L'umano in transito. Saggio di antropologia filosofica
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© 2008, Pagina soc. coop., Bari Prima ristampa, novembre 2008

Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Storiche Linguistiche Antropologiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Basilicata

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax: 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail: [email protected]

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Paolo Augusto Masullo

L’umano in transito Saggio di antropologia filosofica

edizioni di

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E vietata la riproduzione, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Pagina soc. coop. - Bari Finito di stampare nel novembre 2008 da Globalprint - Gorgonzola (Mi) per conto di Pagina soc. coop. ISBN 978-88-7470-060-8 ISSN 1973-9745

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Ringraziamenti

La mia gratitudine va soprattutto a Giuseppe Cantillo che ha sempre seguito con affettuosa attenzione il mio lavoro. Un grazie va anche ai tanti allievi. In particolare, ai dott.ri Rosella Corda, Maria Caterina Ramunno, Maria Sabia e Maria Ilaria Pezzolla. Insieme ai molti altri, hanno sostenuto il mio lavoro con la loro “sensibile” intelligenza – «umana e “post-umana”» – soprattutto consentendomi di loro insegnare e loro insegnandomi.

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A Francesca, ché senza amore nulla può aver forma

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Non solo il sole è nuovo ogni giorno, ma è sempre nuovo di continuo. Eraclito

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Introduzione

Un ciclo sprofonda, un altro sorge, e noi siamo le marionette e i generici in questi frammenti solari. (Gottfried Benn)

Il progetto di questo piccolo libro, già da qualche tempo venutosi elaborando, origina dalla forte percezione – vissuta nei rapporti con il mondo attuale, costituito di persone, animali e macchine – del fatto che il tempo in cui ci è capitato di vivere sia segnato da una coloritura fortemente complessa, ma specificamente caratterizzata, che è data dal trovarsi al bordo di una profonda trasformazione del mondo, della realtà, dell’esistenza: insomma del fatto dell’esser viventi, umani, ora. Certamente, ogni singola individualità di “vissuto storico” ha provato, nel corso del tempo, almeno una volta, l’impressione che la propria situazione fosse eccezionale. Ogni singola biografia è portatrice di una propria “soggettiva” esperienza d’avvertimento di una qualche vissuta straordinarietà in cui si colloca la propria esperienza vivente. Eppure, ferma restando questa “comune” sensazione esperienziale, non è facilmente negabile, in base alle condizioni di fatto e alle conoscenze attuali, né sul piano della storia della cultura, né su quello della “storia” della natura, che questo tempo – che è certamente un tempo di sbalorditive “im5

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prese” tecnologiche – si configuri, per chi più attivamente ne avverta la potenza senza arrendervisi, e nemmeno rigidamente opporvisi, come un tempo segnato da profonde prospettive di concreto e forse radicale mutamento. È l’avvertimento di un mutamento senza dubbio frutto delle enormi potenzialità, in parte già attualizzate, che la crescita delle conoscenze e delle possibilità “aperte” dalle tecnologie e dalle ingegnerie bio-informatiche, ci spingono a dovere fronteggiare e che interrogano la nostra quotidiana partecipazione al mondo circa il futuro non tanto del nostro essere quanto del nostro divenire: un “nuovo divenire” di uomini, di viventi, di mondo. Si tratta, a mio parere, di una vera “nuova svolta antropologica” che da un lato valorizza, dall’altro mette in discussione quel processo – secondo la del tutto particolare misura della temporalità degli umani – segnato dallo sforzo di “fare i conti” con la nostra riflessività, originatrice di pensiero, linguaggio, azione, storia e cultura, poiché in questo «affidarsi alla tradizione, alle istituzioni della cultura [...], [l’uomo] ha per lo più tralasciato l’istituzione natura in lui come in definitiva aproblematica, giacché l’ha assunta come invariante biologica umana in generale»1. Così come accade per tutti i fenomeni, storici o meno, ciò che vediamo ora è la punta di un iceberg che è sostenuta da una gigantesca stratificazione “immersa”. Essa ha cominciato a costruirsi, strato dopo strato, cristallo su cristallo, a partire dalla seconda metà del secolo XIX e, per pura comodità metodologica, viene inscritta particolarmente, secondo una oramai consolidata prospettiva interpretativa, nella riflessione di Friedrich Nietzsche e di Charles Darwin e nelle conseguenze sempre più “gravi” che, da tale riflessione, sono scaturite. Epperò, da sempre, la narrazione storica ha posto la sua descrivibilità di fronte a “collisioni” e a “salti” che hanno ri6

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configurato la stessa possibilità di ricostruire il pensiero e gli eventi che da essa sono dinamicamente scaturiti. Sembra ora ammissibile pensare che ci si trovi di fronte a un nuovo balzo, che certamente non è avvenuto – né avverrà – in un sol colpo, ma, pure, la precisa percezione diffusa d’essere su di un margine – su di un confine “che lascia e che trova” – che, per chi lo sta attraversando, consente che traspaia, attraverso idee e immagini oramai ripiegate all’immobilità, un presente rivolto al passato e, al tempo stesso, inesorabilmente incalzato da nuove formazioni. Si coagulano, da un lato, di fronte a tale innegabile spinta, resistenze “ancestrali” che fortemente si impuntano “al restare”. Assumono forza, dall’altro, proiezioni oniriche che illusoriamente e pericolosamente obliterando, si scatenano “per andare”. Così, ancora una volta, nel mezzo, ci si ostina a pensare “avvertendo”, da un lato, pur nel pacato ma attento ascolto del sommovimento in atto, segnali di mutamento non contenibili e, al tempo stesso, dall’altro, impegno etico per non passivamente patire, bensì per logopaticamente2 “accudire”, cioè governare con “ragione affettiva”, l’articolatissimo rimescolamento che avanza. Più che la “cura” dell’essere, allora, appare in questo momento necessaria una concentrata e attenta “cura” del divenire: e cos’altro noi siamo, cos’altro possiamo essere – in quanto organismi complessi che hanno, soli tra i viventi e fino a prova contraria, lo straordinario privilegio d’interrogarsi, poiché divenuti interroganti, nel vertiginoso corso del tempo – se non soggettività “accudenti” la loro temporalità, vite riflettenti?

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Note E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, il Melangolo, Genova 2004, p. 144. Il concetto di logopatia è qui mutuato dall’ambito del rapporto critico tra filosofia e cinema, dunque, in altro contesto teorico, seppure con lo stesso significato semantico, da J. CABRERA, Da Aristotele a Spielberg (1999), tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2000. 1 2

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[La speranza] non consiste nella convinzione che qualcosa andrà bene, ma nella certezza che qualcosa ha senso – indipendentemente da come poi, di fatto, andrà a finire. Václav Havel

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1. Uomo, tecnica e tecno-logia

Un essere intelligente porta con sé di che oltrepassare se stesso. (Henri Bergson)

Nella oramai consolidata critica della tradizionale visione filosofico-antropologica, oppositiva di bios, qui inteso nel senso di natura vivente tout court, e techne1, intesa nel senso di cultura – opposizione già variamente tematizzata in Platone2, poi ripresa particolarmente, seppure da prospettive metodologiche diverse, nel Novecento da Ernst Jünger3, Martin Heidegger4, Günther Anders5 – si definisce oggi, nell’ambito del processo di accelerazione del mutamento delle condizioni e delle modalità dell’esistenza vivente, un nuovo spazio di pieno riconoscimento del segno coniugativo6 della evoluzione umana. Tale coniugatività evolutiva, sia dal punto di vista biologico che culturale, scioglie questa tradizionale opposizione e, al tempo stesso, indica l’inizio di una nuova “danza coevolutiva”7 – in cui cioè selezione e variazione si coappartengono – sulla scorta della ripresa aggiornata del modello darwiniano8, integrato dallo sviluppo della ricerca genetica e della biologia molecolare e delle tecnologie ad esso connesse. Questa nuova “danza” comporta la necessità di abbandonare ogni pretesa di determinismo biologico, nonché cul11

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turale, laddove, se per ciò che riguarda il determinismo biologico, il concetto di coappartenenza è relativo alle attività di selezione e variazione, per ciò che invece riguarda il determinismo culturale, a coappartenersi “evolutivamente” sono de-cisione e creazione. Così, già in funzione radicalmente antideterministica, è possibile cogliere una nuova e particolare attenzione alla dimensione della vita vivente: Vorrei tornare su un argomento di cui ho già parlato: la creazione continua di imprevedibile novità che sembra perseguirsi nell’universo. Personalmente credo di sperimentarla a ogni istante. Infatti, per quanto mi rappresenti il dettaglio di ciò che sta per accadermi, quanto povera, astratta, schematica è la mia rappresentazione a confronto con l’avvenimento che si produce!9

Si apre, così, un nuovo spazio di interconnessione tra vita biologica e vita culturale. Se, cioè, sul piano biologico, la “logica” che caratterizza il processo transformativo si esprime attraverso le funzioni di selezione delle specie e di variazioni che s’introducono nel processo selettivo, sul piano della dimensione culturale il “ritmo” appare caratterizzarsi, in modo sorprendentemente omogeneo e continuativo con quello biologico – una continuatività da intendersi non solo da un punto di vista metodologico –, attraverso le funzioni di decisione, che determina questa o quella forma culturale, e di creazione, che è l’attività formativa costantemente ridefinita attraverso l’istituzione di nuove forme derivate dalle decisioni. Tale continuità s’inscrive nella formula che fu magistralmente espressa per definire la percezione, laddove «essa non si dà come un evento nel mondo, al quale si possa applicare, per esempio, la categoria di causalità, ma come una ri-creazione o una ri-costruzione del mondo in ogni momento»10. Allora, l’indagine biologica, selezione e variazione, insiste sulla vita, da quella elementare a quella della coscienza; l’indagine culturale, decisione e creazione, insiste 12

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sull’uomo, dalla dimensione dell’etica, cioè dei modi dell’azione, a quella dell’estetica, cioè del coglimento e della formazione del mondo. Il modello dell’evoluzione “naturale”, dunque, si fa “modo” della e nella evoluzione culturale, senza soluzione di continuità dall’una all’altra. Non salto da un mondo de-limitato a un mondo altro, costruito ex novo, magari separato seppur parallelo, bensì continuità attraverso l’inarrestabile movimento di irriducibile superamento di un limite, che è limite da considerarsi ammissibile solo nel senso di “vincolo” temporaneo. Il “vincolo” corrisponde a qualsiasi condizione che limita il movimento di qualcosa sulla base di un “gioco” di forze. Esso va a sua volta considerato come condizione di possibilità d’evento, d’accadimento relativo. Si tratta di un relativo da intendersi nel senso dell’essere un permanente rapporto: senza questa limitazione e senza questo relativo, cioè senza un qualche rapporto, non sarebbe possibile alcuna apparizione d’oggetto. Tale limitazione, d’altra parte, presa singolarmente, è relativa anche nel senso che essa è finita e pertanto è esposta al suo venir meno in quanto tale, in funzione dell’affievolimento di alcune delle forze che la rendono possibile ovvero per il sopraggiungere di nuove forze che la interrompono – per mezzo, cioè, della continua trans-formazione, cioè del transitare continuo del limite, sempre inteso come vincolo, verso nuovi piani-di-“soglia” –, attraverso cui la “pressione selettiva” di forze agenti, costantemente ri-strutturanti, cioè in grado di disporre nuovi gradi di codificazione e di relazione, è nella condizione, laddove si “attualizzi”, di sciogliere quel “vincolo” per configurarne uno nuovo che è, ancora una volta, da valutarsi come limite temporaneo per la propria apparizione o per l’apparizione di ogni ulteriore “nuovo”. Si ha a che fare, insomma, sul piano “biologico-naturale”, 13

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di selezione nella ripetizione che inventa selezione del nuovo, variazione, inteso anche come cambiamento di funzione, attraverso un sempre più rapido e progressivo spostamento di “soglie”11 e, sul piano “culturale”, di decisione d’azione e di creazione di forme, ovvero infinita potenzialmente e costante concretamente apparizione e costituzione di limitazioni (forme limitate), nella modalità di “condizioni-di-soglia”. «L’idea di soglia come semipermeabilità – che permette un’identità originale (dominio, chiusura del sistema), ma altresì un flusso di ibridazione (apertura del sistema, emergenza, discontinuità) – salvaguarda la soggettività del dialogo e l’irriducibilità dell’esito»12. Ogni nuovo “oggetto del mondo”, che sia considerato dal punto di vista biologico o da quello culturale, si configura come nuova alterità con la quale dia-logare. Esso ridefinisce, in modo continuo, lo spazio operativo di ogni “soggetto” biologico – anche del “pensiero biologico” – con la sua soggettività13. L’ibridazione uomo/tecnica (naturale/artificiale, corpo vivente/corpo macchinico, natura/cultura, bios/techne, organico/inorganico, ecc.) dunque, certamente non nata oggi, ma che oggi sarebbe più opportuno e più chiarificativo ridefinire generalmente come ibridazione uomo/tecnologia14, e che divide parte significativa della platea degli studiosi in un confronto “tecnofobi vs tecnofili”15, attualmente segnala una esplosività di portata epocale che induce a una riflessione di carattere “destinale” e, al tempo stesso, obbliga a riflessioni etiche, politiche ed estetiche mai prima d’ora manifestatesi con così grande evidenza. Tale scenario suggerisce l’esigenza di un vero e proprio mutamento del quadro epistemologico. Questo processo ibridativo, infatti, ci ha condotto «sul bordo estremo di una soglia finora nemmeno concepibile» e «si presenta d’improvviso sotto una forma nuova, che chiede di ridefinire noi stessi»16. 14

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L’esplosione della tecnologia, che lavora sull’organico e sull’inorganico, ha reso il dia-logo bios-techne talmente denso da «costruire processi di ibridazione che rendono possibile l’antropo-poiesi come spazio di possibilità creative attraverso il doppio flusso ospitale di accoglienza dell’alterità e di eccentramento nell’alterità»17. L’eccentrica posizionalità dell’uomo, indicata per la prima volta dalla ricerca sul gradualismo organico da Helmuth Plessner18 e che spinge per la prima volta l’uomo fuori della mera posizione di soggetto verso quella di uomo duplex19, si rafforza passando dal gioco dell’“avere” un corpo e dell’“essere” un corpo alla dimensione di una pluralità d’essere e d’avere identità: L’uomo eccentrandosi nelle alterità [...] allarga la soglia dell’esperibile allontanandosi [...] dai vincoli antropocentrati della sua epistemica. Il tramonto dell’identità forte e l’apertura all’ibridazione con le alterità inaugura un nuovo modo di considerare l’evento ontogenetico nella definizione del sé passando a una lettura [...] coniugativa transitiva [...] e transitoria20.

La domanda intorno all’uomo, allora, muta radicalmente: Alla domanda trascendentale posta dall’Antropologia pragmatica (Was ist der Mensch?), la storia impone una radicale modifica: sebbene si percepisca come l’a priori immediato di ogni esperienza, l’uomo non “è”, ma “diviene” – un evento fatto di eventi, ovvero, secondo la ben nota espressione di Fichte, un uomo «fatto tra gli uomini, uomo»21.

Non più, dunque, una domanda essenzialistica, «Che cosa è l’uomo?», secondo il consolidato leitmotiv di un’antropologia “classico-umanistica”, ma nemmeno quella di un essenzialismo “corretto”, in una nuova aspirazione metafisica, che chiede «Chi è l’uomo?»22, bensì una nuova domanda 15

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che l’uomo è in grado – attualmente – di porre a se stesso: «Cosa diventa questo uomo?»23. È questa la nuova fondamentale domanda che indica il “vero” compito che deve porsi oggi un’antropologia che voglia essere veramente filosofica. Già l’antropologia filosofica contemporanea, di fondazione primo-novecentesca, aveva ben colto il senso del suo interrogarsi: Se c’è un compito filosofico il cui assolvimento viene richiesto in maniera particolarmente pressante dalla nostra epoca, questo è quello di un’antropologia filosofica [...]. In nessun’epoca le visioni circa l’essenza e l’origine dell’uomo sono state più incerte, più indefinite e molteplici che nella nostra24.

Ora, l’esplosione accelerata della tecnologia negli ultimi due decenni impone di prendere ulteriormente atto che in nessun’altra epoca la domanda su cosa stiamo diventando e su come possiamo diventare si è fatta impellente come nella porzione di tempo storico che ci è accaduto di vivere. Questa domanda è determinata dalla esplosione bio-tecnoinformatica che richiede la costruzione di una nuova epistemica dell’uomo. Sembra allora sempre più vacillante ogni idea “fissista” sull’essenza (Wesen) dell’uomo, idea in dissolvimento già annunciata dal giovane Hegel al sorgere del secolo XIX, quando affermava che «la natura umana non è stata mai presente come pura [...]», sicché «i concetti della natura umana sono troppo vuoti»25. Viene così a svilupparsi sempre più fortemente l’idea secondo cui sia da mettere in radicale discussione, per assenza di legittimità, l’ormai vetusto “paradigma d’incompletezza”, ovvero l’herderiano e poi gehleniano paradigma dell’«essere mancante» (Mangelwesen) o dell’essere inadeguato in quanto carente, mancante26. Allora una nuova sfida si annuncia: è la sfida da cui si rileva che non è 16

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più possibile un’indagine sull’uomo a partire dai “saldi” fondamenti epistemologici del passato. Lo stesso Max Scheler, che dell’antropologia filosofica novecentesca fu fondatore, aveva messo in discussione, forse in una modalità non abbastanza sottolineata ed esposta ad ambigue interpretazioni, proprio il concetto di “mancanza”, rovesciandone il senso istituito da Herder e reinterpretandolo non più a partire da una condizione logico-essenziale a priori ma da una condizione culturale-soggettiva a posteriori, cioè fattuale. Scheler, infatti, aveva sostenuto che «soltanto in modo molto manchevole [noch sehr mangelhaft] sappiamo che specie di cosa sia quella che noi chiamiamo ‘uomo’»27. Dunque, non più una constatazione fondativa dell’uomo a partire da una presunta condizione di sua mancanza, bensì una condizione culturale che non ha ancora trovato strumenti, e in ciò è mancante, per provare a definire un concetto stabile di uomo. Ciò significa che ci troviamo in una condizione tutt’affatto nuova in cui la categoria concettuale essenzialistica dell’“essere mancante” non solo appare inadeguata per definire stabilmente il concetto di uomo, ma addirittura sembra essere destituita di ogni fondamento: perde, al tempo stesso, ogni senso il cercare un’essenza dell’uomo, mentre si fa “pieno di senso” cercare di coglierne il movimento. Tutt’al più, dunque, sarebbe legittimo parlare, a proposito dell’uomo, di un essere che sente la mancanza: non va infatti qui dimenticata la celebre espressione, sempre scheleriana, che designa l’uomo come «quella X capace di comportarsi in modo illimitatamente “aperto al mondo” [Der Mensch ist das X, das sich in unbegrenztem Maße “weltoffen” verhalten kann]»28. Altro che “essere mancante” è l’uomo se egli è un essere «illimitatamente “aperto al mondo”»; altro che essere definito dal suo essere mancante se, invece, l’uomo è una X, cioè, “per principio”, una incognita. In questo 17

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quadro, l’uomo sempre più assomiglia alla sua “indefinibile identità”, a una irriducibilità a norma, a una “impossibile normalità”, che è, cioè, l’impossibilità di fare di sé un “oggetto” de-finito, delimitato, il che lo rende irriducibile a qualsivoglia definizione stabile. Non a caso, riferendosi all’indagatissimo problema del rapporto nell’uomo tra scienza e vita, Nietzsche aveva scritto: «La vita non è un argomento»29. Mancante, dunque, non è l’uomo in quanto ente naturale, mancante è il sapere, la techne, dell’uomo, sempre un passo indietro, rispetto a lui stesso30: dunque “mancante” è l’uomo in quanto “bio-tecno-ente”. Così, sarebbe invero più opportuno, e assai meglio argomentabile, nella prospettiva scheleriana, sostenere che l’uomo è privo, sì mancante, ma di “piano costruttivo” (Bauplan)31 – secondo la celebre definizione che Jakob von Üexküll, colui le cui ricerche sono considerate «la cosa più fruttuosa che la filosofia possa far propria della biologia oggi dominante»32, espresse già a proposito dell’animale rispetto alle piante –, laddove la mancanza del “piano costruttivo” rappresenta la “rottura della continuità” con il progetto istintuale. Al posto del termine istinto – Instinkt, Naturtrieb o Drang –, di cui l’uomo sarebbe privo, per il “bipede barcollante”33 sembra dunque più opportuno parlare di un essere vivente mancante, la cui mancanza sul piano biologico, però, può essere invocata solo in quanto egli è privo di un “piano costruttivo” (Bauplan), pur essendo iscritto nello stesso “circolo funzionale” (Funktionskreis)34 del mondo animale. Detto in altri termini: l’uomo non è e non ha un progetto definito ed è dunque messa in discussione ogni teleologia. Ancora una volta, la “dimensione” dell’uomo, in quanto vivente, non è determinata né nell’origine, in quanto effetto di selezione, né nel fine, in quanto destinato alla variazione, sul piano biologico. Così come, sul piano culturale, l’origi18

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ne è l’effetto della/e decisione/i e il “fine” è l’effetto della/e attività di continua creazione/i, anche in questo caso, priva/e di ogni finalità predeterminata che non sia puramente contingente. In tal modo, secondo la progressione graduale dell’indagine antropologico-filosofica, l’esser privo di “piano costruttivo” restituisce all’uomo quel modo d’essere, scheleriano, «illimitatamente “aperto al mondo”» a partire da una condizione di indeterminatezza e di indeterminatività. Forse, proprio per tale ragione, muovendo da questa condizione di comprensione soltanto ex post, l’uomo sente la mancanza di una possibile auto-definizione, essendosi a lungo “illuso” d’esser colui che definisce se stesso, ma che sente, ora, per la prima volta, di essere davvero, e fino in fondo, un ente tra enti, che è stato e, al tempo stesso, che sarà, un ente tra enti: cioè una irreversibile trans-formazione, un transito. A questo punto, allora, il paradigma della mancanza, o dell’incompletezza o della carenza, appare ancora legittimo solo a condizione che si assuma il fatto che l’uomo può essere definito “animale mancante” o, più comunemente, “essere mancante”, rispetto al resto del regno animale, esclusivamente allorché si riconosca che ciò che viene definito mancanza, tanto nel senso dell’origine che nel senso dell’avvertimento ex post di tale mancanza, è semmai l’effetto di un “eccesso” di prerequisitività bio-funzionale, di un eccesso di condizione di completezza, del suo esser più-che-completo, ultra-completo: insomma per condizione di sovrabbondanza bio-funzionale. Allo stesso tempo, la mancanza è accettabile, in quanto categoria antropologica, a condizione che si riconosca dell’uomo la irrealizzata, e probabilmente irrealizzabile, compiutezza – cioè l’impossibile riduzione a norma fissata una volta per tutte – e non, al contrario, come è avvenuto lungo l’arco dello sviluppo di una specifica tradi19

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zione antropologico-filosofica Otto-Novecentesca (cioè a partire da Johann Gottfried Herder fino ad Arnold Gehlen), per una presunta incompletezza funzionale nei confronti del resto del regno animale, un’incompletezza definita in un rapporto di opposizione rispetto a una sua eventuale compiutezza essenzialistica: siamo cioè di fronte a un eccesso e non a un difetto di dotazione funzionale, a un “eccesso d’essere” che comporta un “difetto” di sapere. «Mentre la cornice umanistica ritiene l’uomo un essere incompleto ma compiuto [...] per il postumanesimo [...] l’uomo è un vero e proprio miracolo biologico, che quindi non ha nulla da invidiare agli altri esseri viventi»35. Se, secondo la tesi che Gehlen sostiene, cioè quella dell’uomo come “essere mancante”, il rapporto tra natura e cultura è pienamente riconosciuto e la continuità tra biologia e cultura è pienamente rilevata, quest’ultima, la cultura, è però individuata come risposta alla carenza biologica. Pertanto, secondo Gehlen, quando si osserva che la sfera culturale dell’uomo ha di fatto un significato biologico, viene spontaneo utilizzare anche in questa sede il concetto di ambiente (Umwelt), già sperimentato dalla biologia [...]. Ma sussiste una differenza essenziale: senza dubbio vanno posti in relazione la carenza organica di strumenti dell’uomo da un lato e la sua attività creatrice di cultura dall’altro lato e vanno concepiti come fatti strettamente condizionantisi a vicenda dal punto di vista biologico»36.

Dunque, secondo il filosofo di Lipsia, sussiste un rapporto stretto tra biologia e cultura ma questo rapporto va ricercato nella carenza biologica dell’uomo. Ed è proprio questa tesi, alla luce di quanto già ampiamente argomentato, che appare invero insostenibile. L’idea gehleniana che la cultura “compensi” la “mancanza” biologica appare affatto insostenibile in base alle osservazioni sui prerequisiti dell’animaleuomo che sono senza dubbio sovrabbondanti e stra-ordina20

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ri, considerata la quantità e la qualità di specializzazioni biofunzionali (massa cerebrale, pollice opponibile, stazione eretta, struttura sensoria o ricettiva distribuita e abbastanza alta, elevato grado di eterotrofismo, ecc.). Secondo la prospettiva del “post-umano”, invece, la “mancanza” è – una volta per tutte – l’effetto ex post di un’ipotesi culturalmente argomentabile e non di una conditio a priori, metafisicamente o biologicamente sostenibile. Da ciò deriva un irreversibile rovesciamento del modello dicotomico ed essenzialista della consolidata antropologia dell’essere mancante: non più un uomo compiuto ma incompleto, bensì un uomo completo. L’uomo, anzi, è più che completo, dal punto di vista di un’indagine sui requisiti “naturali” funzionali, ma pure, evidentemente, incompiuto: incompiuto poiché irriducibile, ontologicamente, a ogni compiutezza pensabile, sia dal punto di vista della dinamicità biologica evolutiva, dunque selettivo-variativa, sia da quello della dinamicità, altrettanto evolutiva, cioé selettivo-variativa, o meglio, decisivo-creativa, della sfera tecno-culturale. Se l’ipotesi dell’incompletezza o della carenza risulta infondata, fondata, e concettualmente degna d’essere indagata, appare invece, per la specifica dell’uomo, la categoria di “ridondanza”. Anche gli studi recenti della scienza neurobiologica hanno dimostrato che la plasticità del cervello, ovvero la sua capacità di assumere più strade ontogenetiche, nasce non dalla carenza bensì dalla ridondanza [...]. La ridondanza si traduce in possibilità etero-organizzative. Ovvero in “virtualità vincolate” di partenza, capaci di assimilare le referenze esterne e dar vita a profili ontogenetici che variano a seconda delle storie e dei dialoghi specifici che conducono con l’esterno. Nell’uomo questa ricchezza è addirittura enfatizzata37.

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Insomma, l’uomo cessa di in-sistere ma ek-siste non per carenza, bensì per sovrabbondanza: egli si trans-scende per eccesso di prerequisitività evolutivamente raggiunta e non per difetto di essa. In ciò consiste la sua “infinita apertura”: è la raggiunta con-sapevolezza di dover-si oltrepassare, d’essere, appunto, un transito. L’idea d’uomo, in questo quadro, assume una nuova forma e il modello antropologico che ne consegue sembra sempre più destinato a essere oggetto di considerazione, al tempo stesso unitaria, secondo il progetto dell’antropologia filosofica di Scheler, e dinamica, secondo quello di un’antropologia filosofica calata nell’attuale situazione o, se si vuole, calata nel mondo post-moderno, o, più e meglio ancora, secondo un’antropologia filosofica che si definisce all’interno di quella nuova forma indicata dalla recente categoria del “post-umano” che si sforza di tenere insieme biologia e cultura: una dinamica ibridativa e “mutazionista” in senso evolutivo, cioè tanto selettivo-variativa quanto decisivo-creativa. Oggi un gran numero di scienze empiriche particolari presta servizio alla ricerca antropologica: biologia e psicologia, ricerche sull’evoluzione e sul comportamento [...]. Esse possono certo fornire significativi aspetti parziali dell’uomo, ma devono essere integrate nella totalità, per divenire feconde in vista di una comprensione globale dell’uomo38.

È da rimarcare il fatto che si parli di «comprensione» e non di spiegazione dell’uomo, introducendo, in tale differenza terminologica, il principio di irriducibilità della vita vivente, tanto della “semplice” o “nuda” vita, quanto della vita organismica, come quella dell’uomo, a mero oggetto d’indagine conoscitiva quantitativa e meramente causalistica. La ricerca antropologico-filosofica, dunque, non può fare a meno di un confronto e di una fondamentale interlocu22

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zione con la “questione biologica” e organismica, considerato che «ancora l’antropologia filosofica del ’900 non discute [...] il vincolo biologico dell’umano, ancora assunto come ovvio»39, mentre alla ricerca filosofico antropologica, oggi, spettano «compiti ben più impegnativi [...]. Essi sono: una biologia filosofica, senza la quale non vi può essere nessuna filosofia dell’uomo da un lato e della natura dall’altro, e un nuovo esame della causa»40. Tale “modello” di ricerca sull’uomo, unitario e dinamico, dunque, deve svolgersi secondo un’articolazione “complessa”, per via delle molteplici prospettive interpretative: prima fra tutte quella di un metodo necessariamente ed empiricamente, cioè letteralmente, fenomenologico, e, al tempo stesso, alimentata dall’incessante sviluppo delle scienze biologiche; ma pure quelle cognitive, neurologiche, immunologiche, psicologiche, ecc., che l’ente-uomo, continuamente selezionando, “inventa”, cioè sceglie e decide, e, variando, scopre e crea, e con cui avvia, grazie al costante dia-logo con la tecnologia, necessariamente, nuove forme dia-loganti, in considerazione del fatto che tali conoscenze nuovamente lo in-formano. Se nelle scienze sperimentali – soprattutto biologiche – «si va dunque imponendo la visione “olistica”, tanto più l’ottica dell’integralità afferma i suoi diritti nell’antropologia»41. Il che significa che è privo di senso qualunque tentativo di affrontare lo studio dell’uomo e lo sforzo di una sua comprensione, se non a partire da un’ottica complessiva e complessa. Se dunque l’uomo è, in quanto struttura organica, evidentemente come qualsiasi struttura, più della semplice somma delle sue parti, e se poi egli è struttura complessa somato-bio-psichica, corpo-vivente e “spirito”, in quanto coscienza riflessiva, dunque coscienza di sé, il suo divenire può essere compreso soltanto se ne viene pensata la – pur pre23

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caria e indefinita – unitarietà integrale in quanto complesso organico integrato ricorsivo e variativo (secondo una prospettiva che muova, cioè, dai “frattali cognitivi” ai processi biologici e culturali secondo “schemi” di feedback bottomup e bottom-down)42. In questo senso, allora, con lucida e puntuale visione predittiva, già Jurgen Habermas coglieva, seppure da una prospettiva critica di tipo discorsivo-comunicativo, il senso di una nuova modalità di rapporto dell’uomo con la natura, considerata in chiave non oppositiva alla dimensione culturale. Delineando in questa diversa relazione il carattere dinamico della soggettività, in vista di nuove e più “aperte” forme di interazione dinamica, egli poteva sostenere che noi possiamo, invece di trattare la natura come possibile oggetto di disposizione tecnica, incontrarla come partner di un’interazione possibile. Possiamo cercare la natura fraterna invece di quella sfruttata. Al livello di una soggettività ancora incompleta possiamo arrivare ad attribuire una soggettività ad animali e piante, perfino alle pietre, possiamo comunicare con la natura, invece di limitarci a manipolarla, interrompendo la comunicazione [...]. Soltanto quando gli uomini comunicassero senza coazione e potessero ciascuno riconoscersi nell’altro, il genere umano potrebbe eventualmente riconoscere la natura come un altro soggetto»43.

Nulla sembra più convincente di un simile dis-corso che tiene uniti, lungo un solo filo, natura, uomo e tecnica in una effettiva dialettica comunicativo-relazionale.

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Note 1 Qui la coppia bios-techne è volutamente intesa in opposizione alla più “tradizionale” coppia psyché-techne, poiché chi scrive ritiene inadeguato l’isolamento di ogni dimensione psichica dal piano della dimensione del viventeuomo. Anche la vita, “semplicemente vivente” – Zoé oltre che Bios –, partecipa di questa dialettica. Tutta la vita è, in ogni grado, forma organizzata e organizzativa: dal più semplice al più complesso, per cui la vita dell’uomo non è più bios di quanto non sia zoé, seppure non è necessario ammettere, nell’ambito di questo superamento di “barriera concettuale”, il concetto di “gradualismo”, su cui più avanti ci soffermeremo. Sulla centralità della tematica psyché-techne, cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, dove è centrale la tesi per cui «Con la rivoluzione copernicana della scienza moderna la tecnica è diventata da strumento in mano all’uomo, soggetto della storia [...]. Quando l’età della tecno-scienza sarà pienamente dispiegata la domanda non sarà più “che cosa possiamo fare noi con la tecnica” ma “che cosa la tecnica può fare di noi”»; vedi anche ID., L’uomo nell’età della tecnica, in «Micromega», 3, 2007, p. 177. Per una assai più concisa panoramica storica del tema, cfr. R. MASSARO, A. GROTTI, Il filo di Sofia, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 19-57. 2 PLATONE, Fedro, LIX-LXIV. È il celeberrimo racconto del dio egizio Theuth. Il tema del rapporto uomo-tecnica è presente in Platone anche nel Protagora, XI attraverso il racconto del mito di Prometeo. 3 E. JÜNGER, L’operaio. Dominio e forma (1932), tr. it., Longanesi, Milano 1984. 4 M. HEIDEGGER, La questione della tecnica (1953), in Saggi e discorsi, tr. it., Mursia, Milano 1976. 5 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, 2 voll. (I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, 1956; II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, 1980), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2003. 6 R. MARCHESINI, Post-human, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Scrive Marchesini a p. 14: «Per il postumanesimo l’uomo è semplicemente un essere transizionale eteroriferito [...]. Parlare di uomo come frutto ibrido significa spostare il fuoco d’indagine dalla polarità umana all’atto del dialogo che l’uomo intraprende con il mondo». 7 G. BATESON, Mente e natura (1979), tr. it., Adelphi, Milano 1984, pp. 68 e 299-300. Il concetto di coevoluzione viene definito da Bateson allorché egli sottolinea il carattere di interazione tra due o più specie, coinvolte nel meccanismo evolutivo. Sul concetto di coevoluzione si veda anche M. CERUTI, Pre-

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sentazione a W.I. THOMPSON (a cura di), Ecologia e autonomia (1987), tr. it., Feltrinelli, Milano 1988; alle pp. 21-23 Ceruti sostiene che «La compatibilità dinamica, o coevoluzione, attraverso la conservazione della chiusura organizzativa (identità) dei sistemi di interazione, è ciò che costituisce l’adattamento [...]. Queste nuove immagini, dell’evoluzione come coevoluzione (deriva, bricolage...) e dell’organismo come sistema gerarchico e stratificato, consentono una chiarificazione di alcune questioni epistemologiche e di alcune ambiguità che risalgono all’origine stessa del pensiero evoluzionista. In particolare il cambiamento decisivo consiste nel porre alla base delle scienze evolutive la nozione di vincolo e non la nozione di causa». Tale “correzione” appare, per il discorso che qui si presenta, come questione fondamentale. 8 Il modello aggiornato del darwinismo pone definitivamente al centro dell’attenzione, pur con le sue molteplici nuove conoscenze acquisite, il fatto che esso, nel suo nucleo fondamentale, sia ancora perfettamente valido: «La solidità del paradigma darwiniano si deve, probabilmente, a due ragioni principali: al fallimento del riduzionismo e alla semplicità del darwinismo [...] la nuova teoria dell’evoluzione, frutto della sintesi delle teorie degli studiosi di anagenesi e cladogenesi, è stata chiamata teoria sintetica dell’evoluzione [...] perché quella sintesi racchiude in sé gli elementi essenziali della teoria originale di Darwin. In particolare, essa fa riferimento all’interazione reciproca di variazione e selezione, che rappresenta il nucleo del paradigma di Darwin» (citato da E. MAYR, L’unicità della biologia [2004], tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2004, pp. 132-133). 9 H. BERGSON, Il possibile e il reale (1920, ed. 1930), tr. it. in Pensiero e movimento, Bompiani, Milano 2000, p. 83. 10 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it., Bompiani, Milano 20053, p. 183. 11 Il concetto di “soglia” ha un significato fondamentale nell’ambito della performance biologica che mette in discussione il principio del limite e, al tempo stesso, ogni rigido causalismo. Tale concetto può essere altrettanto correttamente applicato alla dimensione “culturale”. «In biologia ma [...] anche nella tecnologia, le strutture non sono vincolate a una funzione in un rapporto rigidamente causale. In realtà struttura e funzione sono legate tra loro attraverso meccanismi di retroazione con passaggi di soglia che determinano lo sviluppo di nuove possibilità funzionali e nuove aperture morfologiche. Il passaggio di soglia è in altri termini un avvicendamento di vincoli: una morfologia biologica (per esempio le piume) strettamente vincolata a una funzione (la termoregolazione) può ipertrofizzarsi in accordo con il proprio vincolo (migliorando la fitness dei mutanti in virtù di una migliore termoregolazione), ma quando raggiunge una soglia critica ecco che emerge una nuova funzione (il

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volo). È solo in questa fase che si apre un nuovo percorso strutturale e funzionale, dando vita ovviamente a nuovi vincoli» (MARCHESINI, Post-human, cit, p. 26). Il concetto del cambiamento funzionale (ted. Funktionswandel), sopra accennato, è stato oggetto degli studi di neurobiologia già nella prima metà del Novecento, prima ancora dello sviluppo della biologia molecolare. A questo proposito cfr. V. VON WEIZSÄCKER, Der Gestaltkreis (1940), tr. it. a cura di P.A. Masullo, La struttura ciclomorfa, Esi, Napoli 1995. 12 R. MARCHESINI, Antropocentrismo e complessità. Dall’ostacolo epistemologico al concetto di soglia, in «Quaderni di Bioetica», Macro, Cesena 1998, p. 25. 13 Per intendere meglio queste espressioni si veda: VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 2, laddove il filosofo e neurobiologo tedesco tematizza l’«introduzione del soggetto nella biologia» (Einführung des Subjektes in die Biologie). Per questa tematica, si veda anche: P.A. MASULLO, Patosofia, Guerini e Associati, Milano 1992, pp. 25-70. Probabilmente, la proposta weizsäckeriana della «introduzione del soggetto nella biologia», come esito della formulazione del concetto di «atto biologico» (biologischer Akt) che si esprime innanzitutto nella forma della «improvvisazione» (Improvisation), può essere considerata, ben al di là delle intenzioni del suo autore, come la prima formulazione “scientifica” del “post-umano”, poiché essa rappresenta un punto di “radicale” ibridazione tra una categoria culturale, ovvero la “tecnica”, il soggetto, e il “fatto” della vita naturale, ovvero la biologia, intesa come vita vivente – che poi viene dall’uomo fatta scienza. Si viene avviando, così, un continuum da cui scaturisce la necessità di superamento di ogni possibile separazione tra bios e techne. 14 Sulla differenza fondamentale tra “tecnica” e “tecnologia”, vedi più avanti la n. 11 del cap. 4. 15 C. FORMENTI, Incantati dalla rete, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 954. 16 A. SCHIAVONE, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, pp. 4-5. 17 R. MARCHESINI, Contro la purezza essenzialistica. Verso nuovi modelli di esistenza, in M. PIREDDU, A. TURSI (a cura di), Post-umano, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 40. 18 H. PLESSNER, I gradi dell’organico e l’uomo (1928), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006. 19 U. FADINI, De homine. Percorsi dell’antropologia filosofica novecentesca, in PLESSNER, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 389. 20 R. MARCHESINI, Contro la purezza essenzialistica. Verso nuovi modelli di esistenza, in PIREDDU, TURSI (a cura di), Post-umano, cit., p. 40. 21 E. DE CONCILIIS, La persistenza dell’umano, in «Kainòs», Rivista on-line

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di critica filosofica, 6, 2006. La domanda kantiana Was ist der Mensch? si trova, in effetti, in I. KANT, Logica (1800), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2004, p. 19. L’espressione fichtiana, assai più pregnante, particolarmente in questo contesto, è, in realtà, «L’uomo, come ogni essere finito in generale, diviene uomo soltanto tra gli uomini»: J.G. FICHTE, Fondamento del diritto naturale (1796), tr. it., Laterza, Roma-Bari 1994, p. 39. 22 M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-53), tr. it., Mursia, Milano 1968, p. 152. Scrive Heidegger: «Poiché l’uomo in quanto storico è un io, la domanda sul suo proprio essere deve passare dalla forma “che cos’è l’uomo?” alla forma “chi è l’uomo?”». 23 V. VON WEIZSÄCKER, Der Kranke Mensch. Eine Einführung in die medizinische Anthropologie (1939), K.F. Köler, Stuttgart 1951, p. 279. Sull’opera e il pensiero von Weizsäcker, cfr. MASULLO, Patosofia, cit. 24 M. SCHELER, Mensch und Geschichte (1926), in Gesammelte Werke, Bd. 9: Späte Schriften, Francke, Bern-München 1976, p. 120. Il saggio in traduzione italiana è in ID., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, a cura di P. Racinaro, Guida, Napoli 1988, pp. 257-260. 25 G.W.F. HEGEL, Scritti teologici giovanili (1800), tr. it. a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972, p. 220 e pp. 221-222. 26 A. GEHLEN, L’uomo (1940), tr. it., Feltrinelli, Milano, p. 60 e, soprattutto, pp. 111-113. È il concetto di “carenza” o “mancanza” che fa dell’uomo, secondo Gehlen, un essere la cui “essenza” è l’assenza di significativi caratteri di prerequisività naturale o, secondo le sue stesse parole, di «sprovvedutezza biologica dell’uomo». Questo stesso concetto era stato già annunciato dal filosofo romantico – cui Gehlen fa riferimento in queste pagine – J.G. HERDER, Abhandlung über den Ursprung der Sprache (1772), tr. it., Saggio sull’origine del linguaggio, Pratiche Editrice, Parma 1995, laddove, come si legge a p. 49, Herder così descrive la condizione dell’uomo: «collocato nudo tra gli animali, egli sarebbe dunque l’essere più derelitto della natura; nudo e spoglio, debole e indifeso, timido e inerme e, per colmo di sventura, defraudato di ogni guida nella vita». 27 M. SCHELER, Die Formen des Wissen und die Bildung (1925), in Gesammelte Werke, Bd. 9: Späte Schriften, cit., p. 91: «Wir wissen noch sehr mangelhaft, was für ein Ding es überhaupt ist, das wir den ‘Menschen’ nennen». 28 M. SCHELER, La posizione dell’uomo nel cosmo (1927-1928), tr. it. a cura di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2000, p. 112. 29 F. NIETZSCHE, La gaia scienza (1882 e 1886), ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 199510, af. 121, p. 159. Scrive Nietzsche: «Ci siamo sistemati un mondo in cui poter vivere – con l’ammettere corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto; senza questi

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articoli di fede nessuno, oggi, sopporterebbe la vita! Ma con tutto ciò essi non sono ancora per nulla qualcosa di dimostrato. La vita non è un argomento: tra le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore». Il tema dell’“errore” nell’ambito della epistemologia e della teoria della conoscenza nella ricerca contemporanea è ripreso sistematicamente da E. MACH, Conoscenza ed errore (1905), tr. it., Einaudi, Torino 1982 e da G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico (1966), tr. it., Einaudi, Torino 1998. 30 Come, a tal proposito, non ricordare l’incipit della Prefazione che Nietzsche pone quali prime parole in apertura della Genealogia della morale? «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi»: cfr. F. NIETZSCHE, Genealogia della morale (1887), tr. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1984. 31 J. VON ÜEXKÜLL, Unwelt und Innerwelt der Tiere (1909), Springer, Berlin 19212, p. 10. 32 M. HEIDEGGER, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine (1983), il Melangolo, Genova 1999, p. 380. È nota la posizione “resistente” da parte di Heidegger nei confronti della biologia e dell’antropologia filosofica di “stampo” biologico-evoluzionistico. Su questa tematica, ricorrente nella letteratura critica, cfr., da ultimo, il saggio di C. RESTA, La provocazione tecnica e l’umanità dell’umano, in P. BARCELLONA, F. CIARAMELLI, R. FAI (a cura di), Apocalisse e post-umano, Dedalo, Bari 2007, pp. 89114. 33 L’espressione è, in effetti, il titolo del saggio del paleoantropologo P.V. TOBIAS, Il bipede barcollante (1982), tr. it., Einaudi, Torino 1992, nel quale si indagano i grandi mutamenti morfologici e funzionali avvenuti nel corso del processo evolutivo dell’uomo. Al centro dello studio sta, inoltre, la questione della straordinaria pressione selettiva che ha reso possibile le variazioni cerebrali che hanno dato vita allo sviluppo della “costante di encefalizzazione” che ha prodotto, a partire dal Pan Troglodytes, un cervello grande e complesso come quello dell’homo sapiens “moderno”. 34 Il concetto di Funktionskreis è descritto da J. VON ÜEXKÜLL, tanto in Unwelt und Innerwelt der Tiere, cit., quanto in Theoretische Biologie, Springer, Berlin 1928 (II ed. completamente rivista e ampliata rispetto alla ed. del 1920). 35 MARCHESINI, Post-human, cit., pp. 13-14. 36 A. GEHLEN, Prospettive antropologiche (1961), tr. it., il Mulino, Bologna 2005 (nuova ed.), p. 74. 37 R. MARCHESINI, Contro la purezza essenzialistica. Verso nuovi modelli di esistenza, in PIREDDU, TURSI (a cura di), Post-umano, cit., pp. 32-33.

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38 E. CORETH, Antropologia filosofica (1976), tr. it., Morcelliana, Brescia 19913, p. 11. 39 MAZZARELLA, Vie d’uscita, cit., p. 144. 40 H. JONAS, Organismo e libertà (1966, ed. New York), tr. it., Einaudi, Torino 1999, p. 129. 41 P.A. MASULLO, Introduzione a VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. XIV. 42 Sul concetto dei “frattali cognitivi”, cfr. MARCHESINI, Post-human, cit., pp. 323-359. Vedi anche le Osservazioni conclusive del presente libro, pp. 115 sgg. 43 J. HABERMAS, Teoria e prassi nella società tecnologica (1967), tr. it., Laterza, Bari 1971, p. 201.

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Tutto quello che facciamo nella vita consiste nello scoprire quello è che già nel nostro cervello. Michael S. Gazzaniga

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2. L’umano in transito

Nell’uomo si può amare che egli sia una transizione. (Friedrich Nietzsche)

Sulla base delle premesse concettuali svolte fin qui, una prospettiva d’analisi che voglia, ancora una volta, porsi al lavoro in un’indagine che si provi di avviare a comprensione il processo di mutamento dell’umano, del suo carattere e delle sue categorie specifiche, deve necessariamente accettare il confronto con le condizioni attuali di esistenza e configurazione della “situazione” dell’uomo nel mondo. Se risulta oramai evidente che ci si muove nel quadro di un mutato scenario segnato dal “trionfo” tecnologico che si presenta come un nuovo paradigma d’interlocuzione interrogativa, appare necessario sottoporre ad analisi la direzione che tale mutamento sembra prendere per cogliere alcuni caratteri che attualmente specificano una nuova e più dinamica concezione dell’umano. Nella sua instancabile attività “crea(t)tiva”, fondata sulla continua ricerca di partnership d’interlocuzione («un corpo più nobile devi creare, un moto primo, una ruota da se stessa ruotante – tu devi creare un creatore»)1, l’uomo contemporaneo sembra “sgusciare” fuori di sé, sembra muovere – nella sua sbalorditiva attività “bio-tecno-poietica” – verso un processo sempre più teso a un affermarsi, negandosi, a 33

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un negarsi, verso una nuova, e sempre più multicentrica, affermazione di sé: teso, dunque, costantemente, verso un “io è un altro-(ve)”. Tutta la geografia della scena è inusuale e dominata dall’altrove: non già esperienze mediate dalla presenza dei corpi, ma indipendenti da essi. La comunicazione virtuale, per quanto [...] pur sempre caratterizzata dalla fisicità dell’hardware, si caratterizza per [...] lo sganciamento dai vincoli corporei e territoriali2.

De-temporalizzazione, de-spazializzazione, procedura di continua “virtualizzazione del reale” e “realizzazione del virtuale”, apertura e continuo sconfinamento dal “reale”, rottura dell’approccio meccanicistico natura/uomo. Il rapporto tra i corpi e le loro “identità” vicarie si è modificato [...]. La visione del mondo della borghesia, che incorpora un approccio meccanicistico del rapporto universo/natura e una visione egocentrica dell’uomo, [...] ha assunto un ruolo dominante nella produzione del sapere soltanto per un periodo di circa 150 anni3.

Ora non è più così, né può più esserlo, come aveva già splendidamente e anticipatamente colto l’ironico e amaro acume filosofico e letterario di un grande pensatore russo: «Pare che la faccenda dell’uomo si riduca in realtà a questo: al dimostrare in ogni istante a se stessi di essere uomini e non tasti di pianoforte»4. L’homo creator5 – divenuto homo creator suae naturae, e dunque homo materia, secondo la celebre espressione apocalittica di Günther Anders, cioè secondo quel modello improntato a una visione radicalmente negativa dello sviluppo tecnologico che può essere definito come atteggiamento “tecnofobo” – dischiude invece orizzonti imprevedibili al proprio destino organico, anch’esso esposto a un suo possi34

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bile oltrepassamento, mentre la hybris prometeica appare sempre meno “colpa” e sempre più segno di “irriducibilità ontogeneticamente fondata”: ciò di cui l’uomo cerca di riappropriarsi è la virtualità dei “sogni lanciati nel regno della metafisica” per riconnettere nel circuito della concretezza dell’esistenza esperienziale tanto il virtuale che l’attuale, tanto il possibile che il reale. «Il virtuale non è affatto il contrario del reale, ma un modo anzi di essere fecondo e possente, che concede margini ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza fisica immediata»6. In questo quadro di mutamento, oggi accelerato attraverso una sempre più spinta ibridazione bio-tecnologica che diviene «ibridazione epistemologica»7, lo “sradicamento” dell’umano appare, tuttavia, sempre più praticabile in termini di cognizione operatrice (moltiplicatore quantitativo) ma sempre meno sostenibile in termini affettivo-emozionali (divisore qualitativo) che spingono l’uomo a domandare all’uomo: «Quale sex-appeal lo trascina tra le braccia della sirena cromata? [...] fino a che punto la nostra vita psichica, e in particolare quella emotiva, si [è] modificata [?] [...]. In altre parole se oggi una grande parte delle nostre energie emotive non sia destinata alle macchine»8. Si profila qui il grande tema della crisi della vita emotivo-affettiva nel nostro tempo come crisi di “carne dolente”. Questa crisi è da intendersi nel significato di un tempo, il tempo della tecnologia, in cui è messo in discussione il valore dell’organico come luogo di connessione della passione e dell’azione, come chiasma o “porta girevole” (Drehtür)9 dell’intima relazione dell’uomo con il mondo. Si rivela, infatti, che anche la tecnologia, come il corpo, è «narcisistica, erotizzata, dotata di una magia naturale che attira nella sua rete le altre significazioni nello stesso modo in cui il corpo sente il mondo sentendosi»10, e pertanto aspira a sostituire tutto l’uomo. 35

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Il peso di un così radicale mutamento, dunque, non mette tanto in pericolo la presuntuosa idea di razionalità “classico-moderna” fondata su un logos meramente scientifico – secondo il quale «la logica della scoperta scientifica non è la logica del logos, è una logica totalmente irriducibile a uno sviluppo lineare; il logos, negando la generazione e procedendo sulla strada dell’autarchia, ha soppresso l’esperienza, il sentire»11 – e, dunque, su di una razionalità ordinatrice ed enumeratrice, meramente quantitativa, tesa pertanto a un fare computativo incessante (homo faber), giustificato dall’urgenza del sapere – essa ne è anzi un’ulteriore forma di compimento. Il radicale mutamento, piuttosto, comporta il rischio di vuotare il patrimonio, forse irrinunciabile, di una ragione radicalmente immersa nel sentire, nel “sensibile”. Si tratta di quella “ragione affettiva” (ragione patica) ordinatrice di passioni e affetti per cui «ogni passione ha una parte di ragione» e per cui, ancor più radicalmente, «la ragione stessa è uno stato di relazione tra diverse passioni»12 che, proprio in nome di quel “sentire”, ci fa persone agenti, soggetti di de-cisione, individui amanti, singolarità de-sideranti, consapevoli “soggettività erotiche” – secondo il modello che muove, pur nelle differenze specifiche di analisi e di prospettive, da Platone fino a Scheler, da Nietzsche fino Deleuze – cioè creativi produttori d’azione scelta come perenne aprirsi di possibilità, atto sensibile e pieno in quanto “pura” improvvisazione, ogni volta, da una potenziale “totalità d’atti”. La domanda che si pone allora è: come colmare, nel mutamento esteriorizzante della “protesizzazione tecnologica”, secondo la celebre espressione di Marshall Mac Luhan, lo iato di un’interiorità biotica sempre più a rischio d’esser ridotta a radicale “deserto emozionale” o, nel migliore dei casi, sempre più esposta al rischio di una involuzione diretta verso un sentire, soggettivo, meramente pulsionale e, social36

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mente, com-pulsivo? L’accento sul rischio di “schizofrenia” tra ragione ed emozione, tra razionalità operativa e affettività etico-riflessiva si profila come orizzonte negativo dello sviluppo tecnologico. Le facoltà si sono allontanate l’una dall’altra e non si vedono ormai più; non vedendosi più, non vengono a contatto; e dato che non vengono più a contatto non si fanno più male. Insomma: l’uomo, in quanto tale, non esiste più, ma esiste soltanto, da un lato, colui che agisce e produce e, da un altro lato, colui che sente13.

È l’irruzione della «schizotopia» andersiana nell’epoca delle macchine. E ancora: fino a che punto la “mediazione tecnologica” sarà in grado d’essere sintesi effettivamente trans-formativa, perché al tempo stesso con-servativa – in grado, cioè, di rendere l’uomo capace di andare oltre se stesso, secondo il modello dello “spirito libero” nietzscheano, conservandolo? Ogni superamento, infatti, non può che essere anche conservazione, poiché laddove, superandosi, l’uomo anche non si conserva, ciò che si realizza nel superamento è, in quanto “frattura” – non pausa – apparizione di altro-che-uomo, in quanto viv-ente, che proviene, cioè, da niente, non-ente. È proprio in questo punto che si apre la riflessione critica all’homo bio-technologicus che, conservandosi “umano”, “deve” oltrepassar-si per mezzo della tecnologia, ma non tradirsi14 nel senso di negare se stesso – come accade per il progetto classico del “trans-umanesimo”, rappresentato principalmente da matematici e ricercatori di computer science come Hans Peter Moravec o Alexander Chislenko, ovvero, più modestamente, e solo parzialmente, in certi accenti esasperati dell’“iper-umanesimo” che ha in Pierre Levy e in Donna Haraway i suoi più significativi rappresentanti – bensì tra-dirsi nel senso di “trans-portarsi”, portare sé al di là, tra37

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dirsi inteso come “tra-dursi” nel senso di aumentare il grado di riconoscimento di sé e, ancora, tradirsi nel senso del tradere, del rimanere, cioè, fedele a una “tradizione”, per diventare anche, appunto, “oltre-che-umano”, cioè ulteriormente o nuovamente umano, proprio nella prospettiva in cui Nietzsche, con l’accorata denuncia della “morte di Dio”, finiva col dichiarare, al contempo, la “morte dell’uomo” – «Ciò che lo interessa è la morte dell’uomo»15 – a partire da cui solo uno “spirito libero” avrebbe potuto superare il tragico evento nell’atto del cogliere l’assolutezza della novità dell’evento stesso: finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo [...]; il mare, il nostro mare, ci sta aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”16.

Proprio a partire da questo nuovo punto di vista, viene disegnandosi la novità del passaggio da un vecchio a un nuovo livello epistemico della riflessione in merito alle coordinate del sapere e del compito dell’uomo. Infatti vi è un ultimo livello che ha un carattere “epistemico” e che riguarda la costituzione dell’uomo nella geografia dei saperi, la sua emersione all’interno degli stessi come oggetto di sapere tramite le scienze umane e il suo fungere quindi da principio regolatore. Questo è il modello che è stato prospettato nello Übermensch di Nietzsche e nella “morte dell’uomo” di Foucault. In questo senso il superamento dell’umano si pone sullo stesso piano del superamento del divino nel motto di Nietzsche “Dio è morto”. Dunque si tratta di dire: “l’Uomo è morto”. Che significa tutto ciò?17

È possibile sostenere un nuovo cambiamento di orizzonte epistemico cercando di individuare i punti di “cesura” 38

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che hanno caratterizzato lo sviluppo delle coordinate storiche della riflessione sull’uomo. In tal senso sembra lecito concordare con chi sostiene che dire che Dio è morto significa che, se nel trattare del medioevo non si può fare a meno di confrontarsi con problemi teologici e con impostazioni religiose (ad esempio nell’arte, in cui il divino è sempre presente), nell’Ottocento, quando scriveva Nietzsche, sia la storia che i saperi, che l’arte, potevano benissimo prescindere dal discorso su Dio (nell’arte infatti i personaggi sacri scompaiono quasi del tutto, o vengono ripresi in modo ironico). Diversamente nell’episteme ottocentesca è impossibile sottrarsi all’idea di “Uomo”, in quanto è in quel momento che si è convinti che è l’uomo a fare la storia, che l’arte esprima l’umanità dell’artista e che in essa sia un segno dell’umanità dell’uomo in generale. Questa visione è solidale all’idea che la rivoluzione riscatti l’uomo dal suo stato di alienazione e che anche la religione sia espressione culturale degli eterni dilemmi esistenziali dell’uomo18.

Appare chiaro, allora, il significato dell’avvento del postmoderno che, necessariamente, “apre” al “post-umano”. Postumano, in questo senso, significa che si sta passando ad un altro sistema, in cui il ruolo dell’uomo sta diventando inessenziale, come lo era diventato quello di Dio nell’Ottocento positivista. Tale fenomeno, se veramente si sta attuando, dovrebbe comportare delle conseguenze di lungo respiro sull’organizzazione stessa dei saperi. Secondo questo assunto ne dovrebbe conseguire una crisi disciplinare di quei discorsi che erano stati i pilastri della geografia epistemica umanistica. Questi pilastri così chiamati in causa dovrebbero essere rappresentati da discorsi come quello dell’antropologia, della storia, dell’arte, della politica e infine dell’etica.

In relazione e in funzione di tali osservazioni, il quadro del mutamento epistemologico e delle condizioni di modalità organizzativa della riflessione antropologica sembrano 39

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spingere per essere dirette verso una complessiva riconfigurazione. Il “post-umano” allora verrebbe ad essere non semplicemente un cambiamento di organi, ad esempio una mano meccanica al posto di quella naturale (come in Stelarc), ma un cambiamento di “mondo”, che tra l’altro rende anche più accettabile la riparabilità e l’integrabilità tecnica dell’uomo, ma che non si limita a questo19.

Non si tratta, allora, di rischiare di passare dall’idea di un “uomo senza mondo” a quella di un “mondo senza uomo”, secondo la visione “pessimistica” di Anders. Piuttosto è necesario domandarsi non “che cosa è l’umano”, ma quale immagine dell’umano vogliamo salvare nel momento in cui è diventato possibile il suo “superamento”; quali aspetti vogliamo prendere in cura per scongiurare il rischio della perdita del mondo e per assicurare [...] una vita degna di essere vissuta20.

Sembrano essere questi i termini con cui si ripropone il tema del superamento dell’uomo nella tarda-modernità, alla luce della “morte di Dio”. È nuova la dialettica interlocutoria: Se le forze dell’uomo compongono una forma solo entrando in rapporto con le forze del fuori, quali sono le nuove forze con cui rischiano di entrare in rapporto, e quale nuova forma, né Dio né uomo, può derivarne? Questo è il modo corretto di porre quel problema che Nietzsche chiamava “il superuomo”21.

Diventare “superuomo”, cioè “oltre che umano”, non è, dunque, semplicemente abbandonare l’essere antropocentrico autoriferito per puntare, attraverso un progressivo sviluppo dell’interfaccia tra umano e macchina elettronica, passando «dalla giustapposizione alla sovrapposizione fino 40

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alla definitiva sostituzione dell’umano da parte della tecnologia»22, a una nuova identità esclusivamente tecnoinformatica; diventare “superuomo” significa, invece, diventare – cioè, letteralmente, accettare d’essere – un viv-ente pluricentrico eteroriferito, in grado, cioè capace, di “fare-i-conti” con ogni alterità, con le sempre più moltiplicantisi “forze del fuori”: dunque diventare davvero “ultra-umano”, cioè “oltre-che-umano”, ovvero, solo in questo senso, “post-umano”.

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Note 1 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883), ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 200122, p. 77. 2 MASSARO, GROTTI, Il filo di Sofia, cit., p. 42. 3 A.R. STONE, Desiderio e tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet (1995), tr. it., Feltrinelli, Milano 1997, p. 104. 4 F. DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo (1861), tr. it., Einaudi, Torino 2002, pp. 32-33. 5 M. SCHELER, Mensch und Geschichte, in Gesammelte Werke, cit., pp. 141-144. 6 P. LEVY, Il virtuale (1995), tr. it, Feltrinelli, Milano 1997, p. 2. 7 MARCHESINI, Post-human, cit., pp. 155-166. 8 ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., pp. 51-52. 9 Il “principio della porta girevole” (Drehtür Prinzip) è stato elaborato dal filosofo e neurobiologo, già citato in precedenza, VIKTOR VON WEIZSÄCKER, a proposito del “gioco” movimento/percezione (Bewegung/Wahrnehmung), nell’opera del 1940 Der Gestaltkreis. Cfr., in quest’opera, le pp. 46-48 della tr. it. cit. 10 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile (1964), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 137. 11 P. BARCELLONA, L’epoca del postumano, Citta Aperta, Troina 2007, p. 60. 12 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi. 1887-1888, ed. it. a cura di G. Colli, M. Montinari, Adelphi, Milano 1990, VIII, 2, 11, p. 311. 13 ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 282. 14 Sulla ricchezza semantica del trans-, cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano (1996), Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 51-54 e particolarmente, dello stesso autore, Sapere di confine. La frontiera come luogo epistemologicamente più alto, in «Pluriverso», 1, 1997, p. 28. 15 G. DELEUZE, Foucault (1986), tr. it., Cronopio, Napoli 2002, pp. 171-172. 16 NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 343, p. 252. 17 R. TERROSI, Ex-humans, in, «Kainòs», Rivista on-line di critica filosofica, 6, 2006. 18 Ibid. 19 Ibid. 20 E. PULCINI, L’«homo creator» e la perdita del mondo, in M. FIMIANI, V. GESSA KUROTSCHKA, E. PULCINI (a cura di), Umano post-umano, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 34. 21 DELEUZE, Foucault, cit., p. 173. 22 R. BRAIDOTTI, In metamorfosi (2002), tr. it., Feltrinelli, Milano 2003, p. 265.

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Il pensiero innovativo, trasformatore, nelle arti come nelle scienze, in filosofia come nella teoria politica, sembra originarsi da “collisioni”, da salti quantici nell’interfaccia tra il conscio e il subconscio, tra il formale e l’organico, in un gioco e in un’arte “elettrica” di agenti psicosomatici largamente inaccessibili alla nostra volontà e alla nostra comprensione. George Steiner

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3. Mutamento del paradigma epistemologico della biologia e conseguenze antropologiche

Nessuna scienza obiettiva, nessuna psicologia, neppure alcuna filosofia hanno mai assunto a tema questo regno del soggettivo, e, di conseguenza, non l’hanno mai veramente scoperto. (Edmund Husserl)

Tutto il “pensiero umanistico”, che segna la nascita della modernità, ha riflettuto prevalentemente come se l’uomo non fosse un essere vivente, idealizzando la sua identità e il suo posto nel cosmo e trattando la natura dell’uomo come fosse un’essenza. Ora, d’improvviso, la natura umana torna al centro dell’attenzione non già perché ci si occupi finalmente di biologia anziché di storia, ma perché le prerogative biologiche dell’animale umano hanno acquisito un inopinato rilievo storico nell’odierno processo produttivo [...]. Non è difficile constatare la corrispondenza tra certi caratteri salienti della “natura umana” e le categorie sociologiche che più si attagliano alla situazione attuale1.

Eppure, continuando ad approfondire la ricerca intorno all’uomo, il pensiero si è via via dovuto imbattere nella vita, sviluppando gli strumenti, le tecniche e le tecnologie per conoscere se stesso, cioè la cultura. Ora che tali strumenti, le 45

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tecnologie che si applicano anche soprattutto alla vita, ci rivelano la ineludibilità di una conoscenza fondata sulla vita, invece di accettare l’esigenza di una rifondazione dell’epistemica del pensiero sull’uomo, a costo di dover accettare il proprio “oltrepassamento” – che non è annichilimento ma accoglimento del transito – il “pensiero umanistico” se ne ritrae “sdegnato”, in nome di un ritorno alla estraneità dell’uomo dalla vita, individuando nella tecnica la premessa apocalittica del suo annientamento. Si realizza, in tal modo, la negazione del pensiero e, con esso, la negazione dell’uomo stesso. Dal che risulta, infine, che il pensiero umanistico è in effetti anti-umano, poiché, innanzitutto, non accetta la condizione della propria limitatezza e del proprio irriducibile divenire. Il più macroscopico effetto della dichiarazione della “fine della storia”, simbolicamente inauguratrice dell’inizio della “post-histoire”2 che rappresenta il momento d’avvio di una sutura definitiva della crisi del movimento progressivo del processo storico, oramai irrigidito e “cristallizzato” in un permanente presente e, al tempo stesso, dopo la tragica e dolorosa presa d’atto, conseguente alla rottura del processo dinamico e organico della successione delle estasi temporali, il progetto del moderno si dissolve con la dichiarazione d’inizio di un nuovo tempo, il “post-moderno”3. Esso segnala e sancisce la disillusione definitiva della modernità da ogni possibilità di costituzione di un pensiero egemone e definitivamente ordinatore. La post-histoire e il “post-moderno” segnalano il profilarsi, come questione che assume centralità sull’orizzonte problematico del dibattito antropologico contemporaneo, di un nuovo concetto di umano: il “post-umano”4. Il carattere problematico della nuova categoria del “post-umano” «richiede, dunque, un’indagine analitica che ne prefiguri modi, possibilità e limiti»5 che non possono essere qui del tutto trattati compiutamente nella variega46

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ta coloritura delle sfumature concettuali che il termine ha già reso attive nelle sue molteplici declinazioni; ma tale categoria appare degna, per gli innumerevoli segnali di mutamento delle condizioni di esistenza e di posizione dell’umano, di essere indagata interrogativamente e liberata da preconcetti di apocalitticheggianti visioni catastrofistiche o di perfezionisticheggianti visioni trionfalistiche del destino dell’uomo. Certamente non possiamo “far finta di niente” perché l’ampiezza e l’accelerazione attuale delle trasformazioni fanno presagire una mutazione di proporzioni superiori a quella che fece passare nel neolitico dalle piccole società arcaiche [...] alle grandi società storiche che da otto millenni dilagano sul pianeta. Sarebbe di proporzioni simili almeno a quelle dell’avvento della cultura che, nel corso dell’ominazione, ha permesso la comparsa di homo sapiens modificando nello stesso tempo la società, l’individuo e la specie6.

Per quanto paradossale possa apparire in prima istanza, in effetti, non tanto l’uso del termine quanto la configurazione concettuale della categoria del “post-umano” – seppure appunto non ancora definito come tale –, essa può trovare una sua prima delineazione tematica, ancora antecedente alla nascita del “post-moderno”, nell’ambito di quel poderoso mutamento che, agli inizi del Novecento, portò la biologia a svincolarsi dall’orizzonte delle scienze positive e a spingerla a muoversi per rivendicare un proprio statuto autonomo, non riducibile ai modelli quantitativi propri delle scienze fisiche naturali. È, probabilmente, con «l’introduzione del soggetto nella biologia [Einführung des Subjektes in die Biologie]»7, infatti – grande “ibridazione” teoretica dell’umano con se stesso –, al di là delle intenzioni teoriche dello stesso suo primo propugnatore, Viktor von Weizsäcker (il quale raccoglieva, fra 47

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l’altro, la fortissima spinta nietzscheana alla ricomposizione e rigerarchizzazione di corpo e io e di corpo e ragione), che, simbolicamente, si può segnare un passaggio decisivo dalla classica antropologia moderno-“umanistica” ad un’antropologia post-moderma e post-umanistica e, ancor più paradossalmente, propriamente al primo atto concreto di una ricerca e di una prassi di qualcosa che fosse un “più-che-umano”, secondo la consolidata formula antropologica di un umanesimo fondato sulla centralità dell’uomo e sulla sua autoreferenzialità fissata dalla dualistica dialettica corpo/anima. In realtà, l’esigenza di radicare l’antropologia nella biologia e di valorizzare la funzione di mediazione che altre discipline, come ad esempio la psicologia, svolgono tra di esse, significava entrare in quel dibattito di forte turbolenza teorica che, nei primi due decenni tra la prima e la seconda guerra mondiale, si stava sviluppando. In quegli anni si veniva consumando la crisi decisiva del quadro epistemologico dei saperi non logico-formali, fondato sulla bipolarità, variamente motivata e di sostanziale ispirazione kantiana, tra “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften) e “scienze della natura” (Naturwissenschaften). Oramai questo grandioso tentativo di preservare l’autonomia delle une legittimando la diversità delle altre attraverso l’idea della “oggettività” di queste ultime, reggeva sempre meno sotto la pressione dell’impetuosa e non più ordinabile crescita dei saperi effettivi. Se «ogni cosa che cambia ha storia [...], in realtà, nella grande maggioranza, i problemi scientifici si capiscono meglio studiandone la storia piuttosto che la logica»8. Se il carattere dell’umano, infatti, si era venuto definendo per differenza da ogni altra “creatura” per il fatto di essere costituito di “anima” (dapprima psyché, poi, attraverso molteplici ridefinizioni, divenuta soggetto) e “corpo”, il che ave48

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va fatto dell’uomo-soggetto il centro dell’universo – segnatamente, nella modernità, il concetto si rafforza con la nascita del dualismo cartesiano –, dopo tre secoli, con l’introduzione del soggetto nella biologia, che è anche, si direbbe finalmente, l’introduzione della biologia nel soggetto, questa differenza viene dissolvendosi in maniera definitiva. Ci troviamo, alla metà del secolo scorso, all’inizio di una vera e propria “rivoluzione” concettuale che si segna espressamente per il progressivo recupero di quella unità contro l’antica dicotomia, fondata sulla validazione dell’osservazione scientifica, in particolare quella biologica e neurofisiologica, che prefigurano l’orizzonte di un dibattito teorico che da allora è in costante e sempre crescente sviluppo. In maniera via via accelerata, si va sempre più diffondendo l’esigenza di una effettiva comunicazione, vera collaborazione, tra le scienze neurobiologiche e cognitive con le filosofie, nel tentativo di costruire una teoria unitaria dal punto di vista della comprensione dell’uomo con il “suo” mondo. I problemi che tale collaborazione pongono più immediatamente in evidenza sono quelli dei linguaggi e delle mentalità, queste ultime da quelli in parte costituite: spesso, tanto gli uni che le altre, sono apparsi lontani e incomunicanti. Le discipline epistemologiche e filosofico-antropologiche (epistemologia antropologica) in questi ultimi anni hanno affrontato la questione con maggiore concentrazione quantitativa e qualitativa, offrendo reali opportunità di connessione comunicativa delle rispettive ricerche. Attraverso una significativa quantità di studi, soprattutto grazie alle possibilità speculative offerte dall’enorme avanzamento delle scienze neurobiologiche, si apre un orizzonte di prospettive ampio e affascinante che disegna relative teorie sistematiche in grado di compiere passi di conoscenza effettiva sul mistero della “materia mentale”, della coscienza che noi siamo, il “corpo-proprio” (Leib). 49

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Si profilano sullo sfondo di questa origine lontana e divaricata, in una nuova prospettiva di forte esigenza di interconnessione disciplinare, i più tradizionali saperi della medicina e dell’antropologia, della neurologia e della filosofia, della biologia e della psicoanalisi. Tale lontana divaricazione, di matrice essenzialmente moderna, sembra oggi trovare, pur tra mille difficoltà, un percorso di convergenza diretto alla costruzione di un linguaggio comunicabile e intercomunicante verso un’ipotesi di costruzione di una nuova mentalità che sia in grado di comprendere le singole mentalità disciplinari, mediandole in un territorio concettuale e sperimentale estremamente vasto ma relativamente definito: l’epistemologia antropologica come prammatica dell’antropologia filosofica. All’interno di un tale quadro di riferimento concettuale, la definizione della questione mente-corpo appare ancora oggi come l’argomento ontologico ed epistemico di più significativa rilevanza, la cui sterminata letteratura sta a testimoniarne la problematica ineludibilità e l’avvincente complessità tematica. La variegata denominazione della questione psiche/soma, conosciuta anche come questione anima vs corpo, coscienza vs corpo, spirito vs materia e via di seguito, connessa con le coppie opposte e parallele quali conoscenza vs intuizione, pensiero vs sentimento, ragione vs emozione, razionale vs irrazionale, conscio vs inconscio, intenzionale vs involontario ecc., ha dominato, in innumerevoli forme, tutto il core del pensiero antropologico moderno. Di fatto, però, «sulla base di autorevoli riflessioni filosofiche e di solide ricerche empiriche, tali contrapposizioni non sono sostenibili nella realtà né singolarmente, come dimensioni mutualmente escludentisi, né tantomeno come quadri omogenei di esperienza»9. Questo dibattito, più volte ripreso nella storia del pensie50

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ro, sospeso tra i “dualisti”, i “monisti” (dell’uno o dell’altro dominio) e i “dualisti interazionisti”, lungo il corso della modernità si è soffermato su due questioni fondamentali, problematicamente affrontate dal pensiero: la teoria della conoscenza e l’etica. Dalla rigida, e solo apparentemente integrata (il cosiddetto “dualismo interazionista”) posizione di Descartes, fino al monismo materialista nietzscheano e non solo, passando per varie forme di concezioni più o meno “sinceramente” interazioniste come, nell’età contemporanea, quella del filosofo e psichiatra Karl Jaspers, il quale sottolinea che «la vita psichica, nei moti più lievi come nelle espressioni più violente, è collegata con gli eventi somatici fin nelle ultime ramificazioni»10. In questo quadro, nella modernità, il “meccanicismo cartesiano” funge da vera e propria cornice concettuale, cui partecipano, sul piano della scienza fisica e cosmologica, Galilei e Newton. In biologia il maggior successo del modello meccanicistico cartesiano fu la sua applicazione al fenomeno della circolazione del sangue da parte di William Harvey [...]. I fisiologi del suo tempo tentarono di utilizzare il metodo meccanicistico per descrivere altre funzioni del corpo, come la digestione e il metabolismo. Ma poiché tali fenomeni [...] riguardavano processi chimici [...] che [...] non potevano essere descritti in termini meccanici, questi tentativi condussero ad avvilenti insuccessi [...]. Nel diciottesimo secolo Antoine Lavoisier, padre della chimica moderna, dimostrò [...] l’importanza dei processi chimici nel funzionamento degli organismi viventi [...]. I semplicistici modelli meccanici di organismi viventi vennero in gran parte abbandonati. Ma la sostanza dell’idea cartesiana sopravvisse [...]. Il meccanicismo cartesiano fu espresso nel dogma secondo cui le leggi della biologia possono essere ridotte in definitiva a quelle della fisica e della chimica11.

La fisiologia rigidamente meccanicistica di La Mettrie 51

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completa il quadro di tale consolidamento ideologico12, sia pure sul versante di un radicale materialismo. A partire dall’immediata polemica suscitata dalla questione del “dualismo” cartesiano, che diviene argomento centrale del dibattito filosofico-metafisico presso i contemporanei e gli immediati successori di Descartes, l’analisi relativa al tema del significato della dimensione corporea degli affetti e del suo uso speculativo viene poi via via sussunta, in ambito filosofico, oltre l’ambito del moralismo sei-settecentesco, entro un ordine di idee secondo il quale la complessa rete degli affetti, e, per esempio, segnatamente, la passione, è l’azione di controllo e di direzione, gravemente espropriativa della volontà razionale, esercitata da un’emozione determinata sull’intera personalità di un individuo umano. «La Visione Mondiale della Modernità così elaborata prestò il fianco alle critiche fin da subito. Si basava su una serie di dicotomie o opposizioni assolute, radicate nella visione europea per opera di Cartesio e Newton: la mente versus la materia, le ragioni versus le cause, l’umanità versus la natura»13. Ad ogni modo «prima dell’Ottocento il dualismo mente/corpo, al centro della filosofia di Descartes, era stato incline a situare la mente umana fuori dell’ambito della biologia»14. Ma è con la riflessione di Nietzsche, cresciuto all’ombra della riflessione antropologica vivente di Schopenhauer – Nietzsche distingue tra forme della passione e vede nella passione dominante «che comporta addirittura la suprema forma di salute»15 il modo attraverso il quale demolire la falsificazione della metafisica moderna e dell’intero pensiero occidentale – che si giunge a una radicale svolta nella concezione della dimensione affettiva e della sua relazione nell’ambito della concezione mente vs corpo, ragione vs passione. D’ora in poi diviene sempre maggiore ed essenziale l’integrazione passione/conoscenza “razionale”, dunque 52

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corpo e ragione, rispetto alla loro tradizionale inconciliabilità, tanto sul piano della riflessione filosofica, quanto su quello della ricerca scientifica. D’altra parte è stato lo stesso Nietzsche che, sulla scia della riflessione essenzialmente antropologica di Schopenhauer16 e di Feuerbach17, ha definitivamente posto in mora la resistente distinzione anima vs corpo, spirito vs corpo, soggetto vs corpo, mente vs passione, ragione vs passione. Emblematico, a questo proposito, è il citatissimo e celeberrimo paragrafo dello Zarathustra, intitolato appunto Contro gli spregiatori del corpo. Viene di fatto a essere sancito l’avvio di quel principio di “oltrepassamento” di una scienza contemporanea fondata nel rigido dualismo mente vs corpo, interno vs esterno ecc. e che, ancora, trasforma, almeno, tale dualismo in un unico oggetto essenziale, il quale diviene il centro della riflessione sull’uomo e che può essere tutt’al più rappresentato in una forma bi-dimensionale. Tanto lo Zarathustra quanto l’intera opera di Nietzsche comportano il fatto nuovo ed essenziale di porre il fenomeno del corpo quale principio critico della stessa filosofia. «Nietzsche rivendicherebbe [...], a ragione, di aver portato a compimento il soggettivismo metafisicamente necessario con l’avere egli destinato il “corpo” a essere il filo conduttore (il criterio) dell’interpretazione del mondo»18. Secondo questo punto di vista, allora, la metafisica diviene antropologia. A partire da Nietzsche, dunque, viene posta in crisi l’idea di una visione dell’uomo appiattita sul soggetto. Il soggetto, ridotto ad una pura res cogitans o a una pura cogitatio in rem, è oramai un’esangue attività solamente rappresentativa o puramente rappresentata secondo le due grandi linee della tradizione cartesiana da un lato, e quella di tipo idealistico, d’ispirazione hegeliana, dall’altro. Per la 53

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prima il corpo resta un mero oggetto a disposizione del cogito, per la seconda il corpo deve soccombere alla “potenza” dell’idea. Il ritorno al rapporto tra riflessione filosofica e vita consente alla filosofia di dirsi tale solo nel momento in cui affronta effettivamente il tema della corporeità, come totalità cosciente affettivo-emotiva, perché, come per l’appunto ebbe a dire Nietzsche, «la vita non è un argomento»19. Dopo Nietzsche, nel pensiero contemporaneo il dualismo interazionista cartesiano, soprattutto perché ancora persistente, sia pure variamente camuffato, nella cultura scientifica e medica, è tornato ad essere sottoposto, dapprima timidamente poi sempre più diffusamente, all’analisi critica per poi finire con l’essere considerato da alcuni come un vero “peccato d’origine” che ha indotto un vero e proprio “stile di pensiero”, una vera e propria “ideologia”, progressivamente sempre più condizionato e, al tempo stesso, socialmente condizionante20. Tale critica è divenuta particolarmente acuta nell’ambito del pensiero storico-scientifico ed epistemologico-antropologico. Essa ha assunto anche toni aspri perché «la filosofia di Cartesio [...] ebbe anche un’enorme influenza su tutto il modo di pensare occidentale fino ai nostri giorni»21. Una versione antropologico-filosofica esemplare della posizione antidualistica, contrapposta al vecchio dualismo cartesiano, era stata già data da Helmuth Plessner, allorché nella sua opera maggiore l’“allievo” di Scheler aveva sostenuto che «l’uomo in sé e per sé non esiste come corpo (se per corpo s’intende lo strato oggettivato dalle scienze naturali), non come anima e flusso di coscienza (se si tratta dell’oggetto della psicologia), non come quel soggetto astratto per cui valgono le leggi della logica, le norme dell’etica e dell’estetica; ma come unità vitale psicofisicamente indifferente, o neutrale»22, sottolineando in ciò la, 54

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già in questo stesso testo ricordata, inoggetivabilità dell’uomo, cioè la sua “irriducibilità a norma”. La critica al dualismo cartesiano si è manifestata in maniera assai specifica in ambito cognitivo con gli studi neurobiologici e neurofisiologici, nei quali viene posta al centro l’analisi della mente e della sua materia23. Nell’ambito degli studi cognitivi, ad esempio, si suole parlare oggi, proprio per sottolineare il superamento della posizione dualistica cartesiana, di “Non-Cartesian Cognitive Sciences”24. L’idea di fondo di tale approccio alle scienze cognitive è quella secondo la quale mente e corpo non siano una unione ma formino una unità. Si parla, ad esempio, a proposito di tale posizione, di spinozismo, per riferirsi agli attuali studi del cognitivismo basato su di un approccio essenzialmente “non-cartesiano” al problema della mente. «Insieme il corpo e il cervello costituiscono un organismo integrato e interagiscono in modo completo e reciproco attraverso vie chimiche e neurali»25. La gran parte degli studi di biologia e neurofisiologia, discipline poderosamente sviluppatesi in particolar modo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, valgono progressivamente a scompaginare, quanto meno nell’ambito dell’epistemologia antropologica e seppure con avanzamenti e arretramenti, l’assetto della visione dualistica di stampo cartesiano, anche quando, e non accade di rado, questa ricerca assume la metodologia di una non condivisibile indagine positivistica e riduzionisticamente meccanicistica26. Se poi si vuol procedere nella ricostruzione storico-critica del problema cartesiano e dei suoi “effetti” successivi, è solo a partire dalla riflessione di William James, sviluppata nei Principles of Psychology, del 1890, che, finalmente, anche nell’ambito della scienza positiva, in un’area di grande turbolenza teorica che sta a cavallo tra Otto e Novecento, viene messo definitivamente in crisi il modello meramente 55

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positivisico e riduzionistico della coscienza la quale ha oramai saldamente preso il posto dell’anima. James sottolinea infatti l’importanza dei fatti della coscienza contro le idee correnti che variamente sostengono che da analizzare siano i dati che si trovano nella coscienza, e adotta per tale nuova interpretazione la famosa espressione dello Stream of Thought ovvero, più comunemente, Stream of Consciousness, che conduce ora all’identificazione della mente come processo e non più come sostanza, di cui la simbologia del flusso esemplifica il carattere discontinuo e variegato dell’evento-coscienza che sceglie i suoi oggetti e ne respinge altri. William James, peraltro, “liquida” il problema del dualismo cartesiano e della localizzazione dell’anima in un brevissimo paragrafo dei Principi di psicologia che merita di essere citato per intero, laddove egli puntualizza, a proposito della questione della sede dell’anima, che nonostante che se ne sia parlato e discusso senza fine, noi ce la sbrigheremo in due parole. Tutto dipende dal modo come crediamo che sia fatta l’anima, se la crediamo, cioè, un’entità estesa o inestesa. Se noi pensiamo che sia estesa, ignoriamo però, evidentemente, quale ne sia la forma e dove essa stia; se la riteniamo inestesa, è assurdo parlare delle sue relazioni spaziali. Le relazioni spaziali sono cose sensibili. I soli oggetti che possano aver fra loro delle relazioni di posizione sono quegli oggetti che possono essere percepiti come coesistenti nello stesso spazio sentito. Una cosa che non possa venir percepita affatto, come l’anima inestesa, non può coesistere con alcun oggetto percepito27.

I progressi nella ricerca psico-neuro-fisio-biologica hanno poi condotto in misura sempre più convincente a considerare la mente appunto come un “flusso”, un processo e una funzione. Questo processo con la sua funzione dipende da «disposizioni particolari della materia»28. In tal modo la reintegrazione della mente nella natura è divenuto uno dei 56

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problemi di maggiore rilevanza dell’attuale ricerca neurofisiologica. Se il dualismo cartesiano, dunque, «polarizza tuttora il pensiero moderno sulla mente», esso appare oramai, però, in questo ambito, un problema in via di superamento ma ciò potrà avvenire effettivamente «solo quando sarà compresa la relazione tra coscienza e fisica»29. Ci troviamo oggi di fronte ad una nuova sintesi di mente, materia, vita [...] che [...] implica due unificazioni concettuali. L’interdipendenza di schema e struttura ci permette di integrare due approcci alla comprensione della natura che [...] sono stati sempre separati e in competizione. L’interdipendenza di processo e struttura ci permette di saldare la spaccatura tra mente e materia che, da Cartesio in poi, ci ha ossessionato nell’era moderna30.

L’esito più recente del superamento della dicotomia mente vs corpo, negli studi di neuroscienze, ha addirittura tolto al cervello il primato di sede esclusiva della mente: Candace Pert e i suoi colleghi del National Institute of Mental Health in Maryland «identificarono in un gruppo di molecole, i peptidi, i messaggeri molecolari che facilitano le comunicazioni fra sistema nervoso e sistema immunitario»31. Sono così nate la neuroendocrinologia e poi la psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI) che hanno posto fine alla separazione tra sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario, riunificando i tre sistemi, tradizionalmente distinti, in una sola rete, sicché essi «devono essere considerati come parti di un’unica rete psicosomatica»32. Tali ultime scoperte delle neuroscienze comportano inevitabilmente l’esigenza di un nuovo approccio epistemologico alle questioni delle funzioni cognitive e a quelle delle basi dell’attività del pensiero. «In definitiva ciò significa che la cognizione è un fenomeno che si estende in tutto l’organismo, operando per mezzo di un’intricata rete chimica di 57

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peptidi che integrano le nostre attività mentali, emozionali e biologiche»33. Ogni pretesa o “sogno” di separazione mente/corpo, affetti/coscienza, ragione/emozione ecc. tramonta definitivamente e ci obbliga ad assumere nei confronti di ciascun uomo vivente una responsabilità per ciò che esso sarà in grado di generare attraverso la sua funzione complessiva psico-fisica e le sue funzioni particolari che sono assolutamente complesse, irrevocabilmente interconnesse e irriducibilmente uniche. Questa separazione “originaria” operata nel mondo moderno da Descartes ha dunque reso possibile l’attivazione di una vera e propria analitica dell’uomo. «Ogni individuo è stato ulteriormente suddiviso in base alle sue attività, capacità, sentimenti, opinioni, etc., in un gran numero di compartimenti separati, impegnati in conflitti inestinguibili, che generano una continua confusione metafisica e altrettanta frustrazione»34. In quanto qualcosa di più che organizzazione anatomica e fisiologica, il corpo, diventato poi persona, è più della possibilità che gli concedono i suoi sensi, e «quando con la malattia, si è trasformati da soggetti d’intenzione a oggetti d’attenzione, lo spazio si riduce alla dimensione dell’organismo e il tempo al decorso della malattia»35, per cui organismo e malattia sono le cose della riduzione ad oggetto del corpo-soggetto. Il controllo delle passioni è certamente sottoposto all’influsso di ragione e volontà, ma cosa sono ragione e volontà se non funzioni della materia del mio corpo, del corpo che io sono? Siamo un universo in espansione, destinato a implodere e a esplodere, al medesimo tempo, nel corso dell’esistenza. La nostra impressione di vivere dentro un corpo è frutto di un miraggio: noi siamo un corpo e questo fa sì che le nostre motivazioni siano agite dall’interno, non proposizionali36.

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Alla luce di un tale auto-riconoscimento, che è pure una tardiva auto-rivelazione, si rende necessario comprendere il fatto che «noi dobbiamo senza indugio completare la proposizione della universale unità con una seconda, e cioè quella della indivisibilità della persona»37. Risulta così impossibile il progetto – vera “utopia negativa” – meccanicistico e riduzionista di disgiungere pensiero e materia, anima e corpo, passioni e corpo, ragione, emozione e materia cerebrale poiché, secondo gli studi recenti della neurofisiobiologia, risulta evidente che «nel cervello umano vi è una regione (le cortecce prefrontali ventromediane) la cui lesione compromette sia il ragionamento sia l’emotività. Si potrebbe dire che ragione e sentimento si intrecciano nelle cortecce prefrontali ventromediane»38. Sembra qui impossibile non ripensare alla prima formulazione della dicotomia anima/corpo che, ben prima di Descartes, riecheggia nelle parole del Fedone, dove Platone sostiene che «liberàti dalla follia del corpo, ci troveremo, come è plausibile, in compagnia di esseri simili, e conosceremo, da noi stessi, tutto ciò che è semplice, ossia ciò che, con ogni probabilità, è la verità stessa»39. La “paura” del corpo, delle sue emozioni, dei suoi desideri, riecheggia dunque già nella concezione “idealistica” della tradizione classica come necessità di sfuggire al pericolo dell’irrazionale e dell’emozionale, veri nemici della ragione, nemici del soggetto. Poco importa se oggi è ampiamente risaputo che le emozioni non originano dal muscolo cardiaco bensì dal sistema nervoso centrale e che ogni attività cognitiva per esprimersi deve appoggiarsi su un cuscino appetitivo e motivazionale, sempre di natura neurale. Come dire: senza un buon fondamento emozionale non si realizza il cogito cartesiano40.

La definitiva riabilitazione del corpo è avvenuta più di re59

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cente, negli ultimi decenni, quando si è mostrato come e quanto la dimensione emozionale corporea sia guida del comportamento e, dunque, dell’azione pensata o agita dell’uomo, visto che «le emozioni sono forme di consapevolezza intelligente [...] e forniscono all’organismo aspetti essenziali della ragion pratica», e stanno a dimostrare quanto la distinzione e la separazione tra emozione e ragione (cioè tra corpo e psiche) sia fuorviante. Se cioè l’attività di riconoscimento di configurazioni da parte del cervello precede la logica e, agli inizi, il pensiero è creativo nella sua formazione di configurazioni [...] i vincoli dei sistemi di valore essenziali per l’evoluzione di comportamenti adattativi fanno dell’esperienza emotiva un necessario accompagnamento dell’acquisizione di conoscenza anche dopo lo sviluppo delle capacità logiche41.

L’idea di una epistemologia basata sulla biologia cerebrale rivela una straordinaria fecondità di prospettive conoscitive. «Molta parte della biologia è basata più sull’apprezzamento e sull’utilizzazione di concetti che su vere e proprie leggi»42: questa la differenza di sostanza dalle “tradizionali” scienze della natura (Naturwissenschaften) che la biologia rivendica a partire dall’inizio del Novecento. Tutta la ricerca biologica, a qualunque specifico aspetto specialistico applicata, rivela insomma qualcosa che “sconvolge” il modello ordinato e logico-causalistico delle scienze fisico-matematiche, che era stato inaugurato, anche per “l’oggetto d’indagine uomo”, proprio dal modello cartesiano, e che d’ora in poi autorizza il biologo a “superare” i tradizionali modelli di ricerca sull’uomo stesso. «Non comprendo, però, come mai la maggior parte dei filosofi della scienza ritenga che i problemi di cui si occupa la filosofia della scienza si possano risolvere con l’ausilio della mera logica»43. Infatti, il carattere “unico” della scienza biologica è 60

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che essa si sottrae alle leggi naturali universali per cui «non vi è dubbio che, in biologia, le leggi abbiano un ruolo piuttosto trascurabile nella formulazione di una teoria», dove invece hanno un «ruolo di maggior rilievo probabilità e casualità [...] considerando il carattere di unicità che caratterizza un’elevata percentuale di fenomeni negli esseri viventi, oltre che la natura storica degli stessi»; il che consente di concludere, proprio nel ribadirlo, che «la maggior parte delle teorie biologiche non si basa tanto su leggi quanto su concetti»44. In effetti, così come per i fenomeni storici, Geisteswissenschaften, è possibile fare riferimento ad avvenimenti che si verificano una sola volta – per cui Windelband parlò di “scienze ideografiche” –, altrettanto per le scienze biologiche, che avrebbero dovuto rientrare nell’ordine delle Naturwissenschaften, cioè di scienze di regolarità e di leggi, vale invece il principio «dell’evoluzione organica, poiché, secondo una certa opinione, anche l’evoluzione è “opportunistica” e unica e quindi esente da leggi»45. Come dire: una riflessione dell’uomo sull’uomo è possibile solo a partire da una “filosofia della biologia”.

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Note P. VIRNO, Diagrammi storico-naturali, in «Forme di vita», 1, 2004, p. 111. A. GEHLEN, Einblicke, Klostermann, Frankfurt am Main 1975. 3 F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), tr. it., Feltrinelli, Milano 1985. 4 Il termine post-human è coniato dall’artista americano Jeffrey Deitch nel 1991 in occasione di una mostra collettiva a New York cui partecipano numerosi cyber-artisti, “figli” della body art. L’espressione è dedicata alla trasformazione naturale e artificiale del “nuovo corpo” nella cultura dell’arte contemporanea. Si tratta di manifestazioni e performances artistiche che si caratterizzano per l’utilizzo del corpo come mezzo di espressione, ma che, a differenza della Body Art degli anni ’70, partono dall’idea che il corpo è ormai obsoleto e che bisogna estendere i suoi limiti attraverso la tecnologia, ibridando organico e inorganico: «Il corpo in costruzione è una ibridazione fantastica tra organico e inorganico, tra materia particellare e chip al silicio. Quello che il presente ci prospetta è un corpo dalle contaminazioni molteplici e dalle funzionalità imprevedibili. Queste alterazioni, a cui il corpo va incontro, spodestano la sua identità e ridisegnano una soggettività mutante» (cfr. T. MACRÌ, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 7-10). È da sottolineare qui, inoltre, che il temine post-human assume, nel dibattito attuale, almeno due valenze semantiche principali: 1) il termine designa, primariamente, il passaggio dalla dimensione dell’èra dell’umano a una nuova configurazione identitaria in sua opposizione o come suo superamento; 2) il termine designa, secondariamente, nell’orizzonte della crisi dell’umano e, dunque, di una “visione antropocentrica” e autoriferita, propria della tradizione umanistica, una nuova frontiera dell’umano, aperta alla “contaminazione” teriosferica e tecnosferica ma tendente alla conservazione dell’umano, seppur considerato sotto una nuova luce fortemente eteroriferita ad ogni forma di “alterità”, sia essa animale o tecnica. In questa seconda accezione, il “postumano” si accosta, in una posizione più moderata, all’“iperumano”, e decisamente si oppone al “trans-umano”. L’“iperumano” guarda alla tecnologia come a una grande occasione di potenziamento dell’uomo ed è teso al dominio sempre maggiore dell’uomo come “corpo esteriore” sull’ambiente; il “transumano” guarda alla tecnologia come alla grande occasione per la funzione cerebrale (razionalità operatrice) per prendere congedo definitivo dal corpo organico, considerato obsoleto e di ostacolo alle straordinarie potenzialità operative del cervello calcolante, cioè di un pensiero calcolante – Denken als rechnen, così come Heidegger definì il pensiero dell’età della tecnica – in vista di una definitiva tecnologizzazione dell’attività neurocomputazionale e del su1 2

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peramento, dunque, delle passioni (intese innanzitutto come passività, cioè come limiti all’azione) proprie del corpo. È da notare, inoltre, che il termine post-human è rivendicato, nei suoi primi usi, da EDGAR MORIN il quale, in L’identità umana, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 241, ricorda che «Nel numero di “Arguments” dedicato al pensiero anticipatore (settembre 1958) scrivevo: “Credo che la specie biologica homo sapiens sarà superata da un complesso tecno-bio-intellettuale post-umano che ne sarà l’erede, e che si evolverà a sua volta; questo erede dell’uomo sarà il cosmopiteco”». Per quanto riguarda il termine trans-human, esso è riferito al movimento chiamato “transumanesimo” che comincia a prendere corpo grazie al libro di J. Huxley del 1956, New Bottles For New Wine, contenente il saggio dal titolo Transhumanism che invitava il genere umano a migliorare le proprie condizioni di vita attraverso la scienza e la modificazione della realtà circostante. Si alludeva già ad una nuova specie post-umana in divenire. Inoltre va ricordato che Max More, fondatore dell’Extropy Institute, è stato il primo a definire il termine anche come filosofia nel 1990. Mentre Huxley immaginava un’umanità che trascende i propri limiti, Max More vede più una effettiva trasformazione dell’essere umano in post-umano. Sono state suggerite anche altre definizioni come quella di Anders Sandberg: «Il Transumanesimo è la filosofia che afferma che noi possiamo e dobbiamo svilupparci a livelli, fisicamente, mentalmente e socialmente, superiori utilizzando metodi razionali»; o quella di Robin Hanson: «Il Transumanesimo è l’idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo secolo o due a tal punto che i nostri discendenti non saranno per molti aspetti “umani”». Vedi, http:// www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=5017. 5 BARCELLONA, L’epoca del postumano, cit., p. 31. 6 MORIN, L’dentità umana, cit., pp. 243-244. 7 VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 2. 8 E. MAYR, Storia del pensiero biologico (1982), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 3 e 8. 9 V. D’URSO, D. RICCARDI, Emozioni senza passione, in C. BAZZANELLA, P. KOBAU (a cura di), Passioni, emozioni, affetti, McGraw-Hill, Milano 2002, p. 150. 10 K. JASPERS, Psicopatologia generale (1913), tr. it., Il Pensiero Scientifico, Roma 19823, p. 253. 11 F. CAPRA, La rete della vita (1997), tr. it., Rizzoli, Milano 1997, pp. 30-31. 12 J. DE LA LA METTRIE, L’uomo macchina (1750), in Opere filosofiche, tr. it. a cura di S. Moravia, Laterza, Roma-Bari 1978. 13 S. TOULMIN, La ragione è schiava delle passioni? (1992), in L. PRETA (a cura di), La passione del conoscere, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 24.

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14 H.J. MOROWITZ, La riscoperta della mente (1981), in D.R. HOFSTADTER, D.C. DENNETT (a cura di), L’io della mente, tr. it., Adelphi, Milano 1985, p. 45. 15 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, ed. a cura di G. Colli, M. Montinari, vol. VIII, t. III, Adelphi, Milano 19862, 14 [157], pp. 130131. Il titolo del frammento è Morale come decadenza, il sottotitolo «Sensi», «passioni». Il frammento inizia con queste parole: «La paura dei sensi, dei desideri, delle passioni, quando giunge al punto da sconsigliarli, è già un sintomo di debolezza: i mezzi estremi denotano sempre stati anormali [...]. L’eccesso è un’obiezione solo per chi non ne ha il diritto [...]». 16 A. SCHOPENHAUER, Der handschriftliche Nachlass, 5 voll., Frankfurt am Main 1966-68, I, p. 106, dove si legge: «Il corpo (l’uomo corporeo) non è altro che la volontà divenuta visibile [...]. Dal fatto che il corpo è la sola visibilità della volontà si chiarisce la connessione puntuale tra la volontà e il corpo, si spiega perché ogni passione, ogni affetto, cioè ogni veemente volere e non-volere scuote così tanto e modifica il corpo» (Frammento, 1814). 17 L. FEUERBACH, Das Wesen des Christentum (1841), in Gesammelte Werke, hrsg. von W. Schuffenhauer, Berlin 1967, vol. IV, pp. 177 e sgg., dove si legge che «la natura non è nulla [...] senza corpo. Solo il corpo è quella forza negante, limitante, concentrante, conchiudente senza la quale non è pensabile alcuna personalità [...]. Il corpo è il fondamento, il soggetto della personalità». 18 M. HEIDEGGER, Nietzsche (1961), tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 537. 19 NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 121, p. 159. 20 Cfr. L. FLECK, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico (1980), tr. it., il Mulino, Bologna 1983. Nel saggio si sviluppa la interessante tesi secondo la quale, con l’espressione “stile di pensiero” e “collettivo di pensiero”, l’autore sottolinea il carattere socialmente condizionato di ogni conoscenza e come, per tale motivo, molto spesso, ad esempio, alcune “conoscenze” nascano da presupposti falsi e viceversa. Inoltre, ogni conoscenza, prima di diventare “vera”, prima cioé di affermarsi, deve riuscire a costruirsi come “stile di pensiero” in modo da poter costituire quel “collettivo di pensiero” nuovo, in grado di scalzare la conoscenza precedente anch’essa affermatasi come “stile” e “collettivo”. 21 F. CAPRA, Il tao della fisica (1975), tr. it., Adelphi, Milano 1982, p. 24. 22 PLESSNER, I gradi dell’organico e l’uomo, tr. it. cit., p. 55. 23 Va pure detto che la “neurologia” è una disciplina scientifica relativamente recente e, comunque, successiva a Descartes. Fu il professore di Oxford Thomas Willis che, nell’opera De cerebri anatome, cui accessit nervorum descriptio et usus, edito a Londra nel 1664, coniò il termine “neurologia”: «Willis fornì il quadro più completo sino ad allora comparso dell’anatomia cere-

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brale umana e comparata», cit. in M.D. GRMEK (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, 3 voll., II, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 33-34. 24 M. SHEETS-JOHNSTONE, The Roots of Thinking, Temple University Press, Philadelphia 1990. 25 A. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza (2003), tr. it., Adelphi, Milano 2003, p. 232. 26 Su questo specifico tema cfr., ad esempio, il lavoro di MARCEL GAUCHET, L’inconscio cerebrale (1992), tr. it., il Melangolo, Genova 1994. Nel saggio viene posto in rilievo quanto gli studi di neurofisiologia, poderosamente sviluppatisi a partire dagli anni ’30 del XIX secolo, abbiano scosso dalle fondamenta, pur nella loro impostazione spesso puramente anatomistica e positivistica, l’impostazione classica di una rappresentazione del soggetto cosciente, separato dalla propria corporeità, quale padrone assoluto della propria volontà. 27 W. JAMES, Principi di psicologia (1890), tr. it., Bocca, Milano 1909, p. 173. 28 G.M. EDELMAN, Sulla materia della mente (1992), tr. it., Adelphi, Milano 1993, p. 23. 29 Ivi, p. 20. 30 CAPRA, La rete della vita, cit., p. 197. 31 Ivi, p. 310. 32 C.B. PERT, M. RUFF, R. WEBER, M. HERKENHAM, Neuropeptides and Their Receptors: A Psychosomatic Network, in «The Journal of Immunology», vol. 135, 2, 1985, pp. 820-826. La PNEI (Psiconeuroendocrinoimmunologia) o PNI (Psiconeuroimmunologia) sono acronimi coniati all’inizio degli anni ’80 del XX secolo per enfatizzare e promuovere ricerche interdisciplinari che si propongono di comprendere in che modo le funzioni mentali (psicologiche) influiscano sulle attività immunologiche mediate attraverso le tradizionali connessioni neurali. Neuroimmunomodulazione è un’altra variante in cui la componente psichica viene riassorbita nell’area semantica del prefisso neuro-. Cfr., anche, C.B. PERT, Molecole di emozioni (1997), tr. it., Corbaccio, Milano 2000, p. 404. 33 CAPRA, La rete della vita, cit., p. 314. 34 Ibid. 35 GALIMBERTI, Il corpo, cit., p. 71. 36 MARCHESINI, Post-human, cit., p. 53. 37 V. VON WEIZSÄCKER, Menschenführung, Vandenhoeck&Ruprecht, Göttingen 1955, p. 55; tr. it. in P.A. MASULLO (a cura di), Biologia e metafisica, 10/17, Salerno 1987, p. 130. 38 A.R. DAMASIO, L’errore fatale di Cartesio, in E. CARLI (a cura di), Cervelli che parlano. Il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 34. Nel saggio si ricorda il celebre caso di Phin-

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neas Gage, le cui cortecce prefrontali ventromediane furono trafitte da una sbarra di ferro. Pur mantenendo tutte le funzioni fisiche, Gage «non era più lui», distrutta era la sua emozionalità e, soprattutto, come nel caso simile di un paziente di Damasio, Elliot, ci si trovò di fronte a un atteggiamento incapace di prendere decisioni: un uomo senza emozioni e sentimenti è incapace di prendere decisioni, è incapace di scegliere poiché, privato del sentimento razionale della e-motivazione, resta paralizzato a valutare gli infiniti pro e contro “logico-razionali” di ogni situazione che comporti una de-cisione, cioè, praticamente, di tutta la vita soggettiva agente. 39 Fedone 67A, in PLATONE, Tutte le opere, tr. it. a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, XIII, p. 73. Cfr. anche, PLATONE, Opere complete, vol. I, Laterza, Roma-Bari 19832, p. 113. 40 MARCHESINI, Post-human, cit., p. 218. 41 G.M. EDELMAN, Seconda natura (2006), Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 61. 42 E. BONCINELLI, Cent’anni di inquietudine, Introduzione a MAYR, L’unicità della biologia, cit., p. XII. 43 MAYR, L’unicità della biologia, cit., p. XVII. 44 Ivi., pp. 28-29. 45 L. VON BERTALANFFY, Il sistema uomo (1967), tr. it, Mondadori, Milano 1971, p. 129.

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La mente di un uomo è più intuitiva che logica, e comprende più di quanto sia in grado di coordinare. Vauvenargues

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4. Virtualizzazione del reale e soggettività nomade Dall’Apocalisse di Günther Anders alla riconfigurazione del corpo in Gilles Deleuze e Felix Guattari

L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato. (Ludwig Wittgenstein)

Se da un lato la post-histoire o “fine della storia” è uno stato di motilità perpetua per cui «“il sentimento futuro dell’umanità”, diceva Gottfried Benn, “non sarà quello dello sviluppo, ma quello del movimento incessante”»1, e se dall’altro il “post-moderno” è la «fine dei grandi racconti, l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»2 fondative della modernità per cui si liquefa3 il privilegio prospettico di un punto di vista centrale e la pretesa di un’interpretazione universale e stabile della realtà, il post-human o “post-umano” è, segnatamente, nella prospettiva di una nuova interpretazione della riflessione antropologico-filosofica, la sostanziale crisi dell’“uomo umano”, in quanto nuova forma di messa a tema dell’antica questione del rapporto corpo vs anima, variamente declinato secondo le scansioni temporali trattate nel precedente capitolo di corpo vs ragione, corpo vs io, corpo vs soggetto, corpo vs coscienza, corpo vs spirito, corpo vs mente, in una sola espressione, cioè, pathos vs logos. Tale questione del rapporto “corpo-anima” – che ha infor69

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mato di sé tutta la storia del pensiero occidentale – o, per dirla secondo la oramai più accreditata terminologia anglosassone, del mind-body problem, si presenta sotto una luce interpretativa affatto rinnovata. Questa volta, infatti, non si tratta di una crisi dell’umano segnata, secondo una sintesi necessariamente schematica, dalla riduzione del corpo a cosa, secondo l’interpretazione platonica, ovvero del corpo a mezzo, a strumento, secondo la visione cristiana, o della riduzione del corpo a macchina, secondo la concezione cartesiana, e nemmeno, infine, di una crisi derivata dalla riduzione alle politiche del corpo – che pure alle prime tre forme di concezione del corpo sono connesse – le quali configurano la prospettiva della “biopolitica” nella forma estrema di una “tanatopolitica”4, riduzione finale, cioè, del corpo a semplice materiale vivente, secondo una tradizione storico-sincronica della concezione del corpo delineata di volta in volta, appunto, sul modello platonico, cristiano, cartesiano e infine, appunto, sul modello “biopolitico”, di matrice totalitaria, propria della tarda-modernità. Questa volta, nell’era “post-umana”, la crisi del corpo è crisi non del corpo in quanto esteriorità fenomenica, ma crisi del corpo tout-court, cioè crisi del corpo bio-organico. Dopo venticinque secoli circa, spesi a faticosamente ricomporre l’unità antropologica – spezzata, secondo l’oramai diffusamente condivisa interpretazione proposta per la prima volta dalla riflessione nietzscheana5, dall’avvento della filosofia socratico-platonica che, con la costituzione di un’identità antropologica dicotomica, attraverso cioè la separazione corpo/anima, esterno/interno, passivo/attivo, ha segnato, nel nome di essa, tutta la variegata configurazione di un uomo abbarbicato al logos, all’anima (psyché), alla ragione, al soggetto, all’io, alla coscienza, in opposizione al corpo –, una nuova crisi del valore-corpo si affaccia crescente al margine della nostra tarda modernità o post-modernità che 70

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è crisi, appunto, del corpo-organico. È la messa in discussione cioè di un corpo che è una forma di vita vivente ed è pertanto, pur nella sua estrema complessità, un organismo auto-organizzato. Questa volta è proprio l’auto-organizzazione del corpo vivente organico umano che fa “scandalo”, per la prima volta. Si tratta di una auto-organizzazione che, in termini descrittivi, segnala un tratto particolare dell’uomo, di un uomo che, qualunque sia la propria forma, umana o “post-umana”, non può sottrarsi alla “lettura” della propria condizione considerato che l’uomo è un animale autobiografico, cioè, «preso alla lettera: l’uomo è un animale che scrive la propria vita»6. Paradossalmente, dunque, proprio nel momento in cui la dicotomia fondamentale anima/corpo veniva gradualmente ricomposta dall’attivazione del radicale pensiero di Nietzsche7 che aveva a gran voce denunciata l’abusività insensata di tale scissione e, nel contempo, aveva compiuto, con la forza carnale della sua parola, l’inversione della gerarchia ragione-corpo che consentiva finalmente di rovesciare questa tradizione, proprio quell’unità ricomposta rischia oggi di sparire. Se era stato giustamente sostenuto che «non siamo ranocchi pensanti, apparecchi per obiettivare e registrare, dai visceri congelati – noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quel che abbiamo in noi di sangue, cuore, fuoco, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità – Vivere»8, la crisi del corpo organico e l’ipotesi di un “corpo senza organi” diviene nuova questione problematica. La rivendicazione nietzscheana dell’esigenza d’inversione della gerarchia corpo/ragione e della ricomposizione dell’unità antropologica era stata, peraltro, rapidamente e programmaticamente assunta, seppure in forme variegate, dalla complessiva reazione antipositivistica tardo-ottocentesca e primo-novecentesca, attraverso le riflessioni filosofiche 71

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del vitalismo, della fenomenologia, dell’esistenzialismo, cosicché l’uomo gradualmente veniva ritrovando, pur nella ricchezza delle prospettive d’analisi, l’unità fondamentale del “corpo vivente” (Leib) nella vita vivente/vissuta dell’esperienza (Erlebnis), del corpo organico cosciente di sé, sostanziale unità del corpo con la sua ragione che altro non è che, come si è già ricordato, «uno stato di relazione tra diverse passioni»9, cioè tra le diverse forme del sentire, del corpo stesso. Ora, sul finire della prima metà del Novecento, sotto la spinta piena e tragica dello sviluppo dello sforzo bellico – e, al tempo stesso, come suo esito, rivolto a concentrare sulla vita vivente (bios) le ricerche e le applicazioni delle nuove forme di manipolazione10 –, d’improvviso il trionfo non della tecnica, si badi, ma della tecnologia11, questa sì davvero sostitutiva della “razionalità”, avviava a definitiva dissoluzione la possibilità stessa del riconoscimento di quell’unità originaria, tanto faticosamente ricomposta: questa volta, però, la minaccia di scissione non si annunciava più soltanto come una nuova separazione di due entità, il corpo e il logos, ma, secondo alcune posizioni specifiche di un generico concetto di “post-umano”, in realtà, nella forma del “transumano”, essa si profilava addirittura come l’eliminazione di una delle due, cioè attraverso l’eliminazione definitiva del corpo organico. Infatti, la crisi dell’umano e l’avvento di una transizione verso il suo superamento, come nuova rottura dell’unità antropologica, va intesa, stavolta, non come crisi del corpo rispetto alla dicotomia anima vs ragione ma come crisi del corpo rispetto a se stesso: è la crisi del corpo organico, cioè la crisi dell’origine stessa dell’uomo, la crisi di ogni possibile ontologia che, evidentemente, pur tra mille contraddizioni, non poteva che fondarsi sul corpo. Sempre più incalzato dal dominio dell’artificio, che ride72

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finisce un orizzonte di straordinario impatto antropologico attraverso il delinearsi di una nuova categoria, quella del “post-umano”, appunto, nelle sue varie declinazioni ulteriori (l’“iper-umano” e il “trans-umano”), il corpo organico sembra avviarsi a una transizione che ne pone in discussione perfino la stessa identità funzionale, secondo la celebre espressione di Anders, su cui ci soffermeremo, per cui «l’uomo si vergogna di non essere stato fatto», si vergogna, cioè, della sua origine. La posizione di Anders, infatti, certamente tra quelle che possono essere ascritte a una visione “apocalittica”, merita, però, una qualche particolare attenzione. Pur rappresentando, infatti, nel nostro percorso, la schiera dei “tecnofobi”, la riflessione di Anders ha l’indubbio merito, oltre a quello di essere anticipatrice di una critica al “post-umano” – anche se è alla dimensione del “trans-umano” che i suoi timori possono meglio essere adattati –, quello di essere innegabilmente concentrata, tra l’altro, specificamente sul problema del rapporto tra razionalità e affettività, tra “fare razionale” e “sentire emozionale”, insomma sull’avvertire, in ciò che egli stesso definisce «dislivello prometeico», cioè quell’essere dell’uomo divenuto contemporaneamente «superiore e inferiore a se stesso», una delle grandi minacce del trionfo tecno-logico. Questa problematica specifica appare un punto critico della questione del mutamento, comunque la si voglia intendere, cioè tanto nella prospettiva del “trans-umano”, quanto in quella, ragionevolmente o logopaticamente qui proposta, del “post-umano”. Ciò che è accaduto, secondo l’analisi andersiana, a partire dalla seconda metà del Novecento e dalla terza rivoluzione industriale12, consiste nel fatto che lo sviluppo della tecnica ha assunto proporzioni tali, da far sì che gli enormi mutamenti quantitativi siano tradotti in mutamenti qualitativi, generando un capovolgimento dalla funzione di mezzo del73

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la tecnica alla sua autonomizzazione come fine, capace di subordinare a sé, e alla propria logica funzionale, le stesse esigenze umane13. Lo spirito della sua riflessione può essere ritrovato nel suo “diario negativo” la cui funzione «non è quella di “eternare” il vissuto sottraendolo alla caducità, bensì quella di “salvare il futuro” preservandone la catastrofica attuazione»14. Dunque, sotto ogni aspetto, secondo Anders, l’uomo si rivela arretrato rispetto al mondo della tecnica: gli apparati accumulano ormai dentro di sé più conoscenze di quante ne possa acquisire l’intelletto umano, e inoltre il corpo15 è ridotto a essere considerato un “peso morto” nel processo di ascesa del “macchinico”. Con il progressivo consolidarsi della “società tecnologica”, l’uomo si è visto infatti degradato da artefice a operatore e da operatore a residuo del processo produttivo. Il carattere dell’uomo contemporaneo è, secondo Anders, segnato dalla «incapacità della nostra anima di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i congegni che sono scattati avanti nel futuro [...] e che ci sono sfuggiti di mano» 16. Secondo questa prospettiva, si realizza uno scarto tra la dotazione biopsicologica dell’uomo come “animale razionale” e il mondo artificiale dei suoi prodotti. Questo scarto, come già ricordato, è definito come «dislivello prometeico»17 che, considerato dal punto di vista dei “sincronismi naturali”, non deriva da un originario divario delle facoltà umane che, secondo la tesi di Anders, sarebbero equilibratamente armoniche, ma è il risultato di una rivoluzione storica, di quel salto di qualità nello sviluppo tecnologico che si è tradotto in automazione dei processi produttivi e nello scatenamento delle potenzialità distruttive dei mezzi di dominio e sfruttamento della natura. Dopo appena poco più di un secolo dal decollo della rivoluzione industriale lo 74

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“scarto” ha assunto proporzioni colossali e incontrollabili, divenendo progressivamente percepibile anche nella normalità del vivere quotidiano: e oramai siamo approdati a uno stadio nel quale la tirannia esercitata sull’uomo dai prodotti altera la sua capacità di orientarsi nel mondo. Il «dislivello prometeico» è, dunque, quello che intercorre tra la nostra capacità di produrre (herstellen) e la nostra capacità di immaginare (vorstellen). Secondo Anders la nostra immaginazione, che molti pensatori ritengono potenzialmente infinita, è invece finita, così come la nostra capacità di previsione. La nostra capacità di produzione è invece potenzialmente illimitata, giacché il meccanismo produttivo si autoperpetua senza fine. Noi costruiamo, calcolando e perseguendo fini determinati, senza però renderci conto che realizzando questi fini produciamo anche nuovi bisogni e imperativi. La finitudine della nostra fantasia, immaginazione e capacità di previsione è dunque la prima fonte di squilibrio che si è venuta a instaurare nella condizione umana. Insomma, «siamo più piccini di noi stessi, cioè incapaci di farci un’immagine di quanto noi stessi abbiamo fatto [...]. Siamo utopisti invertiti: mentre gli utopisti non possono produrre ciò che immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo»18. Si ridefinisce, in tal modo, la conditio humana che diviene quella condizione in cui è venuta meno ogni proporzione tra le facoltà dell’individuo e i mezzi a disposizione degli aggregati sociali, e in cui il rapporto tra bisogni, mezzi e fini è stato stravolto19. Più che “essere mancante” all’origine, l’uomo si è nel suo sviluppo reso mancante, inadeguato: questo sembra essere il punto critico della riflessione andersiana dai significativi riflessi socio-antropologici. Sono ora i mezzi, infatti, nella loro presunta onnipotenza, a determinare e a giustificare tanto i bisogni quanto i fini degli individui. La dissociazione tra il produrre (herstellen) e l’immaginare (vorstellen) è di75

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venuta man mano il tema di fondo dell’Antiquiertheit des Menschen, dell’essere, cioè, divenuto l’uomo, più che “antiquato”, un oggetto di antiquariato. L’uomo nelle società a più avanzato sviluppo tecnologico non è più in grado di stare al passo né con la crescita dei prodotti da lui stesso realizzati, né con la crescita dei suoi bisogni, generati dagli stessi prodotti. Nel mondo delle cose fabbricate dall’uomo, gli oggetti destinati a soddisfare i bisogni “naturali” dell’uomo sono in minoranza rispetto a quelli che rispondono a bisogni “artificiali” o persino a bisogni “contro-natura”. Qui il riferimento alla teoria marxiana appare particolarmente evidente. Eppure, non vi sono certamente dubbi che sia lo “scandalo” della bomba atomica a rappresentare il vero punto di partenza della “filosofia della tecnica” andersiana; ma ci sono avvenimenti certamente in apparenza meno tragicamente clamorosi della questione della Atombombe che pure forniscono le tracce di indicazione destinale della terza rivoluzione industriale, il cui sviluppo non appare ad Anders meno catastrofico e apocalittico. Se, fino a ieri, l’uomo, come domatore della natura, aspirava a garantire e ad accrescere la nostra civiltà, oggi, come domatore dei prodotti, non può fare altro che cercare di garantire la continuazione della natura, ossia la nostra pura sopravvivenza. La parola d’ordine diventa quindi: addomesticare i prodotti20. Se le macchine stesse, in particolare il «nostro sistema di apparecchi, che consiste in un insieme a forma di rete», i satelliti o i computers non rimbombano neppure approssimativamente quanto le macchine dell’industria pesante del secolo XIX, se le macchine, insomma, restano “mute”, allora le immagini di ciò che è muto devono restare ancora più mute21. A questo punto, secondo Anders, le anime di questa nostra epoca, proprio a causa del dislivello, sono in parte ancora in the making, quindi non ancora finite e, in quanto re76

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frattarie a ricevere un’impronta definiva, non saranno mai finite. Se però si cerca di disegnare un ritratto di queste “anime”, si corre chiaramente il pericolo di delineare una fisionomia troppo definita a dei volti che in realtà sono ancora informi e indeterminati. Il rischio è di dar loro un rilievo che loro non spetta, di presentare caricature come ritratti. Certo, l’esigenza di Anders è quella di restituire nella osservazione della realtà, anche attraverso immagini eccessive, un quadro che si annuncia diretto alla catastrofe. Così, se si rinuncia a questa esagerazione, si corre il pericolo di rendere irriconoscibili le fattezze delineantisi e persino la direttrice di marcia. Tale esagerazione, però, appare ad Anders tanto più legittima se si considera che, nella nostra epoca, la tendenza di fatto è addirittura di forzare la metamorfosi con mezzi esagerati, per esempio attraverso il mezzo dello Human Engineering. «La nostra rappresentazione “esagerante” è dunque solo una parte di questa “esagerazione” che oggi si verifica di fatto: è solo la rappresentazione esagerante di ciò che viene prodotto nell’esagerazione»22. Attraverso la critica dello Human Engineering, Anders annuncia e affronta un tema che diventerà centrale nel post-umanesimo: la questione del corpo. L’uomo di oggi, secondo Anders, non si rassegna di fronte all’antiquatezza del proprio corpo: il suo grande sogno è di poter diventare come le sue divinità: i prodotti. Anche se non è neppure possibile una reale integrazione con il mondo degli apparecchi – il tema della ibridazione comportamentale, oltre che biotecnologica, però, non sembra minimamente sfiorare la riflessione andersiana – l’uomo, per dimostrare la sua devozione alle cose, tenta una imitatio instrumentorum, una riforma di se stesso. L’uomo cerca di migliorarsi almeno per ridurre al minimo il sabotaggio che egli opera a motivo di quello che sarebbe il suo “peccato originale”, la nascita. La 77

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imitatio instrumentorum (tecnomorfismo), che nella nuova epistemica del “post-umano” è la naturale nuova fase evolutiva che segue a quella che si potrebbe definire imitatio animalorum (teriomorfismo), viene vista da Anders come deriva autodistruttiva. L’uomo, cioè, “imita” la tecnica per mezzo di certe autometamorfosi che egli chiama Human Engineering, cioè “ingegneria applicata all’uomo”. Certo Anders, cinquanta e trent’anni fa, evidentemente non sapeva che l’ingegneria già «a partire dal 1950 è stata trasformata in una disciplina basata sulla fisica, [e che] ora stiamo vedendo il principio di una nuova trasformazione dell’ingegneria, questa volta in una disciplina largamente basata sulla biologia»23. Inizia così la metamorfosi dell’uomo che sottopone il proprio corpo a condizioni innaturali, a “situazioni-limite fisiche”, situazioni che per il suo fisico rappresentano l’estremo margine di sopportabilità. Lo fa solo per scoprire i lati deboli della propria natura corporea, cioè i punti in cui essa è rimasta amorfa, fluttuante, indefinita e ambigua, per questo ancora modellabili e adattabili alle esigenze degli apparati tecnici. Allo Human Engineering non importa certo sapere come il fisico è, ma quali sollecitazioni anormali sarebbe in grado di sopportare, quali delle sue soglie non sono fisse, quali potrebbero, quindi, venire ancora spostate. Tali “situazioni-limite” corporee interessano particolarmente l’uomo in quanto egli cerca di superarle, ma è un desiderio che non trova mai appagamento perché ad ogni nuovo margine nasce una nuova esigenza di ulteriore spostamento in avanti del “limite-soglia”, per stabilire un nuovo “margine estremo”. In realtà, come visto precedentemente, è proprio lo spostamento dei limiti, attraverso la costante ridefinizione delle “soglie”, a costituire la “cifra” del processo evolutivo, tanto ontogenetico che epigenetico, per cui l’animale-uomo, attraverso la tecnica e la tecnologia, non fa altro che sposta78

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re costantemente i propri confini; così l’uomo si allontana, inevitabilmente, in misura sempre maggiore da questo o quel “se stesso” che si rivela, dunque, sempre di più come un sé temporaneo. Non è altro che un costante, seppure tutt’altro che metafisico, «trascendersi» per varcare i limiti-soglia che la sua natura diveniente gli impone. È un passare in sfere di nuova natura e non in una sfera che non è più naturale; è l’appropriarsi consapevolmente del regno dell’ibridazione. Secondo Anders, invece, scopo degli esperimenti dello Human Engeenering è «di sottoporre a una metamorfosi il fisico che era stato sempre considerato un “destino” [...], di spogliarlo della sua fatalità, e ciò significa al tempo stesso togliergli quanto ha di fatale e di umiliante»24. Nuove “fatalità” e nuovi rischi di “umiliazione”, invece, si potranno certamente incontrare via via che le nuove ibridazioni saranno realizzate, e proprio l’evitare le “umiliazioni” sarà il vero compito di un’etica del “post-umano” su cui ci soffermeremo, seppure in breve, nelle Osservazioni conclusive del libro. La concezione andersiana, dunque, assume che è sempre la macchina a decidere che cosa “debba” diventare il corpo. È la macchina, cioè, che esige di diventare il “soggetto della domanda”; è la macchina ad esigere che le venga offerto ciò di cui ha bisogno, e cioè che l’uomo si sforzi di esibire un prodotto sempre migliore, ossia di offrire ciò di cui la macchina è necessitata per funzionare secondo le sue potenzialità. In tal modo, secondo Anders, gli esperimenti dello Human Engineering altro non sono che i riti di iniziazione dell’epoca dei robot. Infatti ciò che l’uomo cerca di ottenere con i suoi esperimenti è il climax di ogni possibile disumanizzazione. L’utilizzo del termine climax ha lo scopo di sottolineare il fatto che oggi l’uomo, a differenza di soli pochi decenni fa, tende ad assumere l’idea che la sua sventura stia nelle sue limitate possibilità di essere “utilizzato”, nel ti79

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more e nel sospetto che la sua passività, la sua utilizzabilità, insomma la sua mancanza di libertà abbia dei limiti definitivamente segnati. Sottoporsi alle tecniche di Human Engineering, per quanto possano essere tormentose e faticose, non lo spaventa. Così l’uomo si avvia alla totale eliminazione della spontaneità e umanità delle sue prestazioni, mentre accresce lo sforzo, con tutta la propria determinazione, per ridurre se stesso a un essere passivo, a una cosa; in questo senso l’espressione climax della disumanizzazione può sembrare, nella prospettiva andersiana, esagerata. Il pericolo dell’automatizzazione dell’uomo, della sua riduzione a “essere macchinico” è di finire con l’inseguire la macchina nella sua perfezione che, specializzata a eseguire un determinato tipo di lavoro e nient’altro, spingerà l’uomo a essere egli stesso progettato per una determinata specializzazione. Divenire capaci, per esempio, di eseguire quella data manovra a quella data altezza, a quella data velocità, in quelle date condizioni di bassa pressione e con quella rapidità di riflessi, grazie al mutamento tecnologico, se, da un lato, rispetto alle possibilità reali del corpo dell’uomo, può apparire o effettivamente essere un atto sovra-umano, in realtà, secondo Anders, la possibilità di questa “prestazione” rileva, dall’altro lato, un paradossale esito “subumano”, una semplice funzione macchinale, una “destrezza” isolata. Un uomo, quello contemporaneao, che muove verso questa direzione di mutamento non è in grado né di accettare né di comprendere l’allarmata denuncia del rischio di disumanizzazione che si produrrebbe da una tale manipolazione. Questo semplicemente perché, per l’uomo della «vergogna prometeica», essere macchina è proprio ciò che egli brama, è proprio il suo fine e il suo compito. Mai prima d’ora l’uomo ha osato un rifiuto così totale del suo essere. L’uomo, in quanto libero, ha dimenticato di stabilire alcun criterio per regolamentare le possibilità rese attive dallo svilup80

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po tecnologico. L’unica possibilità è che l’uomo assuma se stesso quale criterio, cioè si renda conto che il punto limite è raggiunto nel momento in cui, divenuto inferiore a se stesso, non tiene più dietro a se stesso, ossia non è più «all’altezza dei suo prodotti». La stessa trasformazione del corpo non è da considerarsi tanto come qualcosa di inaudito e immorale perché «così rinunceremmo al nostro “destino morfologico” o trascenderemmo il limite di prestazioni che è previsto per noi». Inaudito, per Anders, è che ci si autotrasformi per amore delle macchine prendendole a “modello” delle nostre alterazioni, rinunciando così ad assumerci noi stessi come unità di misura e, così facendo, limitando la nostra libertà o addirittura rinunciandovi. Nasce così la figura dell’ibrido – e qui l’interpretazione contro l’impostazione “tipica” del “post-umano” è chiara nella sua esigenza di affermazione di una qualche “purezza” essenzialistica dell’umano –, una sorta di incrocio tra fabbricanti e oggetti fabbricati. A questo punto, Anders sostiene che il tentativo dell’uomo di trasformarsi in un essere conforme alle macchine è mostruoso, e di sicuro il suo atteggiamento può essere definito una forma di arrogante autodegradazione. Alle malattie, alla miseria, alla vecchiaia, alla morte egli aggiunge masochisticamente un’altra offesa: l’autoriduzione a cosa. Secondo Anders, se l’uomo soffre di un senso di inferiorità di fronte alle sue macchine, questo avviene solo perché, nei suoi tentativi di adeguarsi ad esse e di fare di se stesso una parte di quelle macchine, si rende conto che «egli costituisce una materia grezza di pessima qualità. Ma ciò deriva appunto del fatto che, invece di una reale materia prima, egli “disgraziatamente” è già morfologicamente fisso, perché già preformato. Ma essere preformato equivale sempre a essere “preformato erroneamente”»25. Ancora una volta, nel «morfologicamente fisso» e nel «preformato» vengono 81

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esclusi, da parte di Anders, i cardini concettuali della “svolta epistemologica”: il carattere irriducibilmente evolutivo della vita con la conseguente impossibilità di “definire” un’essenza del vivente-uomo. Con lo Human Engineering, secondo Anders, l’uomo cerca di ricavare del materiale per dargli la forma di volta in volta richiesta. Questo suo “essere modellato erroneamente” – che ricorda il concetto del Mangelwesen prima herderiano, poi gehleniano, criticamente qui discusso – rappresenta il suo “difetto capitale”, quindi anche il motivo capitale della sua «vergogna prometeica». Una seconda calamità dell’uomo sarebbe il fatto del suo facilmente deteriorarsi. Per tale motivo, nella prospettiva andersiana, egli rimarrebbe escluso dalla «reincarnazione artificiale». Infatti l’uomo non solo è «ottuso», rispetto ai sui prodotti, ma ha anche una vita più corta, e più mortale. Non è in grado di gareggiare con la longevità, per non dire “immortalità”, che, se vuole, può dare ai suoi prodotti. Solo la nostra propria mortalità non è opera nostra, solo essa non è calcolata. E questo, sostiene Anders, è un pudendum. Si utilizza il termine “immortale” perché oggi esiste un nuovo genere di immortalità – qui Anders sembra completamente dimenticare le “trappole” del linguaggio –, la reincarnazione industriale, cioè l’esistenza in serie dei prodotti. «Prendete, ad esempio, una lampadina che va a sostituire quella vecchia bruciata, non ne continua forse la vita? Non diventa la vecchia lampadina?» La possibilità di reincarnazione cessa solo quando muore anche “l’idea” del pezzo, cioè quando la sua marca viene abbandonata in favore di un’altra marca. Quello che conta è solo la nostra inferiorità, il fatto che noi, i creatori dell’immortalità dei prodotti, non siamo capaci di partecipare a tale virtù. Non possiamo fare altro che portare a compimento il tempo che ci è concesso, perché a nessuno di noi è data la possibilità di esistere in più 82

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esemplari. «“Io sono io”, e il mio proprio io resterà insostituito e insostituibile»26. Certamente assai lucida appare la disamina andersiana e anche condivisibile rispetto ad alcuni giustificati timori che essa rivela; ma, altrettanto, non profondamente comprensiva dell’aspetto processuale del mutamento che, più che essere prodotto dalla costruzione meccanica, dal “macchinario”, viene realizzato dalla straordinaria convergenza, oggi in notevole sviluppo, di biologico, informatico e tecnico-macchinico, che disinnesca la oramai tradizionale “mostruosità” della concezione dell’apparato macchinico otto-novecentesco e, invece, “apre” a nuove forme di dialogo della interlocuzione umana che chiamano a considerar-si e comprender-si come processo relazionale, come movimento eteroriferito, a partire dalla stessa sua configurazione biologica. Se, come già sottolineato, non tanto l’io quanto «la soggettività è irriducibile», ridotta appare invece – non ostante le difensive e apocalittiche visioni del futuro andersiane, giustificate peraltro dai numerosi aspetti certo non rassicuranti dello sviluppo tecno-logico – la “comprensione” dell’ineludibile movimento di trasformazione dell’umano che, altrettanto irriducibile nella sua azione “bio-tecno-poietica”, pone le premesse, nel nostro tempo, per farsi “soggettività molteplice” e “capacità disarticolativa” delle rigide e sclerotizzate configurazioni del “soggetto”. La posizione andersiana appare, d’altra parte, “in ritardo” rispetto alle nuove configurazioni che la teoria biologica, a lui più o meno contemporanea – per esempio la teoria “sistemica” di Bertalanffy –, veniva elaborando. Nell’idea di “sistema aperto” di Bertalanffy l’“apertura” [...] consiste nel dato di fatto [...] del continuo e completo scambio di materia del sistema organico con il suo ambiente [...]. La qualità che definisce il sistema non è pertanto una di-

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sposizione (struttura), bensì un comportamento dinamico (processo) che può essere tenuto dalle più disparate disposizioni27.

E che cos’è l’ambiente (Umwelt), se non il risultato della costante “manipolazione” che l’attività bio-tenco-poietica, particolarmente quella del vivente-uomo, realizza? Il tema del “corpo senza organi” – da cui ci si è momentaneamente allontanati per evidenziare i “limiti” della posizione “apocalittica”, pur in parte motivata, che il pensiero di Günter Anders rappresenta nella “più nobile” forma – è esplicativo dei “modi” in cui tale disarticolazione può realizzarsi in una prospettiva di annullamento o di un nuovo divenire del corpo. In effetti, il concetto di “corpo senza organi”, espressione per la prima volta adottata da Antonin Artaud per segnalare l’improprietà del “corpo proprio” (Leib), inteso come una modalità di “assoggettamento” del soggetto, è concettualmente, oltre che teoricamente, “ambigua”. Tale espressione, infatti, se può, in un primo significato, essere riferita, in positivo, all’estremismo “tecnofilo” e, in negativo, all’apocalittismo “tecnofobo”, in un secondo significato può essere intesa come un’esigenza di liberatoria riconfigurazione del corpo, dove il concetto di “corpo senza organi” (d’ora in poi CsO) nega l’ordine organismico gerarchizzato dalla tradizione del pensiero occidentale e trova in Gilles Deleuze e Felix Guattari gli elaboratori del concetto artaudiano. L’espressione “corpo senza organi”, allora, intesa e analizzata nel primo significato, vuole segnare la frontiera di una definitiva liberazione dell’uomo dal corpo organico perché esso sia sostituito, nel caso auspicato dai “transumanisti”, dal supporto tecnologico. Il recente concetto contenuto nell’espressione mind-uploading è la forma estrema di questa aspirazione che consiste nel trasferire l’intera attività 84

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cerebrale su di un sostrato elettronico28. L’aspetto più criticabile, al di là delle questioni etico-morali, è rappresentato dal fatto che questo progetto contiene, affinché sia concretizzabile, l’idea che la mente sia esclusivamente il risultato funzionale dell’attività del cervello e che quindi tale attività possa essere riprodotta su qualsiasi “sostrato” che sappia ripresentare e rappresentare le giuste connessioni e i medesimi algoritmi computativi della funzione cerebrale. D’altra parte, perfino lo stesso “manifesto del posthuman” sembra contraddire il riduzionismo logico contenuto nel concetto di mind-uploading: Abbiamo già macchine che possono imparare. Tuttavia le loro abilità sono al momento limitate dal fatto che esse sono logiche. La logica è un sistema idealizzato e autoreferenziale sviluppato dall’immaginazione umana. Dal momento che esistono poche cose meno logiche nel modo di comportarsi che gli esseri umani, nessuna macchina costretta a usare la logica come base mostrerà mai caratteristiche umane29.

Sappiamo invece, grazie agli studi recenti di neurofisiologia, che le performances cognitive sono funzioni totalmente incarnate e che la mente è un’entità che non può essere in alcun modo concepita come separata dalla dimensione biologica. Il cervello, insomma, è esso stesso “corpo biologico”: «Corpo e cervello formano un organismo indissoluble: pensare il cervello come un computer significa accettare in pieno la frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa, tra un software, che dovrebbe essere la mente, e un hardware che sarebbe il cervello o il corpo in senso esteso»30. Al di là delle possibilità che un futuro così aperto ci riserva, alla posizione “tecnofila” e a quella “tecnofoba”, cioè a quella del “transumanesimo” e quella dell’“umanismo antropocentrico”, risponde, appropriatamente, la concezione di un “post-umano” conspevole del mutamento ma deciso a “guidar85

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lo” attraverso quel processo di riconoscimento del mutamento stesso, segnato dalla condizione di estrema criticità che lo sviluppo biotecnologico impone al transito dell’umano, ma anche deciso alla conservazione di quel “qualcosa” che sembra essere patrimonio bio-storico acquisito, cioè il sentire. Tale risposta accoratamente sostiene, attraverso la metafora onirica, che se il mio incubo è una cultura abitata da postumani che considerano i loro corpi alla stregua di accessori di moda, invece che sede del loro essere, il mio sogno è una versione del postumano che accetti le possibilità delle tecnologie dell’informazione senza rimanere sedotto da fantasie di potere illimitato e dall’immortalità disincarnata, riconoscendo ed esaltando la condizione di finitudine dell’uomo e comprendendo che la vita è radicata in un mondo fisico di estrema complessità, dal quale dipende la nostra sopravvivenza31.

Sull’altro versante, il concetto di “corpo senza organi”, inteso nel secondo significato, viene sviluppato, come su accennato, da Deleuze e Guattari. In questo senso «il CsO non è più concepito “contro” l’organo ma semplicemente contro l’organismo, cioè contro l’organizzazione “stabile” degli organi»32. Non si tratta, dunque, di disfare l’organismo per distruggerne gli organi e liberarsi del corpo organico, così come nella prospettiva “transumanista”; disfare l’organismo significa invece «aprire il corpo a connessioni che suppongono un concatenamento, circuiti, congiunzioni, suddivisioni e soglie, passaggi e distribuzioni d’intensità, territori e deterritorializzazioni [...]. Dell’organismo bisogna conservare quanto basta affinché si riformi a ogni alba»33. Spinto all’estremo il modello di riconfigurazione del CsO, secondo una concezione contro-organismica consolidata e sulla scia delle osservazioni di Michel Foucault, la «Haraway richiama la nostra attenzione sulla costruzione e la 86

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manipolazione dei docili, conoscibili corpi del nostro sistema sociale» e «propone la figurazione del cyborg. In quanto ibrido, o corpo-macchina, il cyborg è un’entità che crea connessioni, una figura di interrelazionalità, ricettività e comunicazione globale, che sfoca deliberatamente le distinzioni categoriche (umano e macchina; natura e cultura)»34. Presa di coscienza del divenire significa, allora, che «i divenire, divenire animali, divenire molecolari, prendono il posto della Storia [...]. Non è più un Io che sente, agisce e si ricorda, è una “bruma brillante, una nebbia gialla e scura” che ha affetti e prova movimento, velocità»35. A partire da questa prospettiva, appare del tutto evidente la concezione che valorizza una posizione di “eteroreferenzialità” circa la “natura” umana resasi operativa, per mezzo dell’evento della tecnicizzazione del mondo, a costituire quella nuova fase di transito che si definisce attraverso la categoria del “postumano”. Questo “transito” inaugura la comparsa di una nuova forma di soggetto: non più soggetto incarnato organico, dopo secoli di ritornanti separazioni corpo/anima, passione/ragione, corpo/mente, emozione/razionalità ecc. appena ricomposte, bensì soggetto “macchinico non-meccanico” – «la trasformazione del soggetto in una cosa che sente»36 – ovvero soggetto o soggettività-cyborg. Al di là delle posizioni più o meno estreme assunte dalla prospettiva del movimento del “trans-umano” che aspira a una radicale negazione del corpo organico, considerato inadeguato, ridondante e ostativo allo sviluppo della conoscenza, la questione dei limiti e delle modificazioni artificiali del corpo organico si pone in tutta la sua problematica forza di riconfigurazione di una possibile idea di corpo, di logos e di soggetto che, attraverso riconoscimenti ibridativi, modifichi e conservi, al tempo stesso, l’unità pato-logica del 87

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più sofisticato prodotto del processo della selezione/variazione bio-naturale: l’uomo. È una nuova dimensione di corporeità secondo l’idea di un organismo –organico e non-organico – resasi efficiente, da parte dell’uomo post-moderno, homo technologicus, in conseguenza dell’avvertimento per l’uomo del tardo XX e del XXI secolo, di un sentimento di inadeguatezza del corpo vivente nei confronti di un mondo segnato e definito dall’apparizione di una nuova soggettività: la “soggettività tecnologica”. Tale sentimento di inadeguatezza, soprattutto nella prospettiva “tecnofoba”, si concretizza nella sbalorditiva espressione di Günter Anders che denuncia come la condizione umana, rispetto al proprio corpo, si vergogni di se stessa: è la vergogna prometeica. Si tratta cioè della “vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi”. Se cerco di approfondire questa “vergogna prometeica”, trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la “macchia fondamentale” di chi si vergogna, è l’origine. [L’uomo] si vergogna di essere divenuto invece che di essere stato fatto. [L’uomo si vergogna] di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fin nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita37.

La vergogna, dunque, sembra essere, nell’orizzonte della crisi di “passione” (il sentire) dell’uomo post-moderno, l’ultima passione da consumare, prima che l’uomo (il viv-ente senziente) possa, da ultimo, rendersi finalmente libero da ogni qualsivoglia patire. Si tratta, stavolta secondo il modello “tecnofilo”, dell’aspirazione della tecnologia a sostituire l’organico con l’inorganico: «La natura inorganica infatti è, per dirla in breve, meglio conoscibile di quella organica»38. Tale maggiore conoscibilità se esprime, peraltro, un desiderio di perfezione che giustifica la vergogna dell’organico, 88

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esprime, nel contempo, un desiderio di controllo: se la razionalità moderna fallisce per la sua incapacità di riduzione del processo organico-vitale a ordine controllato e governabile, la tecno-logia, che si configura, nell’era post-moderna, come nuovo logos universale, aspira al proprio trionfo attraverso la riduzione dell’organico all’inorganico, cioè ad un “organico” meramente quantitativo e funzionale e perciò stesso calcolabile e controllabile. Da questo momento in poi, di fronte alla crisi del soggetto organico, di fronte alla crisi dell’umanesimo e all’avvento del “post-umano” determinato dal trionfo della “tecno-logia”, si sfidano apertamente le due fondamentali e radicalmente opposte prospettive interpretative: quella “tecnofoba” e quella “tecnofila”. Da un lato, come sopra delineato, la prospettiva “tecnofoba” aspira a un “ritorno dell’umano” in nome dell’angoscia vissuta di perder-si, una sorta di ri-purificazione dell’uomo dalla tecnologia – secondo lo stesso modello della tradizione di un uomo purificato dall’impura carnalità passionale-animale – in nome della ripresa di una forma di antropocentrismo umanistico in cui l’uomo vitruviano torni a essere la misura di tutte le cose, separato dalla natura, ma al tempo stesso suo centro direzionale; dall’altro, la prospettiva “tecnofila”, invece, aspira a una “perdita” definitiva dell’umano, al suo superamento compiuto, in nome dell’avvento di una nuova era, quella del trans-umano, il trans-ire, nel senso letterale dell’andare al di là, il transito appunto, cioè in nome dell’avvento dell’era della più volte annunciata “morte dell’uomo” in favore di un’era di un nuovo ente, un “tecno-ente”; o forse, detto ancor meglio, se si coglie lo spirito effettivamente “positivistico” del “transumano”, dell’avvento di un’era volta a liberare la condizione di questo “tecno-ente” divenuto da ogni possibilità di divenire, realizzando così un in-differente “tecno-essere”. 89

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Nel mezzo, vera proposta di ragionante mediazione, sta propriamente il progetto del “post-umano” assimilabile, per certi versi, anche con l’espressione “iper-umano”, in cui l’uomo, accettando l’irreversibile mutamento da cui proviene e verso cui si dirige, coglie, nella ibridazione coniugativa dell’umano con l’animale – rispetto a una tradizione dell’origine (teriomorfismo) – e con la tecnologia – rispetto all’invenzione del futuro (tecnomorfismo) –, l’occasione per dare vita a una nuova forma di soggettività: il nomadismo o “soggettività nomade” dell’uomo-cyborg che è uomo organico ibridato con la tecnologia, dove il concetto di ibridazione non va inteso soltanto come “banale” mescolanza, attraverso innesti e protesi, della tecnologia sull’organico, bensì come costituzione di partnership interlocutiva, costituzione di nuove alterità con cui essere in dialogo, il cui effetto non può che essere ontologico nella misura in cui il carattere primariamente epigenetico di tale dialogo fortemente modifica il comportamento e la “visione del mondo”. Se, nel primo caso, quello della posizione “tecnofoba”, va ripristinata l’umanità dell’umano attraverso la sua “depurazione” dalla tecnologia, e, nel secondo caso, quello della posizione “tecnofila”, va superato definitivamente proprio ciò che fa dell’uomo un uomo, la sua identità umana, organica e difettiva, nel terzo caso, quello della posizione del “postumano”, o “iper-umano”, l’umanità dell’uomo si conserva solo se essa accetta di riconoscere un percorso di coniugazione e ibridazione con l’alterità animale, da cui deriva nell’origine, e di coniugazione e ibridazione con l’alterità tecnologico-macchinica verso cui muove in prospettiva, secondo modalità totalmente nuove rispetto al passato che la pongano in una posizione di permanente apertura al processo di mutamento trasformazionale che tale “nuova alterità” costantemente le impone nella irriducibile attività di interlocuzione che l’uomo stesso inventa e produce, decide e crea, 90

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attraverso lo sviluppo tecnologico. La tecnologia essendo un nuovo orizzonte dia-logico con cui l’ente-uomo deve misurarsi, dopo il millenario dialogo con la “natura naturale”, e a partire, dunque, dalla necessaria assunzione di una sua nuova identità soggettiva, effetto del dialogo con la “natura artificale”: quella di uomo-cyborg. Non è, allora, quella che si profila, la fine della dialettica in nome del totalitarismo – secondo i modelli opposti, di denuncia o aspirazione, rispettivamente dei “tecnofobi” o dei “tecnofili”. È invece l’inizio di una nuova dialettica, non più “rigidamente” dicotomica e oppositiva, bensì ibridativa, cioè evolutiva e selettiva, quella che si apre all’orizzonte dell’umano che diviene “post-umano”. Insomma, «non si dà identità se non come transizione attraverso le alterità, non si dà identità se non come transazione con le alterità»39. Riprendendo le posizioni di critica dell’umano sviluppate, ad esempio, da Donna Haraway40 – tra le prime rappresentanti della posizione teorica propriamente “iperumana” e “post-umana” –, la possibilità di uscire dal nichilismo di un alienativo dell’umano trionfo tecnologico sta nell’accettare l’abbandono della distinzione tra natura e cultura, nell’accettare il processo di de-naturalizzazione dell’uomo sfruttando in positivo le opportunità che questo mutamento di paradigma comporta. Si tratta cioè di affrontare radicalmente la questione del soggetto, nell’epoca delle nuove tecnologie, proponendone una nuova definizione. Questa nuova soggettività si definisce come sintesi di uomo e macchina, un soggetto non più solamente umano e rinchiuso nei limiti del corpo fisico ma un soggetto tecno-umano che “abita” tanto il corpo organico quanto la sua estensione elettronica: il cyborg. Il cyborg, per la Haraway, rappresenta, insomma, l’accettazione del mutamento e il superamento di una visione dicotomica della realtà, «una via d’uscita dal labirinto di dualismi»41, se 91

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non metodologici, almeno ontologici, finalizzata al riconoscimento di una “identità mutante” non più irrigidita nel sogno di una permanenza ultracorporea, secondo la tradizione di una metafisica dell’essere o secondo la nuova prospettiva di una metafisica del tecno-essere. Al tempo stesso, una uscita dal labirinto dei dualismi attraverso la soppressione di uno dei poli che lo costituiscono: la soppressione del corpo “meramente” organico. Nella sfida tra tecnologia – informatica, “intelligenza artificiale” o “non biologica” – e natura – controllo biologico dei meccanismi evolutivi – ci troviamo in un punto di possibile o forse necessaria convergenza: «Da un certo momento in poi, le due strade si unificheranno a un livello che qualcuno già chiama “bioconvergenza”: la nuova alleanza fra intelligenza umana e non biologica. E sarà allora che avremo sfondato la soglia, e saremo entrati nella “Singolarità” che ci aspetta»42. D’altra parte, tutti noi siamo ormai questa “singolarità”, siamo cioè ormai cyborg – «un soggetto stratificato, complesso e differenziato al suo interno»43 – nel momento in cui affidiamo i nostri atti comunicativi o cognitivi alla tecnologia: ai computer per esprimere il nostro pensiero, alla televisione o alle reti telematiche per divulgarlo, ai dischi ottici per conservarlo e trasmetterlo; o quando ricorriamo a inserti elettronici (i pace-maker o le protesi uditive) o a inserti materici (il silicone o i “chiodi” ortopedici) per conservare o sviluppare la nostra stessa vita corporea. «Siamo alla fine del modello postnucleare di soggettività incarnata e siamo passati alla modalità “virale” o “parassitaria”: è un modo grafico di spiegare fino a che punto il corpo sia oggi immerso in un insieme di pratiche tecnologicamente mediate di estensione protesica»44. La concezione del “post-umano”, allora, in questa prospettiva considerato come una forma di “ragionevole mediazione” tra le due istanze oppositive delle concezioni “tec92

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nofoba” e “tecnofila”, rappresenta il riconoscimento, non catastrofistico ma nemmeno illusoriamente salvifico, dell’esigenza di un’apertura radicale ad alterità e differenza: «L’arricchimento protesico è un conto, la fantasia di onnipotenza è tutta un’altra cosa. La filosofia rizomatica o nomade rappresenta una forma antiessenzialistica di vitalismo che sottolinea l’immanenza radicale, o le radici corporee, della soggettività» secondo l’insegnamento del pensiero che va da Nietzsche fino a Deleuze e, sul piano della ricerca scientifica “positiva”, secondo le ricerche che vanno, per esempio, da Gerald Edelman ad Antonio Damasio. «I corpi-macchina nomadi sono potenti figurazioni del non-unitario soggetto-in-divenire [...] l’alternativa più rilevante alla crisi del soggetto umanista [...]. I corpi-macchina nomadi suggellano inoltre una nuova alleanza tra pensiero concettuale e creatività, ragione e immaginazione»45.

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Note GEHLEN, Einblicke, cit., p. 65. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. it. cit., p. 6. 3 La categoria di “liquidità” è stata introdotta e variamente declinata dal sociologo tedesco Z. BAUMAN, a partire dall’opera Liquid Modernity, Polity Press-Blackwell Publishers, Cambridge-Oxford 2000, tr. it., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002. La “liquidità” rappresenta, secondo Bauman, l’immagine metaforica che indica il compimento della vicenda della storia della modernità secondo la modalità di una forma e la consegna a una «nuova fase» nella quale la liquidità sta a significare che «i liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una propria forma. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo» (cfr. Prefazione, p. VI). In tal modo, se possiamo dire che la liquidità, il fluido, ha o non ha una forma, certamente la «post-modernità», o «seconda modernità» o «sub-modernità», ha la “forma” della “liquidità”. 4 R. ESPOSITO, Bios, Einaudi, Torino 2004. Nel capitolo quarto, «Tanatopolitica (il ciclo del ghenos)», viene sviluppato il carattere dell’antropologia totalitarista, in particolare di quella nazista, come antropologia biopolitica assolutamente specifica. Scrive Esposito a p. 117: «quello nazista è qualcosa di radicalmente diverso: non nasce dalla estremizzazione, ma dalla decomposizione della modernità [...] il trascendentale del nazismo è la vita, il soggetto è la razza e il lessico la biologia». 5 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia (1872), ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1972. 6 G. DALMASSO, Il limite della vita, Introduzione a J. DERRIDA, L’animale che dunque sono (2006), tr. it., Jaca Book, Milano 2006, p. 7. 7 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1882-1884), ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 200122, pp. 33-34. È il celeberrimo paragrafo che inverte la tradizionale relazione gerarchica corpo-ragione: «Dei dispregiatori del corpo». 8 NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., Prefazione alla seconda edizione, p. 32. 9 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, ed. a cura di G. Colli, M. Montinari, vol. VIII, t. II, Adelphi, Milano 19713, p. 311. 10 Sulla nascita e la poderosa crescita delle tecniche in campo bellico, finalizzate alla manipolazione della vita e allo sviluppo di una biopolitica come “politica sulla vita” rispetto alla biopolitica intesa come “politica della vita”, cfr. ESPOSITO, Bios, cit. 11 Appare qui utile sottolineare quella che si propone, in questo saggio, come la sostanziale differenza tra i termini “tecnica” e “tecnologia”. Il termine 1 2

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“tecnica” (techne) è inteso qui come ciò che concerne il comportamento dell’uomo nei confronti della natura al fine di produrre beni per ottenerne condizioni di vita migliore e che ha quasi da sempre accompagnato, sin dalla sua apparizione, l’esistenza dell’uomo sulla terra. Si tratta, cioé della “tecnica” come “arte di produrre strumenti”, manufatti, che siano in grado di migliorare la condizione di vita dell’uomo nei confronti del suo ambiente. La “tecnologia” (techne e logos) è qui intesa, invece, come la vera forma del logos, la ratio umana, l’“ordine cosmico”, che si trasforma in techne. Essa è da intendersi, cioè, come quel passaggio epocale in cui non la ragione crea strumenti tecnici per ampliare e consolidare, rendendola “etica”, la propria presenza nel mondo, cioè realizzandone una maggiore “abitabilità” – secondo l’antico significato del termine “Ethos” – bensì come quel processo di astrazione disincarnativa che formalizza quantitativamente il mondo espellendone ogni qualità. La “tecno-logia” è, allora, da intendersi come quel processo in cui la ragione non è più, secondo la definizione nietzscheana, «uno stato di relazione tra diverse passioni» del corpo, bensì essa è lo stesso principio ordinatore del mondo, il techno-cosmos, da cui, per conseguenza, le passioni del corpo sono escluse: togliete le passioni e il corpo svanisce; svanito il corpo, svanisce la ragione. Svanito il corpo con le sue ragioni, svanisce l’uomo: resta un techno-logos, cioè un logos in quanto tecnologia, cioè un logos da intendersi come disincarnamento progressivo del mondo, dunque, un logos anti-biologico, anti-vitale, ipostatizzato in tecno-logie di concettualizzazioni logico-formali – cioè la metafisica. Per questo, qui, la tecno-logia è sempre pensata insieme al bios come, appunto, “bio-tecno-logia”, laddove il bios, oltre che riferirsi alla vita in quanto tale, si riferisce al suo carattere processuale e transformazionale, dunque dinamico, il cui “modo d’essere” appare irrinunciabile anche “oltre” essa stessa, in quanto “oltrepassamento” dell’umano. 12 Nella scansione andersiana della modernità, la prima rivoluzione industriale consiste nell’introduzione del macchinismo, la seconda rivoluzione riguarda la produzione dei bisogni, la terza, infine, è quella che produce l’alterazione irreversibile dell’ambiente e compromette la sopravvivenza stessa dell’umanità. 13 È la tesi di fondo di GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit. 14 P.P. PORTINARO, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 25. Sul piano della stessa prospettiva, seppure con un connotato propositivo di un’etica attiva, si pone il celebre testo di H. JONAS, Il principio responsabilità (1979), tr. it., Einaudi, Torino 1990. Il principio responsabilità, in tal modo, “risponde” da un lato alla concezione utopica e cautamente ottimistica de Il principio speranza, di ERNST BLOCH, edi-

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to in tre volumi tra il 1953 e il 1959, e dall’altro alla concezione apocalittica de L’uomo è antiquato di GÜNTHER ANDERS, edito in due volumi tra il 1956 e il 1980, che tematizza, secondo il titolo dello stesso saggio di Portinaro, il concetto di “Principio disperazione”. 15 Per le questioni riguardanti il tema del “corpo”, cfr. U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 19942. 16 ANDERS, Introduzione, in L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 50. 17 «Chiamiamo dislivello prometeico l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande...», in ANDERS, Introduzione, in L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 50. 18 G. ANDERS, Die atomare Drohung. Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, Beck, München 1983, p. 96. 19 Su tali argomenti cfr. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., p. 37. 20 G. ANDERS, Der Mann auf der Brücke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, Beck, München 1959, tr. it., Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, p. 74. 21 ANDERS, L’apparenza, in L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., p. 27. 22 ANDERS, Introduzione, in L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 53. 23 R. BROOKS, L’unione di carne e macchine, in J. BROCKMAN (a cura di), I prossimi cinquant’anni (2002), tr. it., Milano, Mondadori 2002, p. 159. 24 ANDERS, Della vergogna prometeica, in L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 70. 25 Ivi, pp. 80-81. 26 Ivi, p. 85. 27 JONAS, Organismo e libertà, tr. it. cit., p. 91. 28 H. MORAVEC, Mind Children. The Future of Robot and Human Intelligence, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1988, pp. 106-110. Nell’ipotesi di Moravec, il mind-uploading sarà l’atto che rende possibile trasferire l’intera attività cerebrale, cioè la funzione neurocomputazionale. Questo trasferimento avverrà attraverso complesse, ma in teoria tecnicamente possibili, forme di microtomia cerebrale e di successiva scannerizzazione con microscopio elettronico ad alta definizione che, raccolte tutte le informazioni, ricostruirà digitalmente la struttura cerebrale. La tecnica è basata sulla convinzione che la mente sia una risultante funzionale che può essere traferita su di un sostrato elettronico. Alla fine dell’intervento, «Con un’ultima mossa diso-

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rientante, il chirurgo estrae la mano dalla cavità cranica. Il corpo, abbandonato d’improvviso, ha un sussulto e muore. Per un istante rimaniamo nel silenzio e nell’oscurità. La simulazione al computer è stata scollegata dal cavo che arriva alle mani del chirurgo e collegata al nuovo corpo fabbricato con i materiali, le rifiniture, i colori e lo stile che abbiamo scelto in precedenza. La metamorfosi è completa». 29 R. PEPPERELL, Posthuman manifesto (VIII. “dichiarazione sugli esseri sintetici”), 1995, in http://intertheory.org/pepperell.htm 30 A.R. DAMASIO, L’errore fatale di Cartesio, in CARLI (a cura di), Cervelli che parlano, cit., p. 37. 31 K.N. HAYLES, How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, The University Chicago Press, Chicago-London 1999, pp. 2-3. 32 V. CUOMO, La “casa dell’essere” e l’evento del corpo-senza-organi, in «Kainòs», Rivista on-line di critica filosofica, 6, 2006. 33 G. DELEUZE, F. GUATTARI, Millepiani (1980), tr. it., Castelvecchi, Firenze 2006, p. 251. 34 BRAIDOTTI, In metamorfosi, tr. it. cit., p. 285. 35 DELEUZE, GUATTARI, Millepiani, cit., pp. 253-254. 36 M. PERNIOLA, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 20042, p. 36. 37 ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, cit., pp. 57-58. 38 A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica (1957), tr. it., SugarCo, Milano 1984, p. 14. 39 R. MARCHESINI, Contro la purezza essenzialistica. Verso nuovi modelli di esistenza, in PIREDDU, TURSI (a cura di), Post-umano, cit. p. 38. 40 D. HARAWAY, Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, Free Association Books, London 1991, tr. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995. La Haraway sostiene una sostanziale accettazione delle tecnologie sulla base della necessità del loro “incorporamento ibridativo” capace, tra l’altro, di sfumare o di superare le differenze d’identità sessuale. 41 Ivi, p. 84. 42 SCHIAVONE, Storia e destino, cit., p. 68. 43 BRAIDOTTI, In metamorfosi (2002), tr. it. cit., p. 29. 44 Ivi, p. 269. 45 Ivi, pp. 314-315.

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La soggettività è irriducibile. Gerald Maurice Edelman

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5. L’avvento della “singolarità”

La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e depotenziato [...]. Si pensa che qui sia il nocciolo dell’essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! (Friedrich Nietzsche)

Di fronte alle premesse e allo sviluppo del discorso incentrato su di un così impegnativo processo di trasformazione delle categorie tradizionali d’indagine e di ipotesi definitoria dell’umano, allora, a questo punto, «bisogna sbarazzarsi del soggetto stesso»1, accettando lo “sradicamento” della domanda sull’uomo – “l’uomo non ha essenza”, egli è una “impossibile normalità” – perché essa è «spostata dalla interrogazione sulle costanti alla problematizzazione di quel residuo destrutturato e indefinibile che è estrema singolarizzazione del vivente»2, cosicché ci si possa ritrovare nella prospettiva di una nuova configurazione dell’umano «all’interno del quadro di una teoria dell’essere come assoluta dispersione, diffusività, eterogeneità pura, (che segnala) soltanto un esile confine di passaggio da un anonimo movimento vitale al sentirsi vivere»3. Questo sentirsi vivere è, appunto, il nucleo del “postumano” – la soggettività singolare – ed è a partire dalla nonomologabilità delle differenze che la definizione di “sogget101

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tività-nomade” va intesa: insomma, un’indifferenziata condizione di soggettività-cyborg e un’assoluta individualità del sentirsi in quanto sentirsi vivere come “singolarità”. Se il concetto dell’uomo come “singolo”, nella storia del pensiero filosofico, viene tematizzato da Sören Kierkegaard nella prima metà del XIX secolo in opposizione ai modelli universalistici e impersonali «dell’Io di Fichte, dell’Assoluto di Schelling e dell’Idea di Hegel ed esprime l’irriducibilità dell’uomo, della sua natura, dei suoi interessi e della sua libertà a qualsiasi entità infinita, immanente o trascendente, che pretenda di assorbirlo»4, il tema della “singolarità” a cui qui si fa riferimento, nel quadro della nascita e dello sviluppo delle categorie relative al “post-umano”, nasce già alla metà degli anni ’50 del secolo scorso. Viene elaborandosi da allora un discorso attorno al tema di una nuova categoria dell’umano che deriva dallo sviluppo della tecnoinformatica. Si tratta di «una conversazione centrata sul sempre accelerante progresso della tecnologia e del cambiamento nei modi di vita degli esseri umani, che dà l’apparenza dell’avvicinarsi di qualche fondamentale singolarità della storia della razza, oltre la quale gli affanni degli esseri umani, come li conosciamo, non possono continuare»5.

Il concetto di “singolarità”, che originariamente appartiene alla teoria fisica, può essere utilmente trasferito, per analogia, sul piano del discorso sull’uomo: «Si tratta di un termine preso a prestito dalla fisica e indica un punto di infinita densità ed energia che costituisce una sorta di spaccatura dello spazio-tempo»6. Lo sviluppo tecnologico e l’ibridazione uomo-tecnologia trasformano, cioè, la dimensione soggettiva dell’ente uomo in un nuovo ente: il “singolare”. È la nascita di un “tecno-bio-ente” che rappresenta un “salto” nella storia umana. Se in fisica «è impossibile vedere al di là di una Singolarità», sul piano dell’umano il passaggio 102

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alla soggettività “singolare” rappresenta l’evento-limite del processo di evoluzione coniugata con la tecnologia, in cui ogni singolo “bio-tecno-ente” sarà portatore di una densità di funzioni e di virtualità attualizzabili, tali da trasformarsi egli stesso, l’uomo, in un mondo di auto e multi interlocutività (homo multiplex), una sorta di “orizzonte degli eventi”, così come viene descritto nella teoria fisica un “buco nero” come limite della visibilità, capace di realizzarsi in ogni evento, in cui, cioè, tutte le eteroreferenzialità coniugative saranno contenute in questa “soggettività singolare”. Da allora, di nuovo, si aprirà lo spazio per mettere in relazione, in una forma di comunicazione “ulteriore”, le molteplici “singolarità” contenenti una ricchezza di esperienze auto-relazionali che si “apriranno” alla molteplicità relazionale: uno spazio di “intra-” e “inter-singolarità”. Insomma, «una delle conseguenze salienti della Singolarità sarà un cambiamento nella natura della nostra capacità di capire. Diventeremo molto più intelligenti quando ci fonderemo con la nostra tecnologia»7. In questo senso, l’uomo “singolare” è «l’uomo che ha incorporato la tecnologia e le sue possibilità con la sua stessa essenza, a tale livello che la tecnologia è diventato un aspetto naturale di se stesso»8. L’espressione “l’uomo in trans-ito”, dunque – dal latino transire, “andare (ire) al di là (trans)”, “superare” e, nel linguaggio ecclesiastico, addirittura “andare nell’aldilà”, cioè “morire” (V sec. d.C., Pseudo Rufino)9 –, vuole alludere, evidentemente, a un confine, il confine di sé, ovvero a una nuova “soglia”, presso cui l’uomo sembra ormai diretto e, in certo senso, destinato per potere/dovere oltre-passar-si. Nel passaggio dal soggetto alla persona, e poi al soggetto nomade, ovvero alla “soggettività nomade”, avviene essenzialmente un “cambio di densità”: se la modernità è nata sotto il segno del soggetto (psyché, anima, ragione, coscienza, io) come coagulo sempre più denso dell’identità umana, una 103

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sorta di rifugio blindato e illusoriamente inespugnabile nel quale, e per mezzo del quale, proteggersi dal mondo, con la “crisi” del moderno poi e l’avvento progressivo del postmoderno annunciatore del “post-umano”, il soggetto, divenuto una mera ipostasi metafisica, si è “diluito” o “dilatato”, dapprima in persona, che ne è la trasformazione anti-metafisica verso una definizione potenziale e istituzionale-giuridica. Essa è al tempo stesso, cioè, una nuova definizione “di totalità vivente”, dal punto di vista del bios, e d’identità giuridico-istituzionale, dal punto di vista della techne o della dimensione della cultura; moltiplicatasi poi la sua identità, in soggettività, la dimensione identitaria ha assunto, infine, il carattere “multicentrico” o, se si preferisce “periferico”, di soggetto nomade o della “soggettività nomade”, di “soggettività cyborg” o, ancora, di “singolarità” o “singolarità complessa” ovvero, infine, di “singolarità multiplex”. Cambio di “densità” del soggetto, rarefazione del soggetto significa, in un certo senso, passare a un’espansione della soggettività: meno “soggetto-centro” e più diffusa soggettività periferica o multicentrica. Con l’espandersi, il soggetto (come nocciolo, nucleo-anima/centro) si dirada. Acquisendo territorio, cioè esternalizzandosi, esso si fa meno denso. La sua rarefazione significa diluizione del centro e, inoltre, anche sempre maggiore esteriorizzazione, acting out: un venir fuori che diviene un “tutto-fuori” o un “solofuori”. Un doppio movimento di allontanamento orizzontale e verticale: dal centro, io-centro (Ich-Kern), e dal fondo (hypokeimenon, sub-iectum), cioè allontanamento dall’io e dall’essenza; il che comporta «il dissolversi della coscienza tra il “dentro” e il “fuori”, fra il “sopra” e il “sotto” [...] in una parola tra il confine e la mancanza di confine, ossia lo sconfinato. Questo processo comporta, al limite, la frantumazione dell’identità»10: ciò significa, primariamente, inclusione nel positivo della vita dell’esperienza di straniamento, 104

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di estraneazione da sé, di estraneazione di sé. Si tratta di una rarefazione per dilatazione orizzontale, a partire da un centro, e di una superficializzazione verticale, per allontanamento verso una superficie, a partire da un fondo. Da centro identitario a identità dispersa, da saldo territorio dell’io a paesaggio totalmente esteriorizzato e deterritorializzato, nomade appunto. Con l’abbassamento o lo sgretolamento delle dighe metafisiche e religiose che separavano l’io dalla realtà sociale e naturale [...] il singolo, superando le remore personali, si riversa nel mondo dell’immanenza. Esce dall’eremo della coscienza, riconsacra solennemente la “realtà esterna”, ma viene anche trascinato dal fiume “eracliteo” d’incessanti trasformazioni11.

Non necessariamente annunciatrice di catastrofi, questa dinamica, tipica del carattere del “post-umano”, rinvia a un esemplare umano diffuso, che ritiene gradevole vivere con un io multiplo e malleabile [...] che desidera esperire più “vite parallele” [...] che si propone di assaporare meglio la propria esistenza frequentando molteplici “mondi vitali” o inserendosi in differenti sfere di appartenenza (non solo eccentriche [...] ma discontinue e provvisorie)12.

Così come, in ambito psico-cognitivo, è nata l’idea di una “mente modulare”, è possibile pensare, nel descrivere il mutamento antropologico che è l’immagine stessa del soggetto “post-umano”, ad un “io modulare” (modular me) in cui la molteplicità delle identità da virtuale si attualizza a formare il complesso sistema della “singolarità”. Una “singolarità soggettiva”, certo, dato che «la storia e l’insieme di eventi cerebrali di ogni singolo individuo sono unici», per cui anche l’identità molteplice di ogni “singolarità soggettiva” resta unica poiché «la soggettività è irriducibile»13; ma una 105

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“singolarità multicentrica” connessa costantemente con il mondo della altre “singolarità multicentriche”: ognuna con ognuna e, al tempo stesso, con tutti i molteplici centri di ogni “singolarità”, perché essa è “diffusa” nello spazio/tempo, ed è disponibile “in rete” nella esplosività della struttura globale. Si tratta, sotto il profilo situazionale, della nascita di quella che è stata definita networked person e che apre scenari affascinanti e inquietanti, al tempo stesso. Davanti a noi sono mutamenti che toccano l’antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi. Dalla persona “scrutata” attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare ad una persona “modificata” dall’inserimento di dispositivi elettronici, in un contesto che ci individua appunto come “networked persons”, persone perennemente in rete, configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di tracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così l’autonomia delle persone e ricostituendo un’ancora più complessa problematica intersoggettiva. Ci avviciniamo così alle frontiere del post-umano, dove persone e corpi diventano apparati tecnologicamente complessi14,

e dove al vantaggio dell’essere “connessi” è legato il rischio di tale nuova condizione. Il problema, cioè, non è quello di essere “connessi” ma è quello di essere controllabili attraverso l’essere “connessi”, con le conseguenze che ne potrebbero derivare per la libertà delle persone. Bisognerebbe immaginare un blind-networked-person o blindweb-person, cioè una sorta di connessione “cieca” che possa garantire gli spazi di libertà irrinunciabili di ogni “soggettività”, una struttura “sinottica” e “panottica” al tempo stesso, senza un potere di sorveglianza oscura. Se, per la visione “apocalittica”, ci troviamo così «alla vigilia di nuove scoperte scientifiche che per la loro stessa essenza aboliranno l’umanità in quanto tale»15, secondo una 106

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visione più “aperta” e “vocata” al mutamento, ma non per questo meno attenta ai pericoli che si affiancano alla trasformazione, bisogna comprendere che senza una forte tutela del corpo elettronico, la stessa libertà personale è in pericolo: diventa così evidente che la privacy è uno strumento necessario per difendere la “società della libertà”, e per opporsi alle spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale. Solo così la vita può tornare ad essere irregolare e multiforme, il regno dell’autonomia e della diversità16.

Tran-sito va inteso allora come “apertura” policentrica, come costituzione/esercizio – necessariamente ambiguo – di soggettività per mezzo della tecnologia virtualizzatrice della realtà. O meglio: per mezzo di una tecnologia realizzatrice della virtualità. Se la realtà, infatti, nel suo puntuale accadere si opponeva, un tempo, alla virtualità come orizzonte di tutte le possibilità non realizzate, come illusione – per cui la virtualità, «in definitiva, questa VISUALIZZAZIONE generalizzata, è l’aspetto più importante di quanto oggi è chiamato VIRTUALIZZAZIONE. La famosa “realtà virtuale”, dunque, non è tanto la navigazione nel CYBERSPAZIO delle reti, è innanzitutto L’AMPLIFICAZIONE DELLO SPESSORE ottico delle apparenze del mondo reale»17 –, al contrario, secondo la nostra argomentazione prospettica, la realtà, per mezzo di un’attivazione concreta, “tangibile”, di una virtualità bio-tecno-informatica, si converte in un’apertura sempre attuale di quelle possibilità, cioè in una “realtà integrale”. E ancora. Se da un lato la virtualizzazione del reale appare come il “simulacro del reale”, «la realtà è stata scacciata dalla realtà»18, il che, secondo la prospettiva “tecnofoba”, comporta l’esigenza di riformulare la domanda filosofica che si rovescia nel suo contrario: per cui se «la grande que107

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stione filosofica era: “Perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?”. Oggi, la vera questione è: “Perché c’è niente piuttosto che qualcosa?»19; dall’altro lato, e proprio per questo, la “virtualizzazione del reale” può essere definita come la “realizzazione del virtuale”, intendendo tale realizzazione come l’apertura di tutte le possibilità rese praticabili dal tramontare inesorabile dell’opposizione negatrice tra virtuale e attuale, tra reale e possibile20. Insomma, «il virtuale non è quello che vi immaginate. Non sono i goffi movimenti di un uomo in guanti e occhialini da Banda Bassotti in una stanza vuota [...]. Il virtuale è intorno a noi, che siamo già immersi nel virtuale semplicemente perché il virtuale era già»21. Dunque tutto è attuale, tutto è virtuale, dunque tutto è possibile, niente è reale, dunque, infine, tutto è reale, perché deleuzianamente “compossibile” lungo molteplici “piani di soglia”. “Soggettività nomade” allora è avvio di un sentirsi vivere dis-(id)-entificato (privato cioè di essenza) che non ha idea di “cosa” esso (tale sentir-si) possa divenire ma che accetta il divenire, finalmente come ananke (necessità), stavolta non del limite ma dell’oltrepassamento, del costante essere superamento di “soglia”, in quanto apertura e superamento di sé, in quanto rapporto con forze del fuori, quelle del silicio che si prende la propria rivincita sul carbonio, quelle delle componenti genetiche che si prendono la loro rivincita sull’organismo, quelle degli agrammaticali che si prendono la loro rivincita sul significante [...]. Cos’è il superuomo? È il composto formale tra le forze dell’uomo e queste nuove forze. È la forma che discende da un nuovo rapporto di forze22.

Solo a queste condizioni il sentirsi vivere, come nuova condizione caratterizzante il modo d’essere dell’uomo cui allude l’espressione “post-umano”, può restituire alla nuo108

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va “soggettività nomadica” il ruolo della filosofia come “filosofia divenuta”, virtualità e attualità, possibilità e realtà com-presenti, cioè un “pensare il pensiero” agendolo, «perché la propria vita sia una pratica simultanea di frantumazione e di elaborazione [...] quando da proposta di teorie generali sarà, per l’esistenza singolare» – il “transito” –, «esercizio quotidiano di vita filosofica»23. Nuova forma dell’umano, un umano che, finalmente, riconosce d’essere un essere in fieri, un diveni-ente, questo e nient’altro è il “post-umano”. Questo “post-umano” è quella immagine che si situa nell’ambito di una visione che fa i conti con i processi di trasformazione e che ripudia la spesso “comoda” concezione apocalittica, ovvero la superficiale visione trionfalistica. «Come direbbe Foucault, il superuomo è molto meno della scomparsa degli uomini esistenti, e molto più del cambiamento di un concetto: è l’evento di una nuova forma, né Dio né uomo, una forma che possiamo sperare che non sia peggiore delle due precedenti»24 ma che, al tempo stesso, non possiamo impedire che si dia nella effettualità della forma del mondo contemporaneo e tendenzialmente futuro, configurato dalla evoluzione tecnologica, “figlia” della evoluzione biologica la quale, conservandosi nella selezione e nella variazione, genera nuove ibridative e più incerte, ma anche più ampie, possibilità selettive e variative, poiché, quantomeno lo sviluppo della biologia neurale, è «stocastico ed epigenetico»25. Il concetto di homo creator, allora, lucidamente espresso dal fondatore dell’antropologia filosofica contemporanea, Max Scheler, chiarisce ulteriormente il problema del mutamento, seppure con le categorie concettuali del suo tempo, or sono ottant’anni, attraverso la sottolineatura del divenireuomo dell’uomo e non dell’esser-lo nel suo rapporto con l’essere. 109

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A mio avviso invece il rapporto fondamentale dell’uomo con il principio del mondo si esprime nel fatto che questo principio coglie e realizza se stesso immediatamente nell’uomo, il quale è, sia come essere spirituale che come essere vitale, solo un centro parziale dello spirito e dell’impulso primordiale [...] l’uomo prende parte alla creazione, cioè a quella progressiva compenetrazione dell’impulso primordiale e dello spirito attraverso cui il “Dio” in divenire scaturisce dal principio primordiale. [In tal modo] il divenire di Dio e il divenire dell’uomo necessitano fin da principio l’uno dell’altro [...]. Questi due attributi dell’essere (spirito e impulso primordiale), anche prescindendo dalla loro reciproca compenetrazione diveniente, non sono in se stessi già compiuti come se avessero un fine predeterminato: essi piuttosto crescono nella misura in cui si manifestano nella storia dello spirito umano e nell’evoluzione della vita cosmica26.

Questo rapporto fondamentale tra impulso e spirito, tra materia e forma, tra materia e spirito, attraverso il divenire, sembra definitivamente chiarirsi laddove si tenga presente la posizione per cui «l’organico prefigura lo spirituale già nelle sue forme infime e [...] lo spirito nella sua massima estensione resta ancora parte dell’organico»27. Se il ruolo del filosofo consiste non nel dire «che cos’è» ma «che cosa accade», e se la “crisi della filosofia” non è, né deve essere, la scomparsa dei “filosofi” – poiché essere filosofi significa «diagnosticare il presente di una cultura: è questa la vera funzione che possono avere oggi gli individui che chiamiamo filosofi»28 –, allora è possibile riallacciarsi al discorso di Nietzsche che, riprendendo l’ode di Pindaro, ha detto una volta: «divieni ciò che sei», cioè accetta di essere un diveni-ente. Ed è proprio seguendo quella traccia, allora, che sembra possibile qui dire: tutti siamo, perciò dobbiamo, diventare filosofi, cioè libere – perché necessariamente liberate, viventi, cioè diveni-enti – “singolarità”, dunque, soltanto, a noi stessi e al mondo, “nomadi soggettività”. 110

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Note 1 M. FOUCAULT, Microfisica del potere (1976), tr. it, Einaudi, Torino 1977, p.

11. M. FIMIANI, Antropologia filosofica, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 95. Ivi, p. 77. 4 N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. V, Tea-Utet, Torino 1993, p. 208. 5 Cfr. A. MANNUCCI, Futuro postumano, in http://www.arianna editrice.it/articolo.php?id_articolo=5017. Il testo riportato è del matematico Stanislaw Ulam, maggio 1958, ed è riferito a una conversazione con John von Neumann. 6 R. KURZWEIL, La singolarità (2003), in J. BROCKMAN, I nuovi umanisti, tr. it., Garzanti, Milano 2005, p. 201. Il concetto di “singolarità” è, inoltre, interpretato dal movimento “transumanista” nel senso dell’avvento di un’intelligenza cibernetico-informatica superiore a quella umana che inneschi un potenziamento progressivo di intelligenze sempre più elevate. Nel 1965, lo statistico I.J. Good descrisse un concetto anche più simile al significato contemporaneo di “singolarità”, nel quale egli includeva l’avvento di una intelligenza superumana: «Diciamo che una macchina ultraintelligente sia definita come una macchina che può sorpassare di molto tutte le attività intellettuali di qualsiasi uomo per quanto sia abile. Dato che il progetto di queste macchine è una di queste attività intellettuali, una macchina ultraintelligente potrebbe progettare macchine sempre migliori; quindi, ci sarebbe una “esplosione di intelligenza”, e l’intelligenza dell’uomo sarebbe lasciata molto indietro. Quindi, la prima macchina ultraintelligente sarà l’ultima invenzione che l’uomo avrà la necessità di fare» (cfr. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_ articolo=5017). 7 R. KURZWEIL, La singolarità è vicina (2005), tr. it., Apogeo, Milano 2008, p. 24. 8 A.F. DE TONI, C. BATTISTELLA, Dall’homo sapiens all’Homo technologicus: bioconservatori versus transumanisti, in «Teoria», Rivista di Filosofia, «Ethicbots. Etica e robotica», XXVII, 2, 2007 (Terza serie II/2), p. 94. 9 M. CORTELLAZZO, P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1980. 10 F. FERRAROTTI, Addio uomo, in J. JACOBELLI (a cura di), La realtà del virtuale, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 70-71. 11 R. BODEI, Destini personali, Feltrinelli, Milano 20045, p. 251. 12 Ivi, p. 261. 13 EDELMAN, Seconda natura, cit., p. 82. 2 3

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14 S. RODOTÀ, Lectio magistralis, Università di Bordeaux, in «la Repubblica» (Cultura), venerdì 28 ottobre 2005. 15 F. FUKUYAMA, «Le Monde», 17 giugno 1999. 16 RODOTÀ, Lectio magistralis, cit. 17 P. VIRILIO, La bomba informatica (1998), tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 13-14. 18 J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto (1995), tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 8. Sul concetto di “simulacro” e “simulazione”, cfr. anche, dello stesso autore, Lo scambio simbolico e la morte (1976), tr. it., Feltrinelli, Milano 1979. 19 Ivi, p. 7. 20 P. LEVY, Il virtuale (1995), tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1997. Riprendendo la tradizione medioevale (VI sec. d.C.) del boeziano quadrivium – inteso a designare i quattro studi scientifici (aritmetica, geometria, musica, astronomia) da intraprendersi dopo l’acquisizione dei saperi discorsivi, cioè il trivium (grammatica, retorica, dialettica) –, Levy intende il virtuale come una delle modalità di trasformazione dell’essere. In tal modo il virtuale non si oppone al reale ma all’attuale, così come il reale si oppone non al virtuale ma al possibile. Pertanto, il virtuale è semplicemente la «trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra» (ivi, p. 2). 21 M. BETTETINI, Prefazione a LEVY, Il virtuale, cit., p. XIII. 22 DELEUZE, Foucault, cit., p. 175. 23 FIMIANI, Antropologia filosofica, cit., p. 120. 24 DELEUZE, Foucault, cit. p. 175. 25 EDELMAN, Seconda natura, cit., p. 52. 26 SCHELER, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 172-173. 27 JONAS, Organismo e libertà, cit., p. 7. 28 M. FOUCAULT, Qu’est-ce qu’un philosophe?, entretien avec M.-G. Foy, in «Connaissance des hommes», nr. 22, automne 1966, p. 9; DE I, t. 42, pp. 532533, in «Kainòs», Rivista on-line di critica filosofica, 6, 2006.

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Come un bambino spaventato fischia o urla nel buio, noi pensiamo per evitare il buco nero del nulla. George Steiner

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Osservazioni conclusive: “comprendere” e “governare” il mutamento

L’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé; ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro si sé; a questo sono però necessarie l’azione e la sofferenza. (Hugo von Hofmansthal)

Non sarebbe possibile riflettere, conclusivamente, sulle certo numerose questioni sollevate fino a queste brevi riflessioni finali, spesso ritornanti, se non avessimo ben presente il fatto che la modalità del pensiero e delle questioni che qui si sono esposte ha rivelato allo stesso pensiero che indaga un carattere radicalmente “frattale”, cioè ricorsivo e variativo nell’ambito della nostra interpretazione della ricostruzione dei temi e della possibilità di una loro conoscenza. Con l’espressione “frattale cognitivo”, infatti, ispirata al concetto di “frattale” introdotto dal matematico Benoît Mandelbrot1 già a partire dal 1969, s’intende che una struttura «resta fine a tutti i livelli di osservazione. Da ogni parola può nascere una pagina e da ogni pagina un libro [...]. Mentre il processo lineare tradizionale cerca di evitare le ripetizioni [...] una semplice frase può contenere la totalità delle [...] tesi»2. D’altra parte, che il processo della conoscenza sia frattale e che i frattali siano “cognitivi” viene egregiamente messo in evidenza dalla riflessione che mostra chiaramente che 115

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quando esaminiamo l’universo cognitivo ci troviamo spesso a una pluralità di livelli che [...] assumono una geometria ricorsiva [...] che a prima vista può apparire sconcertante. Dalla complessa relazionalità della natura intima del neurone [...] alle reti virtuali [...] dai processi di sedimentazione dell’informazione, lungo la filogenesi, al selezionismo ontogenetico, dalla disposizione evolutiva [...] ai processi di sviluppo delle tradizioni culturali, ritroviamo puntualmente una rete di rapporti diretti e retroattivi che non permettono di far decantare dall’intreccio un primo movens3.

È un complessissimo e inestricabile “gioco” di feedback a più livelli il cui andamento è, appunto, inevitabilmente ricorsivo e variativo. Se la forma del mondo è avviata verso i radicali mutamenti di cui si è detto, prodotti dall’operare “bio-tecnologico” dell’uomo che, mutando l’oggetto, il mondo appunto, muta se stesso in nuove forme di identità, nel sempre più accelerato processo di ibridazione uomo e natura, uomo e tecnica e uomo e tecnologia, considerati come un tutt’uno, attraverso l’inestricabile “gioco” dei feedbacks positivi e negativi, e se i primi segni della nuova forma identificano nel “post-umano”, inteso nel significato più volte indicato, cioè avvio di una “soggettività nomade” secondo il “modo” della “singolarità”, di fronte a tale nuova “estetica” è necessario elaborare una nuova forma di etica: un’etica che certamente non può che essere radicalmente laica nel senso di essere uno studio problematico che si realizza in condizioni di indipendenza da presupposti. Si tratta di un’etica della trasformazione e non della conservazione; dell’emancipazione e non della minorità; che accolga le responsabilità e non le respinga; che non rifiuti l’aumento illimitato di potenza, ma ne determini gli obiettivi; che non consideri definitivo nessun assetto biologico o sociale, ma accetti di considerarli tutti come figura del mutamento e della transizione4.

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Certo, non mancano motivi di allarme, di fronte al futuro che sembra delinearsi, se ci si abbandona soltanto passivamente all’evento della trasformazione senza tener minimamente conto di ontogenesi e filogenesi, di biologia, di cultura e di storia dell’umano. Il “trans-umanesimo”, da questo punto di vista, appare come una sorta di ideologia salvifica, cui è necessario opporre non una difensivistica e anacronistica negazione del mutamento, bensì una ragionata problematizzazione di una riflessione etica che si confronti con il processo di miglioramento-trasformazione in atto, fino al possibile superamento, od oltrepassamento, della specie. «Credo si debba trasportare l’uniformità della specie oltre la sua base naturale: essa è diventata un valore culturale rispetto alla nostra storia, e non l’avvertiamo più come una costrizione biologica, ma come una conquista morale»5. Ben vengano, dunque, coloro che sollecitano ineludibili confronti problematici contro derive di reificazione dell’umano. Ma pure rifiutiamo ogni visione fissista, come quella di chi elabora un modello critico nei confronti delle biotecnologie, fondandolo nell’insostenibile concetto di una “natura umana” secondo una modalità che, sull’asse della tradizione cosmologica, potremmo definire precopernicana e che, invece di semplicemente rilevare che ci sono caratteri specie-specifici che delineano una certa identità biologica dell’uomo che si riflettono negli elementi che l’uomo “scorpora” attraverso le formazioni culturali, suona invece come un’apodissi recitante che sostiene: La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci ha fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione come specie. Insieme alla religione, rappresenta ciò che definisce i nostri valori fondanti [...]. Negli ultimi cento o duecento anni, però, tra gli intellettuali e gli accademici di filosofia questo concetto è caduto in disgrazia6.

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Questo concetto è “caduto in disgrazia”, aggiungeremmo noi, non senza qualche ragione culturale e qualche fondamento scientifico sperimentale. Già Blaise Pascal, al sorgere della modernità, aveva definito come mera abitudine la stessa natura umana: «Ma che cos’è la natura? Perché l’abitudine non è natura? Ho una gran paura che questa natura sia anch’essa una prima abitudine, così come l’abitudine è una seconda natura»7. Il tema di una “essenza” della natura umana, sia essa considerata tanto nell’orizzonte metafisico quanto in quello “materialistico”, è, come dall’inizio di questo lavoro si è discusso e cercato di argomentare, proposta teorica sempre più esposta a radicale infondatezza e, almeno sul piano della ricerca scientifica, sempre più revocabile in dubbio. Il concetto di “essenza”, nelle molteplici trasformazioni teoriche e argomentative, giunge fino all’antropologia filosofica contemporanea sempre più incerto nella sua definibilità, e diviene, nell’ambito della questione dei mutamenti della rivoluzione bio-tecno-informatica, ancora una volta, coagulo decisivo della sfida tra “tecnofobi” e “tecnofili”. I primi, come visto, se ne fanno scudo per opporsi al mutamento, i secondi per giustificare, attraverso la liberazione dell’uomo dalla sua “essenza naturale”, l’abbandono dei vincoli biologici e corporei. L’idea intorno alla quale si definisce il concetto di “postumano”, secondo l’interpretazione che se ne offre in questo scritto, più modestamente, né si oppone né “giustifica” il mutamento, bensì ne coglie il processo dentro il movimento coevolutivo di natura e cultura. Si rileva, insomma, semplicemente, la infondabilità del modello “tecnofobo” e, altrettanto, l’insostenibilità di quello “tecnofilo”. L’idea di “post-umano”, più sobriamente, chiede di governare i processi di trasformazione attraverso la comprensione dell’articolata complessità umana e l’accettazione della dialettica co118

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niugativa con le alterità “naturali” e “culturali”, in una prospettiva di superamento dell’opposizione natura vs cultura. D’altra parte, in che cosa consisterebbe questa “essenza” dell’uomo che staremmo rischiando di perdere, al di fuori di una, certo rispettabilissima, prospettiva di fede che è però infondabile sul piano dell’argomentazione scientifico-razionale, ma si regge sul presupposto del modello creazionista? Nessun’altra proposta essenzialista appare motivabile e argomentabile. Siamo noi stessi, gli uomini, che stanno, proprio oggi, in questo tempo, “vivendo-esperendo” la nostra propria trasformazione, il nostro proprio mutamento. Finché saremo in grado e c’impegneremo, problematizzandolo, a esserne e restarne consapevoli, evidentemente questo inarrestabile processo trasformativo sarà in qualche modo “compreso” e “governato”: «La continuità non implica un’essenza né è necessario che un sistema sia costante affinché si mantenga la somiglianza con altri stati precedenti»8. Questo mutamento, dunque, che in ogni caso è continuo e graduale, parte da noi stessi viventi e giunge a noi stessi viventi, per quanto via via trasformati. Lo stesso atteggiamento “conservatore” di Francis Fukuyama – che in verità si schiera apertamente non tanto contro il “post-umano” quanto contro il pericolo transumanista, spesso però sovrapponendoli – si posiziona contro il pericolo di un “determinismo genetico”, allorché riconosce che la struttura genetica dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in un solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà orientato e ulteriormente determinato dalla libera attività del soggetto. Il soggetto naturale non può essere ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che noi “siamo i no-

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stri geni” poiché ci troveremmo, di nuovo, sul bordo estremo di un riduzionismo, per così dire, “elementare”9.

Da un lato, infatti, ridurremmo l’essere a “corpo-cosa”, dall’altro, di nuovo riduzionisticamente, ridurremmo il corpo al genoma completamente obliterando la dimensione epigenetica, cioè la dimensione che struttura, attraverso la partnership con l’ambiente, cioè con la “totalità eteroreferenziale”, i “modi” del nostro “esser-divenienti”. Anche dal punto di vista genetico, infatti, il riduzionismo, oltre ad apparire inaccettabile culturalmente – così come accade per il riduzionismo biologico funzionale, a proposito del quale si è già discussa precedentemente la categoria di “ridondanza” per revocare in dubbio quella di “carenza” –, viene messo in discussione ancora attraverso la rilevazione di una “ridondanza” che si manifesta anche sul piano genetico. «La ridondanza genetica e metabolica potrebbe esser vista come l’equivalente della biodiversità negli ecosistemi. Sembra, cioè, che a ogni livello di complessità la vita si sia evoluta dando origine a un vasto spettro di diversità e di ridondanze»10. Insomma, la concezione filosofico-antropologica del “post-umano” promuove l’idea di una soggettività caratterizzata da una «promiscuità ontologica»11, non da una essenza data, laddove, ad esempio, la conoscenza neurobiologica ci rivela che «il cervello, come struttura fondamentale per l’elaborazione della conoscenza, non è stato progettato per la conoscenza. L’evoluzione è potente e opportunistica, ma non è intelligente e istruzionistica»12. Si tratta, dunque, della conquista di una prospettiva che muove a partire da una critica radicale di quella forma di “umanesimo” e di qualsiasi posizione teorica che si voglia fondare sulla opposizione umano vs non-umano, su una opposizione tra il sé e l’altro, e rivendica una disponibilità al120

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l’ibridazione del vivente-uomo che ne fa saltare ogni pretesa di immunizzazione – che non sia “strategica” rispetto a nuove ibridazioni, cioè funzionale agli stessi “vincoli” del processo stabilizzazione/mutamento – e di separazione dal mondo. D’altra parte, già alla fine degli anni ’30 del Novecento, il “destino” di transito, nel senso della nuova coniugatività dell’umano, veniva ben colto con la proposizione del «problema della fine della storia e della figura che l’uomo e la natura avrebbero assunto nel mondo post-storico, quando il paziente processo del lavoro e della negazione, attraverso il quale l’animale della specie Homo Sapiens era divenuto umano, fosse giunto a compimento»13. Intanto nella lettura hegeliana di Alexandre Kojève, in una nota del corso 19381939, si leggeva che «la scomparsa dell’Uomo alla fine della storia non è una catastrofe cosmica [...]. Non è nemmeno una catastrofe biologica [...]. A scomparire, sono l’Uomo propriamente detto, cioè l’Azione negatrice del dato e l’Errore o, in generale, il Soggetto opposto all’Oggetto»14. Ogni separazione dell’uomo e dell’umano dal mondo è, dunque, pretesa assolutamente priva di senso, considerato che il mondo è sempre più pervaso e “formato” dalla tecnica, dalle mutazioni, dagli innesti e dagli impianti intra e inter-specifici che essa stessa produce o che semplicemente rende possibili. Si mostra, allora, in tutta evidenza, la necessità di rompere l’autarchia, peraltro illusoria, del soggetto, riconoscendo la posizione di eterodipendenza dell’umano da processi esterni, verso i quali è auspicabile un atteggiamento non più separativo e fondato su un’opposizione gerarchica tra uomo e mondo, tra il sé e l’altro, ma, al contrario, fondato su un operare coniugativo e “accogliente”, che riconosca le “macchine” non come qualcosa che possa minacciare la presunta integrità dell’umano, ma come dei «sé amiche121

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voli»15 che sconfinano in noi e nei quali noi, a nostra volta, divenuti libere “soggettività nomadi”, sconfiniamo. «In altre parole, l’umanità trasuda di non umano, si costruisce attraverso l’abbandono della solitudine e il piacere della connessione con l’altro, il diverso, capace di apportare nuovi stati di non equilibrio e di rafforzare perciò la pulsione coniugativa dell’uomo con il mondo»16. La pulsione coniugativa, dunque, è inscritta nella stessa forma costitutiva del biologico che si fonda sul “non-equilibrio”: «dal punto di vista biologico, la vita non consiste nel mantenimento o nel ripristino di un equilibrio, ma essenzialmente nel mantenimento di disequilibri, così come lo rivela la dottrina dell’organismo inteso come sistema aperto. La ricerca dell’equilibrio significa la morte e la decadenza»17. L’equilibrio stesso è un movimento: cessato il movimento, rovina l’equilibrio, si è fermi: rovina l’uomo. A questo punto, dobbiamo riconoscere che, oltre la già acutissima e predittiva intuizione di McLuhan che considera la tecnica come protesizzazione dell’uomo, l’uso degli strumenti si configura non tanto come l’aggiunta di protesi, quanto come una vera e propria ibridazione: la protesi supplisce a un’abilità compromessa o perduta, mentre, innestandosi nell’uomo, ogni nuovo apparato dà luogo a un’unità evolutiva (un simbionte) di nuovo tipo, in cui possono emergere capacità – percettive, cognitive e attive – inedite e a volte del tutto impreviste, e di questa evoluzione ibridativa non è possibile indicare i limiti18.

C’è una inevitabile “intricazione oscura reciproca” (gegenseitege Verborgenheit)19 – secondo l’espressione adottata da Viktor von Weizsäcker a proposito del “nesso” percezione e movimento – anche tra umano naturale (teriomorfismo) e umano culturale (tecnomorfismo), tra “soggettività biologica” e “soggettività tecnologica”, per cui «come l’uomo fa la tecnologia, così la tecnologia fa l’uomo. Molte delle capacità 122

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del simbionte uomo-computer, per esempio, erano affatto imprevedibili e non è improprio dire che l’unità cognitiva “uomo-col-computer” è essenzialmente diversa dall’unità cognitiva “uomo-senza-computer”»20. Il caso dell’atleta australiano Oscar Pistorius21 è emblematico della fondamentale resistenza che il mondo “normale” riserva ai processi, oramai già in atto, di trans-formazione dell’umano e che finisce per “censurare” nuovi confronti problematici da assumere nell’orizzonte di una fondamentale istanza etica. Vogliamo che un essere umano, magari con quattro o cinque by-pass aortocoronarici, o con qualche valvola biotecnologica, qualora in grado di prestazioni “normali” e, magari “più che normali”, sia considerato un mostro? Vogliamo percorrere la via per cui “ciò che salva” esclude? «Nessuno vuole creare una razza di superuomini a tavolino [...] (come hanno fatto i regimi teocratici, fascisti e comunisti). La nostra parola d’ordine è differenziazione, non omologazione, l’idea di un mondo vario, popolato di diverse forme intelligenti»22. Vogliamo fare in modo che “i salvati” che, in qualunque modo, abbiano riconquistato auto-nomia e “soggettività forte” siano “ridotti” a Freaks, a “soggetti degenerati”, dunque “indegni” di vivere tra gli uomini? Abbiamo già qualche esempio di tragicamente allusivo ritorno di una “morale” della “purezza umana”, contro il bisogno di un’etica “post-umana”: al di là degli eventuali interessi di natura economica che possono aver indotto la IAAF a escludere Oscar Pistorius dal “diritto” di partecipare, tra gli altri “umani”, alle Olimpiadi di Pechino del 2008, ciò che appare sia eticamente che moralmente preoccupante è che, nell’ottica di un “umanesimo radicale” e autoriferito, in quanto antropocentrico, ogni diverso dalla “norma” rischi di diventare soggetto passivo di esclusione. Vogliamo preparare “campi di concentramento” per i “non-normo-dotati”, più o meno “normali” che siano, comunque si voglia intendere la normalità, desti123

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nati ai “corrotti” dall’ibridazione tecnologica? Per coloro, cioè, la cui vita è resa più “ricca” e più “piena” grazie alla protesizzazione tecnologica, grazie alla possibilità che lo sviluppo della “tecnica”, cioè, ancora una volta, della cultura, rende praticabile in termini di “apertura” alla felicità? È questo il mondo dell’etica dell’uomo? Non c’è alternativa, “eticamente discutendo”: è necessario riconoscere uno spazio di interlocuzione con l’alterità eteroreferenziale della tecnologia bio-tecno-informatica, perché solo la “cura” di questa capacità di dialogo può conservare all’umano, nel suo processo di ineludibile trans-formazione verso il “post-umano”, quel “dono” raggiunto nel corso di una lunghissima selezione, che è il “dono” della riflessione (cioè dello sdoppiamento e della moltiplicazione di sé), effettiva condizione necessaria, seppur non sufficiente, per essere capaci di “ascoltare” l’alterità, di incontrar-la, come emergente “missione” di una temporalità, a ogni livello vissuta, che non sia mero evento od occasione completamente perduta. Soltanto così è possibile che l’umano si trasformi in “post-umano” senza perder-si. Insomma, l’umanità di ogni ente “nuovo” è attestata dalla sua capacità a entrare in rapporto dialogico, se non anche comunicativo, con l’uomo ogni volta esistente. Alla capacità che avremo di adeguare le nostre ragionevoli emozioni alla nostra potenza trasformatrice è affidata la conservazione/modificazione del mondo. Conservare trasformando significa liberarsi dall’idea di una presunta “essenza” dell’umano, ma pure richiedere un costante e interrogativo bilancio del processo di “creazione” del nuovo, insieme all’esercizio di “cura” del nuovo che è la passione che ci fa consapevoli della nostra fragilità e vulnerabilità. Solo così una “soggettività nomade”, poiché effettivamente e affettivamente aperta alla dimensione dell’alterità, può guidarci nell’accoglimento del mutamento ma an124

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che nella radicata consapevolezza, sensibilmente sostenuta, dei rischi e delle possibilità ai quali ci espone l’esplorazione della nostra inattesa e sbalorditiva biotecnopoiesi: «tutta l’esplorazione del reale si presenta con i caratteri di una follia. La realtà sembra poggiare infatti su solide palafitte che affondano nel nulla e l’evoluzione culturale nel suo complesso può essere vista come una progressiva espansione della parte tangibile di tali palafitte»23. Se Martin Heidegger ha indicato nella cura (Sorge) dell’Essere il nostro compito più proprio, il “post-umano” prova a indicare nella cura (epimeleia)24 del Divenire, cioè nella cura della dimensione bio-tecno-evolutiva, l’atteggiamento più proprio di un uomo inteso e ripensato come iato accogliente, sospeso tra natura e cultura, tra tecnica e tecnologia, come agire rivolto a rendere “possibile”, nel mutamento incessante, il continuarsi.

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Note 1 B. MANDELBROT, The Fractal Geometry of Nature (1969), W.H. Freeman & Co, New York 1982. 2 J. DE ROSNAY, L’uomo, Gaia e il Cibionte (1995), tr. it., Dedalo, Bari 1997, p. 17. 3 MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 323. 4 SCHIAVONE, Storia e destino, cit., pp. 89-90. 5 Ivi, p. 90. 6 F. FUKUYAMA, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo= 5017 7 B. PASCAL, Pensieri (1657-1658, ed. 1670), tr. it., Einaudi, Torino 19672, p. 116. 8 EDELMAN, Seconda natura, cit., p. 38. 9 MANNUCCI, Futuro postumano, cit. 10 F. CAPRA, La scienza della vita (2002), tr. it., Rizzoli, Milano 2002, pp. 258259. 11 MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 70. 12 EDELMAN, Seconda natura, cit., p. 52. 13 G. AGAMBEN, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 13. 14 A. KOJÈVE, Introduction à la lecture de Hegel (1939-1940), Gallimard, Paris 1979, pp. 434-435, citato in AGAMBEN, L’aperto, cit., p. 13. 15 HARAWAY, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., p. 79. 16 MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 70. 17 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi: fondamenti, sviluppo, appilcazioni (1967), tr. it., Mondadori, Milano 2004, p. 292. 18 G.O. LONGO, Riduzionismo informazionale e postumano, in «Kainòs», Rivista on-line di critica filosofica, 6, 2006, cit. 19 VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 12, dove si legge che «l’essenziale del Gestaltkreis è che il percepire e il muovere sono, reciprocamente, la condizione fondativa di ogni atto biologico, i quali si danno come nascosti l’uno all’altro (gegeneinander verborgen)». 20 LONGO, Riduzionismo informazionale e postumano, cit. 21 Oscar Pistorius, atleta australiano, è nato con una grave malformazione (non aveva i talloni) che lo costrinse, all’età di undici mesi, all’amputazione delle gambe. Negli anni del liceo praticò il rugby e la pallanuoto, poi un infortunio lo portò all’atletica leggera, dapprima per motivi di riabilitazione, poi per scelta. Il suo primo appuntamento ufficiale di rilievo furono le Paralimpiadi di Atene del 2004. A diciassette anni vinse il bronzo sui 100 metri e l’o-

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ro sui 200, battendo anche atleti amputati singoli più quotati di lui, come gli statunitensi Marlon Shirley e Brian Frasure. Fin dal 2005 ha espresso il desiderio di poter correre coi normodotati alle Olimpiadi di Pechino 2008. La IAAF il 13 gennaio 2008 ha respinto questa richiesta, sostenendo che «un atleta che utilizzi queste protesi ha un vantaggio meccanico dimostrabile (più del 30%) se confrontato con qualcuno che non usi le protesi». Un parziale successo Pistorius però lo ottenne nel giugno del 2007, quando gli organizzatori del Golden Gala di Roma lo hanno ammesso a competere coi “normodotati” sui 400 metri. Il 13 luglio 2007, quindi, Pistorius gareggia nello stadio Olimpico di Roma per il gruppo B del Golden Gala, assieme ad atleti “normodotati”, ottenendo la seconda posizione. Pistorius detiene il record del mondo per amputati su tutte e tre le distanze su cui corre: 10.91 sui 100 mt., 21.58 sui 200 mt. e 46.56 sui 400 mt. (fonte Wikipedia). Sul “caso» di Oscar Pistorius cfr. anche il saggio di M. CARBONE, Pistorius e il rovesciamento del platonismo, 2007, in http://www.fondazionebassetti.org./it/pagine/2007/12pistorius_e_il_rovesciamento_d.html 22 R. CAMPA, in http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo= 5017 23 E. BONCINELLI, Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 1999, p. 291. 24 La dimensione “epimeletica” della natura umana è particolarmente enfatizzata dalla ricerca di R. MARCHESINI, Contro la purezza essenzialistica. Verso nuovi modelli di esistenza, in PIREDDU, TURSI (a cura di), Post-umano, cit., pp. 29-40. «Le caratteristiche neurobiologiche, di complessità e di sviluppo, da sole non spiegano l’evento ibridativo se non prendiamo in considerazione un’altra caratteristica della natura umana, la dimensione epimeletica che [...] caratterizza tutti i mammiferi e che [...] troviamo enfatizzata nella specie Homo sapiens. [...] Molte discussioni sulla natura umana [...] non tengono conto della forte predisposizione alla cura e dell’importanza di tale motivazione nella definizione del profilo umano [...] e forse proprio questa capacità negletta ha permesso alla natura umana di intraprendere la strada ibridativa con le alterità e in questo senso ha reso possibile all’essere umano di trascendersi, ossia di costruire dei predicati che richiedessero un processo di antropo-poiesi per realizzarsi» (ivi, pp. 34-35).

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Indice

Ringraziamenti

V

Introduzione

5

Note, p. 8

1. Uomo, tecnica e tecno-logia

11

Note, p. 25

2. L’umano in transito

33

Note, p. 42

3. Mutamento del paradigma epistemologico della biologia e conseguenze antropologiche

45

Note, p. 62

4. Virtualizzazione del reale e soggettività nomade Dall’Apocalisse di Günther Anders alla riconfigurazione del corpo in Gilles Deleuze e Felix Guattari Note, p. 94

5. L’avvento della “singolarità”

69 101

Note, p. 111

Osservazioni conclusive: “comprendere” e “governare” il mutamento

115

Note, p. 126

Bibliografia

129

Sitografia

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Questo libro è dedicato a mio padre

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