul piano chimico ciò che altrimenti diverrebbe riconoscibile nella sua elaborazione solo nel typus. Con eguale diritto si individua una caratteristica della forma aperta nella mancanza di movimento locale. La stragrande maggioranza delle piante vive nella fissità, ciò che corrisponde al massimo grado di installazione nel medium circostante. Ma neanche questa caratteristica determina la differenza essenziale

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della pianta rispetto all’animale. Il movimento locale compare anche negli organismi vegetali; ma innanzitutto esistono forme di vita statica negli animali. E se pure il movimento locale fosse una sorta di prerogativa della forma chiusa, non si potrebbe dire lo stesso per il movimento parziale in un luogo fisso. Nel regno vegetale i fenomeni del movimento si attenuano solo proporzionalmente. Nei loro processi, che per la maggior parte hanno un andamento ritmico, essi sono completamente assoggettati alle condizioni determinate dal medium e dalle trasformazioni del corpo funzionalmente adattato. L’apertura e la chiusura dei fiori, la posizione diurna e notturna delle foglie, l’orientamento del gambo verso la luce o delle radici per la forza gravitazionale non sono in alcun modo mediati da un centro, non sono movimenti risalenti a impulsi istintivi o magari volontari. Per usare le parole di Hedwig Conrad-Martius: i movimenti si verificano nella pianta, non procedono «dalla» pianta; come d’altronde la forma aperta non ha un centro che renda possibili spinte motorie istintive, impulsive o volontarie. Sino ai tempi più recenti, sotto il predominio del pensiero fisiologico improntato allo schema funzionale animale, ci si è attenuti all’idea che anche nelle piante siano da supporre dei processi riflessi. Si parlava di fototassi, geotassi, chemiotassi vegetale, o quanto meno si assumeva come base delle forme di fototropismo, stereotropismo, chemiotropismo, geotropismo lo schema riflessivo, ovvero lo schema della risposta a uno stimolo mediata da un centro. Successivamente, soprattutto con Haberlandt, allorché venne dimostrata l’esistenza di particolari cellule sensibili alla luce, alla pressione, alla forza gravitazionale, fu naturalmente facile parlare di organi di senso che percepiscono lo stimolo e lo conducono agli effettori del movimento. Non si potrà dubitare del ruolo di sostegno di tali zone di percezione per l’esito dei movimenti da stimolo di orientamento luminoso, gravitazionale o altro, anche se va fermamente rifiutato il confronto con gli organi di senso, che devono mediare

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con l’oggetto dello stimolo (qualunque dimensione abbia). Non meno infondata è la comparazione dei processi di conduzione degli stimoli con i processi nervosi. A prescindere dal fatto che in molti casi un rapporto di conduzione non è dimostrabile, benché la compattezza del legame cellulare lo lasci supporre, i rapporti di conduzione non hanno luogo solo tra le cellule del sistema di conduzione degli stimoli, bensì anche tra le cellule parenchimali con lo scorrere del plasma. Gli effetti degli stimoli geotropici e fototropici possono trovare nel corpo vegetale una diffusione relativamente ampia (si vedano al proposito i lavori riassuntivi di Haberlandt, Nĕmec e Fitting). Anche le ricerche di Blauw e dei suoi allievi hanno ottenuto risultati sorprendenti che rappresentano un importante progresso per il chiarimento delle reazioni tropiche nelle piante. Esse rendono estremamente verosimile che, ad esempio, la positiva reazione fototropica di crescita nel germoglio di avena si fondi su di una inibizione della crescita del lato rivolto verso la luce. Se si suppone che le sostanze che regolano la crescita, distribuite in eguale misura sul tessuto, dalla cima si spostino verso la base del germoglio e che queste sostanze si decompongano fotochimicamente, allora la crescita prevale facilmente sul lato in ombra e il germoglio si piega verso la luce. Nella medesima direzione conduce anche la spiegazione delle reazioni di crescita nelle piante rampicanti. Naturalmente, fa impressione osservare in filmato i movimenti di un viticcio di cucurbitacea o di un convolvolo, abbreviati di un decimillesimo rispetto al tempo reale, i quali da una fase di «ricerca» di un punto di appoggio passano a una fase in cui il viticcio si volta indietro e trova in se stesso l’appoggio per una crescita regressiva. Anche qui non c’è la minima ragione per supporre alla base di questi fenomeni dei processi della sensazione o anche solo dei processi mediati da un centro. Anche qui, la reazione sensata non si determina come risposta alla situazione oggettivamente presente al vivente, ma solo in conformità con le leggi della

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crescita. Si può forse dire che la pianta, come forma aperta, non avrebbe potuto rispondere meglio a una situazione come questa se possedesse il dono della coscienza e sentendo scoprisse l’unica delle possibilità esistenti. Così, con l’inibizione delle sostanze di regolazione della crescita, le viene tolto qualcosa che alla forma chiusa riesce solo con la mediazione della situazione stessa, vale a dire con la sua oggettivazione. Sensazione e azione (vale a dire movimenti modificabili attraverso l’associazione e mediati da un centro) sono in contrasto con la forma aperta. Le ricerche estremamente meritevoli di Erich Becher atte a dimostrare l’esistenza di associazioni semplici nella drosera «carnivora» hanno dato un esito negativo. Senza un fondamento storico per le reazioni o una memoria, i movimenti di queste piante apparentemente predatrici si realizzano in modo puramente meccanico. Il principio bergsoniano secondo cui «la plante est un animal endormi» è la professione di fede di ogni romantico. Poiché infatti essi intendono interpretare i fenomeni vitali a partire da un’intuizione introspettiva, vi cercano involontariamente qualcosa in cui ci si possa immedesimare. Ma ci si può immedesimare solo con l’interiorità, con l’aspirazione, l’intenzione, la condotta, con una sfera della vitalità chiusa e centralizzata, ciò che essenzialmente manca alla pianta. Perciò la pianta deve essere «dormiente», sognante, e si distingue dall’animale solo per l’assenza di una coscienza desta. Oppure si capovolgono i termini – ma in modo non meno romantico e legato all’immedesimazione – e si vede nella pianta, a differenza dell’animale, qualcosa di eminentemente positivo, uno sfrenato rigoglio, l’incarnazione dell’abnegazione, l’impulso estatico del sentimento, una certezza sonnambolica che non ha più alcun bisogno di coscienza, e che rappresenta nella forma e nella funzione il genio della natura. Ma neanche simili intuizioni avvicinano all’essenza della pianta.

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Assumere simbolicamente l’essenza della pianta come l’incarnazione di un principio che in essa si esprime, come espressione di una forza, di un’anima, di una realtà che non è più essa stessa, significa tradire l’essenza della pianta (come pure l’essenza della natura). Con simili mezzi letterari non solo si sottrae alla natura la grandezza della sua semplicità, ma si fraintende il suo senso proprio, in cui non c’è altro da capire oltre a ciò che vi è di intelligibile. I segreti della natura non si trovano dietro di essa o nascosti in essa come un misterioso testo cifrato, ma sono apertamente visibili. Conformemente a questa legge della fenomenicità dell’essenza, l’idea di organizzazione della forma aperta si mostra in ogni esternazione vitale della pianta come l’unità che fonda i suoi caratteri essenziali, senza il bisogno di ricorrere a forze psichiche o a psicoidi di qualche tipo. Dall’idea però non è possibile dedurre nessuna delle singole manifestazioni vitali; benché con idea si possa intendere ogni significato che determina l’essenza vegetale.

La sfera dell’animale. La posizionalità della forma chiusa. Centralità e frontalità Un essere vivente organizzato secondo la forma chiusa ha la propria realtà nell’essere questo corpo e nell’essere la propria corporalità, ovvero in quanto è nel corpo. Ogni membro e ogni organo risultano rappresentati in una zona dell’insieme corporeo, indipendente dall’intero, in cui si trova il centro spazializzante, il nucleo della cosa vivente. Dal punto di vista posizionale, qui non esiste ancora alcuna possibilità di mediazione tra l’insieme corporeo (che include l’organo centrale) e la corporalità (la zona corporea, a prescindere dall’organo centrale). Dal punto di vista posizionale essi sussistono l’uno accanto all’altra senza che con ciò venga meno l’unità dello stato di cose. L’oscillazione tra le due situazioni dell’essere, cioè il cambiamento dall’essere corpo all’essere spazializzante nel

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corpo, determina una duplicità d’aspetto, ma questa oscillazione, questo cambiamento, anziché annullarsi in sé rappresenta lo stato fondamentale delle cose. Una medesima cosa x non va considerata ora in un modo e ora in un altro, poiché la duplicità d’aspetto di corpo e corporalità non è che l’equivalente posizionale della separazione fisica esistente di fatto tra una zona corporea che include il centro e una zona corporea dipendente dal centro. In virtù di questa duplice modalità (una duplicità dietro la quale non si nasconde alcuna univocità e che non può essere da questa sostituita), la cosa vivente si trova nella distanza dal proprio corpo, cioè nella distanza da ciò che essa è, dal suo stesso essere. La cosa stessa è in esso. La sua posizione è duplice: essa consiste nell’essere il suo corpo e nell’essere nel corpo; e tuttavia essa è una, essendo possibile la distanza dal suo corpo solo sulla base del suo essere in unità con quello. Il centro spazializzante, il nucleo della cosa, rappresenta il soggetto dell’avere, ovvero il Sé. Contemporaneamente, nella differenziazione dal proprio insieme corporeo, esso forma il centro intorno al quale è raccolto e verso cui il corpo e il campo posizionale circostante convergono. Pur non essendo in alcun senso localizzabile, il Sé non è tuttavia privo di relazione con la spazialità. Il fatto di essere spazializzante gli conferisce il valore di un punto rispetto al quale tutti gli altri punti hanno il carattere dello «stare là»; esso è il punto del qui non relativizzabile. Il qui collocato nel corpo, il Sé privo di un luogo spaziale (e quindi il luogo non relativizzabile, il luogo «naturale», essenziale) si determina come qualcosa di isolato, proprio perché possa darsi quella sua distanza dal corpo e contemporaneamente l’unità con esso. E il punto di relazione assoluto sia per il campo posizionale sia per il corpo; è collocato in essi e da essi distaccato e costituisce la semplice mediazione dell’essere del corpo e dell’essere nel corpo in un qui non relativizzabile. Il soggetto dell’avere quindi, per quanto separabile, coincide con l’oggetto dell’avere, cioè con il corpo. Il Sé, unità di sog-

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getto e oggetto, permette altresì la distinzione di soggetto e oggetto, poiché media tra loro nel puro qui. In tale modo, il vivente la cui organizzazione corrisponda alla forma chiusa non è solo un Sé «avente», ma un Sé di tipo particolare, un Sé riflessivo, ovvero un Se stesso. Un simile vivente si può dire che sia presente a se medesimo, e che sulla base della differenziazione da sé crei in se stesso il punto fermo (che tuttavia propriamente non ha, non essendo ancora divenuto un io), in cui vive riflessivamente come un’unica cosa. Il limite della riflessività dell’essere (rispetto a se stesso) si trova però nell’oscillazione ineliminabile tra essere dentro ed essere fuori di sé che, sulla base del semplice essere del corpo, contraddistingue la posizionalità dell’organismo di forma chiusa. Differenziato in sé da se stesso, l’organismo di forma chiusa, l’animale, rappresenta l’unità del cambiamento del punto di vista mediata attraverso il qui. Il qui non è sottratto al cambiamento; non costituisce lo sfondo sul quale si proietta il cambiamento (ciò che si mostrerà come caratteristico per l’io); non è il singolare punto della coincidenza dell’assoluta lontananza (nell’essere stesso) e dell’assoluta prossimità (all’essere stesso), ma solo ciò attraverso cui il cambiamento dall’essere in sé all’essere fuori di sé produce concretamente l’unità dell’essere stesso. Governando il proprio corpo dall’interno e muovendolo mediante impulsi, l’organismo è «nel» qui; la sua esistenza è posta al centro della sua propria corporeità, nella quale è assorbito come centro dell’unità posizionale spazio-temporale. E poiché il qui, rispetto a questa unione, esprime solamente il carattere spazializzante dell’organismo, sarà opportuno introdurre nella definizione anche la temporalizzazione della posizione mediana dell’esistenza animale: anticipandosi, esso è nell’«ora». In quanto qui e ora non relativizzabile, l’animale ha e domina la propria corporalità e con essa il campo che gli è dato.

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La limitazione dell’animale è costituita dal fatto che tutto ciò che gli è dato, il medium e il proprio insieme corporeo – ad eccezione del suo stesso essere, dell’essere il corpo stesso –, si trova in relazione al qui e ora. Nel suo essere è assorbito nel qui e ora senza che ciò gli si oggettivi, poiché non se ne differenzia. Rimane il tramite mediatore della realizzazione concretamente vivente; c’è un semplice vivere. Se nella distanza dalla propria corporalità il corpo vivente ha il suo medium come campo distinto dalla propria corporalità e a essa contrapposto; se può avvertirlo e agire su di esso grazie al suo insieme corporeo, che pure esso ha, avvertendo e agendo – e non come oltrepassando una frattura, ma come a esso vincolato –, tuttavia questo avere gli rimane nascosto. Lo porta, ma questo avere per lui non è; il corpo semplicemente lo è. In quanto cosa singola, in quanto individuo, l’animale costituisce, dal punto di vista posizionale, un qui e ora verso il quale sono disposti in modo concentrico il campo esterno e il suo corpo, e dal quale il suo corpo e il campo esterno ricevono effetti. L’animale avverte e agisce; il proprio e l’estraneo gli sono dati come chiaramente distinti in zone. Dall’estraneo lo separa la frattura in virtù della quale esso ha e avverte ciò che gli è dato come esterno alla corporalità. Esso esiste nel proprio, in quanto domina immediatamente il corpo. Il fatto che possa dominare il corpo, poiché, differenziato da esso e distanziato, l’animale è la propria corporalità, costituisce il carattere posizionale dell’animale; esso è il portatore della propria esistenza e tuttavia la sua esistenza non gli è data, non è per lui osservabile. A chi dunque dovrebbe essere data? Con quale punto, con quale superficie di proiezione dovrebbe ancora essere in relazione questo stato di cose, e sulla base di quale distanza del momento strutturale della cosalità vivente dalla cosa che è questo corpo animale? La caratteristica di essere nel qui e ora all’animale non è data, non gli è presente; l’animale è ancora in sé assorbito, e porta

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con sé lo sbarramento, a lui nascosto, alla sua propria esistenza individuale. Il vivente (come corporalità) è presente a se stesso (all’intero), ma non lo è l’intero. Solo il campo esterno e il complesso corporeo sono presenti all’animale. In questa riflessione della sfera della corporalità sulla sfera complessiva dell’essere del corpo stesso situata nel qui e ora si costituisce quel particolare Sé di cui non si può parlare in prima, seconda e terza persona – non trattandosi ancora di un io – il quale però in questa riflessione è pienamente riflessivo e ha pertanto il valore di un Se stesso che diviene per sé oggettivo. Essendo corporalità ed essendo dato e presente a se stesso, l’animale, totalità corporea situata nel qui e ora, può avere autorità sul suo corpo e procurare ai suoi impulsi risultati «corrispondenti». Ma la totalità del corpo non è ancora diventata completamente riflessiva. Ogni animale, a seconda delle possibilità, è un centro al quale (in proporzione variabile) sono dati la propria corporalità e i contenuti esterni. Corporeamente, si vive presente in un campo circostante da lui differenziato, e quindi in una relazione di contrapposizione. Poiché è cosciente, avverte la contrapposizione a sé e reagisce dal proprio centro, cioè agisce spontaneamente. La spontaneità (come la centralità, la differenziazione rispetto alla propria corporalità, il rapporto di contrapposizione) è qui solo un carattere posizionale della forma chiusa. Nessuna teoria concernente la libertà o la mancanza di libertà attiene a questo contesto. Si tratta di una semplice espressione essenziale di un essere che è a partire dal centro, ma non è ulteriormente dato a se stesso; si tratta di un vero iniziare, di un cominciare, di un dare avvio. Se davvero l’animale è essenzialmente assorbito nel qui e ora e vive in questa posizione centrale; se il centro di questa posizione non gli è nota e neppure gli è dato questo centro come il punto di fuga dell’’interiorità posto «dietro di sé», le

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sue azioni lo avviano immediatamente, in misura conforme a quanto può consentirlo in ogni caso il bagaglio degli impulsi, degli istinti, delle involontarietà e riflessività. Nell’immediato iniziare l’animale vive essenzialmente in maniera impulsiva, muove spontaneamente le sue membra, agisce e reagisce agli stimoli. Al contempo, questo momento della struttura posizionale gli fornisce la possibilità di agire conformemente a una scelta precedente l’atto spontaneo. Anche in questo caso occorre accantonare qualunque riflessione etica e metafisica. Scegliere significa essere in una situazione di oscillazione. Nel poter essere in un modo o in un altro, secondo quanto prevedono l’iniziare e l’effettuare spontaneamente un’azione, rappresenta solo l’essere assorbito nel qui e ora «prima» dell’inizio; più precisamente: il suo essere anticipatamente rispetto a se stesso ha per l’individuo il carattere della continua possibilità d’azione mediante la sua corporalità. La presenza di una indeterminata quantità di tali possibilità nel passaggio all’atto spontaneo ha il valore della necessità, della coercizione alla scelta. Il campo circostante in cui l’animale agisce è aperto, non possiede cioè alcun limite per l’individuo. Trova qui conferma il fatto che il campo posizionale è un ambito differenziato dal corpo e da esso separato da una frattura, uno hiatus, perché il centro vitale stesso è differenziato dal corpo; e si mostra così anche una corrispondenza tra la forma dell’oggettività del campo circostante e la forma della differenziazione. Ora, il centro vitale, il qui e ora, rappresenta il punto differenziato dal corpo, che tuttavia non appare come dato: il colpo vivente semplicemente si trova nel qui e ora. Di conseguenza, il campo circostante all’animale non può mostrare la struttura portante che lo vincola, vale a dire i suoi limiti. In questo senso esso è aperto. Naturalmente questo campo rimane finito, poiché l’animale non ha alcun mezzo per sfondare la zona dell’adattamento pri-

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mario, ma la finitezza non appare in se stessa come struttura del campo posizionale, poiché è solo una condizione per l’esistenza di un campo posizionale in generale. L’animale, posto in se stesso e assorbito in se stesso, al sicuro e contemporaneamente in pericolo, vive avendo di fronte una zona estranea che, come intero, gli rimane imperscrutabile; una zona cioè alla quale esso può rispondere, ma di cui non può mai venire a capo. Questa peculiare posizione di frontalità, una forma di esistenza diretta verso il dato estraneo del campo circostante, prevede due possibili forme di organizzazione animale. Con la prima, che evita una centralizzazione unica, l’organismo costituisce singoli centri che si trovano tra loro in una libera associazione, un decentramento in cui l’esecuzione delle singole funzioni è indipendente dall’intero. In mancanza di una coscienza, questa forma di organizzazione protegge al meglio l’animale dal campo esterno. La seconda forma prevede una forte centralizzazione dell’organismo, il quale risulta governato da un sistema nervoso centrale sotto il cui controllo cerca di portare le singole funzioni. Questa forma consente al meglio una penetrazione nel campo esterno grazie al comparire della coscienza. La vita deve percorrere una delle due vie di organizzazione, poiché la realizzazione della forma chiusa definisce strutture e funzioni specifiche non con un centro in generale, ma con cellule e complessi cellulari fisici. L’idea di forma chiusa corrisponde tanto all’una quanto all’altra modalità organizzativa, e la realtà dovrà poter mostrare la più vasta molteplicità di gradazione fra i due estremi. Prima che la ricerca prenda a considerare le diverse concrezioni della forma chiusa, è necessario richiamare nuovamente il punto principale di quanto è stato detto, al fine di prevenire obiezioni – facilmente sollevabili – ed equivoci. La cosiddetta duplicità d’aspetto di corpo e corporalità – si diceva – è l’equivalente posizionale della distinzione fisica tra una zona

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corporea contenente il centro e una zona corporea vincolata al centro. Differenziato in sé da se stesso, l’organismo chiuso, l’animale, è l’unità del cambiamento di aspetti nella mediazione operata attraverso il qui. Ma nell’immagine della cosa non compare qualcosa di completamente nuovo, qualcosa di cui sinora, nel corso dell’indagine sul corpo vivente, non si era trattato? L’introduzione del concetto di aspetto non determina una frattura con la direzione seguita sin qui? Non abbiamo forse a che fare con una metabasis eis allo genos, quando di una struttura descritta sinora solo come molteplicità fisica si arriva a sostenere che si tratterebbe di un cambiamento di aspetti, di punti di vista? A un aspetto, a un punto di vista non appartiene una visione (per usare un’espressione fichteana)? E da dove prendere la visione se non si dà occhio alcuno, alcun sapere? Non è solo dai concetti di Sé e di soggetto, trattati come equivalenti al nucleo, al centro spazializzante e temporalizzante, che dovrebbe potersi carpire l’aspetto soggettivo? È comprensibile che ora tutte queste domande si facciano avanti. Ma diventa chiaro, così, quello che la ricerca ha raggiunto passo a passo: la duplicità di lati come duplicità di visione di quegli oggetti corporei dell’intuizione che si considerano viventi. Secondo la tesi iniziale, l’essere vivente nel fenomeno sussiste nella duplicità d’aspetto della cosa fenomenica, vale a dire in una aspettività assolutamente oggettiva. Dinanzi alla cosa, l’intuizione può prendere due direzioni, poiché la cosa come oggetto fenomenico è duplice (nel senso precisato). Svolgendo questa tesi abbiamo fatto sì che si sviluppassero contestualmente le proprietà fondamentali oggettive della cosa vivente. Raggiunto il piano della formazione individuale, la ricerca ha determinato i caratteri essenziali dell’organizzazione e ha infine individuato le sue specifiche differenze nella forma aperta e nella forma chiusa. In quest’ultima si segnala qualcosa

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di singolare: essa porta con sé un innalzamento del livello esistenziale del corpo organizzato, una differenziazione del corpo in se stesso, così da trovarsi (in sé) oltre se stesso. In questa distanza assunta dal nucleo posizionale, in questa differenziazione del centro spazializzante e temporalizzante, l’indagine riconosce passo dopo passo il fondamento della coscienza. Il nucleo, il centro, che in genere ha il valore posizionale del Sé (per capirsi: il fiore come portatore delle sue proprietà), cioè del soggetto dell’avere, non riceve con la distanza (nella forma di organizzazione chiusa) un valore o un significato nuovo, bensì viene solo – per così dire – posto in libertà; esso diviene ciò che è in se stesso, ovvero: punto di vista per una visione, punto soggettivo di una coscienza. Gli scettici cercano però di stabilire una differenza tra ciò che rende l’io un io, il soggetto cosciente un soggetto, la visione una visione, e ciò che viene descritto come nucleo, come centro spazializzante e temporalizzante, come Sé e soggetto dell’avere, per sostenere in maniera fondata i loro argomenti contro l’ottenimento di un punto di vista soggettivo, contro una metabasis eis allo genos. L’indagine ha cercato di tranquillizzarli prendendo avvio da una precisa spiegazione della pretesa intraducibilità del punto di vista soggettivo e dell’assoluta non unificabilità delle fonti soggettive e oggettive dell’intuizione. Essa ha deliberatamente fatto seguito agli argomenti a favore di una visione alternativa di fronte alla realtà che si presenta alla percezione esterna e interna, e ha cercato di mettere in luce i motivi di questo dualismo logico-gnoseologico che, se fosse giustificato, negherebbe il fenomeno della vita, lasciandolo sussistere solo come un conglomerato di essere fisico e psichico. Non si deve scorgere un mutamento metodologico nel fatto che nel corpo vivente di forma chiusa l’essere – per così dire – si capovolge in coscienza e da nucleo diviene centro dell’aspettività. L’indagine è rimasta fedele a se stessa sin dall’inizio, senza

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abbandonare il proprio piano per evadere in una diversa dimensione. E il lettore attento non ha alcun bisogno di ricorrere alla memoria, dato che tutti i concetti prodotti sin’ora hanno avuto essenzialmente il compito di chiarire quella sfera della posizionalità che deve avere il valore di una sfera esistenziale in grado di abbracciare la distinzione di fisico e psichico in maniera neutrale e da un punto di vista convergente, come due lati dell’essere vivente. Il carattere della posizionalità varia naturalmente con la forma dell’organizzazione. La forma chiusa, che si distingue per la distanza del nucleo dal corpo proprio, ha il carattere della frontalità, dell’essere posto di fronte, dell’esistenza diretta verso il campo circostante delle datità estranee, aperta verso di esso e contemporaneamente separata mediante una frattura, e perciò chiusa. Si tratta propriamente della situazione determinata dalla presenza di una coscienza, in cui il vivente agisce a partire da un centro pulsionale e persiste avendo un centro di visione e di avvertimento. Il vivente si avverte – anche se solo come corporalità, cioè come corpo dipendente da se stesso – attraverso dei centri ed è rappresentato al proprio interno. Il livello di consapevolezza di sé (e del mondo esterno) è stabilita sul piano fisico dal livello della rappresentazione centrale del corpo; allo stesso modo, la presenza fisica di centri condiziona la possibilità di distanziamento dal corpo del nucleo spazializzante e temporalizzante. Ciò che invece non può affatto dipendere o essere determinato dal corpo spaziale e temporale è l’essenza spazializzante e temporalizzante di quel nucleo distanziato della posizionalità; sono la soggettività, la capacità di visione, l’impulsività, non solo rese possibili, ma realizzate da questi tratti essenziali. Non si ha un centro spazializzante e temporalizzante infilato nel centro organico, sia esso una rete nervosa o un cervello. L’apparato nervoso è solo il mezzo di interruzione fra la totalità corporea e il corpo come antagonismo sensomotorio che coinvolge i vari organi.

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L’interruzione sul piano fisico e la distanza posizionale del nucleo, la presenza di centri nervosi e la soggettività determinano cioè la duplicità laterale come duplicità di visione dell’esistenza animale, la scompongono in un aspetto esterno e un aspetto interno, ma questa individuazione non trova qui il suo fondamento. Il filosofo coglie la sua coordinazione anche solo con uno sguardo, giacché appartiene all’unica sfera (psicofisicamente neutrale) della posizionalità e attraverso la sua peculiarità determina il carattere frontale dell’organismo: un essere per sé (come qui e ora: un essere per me) che internamente, con il suo insieme corporeo, sta di fronte a cos estranee.

La sfera dell’uomo. La posizionalità della forma eccentrico. L’io e il carattere di persona Il limite dell’organizzazione animale consiste nel fatto che al­ l’individuo è celato il suo stesso essere, non essendo in relazione con il centro posizionale; mentre il medium e l’insieme del proprio corpo, che gli sono dati, sono relativi al centro posizionale, all’assoluto qui e ora. Il suo esistere nel qui e ora non ha a sua volta alcuna relazione, poiché non c’è alcun punto opposto per un possibile rapporto. Nella misura in cui l’animale esiste come tale, è assorbito nel qui e ora. Ciò non gli diviene oggettivo, non si distingue da lui: rimane la condizione, il «ciò attraverso cui» mediatore della realizzazione della vita. L’animale esiste a partire dal suo centro, vive nel suo centro, ma non vive come centro. Esperisce contenuti nel campo circostante, proprio ed estraneo; può anche acquisire il dominio sulla propria corporalità e formare un sistema riflessivo, un Se stesso, ma non «si» vive. Chi dunque dovrebbe formare il soggetto vivente in questo grado della posizionalità? A chi dovrebbe essere attribuito il proprio avere, il proprio esperire e agire, per come si dà nel qui e ora e nell’impulsività? «A quale punto, a quale superficie di

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proiezione sarebbe ancora da riferire questo stato di cose; sulla base di quale distanza del momento strutturale della cosalità vivente dalla cosa che è questo corpo animale?». Nella misura in cui l’animale è corporalità, nella misura in cui si dà a se stesso, è in rapporto al centro posizionale e può avere su di sé un’influenza come corpo complessivo nel qui e ora, gli impulsi centrali ottengono un risultato fisico. Ma il corpo complessivo non è ancora diventato pienamente riflessivo. «Non ancora» vuol dire che è pensabile un’elevazione che innalzi la cosa corporea vivente a un grado posizionale superiore, oltre il grado dell’animale, secondo la stessa legge che determina la differenza di grado tra l’animale e la pianta. Così come la forma aperta dell’organizzazione vegetale mostra i caratteri posizionali senza che la cosa sia «posta» in relazione con la sua posizionalità e questa possibilità si realizza nella forma chiusa dell’organizzazione animale, così anche la forma d’essere dell’animale mostra una possibilità che può essere realizzata soltanto attraverso qualcosa d’altro. Nel grado animale la riflessività completa è impedita al corpo vivente. Il suo essere posto in sé, il suo vivere a partire dal centro, determina la tappa della sua esistenza, ma non sta in rapporto con lui, non gli è dato. Qui, allora, è ancora aperta una possibilità di realizzazione. La tesi è che essa sia riservata all’uomo. Quali condizioni devono verificarsi perché a una cosa vivente sia dato il centro della sua posizionalità, sorgendo nel quale essa vive e in forza del quale esperisce e agisce? Evidentemente, deve valere come condizione fondamentale che il centro della posizionalità, sulla cui distanza dalla propria corporalità si fonda la possibilità di ogni datità, abbia distanza da se stesso. Essere dato vuol dire essere dato a qualcuno. Ma a chi può ancora esser dato quell’essere a cui tutto è dato, se non a se stesso? D’altra parte, il punto spazializzante e temporalizzante dell’assoluto qui e ora non può allontanarsi da sé, sdoppiarsi

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(comunque si voglia intendere il prendere distanza da se stessi). La non relativizzabilità si colloca all’interno del senso del puro qui e ora, ed essa tuttavia verrebbe tolta con una simile scindibilità del centro. Detto in forma più intuitiva: se c’è un punto assoluto del qui e ora, il centro posizionale del vivente, allora è insensato ipotizzare che possa esserci «inoltre» qualcosa, dietro o davanti, prima o dopo questo stesso punto centrale. Un’ipotesi a cui, tuttavia, si perverrà continuamente, in quanto il punto centrale deve essere quello al quale qualcosa è dato, per il quale qualcosa è esperibile, il soggetto della coscienza e dell’iniziativa. Solo un occhio può vedere; e un occhio lo può vedere soltanto un altro occhio. Se non si ha dunque la possibilità di disporre di molti occhi uno dietro l’altro – in quanto tutti conducono infine a un soggetto del vedere, e qui si tratta di un uno – la visione di sé dell’occhio, l’autodatità del soggetto, non può essere fondata su una (in sé assurda) moltiplicazione del nucleo soggettivo. Ad ogni modo, finché si pensa il centro posizionale, il soggetto, come una grandezza data, fissa e definita, che semplicemente c’è come una caratteristica corporea, non si può riuscire a superare la molteplicità e tutte le impossibilità a ciò connesse. Ma questa concezione è tanto comoda quanto falsa. Essa dimentica che si tratta di un carattere posizionale, la cui presenza è collegata con una realizzazione o una posizione; realizzazione e posizione nel senso della vitalità di un essente, per come si determina attraverso il limite come principio costitutivo. Un centro posizionale c’è soltanto nella realizzazione. È ciò per il quale una cosa è mediata nell’unità di una forma gestaltica: il «ciò attraverso cui» della mediazione. Come momento della posizionalità, è soggetto non ancora posto in funzione. Per questo c’è bisogno di una svolta speciale. Il momento posizionale deve diventare principio costitutivo di una cosa. In tale modo essa è posta nel suo proprio centro, nel «ciò attraverso cui»

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del suo essere mediato nell’unità: così il grado dell’animale è raggiunto. Secondo questa legge, per la quale il momento del grado inferiore, concepito come principio, produce il grado immediatamente superiore e, insieme, rientra come momento in quest’ultimo (viene «conservato»), si può pensare un essere la cui organizzazione è costituita in ragione dei momenti posizionali dell’animale. Questo individuo sta nell’essere posto nel proprio centro, attraverso il «ciò attraverso cui» del suo essere mediato nell’unità. Esso sta nel centro del suo stare. Con ciò è data la condizione affinché il centro della posizionalità abbia distanza da se stesso e renda possibile, nella distinzione da sé, la totale riflessività del sistema di vita. Essa si dà, senza uno sdoppiamento contraddittorio del nucleo soggettivo, unicamente nel senso della posizionalità. Il suo vivere a partire dal centro entra in relazione con lui; il carattere riflessivo del corpo rappresentato da un centro è dato a lui stesso. Sebbene anche in questo grado l’essere vivente sia assorbito nel qui e ora e viva a partire dal centro, gli è divenuta cosciente la centralità della sua esistenza. Ha se stesso, sa di sé, è percettibile a se stesso e per questo è un lo, il punto di fuga, collocato «dietro di sé», della propria interiorità, che, sottratto a ogni possibile realizzazione della vita a partire dal proprio centro, forma lo spettatore che sta di fronte allo scenario di questo ambito interiore, il polo soggettivo non più oggettivabile, non più trasferibile nella posizione dell’oggetto. In questo ultimo grado della vita si trova la base per sempre nuovi atti della riflessione su se stessi, per un regressus ad infinitum dell’autocoscienza, e con ciò è compiuta la scissione tra sfera esterna, sfera interiore e coscienza. Si comprende perché la natura animale debba conservarsi in questo grado superiore. La forma chiusa dell’organizzazione viene solo condotta fino all’estremo. La cosa vivente non mostra però, nei suoi momenti posizionali, alcun punto da cui possa ottenere un’elevazione al di fuori della realizzazione della possibilità di organizzare il sistema riflessivo complessivo del corpo

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animale secondo il principio della riflessività, ponendolo – cosa che la vita fa soltanto nel grado animale – ancora in relazione con l’essere vivente. Un’ulteriore elevazione al di là di questo è impossibile, in quanto la cosa vivente è ora realmente giunta dietro di sé. Essa resta essenzialmente connessa con il qui e ora ed esperisce anche senza lo sguardo su di sé, presa dagli oggetti del proprio campo circostante e dalle reazioni del proprio essere, ma è in grado di distanziarsi da se stessa, di spalancare un abisso tra sé e le proprie esperienze vissute. Allora si trova al di qua e al di là dell’abisso, vincolata al corpo, vincolata all’anima, e insieme in nessun posto, priva di luogo, al di fuori di ogni legame con lo spazio e con il tempo: perciò è essere umano. Nella sua esistenza rivolta verso un campo circostante di datità estranee, l’animale assume la posizione della frontalità. Separato dal campo circostante e insieme in rapporto a questo, esso vive nel suo corpo, consapevole di sé solo come corporalità, come unità del campo sensibile e – nel caso dell’organizzazione centralizzata – del campo d’azione, il cui luogo naturale è il centro, a esso nascosto, della sua esistenza. Come cosa vivente posta nel centro della sua esistenza, l’uomo conosce questo centro, lo esperisce ed è perciò proiettato al di là di esso. Egli esperisce il legame con l’assoluto qui e ora, la totale convergenza del campo circostante e della propria corporalità verso il centro della sua posizione e non è quindi più vincolato da essa. Egli esperisce l’inizio immediato delle sue azioni, l’impulsività dei suoi sentimenti e movimenti, sente di essere l’autore della propria esistenza, di stare tra azione e azione, sente la scelta come pure l’entusiasmo negli affetti e nelle pulsioni, si sa libero e nonostante questa libertà confinato in un’esistenza che lo inibisce e con la quale deve lottare. Se la vita dell’animale è centrica, la vita dell’uomo, che non può spezza re la centratura e insieme ne è proiettato al di là, è eccentrica. L’eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, del suo posizionamento frontale rispetto al campo circostante.

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Come io che rende possibile il completo ripiegamento su di sé del sistema vivente, l’uomo non sta più nel qui e ora, bensì «dietro» di esso, dietro se stesso, privo di luogo, nel nulla; egli si scioglie nel nulla, in un’assenza di luogo e di tempo spazializzante e temporalizzante. Privo di luogo e di tempo, egli rende possibile il vissuto di se stesso e insieme il vissuto della sua assenza di spazio e di tempo come uno stare al di fuori di se stesso, poiché l’uomo è una cosa vivente che non sta più soltanto in sé, bensì il suo «stare in sé» è il fondamento del suo stare. Egli è posto nel suo limite e perciò è al di là di ciò che lo limita come cosa vivente. L’uomo non soltanto vive ed esperisce, ma esperisce il suo esperire. Che egli però si esperisca come qualcosa che non può più essere esperito, qualcosa che non perviene più alla posizione di oggetto, come puro io (a differenza dell’individualità psicofisicamente identica con il «me» vissuto), ha il suo fondamento unicamente in ciò che si è detto sulla particolare posizione della cosa definita «uomo» rispetto al limite; più precisamente: la esprime immediatamente. Invece, come io che si afferra in un completo ripiegamento, che si sente, si rende conto di sé, è spettatore del suo volere, del pensare, dell’agire e del percepire (e pure del suo esaminare), l’uomo resta legato al qui e ora, nel centro della convergenza totale del campo circostante e della propria corporalità. Egli vive così sempre immediatamente e senza rotture nella realizzazione di ciò che in forza della sua natura di io non oggettivabile concepisce nella sfera interiore come vita spirituale. Per lui, il mutamento dall’essere all’interno della propria corporalità all’essere al di fuori della propria corporalità è un’insopprimibile duplicità d’aspetto dell’esistenza, una reale frattura nella sua natura. Egli vive al di qua e al di là della frattura, come anima e come corpo e come l’unità psicofisicamente neutrale di queste sfere. Ma l’unità non copre la duplicità d’aspetto, non la fa risultare da sé, non è il terzo che concilia gli opposti, che passa nelle sfere contrapposte, e non forma una sfera indipen-

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dente. Essa è la frattura, lo hiatus, il vuoto «ciò attraverso cui» della mediazione, che per il vivente stesso equivale all’assoluto carattere duplice e alla duplicità d’aspetto di corpo e anima, in cui egli la esperisce. Posizionalmente si ha una triplice determinazione: il vivente è corpo, nel corpo (come vita interiore o anima) e fuori del corpo, come il punto di vista da cui derivano entrambi. Un individuo posizionalmente caratterizzato in questo triplice modo si dice persona. È il soggetto del suo vivere, delle sue percezioni e delle sue azioni, delle sue iniziative. Esso sa e vuole. La sua esistenza è veramente posta nel nulla.

3. Helmuth Plessner. L’equivocità del riso e del pianto*3 L’uomo si caratterizza non solo per la sua razionalità, per il linguaggio e il pensiero astratto, ma anche per la capacità di ridere e di piangere. Si tratta di un privilegio che egli soltanto possiede all’interno del mondo animale. Non è sufficiente spiegarlo ricorrendo al coinvolgimento emotivo dovuto a motivi occasionali di gioia e di dolore, ma occorre andare oltre ed indagare lo specifico rapporto dell’uomo con il suo corpo. Il riso e il pianto non sono, secondo Plessner, fenomeni analizzabili con metodi psico-fisiologici, ma «avvenimenti umani», che vanno inseriti nell’ambito dell’esperienza di vita e del rapporto con gli altri uomini e con il mondo.

Il riso e il pianto sono forme espressive di cui, in senso proprio, solo l’uomo dispone; e sono al tempo stesso forme espressive

*  Da H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del compor-

tamento umano (1941), cit., pp. 51-56.

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di un genere che contrasta singolarmente con questa posizione monopolistica. Esse dunque non hanno nulla in comune con il linguaggio e gli atteggiamenti tramite i quali l’uomo si mostra superiore agli altri viventi e dà ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti e alle sue intenzioni una espressione indicativa e mediatrice, oggettiva e discutibile. Il riso e il pianto non si trovano al loro livello, non sul loro piano. Chi ride o piange perde in un preciso senso il controllo, e per il momento ha chiuso con l’elaborazione oggettiva della situazione. Il loro carattere eruttivo porta il riso e il pianto in prossimità delle espressioni emotive. Come la forza di sopraffazione e di eccitazione dei sentimenti si imprime nella mimica e nei gesti, il motivo allegro o triste, sciocco o commovente prende il sopravvento e deve scaricarsi. Più affini a grida inarticolate che al linguaggio disciplinatamente articolato, il riso e il pianto risalgono dalle profondità della vita sentimentale. Nondimeno, la forma della loro manifestazione si distingue dalle espressioni emotive. Mentre la collera o la gioia, l’amore e l’odio, la compassione e l’invidia ecc. ottengono nel corpo una impronta simbolica che lascia trasparire l’affezione nel moto espressivo, la forma di manifestazione del riso e del pianto rimane opaca e ampiamente determinata nel decorso delle sue possibili modulazioni. Per questo aspetto, essa appartiene alla cerchia di processi quali l’arrossire, l’impallidire, il vomitare, il tossire, lo starnutire ecc., vale a dire dei processi vegetativi, in larga misura sottratti all’influenza della volontà. D’altra parte, nel riso e nel pianto l’eruttività e la forzosità della forma di manifestazione e l’assenza di un’impronta simbolica appaiono (al confronto con le già menzionate reazioni) particolarmente accentuate. In quanto manifestazioni rumorose, non passano inosservate nella vita sociale. Non sono solo reazioni alla rispettiva situazione, come l’arrossire, l’impallidire e così via (principalmente limitate alla vergogna o allo spavento),

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bensì si rivolgono ad essa, benché forse involontariamente, e interrompono il regolare corso della vita. Per questo, forse, è significativo anche il fatto non trascurabile che il riso e – in misura inferiore – il pianto vengono provocati volontariamente più facilmente delle reazioni subordinate in particolare al sistema nervoso simpatico e parasimpatico. Ma se il riso e il pianto suscitano una spontanea attenzione già in quanto forme di manifestazione specificamente umane dal carattere opaco e che ricadono al di fuori del circuito delle manifestazioni comprensibili e trasparenti del linguaggio, della gestualità e della mimica, l’interesse si acuisce guardando alla molteplicità dei loro motivi. Anch’essi, come la forma di manifestazione, sono singolari e rompono con l’ambito dell’ordinario. La tradizione scientifica si è occupata preferibilmente di essi. Sin dall’antichità, i fenomeni del comico e del tragico, il motto di spirito e il sublime hanno affascinato i filosofi. La manifestazione dell’essere umano, di per se stessa in certa misura insignificante, entra qui nel campo di ciò che è propriamente degno dell’uomo, poiché prospettiva oggettiva di una legalità estetica. Solo da quando ci sono una psicologia e una fisiologia sono venuti alla luce anche gli altri aspetti del riso e del pianto: le emozioni che li portano o li scatenano, come l’allegria, la tristezza, il pentimento, il pudore, la commozione e l’intenerimento o l’imbarazzo; le manifestazioni motorie corporee nel loro reciproco gioco muscolare e nelle loro regolazioni nervose e probabilmente anche secretorie. Così, la scoperta di una pluralità di aspetti e la loro elaborazione da parte di scienze diverse, metodologicamente separate le une dalle altre, suscita la questione inversa circa l’unità dei fenomeni del riso e del pianto. Questa unità rende necessario, di contro agli aspetti specialistici dello studioso di estetica, di psicologia e di fisiologia, una operazione particolare anche sul piano metodologico. Giacché qui non si tratta di un prodotto

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ottenuto in seguito a una sintesi, ma dell’unità iniziale nella quale originariamente viviamo, che pure gli studiosi di estetica, gli psicologi e i fisiologi hanno di mira, benché – a seconda dell’interesse della disciplina – trattata in modo unilaterale. È a partire da questa unità che si può capire l’intrecciarsi della dimensione corporea con quella psichica e quella spirituale, e non viceversa, il meccanismo della loro unità a partire da dimensioni reciprocamente isolate. Noi ne abbiamo una conoscenza. Il principio posto all’inizio, secondo cui evidentemente solo l’uomo dispone del riso e del pianto, e non invece l’animale, non è una ipotesi che potrebbe un giorno essere confutata, ma una certezza. Giacché noi sappiamo che i concetti del riso e del pianto rivendicano una maggiore apertura del comportamento umano: la condizione per la quale le parole spirito, anima, corpo stanno solo a nostra disposizione. Si dice, è vero, che lo stimolo del prurito può provocare il riso; e si ritrova, ad esempio, negli scimpanzé il sorriso, la bocca ampiamente distesa, il suono ridente del piacere. Questi movimenti espressivi, anche se forse non provocati come riflessi, ma tali da rimanere nella sfera della vita sensibile, sono altrettanto poco autentico riso quanto lo è il riso indotto da certe malattie cerebrale. Al riso (e al pianto) appartiene – o i concetti sono fuori luogo – il rapporto sensato e consapevole della manifestazione, che prorompe in maniera eruttiva e violenta ed è priva di una impronta simbolica, con un motivo. Non il mio corpo, ma io rido o piango per una ragione, «su qualcosa». Mentre la mimica e gli atti gestuali elaborano immediatamente il motivo in una espressione simbolica e gli danno direttamente sfogo, nel riso e nel pianto io mantengo da esso una distanza: gli rispondo. Il problema pertanto non si pone nei termini di una deduzione di queste forme di manifestazione specificamente umane dall’essenza della natura dell’uomo, poiché in tale essenza non

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può esservi altro che ciò che è contenuto anche nel riso e nel pianto e che ci dà la certezza della loro umanità. Si pone invece come questione sulla compatibilità delle loro forme di manifestazione con l’essenza dell’uomo, come accade anche per altre facoltà specificamente umane, quali il linguaggio e il lavoro. La relazione mantenuta dall’uomo, e attivamente attestata, con le disposizioni spirituali deve rendere possibile in qualche modo anche il riso e il pianto, o il comico e il tragico, il motto di spirito e il dolore non potrebbero agire così come agiscono. Non è in discussione se il riso e il pianto siano monopolio dell’uomo, ma come lo siano. Questa modalità di manifestazione del corpo umano, singolarmente opaca, va compresa a partire dal rapporto dell’uomo con il suo corpo (non dal problematico «rapporto» dello spirito con il corpo o della psiche con la corporeità prese come entità separate). Naturalmente, questo compito richiede una particolare concezione dell’essenza umana non meno che una particolare caratterizzazione della sua situazione corporea. Solitamente, quando sono in gioco i monopoli dell’uomo – il linguaggio, l’invenzione e l’utilizzazione di strumenti, la moda, l’abitazione e i costumi –, ci si accontenta della razionalità o della spiritualità e si cerca in qualche modo di radicare in esse ciò che è umano. Anche il portamento eretto, con l’affrancamento delle mani, la liberazione della testa, l’ampliamento del campo visivo e la distanza dall’ambiente si inserisce in questo contesto. Ognuno sa cosa l’uomo abbia da questo monopolio e comprende il legame con il tradizionale contrassegno della sua peculiare posizione: con la ragione, con lo spirito. Ma cosa il riso e il pianto vi abbiano a che fare e perché siano preclusi agli altri viventi rimane oscuro. L’eruttività, la violenza e la disarticolazione della forma della loro manifestazione di per sé si oppongono a un legame con la ragione e lo spirito, e portano nella direzione del subumano, alimentato solo da sorgenti affettive. Ma d’altro canto, se fossero solo manifestazioni affettive, espressioni emotive,

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non ci sarebbe di nuovo nulla da cogliere, poiché allora, non meno dell’uomo, anche gli animali a lui prossimi potrebbero ridere e piangere. La conoscenza dei fondamenti che fanno sì che l’essere umano in determinate circostanze si manifesti in un determinato modo e non in un altro fornisce anche la risposta al perché lui, e nessun altro vivente, lo possa. Condizione per questa conoscenza è uno sguardo impregiudicato sul fenomeno nella totalità dei suoi aspetti, dell’aspetto spirituale, di quello psichico e di quello corporeo, e – sul piano metodologico – un impegno personale dinanzi a esso. Per i molti sentieri percorsi dall’interpretazione biologica, dalla psicologia dell’istinto e dalla psicologia sociale non raggiungiamo la meta. Lasciano indeterminato se il riso e il pianto siano processi al servizio di un fine nascosto. La natura, la vita istintuale, la comunità hanno senza dubbio parte in essi. Purtroppo noi non ne abbiamo conoscenza, e perciò ci sembra fondamentalmente assurdo consegnare interamente il problema a una di queste anonime potenze. E non andiamo oltre neppure con la spiegazione causale: ci areniamo subito nella frattura tra motivo psichico-spirituale e ripercussione fisica. Prima di spiegare i fenomeni a partire dai fattori o di interpretarli attraverso i fini, è in ogni caso necessario tentare di comprenderli nel loro originario ambito esperienziale. Il riso e il pianto sono forme di manifestazione e di confronto dell’uomo, modalità di condotta, tipi di comportamento. Ciò implica delle difficoltà, ma anche delle possibilità per la comprensione. Le teorie che tralasciano questo dato a causa di pregiudizi metafisici o scientifici si avviano certamente per una cattiva strada. L’elaborazione della questione circa il fondamento del riso e del pianto è sempre fallita a causa di simili pregiudizi.

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4. Helmuth Plessner. La posizione eccentrica*4 Nel ridere e nel piangere si manifesta molto chiaramente il fatto che l’uomo non «ha» soltanto un corpo, ma che «è» anche un corpo. In entrambe le forme espressive si manifesta una frattura tra l’essere corpo e l’avere corpo, tra vivere la propria corporeità e insieme essere in grado di gestirla e controllarla. Il riso e il pianto sono i sintomi di una scissione di quell’unità personale che caratterizza l’uomo in grado di condurre la propria esistenza e rappresentano l’unica possibile reazione corporea alla perdita del dominio e del controllo dell’io.

È a partire dall’uomo nella concretezza originaria della sua esistenza che il riso e il pianto devono essere compresi come reazioni corporee. Nella locuzione «come reazioni corporee» non si esprime pertanto una rinuncia a comprendere in una prospettiva unitaria l’uomo che gioisce e soffre, e che con il cuore e con lo spirito è legato a un intero mondo. D’altro canto, dati i limiti di competenza della fisiologia. ci siamo convinti che non le si può cedere il problema, come non lo si può cedere alla psicologia o al dualismo scientifico della psicofisica. Con quella locuzione viene solo sottolineato che questa ricerca non retrocede dinanzi alle difficoltà poste dalla comprensione dei processi corporei, come la filosofia ha fatto di solito sostenendo di non avervi nulla a che vedere. La prospettiva abilmente scelta dall’analisi esistenziale passa davanti ai veri problemi dell’esistere umano, e pertanto alla sua reale conoscenza. Rispetto al linguaggio, ai gesti e alle espressioni mimiche, il riso e il pianto documentano una forte emancipazione dei processi corporei dalla persona. In questo squilibrio e in questa autonomia presumiamo che si trovi la chiave di tali fenomeni.

*  Da H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., pp. 64-71.

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In nessuna altra forma di manifestazione come in essi si rivela immediatamente la segreta composizione della natura umana. Il linguaggio e l’azione mostrano l’uomo nel dominio dell’altezza conferitagli, che gli dà il potere di dare libere disposizioni attraverso la ragione. Se qui l’uomo perde il dominio, precipita al di sotto del suo livello. Certamente, quindi, questa caduta dimostra l’altezza originariamente tenuta, ma non rivela il tipo di legame sussistente tra l’uomo e il suo corpo. Allo stesso modo, non abbiamo esperienza di questo tipo di legame quando l’uomo perde il controllo di se stesso in caso di indebolimento, di annebbiamento o di interruzione della coscienza, come accade nel dolore o in seguito all’uso di narcotici, poiché qui si sfalda l’unità della persona. E, infine, di questo tipo di legarne non si palesa nulla neppure nei processi, in parte riflessi, che si fondano su una scissione più o meno artificiale, come l’arrossire, l’impallidire, il sudare, il vomitare, il tossire, lo starnutire. È certamente vero che possono anche venire provocati psicologicamente, in situazioni di vergogna, di spavento, di ansia, di ripugnanza e di nausea, di imbarazzo e di agitazione in genere. Tuttavia manca loro il carattere di una risposta consapevole. Del loro simbolismo, dal quale oggi la medicina psicoanalitica ricava informazioni più volentieri che trenta anni fa, la persona si sa non più immediatamente responsabile. Così come accade nei casi di malattia fisica di origine psichica, qui il processo riflette solo sintomaticamente un disturbo dell’esistenza personale. Nel riso e nel pianto, al contrario, benché la persona perda il proprio controllo, rimane persona, poiché il corpo in certo modo si incarica in sua vece della risposta. In ciò si rivela la possibilità di una cooperazione tra la persona e il suo corpo, che normalmente resta nascosta perché non sollecitata. Solitamente, in situazioni chiare, a cui si può chiaramente rispondere e che si lasciano gestire, l’uomo risponde come per-

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sona e nel farlo si avvale della sua corporeità: come strumento linguistico, come organo per afferrare, per colpire, per sorreggersi, per sostenere, come mezzo di spostamento e di segnalazione, come cassa di risonanza delle sue emozioni. Egli controlla la sua corporeità, impara a farlo. Questo controllo – variabile a seconda degli individui – ha determinati limiti, probabilmente flessibili, che sicuramente non coincidono con i limiti tra regolazione volontaria e involontaria. Così pure, la distinzione dei processi nervosi in un sistema che elabora in parte consciamente e in parte inconsciamente le funzioni animali (circuito funzionale sensomotorio) e in un sistema che elabora inconsciamente le funzioni vegetative (che regola i processi della circolazione, del metabolismo e della secrezione interna, importante per il «milieu interno» e l’equilibrio interiore, per l’umore e gli stati affettivi) non è decisiva nel controllo della corporeità da parte dell’uomo. (Se si può dare credito a certi notiziari, alcuni uomini sarebbero in grado di avere in loro potere la circolazione, la respirazione e persino la regolazione termica. I processi autonomi – e chiunque pratichi anche solo un poco l’addestramento della volontà può convincersene – saranno accessibili in ogni caso a una influenza del comportamento dell’uomo in quanto tale più di quanto supponga la fisiologia contemporanea in genere, avendo essa dinanzi agli occhi l’uomo della civilizzazione. Il suo training sportivo, diretto interamente al sistema sensomotorio animale, sottomette, certo, anche alcuni processi autonomi, ma interviene da fuori, e non procede per la via delle classiche tecniche dell’autocontrollo mediante l’immersione in se stessi). Il fine del controllo – sia esso al servizio dell’affermazione del­ l’esistenza corporea e quindi indirizzato ora al migliore rendimento, ora al rilassamento completo, cioè a ottenere uno stato di grazia, o sia invece al servizio di un annullamento del corpo, come l’ascesi o la fuga dal mondo – è dato all’uomo attraverso

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la sua esistenza fisica: come corporeità nel corpo. Ciascuno, sin dal giorno della nascita, deve accordarsi con questo duplice ruolo. Ognuno impara che l’afferrare e l’adattamento di questa prestazione alle distanze visive, lo stare in piedi, il camminare ecc. si realizzano sulla base e nell’ambito di questo duplice ruolo. E questo ambito non viene mai meno. Un uomo è sempre e comunque corporeità (testa, tronco, estremità, con tutto ciò che c’è dentro) – anche se è convinto di avere una anima immortale che sta in qualche modo al suo «interno» – e ha questa corporeità come questo corpo. La possibilità di usare per l’esistenza fisica espressioni verbali tanto diverse risale al duplice carattere dell’esistenza stessa. E l’uomo ha questa esistenza ed è questa esistenza. Si trova dinanzi a essa come a qualcosa che controlla o che respinge, che usa come mezzo, come strumento; egli è in essa e coincide (fino a un certo punto) con essa. L’esistenza corporea è perciò per l’uomo un rapporto, in sé non univoco ma duplice; è un rapporto tra sé e sé (più precisamente tra lui e se stesso). Può pertanto restare indefinito chi si trovi in questa relazione. Espressioni come spirito, io, anima – prese non in senso religioso e dogmatico – per il momento non dicono altro che ciò che l’esperienza comune nel confronto con il corpo e nell’inclusione nel corpo rende necessario riconoscere. Necessario e fondamentale, giacché il nostro comportamento verso il mondo, nella sua realizzazione pratica e nella concezione degli uomini, porta il conio di questo duplice ruolo. Nella sua ovvietà, esso viene in luce in quanto tale solo nella riflessione sulla coscienza. Ma anche sul piano teoretico ci siamo accontentati, così da ingannarci sull’immediatezza di questo duplice ruolo. Ognuno parla del proprio io, il cui ambito non va comunque oltre i confini del suo proprio corpo, ma che tuttavia, in quanto non spaziale, si trova di fronte a questo stesso ambito. Si

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mantiene all’interno, ora nella regione toracica, come soggetto della partecipazione, dei sentimenti, del desiderio; ora nella testa, come soggetto della riflessione, dell’osservazione, dell’attenzione. «All’interno», all’altezza del petto o della testa, e «al centro dei proprio corpo» sono espressioni che contraddicono nuovamente l’essenza non spaziale dell’io, esattamente come le determinazioni correnti che si richiamano all’esperienza soggettiva. E se ci si pensa su, questa impressione paradossale si accresce, anziché venire meno: io mi colloco dietro agli occhi e alle orecchie come punto centrale della mia coscienza; il sentimento e il «cuore» hanno vita tra il petto e il dorso. I miei pensieri e i miei desideri, nascosti agli altri, come racchiusi nel mio corpo, appartengono a una profondità aspaziale. Questa situazione interiore, di me nel mio corpo, è intrecciata nel modo più ovvio con il mio essere immediatamente inserito nello spazio delle cose. Qui non sono separato dal mondo «esterno» mediante uno strato intermedio che io possa sentire o toccare, ma io stesso sono un pezzo del mondo esterno, ovunque mi trovi, in una stanza o per la strada. Qui la mia corporeità, come contenuto del mio campo visivo o tattile, parte delle mie sensazioni motorie, eccitative e viscerali, si trova sullo stesso piano delle altre cose corporee che compaiono nell’orizzonte della mia percezione. In ogni caso, che io mi muova e faccia una cosa qualunque, oppure stia fermo e lasci agire su di me le immagini del mondo esterno, inclusa la mia corporeità che a esso appartiene, la situazione dei mio esistere è duplice: è come corpo e nel corpo. Queste due disposizioni sono reciprocamente intrecciate e formano una singolare unità. È infatti possibile caratterizzarle autonomamente, ma non separarle l’una dall’altra. Mi muovo con la mia coscienza e la corporeità è il suo veicolo, da cui dipendono la posizione settoriale relativa e la prospettiva della coscienza; e mi muovo nella coscienza, e la corporeità con i suoi cambiamenti di posizione appaiono come contenuti della sua sfera.

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Voler decidere in favore di una delle due disposizioni significherebbe fraintendere la necessità del loro intreccio reciproco. Con lo stesso diritto devo attenermi a due disposizioni che si escludono a vicenda: alla relazione centrale assoluta delle cose del mondo esterno con la mia corporeità, ovvero con il centro della percezione, del pensiero, dell’iniziativa e della partecipazione che vi è «in» essa, con me, vale a dire con «l’io» in me, e sacrificarla in favore della relazione di reciprocità delle cose, inclusa la mia corporeità (con la mia coscienza). Le due disposizioni si profilano nel duplice ruolo dell’uomo, in quanto corpo e in quanto nel corpo. Entrambe forniscono efficaci ragioni e argomenti per le teorie idealistiche e realistiche della coscienza o del mondo la cui polemica non ha termine e non si evita, essendo la situazione sulla quale si fonda necessariamente a doppio senso. In questa situazione la posizione dell’uomo si presenta eccentrica. Se per un verso il mondo e il mio proprio corpo si rendono manifesti e controllabili nella misura in cui entrano in relazione con l’io, per l’altro essi mantengono la priorità sull’inserimento in questa prospettiva, in quanto disposizione indifferente rispetto a me, che mi coinvolge in una relativa reciprocità. Se l’uomo può non prendere alcuna decisione tra le due disposizioni, quella della relazione a un centro e quella di assenza di una relazione a un centro, deve tuttavia trovare un rapporto con esse. Ma non si esaurisce completamente in nessuna delle due singole disposizioni. L’uomo non è solo corporeità e non ha solo corporeità (corpo). Ogni esigenza dell’esistenza fisica richiede un accordo tra essere e avere, tra il fuori e il dentro. Nel normale corso della vita, con la sua stabilità in fini consueti, questa necessità di accordo non ha risalto. In situazioni insolite, al contrario, essa urta contro delle difficoltà. Potrebbe trattarsi di una questione di orientamento spaziale, di valutazione delle grandezze e delle distanze nel campo della percezione o

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di coordinazione dei movimenti rispetto alle cose esterne e al proprio corpo. Già dalla propria esperienza ciascuno sa quanto sia facile confondersi in fatto di simmetria, di rispecchiamento e di rapporto tra destra e sinistra. Gli esperimenti clinici più recenti nel campo dell’afasia, dell’atassia e dell’aprassia hanno inoltre prodotto una grande quantità di materiale su disturbi che possono riguardare il rapporto dell’uomo con il suo corpo. Tra le idee centrali dovute a questi studi è proprio il fatto che in questi casi si tratta del rapporto con il corpo, o meglio dell’accordo tra essere un corpo e avere un corpo nelle diverse situazioni, e non di semplici fenomeni di deficit causati da disturbi all’apparato nervoso. Del resto, per ritrovarci di fronte al problema, non c’è che da richiedere al corpo una qualche attività inconsueta, come accade quando il bambino impara a camminare. La necessità di accordare le due modalità di esistenza fisica si presenta, ad esempio, come problema del bilanciamento o della distribuzione del peso. L’espressione «deve entrare nel sangue» non significa allora semplicemente che i movimenti provocati e controllati dalla coscienza devono diventare un riflesso, ma che l’accordo tra l’essere un corpo e l’avere un corpo deve realizzarsi velocemente. Ciascuno deve rendersi capace in tale senso – e in un certo senso non lo diverrà mai. Quanto a questo l’uomo è inferiore all’animale, giacché l’animale non avverte la propria chiusura di fronte all’esistenza fisica, non si vive come interiorità, come io, e di conseguenza non deve superare alcuna frattura tra sé e sé, tra sé e la propria esistenza fisica. Il suo essere corpo non si separa dal suo avere corpo. Certo, l’animale vive in questa separazione: nessun movimento, nessun salto (preceduto dalla valutazione di una distanza) sarebbe possibile senza di essa. Anche l’animale deve mettere in gioco il proprio corpo conformemente alla situazione, o non raggiunge il suo scopo. Ma il passaggio dall’essere

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all’avere e dall’avere all’essere, che l’animale compie continuamente, non gli è presente e di conseguenza non rappresenta per lui un «problema». L’assenza di impedimenti, che rende l’animale superiore all’uomo in fatto di controllo, condiziona al contempo il suo legame con il ruolo biologicamente assegnatogli. Inoltre non può venirgli l’idea (come nessuna idea in generale) di tentare con il suo corpo qualcosa che non gli sia già immediatamente prescritto dalle capacità motorie e dall’istinto. Per quanto esuberanti, nella realtà gli asini non si avventurano sul ghiaccio. Solo l’uomo è consapevole della situazione oggettiva e adeguata del proprio corpo, un impedimento costante, ma anche un continuo stimolo a superarlo. Il suo rapporto con se stesso come corporeità ha sin dall’inizio un carattere strumentale, poiché egli vive tale corporeità come un «mezzo». Costretto a trovare compromessi sempre nuovi tra il corpo che egli è, in qualche modo, e la corporeità da lui abitata e controllata, egli scopre – e non solo attraverso l’artificio dell’astrazione – il carattere mediato, il carattere strumentale della propria esistenza fisica.

5. Helmuth Plessner. Il carattere espressivo del riso e del pianto*5 Il riso e il pianto, quando li si analizza più da vicino, rivelano una profonda affinità. In entrambi i casi l’uomo è spinto da un insieme di cause diverse verso un limite in cui la ragione non è più in grado di esercitare il controllo sul comportamento. Sono le situazioni limite quelle in cui si «scoppia» a ridere o ci si

*  Da H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., pp. 109-114.

351 «scioglie» in lacrime. Quando l’uomo non è in grado di affrontare le circostanze e di conservare il controllo della situazione, abdica a favore della corporeità che, attraverso un semplice meccanismo fisiologico, trova una via d’uscita.

Non è un caso che nelle interpretazioni della gestualità che in qualche modo prendono come punto di vista l’azione il riso e il pianto giochino un ruolo insignificante. A quale oggetto fittizio si potrebbero correlare, senza analogie forzate? A quale azione reale si potrebbero «equiparare» in una attenuazione simbolica? Già il presentarsi dell’immagine mimica rappresenta solo un dettaglio dell’intero complesso espressivo che si mostra nel processo globale del riso e del pianto. Diversamente dalle espressioni guidate dall’emozione, nelle quali si estrinseca e si irradia una disposizione, una affezione, un moto dell’animo, nel riso e nel pianto manca tale passaggio dall’interno all’esterno. L’uomo può ridere e piangere – qui si mostra la loro affinità in quanto appartenenti a un determinato genus di modalità espressiva umana – solo se si consegna a essi. Si abbandona al riso, si lascia andare al pianto. Mentre nel riso la mancanza di un passaggio ben si mostra nelle manifestazioni di schiatto, di scoppio, di esplosione, nel pianto essa si nasconde dietro il peculiare comportamento riflessivo della persona, che per trovare la soluzione deve lasciarsi andare. Il motivo del riso ci assale ed esercita una costrizione. Spesso dobbiamo reprimerlo con la forza per non lasciarlo esplodere. Anche il motivo del pianto può assalirci e avanzare pretese sul nostro autocontrollo. Ma non gli siamo consegnati con la stessa immediatezza. Esso ci commuove, e solo quando cediamo alla commozione sgorgano le lacrime. Questo finire nel riso e nel pianto, questo essere sopraffatti, indica – in primo luogo in relazione al peculiare processo autonomo che si determina e che spesso si sottrae totalmente a una attenuazione e al controllo – una perdita della padronanza, una

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rottura nell’equilibrio tra l’uomo e l’esistenza fisica. Un forte e repentino impeto del sentimento può condurci ad atti gestuali sconsiderati e anche in questo caso non siamo padroni di noi stessi, perdiamo persino il senno. Ma l’animazione del corpo raggiunge qui il punto più elevato. L’unità della persona, il controllo del suo centro etico-spirituale può essere in pericolo, ma in simili circostanze la trasparenza espressiva del suo corpo non si lascerà sopraffare: un minus per l’uomo come persona, un plus per l’uomo come essere corporeo-spirituale. Nel riso e nel pianto accade esattamente il contrario. La trasparenza corporeo-spirituale raggiunge in essi il livello più basso; i processi corporei si emancipano e l’uomo viene scosso, colpito, spossato. Egli ha perduto il rapporto con la sua esistenza fisica, la quale gli si sottrae, facendo di lui, in un certo senso, ciò che vuole. Nondimeno, questa perdita si avverte come espressione di una situazione corrispondente e come risposta a essa. L’equilibrio interiore è rotto, ma questa volta il minus grava sull’unità corporeo-spirituale, non sulla persona. Contrariamente alla gestualità dell’espressione mimica, il genus del riso e del pianto si presenta come una modalità di manifestazione nella quale ha valore espressivo la perdita del controllo complessivo. Vero è che la disorganizzazione del rapporto tra l’uomo e la sua esistenza fisica non è voluta, ma neppure – benché sconvolgente – è semplicemente accettata e sofferta; essa viene invece intesa come un atto gestuale e come una reazione significativa. Anche nella catastrofe che ora vive il rapporto con la corporeità, solitamente controllato, l’uomo trionfa e si conferma come uomo. Slittando e cadendo in un processo corporeo coercitivo e di per sé opaco, nel fratturarsi dell’equilibrio interiore, il rapporto dell’uomo con il corpo viene contemporaneamente sacrificato e ricostruito. La reale impossibilità di trovare una espressione conforme e una risposta adatta è al contempo l’unica espressione conforme e l’unica risposta adatta.

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Da qui si capisce meglio la ragione per la quale considerare gestualità e azioni, pur senza cancellare i loro confini essenziali, in una unica e medesima prospettiva. Essi corrispondono alla normalità delle situazioni che richiedono una risposta e a cui è possibile darne una, per la quale l’uomo (consapevolmente o inconsapevolmente, volontariamente o involotariamente) si serve del suo corpo come di uno strumento. Il corpo serve ora come cassa di risonanza e come superficie di trasmissione di emozioni che sollecitano uno sfogo, ora come strumento linguistico, ora come mezzo di segnalazione e organo della gestualità, ora come mezzo per lo spostamento, la presa, il sostegno, il trasporto, l’urto ecc. Ovunque, le circostanze situazionali consentono all’uomo – anzi lo esigono – di trovare rispetto a esse un rapporto chiaro con la singolarità della sua esistenza fisica, come corpo nel corpo. Ma se la situazione non può essere affrontata, diviene priva di una possibile risposta; e allora falliscono il linguaggio e i gesti simbolici, le azioni e gli atteggiamenti gestuali. Allora non c’è più niente da fare, non c’è più nulla da dire e nulla su cui dire. In simili, difettose circostanze sfugge necessariamente anche ciò rispetto a cui l’uomo, per la sua esistenza fisica, deve trovare un rapporto. Il disorientamento ne è la conseguenza naturale. Ora non si tratta semplicemente di raccapezzarsi nell’ambito di una situazione solitamente chiara, come accade quando si perde la strada o il filo del discorso, o quando non ci si ritrova più in un testo o in una società. Si tratta piuttosto di situazioni dinanzi a cui nessuna risposta sensata, comunque sia fatta, per mezzo di atteggiamenti gestuali, gesti simbolici, linguaggio o azioni è ancora possibile. Con la scomparsa di ciò rispetto a cui è possibile un accordo si ha necessariamente una disorganizzazione. Questa disorganizzazione si presenta però diversamente secondo che l’impossibilità di rispondere alla situazione abbia o meno il carattere di una minaccia per la vita. L’impossibilità di

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rispondere e al contempo una situazione minacciosa provocano una vertigine. L’uomo capitola come persona, perde la testa. È noto come i sintomi che accompagnano il capogiro, quali la comparsa di sudorazione, la nausea, il vomito e lo svenimento, possono altresì presentarsi in crisi esistenziali di ordine superiore. L’espressione «mi gira la testa» in queste situazioni è assolutamente adeguata. Situazioni in cui non è possibile dare una risposta, ma non minacciose causano invece il riso o il pianto. L’uomo capitola come unità corporeo-spirituale, vale a dire come vivente; perde il rapporto con la sua esistenza fisica, ma non capitola come persona. Non perde la testa. Alla situazione a cui è impossibile rispondere egli trova comunque – grazie alla sua posizione eccentrica, per la quale egli non viene mai completamente assorbito dalla situazione – la sola risposta ancora possibile: quella di prendere distanza da essa e liberarsi. Il corpo, uscito dal rapporto con l’uomo, si incarica per lui della risposta, non più in qualità di strumento dell’azione, del linguaggio, del gesto simbolico o dell’atteggiamento gestuale, ma come corpo. Perdendo il dominio su di sé, rinunciando a un rapporto con se stesso, l’uomo testimonia ancora la sua sovrana comprensione dell’incomprensibile, ancora mostra il suo potere nell’impotenza, la sua libertà e la sua grandezza nella coercizione. Sa trovare una risposta anche là dove non c’è più nulla da rispondere. E sebbene non abbia l’ultima parola, ha comunque l’ultima carta in gioco, la cui perdita è il suo profitto. Il riso e il pianto non sono né gesti, né atti gestuali e hanno tuttavia carattere espressivo. La loro opacità e in un certo senso la loro insensatezza, vale a dire l’assenza di una impronta e di articolazione, è essenziale proprio al loro significato espressivo. Diversamente dall’arrossire e dall’impallidire, che sono loro più affini degli atti gestuali, essi esprimono una risposta che si manifesta rumorosamente. Se ciò testimonia da un lato della

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carica eruttiva, della radicale profondità della disorganizzazione e della assenza di inibizioni nell’accadere corporeo, dall’altro attesta la non trascurabile componente sociale, che non è sbagliato considerare come avente una funzione segnaletica, ma è senz’altro restrittivo. Non si deve dimenticare che nel grido è insita la forza dell’autoaffermazione: poiché ci si sente. Per la verità, qui cominciano a mostrarsi le differenze essenziali tra il riso e il pianto. Nel pianto le lacrime adempiono alla funzione di autoaffermazione, ma il singhiozzo, il lamento, il sospiro da soli non sono sufficienti alla espressione. Per comprendere la differenza tra le due forme espressive è inevitabile entrare più specificamente nei loro motivi. A prescindere dal fatto che sino a ora non è stato esaminato perché all’interno di questo singolare genus espressivo si diano in generale due forme, la tesi del loro carattere espressivo resterà sospesa fino a che non sarà stata confermata nei diversi casi. Si può ridere e piangere anche sulla base di motivi diversi che di primo acchito sembrano reciprocamente imparagonabili. Cosa hanno in comune tra loro una scena comica e l’imbarazzo o il motto di spirito e la disperazione? Eppure in questi casi si ride. Cosa unisce il dolore e il piacere, il pentimento e la devozione? Eppure in questi casi si piange. Inoltre, come si spiega che in certe situazioni, ad esempio nella disperazione, possano darsi entrambi o che l’espressione possa ingannarci? Il progresso dell’indagine dipende ora dalla considerazione delle situazioni alle quali il riso e il pianto, ciascuno nel proprio modo, danno risposta; cioè di quelle situazioni che l’uomo quietanza nel duplice senso della parola: conferma e abbandona. Non ci si trovava a corto di contrapposizioni tra le due modalità espressive: si ride solo su altro, si piange solo su se stessi (J.E. Erdmann); il riso è cordiale e freddo, intellettuale; il pianto è caldo di emozione e di sentimento (H. Bergson), è espressione della compassione per se stessi (Schopenhauer).

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E non mancano neppure nelle analisi dei motivi che scatenano in particolare il riso, come la comicità e il motto di spirito. Ma raramente e solo occasionalmente si è cercato di gettare un ponte tra la struttura dei motivi e le corrispondenti reazioni espressive per studiare anche motivi tra loro molto lontani e soprattutto per considerare uniformemente il riso e il pianto. Tuttavia, una elencazione completa ci importa meno di una paradigmatica insistenza.

Indice

Capitolo I Antropologia filosofica 1.  L’antropologia filosofica contemporanea 2.  L’uomo e le sue immagini nel corso della storia 3.  La specificità dell’antropologia filosofica nel pensiero contemporaneo 4.  Antropologia e interpretazione 5.  Le articolazioni dell’antropologia filosofica

p. 11 p. 12 p. 22 p. 27 p. 33

Capitolo II Max Scheler e la «posizione dell’uomo nel cosmo» 1.  Cenni biografici 2.  Dall’etica formale all’etica materiale 3.  La filosofia dei valori e la persona umana 4.  L’essenza dell’uomo e la sua «posizione nel cosmo» 5.  Il rapporto uomo-Dio

p. 53 p. 58 p. 65 p. 73 p. 83

Capitolo III Arnold Gehlen e l’uomo «progetto della natura» 1.  Cenni biografici 2.  L’uomo come «progetto particolare» della natura 3.  L’essere carente e il principio dell’esonero

p. 91 p. 93 p. 96

4.  La «non-specializzazione» e la teoria dell’evoluzione 5.  La teoria dell’azione e il mondo della tecnica 6.  Le istituzioni e la morale 7.  L’ethos ipertrofico

p. 102 p. 108 p. 120 p. 132

Capitolo IV Helmuth Plessner e l’«eccentricità» dell’uomo 1.  Cenni biografici 2.  La «posizionalità eccentrica» dell’uomo 3.  I gradi dell’organico 4.  Le tre leggi antropologiche fondamentali 5.  Antropologia della musica 6.  Espressione, linguaggio, gestualità 7.  Il carattere espressivo del riso e del pianto

p. 137 p. 138 p. 142 p. 149 p. 153 p. 161 p. 166

Antologia Capitolo I Etica e antropologia in Max Scheler 1.  Max Scheler. Beni e valori 2.  Max Scheler. Scala delle modalità del valore 3.  Max Scheler. La persona 4.  Max Scheler. Sull’idea dell’uomo 5.  Max Scheler. Uomo e storia 6.  Max Scheler. La posizione dell’uomo nel cosmo

p. 177 p. 187 p. 194 p. 207 p. 218 p. 222

Capitolo II L’uomo e la tecnica in Arnold Gehlen 1.  Arnold Gehlen. Primo concetto dell’uomo 2.  Arnold Gehlen. La legge dell’esonero 3.  Arnold Gehlen. Linee fondamentali di una teoria globale dell’uomo 4.  Arnold Gehlen. Uomo e azione 5.  Arnold Gehlen. Tecnica e antropologia 6.  Arnold Gehlen. La situazione etico-sociale del nostro tempo

p. 241 p. 254 p. 262 p. 266 p. 276 p. 291

Capitolo III Le modalità di organizzazione del vivente in Helmuth Plessner 1.  Helmuth Plessner. Ancora dell’antropologia filosofica? 2.  Helmuth Plessner. La posizionalità dell’esistenza vivente: pianta, animale, uomo 3.  Helmuth Plessner. L’equivocità del riso e del pianto 4.  Helmuth Plessner. La posizione eccentrica 5.  Helmuth Plessner. Il carattere espressivo del riso e del pianto

p. 299 p. 312 p. 337 p. 343 p. 350

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 13 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 978-88-5529-013-5

L’antropologia filosofica contemporanea, corrente emergente nel panorama culturale del Novecento, si propone di gettare un ponte tra filosofia e scienza incardinandolo sul problema dell’uomo, al fine di presentarne un’immagine globale, la quale permetta all’essere umano di recuperare la comprensione di se stesso e di identificare i suoi tratti caratteristici, la sua natura e il suo posto nel mondo. Di fronte alla “domanda sull’uomo”, che da sempre la filosofia si è posta, l’antropologia filosofica vuole difendere la sua funzione critica e metodologica nei confronti di tutte quelle scienze che trattano alcuni aspetti dell’essere umano e pretendono di occuparsene in esclusiva. Si presenta, pertanto, come una dottrina ricca di tematiche trasversali e di grande attualità, volte ad affrontare le sfide della contemporaneità, dove i processi di omologazione e manipolazione dell’esistenza si scontrano con le esigenze di libertà, autonomia e rispetto dei diritti individuali.

Maria Teresa Pansera è professoressa di Filosofia morale nel Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. Le sue ricerche riguardano temi di antropologia filosofica e di etica contemporanea, è autrice di numerosi articoli e saggi, tra cui i volumi: Antropologia filosofica (2001); Tecnica (2013). Ha curato l’edizione italiana delle seguenti opere: Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (2003), Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (2006), Max Scheler, Pudore e sentimento del pudore (2012), Hannah Arendt, Per un’etica della responsabilità (2017).

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