Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici [First ed.]
 9788820996475

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COLLANA NUOVO UMANESIMO 1

Filosofia

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Collana «NUOVO UMANESIMO» Volume introduttivo. Una cultura per un nuovo umanesimo. A cura di EMILIO BETTINI - CESARE MIRABELLI. 1. Filosofia. Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici. A cura di TOMMASO VALENTINI - ANDREA VELARDI. 2. Scienze Umanistiche. Linguaggi per un nuovo umanesimo. A cura di MARIA CARMELA BENVENUTO - PAOLO MARTINO. 3. Storia. La Chiesa nel cambiamento d’epoca: percorsi di un nuovo umanesimo. A cura di PAOLO CARUSI - MARCO PAOLINO - UMBERTO ROBERTO. 4. Scienze educative. Diversità e inclusione: le sfide dell’università per un nuovo umanesimo. A cura di ANNA MARIA FAVORINI - PASQUALE MOLITERNI. 5. Psicologia. Qualità dell’esperienza mentale e qualità della vita. Intersoggettività, contesti e valori. A cura di GENNARO ACCURSIO - FRANCO LUCCHESE. 6. Scienze Biomediche. L’umanizzazione della medicina globalizzata. A cura di SEBASTIANO FILETTI - SERGIO MORINI. 7. Scienze Sociali. Persona e società per un nuovo umanesimo. A cura di ROBERTO CIPRIANI - ANTONIO COCOZZA. 8. Bioetica. Proposte per una biopolitica personalista. A cura di ANTONIO G. SPAGNOLO - VICTORADOLFO TAMBONE. 9. Geografia. Geografia di un nuovo umanesimo. A cura di GINO DE VECCHIS FRANCO SALVATORI. 10. Ambiente e servizi ecosistemici. La cultura ambientale per la salvaguardia della persona e delle società umane. A cura di FAUSTO MANES - GIGLIOLA PUPPI. 11. Diritto. Cultura giuridica per un nuovo umanesimo. A cura di EMANUELE BILOTTI - DARIO FARACE - MARIA CHIARA MALAGUTI. 12. Economia. L’umanesimo nell’economia globalizzata. Visione, strumenti, responsabilità. A cura di GIOVANNI FERRI - MARIO RISSO. 13. Scienze della comunicazione. Famiglia e comunicazione. A cura di SIMONA ANDRINI - GIANPIERO GAMALERI. 14. Scienza. Scienza e fede nel nuovo umanesimo. A cura di GIANDOMENICO BOFFI - BRUNO BOTTA. 15. Tecnologia. Nuove tecnologie e nuovo umanesimo. A cura di FILIBERTO BILOTTI - ALESSANDRO TOSCANO. 16. Arte. Il nuovo umanesimo rappresentato e annunciato. A cura di BARTOLOMEO AZZARO - CALOGERO BELLANCA.

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Natura umana, persona, libertà Prospettive di antropologia filosofica ed orientamenti etico-politici A cura di TOMMASO VALENTINI ANDREA VELARDI

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

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© Copyright 2015 – Libreria Editrice Vaticana – 00120 Città del Vaticano Tel. 06.698.81032 – Fax 06.698.84716 ISBN 978-88-209-9647-5 www.libreriaeditricevaticana.va www.vatican.va

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INTRODUZIONE

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Il presente volume raccoglie i contributi del convegno sul tema “Natura umana, Persona, Libertà” che si è svolto a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense, il 26 giugno 2015. Questa giornata di studi filosofici è stata parte integrante di un più grande evento: il XII Simposio Internazionale dei Docenti Universitari (Roma, 24-27 giugno 2015) che ha avuto come titolo “Una cultura per un nuovo umanesimo”. Lo scopo del convegno è stato quello di mettere in luce la storia e le problematiche fondamentali del concetto di “natura umana”, nella sua imprenscindibile connessione con le nozioni di “persona” e di “libertà”. Le relazioni della giornata hanno preso in esame la complessità del nesso “natura umana-persona-libertà” sotto un triplice punto di vista: storico-teoretico, etico e politico. Questa tripartizione tematica è all’origine della suddivisione del presente volume in tre sezioni, distinte ma intrinsecamente connesse. In questa Introduzione non ci è consentito fare una sintesi delle singole relazioni, ci limitiamo pertanto ad indicare alcune linee comuni di sviluppo tematico. I contributi che compongono il volume sono differenti per temi, ma mostrano delle notevoli affinità nel sottolineare la complessità dell’antropologia filosofica e delle nuove problematiche di carattere etico-politico: si pensi alla definizione stessa della “natura umana”, alle nuove sfide della bioetica o alla teoria del gender. Viviamo in un’epoca di “emergenza antropologica”: psicologia sperimentale, neuroscienze, biologia evoluzionistica e nuove tecnologie ci hanno 7

costretto a riconsiderare ab imis fundamentis che cosa è l’uomo, ci hanno spinto a risemantizzare il concetto di persona, a evidenziarne la problematicità in quanto entità che è insieme stabile e processuale, continua e mutevole nel tempo, irriducibile ed “emergente” sotto alcuni aspetti ma frammentaria sotto altri, e a mettere in dubbio se sia ancora legittimo parlare di una “natura umana” e della sua presunta specificità1. Nell’attuale contesto speculativo, inevitabilmente caratterizzato da un primato delle scienze sperimentali e da rinnovate forme di naturalismo, si ripropone con ancora più radicalità il celebre interrogativo kantiano: «Che cosè l’uomo? Was ist der Mensch?». Di questo era ben consapevole anche Martin Heidegger, il quale già negli anni Venti del Novecento scriveva: «Nessuna epoca quanto la nostra ha accumulato sull’uomo conoscenze così numerose e diverse; nessuna epoca è riuscita a rendere questo sapere così prontamente e così facilmente accessibile. Eppure nessuna epoca ha saputo meno che cosa è l’uomo»2. Tali preoccupazioni heideggeriane sono state condivise anche da Max Scheler; quest’ultimo ha cercato di recuperare una visione antropologica meno frantumata e scissa nei vari saperi ed ha messo chiaramente in evidenza come la crisi di conoscenza di sé da parte dell’uomo costituisca uno dei tratti più drammatici dell’epoca moderna e segnatamente del Novecento: «in nessun altro periodo della conoscenza umana – sottolinea Scheler – l’uomo è divenuto così enigmatico a se stesso come ai nostri giorni. […] Abbiamo una 1

A questo proposito ci limitiamo a segnalare FERRETTI F., Perchè non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari 2007. 2 HEIDEGGER M., Kant und das Problem der Metaphysik, Cohen, Bonn 1929; trad. it. di REINA M.E., Kant e il problema della metafisica, Silva, Milano 1970, pp. 275-276.

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antropologia scientifica, una antropologia filosofica e una antropologia teologica che si ignorano a vicenda. Così non possediamo una qualche idea concreta di quel che l’uomo é. Nella loro sempre più grande molteplicità le discipline particolari applicatesi allo studio dell’uomo, più che chiarirne il concetto lo hanno oscurato e reso poco comprensibile»3. Molti dei saggi presentati nel volume sottolineano la centralità e l’urgenza della questione antropologica, indicando alcuni itinerari di pensiero che sono stati e restano paradigmatici: in particolare, fanno riferimento alle riflessioni classiche di Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, di Vico, Kant ed Herder, di Schelling e Rosmini e, più vicine ai nostri giorni, alle prospettive di Romano Guardini, Paul Ricoeur, Emmanuel Levinas ed Axel Honneth. La nostra epoca è spesso definita come “l’epoca dei post”: si è parlato e si contina a discutere di “postmodernismo”, “postumano”, “poststrutturalismo”, “postdemocrazia”, ecc. Di certo la nostra è un’epoca segnata da un generale congedo nei confronti dei grandi miti filosofici, metanarrazioni ed ideologie che hanno segnato l’epoca moderna. La pars construens di numerosi saggi presenti in questo volume cerca di ridefinire la centralità del concetto di “persona umana” in tale contesto di generale “penuria speculativa”, in cui uno stanco silenzio sembra essere subentrato al posto delle grandi costruzioni concettuali. In maniera simile a Paul Ricouer, gli autori del volume, con differenti sensibilità ed accentuazioni, affermano che «la persona resta, an3

SCHELER M., Die Stellung des Menchen im Kosmos, conferenza tenuta a Darmstadt nel 1927; trad. it. di PADELLARO R., La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di PANSERA M.T., Armando, Roma 2006, pp. 117-118 [trad. it. in parte da noi modificata sulla scorta del testo originale tedesco].

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cora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»4 ; a loro parere, «se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»5. Nel volume viene dato spazio anche al concetto di libertà, intrinsecamente connesso a quello di persona, ed oggetto oggi di rinnovato dibattito sia sotto il profilo epistemologico che etico-politico: si pensi al rapporto speculativo tra determinismo e libertà o alla vexata quaestio politica del rapporto tra il potere e le sfere di libertà del singolo. Come è noto, nel corso della storia della filosofia occidentale il rapporto tra determinismo e libertà nell’azione umana è stato oggetto di ampie trattazioni. Negli ultimi decenni tale problematica è tornata al centro dell’attenzione, soprattutto in connessione ai recenti sviluppi delle neuroscienze e della philosophy of mind. Il tema del libero arbitrio e della libertà continua, dunque, ad essere uno degli ambiti privilegiati dell’indagine filosofica: questo è dovuto al fatto che la quaestio de libertate non è solo teoretica o epistemologica, ma investe l’ambito morale e tutta la sfera del pratico, con delle evidenti implicazioni in ambito giuridico, estetico e teologico. Come afferma giustamente Kant nella Prefazione della Critica della ragion pratica, la libertà costituisce la “ragion d’essere” della moralità umana: se non avessimo re4

RICOEUR P., Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; trad. it. e cura di BERTOLETTI I., Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 37-71, p. 38. 5 IDEM, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. La personne (Meurt le personnalisme, revient la personne [edizione originale 1983 nella rivista Esprit]; trad. it., Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, op. cit., pp. 21-36, p. 27.

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almente la libertà di scelta tra il bene e il male, non saremmo esseri morali e perciò imputabili di responsabilità nei confronti delle proprie azioni. Se l’uomo non possedesse il liberum arbitrium, non avrebbe più senso parlare di etica, di valori, di scelte politiche e di imputazioni giuridiche. Senza la libertà perderebbe di significato persino parlare di creatività artistica, definita dallo stesso Kant come «libero gioco delle facoltà»6. Tutto l’ambito dello spirituale verrebbe spiegato in base a leggi meccaniche di causa ed affetto; l’intera sfera dell’humanum sarebbe ridotta a determinismi di carattere neuronale, psicologico, biologico, sociale o culturale7. Gli autori del volume sono concordi nel difendere una visione della persona come libertà originaria, come “inizialità” ed “essere-per-la-nascita”8. Con Henri Brouillard, possiamo dire che «la libertè est image de Dieu»9: 6

KANT I., Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, p. 218; trad. it. di GARGIULO A., Critica del Giudizio, Introduzione di D’ANGELO P., Laterza, Roma-Bari 1997, p. 100. 7 Sulle varie accezioni del determinismo (naturale, teologico, psicologico, biologico, ecc. ) si veda il volume, dal linguaggio chiaro e ben documentato, di PRIAROLO M., Il determinismo. Storia di un’idea, Carocci, Roma 2011; riguardo il rapporto determinismo/libertà nell’azione umana cf. DE CARO M., MORI M., SPINELLI E. (a cura di), Libero abitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014. 8 «Essere-per-la-nascita» è una felice espressione di Hannah Arendt, per la quale l’azione libera costituisce una “seconda nascita”, generando la produzione di un novum. Sulle molteplici declinazioni del concetto antropologico di «essere-per-la-nascita», contrapposto dalla Arendt all’heideggeriano «essere-perla-morte», cf. ARENDT H., The human condition, University of Chicago, Chicago 1958; trad. it. di FINZI S., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989. Sulla visione dell’uomo come «essere-per-la-nascita», connessa alla categoria antropologica di «inizialità», si veda anche DE MONTICELLI R., La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano 2009. 9 BOUILLARD H., Connaisance de Dieu, Aubier-Montaigne, Paris 1967, p. 137.

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in quanto libera ed autonoma la persona umana ha una sua peculiare dignità che la rende imago Dei. A nostro parere, la libertà costituisce anche uno degli insegnamenti fondamentali del Vangelo: il messaggio di un Dio che è amore (agàpe) apre all’uomo nuovi orizzonti di libertà e propone lo stesso annuncio evangelico come «legge della libertà (nómos tês eleutherías)»10. I curatori del volume (Tommaso Valentini ed Andrea Velardi) ringraziano tutti i docenti che con il loro lavoro hanno reso possibile la realizzazione sia del convegno che della presente pubblicazione. Un particolare ringraziamento va, inoltre, a Mons. Lorenzo Leuzzi e a tutti i collaboratori della Pastorale universitaria per il loro costante impegno nel far dialogare la grande tradizione del pensiero cristiano con i saperi contemporanei. TOMMASO VALENTINI ANDREA VELARDI

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Lettera di Giacomo, 2, 12. TOMMASO VALENTINI, Professore associato di “Filosofia politica” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi (Roma). ANDREA VELARDI, Ricercatore di “Filosofia teoretica” presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università di Messina.

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SEZIONE STORICO-TEORETICA

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ALLA RICERCA DELLA NATURA UMANA (E DELLA PERSONA) Vittorio Possenti I concetti di natura umana e di persona sono attualmente in questione, e forse il primo più del secondo. L’idea di persona sembra ancora vigorosa o comunque presente positivamente nella cultura, mentre quella di natura umana è apertamente contestata: si tende ad espellerne la nozione come un inutile residuo metafisico di altre epoche, tessendo l’elogio di ciò che non è né ha natura. Si tratta di uno sdoppiamento foriero di gravi equivoci, dal momento che il concetto stesso di persona umana non sopravvive a lungo se quello di natura umana viene compromesso o rifiutato: lo insegna la determinazione boeziana di persona (rationalis naturae individua substantia), dove l’esser-persona consiste nel possedere una natura dotata di logos. Sembra perciò urgente andare alla ricerca della natura umana per ridare vigore alla cultura del personalismo, da cui prendo ora le mosse. Da lungo tempo è in atto dovunque una grande controversia sull’humanum. Diverse concezioni dell’uomo sono in lotta in una crisi filosofica e culturale che ci avvolge ed interVITTORIO POSSENTI, Professore ordinario (emerito) di “Filosofia politica” presso l’Università “Ca’Foscari” di Venezia.

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pella. Mai come oggi l’essere umano è in gioco e a rischio sin dalle fondamenta. Per questo l’importanza del ‘problema persona’ non ha fatto che aumentare nel ‘900: il suo crescente rilievo è dovuto alla molteplicità dei lati da cui la persona stessa è posta in questione. La responsabilità del personalismo si è molto ampliata al di là dei suoi temi classici ed investe oggi con le biotecnologie, le neuroscienze e le scienze cibernetiche il nucleo della persona, la sua manipolabilità, mentre cresce la diffusione della tesi materialistica e deterministica. Siamo dunque chiamati ad un arricchimento delle nozioni di personalismo e di persona, dinanzi a sfide inedite1. «Il compito del personalismo nella modernità e tarda postmodernità appare dunque decisivo da ogni lato, in quanto sulle sua spalle grava la responsabilità di contribuire a ricomporre le fratture epocali che attraversano l’epoca moderna».2 Queste considerazioni convergono verso l’idea che il personalismo è una filosofia fondamentale, che non può limitarsi soltanto al campo della prassi, dell’azione civile e politica, ma che deve indagare la struttura della persona e i suoi rapporti primari, tenendo aperto lo spazio verso la trascendenza. Il personalismo si pone tanto più efficacemente come cultura civile quanto più è una filosofia integra, che non dimentica la 1

Al tema della persona ho dedicato numerosi lavori, tra cui in specie: Il Nuovo Principio Persona, Armando, Roma 2013, e L’uomo postmoderno. Tecnica, Religione, Politica, Marietti 2009. L’elaborazione svolta in queste opere ha avuto diramazioni in campo bioetico (cf. La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica, Lindau, Torino 2013) e in campo giuridico (cf. Nichilismo giuridico. L’ultima parola?, Rubbettino, Soveria 2012). 2 Cf. POSSENTI V., Concezione sostanziale e concezione funzionale della persona nella filosofia contemporanea, «Espiritu», 146 (2013), pp. 375-394 (conferenza tenuta a Barcellona, 12 luglio 2013).

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condizione umana, le scissioni che la attraversano, il male e la morte che la travagliano incessantemente. Il personalismo non è perciò un pensiero compiuto che basterebbe consultare; si presenta come una ricerca in movimento ed un cantiere aperto, in specie nella nostra epoca in cui le sfide si moltiplicano. Jacques Maritain e Paul Ricoeur sono tra gli autori che, a distanza di numerosi decenni l’uno dall’altro, meglio esemplificano queste caratteristiche. Il personalismo, dopo la grande stagione degli anni ’30 del secolo scorso e successiva eclisse, ha avviato da alcune decadi una ripresa, la quale testimonia a favore della sua vitalità e insieme richiede che esso si declini al futuro. Nel contesto spirituale contemporaneo sono attivi personalismi impliciti o deboli, denominabili come ‘personalismi senza la persona’, connotati da intenzioni e sensibilità personalistiche, ma senza un adeguato svolgimento dell’idea di persona: sono in grado di reggere a lungo dinanzi alle sfide dell’oggi? Per un personalismo all’altezza delle sfide è necessaria una ripresa dello sguardo ontologico. Si incontra oggi una notevole ricchezza e varietà di ricerche etiche, politiche, neuroscientifiche, psicologiche sulla persona, raramente una riflessione ontologica. Non nutro alcuna forma aprioristica di sufficienza verso gli ambiti di esplorazione appena evocati: osservo che non sono sufficienti ad individuare il proprium dell’essere umano se non si sposano con un’idea della persona come posta nell’orizzonte dell’essere/esistenza. E questo mi sembra raro nel dibattito contemporaneo che ruota attorno alla filosofia della mente, al mind-body problem, alla struttura della coscienza ed alle neuroscienze, settori quasi inflazionati, che accendono infiniti dibattiti. A mio parere l’ontologia della persona non può ridursi né alla mente né alla coscienza (sia 17

essa coscienza psicologica o coscienza morale). La riduzione della persona a cogito e coscienza è forse il peccato originale di Cartesio e della sua numerosa discendenza3. 1. La questione della natura umana Volgendoci ora verso l’idea di natura umana, numerose sono le difficoltà che emergono nella cultura, rilanciate senza sosta dal sistema dei media. Ne segnalo in specie le seguenti: 1) le teorie evolutive mostrerebbero che tutto è in divenire, e dunque che anche la pretesa essenza o natura umana ritenuta invariante ed universale è invece interamente soggetta al cambiamento ed alla varietà dei contesti culturali. Se nulla è immobile nell’universo e la natura fisica è in perpetua trasformazione, non vi sarebbero motivi per assumere l’esistenza di nature invarianti; 2) in versioni radicali delle concezioni evoluzionistiche si procede verso la dissoluzione dell’idea di natura umana risolta in quella dell’animale. L’essere umano è solo un animale più evoluto. Si intende così abbattere la frontiera tra uomo e animale: in questo processo accade una disumanizzazione degli umanesimi; 3) la tecnica sembra esercitare la sua potenza di trasformazione su tutto: su quali basi possiamo assumere che la natura umana faccia eccezione e che la tecnica non possa trasformarla intera3

Nel considerare la situazione del personalismo non si possono trascurare le difficoltà provenienti dalle concezioni impersonalistiche che tessono l’elogio della terza persona e dell’impersonale. Esse testimoniano di un’avversione verso l’idea stessa di persona. Cf. in proposito Personale e impersonale, «Philosophical News», 8 (2014), pp. 129-139.

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mente? In sostanza si ricorda che l’homo sapiens sapiens, dopo aver operato due rivoluzioni: quella agricola, avviata ca. 10.000 anni fa, e quella industriale, partita 200 anni fa, si trova ora profondamente coinvolto nella terza grande rivoluzione, tecnologica e biotecnologica, iniziata da pochi decenni ma con un ritmo velocissimo di cambiamento che non consente pause di riflessione. I due fondamentali vettori rappresentati dall’evoluzionismo e dal richiamo alla potenza trasformante della tecnica mettono nuovamente in questione l’idea di natura umana. Ma il quadro è più complesso, dietro i fattori enucleati spuntano elementi spirituali che rispondono al nome di storicismo, positivismo e ‘autonomismo’. Pur mutati rispetto al passato, influiscono intensamente sul modo in cui pensiamo l’uomo, la natura umana e noi stessi. Sessant’anni fa L. Strauss scriveva che lo storicismo è lo spirito della nostra epoca (p. XII) e K. Loewith in buona misura conveniva (p. XIII)4. Può darsi che oggi lo storicismo abbia mutato pelle rispetto a quello cui pensava Strauss, e risulti più legato alle scienze dell’evoluzione che a quelle dello spirito; rimane però che uno storicismo conseguente sbocca nel relativismo, e dissolve la nozione di una natura umana stabile. A sua volta il naturalismo positivistico limita la natura umana a natura fisica, e quindi si fa portavoce della tesi materialistica secondo cui l’essere umano è nient’altro che corpo vivente. Le posizioni suddette convergono nell’assunto che non c’è alcuna natura umana, ossia un insieme di caratteri propri dell’essere-uomo e fondamentalmente invarianti diacronicamente e sincronicamente. Il naturalismo positivistico riterrà 4

LÖWITH K. - STRAUSS L., Dialogo sulla modernità, Donzelli, Roma 1994.

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che la ‘natura umana’ sia un prodotto evolutivo a base biologica, ossia una struttura che da un lato è invariante entro certi intervalli di tempo e dall’altra passibile di cambiamento evolutivo su intervalli più lunghi (la stessa essenza biologica dell’uomo sarebbe soggetta a mutamento). Storicismo e ‘autonomismo’ penseranno invece che l’idea di natura umana sia culturale, nient’altro che un costrutto sociale e storico, e che di conseguenza dipenda dalle scelte e dai valori degli individui e dei gruppi. In breve l’essere umano si fa, diviene; ed in questo divenire crea la sua natura modificandola col suo agire (in proposito assume rilievo esemplificativo la teoria del gender). La natura umana non è qualcosa di fermo, bensì quello che essa sarà, ciò che l’uomo deciderà che essa sia. Niente sarebbe più culturale dell’idea di natura. 2. Polivalenza del termine natura. Tre significati di natura Ma quale natura? Mancando ogni tentativo di determinarne il concetto nei suoi significati fondamentali, ne segue che esso è abbandonato ad ampie e incontrollate oscillazioni: volta a volta può significare la natura come physis, il cosmo come lo conosciamo, oppure – il che è ben diverso – la natura umana o l’essenza umana. Se scriviamo “natura” ma abbiamo in mente “natura umana”, è fatale che i controsensi e la confusione si moltiplichino, e che l’indagine abortisca ancor prima di iniziare. Per fissare le idee occorre introdurre tre significati fondamentali di natura: a. la natura come physis e cosmo, come universo soggetto ad 20

evoluzione e strutturato secondo una notevole varietà di leggi meccaniche, chimiche, elettriche, termodinamiche, biologico-genetiche, ecc., di cui si occupano le scienze. Tale prima idea di natura come cosmo comprende tanto l’area della vita come quella degli enti inanimati: la natura perciò come insieme di fenomeni che si impongono a me, ed a cui non posso sfuggire. Questa idea di natura indica qualcosa che mi preme dall’esterno e che trasporta necessità, ma anche qualcosa a cui partecipo con il mio vivere, immerso nella physis. b. La natura come sinonimo di essenza, di modo che “natura umana” ed “essenza umana” possono essere considerati termini equivalenti: questi due concetti riguardano tutto ciò che è tipicamente proprio, o appunto essenziale, di una specie e la definisce. Ciò che fa di noi degli esseri umani, è la nostra natura o essenza che possediamo come un dono sin dal concepimento, che è immanente in noi e non subiamo dall’esterno, e che si riassume nel possesso del logos (ragione e linguaggio) e delle fondamentali inclinazioni che ne scaturiscono, tra cui in primo luogo la ricerca della verità e del bene. Col riferimento alla natura come essenza viene introdotto un concetto centrale e insostituibile della tradizione filosofica. Quando diciamo che il sorgere del sole, i terremoti, le maree sono fenomeni naturali, impieghiamo “naturale” nel primo significato. Quando parliamo di natura o di essenza umana lo impieghiamo nel secondo significato e i due termini lessicalmente identici rappresentano concetti molto lontani. In ogni caso stiamo effettuando una ricerca filosofica, che impiega le conoscenze acquisite altrimenti – ad es. dalle scienze e dall’esperienza – ma non si riduce ad esse. 21

c. Il terzo significato di natura è a cavallo tra il primo e il secondo, e riguarda l’ambito dei viventi, umani e non-umani. Significa la natura come vita, come principio interno di autocostruzione o autopoiesi che si esplica nella crescita e nel declino propri di un soggetto vivente:. Natura proviene da nasci, nascere, ed è perciò principio di vita: la natura umana è un ordine specifico interno alla vita. Natura in tal senso significa un principio interno di vita, attività e di azione immanente: questa ha origine e termine entro il soggetto agente. Là dove c’è natura quale principio interno di mutamento, il cambiamento non proviene dal di fuori ma dal di dentro5. La meraviglia della vita come processo di autocostruzione e autoformazione è tale che alcuni pensano di fermarsi ad un concetto esclusivamente biologico di essere umano. Questo aspetto va tenuto presente in rapporto alle moderne scoperte biologicogenetiche, secondo cui l’essere umano possiede una base fisica e corporea, un codice genetico ed un preciso numero di cromosomi. Sarebbe tuttavia un errore ridurre l’uomo alla sola dimensione biologica, ed impiegare il concetto solo biologico di natura umana per rispondere a domande sull’esistenza e i fini dell’uomo6. 5

Per un’elaborazione di questo nucleo primario concernente la filosofia della vita e dell’organismo cf. il mio Essere e libertà, Rubbettino, Soveria 2004. 6 Nell’elaborare i tre livelli nozionali di natura seguo un approccio realistico (realismo filosofico) e non costruttivistico. Il costruttivismo tende a vedere nella natura umana o un costrutto culturale privo di ogni normatività o una realtà inferiore, puramente biologica, un dato che si può trasformare e assoggettare tramite la tecnica. Viene supposto uno iato fra esistenza individuale-biografica e dimensione corporeo-biologica: la prima vissuta come evento totalmente soggettivo e sganciato dal momento corporeo, l’altra riportata a una base biologica oggettivata e non personale.

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È ovvio che si partirà col piede sbagliato e ci si caccerà in un ginepraio inestricabile, se non si provvede preliminarmente ad operare un poco di pulizia concettuale, curando di distinguere almeno fra il primo significato e il secondo significato di natura. Una volta acquisita la nozione di natura/essenza umana, comprendiamo che sfortunatamente per il positivista evoluzionista, lo storicista e il culturalista, la natura umana non solo esiste ma è per giunta ‘eterna’. Ciò significa che nei suoi tratti essenziali e di base tale natura non muta attraverso il tempo e le culture, rimanendo riconoscibile da una serie di caratteri che la connotano ovunque: il possesso di ragione/intelletto, il linguaggio, la capacità di elaborare concetti tanto speculativi (il vero) quanto morali (il bene), e quella di assumere decisioni e di mantenere impegni, di effettuare scelte tra corsi di azione differenti, di elaborare l’idea di giusto e ingiusto, di dare origine alla matematica, all’arte, alla musica, alla raffigurazione pittorica, di dare sepoltura ai morti, e così via. L’idea di una natura umana stabile, che molti oggi rifiutano, abbagliati come sono dal ‘divenirismo’, dall’idea che tutto si muove e muta – il che è vero per numerose cose ma non per tutto – costituisce una grande garanzia per la persona e per la sua dignità, e la base migliore per i diritti umani da attribuirle. Da tempo si chiede alla scienza-tecnica di trasformare il singolo e la specie umana, magari talvolta portandoli verso un indeterminato postumano. Ma veramente l’uomo potrà allontanare da sé la ragione, il linguaggio, l’idea del bene e del male, il giusto e l’ingiusto, la musica, la ricerca del bello? Potrà mai l’uomo non cercare la verità e il senso? O non è invece tutto questo assolutamente tipico dell’essere umano, la sua ‘eterna’ essenza di essere dotato di logos? L’essere umano non può uscire dall’orizzonte del logos e ciò stabilisce per lui lo zoccolo della necessità. Con l’assunto di un’invarianza fondamentale dell’essenza 23

umana ci collochiamo diversamente rispetto all’antiessenzialismo dominante secondo cui la nozione di natura umana è un puro costrutto culturale e sociale. È giusto ricordare che anche un postmetafisico come Habermas ricorre all’idea di natura umana: cf. Il futuro della natura umana. I rischi di un’eugenetica liberale. 3. La natura umana è normativa? La domanda che ora ci incalza suona: la natura umana come realtà universale è un fatto che non comporta altro che se stesso, oppure include elementi normativi? un’indicazione sulle regole dell’agire? Non dobbiamo escludere che abbia ragione Pascal che scrive col suo stile conciso e scintillante: “J’ai grand peur que cette nature ne soit elle même qu’une première coutume” (n. 93, ed. Brunschvicg). La natura non sarebbe normativa ma abitudinaria, non regola ma costume e consuetudine. La risposta di Pascal lascia a desiderare nella misura in cui sembra mettere in opposizione natura e abitudine o tradizione, in quanto la consuetudine è un modo importante e non irrazionale dell’agire umano. Per venire a capo del problema occorre chiedere che cosa significa in senso radicale ‘normativo’ per l’essere umano ed il suo agire. Significa agire secondo ragione, cercando il bene e il vero, non significa agire secondo gli impulsi immediati e passionali, che possono provenire dal livello biologico e organico del nostro io. Rimane fondamentale fare riferimento ad un concetto non diminuito di natura/essenza umana, da cui scaturisce il primo principio della ragion pratica: fai il bene, evita il male. Osservo intanto che la natura umana in quanto nozione ontologica è parimenti teleologica. Sussistono infatti per l’essere umano dei fini naturali, ossia inscritti nella nostra natura, per 24

cui questa cerca il meglio ed è orientata verso il proprio compimento. Natura (umana) è per Aristotele ciò che ha compiuto il suo sviluppo: “la natura è il fine: per esempio quello che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia di uomo, di un cavallo, di una casa”7. Da ciò discende che nell’idea di natura umana sono contenuti dei fini e dunque anche delle cose da volere, desiderare e operare, ed altre contrarie. L’esemplificazione è qui illimitata. Un esempio tra i tanti è la lettura di uno scritto, in cui il soggetto mira ad una comprensione, assimilazione e innalzamento intellettuale, da cui scaturisce la gioia che necessariamente segue ogni atto che raggiunge il suo fine: lo scopo di intendere regola e guida il processo, pilotato non dalla causa efficiente ma da quella finale. Se il concetto di natura umana include a buon diritto la nozione di fini inscritti in essa, questa visione allontana come riduttivo l’assunto meccanicistico e materialistico della natura come mera physis che esclude la finalità, che pensa la causalità quasi solo come causa efficiente, e che riduce la res cogitans a materia o res extensa. La questione centrale è se le finalità inscritte nella natura umana siano anche normative, ossia se sussista un nesso profondo tra ontologia, assiologia e deontologia. Questo assunto è stato svolto con vigore da H. Jonas, che ha anche acutamente ravvisato l’origine della posizione separatista nella riduzione e progressivo impoverimento del concetto di essere, riportato al contenuto minimale che ne offrono le scienze. Secondo Jonas il primo principio di un’etica del futuro – che ci siano degli uomini – “non è insito nell’etica stessa in quanto dottrina dell’azione (nella quale rientrano del resto tutti i do7

Politica, 1252 b31s.

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veri verso i posteri), ma nella metafisica in quanto dottrina dell’essere (di cui l’idea dell’uomo costituisce una parte). Questo contraddice i dogmi più consolidati del nostro tempo: che non esista una verità metafisica e che dall’essere non sia deducibile nessun dover essere. Quest’ultimo dogma non è mai stato seriamente messo alla prova e vale soltanto per un concetto di essere che, essendo già stato opportunamente neutralizzato (in quanto ‘avalutativo’) rende tautologica la tesi della non deducibilità di un dover essere: il suo ampliamento ad assioma generale equivale ad affermare che non è possibile nessun altro concetto di essere, oppure che quello qui posto alla base (mutuato in ultima analisi dalle scienze naturali) è già il vero e intero concetto di essere” 8. La tesi del salto tra essere e dover essere è tanto diffusa e altrettanto povera, perché la partenza viene fatta da un concetto di essere interamente fattuale, un mero schema empirico-logico entro cui le scienze 8

JONAS H., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 55. In sostanza Jonas sostiene che l’assiologia è una parte dell’ontologia, posizione espressamente formulata in questo libro, cf. p. 101. Anche in Organismo e libertà (Einaudi 1999, p. 306) si ribadisce che «L’ontologia come fondamento dell’etica era il punto di vista originario della filosofia. La separazione delle due, che è la separazione del regno ‘oggettivo’ da quello ‘soggettivo’, è il destino moderno». Nelle Memorie (Il melangolo, Genova 2009) Jonas conferma il nesso tra ontologia e assiologia: «Secondo la mia convinzione la dottrina dell’essere si porta dietro anche quella del dovere. Mi sono in molti modi occupato di fondamento ontologico dell’etica. Certo non posso sperare di aver convinto le persone che dall’essere consegue anche un dovere. Ma almeno ho di nuovo messo all’ordine del giorno una cosa che appariva ormai definita e che la moderna filosofia analitico-positivista annoverava tra gli errori del pensiero, apparentemente impossibili da affrontare in campo filosofico». Sulla fragilità della separazione tra essere e dover essere attira l’attenzione RICOEUR P. in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1996, pp. 264ss.

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incasellano gli oggetti, non dall’ente come trascendentale fondante ed esercitante l’atto di esistere (actus essendi). Dunque, siccome portiamo nell’azione quello che siamo, l’agire dipende dall’essere e la dottrina dell’azione e la deontologia si radicano nell’ontologia. 4. Agire secondo ragione e rilievo delle inclinazioni La questione secondo cui le finalità inscritte nella natura umana alludono ad un potenziale normativo, si riconduce all’identificazione della forma propria dell’umano, consistente nell’agire secondo ragione. Tale è la natura e la normatività propria dell’essere umano, che include la ricerca del bene e della felicità al seguito delle sue inclinazioni fondamentali. Esistono infatti nell’uomo, anteriormente ad ogni deliberazione, inclinazioni naturali verso il fine o i fini cui, come ogni altro essere, egli è ordinato, e che la ragione naturalmente o spontaneamente valuta come buoni. In quanto sostanza esistente, l’uomo desidera perseverare nell’essere; in quanto animale, condivide con gli altri animali un desiderio di unione con l’altro sesso, nonché di procreare ed allevare i figli, desiderio che sarà assunto ed elevato dal fatto che l’uomo non è un semplice animale, ma un animale razionale; in quanto razionale, l’uomo è naturalmente inclinato verso la la conoscenza della verità. Tra queste inclinazioni la più radicale e senza eccezioni è quella a cercare il vero. Quanto alla seconda inclinazione essa sembra contraddetta dalla omosessualità che non ricerca l’unione tra l’uomo e la donna. In merito si può osservare che la seconda parte dell’inclinazione – il desiderio di figli – vale anche per le coppie omosex che spesso deside27

rano la prole, nonostante l’impossibilità di averla naturalmente. Nel concetto di natura umana quale nozione metafisica che incorpora un “movimento verso”, la normatività di cui parliamo non è bell’e pronta e facile da consultare; risulta piuttosto in continua e faticosa elaborazione, a partire dal primo principio della ragion pratica (fai il bene ed evita il male), e tutto quello che lentamente ne consegue nella storia umana, sino alla forma del Decalogo quale fondamentale esplicitazione della legge morale naturale. I diritti umani, declinati nell’immensa varietà delle situazioni storiche, costituiscono una valida esemplificazione di ciò verso cui il soggetto umano è inclinato. Egli desidera ciò che spetta all’essere umano in quanto tale: il rispetto verso se stesso, l’apertura all’altro, il diritto alla vita, la libertà. Anche supponendo che l’uomo possa completamente edificare se stesso, diventando il primo liberto della creazione, sarà sempre necessario chiedersi se egli non debba autocostruirsi seguendo fini e norme che ne segnano il cammino e l’agire. Libertismo e naturalismo compromettono la normatività presente nella nozione di natura umana: il primo ritiene che essa sia esclusivamente libertà, autodeterminazione non soggetta ad alcuna limitazione e dunque che il carattere normativo dell’essere umano si esprima nell’imperativo ‘sii libero’; il naturalismo pensa che l’unica ‘normatività’ sia quella inscritta nelle necessità naturali e negli istinti, ma allora non saremmo più nell’ambito normativo-etico. Come già osservato, se la natura in quanto physis non può costituire la base di un’etica e di vincoli morali, la natura umana lo può. Infatti verifichiamo che ci sono molti beni che ci attirano, e meditando troviamo che alcuni risultano per ogni uomo più importanti e fondamentali 28

di altri. Comprendiamo che alcuni di questi sono essenziali per la prosecuzione della vita fisica e psichica (ad esempio la salute) ed altri importanti per il nostro svolgimento di soggetti umani, di persone. Comprendiamo che vi sono fini migliori di altri (cercare la conoscenza è meglio che passare la vita a non far niente, agire secondo ragione è meglio che cedere all’irrazionalità) e infine che nella natura umana sono inscritti dei fini per essa fondamentali. Cancellare ogni telos dalla natura umana è innaturale e pone su basi friabili ogni scienza morale. 5. Le nozioni di natura umana e di persona non sono surrogabili da quella di dignità umana Secondo una posizione largamente diffusa si ritiene che i concetti di natura e di persona possano essere sostituiti da quello di dignità umana. Qui desidero portare argomenti a favore della priorità e del maggior rilievo delle nozioni di natura umana e di persona umana rispetto a quella di dignità umana. Quest’ultima è in certo modo un apriori indeterminato sino a quando non si stabilisce chi è persona e chi no. Il richiamo ormai onnipresente alla nozione di dignità della persona – vero concetto “ecumenico” che sembra, ma sembra soltanto, mettere d’accordo tutti – cela non pochi malintesi, dal momento che vari e talvolta opposti sono i concetti di dignità dell’uomo. Bisogna perciò mettere in conto la crescente difficoltà oggi a giustificare in maniera adeguata il concetto di dignità della persona, che in varie correnti postmetafisiche viene ridotto solo a quello di piena autodeterminazione dell’io, secondo una comprensione marcatamente libertaria e individualistica: la dignità umana riportata solo all’autodeterminazione offre una 29

base necessaria ma non sufficiente per caratterizzarla. “Senza libertà non c’è dignità” vale come proposizione vera; non così l’asserto “la dignità umana consiste solo nella libertà”. La constatazione solleva in maniera improrogabile la necessità di un rinvio al concetto di persona quale soggetto unico ed inalienabile di tale dignità: è infatti ovvio che per stabilire in maniera attendibile la dignità della persona occorra preliminarmente approfondire la nozione di persona, che non può essere adeguatamente stabilita senza chiamare in causa il livello ontologico. Da tale esame scaturirà che la dignità dell’uomo è una qualità inerente ad ogni essere umano, qualunque sia il grado del suo sviluppo: non è dunque un’attribuzione che provenga da altri esseri umani o dalle leggi dello Stato, ma un connotato di realtà e valore che è inscritto per natura in noi. Noi siamo tutti uguali in dignità ma non siamo interscambiabili, ciascuno di noi è un unico. L’essere umano che nasce e viene al mondo non è un esemplare della specie ma un singolo, un’immagine sempre nuova del Creatore. Affermare che “A è persona” non significa solo attribuire ad A un predicato di valore assiologico, ma primariamente un predicato di valore ontologico, che o c’è o non c’è, e che dunque non ha punti medi. Ciò significa che tanto il concetto di persona che quello di dignità della persona non sono ‘gradazionistici’ o graduali, nel senso che abbiano un più ed un meno, ma sono ‘assoluti’. Per esemplificare richiamo il diritto alla vita: non vi è uno sviluppo crescente del diritto alla vita dal concepimento in avanti, sino alla nascita ed oltre, come ritengono gli empiristi e gli utilitaristi. Il diritto alla vita non può essere graduale, se non fissando in maniera arbitraria i suoi limiti. Da quando la vita umana deve essere collocata sotto la garanzia della legge se non dal concepimento? Il concetto di persona non è più ristretto di 30

quello di essere umano, e l’embrione in sovrannumero non è un prodotto di scarto. Se volgiamo lo sguardo verso la Costituzione italiana, questa fondamentale acquisizione non è stata ancora raggiunta, ed anzi le sentenze della nostra Corte negli ultimi anni in rapporto alla protezione dell’embrione, alla PMA eterologa ed alla possibilità – sia pure a precise condizioni – di effettuare la selezione eugenetica degli embrioni lasciano molto a desiderare. Esse sembrano più o meno consapevolmente prestare ascolto alla battaglia politico-mediatica di coloro che mirano a stravolgere la nostra Carta ed i suoi principi fondanti, ampliando a dismisura i ‘diritti’ degli adulti e dimenticando quelli del concepito9. Il realismo filosofico mostra che la dignità dell’uomo non è una proiezione o un’attribuzione di valore espressa arbitrariamente ma procede da un riconoscimento del valore che esiste nell’essere umano, che è l’essere umano, e che scaturisce dal suo specifico livello ontologico di esistenza. La dignità dell’uomo è radicata nella sua natura, non altrove: l’uomo ha valore e dignità in quanto essere dotato di spirito. 6. Passaggio dalla persona alla società Una quota preminente della riflessione di Maritain, Mounier, Ricoeur è stata dedicata a illuminare il nesso tra persona, bene comune, socialità. Senza entrare nel dettaglio mi pare che la base etica dichiarata da Ricoeur, espressa in modo ottativo 9

Sul problema della Fivet eterologa rinvio al contributo Considerazioni sulla sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa, «Iustitia», 2 (2015), pp. 143-152.

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nella formula “possa io vivere una vita compiuta, con e per gli altri, sotto istituzioni giuste”, rappresenti fruttuosamente il compito del personalismo rivolto alla società ed alla politica, sotto la regola della dignità del soggetto e della giustizia10. La giustizia riguarda il terzo che non vediamo, che è al di fuori delle relazioni amicali strette, il ciascuno che non incontreremo mai. La giustizia verso di lui è mediata necessariamente dalle istituzioni. Alle istituzioni noi chiediamo di essere promotrici di giustizia e di bene comune, e ciò costituisce il loro compito permanente. Orbene, nella dottrina della giustizia è inclusa come primaria, in particolar modo oggi, la giustizia verso i reietti e la vita umana, specialmente quella indifesa, minuscola, inapparente. È dinanzi all’immenso carico di inequità verso i poveri, verso coloro che sono vittime della tratta di esseri umani, verso la vita nascente e declinante che il personalismo incontra oggi le sfide più temibili. In particolare abbiamo grande bisogno di un personalismo bioetico che metta un argine alle derive culturali in atto in Europa ed alla giurisprudenza che spesso trasforma mere pretese in diritti: il personalismo bioetico rappresenta la nuova frontiera del personalismo del XXI secolo.11 Ciò vale in special modo di fronte alla nuova generazione dei cosiddetti diritti postmoderni che riguardano la vita, il matrimonio, la 10

Cf. RICOEUR P., La persona, Morcelliana, Brescia 1997, p. 39. La Carta di Nizza o Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, propone sin dall’inizio un’idea alta di dignità della persona. «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata», «Ogni individuo ha diritto alla vita», (artt. 1 e 2). L’art. 3 stabilisce «il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone» (art. 3, comma 2). L’interrogativo che si presenta alla mente concerne la portata del diritto alla vita, e quello del divieto di pratiche eugenetiche, e tali interrogativi rinviano alle cruciali determinazioni di individuo e di persona. 11

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selezione eugenetica, la fivet, lo statuto dell’embrione, la fine della vita. Mentre l’introduzione dei diritti civili fu il compito della borghesia, e dei diritti sociali il compito del movimento operaio, l’introduzione dei diritti postmoderni biopolitici nella versione marcatamente libertaria oggi predominante e impietosa verso il debole, sembra essere l’esito della pressione della tecnica, e di una politica e di un diritto accondiscendenti o perfino rinunciatari nelle loro responsabilità in ordine ad un adeguato umanesimo12. Una parola infine sulla solidarietà in tempi in cui la prassi quotidiana non sembra rinvigorire i rapporti solidali ed i segni concreti che la attestano; orbene senza la solidarietà rischia di perire la democrazia. L’esperienza storica insegna che prolungate crisi effettuali di solidarietà comportano crisi evidenti della stessa democrazia. Verifichiamo ogni giorno che la crisi economica e la presa soffocante della finanza globale non hanno favorito la solidarietà, hanno aumentato enormemente le diseguaglianze, e mantenuto il mito dell’individuo autonomo e insulare che pensa solo a se stesso, ritenendo così di tutelarsi meglio. Idea rilanciata categoricamente da Margaret Thatcher secondo cui la società non esiste, esistono solo gli individui: su queste basi diventa quasi impossibile condividere un bene comune pubblico, e il personalismo sociale perde significato.

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Sull’attuale situazione dell’umanesimo e dei rischi di antiumanesimo rinvio a La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica, op. cit., e a Religione e vita civile, Armando, Roma 2001.

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7. Commiato In generale le uniche battaglie che val la pena di combattere sono le battaglie culturali, e tra queste risulta primario favorire una nuova stagione del personalismo. La natura umana non è un’illusione metafisica: il suo concetto è fondato nella realtà stessa dell’uomo, è un concetto stabile e universale, che non può essere distrutto dall’evoluzione né dalla tecnica. Esso è inoltre portatore di una valenza normativa. L’uomo è certo fortemente plastico, ma entro il perimetro stabilito dalla sua essenza che non consente l’abolizione dell’uomo. Ciò che oggi è maggiormente a rischio non è solo la socialità della persona, ma la persona stessa. Il carattere sociale dell’essere umano è oggi inteso in un senso ristretto in cui prevalgono chiusura, disattenzione all’altro, selfinterest, ma ciò dipende dal fatto che è venuta estenuandosi e impoverendosi l’idea di persona e quella di una democrazia esigente. Tra i segnali culturali profondi mi sembra sia da annoverare il declino della fede nell’immortalità personale, che indica il venir meno della coscienza della nostra potenza spirituale e della nostra dignità. Ciò implica un antropocentrismo rinserrato in se stesso, secondo cui non esistono fini ultimi che trascendano il benessere e la prosperità umani. 8. Annesso: articolo pubblicato su Avvenire del 14 giugno 2015 Conviene fare il punto su matrimonio, famiglia e filiazione, poiché tre profonde contraddizioni ne scuotono la struttura: la contraddizione tra mariage pour tous e il démariage (“dematri34

monializzazione”) galoppante che sottrae ogni valore specifico all’istituto del matrimonio; quella tra coppia e famiglia; e quella tra filiazione e defiliazione. Esse procedono velocemente e sarà arduo tornare indietro poiché spesso le trasformazioni vengono recepite in giurisprudenza e leggi che, sancendo la legalità dei nuovi comportamenti, li consolidano. I mutamenti si susseguono con un ritmo così incalzante che si fatica a comprendere quanto sta accadendo e che si presenta con i caratteri di una rivoluzione nel senso letterale del termine: qualcosa che sovverte le basi del matrimonio, della famiglia, della procreazione. Tra i fattori del mutamento grande rilievo assumono la cultura radical-libertaria e la tecnica. Nel primo campo si è fatta strada l’idea che matrimonio e famiglia siano libere e mutevoli costruzioni sociali affidate alla sovranità insindacabile del soggetto, che intende avere aperte dinanzi a se tutte le possibilità. Il mariage pour tous sbandierato in Francia come un supremo diritto copre una serie di fenomeni diversi, e porta in sé il veleno del nominalismo e della contraddizione. Il primo, che presume di cambiare la realtà cambiandone i nomi, è la cultura che sta dietro l’assunto che matrimonio e famiglia siano mere costruzioni sociali. La contraddizione emerge nell’idea che ogni unione debba fregiarsi del nome di matrimonio col suo simbolismo, la sua dignità e stabilità, proprio quando nella società avanza la “dematrimonializzazione”, come osserva la sociologa francese Irène Théry, che peraltro intende favorirla, aiutando il movimento per privatizzare sempre più il matrimonio. Démariage significa che l’istituto del matrimonio eterosessuale sta divenendo evanescente perché scalzato dalla concorrenza delle più diverse forme di convivenza e di partenariato. Attribuendo ad ogni unione la simbolica matrimoniale, si innesca un processo in35

flazionistico che di fatto sottrae ogni valore all’idea di matrimonio: ciò che è a disposizione di tutti perde valore e dignità, è una moneta usurata. Un altro aspetto della trasformazione in corso consiste nella netta dissociazione tra matrimonio e famiglia. Per lunghe epoche il cuore del matrimonio non era solo la coppia ma la coppia con figli, ossia la famiglia naturale. Attualmente un modo di intendere le mariage pour tous è il centraggio solo sulla coppia: si teorizza la dissociazione volontaria tra matrimonio e filiazione e si concepisce il primo come esaurito nel rapporto di coppia. È il fenomeno della “defiliazione”. La genitorialità è perciò considerata slegata dal rapporto di coppia ed inserita esclusivamente nell’area della volontarietà dei soggetti adulti. Nella defiliazione la soggettività della coppia diventa dominante rispetto a quella della prole: il figlio è un’aggiunta del tutto opzionale. Il matrimonio, si dice, è soltanto nell’unione dei due. Da questa ideologia deriva che la spinta a procreare diminuisce poiché il figlio non è inteso come un compimento, mentre la privatizzazione dell’unione aumenta. I celebrati Pacs francesi sono una forma di concubinato cui si può mettere termine con una semplice lettera. Il terzo nucleo è un fis pour tous (un figlio per tutti) attraverso la Fivet eterologa. La fecondazione artificiale eterologa (resa legale in Italia da un’infelice sentenza della nostra Corte costituzionale) accelera la vittoria della società desiderante nell’ambito della vita e della procreazione. Si tratta di una novità nella storia umana, resa possibile dalla tecnica. È interessante notare come Bacone nel suo preveggente elenco delle meraviglie che sarebbero scaturite dalla tecnica (Magnalia naturae) non prevedesse la fecondazione artificiale. 36

L’ingresso della tecnica nell’area della generazione incrementa l’interpretazione costruttivista del matrimonio, della famiglia, della filiazione. Per Irène Théry la generazione con un terzo ‘donatore’ è “un’invenzione sociale formidabile“. Non si avverte che essa aumenta l’aleatorietà della famiglia e dispone del figlio come di un oggetto. Insieme alla decostruzione insita nel mariage pour tous, va considerata la potenza dissolutiva dell’eterologa che compromette completamente il senso della filiazione: essa consente a coppie omosex di avere un figlio, favorisce l’irresponsabilità completa del fornitore, tacendo sulla violazione del principio di responsabilità insito nella procedura, secondo cui ciascuno deve rispondere delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni. In certo modo l’eterologa contribuisce anch’essa alla defiliazione, non nel senso di rigettare la nascita del figlio, ma in quanto scardina il rapporto diretto e univoco tra genitorialità e figliolanza. Taluni giuristi parlano del “diritto di avere diritti”, ma l’espressione è deludente poiché è indifferenziata e tende a elevare a diritto qualsiasi pretesa che un soggetto avanzi. Oggi l’autentica frontiera del diritto non sta nell’affermazione suddetta ma nell’esigente discernimento di che cosa è realmente diritto e non mera pretesa: non c’è alcun diritto a trattare una pretesa come un diritto.

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LE RADICI MEDIEVALI DEL PERSONALISMO CONTEMPORANEO: TOMMASO D’AQUINO E BONAVENTURA DA BAGNOREGIO Benedetto Ippolito Se ci riferiamo alla filosofia contemporanea, è facile costatare la rilevanza che ha assunto la questione antropologica1. Ed è altrettanto evidente quanto peso e quali capacità di risposte siano emerse all’interno degli sviluppi articolati delle correnti umaniste del XX secolo2. In realtà, oggi, a distanza di un secolo dal fiorire del personalismo filosofico, cresciuto quasi esclusivamente nel quadro della fede cristiana, è sempre più chiara la duplice origine storica e teoretica che ne ha ispirato la nascita e ne ha guidato lo sviluppo. Da un lato il tentativo di recuperare una visione integrale e completa dell’essere umano, che di lì a poco sarebbe stata calpestata in tutta la sua dignità dall’affermarsi violento dei totalitarismi; dall’altro lo sforzo di superare gli BENEDETTO IPPOLITO, Ricercatore di “Storia della Filosofia” presso l´ Università degli Studi «Roma Tre». 1 Cf. VANNI ROVIGHI S., Storia della filosofia contemporanea: dall’Ottocento ai giorni nostri, La Scuola, Brescia 1975; CAMBIANO G., Storia della filosofia contemporanea, Laterza, Bari 2014. 2 Cf. INDELLICATO M., Etica della persona e diritti umani: la prospettiva del personalismo polacco, Pensa multimedia, Rovato 2013; CHALMETA G., Introduzione al personalismo etico, Edusc, Roma 2003.

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orientamenti antropologici che, a partire dalla modernità, avevano prodotto un riduzionismo e uno smembramento della definizione metafisica di persona. Questa duplice esigenza ha portato, fin dagli inizi, le tendenze personaliste verso una filosofia che recuperasse l’unità costitutiva del soggetto umano, separato e frammentato dalle distinzioni derivate in larga parte dall’impostazione filosofica di Cartesio3. Per il pensatore francese, infatti, la natura umana è costituita da un dualismo che ne separa gli aspetti spirituali da quelli materiali. La celebre distinzione tra Res cogitans e la Res extensa è nata all’interno di un’esigenza sistematica che fosse in grado di scindere con nettezza i compartimenti reali della persona che appartengono alla misurabilità scientifica della matematica, spazio e quantità, da quelli che invece sono espressione delle tradizionali facoltà incorporee, intelletto e volontà4. Per Cartesio si tratta insomma di rendere incommensurabilmente garantita la distinzione tra la fisica e la metafisica, tra quanto può essere annoverato tra i connotati fisiologici e quanto invece attiene rigorosamente all’ambito psicologico. Tutte le elaborazioni antropologiche proposte dalla filosofia moderna hanno tentato o di proseguire in questa linea di demarcazione o di superarla, non riuscendo, anche nei migliori casi, a risolvere interamente la questione concernente l’unità dell’essere umano. Anche l’Idealismo tedesco, e in specie la scuola hegeliana, 3

Sulla discussione contemporanea della filosofia di Cartesio il dibattito è molto articolato. Si cf. AA. VV., The Cambridge companion to Descartes, Cambridge university press, Cambridge 1993. 4 Cf. DESCARTES R., Discorso sul metodo, Einaudi, Torino 2014.

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ha potuto recuperare la scissione solo stabilendo un legame dialettico tra essenza ed esistenza, ben espresso in tutto l’impianto speculativo della Fenomenologia dello spirito5. Ecco, insomma, come e perché è nata l’esigenza filosofica nel ‘900 di un nuovo approccio teoretico al tema della persona, per altro reso urgente dalla crescita delle considerazioni del positivismo scientifico e dagli orientamenti spiritualisti che, anche in Italia, si sono imposti ai principi del secolo scorso sulla falsa riga di quanto avveniva contemporaneamente in Germania6. Basti pensare in questo senso all’imporsi allora non solo di personalità del calibro di Benedetto Croce e Giovanni Gentile in Italia, ma anche in Francia della rilevante presenza di uno spiritualismo cristiano, nel quale sono maturati percorsi di pensiero come quelli di Maine De Biran, Felix Ravaisson, Gabriel Marcel, René Le Senne7. Oggi sono facilmente intuibili, al di là delle intenzioni originarie, i limiti di tali impostazioni. Se, infatti, il criterio positivo era recuperare una dimensione immateriale e incorporea dimenticata, ma tipica della natura umana, dall’altro appariva sempre distante la ricucitura di una concezione adeguata, integrale e completa dell’unità personale. L’accentuazione del carattere irriducibile della persona alla spiegazione empirica, in altri termini, finiva per essere volano di nuove forme, talvolta persino più radicali, di dualismo spiritualista. Insomma il quadro complessivo del dibattito sviluppatosi 5

HEGEL G.W.F., Fenomenologia dello spirito, RCS Quotidiani, Milano 2009. FAYE E., Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’asino d’oro, Roma 2012. 7 Sullo spiritualismo francese, tanto quanto sull’idealismo italiano, si confronti la parte dedicata ai temi nell’opera citata di Sofia Vanni Rovighi. 6

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all’inizio del secolo scorso mostra chiaramente quanto fosse urgente un confronto critico con l’impostazione cartesiana e un superamento del presupposto idealistico di contrapposizione tra le scienze dello spirito e le scienze naturali. Come è emerso anche all’interno della corrente ermeneutica, in particolare in un pensatore tanto ricco di prospettive come Hans-Georg Gadamer8, l’impostazione filosofica del problema antropologico finiva per restare trincerata all’interno del presupposto romantico di un’imparagonabile alterità tra la verità intellettuale e il metodo scientifico, o, come ha preferito dire Paul Ricoeur9, tra la comprensione umanistica e la spiegazione scientifica. Non si trattava, a ben vedere, esclusivamente di una dualità disciplinare, ma anche e soprattutto di una parzialità derivata dalla distinzione tra ciò che si può considerare del soggetto personale da un punto di vista verificabile e ciò che invece appartiene a una narrazione filosofica, artistica, eccetera. La parola d’ordine per tutti i filosofi personalisti era invece superare questa frammentazione parziale del soggetto umano e recuperare l’unità spirituale e materiale della vita individuale. Non solo. Per giungere a un risultato si rendevano indispensabili due operazioni filosofiche importanti: superare un’opposta concezione chiusa della persona di tipo materialistico e spiritualistico e rintracciare un collegamento alle fonti classiche, in modo peculiare alle due grandi impostazioni di pensiero scolastico, quella di Tommaso d’Aquino e quella di Bonaventura da Bagnoregio10. 8

GADAMER H.-G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 2012. RICOEUR P., Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1999. 10 Sui legami tra personalismo contemporaneo e filosofia scolastica si cf. WOJTYŁA K., Persona e atto, Bompiani, Milano 2005. 9

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Il personalismo, in tutte le sue più eterogenee varianti, non soltanto quello francese nato attorno a figure centrali come Emmanuel Mounier11 e Jacques Maritain12, ma anche quello tedesco che si può leggere in pensatori come Max Scheler13 o Joseph Pieper14, o polacco come in Karl Wojtyła15 e Tadeusz Styczeń16, rivela subito due tratti comuni inconfondibili: il primo legato certamente all’orientamento cristiano e il secondo a un legame, più o meno forte e diversificato, ma sempre costante, con il pensiero classico e in particolare con la grande eredità scolastica. Non è, infatti, possibile recuperare filosoficamente un’antropologia unitaria e integrale, che riesca a tenere unita la spiritualità dell’anima e la materialità del corpo, senza collegarla alla verità teologica dell’Incarnazione, rivelatrice appunto dell’essenza umana come soggettività completa. Al contempo non è possibile tradurre in categorie razionali e concettuali questa idea di natura umana senza avvalersi dei contributi di sintesi che i grandi maestri medievali hanno raccolto, ripensato e fondato. Per questa ragione comprendere a fondo la proposta filosofica sull’uomo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio17 costituisce dal punto di vista storico una neces11

MOUNIER E., Il personalismo, AVE, Roma 2006. MARITAIN J., La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 2009. 13 SCHELER M., Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Bompiani, Milano 2013. 14 PIEPER J., Sull’amore, Morcelliana, Brescia 2012. 15 WOJTYŁA K., Persona e atto, op. cit. 16 STYCZEŃ T., Comprendere l’uomo, Lateran University Press, Roma 2005. 17 I due grandi maestri della Scolastica medievale costituiscono, infatti, i due pilastri della filosofia cristiana. Il loro pensiero, profondamente diverso nei presupposti e nella lettura di Aristotele, è tuttavia perfettamente corrispondente ad un quadro comune coerente. 12

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sità e dal punto di vista teoretico un chiarimento indispensabile. Basti pensare, ad esempio, all’idea di una corporeità soggettiva come quella di Marcel18, o all’idea di un’etica materiale come quella di Scheler, o ancor più al rapporto tra persona e atto in Woitijla per capire subito quanta rilevanza le fonti scolastiche vi abbiano giocato e come e perché sia indispensabile, soprattutto oggi, farvi di nuovo ritorno. Il riferimento alle fonti medievali, d’altronde, attraversa come una linea rossa le diverse linee del personalismo contemporaneo. Una conferma di ciò è evidente anche in una delle ultime manifestazioni di questa evoluzione concettuale. Paul Ricoeur, nella sua opera conclusiva Sé come un altro19, ha parlato, a giusta ragione, di una distinzione tra l’identità idem e l’identità ipse, intendendo solo quest’ultima come conforme al dettato personale. Tale sottolineatura, com’è noto strettamente dipendente dalle influenze giovanili che Marcel ha avuto su di lui, ha spinto Ricoeur verso una ripresa ontologica dell’ipostatizzazione classica. La stessa cosa potrebbe essere detta a proposito di un pensatore apparentemente lontano dal Cristianesimo come Jean-Paul Sartre20, nella cui riflessione sebbene articolata attorno alla netta contrapposizione tra l’essere per sé e l’essere in sé, quindi vincolata a una lettura soggettivista e individualista della libertà, tuttavia finisce, al pari di Nietzsche, per riabilitare la sfera corporea, con tutte le relative implicazioni. Ovviamente molto più presente è l’ascendente medievale 18

MARCEL G., La dignità umana e le sue radici esistenziali, Studium, Roma 2012. RICOEUR P., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2012. 20 SARTRE J.-P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014. 19

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in filosofi del calibro di Edmund Husserl21 e di Maurice Merleau-Ponty22, nei cui scritti e nella cui formazione è particolarmente evidente un esplicito atto di superamento del dualismo cartesiano e della dicotomia spiritualismo – materialismo, in favore di una ripresa dell’integralità organica di un’antropologica con forti radici aristoteliche e scolastiche. Insomma, è praticamente impossibile non cogliere in tutto il personalismo europeo del ‘900 questo duplice tentativo di oltrepassare il dualismo e il riduzionismo moderno, recuperando il cuore della concezione antropologica e metafisica ben inserita all’interno della filosofia cristiana. Prima di andare ad approfondire questa radice storica e teoretica del personalismo, è importante sottolineare un altro aspetto importante che l’antropologia filosofica contemporanea ha recuperato, di contro ad alcune espressioni anti metafisiche del pensiero moderno. Mi riferisco a quel paradigma che Sofia Vanni Rovighi definiva il modello sostanzialista, contrapposto, per l’appunto, al fenomenismo di matrice illuminista. Qui come altrove fa la sua comparsa l’impossibilità teoretica di concepire l’Io soltanto come nesso di rappresentazioni, e il riferimento va a David Hume23, o come unità sintetica dell’a-percezione, pensando in questo caso a Immanuel Kant24. In entrambi i sensi, pur nella diversa impostazione filoso21

HUSSERL E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002. 22 MERLEAU-PONTY M., La fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2012. 23 HUME D., Trattato sulla natura umana, GLF editori Laterza, Bari 2010. 24 KANT I., Critica della ragion pura, UTET, Torino 2013.

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fica che li contraddistingue, permane una medesima impasse che impedisce il passaggio da una visione intuitiva e percettiva del soggetto personale, ancorato alle manifestazioni effettive delle facoltà, all’affermazione del soggetto ontologico e metafisico che ne rende possibile l’esistenza. Come ha spiegato Gottlob Frege, nelle sue Ricerche logiche, la rappresentazione dell’Io presuppone invece un ente sostanziale che sia il portatore delle rappresentazioni, rimandando così la sfera fenomenologica dell’apparire del soggetto al soggetto reale che appare e conosce se stesso25. Il recupero di una considerazione metafisica sull’essere dell’uomo coincide esattamente con quella valutazione che Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche poneva come base della fenomenologia, attribuendo e legittimando così, a partire dalla posizione stessa della dialettica, una riflessione ontologica intorno all’essere e all’essenza dell’uomo26. Eccoci giunti così alle soglie del pensiero classico, e in particolare in quel tipo di prospettiva che, partendo da Platone e Aristotele, giunge, mediante il Cristianesimo, a Tommaso D’Aquino e a Bonaventura da Bagnoregio. Non è assurdo, pertanto, ritenere che le loro diverse e complementari elaborazioni ontologiche sull’uomo siano, al contempo, compimento del pensiero classico e fondamento di quello moderno. Ciò significa effettivamente studiare la filosofia scolastica quale radice del personalismo contemporaneo. La prima osservazione da fare, riferendosi a Tommaso e Bonaventura, riguarda il carattere sistematico delle loro reci25

FREGE G., Ricerche logiche, Guerini, Milano 1988. HEGEL G.W.F., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, GLF editori Laterza, Roma-Bari 2009. 26

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proche proposte speculative, ma anche il modo essenzialmente diverso di proporre il medesimo concetto cristiano di persona. Come ha giustamente osservato Virgilio Melchiorre, entrambi considerano assodata la definizione boeziana di persona come sostanza individuale di natura razionale, per altro ripresa poi da tutti i teologi del XII e del XIII secolo27. La Scuola di San Vittore, in particolare Riccardo, aveva sostituito il concetto di sostanza con quello di esistenza, mostrando così il carattere relazionale e aperto del soggetto personale. La persona è al contempo un’individualità materiale, come ogni altro essere, ma è anche un’individualità aperta e spirituale di natura razionale. Questa seconda dimensione non soltanto s’identifica con ciò che può essere definito mediante la struttura razionale degli esseri animati e intelligenti, ma rimanda a una concezione relazionale della persona, presente in principio e fondamentalmente nella natura divina, al contempo unitaria e trinitaria. La persona, insomma, questo è il traguardo che da Agostino passa ad Anselmo e giunge al XIII secolo, è individualità sostanziale e razionale solo nella misura in cui è spirituale e relazionale28. Di qui il nesso che soprattutto nel ‘200 apparirà con sempre maggior forza tra la definizione di uomo e quella di socialità naturale. L’uomo è un animale sociale perché la sua socialità deriva dal modo aperto e logico di essere della sua natura. Inoltre, altro punto decisivo, rispetto agli altri soggetti personali totalmente immateriali, come le intelligenze create e la 27 28

MELCHIORRE V., Corpo e persona, Marietti, Genova 1997. Cf. GILSON É., Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 2009.

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causa prima, la persona umana ha anche una struttura ontologica composita, che include, come ben dirà Tommaso nel De ente et essentia, sia la forma e sia la materia29. Pertanto appartiene all’essere umano a pieno titolo anche l’insieme dei sentimenti e delle passioni, e quanto attiene immediatamente alla corporeità. Non è la sola forma animata o la sola unità materiale ma la composizione individuale di anima e corpo che conferisce alla natura umana sia la peculiarità della propria complessa ed esistenziale individualità e sia il portato relazionale e intersoggettivo della sua naturale socialità. Le riflessioni, tuttavia, non finiscono qui. Vi è un terzo elemento che deve essere considerato in merito alla natura umana, in parte derivato da queste ultime osservazioni intorno alla materialità e formalità dell’essenza. L’uomo non è costituito da soggetti individuali neutri, ma da sostanze che sono morfologicamente sessuate, vale a dire distinte in maschili e femminili. La distinzione di genere, nell’ottica della filosofia scolastica, proviene da una costatazione biblica, legata alla narrazione della creazione nella Genesi30. Ma proviene pure da quanto Aristotele stesso aveva affermato nel Libro I della Politica in merito alla distinzione maschile – femminile e alla complementarietà di questi due elementi per la generazione e conservazione della specie. Si può ritenere che il famoso passo di Matteo31 sia una specie di luogo di sintesi tra spirito filosofico greco, teologia ve29

THOMAS AQUINAS, De ente et essentia, Ed. Leonina, cap. 2. Gn 2, 7. 31 Mt 19, 3-6. 30

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terotestamentaria e Legge Nuova, istituita con il Cristianesimo. È Gesù che parla, rispondendo ai Farisei, e dice che essi avrebbero dovuto sapere dalla Genesi che Dio creò con Adamo ed Eva la differenza sessuale. Essa è un dato ontologico e naturale di partenza che si lega pienamente alla modalità d’essere originaria della persona come soggetto individuale, composto di anima e corpo, di natura razionale e relazionale. Un approdo che in qualche maniera può rappresentare anche il punto di intersezione e l’obiettivo ultimo del personalismo contemporaneo. Per recuperare adeguatamente le radici ontologiche e antropologiche del pensiero scolastico, occorre fare riferimento a due traiettorie che appaiono immediatamente come essenziali e irriducibili, pur nella convergenza tematica di fondo. Da un lato la proposta speculativa del teologo francescano Bonaventura da Bagnoregio e dall’altro quella del teologo domenicano Tommaso d’Aquino. Come si sa, essi si muovono all’unisono dentro una medesima cornice, ma, al contempo, i presupposti di fondo sono specificamente differenti. In realtà l’opposizione di metodo è già presente in modo organico negli scritti di Anselmo d’Aosta. Il monaco di Bec, infatti, aveva presentato il proprio sistema teologico prima nel Monologion e poi in seguito nel Proslogion, presentando i medesimi argomenti secondo due schemi distinti che troveranno in seguito in Bonaventura e in Tommaso i relativi e divergenti approdi32. Nel Proslogion Anselmo trae spunto dalla dimensione reli32

LITO

Su Anselmo si cf. D’AOSTA A., Opere filosofiche, Laterza, Bari 2008; IPPOB., Dio, il niente e la verità in Anselmo d’Aosta, Aracne, Roma 2015.

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giosa che caratterizza l’esperienza umana, una prospettiva nella quale la fede va verso la ragione, rendendo possibile l’investigazione intellettuale della realtà. Nel Monologion, invece, è la ragione che partendo dall’esperienza s’innalza verso la fede e la conoscenza spirituale. Non a caso Sofia Vanni Rovighi diceva che in quest’ultima opera la parola “Dio” compare soltanto alla fine, mentre nel Proslogion è la preghiera e l’invocazione orante del credente verso Dio a stimolare e a far scaturire la speculazione filosofica. In Bonaventura, nel Breviloquio, troviamo esattamente l’applicazione del metodo anselmiano del Proslogion, tanto quanto, nella Summa theologiae, possiamo rinvenire pienamente la maturazione della linea teoretica e metodologica del Monologion33. È chiaro che nei due grandi maestri della Scolastica duecentesca la questione antropologica acquisisce un’importanza cruciale ed essenziale superiore rispetto ad Anselmo, in ragione del fatto che la riscoperta del De anima di Aristotele, sconosciuto in precedenza, aveva sollevato tutta una serie di interrogativi in merito alla natura umana e al giusto valore della dimensione personale. Il confronto insomma è sempre calibrato sulla teologia ma adesso il nodo da sciogliere riguarda l’uomo, in un ottica cristiana assolutamente inseparabile dalla definizione stessa di Dio. L’Incarnazione, come giustamente ha osservato Joseph Ratzinger34, costituisce un punto di partenza nuovo e definitivo della fede su cui issare la comprensione filosofica della realtà. E l’Incarnazione, per essere pienamente com33

BONAVENTURA, Braeviloquium, Ed. Quaracchi; THOMAS AQUINAS, Summa theologiae, Ed. Leonina. 34 RATZINGER J., Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, p. 180.

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presa, implica una combinata definizione della natura divina e della natura umana, unificate nella persona del Figlio. Bonaventura si sofferma immediatamente sul dato teologico iniziale. Per comprendere l’uomo bisogna capire la condizione originaria dei progenitori prima del peccato originale. Ed essi erano costituiti non soltanto da un’anima immortale ma anche da un corpo pienamente soggetto delle relative individualità di ciascuno. Bonaventura, parafrasando la Genesi35, osserva come il corpo sia creato dal fango e dalla terra in qualità di soggetto personale insieme all’anima immortale. L’anima, certamente, è causa della vita. L’anima è la parte che rende esistente e immortale la persona. Ma il corpo è un co-soggetto dotato di dignità proporzionale alle facoltà che l’anima possiede in se stessa. In tal modo si capisce come e perché il corpo umano, pur essendo composto della stessa materia di cui sono composti gli altri corpi, ha tuttavia un grado ontologico che risulta superiore rispetto alla mera materialità non umana, a causa del suo essere supposito di un’anima immortale. All’inizio il corpo era senza macchia, ma in seguito al peccato la sua struttura ontologica ha subito un deficit che lo ha reso soggetto di privazione sebbene comunque ontologicamente superiore alle altre sostanze materiali di cui fa parte. La distinzione sessuale deriva, dunque, direttamente e originariamente dalle mani di Dio, ed è un dato inerente alla creazione stessa del genere umano, dotata appunto di individualità e corporeità distinte in femminile e maschile, Adamo ed Eva appunto, unite all’individualità razionale e libera della singola anima. 35

Gn 2, 7

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Nel capitolo XI36, Bonaventura completa il suo discorso ontologico sull’essere dell’uomo, asserendo che la produzione divina riguarda l’intero composto, e non una sola delle due parti. Qui sta il superiore orizzonte cristiano per Bonaventura rispetto al risultato della filosofia antica. Se i presocratici avevano privilegiato la dimensione corporea, ecco che invece i platonici hanno optato per la parte spirituale, non riuscendo a tenere uniti insieme entrambi i costituenti della persona, l’anima e il corpo. Aristotele soltanto è giunto a includere nel composto sia la forma e sia la materia, sebbene, tuttavia, Bonaventura rimanga scettico sul risultato positivo effettivo dell’antropologia dello Stagirita. Viziato dal monopsichismo e orientato a un biologismo forte, Aristotele non è giunto veramente a comprendere la persona umana nella sua corretta integralità. La teologia, in tal senso, costituisce per Bonaventura il vero riferimento finale per l’antropologia. E il rifarsi alle riflessioni di Agostino e di Ugo di San Vittore sono una certezza e una necessità. Secondo il teologo francescano è chiaro che, nonostante l’indebolirsi delle facoltà a causa del peccato originale, all’uomo non è venuto meno il portato ontologico derivato dalla creazione, secondo il quale l’essere umano è un soggetto individuale che acquisisce lo stato di essere persona in virtù della composizione di corpo e anima, e in virtù della facoltà razionale espressa dall’intelletto che lo innalza dalla materia all’eternità e all’immortalità dello spirito. La razionalità dunque specifica la natura umana dando all’individualità corporea e spirituale dell’uomo quella modalità di relazione che è riscontrabile nell’esperienza. Corpo diverso 36

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Cf. BONAVENTURA, op. cit., L. II, Cap. XI e XII.

da ogni corpo inferiore, spirito diverso da ogni spirito superiore, l’uomo è individualità personale di natura razionale e relazionale. Questa la conclusione del Dottore Serafico. Di diverso tenore è fin dall’inizio il metodo e l’impostazione filosofica di Tommaso d’Aquino. Non soltanto egli si rifà subito al procedimento razionale ed esperienziale del Monologion di Anselmo37, ma completamente diversi appaiono il ruolo e la funzione che egli attribuisce in genere alla filosofia antica e in specie ad Aristotele. Come ha spiegato molto bene Virgilio Melchiorre, ‘’in Tommaso convergono la tradizione agostiniana della mens-sostanza spirituale e la tradizione aristotelica dell’anima-forma, derivata dalla conoscenza di Aristotele, del De anima specialmente, grazie alla filosofia araba’’38. Nell’articolo 1 della questione 75 della Summa, Tommaso39 parte, in realtà, dal II Libro del De anima, senza riferimento alla Genesi, giungendo poi a un risultato speculativo parallelo, per non dire sovrapponibile, a quello di Bonaventura. Tommaso muove dall’evidenza della corporeità. Ma, invece, di passare subito alla determinazione peculiare che è propria dell’essenza teologica dell’uomo, dimostra l’esistenza dell’anima come causa della vita distinta e unita al corpo. Il ragionamento è semplice e conciso: se l’anima fosse un corpo, allora ogni corpo sarebbe animato. Ma non ogni corpo è animato. Lo è soltanto quello in grado di svolgere funzioni specifiche, quali il nascere, il crescere e il nutrirsi: vale a dire il sentire e il pensare. Dunque è evidente che nei corpi vivi deve 37

Cf. nota 32. MELCHIORRE V., Il corpo, La Scuola, Brescia 1988, pp. 6 ss. 39 THOMAS AQUINAS, Summa theologiae, P. I, q. 75, a. 1, risp. 38

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esserci oltre la materia un principio che li faccia essere tali. E questa causa immanente è appunto l’anima. Come si può costatare facilmente, Tommaso procede secondo uno schema puramente filosofico, noi diremmo scientifico. Non si tratta, in definitiva, di dimostrare l’unione dello spirito alla materia, ma di comprendere che la persona umana è un’individualità non esclusivamente corporea. Come ha spiegato Jacques Maritain, se l’uomo fosse solo materiale, la persona sarebbe equivalente a una sostanza individuale. Ma l’uomo è un essere animato da una forma intellettiva e volitiva, quindi solo la sua sostanza individuale è effettivamente persona. In tal modo è spiegabile anche il mistero Cristologico dell’Incarnazione40. Una persona divina, il Figlio, essendo persona può al contempo essere per natura Dio e assumere la natura umana. La continuità dell’essere persona permette cioè di spiegare perché l’assunzione da parte di Dio della natura umana sia compatibile con la distinzione delle due nature, divina e umana, unificate solo nel supposito, ossia nella persona del Figlio, vero Dio e vero uomo. Rilevante è, oltretutto, il modo in cui Tommaso procede nell’evidenziare non soltanto l’intrinseca unità di forma e materia, di anima e corpo, ma l’immortalità e la relazionalità che ineriscono alla persona. Da un lato, infatti, come atto primo di un corpo, l’anima attiva tutte le funzioni biologiche proprie di un corpo vivente, ma dall’altro la presenza di facoltà, ossia di attività, indipendenti dal corpo, come pensare e volere, spingono la persona a trascendere la materialità sensibile e a resistere ontologicamente alla corruzione della materia. 40

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THOMAS AQUINAS, op. cit., P. III, q. 1, a. 1, risp.

Tommaso adatta, ad esempio, anche dal punto di vista ontologico la teoria dell’astrazione di ascendenza aristotelica a un’antropologica fondata sull’unità sostanziale di anima e corpo. L’intelletto possibile si attiva sempre operando nella sensibilità. Il suo atto trascende la percezione sensibile, ma i suoi oggetti di conoscenza sono essenze riferite a sostanze materiali. Vi è cioè tanto a livello ontologico quanto a livello semantico un’emergenza dell’intelligenza rispetto alla materia, anche se tuttavia essa si espleta sempre a contatto e in collaborazione con la sensibilità. Allo stesso modo l’anima può trascendere le attività corporee solo nella misura in cui il soggetto personale è operativamente supportato dalla corporeità. Anche in Bonaventura, è bene precisare, non vi è un rifiuto della teoria aristotelica dell’astrazione, ma essa rappresenta soltanto l’attività inferiore della razionalità, riferita alla conoscenza sensibile. Perché di per sé l’intelletto può praticamente trascendere i sensi e intuire la verità intelligibile ed eterna, senza il concorso della sensibilità. In questo senso le due prospettive si mostrano divergenti, sebbene, guardando meglio e con maggiore profondità, si comprende che esse tendono a riferirsi a una medesima definizione antropologica e metafisica di persona umana. Anche dal punto di vista della relazionalità Tommaso si avvale esclusivamente di Aristotele. Commentando la politica il dottore domenicano, fedele al suo metodo razionale e filosofico, trae spunto dalla non autosufficienza individuale della persona per affermare la necessità della vita associativa. L’uomo è per natura un’animale politico perché la sopravvivenza implica la messa a disposi55

zione reciproca dei talenti e delle attività per rendere possibile una vita buona. Ma prima ancora di esprimersi a livello operativo ed economico, è la generazione della vita che richiede la combinazione personale della differenza sessuale, la quale consente il sorgere dell’amore umano, del desiderio e della generabilità di nuovi soggetti. Come è stato bene illustrato da Walter Ullmann41, a Tommaso non interessa tanto dare una fondazione cristiana della convivenza sociale, ma rilevare con e attraverso Aristotele il carattere civile e comunitario dell’esistenza personale. E nel caso del rapporto anima-corpo, come anche nel caso della socialità, la dimensione umana è adeguatamente tale solo quando s’identifica con la legge naturale. Perché essa non è altro che la comprensione dell’essenza dell’uomo in quanto tale compresa in modo autocosciente dall’uomo stesso attraverso la propria razionalità creaturale, aiutata dalla fede soprannaturale. Per comprendere tutto ciò sono sicuramente illuminanti le parole esplicative dedicate al tema dal cardinale Newman. Nella Lettera al duca di Norfolk, il pensatore inglese ha fatto notare come non sia la coscienza a generare la verità intorno all’uomo, bensì sia la verità umana, naturale e spirituale, ad apparire alla coscienza come criterio essenziale e finale di perfezione42. Così, Tommaso riesce a trasferire nel quadro fisico e biologico che concerne la materialità corporea della persona tutte 41 42

237.

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ULLMANN W., Individuo e società nel medioevo, Laterza, Bari 1983. NEWMAN J.H., Lettera al duca di Norfolk, Paoline, Milano 1999, pp. 216-

le prerogative trascendenti che sono proprie della dimensione spirituale della fede senza perdere l’unità del composto, l’individualità sostanziale del soggetto, e la personalità razionale e relazionale tipiche della vita umana. Si può riconoscere, quindi, in questo doppio itinerario convergente di Bonaventura da Bagnoregio e di Tommaso d’Aquino la vera radice del personalismo contemporaneo. Emmanuel Mounier, all’inizio del suo breve ma incisivo trattato titolato Il personalismo43, ha spiegato con una felice osservazione il lascito più importante della filosofia cristiana medievale. L’uomo fa parte della natura, è inserito all’interno del creato, di cui deve rispettare e tutelare le condizioni di abitabilità, ma, al contempo, trascende la natura con le sue attività propriamente spirituali. Karol Wojtyła parlava, in questo senso, di un atto personale che va oltre l’individualità sia orizzontalmente e sia verticalmente44. La prima forma di trascendenza riguarda la sfera intersoggettiva, di cui massima espressione è la comunità familiare, fondata sulla congiunzione unitiva del maschile e del femminile, e poi quella politica, baricentro finale dell’intersoggettività comunitaria. La trascendenza verticale è invece quella che Bonaventura individua nella partecipazione intuitiva del pensiero alla verità eterna, alla struttura essenziale che dà senso e forma alla realtà. Il suo punto massimo è l’esperienza religiosa. Pertanto si può dire che la persona è definita totalmente da queste due prospettive: una naturale, di partecipazione al mondo umano come tale, e l’altra religiosa, che implica un 43 44

MOUNIER E., op. cit., pp. 15 ss. WOJTYŁA K., Persona e atto, op. cit., pp. 187 ss.

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rapporto con Dio che chiama in causa direttamente ogni singolo individuo aprendolo alla relazione spirituale e trascendente. Ancora una volta le prospettive più rilevanti della riscoperta della centralità della persona come massima forma espressiva della natura umana richiamano i procedimenti speculativi portati avanti da Bonaventura e Tommaso in seno alla filosofia cristiana. Se per un verso la filosofia sale verso la teologia, coronando un percorso di conoscenza e di ricerca naturale della verità, il cui atto di nascita riposa nella vita e nel mistero stesso dell’esistenza, dall’altro è Dio stesso che si mostra all’uomo come uomo, porgendo il proprio volto gratuito di salvezza e amore alla conoscenza e alla libertà di ciascuno attraverso la fede. Questa dialettica interpersonale è l’espressione ultima della logica dell’amore di Dio, vero punto culminante per comprendere la rivelazione e la salvezza che il cristianesimo annuncia e testimonia da oltre duemila anni, e che l’uomo ricerca insieme alla propria felicità. Un misterioso incontro tra l’uomo e Dio che riassume, all’unisono, l’autentico senso teologico e l’oggettivo valore filosofico del personalismo contemporaneo, le cui radici attingono direttamente alla Scolastica e alla religione cristiana.

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CIÒ CHE RENDE L’UOMO PERSONA. DALL’ERRAMENTO FERINO ALLA RICOSTITUZIONE DELL’HUMANITAS NELLA SCIENZA NUOVA DI G. VICO Antonio Sabetta 1. La scienza della storia (scienza nuova) nell’orizzonte del principio del verum-factum Se c’è un aspetto del pensiero di Vico che raccoglie un consenso pressoché unanime nel ginepraio del conflitto delle interpretazioni che ha accompagnato (nel passato come nel presente) la lettura della sua prospettiva filosofica, questo è il fatto che il filosofo napoletano per primo nella modernità ha indagato il senso della storia umana dando proprio alla storia la forma conoscitiva della scienza (la scienza nuova) che tutti negavano non potendo darsi scienza de singularibus. E invece in Vico le uniche cose che l’uomo può conoscere “scientificamente” (non certo le sole che può conoscere) sono quelle che egli fa, conformemente al principio basilare dell’epistemologia vichiana secondo cui verum et factum convertuntur, ANTONIO SABETTA, Docente di Metodologia e Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense e presso la LUMSA; docente di “Introduzione alla Teologia” presso l’ISSR “Ecclesia Mater” di Roma di cui è anche Preside.

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«verum est ipsum factum». Poiché il verum è allo stesso tempo il contenuto della conoscenza, si dà autentica e completa conoscenza solo nella misura in cui il vero conosciuto è contemporaneamente il fatto; detto altrimenti: si dà conoscenza chiara e perfetta solo di ciò nei confronti di cui il soggetto conoscente ha un rapporto poietico; egli, infatti, in tanto conosce in quanto fa. Nel percorso vichiano, però, il carattere di scienza per eccellenza si estende alla storia che è certamente fatta (anche) dagli uomini ed è proprio questa origine “umana” della storia che la rende perfettamente conoscibile. Allo stesso tempo la difesa del carattere pienamente umano della storia, rappresenta il guadagno di quei principi universali ed eterni su cui costruire un sapere autentico. Inoltre, in quanto la conoscenza della storia è realmente scientifica in forza del principio del verum-factum, allora può avere pretesa di validità il discorso su Dio, cioè una teologia non più naturale (ovvero basata sulla natura) ma civile (cioè basata sulla storia), a cui solo si può dare propriamente il nome di metafisica. Il criterio della scienza è il senso comune (insegnato dalla divina provvidenza) e così essa scopre e descrive il disegno di una storia ideale eterna (formula quasi ossimorica) sopra la quale (cioè avendo essa come fondamento e riferimento normativo) scorrono nel tempo le storie di tutte le nazioni (cf § 7 e 3931) in tutte le loro fasi – inizi, progressi, stati, decadenze e fine (cf § 349) –, quasi a riecheggiare da un lato il motivo platonico del Timeo per cui il tempo è un’immagine mobile dell’eternità, dall’altro la metafisica della partecipa1

Per le citazioni della Scienza nuova ci riferiamo all’edizione curata da Battistini A. per Mondadori (VICO G., Opere, Mondadori, Milano 1990).

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zione in chiave di creazionismo, che scorge nella realtà in quanto creata l’esistenza di un ordine proprio, ordine al quale tanto i singoli quanto i popoli sono chiamati a conformarsi per preservare l’humanitas, ovvero la propria identità. Inoltre la scienza nuova è una metafisica che meditando la comune natura delle nazioni alla luce della provvidenza divina stabilisce un «sistema del diritto naturale delle genti che procede secondo lo schema di tre età; infine essa espone i principi della storia universale» (§ 399). 2. L’uomo come essere naturalmente “sociabile” Se ci soffermiamo un attimo sulle Degnità che sono come definizioni-assiomi nella Scienza Nuova, una sorta di precipitato delle analisi che seguiranno nell’opera, tra le altre cose emerge il dato antropologico di un uomo «non ingiusto per natura assolutamente» (§ CIV) ma debole per la sua natura decaduta. In quanto il peccato non ha distrutto la capacità di fare del bene – cioè il libero arbitrio – la natura umana non è stata ontologicamente cancellata e perciò l’uomo non ha perso quella proprietà essenziale che è l’essere socievole, il che gli ha permesso passare da una condizione di erramento ferino, determinata dal peccato, ad una sorta di ritorno all’humanitas e all’incivilimento. Sull’uomo come essere naturalmente socialis, non il luogo di una solitudine radicale ma di una costitutiva apertura all’altro, Vico aveva insistito nel De uno. In particolare nell’uomo la corporeità, che negli altri esseri, in quanto principio di finitezza, divide e separa, diventa, attraverso il linguaggio (sermo), lo strumento della comunicazione, il cui contenuto è rappresentato dalle communes veri aeterni notiones, le verità eterne uni61

versali che conoscitivamente esprimono l’ordo rerum aeternus. L’universalità del vero, cui gli uomini pervengono mediante la ragione, costituisce il fondamento ultimo della natura socievole, perché comunicativa, dell’essere umano; socievolezza mediata dalla corporeità che così si rivela distinta in sé dalla corporeità ferina, la quale è incapace di condivisione; infatti, dice Vico con una bella espressione, l’uomo ha il volto mentre le bestie hanno la faccia2; e così, mediante il volto, egli può pervenire alla condivisione con il suo simile, poiché nel momento in cui comunica è in grado di palesare nell’espressione del volto una sorta di umana commiserazione (misereri). Come la giustizia procede dalla ragione, in quanto è l’esito di una ragione che utilitates dirigit et exaequat 3 , così la comunicazione, in quanto concerne tutto ciò che riguarda la ragione, diventa il luogo ad communicandas utilitates ex vero et ratione 4 , e tende quindi alla realizzazione dell’equità come utile pareggiato. Il procedere vichiano diventa quasi sillogistico: «Dunque (igitur) l’uomo è destinato dalla natura a comunicare cogli altri uomini le utilità, seguitando le regole determinate dall’equità; la società è la comunanza delle utilità; l’equità è il diritto della natura; dunque l’uomo è naturalmente sociabile»5. Mi sembra sia da sottolineare con particolare attenzione il modo in cui Vico fonda il carattere sociale dell’essere umano, perché da esso scaturisce tutta la sua riflessione giuridica e si comprende la sua opposizione ad una visione con2

«Atqui homo non solum ratione et sermone, sed vultu quoque a brutis animantibus differt (bestiae enim facient habent, vultum non habent)» (De uno XLV, 2). 3 De uno XLIII. 4 De uno XLV, 2. 5 De uno XLV, 2.

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venzionalistica ed utilitaristica della società esemplificata da Hobbes. La fondazione della natura socialis dell’uomo (ricondotta essenzialmente all’evento comunicativo della verità) è metafisica; perché vi sia società, gli uomini devono poter comunicare al di là delle loro particolarità differenzianti. Emerge qui la centralità della categoria di ordine come quell’idea che posta da Dio nell’uomo è l’origine tanto della conoscenza di ogni realtà quanto dei principi delle scienze; e poiché l’ordine naturale è l’anima di qualsiasi governo civile (“ordo naturalis est mens reipublicae, leges sunt lingua”6), ultimamente la società umana ha il suo fondamento nella relazione metafisica con Dio da cui, in definitiva, transitivamente, derivano tutti i governi7, tanto che alla decadenza o al venir meno del rispetto dell’ordine naturale (ubi deficit ordo naturalis) corrisponde sempre la corruzione della respublica8. A partire da questa chiara fondazione metafisica della socialità umana (che determina quindi anche il concreto strutturarsi delle forme di organizzazione sociale), si comprende la polemica di Vico e il rifiuto della concezione giusnaturalistica dello “stato di natura”, giudicata falsa perché, in definitiva, utilitarista. In una prospettiva hobbesiana (e giusnaturalistica) la società rimane uno sbocco non naturale ma una necessità a cui l’uomo si adegua soltanto per le garanzie di tutela che essa può offrire nel calcolo delle utilità, senza quindi nessun riferimento al suo essere naturalmente la modalità del vivere umano che si costituisce in forza e come luogo della comunicazione nella verità.

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De uno CLIII, 203. Cf. De uno, CLII, 1 (199). 8 Cf. De uno CLIII, 2 (205). 7

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3. I princìpi costitutivi dello stato civile secondo il senso comune: religione, matrimoni, sepolture Ora, tornando alla Scienza nuova, Vico con realismo ci ricorda che l’umano arbitrio “di sua natura incertissimo” necessita di essere sostenuto, ma non potendo contare sulla filosofia, poiché essa «non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo»9, la provvidenza si serve del senso comune. Nella Degnità XII, Vico definisce il senso comune il «giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano» (§ 142). Nella degnità immediatamente prima il senso comune viene presentato come il criterio con cui il libero arbitrio oltrepassa la sua naturale e profonda incertezza, giungendo così all’accertamento e alla determinazione circa le necessità e le utilità, una sorta di «mediazione tra la indeterminata disposizione della libertà al giusto e la articolata regolazione giuridica dell’utile»10. Questa nozione, così centrale in Vico, non può essere confusa né con il piatto buon senso, né con una sorta di senso volgare privo di valore conoscitivo, ma, evidentemente, ha un valore peculiare e una dignità centrale. Quali sono, allora, i contenuti dettati da un “comun senso umano”11, i princìpi universali ed eterni sopra i quali tutte vissero e tutte vi si conservano le nazioni perché essi sono all’origine dello stato civile (non più ferino)? Il dato che emerge, condiviso da tutte le nazioni, barbare 9

Degnità VI, § 131. BATTISTINI A., in VICO G., Opere, op. cit., p. 392. 11 Cf. SNII, 123, espressione soppressa in SN, § 333. 10

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o umane, ovunque e sempre, qualunque sia la loro origine e fondazione (in forza del principio stabilito nella degnità 13 secondo il quale il principio dell’uniformità è criterio di verità), è l’esistenza di tre costumi umani, come principi eterni ed universali: religioni, matrimoni (solenni), sepolture. Leggiamo nel § 333: «Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture». Non solo da queste tre istituzioni nacque l’umanità ma esse si devono “santissimamente custodire” perché il mondo “non s’infierisca” (cioè non torni ad essere popolato di fiere) e “si rinselvi di nuovo”. Anzitutto la religione è alla base della nascita della società, è il fattore che permette il passaggio dalla condizione ferina a quella umana, come stabilito dalla degnità 31: «Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano più luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli è la religione» (§ 177). Questo dato essenziale rivela l’errore di Hobbes, che nega la provvidenza e riduce la nascita della società a un contratto sociale e volontario per arginare la violenza, come pure l’infondatezza della posizione di Polibio per il quale se ci fossero i filosofi non ci sarebbero religioni dal momento che, essendo la religione sostanzialmente superstizione, uno stato di sapienti la renderebbe inutile. Poiché, invece, non ci sarebbero state al mondo nazioni se non ci fossero state religioni, ha torto anche Bayle, secondo il quale i popoli possono vivere con giustizia senza Dio (l’idea di una società degli atei). 65

Il secondo principio “umanizzatore” è rappresentato dai matrimoni celebrati solennemente; dove non esistono matrimoni ma “concubiti” vi è “peccato di bestia” e tutte le nazioni naturalmente li aborriscono perché essi appartengono all’«infame del mondo eslege» (§ 336)12. Infine le sepolture; è proprio dello stato ferino lasciare i cadaveri insepolti come cibo di corvi e cani: «Finalmente, quanto gran principio dell’umanità sieno le seppolture, s’immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de’ corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d’esser incolti i campi nonché disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de’ loro morti congionti» (§ 337). Viceversa le nazioni gentili, come le antiche barbare, hanno creduto che le anime errassero inquiete vagando attorno ai corpi non sepolti, affermando così anche l’immortalità dell’anima. Nella sezione IV del libro I (“Iconomica poetica”) Vico ricorda come i “giganti pii”, dislocati sui monti più alti, a differenza dei giganti empi dispersi per le pianure, che lasciavano che i cadaveri si decomponessero senza ricevere sepoltura, «dovettero risentirsi del putore che davano i cadaveri de’ lor trapassati, che marcivano loro da presso sopra la terra; onde si diedero a seppellirgli [… ], e sparsero i sepolcri di tanta religione, o sia divino spavento, che “religiosa loca” per eccellenza restaron detti a’ latini i luoghi 12

«L’oppenione poi ch’i concubiti, certi di fatto, d’uomini liberi con femmine libere senza solennità di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, ella da tutte le nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumi umani, co’ quali tutte religiosamente celebrano i matrimoni e con essi diffiniscono che, ‘n grado benché rimesso, sia tal peccato di bestia» (§ 336).

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ove fussero de’ sepolcri» (§ 529); e da qui iniziò la credenza universale nell’immortalità delle anime chiamate “dii manes”. 4. Tra erramento ferino e ricostituzione dell’humanitas: la nozione di Dio e il passaggio dalla libertà “sfrenata” alla libertà “ordinata” Se dunque la Scienza nuova è la storia ideale eterna sopra la quale si svolge, come su un ordito, la storia di tutte le nazioni (cf § 393), quali sono allora i momenti di questa storia ideale così come la desumiamo dalla testimonianza della storia concreta dei popoli? La distinzione fondamentale adottata da Vico è tra un periodo in cui gli uomini hanno conosciuto l’erramento ferino, in quanto hanno vissuto “eslege”, e il periodo dell’humanitas, dell’incivilimento; lo spartiacque, come si è visto, è rappresentato da quelle tre istituzioni costitutive del sorgere e del permanere di ogni società: religioni, matrimoni solenni e sepolture. Seguendo la suggestiva e geniale etimologia vichiana, «essa umanità ebbe incominciamento dall’“humare”, “seppellire” […]; onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi di tutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furono i primi a seppellire i morti» (§ 537)13. 13

Cf. anche un passaggio della spiegazione della dipintura: «La seconda delle cose umane, per la quale a’ latini, da “humando”, “seppellire”, prima e propiamente vien detta “humanitas”, sono le seppolture, le quali sono rappresentate da un’urna ceneraria, riposta in disparte dentro le selve, la qual addita le seppolture essersi ritruovate fin dal tempo che l’umana generazione mangiava poma l’estate, ghiande l’inverno. Ed è nell’urna iscritto “D. M.”, che vuol dire: “All’anime buone de’ seppelliti”; il qual motto divisa il comun consentimento di tutto il gener umano in quel placito, dimostrato vero poi da Platone, che le anime umane non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali» (§ 12).

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Ora, secondo l’ordine delle cose, si distinguono tre età: precisamente l’età degli dei (o tempo oscuro secondo la classificazione di Varrone) «nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser lor comandata con gli auspici e con gli oracoli», la cui lingua fu quella geroglifica, cioè sacra e muta; quindi l’età degli eroi (o tempo favoloso) «nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi riputata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei», la cui lingua fu quella eroica, cioè simbolica, fatta di metafore e similitudini; infine l’età degli uomini (o tempo storico), «nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie», la cui lingua fu quella “pistolare o volgare” fatta di segni convenzionali per comunicare i comuni bisogni della vita14. Quanto ai luoghi di queste età, selve e tuguri furono propri della prima, villaggi e città della seconda e l’accademia della terza. E poiché gli uomini «prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, di più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze»15, la natura dei popoli (e il corso delle nazioni che ne deriva) è prima cruda (sorgimenti), poi severa (progressi), quindi benigna (stati) e delicata (monarchie), infine dissoluta (fine)16. Da dove derivano e quando nascono, dunque, le nazioni? Gli “autori dell’umanità gentilesca” sono discendenti delle 14

Cf. Degnità 28 (§ 173). Degnità 66-67, §§ 241-242. 16 Cf. Degnità 68, § 243. 15

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razze di Cam (prima), Giafet (dopo) e Sem (infine), i quali rinunciarono alla vera religione, quella del loro padre Noè, e, smarrendo l’istituzione del matrimonio e della società, prostrarono l’umanità nell’erramento ferino, durante il quale gli uomini vagavano senza stabile dimora per la terra, dove si nutrivano di fiere, e inseguivano le donne selvagge, ritrose e schive. Il nomadismo (a cui si era costretti dalla continua ricerca di pascolo ed acqua) fece sì che le madri abbandonassero i figli dopo lo svezzamento e questi dovettero crescere senza udire voci, senza apprendere alcuna abitudine umana, costretti ad una condizione bestiale e ferina17. Movimento, solitudine, disordine, caratterizzano il regresso animalesco delle nazioni dopo il diluvio. Anzitutto il divagare senza direzione “con nefario ferino errore” (§ 336), il “campare fuggendo” (§ 1098), da “empi vagabondi” (§ 56); poi la solitudine e l’isolamento: “raminghi e soli” (§ 62), l’assenza di relazione che genera buio e oblio «perché tali uomini non lasciavano niun nome di sé nelle loro prosperità» (§ 717)18. Dunque il dato da cui bisogna partire per ricostruire e comprendere la storia umana, è l’abbandono della religione vera, professata dal padre di tutte le genti, la quale sola può, come ripete Vico, tenere uniti gli uomini in umana società (cf § 369). Smarrito Dio, l’uomo viene prostrato nello stato ferino e così la prima natura dei popoli è fatta da “crudi fierissimi uomini”, “immani e goffi qual’i Polifemi”, “menti singolarissime poco meno che di bestie” (cf § 191 e 703). Questa condizione, l’“infame nefas del mondo eslege” (cf § 80 e 336), è 17 18

Cf. § 369. Cf. CAPORALI R., La tenerezza e la barbarie, Liguori, Napoli 2006, pp. 99-101.

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caratterizzata dalla “sfrenata libertà bestiale” (cf § 338) e dalla comunione delle donne e delle cose che distruggono il singolo, e quindi la società, poiché generano l’anarchia sul piano sociale (cf § 1102). C’è dunque una libertà da usare correttamente e c’è una libertà sfrenata, senza regole, che anziché aiutare l’uomo a costruire se stesso lo allontana dalla sua autentica condizione umana e civile. Vico definisce la vera libertà «il tener in freno i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscenza, dev’essere della mente, e quindi proprio dell’uomo» (§ 1098); in altre parole la libertà è data all’uomo perché sia rispettato il giusto ordine delle cose in base al quale l’inferiore si sottomette al superiore e, nel caso dell’uomo, il rispetto dell’ordo rerum (cioè della verità così come Dio l’ha posta nella realtà creata) significa porre la ragione quale principio “direttore” della vita a cui subordinare le altre facoltà. Questo dato era emerso con chiarezza nel De Uno dove Vico, dopo aver ribadito, direi agostinianamente, che la ragione era il motivo per cui l’uomo praestat ceteris animantibus (XII) osservava come, secondo l’ordine della natura disposto da Dio, la ragione, elemento che è eccellente nell’uomo, comandasse la volontà; tuttavia ciò che vale nell’uomo incorrotto, non vale più per l’uomo corrotto dal peccato, presso il quale si rovescia l’ordine della verità (e non potrebbe essere altrimenti poiché dal fas si passa al nefas, dal giusto all’errore19), 19

Nel De Uno Vico sottolineando che l’eterna verità è l’essenza del diritto naturale, ricorda anche che dai Latini è stato chiamato sapientemente fas, «vocabolo derivato da fatum, che significa l’ordine eterno elle cose, definito da S. Agostino “decreto e quasi voce della mente divina” (De civ. Dei V,9)» (XLVIII, 1 [62]).

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e di conseguenza la ragione viene sopraffatta dalla volontà ed è ad essa asservita. Dove però non viene più rispettato l’ordo rerum, e la libertà non è più al servizio ma “asserve” la ragione, l’uomo diventa preda degli appetiti sensibili, viene tiranneggiato dall’amor proprio e si disgrega ogni forma di ordine sociale poiché la soddisfazione dei bisogni istintivi, quale unico fine dell’uomo, genera una conflittualità permanente, un caos che è opposto all’ordine (cioè a Dio) senza il quale la società umana “non può reggere nemmeno un momento” (§ 1100). L’alternativa è tra una libertà rispettosa dell’ordine delle cose, e pertanto assoggettata in tutto e per tutto alla ragione, che così permette all’uomo di edificare se stesso e la società, e una libertà derivante dalla trasgressione, cioè ferina, e dunque disumana, che si risolve e introduce la schiavitù delle pulsioni disordinate, in balìa delle quali l’uomo smarrisce l’integrità della sua natura e identità20. Il dissolvimento dell’humanitas, provocato dalla rinunzia alla vera religione, si esprime sul piano individuale nella immane fierezza della libertà bestiale e sul piano sociale nella solitudine degli stessi uomini i quali, di fatto, si incontrano solo in vista di un soddisfacimento delle proprie esigenze fisiche, per poi di nuovo tornare a vivere da soli; ora, come abbiamo visto, per Vico la solitudine è quanto di più disumano possa esserci, perché la natura degli uomini, come viene ribadito sin dall’inizio della SN, «ha questa principale proprietà: d’essere socievoli» (§ 2). Laddove non c’è relazione stabile non c’è più comunione, 20

È proprio infatti della bestia essere schiavo delle passioni mentre «l’uomo, posto in mezzo, combatte con le passioni, l’eroe con piacere comanda alle passioni» (§ 515).

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è contraddetta “la vera civil natura dell’uomo”; così il divenire comune delle donne esprime l’impossibilità di una discendenza, di figli legittimi e dunque di una famiglia da cui e su cui solo può sorgere la società (e il diritto). Tanto è innaturale la solitudine rispetto alla condizione umana, quanto è radicale nella condizione decaduta e ferina, fino al punto che non solo si smarrisce l’istituzione del matrimonio, sostituita dai “concubiti incerti” (§ 369), ma anche la forma più forte delle relazioni, quella della comunione tra madre e figlio, si perde tanto che «le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolare dentro le fecce loro proprie e appena spoppati abbandonargli per sempre» (§ 369). Possiamo dire che qui «la decadenza dell’humanitas tocca il suo punto più acuto, il suo abisso più profondo»21 e inarrestabilmente conduce verso l’ultima aberrazione, cioè lasciare i cadaveri insepolti, che esprime il definitivo smarrimento della dignità dei simili e la sovversione radicale del senso comune. Con crudo realismo, Vico descrive a tinte forti la negazione dell’umano che si produce quando si perde la relazione con Dio e si pensa alla realizzazione di sé non più nella conformazione e corrispondenza-obbedienza all’ordine che Dio manifesta nel reale. L’uomo abbrutitosi e perso in una condizione che non è più la sua, smarrisce anche i suoi più propri connotati “somatici” e corporei. Infatti quei figli, abbandonati al loro destino dall’egoismo delle madri, abituatisi a rotolarsi nudi nei propri escrementi, si nutrirono dei nitriti di cui l’aria era piena a causa degli escrementi, e dovendo inoltre sviluppare tanta forza muscolare per penetrare la robusta e foltis21

GALEAZZI U., Ermeneutica e storia in Vico. Morale, diritto e società nella “Scienza Nuova”, Japadre, L’Aquila 1993, p. 107.

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sima selva, senza timore di dei, di padri e di maestri, crebbero vigorosamente e robusti fino a diventare giganti22. La terra, pertanto, fu sparsa di siffatti giganti dopo il diluvio, che resta per Vico il momento di inizio delle epoche e da cui prende avvio la tavola cronologica. Uomini di giusta statura rimasero soltanto gli Ebrei perché avevano conservato la “pulita educazione” e il timore degli Dei e dei padri. Ad ogni modo bisogna proprio partire da questi giganti stupidi, orribili bestioni, che conoscevano solo mediante i sensi, per comprendere la sapienza degli antichi gentili; tale sapienza fu sapienza poetica, una metafisica non ragionata né astratta, provenendo da uomini senza raziocinio, con sensi robusti e vigorosissime fantasie. Nella condizione dell’ignoranza gli uomini, non conoscendo le ragioni naturali che producono le cose, finiscono con il non considerare le cause seconde e col dare alle cose la loro natura di uomini, secondo quel principio in base al quale «la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell’ignoranza, essa fa sé regola dell’universo d’intorno a tutto quello che ignora»23. Dall’ignoranza derivano le due figlie che sono la meraviglia, per cui più grande è l’effetto ammirato più cresce il senso di meraviglia, e la curiosità, quella proprietà connaturale all’uomo che genera la scienza e che spinge l’uomo a cercare il senso di ogni cosa straordinaria che accade nella natura24. 22

Cf. § 369. Sui giganti cf. MAZZOLA R., I giganti in Vico, in «BCSV» 24-25 (1994-1995), pp. 49-78 (ora anche in IDEM, Metafisica Storia Erudizione. Saggi su Giambattista Vico, Le Càriti, Firenze 2007, pp. 53-89); PAPINI M., Uomini di sterco e di nitro, in «BCSV» 20 (1990), pp. 9-76; PERULLO N., Bestie e bestioni. Il problema dell’animale in Vico, Guida, Napoli 2002. 23 Degnità 32, § 181. 24 Cf. Degnità 39, § 189.

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Ignoranti delle cause, gli uomini si meravigliavano di tutto e consideravano causa di ogni fenomeno una divinità a cui veniva data una sorta di natura creatrice, secondo il modo di agire tipico dei fanciulli che attribuiscono una natura viva a oggetti inanimati, e perciò potevano essere considerati creatori nel senso di poiesi (e di qui poesia): come Dio che, però, «nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una meravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti “poeti”» (§ 376). Dunque i primi uomini, non essendo capaci di formare i generi intellegibili delle cose, si inventarono i caratteri poetici, ovvero i generi o universali fantastici25; come nei fanciulli è debole il raziocinio mentre sono robuste la memoria, la fantasia (essendo quest’ultima non altro che la memoria dilatata) e l’imitazione, così i primi uomini, quali fanciulli del genere umano, furono sublimi poeti e non metafisici, essendo impossibile essere contemporaneamente entrambi, «perché la metafisica astrae la mente da’ sensi, la facultà poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi; la metafisica s’innalza sopra agli universali, la facultà poetica deve profondarsi dentro i particolari» (§ 821). In simile stato di cose, in cui si era toccato il fondo della disumanizzazione, qualcosa di straordinario accadde che determinò l’inizio del corso delle nazioni. Duecento anni dopo il diluvio, quando la terra aveva ricominciato a mandare “esalazioni secche”, nel cielo finalmente ricomparvero tuoni e ful25

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Cf. Degnità 49, § 209.

mini spaventosi che introdussero nell’aria un’impressione molto violenta26. Così quei pochi giganti più robusti, che si erano spinti fino alle alture dei monti, costretti a ciò dalla ricerca delle fiere che lì avevano le loro tane, «spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo» (§ 377)27. Ed essendo robusti solo nel senso, perché privi di raziocinio, «si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove», un corpo che sentisse passioni ed affetti, incapaci come erano di astrarre o spiritualizzare. Così Giove diventa il nome di tutto e Iovis omnis plena28: i tuoni sono i cenni di Giove, la natura la lingua di Giove e la scienza della natura infine la divinazione. Perciò ogni nazione ha avuto il suo Giove (cf § 193) che nacque come “universale fantastico” e già in questa metafisica poetica i “poeti teologi” parlarono di Dio come provvidenza. Ciò che più conta è che la provvidenza divina si servì dell’inganno di temere la falsa divinità di Giove affinché quegli uomini “crudi, selvaggi e fieri”, riconoscessero che la provvidenza divina sovrintende alla salvezza di tutto il genere umano (cf § 385). Non a caso l’etimo di jus, parola centrale della SN, viene fatto derivare da Ious (Giove); è infatti con la provvidenza divina che nacque l’idea del diritto (cf §398). Ben prima dunque della sapienza riposta dei filosofi, Dio viene contemplato sotto l’attributo 26

Cf. De constantia, II, IX, 39-40 (442). «L’umanità prese le mosse dal fulmine» (De constantia, II, IX, 41 [442]). I giganti, infatti, furono «eccitati al timore degli dei dal fulmine. Da ciò il fatto che presso i Greci significava “timore”: donde poi δείδω cioè “temo”. La stessa origine ha il famoso verso: “fu il timore la prima causa della divinità”» (IBIDEM). 28 La citazione proviene da VIRGILIO, Ecloghe III, 60 che la riprende da Arato. 27

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della provvidenza nell’epoca della sapienza volgare. In SNI Vico, riferendosi ai “primi cominciamenti della greca umanità”, e al loro valore esemplare, conclude che per tutto il tempo in cui furono “dello ‘ntutto fondate le nazioni”, «gli uomini naturalmente son portati a riverire la provvedenza, e in seguito di ciò, che la provvedenza unicamente abbia fondate ed ordinate le nazioni» (§ 256). Dall’idea della provvidenza nasce anche la filosofia dell’autorità, poiché l’autorità divina, manifestatasi nell’idea spaventosa di Giove fulminante, capace di atterrire le menti come i corpi (cf § 502), costrinse i giganti nei nascondigli delle grotte e orientò il libero uso della volontà (essendo l’intelletto passivamente soggetto alla verità) per cui cessarono di vagare e divennero sedentari. Il “terrore” della forza, è bene sottolinearlo, non produce la nozione di Dio ma semplicemente la risveglia, poiché se bisogna partire da una qualche “cognizione di Dio”, è comunque vero che essa è in un certo senso innata29 e di essa non sono privi gli uomini «quantunque selvaggi, fieri ed immani» (§ 339). Ad ogni modo, la provvidenza, operante e rivelantesi nella forma della paura verso Giove, costituì presso i giganti l’occasione che fece nascere l’autorità del diritto naturale, poiché stabilitisi nelle terre ne divennero i proprietari (in forza del diritto di lunga possessio); e tale “fermarsi”, cioè l’acquisire una residenza stanziale, diventa il principio, l’inizio delle genti dette “maggiori”. Come scriverà Vico all’inizio della “Morale poetica”, «le menti, per far buon uso della cognizione di Dio, bisogna ch’atterrino se medesime, siccome al contrario la su29

Cf. § 27, dove Vico scrive che il concetto della provvidenza divina è innato nell’uomo.

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perbia delle menti le porta all’ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito» (§ 502). Dunque è la nozione di Dio formatasi presso gli uomini attraverso la mediazione del fenomeno naturale del fulmine, che rappresenta in un certo senso lo spartiacque della storia, il passaggio verso l’umanità, l’abbandono dello stato ferino e il ritornare ad essere realmente uomo dell’uomo30. Sul piano della natura Dio interviene per porre un freno al disordine introdotto dal peccato dell’uomo risvegliando dentro di lui il senso, la percezione di Dio, sebbene in un modo adeguato alla condizione dei giganti incapaci di raziocinio; leggiamo nella Degnità XXI: «nello stato eslege la provvedenza divina diede principio a’ fieri e violenti di condursi all’umanità ed ordinarvi le nazioni, con risvegliar in essi un’idea confusa della divinità, ch’essi per la loro ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e così, con lo spavento di tal immaginata divinità, si cominciarono a rimettere in qualche ordine» (§ 178). Con la nozione di Dio la provvidenza risveglia la coscienza di un ordine che costringe quegli uomini a fermarsi e ad iniziare la “ricostruzione” del mondo e dei primi legami umani, conformemente all’autentica natura dell’uomo che è quella “socievole”. Così a partire dalla ricostituita nozione di Dio, smarrita nel tempo della decadenza dello stato eslege, prende il via la storia regolata dal diritto naturale delle genti che è all’origine di tutte le nazioni. Per Vico, quindi, all’origine del mondo umano vi fu 30

«Vico propone subito, in avvio, quel vincolo strettissimo, tra l’insorgere della religiosità e l’uscita dall’imbestialimento, sul quale s’innalza un muro portante del suo intero edificio concettuale» (CAPORALI R., La tenerezza e la barbarie, op. cit., p. 36).

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l’opera della provvidenza, come una ritrovata coscienza del rapporto con Dio e della dipendenza creaturale nella forma del riconoscimento di un ordine, che trasformò la superbia dei giganti in pietà, madre di tutte le virtù (morali, familiari e civili), sulla quale sono fondate tutte le nazioni. Così la virtù morale ebbe inizio con il conato, per cui spaventati dalla religione dei fulmini, i giganti divennero sedentari, rinunciarono all’abitudine bestiale di vagare come fiere per la terra e si stabilizzarono sulle terre. Ma con il conato nasce anche la virtù dell’animo, quella in forza della quale viene contenuta la libidine bestiale e di conseguenza ognuno «si diede a strascinare per sé una donna [monogamicità] dentro le loro grotte e tenerlavi in perpetua compagnia di lor vita [indissolubilità]» (§ 504); iniziò così il pudore, l’altro vincolo che conserva unite le nazioni31, e si introdussero i matrimoni (la “prima umana società conciliata dalla religione”32) «che sono carnali congiungimenti pudichi fatti col timore di qualche divinità» (§ 505). Matrimoni celebrati con tre solennità: gli auspici di Giove (ovvero l’idea di una sola donna come moglie e quale perpetua compagna di vita), il velo (in segno della “vergogna che fece i primi matrimoni nel mondo”), il prender la sposa con una certa finta forza, a ricordare il gesto dei giganti che trascinavano le prime donne dentro le loro grotte33. Il matri31

Nel De constantia leggiamo che gli uomini, ammoniti dal pudore, «si ritrassero con orrore dall’amore ferino e non senza un qualche segno celeste – dal momento che davano ascolto agli auspici – destinarono a sé spose certe per tutta la vita. E non erravano più come ignavi vagabondi dovunque vi fosse alimento, ma si stabilirono, ricevutine gli auspici, in sedi certe e presero a coltivare la terra di cui per primi avevano preso possesso» (II, III, 10 [406]). 32 SNI, 58. 33 Cf. §§ 506-510.

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monio è per Vico «la prima amicizia che nacque al mondo», la “vera amicizia naturale”, l’elemento primo e costitutivo nel quale, scolasticamente parlando, «si comunicano tutti e tre i fini dei beni, cioè l’onesto, l’utile e ‘l dilettevole» (§ 554). La conclusione di Vico è priva di ambiguità; la pietà e la religione crearono le virtù e resero i primi uomini prudenti (poiché si consigliavano con gli auspici di Giove), giusti (non ficcando il naso nelle cose altrui), temperati (contenti di una sola donna per tutta la loro vita), ma anche forti, magnanimi e industriosi (le virtù dell’età dell’oro). Si trattava di “virtù per sensi”, “mescolate di religione ed immanità” che condussero non di rado al fanatismo della superstizione, quella per cui la fiera gentilità arrivò finanche a consacrare vittime umane sacrificali agli Dei, tanto che Plutarco si chiedeva se fosse più empio credere agli dei o non credervi affatto; ma, per quanto a volte crudele, la religione dei primitivi, adeguata alla loro natura rozza, permise il freno degli istinti bestiali e l’inizio dell’incivilimento, a cui l’uomo non sarebbe mai giunto se fosse rimasto ateo (cf § 518). 5. La provvidenza nella storia In tutto il percorso delle nazioni emerge la storia ideale eterna che null’altro è se non il disegno della provvidenza, la quale rappresenta come la grande regista della storia, i cui attori, gli uomini, costruiscono le loro parti su un canovaccio già scritto, tale da un lato da rendere opera propriamente umana la storia, e dall’altro da impedire che il corso delle nazioni e i destini della storia stessa siano abbandonati ad una causalità irrazionale. Il riconoscimento della realtà come creata da Dio, implica 79

l’affermazione sul piano naturale della provvidenza come concreta forma della “cura” di Dio della creazione, in particolare dell’uomo e dei popoli. La riflessione sulla provvidenza richiede il riconoscimento della creaturalità dell’uomo che conoscitivamente, come nel DA, si esprime in una ultima “gnoseologia dell’umiltà”, l’esatto opposto di un atteggiamento prometeico, e, sul piano sociale, nell’affermazione della dipendenza creaturale come fondamento dell’umanizzazione. In quanto l’origine delle cose, e quindi anche delle vicende umane, resta altra dall’uomo, il vero senso degli eventi non dipende dall’uomo ma lo trascende, e come sul piano epistemologico la conoscenza si configura come ri-conoscenza, così sul piano storico la conoscenza del senso degli eventi si definisce come riconoscimento della presenza e dell’opera della provvidenza. Questa dinamica della conoscenza come dipendenza si esprime nella metafora della luce che apre la SN, cioè della metafisica, che, in quanto illumina, permette all’uomo di conoscere. Per quanto egli sia l’autore del mondo delle nazioni, la storia rimane costitutivamente segno, illustrazione concreta ed empirica di un significato che non si dà senza il segno ma che è irriducibile al segno: la storia ideale eterna, ovvero il disegno della provvidenza che filosofia e filologia, unite nella nuova arte critica – la SN appunto –, conoscono34. 34

«La storia ideale eterna non è un ordine puramente ideale che non regga per nulla il corso della storia; non è neppure la storia stessa; è il significato totale della storia, al quale essa tende continuamente, ma che non arriva mai a realizzare compiutamente. La storia ideale eterna è la sostanza che sorregge la storia temporale dell’uomo, la norma che garantisce l’ordine. […] La trascendenza della storia ideale eterna significa solo che il significato della storia è continuamente al di là degli eventi particolari, di cui gli uomini sono gli autori» (ABBAGNANO N., «Introduzione del 1952», in VICO G., La scienza nuova e altri scritti, Utet, Torino 1976, p. 38).

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Riconoscere che la conoscenza è l’illuminazione e che il senso della storia è già dato e il compito dell’uomo è di corrispondervi con la sua libertà ma non di costituirlo, è tutt’altra cosa da un “titanismo” in cui la ragione è costitutiva del senso piuttosto che ri-conoscente. C’è una insuperabile ricettività rispetto al vero metafisico, per conoscere il quale occorre l’umiltà di quell’“ignoranza buona” che, lungi dal generare boria, conduce alla vera conoscenza. Un’umiltà in cui Vico sintetizza il suo progetto concludendo la SN: «se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio» (§1112), richiamando il Sal 110: “initium sapientiae timor Domini”. Proprio questa radicale apertura all’ascolto della Sapienza operante nella storia permette all’uomo di affermare il disegno che definisce il senso degli eventi e di comprenderlo come “bene”, poiché la storia rivela la benignità della provvidenza, pur nella imperturbabilità dei suoi disegni, dal momento che il darsi di un disegno vince simmetricamente l’arbitrarietà drammatica e in-sensata della necessità e del caso. Dunque non solo vi è un disegno provvidenziale, ma questo disegno è buono: la Provvidenza, infatti, è la manifestazione sul piano creaturale (cosmico e antropologico) dell’identità di Dio quale bontà premurosa che, in modo intelligente (egli è “tutta mente”), cioè dentro un disegno (la storia ideale eterna), si relaziona alla creazione e la fa permanere e tendere verso il suo significato che è “a rischio”, perché la finalità destinale del reale, in quanto implica la libertà dell’uomo, si espone al rischio concreto della sua negazione, come la storia attesta e documenta, mostrando le conseguenze del peccato dell’uomo, da intendere come interrotta corrispondenza al senso, nella conformità al quale l’uomo trova e realizza se stesso. E anche quando le circostanze im81

pediscono di vivere secondo la rettitudine dell’intenzione buona, non per questo l’uomo è abbandonato a se stesso; anche nel caso estremo in cui la storia s’involvesse radicalmente (la “barbarie della riflessione”, ben più drammatica della “barbarie del senso”), tale decadenza non rappresenterebbe mai l’ultimo stadio della storia, e perciò una sorta di tradimento e sconfitta della provvidenza, ma il “fondo” da cui l’uomo può ripartire e ritrovare l’ordine eterno di Dio mediante la pietà, la fede e la verità. Qui trova pieno senso, a mio parere, la dialettica di corso e ricorso. Essendo il mondo civile delle nazioni fatto dagli uomini, quali veri autori della storia e non “marionette” guidate dalla Ragione universale (qualunque sia il senso che a quest’ultima si voglia attribuire), esso è sempre esposto, minacciato, dalla possibilità che l’uomo, poiché libero, si distolga dall’ordine e anziché corrispondervi persegua strade diverse che lo conducono verso la menzogna e la distruzione; tuttavia, poiché la realtà creata è anche insuperabilmente dentro un disegno di bene, è Dio stesso, in quanto provvidenza, che garantisce il bene dell’uomo non tanto in forma straordinaria e “puntuale”, attraverso miracolosi interventi dall’esterno, ma ordinariamente, facendo sì che persino dalla negazione radicale del fine (erramento ferino e solitudine bestiale), risorgano quelle virtù che riconducono al riconoscimento e alla sequela del disegno provvidenziale.

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«COMPLESSITÀ», «MOLTEPLICITÀ», «AUTENTICITÀ» E «PARTICOLARITÀ» DELLA «NATURA UMANA». L’IDEA DI «MENSCHLICHE NATUR» NELLA FILOSOFIA DI HERDER E KANT Andrea Gentile «Per natura (Natur), noi intendiamo il collegamento delle apparenze – riguardo alla loro esistenza – secondo regole necessarie, cioè secondo leggi. Vi sono certe leggi a priori, che rendono originariamente possibile una natura; questi principi a priori sono leggi originarie, in base alle quali l’esperienza stessa risulta possibile […]. Il complesso di tutti gli elementi essenziali di una natura, ossia la sufficienza delle sue note, secondo la coordinazione e la subordinazione, è l’essenza (complexus notarum primitivarum, interne conceptui dato sufficientium; s. complexus notarum, conceptum aliquem primitive constituentium)».

Immanuel Kant «Nel fondo misterioso della natura umana (menschliche Natur) dormono forze ignote come re mai nati. […] Ognuno solleva una grande o una piccola onda; ognuno modifica lo stato dell’anima singola e della totalità, ognuno opera sempre sugli altri, ognuno modifica in loro qualcosa: il primo pensiero nella ANDREA GENTILE, Professore associato di “Filosofia teoretica” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi (Roma).

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prima anima si collega con l’ultimo nell’ultima anima umana. […] L’uomo è la sua anima. L’anima umana è un individuo nel regno degli spiriti, che sente secondo la sua costituzione singolare, è una particolarità viva che si manifesta dall’intero fondo oscuro della nostra interiorità, nella cui imperscrutabile profondità dormono forze ignote come re mai nati.[…] Noi non conosciamo nemmeno noi stessi e solo ad istanti, come in sogno, cogliamo qualche tratto della nostra vita profonda».

Johann Gottfried Herder 1. Immanuel Kant e Johann Gottfried Herder all’Università di Königsberg Johann Gottfried Herder fu allievo di Immanuel Kant, frequentando le sue lezioni dal 1762 al 1764 presso l’Università di Königsberg, dove entrò in amicizia con Johann Georg Hamann, antilluminista, che influenzò profondamente le sue opere. Oltre a Kant e Hamann, Herder conobbe Diderot, d’Alembert, Lessing, Reimarus, Schiller e Goethe, con cui diede l’avvio allo Sturm und Drang, che contribuì in modo determinante alla nascita del Romanticismo tedesco. Sulle lezioni universitarie di Kant presso l’Università di Königsberg è particolarmente significativa la testimonianza di Herder che, nei suoi Ritratti di carattere, contenuti nelle Briefe zur Beförderung der Humanität, così ricorda e descrive Immanuel Kant: «Se penso agli anni della mia giovinezza, mi ricordo con gioia riconoscente la frequentazione e l’insegnamento di un filosofo che fu per me un vero maestro di umanità: Immanuel Kant. Egli aveva nei suoi anni più fiorenti la lieta vivacità di un ragazzo che, credo, lo accompagnerà fino alla più tarda vec84

chiaia. La sua fronte aperta, fatta per il pensiero, era la sede della serenità, ed un eloquio ricchissimo di concetti e piacevolissimo fluiva dalle sue labbra. Lo scherzo, l’umorismo e il buon umore erano ai suoi comandi, ma sempre al momento giusto e, quando qualcuno rideva, egli restava serio lì accanto. Le sue lezioni pubbliche erano una divertente conversazione: egli parlava del suo autore, ma pensava in maniera autonoma, spesso superandolo. La sua filosofia stimolava il pensiero e non posso immaginare quasi nulla di pregiato ed efficace come le sue lezioni. Storia della natura e fisica, storia degli uomini e dei popoli, matematica, filosofia erano per lui le fonti preferite del sapere umano»1. Nelle prime due parti delle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (pubblicate a Riga e Lipsia, rispettivamente nel 1784 e nel 1785), Johann Gottfried Herder, allievo ed entusiasta ammiratore di Kant all’Università di Königsberg, dopo aver dedicato alcune pagine documentate all’unitaria «conformazione organica» della terra e dell’universo, affronta il delicato problema dell’origine dell’uomo, del significato della «natura umana» (menschliche Natur), del suo rapporto con l’ambiente e la tradizione storica. Ma Kant, in due recensioni alla prima e alla seconda parte delle Ideen, pubblicate nella «Jenaische Allgemeine Literaturzeitung» nel gennaio del 1785, non mancava di criticarne esplicitamente i presupposti filosofici e metodologici. Mosso dal proposito di offrire al lettore le linee generali di svolgimento della riflessione herderiana, Immanuel Kant ne riproduceva in più punti considerazioni e conclusioni, riconoscendo nella parte iniziale la novità e l’originalità 1

HERDER J.G., Briefe zur Beförderung der Humanität, in Herder’s Werke. Nach den besten Quellen revidirte Ausgabe, a cura di DÜNTZER H. - DA FONSECA W., XVII, Hempel, Berlin 1869-79, p. 404.

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della trattazione, nonché le qualità letterarie dell’autore, il suo «spirito eloquente e pieno d’ingegno». Tuttavia, progressivamente emergeva anche il profondo contrasto tra due mentalità diversissime. I pur riconosciuti meriti di Herder non compensavano, infatti, l’assenza di precisione logica nella determinazione dei concetti, di scrupolosa distinzione e dimostrazione dei principi, l’abuso, cioè, di un ragionamento «analogico», di affermazioni derivate da stati d’animo, da artifici oratori, da «ipotesi» non confermate scientificamente. Intervenendo sulla possibilità prospettata da Herder di dedurre dall’organizzazione della natura (per gradi successivi di esseri culminanti nell’uomo) la necessità di ammettere una proiezione di tale «scala» in una vita futura dell’uomo stesso, Kant, facendo riferimento ad uno dei motivi centrali della polemica – il destino della natura umana – , osserva: «Il recensente deve confessare che egli non comprende queste conclusioni derivate dalla analogia con la natura [...]. Inoltre, non vi è la minima somiglianza tra l’elevazione di grado dello stesso uomo ad una organizzazione più perfetta in un’altra vita e la scala che si può pensare tra forme e individui diversi di uno stesso regno naturale. In quest’ultimo caso, la natura non ci lascia vedere altro, se non che essa abbandona gli individui alla piena distruzione e conserva solo la specie: ma nel caso precedente si vuole sapere se l’individuo umano sopravviverà alla sua distruzione qui sulla terra e questo processo può forse essere sostenuto facendo riferimento a fondamenti morali o, se si vuole, metafisici, ma mai in base ad un’analogia con la natura visibile»2. 2

KANT I., Rezension zu Johann Gottfried Herder «Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit», in Werke, a cura di Weischedel W., Frankfurt am Main, 1977, vol. XII, p. 795.

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Profondo fu il dolore e la delusione di Herder, quando Kant, spinto probabilmente dal sospetto che il suo allievo avesse ostacolato il successo e la diffusione della sua Kritik del 1781, pubblicò anonime le sue recensioni alla prima e alla seconda parte delle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit che stroncavano lo scritto di Herder sia dal punto di vista filosofico, sia sotto l’aspetto formale e metodologico. Le recensioni di Kant alle Ideen segnano di fatto la definitiva rottura con il suo allievo Herder. Kant, proclamando l’unità originaria della «natura umana» e, nello stesso tempo, salvando l’originalità di ciascun «carattere» individuale all’interno di un «ordine finalistico» nella creazione, aveva fissato le premesse antropologiche della propria riflessione, necessarie per poter affrontare il problema dell’origine e del significato della storia umana, nel rispetto delle profonde esigenze di «sistematicità» scientifica, connaturata nella elaborazione della filosofia trascendentale. Sistematicità che il filosofo di Königsberg, dichiarava di non trovare nella filosofia di Herder, utile ad appagare, secondo Kant, le sole esigenze del «sentimento» e della «fantasia», ma non del «pensiero» e della «ragione». Nella ricerca del vero, secondo Kant, è necessario affidarsi alla sola ragione, aperta sì a vasti progetti, ma cauta nell’esecuzione perché la filosofia, nella sua natura più profonda e autentica, deve essere criticamente consapevole delle sue «possibilità» e dei suoi «limiti». Ed è proprio in riferimento al significato dei «limiti» della ragione umana e sulle finalità della «natura umana», dell’uomo nel cosmo e nella storia che le idee di Kant e di Herder divergono emblematicamente, pur essendo radicate in una comune tradizione scientifico-culturale.

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2. I «limiti» della «ragion pura» nella filosofia trascendentale di Kant Secondo Kant, determinare i limiti della ragione significa definire le diverse fonti, così come i diversi campi, ambiti e limiti di possibilità della conoscenza. In questa prospettiva trascendentale, è necessario richiamare sia la Critica della ragion pura, sia il paragrafo §57 e §60 dei Prolegomeni (La determinazione dei limiti della ragion pura). Nella valorizzazione massima dell’autonomia della ragione, Kant definisce sinteticamente alcuni orientamenti di fondo in questo orizzonte critico-trascendentale: a) stabilire l’origine e le fonti della conoscenza sintetica a priori; b) ricercare e definire le «condizioni di possibilità» (Bedingungen der Möglichkeit) e i limiti costitutivi dell’uso empirico della ragione; c) mostrare l’indipendenza e l’autonomia della ragione da queste condizioni, cioè la possibilità di un continuo autoorientamento e riorientamento in cui la ragione «si determina» (sich bestimmt), cioè determina se stessa nel suo operare; d) estendere così, sebbene solo in senso negativo, il nostro uso della ragione al limite o ai limiti dell’esperienza, rimuovere cioè gli ostacoli che la stessa ragione pone, in base ai principi del suo uso empirico; e) definire, infine, la condizione di possibilità dell’unità assoluta e sintetica della ragione affinché possa essere un principium completo dell’unità pratica, cioè l’accordo sintetico completo della somma di tutti i fini. La determinazione dei limiti della ragione nell’intento di Kant vuole essere come una propedeutica filosofica, cioè un 88

esame critico preliminare che secondo le strutture del trascendentale si traduce e si attua sia in un orizzonte teoretico-razionale-cognitivo, sia in un orizzonte pratico-antropologico. La definizione dei limiti della ragione e della natura umana si configura, pertanto, in un orizzonte negativo come un trattato del metodo trascendentale finalizzato a costituire una filosofia del limite, e non un sistema della scienza in se stessa: tracciare le «condizioni di possibilità» (Bedingungen der Möglichkeit) della conoscenza in rapporto ai suoi limiti e in rapporto alla sua interna struttura costitutiva. L’idea del circuito, cioè dei limiti esterni e costitutivi dei diversi campi e ambiti conoscitivi si è andata delineando nel pensiero di Kant quando ancora intitolava la sua opera (la futura Critica della ragion pura): Limiti della sensibilità e dell’intelletto e immaginava di poterla condurre a termine in pochi mesi. Poi, si è accorto che per capire, definire e determinare i confini della ragion pura doveva definire e organizzare dall’interno nella sua totalità organica tutto il territorio: cioè riconoscerne la sua struttura critico-trascendentale. Questa finalità e questo compito in un orizzonte critico ha richiesto un decennio di lavoro. È rimasta però nel titolo dell’opera una traccia del primitivo significato negativo e/o limitativo che deve essere integrato con il secondo e più positivo significato, se si vuole abbracciare il significato e la struttura del trascendentale in tutta la sua complessità teoretica. Critica, dunque, significa non soltanto esame dei limiti, ma anche dell’interna struttura del sapere. La ragion pura, che forma oggetto della critica, è denominata nel senso più largo come fonte di tutti gli elementi a priori della conoscenza. Con il nome di conoscenze a priori s’intendono quelle conoscenze che sono indipendenti da ogni esperienza. La determinazione dei limiti 89

della ragione è un esame critico della ragione come fonte delle conoscenze pure. Pertanto, secondo Kant, la filosofia deve determinare: a) le «fonti» del sapere umano; b) l’«estensione» dell’uso possibile e utile di ogni sapere; c) i «limiti della ragione» (Grenzen der Vernunft). 3. La critica di Herder a Kant: l’idea di «menschliche Natur» Mentre Kant è portato a determinare i limiti della ragion pura in un orizzonte critico, secondo Herder, al contrario, i limiti della ragione sono in continua trasformazione nel fluire del tempo nell’autenticità espressiva e storica del «mondo della vita» (Lebenswelt). La ragione esprime le sue potenzialità nei differenti contesti in cui l’uomo si trova a vivere, sentire, operare e pensare. In questo orizzonte, l’intuizione fondamentale di Herder è quella della costitutiva «Sprachlichkeit» (linguisticità) e «Geschichtlichkeit» (storicità) della ragione e dell’esperienza umana. Questa prospettiva viene originalmente ripresa e sviluppata da Ernst Cassirer nella raccolta di scritti pubblicati nel 1916 (Freiheit und Form. Studien zur deutschen Geistesgeschichte) e nel primo volume della Filosofia delle forme simboliche, dal titolo Il linguaggio (Die Sprache). Cassirer rileva che in Herder il superamento del dualismo kantiano di materia e di forma conduce ad una visione della ragione umana inscindibilmente connessa ai sensi e al linguaggio. In questo orizzonte, nel rilevare la genesi sensibile e percettiva del linguaggio3 in rapporto al 3

Cf. FORSTER M., After Herder. Philosophy of Language in the German Tradition, Oxford University Press, New York 2012.

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mondo della natura e delle passioni suscitate nell’animo umano, la facoltà linguistica umana esprime la sua libertà creativa. Secondo Herder, la «natura umana» (menschliche Natur) è animata da una tendenza intrinseca a sviluppare le sue potenzialità e a svilupparle in modo da favorire la sua natura più profonda e autentica. L’uomo è un organismo di psiche, corpo, ragione, coscienza, sensazioni, intuizioni, emozioni. La natura umana ha una sua natura sensitiva, intuitiva, conoscitiva, creativa e volitiva. Ognuno è un universo. Ognuno di noi è un’individualità irripetibile. La «natura umana» è energeia: è potenzialità produttiva e creativa. La «menschliche Natur» ha in sé a livello potenziale una forza, un’energia interiore, diretta allo sviluppo delle capacità utili alla sua espressione più autentica, alla sua autoregolazione e autorealizzazione. Herder chiama questa energia interiore «tendenza attualizzante» che, oltre ad essere una spinta vitale e innata in tutti gli organismi viventi, è anche il fondamento della motivazione interiore. Il concetto herderiano di «menschliche Natur» porta Herder a formulare un nuovo concetto di «ragione» (Vernunft), profondamente e qualitativamente diverso sia rispetto alla «Raison» dell’Illuminismo francese, sia rispetto al concetto di «ragion pura» espresso nella filosofia trascendentale di Kant. Secondo Herder, la ragione è «il complesso organico» di tutte le «forze umane», il «complesso governo» della sua «natura sensitiva, intuitiva, conoscitiva, creativa e volitiva». La «conoscenza» (Erkenntnis) è una «metaschematizzazione»4: il 4

Sulla correlazione semantica tra «schema», «conoscenza» e «metaschematizzazione», cf. lo studio storico-critico di GAIER U. - SIMON R., Zwischen Bild und Begriff. Kant und Herder zum Schema, Wilhelm Fink, München 2010.

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dato sensibile proveniente dall’esterno, non si trasforma immediatamente in pensiero, ma viene elaborato dall’intelletto: «l’intelletto può esprimere per mezzo di parole i caratteri da lui colti, può parlare in modo che si vedano le cose e che li si intenda». La ragione è la facoltà che interviene successivamente all’intelletto, giudicando i fatti ordinati dall’intelletto, elaborandoli secondo una connessione propria, particolare dell’individuo – la sua cultura – espressa dal linguaggio5. Il concetto non s’identifica con la realtà, ma «è soltanto una notizia di essa, così come possiamo averla solo dal nostro intelletto, dai nostri organi, dalla nostra individualità. Ancor meno la parola: essa deve solo invitarci a conoscere la realtà, a trattenere e riprodurre il concetto; concetto e parola non sono la stessa cosa. La parola deve essere un’indicazione del concetto, una sua espressione naturale ed autentica»6. 4. La Metacritica alla Critica della ragion pura Sullo sfondo di queste riflessioni, nel saggio Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, pubblicato nel 1799 (a quasi 5

Questo è un tema ricorrente nell’arco complessivo delle opere di Herder, già a partire dal suo primo scritto Über den Fleiss in mehreren geleherten Sprachen (1764): «la lingua è una pianta che si trasforma secondo il suolo e il clima. Ogni lingua ha il suo carattere nazionale e noi abbiamo degli obblighi verso la nostra lingua materna, che corrisponde al nostro carattere, alla nostra maniera di pensare». La lingua è una «voce profonda, legata da vincoli oscuri, ma vitali, al carattere della nazione e del suo divenire vegetativo, spontaneo e irrazionale» (p. 29). 6 HERDER J.G., Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, p. 68, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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vent’anni dalla pubblicazione della prima edizione della Critica della ragion pura), Herder critica il dualismo kantiano tra la sensibilità e l’intelletto. Non esistono forme pure a priori che organizzano la conoscenza: questa trova, invece, negli stessi organi dei sensi, che unificano la molteplicità dei dati della realtà, la forma strutturante dell’esperienza. L’apriorismo kantiano è una «forma vuota» per Herder, dal momento che sarebbe una «forma pura» di conoscenza a priori che non deriva dall’esperienza. «Nel concetto dell’a priori kantiano non è indicato in base a che cosa siamo in possesso di questa conoscenza e se sia giunta nella nostra soggettività senza e prima di ogni esperienza»7. Nel secondo capitolo della Metakritik (Metacritica della cosiddetta Estetica trascendentale), Herder osserva che lo spazio e il tempo sono in realtà le «dimensioni» nella quali l’individuo agisce nella «storia»: il «luogo», il «tempo», insieme con «l’agire», la «forza», secondo l’interpretazione herderiana, sono l’espressione della vita dell’individuo nel suo sviluppo. «Un’esistenza viva, non appena viene posta, si fa esperienza: è esperienza in se stessa, è un essere che si comprende e si rivela nello spazio e nel tempo di forze interne. Il prima e il dopo di questo essere sono congiunti, perché un prima non potrebbe esistere senza un dopo che da quello deriva»8. Da una lettera scritta da Herder a Gleim9 del 5 aprile del 1799 (data di pubblicazione della Metakritik), sappiamo che 7

IBIDEM, p. 65. IBIDEM, p. 91. 9 An Johann Wilhelm Ludwig Gleim, Weimar, 5 aprile 1799, in HERDER J.G., Briefe, a cura di DOBBEK W. - ARNOLD G., Hermann Böhlaus Nachfolger, 1984, VIII, p. 46. 8

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Herder lavorava al progetto di una metacritica della ragion pura da circa un ventennio. La storia di questa opera precede, dunque, di molti anni la sua effettiva stesura e in essa confluiscono i principali orizzonti teorici dell’intera riflessione filosofica herderiana che, proprio nel complesso contesto speculativo della Metakritik, sembrano trovare la loro espressione teoreticamente più compiuta e, al tempo stesso, più problematica nella critica al trascendentale di Kant. Questa critica è espressa da Herder nel capitolo Metacritica della cosiddetta Analitica trascendentale e nel capitolo dedicato all’analisi della correlazione semantica tra lo schematismo e l’appercezione trascendentale: Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto. «Nella nostra lingua – osserva Herder – la parola “ragione” (Vernunft) deriva dal verbo “esaminare” (Vernehmen), “collegare” (zusammennehmen) scrupolosamente; significato, questo, espresso dalla desinenza della parola. In altre lingue, la parola “ragione” significa “relazione”, “causa”, “calcolo” (ratio, logos). Tutti questi termini indicano la natura e l’uso della ragione, ma anche il suo possibile abuso. Infatti, nel caso in cui non si colleghi tutto ciò che deve essere collegato, o non lo si faccia in modo corretto, che non si possiedano tutti i dati, oppure che non se ne tenga conto nel modo giusto, viene meno la funzione stessa della ragione»10. Sullo sfondo di questa definizione del concetto di «ragione», Herder osserva come nella Critica della ragion pura siano completamente e inspiegabilmente trascurati i problemi del linguaggio. Herder si domanda: «Come è possibile criticare la ragione umana senza un esame critico del linguaggio umano?». Il paradigma della filosofia trascendentale, elaborato 10

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HERDER J.G., Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, op. cit., p. 119.

da Kant, cerca di prendere in considerazione le «condizioni di possibilità della conoscenza umana» (Bedingungen der Möglichkeit der meschlichen Erkenntnis). Ma in questo orizzonte trascendentale – osserva Herder – «non è analizzato criticamente il ruolo svolto dal linguaggio». Il linguaggio è «il criterio della ragione, di ogni vera scienza dell’intelletto; chi la sovverte, ammesso pure che lo faccia servendosi del più sottile acume, sovverte la scienza, sovverte l’intelletto del popolo cui appartiene. E questo linguaggio si chiama critico, ossia per l’esattezza, determinato, chiaro anche nei principi? Difficilmente il nome di critica è stato usato tanto a sproposito, come nel caso di questo linguaggio critico […]. In tutte le sue sezioni, infatti, la Critica della ragion pura è accompagnata dall’erroneo concetto del suo nome. Il termine estetica trascendentale indica una teoria del sentire che astrae da ogni sentire; l’analitica e la dialettica trascendentale fanno riferimento ad una capacità dell’anima opposta a quella indicata dal loro stesso nome. L’analitica si occupa della dimostrazione, che spetta alla ragione; la dialettica disputa il probabile, che appartiene alla logica e alla retorica. […] La cosiddetta Critica della ragion pura è una forma ibrida di logica e di metafisica e, se accostate le sue parti, avrete un poema che si fa e si disfa, un gioco fine a se stesso»11. Secondo Herder, non possiamo ridurre tutta la conoscenza umana al trascendentale kantiano. La natura umana, la persona nella sua autenticità ha una sua originaria complessità, particolarità e individualità irripetibile nel fluire del tempo. Ognuno, ogni persona nella sua complessità, particolarità e individualità irripetibile, ha la facoltà di intuire, sentire, 11

IBIDEM, pp. 169-170.

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avvertire alcuni aspetti della realtà nel fluire del tempo che di fatto sfuggono a qualsiasi processo critico, trascendentale, analitico e sintetico. L’istantaneità, la puntualità, l’immediatezza dell’atto intuitivo, originario e irripetibile della nostra soggettività nella sua intuizione creativa non potrà mai essere schematizzato o razionalizzato all’interno delle «condizioni di possibilità» dell’esperienza e della conoscenza, così come sono espresse nella filosofia trascendentale di Kant. La critica herderiana alla Critica della ragion pura, sia sotto il profilo contenutistico, sia in un orizzonte metodologico, è sintetizzata nel capitolo 7 della Metakritik: «Il fallimento della Critica della ragion pura». Secondo Herder, la ragione umana non è mai una «ragion pura» (reine Vernunft) come in Kant. L’intera Critica della ragion pura – osserva Herder – è «una finzione fondamentale»: questa finzione è l’ipotesi di una ragion pura , avulsa dal reticolo di legami che costituiscono la base fondamentale dell’esperienza colta nella molteplicità e autenticità delle sue forme nel fluire del tempo. Nella filosofia di Herder, la ragione non è mai «pura»: la ragione umana non è mai separabile dal linguaggio, dalle singole, particolari e molteplici forme che il linguaggio concretamente assume. «Il mancato chiarimento del nesso tra ragione e linguaggio – conclude Herder – non può che determinare il fallimento della Critica della ragion pura»12. 5. Sulla soglia Nell’interpretazione di Herder, la ragione umana nel corso del fluire del tempo prende continuamente coscienza dei suoi 12

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IBIDEM, p. 157.

limiti. Il limite non è statico. Il limite si costituisce nel suo dinamismo nel fluire del tempo. Il limite è una soglia. Nella sua natura semantica, la soglia richiama il significato del termine latino «limen» e non di «limes». Che cos’è la soglia? La soglia è il «limen»: è una fase o uno stato soggettivo di passaggio, di transizione, di trasformazione che si configura e si caratterizza nella sua dinamicità: è una zona di confine, che implica una trasformazione, un dinamismo. Il «limine» può essere identificato con una soglia o come un lungo corridoio o un tunnel che rappresenta il necessario passaggio della nostra soggettività verso un nuovo orizzonte. La soglia implica un dinamismo, un attraversamento: quando ci dirigiamo da un luogo ad un altro, per un tratto ci si allontana, poi ci si avvicina, ma è decisivo il punto e il momento dell’attraversamento. È questo stare nel mezzo, questo luogo «terzo» (diverso dall’origine e dalla meta, diverso dalla partenza e dall’arrivo) quello che ci fa mancare il fiato, quello che ci fa tremare nella nostra interiorità, nel nostro tempo interiore. La riva abbandonata è alle spalle e quella verso cui siamo diretti ancora non si vede: la riva da raggiungere è nell’ombra. Questo crinale decisivo e talvolta terribile, è quello che chiamiamo «essere sulla soglia»: è il luogo della paura e del naufragio, ma anche della sorpresa, della vita autentica, è il luogo dove la nostra soggettività arriva al suo «Grenzpunkt», al suo «punto-limite»13 ed è chiamata a fare delle scelte per dare un senso alla nostra vita e alla nostra esistenza. Ed è pro13

Sulla correlazione semantica tra «soglia» (limen) e «punto-limite» (Grenzpunkt), cf. il primo capitolo Orientarsi «al confine». Limite, soglia, frontiera, punto-limite, in GENTILE A., Sulla soglia. Tra la linea-limite e la linea d’ombra, IF Press, Roma 2012.

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prio lì sulla soglia, nel momento in cui la nostra soggettività è al limite e sperimenta il suo «punto-limite», che forse si giocano dei momenti determinanti per le nostre scelte, le nostre decisioni, le nostre intuizioni, per il nostro tempo interiore, nel corso del fluire del tempo della nostra esistenza. Nella sua natura originaria e irripetibile, nel suo «punto-limite», la soglia è la «terra di nessuno»: è la terra selvaggia, autentica e originaria dove poter ritornare ad «essere se stessi». La soglia è l’orizzonte della speranza. 6. La correlazione tra «menschliche Natur», «Logos», «Vernunft» e «Bildung» Nel saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, pubblicato nel 1774, sullo sfondo della correlazione semantica tra «menschliche Natur», «Logos», «Vernunft» e «Bildung», Herder individua nella storia, nel linguaggio, nella religione, nella filosofia, nella poesia, nell’arte, nella creatività e nella libertà, la naturale espressione di un popolo, la forma immediata della sua «coscienza», la manifestazione della sua spiritualità, della sua «anima profonda» nella sua natura autentica, particolare e irripetibile. In questo orizzonte, il filo conduttore della filosofia herderiana può essere individuato nella sua riflessione sul concetto di «menschliche Natur» (nella correlazione con il significato di Bildung nella storia), alla quale possono essere ricondotte tutte le articolazioni del suo pensiero: una concezione su cui Herder riflette incessantemente, apportandovi continue modifiche, e che giungerà ad una formulazione esaustiva con la pubblicazione dei volumi Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, fino alle Ideen 98

zur Philosophie der Geschichte der Menschheit: opere destinate ad esercitare un’influenza decisiva sul pensiero romantico e sullo storicismo tedesco di fine Ottocento. Secondo Herder, la «conoscenza» (Erkenntnis) non è una facoltà astratta, bensì una «forza» risultante dalla «totalità» dell’individuo nella sua «complessità», «autenticità», «individualità» e «particolarità». La ragione è «il complesso organico» di tutte le «forze umane», il «complesso governo» della sua «natura sensitiva, intuitiva, conoscitiva e volitiva». La ragione è la facoltà che interviene successivamente all’intelletto, giudicando i fatti ordinati dall’intelletto, elaborandoli secondo una connessione propria, particolare dell’individuo – la sua cultura – espressa dal linguaggio. Herder ritiene che la «scienza naturale dello spirito» deve cedere il posto alla «conoscenza storica»14: lo storico dovrà limitarsi a spiare l’anima nelle parole, negli atti e nelle opere per cogliervi i «tratti originali» e spiare gli istanti, in cui «l’anima profonda dei popoli» si spoglia e si offre nella sua nudità incantevole, particolare e irripetibile. 7. L’uomo è la sua anima «L’anima umana – osserva Herder – è un individuo nel regno degli spiriti, che sente secondo la sua costituzione sin14

HERDER J.G., Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, p. 115, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, a cura di SUPHAN B., XXXIII volumi, Weidmann, Berlino 1877-1913, rist. VERLAG G. O., Hildesheim, 1967-1968, rist. VERLAG G. O., Hildesheim, 1994-1995, introduzione e traduzione italiana di GENTILE A., HERDER J. G., Ancora una filosofia della storia per la formazione dell’umanità, Talete Edizioni, Roma 2012.

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golare: è una particolarità viva che si manifesta dall’intero fondo oscuro della nostra interiorità, nella cui imperscrutabile profondità dormono forze ignote come re mai nati»15. «Noi non conosciamo nemmeno noi stessi e solo ad istanti, come in sogno, cogliamo qualche tratto della nostra vita profonda»16. Punto di riferimento di questa teoria herderiana è la psicologia di Leibniz: l’idea dell’unità e totalità dell’individuo e delle forze oscure operanti nel fondo misterioso della sua interiorità. Herder critica i filosofi sistematici dell’Illuminismo, che privilegiano l’intelletto astratto, ostinati nell’ordinare e classificare e che in realtà ignorano la «particolarità dei singoli»17, quella particolarità viva, naturale, vitale che sale dall’intero «fondo oscuro della nostra anima». Da questo fondo oscuro, Herder fa salire quel «sentimento interno» che ci dà la certezza della nostra esistenza senza deduzioni e giudizi; è quanto vi è di più vitale e autentico nella nostra soggettività: «idee oscure, le più vivaci, le più numerose, da cui l’anima trae i più fini e più forti impulsi della nostra esistenza, il maggiore contributo alla nostra felicità e infelicità»18. Chi intende studiare la «natura umana» (menschliche Natur) dovrà allora «spiare gli istanti in cui l’anima si spoglia e si offre». Questa conoscenza è un «sich hineinfühlen», una sorta di empatia, un sentirsi negli altri, un continuo immedesimarsi nell’altro. «La conoscenza avviene stringendoci alla maniera 15

HERDER J.G., Über Thomas Abbts Schriften, 1768, p. 258, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995. 16 IBIDEM, p. 259. 17 IBIDEM. 18 HERDER J.G., Kritische Wälder, 1769, IV, p. 27, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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di pensare e immedesimarsi nell’altro e apprendendo la saggezza come attraverso un bacio»19. In questa dottrina herderiana dell’apprensione immediata, Herder è vicino, molto più del suo maestro Hamann, ad un vitalismo panteistico e al pensiero di Shaftesbury. Come nel fondo dell’anima, così anche nella natura, Herder avverte la presenza di forze palpitanti: «da questo oscuro fondo sotterraneo sorge anche la nazione, simile ad una pianta». Come ogni individuo, anche le nazioni hanno caratteristiche proprie, particolari, individuali, derivanti dalla loro generazione. La vera particolarità della nazione è di riflettere in modo autentico la propria «particolare individualità». L’individuo è «particolarità». Ma il particolare è un termine negativo. Anche se pretende di ammettere una superiore armonia nella «molteplicità», questa armonia resta pur sempre un postulato estrinseco, prestabilito. La particolarità deve necessariamente ridursi alla negatività assoluta, cioè al «fondo oscuro impenetrabile» dove Herder colloca un’anima: l’«anima della nazione»20. In questo orizzonte, Herder riconosce che il caratterizzare e il generalizzare, il dipingere un intero popolo, alla maniera degli illuministi, era un «fare delle astrazioni». Herder definisce così qualcosa di vivo, concreto e reale: l’«anima profonda dei popoli» che non può essere descritta schematicamente, ma con cui si poteva simpatizzare, rivivendone le segrete tendenze e facoltà. Il mito dell’«anima delle nazioni» nasce in opposizione alla dottrina illuministica dei caratteri nazionali. Sul rap19

IBIDEM. Cf. BARNARD F., Herder on Nationality, Humanity and History, McGill Queen’s University Press, Montreal 2004. 20

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porto tra gli individui e l’anima collettiva, Herder richiama il concetto di creazione e Provvidenza. «Solo il Creatore è colui che pensa l’intera unità, di una e di tutte le nazioni, in tutta la loro molteplicità, senza però lasciarsi sfuggire l’unità»21.

8. Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit Il saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit è un ritorno al concetto di Provvidenza. Herder vi ha ripreso in grande stile il tema finale della dissertazione sulla lingua; è ricorso al concetto di «sviluppo naturale» secondo il piano e le intenzioni della Provvidenza ed ha ripreso la polemica dello Sturm und Drang contro lo «spirito filosofico del secolo, che odia tutto ciò che è meraviglioso e nascosto»22. La Provvidenza procede secondo natura, sviluppando il suo corso nel divenire della storia: direttamente non promuove nulla, ma raggiunge il suo scopo, destando nuove forze e spegnendone altre. «Questi sviluppi sono così semplici, naturali, delicati e meravigliosi, come li vediamo in tutte le produzioni della natura»23. Pertanto, nel corso del fluire del tempo si profila «la vita dell’età dei Patriarchi, che diede all’umanità le sue inclinazioni più naturali, più autentiche e più semplici»24. Ecco il diffondersi di quel «dispotismo orientale», che gli illuministi criticavano e 21

Cf. HERDER J. G., Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, p. 4, in HERDER J. G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995. 22 IBIDEM. 23 IBIDEM, p. 39. 24 IBIDEM, p. 25.

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che altro non era che «l’autorità paterna nell’infanzia del genere umano»25. Ecco, infine, la religione, operante anch’essa in questo stadio dell’infanzia attraverso l’«immaginazione», il «timore» e «l’entusiasmo». La Provvidenza guida il suo filo dall’Eufrate e dal Gange fino al Nilo e alle coste fenicie. «I Fenici, mercanti e navigatori, sono l’adolescenza; la Grecia è la gioia giovanile, grazia, gioco e amore. I Romani sono la maturità del destino del mondo antico». Secondo Herder, i Greci furono «imitatori» della civiltà degli Egiziani e dei Fenici, ma «trasformarono nobilmente quanto ricevettero, dando a tutto un’impronta originale». Da questa applicazione del concetto di «attività» allo «schema», si intravede un’anticipazione dell’interpretazione dialettica. «L’egiziano senza l’istruzione infantile orientale non sarebbe egiziano, il greco senza la formazione scolastica non sarebbe greco; il loro odio reciproco rivela lo sviluppo, l’avanzamento, i gradini della scala»26. Così, Herder chiama «avidi e truffatori» i Fenici, pur riconoscendo quanto deve loro la civiltà dell’Europa e spezza lo schema del «ciclo storico» quando intende spiegare la fine del mondo antico. Qui non parla di delicati sviluppi e risolve la questione, considerando la catastrofe come l’effetto di una violazione dello sviluppo naturale: «l’Impero Romano distrusse i caratteri nazionali, gettò tutto dentro una sola forma, si ridusse ad una macchina e cadde»27. Solamente dopo la sua rovina, la vita riprese un nuovo orizzonte: «un mondo completamente nuovo di lingue, costumi, inclinazioni: un immenso mare aperto di nuove nazioni»28. 25

IBIDEM. IBIDEM. 27 IBIDEM, p. 26. 28 IBIDEM, p. 28. 26

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Questa interpretazione storica riflette il pensiero filosofico di Herder e introduce nello schema dello sviluppo un principio centrale: il libero arbitrio. La storia procede secondo natura, finché l’intelletto umano non interviene a contrastarne lo sviluppo: è l’intervento dello Stato illuministico, che spegne le tradizioni, ignora i caratteri nazionali e riduce tutto ad un meccanismo astratto. Se per i Romani, Herder ricorre all’immagine della «virilità», per l’Impero Romano ricorre all’immagine della «macchina», che era l’ideale politico dell’Aufklärung. Nell’interpretazione di Herder, nel corso della storia si profila e si realizza «il ringiovanimento del mondo antico ad opera dei popoli germanici»: le belle leggi e le conoscenze romane non potevano sostituire le forze scomparse, che non avvertivano più uno «spirito vitale». Nel Nord Europa nacque un «uomo nuovo»: si diffusero non soltanto «nuove forze, ma anche nuovi costumi, nuove tradizioni. Non portarono soltanto energie umane, ma un grande numero di leggi e istituzioni sulla scena della storia. Questi popoli del Nord disprezzavano le scienze, le arti, lo sfarzo che in passato erano andati diffondendosi nell’umanità. Infatti, portarono non le arti, ma la natura, non le scienze, ma un sano spirito nordico, costumi non raffinati, ma forti e buoni, anche se selvaggi. E tutto questo insieme andò diffondendosi: grandioso e mirabile avvenimento! E le loro leggi, che diffondevano il coraggio civile, la giustizia, il senso d’onore, la fiducia nella ragione! Il loro feudalesimo, scalzando le tumultuose, popolose e sfarzose città, ricoltivò le terre, ridiede un lavoro agli uomini, alla gente sana e onesta. Al di là dei bisogni quotidiani, si valorizzarono le idee di castità e di onore, nobilitando così la parte migliore dell’animo umano»29. 29

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IBIDEM, p. 47.

Sullo sfondo di queste riflessioni, Herder inizia la riabilitazione romantica del Medioevo. Come Hurd, nelle Letters on Chivalry, aveva paragonato il sentimento nordico dell’onore cavalleresco allo spirito delle età eroiche dei Greci, così anche Herder ammira ed esalta nel Medioevo «il coraggio, lo spirito d’avventura, la galanteria e la nobiltà d’animo, che si componevano in un tutto che ora, tra i Romani e noi, è come un fantasma, come un’avventura romantica»30. Come per Möser, questa rivalutazione herderiana del Medioevo faceva parte della sua critica all’Illuminismo. La società feudale, fatta di piccoli legami, sezioni e coordinamenti e tante articolazioni tendeva a mantenere tutto in fermento. Tuttavia, Herder non ha fatto del mondo medievale un ideale politico-sociale come faranno i romantici. Il Medioevo è soltanto «la grande cura dell’intera specie, attraverso una profonda rivoluzione»31. In questo orizzonte, Herder critica il sistema politico moderno, la moderna «arte di governo», la filantropia, il sistema di commercio, il cosmopolitismo che dovrebbero rendere felici gli uomini, ma in realtà li hanno ridotti alla passività: ad un «gregge filosoficamente governato»32. L’essenziale motivo polemico di questa sua «filosofia della storia» è la rottura di ogni principio razionale universale a vantaggio di principi storici nazionali, particolari e individuali. Inoltre, è negata ogni verità assoluta: «in un certo senso ogni perfezione umana è nazionale, relativa al secolo, ed è considerata più esattamente individuale». Infine, è negato il criterio illuministico di un progresso verso una maggiore virtù e felicità dei singoli: «ognuno 30

IBIDEM, p. 50. IBIDEM, p. 55. 32 IBIDEM. 31

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di noi è un’individualità irripetibile nel fluire del tempo». Secondo Herder, la natura ha posto disposizioni molteplici nel nostro cuore, ma quando queste si sono sviluppate, l’animo si abitua alla loro cerchia, che diventa un orizzonte. L’individuo assimila, ma oltre un determinato «punto-limite», la natura lo arma con l’insensibilità, la freddezza, la cecità, che possono divenire disprezzo, egoismo, odio. «Lo si chiami pure pregiudizio, volgarità, limitato nazionalismo, ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera, più fervidi e quindi più felici nel ricercare la vita autentica e vivere secondo natura»33. 9. La lotta contro la ragione e la critica all’«intelletto astratto» dell’Illuminismo La lotta contro la «Raison» e l’«intelletto astratto» dell’Illuminismo, la critica al trascendentale di Kant, alla storiografia di Voltaire, Hume, Robertson e Iselin si trasforma in una lotta per la storia, per il lento, progressivo, individuale e naturale sviluppo delle nazioni. «Noi siamo diventati – osserva Herder – filantropi e cosmopoliti, ma non abbiamo più una patria: ora tutti i regnanti d’Europa parlano francese, presto tutti parleranno la lingua francese»34. La filosofia della storia «che persegue la catena della tradizione è propriamente la vera storia 33

IBIDEM. Herder nei Fragmente. Über die neuere deutsche Literatur (1766-1767) critica «l’imitazione della lingua e della letteratura francese, definendola come un ostacolo allo sviluppo della poesia e della letteratura tedesca». 34

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umana». Tradizione è la lingua, tradizione è la religione, tradizione è l’individualità della nazione. L’intera storia dell’«umanità» (Menschheit) è una «pura storia naturale delle forze, operazioni e tendenze umane secondo un luogo e un tempo»35. Sullo sfondo della critica allo schema illuminista di un ideale di felicità e progresso, Herder pone ogni ideale nel divenire storico: ogni momento, ogni istante irripetibile della storia ha il suo valore nel suo stesso essere, nella sua originalità e autenticità ed il male consiste nel livellamento, nella «malattia mortale» del cosmopolitismo. Nella successione del divenire della storia si delinea un progresso dell’umanità, che non è propriamente un «paradigma» come nell’Aufklärung, ma lo stesso dispiegarsi delle forze naturali potenzialmente connaturate nella «natura umana» (menschliche Natur). L’uomo è libero di scegliere e di dare un senso alla propria vita e il divenire della storia non mostra altro che la genesi e lo sviluppo della libertà creativa: la vita stessa dello spirito nella sua originalità inventiva, produttiva e creativa. Nel Journal meiner Reise in Jahre 1769, Herder aveva narrato il succedersi di «emozioni profonde» che si erano impadronite di lui durante un suo viaggio per mare, quando era entrato in contatto con la natura e con le sue forze vive. Sull’onda di questo entusiasmo, aveva asserito di volere scrivere una «storia dell’anima umana, nei tempi e nei popoli»36, finalizzata a mostrare come lo «spirito» (Geist) della cultura, della religione e 35

Cf. SLENCZKA R., Humanität und Nation. Europäische Gemeinschaft in Leben und Denken von Johann Gottfried Herder, Freimund Verlag, Neuendettelsau 2004, p. 55. 36 Cf. OTTO R. - ZAMMITO J.H., Vom Selbstdenken. Aufklärung und Aufklärungskritik in Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, SynchronPublishers, Heidelberg 2001, p. 49.

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della scienza sia passato di mondo in mondo e la «corrente dei tempi» sia giunta fino a noi. Un progetto ambizioso che troverà la sua concreta realizzazione nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, alla stesura delle quali Herder fu incoraggiato da Goethe. Lungi dall’essere un’opera composta di getto, questo volume costituisce la tappa conclusiva di un percorso iniziato da Herder parecchi anni prima, rispetto al quale uno dei momenti più importanti è sicuramente dato dallo scritto Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit: di quest’ultima opera, in particolare, le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit si configurano come una «riformulazione più completa e, per molti versi, differente, nella misura in cui viene abbandonato il tono predicatorio che la contraddistingueva»37. Nel volume Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, Herder sviluppa quella concezione «organicistica» della storia alla quale resterà fedele anche nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, anche se in quest’ultima opera verrà meno l’enfasi con cui nella prima si insisteva sul parallelismo tra la vita del singolo uomo e quella dell’umanità nel suo complesso. Influenzato dalle tesi dello svizzero Isaak Iselin, autore del volume Geschichte der Menschheit, Herder è convinto che la «formazione» (Bildung)38 della persona, così come la formazione dell’«umanità» (Menschheit) siano scanditi da un processo che va dall’infanzia alla maturità, per giungere sino alla morte: queste tre fasi corrisponderebbero, secondo Iselin, alle tre diverse facoltà della sensibilità, dell’immaginazione e della ragione. Così, nella fase dell’infanzia, corrispon37 38

2003.

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IBIDEM, p. 51. Cf. WELTER N., Herders Bildungsphilosophie, St. Augustin, Gardez Verlag

dente al mondo orientale, la vita umana – semplice e primitiva – sarebbe dominata dalla sensibilità; nella fase della giovinezza, che corrisponde al mondo greco e romano, predominerebbero, invece, l’immaginazione e il sentimento e, infine, la fase della maturità, corrispondente all’Europa moderna e al pieno raggiungimento della civiltà, che vede l’egemonia della ragione. Pur riprendendo alcuni aspetti della prospettiva di Iselin, Herder ritiene si debba insistere maggiormente sul concetto di «storia nella sua totalità»: storia dell’umanità nel suo complesso e nel suo carattere teleologico. Nel corso del fluire del tempo, ogni epoca (orientale, greca, romana) racchiude un significato ed è in sé positiva, proprio in forza del fatto che si configura come un momento che rientra nella totalità della storia umana. Questo aspetto – secondo Herder – è stato scarsamente sottolineato da Iselin ed è stato del tutto trascurato dagli Illuministi. Così, nel saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, Herder sostiene che il mondo orientale corrisponde all’infanzia, la civiltà egizia e fenicia alla fanciullezza, l’antica Grecia alla giovinezza, il mondo romano alla virilità, il tardo impero alla vecchiaia, fino al momento in cui le «invasioni dei popoli barbarici non infondono nuova vitalità al decrepito corpo del genere umano». Possiamo notare, en passant, che lo stesso modello di sviluppo viene impiegato nello studio del linguaggio – altro tema centrale in Herder – condotto nei Fragmente. Über die neuere deutsche Literatur (1766-1767), ove si asserisce che «il passaggio dall’infanzia alla maturità del genere umano sarebbe ritmato dalla transizione della poesia alla prosa»39. 39

HERDER J.G., Fragmente. Über die neuere deutsche Literatur, 1766-1767, VIII, p. 450, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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Nel saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, Herder introduce una Provvidenza che non interviene direttamente nella storia umana, ma raggiunge il suo scopo, suscitando forze che indirizzano la «storia dell’umanità» (Geschichte der Menschheit) nella direzione di sviluppi «così semplici, delicati e meravigliosi quali li vediamo in tutte le produzioni della natura»40. La «storia dell’umanità» appare come la vicenda di un singolo individuo: l’Oriente è l’infanzia dell’umanità – e il dispotismo di quegli Stati sarebbe giustificato dalla necessità dell’esercizio dell’autorità nel periodo dell’infanzia – l’Egitto è la fanciullezza, i Fenici rappresentano l’adolescenza, i Greci la giovinezza, «gioia giovanile, grazia, gioco e amore» e i Romani sono la «maturità del destino del mondo antico»41. Sembrerebbe la descrizione di un ciclo naturale e positivo; ma come spiegare la fine del mondo antico, il crollo drammatico dell’Impero Romano? Secondo Herder, l’Impero Romano è entrato in crisi perché con il passare degli anni ha progressivamente distrutto i «caratteri nazionali», ignorando le tradizioni dei singoli popoli: dopo la caduta dell’Impero Romano si è progressivamente diffuso «un mondo completamente nuovo di lingue, costumi e tradizioni». Herder ritiene che l’intervento delle popolazioni germaniche nella scena della storia sia stato positivo, apportando nuova linfa e nuovi valori. «Le leggi e la civiltà romana non potevano sostituire le forze scomparse, non potevano reintegrare dei popoli che non avvertivano più uno spirito vitale, non stimolavano più impulsi spenti e, allora, nacque nel Nord un uomo nuovo, 40

Cf. HERDER J.G., Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, p. 59, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995. 41 IBIDEM, p. 27.

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portatore di nuova forza, nuovi costumi e nuove leggi da cui trasparivano coraggio virile, fiducia nell’intelletto, onestà, giustizia, sentimento dell’onore»42. La rivalutazione herderiana del Medioevo è motivata dal fatto che questo periodo storico è stato una «grande cura dell’intera specie umana grazie ad una profonda rivoluzione, senza tradursi nell’esaltazione di un modello politico»43. La felicità, non può essere il derivato di un’unica causa valida ovunque, perché «ogni nazione nella sua individualità ha in se stessa il centro particolare della sua storia, delle sue tradizioni e dei suoi valori». Herder, dunque, non crede alla prospettiva illuministica di un progressivo avvicinamento alla felicità e alla virtù degli esseri umani; tuttavia, riconosce come sia ben viva nell’animo umano la ricerca della felicità e, questo suo tendere verso una condizione che vada oltre il proprio stato, è un effettivo sviluppo e un progresso reale nella storia. Nelle successive Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, Herder cerca di dimostrare che «l’uomo è lo scopo autentico, il fiore della creazione», secondo una visione che ha delle affinità con la teoria dell’evoluzione naturale. L’intera «storia dell’umanità è una pura storia naturale delle forze, operazioni, tendenze umane secondo un luogo e un tempo»44: il suo significato e la sua filosofia coincidono con la storia stessa dell’umanità. «La filosofia della storia, che persegue la catena della tradizione, è propriamente la vera storia umana» e ogni storia delle singole nazioni si rapporta ad un quadro complessivo per formare e rea42

IBIDEM, p. 56. IBIDEM. 44 HERDER J.G., Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, XIII-XIV, p. 93, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995. 43

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lizzare il piano della Provvidenza nel corso del fluire del tempo. Nel saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, come negli scritti Vom Geist der Ebräischen Poesie e Von deutscher Art und Kunst, Herder individua nella storia, nel linguaggio, nella religione, nella poesia, nell’arte, nella creatività e nella libertà, l’immediata e naturale espressione della natura umana, della «vita di un popolo», la forma immediata della sua «coscienza», la manifestazione della sua spiritualità, della sua «anima profonda», rifiutando l’idea della poesia come imitazione della natura. Questo concetto è una conseguenza dell’interesse, diffuso nell’Europa del tempo, per gli antichi canti dei Bardi e delle popolazioni indigene dell’America, intesi come naturale, spontanea e creativa «forma di poesia». Si potrebbe parlare di una rivoluzione copernicana: avendo posto l’origine della poesia nel «sentimento naturale e irrazionale»45 autenticamente vissuto, Herder poteva far cadere definitivamente ogni regola e modello classico, poiché il criterio del giudizio andava ricercato nella schiettezza, sincerità, spontaneità, creatività, autenticità. «Quanto più è selvaggio, cioè vivo, naturale, liberamente operante un popolo, tanto più selvaggi, cioè vivi, liberi, sensibili, liricamente operanti devono essere i suoi canti»46. È l’«anima della poesia» che Herder ricerca nelle «anime delle nazioni» in cui intende immedesimarsi nei loro «canti»: quando pretende di sollevarsi al di 45

Per un’analisi storico-critica, relativa alla correlazione linguistico-semantica tra «sentimento», «interiorità» e «intuizione» nelle opere di HERDER, cf. GRAFF M., Bildung durch Sinnlichkeit. «Vom Erkennen und Empfinden» bei Johann Gottfried Herder, Bd. VI, Pädagogische Studien und Kritiken, Jena 2008. 46 HERDER J.G., Von Deutscher Art und Kunst, 1773, p. 15, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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sopra di questa esistenza immediata per giudicare la storia, non scrive una storiografia, ma una «filosofia della storia»47. In questo orizzonte, si delinea la tesi «prospettivistica» del saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit e la conseguente affermazione del limite della nostra comprensione della storia, rafforzata dall’appello esplicito alla critica humiana del rapporto tra causa ed effetto, vista però nelle sue conseguenze per il problema della storia. Proprio Hume, afferma infatti Herder, ha dimostrato che il legame tra «causa» ed «effetto» non può essere «provato» e «accertato», ma soltanto «inferito» e, pertanto, «conosciuto non storicamente, ma filosoficamente: ne ha dato egli stesso la migliore prova, in quanto la sua storia è un romanzo filosofico. Nessuno più di me – osserva Herder – sente nel proprio intimo la debolezza e i limiti delle analisi storiche in funzione di principi generali. Descriviamo interi popoli, età e terre. Abbracciamo genti e tempi che si susseguono l’uno dopo l’altro nel corso del fluire del tempo, in un eterno avvicendarsi, come le onde del mare: come è possibile motivare, applicare e giustificare la nostra descrizione e interpretazione storica? Finiamo per comprenderli tutti in un nulla, in una parola generica, che suscita in ognuno di noi pensieri e sentimenti profondamente diversi: oh, povere, imperfette e limitate analisi descrittive! E quanto è facile essere fraintesi!»48. Nell’interpretazione herderiana, tutte le forme di «storia pragmatica» confermano l’arbitrarietà di questo «procedi47

Cf. KOEPKE W. - MENGES K. (a cura di), Herder Jahrbuch-Herder Yearbook, IX, 2008, Synchron Publishers, Heidelberg 2008. 48 HERDER J.G., Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, p. 30, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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mento riflesso che connette in modo più o meno fantastico i fatti, in quanto proprio nella storia pragmatica tutto obbedisce ad alcune massime che sempre si ripetono e che determinano la loro interpretazione»49. Secondo Herder, questo è accaduto «a Machiavelli e a Montesquieu, a Voltaire e a Hume, ed è accaduto anche a Winckelmann, che è partito per l’Italia con in mente già pronto il suo sistema a cui cercare una conferma». In realtà, «il vero storico è soltanto chi descrive eventi direttamente vissuti o di cui è stato testimone». Una interpretazione, in linea con questa valutazione critica della conoscenza storica formulata da Herder, si trova nella cinquantaduesima lettera dei Briefe die neueste Literatur betreffend del 23 agosto 1759, dove Lessing, discutendo la situazione della storiografia nella letteratura tedesca e cercando di spiegare le ragioni del suo scarso e limitato sviluppo, osserva: «Io credo che il nome di vero storico spetti soltanto a colui che descrive la storia dei suoi tempi e del suo paese. Egli soltanto può presentarsi come testimone e può sperare di essere giudicato tale dai posteri, mentre quelli che hanno semplicemente desunto le notizie dai testimoni veri e propri, dopo pochi anni verranno certamente soppiantati da altri del medesimo genere»50. 10. La libertà creativa: la natura umana e la creatività Secondo Herder, la storia non è «una serie di eventi memorabili o di utili scoperte tecniche», come pretendevano gli 49

IBIDEM, p. 37. LESSING G.E., Sämtliche Schriften, Hrsg. von K. Lachmann-Franz Muncker, vol. IV, Walter de Gruyter, Berlin 1968, pp. 269-270. 50

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illuministi, ma «una carta del processo dello spirito umano, una storia del suo sviluppo e una prova eccellente dell’arte inventiva e creativa della natura umana». A questo processo in continuo divenire, la «natura umana» (menschliche Natur) appartiene, con ogni suo singolo atto irripetibile, come creatura e come creatore. «Come non posso compiere nessuna azione, pensare nessun pensiero, che non operi sull’incommensurabile totalità della mia esistenza, così non c’è nessuna creatura della mia specie che non operi per l’intera specie e per la totalità della specie. Ognuno solleva una grande o una piccola onda; ognuno modifica lo stato dell’anima singola e della totalità, ognuno opera sempre sugli altri, ognuno modifica in loro qualcosa: il primo pensiero nella prima anima si collega con l’ultimo nell’ultima anima umana»51. La storia appare come la catena della «Bildung», della «formazione»52: invenzione sempre in atto, sempre in corso, sempre in progresso, in continuo, costante divenire nel fluire del tempo. «Nulla d’inventato, bensì tutto in atto d’inventare, di creare, di operare oltre, di tendere oltre nuovi orizzonti e insieme tradizione, attraverso il cui vincolo da popolo a popolo, arte, scienza, cultura e lingua si sono affinate in una grande progressione nel corso dei secoli della storia»53. In questo orizzonte, secondo Herder, si attua non solo una profonda e dinamica correlazione tra la «natura umana», la «conoscenza», la «ragione» e l’«esperienza», ma anche una profonda analogia tra il mondo della «natura» (Natur) e il 51

HERDER J.G., Briefe zur Beförderung der Humanität, 1793-1797, p. 43, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995. 52 IBIDEM. 53 IBIDEM, p. 53.

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mondo della «storia» (Geschichte): come la «natura» è caratterizzata da forme viventi in cui essa si esprime, così la «storia» è caratterizzata dal realizzarsi dell’«umanità» (Menschheit) in «forme» sempre più compiute. In altre parole, se nella natura vi è un piano generale a cui ogni essere è sottoposto, un piano specifico e individuale in virtù del quale ogni organismo prende forma, non diversamente accade nella storia, dove tutto rientra in un fine generale: ogni particolare realizzazione storica ha una sua individuale «finalità interna» in base alla quale si configura nel fluire del tempo. La forma più compiuta cui la storia giunge è l’umanità: linguaggio, arte, religione, libertà, ragione sono «forme» particolari in cui l’«umanità» si manifesta. Il linguaggio e l’arte non esprimono soltanto le conoscenze e i sentimenti degli uomini, ma rivelano ed esprimono quella individualità particolare che li caratterizza: l’essere dell’uomo nella sua autenticità. Così è anche per la religione e la libertà; nell’una, come nell’altra, la persona assume un ruolo di primo piano: le sue scelte, le sue passioni, le sue intuizioni, i suoi sentimenti. Tuttavia, questa individualità attesta qualcosa che va al di là di se stessa e diviene come un «simbolo della divinità»54. La religione, allora, proprio per il culto della divinità di cui è portatrice, appare come la forma più alta di educazione e «formazione» (Bildung) dell’uomo all’umanità: il romanticismo di Herder si afferma nella religione come forma suprema di umanità nella sua particolarità, nell’orizzonte di una ricomprensione unitaria della natura umana, della ragione e della storia. 54

Cf. HERDER J.G., Briefe, das Studium der Theologie betreffend, 1780, p. 39, in HERDER J.G., Sämtliche Werke, op. cit., 1995.

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JOSEPH MARÉCHAL: DESIDERIO E INCONDIZIONATO NELLA CONOSCENZA UMANA Gennaro Luise § 1. Fra le interpretazioni più suggestive della filosofia trascendentale kantiana che si siano date nel Novecento, ha certamente un posto di riguardo la lettura di stampo finalistico, nata nell’àmbito della cultura filosofica cattolica e da una matrice comparativa fra neotomismo e criticismo, elaborata da Joseph Maréchal (1878-1944), uno dei principali esponenti della Neoscolastica di Lovanio. L’intento che ha mosso questo interprete, nel Cahier V della sua fondamentale opera Le point de départ de la métaphysique1, GENNARO LUISE, Docente di “Storia della Filosofia Moderna” e “Logica e Ontologia Analitica” presso la Pontificia Università della Santa Croce, Roma. 1 MARÉCHAL J., Le point de départ de la métaphysique. Leçons sur le développement historique et théorique du problème de la connaissance, 5 voll.; Cahier I: De l’antiquité à la fin du moyen âge: la critique ancienne de la connaissance, Bruges-Paris 1922, (Louvain-Paris 19272); Cahier II: Le conflit du rationalisme et de l’empirisme dans la philosophie moderne avant Kant, Bruges-Paris 1923; Cahier III: La critique de Kant, Bruges-Paris 1923; Cahier IV: Le système idéaliste chez Kant et les postkantiens, Bruxelles-Paris 1947; Cahier V: Le thomisme devant la philosophie critique, LouvainParis 1926. I Cahiers (d’ora in poi sempre PDM) I, II, III e V sono stati poi ripubblicati, unitamente alla ediz. postuma (1947) del IV, per i tipi de L’Édition Universelle-Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris 1942-1949.

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non è stato solo quello di far interagire autori e terminologie differenti, ma anche quello di mostrare che le posizioni storicamente emerse stanno fra loro in un rapporto che non è di mera successione o giustapposizione; esiste un comune referente, se si vuole, una problematica comune, di fronte alla quale le soluzioni possibili stanno fra loro in rapporto di opposizione logica, nel senso che la loro relazione esaurisce il campo delle opzioni a rigore affermabili. La struttura fondamentale della riflessione maréchaliana è una ricerca intorno alle condizioni di possibilità dell’affermazione ontologica, considerata, quest’ultima, come principio di oggettività di tutto il dinamismo rappresentativo. La garanzia ultima del riferimento reale di ogni atto conoscitivo è, per il pensatore belga, una caratteristica essenziale della struttura stessa dell’affermazione giudicativa. La deduzione dell’affermazione ontologica è compiuta, in tutte le versioni in cui essa viene presentata, mediante una considerazione sub ratione transcendentali finis della determinazione assimilata dal soggetto. La forma assimilata dall’intelletto è pensata come fine dell’attività conoscitiva; ma, poiché un fine è distinto dal desiderio che ad esso tende, ed è distinto anche dal desiderio che lo raggiunge, la determinazione assimilata nell’immanenza delle operazioni intellettive è riferibile a qualcosa di distinto dall’intelletto, eppure ad esso presente come fine parziale dell’attività conoscitiva stessa. L’attività conoscitiva è sottoposta ad una considerazione ontologica che approda ad una descrizione finale di questa stessa attività come «tendenza», la quale si regge su una connotazione generale della conoscenza come «desiderio». Vale forse la pena di considerare isolatamente, come cercheremo di fare in questo saggio, i punti di interesse e le difficoltà che questa definizione porta con sé. Ci domandiamo, innanzitutto, quale sia il valore di un atto conoscitivo il cui contenuto è «apparentemente» una determinazione proveniente 118

dall’esterno di questo stesso atto, ma che in realtà diventa determinato solo se, in qualche modo, considerato come fine parziale. Il fine parziale è poi tale solo se rapportato al Fine Ultimo; ma è proprio il Fine Ultimo che non è in nessun modo rappresentabile come determinazione. La nozione di oggetto adeguato dell’atto conoscitivo, e la correlata distinzione fra questo e l’oggetto attuale di conoscenza, sono opportune perché risultano da un’analisi della conoscenza per rappresentazione e del suo valore mediale. Questo lato del pensiero di Maréchal deve essere considerato come una critica del fenomenismo assoluto, o meglio come una teoria del limite della conoscenza per rappresentazione. La rappresentazione non è l’ultima parola, il maximum possibile di conoscibilità del reale, ma è solo il veicolo, instrumentum, di un dinamismo più ampio, che tende ad un’assimilazione del reale in quanto tale e non solo alla produzione di una copia astratta dell’ente singolo. È troppo noto che il criticismo di Kant ha come obiettivo proprio quello di elaborare una critica dell’oggettività della conoscenza; tale percorso approda alla dottrina della idealità trascendentale delle leggi costitutive dell’oggetto dell’esperienza possibile, unitamente alla dottrina della realtà empirica dell’oggetto origine delle sensazioni. Proprio l’aver ritenuto le determinazioni pensate come un reale esistente è stato l’errore dell’idealismo di Berkeley che Kant ha voluto confutare. Maréchal ha quindi ragione quando ritiene di dover partire dal lato anti-idealistico della Ragion pura per criticare la dottrina dell’autoproduzione totale dell’essere da parte della mente pensante per rappresentazione. L’insieme delle riflessioni di Maréchal che costituisce la «deduzione trascendentale dell’affermazione ontologica» rappresenta, per un verso, una nuova deduzione delle condizioni di possibilità della rappresentazione oggettiva, ovvero dell’oggetto immanente. Tuttavia, si potrebbe obiettare, l’essere 119

reale di tale oggetto non si può dedurre in alcun modo dalla presupposizione, quand’anche fosse fondata, dell’oggettività della conoscenza. Se questa fosse la pretesa di Maréchal, si dovrebbe dire che il realismo, inteso in questa forma, sarebbe riconducibile ad una petitio principii; si ammetterebbe, in definitiva, come presupposto ciò che si deve dimostrare. D’altra parte, in risposta a questo genere di considerazioni, si può affermare che la prospettiva aperta dal metodo trascendentale sia correttamente completata, in Maréchal, da una dottrina metafisica dell’analogia dell’essere di stampo realista classico, alla quale il pensiero perviene per una via che trascende la soluzione della mera problematica gnoseologica. § 2. Se ogni atto di conoscenza non ha un significato in qualche modo concluso nella sua singolarità2, non si potrà pretendere che tale atto porti ad una conoscenza reale oggettivamente determinata. Le profonde riflessioni di Maréchal hanno il merito di portare davanti agli occhi di chi segua il suo ragionamento la dinamica conoscitiva nel suo intero arco, secondo una prospettiva in cui la continuità fra la sensibilità 2

Anche se vedo solo il colore di una cosa, o ciò che mi appare tale, devo pur dire che vedo; devo dire che posseggo intenzionalmente, in quel momento, qualcosa, sebbene questo sia un qualcosa di limitato. Cf. ARISTOTELE, Metafisica IX, 6, 1048b 30-35: «αὗται δὴ κινήσεις, καὶ ἀτελεῖς γε. οὐ γὰρ ἅμα βαδίζει καὶ βεβάδικεν, οὐδ’ οἰκοδομεῖ καὶ ᾠκοδόμηκεν, οὐδὲ γίγνεται καὶ γέγονεν ἢ κινεῖται καὶ κεκίνηται, ἀλλ’ ἕτερον, καὶ κινεῖ καὶ κεκίνηκεν· ἑώρακε δὲ καὶ ὁρᾷ ἅμα τὸ αὐτό, καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν. τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ἐνέργειαν λέγω, ἐκείνην δὲ κίνησιν». L’atto completo di vedere, di aver presente qualcosa di esterno, è in qualche modo indipendente rispetto al modo di essere, alla stabilità dell’essere esterno veduto.

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e l’attività conoscitiva propriamente detta è salvata contro il dualismo gnoseologico moderno. Si può dire, a ragion veduta, che questa continuità costituisce un guadagno non piccolo, e lo stesso Maréchal è conscio di ripercorrere, in questo modo, la parabola del pensiero classico aristotelico-tomista nella sua versione più cristallina. Sembra inevitabile, una volta ricondotto a relatività ogni atto conoscitivo, cercarne la fondazione assoluta nel dinamismo complessivo in cui tale atto è inserito e, parallelamente, intendere il dinamismo della conoscenza, il movimento conoscitivo ordinato, come una concatenazione di atti nel tempo. Gli atti conoscitivi intenzionali, infatti, hanno fra loro un rapporto che non è riconducibile ad un movimento di passaggio dalla potenza ad atto, ma è un rapporto di atto-ad-atto che non si ritrova in natura; o meglio, non si ritrova nell’intelligenza considerata come una res naturale, ma come un soggetto intenzionalmente identico al suo oggetto. Dire che il singolo atto conoscitivo è segnato da una relatività che non è solo quella dell’oggetto di tale atto, ma che è una parzialità in sé dell’agire conoscitivo, significa ricondurre la validità di tale atto all’attività che lo ha preparato unitariamente intesa. Tutto questo è detto, ci pare, con l’intenzione di mostrare che l’attività conoscitiva non può essere considerata come contingente. Ciò che non si può dire dell’atto singolo di conoscenza; quest’ultimo, infatti, non è mai un contatto immediato con l’altro da sé, ma è sempre mediato da una rappresentazione: a meno di voler dire che la rappresentazione è una relazione sempre adeguata al rappresentabile, bisogna ammettere che essa sia contingente nel senso della parzialità, cioè che non è pienamente oggettiva. Insomma, secondo la prospettiva di Maréchal, nella conoscenza è oggettiva, in senso stretto, solo la tendenza ad assimilare, at121

traverso atti successivi, l’essere senza le limitazioni che questi stessi atti ogni volta presentano. È necessaria solo la forma dello spirito priva di determinazioni, che cerca di assimilarsi delle forme che riempiano la sua struttura infinitamente determinabile. Dire che l’Assoluto è presente come riferimento ineludibile di questa tendenza, posta come formalità pura o legge logica della conoscenza, comporta il ricondurre tutti gli atti conoscitivi all’attività unificante dell’io, inteso come insieme ordinato di funzioni logiche. Lo stesso ragionamento induce, parallelamente, a parlare del principio reale del dinamismo conoscitivo, ontologicamente orientato al Fine Ultimo, definendolo come «anima», in senso proprio, da intendersi come la vera realtà spirituale dell’uomo conoscente. Ma questa realtà, che potrà definirsi in altri termini come spirito finito, è imago dello Spirito Divino3. Il punto più alto della metafisica della conoscenza di Maréchal è, allora, una metafisica della luce che definisce il lumen intellectuale come quaedam participata similitudo luminis increati. In virtù della stessa dottrina, che l’Autore definisce come un esemplarismo dinamico, limitato ai soli «princìpi primi intelligibili», distinto quindi dall’esemplarismo ontologista della tradizione platonica4, si afferma che la potenza conoscitiva naturale dello spirito finito è mossa dalla luce infinita di Dio, Mistero accessibile solo alla ragione del mistico, verso la quale, in ultima analisi, tende. Il primo im3

Per esemplificare questa profonda dottrina si potrebbe far riferimento a moltissimi testi di Agostino; un vertice, in tal senso, è certamente rappresentato dai Libri IV e V del De Trinitate. 4 Cf. PDM V, pp. 424-38; Maréchal richiama diversi passi di Tommaso, fra questi: Summa Theologica, I, q. 79, a. 4, c.; ivi, I, q. 84, a. 5, c.; Quaestio disputata De Spirit. Creaturis, q. unica, a. 9-10; Quaestio disputata De Anima, q. unica, a. 5, c.

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pulso ad agire intellettualmente, a conoscere e ad amare, è un atto esterno al soggetto inteso come coscienza, è un atto «precosciente» rispetto al soggetto che «vive» come necessaria la tendenza manifesta in questo impulso. Il problema teoretico che abbiamo davanti è, quello di distinguere, da un lato, fra il valore assoluto e la necessità della tendenza assimilatrice, dall’altro, fra il valore assoluto e la necessità della rappresentazione di un contenuto parziale di coscienza. La rappresentazione esigenziale dell’Assoluto diventa prerogativa dell’anima intesa come spirito (Geist). L’intenzionalità vera e propria è non-cosciente ed è, appunto, prerogativa del Geist, mentre il resto dell’attività conoscitiva è riflessione sull’intenzionalità. Una volta ammessa la possibilità della fungenza del Fine Ultimo Assoluto, e dato il fatto che viviamo la tendenza assimilatrice come una mozione indotta, il Fine Ultimo di questa tendenza deve esser posto come realmente esistente. Possiamo dire che è presente, in Maréchal, un accostamento fra l’azione astraente, illuminante, dell’intelletto agente e l’a priori, cioè la funzionalità dell’io trascendentale. Esiste una struttura operativa di atti secondi i quali discendono dall’atto primo come prima motio della conoscenza. Tale prima motio non è autoprodotta dalla coscienza, ma è una partecipazione via illuminationis alla potestas dell’Intelligenza Creatrice. Quindi l’uomo, essere conoscitivo discorsivo, partecipa di tale analogo che orienta l’agire concreto della conoscenza ovvero lo scire per repraesentationes. La difficoltà è che, intendendo le modificazioni come contingenti, noi troviamo la necessità fuori dal fenomeno, nella legalità delle categorie che ordinano il tutto delle modificazioni senza perdere la notizia, la coscienza, del debito rispetto all’astrazione. L’atto trascendentale dell’affermazione ontologica pone immediatamente l’oggetto imma123

nente come fine intermedio della realizzazione della dinamica conoscitiva primaria, che resta in questo modo indipendente rispetto al categoriale. L’atto trascendentale consiste nel mostrare che esiste necessariamente un fine ultimo che rende ragione del movimento conoscitivo, per cui, negando tale esistenza, necessariamente si verrebbe a sostenere, contro ogni evidenza dell’esperienza, che non esiste alcun movimento conoscitivo. L’inizio della riflessione trascendentale è allora un’intuizione incoativa dell’atto primo che deve essere pensato, per Maréchal, in forma dinamica, come movimento verso il fine. La nostra proposta, complementare e non alternativa, a questa impostazione consiste nell’idea che è possibile intendere in modo diverso il rapporto tra l’operazione conoscitiva e l’atto di affermazione dell’essere. In sostanza, attraverso il metodo trascendentale, non è possibile affermare l’esistenza di una sostanza, perché tale metodo è consono alla domanda quid sit, mentre la domanda an sit scaturisce da un diverso itinerario speculativo. Secondo noi, però, il rapporto fra actus essendi ed esse intentionale va inteso in maniera diversa. L’esse intentionale è presenza alla coscienza di qualcosa di esterno alla coscienza stessa; in questo senso il «fenomeno» sarebbe inteso come intenzionale e non come uno schermo della conoscenza, ma come una funzione rivelativa, per cui potremmo parlare della limitatezza dell’atto conoscitivo solo ex parte objecti, e non anche ex genere suo. Viceversa, per parlare di una limitatezza di quest’ultimo tipo, si dovrebbe ammettere un momento cieco all’origine dell’intelligenza, sanato poi dalla reditio della coscienza. Eppure, nonostante il fatto che si abbia presente un oggetto limitato si deve ammettere un momento che scarta rispetto al semplice collazionare, ricondurre ad unità, i singoli aspetti limitati dell’oggetto, e che sia un atto di 124

«visione» il quale, per quanto intenzioni qualcosa di parziale, è pur sempre una visione. Quest’atto di visione deve essere posto come un τέλος raggiunto in ogni singolo atto conoscitivo. § 3. Considerare l’Assoluto come condizione di possibilità, non è lo stesso che considerarlo come causa; una condizione di possibilità non è una causa reale, né un fine reale, perché non muove nulla. Parallelamente si può dire che l’io trascendentale non nasce, non muore, non ha vita in nessuno dei significati che riusciamo ad associare a questo termine. Ma, allora, che cosa vuol dire che questo Io è il punto più alto dell’analisi della conoscenza? Il kantismo insegna magistralmente come proprio questo sia il punto centrale di tutto il discorso. Se si vuole sapere che cosa sia necessariamente vero, e in che modo lo si conosce come tale, bisogna partire dalla legge che regola il funzionamento del soggetto che cerca il vero. Così come per il bene e per il bello, questo è l’oggetto della filosofia critica: la legge. Che cos’altro è, infatti, il formalismo se non la ricerca di una legalità della ragione che definisca il territorium sulla quale quest’ultima abbia reale dominio5. Ma il formalismo è una dottrina che non contempla la possibilità di compiere un qualunque atto stricto sensu conforme alla legge. Se in ogni singolo atto di conoscenza non si arriva ad una attualità in sé in qualche modo conclusa, valevole di per sé, non vediamo per quale motivo la tendenza originaria a conoscere dovrebbe pervenire a tale attuale vali5

Cf. la dottrina del territorium, ditio e domicilium in KANT I., Critica del Giudizio, trad. it. a cura di AMOROSO L., Milano 1995, p. 81.

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dità. È chiaro che non vogliamo dire che ogni atto conoscitivo raggiunge direttamente l’Assoluto come la visione raggiunge l’oggetto visto; tuttavia questo atto sembra scivolare in un dinamismo che non si ferma mai, se non è già di per sé assoluto rispetto all’attività che lo precede. Queste considerazioni, si muovono sul crinale di una dottrina che tende a non scindere, nell’ambito della gnoseologia, il livello ontologico da quello dell’intenzionalità6. Infatti il dinamismo conoscitivo integra l’oggetto di coscienza, ovvero le implicazione logiche dell’oggetto fenomenico, e l’atto primo formale dell’agente razionale; ma tale atto primo è posto fuori dall’attività conoscitiva vera e propria, è «pre-cosciente» così come è «naturale» e necessario il suo tendere all’Assoluto. La presupposizione dell’Assoluto è ciò che rende ragione della tendenza conoscitiva, intesa come atto primo dell’ente uomo; ma allora, parrebbe lecito domandarsi, come si passa dal livello della natura del soggetto agente a quello della sua operazione strettamente 6

«Intenzionale, nella terminologia di San Tommaso, si oppone dunque a naturale, ma non a ontologico o reale» (PDM V, p. 358). Si tengano comunque presenti le precisazioni su questo punto in MARÉCHAL J., Au seuil de la métaphysique: abstraction ou intuition, in «Revue Néo-scolastique de Philosophie», 31 (1929), pp. 27-52, 121-47 e 309-42, poi in Mélanges Joseph Maréchal, tome I, Paris 1950, pp. 158 e segg. Proprio dal tentativo di dare una lettura ontologica dell’intenzionalità nasce, in Maréchal, il discorso sul finalismo dell’intelligenza; mentre la natura è mantenuta come substrato reale cui inerisce il divenire complessivo dell’uomo. In questo contesto ci pare opportuno chiarire a che, a nostro modo di vedere, l’intenzionalità è distinta dal dinamismo reale di assimilazione perché l’atto di presenza intenzionale non è nulla di reale. Riguardo poi al ruolo della riflessione risulta chiaro, ora, che non riteniamo che essa vada considerata come un atto intenzionale; la riflessione non aggiunge nulla al coglimento intenzionale dell’oggetto, o comunque quest’ultimo non è effetto della riflessione.

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immanente, la conoscenza, e come si genera la coscienza dell’oggetto singolo determinato?7 Parrebbe di poter dire che viene a chiarezza, attraverso queste riflessioni, una dottrina che connota la capacità di giudizio come potenza dell’intelletto umano, e che ricerca i limiti entro i quali questa potenza viene attualizzata; non si dice, però, che cosa sia in atto conosciuto, ma solo che si riscontra un giudizio. Indicare un dinamismo pre-cosciente come costitutivo, o quanto meno come fondativo, della coscienza, pone l’eterno problema di concepire in qualche modo l’unità, la continuità fra momento cosciente e non-cosciente della conoscenza. La coscienza ha un fondamento che la trascende, 7

A questo proposito è doveroso ricordare che Joseph Maréchal considera a più riprese la relazione complementare fra la struttura formale delle facoltà, da un lato, e la percezione e l’astrazione, dall’altro, sia nella struttura elementare che nei gradi più elevati dell’esperienza conoscitiva; nella stessa linea, anche altri pensatori, esponenti del ritorno all’aristotelismo tomista nella gnoseologia, fanno presente che anche a livello della conoscenza sensibile si deve porre una distinzione fra ciò che è fisico, in senso stretto, e ciò che è intenzionale e che del fisico non è effetto in alcun modo. Fra quelli più recenti, anche se di formazione diversa, rispetto a Maréchal, possiamo ricordare POLO L., Curso de teoría del conocimiento, tomo II, Pamplona 19872, p. 226. In queste pagine Polo espone e critica il principio di coscienza come contraddittorio, notando che parlare della conoscenza oggettiva come di una reditio, come di una riflessione, implica presupporre che la conoscenza vera e propria è preceduta da un momento cieco, un momento in cui c’è conoscenza ma non c’è coscienza di conoscere: «Cecità significa dimenticare che, se si conosce, allora si è già conosciuto; non c’è nessun momento cieco. In ogni caso, la coscienza così inquadrata è la potenza ma non l’atto. Una coscienza riflessiva non può essere un atto. […] La coscienza riflessiva è il puro necessitare di essere chiarito come principio. In questo modo si interpreta il conoscere come un tendere»; trad. nostra. Cf. anche POLO L., Curso de teoría del conocimiento, tomo I, Pamplona 19882, p. 250.

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ma tale fondamento non entra mai propriamente nella regione della coscienza, cioè è un fondamento che oltre a essere previo alla coscienza è anche non-cosciente. Il rapporto fra i due momenti può essere inteso come genesi dell’uno da parte dell’altro, e non è certo senza problemi che si può parlare di un sorgere del cosciente dal non-cosciente8. Oppure si può dire che esiste un dualismo fra i due termini, che si deve pur ricondurre ad unità. Ma tale unità non è, in senso proprio, oggetto di conoscenza riflessiva e può essere attribuita solo ad un qualche intellectus altior rispetto a quello finito. E saremmo indotti, per tale via, a parlare dell’idea di questa unità come prototypon transcendentale, e non come di una realtà esistente in maniera anipotetica. Mentre il principio massimamente formale e unitario dell’attività sintetica dell’io non è, propriamente, nulla di esistente, il Geist è l’uomo nella sua dimensione più profonda. L’attività originaria di questa sostanza viene a coscienza propriamente nella riflessione, ed è in qualche modo susseguente alla percezione immediata e all’intuizione incoativa, che la vede come un fatto primario; l’io riflettente porta semplicemente a coscienza l’attività che costituisce la vita originaria dell’io. La filosofia dell’identità è quella che riesce a ricondurre le due serie originarie dell’io e del non-io ad un unico principio assolutamente primo. L’intuizione regola la filosofia del8

In questi termini si esprime anche ROLAND-GOSSELIN M.-D., Essai d’une étude critique de la connaissance, tome I, Paris 1932, p. 160: «…nel dinamismo intellettuale la coscienza oggettiva rischia di ridursi ad un epifenomeno o di fosforescenza, che viene a perfezionare in qualche modo ed illuminare un appetito già costituito onde l’oggettività sarà quella dell’appetito naturale»; (trad. nostra).

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l’identità; in termini analoghi si pronuncia Fichte sulla dottrina della scienza e sulla sua primigenia manifestazione, essa stessa oscura e in movimento verso la chiarezza razionale9. Idealismo assoluto è solo quello che, pervenendo ad un sistema completamente deduttivo, definisce l’io puro come la ratio cognoscendi della riflessione, e sovverte l’idealismo trascendentale nel quale alla riflessione compete la definizione di ratio cognoscendi dell’io puro e a quest’ultimo la qualifica di ratio essendi della riflessione10. Muovendo da un’analisi trascendentale delle condizioni della conoscenza oggettiva, Maréchal approda ad un discorso propriamente metafisico sul finalismo nella conoscenza e sulla relazione fra ragione e Assoluto, discorso che, originatosi nel dominio della ragion pratica, non ne rimane esclusivo dominio.

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A questo proposito si veda CESA C., J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, Bologna 1992, pp. 126–37. 10 Cf. PDM IV, p. 408.

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IDEALI DI VITA E SIGNIFICATO. WILLIAM JAMES SULLA NATURA UMANA Alessia Affinito Nell’ambito di una lettura filosofica dell’idea di natura umana un modello interpretativo meritevole di attenzione si può individuare con riferimento al pragmatismo statunitense e, precisamente, nella riflessione di William James (18421910). Sebbene influenzato dal determinismo positivista teso a ricondurre ogni fenomeno psichico ad una base fisica, il filosofo statunitense avanza una proposta originale sul rapporto tra pensiero e vita contro il riduzionismo scientista e a favore di un orientamento multiforme e pluralistico. I primi studi in Inghilterra, Francia, Svizzera e Germania, il rientro in patria ventenne, la rinuncia alla pittura per dedicarsi alle scienze naturali e alla medicina, come pure il successivo ritorno in Europa per approfondire la fisiologia del sistema nervoso, sono momenti che certamente permettono di ricostruire la formazione culturale di questo medico, filosofo e psicologo avvinto in pari misura dalla letteratura e dall’arte, anche se non possono bastare a spiegare l’originalità del suo contributo1. ALESSIA AFFINITO, Dottore di Ricerca in “Storia delle dottrine politiche e filosofia della politica” presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». 1 Per una esposizione complessiva si veda RICONDA G., La filosofia di William James, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1962; SINI C., Il pragmatismo americano, Laterza, Bari 1972, in part. pp. 247 – 371.

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A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento James è l’anima del pragmatismo, vale a dire di quell’indirizzo filosofico che riflettendo sul valore strumentale di idee e princìpi assume come loro criterio di verifica la vita pratica, e in tal senso si propone come teoria del significato e come teoria della verità. Se Charles Sanders Peirce era stato il primo ad introdurre nei circoli filosofici l’uso del termine pragmatism, impiegato sin dagli anni Settanta del XIX secolo, è James a renderlo popolare con l’applicazione del suo motivo ispiratore prima all’esperienza religiosa e in seguito alla conoscenza2. Era in atto in ambito statunitense una reazione all’intellettualismo dell’Ottocento e al fallimento della ragione in ordine ai problemi metafisici, la quale trovò espressione nella ricerca di altre modalità di distinzione tra vero e falso utili a definire un metodo in grado di determinare la natura della verità, intesa quest’ultima come prodotto dei nostri sforzi teleologici. Se Peirce aveva inteso il pragmatismo come principio logico e come una teoria del significato, nella prospettiva di James si tratta piuttosto di una teoria della verità capace di confrontarsi con le grandi questioni filosofiche dell’esperienza umana, di fronte alle quali le spiegazioni scientifiche restano mute. In una prospettiva simile giudicare la verità di un’asserzione significa 2

Da un ciclo di conferenze tenute a Boston e a New York nel 1906 e 1907 uscì uno dei testi più noti di James: Pragmatism: A New Name for Some Old Ways of Thinking (Longmans, New York 1907). Nelle opere del filosofo risultano centrali due questioni: una più generale, quella ‘etica’, e l’altra particolare, che sorge a coronamento dei valori e delle esigenze etiche, ovvero quella ‘religiosa’. È stato anche notato che in tale prospettiva tutto il pragmatismo è etico, poiché l’etica è posta alla base dell’epistemologia, della metafisica, della religione e dell’estetica (sebbene quest’ultima sia poco centrale nella riflessione di James e Schiller). Cf. CHIOCCHETTI E., Il pragmatismo, Athena, Milano 1926.

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valutare le sue conseguenze pratiche future: così un’asserzione che soddisfa un interesse umano pratico è vera, mentre è falso ciò che è praticamente cattivo. Da questa interpretazione capitale del pragmatismo segue, con analoga evidenza, che ogni presunta verità – ogni convinzione (belief) – richiede una verifica; quelle astratte, in quanto tali, non sono verità. Se non vi fosse alcuna differenza negli esiti ultimi di due o più idee vorrebbe dire che esse si equivalgono e che una discussione al riguardo è oziosa; in assenza perciò di una differenza di significato pratico, non si può neppure rilevarne una di significato teoretico. È vero però che sovente si tratta solo di scoprire, in una disputa metafisica, una qualche implicazione di natura pratica3. 3

James illustra questo aspetto del pragmatismo attraverso un esempio che ne mette in luce la costitutiva apertura al futuro. Quanto al problema dell’origine del mondo, per il teista si tratta dell’opera di Dio mentre per il materialista è risultato di forze fisiche cieche. Per quanto riguarda il passato del mondo, ovvero se per ipotesi non si desse un’esperienza futura e ci si limitasse al dato sensibile prescindendo dai princìpi primi e dalla dimensione metafisica, non farebbe differenza ritenerlo creato o opera della materia. Dal momento che non c’è più futuro, ovvero se non ci sono futuri particolari di un’esperienza che possano essere dedotti dalle nostre ipotesi, il dibattito tra materialismo e teismo costituisce una disputa solo verbale. Se consideriamo invece il mondo come realtà che ha un futuro, e dunque come non ancora compiuto al momento presente, le due tesi avranno esiti pratici alternativi. In tal senso in ogni autentica disputa metafisica sono implicate delle conseguenze pratiche: materialismo e teismo considerati in una prospettiva futura si dirigono verso orizzonti di esperienza completamente differenti. Il materialista guarda ad un futuro nel quale non resterà niente, dove tutto è destinato a dissolversi, negando così un ordine morale eterno. Il teista invece, per il quale Dio garantisce questo ordine, lo afferma. La nozione di Dio è la garanzia di un mondo soprasensibile nel quale perdureranno anime e ideali, e che troveranno lì un compimento. Cf. PEIRCE C.S. - JAMES W., Che cos’è il pragmatismo, trad. it. di VIMERCATI F., Jaca Book, Milano 2000, pp. 71-77.

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Possiamo dire allora che la visione pragmatista raffigura una comprensione del reale e della verità ad opera di soggetti che tendono sempre al conseguimento di qualche bene. In tal senso la lettura jamesiana può essere vista come una pretesa della subordinazione della vita teoretica a quella pratica, all’origine di un’attenzione particolare riservata ai concetti di proposito e di fine. Secondo Ferdinand Canning Scott Schiller – autore del saggio dal titolo Faith, Reason, and Religion in cui metteva in guardia dall’errore di contrapporre faith e reason poiché la prima è implicita nell’esercizio della seconda, come mostrano gli stessi postulati della scienza, sollevando così un argomento caro anche a James4 – il carattere teleologico della vita mentale influenza e pervade le attività conoscitive umane, anche le più remote, dal momento che il pensiero non si sviluppa come un processo astratto (non si pensa per pensare) ma all’interno di una psicologia concreta, e per questo finalistica. Persino il processo di astrazione che dall’esperienza giunge al concetto è in questa visione ordinato a scopi particolari, come ad esempio adattare o trasformare l’ambiente sulla base dei propri desideri. Questa è una buona traccia per capire che cosa abbia rappresentato il pragmatismo e perché al suo interno volontà e intenzionalità abbiano assunto un ruolo di prima grandezza. La proposta pragmatista si configura dunque in vista di finalità, e la stessa ragione viene considerata sotto il profilo del suo uso pratico poiché nelle sue molteplici applicazioni è strumento ordinato ai fini della vita. Un metodo tuttavia che, nel 4

SCHILLER F.C.S., Faith, Reason, and Religion, in «Hibbert Journal», IV, 2 (1906), pp. 329-345; poi in IDEM, Studies in Humanism, Macmillan, London 1907, pp. 349-369.

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giudicare il valore di un’affermazione (o di concetti astratti) a partire dagli effetti prodotti nella realtà pratica, era stato anticipato in buona parte dall’empirismo inglese, almeno per quanto riguarda la valutazione delle conoscenze umane. Nella persuasione che ogni convinzione presenti delle conseguenze (ciò che non ha conseguenze è senza significato) e che esse debbano valere in vista di un determinato scopo, devono cioè essere ‘buone’ e ‘pratiche’, James si impegna quindi a liberare il campo dall’intellettualismo e dai dogmi, dai pretesi assoluti come dalle argomentazioni a priori dei sistemi chiusi: in definitiva, dalle debordanti pretese della metafisica intellettualistica. Proprio James si preoccupa di recuperare il medesimo presupposto dell’empirismo, conducendolo però ai suoi esiti ultimi: «Il pragmatismo rappresenta un atteggiamento perfettamente familiare in filosofia, l’atteggiamento empirista, ma lo rappresenta, per come lo vedo io, in una forma che è la più radicale e, al tempo stesso, la meno discutibile che esso abbia mai assunto. Un pragmatista volta le spalle risolutamente, e una volta per tutte, a una quantità di abitudini inveterate care ai filosofi di professione. […] Si volge verso la concretezza e l’adeguatezza, i fatti, le azioni, e verso la possibilità di agire (power). Il che significa la supremazia della mentalità empirista e la resa incondizionata di quella razionalista»5.

Nondimeno tutta la fortuna del movimento ha risentito, e in misura notevole, del confronto tra Peirce e James nel quale ebbe un ruolo anche il Metaphysical Club fondato negli 5

JAMES W., Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, trad. it. di FRANZESE S., Il Saggiatore, Milano 1994, p. 33.

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anni Sessanta dal primo e dal matematico Chauncey Wright. James avrebbe finito per trascurare la logica e la teoria dei segni, nell’insistere sulle componenti fisiologiche dell’evoluzione della coscienza e del sorgere dell’autocoscienza; un distanza che sarebbe diventata incolmabile. I rispettivi orizzonti di indagine – la logica per Peirce e la psicologia, intesa come scienza delle leggi della mente, per James – e la successiva spaccatura tra i filosofi hanno perciò autorizzato il ricorso a due diverse concezioni di “pragmatismo”: quello ufficialmente diffuso in America e in Europa (il più noto) e quello ristretto ai circoli accademici statunitensi, pressoché ignorato nel Vecchio Continente. In fondo il fascino della prospettiva pragmatista nel proporsi come radicalmente empirica ed anti-intellettualista proviene proprio dal suo presentarsi come una dottrina per la vita prima che della vita, un metodo organizzato intorno alla soddisfazione delle esigenze umane fondamentali6. Secondo un’efficace immagine di Giovanni Papini, questo metodo è come un corridoio d’albergo sul quale aprono varie stanze e nel quale è necessario transitare per entrare ed uscire7. In questo senso esso vale come criterio per stabilire la verità di differenti teorie, con tratti comuni al positivismo quanto al rifiuto delle astrazioni, e in polemica con l’idealismo e il suo tentativo di subordinare l’uomo ad un assoluto.

6

Cf. CHIOCCHETTI E., Il pragmatismo, op. cit., p.15. Cf. PAPINI G., Il pragmatismo messo in ordine, in «Leonardo», (aprile 1905), p. 47; poi in IDEM, Pragmatismo (1903-1911), Vallecchi, Firenze 19202, p. 97. 7

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1. La mente inventiva Dopo gli studi di medicina e scienze naturali James assume inizialmente un incarico per la docenza di fisiologia e di anatomia all’università di Harvard, per passare in seguito all’insegnamento della psicologia fisiologica e della filosofia. Una prima notevole sistemazione delle sue ricerche si trova nei Princìpi di psicologia8 del 1890, testo dal quale James ricava gli strumenti necessari al suo studio della natura umana. Se il pragmatismo, come abbiamo visto, ricerca il valore di un’idea nei fatti che essa produce ovvero nell’agire concreto cui dà seguito l’impulso iniziale, e se si tiene presente che i fatti devono essere sperimentati dagli esseri umani, si deve anche ammettere allora che il valore di un’idea non può che essere risolto in termini di esperienza. Una teoria, o un sistema, vengono giudicati sulla base del loro valore pratico e per la capacità di soddisfare i due principali bisogni umani: quello di fatti e quello di princìpi. James, in particolare, insiste nel porre accanto ad un “bisogno logico” un “bisogno pratico”, di gran lunga più importante ed originario: in tale prospettiva, «nessuna filosofia potrà veramente soddisfare il nostro “sentimento di razionalità” se non sarà in grado di rispondere positivamente alle richieste della nostra volontà e del nostro cuore circa gli esiti futuri, particolari e generali, della nostra esistenza»9. Invece di supporre che il pensiero sia altro dall’azione James lo assume come una forma di condotta e parte della vita at8

JAMES W., Princìpi di psicologia (1890), trad. it. di PRETI G., Principato, Milano 19652. 9 SINI C., Il pragmatismo americano, op. cit., p. 260 (corsivo nel testo).

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tiva, gettando nuova luce sui problemi logici e su quelli metafisici. Anche il bene diventa valore pratico, nella misura in cui è un fattore determinante della verità e della realtà. A ben vedere è nello scritto Remarks on Spencer’s Definition of Mind as Correspondence del 187810 che si trova una prima versione dell’interpretazione pragmatista della conoscenza ad opera di James. Va ricordato infatti che la fase iniziale della sua riflessione è stata vicina al positivismo e a Spencer, quando ha riconosciuto a quest’ultimo il merito di aver messo in primo piano i rapporti tra la mente e l’ambiente naturale circostante11. Nell’articolo James entra però in polemica con la psicologia di Spencer attaccando in particolare i concetti (ricavati dalla biologia) di adjustment e di correspondence nell’ambito del rispecchiamento della realtà da parte del pensiero, e l’interpretazione della mente come mero effetto dell’ambiente esterno sul sistema nervoso, assimilata ad «un semplice prodotto derivato dal non mentale»12. 10

JAMES W., Remarks on Spencer’s Definition of Mind as Correspondence, in «The Journal of Speculative Philosophy», XII/1 (January 1878), pp. 1-18. 11 Dal 1880 il pensiero del britannico Herbert Spencer riscuote successo crescente in America, soprattutto nel campo della sociologia e della psicologia. Il contributo spenceriano si caratterizza per un marcato individualismo e una fede fanatica nel progresso, considerato non come un accidente ma come una necessità. Più in generale la posizione spenceriana difende, in base alla c.d. legge dell’eguale libertà, la libertà totale per ciascuno di fare ciò che vuole purché non infranga la stessa libertà degli altri. Si teorizza altresì il dovere di lasciare che ciascuno ottenga benefici e danni derivanti dalla propria condotta e la necessità di evitare interferenze nell’evoluzione sociale, concepita come meccanica, automatica ed inevitabile. Cf. SPENCER H., Antologia di scritti, a c. di TOSCANO M., Il Mulino, Bologna 1982. Si v. anche SINI C., Il pragmatismo americano, op. cit., pp. 43 ss. 12 JAMES W., Remarks on Spencer’s Definition of Mind as Correspondence, op. cit., p. 6.

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Spencer, nel pensare la struttura mentale come punto di incontro tra relazioni interne ed esterne, finiva per presentarla come un ‘fatto’ al pari di tanti altri da sottoporre ad indagine, ricadendo in un monismo dove all’ambiente è assegnato un primato assoluto. Per James occorre invece un approccio più ampio ed inclusivo, dal momento che la mente non è in un rapporto necessariamente armonico con l’ambiente che la circonda e in relazione al quale viene studiata. Neppure la si può considerare come una sorta di ‘specchio’ che riflette in modo passivo ciò che è esterno ad essa: si tratta piuttosto di una intelligenza intelligente13 capace non soltanto di servire uno scopo ma anche di darsi uno scopo e di perseguirne la realizzazione in un processo aperto al successo o al fallimento. Insomma, «la mente umana è spontanea, ha capacità deliberative, agisce in modo teleologico, pone dei fini e dichiara anche di porli; queste caratteristiche non si spiegano né con l’idea dell’adattamento né con quella, similare, del rispecchiamento»14. James andava rifondando così alla radice l’empirismo giuntogli tramite la mediazione di Chauncey Wright. Pur riaffermando la superiorità del piano empirico sulla teoria, e rivendicando un criterio utilitaristico per il giudizio circa la verità delle proposizioni scientifiche e filosofiche – poiché il valore di ogni nostra conoscenza è stabilito e convalidato dall’esperienza – James non manca di osservare che la mente umana non deve considerarsi in alcun modo passiva. Al contrario, essa presenta una spontaneità iniziale, una capacità in13 14

Ivi, p. 15. SINI C., Il pragmatismo americano, op. cit., p. 253.

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ventiva di ipotesi che l’esperienza può o meno confermare, ma alla quale non può sostituirsi15. Un aspetto che agli occhi di James apre sconfinati orizzonti di ricerca non è tanto quello dell’origine delle idee, che egli ritiene pressoché irrilevante per stabilire il loro valore, quanto piuttosto l’orientamento che mira a vagliare le conclusioni e le prospettive che tali idee sono in grado di dischiudere. Il punto di avvio è in ogni caso il living fact con cui si vuole indicare la varietà infinita di ciò che, pur presente alla sensibilità, non è interamente racchiudibile nel dato empirico. E proprio dalla constatazione di questa pluralità di esperienze, di ricordi e di stimoli – raccolta nell’espressione “campi di coscienza” – egli deriva la persuasione di un divario incolmabile tra la pienezza della vita e la filosofia a partire dal quale si spiega il suo ridimensionamento della scienza, accompagnato dalla negazione di una presunta neutralità della stessa. Anch’essa infatti è una “fede” – riguardante ad esempio l’ordine dell’universo o la sua razionalità – solo più circoscritta, incapace perciò di appagare le esigenze della natura umana vivente, istintiva e volitiva, della quale fanno parte anche passioni e sentimenti. 15

Ad avviso di James, empirismo è fedeltà incondizionata all’esperienza in tutte le sue dimensioni. Poiché l’esperienza umana non si esaurisce nel complesso delle operazioni mentali, sono a buon diritto degne di considerazione anche la coscienza religiosa dell’umanità e i fenomeni mistici, in quanto anch’essi costituiscono un dato d’esperienza da esaminare se si vuole verificarne la validità e la legittimità. Il pragmatismo di James non comincia e non finisce rigettando le costruzioni della religione positiva ma le tratta anzi con simpatia, in parallelo ad un ruolo ridimensionato dell’ambito rigorosamente scientifico rispetto ad interessi emotivi, morali o estetici. Cf. JAMES W., Le varie forme dell’esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana (1902), trad. it. di PAOLETTI P., introd. di FILORAMO G., Morcelliana, Brescia 2009.

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Ritroviamo questa posizione di fondo in diversi testi del filosofo e in modo esemplare in alcune sue lezioni tenute nel 1892 a Cambridge, nel Massachusetts, nelle quali alla concezione jamesiana di natura umana si affianca in modo convincente una specifica analisi del processo educativo16. Lo spirito di questi discorsi indirizzati ad insegnanti e a studenti, pubblicati nel 1899, rivela infatti un’attenzione filosofico-pedagogica che ha origine nei Princìpi del 1890 – come dimostrano tematiche comuni, ad esempio i capitoli sull’abitudine o l’attenzione – ma che non si può tuttavia ridurre alla sola psicologia, dal momento che, come viene fatto notare, quest’ultima «è una scienza e l’insegnamento è un’arte, e le scienze non generano mai direttamente le arti. È necessaria la mediazione di una mente inventiva che, servendosi della sua originalità, riesca a produrre le necessarie applicazioni»17, ed eviti così all’umanità di ricominciare daccapo nelle sue acquisizioni fondamentali ad ogni generazione. 2. Il soggetto da educare Dagli elementi sopra considerati già emerge la peculiare concezione della conoscenza secondo James: non un mero prodotto della mente, piuttosto un processo elaborato e multiforme che coinvolge tanto l’oggetto che deve essere cono16

JAMES W., Talks to Teachers on Psychology: And to Students on Some of Life’s Ideals, Henry Holt and Co., New York 1899; trad. it. Discorsi agli insegnanti e agli studenti sulla psicologia e su alcuni ideali di vita, a cura di STARA F., Armando, Roma, 2003 [Discorsi]. 17 JAMES W., Discorsi, op. cit., p. 43.

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sciuto quanto colui che conosce, e che contempla allo stesso modo per la sua dimensione veritativa la possibilità della riuscita o del fallimento. Alla concezione della verità come agreement tra idea e realtà James risponde con una formulazione più problematica di tale accordo, soffermandosi nelle sue ricerche sulle funzioni mentali in rapporto all’evoluzione fisiologica dell’organismo e su una più articolata definizione di ‘conoscenza’, e dunque di verità, sviluppata ad un livello sia logico che psicologico. Così nell’accettare che un’idea si considera vera quando conduce ad una certa realtà, o comunque permette di controllarla in modo da ottenere il fine che ci si è proposti con una certa azione, laddove siamo effettivamente condotti alla realtà che prefiguriamo allora tale idea può dirsi finalmente verificata. Essa assume valore per quel che fa non per quel che è, e possiede un valore in quanto influenza il futuro della vita e dell’azione. In una parola, perché ha un significato. Il valore di un’idea o di una credenza viene posto qui nella condotta che ne segue, e tale condotta diventa criterio di verifica della sua bontà, oltre che della sua verità. L’unico modo di cogliere il significato di un’idea, in questo tipo di scenario, è quello di rifarsi all’esperienza reale e particolare che essa provvede. Si tratta di un approccio filosofico che proprio in ambito educativo rivela tutta la sua efficacia. Di fronte a differenti modelli di società, istituzioni o sistemi pedagogici, il pragmatista James non può fare altro che ricondurli alla varietà di credenze, iniziative e decisioni che in ultima analisi fanno capo alla meravigliosa singolarità individuale di esseri che pure si trovano a condividere una comune natura. È questa la dimensione umana che James cerca di tenere sempre presente nella sua filosofia di contro alla “disumanità” delle scienze, che ai 142

suoi occhi rappresentava un pericolo reale per la felicità dell’uomo. Nei Discorsi rivolti ad insegnanti e studenti è possibile individuare alcuni aspetti utili per una riflessione in tal senso. 2.1. Gli impulsi ambiziosi della natura umana La mente come meccanismo essenzialmente teleologico che ci è dato in vista di fini pratici – fini che non possiamo trovare nel mondo delle sensazioni, ma che provengono dalla nostra passionalità pratica ed emotiva – è uno dei temi centrali che James raccomanda di tenere a mente quando si rivolge ad educatori18. In modo tutto speciale essi hanno di fronte nature reattive da plasmare, ma non possono pensare di riuscire nel loro intento se ignorano la complessità di un organismo volitivo che presenta istinti congeniti, emozioni, abitudini ed è alla costante ricerca di significati. Si torna così di nuovo al tema della volontà e della funzione genuinamente pratica dell’educazione: «L’educazione, in breve, non può essere meglio descritta che definendola come l’organizzazione delle abitudini acquisite e delle tendenze ad un comportamento»19. Un impegno in tale direzione deve fornire non soltanto gli strumenti necessari a risolvere problemi ma, in senso più nobile e politico, a migliorare le relazioni con il proprio ambiente così da favorire l’adattamento ad una certa realtà, e al medesimo tempo assicurare l’apertura alla novità per scongiurare una sclerosi. Resta fermo però che, per esaminare l’agire altrui e programmare la propria attività, l’insegnante 18 19

IBIDEM, p. 56. IBIDEM, p. 55.

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ha bisogno di un’idea dell’essere umano, della natura sua propria, partendo dalla concretezza costituita da bisogni, sentimenti, ideali, scopi e modelli. Lo sfondo argomentativo sul quale James colloca i Discorsi nulla sottrae alla loro stretta dipendenza da una teoria psicologica sperimentale che in quegli anni si andava definendo. Egli sa bene tuttavia che la fatica dell’educazione risiede in primo luogo nel fatto che questa implica anche una trasmissione di senso e di significato e che, per fare appello alla realtà umana, è richiesta la sua conoscenza. James mette così a frutto nel corso delle sue lezioni le cognizioni acquisite in ambito scientifico, coniugandole con resoconti altrettanto efficaci della natura umana che possono ricavarsi dai romanzi di Tolstoj o di Stevenson. In questo quadro si rivela particolarmente utile la descrizione che viene offerta delle reazioni congenite (native reactions) dell’uomo20. Insieme ad impulsi elementari quali la paura, l’amore e la curiosità, James fa luce sui meccanismi reattivi più complessi che formano la stratificazione dei «campi di coscienza»21. L’attenzione del filosofo si ferma innanzitutto sull’imitazione «Ognuno di noi, infatti, è ciò che è quasi esclusivamente grazie al suo spirito di imitazione. Acquisiamo consapevolezza di quello che siamo imitando gli altri – prioritaria è la coscienza di ciò che gli altri sono – il senso di sé cresce secondo il senso di un modello»22.

Così l’imitazione si converte in emulazione, vale a dire nell’ 20

IBIDEM, pp. 65-73. IBIDEM, p. 48. 22 IBIDEM, p. 66. 21

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«impulso ad imitare ciò che un altro fa, per non apparire inferiore ad esso»23, ed è pensata qui come il motore della società. Proprio nella vita scolastica, fa notare James, è assai evidente il ruolo svolto dall’imitazione e dall’emulazione: quest’ultima muta poi in ambizione in tutte quelle situazioni ove si configura una competizione, e anche questa lungi dal caratterizzarsi negativamente riveste un’importante funzione sociale: «Il sentimento di rivalità è alla base del nostro essere, ogni miglioramento sociale è dovuto in larga parte ad esso»24. Una conformazione psicologica di questo tipo mentre conduce l’Autore a riflettere sul valore pedagogico della premialità, del riconoscimento del merito e di tutti quegli strumenti idonei a certificare differenze dovute ad un diverso grado di impegno e di coinvolgimento da parte dell’allievo, gli consente però di mettere a fuoco le cinque tendenze istintive della natura umana che possono essere impiegate utilmente nell’ambito di una filosofia dell’educazione: «Come l’imitazione si trasforma in emulazione, così l’emulazione scivola nell’ambizione; e quest’ultima si lega strettamente alla combattività e all’orgoglio. Conseguentemente, queste cinque tendenze istintive formano un gruppo di fattori interconnessi, difficili da separare nella determinazione di larga parte del nostro comportamento. Impulsi ambiziosi sarebbe, forse, il nome più appropriato per l’intero gruppo» 25.

Nell’ambito del processo educativo vi sono poi altre tendenze istintive fondamentali di cui tenere conto, come il possesso o la costruttività, la vanità o la riservatezza, le quali, se 23

IBIDEM, p. 67. IBIDEM, p. 68. 25 IBIDEM, p. 69 (corsivo nel testo). 24

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individuate per tempo e con precisione, possono agevolare la formazione del carattere dell’allievo e la costruzione del suo sistema di abitudini. A questo tema, in particolare, James dedica pagine di grande intensità. Dopo aver osservato «che siamo soggetti alla legge dell’abitudine per il fatto che possediamo dei corpi» 26, egli porta l’attenzione sulla necessità di rendere automatiche, e perciò abitudinarie, quante più inclinazioni o azioni utili alla vita è possibile, e questo sin dalla giovinezza. Tutta la nostra vita, spiega James, è definita – nel senso appunto di essere delimitata, circoscritta – dalle abitudini ed esse sono così importanti perché inibiscono le tendenze impulsive che a volte possono risultare dannose. In modo analogo le abitudini conservano le inclinazioni giuste e buone: è necessario, spiega il filosofo, abituarsi – cioè educarsi – a godere ad esempio della poesia o della musica, come pure a mantenere aperto il dialogo con la spiritualità27. Coerentemente ad un’impostazione filosofica orientata all’azione e alla prassi, James insiste quindi sulla capacità dell’educatore di poter dare una forma ai caratteri con cui interagisce trasformando le buone abitudini in tessuto organico dell’esistenza. Ma quel che è più rilevante in questa sede, vale a dire nell’ambito di una lettura filosofica generale della natura umana, è constatare che James può in effetti assumere fino in fondo il termine esperienza – al quale finisce per ricondurre le tracce che lascia in noi tutto ciò che facciamo – solo appellandosi a questo senso forte di educazione, intesa al modo di un esercizio che va ad agire sulla natura umana: 26 27

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IBIDEM, p. 75. IBIDEM, pp. 78-79.

«L’inferno, di cui ci parla la teologia – e che forse ci aspetta – non è diverso dall’inferno che ci costruiamo in questo mondo piegando il nostro carattere ad abitudini sbagliate. Se i giovani potessero rendersi conto di quanto presto diventeranno fasci ambulanti di abitudini, essi, certamente, sarebbero più accorti con il loro comportamento in fase di formazione. Noi tessiamo i nostri destini, nel bene e nel male, e mai a vuoto. Ogni colpo di virtù o di vizio lascia il suo segno visibile»28.

Troviamo qui formulata, in altri termini, l’applicazione pedagogica dell’intuizione secondo cui il mondo migliora con l’impegno dell’individuo, e l’investimento personale, sugli ideali più elevati: l’esito positivo non è garantito da alcuna teoria del progresso necessario ma dipende, in ultima analisi, soltanto dallo sforzo dei singoli che discende dalle loro personali convinzioni. È questo che rende visibile l’invisibile, ovvero la potenza dell’abitudine: il carattere che assumono vite plasmate da tante singole azioni, le acquisizioni scientifiche che seguono ore di studio e di applicazione, la santità come risultato di una serie di atti morali diventati ordinari. 3. La vita significativa Nel prendere le distanze dall’agnosticismo scettico e dallo gnosticismo razionalistico che nutre la pretesa di eliminare ogni dubbio, James dedica i suoi sforzi ad indicare che c’è un problema più radicale di quello riservato agli strumenti e ai percorsi propri della scienza, ed è l’atteggiamento da assumere nei confronti dell’universo, o in altri termini del significato. Ci 28

IBIDEM, p. 81.

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soccorre qui la seconda parte dei suoi Discorsi – dopo la prima più scientifica e descrittiva – dedicata al tema degli ideali di vita29. James si interroga sulle ragioni che provocano insensibilità (o meglio, cecità) di fronte ai significati e ai sentimenti delle vite altrui, nel tentativo di comprendere perché quel che per altri è significativo non lo è per noi. Così facendo, nel collegare tale questione alla molteplicità delle esperienze di vita di organismi sensibili, impulsivi e reattivi quali sono gli uomini, ne ricava in prima istanza un invito alla sospensione dei propri giudizi: «Siamo esseri pratici, ognuno con funzioni e doveri limitati da compiere. Ciascuno è tenuto a sentire intensamente l’importanza dei suoi propri doveri e il significato delle situazioni che ne provocano l’apparire. Ma una tale sensazione è un segreto vitale in ognuno di noi e invano cerchiamo negli altri simpatia per essa – gli altri sono troppo presi dai propri segreti vitali per interessarsi ai nostri. Di qui la stupidità e ingiustizia delle nostre opinioni quando si riferiscono alla vita altrui. Di qui la falsità dei nostri giudizi, allorquando presumono di decidere, in modo assoluto, del valore delle condizioni e degli ideali altrui»30.

Attraverso questo passo James allude a due grandi questioni che qui si possono richiamare soltanto in via generale. La prima fa riferimento al suo atteggiamento verso la scienza, la quale è considerata assai preziosa quando ci pone in contatto con oggetti concreti e particolari ma che non può nutrire la presunzione di voler esaurire la ricerca delle essenze generali che si assommano in quel tutto che è l’universo. È così 29 30

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IBIDEM, pp. 143-191. IBIDEM, p. 157.

ad esempio per l’immortalità dell’anima, che James prende in considerazione ed assume non per gli argomenti offerti da una certa psicologia razionale ma per l’energia che essa è in grado di imprimere alla nostra vita morale e sociale. In maniera analoga, non si può ignorare quella che con una felice espressione egli chiama «volontà di credere»31 che orienta l’essere umano ed è a fondamento del suo giudizio, né la profondità della vita religiosa intesa come atteggiamento originario dell’uomo, il cui culmine è lo stato mistico che dischiude possibilità sconosciute al potere della ragione quando arriva a porre in contatto con un ordine invisibile che trasforma l’esistenza umana. Non è legittimo emarginare questi dati o ideali di vita relegandoli con sufficienza nel limbo di ciò che non è scientificamente dimostrabile, avverte James, perché un simile atteggiamento è utile soltanto a rivelare la povertà e l’inadeguatezza della concezione di natura umana alla quale si ricorre. La seconda questione sulla quale James si sofferma nella parte finale dei Discorsi riguarda invece stricto sensu la risposta al problema del significato, che egli riconduce direttamente alla complessità del soggetto umano e della sua natura sospesa tra il valore interiore e la propria posizione nel mondo32. Malgrado la nostra insensibilità, infatti, «siamo portati a riconoscere che può esistere un significato interiore nelle vite altrui anche laddove riusciamo a notarlo solo minimamente», il quale «può essere completo e valido anche per noi solo quando la 31

Si fa riferimento al principio del “Will to Believe” per il quale si rinvia all’omonimo testo jamesiano: La volontà di credere (1897), trad. it. di GRAZIUSSI G., Principato Edizioni, Milano-Messina 19632. 32 Cf. JAMES W., Discorsi, op. cit., p. 183.

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gioia interiore, il coraggio e la costanza si coniugano a un ideale»33. Viene così introdotta la nozione di ideale, cara all’Autore, che possiamo indicare come qualcosa che viene «concepito intellettualmente, qualcosa di cui non siamo inconsapevoli, qualcosa che rechi con sé quel senso di prospettiva, di elevazione, di lucidità che accompagna le questioni intellettuali»34. Ma se l’idealità per ciascuno rappresenta ciò che ai suoi occhi è nuovo, degno di sforzo e di interesse, si palesa con altrettanta chiarezza il rischio che possa indicare anche mete negative o cattivi obiettivi. Proprio a questo livello James avverte il potere dell’educazione, capace di allargare «i nostri orizzonti e le nostre prospettive» così da «moltiplicare gli ideali e metterne in vista di nuovi»35. Lavorare sugli ideali di vita di coloro che si affacciano all’esistenza è davvero, secondo il filosofo, una delle principali responsabilità dell’educatore. Ma se a tal fine questi deve poter disporre di una buona visione psicologica complessiva di coloro ai quali si rivolge, tutto sommato riconducibile ad un numero ristretto di nozioni, dovrà invece dedicare sforzi notevoli alle motivazioni interiori che muovono l’individuo. Dove manca la motivazione interiore non può esserci significato e di conseguenza risulta difficile ravvisare un valore. Ciò che emerge da questa riflessione jamesiana, in fondo, è la percezione del delicato equilibrio che sorregge ogni esistenza e che per l’Autore si può sperare di raggiungere solo all’interno di una relazione dinamica tra dimensioni distinte 33

IBIDEM, p. 187 (corsivo nel testo). IBIDEM. 35 IBIDEM. 34

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eppure intessute nella trama della natura umana. Gli argomenti di una vita significante possono essere numerosi e anche profondamente discordanti, ma per afferrarli non è sufficiente una spiegazione razionalmente ineccepibile. Se ci si vuole accostare, anche sommariamente, al significato interiore delle vite altrui deve stabilirsi una sorta di combinazione che abbracci intelletto, coraggio e volontà, perché «[l]a risposta di apprezzamento, di comprensione è, in linea di massima, un equilibrio suscitato dalla simpatia, l’intuizione e la buona volontà»36. Se il senso di una filosofia diventa evidente a partire dalle abitudini di vita che riesce a generare, e quella che abbiamo cercato di delineare si propone di plasmare una maggiore e più viva consapevolezza di quanta profondità e quanto valore si nasconda nelle vite altrui, vale a dire in quegli organismi impulsivi e reattivi in parte predestinati e in parte liberi che sono gli esseri umani, allora si può anche concordare con James sul fatto che, in definitiva, «[i]l significato concreto della vita è sempre la stessa eterna cosa: l’unione, principalmente, di un ideale non comune, in ogni caso speciale, con una certa fedeltà, coraggio e persistenza» e che «comunque o dovunque la vita si manifesti, ci sarà sempre la possibilità che quell’unione avvenga»37.

36 37

IBIDEM, p. 189. IBIDEM, p. 190.

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I CONCETTI DI PERSONA ED HOMO CAPAX NELLA PROSPETTIVA ERMENEUTICA DI PAUL RICOEUR Tommaso Valentini 1. Una ripresa del personalismo nell’«età ermeneutica della ragione» In queste pagine prendiamo in esame alcuni aspetti fondamentali della proposta ermeneutica di Paul Ricoeur (1913-2005) in relazione al tema della soggettività. In particolare mettiamo in rilievo come la definizione speculativa della nozione di identità personale costituisca il “filo sottile” che unifica l’ampio itinerario di ricerca di Ricoeur: viene quindi sottolineata l’ispirazione personalistica che orienta la sua indagine e che sta sullo sfondo del suo tentativo di formulare una “rinnovata filosofia del cogito”. Si tratta di una filosofia incentrata sulle capacità del soggetto – definito homo capax – di agire, di parlare, di narrare, di imputare a se stesso le proprie opere e le proprie responsabilità etico-giuridiche. Con le sue riflessioni Ricouer ha saputo rinnovare la tradizione personalistica tipicamente francese (si pensi ad Emmanuel Mounier, uno dei suoi maestri), reinserenTOMMASO VALENTINI, Professore associato di “Filosofia politica” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi (Roma); docente incaricato di “Storia della filosofia moderna” presso la Pontificia Università Antonianum.

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dola con solidità di argomenti nel dibattitto epistemologico contemporaneo e nelle più recenti discussioni etico-politiche. Particolare attenzione diamo alle analisi ricoeuriane sulle condizioni di possibilità di un’ontologia del soggetto: in particolare analizziamo l’opera del 1990 Soi-même comme un autre e segnatamente il decimo studio (dal titolo “Vers quelle ontologie?), che ci pare di fondamentale importanza. La ricerca ricoeuriana contenuta in questo decimo studio contiene, infatti, una chiave di lettura di tutto l’ampio itinerario ricoeuriano, solo apparentemente dispersivo e frantumato in diversi ambiti di indagine (dalla fenomenologia alla psicoanalisi, dalla semiotica ai fondamenti dell’etica). Come vedremo, quella di Ricoeur è una stimolante proposta di riflessione sulle tematiche dell’ontologia e dell’identità personale in un’età che l’autore stesso – d’accordo con Jean Greisch – ha definito come “età ermeneutica della ragione (âge herméneutique de la raison)”1. 2. Metodi d’indagine per un’ermeneutica d’ispirazione personalistica Ricoeur per la vastità dei suoi ambiti d’indagine costituisce sicuramente una delle figure più interessanti del panorama filosofico contemporaneo: i suoi studi vanno dall’azione volontaria ai simboli del mito, dal linguaggio metaforico all’etica della narrazione, dallo statuto ontologico del soggetto al grande 1

Ricoeur stesso dichiara che le indagini filosofiche condotte in Soi-même comme un autre si situano in «quella che Jean Greisch chiama l’età ermeneutica della ragione» (RICOEUR P., Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; trad. it. e cura di IANNOTTA D., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 19992, p. 102). Cf. anche GREISCH J., L’Âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985.

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tema etico del riconoscimento dell’alterità. Egli ha attraversato il Novecento confrontandosi di volta in volta con le correnti filosofiche caratterizzanti l’atmosfera speculativa dominante: basti pensare ai suoi primi scritti sulla filosofia riflessiva francese, sull’esistenzialismo di Karl Jaspers e di Gabriel Marcel, sulla fenomenologia di Husserl, sulla psicoanalisi di Freud e – dopo il suo soggiorno negli Stati Uniti – a quelli della maturità incentrati sulle tematiche del linguaggio, della narrazione e dell’identità personale, dove più approfondito è anche il confronto con la filosofia analitica2. Quello di Ricoeur è quindi un lungo itinerario di ricerca comprendente differenti tematiche e nel quale si intrecciano diversi metodi d’indagine: come è stato rilevato, esso costituisce «un ampio tentativo di mediazione tra le esigenze epistemologiche della fenomenologia, delle scienze umane a base strutturale, e di taluni esiti delle filosofie analitiche da una parte – e l’ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed esistenzialistici dall’altra»3. Il fecondo itinerario speculativo ricoeuriano, definito da Jean Greisch come “itinérance du sens”4, è caratterizzato da un forte desiderio di “media2

È il filosofo stesso ad indicarci le principali tappe del suo pensiero in relazione agli eventi della sua biografia: cf. RICOEUR P., La critique et la conviction. Entretiens avec François Azouvi et Marc de Launay, Calmann-Lévy, Paris 1995; trad. it. di IANNOTTA D., La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvi et Marc de Launay, Jaca Book, Milano 1998; IDEM, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éd. Esprit, Paris 1995; trad. it. di IANNOTTA D., Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998. 3 FERRARIS M., Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, p. 325. 4 Cf. GREISCH J., L’itinérance du sens. La phénoménologie herméneutique de Paul Ricoeur, Jerome Millon, Grenoble 2001. Il fondamentale intreccio di filosofia riflessiva e ricerca del senso è alla base anche dell’ampia monografia sul pensiero ricoeuriano realizzata da AIME O., Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella, Assisi 2007.

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zione” tra gli apporti delle scienze umane e la riflessione filosofica sull’uomo: si tratta di uno stile di ricerca costitutivamente predisposto al dialogo tra i saperi; esso si contraddistingue per lo sforzo di attuare una proficua mediazione critica tra differenti metodologie d’indagine e correnti di pensiero anche assai distanti le une dalle altre, come ad esempio l’ermeneutica “continentale” e le filosofie analitiche anglo-americane. In quest’originale percorso che vede l’arduo intrecciarsi di differenti metodologie, è Ricoeur stesso ad indicare con chiarezza le matrici essenziali del suo pensiero che riassume con le “etichette” di filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica ed ermeneutica: «riguardo al primo termine – riflessiva –, l’accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l’esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine – fenomenologica – designa l’ambizione di andare alle “cose stesse”, cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all’esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest’intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l’accento sulla dimensione intenzionale della vita teoretica, pratica, estetica ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come “coscienza di…”. Husserl rimane l’eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine – ermeneutica – […] l’accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell’esperienza umana. […] I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer»5. 5

RICOEUR P., Per un’autobiografia intellettuale, IDEM, Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, ECP, Firenze 1994, p. 40.

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Il tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur può essere definita come personalistica o, meglio ancora, di ispirazione personalistica: il tema principale d’indagine che unifica le incursioni di Ricoeur nelle differenti problematiche filosofiche può essere individuato nella ricerca dei possibili significati del concetto di persona umana. Il télos essenziale delle ricerche ricoeuriane si può, dunque, individuare in una “rinnovata filosofia del cogito e della persona”. In questa prospettiva, lo stile riflessivo tipico della tradizione francese, la fenomenologia husserliana e la stessa ermeneutica – lontana da qualsiasi esito storicistico e nichilistico6 – vengono arricchite dalla sensibilità proveniente dal movimento personalista di Emmanuel Mounier, al quale Ricoeur fu legato nella sua giovinezza. Il filosofo, pur prendendo le distanze da certi atteggiamenti di eccessiva militanza che caratterizzarono il movimento personalista, non esita a sottolineare il valore speculativo e l’urgenza stessa di un pensiero filosofico incentrato attorno alla nozione di persona: 6

Per un approfondimento del tipo di ermeneutica praticata da Ricoeur anche in confronto con altri tipi di approcci ad una filosofia dell’interpretare e del comprendere, cf. RIGOBELLO A., Paul Ricoeur e il problema dell’interpretazione, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di VERRA V., ERI, Torino 1976; BLEICHER J., Contemporary Hermeneutics. Hermeneutics as Method, Philosophy and Critique, Routledge, London 1980; trad. it. di SABATTINI S., L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino, Bologna 1986, in particolare pp. 261-310; VAN DEN HENGEL J.H., The Home of Meaning. The Hermeneutics of the Subject of Paul Ricoeur, University Press of America, Washington 1982; MURA G., Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma, in particolare pp. 301-314; GREISCH J., Paul Ricoeur. L’herméneutique à l’école de la phénoménologie, Beauchesne, Paris 1995; RUSSO F., Temi dell’ermeneutica del XX secolo, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», vol. 8/II (1999), pp. 251-268; PULITO M., Identità come processo ermeneutico. Paul Ricoeur e l’analisi transazionale, Armando, Roma 2003.

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«la persona resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati […] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»7.

Ed in un intervento dal significativo titolo Meurt le personnalisme, revient la personne edito nel 1983 per il cinquantenario della rivista «Esprit» (fondata dallo stesso Mounier), Ricoeur afferma: «se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»8. L’atteggiamento di fondo che accompagna le ricerche di Ricoeur è, quindi, quello di un’ermeneutica personalistica e cristiana: si tratta di un’ermeneutica dell’identità personale che è però lontana da «qualsiasi amalgama ontoteologico»9, da un semplice atteggiamento fideistico, esigenziale o postulatorio. L’ermeneutica personalistica di Ricoeur passa attraverso il “conflitto delle interpretazioni”, accetta “la sfida 7

RICOEUR P., Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne, [edizione originale 1990], Seuil, Paris 1992; trad. it. e cura di BERTOLETTI I., Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 37-71, p. 38. 8 IDEM, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. La personne (Meurt le personnalisme, revient la personne [edizione originale 1983 nella rivista Esprit]; trad. it., Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, op. cit., pp. 21-36, p. 27. Che l’opera filosofica di Ricoeur trovi una sua unità e coerenza in un’ermeneutica d’ispirazione personalistica – la quale caratterizza l’atteggiamento di fondo anche delle sue varie incursioni nei differenti campi delle scienze umane – è opinione condivisa da molti interpreti: a tal proposito cf. RIGOBELLO A., L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977, in particolare p. 87 ss.; BUZZONI M., Paul Ricoeur. Persona e ontologia, Studium, Roma 1988; BREZZI F., Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero, Padova 1999, in particolare p. 163 ss.; TUROLDO F., Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, Il Poligrafo, Padova 2000, in particolare p. 149 ss.; GIAMBETTI A., Ricoeur nel labirinto personalista, Franco Angeli Editore, Milano 2013. 9 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 101.

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della psicoanalisi e della semiologia”, non temendo di confrontarsi anche con le neuroscienze10 o con i risultati delle più scaltrite metodologie d’indagine analitiche, quali quelle di Peter Strawson, Derek Parfit e Donald Davidson11. 3. L’homme capable: il filo conduttore dell’antropologia filosofica ricoeuriana Il filo conduttore della vasta opera filosofica di Ricoeur è da ricercare nell’interpretazione della soggettività umana colta nella pluralità delle sue concrete espressioni: come il filosofo già rileva nello scritto giovanile Le volontaire et l’involontaire, egli intende fare oggetto della sua analisi l’«esperienza integrale del cogito», che «include l’io desidero, l’io posso, l’io vivo e, in generale, l’esistenza come corpo»12. Si tratta di una proposta di antropologia filosofica nella quale l’analisi del cogito viene effettuata a partire dalla concretezza dell’esprit, dei vissuti coscienziali e da quella che con l’ultimo Husserl potremmo chiamare Lebenswelt, il “mondo della vita”. Nei suoi studi sulla soggettività umana Ricoeur non si serve, quindi, di una metodologia d’indagine 10

Cf. il dibattito del filosofo francese con Jean-Pierre Changeux, uno dei più noti esperti delle neuroscienze, CHANGEUX J.-P. – RICOEUR P., La nature et la règle, Odile Jacob, Paris 1998 ; trad. it. di BASILE M., La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999. 11 Ricoeur cita questi autori come coloro con i quali «ha tentato più sistematicamente di mettere a confronto l’ermeneutica di origine fenomenologica» (RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 413). 12 RICOEUR P., Philosophie de la volonté. 1 Le volontarie et l’involontaire, Aubier, Paris 1950; trad. it. di BONATO M., Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 13.

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“trascendentale” come quella tipicamente kantiana e dell’Husserl delle Ideen, opera che – ricordiamolo – tradusse egli stesso in francese13. Secondo Ricoeur un’analisi antropologica che si limiti ad un piano d’indagine trascendentale finirebbe per dimenticare “la parte più intima e più fragile di noi stessi” e non prenderebbe in considerazione tutta la ricchezza della soggettività e della creatività umana nelle sue concrete manifestazioni. La proposta antropologica di Ricoeur si incentra, quindi, intorno alla nozione di homo capax, di homme capable: si tratta di una “fenomenologia ermeneutica” che si interroga sullo statuto ontologico del “chi?” (del soggetto), partendo dalle sue capacità, dai suoi poteri, quali «poter parlare, poter agire, poter raccontare, poter essere imputato dei propri atti a titolo di loro vero autore»14, e non da ultimi il «potere di fare memoria»15 ed il «poter promettere»16. La finalità di queste ampie ricerche di 13

Cf. HUSSERL E., Ideés directrices pour une phénoménologie, traduzione francese di RICOEUR P., Gallimard, Paris 1950. 14 RICOEUR P., La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; trad. it. e Prefazione di IANNOTTA D., La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 494. 15 IBIDEM, p. 494. 16 RICOEUR P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 145. Le tematiche della memoria e della promessa sono trattate soprattutto negli ultimi scritti del filosofo in relazione al “riconoscimento del sé” e a quella che egli definisce «fenomenologia dell’uomo capace (phénoménologie de l’homme capable)» (IBIDEM, p. 107): «con la memoria e con la promessa la problematica del riconoscimento di sé raggiunge simultaneamente due sommità. L’una si rivolge verso il passato, l’altra verso il futuro. Ma vanno pensate insieme nel presente vivente del riconoscimento di sé, grazie ad alcuni tratti che esse possiedono in comune. In primo luogo si inscrivono in maniera originale nel ciclo delle capacità dell’uomo capace» (IBIDEM, p. 127). A proposito del “poter promettere” viene anche sottolineato come questo sia un atto linguistico performativo che presuppone e si fonda sulle altre capacità del soggetto: «il poter promettere presuppone il

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Ricoeur intorno all’homo capax è l’elaborazione di un’ermeneutica dell’«io sono»: tra la polisemia dei significati dell’essere messi in luce da Aristotele nella Metafisica – Ricoeur ama spesso citare l’adagio «tò óv léghetai pollakós (l’essere si dice in molti modi)»17– il filosofo francese pone alla base della sua antropologia filosofica il significato dell’essere come potenza (dýnamis) e come atto (enérgheia), ed è anche per questo che le sue indagini si concentrano intorno alle potenzialità (puissances), alle capacità creative dell’uomo aventi come loro sostrato «un fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo»18. La fondazione ontologica del soggetto, come constateremo più avanti, è tuttavia solo un “ideale regolativo” della ricerca di Ricoeur e rimane comunque una delle questioni più problematiche del suo pensiero: quello ricoeuriano è un “pensiero itinerante e narrativo”, è una ricerca (scépsi nei termini del linguaggio platonico) sempre in fieri e che non giunge mai a conclusioni ultime e definitive. Che il filo conduttore delle ricerche ricoeuriane sia da ricercare in un’ermeneutica dell’homme capable ovvero delle potenzialità creative del soggetto è lo stesso autore ad avercelo indicato in un momento di matura riflessione sui capisaldi del suo pensiero: poter dire, il poter agire sul mondo, il poter raccontare e dare forma all’idea dell’unità narrativa di una vita, infine il poter imputare a se stessi l’origine dei propri atti. Ma la fenomenologia della promessa si concentra soprattutto sull’atto con il quale il sé si impegna effettivamente» (IBIDEM, p. 145). 17 Sui quattro significati aristotelici dell’essere cf. ARISTOTELE, Metafisica, E 2, 32 - 1026 b 2. 18 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 421. Più avanti, prendendo in considerazione i risultati speculativi di Soi-même comme un autre, cercheremo di mettere in rilievo il particolare tono aristotelico dell’ontologia ricoeuriana, nella quale il modo d’essere dell’homme capable viene considerato soprattutto in riferimento all’accezione aristotelica dell’essere come “potenza”.

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«a prima vista la mia opera è assai dispersiva; ed essa appare tale poiché ogni libro si organizza attorno ad un problema ben definito: il volontario e l’involontario, la finitudine e il male, le implicazioni filosofiche della psicoanalisi, l’innovazione semantica che è all’opera nella metafora viva, la struttura linguistica del racconto, la riflessività e i suoi stadi. È stato solo negli ultimi anni che ho pensato di poter collocare la varietà di tali approcci sotto il titolo di una problematica dominante: e ho scelto il titolo dell’uomo agente o dell’uomo capace di… […]. É dunque in primo luogo il potere di ricapitolazione inerente al tema dell’uomo capace di… che mi è parso, di contro all’apparente dispersione della mia opera, come un filo conduttore avvicinabile a quello che ho tanto ammirato in Merleau-Ponty durante i miei anni di apprendistato: il tema dell’“io posso”»19. 19

RICOEUR P., Promenade au fil d’un chemin, in TUROLDO F., Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, op. cit., pp. 15-16. Condividiamo l’interpretazione di Jean Greisch secondo la quale Ricoeur in tutti i suoi scritti avrebbe tentato di portare alla luce le implicazioni contenute nella teoria dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) di Kant. La concezione del soggetto come homme capable, messa chiaramente in risalto nell’ultima fase della produzione ricoeuriana, confermerebbe la tesi interpretativa del Greisch. Cf. GREISCH J., L’itinérance du sens. La phénoménologie herméneutique de Paul Ricoeur, op. cit. Ricoeur critica «la relativa eclissi del problema dell’immaginazione nella filosofia contemporanea» (RICOEUR P., L’imagination dans le discours et dans l’action, in AA. VV., Savoir, faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1976, pp. 207-228; trad. it. di GRAMPA G., L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, pp. 205-227, p. 205) e studia in profondità tutte le potenzialità della facoltà dell’immaginazione produttiva: essa è organo dell’«innovazione semantica, caratteristica dell’uso metaforico del linguaggio» (IBIDEM, trad. it., p. 209), opera nella costruzione dello schema narrativo del racconto e «applicata all’azione [...] ha una funzione proiettiva che appartiene al dinamismo stesso dell’agire» (ibidem, trad. it., p. 215). Ricoeur considera l’immaginazione una “cerniera tra il teo-

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Ricoeur analizza l’identità personale a partire dalle sue potenzialità creative e costitutive di senso, quali il potere di agire, di parlare, di raccontare, di fare memoria, di promettere, di rendersi capace d’imputazione ed anche di donare e di perdonare. Queste potenzialità dell’“io posso”, che stanno alla base di un’«ermeneutica dell’uomo capace»20, vengono interpretate da Ricoeur come «allargamento dell’ambito dell’agire»21: proseguendo la linea di ricerche effettuate da J. Austin e J. Searle sugli “atti linguistici” (speech acts)22, Ricoeur retico e il pratico”: egli afferma che è «nell’immaginario che io saggio il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io posso”» (IBIDEM, trad. it., p. 216) e definisce la stessa utopia politica come “immaginazione costituente”, nella quale si attua «il progetto immaginario di un’altra società, di un’altra realtà» (IBIDEM, trad. it. p. 222) e si ha la capacità «di istituire dei nuovi modi di vita» (IBIDEM, trad. it., p. 224). La facoltà dell’immaginazione è per Ricoeur decisiva anche per il riconoscimento (Anerkennung nel linguaggio hegeliano) dell’alterità e per il sentimento soggettivo dell’empatia (l’Einfühlung di cui parlano i fenomenologi tedeschi) nei confronti dell’altro; a tal proposito egli parla dell’“appercezione analogica” dell’altro come processo interiore di “trasferimento in immaginazione”: «dire che l’altro pensa come me, che prova come me pena e piacere, significa poter immaginare ciò che io penserei e proverei se fossi al suo posto. Questo trasferimento in immaginazione del mio “qui” al suo “là” è la radice di ciò che io chiamo empatia» (IBIDEM, trad. it., p. 218). 20 RICOEUR P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 113. 21 IBIDEM, p. 111. 22 A partire dallo scritto del 1975 La métaphore vive Ricoeur inizia a confrontarsi con le teorie degli “atti di discorso” nelle quali viene particolarmente messa in risalto la «capacità creatrice del linguaggio (puissance créatrice du langage)» (RICOEUR P., La métaphore vive, Seuil, Paris 1975; trad. it. e cura di GRAMPA G., La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 19972, p. 5.); in quest’opera (cf. IBIDEM, pp. 98-99), così come nel secondo studio di Soi-même comme un autre dal titolo L’enunciazione e il soggetto parlante. Approccio pragmatico, l’autore si richiama direttamente ai seguenti volumi:

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analizza come ambiti particolari di agire del soggetto la parola, la capacità di raccontare e di raccontarsi, di fare memoria e della promessa. Nel far rientrare tutte queste puissances soggettive nell’ambito dell’azione, Ricoeur parla di un’«analogia dell’agire, la quale assicura l’affinità di senso tra le diverse figure del poter fare»23. In Ricoeur l’idea di capacità viene identificata con il potere di agire, ovvero con «il potere-di-fare, ciò che in inglese si designa con il termine agency»24. L’ermeneutica dell’homme capable è, quindi, fondamentalmente un’ermeneutica dell’agire umano in tutte le sue potenzialità ed espressioni: in questa sua estensione, il filosofo nota che «l’agire sarebbe il concetto meglio appropriato al livello della filosofia antropologica all’interno della quale si inscrivono queste ricerche»25 sulle “capacità” del soggetto. L’attribuzione delle capacità ad un soggetto agente viene inoltre definita da Ricoeur “imputabilità”. Tale possibilità d’identificazione di un agente è di fondamentale importanza per l’ambito morale e giuridico al fine del «riconoscimento stesso di responsabilità»26: l’individuo che designa se stesso o J.L. AUSTIN, How to Do Things with Words, Clarendon, Oxford 1962; trad. it. di PENCO C. - SBISÀ M., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 2002; SEARLE J.R., Speech Acts, Cambridge Univ. Press, London 1969; trad. it. di CARDONA G.R. , Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976. 23 RICOEUR P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 111. 24 IDEM, Le Juste 1, Éd. Esprit, Paris 1995; trad. it. di IANNOTTA D., Il Giusto, Vol. I, Effatà, Cantalupa-Torino 2005, p. 42. 25 IBIDEM, p. 112. Sulla nozione di homme capable come filo conduttore delle ricerche antropologiche ricoeuriane cf. gli studi contenuti nel volume: FOESSEL M. - MONGIN O. (a cura di), Paul Ricoeur. De l’homme coupable à l’homme capable, ADPF, Paris 2005. 26 RICOEUR P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 122.

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la persona altrui come autore di un’azione designa se stesso o l’altro anche come soggetto di doveri e di diritti, e lo qualifica come responsabile del proprio agire27. È da notare poi che Ricoeur rileva delle notevoli analogie tra il concetto di imputabilità e quello di “attestazione” che, come indicheremo più avanti, è di primaria importanza nella teoresi ricoeuriana e può venir quasi posto a fondamento della nozione antropologica di homme capable. L’attestazione (attestation) è una dinamica interiore simile a quella dell’imputabilità di un’azione a se stessi28: essa è la facoltà riflessiva che ha il soggetto di attribuire a se stesso tutte le implicazioni dell’“io posso”, cioè dell’agire; riflettendo su stesso e sui propri atti l’uomo ha la possibilità di «riconoscersi nelle proprie capacità»29, d’identificarsi ed autodesignarsi come soggetto agente. L’attestazione è quella sorta di “testimonianza interiore” che consente al soggetto di divenir consapevole di sé e della propria attività creativa: si tratta di un’interiore dinamica riflessiva che definisce “quel grado di certezza alla quale può giungere l’ermeneutica del sé”. L’attestazione, allo stesso modo dell’imputabilità a se stessi dei propri 27

A proposito della correlazione tra capacità d’imputazione di un’azione ad una persona ed attribuzione della responsabilità Ricoeur ricorda quanto afferma il Dictionnaire de Trévoux del 1771: «imputare un’azione a qualcuno significa attribuirgliela quale suo vero e proprio autore, metterla per così dire sul suo conto e renderlo responsabile» (IBIDEM, p. 124). 28 L’imputabilità nei confronti del sé viene definita interiore dinamica riflessiva che «rende il soggetto contabile dei propri atti, al punto da poterli imputare a se stesso» (IBIDEM, p. 123); viene inoltre sottolineato che «con l’imputabilità la nozione di soggetto capace raggiunge il suo più alto significato, e la forma di autodesignazione da essa implicata include ed in un certo senso ricapitola le forme precedenti di sui-riferimento» (IBIDEM, p. 123). 29 IBIDEM, p. 122.

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atti, è dunque la capacità che ha l’uomo di identificarsi e riconoscersi come soggetto delle puissances, come homme capable. L’attestazione del sé è, inoltre, anche l’organo conoscitivo tramite il quale Ricoeur si spinge a considerazioni sulla soggettività di carattere ontologico: nelle prossime pagine cercheremo di analizzare come l’autore a partire dalle sue considerazioni sull’homme capable e sul significato dell’attestazione – confrontandosi pure con Aristotele ed Heidegger – si impegni in un discorso di carattere ontologico, domandandosi come si possa caratterizzare quel “fondo d’essere ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano”, inteso quest’ultimo in tutta quell’ampiezza di significati che in precedenza abbiamo ricordato. Nelle sue riflessioni sull’azione umana come chiave di lettura di una possibile “ontologia della persona” Ricoeur si richiama implicitamente ad un’antica tradizione filosofica: basti ricordare l’adagio scolastico «omne ens est activum» o l’espressione leibniziana per la quale «l’agire è il carattere essenziale di ogni sostanza»30; tuttavia ci pare che il suo riferimento più vicino sia da scorgere nella “filosofia dell’azione” del francese Maurice Blondel. Quest’ultimo, in modalità simili a quelle di Ricoeur, ha sottolineato che quella dell’azione «non è una questione particolare, una questione come un’altra. È la questione. […] Si tratta di tutto l’uomo. […] Bisogna trasferire nell’azione il centro della filosofia, perché là si trova anche il centro della vita»31. L’azione costituisce la sintesi tra il pen30

VON LEIBNIZ G.W., Specimen Dynamicus, in IDEM, Matematische Schriften, a cura di GERHARD, Berlin 1849, p. 235. 31 BLONDEL M., L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris 1893; trad. it. di SORRENTINO S., L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pp. 76-77.

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siero e l’essere: il pensiero si esteriorizza nella prassi e tramite quest’ultima l’uomo riforma, trasforma e costruisce l’essere stesso. L’azione non abolisce il pensiero, ma lo include in una prospettiva superiore e lo potenzia. Sia Blondel che Ricoeur sostengono che già l’esercizio del pensiero sia un’attività, una “azione interiore”, una enérgheia. A loro parere conoscenza e azione non possono essere mai completamente disgiunte, queste si fondono nell’unità attiva e produttiva della vita spirituale: «io considero impossibile e illegittimo» – sostiene Blondel – «isolare l’intelletto speculativo e astrattamente teorico, separare il ruolo conoscitivo e il ruolo attivo dello spirito, dividere con nettezza artificiale l’aspetto logico dall’aspetto morale o religioso entro l’unità vivente di uno stesso destino umano»32. 4. Ermeneutica della persona e attestazione in Soi-même comme un autre Ci soffermiano ora a prendere in esame alcuni passaggi decisivi del volume del 1990 Soi-même comme un autre, opera che può considerarsi quasi come una summa del pensiero di Ricoeur e che costituisce il tentativo di rispondere all’interrogativo “chi sono io?”. É in essa che l’autore espone chiaramente il suo progetto di una “rinnovata filosofia del cogito”, spiega il valore teoretico della nozione di attestazione e pone in luce 32

Lettera di Blondel ad Enrico Castelli datata 8 dicembre 1924 e riportata in appendice della traduzione italiana dell’opera: BLONDEL M., Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, Colin, Paris 1903; trad. it. di CASTELLI E., Principio di una logica della vita morale, Guida, Napoli 1969, pp. 37-42 , p. 38-39.

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la sottesa intenzionalità ontologica della sua ermeneutica del sé. Nella Prefazione dell’opera l’autore prende nettamente le distanze da due opposte tendenze filosofiche della modernità che hanno particolarmente accentuato il tema della soggetto: una è quella dell’ambizione fondativa del cogito realizzata da Cartesio e portata avanti da Kant e Husserl nella filosofia trascendentale, l’altra è quella dell’anti-cogito e Nietzsche ne è il suo fautore insieme agli altri “maestri del sospetto” (Marx e Freud). Il cogito cartesiano, l’io penso (Ich denke) di Kant ed in generale tutta la filosofia trascendentale sono prospettive di fondazione filosofica nelle quali «la problematica del sé ne esce magnificata, ma a prezzo della perdita del suo rapporto con la persona di cui si parla, con l’io-tu dell’interlocuzione, con l’identità di una persona storica, con il sé della responsabilità»33: si tratta di una soggettività “trascendentale” che ha certamente valore di fondamento speculativo ma che rischia di lasciar fuori da ogni considerazione filosofica ciò che a Ricoeur sta più a cuore, la concretezza empirica dell’io «parlante, agente, personaggio della narrazione, soggetto di imputazione morale»34. Ricoeur critica senza riserve anche le filosofie dell’anti-cogito che si ispirano a Nietzsche, considerato come «l’antagonista privilegiato di Cartesio»35: in esse l’io è visto come “gioco linguistico”, semplice metafora dietro la quale non v’è nulla di sostanziale. Nozioni filosofiche come quelle di soggettività e d’interiorità sono per Nietzsche solamente «un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi», sono con33

RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 86. IBIDEM, 82. 35 IBIDEM, p. 86. 34

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cetti fittizi ed «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria»36. Nietzsche opera, quindi, uno “smascheramento” ed una decostruzione stessa delle pretese fondative delle moderne filosofie del soggetto: egli spinge alle estreme conseguenze il dubbio cartesiano, mostrandosi scettico nei confronti della stessa “certezza logica” costituita dal cogito. Alla «verità sterile»37 delle filosofie fondate sul cogito e al dubbio iperbolico spinto da Nietzsche nei confronti della stessa certezza del cogito, Ricoeur contrappone il suo itinerario speculativo di un ermeneutica del sé, la quale «occupa un posto epistemico (e ontologico, come viene detto nel decimo studio [di Sé come un altro]) che si situa al di là di questa alternativa del cogito e dell’anti-cogito»38: in quest’approccio ermeneutico alla posizione immediata dell’io – tipica dell’argomentare cartesiano e più in generale delle filosofie del cogito – viene sostituita la “via lunga” di un’analisi sulla mediazione riflessiva del sé (soi-même). Anche per ben comprendere il significato dello stesso titolo dell’opera Sé come un altro, occorre rilevare che l’uso filosofico fatto da Ricoeur del termine “sé” va al di là dei limiti grammaticali di «pronome riflessivo della terza persona (egli, ella, essi)»39 e assume una «valenza di riflessivo onnipersonale»40, così come accade 36

NIETZSCHE F., Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, [edizione originale 1873], in Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von COLLI G. - MONTANARI M., vol. III, testo II, Walter de Gruyter, Berlin und New York 1973; trad. it. di COLLI G., Verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, testo II, Adelphi, Milano 1980, p. 361. 37 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 85. 38 IBIDEM, p. 92. 39 IBIDEM, p. 75. 40 IBIDEM, p. 76.

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anche nel titolo del noto volume di Michel Foucault del 1984 La cura di sé (Le souci de soi): il “sé” sta ad indicare il primato della mediazione riflessiva (cioè della réflexion dell’io su se stesso a partire dai propri atti) nei confronti della posizione immediata del soggetto, così com’essa è espressa alla prima persona (“io”)41. Di centrale importanza per comprendere la prospettiva ricoeuriana è anche la chiarificazione terminologica che viene fatta del termine “identità” in relazione al significato latino di idem ed ipse: «l’identità intesa come idem, dispiega una gerarchia di significazioni […] tra le quali la permanenza nel tempo costituisce il grado più elevato, cui si oppone il differente, inteso come mutevole, variabile»42. Al contrario, l’identità intesa nel senso di ipse «non implica alcuna asser41

A questo proposito Ricoeur afferma: «dire sé non significa dire io. L’io si pone [Cartesio] – o è deposto [Nietzsche]. Il sé è implicato come riflessivo in quelle operazioni la cui analisi precede il ritorno verso esso stesso» (ibidem, p. 94). Nell’ermeneutica del sé l’approccio di una filosofia di stile riflessivo si intreccia con l’approccio di tipo analitico: l’identità personale viene, quindi, studiata anche in connessione con le metodologie di ricerca tipiche dell’ambito filosofico anglo-americano. A tal proposito cf. il quinto studio di Sé come un altro (“L’identità personale e l’identità narrativa”), nel quale la nozione d’identità personale viene considerata soprattutto in confronto critico con la prospettiva filosofica (“antimetafisica” e “riduzionista”) di Derek Parfit, esposta nel seguente volume: PARFIT D., Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford 1984; trad. it. di RINI R., Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989. Secondo Parfit la persona non è altro che il risultato della connessione psicologica delle sue esperienze: contrariamente a quanto sostiene Ricoeur, per il filosofo oxoniense quando ci si interroga sulla persona «ciò che conta» è soltanto la connessione psicologica tra diversi stati mentali ed è impossibile ricercare un’identità transtemporale (e tanto meno un fondamento ontologico del soggetto) come «un fatto ulteriore» (PARFIT D., Ragioni e persone, op. cit., p. 271). 42 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 77.

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zione circa un preteso nucleo immutabile della personalità»43: si tratta della nozione di identità-ipse (ipséité) con la quale viene indicato «un soggetto capace di designare se stesso come l’autore delle proprie parole e delle proprie azioni, un soggetto non sostanziale e non immutabile, ma nondimeno responsabile del suo dire e del suo fare»44. Possiamo dire che l’ermeneutica ricoeuriana dell’identità personale si origini proprio dalla presa in considerazione dell’ipséité, ovvero dal carattere riflessivo ed indiretto tramite il quale il soggetto comprende se stesso come agens. Ricoeur rileva, inoltre, che il “sé” – tema d’indagine della sua proposta ermeneutica – non ha mai un carattere solipsistico e monologico: il sé è sempre costituiva apertura dialogica verso l’alterità. E l’alterità – intesa nel senso di corporeità, estraneità e coscienza (Gewissen)45 – è essa stessa parte integrante del sé. Come accentuato dallo stesso emblematico titolo dell’opera, il sé è “come” un altro: quel “come” «non va inteso nel senso di una semplice comparazione (soi-même semblable à un autre) ma, in modo più intrinseco, nel senso di un’implicazione (soi-même en tant qu’autre)»46: questo significa 43

IBIDEM. RICOEUR P., Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, op. cit., p. 92. 45 Per Ricoeur l’alterità «appartiene alla costituzione ontologica dell’ipseità» (RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 431): egli sottolinea il carattere polisemico dell’alterità ed indica tre precise esperienze soggettive in cui si avverte intimamente la presenza di un’alterità a se stessi: «l’esperienza del corpo proprio, o meglio della carne (chair)» (IBIDEM, p. 432), l’esperienza dell’incontro con «l’estraneo, nel senso preciso dell’altro da sé» (IBIDEM, p. 433), e «quella del rapporto di sé a se stessi che è la coscienza, nel senso di Gewissen più che di Bewusstsein» (IBIDEM). 46 IERVOLINO D., Introduzione a Ricoeur, op. cit., p. 68. 44

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che per Ricoeur «l’alterità è nel cuore dello stesso»47 – cioè dell’ipséité – e si configura come presenza costitutiva della soggettività, della stessa identità personale. Il “come” presente nel titolo è, quindi, da intendere nel senso di “in quanto”. Lo stesso titolo dell’opera potrebbe essere chiarificato con la seguente espressione: “me stesso in quanto un altro”; ciò significa che la presenza dell’alterità diviene elemento costitutivo e fondante della mia stessa identità personale (si tratta di una sorta di societas in interiore homine). In particolare, nel decimo studio di Sé come un altro Ricoeur parla di un “tripode dell’alterità” presente nel soggetto. L’alterità si determina secondo tre diverse modalità: 1) in primo luogo, il “corpo proprio” (si tratta del Leib della prospettiva husserliana, cioè l’avvertimento coscienziale di essere in una corporeità che è “natura appartentiva”)48; 2) l’alterità dell’altro (le visage d’autroui su cui tanto si è soffermato anche Levinas); 3) l’alterità di Dio ovvero l’avvertimento in interiore homine di una presenza che ci trascende, che è in noi senza appartenere compiutamente a noi stessi, che ci supera e ci fonda. Per disignare tale terzo 47

Cf. IANNOTTA D., L’alterità nel cuore dello stesso, saggio introduttivo a RIP., Sé come un altro, op. cit., pp. 11-69. 48 Ricordiamo che il Leib husserliano designa il “corpo vivente”, l’esperienza della corporeità così come viene esperita dalla coscienza. Come è noto, nel linguaggio fenomenologico il Leib è nettamente distinto dal Körper; quest’ultimo termine designa il “corpo inanimato”, ivi compreso il cadavere. Descrivendo l’esperienza del “corpo proprio” Ricoeur si confronta anche con la filosofia riflessiva di Maine de Biran e con la prospettiva fenomenologica di Michel Henry, fautore quest’ultimo di un’originale “filosofia della carne e dell’incarnazione”. A tal riguardo cf. HENRY M., Philosophie et Phénoménologie du corp. Essai sur l’ontologie biranienne, PUF, Paris 1965; si veda anche IDEM, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000 ; trad. it. di SANSONETTI G., Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino 2001.

COEUR

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tipo di alterità – interpretabile come la trascendenza divina nel cuore della soggettività – Armando Rigobello ha usato la bella espressione di “estraneità interiore”, entrando in vivo dialogo con lo stesso Ricoeur: per il filosofo italiano «l’estraneità interiore è una presenza che non coincide con l’orizzonte del soggetto e tuttavia ci fonda ed insieme ci supera. Questa differenza interiore non è un’illusoria connotazione psichica, ma un dato ontologico. Il soggetto, infatti, è una realtà complessa, le cui varianti sono segni allusivi ad uno statuto ontologico, di cui la differenza è, da un lato, testimonianza, dall’altro mediazione»49.

Prendiamo ora in considerazione la nozione di attestazione (attestation) che nell’argomentare di Ricoeur sul valore della soggettività gioca sicuramente un ruolo di primaria importanza. L’attestazione «definisce quella sorta di certezza alla quale può pretendere di pervenire l’ermeneutica, non soltanto rispetto alla esaltazione epistemica del cogito a partire da Cartesio, ma anche rispetto alla sua umiliazione in Nietzsche ed i suoi successori»50. L’attestazione si oppone alla certezza logica ed epistemologica del cogito cartesiano e non è considerata da Ricoeur come un saldo criterio di verificazione di fatti oggettivi: l’autore non esita a rilevarne, quindi, una certa “faiblesse philosophique”, una sua ineludibile “debolezza epistemologica”: «l’attestazione si oppone, fondamentalmente, alla nozione di epistéme, di scienza, considerata quale sapere ultimo e autofondante»51 e si qualifica come 49

RIGOBELLO A., L’estraneità interiore, Studium, Roma 2001, p. 153. RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 97. 51 IBIDEM, p. 97. L’attestazione scaturisce dall’affermazione “io credo-in”: avvicinandosi alla “testimonianza interiore” essa manifesta certamente una «debolezza […] rispetto a qualsiasi pretesa di fondazione ultima» (IBIDEM, p. 98). 50

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una “certezza” alla quale può pervenire l’ermeneutica del sé ed una filosofia riflessiva, incentrata sulle dinamiche interiori della soggettività. Si tratta perciò di una certezza dal carattere tutto intimo ed esistenziale: «l’attestazione può definirsi come la sicurezza di essere se stessi agenti e sofferenti. Questa sicurezza resta l’ultimo rimedio contro ogni sospetto»52. Seppur non epistemologicamente fondante, l’attestazione gode tuttavia della fiducia (confiance) incrollabile che il soggetto può dare alla testimonianza interiore (témoignage intérieure), alla voce della propria coscienza53: Ricoeur 52

IBIDEM, p. 99. A tal proposito è lo stesso Ricoeur che sulla scorta delle riflessioni del suo maestro Jean Nabert paragona l’atto dell’attestazione a quello della testimonianza, intesa quest’ultima – anche in senso propriamente religioso – come fede che l’uomo può dare «a quei segni contingenti che l’assoluto dà di sé nella storia» (RICOEUR P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, op. cit., p. 110). Il valore epistemologico dell’attestazione quale “testimonianza” e “certezza soggettiva” può trovare delle analogie con il concetto di “fede” (Glaube) di cui parla il filosofo tedesco Friedrich Heinrich Jacobi: per quest’ultimo la fede – intesa in senso non solamente religioso ma anche in relazione ad una teoria della conoscenza – è come l’attestazione ricoeuriana, cioè «una fiducia senza garanzia, [...] una confidenza più forte di ogni sospetto» (RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 99). Ulteriori profonde analogie si possono trovare tra la nozione ricoeuriana di “attestazione” e quella di “certezza morale” teorizzata a fine Ottocento dal filosofo francese Léon Ollé-Laprune. Per quest’ultimo la certitude morale è la fonte primaria dalla quale possiamo attingere le verità filosofiche essenziali: la legge morale, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Per mezzo della “certezza morale” – afferma Ollé-Laprune – «io vado oltre ciò che appare, ed affermo ciò che è. […] È assai meglio della conclusione certa di un ragionamento legittimo: è un contatto, […] un atto dell’anima […] che aggiunge alla conoscenza propriamente detta un indispensabile sovrappiù» (OLLÉ-LAPRUNE L., De la certitude morale, Belin, Paris 1880; trad. it. (parziale) in CRIPPA R. (a cura di), Ollé-Laprune, La Scuola, Brescia 1948, p. 66.): si tratta di una «certezza vivente, certezza d’anima, fatta di sentimento, di percezione, di ragione, ed infine di fiducia e di fede» (IBIDEM, p. 68). 53

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ricorda a tal proposito come il termine tedesco di “coscienza” (Gewissen) «richiama la sua parentela semantica con la Gewissheit o certezza»54. L’attestazione è perciò un radicale “atto di fiducia” dell’uomo nei confronti di ciò che esso avverte e sperimenta nel suo intimo: è solo sul fondamento di verità di questa testimonianza interiore – paragonabile alla voce del dáimon socratico – che per Ricoeur la sua «ermeneutica del sé può pretendere di tenersi ad eguale distanza dal cogito esaltato da Cartesio e dal cogito che Nietzsche dichiara decaduto»55. Possiamo dire che l’attestazione sia la dinamica riflessiva tramite la quale il soggetto si rende certo e consapevole della propria identità personale, di se stesso e delle sue potenzialità (puissances). A tal proposito Ricoeur rileva che l’attestazione è «confidenza (confiance) nel potere di dire, nel potere di fare, nel potere di riconoscersi quale personaggio di racconto, infine nel potere di rispondere all’accusa con l’accusativo “eccomi!” – secondo un’espressione cara a Lévinas»56. In ultima analisi, l’attestazione è la facoltà soggettiva in grado di far autodesignare il sé come autore dei propri atti, di tutte le capacità dell’homme capable ed è quindi la sicurezza (assurance), la credibilità e la fiducia «che ciascuno ha di esistere come uno stesso, come ipseità»57. Prendiamo ora in considerazione quello che Ricoeur nel decimo studio di Soi-même comme un autre definisce come l’«impegno ontologico dell’attestazione»58. In questo decimo studio 54

RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 99. IBIDEM. 56 IBIDEM, p. 99. 57 IBIDEM, p. 410. 58 IBIDEM, p. tal proposito cf. anche RICOEUR P., L’attestation entre phénoménologie et ontologie, in GREISCH J. - KEARNEY R. (a cura di), Les métamorphoses de la raison herméneutique, [Actes du Colloque de Cerisy-la-Salle 1988], Cerf, Paris 55

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dal «carattere esplorativo»59 l’autore dichiara di voler far emergere le “implicazioni ontologiche” delle sue analisi sulla soggettività svolte sotto il titolo di un’ermeneutica del sé. Egli in queste pagine finali del volume cerca di rispondere alla questione speculativa di centrale importanza circa un possibile fondamento ontologico dell’identità personale: «quale modo di essere è, dunque, quello del sé, quale sorta di ente o di entità esso è?»60. Per poter spingere il suo discorso filosofico sul soggetto a considerazioni di carattere ontologico Ricoeur ritiene essenziale e decisiva proprio la nozione di attestazione del sé: essa è quella “testimonianza interiore” in base alla quale il soggetto è in grado di affermare con sicurezza l’esistenza di «un fondo d’essere, ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano»61, sul quale si fondano tutte quelle potenzialità che caratterizzano l’homme capable, quali il potere di agire, di narrare, di promettere e d’imputare anche a se stesso i propri atti. L’attestazione di sé ha, quindi, per Ricoeur un fondamentale valore ontologico: essa è lo strumento interiore tramite il quale si può arrivare all’affermazione di un’ontologia del soggetto. Il filosofo considera l’attestazione come la “garanzia di verità” che nella persona umana v’è “un fondo d’essere”, un nucleo ontologico originario e dinamico62, sul quale si fondano 1991, pp. 381-403; MONGIN O., Il concetto di attestazione, in DANESE A. (a cura di), L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova 1993, pp. 33-48. 59 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 409. 60 IBIDEM, p. 409. 61 IBIDEM, p. 421. 62 L’attestazione in quanto fondata sulle concrete dinamiche dell’esperienza interiore del soggetto è una modalità per realizzare ciò che Gabriel Marcel, maestro di Ricoeur, amava definire come “approccio concreto al mistero dell’essere” (approche concrète au mystère de l’être). Esempio paradigmatico di tale approccio concreto

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le puissances dell’uomo di cui in precedenza abbiamo parlato. É da sottolineare che il particolare modo d’essere del soggetto che si può affermare tramite l’attestazione non è quello del suppositum della tradizione tomista63, ma è quello definito da Aristotele come enérgheia-dýnamis (come atto e come potenza): è un modo d’essere che il filosofo francese pone anche in relazione con il conatus di cui parla Spinoza. Per la sua elaborazione di un’ontologia del sé Ricoeur opera una “riappropriazione” – e possiamo dire un “rinnovamento” – di nozioni tipiche di Spinoza e di Aristotele, d’un Aristotele letto secondo l’interpretazione di Heidegger: il filosofo francese è infatti convinto che alla problematica ontologica sono le lezioni del volume di MARCEL G., Le mystère de l’être, Aubier, Paris 1951; trad. it. di BISSACA G., Il mistero dell’essere, Borla, Roma 1987. 63 Come ricorda Jacques Maritain «San Tommaso chiama “supposito”, suppositum, ciò che noi chiamiamo soggetto. [...] Il supposito è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, – actiones sunt suppositorum – chi sussiste» (MARITAIN J., Court traité de l’existence et de l’existant, Hartmann, Paris 1947; trad. it. di VIGONE L., Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 19984, p. 51). Il termine suppositum si ricollega a quello aristotelico di hypokéimenon e designa la nozione metafisica di sussistenza della persona. Possiamo dire che Ricoeur condividerebbe la critica all’ontologia tomista avanzata dal filosofo personalista Luigi Stefanini: anche quest’ultimo ponendo l’accento come avviene in Ricoeur sulla «produttività della persona» (STEFANINI L., La mia prospettiva filosofica, [edizione originale 1950], Canova, Brescia 1996, p. 11) e sull’interiorità come «nucleo ed energia» creativa (IBIDEM, p. 12) critica la dottrina del suppositum: «l’essere non è in me una consistenza pietrosa sulla cui superficie vadano incrostandosi delle secrezioni, dette accidenti o qualità» (IBIDEM). Le notevoli affinità tra la prospettiva ontologica di Stafanini e quella di Ricoeur sono state oggetto di un mio scritto al quale mi permetto di rinviare: cf. VALENTINI T., Ermeneutica, ontologia e linguaggio in Luigi Stefanini e Paul Ricoeur. Un possibile confronto, [Atti del Convegno Arte e linguaggio in Luigi Stefanini, tenutosi a Treviso presso la Fondazione Luigi Stefanini il 10 e l’11 novembre 2006], Editrice Prometheus, Milano 2008, pp. 303-337.

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«un’ontologia resta possibile ai nostri giorni, nella misura in cui le filosofie del passato restano aperte a delle reinterpretazioni e a delle riappropriazioni grazie ad un potenziale di senso lasciato inattivo. […] Se non si potessero risvegliare queste risorse che i grandi sistemi del passato tendono a soffocare e a mascherare, non sarebbe possibile alcuna innovazione, e il pensiero presente non avrebbe altra scelta che la ripetizione e l’erranza»64.

Ricoeur tenta, quindi, di riappropriarsi della nozione aristotelica di essere come potenza-atto (dýnamis-enérgheia), tenendo conto della lezione di Heidegger, che al contrario di quella aristotelica, asserisce il primato della potenza (dýnamis) sull’atto. In particolare Ricoeur fa riferimento al corso universitario tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1931 avente come titolo Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3 e come sottotitolo Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft (Sull’essenza e la realtà della forza): in questo corso Heidegger indica l’essere secondo la dýnamis e l’enérgheia come il significato fondamentale dell’essere secondo Aristotele, significato al quale lo Stagirita arriva a partire dalla riflessione sul movimento (kínesis)65. L’accezione dell’essere come potenza e come atto è per Ricoeur di fondamentale importanza: è infatti su questo significato dell’essere che l’agire e tutte le altre capacità del soggetto possono trovare il loro fondamento. La finalità dell’indagine ricoeuriana è di poter argomentare la possibilità di «un’ontologia dell’ipseità in termini di atto e di potenza»66; l’attestazione nel suo valore ontologico rende possibile poter affermare questo: «se c’è un 64

RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 411. Cf. HEIDEGGER M., Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3. Von Wesen und Wirklichleit der Kraft, in IDEM, Gesamtaugabe, V. Klostermann, Frankfurt a .M. 1981. 66 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 421. 65

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essere del sé, in altri termini se un’ontologia dell’ipseità è possibile, è in connessione con un fondo [di atto e di potenza], a partire da cui il sé può esser detto agente»67. L’ontologia ricercata da Ricoeur – per la giustificazione della possibilità di “un fondo d’essere sul quale si stagli l’agire umano” – è, quindi, un’ontologia dell’essere come potenza e come atto, contrapposta al significato dell’essere come sostanza: anche sulla scorta dell’interpretazione di Heidegger, il filosofo francese tenta di «liberare l’ousía aristotelica dalle catene della tradizione scolastica nata dalla sua traduzione latina con substantia»68. Ricoeur non esita tuttavia a sottolineare le problematiche storiografiche e teoretiche lasciate aperte da questa sua “riappropriazione” dell’ontologia aristotelica al fine di stabilire una connessione tra «l’unità analogica dell’agire umano […] ed una ontologia dell’atto e della potenza»69; nella sua indagine egli si rivolge perciò a Spinoza, in particolare alla concezione spinoziana del conatus quale “sforzo” (o anche “potenza”) «per perseverare nell’essere, che fa l’unità dell’uomo così come di ogni individuo»70: Ricoeur sottolinea che «Spinoza – di provenienza più giudaica che greca – è il solo ad aver saputo articolare il conatus su questo fondo di essere ad un tempo effettivo e potente, che egli chiama essentia actuosa»71. Quella che Ricoeur propone nel decimo studio di Soi-même comme un autre non è tuttavia un’«ontologia trionfante»72, bensì 67

IBIDEM. IBIDEM, p. 418. 69 IBIDEM, p. 416. 70 IBIDEM, p. 431. 71 IBIDEM. 72 RICOEUR P., Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 37. 68

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solo la traccia di un possibile itinerario speculativo che nella sua ricerca sul fondamento ontologico del soggetto non si è sottratto al “bel rischio” dell’interpretazione (kalòs o kíndynos, secondo una bella espressione del dialogo platonico Fedone 114 d). Il tentativo di “riappropriarsi” in maniera originale delle concezioni aristoteliche di dýnamis/enérgheia e del conatus spinoziano ha sicuramente costituito un percorso per avvicinarsi alla “terra promessa” di un’ontologia del soggetto. Va sottolineato che nel suo itinerario filosofico Ricoeur si è però sempre fermato “alle soglie dell’ontologia”: la possibilità dell’esistenza di un “fondo d’essere sul quale si staglia l’agire umano in tutte le sue espressioni” è sempre affermata tramite un atto d’attestazione soggettiva e di testimonianza interiore, giammai per mezzo di una rigorosa dimostrazione logica epistemologicamente fondante. L’indagine ricoeuriana è mossa dal “desiderio” di un’ontologia del soggetto ma è lontana dall’affermazione di qualsiasi risultato speculativo ultimo e definitivo. Quello di Ricoeur rimane un “pensiero incompiuto”; esso non ha come esito la fondazione della nozione di persona umana su di una dottrina come quella tomista del suppositum ma rimane aperto ad itinerari di ricerca nei quali l’ontologia è la “terra promessa”: «come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»73. 73

IBIDEM, p. 37. Condividiamo le considerazioni di Paulin Sabuy Sabangu circa l’esito speculativo del decimo studio di Sé come un altro: «l’ontologia dell’attestazione in cui si risolve lo sforzo di sintesi dell’autore non vuol essere affatto un discorso fondativo ultimo. L’attestazione non è certezza epistemologica (Gewissheit) ma certezza morale (Gewissen)» (SABUY SABANGU P., Al di là del Cogito il “Sé”, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», vol. 15/I (2006), pp. 135-138, p. 138). La fondazione di un’ontologia del soggetto, seppur non compiutamente tematizzata ed argomentata, rimane sem-

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5. Una “filosofia del limite” aperta alla trascendenza Abbiamo potuto definire la prospettiva ermeneutica di Ricoeur come personalistica. In essa la preoccupazione speculativa centrale è quella dell’identità personale e la sua direzione di ricerca intenzionale è quella di un’ontologia soggiacente alle capacità dell’uomo (homo capax), analizzate in relazione alla produttività interiore dell’io. Quella di Ricoeur può essere definita anche come una “filsofia del limite” nella quale la stessa affermazione di un’ontologia del sé rimane la “terra promessa” di un “pensiero incompiuto”, aperto a percorrere sempre nuovi itinerari di ricerca e a confrontarsi con diverse metodologie d’indagine. Ricoeur ha inteso anche tracciare i “limiti” del lógos filosofico; a questo proposito si possono trovare sicuramente delle affinità con le Grenzen di cui parla Kant74; la “via lunga” dell’ermeneutica del sé non ha come esito speculativo la chiara affermazione di una “metafisica del soggetto” e la stessa nozione ricoeuriana di persona ha – come in Kant – soprattutto un valore di tipo etico e giuridico. Ricoeur è tuttavia un uomo di salda fede cristiana, calvinista in particolare, ed è lontano da qualsiasi “riduzionismo antropologico” di tipo naturalistico e materialistico: la stessa psicoanalisi freudiana viene criticata da Ricoeur come una “archeologia del soggetto” che tenta di spiegare ogni gesto dell’uomo in relazione al suo passato, alla pre per Ricoeur un “ideale regolativo” (potremmo dire un télos ideale) che anima e muove tanta parte della sua ricerca filosofica. 74 Cf. RIGOBELLO A., I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963; GENTILE A., Ai confini della ragione. La nozione di “limite” nella filosofia trascendentale di Kant, Studium, Roma 2003.

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sua infanzia75; l’interpretazione freudiana dell’uomo viene considerata, in tal modo, una forma di “determinismo” che finisce quasi per negare la libertà del volere (le volontaire) e l’agire stesso socondo precise finalità, ciò che Ricoeur definisce come “teleologia del soggetto”. La prospettiva ricoeuriana è perciò una “filosofia del limite” che sa gettare lo sguardo oltre i limiti rigorosi dell’indagine teoretica: essa, pur non prestandosi «ad alcun amalgama ontoteologico»76, non rimane costitutivamente preclusa ad una dimensione di senso ulteriore, alla trascendenza religiosa. Ricoeur è risoluto nel voler condurre «un discorso filosofico autonomo»77, caratterizzato da un «ascetismo dell’argomentazione»78 e nel quale la fede biblica viene «messa tra parentesi»79: egli però “gettando lo sguardo al di là dei limiti stabiliti dalla ricerca filosofica” ed abbracciando «una fede che sa di essere senza garanzia»80 non rinuncia ad una prospettiva di senso religioso dell’esistere, a quella che egli definisce anche come un’“escatologia del soggetto”. Per Ricoeur nel nucleo più profondo dell’identità perso-

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«La psicoanalisi ci propone una regressione verso l’arcaico» e per questo essa «ha il suo fondamento in una archeologia del soggetto» alla quale si oppone una «teleologia del soggetto» (RICOEUR P., Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., pp. 35-36). 76 RICOEUR P., Sé come un altro, op. cit., p. 101. 77 IBIDEM, p.100. 78 IBIDEM, p.101. 79 IBIDEM, p.100. 80 IBIDEM, p.102. Cf. le proposte di esegesi biblica contenute in RICOEUR P. - LACOCQUE A., Penser la Bible, Seuil, Paris 1998.

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nale si può avvertire la presenza di un’Alterità che, come ricorda Sant’Agostino, “è più intima a noi di noi stessi”81: ma su questa “aporia dell’Altro” il discorso filosofico si arresta.

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Rivolgendosi a Dio presente nell’interiorità umana Agostino afferma: «Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo» (AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III, 6, 11). Commentando questo passo il filosofo italiano Michele Federico Sciacca sostiene giustamente che in Agostino «la trascendenza assoluta si coglie nel punto massimo d’interiorità» (SCIACCA M.F., S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949, p. 132). Sulla ricezione ricoeuriana di Agostino cf. ALICI L., Agostino e Ricoeur, in IDEM, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999, pp. 237-262; BOCHET I., Augustin dans la pensée de Paul Ricoeur, Éd. Facultés Jésuites de Paris, Paris 2004.

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DALLA SOSTANZA ALL’ENS SUCCESSIVUM. I PROBLEMI DELLA IDENTITÀ PERSONALE NEL TEMPO Andrea Velardi “se pensiamo ancora una volta alle condizioni del riferimento identificante, nel discorso, a particolari stati di coscienza, o a esperienze private, vediamo che a questi particolari non ci si può riferire in questo modo identificante se non come agli stati o alle esperienze di una qualche persona identificata. Stati o esperienze, si potrebbe dire, devono la loro identità in quanto particolari all’identità della persona di cui sono stati o esperienze” (P. F. Strawson) “… l’importanza fondamentale per il nostro pensiero della comune idea di un io o di una persona che permane identica al di là dei mutamenti di carattere, in contrasto con un approccio che, sia pure solo metaforicamente, tende a dissolvere la persona che subisce mutamenti in una serie di io” (Bernard Williams)

Abstract Si indaga la possibilità che l’intuizione di Hume sull’Ens Successivum non conduca alla dissoluzione della nozione di persona, ma si integri in una teoria più complessa di quella del suppositum, dove la irriducibilità e stabilità ontologica dell’esANDREA VELARDI, Ricercatore di “Filosofia teoretica” presso dell’Università degli Studi di Messina. Docente incaricato di Gnoseologia e Semiotica presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Consulente per la didattica e la ricerca presso l’Università Niccolò Cusano.

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sere personale convivano con la sua processualità e con la problematicità della sua identità nel tempo. 1. Il problema della persona 1.1. Crisi e recupero della persona tra empirismo inglese e filosofia analitica Il problema della persona si situa al confine di varie branche della filosofia: ontologia, antropologia filosofica e filosofia della mente. E anche di varie e, a volte, contrastanti tradizioni filosofiche come la filosofia analitica, la fenomenologia, l’ermeneutica, il personalismo, che invece mi sembrano focalizzare problemi e soluzioni interessanti e sinergici a prescindere dal metodo praticato, problemi e soluzioni che vanno fatte interagire senza guardare in modo esclusivo alla loro provenienza di scuola, ma alla loro bontà argomentativa. Il dibattito su cosa è una persona, su quali siano le caratteristiche che la definiscono, si è fatto molto spinoso e complesso in questi anni a causa della messa in evidenza dei limiti e delle problematiche dei criteri che, ad una visione metafisica tradizionale, sembravano definire con chiarezza gli attributi dell’essere una persona come ad esempio avere un’anima, essere una sostanza individua di natura razionale, possedere un libero arbitrio, una irriducibilità metafisica, una capacità di autonomia e indipendenza dalle cose e dalle altre persone, una sorta di aseità che ci renderebbe persone a prescindere da tutti i complessi processi di riconoscimento relazionale con le altre persone. La riflessione filosofica degli anni recenti, stimolata anche dal dibattito interno alle neuroscienze e alla psicologia, ha 186

messo in luce molti dei limiti di una visione tradizionale e ingenua dell’essere una persona. Il materialismo oggi dominante rifiuta di vedere nell’anima un principio definitorio dell’essere personale. Così, in assenza di un principio spirituale, irriducibile dal punto di vista metafisico al corpo e al cervello, si fa molto complicato trovare un criterio univoco che definisca l’essere personale valido per tutti i casi in cui siamo portati ad inserire nella categoria di persona un membro della specie umana. Vi sono problemi assai dibattuti sulla esplicitazione delle condizioni per essere una persona e dei criteri che ci rendono una persona identica con se stessa nel corso del tempo (Bottani 2007a). Queste teorie elaborano le geniali intuizioni di Locke e Hume sul fatto che noi non siamo una sostanza atemporale, ma che cambiamo nel corso del tempo. Per Hume il fatto di essere una successione di stati mentali porta alla dissoluzione della nozione di persona. Occorre oggi un tentativo teoretico di dare conto dell’evidenza della processualità senza porla in conflitto con le basi di una persistenza, di una continuità e di una irriducibilità della persona da riconfigurare all’interno di uno scenario problematico e aporetico. Del resto anche in altri campi si è dovuto tentare la strada di un monismo “anomalo” (Davidson 1980) e di un compatibilismo. È il caso delle molte evidenze sui limiti della libertà umana (De Caro 2004) di cui si è dovuto dare conto senza negare da una parte la possibilità del libero arbitrio, dall’altra il determinismo di cui è pervasa la nostra natura fisico-biologica. Un altro aspetto di frammentazione riguarda le molte teorie della coscienza che optano per una analisi in terza persona in cui l’unità della nostra percezione personale è considerata frutto di una illusione (Dennett 1991, 2005) a cui si oppongono oggi le prerogative irriducibili e qualitative della prospettiva in prima persona 187

(Nagel 1986, Chalmers 1996, Searle 1997, in Italia Perconti 2008, 2010). La teoria di Dennett è esemplificativa della problematicità dello scenario che stiamo delineando. Per Dennett (1991) è la nostra mente a generare in noi l’illusione di un unico nocchiero virtuale che fa da spettatore cartesiano del teatro delle nostre rappresentazioni. In realtà quello che noi chiamiamo coscienza e soggettività esperienziale non è che il frutto del lavoro parallelo, distribuito, contemporaneo, più o meno coordinato, di circuiti cerebrali diversificati. Il filosofo americano nega l’esistenza di un soggetto esperienziale unico e autonomo, nega la possibilità di un possessore della coscienza. Da questo punto di vista non esiste nulla che sia una persona. La coscienza è un mero epifenonemo. L’unica possibile lettura dei nostri stati è quella in terza persona, quella di tipo eterofenomenologico. Non è giustificabile alcuna prospettiva in prima persona. Dennett (2005) edulcora un po’ questa posizione concedendo che la analisi in terza persona è l’unico modo scientifico di poter rendere conto della prospettiva in prima persona. Quest’ultima è accettabile come fenomeno non genuino ma illusorio. Dal momento che questa illusione è vissuta da noi in modo pervasivo occorre renderne conto in qualche modo, ma senza farne il fondamento di una ontologia personale. 1.1.1. Persona sequitur coscientiam vs Persona antecedit coscientiam Come sappiamo alcuni filosofi hanno rifiutato la tesi di Dennett ponendo l’attenzione sulla genuinità del fenomeno della co188

scienza e sulla sua importanza per la nostra esistenza. Searle (1997, 90) ha scritto chiaramente: “Non considero il fatto che Dennett neghi l’esistenza della coscienza una nuova scoperta e nemmeno una possibilità seria, ma penso piuttosto che sia una forma di patologia intellettuale”. Chalmers (1996) ha distinto fra easy problem e hard problem. Il primo riguarda la facilità con cui si possono trovare correlati neurofisiologici di quello che chiamiamo coscienza. Il secondo riguarda la impossibilità di spiegare gli aspetti soggettivi e qualitativi della coscienza nei termini di una analisi fisicalista e materialista. La coscienza emerge da elementi ai quali non si riduce. Essa non è un epifenomeno, ma qualcosa di genuinamente caratterizzante la nostra esperienza di soggetti. La prospettiva in prima persona è dunque costitutiva della nostra esistenza. Rimane da capire come si possa partire da una teoria della coscienza per stabilire se noi siamo delle persone e che tipo di persone siamo. Non possiamo infatti inferire automaticamente dalla evidenza di avere una coscienza che esiste una base ontologica per definirci come persone e soprattutto come persone stabili nel tempo. Un primo problema è che il percepirci come persone possa nascere come una illusione che si sovrappone alla unità della coscienza. Come ha sintetizzato Perconti in una formula latina nella sua comunicazione al convegno: persona sequitur coscientiam. La formula si può interpretare in due modi. Nel primo l’unitarietà del fenomeno della coscienza e la prospettiva della prima persona rafforzano la intuizione dell’essere una persona da parte dei soggetti. Nel secondo quello stesso orizzonte genera l’illusione dell’essere una persona. Nel primo caso la riflessione sulla coscienza produce una intuizione consistente, nel secondo caso una percezione fallace. In entrambi i casi dovremmo risolvere i problemi relativi al criterio psicologico della continuità della coscienza di cui parleremo in § 2.3. Per 189

adesso ci basta osservare come, qualunque sia l’intepretrazione che diamo alla formula del sequitur, sembra che riconoscere la coscienza e la prospettiva in prima persona come fenomeni genuini e irriducibili non garantisce di per sé la sussistenza di qualcosa che sia una persona in senso ontologicamente forte. Una teoria che bypassa radicalmente la tagliola del persona sequitur coscientiam obietterebbe che la persona è una nozione antecedente e primitiva. Infatti non si possono nemmeno immaginare stati mentali e di coscienza che prescindano da un possessore e la nozione di persona precede quella dei propri stati. Come ha scritto Strawson (1959 = 2008, 103): «se pensiamo ancora una volta alle condizioni del riferimento identificante, nel discorso, a particolari stati di coscienza, o a esperienze private, vediamo che a questi particolari non ci si può riferire in questo modo identificante se non come agli stati o alle esperienze di una qualche persona identificata. Stati o esperienze, si potrebbe dire, devono la loro identità in quanto particolari all’identità della persona di cui sono stati o esperienze».

La persona è una nozione originaria che precede quella di coscienza e solo una analisi e una scomposizione di elementi che appartengono alla persona permettono di pervenire ad una teorizzazione della seconda. La coscienza non è quindi fondamento della illusione di essere una persona. La nozione di persona precede quella di coscienza. Persona antecedit coscientiam. Né è possibile fondare la teoria della persona sulla base del fenomeno e del processo della coscienza. Sappiamo infatti che il criterio psicologico della identità personale nel tempo, che fa leva sulle facoltà della memoria e/o sulla coscienza, ha molti limiti nel coprire tutte le esemplificazioni della categoria di persona nelle quali ci possiamo imbattere (§2.3). 190

Per l’autore di Individuals, il concetto di persona è logicamente primitivo, a priori, trascendentale, ma la sua soluzione vuole essere alternativa sia al monismo riduzionista che al dualismo cartesiano. Essa difende le intuizioni della nostra vita quotidiana e il fatto che quando vedo qualcuno provare dolore non ho bisogno di domandarmi se è lui o non è lui a provare dolore. C’è una intuizione fondamentale che ci permette di riferire a noi o agli altri le sensazioni che proviamo. Il concetto a priori di persona ci permette di distinguere corpi fisici che provano esperienze interne da corpi fisici che non le provano e non le possiedono: «il concetto di persona va inteso come il concetto di un tipo di entità tale che tanto i predicati attribuenti stati di coscienza quanto i predicati attribuenti delle caratteristiche corporee, una situazione fisica ecc. siano ugualmente applicabili a un singolo individuo di quel tipo. Tutto ciò che ho detto su quello che significa dire che questo concetto è primitivo è che esso non va analizzato in un certo modo o modi. Noi non vogliamo pensare a esso, per esempio, come a un genere secondario di entità in relazione a due generi primari, cioè una coscienza particolare e un corpo umano particolare» (ivi, p. 109).

Le tesi di Strawson trovano una certa continuità in quelle di Bernard Williams (1983) che sostiene «l’importanza fondamentale per il nostro pensiero della comune idea di un io o di una persona che permane identica al di là dei mutamenti di carattere, in contrasto con un approccio che, sia pure solo metaforicamente, tende a dissolvere la persona che subisce mutamenti in una serie di io».

Per Williams la base di questa persistenza è rintracciata nella continuità fisico-biologica (§2.4). Pur se anche questo 191

criterio ha dei forti limiti, rimane salda l’intuizione generale espressa dall’autore che può essere difesa attraverso altre argomentazioni e all’interno di uno scenario più complesso. Come vedremo, infatti, sono proprio le traversie teoriche dei criteri a rendere sempre più evidente quanto sia irriducibile ed emergente la nozione di persona. Sia il criterio psicologico che quello fisico-biologico sono infatti troppo forti per dare conto di casi in cui non si ritrovano appieno alcune delle prerogative da loro esplicitate. Nella mia proposta però la irriducibilità emergente della nozione di persona non porta ad una ontologia semplicistica della sostanza e non rifiuta l’orizzonte problematico, ma lo integra. Quanto sia forte ed eliminabile la nozione di persona è visibile anche nelle analisi di Dennett (1978) che, nonostante il suo radicale riduzionismo, si era impegnato a fornire sei condizioni per essere una persona che risultano addirittura troppo forti per una applicazione plausibile: le persone sono esseri razionali; sono esseri a cui vengono attribuiti stati di coscienza e cui ineriscono predicati di tipo mentalistico-intenzionale; sono entità nei confronti delle quali noi assumiamo un atteggiamento di un certo tipo; devono essere capaci di contraccambiare il nostro atteggiamento nei loro confronti; devono essere capaci di comunicazione verbale; sono dotate di una coscienza di tipo particolare. Come si può notare queste condizioni sono forti e una loro applicazione farebbe escludere dalla categoria delle persone molti individui nei quali ci imbattiamo quotidianamente.

192

1.2 Approfondimento della nozione di persona nelle tradizioni filosofiche contemporanee Non sono pochi i filosofi di altre tradizioni, come quella ermeneutica o fenomenologica, che si sono inseriti consapevolmente in questo scenario problematico per tentare di costruire una teoria dell’essere una persona. Per esempio il tentativo di Paul Ricoeur in Sé come un altro in cui viene definita una doppia identità idem e ipse che fa di noi un Sé e degli agenti che appartengono contemporaneamente all’ordine della causalità e della intenzionalità. L’identità idem riguarda il nucleo indipendente dal tempo che ci definisce come persone, quel qualcosa di simile al suppositum della tradizione tomista, al Cogito cartesiano, all’Io fichtiano. Per Ricoeur questa identità è troppo asettica, ci dice poco della vita reale dell’essere umano, ha un carattere poco esistenziale. Per questo va integrata con l’identità ipse cioè l’ identità narrativa proprio del Sé riflessivo, dell’io che ritorna su se stesso leggendosi come soggetto di azione e di continuità morale. In questo modo esso attribuisce a se stesso i suoi atti e se li imputa in un processo di attestazione che lo pone come soggetto di libertà e di responsabilità. Nel presente volume la rilettura di Tommaso Valentini mostra come Ricoeur sostituisca alla base del suppositum, dello hypokéimenon, un’altra nozione aristotelica decisiva cioè quella di capacità, δύναμις, di ἐντελέχεια in quanto attualizzazione della potenza, e di enérgheia intese come potenza e atto. Sugli aspetti morali legati alla nozione di persona torna Ricoeur (1983, 1990 = 1992) evidenziando come essa rimanga il migliore candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche e sociali. L’attitudine-persona esprime la tensione in cui si percepisce la messa in crisi dell’ordine stabilito, emerge come attestazione del limite della mia tol193

leranza verso la frammentazione etico-sociale. La nozione è fatta rientrare nella categoria dell’impegno come fedeltà nella lotta per le proprie convinzioni, dell’identità, della differenza, dell’utopia. Anche un autore di ispirazione aristotelico-tomista come Robert Spaemann (1996) ha allargato la sua indagine alla dimensione etica analizzando le relazioni della nozione di persona con l’ordine dei fini per cui essa è “essere capace di auto trascendersi”, il cui fine è nella relazione con gli altri quello di “portare a compimento la propria natura” e di realizzare una vita buona vissuta secondo giustizia. In Italia la tematica della identità personale è stata elaborata dal punto di vista fenomenologico da Roberta De Monticelli (2006a, 2006b) in dialogo con Peter Van Inwagen e Lynne Baker, filosofa americana che ha elaborato una visione neo-lockiana, critica del biologismo, contraddistinta dalla centralità della prospettiva in prima persona (§ 2.4.). De Monticelli ha analizzato il problema della individualità essenziale cioè l’individualità forte che distingue persone e opere d’arte da altri oggetti e che è caratterizzata dall’Unicità e dalla Profondità. Riprende la condizione di sostanzialità di Van Inwagen e la condizione per avere una natura ragionevole di Baker per fonderle in un Modello originale in antitesi con il Modello Dominante della Individualità. Non possiamo dare conto in questo contributo della analisi di De Monticelli che però ritengo essere molto produttiva anche nell’ottica del dialogo tra tradizioni, spesso apparentemente conflittuali, come quella fenomenologica e quella analitica. Alcuni autori come Chisolm (1976) e Swinburne (1984) hanno risolto le aporie della identità personale nella cosiddetta simple view. In qualche modo questa teoria condivide la tesi di 194

fondo di teorie che vedono nel principio spirituale il fondamento della persona come quella dell’ideatore del personalismo Emmanuel Mounier, nonchè di autori di ispirazione tomista come Jacques Maritain e di recente in Italia Vittorio Possenti (2006), che nei suoi contributi, e anche in questo volume, rivendica il ruolo dell’ordine dei fini per una teoria compiuta della natura e della persona umana. 1.3. Irriducibilità della persona e aporeticità intrinseca della nozione In questo contributo vorrei mettere a tema le problematiche della identità personale, emerse nella filosofia di stampo analitico, provando a difendere una visione della unità e identità della persona che non sfugga dalle aporie, ma che anzi le attraversi fino ad arrivare a definire l’essere personale come qualcosa che appartiene ad una natura molto complessa che sembra tenere insieme aspetti di per sé contrastanti come ad esempio l’identità e la variazione interna dei Sé nel corso del tempo. É possibile che lo sfondo aporetico dentro il quale prende fisionomia la categoria di persona permanga come tale qualsiasi sia la nostra capacità analitica del fenomeno. Ma certamente lo sforzo di elaborare una teoria della persona deve dare conto dei limiti e dei problemi senza cedere da una parte ad un riduzionismo che pretende di sfaldare la nozione di persona, dall’altra alla tentazione di rifugiarsi all’interno di una visione spiritualista o cartesiana troppo facile e consolatoria o all’interno di una simple view anche di stampo materialista altrettanto sbrigativa. Una visione semplice dà conto in parte della intuizione del senso comune su cosa in definitiva sia una persona, 195

ma non dei molteplici aspetti che riguardano la dimensione psicologica e antropologica che sono parte decisiva della sua ontologia. La reazione di Chisolm (1976) o di Swinburne (1984) davanti alla esplicitazione delle difficoltà per acciuffare criteri stabili di identità personale è quella di affermare che proprio queste difficoltà mostrano come la persona è qualcosa di non riducibile al mondo fisico e/o psicologico, manifestando una propria peculiarità ontologica. La persona è un fatto ulteriore, è qualcosa che trascende la propria divisione in parti, che non coincide col suo corpo, col suo cervello, con i suoi stati mentali, con le sue azioni. È irriducibile a tutto fuorchè a se stessa. Essa è se stessa, ma non una parte di se stessa. Questa difesa della irriducibilità porta ad una teoria della persona come emergenza a partire da comparti subpersonali la cui unità porta ad un risultato nuovo ed ulteriore, ad un processo superiore alla loro divisione, ad una entità la cui ontologia non è analizzabile pena la perdita della sua costituzione complessa e compatta. Da questo punto di vista Chisolm perviene a risultati compatibili con la metafisica descrittiva di Strawson (1959). Io intendo integrare la visione della metafisica descrittiva che valorizza la intuizione del senso comune con le evidenze problematiche contenute nelle teorie della identità personale nel tempo. L’evidenza della nozione di persona e l’evidenza aporetica della processualità e del cambiamento non possono essere tenute separate ma vanno integrate in una teoria comprensiva. Le problematiche connesse alla definizione di persona e dei criteri di identità personale rivelano la peculiarità della ontologia della persona. La metafisica descrittiva fa emergere la forza delle nostre intuizioni sul mondo e la perentorietà ontologica del nostro 196

linguaggio e delle nostre descrizioni. Se queste ultime contengono e non posso fare a meno del vocabolario personalista, allora vorrà dire che la nozione di persona è genuina. A mio modo di vedere occorre far propri i risultati della metafisica del senso comune senza renderla banale. Io intendo difendere la bontà delle tesi di Strawson e il fatto che si debba rendere conto delle nostre intuizioni sull’essere personale, a patto di integrarle con lo scenario problematico e aporetico della identità personale e della costituzione ontologica della persona in quanto Ente Processuale. Al contempo però penso che le problematiche connesse alla sua definizione e ai criteri di identità personale rivelino la peculiarità della ontologia della persona. Primitività, irriducibilità, ulteriorità non sono da opporre a paradossalità e aporeticità della nozione. A me sembra che non si possa optare per una visione semplice negando che esistano le difficoltà messe in luce da Hume e dalla recente tradizione analitica e scientifica. Va trovato il modo di farle interagire tra di loro. Nessuno può negare che il fenomeno della persona esibisca delle difficoltà per la definizione dei suoi criteri costitutivi. Questo contributo non pretende di risolvere i problemi, ma intende essere programmatico in relazione ad una necessità di rielaborazione dei problemi e delle soluzioni in una visione più generale che inglobi la dimensione aporetica e la dimensione ulteriore della ontologia della persona. Le nostre intuizioni primitive non si limitano solo a risolvere semplicisticamente il problema, ma forniscono anche lo sfondo preteorico di una complessità dell’essere una persona. Se la simple view sembra predisporre una maggiore base di difesa per molte delle intuizioni pre-teoriche del senso comune laddove richiama l’irrudicibilità della persona alle sue 197

parti e l’esistenza di un nucleo costitutivo autonomo dal punto di vista metafisico, d’altra parte corre il rischio di contraddire queste stesse intuizioni quando separa questo nucleo dalla complessità della unità psico-fisica della persona. Una delle mosse principali per rendere questo possibile è non rifugiarsi come in una facile scappatoia nello spiritualismo cartesiano. Cercando di non cedere nemmeno ad una deriva spiritualista atemporale che può provenire anche dalla metafisica del suppositum di matrice tomista. Maritain (1947) ricorda come il principio costitutivo della persona è spirituale tralasciando di fare i conti con il fenomeno complesso della unità inscindibile di mente e corpo. Questo suona strano perchè è lo stesso Maritain (1925) ad essersi opposto ad una visione cartesiana della mente imputandole un angelismo disincarnato. Occorre fare i conti con la prospettiva fisica e materiale del cervello e del corpo per evitare una visione disincarnata della persona. Penso che questo sia importante anche per un dialogo con la tradizione filosofica cristiana che biblicamente non concepisce l’essere umano come una sostanza angelica o separata ma come un impasto, un sinolo di corpo e anima inestricabilmente connesse fra di loro. Tanto inestricabilmente da essere difficile in molte situazioni definire l’essere una persona a partire dall’uno o dall’altra. Una visione disincarnata va incontro a note difficoltà. Implica infatti una inacessibilità epistemica delle persone connessa alla separazione del principio costitutivo dalle altre parti decisive per l’essere una persona e cioè corpo, cervello, stati mentali. Il radicamento corporeo è essenziale per evitare la possibilità descritta da Locke e da Kant che l’io cartesiano possa smettere di sussistere in un determinato momento e possa essere rimpiazzato da un altro oppure possa impossessarsi degli stati 198

mentali e del corpo di altri individui scambiandoli con i propri. Una visione più problematica e meno semplicistica potrebbe permettere un maggiore dialogo tra la tradizione filosofica cristiana e il pensiero contemporaneo. Un monismo metodologico in cui si ricerca la complessità dell’essere persona a partire preliminarmente dalla sua interazione psico-fisica, e non da principi estrinseci o trascendenti questa unità, è auspicabile. Questo monismo potrebbe integrare al meglio molte delle analisi personaliste fornite da autori spiritualisti come ad esempio Emmanuel Mounier, Romano Guardini o da autori dalla sensibilità sociale e mistica come Simone Weil. A mio modo di vedere una teoria della persona deve emergere da una fenomenologia della complessità e della problematicità dell’essere personale. E la psicologia di questo essere così peculiare non può essere sganciata dalla sua ontologia. La nozione di persona non è facile, è intrinsecamente aporetica come è intrinsecamente ulteriore, nuova, irriducibile. Distingueremo quindi due possibili simple view: la prima difende la irriducibilità senza fare i conti con le aporie e rifugiandosi nel principio spirituale, la seconda difende le intuizioni del senso comune facendole interagire con le aporie e rispettando il monismo anomalo dovuto al peculiare intreccio tra corpo e psiche. La versione più complessa della visione semplice evita le difficoltà cui va incontro la prima, tematizza una visione epistemica della persona di tipo problematico ma non riduzionista. Nella nostra visione occorre tematizzare la interrelazione tra mente, corpo e cervello dal momento che a nessuna delle tre prospettive – psicologica, fisico-biologica, cerebrale – si può ridurre l’identità della persona nel tempo né tanto meno l’essere una persona. Occorre anche tematizzare la radicalità di una prospettiva in prima persona per spiegare al meglio la 199

presunta circolarità del criterio psicologico. E inoltre il fatto che il criterio epistemico condiziona pesantemente il criterio costitutivo di definizione della persona. 1.4 Il problema della responsabilità e dei diritti C’è un ultimo punto di estrema importanza per chi voglia accogliere le istanze corrosive della identità diacronica della persona nel tempo rispetto alla metafisica tradizionale della sostanza. Si tratta del tema della responsabilità e dei diritti. La persona infatti con la sua stabilità funge da efficace punto di riferimento per quanto riguarda la attribuzione di colpa e di sanzione nei confronti di azioni considerate socialmente dannose e per quanto riguarda la possibilità di esercitare diritti riconosciuti universalmente a tutti gli esseri umani. Occorre riconoscere che la tematica dell’Ens Successivum porta a derive anti-personaliste come quella di Derek Parfit in cui abbiamo a che fare solo con persone-sequenza. Ma questa idea, se spogliata dal suo radicalismo è utile per comprendere la processualità e la temporalità dell’ente persona e la variabilità della sua libertà e responsabilità all’interno dei contesti e delle fasi della sua vita. È questa relativizzazione sana che occorre integrare come una delle conseguenze più plausibili della teoria di Hume dell’Ens Successivum. Lo stesso Parfit (1984) affronta questioni etico-giuridiche che potrebbero essere risolte analizzando di volta in volta la relazione R che intercorre tra uno stadio precedente e uno stadio successivo della vita di una persona alla ricerca di un collegamento ora più debole ora più forte. Del resto anche nel diritto penale noi sappiamo che la 200

condanna non riguarda la responsabilità atemporale del soggetto, ma quella che si riferisce al momento in cui viene commesso un delitto con tutte le attenuanti e le aggravanti relative a quel contesto e allo stato psicologico in cui il soggetto si ritrova nel momento in cui esso viene compiuto. Una visione temporale della identità personale può far comprendere meglio la complessità della nostra vita morale e del nostro esercizio di doveri e diritti socialmente condivisi. Anche le recenti teorie che mostrano i limiti del nostro libero arbitrio a causa di condizionamenti dovuto alla coesistenza compatibile in noi di una dimensione fisico-biologica vincolante e una dimensione etica di autodeterminazione, offrono un contributo alla maggiore comprensione dell’essere umano. In molti casi sono la genetica o il funzionamento patologico del nostro cervello a non permettere in noi una assunzione piena di responsabilità e il compimento autonomo e libero dei nostri doveri. Una visione temporale dell’essere umano ci permette di cogliere la diversità con cui è consapevole della propria responsabilità ed è maggiormente autonomo nelle proprie azioni a seconda della fasi della sua esistenza. Tutto questo però non può portare ad un indebolimento della cogenza dei principi, dei valori morali e della possibilità di imputare ai soggetti in qualsiasi momento la loro parte in causa rispetto alle azioni da loro compiute. Una teoria della identità diacronica non può legittimare fino in fondo il paradosso del debitore secondo il quale un soggetto può ritenersi svincolato dal restituire un prestito perché tra il lui nel momento in cui lo ha contratto e il lui nel momento in cui deve estinguerlo non sussiste alcuna relazione psicologica! Questa visione della responsabilità etica vale anche per la persona come oggetto di diritti e di rispetto per la sua sacra201

lità. Ha delle implicazioni notevoli per questioni molto scottanti come l’eutanasia e l’aborto. Si pensi a tutto il problema della personalità giuridica del feto. Come vedremo in 2.3 e 2.4. ci sono delle teorie come quella dell’animalismo secondo cui non si nasce persona ma lo si diventa perché tra un feto di venti settimane e un adulto non vi può essere continuità psicologica. Come si vede la selezione di uno solo dei criteri di identità personale può portare a conseguenze così radicali da mettere a repentaglio la concezione di personalità giuridica così come è delineata nei nostri ordinamenti e la visione socialmente condivisa di soggetto di diritti fondata sulle intuizioni morali che provengono dal senso comune. Non c’è dubbio che, ai punti positivi cui abbiamo accennato, la teoria dell’Ens Successivum possa aggiungere anche dei rischi molto forti di snaturamento di quello che è l’idea di persona introiettata dai nostri sistemi giuridici e morali. Tutto questo ha conseguenze enormi sul piano dell’etica e dei diritti. E su domande fondamentali come: Quando una persona comincia ad esistere? Quando una persona finisce di esistere? Parfit (ivi, 410-1) giunge ad affermare che abbiamo a che fare con questioni vuote alle quali non riusciremo a rispondere anche se conoscessimo tutto quello che è necessario sapere sul nostro mondo. La semantica del lessico personalista è vaga e imprecisa. Ma non perché il mondo è fatto in questo mondo, ma perchè è tale la nostra descrizione di esso su base personale. Occorre accettare che questa descrizione è imprecisa perché è scorretta. La nozione di persona è illusoria e va eliminata dal nostro linguaggio. Questa visione riduzionista radicale è inaccettabile perché contravviene alle nostre intuizioni sul mondo e al modo in cui le società si sono organizzate in sistemi giuridici efficaci basati non solo su diritti 202

naturali inalienabili ma anche su convenzioni pragmaticamene funzionali che poggiano sulla forza del senso comune condiviso Come abbiamo detto anche l’animalismo, pur accettando di rispondere alla domanda su cosa sia una persona a seconda delle fasi della vita, ne mette a rischio una applicazione universale e atemporale. Occorre quindi trovare un modo per riaffrontare la questione etica e giuridica all’interno di una teoria della persona che tematizzi la sua identità diacronica nel tempo facendosi carico delle problematicità della sua complessità e dei limiti cui essa è sottoposta nel corso della sua vita, ma anche il principio della responsabilità etica e il suo essere contemporaneamente soggetto e oggetto di diritti inalienabili. L’aporeticità intrinseca alla nozione di persona non può condurre fino alla sua dissoluzione e alla polverizzazione dell’orizzonte della responsabilità e dei diritti. 2. Ens Successivum e Identità Personale. La babele dei criteri 2.1. Dove scorre il fiume o il problema dell’Ens Successivum Una delle intuizioni principali che possediamo sull’essere una persona è che nessuno può esserlo senza che qualcosa di stabile perduri nel tempo garantendone la persistenza al di là dei cambiamenti temporali che essa subisce. Accanto a questa intuizione ce n’è un’altra contemporanea e a tratti contraddittoria. Dal punto di vista psicologico e ontologico la persona è un Ens Successivum, la nostra identità personale ha 203

carattere temporale, non siamo diversi da un fiume che scorre di continuo, fatto di fasi successive che hanno però concatenazioni tali da non permetterci di considerare il fiume come composto da parti separate, ma come un tutt’uno che emerge dalla coesistenza di flussi susseguenti di acqua che vanno verso la foce con flussi precedenti che provengono dalla sorgente. L’unità dell’ente fiume fa problema per l’ontologia sin dai tempi di Eraclito, ma di recente Quine ha addirittura messo in dubbio che possa esistere qualcosa come un fiume, che esso possa appartenere al catalogo degli enti. Ho criticato altrove questo eccesso fornendo un tipo di ontologia che possa tenere conto delle nostre intuizioni fondamentali sulla vita, su cosa sia un oggetto e che possa fare interagire produttivamente la nostra rappresentazione degli enti con la loro costituzione ontologica (Velardi 2013). Il fatto che i fiumi esistano non dipende dal fatto che i flussi di acqua condividano lo stesso corso fisico, ma anche da una idea che noi abbiamo del fiume che mette insieme gli elementi processuali che lo compongono come Ens Successivum. La geniale considerazione di Hume è stata spesso interpretata come un attacco alla idea di sostanza dell’Essere personale. Ma se confrontata con l’eliminativismo radicale di Quine ci si avvede come la tesi di Hume sia invece molto produttiva per l’ontologia e permetta di inserire nel catalogo degli enti, oggetti peculiari presenti nel mondo che sono caratterizzati dal loro essere processuale come per l’appunto i fiumi e le persone. Entrambi sono Enti Processuali, sono un Ens Succesivum. L’essere umano ha una storia interiore ed esterna, ha una sua biografia fatta di diverse fasi di crescita e di consapevolezza, è sottoposto a mutamenti sensibili del proprio cervello e del proprio corpo secondo una parabola inevitabile che 204

porta dalla nascita alla crescita fino all’invecchiamento e alla morte cioè addirittura alla dissoluzione di tutto quanto ci serve per definire che un essere è una persona cioè un corpo vivente con una sua interiorità psichica e una mente dotata di alcune caratteristiche che - pur non potendo essere cognitive in senso forte, pena l’esclusione di molti individui menomati fisicamente o ritardati mentalmente cui invece noi siamo disposti, anzi tenuti, a concedere l’appartenenza alla categoria di persona - devono avere almeno una loro base neurofisiologica elementare. A parte questo problema costitutivo di cui ci occuperemo tra poco, il problema della persistenza riguarda la continuità tra le fasi della mia vita ovvero poter dire se io da adulto sono la stessa persona rispetto all’io di quando ero bambino. Occorre pertanto stabilire come le persone persistono cioè come continuano a essere lo stesso a dispetto dei loro cambiamenti psicofisici. Più precisamente occorre offrire un criterio secondo cui la persona che succede alla precedente è in connessione con gli stati e le esperienze di questa. Continuando il confronto tra il problema del fiume è quello della persona possiamo ricordare come alcuni filosofi ricercano quale sia la base di persistenza del fiume trovandola nella costanza del letto materiale dentro cui passa la massa di acqua. Come ho detto io ho cercato di fornire una idea più complessa alla luce anche della nostra capacità di costruire rappresentazioni di enti problematici. Ma molti teorici dell’ontologia rifiutano ancora il concorso di qualcosa di psicologico alla definizione del catalogo degli enti, cercando un criterio costitutivo indipendente da quello rappresentazionale e/o epistemico. Anche se si accettasse una soluzione esterna alla rappresen205

tazione come quella del corso materiale per il fiume, noi dovremmo riconoscere che per l’identità della persona nel tempo è difficile trovare un criterio fisico simile. Potremmo continuare nell’analogia pensando ai nostri stati interni come all’acqua del fiume che scorre e al nostro corpo come il letto materiale dentro cui scorre il flusso della nostra psiche. Ma come vedremo sia la scelta di un paradigma fisico che vede nel corpo il baricentro della persistenza, sia quella del paradigma psicologico che lo pone nella memoria e nella coscienza, non sono esenti da problemi. 2.1.1. L’identità come presupposto dell’entità personale? Seguendo la trattazione di Bottani (2007a) possiamo osservare come il problema dell’entità personale non può essere posto senza porre e risolvere quello della identità personale. Quest’ultimo fa capo alla seguente formulazione: (I) Se a e b sono persone, a = b se e solo se aRb in cui la R indica una relazione tra le persone che si succedono nel tempo che poggi su criteri definiti. La relazione R è la condizione necessaria e sufficiente perché due persone possano essere la stessa persona. Per questo motivo spiegare cosa è la relazione R deve precedere ogni altro tipo di spiegazione verta sulla identità personale. Quello che viene espresso dalla formula della identità personale nel tempo (I) è in stretta connessione con un criterio che stabilisca cosa è una persona cioè con un enunciato di questo tipo: (P) Una qualsiasi entità a è una persona se e solo se a è C, 206

dove C è la condizione necessaria e sufficiente cioè stabilisce che se sono C allora sono una persona e se sono una persona allora sono C. Tra (I) e (P) c’è una relazione per cui io non posso rispondere adeguatamente alla seconda senza avere risolto la prima. Questo punto è dibattuto. Per Dummett (1973) e Lowe (1989) sono criteri indipendenti in quanto la formula della identità può variare mentre quella dell’entità personale può restare inalterata. I criteri di applicazione trascenderebbero i criteri di identità e questo potrebbe giustificare, come nota Bottani (2007a, 62), lo scetticismo di Kripke nei confronti di questi ultimi come viene espresso nei suoi inediti scritti su Time and Identity. Occorre ricordare che l’autore di Nome e Necessità coltiva una sua visione dualista della soluzione del problema mente-corpo e dei criteri di applicazioni dell’essere personale propri del senso comune. In effetti, come abbiamo detto precedentemente, la soluzione dualista tipica della metafisica tradizionale nella sua versione moderata di tipo tomista o forte di tipo cartesiano può fare a meno del criterio (I) perché il cambiamento della nostra identità personale nel tempo non fa problema alla continuità del principio spirituale che permane identico nel tempo. Ma a ben vedere anche questa impostazione è sbagliata perché pure l’anima, intesa come principio psicologico non atemporale, è sottoposta a variazioni e cambiamenti nel corso della vita. Riprendendo le considerazioni fatte sopra (§1) io penso quindi, al contrario della metafisica tradizionale e di autori analitici come Dummett, che il criterio (I) sia da integrare con (P) e che spiegare cosa è una persona debba confrontarsi anche con lo spiegare cosa voglia dire essere la stessa persona nel tempo. Questo appare chiaro proprio a causa del 207

fatto che il cambiamento temporale della base fisica e della base psicologica della persona ha delle ripercussioni sulla teorizzazione ontologica che non può assimilare la persona al semplice suppositum. A mio modo di vedere la problematicità dei criteri di identità non è un buon argomento per favorire lo scetticismo sui criteri e l’esclusione dello scenario della identità personale dal discorso sull’essere personale. Questa problematicità esprime invece la complessità dell’essere personale. Verificare che i criteri dell’identità sono circolari porta alcuni filosofi a considerare l’identità personale un concetto primitivo e irriducibile e rifugiarsi nella simple view per cui la persona è una sostanza intellettiva, semplice e irriducibile a sotto-entità di qualsiasi tipo. Come ho detto sopra non è possibile liquidare il problema della identità personale in questo modo. Occorre farsi carico della sua problematicità e riconoscerla anche all’interno della visione semplice. Il problema del criterio (I) non può essere liquidato in favore di una concezione di (P) semplice. Il criterio (P) non può divenire semplice senza che il criterio (I) non venga integrato nella sua problematicità. Anzi, il criterio (P) va rivisto alla luce di questa problematicità. Le aporie del paradigma psicologico e fisico della identità non sono dei semplici incidenti di percorso, ma mettono in luce una peculiarità ontologica dell’essere personale. Questo accade perché la problematicità di (P) non può condurre nemmeno alla tesi estrema secondo cui le persone non siano una entità in qualche modo unitaria, ma siano riducibili a entità più semplici come un club è riducibile al numero dei suoi membri e ai comportamenti che essi attuano seguendo le regole e le pratiche di quel club. La tesi del club salva la vaghezza del criterio (I) perché non si può stabilire in 208

modo preciso l’identità diacronica così come non si può dire con esattezza cosa è un club. Vaghezza e problematicità possono essere salvate senza dovere ricorrere alla indeterminatezza del club e senza dovere accettare la dissoluzione della nozione di persona. 2.2. Criterio costitutivo e criterio epistemico In generale noi possiamo partire da due diverse prospettive per definire un ente presente nel mondo. La prima ha a che fare con quello che chiamiamo criterio costitutivo, la seconda con il criterio epistemico. La prima privilegia la dimensione della generalità, la definizione della categoria, seleziona il come deve essere fatto un ente concreto rispetto all’insieme nel quale dobbiamo collocarlo e stabilisce quali sono i criteri di questa appartenenza. Questa prospettiva è molto generale e non ci assicura che sapremo stabilire con sicurezza se un ente x presente nel mondo nel quale ci imbattiamo è una persona o meno. La seconda prospettiva parte dall’ente individuale e da quello che noi possiamo scoprire su di esso esplorando le sue caratteristiche e decidendo che quell’ente corrisponde a quanto stabilito nella prima prospettiva costitutiva. Possiamo stabilire qual è l’elenco delle caratteristiche che devono appartenere ad un ente perché esso appartenga ad una categoria e possiamo fornire la definizione di persona, ma non siamo sicuri che le nostre conoscenze sul mondo e i processi cognitivi che utilizziamo per esplorarlo (la prospettiva epistemica) ci conducano a determinare con sicurezza come è fatta una persona e se un qualcosa sia una persona. Più precisamente il criterio costitutivo fornisce la condi209

zione necessaria e sufficiente per l’appartenenza all’insieme delle persone. Se io riesco a fornire il criterio C senza presupporre cosa sia una persona, ottengo una definizione informativa e non circolare. La definizione P ha la pretesa di riguardare non solo gli enti che attualmente esistono, ma anche ogni ente esistito o che possibilmente si presenti in futuro. Il quantificatore con cui P esordisce ha dunque un dominio molto ampio. Riferendosi anche a entità non attuali, cioè meri possibilia, ha un carattere necessitante che non prevede che le caratteristiche della specie umana mutino in modo molto sensibile da snaturare troppo la categoria della persona. Per questo si presume una stabilità ontologica forte della nozione di natura umana al netto dei problemi metafisici e scientifici che questa scelta si porta dietro. Il divario tra prospettiva costitutiva e prospettiva epistemica ha delle conseguenze importanti per definire C, per stabilire la condizione necessaria e sufficiente per essere una persona, per stabilire se un x è una persona. Infatti nessuno ci dice che è più facile definire C, stabilire la condizione necessaria e sufficiente e fornire il criterio costitutivo. Potrebbe essere più semplice per noi adottare la prospettiva epistemica e decidere di volta in volta se qualcosa è una persona, piuttosto che stabilire a priori per tutti i casi una regola definitoria di appartenenza alla categoria di persona. Mentre il criterio costitutivo è indipendente dalla nostra capacità conoscitiva – anche se è stabilito sempre da noi – il criterio epistemico è condizionato da essa. Per una certa metafisica tradizionale e per molti autori citati sopra (§ 1.2), la nozione di persona è indipendente da qualsiasi tipo di spiegazione noi possiamo suggerire su cosa sia una persona. Il criterio epistemico non può condizionare il criterio costitutivo. 210

Nel dibattito sulla identità personale è condiviso che decidere che un ente è una persona è più facile che definire a priori la categoria dell’essere una persona. A mio avviso questo fatto sembra non essere una semplice conseguenza della contingenza e dei limiti cognitivi, ma ha a che fare con la complessità ontologica dell’ essere una persona. Per questo mostrare le difficoltà insite nella descrizione dei criteri offre un contributo importante, non accidentale e posticcio alla ontologia della persona. Tralascio per adesso di occuparmi del fatto che la categorizzazione dell’essere persona risponde a criteri di categorizzazione non insiemistica, ma prototipica e che è proprio questa categorizzazione sfumata con vari gradienti di rappresentatività che probabilmente risolverebbe al meglio il problema del criterio costitutivo utilizzando una logica fuzzy in cui tutti gli enti della categoria appartengono comunque alla categoria di persona, pur se non tutti la rappresentano come fa il prototipo (Velardi 2005). Quello che voglio affermare per adesso è che la difficoltà nel fornire il criterio costitutivo fa emergere qualcosa di più di un limite cognitivo e cioè la complessità ontologica dell’essere una persona. Il criterio epistemico è spesso la spia di questa complessità e la prospettiva epistemica interagisce con quella ontologico-costitutiva. 2.3. Virtù e limiti del paradigma psicologico Già Locke nel suo Essay ha formulato in modo decisivo il problema della identità diacronica della persona. Egli ha sottoposto a critica sia il criterio fisico fondato sulla sostanza materiale del corpo che quello fondato sulla sostanza spirituale. 211

La base della identità è da trovare nella continuità della coscienza e quindi di quella memoria che connette continuamente i nostri stati e le nostre esperienze. La memoria autobiografica è detta in inglese recollection per distinguerla dalla semplice memoria episodica di tipo soggettivo-esperienziale proprio perché si può parlare di memoria della nostra vita solo se i vari episodi sono riuniti e concatenati fra di loro. Per Locke l’identità personale diacronica si fonda su questa capacità di collegare il flusso dei ricordi. La mia identità si estende fino a dove sono capace di agganciare una mia esperienza nel passato e ricongiungermi con essa idealmente. Se posso farla riaffiorare all’interno della mia memoria, allora essa appartiene alla mia persona, alla stessa persona che la possiede come una propria esperienza. La soluzione di Locke risponde certamente a molte delle nostre intuizioni sul nostro essere una persona. Sembra un dato introspettivo ineccepibile, qualcosa che il senso comune manifesta come verità lampante della nostra costituzione di essere personali che persistono nel tempo. Eppure anche questo criterio così importante e così pregnante per la nostra vita non è sufficiente a garantire la continuità dell’identità. Ci sono parti della nostra vita che non possono essere raggiunte dal ricordo e che pure noi rifiutiamo di escludere dalla parabola della nostra identità personale. Molti ricordi della nostra infanzia sono murati e inaccessibili a causa del fenomeno della amnesia infantile cioè l’incapacità dell’essere umano di accedere alle esperienze dei primi tre anni di vita all’interno di una memoria autobiografica concatenata. Nonostante questo gap, noi non siamo disposti a pensare che nei primi anni abbia vissuto qualcuno col quale noi non abbiamo relazione o continuità a causa della mancanza di continuità mnemonica. 212

C’è poi il caso dell’amnesia temporanea o di amnesie retrograde prolungate nel tempo. È chiaro che ci sono molti vuoti nella nostra vita che non permettono alla coscienza e alla memoria di offrirsi come basi sicure della nostra identità. Durante il sonno noi non ricordiamo e non siamo presenti a noi stessi. Il problema diventa ancora più vasto nel caso di quel lungo sonno che è il coma. Se il criterio della memoria fosse la base della identità personale, allora una persona in coma non sarebbe più la stessa persona rispetto a quella precedente il coma. Dunque ricordare non è una condizione necessaria per essere una persona. Ricordare, dormire, essere in coma, sono tutte proprietà modali che obbligherebbero a rendere modale anche la nozione di persona. Si può o non si può ricordare, si può come non si può essere in stato di veglia o di sonno, si può come non si può trovarsi in uno stato di smemoratezza. Ma questa strada sembra porre problemi ancora più gravosi e sembra impraticabile perché non corrisponde alle nostre intuizioni sulla persistenza. Vi è poi il problema della transitività necessaria ad una relazione R di continuità nel tempo. La relazione tra i ricordi non è transitiva perché una sotto-persona a può ricordarsi un evento della vita della sotto-persona b e la sotto-persona b ricordarsi un evento della vita della persona c, senza che tra a e c si costituisca una relazione di memoria. Thomas Reid (1784, 333-4) cita a proposito il famoso ufficiale che ricordava da vecchio l’azione valorosa compiuta in battaglia e quando era ufficiale ricordava il furto di mele compiuto quando era bambino, evento che invece era stato completamente dimenticato in età matura. Se applicassimo il criterio della memoria alla identità dell’ufficiale dovremmo dire che l’ufficiale da vecchio non ha niente a che fare col bambino e non è la stessa persona 213

che ha rubato le mele. Il paradosso dell’identità non può essere accettato e noi dobbiamo comunque sostenere che il bambino, l’ufficiale eroico e il vecchio sono comunque la stessa persona. Un modo per salvare il criterio psicologico della memoria è quello di indebolire la connessione fra i ricordi. Al posto di una connessione mnemonica diretta, ci accontenteremo di una continuità mnemonica indiretta all’interno di una sequenza ordinata di sotto-persone. Diremo quindi che “a e b sono la stessa persona se e solo se a è la prima, e b è l’ultima, di una sequenza ordinata di persone ciascuna delle quali ha una connessione mnemonica diretta con la persona immediatamente successiva nella sequenza” (Bottani 2007a,65). La continuità mnemonica diventa così l’ancestrale della connessione mnemonica diretta in analogia con la relazione del progenitore rispetto a quella di genitore. In questo modo il criterio diventa più plausibile. Noi possiamo giustificare meglio la relazione tra me ora e me bambino al netto dei vuoti di memoria che possono occorrere. Inoltre la relazione di continuità è transitiva e noi possiamo evitare il paradosso di Reid stabilendo una continuità fra le due sotto-persone del vecchio che ricorda l’eroismo del giovane ufficiale ma che non ricorda il furto delle mele perpetrato da bambino. Wiggins (1980, 176 e ss) ha fatto notare che nemmeno questo criterio è valido se teniamo conto del caso di amnesie molto gravi ed estese che intaccano i nostri ricordi. Forse si può trovare una scappatoia al problema tenendo presente che ci sono vari tipi di ricordi corrispondenti a diversi sistemi di memoria a lungo termine: procedurale, semantica ed episodica. Come dimostra il caso del famoso paziente H.M. (la cui identità oggi è stata svelata post mortem) non sembra che possa 214

accadere che una persona amnesica dimentichi delle abilità procedurali da lei apprese precedentemente come guidare una macchina o utilizzare un attrezzo come la falciatrice. Dunque il criterio della memoria può essere utilizzato con qualche accorgimento per fornire qualche base alla identità diacronica della persona. D’altra parte esso deve fronteggiare un problema più radicale e cioè che, anche se la persona dovesse perdere tutti i ricordi, si potrebbe continuare a considerarla una persona. Inoltre questo criterio sembra fare emergere una circolarità perché presuppone l’identità personale che dovrebbe andare a giustificare. Esso funziona illusoriamente come una condizione sufficiente della identità perché la presuppone. A e b sono in relazione mnemonica fra di loro in quanto sono persone e non sono persone in quanto sono in relazione mnemonica. In effetti, come ho fatto notare altrove (Velardi 2013), noi siamo disposti a riconoscere come la stessa persona anche soggetti affetti da gravissime amnesie. Siamo portati a considerare la stessa persona Henry Gustav Molaison, conosciuto come il paziente H.M., prima della lobotomia che lo salva dai letali attacchi di una epilessia farmaco-resistente e dopo l’operazione che gli provoca una perdita devastante dei ricordi e una incapacità invalidante di immagazzinare nuove informazioni e ritenerle nella sua memoria a lungo termine. Dal punto di vista mentale H.M. manca di continuità e identità nel tempo. Anche dal punto di vista della continuità fisica potremmo dire che c’è una lacuna non marginale in quanto H.M. manca di una consistente parte di cervello. Eppure né la discontinuità fisica, né la discontinuità mentale ci portano a considerare H.M. prima dell’operazione e dopo l’operazione come due persone diverse. C’è qualcosa in Henry 215

Gustav Molaison che gli conferisce lo statuto ontologico di persona a prescindere dalla discontinuità fisica e mentale. Proprio questo esempio risulta critico non solo per il criterio psicologico, ma anche per il criterio della continuità cerebrale. Esso mostra inoltra come la circolarità è davvero all’opera e una nozione di persona è presupposta alla applicazione del criterio. A mio modo di vedere questa circolarità è la spia di una complessità e peculiarità della nozione di persona che ha a che fare con la radicalità della prospettiva in prima persona e con la sua ulteriorità. Alcuni filosofi analitici vedono in essa semplicemente un vizio logico della criteriologia. Per questo Shoemaker (1970) e Parfit (1984, cap.XI) hanno cercato una strada per uscire dall’empasse circolare della continuità mnemonica trovandola nella nozione di quasi-ricordo cioè qualcosa in tutto simile al ricordo ma che può riguardare anche l’ esperienza vissuta da un’altra persona. Ma anche questa strada va incontro a problemi sia per la sua artificiosità, sia per il fatto che quasi-ricordarsi di esperienze vissute da altri non può avere a che fare con la mia identità e non può quindi diventarne una condizione sufficiente. La radicalità della prospettiva in prima persona sembra rendere impraticabile la nozione di quasi-ricordo. I ricordi sono miei e non di qualcun altro. Forse un merito di questa teoria è quello di legarsi a diversi tipi di stati mentali ed esperienze attraverso le quali le sottopersone posso trovarsi in connessione: il carattere, la relazione che si instaura in me tra intenzioni, decisioni e azioni, la vita pulsionale inconscia etc. Possiamo così sostituire alla connessione psicologica qualcosa di più ampio e debole come la continuità psicologica così come abbiamo fatto per la connessione e la continuità mnemonica. In questo modo pos216

siamo superare la circolarità del criterio della memoria, ampliare i parametri della identità, ma continuiamo a scontrarci con delle aporie molto forti. La continuità psicologica viene interpretata come una questione di quantità, deve cioè essere in grado sufficiente, mentre il criterio della memoria si fondava su una intensità di qualsiasi grado. Questa clausola pone un problema di indeterminatezza della soglia di questo grado con la conseguenza che si daranno casi spiacevoli in cui non si può stabilire se una sotto-persona è la stessa di una precedente o no. La mia esistenza dunque potrebbe avere zone di indeterminatezza e la mia continuità e sopravvivenza potrebbero essere indecidibili. Ma noi rifiutiamo un simile risultato. Inoltre si può avere un gran numero di sotto-persone collegate da continuità psicologica, mentre la relazione di identità personale viene percepita come una relazione uno a uno piuttosto che uno a molti. In una serie di esperimenti mentali molto artificiosi, quello del teletrasportatore e della psicocopiatrice, si mostra come la continuità organica possa prendere una strada opposta alla continuità psicologica e viceversa. Posso avere la continuità dei miei pensieri, ma trovarmi in un corpo diverso come nel caso che io venga teletrasportato. Oppure posso avere una continuità organica senza continuità psicologica come nel caso in cui nel mio cervello si inseriscono i pensieri di un’altra persona, così che io diventi organicamente continuo con il me che possedeva quel cervello, e continua a possederlo, ma psicologicamente discontinuo con quello stesso me stesso (cf. Nozick 1981; Shoemaker 1984; Hughes 2001). Sarebbe possibile in linea teorica avere perfino sotto-persone continue psicologicamente, ma separate a livello spazio-temporale. Al contrario una delle nostre intuizioni fondamentali 217

è che una sotto-persona è identica ad un’altra solo se c’è continuità spazio-temporale. C’è dunque qualcosa delle nostre intuizioni sulla identità personale e sull’essere una persona di cui il criterio psicologico non tiene conto. Soprattutto di questioni che riguardano la prospettiva in prima persona dentro cui io faccio esperienza dei miei stati mentali e delle mie percezioni. E con cui mi relaziono agli altri. Io non mi considero e gli altri non hanno relazioni con me e verso di me in quanto type, ma in quanto token. Io non sono per me e per gli altri, e gli altri non sono per me e per gli altri, dei tipi generali ma entità individuali, uniche e irripetibili dotate di caratteristiche precise. Il punto di vista della identità personale ha una sua irriducibilità di cui Bernard Williams (1970) ha fornito una evidenza con un esperimento mentale costruito per argomentare contro il criterio psicologico. Se un neurochirurgo mi opera senza anestesia ed elimina con un elettrodo tutti i miei ricordi, sarò sempre io a provare dolore per l’operazione. Se poi il neurochirurgo attiva un secondo pulsante che introduce in me tutti i ricordi e le credenze di Napoleone e poi un terzo pulsante che rende il mio carattere identico a Napoleone, neanche a questo punto si può ipotizzare che a provare il dolore sia Napoleone e non io. In questo modo, per quanti cambiamenti psicologici possono occorrere in me ad opera del neurochirurgo, io rimango il soggetto primo e ultimo del mio dolore. La persona che risulta dall’intervento sarà psicologicamente discontinua rispetto a me, ma nondimeno identica a me. Sarà psicologicamente continua con Napoleone ma nondimeno diversa da Napoleone. Dunque la continuità psicologica non si presenta come una condizione necessaria né sufficiente per l’identità diacronica della persona. 218

Anche le revisioni del criterio vanno incontro a numerose difficoltà. Sembra proprio che esso non riesca a uscire dal paradosso per cui se diventa troppo forte e preciso, allora diventa tanto problematico da essere implausibile, se si indebolisce per diventare più plausibile torna ad essere impreciso. Per Williams (1970) la teoria del candidato unico e del miglior candidato si scontra con il principio dei soli x e y in cui viene difesa l’intuizione secondo cui l’identità diacronica è una relazione intrinseca e non può dipendere dall’inesistenza o addirittura dalla soppressione di un qualcun altro che rivaleggia con un altro candidato per essere il successore migliore della mia sotto-persona. Se io vengo sottoposto ad una asportazione del corpo calloso e i miei emisferi vengono divisi, io non cesso di esistere. E non devo certamente ricorrere alla sopressione di uno dei due possessori degli emisferi per avere un mio continuatore identico nel tempo. Diversi sono i tentativi di evitare le critiche di Williams. Se Bottani (2007b) tenta di mostrare la non incompatibilità delle teorie con l’assioma di intrinsecità, Nozick (1981) sceglie la strada della relazione estrinseca difendendo al teoria. Non penso di dovere tenere qui in conto le tesi di autori come Lewis (1976), Perry (1972), Noonan (1985) secondo cui i casi di divisione non rappresentano altro che un tipo di sovrapposizione spazio-temporale. Secondo questi autori delle entità post-divisione esistono già prima della divisione ma in modo da essere compenetrate l’una con l’altra e da fornire l’illusione che ci sia una sola entità. Questa idea bizzarra discende dalla paradossale teoria di Lewis delle parti temporali secondo cui tutto quello che ha una durata nel tempo è fatto di parti che si ripetono nei vari istanti temporali. Secondo la tesi di occu219

pazione multipla, se il mio cervello viene diviso in due con due flussi di coscienza diversi, ci saranno due somme massimali di parti temporali che occuperanno la stessa parabola nel tempo. A mio modo di vedere le critiche di Williams sono decisive e, collegate con i risultati di altri esperimenti mentali paradossali, ci forniscono quel panorama di complessità della ontologia della persona per cui da una parte essa sembra portare verso l’irriducibilità, dall’altra esibisce una criteriologia diversificata e problematica di cui non si può non tenere conto rifugiandosi in una visione semplicistica della ulteriorità dell’essere una persona. Una prospettiva che non si cura della problematicità del criterio psicologico è quella del riduzionismo. L’imprecisione del criterio psicologico non preoccupa perché la nozione di persona non ha un fondamento ontologico. Seguendo l’indicazione di Quine per cui “non c’è entità, senza identità”, si può concludere che se il criterio di identità personale non funziona è perché l’entità della persona non è ammessa nel nostro universo, ma è illusoria e vuota così come lo è la presunta identità di un partito politico, di un club o di una nazione. Ci sono moltissimi casi in cui non abbiamo un criterio preciso per stabilire se un partito politico è lo stesso di quello che è stato decenni prima o nelle varie fasi della sua evoluzione politica. Ma queste difficoltà importano fino ad un certo punto perché il problema non riguarda i criteri che utilizziamo, bensì la stessa nozione di partito politico e la sua esistenza illusoria. L’indeterminatezza dei criteri di identità non dipende dalla nostra ignoranza del mondo, ma dalla inesistenza della entità di persona considerata come un qualcosa di compatto e unitario così come le nostre intuizioni illusorie ce la offrono. Lo statuto ontologico delle persone non è diverso da quello dei 220

partiti. Il nostro commitment ontologico sulla loro esistenza non dovrebbe essere portato fino in fondo. La domanda “x e y sono la stessa persona?” è vuota! Parfit (1984) difende un approccio riduzionista di questo tipo. Le persone non sono “entità esistenti separatamente”, non prescindono da un cervello e da un corpo, sono riducibili a eventi fisici e mentali. Si può perfino fare a meno di menzionare le persone senza che la descrizione del nostro mondo ne soffra e perda in completezza. Questa prospettiva permette di ridare valore al criterio psicologico che diventa l’unica cosa importante per garantire la sopravvivenza di un individuo nel futuro (ivi, cap.XII-XIII). Non esistono le persone ma solo le persone-sequenza (ivi, 369-372). Anche la posizione di Dennett (1991), di cui abbiamo illustrato i limiti nel paragrafo introduttivo, è di tipo riduzionista e conduce alla negazione della nozione di persona. 2.4. Virtù e limiti del paradigma fisico Come abbiamo visto parecchi esperimenti mentali mettono in luce la possibilità che la continuità organico-biologica possa prendere una strada divergente dalla continuità psicologica con conseguenze indesiderabili per i sostenitori del criterio mentale della identità diacronica. I sostenitori del criterio fisico hanno dalla loro parte argomenti forti come l’intuizione di senso comune che noi siamo anche animali che hanno sensazioni e una attività neuro-vegetativa che avviene grazie ai collegamenti tra corpo e cervello. In effetti noi siamo una compenetrazione di mente, cervello e corpo che è molto refrattaria alla separazione tra la prospettiva psicologica e quella 221

fisica. In un certo senso la ricerca di un criterio psicologico per l’identità personale ricalca un certo dualismo disincarnato. Riuscire a difendere l’assolutezza di questo criterio è difficile. Shoemaker (1984, 113) ha proposto di distinguere tra identità di composizione e identità numerica. Quando diciamo che la persona è un animale intendiamo due cose contemporaneamente. Nel primo caso predichiamo l’appartenenza ad una categoria come quando diciamo che tutte le scimmie sono mammiferi. Si tratta di una identità numerica per cui ogni persona è anche un animale nello stesso tempo e una unità di persona coincide con una unità di animale in tutto e per tutto. Nel secondo caso intendiamo dire che la persona si sovrappone spazio-temporalmente con un animale ma non coincide con esso. Il verbo essere esprime una identità di composizione come quando diciamo che il Davide di Michelangelo è un pezzo di marmo. L’asserto è vero ma non nel senso che il capolavoro di Michelangelo può essere ridotto alla materia del marmo da cui è composto. E infatti io posso parlare della bellezza del David facendo un discorso estetico senza doverlo ridurre ad un discorso fisico sul marmo. Inoltre il marmo preesiste come blocco alla statua e può sopravviverle come insieme di pezzi qualora essa venga distrutta. Seguendo l’analogia della statua il sostenitore del criterio psicologico arriva a dire che là dove c’è una persona “ci sono due entità numericamente distinte ma composte della stessa materia e compenetrate nella regione di spazio-tempo: una persona (con condizioni di persistenza psicologiche) e un animale (con condizioni di persistenza fisiche); e io sono la persona, non l’animale” (Bottani 2007a, 80). La persona coincide con l’animale dal punto di vista spazio-temporale e mereleogico-composizionale, ma non dal punto di vista numerico. Questo approc222

cio, chiamato “constitutionalist neo-Lockeanism” ha avuto una sua ampia elaborazione nell’opera di Lynne Baker (2000, 2002, 2007). La proprietà che ci distingue dagli animali è una forma di autocoscienza cui si lega la prospettiva in prima persona (Baker, 2000, Cap.3). Questa consente alla persona di percepirsi come “un individuo che si oppone ad un mondo, come un soggetto distinto da ogni altra cosa”. La Baker ha chiamato “Key Distinction” (2007, 43) la tesi del constituzionalismo secondo cui oggetti costituenti (come il marmo) e oggetti costituiti (come le statue) condividono le loro proprietà. Per cui come una statua condivide col marmo le sue proprietà sia materiali che estetiche, così la persona condivide con l’animale le proprietà sia fisiche che psicologiche. Questa strategia è anch’essa viziata da un certo dualismo. Olson (1997) ha fatto notare come la sovrapposizione persona – animale possa portare ad una indesiderabile ridondanza. Dal momento che noi attribuiamo stati mentali e credenze agli animali, saremmo costretti a dire che uno stesso stato mentale è posseduto contemporaneamente da una persona e da un animale. Inoltre dovremmo asserire che sia la persona che l’animale si credono la stessa persona, ma che l’unica entità ad avere ragione nell’avere questa credenza è la persona e non l’animale. Tutto questo complica di molto un quadro già abbastanza ostico. Le teorie di stampo analitico sulla identità argomentano su queste possibilità a partire dagli esperimenti mentali da noi citati sopra. Bisogna constatare che esse giocano molto a spostare la polarità ora sul criterio fisico ora su quello psicologico mantenendo un certo dualismo strumentale che serve per alimentare il gioco delle argomentazioni e delle controargomentazioni dando l’idea a volte di essere un po’ fine a se stesso. 223

L’esperimento immaginario dello scanner replicatore è stato discusso da Nagel, Nozick, Shoemaker per argomentare sulla possibilità che il nostro corpo venga distrutto integralmente e ricomposto in una copia perfetta che non porta segni di invecchiamento e malattia e che ha nei confronti della persona precedente una piena continuità psicologica. Questo scenario fantascientifico dovrebbe farci riflettere sulla interrelazione che corre tra i due criteri e ci pone davanti alla domanda: quella duplicata è la stessa persona originale o è la stessa persona spostata da un animale all’altro? C’è una continuità fisica e psicologica o semplicemente una mera continuità psicologica? Il sostenitore del criterio psicologico può sostenere la seconda tesi, ma è portato a riconoscere che questa va contro tutte le intuizioni di senso comune che noi esseri umani abbiamo sul nostro essere una persona. Nagel indica con il termine persona-sequenza l’entità che permane durante gli spostamenti da un animale all’altro. Attraverso questa entità egli mostra come la tesi di chi difende il criterio psicologico va incontro ad una situazione paradossale. Ogni volta che lo scanner replicatore distrugge il corpo e lo rigenera, io mi trovo davanti due entità distinte: la persona sequenza che viene spostata in un altro animale e la persona che viene distrutta dalla scansione. Ad opporsi a questo scenario sono i sostenitori del criterio biologico di persistenza e della tesi per cui noi siamo essenzialmente degli animali della specie umana (van Inwangen 1990; Williams 1970, 1973, 1976; Olson 1997; Snowdon 1990, 1991). Se si privilegia questo criterio si possono risolvere alcune situazioni paradossali andando però incontro ad altri tipi di problematiche e paradossi. Secondo questo approccio, che Snowdon (1991,109) ha chiamato animalismo, quello che ca224

ratterizza l’essere una persona è avere un corpo e non la continuità psicologica. In effetti è solo quel criterio a permettere di pensare la continuità tra un feto di venti settimane e la stessa persona divenuta adulta. Nessuna persona può avere continuità con un feto secondo la prospettiva psicologica, ma solo dal punto di vista corporeo. Il sistema nervoso di un feto non è ancora così sviluppato da permettere che esso abbia stati psicologici e soprattutto una memoria dichiarativa esplicita e cosciente. Noi e la nostra vita fetale precedente abbiamo solo un collegamento di tipo fisico-genetico e del tipo potenza-atto di matrice aristotelica. Il feto è in potenza quello che noi siamo in atto anche nel senso che noi deriviamo da quel feto il nostro corredo genetico. In questo modo si risolverebbe un paradosso cui va certamente incontro il criterio psicologico. A ben vedere però il criterio degli animalisti non fa capo alla marcatura del DNA, bensì al corpo. Inoltre la nozione di animale non esclude che esso abbia un corpo ma nemmeno che abbia stati mentali. Questo scenario porta alcuni filosofi a riproporre la cesura tra vita fetale e vita adulta anche all’interno del paradigma fisico-biologico. Un animale allo stadio fetale non sarebbe una persona, mentre un animale adulto lo è. E dunque noi assistiamo ad un passaggio da uno stadio in cui non si è una persona ad uno stadio in cui lo si è. Dal momento che l’animale che sono non è sempre stato dotato di un sistema cognitivo compiuto, io divento una persona in un determinato stadio, ma non nasco come una persona. Quando lo divento sono una persona solo temporaneamente e in maniera contingente, dal momento che posso anche ritornare ad uno stato di assenza cognitiva, simile a quella fetale, come nel caso della malattia di Alzheimer o di un coma. In questo snodo teorico l’animalista sembra contravvenire 225

al primato del criterio fisico corporeo opponendosi ad una continuità che è invece fornita dalla intuizione che noi continuiamo ad avere un corpo soggetto ad uno sviluppo in base ad un corredo genetico che si mantiene costante. E che tra il feto e la persona adulta vi è una linea biologica comune e una dipendenza ontologica forte. ll fautore del criterio corporeo va incontro ad una oscillazione per certi versi contraddittoria. Da una parte la mia identità è basata sul mio hardware, dall’altra viene posto il problema dell’assenza di un software in certe fasi della nostra vita personale. In molti autori si assiste allo sviluppo di un vero e proprio rebus teorico. La discussione arriva anche a concepire possibilità di persone non umane come menti disincarnate, sistemi artificiali complessi, persone divine, per cui si darebbero casi di persone che non sono animali, casi in cui essere la stessa persona non coincide con essere lo stesso animale (Olson 1997, 1-7). E giunge perfino a definire un criterio sparpagliato di identità che corrisponderebbe alla attivazione di uno stato funzionale della mente. In questo modo non si capisce davvero come l’animalismo si possa opporre a certi fautori del criterio psicologico come Dennett o i funzionalisti. Inoltre l’animalismo, come il criterio psicologico, pone una frattura tra avere un corpo e avere un cervello come se le due cose fossero separabili e non invece in continua interrelazione fra di loro. Alcuni esperimenti mentali sono per l’appunto giocati su questa separazione che è talmente artificiale da produrre situazioni paradossali che non hanno nulla a che fare con le intuizioni da noi possedute sulle persone. Shoemaker (1963) tratta il caso del signor Rossi affetto da una malattia che distrugge tutto il suo corpo ma non il cervello. Questo viene trapiantato nel corpo del signor Bianchi in cui 226

invece è il cervello ad essere ormai fuori uso in tutte le sue parti. Ne viene fuori un ibrido che chiamiamo Biossi a cui bisogna assegnare una identità. Esso è in continuità col signor Rossi o in continuità col signor Bianchi? Per l’animalista che privilegia il criterio fisico-corporeo Biossi è in continuità con il corpo o con il cervello? Esso avrebbe gli stati mentali ed emotivi di Rossi e questo dovrebbe portare a dire che è il signor Rossi ad essere sopravvissuto. L’animalista deve affermare la continuità tra Biossi e Bianchi per potere salvare il primato del criterio fisico. Per Shoemaker, Biossi e Rossi non sembrano essere lo stesso animale, perché comunque il cervello è una parte del corpo al pari di altri organi come il cuore. Un trapianto di organo non porta come conseguenza che la persona che lo riceve sia in continuità di identità con il donatore. Viene da obiettare però che il cervello non è un organo come tutti gli altri. Essendo la sede della nostra mente è l’interfaccia perfetta tra la nostra dimensione fisico-corporea e la nostra dimensione psicologica. L’esperimento mentale del signor Biossi non può quindi essere usato per dare ragione né al mero criterio corporeo, né al mero criterio psicologico. L’animalista esce sconfitto da questo paradosso tanto quanto il mentalista. Questa evidenza è confermata da un ulteriore sviluppo narrativo dell’esperimento fantascientifico. Il signor Rossi viene convocato dai medici perché il donatore previsto non è più disponibile. Il suo cervello si potrà salvare, ma ponendolo in un brodo di soluzioni nutritive dentro cui sarà possibile indurre stati fisici come se il cervello possedesse un corpo e dunque un sensorio affidabile di quello che accade nell’ambiente circostante. Il cervello di Rossi avrebbe una vita simile a quella che avrebbe se Rossi continuasse a vivere e potesse sentire, vedere, toccare, gustare quello che gli sta intorno. 227

Il suo cervello potrebbe comunicare attraverso gli elettrodi come prima. Ma noi ci avvediamo che il cervello non è un organo qualsiasi, ma non è nemmeno un organismo. Un animale non coincide con il suo cervello. In questo caso l’animalista si troverebbe in una difficoltà ancora maggiore, se è possibile, della prima parte dell’esperimento mentale. Infatti, pur di salvare il criterio fisico, egli dovrebbe accettare che un cervello posto in una vasca, capace di intrattenere scambi informativi con il mondo esterno, è ancora un animale (Snowdon 1991, Olson 1997, Hughes 2001). Qualcuno può essere tentato di interpretare queste situazioni paradossali come argomentazioni a favore del primato del cervello come sede delle nostre funzioni cognitive e dei nostri stati emotivi. Nagel per esempio è un convinto assertore che sia l’organo cerebrale quello deputato a garantire la mia continuità come persona. Ma anche questo criterio va incontro a dei paradossi. Vi sono infatti casi in cui il cervello è ridotto alle sue funzionalità vegetative, ma è integro dal punto di vista materiale. In questi casi il criterio è efficace perché salverebbe l’identità personale laddove il criterio psicologico la metterebbe a repentaglio. Ma vi sono casi di cervelli divisi dopo una operazione di resezione del corpo calloso, come quelli studiati dal premio Nobel Roger Sperry, in cui si è visto che si generano due flussi di coscienza autonomi e che alcune aree cerebrali sono relativamente autonome. In questo caso però basterebbe ritoccare il criterio cerebralista aggiungendo che basta una quantità sufficiente di cervello per garantire la identità personale nel tempo. Il criterio potrebbe essere utile, ma in generale va contro a delle intuizioni profonde che noi abbiamo su cosa sia una persona e cioè all’idea che un cervello senza corpo corri228

sponda a qualcosa di disincarnato e di biologicamente impossibile. Per cui è insensato pensare alla persona come a qualcosa che si possa ridurre solo al cervello. Il dibattito sulla identità personale diacronica all’interno della tradizione della filosofia analitica è molto proficuo perché mette in luce virtù e limiti degli approcci psicologico e fisico alla identità mostrando indirettamente quali siano le nostri intuizioni sull’essere una persona e quale sia la complessità di questa nozione, complessità di cui una teoria dell’essere personale deve farsi carico. A mio modo di vedere questo dibattito mostra come sia difficile isolare uno solo di questi criteri come onnicomprensivo e come l’interrelazione tra psiche, corpo, cervello ricompaia sempre come inscindibile e determinante. Inoltre si può vedere quanto sia efficace e produttivo il continuo confronto tra i risultati delle analisi dei criteri e il patrimonio di intuizioni pre-analitiche che noi possediamo sull’essere una persona. Da questo punto di vista si può vedere come una teoria della identità personale e dell’entità personale non possano prescindere da una prospettiva in prima persona. Bibliografia I testi vengono indicati solo nella loro edizione in lingua originale tranne quando non viene fornita una citazione nella edizione italiana BAKER L., Persons and Bodies: A Constitution View, Cambridge University Press, Cambridge 2000. BAKER L., The Ontological Status of Persons, in «Philosophy and 229

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PERSONS AS PSYCHOPHYSICAL AGENTS AND COMMUNICATORS Joe Friggieri Observe a mother trying to teach her child the first words in her language. She doesn’t just make noises with her tongue, lips and vocal chords; she utters words, sometimes (though definitely not always) pointing at objects as she does that, hoping that the child will not only hear but also understand. In so doing, she is treating the child as a person, at least potentially. Becoming a person means entering into a community of speakers and listeners who use language as their specific mode of communication. By talking to people and trying to make myself understood, but also by listening to what they have to say, I treat them as persons. Observing their reactions, verbal or non-verbal, I can know more or less whether the message I am trying to convey has been successfully received. If I have doubts, I may ask for clarification. The other person may do the same, but our first aim must be to understand each other. There are many other things we might want to do, and hopefully achieve, on the basis of that. By genuinely trying to communicate my thoughts and JOE FRIGGIERI, Professore di filosofia e Prorettore presso la University of Malta.

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feelings to others, and also by doing my best to understand what they are trying to express, I show them the kind of respect they are entitled to as members of the human race – I place them on an equal footing as myself. On the contrary, by deliberately excluding others from the kind of communication that is typical between persons, I treat them as inferiors, I refuse them the recognition they deserve. Hegel’s master-slave dialectic demonstrates how this can happen, and what it involves. The kind of linguistic exchange I have described, primitive as it may seem, can still serve as a common point of departure for philosophical reflection in many fields. By focusing on the person as agent and communicator, we get a better grip on whatever it is that still worries us in philosophy of language, perception and action, ethics, political theory and aesthetics. For want of a better word, we may use the label ‘philosophical anthropology’ to cover all these areas considered as a group.1 If the phrase ‘a new humanism’ is to mean anything, then what should occupy centre stage in defining what is human are persons, in their roles as communicators and as agents whose actions are always lit up, coloured or ‘shot through’ by the fact that they are the actions of essentially linguistic animals. It follows from this that each and every human being is, at least potentially, a person. Thinking of persons in this way allows us to avoid the pitfalls associated with Cartesian dualism on the one hand and empiricist accounts of personal identity on the other. On 1

The term ‘philosophical anthropology’ was first used by Taylor C. in the introduction to his Human Agency and Language: Philosophical Papers I, Cambridge University Press, Cambridge 1985, p. 1.

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the Cartesian view, a person is a combination of two distinct and radically opposite entities, an extended material body and an unextended thinking mind or spirit. Although on this view mind and body can exist apart from one another, Descartes felt that in this life they are so closely ‘intermingled’ that they form a union. He was never clear about the nature of this union; nor did he explain how body and mind, whose natures were so radically different, could interact – in the pineal gland or any other part of the body. In his later writings, particularly in his letters to Princess Elizabeth of Bohemia, Descartes remarked that it is not possible to conceive of body and soul as united and distinct at the same time, for this would mean conceiving them as a single thing and as two things at the same time, ‘and this is absurd.’2 He goes on to say that ‘everyone feels he is a single person.’3 This is certainly true; but then one finds it hard to reconcile this statement about ordinary experience with what Descartes had so strongly advocated in the Discourse and the Meditations; and it is still not at all clear from the letters that he wants to renounce the dualism. This was a problem Descartes’ successors were left to grapple with. Malebranche’s Occasionalism, Leibniz’ doctrine of pre-established harmony, and Spinoza’s identity theory were ingenious but ultimately unsuccessful attempts to solve it. In the empiricist camp, philosophers sought to bypass the problem by defending some kind of monism. Berkeley’s esse est percipi and Hume’s theory that nothing exists apart from 2

KENNY A., trad. and ed., Descartes: Philosophical Letters, Clarendon Press, Oxford 1970, p. 142. 3 IBIDEM.

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sense impressions and their copies in ideas can be seen as attempts to reduce the body to the mind. They are both for that reason, and in their own way, hugely counter-intuitive. Despite his protestations, Berkeley’s claim that the existence of objects consists in their being perceived, and his total denial of anything outside the perceptions of a mind or spirit, can hardly be seen as reflecting, as he insists, our ordinary beliefs. As for Hume, his scepticism regarding such matters as the continued existence of objects and the nature of the causal connection left him, on his own admission, in a state of ‘philosophical melancholy and delirium’, from which nature alone could ‘cure’ him; so that ‘when, after three or four hours’ amusement, I would return to these speculations, they appear so cold, and strained, and ridiculous, that I cannot find in my heart to enter into them any further.’4 Hume had equally strong misgivings regarding his own view of the self as ‘a bundle of perceptions’ or collection of experiences. ‘Upon a review of the section concerning personal identity,’ he wrote in the Appendix to the Treatise, ‘I find myself involved in such a labyrinth that, I must confess, I neither know how to correct my former opinions, nor how to render them consistent.’5 The counter-intuitive nature of a theory counts against its plausibility, even though it takes a great philosopher like Hume to admit it. If Hume invoked nature as a ‘cure’ to his ‘delirium’, then, as Reid was quick to point out by way of responding to his fellow Scot, it couldn’t also have been its cause. For ‘[d]oth the same fountain send 4

HUME D., A Treatise of Human Nature, [1740], ed. SELBY-BIGGE L., 2nd ed., revised by NIDDITCH P.H., Clarendon Press, Oxford 1978, p. 269. 5 IBIDEM, p. 663.

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forth sweet waters and bitter?’, Reid asks rhetorically. ‘Is it not more probable,’ he continues, ‘that if the cure was the work of nature, the disease came from another hand, and was the work of the philosopher?’6 Physicalist or materialist monism found its modern champion in Hobbes. Against Descartes, Hobbes held that there was no need to posit the existence of minds in addition to bodies. Once persons were identical with their bodies, questions about the interaction between body and mind just did not arise. As long as one could show how conscious states and activities could be attributed to the body, then the problem would have been solved. But whether this can be done is far from clear, as the serious conceptual difficulties faced by twentieth century theories like eliminativism and reductionism have shown. Even when the most sophisticated analytic tools have been deployed to deal with issues like consciousness and the intentionality of thought, we find it hard to go along with the eliminativist claim that our beliefs, hopes, desires and so on can be written off as relics of some old-fashioned theoretical speculation. Similarly, against reductionists, it just doesn’t seem true that all there is to consciousness is what it contributes to behaviour. Robots can be made to perform all sorts of tasks – without thinking or feeling anything. John Searle’s ‘Chinese room’ argument shows how a basic human achievement, like understanding a language, differs from an artificially constructed imitation of it. It would seem from the above analysis and criticism that 6

REID T., Essays on the Intellectual Powers of Man [1785], ‘On Mr Hume’s scepticism with regard to Reason,’ Essay VIII, ch. iv, pp. 698-712.

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no theory examined so far, whether dualist or monist, is free from error. Sentences about persons are not sentences about their bodies (or brains); nor are we referring to persons when we refer to mental substances, or to some combination of bodies and minds. It is only by considering persons as enduring entities with both material and psychological features that we can do justice to their complexity. As persons, we are capable of doing all sorts of things, from walking, eating and drinking to thinking and talking, from swimming and sailing to writing novels and playing the piano. The kinds of actions others engage in are the same as those we engage in ourselves. By communicating through language, and by acting with others as we are wont to do, we share the same world, the same form of life. Such a view of what it means to be a person was boldly stated and forcefully defended by P.F. Strawson. His key claim was that ‘it is easier to understand how we can see each other, and ourselves, as persons, if we think first of the fact that we act, and act on each other, and act in accordance with a common human nature.’7 By looking at the way we quite naturally respond to one another as persons, we steer clear of the Cartesian trap of looking at the history of the human being as the history of ‘two one-sided things’, rather than as the history of ‘one two-sided thing’, as we clearly should.8 The radical opposition between body and mind, however, is only one of the two Cartesian dualisms that need to be 7

STRAWSON P.F., Individuals: An Essay in Descriptive Metaphysics, London: Methuen 1959, p. 103. 8 STRAWSON P.F., ‘Self, mind and body’, in Freedom and Resentment and Other Essays, London: Methuen 1974, p. 170.

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swept away if one is to give an adequate account of the person. The other concerns the sharp divide between knower and known, knowing subject and world, which ultimately leads to scepticism. The two dualisms create analogous problems; for just as it is impossible to show how body and mind, described as radically antithetical substances sharing no properties between them, can enter into any kind of relation with each other (problem of interaction), so any attempt to bridge the divide between knowing subject and world (and thereby acquire knowledge) will prove futile, once a wedge has been driven to separate the two (problem of knowledge). As Anita Avramides observes, Strawson’s ‘solution’ bears a marked resemblance to that applied by Wittgenstein. ‘Because there is no divide [between knower and known, subject and world], there are no bridges that need to be built. In Wittgenstein’s work we begin as a community of language users, and we come to understand our world and the world of other experiencing beings by looking at the way we interact with one another.’9 Considerations such as these enable us to make short shrift of that old philosophical chestnut known as the problem of other minds. Locke believed, and some still think, that the sense of an expression is an idea lodged in an individual’s head. Someone who subscribes to that kind of theory might then wonder whether the meaning he or she attaches to a word or string of words corresponds to what others mean when they use the same words. The most effective remedy against that pernicious sort of mental cramps is to look at what people have managed to achieve 9

AVRAMIDES A., Other Minds, London: Routledge 2001, p. 214.

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throughout the course of human history. No progress in the arts or sciences, no political or social reforms, no technical or technological innovations, no new discoveries in astronomy or archaeology, no breakthrough in medicine or medical practice would have been possible if people could not communicate successfully through language. And no such communication would have occurred if they did not agree about the sense of what they were saying or doing. Meanings are not something private, hidden in a person’s mind or heart, but are capable of being shared by all the speakers and listeners of the language being used. They arise not in a solipsistic but in a social context.10 Of course, we do not always manage to communicate faithfully and successfully. Failures, distortions and breakdowns in communication do occur from time to time, and for many reasons. Still, although it is possible to misinterpret or misunderstand, generally we manage to get it right. Life would be impossible if we always, or even normally, got it wrong. We may, perhaps, if we find ourselves in the imaginary community of strangers described by Quine in Word and Object,11 legitimately wonder whether ‘Lo, a rabbit!’ adequately translates ‘gavagai’, or whether we would do better with ‘rabbit-time-slice’ or ‘undetached rabbit-part’. But if we speak the same language, we normally understand what is being said or requested and act accordingly. Even in Quine’s story, however, the stated conclusion of the argument is hard to swallow. Many anthropologists have 10

See WITTGENSTEIN L., Philosophical Investigations, trans. G.E.M. Anscombe, Basil Blackwell, Oxford 1968, §§ 243 to 427. 11 QUINE W.V.O., Word and Object, Mass.: MIT Press, Cambridge 1960, ch. 2.

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indeed found themselves in the situation of having to learn a language subject to the initial conditions described by Quine, without apparently having to face the problem of radical interpretative indeterminacy or inscrutability of reference imagined by him. This may be either because, as Davidson’s ‘principle of charity’ assumes, differences between human languages (and conceptual schemes) are never radical12, or because, as Searle has shown, Quine’s massive behaviourist bias leads him to a conclusion that is manifestly absurd.13 The kind of bemused linguist Quine describes in his imagined community of strangers does not resemble any real person we know. He lacks the ability of grasping, in an ultimately intuitive way, the beliefs, meanings and intentions of others. Quine fails to consider the various psychological factors by which people, taking their cue from the irreducibly personalised gestures of their interlocutors, succeed in eliminating bizarre interpretations, or at least limit their number. The implausibility of Quine’s theory becomes even more pronounced once we remember that for Quine indeterminacy and inscrutability occur not only in the course of translating a phrase or sentence from a native, unknown language into a familiar one, but in all cases, even among speakers of the same language. There are occasions when we feel that, as persons, we are not functioning as well as we could. The word ‘functioning’ is appropriate in this context, because it corresponds to what 12

DAVIDSON D., On the very idea of a conceptual scheme, in Truth and Interpretation, Clarendon Press, Oxford 1984. 13 SEARLE J.R., Indeterminacy, empiricism, and the first person, in «The Journal of Philosophy», 84 (March 1987), pp. 123-46.

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Aristotle meant by ‘ergon’, when he was describing the activity that is proper to a human being, namely, the exercise of one’s rational power, which amounts to nearly the same thing in practice as the use of language. One occasion where we feel we cannot function at that level would be that of finding ourselves in a group of people conversing in a language we do not understand. In such a situation we would be impressed by the force and vitality of language. At the same time, however, because of our inability to understand, we would feel left out, cut off, isolated, not part of the group, even though physically we were in it. Wittgenstein used various examples to show that being able to understand a language is like acquiring or mastering a skill. There are no hidden mental mechanisms underlying the ability or the performance. Like knowing how to play chess, or calculating in one’s head, knowing or understanding a language and being able to speak it is a matter of knowing how rather than knowing that. Having an ability involves following certain rules, like mathematical formulas, grammar rules, rules of the game, moral and legal rules, and so on. We can learn the rules or grammar of a language just by being regularly exposed to it, by ‘immersion’, as it were, into a community of speakers of that language, by playing the same ‘language-games’ with them, by participating in the same customs and traditions. ‘Obeying a rule’, Wittgenstein says, ‘is a practice… Hence it is not possible to obey a rule ‘privately’: otherwise thinking one was obeying a rule would be the same thing as obeying it14’. This view of the matter allows us to steer clear of two opposite and 14

WITTGENSTEIN L., Philosophical Investigations, § 202. Quoted in COOPER D.E., World Philosophies: an historical introduction, Blackwell, Oxford 1996, p. 454.

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equally misguided extremes – reducing abilities to their manifestations in behaviour on the one hand (behaviourism), and identifying the ability with a hidden mental mechanism (mentalism) on the other. Highlighting the pragmatic aspect of language, considering the ability to speak a language as an acquired skill, should enable us to form a holistic view of persons as agents and communicators. There would be a web of intersecting and overlapping concepts one could make use of, so that what one says about persons as communicators in the philosophy of language could also be said about them, in a more general way and making the necessary adjustments, in the philosophy of action. It was J.L. Austin who, even before Wittgenstein’s work came to be widely known, gave a powerful stimulus to the exploration of the pragmatic aspects of language by considering saying as a form of doing and speech as a kind of action.15 ‘Speech-act theory’, as the term itself implies, shows that there is an aspect of action in all speech and a communicative aspect in all actions. Persons are at the same time, and in different ways, speakers and doers, agents and communicators. They use language not only to describe how things are, but also to give or to ask for information, to make a promise, issue an order, sign an agreement, recommend a pardon, declare a winner, name a ship, open an exhibition, and so on. None of these acts are private. On the contrary they are social in nature, since they depend for their efficacy on some kind of public exchange between persons. At this stage one might raise what could look like a genuine objection by wondering how one would describe 15

AUSTIN J.L., How to Do Things with Words, 2nd ed., OUP, Oxford 1976.

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what is happening ‘when, for example, someone sits in an armchair for half an hour, just thinking intensely about a problem.’16 The answer would be that although the question raises a problem for behaviourism, or any theory that holds that mental language can be analysed in terms of dispositions to behave, it still does not show that thinking can be carried out without reference to certain objects, even if those objects do not really exist, as when I think about Snow White or Alice in Wonderland. For whatever it is that I’m doing when I’m thinking intensely about a problem, there is always something (in this case a problem) that I’m thinking about. This is what Franz Brentano meant by ‘intentionality’. My thoughts, beliefs, hopes and desires have a representational content – something is always presented as an object of those thoughts, beliefs or desires.17 This is what makes them the thoughts or beliefs they are. We are never solitary prisoners of our own thoughts and beliefs. We are always thinking of something or someone, an event, a friend, a character in a novel or play. ‘A penny for your thoughts’, we could tell Auguste Rodin’s Le Penseur if the bronze figure were alive. And if the thinker could answer our question, his thoughts would enter the public domain by being expressed in words. Persons are free agents whose actions, verbal or nonverbal, are explained in terms of the reasons such agents have for doing what they do. My desire to learn how to drive explains why I freely choose to take driving lessons. Explaining an action with reference to the agent’s reasons 16

The example is from COTTINGHAM J., ed., in Western Philosophy: an anthology, Blackwell, Oxford 1996, p. 176. 17 IBIDEM, p. 170.

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differs in crucial respects from what is involved in explaining the occurrence of an event in terms of the causes that brought it about or made it happen. In physics, for example, causal explanation consist in putting forward a hypothesis and testing its validity on the basis of a number of instances until it starts to be considered as a law. Explanation of a human action, on the contrary, requires reference to an irreducible personal element whose role in providing that explanation is not seen as lending support to a hypothesis on its way to becoming a law. The element of universality characterizing nomological or law-like explanation is absent from the kind of account one gives in explaining human action. When a person is asked to say why she did what she did, provided she did it freely and deliberately, i.e., when she chose to do it, she mentions a reason, not a cause. Persons may do things intentionally, deliberately, reluctantly, willingly, grudgingly, with pleasure, and so on. None of these descriptions apply when somebody does something by accident, or when it happens to them, or when they are forced to do it, and literally have no choice. It is in such cases that we speak of causes. The cause of our actions, whether physiological or neurological, is very often unknown to us; it must be discovered and tested, usually by another person. Freud thought of the explanations his patients gave of their dreams as causal explanations. Wittgenstein, on the contrary, interpreted them as explanations in terms of reasons, the preferred explanation being that which the patients considered most satisfactory because it relieved them, and which they made their own. Such explanations, Wittgenstein observed, were similar to those one comes across in aesthetics, in cases where a connoisseur or art critic tries to 247

convince a viewer of the merits of a painting by comparing it to other paintings in order to show its greater value. Persons give reasons for doing what they do when they do things intentionally, i.e. when they know what they’re doing and want to do it. It is possible for somebody to hide an intention, to mentally rehearse what one intends to do without letting anybody into the secret. “‘Only you can know if you had that intention.” One might tell someone this when one was explaining the meaning of the word ‘intention’ to him. For then it means: that is how we use it.’18 Even so, although intentions may be kept ‘hidden’ in the precise sense just described – the sense in which, in general, I can decide not to reveal my intentions ‘before the right time’, or indeed, indefinitely, if I change my mind or simply forget – in another sense they are as public as my words and actions. Intentions are embodied in actions: they are typically intentions to act and are therefore essentially world-involving. This is what we mean when we say that you can ‘read’ or ‘see’ my intentions in my actions. Stuart Hampshire put it succinctly as follows: ‘Intentions are something that may be concealed and disguised; but they can be concealed and disguised only because they naturally express themselves immediately either in words or in actions.’19 In what we’ve been saying so far, we’ve assumed all along that persons are human beings. Locke, however, believes that our ordinary way of thinking ‘runs together’ two things which, in his view, need to be kept distinct – the idea of ‘man’ (i.e. human being), and the idea of ‘person’. For Locke, the 18 19

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WITTGENSTEIN L., Philosophical Investigations, § 247. HAMPSHIRE S., Thought and Action, Chatto and Windus, London 1959, p. 99.

identity of a human being consists in the continuous life of the organism, while the identity of a person depends on continuity of consciousness or self-consciousness. Being a member of the particular biological species homo sapiens is therefore not enough for any individual to count or qualify as a person. On the other hand, a ‘rational parrot’, if it existed, would count as a person, though not as a human being. Locke’s theory gives rise to a host of problems. By ‘consciousness’ Locke means mainly memory. So if continuity of consciousness is what defines a person, then what happens, one may ask, when somebody loses consciousness, or when she forgets her past actions, or can’t remember what happened to her as a child? Is she no longer the same person? This problem was raised for Locke by Reid’s ‘brave officer’ example, in which a young officer remembers being punished as a small boy for robbing an orchard, and much later remembers the brave deeds of the young officer but has no recollection of the childhood incident.20 Another serious objection, aimed this time at showing the circularity involved in Locke’s ‘memory criterion’, was made by Joseph Butler, and has been paraphrased as follows: ‘Since I can genuinely remember doing something only if I am indeed the same person who did it, it seems that the concept of memory cannot be used to define personal identity, since it presupposes it in the first place.’21 Moreover, as Kenny points 20

REID T., Essays, op. cit., Of Mr Locke’s account of our personal identity, Essay III, ch. vi, pp. 332-7. 21 COTTINGHAM J., in Cottingham J. ed., op. cit., p. 193. See BUTLER J., The Analogy of Religion (1736), appendix 1, in BUTLER J., Works, ed. GLADSTONE W.E., Oxford University Press, Oxford 1896.

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out, ‘[t]he way in which Locke conceives of consciousness makes it difficult to draw the distinction between veracious and deceptive memories at all. The distinction can only be made if we are willing to join together what Locke has put asunder, and recognize that persons are human beings.’22 Locke construes a series of thought experiments aimed at showing that consciousness could be detached from its embodiment, and that body and mind could recombine in different ways. The many possible combinations include the same consciousness inhabiting different bodies, two consciousnesses sharing the same body, and bodies exchanging consciousnesses. The best-known example here is that of a prince waking up in the body of a cobbler;23 but all of Locke’s examples are aimed at showing that consciousness could be transferred from one body to another. This for Locke would mean that the person has also been transferred. Locke could only entertain the thought of a detachable, disengaged consciousness because of his adherence to the Cartesian prejudices mentioned above. It was also largely for that reason that he held what Charles Taylor describes as a view of the subject as ‘the punctual self ’24 – a radically subjectivist view of the person ‘which takes us out of our normal way of experiencing the world and ourselves’.25 22

KENNY A., A Brief History of Western Philosophy, Blackwell, Oxford 1998, p. 215. 23 LOCKE J., An Essay concerning Human Understanding [1689], ed. NIDDITCH P.H., Clarendon Press, Oxford 1975, II. xxvii. 15. 24 TAYLOR C., Sources of the Self, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp. 159-176. 25 IBIDEM, p. 162.

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It is a view that assumes ‘that our self-awareness is somehow detachable from its embodiment, that something we call consciousness or self-consciousness could be clearly distinguished from its embodiment, and the two allowed to separate and recombine in various thought experiments,’26 a view that simply ignores the embodied nature of human agency. Sydney Shoemaker has drawn attention to the fact that there is a close resemblance between Locke’s thought experiments regarding transference of the consciousness of a person from one immaterial substance to another and those used by contemporary neo-Lockeans to support their claims about brains.27 The imagined possibilities of brain-transfer discussed by Shoemaker include cases where the brain recipient remembers the past life of the brain donor, and his personality, interests and skills are causally linked to those in the donor’s past history; the possibility of ‘fission’ of persons, where the two hemispheres of someone’s brain are transplanted into the (vacant) heads of two different bodies; the ‘teletransportation’ case of science fiction, whereby a brain is scanned, and at the same time destroyed, and the information obtained from the scanning is used to create a physical duplicate of it; as well as the ‘branch-line’ case, in which the scanning procedure fails to destroy the original brain and one is left with two persons (the owner of the original brain, and the owner of the duplicate) whose mental 26

IBIDEM, p. 172. SHOEMAKER S., Persons and Personal Identity, in KIM J. - SOSA E. eds, A Companion to Metaphysics, Blackwell, Oxford 1995, pp. 380-5. 27

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states are psychologically continuous and connected with those of the original person.28 It is the attempt to define the self in abstraction from any constitutive concerns that, in Charles Taylor’s words, constitutes the ‘fatal flaw’ in Lockean and neo-Lockean definitions of personal identity and leads to a ‘bleached’ sense of the person. ‘This,’ Taylor remarks, ‘is the self that Hume set out to discover and, predictably, failed to find.’29 And it is basically the same notion of the self that Derek Parfit uses to promote his Reductionist view that, beyond physical and psychological continuity, there is no such thing called ‘personal identity’ that is worth preserving.30 The Cartesian matrix of Parfit’s Reductionism is brought into sharp focus by John McDowell.31 Reductionism ‘is fundamentally Cartesian’, McDowell insists, not in the sense that it goes along with ‘the ontological dualism that is the most striking feature of [the] mainstream versions of Cartesian philosophy’32, but rather because it does not succeed in avoiding what is basically wrong with that 28

IBIDEM, pp. 383-5. See also GARRETT B., Personal Identity, in CRAIG E. (ed.), The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, Routledge, London 2005, pp. 781-9. For a forceful critique of such thought experiments, see WILKES K., Real People, Oxford University Press, Oxford 1988. Apart from considering them morally reprehensible, Wilkes holds that such experiments are too bizarre to be taken seriously. 29 TAYLOR C., op. cit., p. 49. 30 PARFIT D., Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford 1984, rep. 1987, pp. 279-87. 31 MCDOWELL J., Reductionism and the First Person, Essay 17 in MCDOWELL J., Mind, Value, and Reality, Mass.: Harvard University Press, Cambridge 1998, 2nd printing 2002, pp. 359-82. 32 IBIDEM, p. 364, footnote 8.

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philosophy, namely, the thought that ‘the logical character of “consciousness” must be provided for entirely within “consciousness” itself.’33 It is this conception of consciousness as self-contained, ‘purified’, as it were, ‘of involvement with an objective context,’34 that is utterly Cartesian, and that goes unquestioned in the defence of Reductionism. ‘Certainly we should have no truck with purely spiritual substances,’ McDowell writes. ‘But believing in purely spiritual substances is much less fundamental than the underlying thesis, that what Locke calls “consciousness” has its content independently of any embedding in a wider context.’35 It is precisely this ‘embedding in a wider context’ that is reflected in our definition of persons as agents and communicators. It is through language that persons reconstruct their past, experience the present, and project themselves into the future. It is language that shapes our lives, allows us to look at it not as a series of disconnected episodes or events, but as a story that is constantly unfolding, and in which we ourselves play an active role by making things happen, even if whether they happen or not does not always depend on us. It is 33

IBIDEM, p. 365. IBIDEM, p. 364. 35 IBIDEM, pp. 363-4. ‘Removal of context,’ McDowell writes ‘makes it impossible to keep “consciousness” itself in view.’ IBIDEM, p. 366. The case for embedding a definition of persons in the ordinary practices of our everyday life is convincingly argued by SCHECHTMAN M. in her Staying Alive: Personal Identity, Practical Concerns and the Unity of a Life, Oxford University Press, Oxford 2014. For a clear exposition of Schechtman’s views and a defence of the reviewer’s (diametrically opposite) position, see STRAWSON G., Is R2-D2 a person?, in «London Review of Books», 37/12 (18 June 2015), pp. 39-42. 34

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language that constitutes us as persons, i.e. as creatures capable of forming an idea of who and what we are, of seeing ourselves in a certain light, of describing our emotions, of making value-judgments, of discriminating between good and bad, right and wrong, of cherishing memories and nourishing hopes, and of communicating our thoughts and feelings to others. And we can do all that not because we are ‘programmed’ to do it, but freely, on our own initiative, as human agents and communicators, that is, as persons.

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PLASTICITÀ NEURALE E SENSO DI SÉ TRA GENETICA ED EPIGENETICA Mirko Di Bernardo 1. Memoria, apprendimento e integrazione neurale La capacità di memorizzare informazioni è necessaria all’apprendimento, all’adattamento e quindi alla sopravvivenza di ogni organismo vivente, dal batterio all’essere umano. Senza memoria un organismo potrebbe reagire solo agli stimoli attuali, non potendo apprendere dalle esperienze passate e tantomeno fare previsioni sulle conseguenze del proprio comportamento. Questa funzione, nel corso dell’evoluzione, ha sviluppato una notevole flessibilità e complessità, stringendo legami sempre più stretti ed articolati con altre funzioni mentali quali l’apprendimento, il pensiero, le emozioni e le motivazioni. In corrispondenza degli ultimi gradini della scala evolutiva, la memoria diventa sempre più la struttura psichica che organizza il comportamento in una prospettiva temporale (stabilendo legami tra eventi passati, presenti e prevedendo quelli futuri) e causale (legami deterministici o probabilistici tra due eventi collegati), arrivando a coinvolgere lo stesso organismo permettendo, altresì, la costruzione di una propria MIRKO DI BERNARDO, Professore a contratto di Logica e Filosofia della scienza presso l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata".

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identità, quindi di un’auto-consapevolezza. In questo senso nell’essere umano apprendimento, memoria e coscienza sono inestricabilmente collegati. La maggior parte delle nostre nozioni relative al mondo circostante non sono presenti nel cervello fin dalla nascita, ma vengono acquisite attraverso l’esperienza e trattenute grazie alla memoria, come, ad esempio, i nomi e i volti dei nostri amici e compagni, le conoscenze di algebra e di geografia, le musiche di Haydn, Mozart e Beethoven. Pertanto, siamo ciò che siamo in gran parte grazie a ciò che impariamo e ricordiamo. Tuttavia, la memoria non corrisponde ad una semplice registrazione delle esperienze vissute: essa ci permette, infatti, di ottenere un’istruzione e costituisce una potente forza motrice del progresso sociale. L’essere umano ha la capacità esclusiva di comunicare ad altri ciò che ha appreso e, così facendo, è in grado di creare un bagaglio culturale che può essere trasmesso da una generazione all’altra (Jablonka, Lamb, 2002, 2015). I traguardi raggiungibili sembrano aumentare progressivamente, sebbene le dimensioni dell’encefalo umano non siano cresciute in maniera significativa da quando Homo sapiens ha fatto la sua comparsa nei reperti fossili circa duecentomila anni fa. Il cambiamento culturale ed il progresso ottenuto dall’uomo nell’arco di migliaia di anni non sono stati determinati da un aumento dimensionale dell’encefalo e neppure da un suo cambiamento strutturale. Si tratta, piuttosto, della capacità intrinseca del nostro cervello di fissare ciò che impariamo attraverso il linguaggio e la scrittura e di trasmetterlo ad altri (Jablonka, Lamb, 2006; Landry, Kandel, Rajasethupathy, 2013). A livello delle neuroscienze, lo studio odierno della memoria si basa su due diversi approcci. Il primo si riferisce allo studio biologico del modo in cui le cellule nervose comunicano tra loro. La sco256

perta chiave in questo ambito ha riguardato il fatto che la comunicazione tra cellule nervose non è fissa, bensì può essere modulata dall’attività e dall’esperienza. Pertanto, l’esperienza può lasciare un ricordo nel cervello e lo fa utilizzando le cellule nervose come dispositivi elementari di immagazzinamento della memoria (Kandel, 1979, 2000). Il secondo approccio, invece, riguarda lo studio dei sistemi cerebrali e delle capacità cognitive. La scoperta più importante a questo proposito è che non esiste affatto un unico tipo di memoria, ma che ne esistono diverse forme che seguono logiche distintive ed utilizzano circuiti cerebrali differenti (Tulving, 1972; Fodor, 1975; Squire, 1992). In questi ultimi vent’anni si è cercato di unire questi due approcci – storicamente separati – per proporre, in accordo con Squire e Kandel (2010), una nuova sintesi: una biologia molecolare della cognizione, che evidenzia l’interazione tra la biologia molecolare della comunicazione nervosa e la neuroscienza cognitiva della memoria. Tra i recenti progressi tecnologici che hanno permesso di approfondire tali ricerche vi è la possibilità di monitorare il cervello umano mentre un soggetto sta apprendendo e ricordando. In altre parole, è ormai possibile associare gli elementi coinvolti nella funzione cognitiva con specifiche aree encefaliche. Tale compito viene svolto grazie allo sviluppo di potenti metodi di studio della rappresentazione interna dei processi cognitivi. In modo specifico, gli scienziati sono oggi in grado di registrare le attività delle cellule celebrali in animali svegli e intenti a esibire particolari comportamenti e di ottenere immagini dell’encefalo umano di individui impegnati in particolari attività cognitive per mezzo della tomografia a emissione di positroni (PET) e della risonanza magnetica funzionale (fRMI). Nell’insieme, 257

questi sviluppi hanno permesso di studiare i processi che si svolgono nell’encefalo quando i soggetti ricevono stimoli sensoriali, iniziano un’azione motoria, apprendono e ricordano. Un esempio ormai classico di tali ricerche è dato, a livello clinico e neurofisiologico, dai recentissimi studi sull’uomo portati avanti da Laureys e Owen (2010) per quanto concerne il passaggio dallo stato vegetativo allo stato di minima coscienza. Tali sviluppi mostrano come la biologia della memoria oggi possa essere studiata non solo a livello dei meccanismi cellulari e molecolari dell’immagazzinamento dell’informazione, ma anche e soprattutto al livello della struttura dell’encefalo, dei circuiti cerebrali e del comportamento, ossia dei sistemi neurali coinvolti nella memoria (Di Bernardo, 2014). Il premio Nobel Kandel (2000) sostiene che le nuove acquisizioni in ambito neurobiologico ed in quello psichiatrico hanno consentito un importante riavvicinamento tra i due campi disciplinari, smorzando posizioni pregiudiziali e forme d’attaccamento fideistico alle rispettive scuole d’appartenenza. In particolare, ciò ha permesso agli insight psicoanalitici di indirizzare, più concretamente, la ricerca della comprensione più profonda delle basi neurobiologiche del comportamento. In tal modo, acquisisce legittimità scientifica la teoresi di uno psichico e di un somatico che, simultaneamente, nascono nel e dal legame. Emerge chiaramente che lo sviluppo del sistema nervoso è un processo “esperienza-dipendente”: nelle prime fasi di vita le relazioni significative sono, infatti, la fonte primaria di esperienze che modulano anche l’espressione genica a livello celebrale (Jablonka, Lamb 2007). I rapporti con gli altri hanno un’influenza fondamentale sul cervello: i circuiti che mediano le esperienze sociali sono strettamente correlati con quelli responsabili dell’integrazione dei processi che con258

trollano l’attribuzione di significato, l’organizzazione della memoria, nonché la modulazione delle risposte emotive e la regolazione delle funzioni dell’organismo. Daniel J. Siegel, nel suo testo dal titolo La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, analizza la mente come prodotto delle interazioni fra esperienze interpersonali e strutture e funzioni del cervello, integrando le conoscenze che provengono da diverse discipline (neurobiologia, ricerca psicologica, scienza cognitiva) con un’intensa attività clinica rivolta ai minori e alle loro relazioni familiari. Raccogliendo il pensiero di scienziati come Kandel (1979, 1983) e Squire (1992), lo studioso sottolinea le gravi conseguenze che approcci non integrati hanno sia sullo studio del cervello sia su quello della mente: «I dati più recenti emersi dalla ricerca neurobiologica mostrano come le interazioni con l’ambiente, e in particolare i rapporti con gli altri, esercitino una influenza diretta sullo sviluppo e sulle strutture delle funzioni cerebrali. Sentirsi costretti a scegliere tra natura e cultura, cervello e mente, biologia ed esperienza, oltre ad essere inutile può essere controproducente nei confronti dei nostri tentativi di comprendere un problema importante e complesso: lo sviluppo della mente umana» (Siegel, 2001, p. X). Siegel offre, quindi, un prezioso contributo in direzione della individuazione dei possibili meccanismi con cui fattori sociali e relazionali plasmano lo sviluppo del cervello e della mente, favorendo il raggiungimento di un equilibrio emotivo (Siegel, 2011). L’idea centrale che muove tali ricerche può essere sinteticamente formulata nel modo seguente: le connessioni umane plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che danno origine alla mente; al centro della reciproca influenza tra esperienze ed evoluzione delle strutture e delle funzioni cerebrali stanno i processi di comunicazione e di or259

ganizzazione delle emozioni, nonché i processi di integrazione che la mente opera per produrre coerenza tra i diversi stati del Sé. «L’integrazione può essere vista come una forma di risonanza dove per risonanza si intende l’insieme delle interazioni tra due o più entità differenziate e relativamente indipendenti che si influenzano a vicenda, e che consentono a sistemi distinti di stabilire meccanismi di amplificazione e di co-regolazione della propria attività» (Siegel, 2001, p. 325). Muovendo, dunque, da una semplice ed efficace descrizione dell’organizzazione, dello sviluppo e delle funzioni del cervello in relazione a componenti genetiche ed esperienziali (epigenetiche) facendo innanzitutto riferimento segnatamente ad una dettagliata analisi dei processi fondamentali della esistenza umana a livello individuale e sociale (memoria, attaccamento, emozioni, rappresentazioni e stati della mente), la teoria dell’integrazione di Siegel inserisce i processi di autoregolazione, le connessioni interpersonali e la biologia molecolare delle attività cognitive all’interno di un quadro epistemologico complesso ispirato ad un approccio sistemico e stratificato dove il pensiero non si pone più soltanto come il frutto di una semplice astrazione, bensì esso appare legato ad una precisa mediazione linguistica (Siegel, 2009) e all’intervento di ben definiti schematismi operanti a livello simbolico in accordo ad una dialettica che coinvolge una molteplicità di fattori tutti indissolubilmente connessi tra loro. Pensare, dunque, non è intuire e neppure semplicemente coordinare. È, al contrario, realizzare nel concreto le condizioni per l’avverarsi di un embodiment. Di una incarnazione a livello innanzitutto biologico e neurale (Varela, 1979). Un embodiment che lega insieme, ad esempio, il pensare al movimento del corpo in uno spazio, il vedere al definirsi dei contorni di una neurogeometria a livello della corteccia vi260

siva ed infine, nell’ambito della biologia cellulare, l’intreccio in atto di specifici flussi informazionali del nucleo di membrana alla costruzione mirata di specifiche serie di proteine (Carsetti, 2014). Oggi infatti sappiamo che la membrana, a livello della cellula, mette a punto combinazioni di proteine a seguito delle computazioni effettuate in grado di modulare l’espressione del DNA a livello di superficie, permettendo altresì l’emergere di potenzialità mai conosciute prima: essa consente al DNA di delineare nuove forme di espressione a livello funzionale (o semantico) (O’Nuallain, 2008; Wallace, 2014). 2. Plasticità sinaptica, senso di sé ed esperienza intersoggettiva «I ricordi sono parte di noi. Sono soltanto nostri, completamente diversi da quelli di chiunque altro», scrive D. Schacter (2001, p. 3), sollevando così una questione delicata e ineludibile per chi provi ad inoltrarsi nei labirinti della memoria. Se è vero, infatti, che la memorizzazione dipende da complessi meccanismi di elaborazione delle informazioni, in accordo con i lavori di Kandel, Siegel, Jablonka e Lamb, possiamo inferire che anche altri fattori – di ordine socio-culturale, contestuale, relazionale e simbolico – vadano a contribuire alla formazione dei ricordi e che essi non siano tali solo perché determinati input alla fine di un complesso percorso di codifica sono resi disponibili al soggetto che voglia recuperarli. Il ricordo è qualcosa di irriducibilmente individuale, patrimonio di cui ciascuno dispone in base all’unicità del proprio io. Ciascuno va incontro alle nuove esperienze con un grande bagaglio formato dalle conoscenze pregresse e dai significati, dal 261

senso, dalla connotazione emotiva, dai giudizi di valore che le accompagnano. Il mio percepire un ricordo attuale risente delle mie esperienze passate e del modo in cui le ho percepite e vissute (James, 1890); proprietà fondamentale dei sistemi di memoria, infatti, è che gli eventi attuali della vita sono legati a doppio filo con ciò che è accaduto in passato. In accordo con Schacter, quindi, possiamo inferire che «i ricordi sono registrazioni di come abbiamo vissuto un evento, non repliche dell’evento stesso. Le esperienze vengono codificate dalle reti cerebrali dotate di collegamenti già formati dai precedenti incontri con il mondo. Le conoscenze preesistenti influenzano notevolmente la codifica e l’immagazzinamento dei nuovi ricordi, contribuendo in tal modo alla natura, alla composizione e alla qualità di quanto ricorderemo in quel momento» (Schacter, 2001, p. XVI). Questo legame tra nuovi eventi ed esperienze pregresse trova innanzitutto un fondamento biologico nel fatto che ogni evento crea attivazioni sinaptiche capaci di innescare collegamenti con le reti neurali esistenti. Ciò significa che l’ingresso di una nuova informazione scaturisce non solo dalla creazione di nuovi legami sinaptici, ma anche dalla riattivazione di collegamenti preesistenti e continui al nuovo canale (Carsetti, 2007). Una informazione in entrata viene così inserita nei circuiti incaricati formati dalle precedenti esperienze che, però, in quanto diversi da soggetto a soggetto, risultano essere espressione di un’organizzazione assolutamente individuale del bagaglio esperienziale. L’aspetto soggettivo che caratterizzerebbe la percezione di input ambientali è dovuto, secondo Frauenfelder, al fatto che «l’ambiente esterno è percepito da strutture profonde altamente specializzate attraverso le quali gli stimoli e le sollecitazioni pervengono ad una struttura centrale per essere trattate, se262

lezionate ed immagazzinate affinché energia ed informazioni vengano utilizzate per specifiche finalità. La percezione ambientale diventa così un’esperienza soggettiva che permette all’essere vivente di filtrare ed adattare la massa delle informazioni […] e renderle utilizzabili sia per i processi elementari che per quelli più complessi» (Frauenfelder, 1994, p. 107). A partire da questo intreccio complesso, mantenendo come orizzonte teorico di riferimento il neo-connessionismo e la contemporanea teoria della complessità nella sua versione classica, Siegel considera il cervello come un sistema dinamico formato da reti neurali che possono essere attivate in un’infinità di pattern e di “profili neurali” e che possono ricordare o apprendere dalle passate esperienze accrescendo la probabilità di attivazione di determinati pattern di eccitazione diversi (Siegel, 2001, p. 24). È quello che il grande studioso definisce «sviluppo cerebrale esperienza-dipendente», vale a dire, uno sviluppo che caratterizza fortemente i primi anni di vita e che perdura per tutto l’arco dell’esistenza, influenzando non solo i momenti di memorizzazione e apprendimento ma anche quelli di recupero e utilizzo delle competenze cognitivo-relazionali: «Ricordare non vuol dire semplicemente richiamare alla mente la registrazione originaria di un’informazione; il ricordo è il risultato della costruzione di un nuovo profilo di eccitazione neuronale, che presenta caratteristiche proprie dell’engramma iniziale ma anche elementi della memoria derivati da altre esperienze, e che risente delle influenze esercitate dal contesto e dallo stato della mente in cui ci troviamo nel presente» (ibidem, p. 28). Differenziati sono per altro anche i processi che conferiscono “valore” alle esperienze dell’uomo, vale a dire, l’aumento dell’eccitabilità e dell’attivazione neuronale, l’incremento della plasticità neuronale e l’induzione della creazione di nuove con263

nessioni sinaptiche, nonché la creazione di nuovi circuiti che collegano diverse aree cerebrali (Sbattella, 2006). Stando così le cose, dunque, il livello neurobiologico è predisposto al gioco di forze energetiche di diversa natura e alla loro modulazione in relazione con differenti esperienze. In accordo con Siegel, un punto rilevante di questa intricata dinamica riguarda la capacità di regolazione delle emozioni in relazione alla formazione del Sé. Le emozioni, viste come insieme complesso di processi interni e interpersonali, sono strettamente legate alla nostra esperienza soggettiva e l’organizzazione del Sé dipende, a sua volta, dalle modalità con cui esse vengono regolate (l’emozione viene regolata e, al contempo, svolge funzioni regolative). Il legame tra emozioni e affetti pone lo sviluppo emozionale – la capacità di regolare le emozioni e di essere da esse influenzati – al centro del processo di dispiegamento delle differenze individuali nell’organizzazione della persona. Fattori interni (neurobiologici, comportamentali e cognitivi) ed esterni (pattern di interazione interpersonale e training espliciti) portano a differenti capacità di regolazione delle emozioni e condizionano l’ampiezza e la varietà interna della gamma di esperienze emozionali a disposizione. La capacità di valutare il significato personale degli eventi, di modificare risposte automatiche e riflesse può essere mediata dalle regioni prefrontali in un processo caratterizzato da una flessibilità di risposta. Questa flessibilità, combinata con ulteriori elaborazioni delle emozioni e della memoria, consente un bagaglio interiore di esperienze personali e interpersonali ricco e vario al servizio di un Sé che ha forme di regolazione elastiche ed efficaci. Prendendo spunto da modelli della mente fondamentalmente basati sulla metafora sistemica, Siegel (2014) considera la mente come una 264

struttura complessa capace di rappresentare ed elaborare le informazioni, di sostenere processi compositi di comunicazione cooperativa (intesi come co-costruzione di significati) e di dinamiche di pensiero e di affetto cosciente. La capacità di riflettere sulla disposizione di sé lungo un asse di integrazione e sviluppo temporale – con o senza rappresentazioni linguistiche – deve essere considerata una forma di coscienza estremamente evoluta. Alcuni vedono in azione, proprio a questo livello della mente, le due dimensioni tipiche della coscienza: quella relativa alle modalità qualitative dell’accesso alle informazioni e quella concernente la qualità soggettiva dell’esperienza. La formulazione e gestione di emozioni e l’attribuzione a esse di significato coinvolge invece entrambi gli emisferi, anche se diverse sono le modalità qualitative con cui ciascun emisfero è influenzato da queste attivazioni neuronali (Damasio, 2012). Attraverso la regolazione di fattori interni ed esterni il sistema della mente evolve con l’emergere di una serie di stati del Sé che possiedono una loro coesione e continuità. Come sistema non lineare, la mente è anche capace di variare in maniera rapida e improvvisa tali vincoli, con l’attivazione di stati del Sé distinti e discontinui: la creazione di una coerenza complessiva stabile a partire da questi diversi stati è uno degli obiettivi centrali dello sviluppo emotivo e dei processi di autoregolazione (Siegel, 2011). In ogni momento dall’infinita gamma delle possibili attività cerebrali emerge uno stato della mente che raggruppa un insieme coerente di processi diretti al raggiungimento di obiettivi specifici e l’integrazione di questi processi è mediata dalle emozioni. Le emozioni costituiscono “processi organizzativi e integrativi” che svolgono un ruolo centrale nel coordinare diverse attività della mente, conferendo agli stimoli significati specifici e precise direzioni motivazionali (Ciompi, 1991). 265

La co-costruzione di narrazioni viene così vista come opportunità di probabile coinvolgimento di una risonanza di processi mediati dai due emisferi cerebrali e come risultato di una risonanza interemisferica all’interno delle menti dei soggetti in relazione reciproca. Si tratta perlopiù di “ricordi emotivi”, conservati maggiormente e meglio di tanti altri momenti solo perché portano con sé una particolare emozione, ma sempre e comunque intensa e avvolgente; sono proprio questi ricordi che, una volta rievocati dalla sequenza temporale della narrazione, contribuiscono alla costruzione del senso di sé. La ricomposizione della continuità sincronica e diacronica del passato risvegliata dalle emozioni difficilmente, infatti, può essere relativa alle esperienze routinarie della quotidianità, ma è data, con maggiore probabilità, dalla eccezionalità di alcuni momenti cruciali dei quali si è stati protagonisti e che persistono nella propria memoria, dando continuità all’esistere personale. L’integrazione del Sé, quindi, in accordo con Siegel (2001, 2009), è un processo che crea coerenza mediante processi di auto-organizzazione legati all’interazione con altri Sé. Si tratta di un processo non lineare che attraversa momenti regressivi e progressivi, è il risultato di processi di organizzazione, di disorganizzazione e di riorganizzazione. I processi di integrazione permettono lo stabilirsi di un senso di congruenza e unità all’interno di pattern flessibili nei flussi di energia e di informazione: «Abbiamo definito «integrazione» l’insieme dei processi che creano coerenza all’interno della mente, dove per «coerenza» si intende lo stato del sistema in cui funzioni di natura diversa vengono collegate e attivate nel tempo» (Siegel, 2001, p. 322). Tali processi vengono interpretati, in base alla teoria della complessità, come stati del sistema che massimizzano la complessità raggiungendo una maggiore 266

stabilità. In questo modo, l’integrazione definisce il Sé, in quanto nel suo movimento di complessificazione crescente il sistema della mente riunisce processi distinti in stati unitari e coesi. Il termine “coesione” si riferisce, quindi, alla natura di uno stato in cui componenti diverse vengono tra loro collegate in un dato momento. Tali associazioni funzionali – in un dato momento (coesione) o nel corso del tempo (coerenza) – sono il risultato di processi di integrazione che attraverso meccanismi di rientro (feedback) collegano circuiti differenziati in sistemi più ampi e complessi, in cui le attività delle varie componenti si influenzano e si regolano reciprocamente creando così uno stato di “risonanza”. Tali processi favoriscono la creazione di sistemi funzionali più sofisticati, che a loro volta possono diventare componenti di sistemi ancora più articolati e complessi (Siegel, 2001). Di qui possono venir considerate “esperienze ottimali” quelle caratterizzate da un senso di “unione” in cui l’individuo si sente parte di un processo che va oltre i limiti del Sé. Esperienze di questo tipo forniscono un supporto empirico all’idea dell’esistenza di una relazione fra processi integrativi ed esperienze di “unione” o “flusso”. Un posto di rilievo tra queste esperienze ottimali, nei confronti dell’integrazione del Sé, è occupato dalle esperienze narrative, in quanto ricordare e narrare contribuisce a nuove strutturazioni degli eventi che sfruttano nuove contestualizzazioni, componenti consce e inconsce. Meccanismi di integrazione bilaterale possono essere alla base di processi creativi di varia natura. L’acquisizione di maggiori capacità di connessione interpersonale è associata a una trasformazione del proprio “stato della mente rispetto all’attaccamento”. Molti di questi processi rimangono inconsci, ma possono dare origine alla consapevolezza di un nuovo flusso di attivazioni coerenti 267

all’interno della mente: «Questi stati di connessione tra le menti di due individui che diventano compagni di un viaggio attraverso il tempo, possono crearsi nell’ambito di vari tipi di relazioni emotive […]. Processi di integrazione personale possono riflettersi in un flusso di comunicazione collaborativa che si muove in maniera equilibrata tra continuità, familiarità e prevedibilità da un lato e flessibilità, novità e incertezza dall’altro. Quando questi processi di comunicazione interpersonale vengono pienamente attivati, quando l’unione delle menti è «a pieno regime», si crea un senso di vitalità, di immediatezza e di autenticità che può essere estremamente coinvolgente e stimolante. È in questi momenti particolarmente intensi, in questi stati di risonanza diadica, che riusciamo veramente ad apprezzare come le relazioni con gli altri possano nutrire e curare le nostre menti» (ibidem, 324-326). Tali studi, pertanto, ci conducono nuovamente a W. James, a cui si deve la prima formulazione del concetto di “consolidamento mnestico”. Il grande studioso, infatti, convinto che «un’esperienza può risultare talmente emozionante da lasciare una sorta di cicatrice sul tessuto cerebrale» (James, 1890, p. 167), proponeva l’idea dell’intensità emotiva come co-fattore indispensabile nelle modalità di registrazione di un evento. L’approccio allo studio dei rapporti fra memoria, sviluppo del senso di sé ed emozioni sembra, dunque, portare con sé punti fermi e zone d’ombra; sembra, cioè, contenere elementi che è possibile considerare e osservare direttamente e che forniscono la base certa di questo intricato rapporto e dei processi gerarchici ed informazionali che rappresentano variabili complesse, sottili e prive di generalizzabilità, inafferrabili mediante il ricorso ad una analisi diretta, a una qualsiasi forma di categorizzazione e rifuggenti da ogni riduzionismo. 268

3. Neuroni specchio ed empatia tra neurobiologia e fenomenologia I maggiori margini di confrontabilità che oggi intercorrono tra l’epistemologia neo-connessionista (e post-cognitivista) e quella neuro-biologica hanno avviato un cambiamento paradigmatico che ha assunto la forma di un dispositivo d’ibridazione disciplinare fondamentale per la comprensione dei nessi fra processi relazionali e processi corporei. Essendo cauti nel proporre acritiche sovrapposizioni e frettolosi eclettismi, possiamo, tuttavia, dire che, sulla base soprattutto delle ricerche portate avanti da Kandel, Squire, Edelman e Siegel, la concettualizzazione intorno al Self riguarda attualmente anche la biologia molecolare e l’immunologia (Ammaniti, 1989). A conferma di ciò, le più recenti ricerche in ambito neurobiologico (Owen et al., 2009), sposando un approccio multidisciplinare che si avvale anche dei contributi della psicologia, della psichiatria e della filosofia della mente (Searle, 2009), hanno provato a sviluppare il tema dell’originaria intersoggettività della mente umana da un punto di vista cerebrale. L’ormai classica teoria di Edelman (1987) sul e del mentale si basa sulla constatazione che, sin dallo embrionale, il cervello si sviluppa creando connessioni fra i neuroni: della rete potenzialmente quasi infinita di connessioni neurali ogni individuo ne sviluppa alcune e non altre (fenomeno della potatura neuronica), in risposta agli stimoli che riceve dai sensi. La costituzione neurale è quindi influenzata, sin dai primi mesi di vita, dal mondo esterno. Il parziale influenzamento “culturale” rispetto ai geni consente ad ognuno un soggettivo momento di sviluppo anche a livello cerebrale. Questo nuovo paradigma, in sostanza, consente finalmente di ipotizzare in 269

modo più preciso come plasticità neuronale e cultura possono intrecciarsi e creare intelligenza. A questo proposito, gli studi sulle relazioni fra strutture e funzioni del cervello forniscono di continuo nuove e sempre più accurate indicazioni sui meccanismi mediante i quali le esperienze influenzano i processi mentali dell’uomo (Milner, Squire, Kandel 2010). La mente in sostanza non deve essere più intesa in termini di struttura, bensì come processo dinamico che emerge dalle attività del cervello le cui strutture e funzioni sono direttamente influenzate dalle esperienze interpersonali (Siegel, 2009). In modo specifico, in accordo con la teoria dell’integrazione neurale di Siegel (2001, 2014), la mente si sviluppa da processi che regolano flussi di energia e di informazioni all’interno del cervello e tra cervelli differenti. Il concetto della mente come entità, dunque, necessita di revisione. La mente non è una cosa o un oggetto localizzato nel corpo o nello spazio, ma una fune usata per circoscrivere numerosi processi psicologici, fenomeni mentali ed esperienze personali differenti, anche se spesso collegati. È passato il tempo in cui si poteva parlare della mente o del cervello e delle loro interazioni causali; oggi ci occupiamo di una molteplicità di fenomeni cerebrali-mentali e delle loro relazioni. La molteplicità dei processi mentali è di solito indicata come la mente e funziona ad un livello superiore di organizzazione biologica rispetto al cervello (Freeman, 2008). A loro volta, le attività della mente portano a variazioni fisiologiche cerebrali, che possono dare luogo all’espressione di geni diversi (Siegel, 2001). La mente, in tutte le sue fasi di vita e stadi di sviluppo, può modificare le strutture, le funzioni e le connessioni neuro-anatomiche del cervello. Questa costante plasticità è in vari modi connessa alla radicale essenza relazionale del mentale che costruisce 270

continuamente accoppiamenti strutturali con il sistema ambiente (Di Bernardo, 2013, 2015), vale a dire, nuove combinazioni tra le cose del mondo le quali danno luogo ad un incessante dinamismo psichico. Il correlato, sotto un profilo neuronale, dell’essenza relazionale dell’uomo, largamente segnalata dalla letteratura epistemologico-clinica, è rappresentato dai neuroni-specchio (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006), vale a dire, da una particolare tipologia di neuroni che si attiva sia quando una persona compie una determinata azione, sia quando la osserva compiere da altri. Fondamentale per la psicologia post-cognitivista sarà poter avere dati che dicano cosa accade in termini di neuroni-specchio quando il “rispecchiamento” (Foulkes, 1976) avviene nella mente di una persona che pensa, immagina, desidera, sogna ad occhi aperti un momento relazionale con un’altra persona. E ancora, quando ciò accade in sogno. La domanda nasce dal fatto che notoriamente l’immaginazione crea immedesimazione (cioè rende le cose medesime a noi). Al pari delle azioni, inoltre, questi neuroni rendono possibile cogliere immediatamente anche le reazioni emotive degli altri. In sostanza, la scoperta dei neuroni-specchio ha messo in luce come la reciprocità che ci lega agli altri sia una condizione umana “naturale”, pre-linguistica, pre-concettuale e pre-razionale (Rizzolati, Sinigaglia, 2006). Questo sembra suggerire che essi rappresentano il pre-requisito necessario, ma non sufficiente, per il comportamento empatico tra le persone, e viceversa che quest’ultimo è legato, nella sua realtà, alle esperienze. La condivisione a livello viscero-motorio dello stato emotivo di un altro è cosa diversa dal provare un coinvolgimento empatico nei suoi confronti (Rizzolati, Sinigaglia, 2006). Al “meccanismosistema” neuroni-specchio non corrisponde automaticamente 271

il provare empatia per l’altro; piuttosto questa possibilità, e più in generale le innumerevoli modalità di sentire l’Altro, hanno a che fare anche, e soprattutto, con la qualità relazionale che lega le persone: dal nostro punto di vista, con la loro identità soggettualmente intesa. Di converso, perché tra due persone si instauri una comunicazione emotiva piena ed efficace è necessario che ciascuna delle persone coinvolte lasci che il proprio stato della mente sia influenzato da quello dell’altra, quindi che lo “senta” e si sintonizzi con esso. Trae origine da qui l’assioma che regge questo lavoro: la relazione – o meglio l’intenzionalità in senso neurofenomenologico (Petitot et al., 2004) – è la base del vivente. È chiaro che il rapporto fra neuroni-specchio e fatti psico-relazionali deve essere ancora approfondito sotto molti aspetti che implicano, ad esempio, il simbolico, le emozioni, la rielaborazione mentale, i significati attribuiti alle emozioni altrui, il ruolo che il familiare e le culture hanno nel modellare e formare il sistema dei neuroni specchio. Quest’ultimo punto ci sembra poi particolarmente importante. Secondo Iacoboni (2008), l’attività dei neuroni-specchio richiama l’intersoggettività primaria (Trevarthen, 1979), ovvero le prime capacità d’interazione che il bambino palesa e sviluppa nelle interazioni con i propri caregivers. In sostanza, i neuroni-specchio si costituiscono e si modellano durante e grazie a questa prima relazionalità fondamentale e, dal nostro punto di vista, il discorso può essere allargato anche a tutte quelle esperienze relazionali significative (interne ed esterne) che l’uomo sperimenta nella sua quotidianità. In tal senso, Iacoboni così scrive: «Sebbene sia verosimile che alcune di queste cellule siano attive già in una fase precocissima della vita e facilitino le prime interazioni, credo che la gran parte del nostro sistema dei neuroni272

specchio in realtà si formi nel corso dei mesi e degli anni di queste interazioni. È probabile, in particolare, che la formazione dei neuroni-specchio nel cervello del bambino abbia luogo durante l’imitazione reciproca [...]. Se davvero i neuronispecchio si modellano nel nostro cervello grazie all’attività coordinata di madre e padre e del figlio, allora queste cellule non solo incorporano il sé e l’altro, ma iniziano a farlo in una fase in cui il bambino possiede solo un senso indifferenziato del Noi (madre-figlio o padre-figlio) e non ancora il senso di un io indipendente, prima cioè di essere in grado di superare il test dello specchio» (Iacoboni, 2008, pp. 135-136). Tuttavia, da questo “Noi primario” il bambino perviene via via a recepire l’altro in modo naturale e diretto e senza alcuna inferenza complessa: avanza fino a ricavare, staccandolo da ciò che era indistinto, un adeguato senso del sé e dell’altro. Ciò è possibile con l’aiuto di un tipo particolare di neuroni-specchio definiti da Iacoboni “neuroni specchio-super”. «Per tutta la vita, da quel momento in avanti, l’attività dei neuroni-specchio continuerà ad essere l’impronta neurale di questo senso del Noi a cui tanto il sé che l’altro appartengono» (ibidem). Ebbene, continua lo studioso, i “neuroni-specchio super” sembrano essere alcune cellule che mostrano uno schema di attivazione neuronale molto interessante, in quanto aumentano la loro attività mentre il paziente esegue l’azione, come nelle scimmie. Tuttavia, in netto contrasto rispetto ai neuronispecchio delle scimmie, cessano interamente di scaricare quando il paziente osserva l’azione. Uno schema siffatto di attivazione lascia ipotizzare che queste cellule possano svolgere un ruolo inibitorio durante l’osservazione dell’azione: «Con il loro disattivarsi, potrebbero dire ai più classici neuronispecchio, come pure ad altri neuroni motori, che quell’azione 273

osservata non deve essere imitata. Inoltre, questa codifica differenziale per le azioni compiute in prima persona (aumento di attività) e le azioni di altri (riduzione di attività) potrebbe rappresentare una distinzione neurale, straordinariamente semplice, fra il sé e l’altro implementata da questo tipo speciale di neuroni-specchio super […]. In effetti, le aree cerebrali nelle quali abbiamo registrato queste cellule sono le meno sviluppate nella prima infanzia e dimostrano cambiamenti radicali in fasi successive dell’età evolutiva» (ibidem, pp. 174175). Quanto sostenuto da Iacoboni ci consente di chiarire ancora meglio come il sistema dei neuroni-specchio sembri rappresentare in larga parte il correlato neuro-biologico degli assunti della teoria dell’intenzionalità così come divisata per certi versi dallo Husserl delle sintesi passive ed in parte, sia pure con sfumature differenti, dalla neurofenomenologia di Varela (1991) e di Petitot (2013); ad ogni modo, in entrambi gli approcci, tale teoria ha messo in luce in modo profondo l’essenza relazionale della stessa identità umana (Freeman, 2000). Ovviamente, questo discorso non è esclusivo del paradigma della complessità. Focalizzando l’attenzione sul campo psicoterapeutico, infatti, diviene centrale il rapporto fra neuroni-specchio e fatti psico-relazionali e, dunque, i processi neuro-relazionali che tali intrecci simultanei implicano su un piano simbolico ed emozionale. È molto significativo in questo senso che i neuroni-specchio, e forse in generale tutta l’attività cerebrale, vengano attivati sia da fatti esterni che dagli stessi fatti immaginati (Oliviero, 2008). Ciò chiarisce un quesito che ci eravamo precedentemente posti. Il pensiero, la fantasia e persino il sogno, quando si concentrano su esperienze esterne (e quindi sui rapporti con gli altri), probabilmente attivano fatti neuronali anche in assenza di una reale esperienza 274

interpersonale: ciò vuol dire che forse l’attivazione potrebbe essere connessa ad una relazione interiorizzata. Da questo punto di vista, è affascinante l’interrogativo circa il destino delle esperienze emotivo-relazionali vissute inconsciamente. Non stiamo certo parlando di una questione scaturita da un vizio speculativo, dal momento che grande rilevanza è stata data ai processi inconsci (o inconsapevoli) da parte di tutti gli attuali orientamenti di ricerca che si rifanno alle neuroscienze o alla ricerca psicologica (Oliviero Ferraris, 2007). Del resto, riflettere sulle relazioni inconsce interiorizzate è in continuità con quanto rivelato dal sistema dei neuroni-specchio. La loro scoperta testimonia, infatti, quanto per l’essere umano il legame con l’Altro sia radicato, profondo ed indispensabile e quanto bizzarro sia concepire un Io senza un Tu, ovvero senza un Noi (Rizzolati, Sinigaglia, 2006); ciò vale sia nella comprensione della natura umana che più specificatamente nelle scelte epistemico-teoriche per la cura del disagio psichico (Lo Coco, Lo Verso, 2006). Vi è, dunque, una qualità della nostra vita interiore, una dimensione fenomenica che si manifesta esteriormente e che l’occhio dell’osservatore, in maniera più o meno accurata, può leggere e comprendere. Nel corso della storia del pensiero umano ci sono stati vari tentativi di definire le modalità di questo trasferimento di significato che è antepredicativo, pre-verbale e implicito. Una chiave di lettura ci può venire, ad esempio, da un passo come questo, tratto da “Aurora” di Nietzsche, dove il filosofo tedesco scrive: «Per comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un’antica associazione tra movimento e sensazione» (Nietzsche, 1978). 275

I neuroni specchio, da un certo punto di vista, esemplificano questa relazione tra movimento e sensazione. Un altro contributo fondamentale, è quello della fenomenologia. Husserl è un autore complesso, di cui molti hanno criticato il solipsismo trascendentale, sottolineandone gli aspetti cartesiani. Ma, soprattutto nella fase conclusiva del suo pensiero, emerge sempre più evidente l’esigenza di comprendere la dimensione intersoggettiva, sottolineandone la centralità nella definizione della soggettività cosciente. Particolarmente interessante è il concetto husserliano di paarung, secondo cui l’altro è compreso grazie ad un primitivo olistico processo di accoppiamento. A nostro giudizio sembra un buon punto di partenza per inquadrare la dimensione implicita della capacità intersoggettiva di trasferire significati da una persona all’altra utilizzando il corpo come veicolo di questo trasferimento, sia dal punto di vista dell’espressione del significato, che da quello della capacità di decodificarlo quando ne siamo spettatori. In ambito fenomenologico viene sottolineata la cruciale dimensione dell’intersoggettività nella costruzione della soggettività; il che non significa che la soggettività non abbia una sua dimensione fondante. Sono due dimensioni complementari, ma se lasciamo fuori l’intersoggettività, rischiamo di approdare all’immagine della mente e dello psichismo che ha prevalso e caratterizzato le scienze cognitive nel corso degli ultimi cinquant’anni, quella cioè che reifica il corpo. Corpo, invece, che è l’origine pre-logica e ante-predicativa della nostra capacità di comprensione, “carne del mondo”, come scrive Merleau-Ponty (1988), sottolineando la centralità dell’empatia nel farsi dell’esperienza del mondo. Affrontando il fenomeno dell’empatia, questi studiosi non si riferiscono a una serie di comportamenti o di funzioni, ma all’esperienza, a ciò che in276

tendeva Edith Stein quando parlava della “presentificazione del vissuto altrui”: quel cogliere immediatamente l’umanità dell’altro attraverso un atto intenzionale che va oltre l’osservazione o la cognizione, in quanto «forma unica e irriducibile di esperienza intenzionale» (Thompson, 2001, p. 16). Anche Varela quando studia da neurobiologo l’empatia non pensa a un sentimento o a un particolare tipo di comprensione, bensì alla forma fondamentale del nostro “essere con altri”, al «fatto di essere strutturalmente concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie»: «Una delle scoperte più significative del movimento fenomenologico è che l’indagine della struttura dell’esperienza umana conduce inevitabilmente a una svolta nella considerazione del legame inestricabile che unisce, in una maglia empatica, la mia coscienza a quella degli altri e al mondo fenomenico» (Varela, Shear, 1999, p. 46). Come per Husserl il riconoscimento dell’altro passa per l’ambiguità del corpo proprio1, così Varela affida all’embodiment il tentativo di «rendere intellegibile il 1

La presenza degli altri è connessa, nella riflessione husserliana, al darsi della cosa oggettiva e alla presenza corporea: io colgo il mondo non solo come mio-mondo, ma come orizzonte abitato da altre presenze “analoghe” alla mia presenza. L’esercizio dell’epochè rivela la presenza come strutturalmente “ambigua”, come “dualità vissuta” tra essere psichico e corporeo. Quando metto fra parentesi tutto ciò che ho imparato sulla mia coscienza e sul mio corpo, si rivela «il paradosso della soggettività umana che è soggetto per il mondo e insieme oggetto nel mondo». Questa esperienza della “dualità vissuta” viene connotata da Husserl quale “appartenenza estranea” e “trascendenza immanente”. La strutturale non-coincidenza con me stesso che trovo nel vissuto del mio corpo, nelle mie determinazioni temporali e possibili, nella mia presenza non completamente esplicitata, questa alterità “mia propria” è, come dice Husserl, primordiale rispetto alla costituzione di ogni oggettività estranea e fa sì che io possa percepire l’altro come “estraneo analogo” (Husserl, 2002a, 2002b).

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fatto che un’entità può avere sia le proprietà caratteristiche della materia, sia le proprietà caratteristiche del mentale, a dispetto dell’apparente eterogeneità tra di loro» (Varela, Shear, 1999, p. 46). E, allo stesso modo di Husserl, trova in questa “dualità vissuta” la ragione del riconoscimento dell’altro: se il corpo è una “macchina ontologica”, un’unità ambigua di meccanismo e di trascendenza, «si deve abbandonare la nozione di un interno come sistema logico e di un esterno come fonte di informazione» e ammettere la coesistenza di tanti “mondi possibili”. E qui, tiene a precisare Varela, «non si parla di filosofia, si parla di una logica della ricerca» (Varela, 1990, p. 46). Contro la teoria della mente cognitivista che fa dipendere la comprensione dell’altro da processi inferenziali e logici, la scoperta dei neuroni specchio sostiene l’evidenza che quando abbiamo a che fare con gli altri, li riconosciamo simili a noi e possiamo intenderli anche prima di ogni interpretazione. Questo processo, infatti, in linea con l’analisi fenomenologica, è «incarnato e pre-dichiarativo» (Gallese, 2006, p. 316). In linea di continuità con l’analisi fenomenologica, le ricerche di Gallese evidenziano che sono diversi i circuiti corticali che si attivano quando agisco io rispetto a quelli che si attivano quando l’altro compie la stessa azione e diversa è l’intensità di attivazione quando sono io ad esperire una sensazione o quando è l’altro. Il “sistema della molteplicità condivisa” descritto dallo studioso italiano, infatti, «non implica che noi esperiamo gli altri come esperiamo noi stessi. Tale sistema semplicemente costituisce e promuove il processo di mutua intelligibilità» (Gallese, 2006, p. 318). “Semplicemente” gli studi scientifici che si ispirano al metodo fenomenologico confermano che, se restiamo fedeli a ciò che siamo, l’empatia 278

non è un fenomeno psicologico qualsiasi, spiegabile all’interno delle diverse cornici teoriche, ma la stessa condizione di possibilità della comunicazione intersoggettiva. Alla luce di tutto ciò, dunque, ci sia consentito di concludere il presente paragrafo con la seguente considerazione di M. Armezzani: «Sul riconoscimento dell’altro si basa non solo 1’atteggiamento etico, ma anche quello scientifico: tutta la conoscenza si fonda sul confronto con la presenza dell’altro, su quell’originaria alterità che segna la nostra vita fin dalle sue prime fasi. Ciò che Maturana chiama «accoppiamento strutturale» e Husserl, con termine analogo, chiamava «Paarung» esprime quella originaria e continua interazione con il mondo dell’esperienza in cui incontriamo immediatamente 1’altro quale «validatore»; dai primi rapporti del neonato con la madre, fino alle relazioni formalizzate delle comunicazioni scientifiche, 1’alterità è il banco di prova delle nostre idee sul mondo. Per questo è necessario abbandonare definitivamente 1’atteggiamento di chi osserva a distanza, con occhio disinteressato, «questi strani oggetti di studio» e iniziare a considerarci «appartenenti alla stessa tribù, come qualcuno che parla lo stesso linguaggio e condivide gli stessi codici» (Armezzani, 2008, p. 88). Bibliografia AMMANITI M., (ed.) La nascita del sé, Laterza, Roma-Bari 1989. ARMEZZANI M., et al., (a cura di) Intenzionalità ed empatia. Fenomenologia, psicologia e neuroscienze, Edizioni OCD, Quaderni dell’AIES, Roma 2008. CARSETTI A., “Natural language, categorisation processes and the self279

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SEZIONE ETICA

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AGIRE INDIVIDUALE E VITA SOCIALE IN KANT. DA UN PUNTO A TUTTI I PUNTI: DELLA SPERANZA DI APPROSSIMARCI AD UNA PACE PERPETUA Guido Traversa Un passo importante e anche bello, de Per la pace perpetua, sulla concretezza del diritto internazionale pone, in modo quasi spaziale, il problema del “passaggio” al tutto: «…in fatto di associazione di popoli della terra (più o meno larga che sia) si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti (dass die Rechtsverletzung an einem Platz der Erde an allen gefühlt wird), così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente»1 . GUIDO TRAVERSA, Professore associato di “Filosofia morale” presso l’ Università Europea di Roma. 1 KANT I., Per la pace perpetua, in IDEM, Scritti politici e di filosofia del diritto, trad. it. di SOLARI G. e VIDARI G., (ed. a cura di BOBBIO N. - FIRPO L. - MATHIEU V.), UTET, Torino 1965, p. 305; ed ted. KANT I., Werkausgabe, hrsg. Von W. Weischedel (XII) Band), Suhrkamp, Frankfurt 1968, vol., XI. pp. 216-7.

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Ma come passare da un punto a tutti i punti? Lo spazio cartesiano dove tutti i punti sono tra loro omogenei e distinti solo in base alla posizione relativa all’ordine delle ascisse e delle ordinate non ci può aiutare; “tutti” è come l’idea di mondo, per come viene, per necessità, pensata nella Dialettica trascendentale. Si tratta di un “tutti” a cui non si può aggiungere un uno in più, si tratta di una compiutezza a cui ci si può approssimare costantemente. “Tutti” non è un “aggregato”, ma non ancora un “sistema”: è, forse, un modo per sopportare il peso caotico della storia, il suo dolore e la ingiustizia che vi si compie, la non socievolezza ancora non “tradotta” in una “insocievole socievolezza”. Ma come “setacciare” la insocievolezza per filtrarne la socievolezza? Come l’uno può essere tradotto in tutti? Come può essere esperito da “tutti” l’esperienza di “uno”? Quale forma è quella del “tutti”? Ci si può approssimare a questa possibile forma solo da fuori, appunto, non in essa o al cospetto di essa: la si vedrebbe. E in qualche modo la si può vedere: la si vede come ciò che manca per necessità, come ciò di cui c’è penuria. Kant in Che cosa significa orientarsi nel pensare, in una piccola nota scrive: «La ragione non sente (fühlt); essa vede ciò che le manca (sieht ihren Mangel ein), e il sentimento del bisogno agisce mediante la spinta della conoscenza»2.

Der Mangel significa “penuria di”, “bisogno di”, mancanza; e come si risponde ad una simile esperienza? Con quali esperienza trattenersi presso ciò di cui c’è penuria, che manca, ma che è necessario? Non si può permanere per sempre in un 2

KANT I., Che cosa significa orientarsi nel pensare, trad. it. di GIORGIANTONIO M., Carabba, Lanciano 1930, p. 58, ed. ted. cit., vol V, pp. 274-5.

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aggregato, ma è necessario permanerci essendo capaci di intravedere propensioni reali per “setacciarlo”, per tradurlo, in un doveroso, quanto possibile, sistema compiuto; e per orientarsi in un aggregato è necessaria una guida, un punto di vista che indichi una via. Tale prospettiva orientativa, etica ed estetica, è ciò di cui c’è ora penuria, è ciò che mancando non può non esserci. Per poter esperire ciascuno in “tutti” diviene necessario esperire nella storia l’idea compibile e compiuta di storia. È l’agire stesso umano che posto ad oggetto di riflessione lascia oggettivamente sperare nella “concordia” umana come tessuto finale dei tanti fili tra loro “discordanti”3. Che tale speranza non sia per Kant, seppur non riconoscibile in senso stretto nella natura umana , né deducibile da essa, una vuota forma, ma abbia una sua universalità soggettiva, lo testimonia il fatto che in uno scritto come la Per la pace perpetua, costituito da “articoli preliminari” e “articoli definitivi”, vi figuri un “articolo segreto”: «Un articolo segreto in trattative di diritto pubblico è oggettivamente, cioè considerato nel suo contenuto, una contraddizione, ma, giudicato soggettivamente, cioè in base alla qualità della persona che lo detta, può giustificarsi nel senso che questa persona crede contrario alla sua dignità dichiararsi pubblicamente autore di esso. L’unico articolo di questo genere è implicito nel principio: “Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la guerra»4.

Dunque: la qualità di una persona, riconoscendo la propria dignità, si pone soggettivamente, come punto di riferimento 3 4

KANT I., Per la pace perpetua, op. cit., pp. 306-8; ed. ted. cit., pp. 217-8. IVI, p. 315; ed. ted. cit., p. 227.

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libero, ad espressione di un raggiungimento dei fini della natura umana nella storia. È un compito, questo, analogo alla comunicabilità universale dei giudizi di gusto che, pur non conoscitivi e non determinati dalla legge, esprimono un equilibrio tra le facoltà e diventano condizioni di possibilità dell’esibizione delle idee estetiche nella attività, libera e ad un tempo sottoposta alla natura, del “genio” Le massime di filosofi sono, così, criteri di azioni etiche, che esibiscono un fine, un Leitfaden che attraversando l’aggregato dei fatti, dei tanti “un punto”, ne possono dare un senso, una direzione: la forma di “tutti i punti”. Ma nella storia non si tratta solo di esibire un’idea di fine, ma di tenere insieme morale, a dispetto delle singole volontà, finanche di quella del legislatore, morale e politica5. Si tratta del difficile compito di “passare” dall’unità distributiva del volere di tutti, all’unità collettiva dei “voleri uniti”, alla “unità totale della società civile”; e questo è un passaggio che se “riesce” sperimenta il limite che separa la morale dalla politica, ma ad un tempo esperisce l’indispensabilità del limite trascendentale che connette morale e politica, libertà e legge morale: l’idea di diritto deve essere “elevata” a condizione imitatrice della politica, solo così i due “domini” possono conciliarsi. «Io mi posso immaginare un politico morale, ossia uno che intende i principi dell’arte politica in modo che essi possano coesistere con la morale, ma non posso rappresentarmi un moralista politico che si foggi una morale secondo gli interessi dell’uomo di Stato»6. 5

Cf. IBIDEM, “Appendice”. “I. Sulla discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua”, pp. 317-29; ed. ted. cit., pp. 228-44. 6 IVI, p. 319; ed. ted. cit., p.232.

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La concordanza tra morale e politica, in una unità collettiva delle volontà, esclude, dunque, dal punto di vista e del diritto e da quello di una filosofia trascendentale pratica, una forma di dispotismo o di totalitarismo; l’unità collettiva e tutti i punti singolarmente presi, non è estranea a nessuno di essi: ogni singolo punto non è un semplice “modo” dell’unità, è invece una realtà esistente e autonoma, come è richiesto dalla moralità, in una unità di cui si esperisce la forma. «Il diritto degli uomini dev’essere tenuto come cosa sacra, anche se ciò possa costare grossi sacrifici al potere dominante»7.

In ogni epoca ci si dovrebbe interrogare su ciò che è ritenuto sacro e su ciò che lo potrebbe essere anche se non appare empiricamente come tale; da una simile necessaria indagine filosofica ed etica del presente sorge, a mio avviso, il bisogno di un Osservatorio filosofico sulla contemporaneità. Il passaggio da una unità distributiva ad una collettiva è non tanto il passaggio dall’identità individuale a quella storica e ciò perché nessuna unità civile dovrebbe in modo dispotico cancellare l’identità personale (basti pensare che l’articolo segreto per la pace perpetua si fonda nella dignità personale del filosofo), quanto il passaggio dalla identità collettiva empirica di pura aggregazione di persone e di condizioni, ad una identità collettiva di diritto umano civile, alla storia come espressione della natura umana in quanto libera e ad un tempo morale e politica. Ma non ci si può accontentare di sentire questo fine, lo si deve anche poter vedere come ciò che ci manca, ciò di cui siamo bisognosi, ciò di cui c’è pe7

IVI, p. 329; ed. ted. cit., pp. 243-4.

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nuria, e quando qualcosa veramente manca ci si attrezza, personalmente e collettivamente, a colmare la penuria. Ma per colmarla si deve sapere bene cosa manca e con quali strumenti teorici e pratici muoversi ad operare, la pura esigenza stanca, l’avere “a vista” il ciò che manca aumenta le forze, quelle che applicate ai vani desideri si rafforzano in vista di ciò che non è vano; per questo è necessario sapere cose è o può essere assunto come “sacro”. Per fare esperienza di ciò che manca, ci si deve misurare con il significato della «discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua»8. Tra la morale in senso oggettivo, come insieme di leggi che comandano incondizionatamente, intesa come dottrina teoretica del diritto, e la politica intesa come dottrina pratica del diritto, non può esserci conflitto: non vi è conflitto tra teoria e pratica, grazie all’idea stessa del diritto. Un conflitto potrebbe esserci, invece, tra una “morale provvisoria” e la politica. La dottrina del diritto vincola all’esperienza dei limiti che distinguono in modo oggettivo il giusto dall’ingiusto e anche se la pratica smentisce nei fatti alcuni precetti morali e politici, tale smentita non tocca de jure la dottrina teoretica e pratica del diritto. “ Il Dio-limite (Grenzgott) della morale – dice Kant – non la cede a Giove (Dio-limite della forza)9. Ancora una volta è necessario capire ed esperire le condizioni trascendentali del passaggio da “un punto” a “tutti”, del passaggio dall’unità distributiva, all’unità collettiva: «Ora, l’uomo pratico (per il quale la morale è semplice teoria) fonda la sua sconsolata rinunci alla nostra ingenua speranza [….] propriamente sul fatto che egli pretende di prevedere, in 8 9

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IVI, p. 317; ed. ted. cit., p. 228. IBIDEM; ed. ted. cit., p. 229.

base alla natura dell’uomo, che questi non vorrà mai ciò che è richiesto per porre in atto lo scopo che conduce alla pace perpetua. Certo non basta a questo scopo la volontà di tutti gli uomini singolarmente presi di vivere secondo i principi di libertà in una costituzione legale (cioè che vi sia l’unità distributiva del volere di tutti), ma occorre che tutti assieme vogliamo questo stato (che vi sia cioè l’unità collettiva dei voleri uniti): questa soluzione di un difficile problema si impone anche perché si formi l’unità totale della società civile»10.

Per praticare il passaggio dal volere di tutti singolarmente presi all’unità collettiva dei voleri uniti, non solo è necessaria una causa, che Kant ravvisa nella forza , nella coazione, ma anche e, ritengo, soprattutto una forma che coordini l’esperire dei singoli in un volere uniti: una forma che contrasti l’indifferenza del volere del singolo. Ma che tipo di immagine, di forma, può fare da setaccio per dividere il volere di tutti dal volere uniti, quale forma storica, nella storia, può svolgere una simile funzione? La forza, la coazione di cui parla Kant, in queste pagine, penso possa svolgere un ruolo solo all’inizio, come spinta percettiva al giudizio, ma poco dopo non può reggere perché estranea all’intimo sentire dell’umanità, se è libera. So che non è facile dire e pensare che cosa è tale forma, ma nella storia si sono date “immagini guida” delle azioni collettive, e penso che una rigorosa analisi delle specifiche passioni dominanti oggi, come di quelle operanti in periodi storici del passato, possa illuminare le reali propensioni (nel senso popperiano11) su cui sperare ed operare in vista di azioni collettive in grado di contrastare il carattere di indifferenza che caratterizza, spesso, la singola volontà che solo em10

IVI, p. 317; ed. ted. cit. pp. 230-1.

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piricamente si trova in una unità, appunto, suo malgrado. Cartesio, nella IV Meditazione, afferma che la libertà è inversamente proporzionale al grado di indifferenza12. Antonio Gramsci, nel 1917, scriveva: “L’indifferenza è il peso morto della storia [….] L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare, è ciò che sconvolge i programmi [….] materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza [….] sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente [….] Domando conto a ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto13”. L’indifferenza opera e opera con un suo peso; per pesare e non rispondere del suo operato e del suo ruolo determinante nella storia, tanto da farla apparire come un fenomeno naturale e non l’insieme degli atti umani, agisce, comunque, in determinate forme puntuali, con immagini sfocate, dove i dettagli debbono sfuggire per non essere identificati, per non rispondere neppure del non fatto. Allora è necessario dare forma alle propensioni il cui peso, il cui operare, non è indifferente. Si tratta di passare dalla forma distributiva dell’unità umana nella storia, all’unità collettiva umana nella e insieme della storia. La 11

cf. POPPER K.R., Un Universo di propensioni, trad. it. di Benini S., Vallecchi, Firenze 1991. 12 Su ciò cf. il mio: Identità etica. Questioni di storiografia filosofica e di consulenza filosofica, ilmanifestolibri, Roma 2008, Capitolo II Dell’identità e della distinzione tra le facoltà nelle Meditazioni metafisiche di Cartesio. 13 GRAMSCI A., Indifferenti, La città futura, numero unico, 11, Febbraio 1917.

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storia stessa ha bisogno di una non indifferente immagine di sé: di una stella non meccanica, di una “stella della redenzione”, di una immagine che muovendosi nell’interno del divenire storico sia in grado di vederlo scorrere come dal di fuori: sia di mostrarlo (zeigen), sia di esibire (darstellen) se stessa, come sua forma, immagine. Una forma, una immagine, dell’unità collettiva, non indifferente ai dettagli e con ciò operante in modo da rispondere di sé, di essere responsabile: dovrà pertanto essere in grado di “tradurre” un aggregato di volontà in un sistema non meccanico dei “voleri uniti”. L’immagine, la forma della storia umana che potrebbe guidare il concreto operare non indifferente dei “voleri uniti” è una unità che è hegelianamente l’unità della unità e della non unità e perciò può essere sia mostrata nel suo operare, sia esibita nella sua stessa forma guida; in questo senso è una traduzione che come un setaccio divide: lascia scorrere e insieme trattiene. «Certo, se non esiste alcuna libertà e alcuna legge morale su di essa fondata, ma tutto ciò che accade o può accadere si riduce a puro meccanismo della natura, allora la politica [….] e tutta la sapienza pratica, e l’idea del diritto è vuota di senso»14.

La correlazione tra libertà e legge morale (libertà come ratio essendi della legge morale e legge morale come ratio cognoscendi della libertà15) determina il riempimento di senso dell’idea del diritto e, a un tempo, il non riduzionismo della 14

KANT I., Per la pace perpetua, ed. cit., p. 319, ed. ted. cit., p. 232. Per pura accortezza, la traduzione italiana di questo passo contiene un errore tipografico: la e di “e tutta la sapienza pratica” risulta accentata. 15 Su ciò cf.,il mio: Identità etica. Questioni di storiografia filosofica e di consulenza filosofica, ed. cit., Capitolo V, Il nesso libertà-legge morale. Identità o distinzione o nessuna delle due. Se la libertà è identica alla legge morale.

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sfera dell’agire, anche quello solo, forse, dell’aggregato delle azioni dei singoli, ad un meccanismo. Ma come esperire, percepire, questo “non vuoto” dell’idea del diritto? Come possiamo, non solo come singoli, esperire l’unità collettiva dei voleri uniti? Come vedere questo “volere” come ciò che ci manca? Quale forma può, tanto mostrare, quanto esibire l’idea non vuota del diritto, di una libertà che pur essendo intima alla legge non si cancella in essa? Potremmo, forse, tentare di dare una dimostrazione per assurdo di tale imprescindibile “essere non vuoto” dell’idea di diritto, ossia potremmo, forse, mostrare l’assurdo che deriverebbe dalla sua negazione? Penso di no, non solo si sarebbe poco convincenti, ma basterebbe la realtà stessa a mostrare che non ne deriverebbe l’assurdo, l’incomprensibile, ma la sola, seppur caotica, realtà che conosciamo. E allora, non resta alcunché per vedere ciò di cui c’è penuria, ma che deve poter esserci? Ritengo che la Storia stessa se vista in una prospettiva a favore dell’umana natura possa mostrare alcune propensioni reali che parlano già la lingua della libertà, della legge morale, dell’unità collettiva, del volere uniti; si tratta di reali propensioni che una volta individuate mostreranno nella loro concreta forma ed esperibilità la direzione su cui permanere. Se è reale l’indifferenza e l’aggregato, può esserlo anche la responsabilità collettiva, cosmopolitica. È necessario una filosofia realistica ed etica che funzioni come un fine setaccio, come «un più alto punto di vista di osservazione antropologica»16. Nella ragion pratica gli imperativi categorici ci aiutavano a percepire la direzione da imprimere alle nostre massime per poter essere adeguate alla legge morale e qui, in queste pagine, 16

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KANT I., Per la pace perpetua, ed. cit., p. 321, ed. ted. cit., p. 235.

è parimenti in primo piano una istanza “formale” che funge da guida all’agire: «Per rendere la filosofia pratica coerente con se stessa è necessario, prima di ogni altra cosa, risolvere la questione se nei problemi della ragion pratica si debba cominciare dal principio materiale, dallo scopo (come oggetto dell’arbitrio), ovvero dal principio formale, cioè da quello (fondato semplicemente sulla libertà nei rapporti esterni) così formulato: opera in modo che tu possa volere che la tua massima debba diventare una legge universale (qualunque sia lo scopo che tu ti proponi)»17.

Il principio formale è un compito etico e pone un problema morale, non è un compito tecnico, non pone un problema technicum18. Si apre lo spazio della sapienza politica, del regno della ragion pura pratica: la «volontà universale data a priori (in un popolo o nel rapporto reciproco di popoli diversi) è la sola che determina ciò che tra gli uomini è giusto»19. Che bello che il termine oggettivo (objectiv) sia usato come teoria (Theorie), è segno che pensare “è”, è universale ed è esperienza (Erfahrung) reale, azione, e non un sentire che induce a comportamenti: «oggettivamente (cioè in teoria) non esiste alcun dissidio tra la morale e la politica»20. Tra l’utile e il diritto non c’è “qualcosa di mezzo”, non ci sono enti intermedi21; devo ammettere che questa affermazione, che pur non posso non accettare, mi lascia perplesso: ritenendo che, come si insegna nel Filebo di Platone, il compito del filosofo sia il 17

IVI, p. 324, ed. ted. cit., p. 239. Cf. IVI, p. 325, ed. ted. cit., p. 239. 19 IVI, p. 326, ed. ted. cit., p. 240. 20 IVI, p. 328, ed. ted. cit., p. 242. 21 Cf. IVI, p. 329, ed. ted. cit., p. 244. 18

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non lasciarsi sfuggire le cose che sono intermedie22; ma, seppure non ci possono e non devono esserci elementi intermedi tra l’utile e il diritto, pena una certa confusione tra i due elementi, pure la loro stessa distinzione non può non porre una relazione e non solo il vuoto; se tra il dominio (Gebiet) dell’intelletto e quello della ragione può e deve darsi una facoltà intermedia, la Urteilskraft con il suo principio a priori, così anche tra utile e diritto deve essere cercato un terreno (Feld) comune. Tale terreno è la Storia, la sua idea da un punto di vista cosmopolitico. Così, fatta salva la distinzione, quasi senza mediazioni, tra l’utile e il diritto, la storia nel suo divenire dotato di senso istituisce il lento passaggio dall’identità individuale e quella storica del genere umano, dall’unità distributiva a quella collettiva. L’azione umana è la realtà ontologica ed etica del passaggio dall’aggregato al sistema, dall’utile al diritto. La «forma della pubblicità, la cui possibilità è contenuta in ogni pretesa giuridica in se stessa»23, trova la sua stessa forma non solo universale, ma concreta nel darsi del divenire storico, divenire costituito da un molteplice in sé disomogeneo che richiede un forma del giudicare “singolare” analoga a quella del giudizio estetico. Si apre così una “benefica” possibilità per il diritto: l’universale comunicabilità del giudizio estetico può declinarsi in modo oggettivo se formante la “pretesa giuridica” (praetensio giuridica), Storia, cosmopolitismo, diritto interno statale, diritto internazionale si raccolgono nella “formula trascendentale del diritto pubblico”: «Tutte le azioni relative al dritto di altri uomini, la cui massima non è conciliabile con la pubblicità, sono ingiuste”. Questo 22 23

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Cf. PLATONE, Filebo, 16 c. KANT I., Per la pace perpetua, ed. cit., p. 329, ed. ted. cit., p. 244.

principio non deve considerarsi solo etico (pertinente alla dottrina della virtù), ma anche giuridico (concernente il diritto degli uomini)»24.

E se tra utile e diritto non c’è “qualcosa di mezzo”, c’è però il “grado” che li differenzia, grado, dato, esibito, mostrato, nel divenire empirico della storia e ancor di più, forse, proprio come il “grado” della prima Critica, in quanto unica forma necessaria, oggettiva, dell’anticipazione dell’esperienza possibile, richiesto dall’idea di Storia dal punto di vista cosmopolitico: «Se è un dovere e se è anche una fondata speranza l’attuazione di uno stato di diritto pubblico, anche solo per la via di una progressiva, indefinita approssimazione, allora la pace perpetua, che prenderà il posto di quelli che fino ad ora sono stati falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è un’idea vuota, bensì un compito che, assolto per gradi, si avvicina sempre di più al suo adempimento (poiché è da sperare che divengano sempre più brevi i periodi di tempo nei quali si conseguiranno simili progressi)»25.

Ebbene: anche se il darsi dell’oggetto non ci può essere assicurato dall’attività riflettente del giudicare, perché come Scaravelli ci ricorda nelle Osservazioni sulla Critica del Giudizio26, e ciò perché tale datità è legittimata dal solo giudizio determinante, qui, nell’Idea di Storia, nell’idea di diritto, si apre una benefica prospettiva, una speranza, per un’altra forma di da24

IBIDEM, p. 330, ed. ted., p. 245. IBIDEM, p. 336, ed. ted. cit., p. 251. 26 Su ciò cf. SCARAVELLI L., Osservazioni sulla Critica del Giudizio, in IDEM, Opere, a cura di CORSI M., vol. 2, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968, in part. p. 528. 25

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tità, di oggetto, libera e quindi non determinata dal giudizio determinate, né postulata da quello riflettente, ma riconosciuta, piuttosto che posta, dal libero agire etico del “volere uniti”: il grado dell’agire umano che progressivamente partecipa pienamente della natura umana. Ma come percepire un simile grado? A quale immagine del presente legare la realtà di un fatto del futuro di cui ci si assume il compito? In queste osservazioni ho evidenziato la necessità filosofica, etica e politica di un Osservatorio filosofico sulla contemporaneità che come organo consultivo sia in grado di stilare documenti di studio che attestino le propensioni a cui affidare le azioni da compiere e con ciò ipotecare alcune tendenze presenti, anche se non esperite con chiarezza, da tradurre, da setacciare, nel futuro. Un Osservatorio che dovrebbe assolvere a un preciso obbiettivo epistemologico: abituarsi a capire e giudicare i singoli “fatti” dei nostri tempi, fin nei minimi particolari, secondo principi filosofici e criteri etico-politi. Ciò consentirebbe di acquisire l’habitus del cogliere somiglianze e dissomiglianze tra i diversi piani della realtà storica. Tale habitus dovrebbe essere coltivato sempre più con la consapevolezza delle finalità etiche che costituiscono la natura umana ed il suo libero agire individuale e sociale. In più, un simile habitus renderebbe capaci di sviluppare una ricerca, nell‘ambito delle scienze umane e sociali, ispirata a un principio epistemologico in grado di scorgere, nella molteplicità spesso caotica della realtà sociale, alcune propensioni reali, alcune “buone” da incoraggiare, altre da valutare criticamente. È più che incoraggiante notare che lo stesso Kant ha tentato qualcosa di molto simile a questo “necessario” Osservatorio nella seconda parte del suo scritto Il conflitto delle Facoltà, 300

Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, del 1798. Kant, in questo breve saggio è particolarmente chiaro, inizia con una domanda: “Che cosa si vuol sapere?” alla quale risponde affermando che «si vuole un frammento della storia dell’umanità e propriamente non del passato, ma dell’avvenire, cioè che predica il futuro»27. «D’altra parte quando si pone la questione se la razza umana (in generale) progredisca costantemente verso il meglio, si tratta non della storia naturale dell’uomo […] ma della storia del costume considerata non nel concetto della specie (singolorum), ma nel concetto della totalità degli uomini uniti sulla terra in società e distribuiti in popoli diversi»28.

Ancora una volta l’unità collettiva fa da guida alla ricerca, ma in più è necessario riconoscere nella storia un fatto come espressione del costante progresso verso il meglio. I paragrafi cinque e sei andrebbero riportati per intero tanto è la loro rilevanza per una epistemologia etica della filosofia della storia, ma seguiamone i punti decisivi. «È pur necessario riconnettere a una qualche esperienza la storia profetica del genere umano. Nel genere umano deve sopravvivere una qualche esperienza che, come avvenimento, mostri una sua disposizione e una sua capacità a essere la causa del suo progresso verso il meglio è […..] Devesi […..] ricercare un avvenimento che riveli, sia pure senza determinazione in rapporto al tempo, l’esistenza di una tale causa, e anche l’azione 27

KANT I., Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, trad. it. di Solari G. - VIDARI G., in ID, Scritti politici e di filosofia del diritto (ed. a cura di BOBBIO N. - FIRPO L. - Mathieu V.), UTET, Torino 1965, p. 213; ed ted. cit., vol., XI, p. 351. 28 IBIDEM.

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della sua causalità nell’umanità, in modo da far concludere al suo progresso verso il meglio come conseguenza inevitabile […..] tele avvenimento [deve] essere considerato non come una causa, ma solo come indicazione, come segno storico (signum rememorativum, demonstrativum, prognosticum), così da poter dimostrare la tendenza della specie umana considerata nella sua totalità, cioè non secondo gli individui […..] ma come s’incontra sulla terra, divisa in popoli e in Stati […..l’] avvenimento del nostro tempo che rivela questa tendenza morale della specie umana [ ….tratta] solamente del modo di pensare degli spettatori che si rivela pubblicamente nel gioco delle grandi rivoluzioni e che manifesta una partecipazione universale e tuttavia disinteressata dei giocatori […..] una partecipazione d’aspirazioni (Teilnehmung dem Wunsche) che rasenta l’entusiasmo, anche se la sua manifestazione non andava disgiunta da pericolo, e che per conseguenza non può avere altra causa che una disposizione morale della specie umana»29.

Doveroso e meraviglioso compito è il capire il proprio tempo, il tempo passato, nell’aspirazione non vana di cogliere un evento che segna la direzione del futuro, la tendenza del genere umano al meglio, nella storia. La dimensione “ pubblica” (öffentlich), universale e disinteressata rende esperibile una “partecipazione d’aspirazione che rasenta l’entusiasmo” ed esibisce nell’evento un senso che “manca” come ciò che è necessario al compimento etico dell’uomo, di tutti gli uomini. Si dà, nell’evento riconosciuto come tendenza, la forma estetica ed etica del “compiersi” del fine al quale si partecipa pubblicamente anche da spettatori, così come era reale l’esperienza del sublime dinamico in quanto spettatori, ma a 29

Ivi, pp. 218-9; ed. ted. cit., pp. 356-8; sul concetto di entusiasmo per come viene affrontato in queste pagine, cf. Ivi, 230, ed. ted. cit. p. 359.

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un tempo attori del riconoscimento della, nonostante tutto, forza della Ragione Anche lo spettatore, come nel vero teatro, nella vera tragedia, è un compartecipe, proprio grazie alla universalità della rappresentazione. Nella Storia comunque si sta, in modi diversi certo, ma si sta: o con la terribile indifferenza di cui parlava Gramsci o con la “sublime” partecipazione che l’Osservatorio filosofico proposto e in parte realizzato da Kant, in queste sue preziose pagine, esibisce come compito epistemologico ed etico.

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L’ESPERIENZA DELLA LIBERTÀ NELLE CONDIZIONI DELL’ESSERE FINITO. ROSMINI E SCHELLING SU AMORE E TRASCENDENZA Markus Krienke «In ultima e suprema istanza non c’è altro essere che il volere»1. 1. Rosmini e Schelling: un paragone difficile ma promettente L’esperienza della soggettività moderna si costituisce attraverso il dilemma tra l’affermazione astratta della libertà individuale senza la consapevolezza della sua essenziale storicità, da un lato, e la conseguente riduzione della storicità della libertà ad una mera descrizione dei fatti2, dall’altro. Così, tale esperienza perde però qualsiasi possibilità di acquisire una MARKUS KRIENKE, “Professore ordinario di "Filosofia moderna" e di "Etica sociale" presso la Facoltà di Teologia di Lugano; Professore incaricato di "Antropologia filosofica" presso la Pontificia Università Lateranense”. 1 SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, a cura di STRUMMIELLO G., Bompiani, Milano 20152, 350 (pp. 124s.). 2 Cf. SCHELLING F.W.J., Filosofia della rivelazione, a cura di BAUSOLA A., Rusconi, Milano 1997, 6. (pp. 10s.).

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chiave ermeneutica per comprendere se stessa e per responsabilizzarsi. Da ciò si evince immediatamente l’urgenza di comprensioni alternative di libertà rispetto a quelle che hanno determinato tale fatale sviluppo ossia che non sono riuscite ad innescare nella cultura dei percorsi opposti. Questa preoccupazione teoretica e pratica dirige lo sguardo ai pensatori moderni postkantiani da Fichte a Hegel, da Schelling a Rosmini, che si caratterizzano nel modo forse più emblematico per aver problematizzato in Kant proprio tale dilemma e per aver cercato delle soluzioni che ripropongono la persona soggetto della sua libertà. Mentre, da un lato, Hegel riprende gli approcci del primo Fichte, superando l’esperienza della libertà astratta tramite la sua riconnessione alla logica del processo storico e, quindi, non potendo evitare la sua desoggettivizzazione all’interno delle istituzioni della vita sociale e della logica dell’evoluzione storico-concreta della ragione, il tardo Schelling e Rosmini, dall’altro, vedono in questi “sistemi” dei riduzionismi significativi che vanno innanzitutto a discapito della tematizzazione positiva dell’ente finito e della sua specifica esperienza di libertà, contrassegnata, come sarà da 3

Langthaler rileva come Schelling ha inteso proprio prendere sul serio il progetto kantiano di un’autolimitazione della ragione, e che questo avrebbe costituito la vera intuizione della sua filosofia positiva: essa consisterebbe nell’idea che il “primo” si lascia sperimentare a posteriori; cf. LANGTHALER R, Zu Schellings später Kritik an Kants Religionsphilosophie, in DANZ C. - R. LANGTHALER (edd.), Kritische und absolute Transzendenz. Religionsphilosophie und Philosophische Theologie bei Kant und Schelling (Scientia & religio, 3), Verlag Karl Alber, Freiburg-München 2006, pp. 115-181, p. 163. Infatti, a ben vedere, già le reazioni di Hegel e Fichte alla filosofia dell’identità schellinghiana confermano l’intenzione sin dall’inizio “alternativa” di Schelling rispetto alla filosofia trascendentale e all’idealismo di collocare la “ragione assoluta” o “Dio” in una sfera che oltrepassa l’ambito della ragione

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dimostrare, dalle caratteristiche di “amore” e “trascendenza”3. Prima di addentrarci nell’analisi del contributo molto interessante e significativo che Schelling e Rosmini danno a questo dibattito, conviene costatare che il rapporto tra Rosmini e Schelling fin ora non è mai stato considerato dettagliatamente – dai tempi di Spaventa, quando nacque l’interesse di considerare Rosmini nei suoi rapporti ai principali pensatori europei, fino ad oggi4. Mentre però tale disinteresse si capisce ancora da parte degli approcci neoidealistici che si riferiscono soprattutto a Kant, Fichte ed Hegel, molto meno ci si riesce a spiegare come mai un accostamento del Roveretano a Schelling non abbia mai suscitato l’attenzione sia da parte dei filosofi di matrice cattolica, sia da chi analizza il pensiero teologico del Roveretano. Proprio nella sua intenzione di “superare l’idealismo” senza ricadere in un dogmatismo pre-kantiano e, quindi, di trovare un’alternativa forte al pensiero dell’assoluto attraverso la coscienza dell’io, l’intenzione di Rosmini si incontra palesemente con il programma del tardo Schelling. Già ad un primo sguardo, infatti, si impone intuitivamente riflessiva. Tale intenzione diventa palese con quello scritto che segnala la “svolta” dalla filosofia negativa a quella positiva in Schelling ossia la Freiheitsschrift. 4 La contemporanea convergenza e distanza tra Rosmini e Schelling è stata sottolineata da LORIZIO G., La Rivelazione fra teologia e filosofia: Rosmini e Schelling. “Pensiero rivelativo” e “intuizione intellettuale”, in KRIENKE M. (a cura di), Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca (La Rosminiana, 1), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 487-507, p. 491. Giuseppe Riconda invece avvicinava Schelling e Rosmini per il loro dubbio che l’hegelismo potesse «cadere al marxismo» e quindi ribaltarsi in un materialismo di cui la seguente storia della filosofia risentì le conseguenze deformatrici; cf. RICONDA G., Ateismo, nichilismo, pensiero religioso. Due momenti: Rosmini e Schelling, in MERCADANTE F. - LATTANZI V. (edd.), Elogio della filosofia, (Collana del bicentenario, II), Roma-Stresa 2000, pp. 248-263, p. 255.

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una certa affinità tra l’intuizione dell’idea dell’essere di Rosmini e l’intuizione intellettuale del giovane Schelling, soprattutto con riferimento al giudizio di Theunissen che riconosceva in quest’ultimo concetto già il superamento schellinghiano dell’idealismo tedesco. Ad uno sguardo più da vicino, però, Schelling si muove ancora all’interno dell’approccio idealista perché tematizza il modo, sebbene non-concettuale e razionalmente irragiungibile, con cui l’assoluto è affermato dalla coscienza del soggetto. E d’altro lato, l’apriori rosminiano riflette un’oggettività ontologica che Schelling ha voluto proprio escludere, come si evince non solo dalla critica rosminiana a Kant, ma anche del suo giudizio esplicito su Schelling5. 5

Così un paragone dei due sul concetto dell’intuizione intellettuale viene criticato in partenza da Wilhelm Jacobs. Innanzitutto egli constata che ogni indagine sul rapporto diretto di Rosmini a Schelling può riguardare soltanto la filosofia del primo Schelling – perché dell’ultimo Schelling Rosmini non poteva aver notizia in quanto i rispettivi scritti furono pubblicati solo dopo la morte di entrambi (a questo punto egli non menziona il fatto che Rosmini ha avuto notizia dello sviluppo del pensiero schellinghiano; cf. ROSMINI A., Saggio storico critico sulle categorie, a cura di OTTONELLO P. P. [Ed. crit., 19], Roma-Stresa 1997, 239-243). Jacobs giunge alla conclusione che Rosmini legge il primo Schelling troppo attraverso la lente del suo rifiuto dell’idealismo e quindi non registra che Schelling offre spunti, anche già nella sua prima filosofia, per un’alternativa. Egli constata pertanto in Rosmini una «profonda incomprensione dell’Idealismo tedesco» e in particolare di Schelling (cf. JACOBS W.G., L’“Io” nella filosofia schellinghiana e nella recezione di Rosmini, in KRIENKE M. (a cura di), Sulla ragione, cit., pp. 383-400, p. 399). Più benevole risulta il giudizio di FENU C. M. nel suo saggio Le fonti idealistiche del pensiero rosminiano: Kant, Fichte, Schelling, Hegel, in «Rivista Rosminiana di filosofia e di cultura», 91 (1997), pp. 572-634. Oltre questi due saggi, non esistono studi significanti che confrontino il rapporto tra Rosmini e Schelling; restano infatti alla superficie gli studi, del resto datati, di SOTO BADILLA J. A., come ad es. Antonio Rosmini. Critico del idealismo trascedental (Kant–Fichte–Schelling–Hegel), Editorial Universidad Estatal a Distancia, San José 1982.

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L’intuizione rosminiana, infatti, non è quell’«identità del conscio e del privo di coscienza nell’io, e coscienza di tale identità»6 perché l’idea dell’essere oltrepassa i confini della coscienza soggettiva e la rapporta, nella sua costituzione più intima, a quel radicalmente altro da sé che Rosmini chiama il «divino»7. Un secondo e più promettente motivo di vicinanza è invece la palese corrispondenza tra la distinzione tra filosofia negativa e positiva in Schelling, da un lato, e quella tra filosofia regressiva e progressiva affermata nella prefazione alla Teosofia di Rosmini8. Entrambe le distinzioni appartengono inoltre al periodo “maturo” dei due pensatori. Ma anche in questo caso si potrebbe sospettare una somiglianza solo superficiale, soprattutto considerando le definizioni schellinghiane che «[l]a filosofia razionale non si occupa del realmente esistente, ma della potenza di esistere»9. Rosmini, infatti, fa della questione dell’esistenza già il perno della via regressiva, e già qui il Roveretano cerca di superare un concetto kantiano limitato di esperienza alla mera percezione 6

SCHELLING F.W.J., Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di BOFFI G., Bompiani, Milano 2006, pp. 550s. 7 ROSMINI A., Teosofia, 6 voll., a cura di RASCHINI M.A. - OTTONELLO P.P. (Ed. crit., 12-17), Roma-Stresa 1998-2002, 848 (d’ora in poi: T); cf. IDEM, Nuovo saggio sull’origine delle idee, 3 voll., a c. di MESSINA G. (Ed. crit. 3-5), RomaStresa 2003-2005 (d’ora in poi: NS), 374, 464, 479, 1464. 8 «Noi abbiamo dunque riconosciuto doversi ammettere la distinzione tra la Filosofia regressiva, che è quella che sulla via della riflessione riconduce la mente a trovare il principio da cui si deriva la scienza dell’ente, e la Filosofia progressiva, che è la stessa scienza dell’Ente dal suo principio derivata» (T 16). Cf. SCHELLING, Filosofia della rivelazione, cit., p. 95 (pp. 158s.). 9 SCHELLING F.W.J., Filosofia della rivelazione, cit., p. 155 (pp. 256s.).

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sensibile10. Ciononostante, però, c’è da rilevare un’analogia forte tra entrambi i concetti: mentre la filosofia negativa o regressiva parte dal soggetto e dalla conoscenza razionale, quella positiva o progressiva «parte da un essere assolutamente fuori del pensiero»11, concependo in questo modo una sintesi teo-sofica ma tutta filosofica tra teologia e filosofia. Se ora per entrambi le due «parti [sono] indispensabili, le dimensioni vicendevolmente condizionantesi dell’una e medesima filosofia della realtà e della libertà»12, allora diventa chiaro che il loro specifico concetto di libertà positiva diventa il momento che contraddistingue meglio la loro comune intuizione: l’esigenza di recuperare la realtà come quel principio di alterità che è la necessaria manifestatività di ogni cosa13. Solo in questo modo, secondo Schelling, la libertà può davvero realizzarsi e diventare una concreta esperienza, appunto quella dell’«ente finito», 10

A questo punto è da considerare l’utilizzo differente del concetto “empirismo” che per Rosmini è limitato all’esperienza solo sensibile, mentre per Schelling determina l’ambito allargato di esperienza, quindi anche la possibilità di un’esperienza sopra-sensibile. A ben vedere, proprio un’interpretazione di Rosmini troppo analoga alla distinzione tra filosofia negativa e filosofia positiva di Schelling ha condotto alla tesi dei “due Rosmini”; cf. PRINI P., Rosmini postumo, Armando, Roma 1960. 11 SCHELLING F.W.J., Filosofia della rivelazione, cit., p. 127 (pp. 210s.). E procede: «Ora, questo essere fuori di ogni pensiero è sopra ogni esperienza, così come precede ogni pensiero: è dunque l’essere assolutamente trascendente» (IBIDEM). 12 FRANZ A., Die Potenzenlehre in Schellings Spätphilosophie als “wirkliche Wissenschaft”, in MEIER-HAMIDI F. - MÜLLER K. (edd.), Persönlich und alles zugleich. Theorien der All-Einheit und christliche Gottrede, (ratio fidei, 50), Pustet, Regensburg 2010, pp. 67-80, p. 70; trad. it. M. K. 13 Cf. BUCHHEIM T., «… eine sehr reelle Unterscheidung». Zur Differenz der Freiheitsschrift, in DANZ/LANGTHALER (edd.), Kritische und absolute Transzendenz, cit., pp. 182-199, p. 189.

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per utilizzare il termine rosminiano, ossia capace di «rappresentarsi», direbbe Schelling. La “dialettica” rosminiana della Teosofia corrisponde così al programma schellinghiano di «arrivare dietro l’essere; il suo oggetto quindi non ha l’essere ma ciò che è davanti all’essere, appunto per comprendere l’essere. Con questo L’ho posta all’inizio della filosofia»14. Mentre è proprio Rosmini a dare tale titolo alla sua opera metafisica, Schelling esprime questo metodo attraverso una Filosofia della rivelazione con la quale egli si riferisce ad un assoluto “al di fuori” del soggetto, dando compimento alla sostituzione del concetto di intuizione intellettuale con quello dell’estasi che indica che «il nostro io viene posto fuori da se cioè fuori dal suo posto»15. Ciò produce nell’uomo una divinizzazione molto simile all’idea rosminiana dell’intuizione dell’idea dell’essere: «[i]l raggio della divinità che entra in tutte le creature in modo storto, nell’uomo entra appiombo, perché l’uomo sia la creatura divinizzata»16. Come già Schelling, così anche Rosmini vede nell’uomo «il punto ancora aperto» che porta fuori dalla sempre auto-identità dell’andamento delle cose nel mondo senza vero cambiamento17. E 14

SCHELLING F.W.J., Urfassung der Philosophie der Offenbarung, a cura di EHRHARDT W. E., Meiner, Hamburg 1992, 23; trad. it. M. K.; cf. T 288, 1188, 1526. 15 IDEM, Über die Natur der Philosophie als Wissenschaft, in IDEM, Sämmtliche Werke, vol. 9, a cura di SCHELLING K.F.A., Stuttgart 1861, pp. 209-246, p. 229. 16 IDEM, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., 213; trad. it. M. K.; cf. NS 359, 556, 671. 17 IDEM, Über die Natur, cit., p. 224; cf. T 289. «La grande novità di Erlangen è quella di separare l’indagine a priori, risolta nel pensiero, nel concetto, dalla positività del reale, risultante da un “libero atto” di “passaggio nell’essere” da parte del Principio» (TOMATIS F., Kenosis del Logos. Ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, Città Nuova, Roma 1994, p. 65).

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proprio con questa dinamica, che significa cogliere il significato della soggettività in un essere finito tramite l’affermazione della trascendenza, diventa possibile tematizzare l’effettività reale del soggetto nella storia, ossia la persona: «Infatti l’a priori non è, come lo prese Hegel, una vacuità logica, un pensare che a sua volta ha a proprio contenuto soltanto il pensare – con il che però cessa il pensare reale, come con la poesia sopra la poesia cessa la poesia. Il vero logico, il logico nell’effettivo pensare, ha in sé un rapporto necessario all’essere, esso si porta al contenuto dell’essere e trapassa necessariamente nell’empirico»18. Solo in questo modo si apre, oltre Hegel, la possibilità di affermare l’amore come esperienza concreta della libertà in chiave personale. 2. Rosmini e Schelling sulla libertà Uno dei momenti centrali dell’idea rosminiana e schellinghiana sulla libertà è che essa si genera da quell’esperienza teosofica dell’altro della ragione – trascendenza e storia – che però non deve essere fraintesa come qualcosa di irrazionale; al contrario questo “altro” può essere affermato a sua volta soltanto dalla stessa ragione19. Ciò implica a sua volta che l’affermazione di tale “altro” entra nella definizione essenziale della razionalità: la conversione dell’idea di razionalità – e quindi della 18

SCHELLING F.W.J., Filosofia della rivelazione, cit., p. 101s. (pp. 168s.). «Del tutto giustamente, si mette in dubbio un metodo che intende dimostrare il limite o la limitatezza della ragione semplicemente tramite l’affermazione che ci deve essere qualcosa “al di fuori” della ragione» (HUTTER A., Geschichtliche Vernunft. Die Weiterführung der Kantischen Vernunftkritik in der Spätphilosophie Schellings, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1996, p. 28; trad. it. M. K.). 19

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comprensione della libertà – rispetto agli approcci trascendentali ed idealisti parte quindi dal concetto di volontà come spinta pratica. A questo punto sembra di massimo interesse analizzare tale “conversione” nella Freiheitsschrift di Schelling, dove il filosofo tedesco realizza il passaggio dall’idealismo trascendentale al concetto di libertà come realtà personale: qui la personalità (termine che Schelling preferisce al concetto metafisico di “persona”) nasce dalla differenza e specifica connessione tra la base dell’esistenza e l’esistente. Siccome tale scissione tra l’affermazione dell’ideale del fondamento di esistenza e la realtà esistente concreta vale anche per l’essere assoluto divino, Schelling non solo ha trovato la chiave per il programma appena accennato ossia di concepire la fondazione della libertà nell’essere finito in un elemento estatico, ma può anche realizzare l’intenzione teosofica di collocarla in una razionalità che si fonda a partire dall’“altro” positivo di sé. Un elemento simile Rosmini lo trova infatti nell’intuizione dell’idea dell’essere, all’interno della quale egli astrae, nella Teosofia, l’essere iniziale scoprendo in esso nient’altro che l’astrazione divina: la derivazione di ogni razionalità, e quindi dell’apriori necessario dell’esperienza della libertà, da un astratto divino che quindi consente la cercata fondazione soltanto attraverso un atto di riconoscimento dell’altro assoluto da parte della ragione, affermando la sua capacità più originale ossia quella di iniziare qualcosa di radicalmente nuovo20. Dopo questa analogia concettuale molto forte tra Schelling e Rosmini, iniziano a delinearsi anche le non poche differenze, atte a descrivere i due pensieri come realizzazioni 20

Cf. T 461, 861, 1286, 1360.

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differenti dell’intento comune di spiegare la libertà dell’essere finito attraverso un rapporto concreto e di amore al trascendente divino. In Schelling la differenza tra il fondamento dell’esistenza e l’essenza esistente descrive direttamente la realtà della personalità, sia di quella divina che quella dell’essere finito: l’elemento ideale (esistenza come fondamento) e l’elemento reale (l’essenza realizzata) costituiscono una dinamica di coscienza “in divenire”, che è un processo di coscienzializzazione dei presupposti ontologici: «ogni essere-cosciente deve essere inteso in senso stretto come un divenire-cosciente in cui il cosciente si eleva al di sopra delle sue condizioni iniziali incoscienti»21. In questo modo, per Schelling, si realizza la libertà che significativamente anche da Rosmini viene ad aindicare la sintesi tra la forma ideale e quella reale dell’essere: chiamando la sintesi «vincolo morale» tra le due forme, in Rosmini si ha l’idea di un’unità più statica22, ma proprio lo sguardo su Schelling potrebbe insegnare a questo punto a considerare la sintesi ontologica delle tre forme in una maniera più dinamica che in ultima analisi viene realizzata soltanto tramite l’agire personale. Mentre ciò conduce in Schelling ad una dinamicizzazione anche della personalità divina la quale si trova in un continuo divenire, la sintesi rosminiana della forma morale non si riferisce soltanto al divenire della personalità nell’azione ma costituisce, come presupposto di poter pensare la dinamicità, una 21

HUTTER A., Das geschichtliche Wesen der Personalität, in BUCHHEIM T. - HERF. (edd.), «Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunklen Grunde». Schellings Philosophie der Personalität, Akademie Verlag, Berlin 2004, pp. 73-90, p. 86; cf. NS 378-380, 433, 783; T 1272. 22 Cf. T 175s., 741. MANNI

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vera e propria unione spirituale che non si definisce soltanto attraverso l’atto ma prima ancora come amore: amore che costituisce l’identità della persona sulla base di un’affermatività positiva; mentre per Schelling la realizzazione dell’amore deve essere sempre strappata dal dominio del male il quale si stabilisce contemporaneamente alla scelta concreta del bene. Ciò vale secondo Schelling, come detto, anche per Dio: «[l]’Amore è Dio stesso, il vero Dio, il Dio che è mediante l’altra forza. L’egoismo divino invece è la forza che non è in se stessa, ma mediante cui l’amore, cioè il vero Dio, è»23. Nonostante la differenza significativa tra Rosmini e Schelling che qui comincia ad emergere, si può però constatare in prima linea un nuovo punto in comune ad entrambi: la libertà della persona non è né libertà di indifferenza o di scelta, da un lato, e nemmeno la realizzazione di una qualche “necessità” del bene, dall’altro, – necessità che trascendentalmente o idealisticamente sarebbe già in qualche modo predeterminata24 – ma sempre originale “inizialità” costituita dalla persona. Soltanto tramite la sua azione cioè tramite l’esperienza concreta della libertà nelle condizioni dell’essere finito si realizza un «concetto reale e vivente» 23

SCHELLING F.W.J., Lezioni di Stoccarda, in IDEM, L’empirismo filosofico e altri scritti, a cura di PRETI G., La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 89-154, p. 108; cf. ROSMINI A., Antropologia soprannaturale, 2 voll., a cura di MURATORE U. (Ed. crit. 39-40), Roma-Stresa 1983, I, pp. 193-195. 24 Questa critica a Rosmini è stata formulata da Conigliaro: «se gli atti secondi dell’intelletto e della sensibilità sono solo l’esplicitazione per affermazione di quanto, ancorché in condizione di germe, in modo completo si trova rispettivamente nell’oggetto dell’intuito e nell’oggetto del sentimento, l’intera esperienza umana non viene vanificata? La libertà umana a cosa si riduce?» (CONIGLIARO F., La politica tra logica e storia. Il pensiero filosofico-politico di Antonio Rosmini, ILA Palma, Palermo 1985, p. 47).

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della libertà25, il cui tratto distintivo sta nel partire non dall’autonomia dell’Io ma da una capacità morale originaria che si costituisce in un momento preliminare a qualsiasi presa di coscienza empirica del soggetto: in un «volere-se-stessi preriflessivo» che statuisce quindi in modo critico alla concezione trascendentale di Kant e Fichte una sorta di «Tathandlung positiva»26. Sta in questa portata per il concetto di libertà la dimensione più profonda di quell’atto di trascendimento del soggetto, che Schelling chiama estasi e Rosmini intuizione dell’idea dell’essere. Come il primo termine è già un superamento dell’intuizione intellettuale, l’ultimo concetto del Nuovo saggio di Rosmini viene integrato dalla Teosofia nel concetto dell’inoggettivazione: «[q]uesta inoggettivazione non discende al subietto nella sua esistenza relativa, nella quale è puramente subietto; ma rimane nel subietto, che è ancora nell’eterno obietto»27. Rosmini indica con questo concetto il trasformarsi concreto in un altro uomo, che sarebbe diverso dal prendersi l’altro solo come modello, «immaginandosi intellettivamente d’essere e di vivere in esso lui»28. Questa peculiarità di immedesimarsi nell’altro da parte 25

SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., 352 (pp. 130s.). IBER C., Prinzipien von Personalität in Schellings “Freiheitsschrift”, in BUCHHEIM T. - HERMANNI F. (edd.), «Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunklen Grunde». Schelings Philosophie der Personalität, cit., pp. 119-136, p. 131; cf. la formulazione rosminiana della «Tathandlung positiva»: «[o]ra la prima dualità che apparisca nell’essere è quella delle due forme la subiettiva e l’obiettiva. Ma questa prima relazione suppone già la mente, perché non si può concepire l’essere identico subietto ed obietto, senza che il subietto sia appunto la mente che rende obietto se stesso. […] La relazione è posta e conosciuta ad un tempo dalla mente subietto coll’atto del porre se stessa come oggetto; e questa è relazione sussistente: poiché qui conoscere è fare: esser conosciuto è sussistere» (T 908; corsivo M. K.). 27 T 894. 28 T 894. 26

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della ragione in quanto si tratta di un altro personale in Schelling non si trova: per Schelling l’amore si realizza come imitazione di Dio, il quale non dipende dialetticamente dal male che ha sempre vinto con l’amore, mentre la condizione dell’essere personale finito è segnata senz’altro dall’egoismo. Ma proprio per questo, nell’uomo l’amore si realizza sempre senz’altro come personalistico, ma in modo apersonale: l’uomo genera la sua azione dallo stesso fondamento di esistenza senza partecipare concretamente all’essere di Dio, prendendo la realizzazione della personalità divina come puro amore solamente come esempio per il proprio agire. In conseguenza della riduzione della metafisica della persona ad una metafisica della personalità, secondo Schelling, Dio non è il vero “altro” dal mondo, ma il vero altro è l’abisso dell’esistenza. A questo punto emerge con la massima chiarezza che Schelling deriva da un pensiero idealistico, mentre la metafisica di Rosmini si costituisce tramite il riferimento costitutivo all’essere. Al di là delle differenze appena enucleate, sia per Schelling che per Rosmini la realizzazione della libertà nell’ente finito si genera in maniera “iniziale” da un fondamento esistenziale assoluto, affermando la libertà personale come vero e proprio inizio anche concreto della realtà e quindi della storia. Se il soggetto si decide per questo, allora non si riduce semplicemente a creare una “copia” reale di un ordine ideale, ma realizza l’amore verso l’essere, e ciò costituisce per Rosmini l’ultimo motivo della storia. E solo in questo modo esso si realizza come persona. Ogni azione personale, quindi, nella misura in cui è personale, diventa in qualche modo contemporanea all’atto divino creativo e quindi genera la storia. Inoltre, in questo modo Schelling e Rosmini contraddistinguono la storia come il tempo della libertà, 317

non semplicemente come susseguirsi astratto di momenti29. Tali espressioni di libertà costituiscono quindi il bene morale, non semplicemente applicano un concetto astratto di bene alla realtà o a delle scelte potenziali. Solo attraverso l’agire la persona è persona e costituisce la storia30. Il contesto sistematico di questa affermazione, come è emerso, è la connessione intima della libertà alla trascendenza divina e all’amore come inoggettivazione (concetto applicabile in senso lato quindi anche a Schelling). Se quindi solo nella realizzazione della libertà si crea il bene morale, allora vale anche che il male non deve essere relativizzato come una semplice privatio boni, ma esso costituisce un vero disordine, come ha sottolineato giustamente Schelling31. Ciò viene radicalizzato dal filosofo tedesco fino al punto che esso è davvero la «distorsione positiva della ragione in se stessa. Non è un deficit di spirito, ma al contrario un massimo dello spirito per la sua forza distruttiva»32. 29

«Il tempo che non viene pensato astrattamente, ma come il tempo della libertà, è l’inizio. Esso non significa semplicemente il decorso, ma l’avvenimento; questo tempo è il tempo della storia» (JACOBS W., Person und Zeit. Bemerkungen zur “Freiheitsschrift”, in BUCHHEIM T. - HERMANNI F.  (edd.), «Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunklen Grunde». Schellings Philosophie der Personalität, cit., pp. 91-97, p. 96). 30 Cf. ex negativo T 1222. 31 «Se perciò qualcuno volesse replicare che proprio la disarmonia è una privazione, cioè una sottrazione dell’unità, nondimeno il concetto stesso di privazione, quand’anche includesse nella sua accezione quelli di sottrazione e separazione, rimarrebbe tuttavia in sé insufficiente. Non è infatti la separazione delle forze in sé a costituire da disarmonia, bensì la loro falsa unità» (SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., p. 371 [pp. 172s]). 32 IBER C., Prinzipien von Personalität in Schellings “Freiheitsschrift”, in BUCHHEIM T.  - HERMANNI F. (edd.), «Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunklen Grunde». Schellings Philosophie der Personalität, cit., p. 124.

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Rosmini, per la sua collocazione dello spirito in una dinamica fondamentale di amore escluderebbe che si possa chiamare tale forza distruttiva in qualche modo un “massimo dello spirito”, ma per il resto concorda nella costatazione che si tratta di una vera e propria distorsione. Ciò che in questo approccio diventa l’elemento caratterizzante della persona è che essa non è considerata come ontologicamente costituita e quindi “necessitata” dalla legge a realizzare un progetto che le venisse imposto, ma che proprio per la sua costituzione essa può completarsi e realizzarsi solo tramite l’azione. Una ulteriore conseguenza che caratterizza il paradigma rosminiano-schellinghiano di libertà è il fatto che il male non deriva dalla finitezza in quanto tale, «ma dalla finitezza elevata ad essere per sé stante»33: la possibilità del male, e quindi il dramma della libertà umana, non è una conseguenza necessaria della costituzione finita e limitata dell’essere umano34. Considerando positivamente gli apporti rosminiani ad una teorizzazione della libertà nell’esperienza dell’essere finito, si evince con chiarezza come fin ora nell’interpretazione del Roveretano prevaleva l’approccio tomistico-classico. Invece, con nessun altro termine si descriverebbe meglio l’intento della Filosofia positiva di Schelling così come quello della Teosofia di Rosmini che con il titolo di una metafisica della libertà35. Questa metafisica della libertà dal volto personalistico af33

SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., p. 402 (pp. 246s.). «Poiché, già la semplice riflessione che l’uomo, la più perfetta di tutte le creature visibili, è l’unico capace di male, mostra che il suo stesso fondamento non può assolutamente consistere nella mancanza o nella privazione» (SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., p. 368 [pp. 166s.]). 35 Cf. per questo aspetto, almeno per la parte schellinghiana, FRANZ A., Einheit und Freiheit, cit., p. 69. 34

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ferma che «[n]é la ragione né la legge, solo la singola persona può conoscere l’amore e la vita, volere e sperare in un Dio personale»36. La persona si costituisce quindi sempre in relazione ad altro, superando la sua egoità (che in Rosmini sarebbe la concezione meramente soggettiva del bene) e realizzando la libertà come «capacità del bene e del male»37, che non si identifica con una nuova “scienza positiva dell’esperienza”, come tanti la intendono, ma – come sottolinea il filosofo tedesco – con «qualcosa al di là di ogni esperienza»38. Superando i limiti che Kant, Fichte ed Hegel hanno imposto alla conoscenza razionalmente giustificata dell’essere assoluto, senza poter raggiungere più la realtà39, Schelling afferma similmente a Rosmini che «[s]e si parla di quel concetto dell’essere che prescinde dalle creature e da Dio e che è l’essere indeterminato, oggetto secondo noi della naturale intuizione[,] questo non è Iddio né la sua indeterminazione, ma è 36

TOMATIS F., Kenosis del Logos, cit., p. 105 E cita direttamente Schelling: «[p]oiché solo ciò che è personale può salvare ciò che è personale» (SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., 380 [pp. 194s.]). 37 CUSINATO G., Person und Selbsttranszendenz. Ekstase und Epoché des Ego als Individuationsprozesse bei Schelling und Scheler, (Orbis Phaenomenologicus. Studien, 29), Königshausen & Neumann, Würzburg 2012, p. 35. 38 Paulus-Nachschrift, 99f., in HUTTER A., Die positive Wirklichkeit der Person. Zur Kantrezeption in Schellings Spätphilosophie, in DANZ C. - LANGTHALER R. (edd.), Kritische und absolute Transzendenz. Religionsphilosophie und Philosophische Theologie bei Kant und Schelling, cit., pp. 98-114, p. 104. 39 «[C]he tutti quanti [Kant, Fiche ed Hegel] non raggiungano proprio la realtà ossia non l’abbiano raggiunta affatto, di ciò egli [Schelling] è profondamente convinto» (FRANZ A., Der Begriff des Monotheismus in Schellings Spätphilosophie, in DANZ C. - LANGTHALER R. (edd.), Kritische und absolute Transzendenz. Religionsphilosophie und Philosophische Theologie bei Kant und Schelling, cit., pp. 200216, p. 202).

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solamente il mezzo del conoscer nostro. […] Onde noi siamo soliti dire che l’essere indeterminato dell’intuizione è un’appartenenza di Dio e non ancora Dio […]. Quando dunque si parla del concetto dell’essere in Dio non si parla più dell’essere indeterminato. Tuttavia nell’uno e nell’altro essere c’è la stessa essenza, e sotto questo punto di vista non passa distinzione. Per questo chiamiamo divino l’essere indeterminato, benché non possiamo dargli il nome di Dio»40. Riassumendo, si può costatare per il paradigma rosminianoschellinghiano che solo un concetto di persona intesa come libertà e come realizzazione più autentica della volontà riesce, pertanto, a cogliere lo specifico della persona a differenza dell’essere materiale finito: «Il principio emerso dal fondamento della natura, per cui l’uomo è distinto da Dio, è l’ipseità in lui, che però diviene spirito attraverso la sua unità con il principio ideale»41. Schelling rifiuta la teoria leibniziana dei mondi possibili, e infatti anche nella Teosofia la creazione non appare come processo di restringimento delle possibilità che Dio intravede virtualmente nell’essere iniziale: ma piuttosto come una sua espressione positiva di sé. Analogamente vale anche per l’uomo: «[c]iò che rende possibile all’uomo il suo essere-libero, sarebbe quindi la sua propria struttura, di essere persona soltanto in quanto azione»42, non la capacità di scegliere tra molteplici possibilità virtuali. 40

T 848. Langthaler commenta un passaggio analogo di Schelling evidenziando come l’assoluto oltre la mera idea razionale è base di un rapporto vivo, interpersonale e religioso; cf. LANGTHALER R., Zu Schellings später Kritik, cit., p. 161. 41 SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., 364 (pp. 156s.). 42 CUSINATO G., Person und Selbsttranszendenz. Ekstase und Epoché des Ego als Individuationsprozesse bei Schelling und Scheler, cit., p. 40.

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3. Limiti di Schelling e prospettive rosminiane Dopo l’abbozzo non più che schematico di un “paradigma” rosminiano-schellinghiano della libertà nelle condizioni dell’essere finito, si deve almeno accennare a qualche profonda differenza che distingue i due, e se queste differenze smentiscono l’ipotesi della “paradigmaticità” qui proposta oppure la affermano, sarà accertato dal prossimo dibattito scientifico. La differenza, oltre i sistemi di pensiero già diversi a partire dai loro principi, concerne innanzitutto la comprensione della libertà in riferimento alla trascendenza e come realizzazione di amore, quindi quei capisaldi introno a cui ruota la proposta “paradigmaticità”. Mentre da un lato «[l]’amore che precede la dualità tra fondamento ed esistenza, viene chiamato da Schelling non-fondamento»43, e questo «fondo oscuro» si realizza tra gli uomini a differenza di Dio soltanto tramite la contemporanea dialetticità con l’egoità e quindi con il male, Rosmini colloca la libertà in un orientamento primordiale del principio soggettivo-reale verso il bene, e tale orientamento prefigura in maniera positiva l’amore. Per Schelling una tale originaria auto-determinazione personale del soggetto non è possibile. La persona, in questo modo, non si auto-determina, ma deve cercare di lasciarsi determinare completamente da quella forza dell’amore che in fondo come vero atto è solo e veramente un atto divino. Nell’uomo, invece, per Schelling ogni atto di amore sta sempre già in dialettica con il volere il male nel43

HENNINGFELD J., Friedrich Wilhelm Joseph Schellings “Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, Stuttgart 2001, p. 127; trad. it. M. K.

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l’egoità a cui appunto il soggetto deve cercare di sfuggire senza poterci mai riuscire perché ogni realizzazione del bene ha come presupposto dialettico la contemporanea realizzazione del male. A questo punto, Schelling stesso relativizza nuovamente la profondità della sua tematizzazione della libertà come espressione autenticamente morale della persona: la persona concreta, in fondo, può di nuovo soltanto farsi proprio ciò che nell’inconscio si era già determinato. Ciò conduce, in Schelling, non tanto alla libera auto-determinazione originaria della persona ma piuttosto a ciò che si potrebbe chiamare con lo stesso Schelling il “carattere”. Mentre Hutter non vede in questo una contraddizione all’affermazione della libertà, in quanto la vera libertà consisterebbe proprio nel fare oggetto di propria determinazione ciò che è il presupposto “caratteriale” di sé44. Da una prospettiva rosminiana, invece, è da affermare positivamente l’idea che la libertà si basa senz’altro su un presupposto che precede la scelta consapevole, mentre sembra problematica la determinazione di tale presupposto come «abisso oscuro», il che porta all’affermazione della compresenza di una certa «positività» nel male: «c’è bisogno di qualcosa di positivo, che quindi deve essere necessariamente ammesso nel male»45. Da una prospettiva rosminiana, la storicizzazione della personalità che non consente più di affermare una struttura costitutivo-relazionale della stessa, è senz’altro un punto problematico: l’unità sintetica della stessa è sempre in divenire, e ciò vale anche per la persona divina sebbene essa non può che realizzarsi come amore. In ogni caso vale pure per la per44 45

Cf. HUTTER A., Das geschichtliche Wesen, cit., p. 84. SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., 371 (pp. 172s.).

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sonalità divina che “persona” significa innanzitutto “non-identità”. Il principio della storicità dell’amore, per Schelling, sta nella differenza tra bene e male, e anche se essa non debba essere necessariamente attivata e realizzata nella sua dualità, la tentazione al male diventa in Schelling un vero e proprio presupposto necessario affinché l’uomo realizzi del bene46: solo attraverso il male e quindi attraverso l’alienamento del soggetto, esso diventa capace di amore e di ritrovare se stesso – ritrovarsi inserendosi in quel principio di amore assoluto che per lui stesso significa sempre una de-personalizzazione – e quindi di porsi nell’esperienza più radicale della libertà cioè nel peccato47. Per questo, ogni possibilità del bene nasce solo perché l’uomo è già nato nel male, e il male non entra nel mondo per una decisione volontaria di Adamo. In altre parole, Schelling valorizza la libertà umana tramite l’assegnazione di una vera scelta morale tra bene e male, ma porta comunque il conflitto tra bene e male al di fuori del concreto atto della volontà: tale conflitto è già insito nella costituzione trascendentale ossia pre-cosciente della volontà. Così per Schelling l’uomo è soltanto una «differenza senza fondamento nel tutto»48. Ma con questo, si spersonalizza la volontà individuale, e questa conseguenza da un punto di vista rosminiano, cioè personalistico, certamente sembra molto criticabile. In contrasto con questa concezione, diventa chiaro come per Rosmini tale conflitto può essere spiegato soltanto interpretandolo nella forma paolina come un disordine nella volontà 46

Cf. IBER C., Prinzipien von Personalität in Schellings “Freiheitsschrift”, cit., p. 127. Cf. SCHELLING F.W.J., Ricerche filosofiche, cit., p. 390s. (216-221). 48 GABRIEL M., Nachträgliche Notwendigkeit: Mensch, Gott und Urteil beim späten Schelling, in «Philosophisches Jahrbuch», 116 (2009), pp. 22-41, p. 36; trad. it. M. K. 47

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stessa la quale, ab origine, è orientata al bene. Infatti di nuovo si conferma qui come per Rosmini l’amore si realizza per aspirazione alla perfezione, non attraverso la sua presunta dialettica costitutiva con il male. Ovviamente, ogni concetto di perfezione esige un terminus ad quem, di cui l’approccio di Schelling manca, avendo la realtà divina la stessa struttura fondamentale della creatura, e trovandosi con essa nella scissione dal “fondamento”. Mentre l’amore in Schelling è sempre divino, in Rosmini è un autentico fenomeno della libertà umana, una espressione della sua personale realtà. 4. Conclusione: quale teodicea? Rosmini e Schelling affermano che la differenza del sapere filosofico da quello scientifico o solo storico sta nell’interiorità del primo49. Da questa visione della storia risulta anche una loro peculiare posizione rispetto al problema della teodicea, che in sede conclusiva può essere soltanto brevemente accennata. Per Schelling l’agire dell’uomo per il bene o il male è già predeterminato sin dalla prima sua scelta pre-cosciente e per questo «come l’uomo agisce qui, così ha agito per l’eternità e già nell’inizio della creazione»50. Per Schelling il problema della teodicea si risolve quindi perché tramite il rapporto tra fondamento ed esistenza si inscrive l’antagonismo tra bene e male nella costituzione dell’ente finito stesso. Di conseguenza, il male nel mondo si spiega tramite la prevalenza del principio di egoità a cui deve far fronte la realizzazione dell’amore. In 49 50

Cf. SCHELLING F.W.J., Über die Natur. IDEM, Ricerche filosofiche, cit., 387 (pp. 212s.).

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questo modo, nonostante la “giustificazione” del male, Schelling sa fondare in modo migliore rispetto alle concezioni trascendentali ed idealistiche l’impegno dell’uomo per il bene, non nel senso di una sua determinazione volontario-individuale, ma nell’impegno di porre la propria esistenza individuale e totale nella determinazione da parte del principio del bene. Già in questa dinamica risulta che solo nella religione tale determinazione etica della propria esistenza possa riuscire51. Il conflitto tra bene e male diventa un conflitto cosmico che sebbene nasca da una scissione previa alla stessa esistenza di Dio, in fin dei conti però non può essere che ricondotto al fondamento in Dio. A questo punto, certamente, si pone la domanda in quale misura Schelling sciolga davvero il nodo della teodicea52. Proprio a questo punto un dialogo con Rosmini può aiutare ad evitare questo esito paradossale: per Rosmini, infatti, l’antagonismo tra il bene e il male impegna il soggetto non come attore all’interno di un orizzonte cosmico, ma in prima persona, dove la sua costituzione finita è occasione positiva di realizzare la libertà come amore e quindi portare tale essere finito alla sua armonia53. Tale azione non si trova costitutivamente in conflitto con il male il quale viene accettato semmai, in buona tradizione cattolica, come risultato non-intenzionale 51

Cf. IBER C., Prinzipien von Personalität in Schellings “Freiheitsschrift”, cit., p.

134. 52

Cf. HÜHN L., Selbstentfremdung und Gefährdung menschlichen Selbstseins. Zu einer Schlüsselfigur bei Schelling und Kierkegaard, in BUCHHEIM T. - HERMANNI F. (edd.), «Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunklen Grunde». Schellings Philosophie der Personalität, cit., pp. 151-162, p. 156. 53 Cf. ROSMINI A., Teodicea, a cura di MURATORE U. (Ed. crit., 22), RomaStresa 1977.

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del progetto divino e umano: «in senso più proprio la storia si restringe a’ soli fatti volontarii, e questi concatenati fra loro, e succedentisi in un dato corso di tempo»54. Ciò non significa ridurre la realtà dell’amore all’atto di assenso che il soggetto dà all’ordinamento ideale intuito nell’idea dell’essere55, e questa interpretazione alquanto scolastica di Rosmini è appunto quella che impedisce di ricavare dal Roveretano quegli elementi che lo hanno posizionato come una vera alternativa alla filosofia del suo tempo e di oggi.

54

IDEM, Saggio sulla statistica, in IDEM, Filosofia della politica, Milano 1858, pp. 457-467, p. 461. 55 Cf. ESPOSITO C., Il problema della libertà dallo spiritualismo all’esistenzialismo, in DE CARO M., MORI M., SPINELLI E. (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014, pp. 305-335, p. 308-311.

327

328

L’ANTINOMIA ANTROPOLOGICA IN ROMANO GUARDINI Giuseppe D’Acunto 1. Mondo e persona Per Guardini, l’uomo si costituisce antropologicamente in quanto tale quando, percependosi come un essere non più a casa propria nella natura e spezzando il vincolo immediato che lo radicava in essa, si trova consegnato, così, al compito di ricostruirlo1. Proiettandoci poi, con un salto, nell’età medioevale, se qui egli si mette incondizionatamente nelle mani di Dio, con il formarsi del concetto moderno di cultura, invece, allungando la sua presa sull’essere «per foggiarselo come gli piace», revoca il precedente gesto di abbandono e «fa di sé il signore della propria esistenza». Il mondo lo ricostruisce ora come un’«opera sua propria»2 e non lo vede più come GIUSEPPE D’ACUNTO, Professore a contratto di Filosofia morale presso l'Università Europea di Roma. 1 GUARDINI R., Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di ZUCAL S., trad. it. di COLOMBI G., Morcelliana, Brescia 2000, p. 28, Il presente scritto riprende e sviluppa riflessioni contenute nel nostro vol.: Romano Guardini. Concretezza e opposizione, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2014. 2 IBIDEM, p. 32, in GUARDINI R., Libertà, democrazia e formazione umanistica. Punti di vista per una discussione, in IDEM, Scritti politici (= Opera Omnia, vol. VI), a cura di NICOLETTI M., Morcelliana, Brescia 2005, pp. 517-28, tale cesura epocale viene a sancire

329

un’opera divina, né lo sente come una minaccia, frontalmente contrapposta a lui. Complessivamente, mentre l’uomo medioevale si adoperava per un «perfezionamento del mondo inteso come opera di Dio», l’uomo moderno si presenta, invece, come un «realizzatore di opere [Werkender]». «Nell’opera dell’uomo si concentra il senso che in precedenza risiedeva nel mondo inteso come opera divina […]; l’agire dell’uomo non si inserisce più in un atteggiamento di servizio e di obbedienza nei confronti di Dio ma diventa “creazione [Schöpfung]”; l’uomo stesso, da adoratore e servitore, diviene “creatore [Schaffender]”. Tutto questo trova espressione nel termine “cultura”. […] L’uomo si protende ad afferrare l’esserci, per poi plasmarlo secondo la propria volontà. […] [T]oglie il mondo dalla mano di Dio e lo pone in se stesso; […] si distacca dalla potenza di Dio e fa di se stesso il signore del proprio esserci»3.

Nell’antropologia di Guardini, filosofica e teologica, fondamentale è, dunque, il rapporto dialettico che vige fra natura e cultura, libertà e destino, io e mondo, per cui anch’essa sta sotto il segno di quel concetto che ispira tutta la sua riflessione: il concetto di opposizione polare4. il momento in cui, poiché «la “forma” svanisce», si verifica un passaggio dall’«intuire [Anschauen]» all’«intendere [Intendieren]», dove quest’ultimo è concepito come quell’«azione che tende a sondare ogni progetto e possibilità operativa» (p. 522). 3 GUARDINI R., L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana (= Opera Omnia, vol. III/2), a cura di BORGHESI M., in collaborazione con BRENTARI C., trad. it. di BRENTARI C., Morcelliana, Brescia 2009, pp. 227-8. 4 Tesi interpretativa da noi sostenuta nel vol. citato per primo. Sull’antropologia di Guardini, in particolare, cf. NERI L., L’antropologia di Romano Guardini, Jaca Book, Milano 1989 e BISER E., Esplorazione dell’umano. Profilo dell’antropologia guardiniana, in AA. VV., La Weltanschauung cristiana di Romano Guardini, a cura di ZUCAL S., EDB, Bologna 1988, pp. 161-84.

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Circa le prime due coppie di termini, scrive il nostro autore: «La libertà senza destino è arbitrio vagante […]. Destino per contro senza libertà sarebbe fato; cupa costrizione senza significato. Solo tramite la libertà il destino raggiunge quel particolare carattere, che lo differenzia dalla necessità e secondo cui è “necessità nel personale”. Libertà e destino stanno tra loro come natura e cultura. […] Non sappiamo come sarebbe la natura pura […] senza l’uscita dai contenuti immediati […], senza indietreggiamento, il mettersi in contrapposizione quale signore di se stesso, senza faccia a faccia con l’altro»5.

Circa la terza precedente coppia di termini, Guardini muove, invece, da una tesi analoga a quella da cui muove anche Ortega y Gasset, secondo cui “io sono io più la mia circostanza”. Egli scrive: «“io sono per me il dato per eccellenza”: ciò […] che costituisce il presupposto per tutto il resto, al quale tutto riferisco e a partire dal quale m’accosto a tutto. In tutto dunque presuppongo me stesso. Ogni asserzione che pronunzio contiene, espressa o sottintesa, la parola “io”. Ogni azione che compio è sorretta da “me”. […] Io ci sono sempre: direttamente […] o indirettamente»6.

E ancora: 5

GUARDINI R., Riflessioni sul rapporto tra cultura e natura, in IDEM, Natura – Cultura – Cristianesimo, trad. it. di FABIO A. - SCANDIANI G. - COLOMBI G., Morcelliana, Brescia 1983, pp. 157-73: p. 171. 6 GUARDINI R., Accettare se stessi, trad. it. di PONTOGLIO G., Morcelliana, Brescia 1992, pp. 7-8. In merito alla proposizione “io sono”, Guardini nota che qui il verbo “essere” è sinonimo non di «un’astratta affermazione di realtà ma [di] un concreto atto di compimento dell’esistenza, che si dispone su diversi livelli quanto alla sua essenza, realtà ed energia». Cf. IDEM, L’uomo, cit., p. 183.

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«capire che io sono io, è per me la cosa che “si capisce da sé [selbst-verständlich]” in senso puro e semplice e comunica il suo carattere a ogni altra struttura di realtà»7.

Il passaggio dall’io al mondo si compie poi nel modo seguente. Noi, imbattendoci nella cosa, da quest’ultima ci sentiamo sollecitati ad interrogarne l’essenza. E qui che essa ci si dà, letteralmente, come ob-jectum, Gegen-stand: andando ad occupare lo spazio che ci sta di fronte, nella distanza che, in tal modo, si apre, si costituisce come un polo cui io, essenzialmente, co-appartengo. «Da questo incontro sorge il mondo»8.

Ne discende che l’io è «il vivente polo opposto rispetto al mondo», il quale esiste, primariamente, per me, come «ambiente che mi circonda», «al quale appartengo», «che incontro, nel quale agisco»9. Io che presenta, così, come si è appena visto, il carattere dell’“inemendabilità”. 7

IDEM, Mondo e persona, cit., pp. 156-7. Circa il fatto che il pronome “io” rappresenta, per Guardini, quel minimum di autocoscienza in cui «si dà, e si cela, il principio d’identità e di non-contradditorietà dello stesso soggetto», cf. FARRUGI M., L’incontro: realtà fondante nel pensiero di Romano Guardini, in «Rassegna di Teologia», 6 (1991), pp. 582-604: p. 584. 8 GUARDINI R., Gli ambiti della creatività umana, in ID., Natura – Cultura – Cristianesimo, cit., pp. 174-90: p. 177. 9 IDEM, Accettare se stessi, cit., p. 8. Determinando il rapporto fra mondo e persona nel segno dell’«incontro», Guardini fa dell’uno e dell’altra «due soggetti dialoganti. Entro questo schema interpretativo, il mondo, pur non cessando di essere oggetto in quanto realtà impersonale, assume il carattere di “segno” che rivela, di “dato” che rimanda, di “parola” pronunciata verso e per qualcuno» (cf. ASCENZI A., Lo spirito dell’educazione. Saggio sulla pedagogia di Romano Guardini, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 97).

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Ma il fatto che io sia “ovvio” a me stesso non vuol dire, certamente, che tutto di me mi è chiaro e trasparente. Io sono a me stesso, infatti, anche «strano, enigmatico», «sconosciuto»10, per cui, più che dire “io sono io”, dovrei forse dire “io non sono ancora completamente io, ma spero di diventarlo”, “io sono in cammino verso me stesso”. Acquisito il dato relativo alla polarità che vige fra io e mondo, vediamo ora meglio in che modo Guardini concepisce il secondo. Ebbene, egli lo concepisce come un «intero» che è attraversato da quella tensione in virtù di cui esso, come, da un lato, è «forma [Gestalt]», totalità dell’esistente, ed è ugualmente diffuso ovunque, così, dall’altro, giunge a concentrarsi puntualmente in me. In questo secondo caso, mondo si dà come sinonimo di «esistenza [Dasein]». «Il mondo […] è più delle cose. È quell’intero, entro il quale compaio io […]. E non compaio soltanto come una qualsiasi entità che si presenti, bensì in modo essenziale»11.

Di fronte al mondo come un tutto dato sta, dunque, l’uomo o, meglio, l’io e tale frontalità è indice di una qualità 10

GUARDINI R., Accettare se stessi, cit., p. 9. Al riguardo, Guardini, parla di una essenziale «non-autointelligibilità dell’esistenza» a se stessa, per significare che essa «è strana, problematica, inquietante, terribile, perfino misteriosa». Cf. IDEM, Religione e rivelazione, trad. it. di DE’ GRANDI G., Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 44 e 36. 11 IDEM, Mondo e persona, cit., pp. 90-1. Sui due significati del concetto di mondo, cf., IDEM, Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), a cura di MERCKER H., ed. it. a cura di NICOLETTI M. - ZUCAL S., Morcelliana, Brescia 2001. In un primo senso, esso indica «l’insieme di ciò che esiste indipendentemente dal mio intervento»; in un secondo, «l’insieme di ciò che nasce quando io incontro l’ente» (p. 55). In uno, è opera di Dio; nell’altro, è opera dell’uomo.

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radicale assoluta. A partire da essa, noi ci costituiamo, propriamente, come persone. In merito a ciò, Guardini parla anche di un duplice movimento, di «un gioco ininterrotto di atti di cui è tutta fitta la nostra vita quotidiana»: uno di «uscita», verso il fuori e l’esteriorità, e l’altro di «rientro»12, verso l’intimità del nostro io. Un movimento, questo, che segna la conquista della nostra nozione di tempo, nonché di un concetto vivente e relazionale di limite. «L’autentico limite è come la pelle: […] respira, sente»13.

Tornando alla persona, essa significa, innanzi tutto, «forma [Gestalt]»: un qualcosa i cui tratti costitutivi non solo sono esteriormente raggruppati in «figure [Formen]», ma stanno in contesti strutturali e funzionali tali che «di volta in volta l’elemento deve consistere ed essere compreso a partire dall’interno, e l’interno dagli elementi»14. E, a conferma di questo carattere di plasticità della persona, essa consiste in una tensione permanente fra un elemento statico, che ha durata, e un elemento dinamico, che diviene. Nel primo caso, è 12

GUARDINI R., Virtù. Temi e prospettive della vita morale, trad. it. di SOMMAG., Morcelliana, Brescia 1972, p. 182. 13 IDEM, Mondo e persona, cit., p. 104. In Etica, cit., Guardini, parlando del limite nel suo «significato fondativo», scrive che è proprio l’esperienza di esso ciò che, «insieme, pone l’identità e la differenza» (p. 509). Sul concetto di limite, in Guardini, declinato in rapporto con quello di antitesi e inteso, perciò, nella «sua natura di concetto di relazione»: come «suggerimento di ulteriorità, superamento, inizio di movimento» o, anche, non come «limite interno», ma come «limite di posizione», cf. LIPARI M. C., Antitesi e limite di normatività (attualità del pensiero di R. Guardini), in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 2 (1998), pp. 195244: pp. 235, 195 e 236. 14 GUARDINI R., Mondo e persona, cit., pp. 135-6.

VILLA

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solo «atto e nell’atto». Si dà, cioè, come «soggetto dell’atto [Akt-Subjekt] e come costante di intenzionalità [Intentions-Konstante]». Nel secondo, è un «centro-struttura [Struktur-Zentrum]», ossia presenta un nucleo di stabilità tale che gli atti personali non si dileguano, ma si solidificano in atteggiamenti durevoli, in abiti. «La vita è effettivamente vita non se guizza soltanto in atti sfuggenti o scorre negli eventi, ma se “diviene” vivente»15.

Persona significa, inoltre, anche individualità e personalità. Mentre, nel primo caso, essa si dà come una «singolarità [Einzigkeit] qualitativa»16, ossia come un essere che si distingue entro la specie cui appartiene nel segno di un valore proprio, nel secondo, invece, come un essere la cui vita è determinata dallo spirito. Precisando meglio che cosa debba intendersi per spiritualità, Guardini afferma che essa è sinonimo di intimità dell’autocoscienza, di percezione del valore cogente del dovere morale, nonché di attività con cui miriamo non a raggiungere uno scopo, ma a «rivelare un senso», a «creare una forma capace di esprimere»17. Forma, individualità vivente e personalità non esauriscono ancora, però, il concetto di persona, ma lo preparano soltanto. Là dove essa ha il suo luogo naturale è nella sfera dell’«autoappartenenza [Eigengehörigkeit]»18, ossia nel fatto che, in ogni 15

IDEM, Persona e personalità, trad. it. di BRINO O., Morcelliana, Brescia 2006, pp. 25-7. 16 IBIDEM, p. 37. 17 GUARDINI R., Mondo e persona, cit., p. 143. 18 IDEM, Persona e personalità, cit., p. 28. Qui, il concetto in questione è presentato come una riformulazione di quello tomista di subsistentia.

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sua manifestazione, «l’uomo sussiste in se stesso»19. E ciò in un modo tale che «i momenti dello statico e del dinamico sono una cosa sola»20. «Autoappartenenza» poi si dice in molti modi: essa si dà sul piano numerico (irripetibilità), sul piano qualitativo (singolarità), sul piano della coscienza, libertà e azione (responsabilità) e sul piano della dignità (aspetto trascendente). Ne discende che persona è un concetto ontico, non etico-religioso, né assiologico. «Anche chi è immorale e irreligioso è persona. L’uomo è persona per essenza. […] L’uomo è originariamente persona»21.

Venendo poi a ciò che è decisivo per la salute della persona, Guardini lo colloca nella giustizia, intesa come quell’ordine fondato sul «diritto dell’essenza», nonché nell’amore, inteso come quel libero aprirsi del nostro vedere e sentire grazie a cui, «acquista[ndo] realtà ciò che è proprio, […] tutto fiorisce»22. La persona, inoltre, non è una monade chiusa in se stessa e autosufficiente, ma le è essenziale il rapporto con le altre persone, per cui essa fa leva su una struttura del mondo policentrica. «Ogniqualvolta entro in un reale rapporto col “tu”, il mondo per me trova il suo centro e con ciò la sua complicazione»23. 19

IDEM, Mondo e persona, cit., pp. 154-5. IDEM, Persona e personalità, cit., p. 29. 21 IBIDEM, pp. 33-4. 22 GUARDINI R., Mondo e persona, cit., p. 154. 23 IDEM, Possibilità e limiti della comunità, in IDEM., Natura – Cultura – Cristianesimo, cit., pp. 36-54: p. 52. 20

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Come a dire che l’uomo si trova per essenza nel dialogo. «La vita spirituale è orientata ad essere partecipata, condivisa»24.

E, quando si parla di partecipazione, la si deve intendere non solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale, in rapporto alla Persona assoluta: Dio. «Senza di essa la persona finita non può esistere. Non solo perché Dio mi ha creato e in ultima istanza trovo solo in Lui il senso della mia vita, ma perché io sussisto soltanto diretto a Dio. […] Il mio essere “io” […] consiste essenzialmente nel fatto che Dio è il mio “tu”»25.

E ancora: «L’uomo non esiste che in quanto riferito a Dio, perciò il suo 24 IDEM, Mondo e persona, cit., p. 167. In questo riconoscimento relativo al fatto che l’“io” non può sussistere al di fuori del rapporto con un “tu”, ASCENZI A., Lo spirito dell’educazione, cit., coglie l’influenza su Guardini della «“dialogica dell’incontro” teorizzata da Martin Buber» (p. 71). Circa il rapporto intercorso fra Buber e Guardini, in GERL H.-B., Romano Guardini. La vita e l’opera, trad. it. di SCHARF B., Morcelliana, Brescia 1988, leggiamo che, dopo la lettura dell’opera Ich und Du (1923) del primo è «da supporre che [il secondo] la confrontasse con il pensiero degli opposti» (pp. 154-5). Su questo rapporto, cf. anche KRIEG R.A., Martin Buber and Romano Guardini. Case Study in jewish-catholic Dialogue, in AA. VV., Humanity at the Limit: the Impact of the Olocaust. Experience on Jews and Christians, a cura di SIGNER M. A., Indiana University Press, Bloomington (In) 2000, pp. 138-47. Infine, su Guardini come «uomo del dialogo», cf. DIRKS W., Romano Guardini: der Mann des Gesprächs, in AA. VV., Guardini Weiterdenken II, a cura di MAIER H. - SCHILSON A. - SCHUSTER H. J., Dreieck Verlag der Guardini Stiftung, Berlin 1999, pp. 275-83, dove leggiamo, a proposito dei suoi stessi scritti, che essi «hanno spesso il carattere di un dialogo immaginario con il lettore» (p. 275). 25 GUARDINI R., Mondo e persona, cit., p. 173.

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carattere viene definito dal modo stesso in cui egli concepisce questa relazione, dalla serietà con cui la considera, dall’azione che, in base ad essa, egli compie. […] Dio è la realtà che fonda ogni altra realtà, anche l’umana»26.

Analizzando alcune formule paoline relative alla struttura dell’io cristiano, Guardini ne può concludere, così, che l’uomo è un essere votato naturalmente a trascendersi: innanzi tutto, entro i confini del mondo e poi, in una forma più autentica, al di là del mondo, in Dio. In merito a quest’ultimo punto, molto indicativo è il fatto che la citazione che fa da exergo a L’uomo – ma anche a Mondo e persona – sia data dal seguente pensiero di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo»27.

Gli fa eco Guardini quando scrive: «Per essere uomo, l’uomo ha bisogno di qualcosa di più di se stesso. […] [L]’uomo realizza il suo esser-uomo solo nell’orientamento costante a quel più di se stesso [auf jenes Mehr hin]. [… ] Essere uomo significa quindi essere in rapporto a qualcosa che ci sovrasta».

Sta tutta qui, in fondo, la chiave della dialettica che attraversa l’«unità vivente»: nel fatto che la vita ha un «carattere teleologico» e che ogni nostra tensione verso uno scopo si dispiega sempre come «un processo in cui l’unità del Sé si infrange», nel senso che quella parte di esso «inviata verso il fine 26

IDEM, Il potere. Tentativo di un orientamento, trad. it. di PARONETTO VALIER M., Morcelliana, Brescia 1954, p. 114. 27 Fr. 131 dell’ed. Lafuma, 434 dell’ed. Brunschvicg e 438 dell’ed. Chevalier.

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(l’oggetto a cui si tende)», ricomponendosi dopo l’“urto” con quest’ultimo, va a costituire «una nuova, più completa unità». In tal modo, l’uomo ha la possibilità di «esistere al di là di sé pur restando all’interno del limite biologico, in una tensione che continuamente si riapre e che, nel proseguire dell’atto, sempre ritorna all’unità»28. Per quanto riguarda la sfera del vivente, Guardini ne trae, così, una legge fondamentale: quella per cui esso «trova il suo compimento nel dirigersi verso il livello che gli è superiore», «verso qualcosa di altro da sé», su cui «non ha giurisdizione», che «sussiste autonomamente e agisce di propria iniziativa». Ne discende che una tale legge non può non trovare la sua più compiuta espressione – lo abbiamo appena visto – nel rapporto personale: quello che si dà fra un io e un tu. «Ciò che è inizialmente dato è sempre un Sé estraneo, e nulla assicura che esso diverrà per me un Tu; […] [l’uomo diviene tale solo se] lo riconosco come un centro autonomo e indipendente e […] ammetto che anche lui […] è il centro del mondo, un centro totalmente e assolutamente indipendente da me. […] [S]olo allora egli diventa per me un Tu personale e io divento per lui un Io personale. È in questa liberazione dell’altro che sta fuori di me che io raggiungo il livello superiore del Sé, quello della personalità»29.

Guardini chiama eros quel «movimento attraverso il quale la vita umana si stacca dall’iniziale centro di gravità per trovare 28

GUARDINI R., L’uomo, cit., pp. 291-3. Sul tema del trascendimento, in Guardini, come tratto costitutivo dell’esistenza umana, cf. INNASCOLI L., Condizione umana e opposizione nella filosofia di Romano Guardini. Genesi, fonti e sviluppi di un pensiero, Aracne, Roma 2005, pp. 118-24. 29 GUARDINI R., L’uomo, cit., pp. 297-8.

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una nuova direzione e un nuovo punto di riferimento in altro», con l’aggiunta che, se questo altro è una persona, allora, il movimento in questione prende il nome di «amore»30. Quando si dà quest’ultimo, però, ecco che al movimento che si dirige in avanti ne corrisponde un altro, completamente opposto, che si ritrae indietro. «Nella misura in cui io dò libertà all’essere, visto dapprima come oggetto, di assumere l’atteggiamento dell’“io” che si presenta muovendo dal proprio centro, e gli consento di divenire il mio “tu”, trapasso anch’io, dall’atteggiamento del soggetto che utilizza o lotta, in quello dell’“io”».

Non appena l’io si dirige, autenticamente, verso un tu, accade, infatti, che «qualcosa sboccia»: si dissolve quello schermo che è dato dall’«“oggettività cosale” dell’atteggiamento con cui si agisce». «Guardando come “io” verso l’altro, divengo aperto e mi “mostro”. Tuttavia il rapporto rimane incompiuto, se non si avvia lo stesso movimento anche a partire da là, in quanto l’altro consente a me di divenire il suo “tu”»31.

Ciò che qui si dà è, cioè, una vera e propria figura di “riconoscimento”, nel senso che il primo “io”, nel movimento con cui va incontro verso la responsabilità dell’altro, si fa carico, a sua volta, della propria responsabilità e, solo così, può apparire ai suoi occhi come quella realtà unica e irripetibile che appartiene a se stessa.

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IBIDEM, p. 300. GUARDINI R., Mondo e persona, cit., p. 164.

2. Bene e coscienza In Guardini, alla stessa figura della polarità cui è improntato il rapporto fra mondo e persona sono improntate anche le forme dell’azione libera, nonché la dialettica che, nell’uomo, si dà fra bene e coscienza. Partiamo dalle prime. Al principio dell’atto libero sta l’unità indivisa dell’io. Essa, nel corso dell’azione, si scinde: si fa strada il momento dell’iniziativa. «Il momento dell’iniziativa determina il salto qualitativo tra il mondo organico e quello degli esseri viventi. […] La polarità esterno/interno compie un passo in avanti, e diventa polarità fra regno di natura e dimensione spirituale. Lo spirito in quanto […] persona […] possiede se stesso nella coscienza, nella libertà e nell’azione. È per sé; può esistere presso di sé, e in sé; può anche uscire da sé, e a sé ritornare. In questo modo lo spirito è, rispetto alla natura, “intimo” in un modo totalmente nuovo»32.

Grazie all’iniziativa, noi ci distacchiamo da noi stessi, valutiamo le possibilità che ci si prospettano e ne eleggiamo una. Realizzandola, ricomponiamo «una nuova unità», la quale «porta […] in sé la tensione superata ed ha perciò un nuovo significato». L’atto libero si realizza, così, in due direzioni: verso il “fuori”, scavalcando la staticità della situazione in cui noi, di volta in volta, ci troviamo, e verso il “dentro”, aderendo dinamicamente all’istanza stessa che ci porta ad agire. 32

IDEM, Fondazione della teoria pedagogica, in IDEM., Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, a cura di FEDELI C., trad. it. di FABIO A. - FEDELI C. - SOMMAVILLA G., La Scuola, Brescia 1987, pp. 49-92: p. 71.

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«I due modi […] non vanno mai completamente disgiunti. Certamente predomina ora l’uno ora l’altro a seconda delle disposizioni di colui che agisce, ma sempre deve esserci, di volta in volta, anche la forma opposta. Non ancorata all’espressione dell’essenza, la scelta si distaccherebbe dalla realtà della vita, diverrebbe arbitrio; senza la modalità della scelta, l’espressione della libertà cadrebbe sotto la costrizione dell’essere. Le due forme dell’atto costituiscono i poli di un fenomeno complessivo, il quale, come avviene nell’esistenza concreta, si caratterizza particolarmente ora per un aspetto, ora per l’altro»33.

In definitiva, l’articolazione che si stabilisce fra i due momenti in questione – fra l’esperirmi come appartenente a me stesso nella sovranità dell’atto della scelta oppure nell’adesione alla mia più intima essenza nell’azione – è un dato irrinunciabile, affinché non vada persa «la struttura concreta, antitetica dell’esperienza della libertà»34. «La libertà è autoappartenenza. Ne faccio esperienza in duplice forma. […] Tutte e due le volte, l’azione non “transita” attraverso di me, ma nasce in me e da me; e così mi appartiene in una specifica modalità, denominata esattamente con la parola “libertà”»35.

A partire dal modo in cui la decisione si trasfonde in azione, così che l’atto, iniziando nella sfera del “dentro” – dove, sia chiaro, in tutto e per tutto, è già reale – si traduce in 33

IDEM,, Libertà – Grazia – Destino, trad. it. di PARONETTO VALIER M. COLOMBI G., Morcelliana, Brescia 1957, p. 21. 34 IDEM, La libertà vivente, in IDEM, Natura – Cultura – Cristianesimo, cit., pp. 55-74: p. 62. Questo saggio è compreso anche in GUARDINI R., Persona e libertà, cit., pp. 93-116: p. 102. 35 IDEM, Fondazione della teoria pedagogica, cit., p. 58.

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quella del “fuori”, arriviamo, così, alla dialettica fra bene e coscienza. Ebbene, definito il primo nei termini di un valore, ossia come una realtà dal profilo oggettivo che comporta un’incidenza positiva anche sul piano soggettivo36, ne discende che l’organo che, in noi, corrisponde ad esso, che «riconosce la validità»37, è, appunto, la coscienza. Quest’ultima è, infatti, conoscenza e «conoscenza del valore»38, in particolare. «Le varie espressioni linguistiche, dal greco syneidesis, al latino conscientia, che si ripropone nell’italiano “coscienza”, al tedesco Gewissen, hanno qualcosa in comune: esprimono una modalità di conoscenza, una conoscenza che si ripiega su se stessa, che penetra se stessa, sapere-con-se-stesso. Dunque un qualcosa di interiore e intenso che concerne il centro della vita»39. «È qualche cosa di più che il puro “sapere qualche cosa”. Significa consapevolezza di qualche cosa. Vi è incluso dunque un carattere di interiorità; significa un aver presso di sé; un trovarsi, da solo a solo, con qualche cosa; un abbracciare e un penetrare»40. 36

Sulla nozione di valore, in Guardini, cf. CANTILLO G., L’Ethik di Romano Guardini nell’orizzonte dell’etica del Novecento, in AA. VV., Tra coscienza e storia. Il problema dell’etica in Romano Guardini, a cura di NICOLETTI M. - ZUCAL S., Morcelliana, Brescia 1999, pp. 79-102, il quale afferma che il filosofo, recuperandone «una dimensione ontologica e oggettiva», lo pone, al tempo stesso, immediatamente «in rapporto […] con un atteggiamento, una funzione del soggetto, sia esso inteso come soggetto empirico o come soggetto trascendentale» (p. 88). 37 GUARDINI R., Religione e rivelazione, cit., p. 72. 38 IDEM, Etica, cit., pp. 121-2. 39 IBIDEM, p. 119. 40 GUARDINI R., La coscienza [Gewissen]. Il bene – il raccoglimento, trad. it. di DELUGAN G. - COLOMBI G., Morcelliana, Brescia 19972, p. 16.

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E il fatto che il bene sia un qualcosa che noi “abbracciamo” e “penetriamo”, fa pensare ad esso come ad un che di positivo, anzi, come ad una «positività pura e semplice». Ad un che oltre il quale «non posso spingermi», che «esiste in sé» e che presenta un carattere «concreto-vivente», cui si accede – in base a quanto già stabilito da Guardini nel suo testo del 1925: L’opposizione polare [Der Gegensatz] – intuitivamente. Che è dotato di un «contenuto […] infinito», di una «ampiezza incommensurabile», di una «pienezza inesauribile», di una ricchezza dal «valore incalcolabile». In una parola, che è indice di una «semplicità perfetta»41. Il bene è, inoltre, un qualcosa che ci domanda imperativamente di essere tradotto in atto, richiesta [Anspruch] il cui significato, per noi, dipende dalla situazione in cui, di volta in volta, ci troviamo. «Il bene non diventa realtà, se non lo attuo».

E attuarlo significa non tanto procurare il semplice adempimento di una legge, l’esecuzione di una norma, quando infondere vita semplicissima e infinita in una «realtà finita ed umana», la quale, in tal modo, «consegue una pienezza di senso eterna»: «fare il bene equivale perciò a una vera creazione. Non è semplice esecuzione di un ordine, ma attuazione creatrice di qualche cosa che ancora non è»42. 41

IBIDEM, pp. 17-8. Sul bene come «un contenuto sommo», «non deducibile da nient’altro, […] al di sopra del quale non sta nulla, neppure la verità», cf. GUARDINI R., Etica, cit., p. 491. 42 IDEM, La coscienza, cit., p. 21.

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Una creazione che si configura, però, al contempo, anche come una forma di obbedienza43. Infatti, il mondo ci si dà sempre, in parte, come incompiuto e noi, raccogliendo le sollecitazioni che ci vengono dall’ambiente che ci circonda e portandole a compimento attraverso l’attività morale, imprimiamo, così, ad esso, l’«impronta del bene»44. La coscienza può apparire, allora, a Guardini, come la vera e propria «culla della storia»: la porta attraverso cui, grazie alla libera iniziativa umana, l’«eterno entra nel tempo»45. Davanti a noi, nulla è già predeterminato. Tutto ammette diverse interpretazioni e ci prospetta una pluralità di direttive per l’azione. Per cui, è proprio la coscienza che, assumendosi l’onere della decisione, si impegna nella responsabilità di mantenerla e di portarla a compimento46. «Perché si possa realmente parlare di coscienza, deve quindi essere aperto lo spazio interiore della libertà; la persona […] dev’essere padrona della sua capacità di iniziativa. Solo così si instaura quell’interiore confronto tra la percezione del cuore e il vincolo del bene che è inteso con l’esperienza della coscienza»47.

L’iniziativa morale costituisce, così, il punto di partenza 43

Sull’obbedienza come la «risposta alla chiamata della coscienza», cf. IDEM, Etica, cit., p. 485. E così prosegue: «l’essere chiamati alla moralità non è la constatazione di una validità in astratto, ma un incontro personale; obbedienza significa che l’uomo compie questo incontro». 44 IDEM, La coscienza, cit., p. 22. 45 IBIDEM, p. 26. 46 «Essere uomini significa […] essere responsabili del mondo». Cf. GUARDINI R., Etica, cit., p. 54. 47 IBIDEM, p. 123.

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dell’azione: ciò rispetto a cui io sono «origine [Ur-sprung]», «autentico cominciamento». Si produce, cioè, un incrocio che vede coinvolte due polarità, nel senso che, come la mia azione mi appartiene realmente, così, «nel compierla, sono in possesso di me stesso». O, ancora, come io sono calato, a tutti gli effetti, nell’azione, così quest’ultima, «sta per me, “è” me stesso»48. E tutto ciò, in poche parole, è proprio quel che significa essere-responsabile, nel senso che, nel promuovere un’azione, mi trovo affidato, interamente, alla mia iniziativa, a me che, con essa, ho corrisposto all’incondizionatezza dell’esigenza morale, rimanendo, però, sempre libero e non necessitato. Come a dire che il bene o il male da me compiuti si inquadrano in un unico contesto significante, positivo o negativo: l’«imputabilità»49. Abbiamo richiamato, in precedenza, il nome di Ortega y Gasset. Ebbene, oltre la tesi “io sono io più la mia circostanza”, Guardini coincide con il pensiero del filosofo spagnolo anche riguardo allo sviluppo che egli imprime ad essa. Dalla tesi in questione, discende, infatti, che solo se “salviamo” la realtà che ci circonda, “salviamo” anche noi stessi. Gli fa eco Guardini nel momento in cui scrive: «quando si tratta di attuare quello che forma il supremo senso della situazione, cioè il bene, è in gioco l’ultimo significato della mia vita, la mia salvezza»50.

È così che in una ricognizione ulteriore del concetto di 48

IBIDEM, p. 128. IBIDEM, p. 130. 50 GUARDINI R., La coscienza, cit., p. 33. 49

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bene, la definizione, in qualche modo, ultimativa di esso è la seguente: «è la santità vivente di Dio».

Sviscerando un po’ più a fondo l’imperativo del dovere morale, Guardini arriva, così, inevitabilmente, su un terreno mistico, religioso. «Quello che alla superficie significa coscienza morale, nelle sue ultime radici è il “fondo dell’anima”, la “scintilla dell’anima”»51.

Guardini esprime tutto ciò anche con le seguenti parole: «Là, dove il nostro essere confina interiormente, quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. […] Non come un alcunché di impersonale, ma come un “io”, al quale è possibile rispondere con un “tu”».

Ritorniamo, in tal modo, alla polarità fra mondo e persona, perché, come ogni uomo è il centro del mondo, così quest’ultimo si trova anche, al tempo stesso, sempre “di fronte” a lui, nel Tutto. «La tensione vivente fra questi due fuochi si rinnova continuamente nella situazione».

E la polarità dialettica fra di essi non è altro che il modo attraverso cui si esplica l’azione della Provvidenza stessa. «In entrambi i modi parla Dio: dall’interno coll’incalzare della coscienza, dall’esterno con la disposizione delle cose. La parola dell’uno è chiarita dalla parola dell’altro»52. 51 52

IBIDEM, p. 38. IBIDEM, pp. 41-2.

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In conclusione, se la coscienza, alla luce di quanto abbiamo visto fin qui, è un’«intesa [Einverständnis] con Dio», ebbene, un tale «“intendere [Verstehen]” […] [è] più che un semplice “sapere [Wissen]”»: «è piuttosto un penetrare, un avanzar in profondità e in interiorità; un esser dentro fino in fondo»53.

Il punto è che l’uomo non solo sta in ascolto, accetta e obbedisce, ma, prima ancora di tutto ciò, egli si è già inteso con Dio, ha già stipulato un’alleanza con Lui, dichiarandosi disponibile ad ascoltarLo, nonché ad obbedire alla Sua volontà. I termini di questa “intesa” sono consegnati al Padre Nostro, attraverso le cui formule essi sono diventati preghiera54.

53

Sul comprendere [Verstehen] come un «rapporto di vita, costituito da esseri, […] in ciascuno dei quali è viva un’interiorità», cf. GUARDINI R., Comprensione e accettazione, in AA. VV., Filosofi tedeschi d’oggi, a cura di BABOLIN A., il Mulino, Bologna 1967, pp. 128-46: p. 130. 54 Sul Padre Nostro come «preghiera che rivela chiaramente il volto del Padre», cf. GUARDINI R., Il messaggio di san Giovanni. Meditazioni sul testi dei discorsi dell’addio e della prima lettera, trad. it. di FRUMENTO G., Morcelliana, Brescia 1972, p. 79. Per un’analisi puntuale di questa preghiera, cf. IDEM, Preghiera e verità. Meditazioni sul Padre Nostro, trad. it. di ROSSI M. L. - MARASCHINI M., Morcelliana, Brescia 1973.

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LE POLARITÀ SOCIALI E IL PARADIGMA TECNOCRATICO. ROMANO GUARDINI NEL PENSIERO DI J. M. BERGOGLIO Massimo Borghesi 1. La tesi su Guardini del 1986 Nel 1986 Jorge Mario Bergoglio, il futuro papa Francesco, si reca dall’Argentina in Germania, presso la Facoltà filosoficoteologica Sankt Georgen di Francoforte, per una tesi di dottorato. L’argomento verteva sul pensiero di Romano Guardini. Di fatto il soggiorno tedesco di Bergoglio si limiterà a pochi mesi e il lavoro non avrà svolgimento1. Al punto che taluni hanno ipotizzato che esso non sia mai iniziato e, dopo tutto, che non abbia lasciato traccia nel pensiero dell’autore. Così Sandro Magister ha potuto scrivere di «Guardini, un “maestro” che Bergoglio non ha mai avuto»2. Per il commentatore: «Nell’intervista di papa Francesco a “La Civiltà Cattolica”, in cui egli dedica ampio spazio ai suoi autori di riferimento, Guardini MASSIMO BORGHESI, Professore ordinario di “Filosofia morale” nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. 1 Cf. HIMITIAN E., Francisco – El papa de la gente, Aquilar, Buenos Aires 2013, trad. it. di CADELLI E. - CUSINATO M., Francesco. Il papa della gente, trad. it., Rizzoli, Milano 2013, pp. 91-95. 2 MAGISTER S., Guardini, un “maestro” che Bergoglio non ha mai avuto, http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/10/21/.

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non c’è. Ma soprattutto c’è una profonda distanza tra la visione di Bergoglio e quella del grande teologo italo-tedesco, sia nel campo della liturgia (dove invece è fortissimo il suo influsso su Joseph Ratzinger), sia nella critica alla società moderna, sia nella concezione della coscienza personale»3. Nel suo articolo Magister escludeva categoricamente la filiazione Guardini-Bergoglio.Guardini “maestro” di Ratzinger non poteva esserlo, in pari tempo, del gesuita argentino. Una tesi, questa, condizionata da una serie di stereotipi – Ratzinger tradizionale e fine teologo; Bergoglio progressista e pragmatico – destinata ad essere smentita dall’uscita di una nuova biografia, ad opera di Javier Camara e Sebastian Pfaffer, dal titolo Aquel Francisco4. Da essa risultava come lo studio del pensiero di Guardini non fosse il mero spunto occasionale di una breve permanenza in Germania ma un motivo rilevante di interesse. Una informazione che induceva Magister a rettificare il giudizio dato in precedenza5. Dal 1990 al 1992 Bergoglio, esautorato di ogni carica nella Compagnia di Gesù della quale era stato il superiore in Argentina, è in “esilio” a Cordoba, 700 km da Buenos Aires. «A Cordoba – rivela Bergoglio in Aquel Francisco – ripresi a studiare per vedere se potevo procedere un poco nella stesura della tesi di dottorato su Romano Guardini. Non riuscii ad ultimarla, ma quello studio mi ha aiutato molto per ciò che mi è accaduto dopo, compresa la scrittura dell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, la cui sezione 3

IBIDEM. CAMARA J. – PFAFFEN S., Aquel Francisco, Editorial Raíz de dos, Buenos Aires 2014. 5 Cf. MAGISTER S., Padre Jorge e i suoi confratelli. Perché vollero liberarsi di lui, http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/12/17. 4

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sui criteri sociali è tutta ripresa dalla mia tesi su Guardini»6. L’affermazione, contenuta nella biografia, è di fondamentale importanza per chiarire il rapporto ideale che incorre tra Bergoglio e Guardini. Essa, contrariamente a quanto aveva affermato Magister, consente di ipotizzare che a Francoforte l’autore aveva quanto meno iniziato il suo lavoro; che l’idea dello svolgimento della tesi non era venuta meno così da trovare uno sviluppo a Cordoba: «Non riuscii ad ultimarla»; che la tesi aveva trovato, almeno per una parte, effettivo svolgimento dal momento che la sezione sui criteri sociali della Evangelii gaudium è «tutta ripresa dalla mia tesi su Guardini». Il terzo punto mostra, oltre ogni ragionevole dubbio, come il progetto tedesco sia rimasto un punto fermo, un fattore presente nella riflessione del magistero pontificio. Il che viene riconosciuto dallo stesso Magister: «Ed è proprio così. Nella Evangelii gaudium c’è una citazione di Guardini, dal suo saggio “La fine dell’epoca moderna”. E questa si trova all’interno della sezione (nn 217-237) nella quale papa Francesco illustra i quattro criteri che a suo giudizio devono promuovere il bene comune e la pace sociale: 1. Il tempo è superiore allo spazio; 2. L’unità prevale sul conflitto; 3. La realtà è più importante dell’idea; 4. Il tutto è superiore alla parte. Anche questi criteri sono continuamente presenti in papa Francesco. Non solo nella sua predicazione ma anche nel suo modo di governare la Chiesa»7. Nel suo articolo della fine del 2014 Magister rettifica, pertanto, il suo giudizio precedente. Ora Guardini è un “maestro” che Bergoglio ha avuto. Un maestro ideale, s’intende. 6

Cit. in: CAMARA J. – PFAFFEN S., Aquel Francisco, cit. in: MAGISTER S., Padre Jorge e i suoi confratelli. Perché vollero liberarsi di lui, cit. 7 MAGISTER S., Padre Jorge e i suoi confratelli. Perché vollero liberarsi di lui, cit.

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La tesi di dottorato, del 1986, mai portata a termine, ha lasciato un segno profondo. Dalla confessione contenuta nella biografia di Camara – Pfaffer possiamo comprendere anche quale fosse, almeno in parte, il contenuto del lavoro: il sistema delle polarità viventi teorizzato da Guardini nel suo volume del 1925 “Der Gegensatz. Versuch zu einer Philosophie der Lebendig-Konkreten” 8 . È questo sistema, infatti, che spiega la concezione dei quattro principi e delle tre coppie polari che papa Francesco utilizza per dar ragione dei criteri sociali nella Evangelii gaudium. Un paradigma impiegato, precedentemente, anche nell’importante saggio del 2011 Nosotros como ciudanos, nostro como pueblo 9 . La confessione del papa nella sua biografia lascia invece in sospeso se il suo progetto originario di lavoro prevedesse l’altro tema guardiniano che, come documenta l’enciclica Laudato sì, ha influenzato Bergoglio: quello della critica al paradigma tecnocratico, all’aumento indiscriminato di un potere senza controllo che Guardini sviluppa nei suoi testi Das Ende der Neuzeit del 1950, e Die Macht, del 195110. 8

GUARDINI R., Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Grünewald, Mainz 1925 (1955, 2° ediz.), trad. it. di ANELLI A, L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, in: GUARDINI R., Scritti di metodologia filosofica, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 65 – 241. 9 BERGOGLIO J.M., Nosotros como ciudanos, nosotros como pueblo. Hacia un Bicentenario en justicia y solidaridad 2010-2016, Editorial Claretiana, Buenos Aires 2011; trad. it. di PISTOCCHI B., Noi come cittadini noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, presentazione di TOSO M., Libreria Editrice Vaticana - Jaca Book, Città del Vaticano, Milano 2013. 10 GUARDINI R., Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung, Hess Verlag (Basel) / Werkbuch-Verlag (Würzburg), 1950, trad. it. di PARONETTO VALIER M., La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1960; IDEM, Die Macht. Versuch einer Wegweisung, Wekbund, Würzburg 1951, trad. it. di PARONETTO VALIER M., Il potere. Tentativo di un orientamento, Morcelliana, Brescia 1963.

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Comunque sia è certo che il pensiero di Romano Guardini, con il suo sistema del concreto vivente e la sua critica al tecnicismo moderno, appare come un punto di riferimento essenziale per Jorge Mario Bergoglio. Se per il secondo fattore l’apporto del pensatore italo-tedesco non è l’unico, per il primo, invece, è decisivo. Bergoglio ha trovato in Guardini un modello “sintetico”, “integrale”, un paradigma “cattolico” capace di dar ragione e al contempo di abbracciare i principali contrasti personali-sociali-politici che tendono a cristallizzarsi in contraddizioni dialettiche foriere di pericolosi conflitti. 2. Il quadro delle polarità e l’idea di bene comune Questa esigenza, che motiva l’incontro tra Bergoglio e Guardini, era espressa da quest’ultimo in una lettera della fine del 1967, di poco precedente la sua morte: «Nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” c’era un articolo del corrispondente dal vaticano su un libro appena apparso del Prof. Guitton. Questi riassume il risultato di diversi colloqui con il papa PaoloVI e mostra il carattere spirituale e l’intenzione del Papa: non semplicemente governare, ma instaurare un dialogo con chi ogni volta rappresenta l’ “altro”. L’essenza di questo procedimento consiste nel fatto che l’altro non appare come avversario, ma come “opposto”, e i due punti di vista, tesi e antitesi, vengono portati all’unità. Poi l’autore cita i nomi di personalità che sostengono lo stesso metodo, per la Germania cita il mio. Considerando l’importanza che oggi ha l’idea del dialogo, allora vede che è arrivato il momento giusto per il mio libro sull’ Opposizione. L’abbiamo già detto anche esplicitamente. La teoria degli opposti è la teoria del confronto, che non

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avviene come lotta contro un nemico, ma come sintesi di una tensione feconda, cioè come costruzione dell’unità concreta»11.

Guardini coglieva qui, come in una sorta di testamento, il significato ultimo del suo pensiero. La scoperta di una serie fondamentale di polarità viventi nel suo lavoro del 1925 aveva come intento quello di superare i contrasti profondi che segnavano la generazione che, uscita dalle macerie della prima guerra mondiale, trovava ovunque solchi profondi ed odi apparentemente insanabili. Si collocava, idealmente, in alternativa alla dialettica amico-nemico che avrebbe costituito, a partire dalla fine degli anni ’20, la cifra della teologia politica di Carl Schmitt12. I poli della vita, gli opposti, sono tali quando non vengono assolutizzati, quando l’uno non esclude l’altro ma lo presuppone. La polarità si vieta di scadere nel manicheismo, nel regno delle “contraddizioni” che non ammettono conciliazione. In una sorta di tavola delle categorie Guardini enuclea il quadro degli opposti dividendoli in “categoriali” e “trascendentali” 13. Tra i categoriali tre coppie appartengono agli opposti intraempirici e tre a quelli transempirici. Complessivamente la serie è data dalle coppie atto-struttura (Akt-Bau), informaleformale (Fülle-Form), singolarità-totalità (Einzelheit – Ganzheit), produzione-disposizione (Produktion-Disposition), originalità-regola (Ursprünglichkeit – Regel), immanenza-trascendenza (Imma11

GUARDINI R., Lettera a Jacob Laubach del 21-11-1967 (Bayerische Staatsbibliothek di Monaco), cit. in: H. B. Gerl-Falkovitz, Introduzione a: GUARDINI R., Scritti di metodologia filosofica, cit., p. 22. 12 Sulla teologia politica di Carl Schmitt cf. BORGHESI M., Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, Marietti, Genova-Milano 2013, pp. 165-202. 13 Sul sistema polare guardiniano si cf. BORGHESI M., Romano Guardini. Dialettica e antropologia, Studium, Roma 1990 (2° ediz. 2004), pp. 13-71.

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nenz – Transzendenz). Opposti trascendentali sono: affinità-distinzione (Verwandischaft – Besonderung), unità-pluralità (Einheit – Vielheit). Queste otto coppie rappresentano, secondo Guardini, i poli fondamentali della vita, gli opposti presenti in una tensione costante. Del loro ritmo, tra polo e contropolo, è intessuta l’esistenza, personale e sociale. Conoscerli significa tener presente la realtà nella sua complessità, evitare i monismi e i riduzionismi, rispettare le istanze opposte per il loro margine di verità, rifiutare gli integralismi e i fondamentalismi. È a questo quadro e alla peculiare dialettica guardiniana che guarda Bergoglio come il modello ideale adeguato anche se, nel dettaglio, non tutti gli opposti polari trovano risoluzione nel suo pensiero. Le otto coppie polari guardiniane si riducono nella nuova prospettiva a tre che, ripensate, accolgono al loro interno altre versioni della polarità e si connettono a quattro principi. Il loro impiego è volto in una direzione sociale. Si tratta di un’applicazione prevista da Guardini anche se in Der Gegensatz essa è poco più di un cenno14. 14

«Secondo il modo di vedere individualista, il rapporto tra individuo e totalità sembra che si costruisca a partire dall’individuo; sembra che la società sia qualcosa di derivato dagli individui. Quella poi non sarebbe altro che l’insieme dei singoli, che sono gli unici da considerare e che sono accomunati da determinati scopi. Peccato che quest’idea si sbagliata, dal momento che in essenza la società – sia essa la famiglia o lo Stato – è qualcosa di originario e autonomo. Ma è sbagliata anche l’idea opposta che tende a risolvere i singoli nella comunità come sue risultanti o funzioni o fasi, qualunque sia il modo di esprimersi di questa concezione collettivista. Anche il singolo infatti è qualcosa di originario, a sé stante. Dal punto di vista della teoria degli opposti dobbiamo piuttosto propendere per il più deciso solidarismo. Il che significa: singolo e gruppo, nella misura in cui stanno in un rapporto di opposizione, non possono derivare uno dall’altro. Ognuno ha la sua essenza, originaria, a sé stante; ma nessuno dei due può stare senza l’altro; piuttosto è fin dall’inizio compresente nell’altro» (GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, cit., pp. 178-179).

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Nel testo di Bergoglio del 2011 Nosotros como ciudanos, nosotros como pueblo, scritto in occasione del bicentenario dell’Argentina, viene chiarito il contesto storico in cui sono calate coppie polari e principi: quello di un Paese uscito dalla ferrea repressione di una dittatura militare e, successivamente, da una pesante recessione economica fonte di forti contrasti sociali. Il modello democratico viene qui interpretato come la traduzione del modello polare guardiniano. Esso ha come fine «lo spazio del compromesso e la missione per superare le contrapposizioni che ostacolano il bene comune»15. Il dialogo politico implica il superamento dei valori settoriali, degli interessi di parte: «Non possiamo dividere il Paese, in forma semplicistica, in buoni e cattivi, giusti e corrotti, patrioti e nemici della patria»16. La democrazia è compromesso, risoluzione delle tensioni polari, superamento del manicheismo. Suo scopo, a partire dal perseguimento del bene comune, è l’oltrepassamento del divario tra elite e popolo, ricchezza e povertà. Della contrapposizione tra individuo e comunità e, soprattutto, di quella tra cittadini e popolo. «Cittadini è una categoria logica. Popolo è una categoria storica e mitica. Viviamo in una società e questo tutti lo capiamo e lo esplicitiamo logicamente. Popolo non può spiegarsi solo in maniera logica. Contiene un plus di significato che ci sfugge se non ricorriamo ad altri modi di comprensione, ad altre logiche ed ermeneutiche. La sfida di essere cittadino comprende il vivere ed esplicitarsi nelle due categorie di appartenenza: appartenenza alla società e appartenenza a un popolo»17. Per questo il vero processo è quello di 15

BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 29. 16 IBIDEM, p. 30. 17 IBIDEM, p. 37.

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farsi popolo. Si tratta di un processo di integrazione in cui «convergono due tipi di categorizzazione: quella logica e quella storico-mitica. E dobbiamo usarle entrambe»18. Al pari di Romano Guardini, per il quale la conoscenza del concreto vivente richiede un atto proprio, bipolare, intuitivo e concettuale ad un tempo, anche per Bergoglio l’unità sociale può essere afferrata solo a partire da un duplice paradigma, razionale e sovrarazionale19.Questo si esprime in un ethos che supera «la spinta di tradizioni (illuministica/popolare, due Argentine), di racconti (liberale/revisionista), di controversie (agrarie o industriali), di contrapposizioni (unitari/federalisti; regime/causa rivoluzionaria; peronisti/antiperonisti)»20. La via indicata è qui quella di «una cultura dell’incontro e un orizzonte utopico condiviso»21. L’individuo, strappato alla solitudine in cui lo confina il liberalismo classico, è definito a partire da un’appartenenza. È «persona sociale»22, protagonista di un’ «amicizia sociale»23, volta verso il bene comune. Bergoglio utilizza il modello bipolare – cittadino/popolo – per descrivere una tensione etica-sociologica-gnoseologica. Il processo di integrazione non è solo sociale: è anche etico e conoscitivo. L’uomo solo, il solipsista-individualista, e l’uomo-massa hanno una visione diversa rispetto al cittadino che si concepisce come parte di un popolo. La vocazione politica del cittadino ruota attorno al bene di tutti, al bene concreto. «Non 18

IBIDEM, p. 45. Per la conoscenza del concreto vivente in Guardini si cf. BORGHESI M., Romano Guardini. Dialettica e antropologia, cit., pp. 59-71. 20 BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 38. 21 IBIDEM, p. 39. 22 IBIDEM, p. 45. 23 IBIDEM, p. 47. 19

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si tratta di un’idea astratta di bontà, di una riflessione teorica che fonda un vago concetto di etica, un “eticismo”, ma di un’idea che si sviluppa nel dinamismo del bene, nella natura stessa della persona, nelle sue attitudini. Sono due cose diverse. Ciò che rende la persona un cittadino è il dispiegarsi del dinamismo della bontà in vista dell’amicizia sociale»24. Al contrario un’etica astratta è il frutto di un sapere astratto, di un sapere che, dissociando i trascendentali bello-bene-vero, non riesce più a pervenire al “concreto”, all’unità del reale. La riflessione astratta dimentica che «L’obiettivo di ogni riflessione umana è l’essere reale in quanto tale e, pertanto, uno, da cui non possono disgiungersi le tre categorie fondamentali dell’essere che i filosofi chiamano i trascendentali: la verità, la bontà e la bellezza. Sono inseparabili. Nel cittadino deve svilupparsi questa dinamica della verità, insieme alla bontà e alla bellezza. Se ne manca una, l’essere si frattura, si idealizza, diventa un’idea, non è reale. Devono procedere insieme, non disgiungersi. In tale disgiunzione metafisica si radica ogni deformazione del concetto di cittadino; si assiste alla riduzione del bene comune al bene particolare, si cerca una bontà che, non essendo affiancata alla verità e alla bellezza, finisce per diventare un bene privato, riservato solo a sé o al proprio gruppo; quindi non più il bene universale, il bene comune, il bene che devo perseguire come cittadino. Una sfida per il cittadino, quindi, è salvaguardare questa unione di bontà, verità e bellezza, senza lacerazioni, in vista di una esperienza di popolo, di un noi come popolo»25.

È nello sfondo di questa originale prospettiva, la quale in24 25

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IBIDEM, pp. 47-48. IBIDEM, pp. 49-50.

scrive il tema classico dell’unità dei trascendentali come condizione dell’unità reale e vivente di un popolo, che Bergoglio situa la sua dottrina dei principi e delle coppie polari. Nel saggio del 2009, Nosotros como ciudanos, nosotros como pueblo, così come nella Evangelii gaudium, i quattro principi sono connessi con tre coppie polari. La prima coppia bipolare è quella tra la pienezza il limite26. Essa coincide con la seconda coppia degli opposti intraempirici guardiniani: quella di Fülle – Form (eccedenza – forma). Al contempo riassume e riprende anche la prima coppia: quella di Akt – Bau (atto- struttura). Bergoglio identifica infatti, nella Evangelii gaudium, pienezza e limite con la polarità tempo-spazio che Guardini associa alla coppia atto-struttura27. Lo fa a modo suo, cioè interpretando il tempo e lo spazio in un’ottica sociale. «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae»28.

Il “momento” diviene qui la “congiuntura”, un tempo cir26

Cf. IBIDEM, pp. 61-63; Evangelii gaudium, & 222-225. «E se l’esperienza della vita come atto è connessa con l’idea di fondo del fluire temporale, l’esperienza della vita come struttura è connessa con l’idea di spazio fermo» (GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto vivente, cit., p. 98). 28 PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 222. 27

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coscritto “spazialmente”. Esso abbisogna di un punto di trascendenza, del tempo in senso pieno, dell’ “utopia” intesa non come ideologia ma come futuro ideale che trascende la congiuntura del momento. «La pienezza è l’utopia come percezione, vale adire: bisogna andare oltre. Un cittadino deve necessariamente vivere secondo utopie per il bene comune. L’utopia come “cammino verso” o, come direbbero gli scolastici, l’utopia come “causa finale”, ciò che ti attrae; quello a cui devi arrivare: il bene comune»29. Per Bergoglio «La pienezza è quell’attrazione che Dio mette nel cuore di ciascuno di noi affinché ci dirigiamo verso ciò che ci rende più liberi; il limite, che è sempre presente insieme alla pienezza che ci attrae, ci spinge invece indietro; è la congiuntura, o la crisi come daffare, direi come faccenda quotidiana. Dobbiamo sciogliere questo nodo. La pienezza e il limite sono in tensione tra loro. Nessuno dei due va negato. Né l’una deve assorbire l’altro. vivere questa tensione continua tra la pienezza e il limite favorisce il cammino dei cittadini»30.

È l’esatta definizione che Guardini dà della opposizione polare la quale non è una «”sintesi” di due momenti in un terzo. E neppure un intero, di cui i due momenti costituiscano le “parti”. Ancor meno un miscuglio in una sorta di compromesso. Si tratta invece di un rapporto originario, del tutto particolare, di un fenomeno originario. Ciascun opposto non può essere dedotto dall’altro, né ritrovato a partire dall’altro. […] Ma entrambe le parti si danno sempre contemporaneamente; pensabili e possibili solo l’una grazie all’altra. Questa è oppo29

BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 61. 30 IBIDEM.

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sizione: due momenti stanno ciascuno in sé senza poter essere dedotti, trasposti, confusi e tuttavia sono indissolubilmente legati l’uno all’altro; anzi si possono pensare solo l’uno nell’altro e l’uno grazia all’altro»31. Allo stesso modo, secondo Bergoglio, «il tempo e il momento viaggiano insieme. Il tempo verso la pienezza come espressione dell’orizzonte e il momento come espressione del limite. Il cittadino deve vivere in tensione entro la congiuntura del momento letta alla luce del tempo, dell’orizzonte. Non può rimanere imprigionato in nessuno dei due. Il cittadino è il custode di questa tensione bipolare»32. Questa tensione non indica, però,una perfetta equivalenza tra gli opposti. Allo stesso modo di Guardini, per il quale la serie degli opposti “formali” aveva una sua priorità ideale su quella degli opposti “materiali” anche per Bergoglio, nell’ottica sociale del bene comune in cui si dispongono le coppie polari, uno dei poli della coppia è più rilevante dell’altro33. Questa prevalenza è sancita dai “principi” i quali modulano le coppie polari. Nel caso della prima coppia bipolare, quella tra pienezza e limite (tempo e momento) i principi sono due. Il primo afferma che il tempo è superiore allo spazio34. Il tempo, come telos utopico, indica qui il luogo di risoluzione dei conflitti, di costruzione paziente dei progetti che non si limitano al presente ma tengono 31

GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, cit., pp. 100-101. 32 BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 62. 33 Cf. GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concretovivente, cit., pp. 163-166. 34 Cf. BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., pp. 62-63; Evangelii gaudium, & 222-225.

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presente lo sviluppo futuro dei popoli. Bergoglio, nella Evangelii gaudium, cita in proposito Guardini: «L’unico modello per valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge un’autentica ragion d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere peculiare e le possibilità della medesima epoca»35. Il secondo principio, collegato alla coppia pienezza/limite è: l’unità è superiore al conflitto36. «Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo alla congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà»37. È per questo che è «necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto»38. 35

La citaz. è tratta da: GUARDINI R., Das Ende der Neuzeit, Wûrzburg 1965, pp. 30-31, trad. it., La fine dell’epoca moderna, cit., p. 32. Il corsivo è opera di papa Francesco. 36 Cf. BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, p. 63; Evangelii gaudium, & 226-230. 37 PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 226. 38 IBIDEM, & 228. L’idea di Bergoglio-Francesco della riconciliazione degli opposti come principio superiore, in cui i poli sono conservati come “potenze”, non coincide appieno con l’idea guardiniana per la quale l’opposizione polare

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La seconda coppia polare è data dalla tensione tra idea e realtà. «La realtà è. L’idea si elabora, si induce. È strumentale in funzione della comprensione, percezione e conduzione della realtà. Tra le due ci dev’essere dialogo: dialogo tra la realtà e l’esplicazione ce ne produco. Questo rappresenta un’altra tensione bipolare, e si contrappone all’autonomia dell’idea e della parola rispetto alla realtà, per cui l’idea è quella che comanda (da qui derivano gli idealismi e i nominalismi). I nominalismi non convocano mai. Tutt’al più classificano, citano, definiscono, ma non convocano. Ciò che convoca è la realtà illuè la cifra di una tensione propria della finitezza, costantemente irrisolta. «In tutto l’ambito del finito è di solito dominante una delle parti dell’opposizione. Ora, proprio questa predominanza apre una via verso l’esterno. Un sistema degli opposti vivente, che si fissasse in un equilibrio costante, dovrebbe morire. […] Tutte le forze all’interno dell’unità sistemica sarebbero bilanciate da forze contrarie; tutte le tensioni stabilizzate. Questa unità sarebbe autosufficiente. Sarebbe isolata in se stessa, non avrebbe più alcun rapporto di opposizione con l’esterno, di nessun tipo. Ma questo è impossibile. Un’autosufficienza come questa implica l’essere assoluto. Qualora la vita finita si strutturasse in modo da essere autosufficiente al suo interno, dovrebbe morire» (GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, cit., pp. 168-169) Per Guardini «il rapporto di equilibrio è una situazione d’eccezione, possibile solo come passaggio. Come condizione duratura costituirebbe ancora un caso limite che si potrebbe realizzare solo con il venir meno della vita, con la morte» (IBIDEM, p. 154). La diversità, tra Bergoglio e Guardini, non risiede qui nell’idea che la conciliazione assoluta è un’utopia, nel senso negativo del termine, bensì nel fatto che, per Bergoglio, essa, come unità provvisoria e mai compiuta, è il fine, il principio superiore, verso cui gli opposti tendono. In questo senso essa deve sempre essere tentata nella consapevolezza della sua precarietà e dei suoi limiti. Il quadro guardiniano, dominato da una prospettiva esistenziale, viene in tal modo ripensato come modello sociale, un paradigma il cui scopo è la risoluzione dei conflitti e non già il loro perpetuarsi.

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minata dal ragionamento, dall’idea e dalla loro percezione intuitiva».39

Questa tensione polare, di per sé, non è presente nella tabella degli opposti di Guardini. Una qualche analogia la possiamo trovare con la terza coppia degli opposti transempirici contenuta in Der Gegensatz: quella di Immanenz- Transzendenz 40. Si tratta però di un’analogia e questo perché tutto l’impianto teorico di Der Gegensatz prescinde, metodologicamente, dal problema della realtà. Con ciò, però, si priva della fondamentale tensione tra idealismo e realismo, idea e realtà, che opportunamente Bergoglio introduce nella “sua” tabella degli opposti. Si tratta di un passo importante in direzione di un possibile incontro tra modello polare e tradizione tomista che Guido Sommavilla aveva tentato di mostrare , con qualche difficoltà41. Conformemente a quella tradizione «occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza»42. Il terzo principio è volto contro tutti gli «intimismi e gnosticismi»43 ed è «legato all’incarnazione della 39

BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 65. 40 Cf. GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concretovivente, cit., pp. 126 – 131. 41 Cf. SOMMAVILLA G., La filosofia di Romano Guardini, Introduzione a: R. Guardini, Scritti filosofici, 2 voll., Fratelli Fabbri, Milano 1964, vol. I, pp. 3-121. 42 FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 231. 43 IBIDEM, & 233.

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Parola»44. Questo «porta, da un lato, a valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei nostri santi che hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere la ricca tradizione bimillenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto da questo tesoro, come se volessimo inventare il Vangelo»45. La genesi del realismo di Bergoglio affonda le sue radici nell’incarnazione storica, ecclesiale, dell’avvenimento cristiano. Una prospettiva che contribuisce a liberare il modello polare di Der Gegensatz da ogni possibile deriva psicologistica, da ogni Lebensphilosophie; «La realtà è superiore all’idea»46. La terza ed ultima tensione bipolare è data dalla coppia globalizzazione – localizzazione. Corrisponde, nella tavola guardianiana delle categorie, alla terza coppia degli opposti intraempirici: Einzelheit – Ganzheit (singolarità – totalità)47. Bergoglio la riprende e, al contempo, la attualizza in relazione al processo di mondializzazione e di occidentalizzazione posteriore all’89, ai problemi che questo comporta per le culture dei popoli. Un tema che riguarda da vicino l’America latina. La soluzione è data, ancora una volta, da una giusta polarità. «Per essere cittadini non si può vivere né in un universalismo globalizzante né in un localismo folkloristico o anarchico. Nessuna delle due cose. Né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata. Nessuna delle due. Nella sfera globale che annulla, tutti sono uguali, ogni punto è equidistante dal centro della sfera. 44

IBIDEM. IBIDEM. 46 BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 66. 47 Cf. GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concretovivente, cit., pp. 105-110. 45

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Non c’è differenza tra i diversi punti della sfera. Questa globalizzazione non fa crescere. Qual è dunque il modello? Rifugiarci nel locale e chiuderci al globale? No, perché andremmo all’altro estremo della tensione bipolare»48. La tensione tra localizzazione e globalizzazione non riguarda solo il mondo. Nel suo videomessaggio per il Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, il Papa afferma: «Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa universale che dia le spalle, che ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio. Considerare insignificante una delle due istanze è metterci in un labirinto che non sarà portatore di vita per la nostra gente. Rompere questa comunicazione ci porterà facilmente a fare della nostra visione, della nostra teologia un’ideologia»49.

Localizzazione e globalizzazione non si escludono, si coappartengono nella distinzione. Il modello che Bergoglio 48

IBIDEM, p. 67. PAPA FRANCESCO, Videomessaggio del Santo padre Francesco al Congresso Internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina (Buenos Aires, 1-3 settembre 2015), in: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pontmessages/2015/documents/papa-francesco_20150903_videomessaggio-teologia-buenos-aires.html 49

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offre in proposito è dato da un’immagine geometrica che gli è cara e che torna più volte nei suoi scritti: quella del poliedro. «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro»50. Il modello è «il poliedro, che è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità. È, per esempio, l’unione dei popoli che, nell’ordine universale, mantengono la loro peculiarità come popolo; è l’unione delle persone in una società che cerca il bene comune. Un cittadino che conservi la sua peculiarietà personale, la sua idea personale, ma inserito in una comunità, non si annulla più come nella sfera, bensì mantiene le diverse parti del poliedro»51. La differenziazione poliedrica rappresenta bene l’idea dell’unità nella differenza, dell’uno dai molti volti. «Il “tutto” del poliedro, non il “tutto” sferico. Questo (lo sferico) non è superiore alla parte, la annulla»52. Solo il poliedro mantiene la supremazia della totalità senza che ciò elimini la polarità con le parti. 3. Il potere e la tecnica. L’ideale di una nuova sintesi Nei due scritti che abbiamo analizzato, Noi come cittadini noi come popolo e l’enciclica Evangelii gaudium, viene fuori, manifesta, la visione “agonica” che Bergoglio ha della vita sociale. «Essere cittadini significa essere convocati per una 50

PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 236. BERGOGLIO J.M., Noi come cittadini, noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, cit., p. 68. 52 IBIDEM. 51

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scelta, chiamati ad una lotta, a questa lotta di appartenenza a una società e a un popolo. Smettere di essere mucchio, di essere gente massificata, per essere persone, per essere società, per essere popolo. Questo presuppone una lotta. Nella giusta risoluzione di queste tensioni bipolari c’è lotta, c’è una costruzione agonica»53. Il Der Gegensatz di Guardini viene, in tal modo, declinato dentro un quadro sociale che ha di mira la soluzione dei contrasti, non il loro irrigidirsi dialettico. «Non possiamo ammettere che si consolidi una società duale. […] Dobbiamo recuperare la missione fondamentale dello Stato, che è quella di assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà»54. Sussidiarietà e solidarietà, cittadino e popolo, libertà ed equità, sono momenti di un processo polare, un processo “agonico” il cui modello deve molto alla riflessione di Guardini. Non si tratta, appena, di un paradigma intellettuale, di una “tecnica” con cui comporre i contrasti. È qualcosa di più profondo. Siamo di fronte ad uno “stile”, ad una modalità di essere. Bergoglio è un «caos calmo»55, una vivente sintesi di opposti. Vale per lui, da gesuita, la massima di Ignazio, ripresa come motto nell’Hyperion di Hölderlin: «Non coerceri maximo, contineri tamen a minimum, divinum est» (“Non essere costretto dal più grande, ma essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino”)56. Il particolare assume il suo senso 53

IBIDEM, p. 69. IBIDEM, pp. 82-83. 55 SPADARO A., in: PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, La Civiltà Cattolica – Rizzoli Corriere della Sera, Bergamo 2013, p. 17. 56 SPADARO A., in IBIDEM, p. 27, 44, 45). 54

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nell’orizzonte dell’universale, epperò, l’universale è percepito come reale solo a partire dal particolare. È la tensione tra spazio e tempo, tra localizzazione e globalizzazione. Nella intervista con P. Spadaro, La mia porta è sempre aperta, le tensioni bipolari indicate da Francesco non paiono limitarsi a tre. Sembrano allargarsi ad altre presenti nel quadro quardiniano degli opposti. Tra esse quella tra immanenza e trascendenza (Immanenz – Transzendenz), la terza coppia degli opposti transempirici. Ciò vale per la famiglia, la società, lo Stato, la Chiesa. Ogni “struttura” deve avere un punto transempirico, un punto di rottura, che consente di rompere la tendenza all’immanenza, alla chiusura che qualifica tutti i corpi sociali, Chiesa compresa.57 Vale anche per i gesuiti, l’ordine religioso del Pontefice. 57

«É finzione razionalistica pensare ad esempio che lo Stato debba anzitutto ed essenzialmente procurare il “bene dei cittadini”. In realtà esso si comporta come un organismo che si costruisce usando la cellula come elemento costruttivo. Cerca di realizzare un’immagine che porta in sé, di acquisire una forma, di sviluppare un carattere, di esplicare un’attività, di compiere una propria teleologia: tutto questo non persegue un “fine” che gli sia esterno, nemmeno quello del benessere dei cittadini, ma vuole semplicemente essere, realizzarsi, vivere (così del resto la famiglia, anzi persino l’amicizia). Solo considerando questa consistenza autonoma della sfera collettiva si può capire la strana indifferenza, con la quale questi complessi spesso ignorano proprio il bene dei componenti che li costituiscono e con la quale contraddicono fortemente la teoria, secondo cui essi esisterebbero in vista di questo bene. Da questo punto di vista essi cercano proprio “il bene del singolo” solo per amore della propria vita totale; come per esempio il corpo cerca il bene di una sua parte o della cellula. E questa tendenza è così forte, che occorre una chiarificazione e formazione morale, anzi addirittura una rottura, per superare l’egoismo dell’entità sovraordinata, dotato a questo riguardo di una cecità naturale. E sembra chee qui possa qualcosa solo la religione, e solo quella soprannaturale, che riguardo all’anima umana fa valere i diritti di Dio su quelli “di Cesare”» (GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, cit., pp. 177-178).

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«La Compagnia è un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione. Il gesuita è decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la sua Chiesa. Dunque: se la Compagnia tiene Cristo e la Chiesa al centro, ha due punti fondamentali di riferimento del suo equilibrio per vivere in periferia. Se invece guarda troppo se stessa, mette sé al centro come struttura ben solida, molto ben “armata”, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente. La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior […] Questa tensione ci porta continuamente fuori da noi stessi»58.

Cristo è qui il punto transempirico di Guardini, il punto di fuga che impedisce il ripiegamento, le chiusure e le cristallizzazioni burocratiche. Ad esse corrisponde un pensiero “sistematico”, concluso, ripetitivo. Ancora una volta, come già in Guardini, la conoscenza del concreto vivente può modularsi solo in una tensione polare tra concetto e intuizione, tra il razionale e il sovrarazionale. È ciò che Guardini chiamava “visione”(Anschauung)59. Per Bergoglio «Quando si esplicita troppo, si corre il rischio di equivocare. La Compagnia si può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere. Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto. Ci sono 58

PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, cit., p. 30. 59 Cf. GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concretovivente, cit., pp. 206-207.

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state epoche nella Compagnia nelle quali si è vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico: questa deformazione ha generato l’ Epitome Instituti»60.

Ancora una volta si è rimandati a Guardini, alla sua idea degli opposti la quale «non è un sistema chiuso, ma un aprire gli occhi e un orientarsi interiormente al vivo essere»61. Il pensiero vivente, razionale ed intuitivo ad un tempo, è “aperto”. In tal modo, com’è evidente, l’idea di polarità guida l’intero pensiero bergogliano. Non si limita al quadro sociale. Nell’intervista con Spadaro i riferimenti bipolari sono molteplici: contemplazione/azione 62, popolo/gerarchia63, dolcezza/forza64, primato/collegialità65, maschile/femminile66, passato/presente67. Ad esse va aggiunta la bipolarità, fondamentale, tra teologia e pastorale. Come Francesco afferma nel suo videomessaggio per la Pontificia Università Cattolica Argentina: «Non sono poche le volte che si genera un’opposizione tra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Non sono poche le volte in cui identifichiamo dottrinale con conservatore, retrogado; e, all’opposto, pensiamo la pastorale a partire 60

PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, cit., pp. 30-31. 61 GUARDINI R., L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, cit., p. 238. 62 PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, cit.,p. 32. 63 IBIDEM. 64 IBIDEM, p. 33. 65 IBIDEM, p. 66. 66 IBIDEM, p. 67. 67 IBIDEM, p. 68.

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dall’adattamento, la riduzione, l’accomodamento. Come se non avessero nulla a che vedere tra loro. In tal modo si genera una falsa opposizione tra i cosidetti “pastoralisti” e gli “accademicisti”, quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stanno dalla parte della dottrina. Si genera una falsa opposizione tra teologia e pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi padri della chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio, solo per citarne alcuni, furono grandi teologi perché furono grandi pastori. Uno dei contributi del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare questo divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente»68.

Si precisa, in tal modo, il significato e la direzione di una riflessione agonico-organica che pone al centro tensioni bipolari, poli non risolubili che richiedono, però, di volta in volta, processi di sintesi. Il “pensiero dialogico” di Bergoglio non rappresenta, da questo punto di vista, una soluzione irenica ma il risultato logico di una concezione ontologica. È l’ontologia della polarità che richiede un pensiero dialogante teso verso un orizzonte sintetico che deve impedire l’esito “contraddittorio” dei poli. Il quadro è quello di un pensiero “cattolico” che legge la Chiesa e la vita come complexio oppositorum, come lotta agonica per sedare i conflitti, per impedire che le polarità si risolvano, manicheisticamente, in contraddizioni. Guardini si documenta, in tal modo, come un autore chiave per Jorge Mario Bergoglio. Lo 68

PAPA FRANCESCO, Videomessaggio del Santo padre Francesco al Congresso Internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina (Buenos Aires, 13 settembre 2015), cit.

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è non solo per la sistematica delle opposizioni viventi, offerta in Der Gegensatz, ma anche per la lucida analisi della tensione polare tra natura e tecnica che guida le riflessioni guardiniane posteriori alla seconda guerra mondiale. Tanto ne La fine dell’epoca moderna quanto nel saggio Il potere l’autore italo-tedesco tracciava un quadro della degradazione e dello sfruttamento della natura ad opera dell’industrializzazione della tecnologia non dissimile dalle riflessioni di Martin Heidegger. Non indulgeva, tuttavia, ad utopie arcaizzanti ma si poneva, realisticamente, la questione del potere capace di dominare la potenza provocata dal progresso tecnico. Il potere sopra il proprio potere è la questione antropologica fondamentale del nostro tempo. Bergoglio, sensibile al processo di sfruttamento incontrollato delle risorse, delle fonti idriche e alla degradazione dell’ambiente delle disastrose bidonville delle metropoli sudamericane, assume, ancora una volta da Guardini, le categorie di fondo con cui valutare il problema nella sua Enciclica Laudato sì. In essa Guardini è il pensatore moderno più citato. Nel testo, dopo aver osservato come «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo»69, il Papa cita direttamente Guardini, secondo cui si tende a credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori»70. È la concezione tecnocratica per la quale il progresso economico, il benessere, è tout court il bene. Per Guardini, che l’Enciclica 69

PAPA FRANCESCO, Laudato sì, & 104. GUARDINI R., La fine dell’epoca moderna, cit., p. 93, cit. in: PAPA FRANCESCO, Laudato sì, & 105. 70

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cita direttamente, «l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza»71, Per questo «la possibilità dell’uomo di usare male della potenza è in continuo aumento» quando «non esistono norme di libertà, ma solo pretese necessità di utilità e di sicurezza»72. Per papa Francesco, che segue alla lettera Guardini, il nodo è dato dalla «globalizzazione del paradigma tecnocratico»73, il quale implica una riduzione integrale, nell’economia e nella politica, della natura al potere tecnico, il toglimento della polarità soggetto-natura. «Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione. È come se il soggetto si trovasse di fronte alla realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione. L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti»74.

La bipolarità uomo-natura entra in crisi e cede il posto alla negazione semplice della natura. «Di fatto la tecnica ha una 71

IBIDEM. IBIDEM. 73 É il titolo del & 2 del cap. 3 di Laudato sì. 74 PAPA FRANCESCO, Laudato sì, & 106. 72

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tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica e “l’uomo – scrive Francesco citando Guardini – che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio, dominio nel senso estremo della parola” »75.Questo ideale del dominio, del “puro” dominio, è diverso da quello premoderno, fondato sul rapporto inscindibile con la realtà naturale. «Il nuovo dominio – scrive Guardini – mette in dubbio se le cose in assoluto siano fondate su un’essenza. Ricorre agli elementi fondamentali e costruisce le forme, come vuole che esse siano per lui. La sua immagine fondamentale non è il re, che custodisce l’essenza – l’antico concetto del “pastore del popolo” – ma il dittatore che pone l’essenza. Bolscevismo ed esistenzialismo qui sono rivelativi»76. Il nuovo dominio è frutto del mito prometeico che attraversa l’era moderna. «L’antropocentrismo moderno, paradossalmente, ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano – chiarisce Francesco con Guardini – “non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio. La vede senza ipotesi, obiettivamente, come spazio e materia in cui realizzare un’opera nel quale gettarsi tutto, e non importa che cosa ne risulterà»77. Il rimedio sta nel ritorno alla realtà e nella cura dell’ eccesso antropocentrico. 75

IBIDEM, & 109. La citazione di Guardini è tratta da La fine dell’epoca moderna, cit., p. 66. 76 GUARDINI R., Die Situation des Menschen, Akademievorträge, München 1953, trad. it., La situazione dell’uomo, in: R: GUARDINI R., Natura, Cultura, Cristianesimo. Saggi filosofici, trad. it. di FABIO A. - SCANDIANI G. - COLOMBI G., Morcelliana, Brescia 1983, p. 203, corsivi nostri. 77 PAPA FRANCESCO, Laudato sì, & 115. La citazione di Guardini è tratta da La fine dell’epoca moderna, cit., pp. 65-66.

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«Nella modernità si è verificato un notevole eccesso antropocentrico che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali. Per questo è giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone […] Molte volte è stato trasmesso un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile»78.

Il rimedio risiede in una adeguata antropologia e non già, come affermano talune correnti dell’ecologismo radicale, nella sua negazione. «Un antropocentrismo deviato non deve necessariamente cedere il passo a un “biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverà i problemi, bensì ne aggiungerà altri»79. Il biocentrismo, al pari dell’antropocentrismo unilaterale, interrompe il rapporto polare uomo-natura. Per questo «si attende ancora lo sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli»80. L’Enciclica Laudato sì appare, sotto questo profilo, come un progetto di “nuova sintesi” che Francesco offre alla luce del modello guardiniano delle polarità. Antropocentrismo prometeico e biocentrismo dissolvono il legame costitutivo tra l’io e il mondo. Dimenticano che «tutto è connesso»81, che «tutto è relazione»82. E questo non al modo dell’Uno-Tutto di matrice panteista, ma a 78

PAPA FRANCESCO, Laudato sì, & 116. IBIDEM, & 118. 80 IBIDEM, & 121. 81 IBIDEM, & 117. 82 IBIDEM, & 120. 79

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partire dalla relazione personale, fondamentale e paradigmatica, tra l’io e il tu. «Se la crisi ecologica è un emergere o una manifestazione esterna della crisi etica, culturale e spirituale della modernità, non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali. […] L’apertura ad un “tu” in grado di conoscere, amare e dialogare continua ad essere la grande nobiltà della persona umana. Perciò, in ordine ad una adeguata relazione con il creato, non c’è bisogno di sminuire la dimensione sociale dell’essere umano e neppure la sua dimensione trascendente, la sua apertura al “Tu” divino. Infatti, non si può proporre una relazione con l’ambiente a prescindere da quella con le altre persone e con Dio»83.

Laudato sì costituisce pertanto, dopo la Evangelii gaudium, una ulteriore riprova della rilevanza che l’antropologia polarerelazionale di Romano Guardini ha nella riflessione di Jorge Mario Bergoglio. L’intero impianto del suo pensiero è dominato dalla grande idea della polarità della vita. È il suo nucleo concettuale, la chiave ermeneutica che motiva l’apertura di un pensiero “cattolico”. Romano Guardini è il maestro ideale che Bergoglio ha avuto.

83

IBIDEM, & 119.

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L’IO IN(DE)FINITO. LA FENOMENOLOGIA DI LEVINAS PER UN PERSONALISMO NON ONTOLOGICO Giuseppe Stinca «Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono io?» (R. Hillel, Pirkei Avot I. 14) 1. L’invito Questa riflessione intorno al testo di Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona,1 coglie le sollecitazioni che esso offre laddove afferma il proprio taglio ontologico senza soggiacere all’illusione di aver detto tutto,2 e invita a non dimenticare il pensiero ebraico (Rosenzweig, Buber, Levinas) che, pur non autodefinendosi personalistico, raccoglie e svolge temi affini.3 Nello specifico riferirò alcune osservazioni di Levinas in GIUSEPPE STINCA, Dottore in Filosofia e Studi teorico-critici presso l’Università degli studi di Roma «La Sapienza»; collaboratore di «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», presso l’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata». 1 POSSENTI V., Il nuovo principio persona, Armando Editore, Roma 2013. 2 Cf. IBIDEM, p. 18. 3 Cf. IBIDEM. p. 25.

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parte convergenti, in altre divergenti,4 ma che certamente si ritroveranno con le riflessioni di Possenti nel cuore di un chiasmo, per riprendere una felice espressione di Levinas. Mi sembra, infatti, che Il nuovo principio persona abbia in parte già accolto in se le pro-vocazioni del pensiero levinasiano, e possieda sentori che vivacizzano il suo bouquet fruttato come un vino novello e frizzante. 2. L’ontologia dell’inesauribile Possenti fornisce la prima sollecitazione/invito quando afferma che pensare la persona e pensare l’essere si collocano sullo stesso asse.5 Com’è noto Levinas compie, in Altrimenti che essere,6 un enorme tentativo linguistico per parlare di là dai termini dell’ontologia il cui linguaggio «espone la risonanza silenziosa dell’essenza»7 attraverso la predicazione nella cui copula è «splende o lampeggia l’ambiguità dell’essenza».8 Uno dei problemi principali che tale ricerca mette in questione è: «Il soggetto si comprende fino alla fine a partire dall’ontologia?».9 4

Com’è noto, Levinas mantiene in Totalità e Infinito un linguaggio ancora ontologico dal quale cerca di allontanarsi nel tentativo di “riscrittura” compiuto con Altrimenti che essere. 5 POSSENTI V., op. cit., p. 28. 6 LEVINAS E., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di AIELLO M.T. - PETROSINO S., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. D’ora in poi citato AE. 7 Cf. AE, p. 51. 8 Cf. AE, p. 53. 9 AE, p. 38.

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Nella concezione dell’ontologia il fatto che si possa pensare l’essere significa che l’apparire dell’essere appartiene all’essere stesso che, di conseguenza, si manifesta nella verità la quale, a dire di Levinas, “protegge” lo svolgimento dell’essere dalla proiezione di fantasmi soggettivi che turberebbero la “processione dell’essenza”. In tal modo la soggettività si subordina al senso dell’oggettività attraverso il suo potere di rappresentazione. «Ma in quanto altro in rapporto all’essere vero, in quanto differente dall’essere che si mostra, la soggettività non è niente».10 Nel Detto che dice la rappresentazione si trova il luogo di nascita dell’ontologia fondamentale che, a detta di Levinas, mentre denuncia la confusione dell’essere e dell’ente, parla dell’essere come di un ente identificato.11 Bisogna pertanto risalire al di là dell’anfibologia dell’essere e dell’ente, mostrando la significazione anteriore del Dire al di qua della tematizzazione del Detto; questo è «lo sforzo del filosofo e la sua posizione contro natura».12 Più avanti vedremo come esso consista in una riduzione verso un senso fuori dall’ontologia, una significazione al di là dell’essenza, attraverso la sensibilità come pura affezione.13 Possenti nel suo testo sembra compiere questo “sforzo del filosofo” quando propone “un’ontologia dell’inesauribile e dell’ulteriorità”14 in cui la persona è primitiva, non si deduce da nulla e non si può ridurre a cosa o oggetto,15 perché essa è 10

Cf. AE, pp. 165-169. Cf. AE, p. 54. 12 Cf. AE, pp. 54-55. 13 Cf. AE, p. 80. 14 POSSENTI V., op. cit., p. 95. 15 Cf. IBIDEM, pp. 25-26. 11

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un’eccedenza e un’ulteriorità mai completamente catturabile.16 Tale ontologia dell’ulteriorità potrebbe essere non allergica alle intenzioni di Levinas per il quale «l’eccezione dell’ ‘altro dall’essere’, al di là del non-essere, significa la soggettività o l’umanità, il se stesso che respinge le annessioni dell’essenza» che pretende di ricoprire e di recuperare ogni ec-cezione.17 In questo senso, poiché nell’ontologia l’essere e la verità sono intimamente collegati, parlerei di falsa “eccezione dell’interiorità” sia nel senso di ciò che – rispetto ad un sistema che pretende di comprendersi nella verità – risulta falso, sia in quello di falsificante un tale sistema. Vedremo più avanti che una delle discriminanti della questione si gioca sulla distinzione, rilevata da Possenti, tra sostanza ed essenza, ma la seconda tappa del nostro cammino è la nozione di anima. 3. Il corpo animato Una delle questioni principali del Personalismo, secondo Possenti, è quella dell’anima assieme al suo rapporto con la mente e col corpo.18 È interessante notare come Levinas, riferendo che la coscienza non esaurisce la nozione di soggettività, definisca ipoteticamente questa come «il termine di una irreversibile convocazione, nascosta, forse, nella nozione superata di anima».19 Il rapporto soggettività-anima si comprende nel loro rife16

Cf. IBIDEM. p. 18. Cf. AE, p. 12. 18 Cf. POSSENTI V., op. cit., pp. 11-12. 19 AE, p. 128. 17

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rimento alla sensibilità e al corpo. Il concetto di sensibilità per Levinas s’inserisce all’interno del metodo fenomenologico. In tal senso essa è intesa come impressione originaria, passività assoluta. La corporeità rappresenta questa passività che è esposizione del soggetto ad Altri, disinteressamento. È nella corporeità che la passività della significazione non è atto, ma pazienza.20 L’incarnazione, pertanto, non è un’operazione trascendentale di un soggetto che si situa nel cuore stesso del mondo che si rappresenta; essa è l’intrigo in cui sono annodato ad altri nel nodo gordiano del corpo.21 Perciò mentre l’unione anima-corpo, per Cartesio, presuppone un miracolo, la responsabilità, invece, prevede l’uomo incarnato, estirpato dal suo conatus essendi.22 Proprio questo disinteressamento costituisce però, con l’animazione, l’identificazione del soggetto. «Nelle forme della responsabilità, lo psichismo dell’anima è l’altro in me; malattia dell’identità […]. Significazione possibile unicamente come incarnazione. L’animazione, il pneuma stesso dello psichismo, l’alterità nell’identità, è l’identità di un corpo che si espone all’altro, che si fa «per l’altro»: la possibilità del dare».23

In questo senso: «Il corpo non è solamente l’immagine o la figura, è l’in se stesso della contrazione dell’ipseità e della sua esplosione. Il corpo 20

Cf. AE, pp. 69-70. Cf. AE, pp. 95-96. 22 Cf. AE, p. 178. 23 AE, p. 86 passim. 21

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non è né l’ostacolo opposto all’anima, né la tomba che lo imprigiona, ma ciò per cui il sé è la suscettibilità stessa».24

4. Intelletto e volontà La significazione della sensibilità, della corporeità, è prelogica o illogica. Con ciò Levinas rompe con la tradizione filosofica dell’occidente per la quale ogni spiritualità resta nella coscienza, nell’esposizione dell’essere, del sapere. Se così fosse, il per sé della coscienza sarebbe il potere stesso che l’essere esercita su di se, la sua volontà, il suo principio.25 Conosciamo e ripetiamo il rifiuto levinasiano di una concezione intellettualistico-volontaristica della soggetività, concepita invece come passività assoluta, esposizione anarchica. Levinas, però, vede nella passività assoluta della sensibilità corporea un inizio, una fermezza più solida di quella della volontà che è ancora tergiversazione.26 In Possenti mi sembra esserci, tuttavia, una concezione diversa dell’intelletto nella quale la passività e il primato dell’altro sono contemplati. Scrive Possenti: «Conoscere non è però riportare a sé e identificare all’io, ma – al contrario – divenire intenzionalmente o immaterialmente l’altro (fieri aliud in quantum aliud), dimorando in se stessi carichi del contenuto intelligibile dell’altro. La dottrina realista della conoscenza incorpora il riconoscimento dell’altro, il primato 24

AE, p. 136. Cf. AE, p. 127. 26 Cf. AE, p. 141. 25

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dell’esteriorità, dell’alterità, della non-identità: è ad essa che occorre rivolgersi per un accesso all’altro mantenuto nella sua alterità, non ricondotto e “digerito” dall’io. Mentre l’amore è ek-statico, la conoscenza è in-statica: l’oggetto conosciuto è conosciuto entro lo spirito, e questo non deve uscire da se stesso per assimilarsi all’ente. È dall’interno del suo atto immanente che lo spirito conosce».27

C’è quindi un rifiuto della concezione dell’intelletto come comprensione che assimila l’altro al medesimo. Anche per Levinas, del resto, la soggettività è indissolubilmente legata al nodo gordiano del corpo e nessuna operazione intellettuale può coglierla in questa sua suprema susceptio: «Sensibilità, di carne e di sangue, io sono al di qua dell’anfibologia dell’essere e dell’ente, il non tematizzabile, il non unibile dalla sintesi».28 Possenti sembra fare riferimento a ciò quando parla dell’amore ek-statico e della conoscenza in-statica. «Se attraverso l’intelletto conosciamo come oggetti i soggetti personali, noi non rendiamo loro giustizia, perché non adeguiamo mai l’intuizione, oscura ma reale, che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto; intuizione esistenziale che forse non possiamo concettualizzare pienamente neppure a noi stessi. Solo nell’amore mi è rivelata in qualche modo la soggettività dell’altro. Il concetto oggettiva, l’amore (di dilezione) soggettiva, nel senso che raggiunge oscuramente ma realmente l’interiorità dell’altro. Ma questo genere di amore è raro. Quando esso accade, si può con ugual misura sostenere tanto il “soi-même comme un autre”, quanto il “un autre comme soi-même”».29 27

POSSENTI V., op. cit., p. 84. AE, p. 98. 29 POSSENTI V., op. cit., p. 80. 28

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Le cose appena dette ci permettono di fare in intermezzo sui termini amore ed eros. 5. L’intrattenimento erotico «Definita dall’amore l’interiorità è ekstatica».30 Per Possenti nell’amore s’istituisce la più alta forma di realizzazione della persona: l’apertura e l’uscita da sé per andare incontro a un’altro.31 Sappiamo che per Levinas, invece, il medesimo è già da sempre scompigliato dalla presenza dell’altro dentro di sé in modo pre-intenzionale: «Vivere non è un’estati, è un entusiasmo».32 È interessante notare quella che Possenti chiama “dialettica dell’amore”. Innanzitutto egli distingue il “bell’amore” dall’“amore egoista” – il cui senso si può facilmente intuire – senza alcun’altra determinazione. Poco dopo parla, appunto, di dialettica dell’amore, – inteso evidentemente in un senso unitario – aggiungendo tra parentesi i termini eros e agape; quindi sembra che eros sia l’amore egoista, mentre agape sia l’amore di dilezione. Entrambi sono intenzionati o dal Bene e dal Bello, oppure dal Volto dell’Altro come nella filosofia di Levinas, e non si può stabilire quale dei due movimenti sia più originario, se l’ascesa verso la suprema contemplazione del Bene/Bello, «o l’appello del volto dell’Altro e che accende il desiderio dell’Altro» (sic).33 Sembra, quindi, che Possenti 30

IBIDEM, p. 74. Cf. IBIDEM. 32 LEVINAS E., De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, trad. it. di ZENNARO G., Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986, p. 48. D’ora in poi citato DQVI. 33 POSSENTI V., op. cit., p. 75. 31

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stia qui intendendo il Volto d’Altri nella maniera plastica di faccia. Questo sarebbe confermato da una frase nella pagina successiva in cui si parla del volto sfigurato e senza nulla di desiderabile.34 Possenti inoltre sta utilizzando giustamente la parola volto con la “v” minuscola, lasciando intendere che sia il volto plastico; tuttavia quando dice Altro utilizza sempre la “A” maiuscola. Infine a sigillare quanto affermato, cita un’intervista di Levinas, Filosofia, giustizia e amore: «Prima dell’Eros c’è stato il Volto; e Eros stesso è possibile solo tra volti»,35 aggiungendo che questo è «un asserto in cui il platonismo è ad un tempo ridimensionato e oltrepassato verso l’ultima vetta dell’esperienza dell’amore, in cui eros è infine trasceso da agape».36 Ora effettivamente sembra giusto citare Filosofia giustizia e amore in cui Levinas utilizza, su sollecitazione del suo interlocutore, il termine agape molto raro nel suo vocabolario – se non addirittura un apax – insieme alla parola “amore” che egli stesso definisce in questa intervista una parola “usata e abusata”, “usata e ambigua” che non gli piace tanto.37 Eppure è nello stesso testo che Levinas dice «non penso che Agape nasca da Eros […]. Penso che l’Eros non sia l’Agape, che l’Agape non sia un derivato né l’estinzione dell’amore-Eros».38 Nella fenomenologia di Levinas il Volto è, tra le altre cose, 34

Cf. IBIDEM, p. 76. LEVINAS E., Entre nous. Essai sur le penser-à l’autre, éditions Grasset et Fasquelle, Paris 1991 ; trad. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 137-156. D’ora in poi citato EN. 36 POSSENTI V., op. cit., p. 75. 37 Cf. EN p. 137, 142; cf. anche p. 228. 38 IBIDEM, p. 148 passim. 35

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astratto,39 insignificante,40 nudo,41 invisibile,42 e quindi non-erotico per eccellenza perché non è mai presente al suo interlocutore, mai oggetto di presa o di mira intenzionale. Per comprendere meglio questo che, giocando con le parole come fa Levinas, chiamerei intrattenimento erotico (nel doppio senso di tenersi-tra e non-trattenersi) dobbiamo necessariamente fare riferimento all’ambiguità dell’amore descritta in Totalità e Infinito. Innanzitutto Levinas afferma che il fatto metafisico della trascendenza non si attua come amore, ma la trascendenza del discorso è legata all’amore, il quale, potendo essere diretto alle persone o alle cose, ci rigetta al di qua dell’immanenza stessa facendoci cercare un essere a noi connaturale, presentandosi come “incesto”. È il godimento a giustificare questa interpretazione e a far risaltare l’ambiguità di un fatto che resta fra la trascendenza e l’immanenza. Il desiderio è interrotto dal godimento, soddisfatto come il più egoistico e più crudele di tutti i bisogni. Questa, tuttavia, è “un’audacia eccezionale” dell’amore che si muta in bisogno, ma presuppone ancora l’esteriorità della trascendenza dell’amato. «Godimento del trascendente quasi contraddittorio» che non può essere detto né nei termini del parlare erotico né in quelli del linguaggio spirituale. «Questa simultaneità del bisogno e del desiderio, della concupiscenza e della trascendenza […], costituisce l’originalità dell’erotico che, in questo senso, è l’equivoco per eccellenza».43 39

Cf. LEVINAS E., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19743, trad. it. di SOSSI F., Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 227. D’ora in poi citato EDE. 40 Cf. EDE, 227. 41 Cf. TI, pp. 72-73. 42 Cf. TI, p. 32. 43 Cf. TI, pp. 261-262.

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L’amore tende ad Altri nella sua debolezza, la quale non è una qualche deficienza (come sembra accennare Possenti quando parla di volto sfigurato che non ha nulla di desiderabile); la debolezza qualifica l’alterità stessa del Volto che però si offre “alla mano” in una “ultramaterialità esorbitante” che non indica l’assenza dell’umano, ma una «nudità esibizionistica di una presenza esorbitante […] che profana ed è profanata». La profanazione è la simultaneità del clandestino e dello scoperto; essa appare nell’equivoco. La profanazione, tuttavia, permette l’equivoco e non viceversa. L’impudore e la profanazione sono i fenomeni originali in cui si presenta la nudità erotica. Il movimento dell’amante di fronte a questa debolezza si esprime nella carezza che è contatto e sensibilità, e consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sempre sfugge. Essa non è intenzionalità di svelamento, ma “cammino nell’invisibile”, verso ciò che non è ancora. Nella carezza che è sensibile e non intenzionale, il corpo si spoglia della sua forma, abbandona lo statuto di ente per offrirsi come nudità erotica.44 La carezza nella sua dinamica è com-mossa, è una sofferenza trasformata in felicità, voluttà, che non viene a colmare il desidero, ma è il desiderio stesso, l’impazienza. La voluttà come profanazione scopre il nascosto in quanto nascosto; lo scoperto non perde nella scoperta il proprio mistero. La scoperta/profanazione si mantiene nel pudore, anche se ha la forma dell’impudore. La scoperta non svela un segreto. «La nudità erotica dice l’indicibile, ma l’indicibile non si separa da questo dire». La voluttà profana non vede, è un’intenzionalità senza visione, un’esperienza pura perché resta esperienza senza trasformarsi in concetto.45 44 45

Cf. TI, pp. 264-265. Cf. TI, pp. 267-268.

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Questa «non significanza della nudità erotica» non precede, ma è preceduta dalla significanza del volto. La casta nudità del volto non sparisce nell’esibizionismo dell’erotico; esso resta mistero proprio in questa indiscrezione, può mostrare la propria franchezza proprio nella non-significanza del lascivo.46 In questo senso la nudità erotica è come un significato alla rovescia, che significa falsamente, una parola che s’immerge nel silenzio, perché dice non un senso, ma l’esibizione stessa. Per questo essa rinvia proprio al Volto che si esprime in franchezza e «ride sotto i baffi della propria espressione», facendo allusioni nel vuoto, indicando il men che nulla. Eros è perciò un’estasi al di là di ogni progetto. L’Eros va al di là del volto, ma non perché il volto nasconderebbe qualcosa dietro di sé, un altro volto. Ciò che è nascosto non è un ente, non possiede quiddità; per questo l’amore non va verso un Tu: va in una direzione diversa da quella nella quale incontra il Tu.47 «Niente è tanto lontano dall’Eros come il possesso» conclude Levinas.48 Siamo agli antipodi della visione di eros come amore egoistico o rapace. Eros mantiene un disordine e un’ossessione che lo rendono incapace di possedere ciò che vorrebbe possedere. Ma Levinas, come sempre, osa ancor di più, parlando di Eros come ciò che de-linea l’individuo, riflessione bellissima anche per la sua destrutturazione del soggetto inteso in senso maschilistico. «L’Eros non può essere interpretato come una sovrastruttura che ha l’individuo per base e per soggetto. Il soggetto nella vo46

Cf. TI, p. 268. Cf. TI, pp. 270-271. 48 TI, p. 273. 47

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luttà scopre di essere il sé […] di un altro e non soltanto il sé di se stesso […]. Il turbamento del soggetto non è assunto dalla sua signoria di soggetto, ma è la sua commozione, la sua effeminatezza, di cui l’io eroico e virile si ricorderà come una di quelle cose che sporgono dalla “cose serie”».49

L’Eros, e già eros e non agape, impedisce il ritorno del sé a se. Questo non-ritorno è la fecondità che fa parte del dramma stesso dell’io.50 Mi piace intravedere questa straordinaria eccedenza del Volto che ordina il non desiderabile, ma che si offre nella dinamica della soddisfazione del bisogno e del godimento nel capitolo 21 di Giovanni. Gesù domanda due volte a Simone di Giovanni (straordinaria permanenza del nome originale/originato dalla fecondità puramente umana), «agapàs me, mi ami tu?». E Pietro risponde «filò se, ti amo». La terza volta Gesù dice «filèis me?» e Simone si dispiace che il Signore abbia abbassato il tiro della sua richiesta, ma è proprio questa accondiscendenza dell’amore, questo “darsi alla mano” di Gesù che permette a Pietro di affidarsi pienamente al suo Signore. 6. Sinderesi ed elezione «Fai il bene perché bene; evita il male perché è male – scrive Possenti. Su questo piano la coscienza de-cide. Essa sceglie, magari sbagliando poiché non si dà coincidenza tra scelta della coscienza e verità del bene».51 49

TI, p. 279, passim. Cf. TI, pp. 280-282. 51 POSSENTI V., op. cit., p. 89. 50

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Quest’affermazione sembra reggere dal punto di vista formale, se la si intende come un imperativo categorico, ovvero di fare il Bene per il Bene, ma credo possa creare delle difficoltà dal punto di vista materiale. Possenti, infatti, subito dopo associa il bene alla verità, ovvero alla manifestazione dell’essere, rientrando nel piano ontologico. Io mi chiedo, tuttavia: se l’uomo comprende se stesso e quello che dovrebbe essere il Bene sul piano della rappresentazione che appartiene al gesto d’essere, com’è possibile, di là del soggettivismo o dell’inganno e del dubbio insito in ogni rappresentazione, stabilire la bontà del bene? Per garantirla si dovrà fare riferimento alla legge naturale o divina, ovvero si dovrà fare ricorso al concetto di Natura – concetto anch’esso secondo me troppo usato e abusato – o di Dio la cui essenza o volontà dovrebbero essere perfettamente comprese dall’ontoteologia. «Il soggettivo e il suo Bene non potrebbero essere compresi a partire dall’ontologia» scrive Levinas.52 Per poter strappare il Bene e il Soggetto dal gioco maligno della manifestazione dell’essere bisogna assolvere entrambi mediante il concetto di elezione sulla quale Levinas torna in diversi luoghi. Vorrei sottolineare, citando qualche passaggio, alcuni rapporti. Innanzitutto il rapporto, più profondo di ogni ontologia, che lega il soggetto al Bene. In Altrimenti che essere Levinas scrive che la bontà «non è un attributo che verrebbe a moltiplicare l’Uno; poiché se lo moltiplicasse, se l’Uno potesse distinguersi dalla Bontà che lo tiene, l’Uno potrebbe prendere posizione rispetto alla propria bontà, potrebbe sapersi buono e così perdere la propria bontà».53 52 53

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AE, p. 57. AE, p .73.

Questa intima unione anarchica, prima della scelta, è ribadita in Dio, la Morte e il Tempo: «Essere responsabile nella bontà è essere responsabile al di qua o al di fuori della libertà. L’etica si insinua in me prima della libertà. Prima della polarità del Bene e del Male, l’io si trova compromesso con il Bene nella passività del sopportare. L’io si è compromesso con il Bene prima di averlo scelto. Il che significa che la distinzione tra il libero e il non-libero non è l’ultima distinzione che distingue l’umano dal non-umano, e nemmeno il senso dal non-senso […]. Questa anteriorità della responsabilità rispetto alla libertà rappresenta la bontà del Bene: il Bene deve eleggermi prima che io possa sceglierlo; il Bene deve eleggermi per primo».54

Come si può, dunque, cogliere fenomenologicamente il Bene? Attraverso l’eccezionale ingiunzione del Volto d’altri,55 che mi ordina di soccorrere i suoi bisogni più corporei, la sua fame, ma anche di andare oltre l’idea stessa di Bene che io posso avere per lui, e che potrebbe annullare, schiacciare la sua trascendenza. «La bontà del Bene […] inclina il movimento che essa invoca per allontanarlo dal Bene e orientarlo verso altri e così solamente verso il Bene. Non rettitudine che va più in alto della rettitudine. Intangibile, il Desiderabile si separa dalla relazione del Desiderio che esso chiama e, in forza di questa separazione o santità, rimane terza persona: Egli (Il) al fondo del Tu […]: non mi riempie di beni, 54

LEVINAS E., Dieu, la Morte et le Temps¸ édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di PETROSINO S. - ODORICI M., Dio, la Morte e il Tempo, Jaca Book, Milano 1996, pp. 241-242 passim. D’ora in poi citato DMT. 55 Cf. AE, p. 16.

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ma mi costringe alla bontà, migliore dei beni da ricevere. Essere buono è perdita e deterioramento e stupidità nell’essere; essere buono è eccellenza ed altezza al di là dell’essere – l’etica non è un momento dell’essere – è altrimenti e meglio dell’essere, la possibilità stessa dell’al di là.56»

La non rettitudine della Bontà. Quando agiamo per il Bene dell’altro corriamo sempre il rischio di sacrificare la sua alterità all’idea che noi abbiamo del Bene, della Natura o di Dio – spesso mi chiedo quanto i concetti di legge naturale e divina possano costituire un alibi.57 La Bontà, tuttavia, come la intende Levinas, può salvarci da questo residuo di paganesimo. «La bontà distrugge senza lasciare ricordi, senza trasportare nei musei gli altari eretti agli idoli cruenti del passato; essa brucia i boschi sacri in cui si ripercuotono gli echi del passato. Il carattere ec-cezionale, stra-ordinario, trascendente della bontà dipende precisamente da questa rottura con l’essere e con la sua storia. Ricondurre il bene all’essere – ai suoi calcoli e alla sua storia – è annullare la bontà».58

Questa concezione, tuttavia, lungi dall’essere una negazione assoluta dell’essere o della verità o di Dio, essa vuole comprenderli, a mio parere, all’interno di una più grande realtà. Abuso ancora della pazienza del lettore citando Altrimenti che essere, dove Levinas, parlando della responsabilità per Altri 56

DQVI p. 92 passim. Possenti cita a p. 91 la definizione tomasiana di Legge naturale (Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali natura – S. Th., I-II, q. 91, a. 2). Con questa affermazione non si corre il rischio del naturalismo, o peggio il rischio di divinizzare quella che riteniamo essere la natura? 58 AE, p. 24. 57

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più antica di ogni impegno, di questa «obbedienza senza defezione in cui cova la rivolta» scrive: «È nelle forme di una tale risoluzione che significa non un mondo, ma un Regno. Ma Regno di un Re invisibile. Regno del Bene di cui l’idea è già un eone. Il Bene che regna, nella sua bontà, non può entrare nel presente della coscienza, fosse anche rammentato. Nella coscienza, esso è anarchia. La nozione biblica di Regno di Dio – Regno di un Dio non tematizzabile, di un Dio non-contemporaneo, cioè non presente – non deve essere pensata come un’immagine ontica di una certa «epoca» della «storia dell’Essere», come una modalità dell’essenza. È, al contrario, la stessa essenza ad essere già Eone del Regno».59

L’ontologia e il suo linguaggio potrebbero essere solo un momento all’interno di un respiro più ampio dello Spirito di Dio. 7. Sub-jectum Ci siamo come allontanati dalla visione di Possenti con le considerazioni sull’Eros e ora, trattando il punto centrale della nostra argomentazione, potremmo credere che queste linee divergano ulteriormente. Scopriremo invece che esse s’incontrano nel cuore di un chiasmo per poi dividersi ancora. Il cuore di questo chiasmo è l’idea di soggetto. Sappiamo che Levinas, nella ricerca di un senso prima e oltre l’essere, compie prima un’analisi della significazione del Dire inteso come «una passività dell’esposizione in risposta 59

AE, pp. 66-67.

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ad un’assegnazione che mi identifica come l’unico, non tanto riconducendomi a me stesso, quanto spogliandomi di ogni quiddità identica e, di conseguenza, di ogni forma, di ogni investitura che si nasconderebbe ancora nell’assegnazione».60 Un sé malgrado sé nell’incarnazione come possibilità stessa dell’offerta, della sofferenza e del trauma.61 La passività, propria della pazienza, significa nelle «sintesi passiva» della sua temporalità.62 C’è come una disgiunzione dell’identità, una non sintesi, una stanchezza. La soggettività nell’invecchiamento, tuttavia, è unica, insostituibile, ma «è malgrado sé».63 Questo paradosso del sé malgrado sé avviene nella dinamica della donazione del proprio pane, ovvero dell’inversione del conatus essendi nella quale però l’egoismo è importante, perché senza di esso il dare non avrebbe senso.64 Perciò nel cuore di Altrimenti che essere Levinas fornisce una “definizione” della soggettività in questi termini: «l’esserestrappato-da-sé-per-un-altro-nel-dare-all’altro-il-pane-dellapropria-bocca».65 Questo riferimento alla corporeità riemerge in un passo che ritengo essenziale al nostro discorso. In esso Levinas, ritornando sul concetto di creaturalità, ovvero della nascita del soggetto non da una propria iniziativa dice: «il se stesso si ipostatizza altrimenti» annodandosi in una responsabilità, in un intrigo anarchico in cui è «come espulso in sé fuori dall’essere»; quindi il sé è l’uno o l’unico separato dall’essere, e la coscienza di sé non è di nuovo una coscienza, 60

AE, p. 62. Cf. AE, p. 64. 62 Cf. AE, p. 65. 63 Cf. AE, p. 66. 64 Cf. AE, pp. 92-93. 65 AE, p. 98. 61

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ma un termine, in ipostasi. Questa ec-cezionalità, questa «inversione nel processo dell’essenza» questa “in-condizione” è attuata tramite la sensibilità e la vulnerabilità della maternità. Tale in-condizione è un ritrarsi in sé che è un esilio da sé. Ciò rende il sé una disuguaglianza in sé indeclinabile.66 «Questi attribuiti negativi della soggettività del se stesso non consacrano un qualche mistero ineffabile, ma confermano l’unità pre-sintetica, pre-logica e in un certo senso atomica – cioè individuale – del sé che gli impedisce di scindersi, di separarsi da sé per contemplarsi o per esprimersi e, di conseguenza, per mostrarsi se non sotto una maschera da commedia […]. Questo impedimento è la positività dell’Uno. In un certo senso atomica, poiché senza quiete in sé, poiché «sempre più uno» fino all’esplosione, alla fissione, all’apertura. Che questa unità sia torsione e inquietudine, irriducibile alla funzione che il se stesso esercita nell’ontologia compiuta dalla coscienza, la quale, attraverso il se stesso, opera il suo ritorno su di sé – ecco il problema. Come se l’unità atomica del soggetto […] non cessasse di fendersi. Il se stesso non riposa in pace sotto la sua identità, e tuttavia la sua in-quietudine non è scissione dialettica […]. L’unità, qui, precede ogni articolo e ogni processo».67

Dicevo che questo passo è essenziale perché, pur nel suo personalismo ontologico, Possenti fa delle affermazioni assolutamente assonanti alle considerazioni di Levinas. «Ogni persona è in esilio da se stessa» e cerca di tornarvi come Ulisse in viaggio verso la propria interiorità,68 che, tuttavia, resta un “mi66

Cf. AE, pp. 132-134. Vedi anche DMT p. 244: «L’io è un’ipseità spaiata senza ritorno a sé». 67 AE, p. 134 passim. 68 Cf. POSSENTI V., op. cit., p. 39.

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stero quasi insondabile” poiché «la conoscenza della soggettività è il grande scoglio contro cui si infrange ogni velleità conoscitivo-oggettivante del pensiero».69 La soggettività, aggiunge Possenti, è, come dice Maritain «un abisso sostanziale che, ben lungi dal definirsi mediante la coscienza di sé, sfida la coscienza di sé, perché è per la coscienza una notte che diventa sempre più profonda man mano che essa vi si immerge».70 Non si potrebbe trovare concetto più vicino alle idee di Levinas che stiamo considerando. Eccolo il cuore del chiasmo, io ne sono totalmente esterrefatto! Questa espressione trova una precisa eco nelle parole di Levinas: «È probabilmente a partire dalla prossimità che bisogna affrontare il difficile problema della soggettività incarnata, del soggetto che si vuole ostinatamente libero e che […] si da un non-io nelle rappresentazioni per poi trovarsi, paradossalmente, preso nelle sue proprie rappresentazioni».71

Questo “abisso sostanziale”, questa “unità pre-sintetica” fino alla fissione mi sembra espresso dal paradosso personalistico dell’incommunicabilitas che, secondo Possenti è «compresenza di assoluta incomunicabilità ontologica e di illimitata comunicabilità intenzionale».72 Concetto, questo, che Levinas esporrebbe con l’idea di elezione e unicità, per la quale io sono chiamato a rispondere di Altri in modo anarchico. In Altrimenti che essere, però, egli utilizza dei termini con maggiori assonanze con quelli del Personalismo. 69

Cf. IBIDEM, p. 99. MARITAIN J., La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1973, p. 185. Citato in POSSENTI V., op. cit., p. 97. 71 AE, pp. 106-107 passim. 72 POSSENTI V., op. cit., p. 95. 70

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«La significazione precede l’essenza […]. Ci si può chiedere se la soggettività come significazione, come l’uno-per-l’altro, non si riferisca alla vulnerabilità dell’io, all’incomunicabile, alla nonconcettualizzabile sensibilità».73

È dalla vulnerabilità della sensazione, dall’Io «che è in se come nella sua pelle»,74 nel «non luogo, frat-tempo o contrattempo (o disgrazia) al di qua dell’essere e al di qua del nulla tematizzabile come essere»,75 che possiamo comprendere il sé che svuota se stesso in una ricorrenza che sarebbe l’ultimo segreto dell’incarnazione.76 È da questa in-quietudine, che non è scissione dialettica,77che possiamo comprendere come il battito della sensibilità è la non coincidenza dell’io con se stesso, un’insonnia causata dall’«altro ispirante il medesimo».78 Questo concetto ci servirà dopo per comprendere meglio l’idea di relazione, ma vorrei dedicare un po’ di tempo alla considerazione del sub-jectum perché ci tornerà utile quando rileggerò la definizione tomista di persona in chiave levinasiana. Dopo aver descritto il soggetto come ricorrenza a sé, come fissione atomica, Levinas esplicita due funzioni di questa unità pre-sintetica: essa sopporta su di sé l’essere e gli dona un senso. «Una condizione che conferisce un senso all’essere stesso ed accoglie la sua gravità: è come riposante su un Sé, sopportante 73

AE, pp. 18-19 passim. AE, p. 135. 75 AE, p. 136. 76 Cf. AE, p. 139. 77 Cf. AE, p. 134. 78 Cf. AE, p. 81. 74

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ogni essere, che l’essere si raccoglie in unità e l’essenza in avvenimento. Il Sé è Sub-jectum: è sotto il peso dell’universo – responsabile di tutto».79

Il soggetto è per Levinas il punto cruciale della questione ontologica: quando l’essenza anonima grava sulle spalle di un soggetto responsabile, unico, acquisisce un senso, diviene Universo. «Così si trascende l’essere». In questo senso l’Io non sarebbe una sostanza alla quale si aggiunge, come un attributo, quello del sopportare: è proprio la sua «unicità eccezionale nella passività» a costituire il suo avvenimento come un «mettersi alla rovescia».80 «Nell’espiazione, su un punto dell’essenza pesa – fino ad espellerlo – il resto dell’essenza. Responsabilità per la creatura di cui il Sé è l’enfasi stessa».81

Vorrei a questo punto fare una divergenza anch’essa necessaria per la nostra ri-definizione o in-definizione di persona. Levinas utilizza i termini ipostasi, soggetto, soggettività, Io, ciascuno con sfumature diverse. Quando usa il termine Io si riferisce alla soggettività responsabile nella sua unicità, al soggetto che dice eccomi (sì io) all’appello d’Altri. In Difficile libertà questa capacità di rispondere all’appello, prima che esso sia pronunciato, è accostata da Levinas al Messianismo: «Il Messia sono Io, ed essere Io è essere Messia […]. Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia».82 79

AE, p. 145. Cf. AE, 146. 81 AE, p. 158. 82 LEVINAS E., Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 19833, trad. it.di FACIONI S., Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004, pp.116-117 passim. 80

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Questo mettersi alla rovescia al di fuori dell’essenza per sopportare su di sé l’Universo, il Messianismo, è definito da Levinas in Tra noi, un «apogeo nell’Essere».83 8. Relazione Tutto il pensiero di Levinas è una filosofia del discorso, del Dire originario, della prossimità. Questo tema è così presente in tutta la sua opera che non si può estrapolarlo in una citazione: sarebbe riduttivo. Ai fini della nostra argomentazione, e anche perché stiamo seguendo il filo conduttore di Altrimenti che essere, farò riferimento a un paio di punti. Più su abbiamo detto come, attraverso il battito della sensibilità, la non coincidenza dell’io con se stesso, ci sia l’insonnia dell’altro ispirante il medesimo.84 Questa ispirazione che è psichismo significa alterità nel medesimo senza alienazione, come incarnazione, come «essere-nella-propria-pelle» come «avere-l’altro-nella-propria-pelle». In questa sostituzione il sé si assolve da sé e «l’essenza si supera nell’ispirazione».85 La parola ispirazione è evocativa, richiama molto le relazioni intratrinitarie (filiazione, spirazione) nelle quali la Persona divina non è definita in base alla propria essenza, perché l’essenza di Dio è una sola, ma in base alla relazione. Dal canto suo Levinas identifica l’espiazione con l’Io che non è un ente (che possiede quindi una sua sostanzialità precedente 83

Cf. EN, p. 92. Cf. AE, p. 81. 85 Cf. AE, pp. 143-144. 84

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il suo atto di espiare) capace di espiare per altri: è questa stessa espiazione, è Bontà.86 Levinas si pone quindi al di fuori del concetto realista di relazione, per il quale la relazione è intesa a partire da una sostanza. La responsabilità per altri non è l’accidente di un Soggetto, ma precede in esso l’Essenza.87 In questa passività estrema, in questa sostituzione che è unicità in cui il soggetto vive in una fissione atomica che lo mette in relazione con Altri, non c’è definizione dell’Io. «La ricorrenza diviene identità facendo esplodere i limiti dell’identità, il principio dell’essere in me, l’intollerabile quiete in sé della definizione».88

L’Io è in(de)finito, per la sua relazione pre-essenziale con l’Infinito che si esprime nel Volto d’Altri. Levinas lo ripete, recuperando però un concetto caro al Personalismo: quello di anima. «Dire che l’Io è sostituzione non è dunque enunciare l’universalità di un principio, la quiddità di un Io, ma, al contrario, è restituire all’anima la sua egoità allergica ad ogni generalizzazione».89

Sappiamo da Aristotele che la relazione è una delle categorie che suppone la sostanza, eppure Possenti sembra aver udito la voce dell’altro (Levinas in questo caso) quando afferma che «la persona non è […] una sostanza-sostrato inerte 86

Cf. AE, p. 148. Cf. AE, 143. 88 AE, p. 143. 89 AE, p. 160. 87

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cui a un certo punto si aggiungono la natura razionale e la libertà». La persona non è un semplice suppositum perché ha la razionalità. Perciò è opportuno distinguere soggetto da persona: il soggetto è inerte, mentre la caratteristica della persona è la sua relazionalità o spiritualità. Per questo non tutti i soggetti sono persone. «La persona sta più in alto del soggetto».90 Evidentemente qui ci troviamo molto lontano, se ci riferiamo ai termini, dal pensiero di Levinas, ma nei contenuti tale distanza sembra ridursi. Anzi! Possenti si “approssima” a Levinas quando afferma che la persona non è maschera, ma volto che «porta iscritto l’appello a essere rispettato».91 La disamina di questa prossimità diventa più intrigante e complessa quando studiamo il cuore argomentativo del concetto di relazione. Nell’analisi del Possenti la relazione accade a partire dalla sostanzialità.92 L’essere in relazione è proprio della persona, ma non la costituisce come se la sua essenza fosse la relazionalità, anche se la relazione non si aggiunge in modo estrinseco alla persona.93 L’importante, per Possenti, è non ridurre la persona a nessuno dei due poli, la relazionalità o la sostanzialità.94 Certo l’esistenza della persona è fondata su una «relazione originaria a cui si può dare il nome di “metafisica dell’amore”», ma ridurre la persona a relazione comporta che essa valga solo come parte di un Tutto, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi.95 90

Cf. POSSENTI V., op. cit., pp. 35-36. Cf. IBIDEM, p. 37. 92 Cf. IBIDEM, p. 69. 93 Cf. IBIDEM, p. 65. 94 Cf. IBIDEM, p. 66. 95 Cf. IBIDEM, p. 67. 91

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Ecco un altro chiasmo col pensiero di Levinas: se da una parte Possenti si avvicina all’idea del Dire originario, dall’altra sembra allontanarsi da quella di relazione anteriore all’essenza. Qui vorrei solo ricordare che per Levinas l’idea di sostituzione, di elezione e quindi di unicità non rende parte di un Tutto neutro che costituirebbe l’Io. Al contrario: proprio la sostituzione espelle l’Io dall’essenza e dai suoi giochi e lo rende unico nella sua elezione. Del resto Possenti più avanti scrive: «La sostanzialità non è priorità dell’io né la relazionalità priorità de tu, ma in entrambe si esprime l’idea che l’io e il tu siano radicati nell’essere».96 Possenti rilancia la palla nel campo di gioco dell’essere. Ma l’essere non è il Tutto neutro al quale egli voleva negare la priorità? Possenti però corregge il suo tiro quando, poco dopo afferma che l’uomo come persona non è una parte o frammento, ma una totalità che possiede un che di singolare e irripetibile e proprio per questo è capace di autotrascendenza e di dono.97 Sembra di ripercorrere le analisi che Levinas compie in Totalità e Infinito quando parla della necessità della «separazione radicale» per l’istaurazione del Discorso, del rapporto non con l’essere, ma con l’Infinito.98 «La totalità e l’abbraccio dell’essere e dell’ontologia non detengono il segreto ultimo dell’essere. La religione, nella quale sussiste il rapporto tra il Medesimo e l’Altro nonostante l’impossibilità del Tutto – l’idea dell’Infinito – è la struttura ultima».99

Credo che Possenti e Levinas stiano suonando una me96

Cf. IBIDEM. Cf. IBIDEM. 98 Cf. TI, pp. 51-79. 99 TI, p. 78. 97

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desima sinfonia in chiavi diverse. La separazione radicale e l’incomunicabilitas mi sembrano due chiavi di questa sinfonia. Scrive Possenti in relazione all’incomunicabilitas: «La persona è capacità di porsi in relazione con l’intero; non come la parte si rapporta al Tutto, ma come un tutto al Tutto»,100 «una totalità concreta, un tutto autonomo e indipendente […] un tutto in cui si rispecchia l’infinito».101 È interessante notare anche come Possenti, nel trattare questo insondabile mistero della Persona, utilizzi delle idee molto vicine a quelle di Levinas sulla sensibilità, sull’ambivalenza del linguaggio, e molto simili al concetto di traccia. Accade quando Possenti parla della relazione come revelatio intesa come una «intrinseca ambivalenza, un darsi e un ritrarsi, un rapporto mai pienamente determinato tra lo spirituale e il corporeo».102 Un’ambiguità che vale sia nel rapporto con altri, che in quello con noi stessi. Allo stesso modo sono vicine a quelle di Levinas, riguardo l’Eros, le considerazioni che Possenti fa della relazione come bisogno ed eccesso.103 I bracci di questo chiasmo infinito si allontanano di nuovo quando Possenti ripete la sostanzialità o identità della persona come presupposto della relazione: «L’esser-persona non dipende dal fatto che qualcuno mi riconosca tale, ma da un carattere più sorgivo ed essenziale, legato alla sostanzialità del mio atto di esistere»,104 per giungere, come alla fine di una questione tomistica, alla “con-clusione”: 100

POSSENTI V., op. cit., p. 95. IBIDEM, p. 99 passim. 102 IBIDEM, p. 96. 103 Cf. IBIDEM, p. 68 104 IBIDEM, p. 68. 101

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«Se non sussistono motivi per negare o diminuire il rilievo della relazionalità, cui l’approccio sostanzialistico fornisce il migliore supporto, non è possibile la sostituzione della sostanza con la relazione nella determinazione del concetto di persona umana, il che equivarrebbe ad introdurne una nuova definizione: la persona è una relazione individuale di natura razionale (persona est rationalis naturae indivudua relatio). In tal modo la persona sarebbe una “relazione sostanziale”, non una “sostanza relazionale”, assunto cui seguirebbe che con la soppressione della relazione verrebbe meno la totalità della persona».105

Credo che la difficoltà di questa espressione stia nel voler comprendere la persona all’interno della diade ente-non ente, o comunque del linguaggio ontologico e dell’anfibologia dell’essere e dell’ente. Quando invece Levinas parla di esposizione sta cercando proprio di sottrarsi a questo «prestigio della Totalità» e all’imperialismo logico dell’essere. Il discorso di Possenti dà per scontato, insomma, che tutto ciò che è logos ha a che fare con l’essere che necessariamente chiude nella definizione dell’essenza tutti gli enti che appartengono al suo atto. Ciò che io, invece, sto difendendo è l’idea di persona come in(de)finita. Scrive Levinas in Altrimenti che essere: «La prossimità è il soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più – o meno – di un termine. Questo sovrappiù o questa mancanza mi getta fuori dall’oggettività della relazione […]. Io sono termine irriducibile alla relazione e tuttavia in ricorrenza che mi priva di ogni consistenza».106 105 106

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IBIDEM. AE, p. 102 passim.

In aggiunta a questo discorso Possenti fa delle considerazioni sulla morte, o sul senso comune della morte, secondo le quali, se la persona fosse solo relazione la morte la annienterebbe e noi conserveremmo degli altri solo un umbratile ricordo. Il concetto di sostanza razionale, invece, introduce l’idea della sussistenza oltre la vita fisica. Levinas, tuttavia, parla della morte di Altri in termini totalmente diversi. È proprio perché la morte d’Altri m’inquieta più della mia che essa rappresenta un disinteressamento, una rottura del conatus essendi, un movimento non intenzionale e un ad-Dio.107 9. Verso un’in-definizione della persona Possenti si approssima, tuttavia, di nuovo a Levinas quando sottolinea le differenze tra personalismo e individualismo,108 e analizza il dibattito che oppone la “persona come sostanza” alla “persona come relazione”. «Esse vengono considerate antitetiche – scrive Possenti – spesso in ragione di un certo concetto di sostanza rifiutato come superato, statico, inerte substrato, per cui le sostanze sarebbero “cose”, meri oggetti. Non vi è niente di buono da attendersi da semplificazioni così grossolane, in cui la sostanzialità di un soggetto personale e libero viene rappresentata ad uso degli indotti come un substrato morto, come fosse un sasso. In realtà ontologia della sostanza e ontologia della relazione sono intrinsecamente connesse […].

107 108

Cf. DMT, pp. 47-167. Cf. POSSENTI V., op. cit., p. 73.

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La strettissima connessione tra sostanza e relazione significa che l’essere personale è insieme: un esse-in (sostanzialità), esse-per-se (fine in sé), un esse ab (procede da qualcuno), un esse-ad (è rivolto verso qualcuno e qualcosa), un esse-cum (relazione e comunità), un esse-pro (proesistenza e dono in favore dell’altro) […]. L’opposizione tra sostanza ed esistenza è fittizia e manifesta una comprensione solo essenzialistica e non esistenziale dell’essere e della sostanza. In realtà il genio di Tommaso è calato ben dentro l’esistenza, è il più esistenziale tra tutti i filosofi perché pensa l’essere come atto ed energeia».109

Compiamo, dunque la trasgressione ultima, la prossimità audace, di rileggere la definizione di persona di San Tommaso con le parole di Levinas. Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura (S. Th., I. q. 29. a. 3.): Persona significa l’apogeo nell’essere, cioè chi sopporta su di sé il peso dell’universo nel Dire originario verso Altri. C’è in questa in-definizione un rapporto originario verso la Trascendenza. Possenti richiama tale rapporto quando afferma che «ogni autentico comunicare fra uomini è un processo triangolare, che non può non passare per la Trascendenza».110 Questa “triangolazione” con la Trascendenza riceve dalle parole di Levinas meravigliose assonanze. «Nella convocazione assoluta del soggetto – scrive Levinas – si ode enigmaticamente l’infinito: l’al di là e l’al di qua. Bisognerà precisare la portata e l’accento della voce in cui l’Infinito così si ode […]. Bisogna assolutamente chiedersi se nella significazione dell’uno-per-l’altro […] non si oda forse una voce che viene da orizzonti al109 110

408

IBIDEM, pp. 113-115 passim. POSSENTI V., op. cit., p. 83.

trettanto vasti come quelli nei quali si situa l’ontologia»111. Questi orizzonti evocati da Levinas sono quelli dell’Enigma dell’Infinito in cui il Dire, responsabilità assoluta, nella quale sono solo, può diventare anche contestazione dell’Infinito, ma solo così un’entrata nei suoi disegni.112 Scrive Levinas nelle pagine conclusive di Altrimenti che essere. «Siamo forse ricondotti all’umanità come ad un’estrema possibilità nell’essere in cui la sostanzialità del «sopportarsi» si desostantifica in un «sopportare l’altro», in un «sostituirsi ad esso»? O attraverso questa ipseità, ridotta all’insostituibile ostaggio, il sé equivarrebbe all’entrata del soggetto nel gioco o nei disegni dell’Infinito?»113

La “triangolazione” con la Trascendenza è evocata da Levinas nella relazione con il terzo, il prossimo, per il quale l’assolutezza del rapporto etico deve diventare giustizia che modera la sostituzione di me all’altro e mette anche me in società. «“Grazie a Dio” io sono altri per gli altri. Dio non è «in causa» come preteso interlocutore: la correlazione reciproca mi lega all’altro uomo nella traccia della trascendenza, nell’illeità. Il «passaggio» di Dio […], è precisamente il capovolgimento del soggetto incomparabile in membro della società».114

111

AE, p. 175-176 passim. Cf. AE, p. 193. 113 AE, p. 192. 114 AE, p. 198 passim. 112

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10. In-conclusioni s-conclusionate In questo percorso chiastico abbiamo cercato un im-possibile incontro tra la filosofia realista, l’ontologia, e il pensiero di Levinas a partire dalla concretezza dell’esistenza, dalle relazioni umane, cercando di cogliere quelle che Levinas chiama «le possibilità estreme delle significazioni umane, stravaganti perché portano a vie d’uscita».115 È stato un cammino faticoso e non privo di pericoli e derive. Ma solo correndo il rischio del delirio si può tentare di esporre, nella modalità del soggettivo, l’altrimenti che essere. «Quanti condizionali! Singolari eventualità in verità»116 direbbe Levinas. Ciascuno di noi, nell’egoità della sua anima allergica a ogni de-finizione è una di queste singolari eventualità. Abbiamo incrociato concetti in avvicinamento e allontanamento nel tentativo di trovarci nel cuore di un chiasmo per riproporre una filosofia dell’essere in chiave fenomenologica. Sembra che lo stesso Possenti senta il richiamo di questa provocazione che è anche convocazione. «La filosofia dell’essere è anch’essa in un certo modo una filosofia dell’esteriorità, poiché sostiene che dapprima accade la coscienza dell’altro rispetto all’autoconoscenza dell’io […]. Sicché la comunicazione umana, quale scambio fra soggetti spirituali per i quali vale la regola dell’interiorità, è propriamente il riconoscersi e il relazionarsi di due interiorità nell’esteriorità. Scarso è quindi il fondamento cui si oppongono esteriorità ed interiorità, individualità soggettiva e alterità. La coscienza che risponde all’appello dell’Altro è la coscienza di un io, di un sog115 116

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AE, p. 74. AE, p. 33.

getto dotato di interiorità; il pensiero dell’alterità è insieme una (ri)visitazione della soggettività e dell’interiorità. In una concezione della coscienza come coincidenza di interiorità ed esteriorità e come originariamente etica, la donazione di senso non appartiene alla coscienza trascendentale dei moderni dove non di rado sussiste il rischio di pervenire ad una egologia chiusa, ma all’esteriorità etica del volto d’altri».117

Mi si conceda una finale (ri)visitazione. Levinas dice che bisogna sempre tornare al testo originale per far emergere da esso nuovi significati in una sollecitazione midrashica. Senza voler ridurre la persona a maschera inerte, ma conservando il concetto tomasiano di energeia accostandolo a quello levinasiano di essanza come sonorità del verbo essere, direi che la Persona per-sona: la sua “essenza” consiste nell’amplificare la voce di un tenue sussurro…di Dio?

117

POSSENTI V., op. cit., p. 88 passim.

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“CONTRAPPORSI SENZA MASSACRARSI”. IL CONTRIBUTO DEL PARADIGMA DEL DONO ALLA RICERCA DI UN CRITERIO REGOLATIVO DELLA CONVIVENZA NELL’ETÀ GLOBALE Daniela Falcioni «Contrapporsi senza massacrarsi». Questa formula di Marcel Mauss, compare nelle “Conclusioni di sociologia generale e di morale”del Saggio sul dono.1 Con la sua forza icastica, essa costituisce una sintesi di tutto il saggio di Mauss, una sorta di regola aurea della convivenza umana. Questa regola – una regola che rappresenta un programma di uscita dalla dialettica amico-nemico – contiene una speranza che naviga nell’incertezza: la speranza che il nemico o l’estraneo possano diventare un alleato, un socius. Ma qual è il significato di questa formula? Per rispondere a questa domanda discuteremo, innanzitutto, (1) il paradigma del dono di Mauss, per cercare poi(2) di intervenire su quel paradigma presentando alcuni emendamenti. In questo modo ci proponiamo di discutere alcuni profili etico-politici presenti nel saggio di Mauss. DANIELA FALCIONI, Professoressa associata di “Antropologia filosofica” presso l’Università della Calabria. 1 MAUSS M., Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques, «Année Sociologique», (1923-1924); trad. it. di ZANNINO F. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 20054; Sul tema cf. la Postfazione di Francesco Fistetti in Manifesto conviviaslista, ETS, Pisa 2014

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1. Il paradigma del dono di Mauss Per comprendere questo paradigma, bisogna almeno accennare alla critica di Mauss all’ homo oeconomicus. Secondo l’antropologo francese una delle derive dell’economia capitalistica e dell’ideologia che l’accompagna, consiste nella riduzione dell’uomo a uomo economico. Un tale riduzionismo avrebbe trasformato l’uomo – così Mauss – in «una macchina, anzi in una macchina calcolatrice».2 In altri termini, critica l’uomo che prende, calcola e capitalizza. Ma cosa opporre a questa concezione riduttiva dell’uomo? Questa domanda costituisce il filo rosso delle ricerche dell’antropologo francese, ciò che lo portava a leggere di tutto e di più, che lo spingeva a nutrirsi di studi etnografici, che lo costringeva a guardare negli interstizi, nelle pieghe delle società del passato e del presente. Mauss si accorge che alcune società tradizionali vivevano dinamiche diverse dallo scambio capitalistico: l’obbiettivo degli agenti sociali non era quello di arricchirsi sempre più, non erano tutti malati di utilitarismo. Queste società tradizionali avevano costruito fondamenta diverse, si basavano, secondo Mauss, su una triplice obbligazione: dare, ricevere e ricambiare. Esse si basavano sull’obbligo di essere generosi, anzi di rivaleggiare in generosità. Nei suoi studi, Mauss si confronta non solo con forme di dono agonistico, ma anche con casi in cui l’agonismo diventa estremo e induce a mal partito colui che non può restituire. Attraverso l’analisi del dono agonistico, Mauss ci mostra che il dono non cancella il conflitto, ma esercita una virtù par2

MAUSS M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, cit., p. 132.

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ticolare: trasformare lo scambio di insulti, di colpi, di disgrazie, in scambio di complimenti, di donne, di grazie. Detto altrimenti: il ciclo del dono – associando la componente materiale con quella simbolica – cerca di trasformare lo scambio di mali in scambio di beni. Questa infrastruttura morale è alla base del dono come atto pubblico, atto che assume, in quelle società, una rilevanza politica. É il filosofo Marcel Hénaff ad aver spiegato che la posta in gioco non è solo, non è tanto il dono di beni, ma la volontà di sancire alleanze. Nelle società tradizionali, gli scambi cerimoniali mettevano in atto procedure pubbliche di riconoscimento reciproco tra gruppi: in esse la cosa donata diventa il simbolo-testimone di un patto. Siglando quelle alleanze politiche, quei gruppi, quelle società cercavano di costruire un’alleanza, un’alleanza che si realizzava attraverso il dare, ricevere e ricambiare, un ciclo che unisce e permette di trasformare la guerra in pace, la morta in vita, il nulla in qualche cosa.3 Così facendo, quelle società cercavano di mettersi al riparo dal ciclo opposto, il ciclo diabolico, il ciclo che separa, quello del prendere, rifiutare e conservare.4 2. Emendamenti al paradigma maussiano 2.1. Primo emendamento. Il paradigma appena esaminato descrive un ciclo del dono che porta ad uno stato di equilibrio 3

HÉNAFF M., Antropologia del dono e riconoscimento sociale, in FALCIONI D. (a cura di), Cosa significa donare?, Guida, Napoli 2011, pp. 46-51. 4 CAILLÉ A., Don, care et santé, «Revue du MAUSS permanente», 9 mai 2014, pp. 2-4 [en ligne]. http://www.journaldumauss.net/./?Don-care-et-sante

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sia a livello individuale che a livello sociale. Questo equilibrio è quello di una reciprocità riuscita, reciprocità di doni e di riconoscimenti. Ma questo equilibro non è sempre realizzabile. Esistono situazioni di vulnerabilità come la vecchiaia, la malattia, la povertà, nelle quali c’è troppa dissimmetria tra donatore e donatario, tutti casi in cui non può esserci reciprocità, almeno una reciprocità materiale. In queste condizioni, c’è bisogno di qualcuno che doni unilateralmente, c’è bisogno di qualcuno che si preoccupi di noi senza attendersi nulla in cambio. C’è bisogno che qualcuno si prenda cura di noi, un prendersi cura che viene da altrove, che viene da una eccedenza, da una sovrabbondanza.5 Così l’etica della cura – con le sue traduzione contemporaneo (Carol Gilligan, Joan Tronto ) – introduce ciò che manca al paradigma maussiano del dono. In effetti quando si osserva l’esercito ombra di coloro che si prendono cura degli altri, questo esercito invisibile, incontriamo una umanità diversa, incontriamo soggetti che danno cura perché hanno riconosciuto di essere vulnerabili, di aver bisogno di cura, soggetti in relazione. Soggetti che non pensano né ad una priorità dell’io, né ad una priorità dell’altro, ma ad un essere con l’altro.6 2.1. Secondo emendamento. Quel dono agonistico analizzato da Mauss, un dono che è affermazione di rango, un dono che porta onore e prestigio può, come abbiamo visto, sciogliere le tensioni, canalizzare le spinte distruttive, istituire la pace, oppure, se non riesce portare alla guerra. Si tratta di doni 5

RICOEUR P., Amore e giustizia, trad. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia, 20032, pp. 9-21. 6 CHANIAL P., The Gift and Care, Reuniting a Political Family?, «Revue du MAUSS permanente», 25 juin 2014, pp. 2-4 [en ligne]. http://www.journaldumauss.net//?The-Gift-and-Care-1129.

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virili, dei doni più visibili, quelli che occupano la scena del mondo: i loro attori sembrano ricordarsi il luogo dove hanno deposto le armi, sono pronti lance in resta a negare la vita con le sue necessità, ma anche la natura, cioè tutto ciò che non può essere pienamente controllato dalla volontà dell’uomo. Accanto a questi doni, ne esistono altri – ignorati da qual paradigma – doni ritenuti marginali, come il dono della vita, doni che ci riportano più vicini a ciò che non può essere pienamente controllato, doni che vengono trascurati, negati, disconosciuti, ma sono proprio per questo i più importanti.

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IDENTITÀ E DIFFERENZA SESSUALE Maria Teresa Russo 1. Premessa “La Grande Madre” è una mostra che fa pensare. Organizzata a Milano in occasione dell’Expo 20151, riunisce una serie di opere d’arte contemporanea accomunate dal tema della maternità e del femminile. Un evento che si concentra «sul potere della donna madre, simbolo della creatività», come si legge nella presentazione, ma che parte dall’assunto fondamentale della maternità come “campo di battaglia”, secondo il titolo di una delle opere esposte, quella di Barbara Kruger dal titolo “Your Body is a Battleground”. Nelle parole del suo curatore, Massimiliano Gioni, la maternità è stata infatti un terreno di scontro, sottratto ai diritti delle donne e appaltato ai soprusi dell’uomo o dello Stato2. Più rivendicativa che celebrativa, la mostra intende giustamente rifuggire da certe idealizzazioni che hanno funzionato come alibi per imporre alla donna un destino spesso gravoso, ma offre al visitatore uno scenario inquietante, per la progressiva dissacrazione non MARIA TERESA RUSSO, docente di "Filosofia Morale" e di "Bioetica" presso l’Università degli Studi «Roma Tre». 1 Milano, Palazzo Reale, dal 25 agosto al 15 novembre 2015. 2 Cf. GIONI M. (a cura di), La Grande Madre, Skira, Milano 2015.

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soltanto del materno ma dello stesso modello femminile. Con l’intento di decostruire la rappresentazione serena della donna madre liquidandola come uno stereotipo, la più recente raffigurazione artistica dei corpi punta infatti all’informe e al deforme, fino a provocare un senso di disgusto o di orrore. La mostra è una conferma che le trasformazioni della sessualità sono strettamente legate a quelle dei generi e della percezione del corpo. Ad essere coerenti, la tappa finale dovrebbe essere la dissoluzione di ogni forma come riflesso dell’eclissi del corpo. Un epilogo a dir poco angosciante, che tuttavia sembra essere auspicato come liberatorio, secondo il curatore Gioni: «provare a immaginare un’arte postgender o postsessuale: nel momento in cui non esistono più generi, in un certo senso non esistono più ingiustizie»3. Risulta quanto mai singolare che in una cultura che esalta ogni tipo di differenza, solo quella sessuale faccia paura e divenga sinonimo di ingiustizia. Forse può essere opportuno ripercorrere il cammino che ha determinato questa nuova sensibilità, effetto del tutto diverso da quello auspicato dallo stesso movimento femminista. 2. Dalla rivoluzione sessuale all’in-differenza tra i sessi Come è stato giustamente osservato, la rivoluzione sessuale si può definire l’ultima grande rivoluzione della modernità, anzi, il compimento dell’idea stessa di rivoluzione. Infatti, a differenza delle altre rivoluzioni che hanno prodotto un mu3

FANELLI F., Di mamma non ce n’è una sola, in «Il Giornale dell’Arte», (25 agosto 2015), edizione online: http://www.ilgiornaledellarte.com

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tamento delle strutture sociali, economiche, politiche, la rivoluzione sessuale ha trasformato il fondamento stesso della società e della politica: la persona umana4. Ne ha trasformato la generazione (con la contraccezione e la tecnologia applicata alla procreazione), la genealogia (sconvolgendo i rapporti di filiazione e alterando la struttura della famiglia), l’identità (maschile/ femminile). A ben guardare, si potrebbe addirittura parlare di tre rivoluzioni sessuali o perlomeno di tre tappe fondamentali. La prima è quella che ha comportato la separazione della sessualità dalla procreazione, che diviene così un’azione programmata o rifiutata; la seconda è costituita dalla scissione tra sessualità e unione stabile, con la connessa privatizzazione dei legami; la terza, più recente, con la cosiddetta “teoria del Gender”, propone la separazione tra sessualità, riproduzione e identità sessuale. I fili che compongono la rivoluzione sessuale o, come si è detto, le tre rivoluzioni, sono vari e di diversa matrice. Tuttavia è possibile riconoscervi nel fondo due grandi rivendicazioni: quella di una libertà intesa come liberazione –e dunque come “libertà da”– e quella dell’uguaglianza radicale. Filosofia, psicoanalisi, marxismo e innovazioni tecnico-scientifiche hanno contribuito ad alimentarle, creando un clima radicalmente nuovo, in cui non è facile riconoscere le cause dagli effetti. Non è del tutto chiaro, infatti, se sia stato il progresso scientifico ad aver progressivamente mutato l’assetto morale della società inducendo nuovi comportamenti o, al contrario, se siano stati i movimenti di pensiero a orientare in una certa direzione anche la scienza e la tecnica. Senz’altro, il discorso 4

Cf. MALO A., Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, Edusc, Roma 2010,

p. 28.

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psicoanalitico, centrato sulla sessualità, ha avuto una influenza determinante nell’innescare una serie di cambiamenti, con dei risvolti o meglio delle derive che forse neppure Freud stesso avrebbe condiviso. Si pensi alle tesi di Wilhelm Reich, che negli anni Trenta è il primo a utilizzare il fortunato termine di “rivoluzione sessuale”. Identificando la salute psichica con la liberazione della sessualità, ma in una versione ben lontana dalle teorie di Freud e tentandone una sintesi con il marxismo, egli accusa la classe dominante di mantenere l’ordine sociale servendosi della repressione del libero manifestarsi dell’energia sessuale5. Le sue opere coincidono cronologicamente con le indagini condotte nelle isole della Polinesia, a Samoa, dall’antropologa americana Margaret Mead (1928), che sembravano offrire una prova scientifica non soltanto della “naturalità” della libertà sessuale, ma anche del suo valore positivo per l’armonia personale e sociale. Dalle descrizioni della Mead la società polinesiana sembrava il prototipo della società felice e priva di nevrosi, grazie alla pratica del sesso libero e a una assoluta assenza di sensi di colpa. Ma circa sessant’anni dopo queste indagini furono sconfessate in modo clamoroso, dopo una nuova indagine condotta sul posto da alcuni studiosi, i quali scoprirono la forzatura di certe conclusioni, che corrispondevano a un preconcetto ideologico e non a una reale comprensione dei comportamenti degli abitanti di quelle isole, ispirati invece a un rigido codice morale6. 5

Tesi sostenute in opere come La funzione dell’orgasmo (1927) e Psicologia di massa del fascismo (1933). 6 Cf. TCHERKÉZOFF S., Le mythe occidental de la sexualitè polynésienne, PUF, Parigi 2001. Cf. PELAJA M. – SCARAFFIA L., Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 265.

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Forse l’opera che ha maggiormente contribuito al mutamento di mentalità nella sfera della morale sessuale è stata Eros e Civiltà (1955) di Herbert Marcuse, il quale aveva giustamente individuato nella sessualità il punto nevralgico dell’assetto sociale contemporaneo. Giudicando conservatrice la tesi di Freud, secondo cui la cosiddetta “società repressiva” risulta il prezzo inevitabile della civiltà, egli proponeva l’avvento di una nuova civiltà non repressiva, caratterizzata dalla liberazione dell’Eros e dalla soddisfazione del principio di piacere. È significativo che a distanza di nemmeno dieci anni, ne L’uomo a una dimensione (1964), il filosofo più amato dal ’68 francese rinuncerà a questa visione ottimistica considerandola ingenua e prendendo atto che la libertà sessuale, così come si è realizzata nella società consumistica e permissiva dell’uomo “unidimensionale”, ben lungi dal costituire un potenziale eversivo per dar vita a una società felice, si è istituzionalizzata, producendo una radicale commercializzazione e degradazione dell’Eros7. Il contributo più significativo alla rivoluzione sessuale è venuto senz’altro dal pensiero femminista, che pur non costituendo un insieme compatto di posizioni ma anzi fortemente frastagliato, è però unificato dall’intento di modificare in modo radicale i rapporti tra i sessi. Un ruolo di primo piano è giocato da Simone de Beauvoir, con la sua critica all’idea di femminilità e di famiglia. Il secondo sesso (1949) identifica la donna come il 7

Lo stesso Freud del resto aveva insistito sulla necessità di sottomettere la libido a una norma: «occorre un ostacolo per spingere in alto la libido e, là ove le resistenze naturali contro la soddisfazione erotica non bastano, gli uomini hanno in tutti i tempi introdotto resistenze convenzionali per godere dell’amore» (MALO A., cit., p. 36).

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risultato del narcisismo possessivo dell’uomo. “Ti fanno donna”, secondo la De Beauvoir, tutti coloro che esigono di essere amati in modo esclusivo, perché ti espropriano della tua singolarità. Per questo occorre cancellare il matrimonio: «è osceno, perché trasforma in diritti e doveri uno scambio che deve fondarsi sull’impulso spontaneo»8; inoltre bisogna lottare contro la maternità: il feto è un invasore, che ruba alla donna la sua individualità, mentre l’aborto è una scelta di libertà. L’ambito della ricerca biomedica ha rappresentato un altro elemento fondamentale per innescare profondi cambiamenti. Da un lato, sempre nel decennio ’50-’60, vi sono teorie come quelle elaborate dal biologo Alfred Kinsey, il quale con il saggio Il comportamento sessuale dell’uomo del 1948 ha giocato un ruolo essenziale nel proporre con sguardo da zoologo una sessualità completamente separata dalla sfere emotiva e morale, intesa come una libera espressione di quello che lui definisce “l’animale umano”. È nei suoi scritti che compare la tesi, da più parti accettata benché non suffragata da prove scientifiche, che il 10% della popolazione sia omosessuale. Dall’altro, alcune innovazioni tecnico-scientifiche aprono la strada alla separazione della sessualità dalla procreazione, come la pillola contraccettiva del dottor Pincus, che viene commercializzata nel 1960 e circa dieci anni più tardi in Italia. È interessante notare che quella che verrà salutata da molti come il simbolo della libertà e dell’emancipazione femminile, in realtà non era stata messa a punto con questo scopo. L’impulso decisivo era venuto, infatti, dal neomalthusianesimo, che aveva ispirato il grido d’allarme demografico della Con8

DE BEAUVOIR S., Il secondo sesso, trad. it. di CANTINI R. - ANDREAOSE M., il Saggiatore, Milano 20124, p. 256.

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ferenza Mondiale sulla Popolazione svoltasi a Roma nel 1954. Paul Ehrlich nel suo The population Bomb (1968) avrebbe paragonato alla bomba atomica la crescita della popolazione mondiale. Le ricerche di Pincus erano iniziate nel 1953 grazie al finanziamento di Margaret Sanger, fondatrice di una delle più potenti organizzazioni mondiali per il controllo delle nascite e la pianificazione familiare9. Anni dopo, la giornalista inglese Linda Grant rivelerà che la sperimentazione della pillola del dottor Pincus fu realizzata usando come cavie un centinaio di donne di Portorico, isola che divenne un vero e proprio laboratorio per il controllo delle nascite. Solo la Chiesa, nella persona di Paolo VI, saprà smascherare la menzogna di questa ideologia, definendola nel discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965 una espressione di conservatorismo, perché non metteva in discussione la distribuzione delle ricchezze. Ancora una volta, come ha osservato il teologo George Cottier, questa risposta al problema demografico mette in luce «il carattere rivoluzionario dell’etica cristiana»10. Apparentemente, la pillola contraccettiva veniva proposta come una conquista femminile, in quanto assicurava alla donna lo stesso comportamento sessuale degli uomini, “liberandola” dal destino della maternità. Ma si trattava di una falsa libertà, come molte delle stesse femministe hanno riconosciuto: basta pensare alle critiche mosse da Carla Lonzi e a Barbara Duden. Essa ha di fatto creato più problemi di quanti ne ha risolti. Non solo ha dato inizio al controllo chimico sul 9

Cf. GRANT L., Sexing the Millennium: political History of the Sexual Revolution, Harper Collins, Londra 1993. 10 COTTIER G., Régulation des naissances et développement démographique, Desclée de Brouwer, Paris 1969, p. 106.

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corpo femminile, ma sganciando la sessualità dalla procreazione, ne ha deresponsabilizzato l’uso a tutto sfavore della donna. Inoltre, alla luce di questo nuovo mezzo, la vita che può derivare dall’incontro sessuale diventa il nemico da evitare; per questo c’è chi lo ha messo in relazione con una mentalità che può arrivare a vedere nell’aborto un rimedio a una contraccezione fallita, pur non giustificandolo in sé e per sé11. Oltre a portare progressivamente a una banalizzazione dell’incontro sessuale12, ha contribuito a far credere che si possa realizzare un controllo totale sulla facoltà riproduttiva. Come è stato osservato, dopo aver girato l’interruttore della procreazione su “off ”, la donna cerca poi di rimetterlo su “on”, ma non riuscendoci rivolge alla medicina un diritto-credito: diventare madre a tutti i costi13. Vi è anche un’altra conseguenza. La programmazione della procreazione ha prodotto la comparsa di quello che è stato chiamato “il figlio del desiderio”14, con conseguenze che 11

Cf. RHONHEIMER M., Contraccezione e cultura dell’aborto: valutazioni, in Pontificia Accademia per la Vita, Commento interdisciplinare all’Evangelium Vitae, LEV, Vaticano 1997, pp. 435-452. 12 In un articolo celebrativo dei 25 anni della pillola, nel 1991, Giovanni Maria Pace la definiva «il piccolo gesto quotidiano che ha dato leggerezza alla sessualità e ordine alla procreazione» (citato da TILIACOS N., Il controllo chimico del corpo femminile, in «Il Foglio», (8 aprile 2010)). 13 Su questo sforzo di programmazione influiscono anche le questioni di carriera e gli stessi sistemi lavorativi. Osserva Amalia Miller: «Motherhood delay leads to a substantial increase in career earnings of 10% per year of delay, a smaller increase in wage rates of 3%, and an increase in career hours worked of 5%» (MILLER A., The Effects of Motherhood Timing on Career Path, in «Journal of Population Economics», 24/3 (2011), pp. 1071–1100). 14 Cf. GAUCHET M., Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010.

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seguono due direzioni contrapposte: da un lato il crollo della natalità, dall’altro il diritto al figlio, assicurato dal progresso delle tecnica biomedica. Questo movimento oscillatorio tra diritto a non procreare e diritto a procreare, si riflette nella messa a punto di nuove tecniche e strumenti, che assicurano ora il primo ora il secondo. Si pensi da un lato alle cosiddette “figlie della provetta”, chissà perché tutte bambine: Louise Brown nasce a Londra nel 1978; Amandine a Parigi nel 1982; Zoe a Melbourne nel 1984 da un embrione congelato. Dall’altro, invece, si assiste alla creazione dei cosiddetti “contraccettivi d’emergenza”: la Norlevo o “pillola del giorno dopo” viene introdotta in Italia nel 2006; la RU-486, o pillola abortiva, viene approvata in Italia nel 2009; la Ella One o “pillola dei 5 giorni dopo”, nel 2011. Dopo una sessualità sicuramente di stampo repressivo, si è passati a una sessualità ludica, per approdare a una sessualità consumistica e igienista, in cui l’imperativo è “proteggersi” e la gravidanza è messa sullo stesso piano delle malattie a trasmissione sessuale. Anche la storia dell’aborto registra i suoi paradossi. Da un lato l’applicazione degli ultrasuoni in gravidanza, intorno agli anni ’70, influisce notevolmente sulla percezione della gravidanza e produce, come ha osservato il sociologo Boltanski, “l’ingresso del feto nel mondo sociale”15. Basta ricordare la copertina della rivista americana “Life” dell’aprile 1965, che recava la foto di un feto di 18 settimane ad opera del fotografo svedese Lennart Nilsson. Dall’altro, le legislazioni della maggior parte dei Paesi del cosiddetto mondo sviluppato 15

Cf. BOLTANSKI L., La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, trad. it. di CORNALBA L., a cura di VITALE T., Feltrinelli, Milano 2007, p. 175 e ss.

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hanno deciso per la legalizzazione dell’aborto e, più recentemente, per proporre che sia riconosciuto come un diritto. Contemporaneamente, si fa strada un pensiero che propone la separazione della sessualità dall’identità sessuale, che culminerà nella cosiddetta Gender Theory. Si tratta di un tessuto dai molti fili, alcuni dei quali rimontano all’ambito biomedico, con le tesi del sessuologo John Money, che teorizza l’origine culturale dell’ “identità di genere”16. Accanto vi è la filiera filosofica, con le posizioni di alcune femministe ispirate anche dalla filosofia decostruzionista di Foucault. Ma un fattore da non trascurare è anche l’entusiasmo di fronte alle nuove tecnologie, che avrebbero l’effetto di emancipare le donne dal “giogo” imposto dalla natura sessuata, consistente nella necessità di procreare, fonte di tutte le altre schiavitù. Per queste pensatrici, come ad esempio, Shulamit Firestone, lo scopo della rivoluzione femminista deve essere quello di porre fine alla distinzione stessa dei sessi attraverso il recupero da parte della donna del controllo sul proprio corpo e sulla propria capacità riproduttiva. In questo modo, «le differenze genitali tra gli esseri umani non avrebbero più un’importanza culturale»17. Uno dei passi che 16

Il neozelandese Money, esperto di quelli che egli definì Gender Identity Disorders, ossia di anomalie nell’anatomia dei caratteri sessuali, formulò la teoria che l’identità sessuale dipende dai processi educativi e di socializzazione piuttosto che dalla conformazione fisica. Per Money la Gender Identity è l'esperienza personale della propria mascolinità e femminilità, mentre la Gender-Role Identity ne è la manifestazione pubblica, riflessa nei comportamenti e nelle scelte. Gli esiti dei suoi esperimenti sconfessarono radicalmente le sue tesi. Cf. RUSSO M.T., Differenze che contano. Corpo e maternità nelle filosofie femministe, Ladolfi, Novara 2014. 17 FIRESTONE S., La dialettica dei sessi: autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica (1970), Firenze, Guaraldi 1971, p. 7.

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contribuisce implicitamente alla formulazione della Gender Theory è dunque costituito dalla deprivazione del sesso delle sue caratteristiche essenziali – in questo caso la capacità di generare – di cui viene negata la naturalità. In questa neutralizzazione del sesso, la tecnologia biomedica è considerata una “vittoria sulla natura”, perché la contraccezione e gli incipienti esperimenti di gestazione in laboratorio erano ritenuti una liberazione delle donne dalla schiavitù della loro condizione sessuata18. Gli esiti recenti mostrano la problematicità di questo percorso: la pretesa libertà del corpo rischia di diventare un “uso sessuale del proprio corpo”, senza la necessaria maturità relazionale ed emotiva né un adeguato senso di responsabilità; il potere delle tecniche di procreazione, sganciato da una prospettiva relazionale, rischia di alterare radicalmente la maternità; la pretesa uguaglianza dei generi finisce per rendere indifferenti i contributi specifici offerti dalla differenza tra i sessi e per impoverire la società. Tra l’uomo e la donna, a farne le spese è soprattutto quest’ultima, perché la condizione sessuata e la dimensione materna ne segnano profondamente non soltanto la biologia ma l’intera biografia e la capacità relazionale. 3. Condizione sessuata e identità personale Con la premessa storica finora esposta si è inteso mostrare come i tre piani, costituiti dalla soggettività, dalla tecnica bio18

Ampie frange del femminismo hanno tuttavia preso le distanze dalla tecnologia applicata alla procreazione. Si veda ad esempio: RICH A., Nato di donna (1976), Milano, Garzanti 1977 e più recentemente nel panorama italiano: Di PIETRO A. – TAVELLA P., Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, Einaudi, Torino 2006.

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medica e dalla sfera politico-legislativa, siano in uguale misura implicati e in reciproca interazione in un processo di cambiamento che ha avuto una ripercussione enorme sulle certezze del senso comune. Termini come natura, identità, sessualità, generazione e filiazione hanno assunto, infatti, significati diversi o addirittura opposti, provocando anche l’interminabilità dei conflitti morali19. D’altra parte, la rivoluzione sessuale ha avuto il merito di mettere in luce due elementi fondamentali: che alla base dell’ordine sociale vi è la relazione tra i sessi e che la condizione sessuata non è un dato puramente biologico, ma possiede una importante valenza simbolica e sociale. É proprio la questione della differenza sessuale in rapporto all’identità che sembra essere divenuta oggi un punto cruciale. Si tratta di un aspetto di grande rilevanza antropologica che la filosofia ha pressoché ignorato per secoli, non tematizzando adeguatamente la distinzione tra sessuato e sessuale. Mentre, infatti, la dimensione sessuale è stata oggetto di indagine sempre maggiore da parte della biologia, della fisiologia e dell’anatomia, la dimensione sessuata è rimasta nell’ombra. Sessuato fa riferimento a una condizione esistenziale e a una determinazione essenziale della struttura corporea, dalla quale dipende l’attività sessuale, che si riferisce all’agire. E se alla psicoanalisi freudiana va attribuito il merito di aver assegnato al sesso la giusta rilevanza nell’antropologia, va anche riconosciuto il suo errore di averne dato una interpretazione “sessuale” e non sessuata, finendo così per rendere inintelligibili tante manifestazioni della vita umana20. 19

Cf. MACINTYRE A., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, a cura di D’AVENIA M., Armando, Roma 20072, pp. 17 e ss. 20 Cf. MARÍAS J., Antropología Metafísica (1970), in Obras, vol. X, Alianza editorial, Madrid 1982, p. 125.

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Ad esempio, a differenza della sessualità animale, che è transitoria e relativa alle epoche dell’accoppiamento, è proprio la condizione sessuata a spiegare la permanenza della funzione sessuale nell’uomo, che non è regolata solo da un orologio biologico e proprio per questo può essere esercitata intenzionalmente o, al contrario, procrastinata21. Inoltre, mentre la condizione sessuata riguarda la vita intera, l’elemento sessuale si riferisce solo a certi aspetti e momenti dell’esistenza: tutte le azioni che compongono la condotta umana sono sessuate, ossia realizzate a partire da una condizione maschile o femminile, ma non tutte le azioni hanno carattere sessuale22. La differenza sessuale e il reciproco orientamento dei due sessi rappresentano una dimensione ineludibile, che costituisce la prospettiva e l’orizzonte di qualsiasi esperienza, giacché non esistono comportamenti asessuati. Se è “nel” corpo che questa differenza risulta evidente, occorre tener conto che essa non è una differenza semplicemente biologica o “del corpo”, ma ha una rilevanza simbolica, biografica e sociale. L’autoidentificazione dell’uomo passa necessariamente attraverso l’appropriazione del corpo e pertanto attraverso l’assunzione della propria identità sessuale. Non è possibile pensarsi senza corpo. In questa prospettiva, sia la teoria ari21

Osserva Francesco D’Agostino che mentre nel mondo animale la differenza sessuale comporta complementarietà e finalità esclusivamente procreativa, nel mondo umano essa significa possibilità di incontro erotico, in cui l’uomo e la donna si riconoscono come persone e, come tali, sono supplementari, ossia hanno valore in sé e per sé e non in funzione esclusiva dell’altro. Cf D’AGOSTINO F., Sessualità. Premesse teoriche di una riflessione giuridica, Giuffré, Torino 2014, pp. 39-40. 22 Cf. MARÍAS J., La educaciόn sentimental, Alianza editorial, Madrid 1992, p. 255.

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stotelica dell’uomo come animal rationale, sia quella cartesiana che indica il cogito come strada per l’identificazione di sé, risultano inadeguate. All’opposto, sono ugualmente insufficienti le teorie che vedono nel corpo, inteso come energia vitale irrazionale, l’essenza dell’uomo, perché ignorano il carattere sintetico del rapporto tra corpo e anima razionale. La psicologia ci dice che la coscienza di sé nasce proprio dal vissuto del corpo, che non è episodica e frammentaria, ma si sviluppa nel tempo secondo una continuità storica, che è tutt’uno con la propria condizione esistenziale. Fame, sete, caldo, nutrizione, movimento, rendono possibile l’assunzione della realtà della propria esistenza: sono corporeo, dunque sono. Il corpo è il luogo della propria identità, che però si scopre, in un certo senso, attraverso una sedimentazione, un apprendistato: ci si sente – si è – corpo, ma di questo corpo ci si serve anche come strumento, lo si possiede. Come ha osservato Helmut Plessner23, quando un bambino inizia a camminare, ha bisogno di accordare l’essere corpo con l’avere corpo, poiché deve abitare lo spazio e contemporaneamente governare se stesso. Egli si percepisce “dotato di gambe”, ma deve anche imparare a governarle; d’altra parte, avverte che le gambe – a differenza, ad esempio, dei trampoli – rispondono alla sua volontà come parte di se stesso, ossia egli “si sente” anche gambe. La coscienza di sé si sviluppa progressivamente, attraverso questa consapevolezza di essere corpo, di appropriarsene e di potervi fare assegnamento per agire, in un processo che richiede necessariamente la mediazione dell’altro. In questo percorso di autoidentificazione, la condizione 23

Cf. PLESSNER H., Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, (1941), trad. it. di RASINI V., Bompiani , Milano 2000.

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sessuata o sessuazione gioca un ruolo fondamentale: non è solo finalizzata alla “riproduzione”, intesa come sessualità, ma alla produzione stessa dell’io. La comprensione di se stessi, del proprio “posto esistenziale”, passa attraverso la scoperta della propria mascolinità e femminilità, che spingono a orientarsi in modo specifico nei rapporti con gli altri e con il mondo. Tutto ciò mostra come il corpo per l’essere umano non sia un dato, ma anche un compito: va decifrato e, in un certo senso, “indossato e imparato”. La maturità personale comporta anche la maturità corporea, che si raggiunge attraverso un processo di integrazione, ossia divenendo consapevoli del valore del proprio corpo sia come risorsa che come limite, sia come condizione per agire che come possibilità di patire. Affermare invece “io non sono il mio corpo, ma ho un corpo”, che posso accettare o respingere, modificare o controllare sia nei suoi caratteri sessuali sia nella sua dimensione di fragilità e mortalità, significa rendere ininfluente o residuale la dimensione corporea. Nella prospettiva di un’antropologia integrale, l’essere umano non è una mente che governa un corpo e neppure una materia grezza autoregolata da un istinto, bensì un soggetto corporeo-spirituale dotato di unità e complessità. La complessità è dovuta allo strutturarsi della persona nella duplice dimensione somatica e psichica, mentre l’unità è data dalla trascendenza metafisica dello spirito, grazie al quale l’io può dire “io” e si sperimenta libero, perché esercita su se stesso l’autopossesso e l’autodominio. Tale unità è attestata anche dal carattere particolare che riveste l’esperienza che si ha del proprio corpo dall’interno, indicata più precisamente dal termine “corporeità”: infatti, perché l’io possa avere coscienza del proprio corpo, deve necessariamente trascenderlo 433

e non identificarsi totalmente con esso. Avere coscienza del proprio corpo non significa soltanto sentirlo come proprio, ma, poiché l’autocoscienza è legata ugualmente sia all’anima che al corpo, significa anche rendersi conto del significato di tale esperienza, ossia prendere atto che in essa si esprime tutto se stesso24. Nella distinzione husserliana tra Körper, corpo-fisico, e Leib, corpo-vivente, prerogativa degli esseri dotati di caratteristiche psicofisiche, è stata messa in luce l’essenziale partecipazione del Leib alle funzioni della coscienza e al rapporto dell’uomo col mondo, a causa del legame inscindibile che la coscienza umana ha, nella sua operatività, con il corpo25. Non esiste, pertanto, una soggettività pura che si serve del corpo come di un semplice strumento, perché non c’è percezione delle cose che non sia vissuta e mediata dal Leib. D’altro canto, quest’ultimo, essendo legato all’io, non costituisce un semplice organismo, un puro dato naturalistico, non è oggetto fra gli oggetti, in quanto rappresenta la condizione stessa dell’oggettività, del poter porre le cose di fronte a sé. È vero che il Leib può anche essere considerato come un semplice Körper, corpo fra i corpi, come un oggetto, ma ciò avverrebbe sempre attraverso un’operazione di riduzione, che finirebbe per trattarlo come Körperding, come semplice cosa. Se l’oggettività del corpo si manifesta nel sentire freddo, caldo, dolore, le espressioni “sento freddo”, “sento caldo”, 24

Cf. WOJTYŁA K., Persona e atto, (1969), a cura di GIRGENTI G. - MIKULSKA P., Rusconi, Milano 1999, pp. 539-545. 25 Cf. HUSSERL E., Idee per una fenomenologia pura, (1913), a cura di FILIPPINI E., Einaudi, Torino 1965, pp. 530-540 e Meditazioni cartesiane, (1950), a cura di COSTA F., Bompiani, Milano 1970, capitolo quinto, § 44, p. 106.

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“mi sento male” rivelano invece la coappartenenza alla totalità dell’io delle esperienze corporee, che non sono equivalenti ad altre esperienze esteriori, come vedere un oggetto o sentire un rumore. Pertanto, nell’integrazione del soggetto personale, il dolore, da sensazione corporea, assume carattere umano, ossia entra a far parte della più ampia esperienza vitale e affettiva, persino spirituale della persona, aprendosi anche alla dimensione intersoggettiva. Lo stesso vale per i dinamismi corporei che per realizzarsi richiedono un’attività consapevole del soggetto, come la tendenza sessuale o il bisogno di alimentarsi: essi non appartengono al livello della spontaneità biologica, ma sono integrati nel livello biografico dell’agire libero del soggetto26. Pertanto, la differenza sessuale riguarda l’intero soggetto, non essendo né accidentale né pura natura radicalmente modellabile dalla cultura. Per molti filosofi si è sessuati anche nell’approccio cognitivo, negli stili linguistici27 e persino nella modalità di concepire lo spazio e il tempo. Come ha osservato Julia Kristeva, donne e uomini non abitano i luoghi allo stesso modo e il tempo della donna è “monumentale”, in un’unione ritmica di tempo lineare e tempo ciclico28. La distinzione uomo/donna non costituisce una divisione del mondo in due metà né si presenta come una opposizione, ma piuttosto come un legame che tiene assieme due estremi, stabilendo tra essi un rapporto di polarità, per cui ciascuno 26

Cf. WOJTYLA K., Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, (1960), trad. it. dell’originale di BERTI MILANOLI A., Marietti, Genova 1978, p. 105. 27 Cf. HELD V., Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, (1993), trad. it. di CORNALBA L., Feltrinelli, Milano 1997, pp. 180-184. 28 Cf. KRISTEVA J., Le temps des femmes, (1979), in «Nuove malattie dell’anima», (1993), Borla, Roma 1998.

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implica l’altro, sicché non si può comprendere la realtà “donna” senza porre la realtà “uomo” e viceversa29. Il filosofo Julián Marías la paragona a una sorta di campo magnetico nella convivenza, che non è statica ma dinamica e si manifesta nel reciproco orientamento dei due sessi, di modo che l’uno è tale in riferimento e di fronte all’altro30. Se nel corso dei secoli il rapporto tra i due sessi si è caricato di valenze simboliche e anche di stereotipi che hanno proiettato sulla mascolinità e la femminilità codici di comportamento e ruoli sociali relativi alle diverse epoche e spesso discutibili, tuttavia la funzione di polarità reciproca dei due termini risulta una costante e costituisce un elemento stabilizzatore e unificante per la società. Per questo, più che di uguaglianza tra uomo e donna, il nuovo femminismo preferisce parlare di parità, proponendo un rapporto di equilibrio dinamico dove è proprio la disuguaglianza – intesa come differenza – a mantenere l’uomo e la donna alla pari, in quanto rende possibile la necessaria coesistenza di entrambi in funzione di un reciproco arricchimento31. 29

Come osserva Romano Guardini, la polarità non è una contraddizione, ma è una distinzione che implica una sintesi. C’è un rapporto di polarità quando due fenomeni, pur non essendo derivabili l’uno dall’altro, ma ciascuno caratterizzato in se tesso, non possono però essere pensati senza rapportarsi l’uno all’altro, sebbene il carattere di ciascuno si mostri appieno solo quando lo si distacca dall’altro (giorno/notte; destra/sinistra). Cf. GUARDINI R., Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), a cura di NICOLETTI M. - ZUCAL S., Morcelliana, Brescia 2000, pp. 647-648. 30 Cf. MARÍAS J., La mujer en el siglo XX, Alianza editorial, Madrid 1980, p. 158. 31 Cf. AGACINSKI S., La politica dei sessi, trad. it. di BRUNO F., Ponte alle Grazie, Milano 1998; cf. anche HAALAND MATLARY J., Il tempo della fioritura: per un nuovo femminismo, trad. it. di FORLANO P., Mondadori, Milano 1999.

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É quanto sostiene, pur con alcune criticità, il cosiddetto “femminismo della differenza”, che vede in Luce Irigaray, Hélène Cixous e in parte in Julia Kristeva le sue esponenti più significative32. Luce Irigaray rifiuta la neutralità della filosofia, denunciando la sua monosessualità che ha originato l’oblio del femminile e proponendo non solo una filosofia, ma una vera e propria etica della differenza sessuale33. «Desidero elaborare un pensiero che tenga conto della differenza sessuale, rifiutando una riduzione trascendentale (Husserl) o un divenire dello spirito (Hegel) che ci considerano come soggetti asessuati»34. Per operare un’autentica liberazione della donna, la strada dell’indifferenziato o della decostruzione proposta dalle Gender Theories non è praticabile, perché solo il dato originario e irrinunciabile della differenza sessuale può renderla possibile: «la liberazione delle donne richiede la definizione di un “generico” femminile, ossia di ciò che è la donna e non soltanto tale o talaltra donna. Per uscire da un modello di sottomissione gerarchica all’identità maschile, le donne devono individuare ciò che è il genere femminile, l’identità delle donne in quanto appartenenti a uno stesso genere»35. Si tratta di una prospettiva che cerca di evitare sia la logica della contrapposizione tra i sessi sia la logica del dominio di un sesso 32

Julia Kristeva non ha mai accettato l’etichetta di “femminista” e ha mostrato spesso un atteggiamento critico nei confronti di alcune tesi – come ad esempio, la critica alla maternità – del femminismo tradizionale. Cf. SÖDERBÄCK F, Julia Kristeva face aux féministes américaines, in «L’Infini», 111 (2010), pp. 86-107. 33 Cf. BREZZI F., Piccolo manuale di etica contemporanea, Donzelli, Roma 2012, pp. 133-141. 34 IRIGARAY L., Essere due, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 35 IDEM, Amo a te (1992), Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 73.

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– in questo caso femminile – sull’altro, per scegliere invece un altro percorso, quello di risignificare la soggettività femminile36: «maschile e femminile non sono in alcun caso l’inverso o il contrario l’uno dell’altro. Essi sono differenti. Questa differenza che sta fra loro è forse la più impensabile delle differenze: la differenza stessa»37. Se la differenza sessuale non è la semplice differenza anatomica e neppure una differenza soltanto simbolica, ma è radicata nel corpo ed è, allo stesso tempo, culturale, simbolica e relazionale, occorre pensare l’essere come due, come recita il titolo di un suo saggio scritto direttamente in italiano38. L’alterità della differenza sessuale non è più assorbita nella totalità dell’uno, come vorrebbero i filosofi dell’in-differenza, ma possiede un carattere relazionale: la sessualità intesa come relazione-a39. Ciò comporta l’abbandono di toni rivendicativi e apertamente politici, così come la presa di distanza dalla tematica dell’oppressione esercitata dal potere, per privilegiare il tema della relazione tra i sessi più in termini di ricomposizione che di dialettica oppositiva, più per et-et che per aut-aut. Un discorso in cui la donna sia davvero soggetto non potrà al36

Cf. ZANARDO S., Irigaray: la passione per la differenza, in FANCIULLACCI R. – ZANARDO S. (a cura di), Donne-uomini. Il significare della differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 175. 37 IRIGARAY L., La via dell’amore (2002), Bollati Boringhieri,Torino 2008, p. 73. 38 Sulla dualità dell’essere proposta dalla Irigaray si potrebbe discutere, perché comporta introdurre la differenza a livello ontologico e non a livello dell’essenza. Cf. MALO A., Io e gli altri, cit., pp. 134 e ss. 39 Cf. FORCINA M., Luce Irigaray. Militante politica di ciò che ancora non è, in ALES BELLO A. – BREZZI F., Il filo(sofare) di Arianna, Mimesis, Milano 2001, pp. 231-251.

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lora che prendere le mosse dalle esperienze più specificamente femminili, mettendone in luce l’imprescindibile dimensione relazionale, che è evidente sia nel rapporto con la madre e nella sorellanza, sia nei vissuti corporei della maternità, quali la gravidanza e la procreazione. La ricomposizione tra sesso e genere è resa possibile proprio da questa valorizzazione del ruolo del corpo come elemento strutturante dell’identità personale, come un modo diverso di stare al mondo e di essere aperti al mondo. Non a caso Julia Kristeva definisce il suo pensiero come un “materialismo”, non nel senso marxiano del termine, ma in quanto intende riappropriarsi della materialità del corpo vivente, sulla scia della tradizione fenomenologica, prendendo le distanze da un decostruzionismo radicale che lo riduce a pura cultura. La prospettiva del femminismo della differenza è pertanto agli antipodi dall’impostazione a cui aveva dato inizio alcuni decenni prima Simone De Beauvoir, con la tesi della natura handicappante del corpo femminile, per la quale solo il superamento del dato corporeo, della “pesante contingenza corporea”, avrebbe consentito alla donna di divenire soggetto, affermando la sua libertà sulla natura40. Ora non solo il corpo sessuato non è aggirabile, ma è proprio partendo dalla specificità del suo corpo che la donna può ritrovare se stessa e la sua femminilità. Ciò non equivale a una professione di essenzialismo, come hanno affermato alcune pensatrici, accusando questa posizione di cadere in una sorta di metafisica del genere, opponendo all’essenza “Uomo” l’essenza “Donna”. Il preteso 40

Cf. COLLIN F., La disputa della differenza: la differenza dei sessi e il problema della filosofia, in DUBY G. – PERROT M., Storia delle donne. Il Novecento, a cura di THÉBAUD F., Laterza, Roma-Bari 2005, p. 336.

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“essenzialismo” del femminismo della differenza è criticato per la sua prospettiva universalizzante che dietro il discorso sulla “donna”, intesa in generale, in realtà argomenta a partire dalla donna occidentale, bianca, della classe media ed eterosessuale, ignorando le differenze esistenti tra donne41. Ma queste critiche mostrano un vizio di fondo: da un lato, ignorano che qualsiasi discorso filosofico presuppone un orizzonte concettuale necessariamente generale, motivo per cui non può configurarsi immediatamente come una prassi politica. In secondo luogo, parlare di essenza o di natura femminile non comporta nessuna staticità e non significa negare quel processo di sviluppo che pur realizzandosi gradualmente in ogni storia personale, avviene sempre “a partire da” ma che non si qualifica come la libertà assoluta di diventare altro da sé. Il noto schema teorizzato da De Beauvoir «Donne non si nasce ma si diventa» viene sostituito da un altro: «Sono nata donna, ma devo ancora diventare quella donna che sono per natura»42.

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Questa accusa viene mossa, ad esempio, da Monique Plaza, all’indomani della pubblicazione del primo saggio di IRIGARAY L., Speculum. L’altra donna (1974), Feltrinelli, Milano 1975. Cf. PLAZA M., Pouvoir “phallomorphique” et psychologie de “la Femme”, in «Nouvelles Questions Féministes & Questions Feministes», 1 (Nov. 1977), pp. 89-119. FUSS D., Essentially speaking: Luce Irigaray’s language of essence, in «Hypatia», 3/3 (1989), pp. 62-80. 42 IRIGARAY L., Amo a te, cit., p. 112.

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SEZIONE POLITICA

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IL FUTURO DEL PERSONALISMO FRA ETICA E POLITICA Paolo Armellini La domanda da cui partiamo per poter parlare ancora di un futuro per il personalismo è se nel mondo attuale, attraversato da diverse crisi, ci sia posto per una coscienza critica in grado di proporre la validità del “principio-persona” sia nel campo dell’etica che della politica. Con il termine di “personalismo” si indica da Emmanuel Mounier in poi una concezione filosofico-politica che tende ad accentuare la centralità irriducibile della persona a qualsiasi forma di annullamento nella gabbia di una dottrina rigida di carattere immanentistico, naturalistico e cosmico-storico tendente a restringere lo spazio di libertà della persona nel suo impegno nel mondo. Egli, fondando la sua rivista “Esprit” nel 1932, negli anni cruciali della storia europea per l’affermazione dei totalitarismi, ha posto il personalismo come terza via fra il liberalismo e il comunismo, che a parere suo negano, come spiega in Che cos’è il personalismo? del 1947, in modi diversi il valore della persona. Mosso da analoga polemica nei confronti di quelli che considera gli errori opposti del totalitarismo e dell’individualismo, Jacques Maritain ha voluto però PAOLO ARMELLINI, Ricercatore in “Storia delle dottrine politiche” presso l’Università di Roma «La Sapienza».

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subito precisare nel 1947 che del personalismo si può parlare solo al plurale: «Non c’è dottrina personalista, ma ci sono aspirazioni personaliste […]. Ci sono personalismo a tendenza nietzscheana e personalismi che tendono alla dittatura e personalismi che tendono all’anarchia. Una delle preoccupazioni del personalismo tomista è di evitare l’uno e l’altro eccesso»1. Come ha poi cercato di chiarire Jean Lacroix nel suo Il personalismo come anti-ideologia (Parigi 1972) esso non sarebbe una vera e propria filosofia né una sorta di ideologia, ma una anti-ideologia, che vuole protestare moralmente contro concezioni che escludano dall’orizzonte della nostra vita quel mondo precomprensivo ovvero il mondo della vita da cui nasce poi la filosofia al di là di deviazioni schematizzanti, operative e utilitaristiche. La persona è un quid che non si esaurisce mai nelle sue manifestazioni, ma rimane sempre aperta ad esperienze ulteriori, mantenendo una intenzionalità religiosa per la sua strutturale apertura alla trascendenza al di là delle differenze confessionali di ciascuno. Di qui anche il suo aspetto di un pensiero che si fa convergenza di energie spirituali che intendono aprirsi ad una speranza ecumenica di riconciliazione umana al di là del collettivismo e dell’individualismo. La situazione attuale richiede però che sia nel campo dell’etica sia nel campo della politica non sia ritenuto inutile ripercorrere una sia pur breve storia dell’idea stessa di persona.

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MARITAIN J., La persona e il bene comune, (1947); trad. it. di MAZZOLANI M., Morcelliana, Brescia 19632, p. 8.

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1. Della idea di persona degli antichi paragonata a quella dei moderni Sono stati i giuristi e i filosofi dell’antichità a definire per primi il concetto di persona, anche se non ne hanno in verità inventato il vocabolo e la dimensione istituzionale2. Nel mondo greco classico il termine persona (prósopon) indicava maschera teatrale: nella recita veniva affidata una precisa parte ad un attore, per cui la sua voce risuonava (personabat) attraverso il foro della maschera, come evidenzia Epitteto: «Non sei che un attore di un dramma, secondo la volontà del poeta»3, per cui se a questi piace la rappresentazione di un mendico lo si deve impersonare bene. Persona è ciò che sta davanti e che ha assunto l’aspetto di volto che nel parlare rimbomba. Maschera sembra significare il personaggio che l’attore rappresenta nel dramma, cioè la parte che uno svolge nella società. Ma dietro ciò c’è il concetto stoico di “vivere secondo natura” che significa un’adesione senza riserve ad un ordine sia razionale sia provvidenziale del mondo. Così Cice2

Seguiamo la traccia dei seguenti studi: STEFANINI L., Persona, voce dell’Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1967; RIGOBELLO A., Il personalismo, Città Nuova, Roma 1978; AA. VV., Persona e diritto, Missio, Udine 1990; AA. VV., Persona e personalismo, Gregoriana, Padova 1992; BERTI E., Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, Reggio Emilia 1993; AA. VV., Persona, in «Studium», a. XCI, 4-5 (luglio-ottobre 1995); AA. VV. Lessico della persona umana, Studium, Roma 1998; SPAEMANN R., Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, a cura di ALLODI L., Laterza, Roma-Bari 2005; VALENTINI T. (a cura di), Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, Editori Riuniti University Press, Roma 2011; POSSENTI V., Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013. 3 Cf. EPITTETO, Manuale, trad. it. di LEOPARDI G., a cura di CALOGERO G., Firenze 1936, n. 17.

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rone afferma nel De officiis: «La natura ci ha rivestito di due parti: l’una comune per il fatto che siamo tutti partecipi della ragione […] e la seconda che è ripartita fra i singoli»4. Persona è quindi il fondamento razionale dell’essere individuale, in aggiunta alle disposizioni caratteriali particolari di ciascuno. Egli parla anche di “persona gerere” per indicare che qualcuno è preposto a rappresentare lo Stato. Qui la persona è un compito che definisce l’uomo in relazione a situazioni date che la definiscono. Possiamo dire che a partire dall’antichità greca e romana si può parlare della persona come l’individuo che è “soggetto di diritti” in quanto cosciente e responsabile, cioè capace di intendere e di volere. Il cristianesimo ne propone una valorizzazione sottolineando della persona la unicità e la singolarità, cioè la sua insostituibilità nella economia storica ed escatologica della salvezza. Di ciò ne sono prova i passi evangelici sul figliol prodigo, sulla pecorella smarrita, sulla dracma. Riprendendo la definizione latina per cui ex persona significa parlare per bocca propria, san Giustino ci indica l’immagine del Logos che parla per bocca (ex prosopon) di Cristo. Tertulliano dichiara che nella Trinità vi sono “tres personae, una substantia”: con quest’espressione ci indica che la persona è un individuo concreto sussistente che si manifesta nel suo agire come parlante. Con il termine latino di substantia egli traduce, invece, il greco di ousia che è l’essenza, ovvero la natura comune a più individui ed uguale per tutti. Così la persona è diventato un concetto utile quando si è trattato di esprimere le relazioni che intercedono fra Dio e il Cristo (Logos e Verbo) 4

CICERONE, De officiis, in IDEM, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1962 ss, I, XXX.

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e tra essi e lo Spirito, dando luogo pure a fraintendimenti (eresie). Talvolta le relazioni sembravano qualcosa di aggiunto accidentalmente alla sostanza. La persona evocando la maschera da teatro sembrava cioè implicare il carattere apparente e non sostanziale delle persone. Di qui le dispute trinitarie del primo cristianesimo fino al Concilio di Nicea del 325. Nella teologia greca Origine concepisce la Trinità divina come composta di tres hypóstasis o ousìai, diverse fra loro per grado. Qui l’ousìa non è la natura o essenza comune. Ario sotto l’influsso del neoplatonismo ha proposto la sua eresia secondo cui è costituita da tre hypostàseis disposte in scala discendente. Origine è stato allievo del maestro di Plotino, il filosofo Ammonio Sacca, secondo cui l’Uno è l’Intelletto e a seguire c’è l’Anima del mondo, da cui seguono le altre hypostàseis. Le tre hypostàseis sono tre sussistenze derivanti l’una dall’altra ma successive e degradanti. Di qui le dispute trinitarie del primo cristianesimo in funzione antieretica fino al Concilio di Nicea del 325, che finisce per definire il Dio-Figlio come homoùsios, consustanziale a Dio-Padre, avendo essi la stessa essenza-ousia senza differenza di grado. Non si parla più di hypostàseis come nel neoplatonismo per l’ambiguità dell’espressione e del concetto. Basilio di Cesarea (Cappadocia) ha proposto per primo in relazione alla Trinità la formula di un’unica ousìa divisa in tre hypostàseis, espressione che papa Damaso (369) riproduce in latino come “substantia, tres personae” e che il Concilio Costantinopolitano I ha codificato definitivamente come “una essenza, tre ipostasi”, usando al posto di ipostasi la parola prósopon. Qui ousìa significa essenza o natura divina e persona significa individuazione della natura divina che è cioè sussistente in un individuo. Per evitare il riferimento al prósopon, i Padri però hanno scelto di adattare il 447

termine ipostasi nel significato di supporto. Si è arrivati al Concilio di Calcedonia del 451 che ha accostato i concetti di persona e di ipostasi conciliando le interpretazioni fra le diverse scuole: «Cristo non è diviso o separato in due persone, ma è unico e medesimo Figlio, Dio, Verbo, Signore e Gesù Cristo». Sant’Ilario di Poitiers ha precisato la formula dicendo che nelle definizioni della Trinità il termine persona indica la res sibi subsistens, l’individuo o substrato sussistente per sé (hypokéimenon) relativo ad una essenza. Quindi se per i neoplatonici si danno tre essenze divine o momenti successivi di uno stesso processo, per il cristianesimo si dà un’unica essenza o natura divina, sussistente in tre persone diverse, intese come individui o soggetti che stanno a significare il sostrato di essa. Sant’Agostino nel De Trinitate (VI, 6, 11) ha parlato della persona come «aliquid singulare atque individuum», esemplificandolo come «singulus quisque homo», ma ha incontrato difficoltà ad attribuirlo a Dio perché esso indica qualcosa di assoluto, non relativo, mentre è costituita da tre relazioni. Così egli ha dichiarato allora: «dictum est tres personae non ut illud diceretur, sed ne taceretur» (V, 9, 10). Egli ha però valorizzato fortemente la persona presentandone le tre facoltà (memoria, intelletto e volontà) come l’immagine della Trinità divina, indicando l’interiorità umana come il luogo in cui abita la verità, cioè la stessa luce divina. Si apriva la strada alla definizione divenuta classica offerta da Severino Boezio (V-VI secolo d.C.), per cui, come dice in Contra Eutychen et Nestorium (III, 1-6), la persona è «rationalis naturae individua substantia» (sostanza individuale di natura razionale), ove la parola latina natura è il corrispondente del termine greco ousìa intesa come essenza e substantia sta per il greco hypòstasis. Egli precisa che la natura della persona è ra448

zionale cioè spirituale, ciò che permette di comprendere nel concetto di persona sia la natura umana sia la natura divina. Ma dice anche che si tratta della sostanza individuale, cioè concreta e sussistente in sé. La persona è cioè aristotelicamente parlando, sostanza prima. Avere la natura razionale significa che è essenziale alla persona non tanto l’esercizio effettivo delle attività connesse (pensare, amare, parlare) quanto la capacità di svolgerle posseduta per natura. La identificazione con una sostanza individuale mette in luce la qualità di sostrato, soggetto e non solo quella delle capacità. Per Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo d.C.) persona invece è ciò che, esprimendosi per mezzo di operazioni e proprietà sue, porge di sé una manifestazione che la distingue dagli altri della sua stessa natura. Così egli pone in risalto più che la natura o sostanza, le operazioni della persona attraverso l’espressività e la singolarità. Tende cioè a non voler fare della persona un’astrazione. Anche il mistico Riccardo di San Vittore preferisce in questo senso parlare di persona come di una existentia più che come di una substantia, la quale è per lui un termine troppo assoluto ed inadatto a esprimere una relazione. Essa finiva per indicare così il complemento sostanziale dell’essenza senza più considerare la relazione con sé e con gli altri. L’esistenza non è la persona ma il modo di essere fuori dalle cause dell’essenza. Il modo sostanziale dell’essenza, l’esistenza che la singolarizza, è formalmente la persona e si identifica con l’ipostasi, così come ci illustra anche Tommaso Campanella nel capitolo XVIII della sua Theologia. In tale prospettiva la persone è ciò che porta a compimento l’essenza umana, traendola all’esistenza che è una singolarità sostanziale. Ma san Tommaso ha annotato che lo stesso Boezio abbia 449

ammesso che «ogni nome attinente alla persona significa relazione. Egli, nelle delucidazioni del dogma trinitario ripristina il concetto di Persona come relazione. Non c’è in Dio distinzione se non in virtù della relazione in origine. Ma la relazione in Dio non è come un accidente, che inerisce al soggetto, ma è la stessa essenza divina, sicché è sussistente al modo stesso in cui sussiste l’essenza divina. Come la deità è Dio così la paternità divina è Dio Padre, che è persona divina; dunque la persona divina significa la relazione nella forma della sostanza, che è l’ipostasi sussistente nella natura divina»5. Traendo dalla sua definizione delle potenzialità implicite egli si permette di proporre una definizione di persona: «persona significa ciò che è perfettissimo in tutta la sua natura, ovvero sussistente nella natura razionale»6. Si può comprendere dunque come per san Tommaso la persona, a differenza dell’individuo che per sé è indistinto, rappresenti in ogni natura ciò che rimane distinto. Nell’uomo sono le sue particolari carni e le particolari ossa unite a un’anima che permettono la sua identificazione in concreto. Le persone hanno un carattere perfetto e degnissimo che è valido sia per la persona umana che per quella divina, in quanto il loro è «un modo d’esistere che è relativo alla persona, degnissimo, ovvero qualcosa che esiste per sé»7. Esso deriva non solo dalla natura razionale della persona, la quale è la più perfetta delle creature dotata della condizione della libertà che è capace di intenzionare l’universale. La persona è anche infatti sussistente, essendo 5

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, trad. it, nelle opere a cura dei Domenicani italiani, Salani, Firenze 1949 ss., I, q. 29, a. 4. 6 IDEM, Summa Theologiae, cit., I, q. 29, a. 93. 7 IDEM, De Potentia, ed. cit, q. 9, a. 4.

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non soltanto una substantia o hypòstasis alla maniera neoplatonica, ma è substantia individua, una sostanza prima, ovvero soggettività. Per questo egli usa il participio subsistens e non il termine astratto di substantia. Riferendosi alle persone divine però in Dio «persona significa relazione non nella modalità della relazione, ma nella modalità della sostanza». Relazione sostanzializzata sarebbe aristotelicamente parlando un assurdo se non soccorresse tale concetto la dottrina dell’analogia, per cui Dio è persona solo in senso analogico anche se per dignità primario. Tra i caratteri della persona san Tommaso inserisce infatti l’essere-in-sé (inseità), l’essere-per-sé (perseità) e l’essere-a-sé (aseità), i primi due essendo presenti nella persona umana e il terzo nella sola persona divina. Ciò indica che per Dio essere a sé significa non derivare o dipendere da altro (ex alio), ovvero il dipendere solo da se stesso (ex se). Esso potrebbe equivalere all’existentia di Riccardo di San Vittore, ma non nel senso di “ex se stare”, ma in quello di star fuori, emergere. L’inseità indica l’essere sostanza in sé, non un modo o un momento né un’attività di altro; la perseità indica l’essere in vista di sé (propter se), non in vista di altro (propter aliud), cioè l’essere fine e non mezzo. La persona benché dipendente da altro, che è Dio, in quanto è creata, è sussistente in sé (subsistens: si noti il participio) ed esistenza per sé (dotata da Dio di essere ad essa proprio, creata da lui come avente un fine intrinseco). Nel rapporto fra persona e società San Tommaso precisa che per un verso la persona è tutto («ratio contrariatur personae»8), dall’atro è parte della comunità («persona comparatur ad communitatem sicut pars ad totum»9). Come 8 9

IDEM, In III Sententiae, d. 5, 3.2. IDEM, Summa Theologiae, cit, II, II, q. 61, a. 1.

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conciliare queste affermazioni apparentemente contraddittorie? Distinguendo la definizione di uomo, per cui «homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua»10. In questo senso l’uomo fa parte della società politica perché non è autosufficiente, avendo continuamente bisogno della società da tutti costituita per realizzarsi completamente (in questo senso è parte della società), ma ne fa parte non secondo tutto se stesso, perché la persona è fine a se stessa e la società politica deve servire alla sua realizzazione e non viceversa. A questo proposito Enrico Berti ha giustamente osservato: «Alcuni studiosi […] hanno parlato di una contrapposizione tra individuo e persona, anzi l’hanno addirittura attribuita a san Tommaso, interpretando l’individuo come il polo materiale dell’uomo e la persona come il suo polo spirituale. Ciò forse è dovuto al fatto che nella filosofia di tradizione aristotelica e tomistica il principio di individuazione è la materia, e quindi l’individualità sembra dipendere dalla materia. In realtà in san Tommaso, a mio modo di vedere non c’è contrapposizione tra individuo e persona. Questi non sono due poli opposti, ma la persona è semplicemente un’ulteriore determinazione dell’individuo, è l’indicazione della particolare natura che si attribuisce all’individuo. Perciò si può dire che ogni persona è un individuo, anche se non ogni individuo è una persona»11. 10

IDEM, Summa Theologiae, cit., II, I, q. 21, 4, ad. 3. BERTI E., Individuo e persona: la concezione classica, in AA. VV., Persona, cit., pp. 519-520. Qui ci si richiama alla polemica rispetto al fatto che molta parte della corrente personalistica ha seguito Cartesio nel ridurre la persona a interiorità pura ovvero ad autocoscienza. Riducendo la persona ad autorelazione nella coscienza spirituale, ha infatti finito per adottare la distinzione cartesiana fra res extensa che è relativa al corpo e la res cogitans che è relativa all’anima e ri11

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La persona come autorelazione s’impone invece a partire da Cartesio, con la riflessione del quale s’indebolisce la prospettiva sostanzialistica e prende corpo quella relazionale. La persona è l’io come sostanza pensante contraddistinta dalla coscienza. La persona è l’io dotato di un’identità che spiega l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke dice che «la persona è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso la stessa cosa pensante in diversi luoghi e tempi»12. Da ciò si può dedurre che egli identifichi la persona con l’atto del pensiero, poiché essa si lega all’identità personale. É impossibile cioè percepire qualcosa senza percepire anche il fatto che si sta dotto poi l’uomo al solo pensiero. Di qui alcune ambiguità per esempio presenti in Jacques Maritain, che dice: «Io sono tutto individuo in ragione di ciò che mi viene dalla materia, e tutto persona in ragione di ciò che mi viene dallo spirito. L’uomo, perciò, è persona quando e soltanto nella misura in cui la vita dello spirito e della libertà dominerà in lui su quella dei sensi e delle passioni» (MARITAIN J., La persona e il bene comune, cit., p. 40; cf. anche IBIDEM, pp. 19-25). Quindi per Maritain, che pure segue san Tommaso nel considerare metafisicamente la personalità una sussistenza, precisamente quella che l’anima spirituale comunica al composto umano, sembra ammettere che la distinzione fra l’individualità e la personalità sia di ordine etico e non metafisico, lasciando quasi credere che l’individuo incapace ancora o per scelta di dominare la materia con lo spirito non sarebbe persona. In questo senso «la distinzione radicale tra individuo e persona, fatta da Maritain, suscita l’impressione che sotto l’individualità siano compresi gli aspetti negativi della materialità» (BETTIOL M., Metafisica debole e razionalismo politico, ESI, Napoli 2002, p. 158); la concezione tomista invece è ancorata alla visione della persona come sostanza sussistente che come individuo ha in sé presenti tutti gli aspetti di quanto diverrà, rimanendo persona sia in presenza di future minorazioni sia non attualizzando pienamente se stessa (cf. IBIDEM, pp. 158-159). 12 LOCKE J., Saggio sull’intelligenza umana, trad. it. di PELLIZZI C. - FARINA G., Laterza, Roma-Bari 2006, II, XXVII, 11; cf. anche IBIDEM, II XVII, 9.

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avendo una percezione, e tale coscienza di se stessi in ogni atto coincide con l’io che distingue se stesso da ogni altro essere pensante e che fonda perciò la sua identità. Da tale impostazione si afferma la concezione della persona come autorelazione che si concepisce come coscienza di sé, attraverso cui poi si differenzia dagli altri come identità che resta attraverso tutti i mutamenti accidentali. Leibniz insiste piuttosto sull’identità fisica o reale come componente essenziale della persona oltre alla sua identità morale o psicologica. Christian Wolff afferma che la persona è l’ente che conserva la memoria di sé. Kant ci tiene a dire nell’Antropologia pragmatica del 1798 quanto segue: «Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla terra. Egli è persona in virtù dell’unità della coscienza persistente attraverso tutte le alterazioni»13. Qui si presenta un problema. Secondo Kant, “persona” è ciò che rende diverso l’ente per segno e dignità dalle cose e dagli animali che sono privi di ragione. La chiave di volta per interpretare in modo corretto la persona è però la volontà, intesa come la facoltà di agire conformemente alla ragione, che paradossalmente però è quanto di più impersonale c’è in noi. Non sono dunque l’individualità, il senso e il corpo a fare dell’uomo una persona, ma la ragione universale che si leva sopra il particolare e il contingente. Ciò si deve criticamente mettere in relazione con quanto è contenuto nella Fondazione della metafisica dei costumi del 1785, ove Knt afferma: «gli esseri razionali prendono il nome di persona perché la natura ne fa 13

p. 45.

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KANT I., Antropologia pragmatica, trad. it. di VIDARI G., Laterza, Bari 1969,

già dei fini in sé, qualcosa che non può essere impiegato come mezzo»14. Interviene così la relazione intersoggettiva a caratterizzare la persona che è moralmente configurata, eccede i confini della coscienza individuale, ritrovando nell’inter-esse (l’essere-insieme) la sua natura di fine e non di mezzo, non cadendo solo nell’ordine strumentale dell’essere. Da questo momento si ha poi con Fichte ed Hegel l’interpretazione della persona come autorelazione, nel senso della riduzione di essa a coscienza pura. Non si può per Fichte pensare a nulla senza pensare al contempo al proprio Io come “coscienza di sé” (Selbstbewusstsein). Non si può cioè astrarre dalla propria autocoscienza. Nella Seconda Introduzione della Dottrina della Scienza del 1797, contro la concezione della persona individuale come fine della condotta scrive: «La ragione è l’unico fine in sé, mentre l’individuo è soltanto accidente, la ragione è l’unico fine in sé, la personalità è mezzo, è un modo particolare di esprimere la ragione»15. La persona è destinata dunque a perdersi nella forma universale della ragione. Con Hegel la persona viene definita riduttivamente come momento di un’attività della ragione impersonale, in ordine al dispiegarsi storico-concreto di un’Autocoscienza che si autoriproduce come Spirito assoluto: «Spirito come essenza libera, autocoscienza», in quanto «Io eguale a se stesso, Io esclusivo, singola essenza libera»16. Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio la persona è la soggettività astratta, è il concetto di li14

IDEM, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di MATHIEU V., Rusconi, Milano 1994, p. 86. 15 FICHTE J.G., Seconda Introduzione alla Dottrina della Scienza, in appendice a DI TOMMASO G.V., Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, Japadre, L’Aquila-Roma 1986, p 142. 16 HEGEL G.W.F., Propedeutica filosofica, a cura di RADETTI G., Firenze 1951, § 1.

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bertà che esiste senza ulteriori determinazioni. La persona non è che la manifestazione di valori sovrapersonali, universali e supremi, espressione di una ragione che trascende l’individualità empirica e singolare. Contro la riduzione dell’uomo a pura coscienza insorgeranno Karl Marx e Max Stirner. L’antropologia della Sinistra hegeliana e Marx mettono in evidenza come la persona sia condizionata e costituita dai rapporti di produzione e di lavoro, dai rapporti cioè con cui l’uomo entra in relazione con la natura e con gli altri per soddisfare i suoi bisogni. Nel suo libro l’Unico e la sua proprietà (1845) Stirner afferma che non è possibile concepire una persona come qualcosa di universale, una persona costituita solo dalla ragione, poiché solo l’individuo ontologicamente pertiene alla persona, essendo essa l’individuo proprietario. L’uomo in generale in qualche modo derivato da Dio, con l’aureola dell’astrazione non è ancora empirico, corporeo, in carne ed ossa. Chi esalta l’uomo non considera le persone e si muove all’interno di un interesse ideale e sacro, che non gli permette però di diventare una persona poiché in esso è come un fantasma. La propria persona finisce così per essere sacrificata allo Stato borghese e liberale, che chiede di agire. Ma l’azione disinteressata per il bene comune dello Stato sacrifica il proprio utile a favore di quello statale, che è la vera persona di fronte alla quale la persona come singolarità è scomparsa. Di fronte all’impersonale disinteresse Stirner rivendica invece l’interesse dell’ego, l’egoismo. Sul concetto di persona come eterorelazione hanno insistito i filosofi della corrente fenomenologica. Edmund Husserl nelle Meditazioni cartesiane definisce l’io come il polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che 456

essa crea, accentuando quelle relazioni con l’altro in cui insiste l’intenzionalità17. Con Max Scheler la persona viene definita come relazione con il mondo; l’io è in rapporto con il mondo esterno, l’individuo con la società, il corpo con l’ambiente. Egli ha negato che la persona possa venire concepita come cosa e quindi come sostanza, poiché essa esiste solo come esecutrice di atti intenzionali e come tale non va confusa con l’io o la coscienza. Ad ogni persona corrisponde un mondo e viceversa. Afferma nel suo Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori: «Come correlato effettivo della persona abbiamo anche un mondo individuale. Le sfere oggettive che si possono distinguere nel mondo diventano concrete solo come parti di un mondo che è il correlato di una persona, come dominio cioè delle possibilità di azione della persona. Ogni persona è, sì, individuo singolare, diverso e distinto dalle altre, ma non mai chiusa in sé. Anzi può cogliere se stessa solo come membro di una società. Discende da ciò che ad ogni persona finita appartengono una persona singola e solitaria (intima) e una persona comune (sociale), correlata ad un insieme posto in reciproca relazione e il cui rapporto può essere immediatamente vissuto. L’essere della persona intesa cioè come singola persona può essere costituita solo all’interno del rapporto della persona col mondo proprio, nella classe particolare dei singoli atti, mentre l’essere della persona comune si costituisce nella classe particolare degli atti sociali»18. Il contenuto comune di tutte le esperienze vissute del vivere 17

Cf. HUSSERL E., Meditazioni cartesiane, a cura di COSTA F., Bompiani, Milano 2002, V, §§ 44-93. 18 SCHELER M., Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori: nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, (1913-16), a cura di CARONELLO G., Piemme, Cinisello Balsamo 1996, p. 136.

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insieme è il mondo di una comunità e il suo soggetto concreto è una persona comune. D’altro canto il contenuto costituito da tutte le esperienze vissute che sono atti singolarizzanti di esperienze per sé è il mondo di un singolo e il suo soggetto è una persona singola. La persona è così irriducibile sia ad un’essenza razionale-universale sia all’individuo empirico. La persona-di-ragione coincide con la depersonalizzazione poiché l’attività razionale è identica in tutti. La persona individuale poi è una contraddizione in termini perché gli atti razionali sono di per sé extraindividuali, sovra-individuali. La persona per Scheler è allora l’unità co-esperita in maniera vissuta e immediata dell’esperienza-vissuto, non pensabile al di fuori di esso. Non può darsi la persona come forma vuota, astratta dagli atti, ma è l’essere concreto senza cui non si coglie mai l’essenza di nessuno dei suoi atti. Ma non è neanche coscienza pura né coincide con un io contrapposto al tu e al mondo. La persona è indifferente ed anteriore alla contrapposizione io-tu, io-mondo. Alla persona essenzialmente pertiene il fatto di esistere e vivere unicamente nel processo di compimento di atti intenzionali. Per essenza quindi non è oggetto, ma è sempre soggetto di atti intenzionali, il cui contesto è l’unità della persona. Ogni oggettivazione psicologica è una depersonalizzazione, poiché l’essere psichico non coincide con la persona. Col personalismo di Emmanuel Mounier l’idea di persona viene strettamente legata alla solidarietà comunitaria, in modo da costituirsi come terza via fra il collettivismo socialista e marxista, in cui l’individuo è completamente immerso nelle relazioni sociali che deprimono e annullano la singolarità, e l’individualismo liberale che accentua a tal punto l’isolamento atomistico dell’uomo da impedirne un’autentica relazione so458

ciale. Il personalismo comunitario intende così salvaguardare la persona dalla sua identificazione nella comunità e dalla dispersione anarchica tipica di un liberalismo economico orientato soltanto ad intensificare l’interesse individuale. La persona si salva nella comunità. Raccogliendo i suoi precedenti saggi in Rivoluzione personalista e coumitaria del 1935, Mounier intende dissociare il motivo di uno spiritualismo impegnato nel concreto dal pensiero reazionario e da una politica segnata dalla sopraffazione; il suo anticapitalismo è mosso dalla convinzione che la ricchezza sia un intralcio per la liberazione dell’uomo. La democrazia liberale e borghese è legata al formalismo che esalta le forme dell’avere e non dell’essere dell’uomo. La rivoluzione personalista richiede la formazione di un gruppo di testimoni della verità che sappiano richiamare le masse ad una esperienza comunitaria organizzata intorno al significato dell’essere che coincide con la realtà cristiana. Per questo occorre essere vigili nei confronti più che dei partiti tradizionali dei movimenti nuovi aperti al messaggio personalistico. Attraverso le vicissitudini della rivista “Esprit”, che viene spesso ostacolata e chiusa nell’epoca di Petain, propone di affrontare la crisi non con una filosofia tecnica ed accademica, ma rispondendo alla provocazione con la testimonianza della coscienza del valore della persona. In ciò sta la metànoia personalista, la cui logica si sottrae all’evidenza della chiarezza tipica dell’ottimismo leibniziano o dell’idealismo trascendentale, perché piuttosto preferisce vivere la tensione contraddittoria alla luce del valore che trascende il dato. L’esistenzialismo si chiude in modo claustrale nella soggettività, mentre il personalismo concepisce la soggettività come aperta costitutivamente al mondo, con l’avvertimento del limite della sua espansione verso l’altro e la trascendenza. 459

La materia non è esclusa ma anzi ha cittadinanza come ostacolo che offre allo spirito l’occasione di elevarsi dalla corruzione, la quale non è ontologica ma morale. Il borghese si ripiega sulla materia, che è fonte di divisione individuale, mentre il personalista lega l’ontologia all’assiologia, cioè all’impegno personale in cui la libertà del singolo si apre al valore che colora di significato il mondo. La libertà non è un dato che si possa dimostrare, ma un’esperienza vissuta: «É la persona che si fa libera dopo aver scelto di essere libera; la libertà infatti non le è mai offerta come un dato già costituito; e nulla al mondo può darle la sicurezza di essere libera; se essa non si slancia audacemente nell’esperienza della libertà»19. Per Luigi Stefanini, autore dell’opera Il personalismo sociale nel 1952, «l’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone»20. L’immagine è un atto, una parola della mente che non risolve in sé il soggetto ma significa al contempo il soggetto che esprime e l’oggetto alluso nell’immagine. Il senso del reale non si esaurisce nell’essere un dato presupposto, ma nel significato che l’interiorità riesce a conferirgli, esprimendolo nella luminosità di un’immagine. Valore all’universale lo dà il soggetto pensante che formula immagini: la persona che è attività allusiva, parola significante. L’essere ha significati solo nella sfera semantica della persona. L’atto creativo di Dio è forma esemplare di attività personale, è attività da intendersi 19

MOUNIER E., Rivoluzione personalista e comunitaria, a cura di LAMACCHIA A., Comunità, Milano 19552, p. 69. 20 STEFANINI L., La mia prospettiva filosofica, a cura dell’Associazione Filosofica Trevigiana, Canova, Treviso 1996, p. 9; è il testo di una relazione tenuta da Stefanini a Padova in un ciclo di conferenze degli anni 1949-1950.

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come produttività metafisica; nell’uomo ciò si riverbera in una creatività che si limita all’intenzionalità semantica. Non è una tautologia dell’io né una pienezza autocreatrice, ma l’universalità che si puntualizza in unicità e singolarità: è una “esistenzializzazione del trascendentale”. La razionalità personale descrive positivamente la singolarità che utilizza le strutture logiche per attestare l’identità e la continuità della persona. Essa prima di ogni cosa è unicità. L’uomo tenta di sé una infinita realizzazione, ma sperimenta una inadeguatezza a raggiungerla completamente. Volendo cogliere la persona nella pluralità dei suoi atteggiamenti egli si scopre come differenza costitutiva: «C’è un in sé nel mio essere che il per sé non riesce mai ad eguagliare»21. L’autopossesso rimane un’istanza regolativa che non raggiunge mai l’attualità. Ciò non è affatto un limite, ma costituisce una ricchezza di specificazioni, una possibilità di sempre nuovi approcci, una maniera continuamente nuova di individuare il pensiero. Il pensiero umano è questa trascendentalità interrotta e, allo stesso tempo, richiesta intenzionalmente nella presenza incarnata della persona che è irripetibile. La sproporzione è la struttura dell’esperienza personale. La persona è un mistero che nessuna epifania riesce ad esaurire, sta sempre al di là della somma dei suoi atti. Da questa interna trascendentalità discende la duplice apertura della persona per un lato in direzione verticale verso Dio e per l’altro in quella orizzontale verso gli uomini. Stefanini chiama ciò «apertura metafisica e apertura cosmica e sociale, storica della persona», perché l’uomo è partecipazione metafisica finita, in rapporto con l’essere che non è né escluso né costitutivo, ma analogico. L’attività significante del soggetto 21

IBIDEM, p. 10.

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differenzia la persona dall’Assoluto e dall’oggettività esteriore, ponendosi come analogicità semantica, la quale non la priva dell’attività creatrice che sta proprio nel suo dare significati. L’attività si concretizza nel rapporto di consenso, di devozione filiale con l’essere di Dio, che mi manifesta la direzione della struttura metafisica di cui la persona partecipa. In questo senso l’arte e la scienza sono per me significanti nell’ambito della mia attività semantica. 2. L’attualità del personalismo Nel mondo attuale si aggira lo spettro di una società politica che si mostra dominatrice delle vite personali attraverso il comando giuridico di strutture normative indifferenti ormai a vincoli etici. Si vede dappertutto l’avvento di una megamacchina tecnico-economico-mediatica, in cui sempre più ristrette élites sembrano avere estromesso il popolo dal sentirsi l’effettivo soggetto sovrano che è stato alla base della promessa di emancipazione della modernità22. Aldous Huxley così ha descritto nel Mondo nuovo tale situazione già nel 1932, paventando un’epoca in cui le leggi non difendono più i deboli dalle insidie dei più forti ma ne assecondano curiosamente le pulsioni e le voglie facendole diventare diritti con le leggi. Può essere considerato tale anche l’attuale fenomeno della mondializzazione dei mercati finanziari come ultima 22

Sono a questo riguardo utili le osservazioni di ACOCELLA G., Le ragioni del personalismo oggi, in MAURI G. - SARDELLA G. (a cura di), Personalismo oggi. La persona nell’era della biopolitica e del capitalismo tecno-nichilista, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2009, pp. 11-23.

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espressione del disincanto offerto dalla gabbia d’acciaio della modernità, con la vittoria della razionalità strumentale tipica di una certa deriva dell’Occidente. La mondializzazione della cultura e della politica, sotto l’egida della riduzione di tutti i valori a quelli del mercato, ha condotto ad una pervasiva economicizzazione del mondo contemporaneo. La democrazia sembrerebbe avere abdicato la sua funzione di governare in funzione degli interessi del popolo declinandone la direzione a favore della tecnocrazia capitalistica. Nella storia recente il marxleninismo ha proclamato la vittoria del principio della “Storia senza Soggetto”, per cui essa si rivela capace di portare a compimento il processo orientato a realizzare la verità di una società senza classi. Per esso la vittoria del proletariato era un esito necessario ed inesorabile sotto gli auspici di un determinismo economico radicale. L’uomo al suo interno è solo un ingranaggio di una giustizia senza rispetto per la responsabilità personale, valendo solo una responsabilità attribuita per cui si è responsabili perché fatti tali dal processo storico, per cui, come diceva Croce, si è responsabili solo rispetto ad una fase storicamente concreta. D’altro canto il liberalismo di Locke e Smith ha creduto illuministicamente ad un Progresso illimitato e inarrestabile senza confini, che avrebbe travolto la storia, le superstizioni e le fedi eliminando oscurità nella vicenda umana. Si è realizzato un processo la cui vicenda collettiva si è svolta al di fuori di ogni intenzione sociale del soggetto, cosicché ognuno perseguendo la propria utilità provvederebbe inintenzionalmente all’incremento di una ricchezza economica funzionale alla realizzazione del benessere generale. Questo sarebbe il progresso dell’umanità raggiunto dalla prospettiva di un utilitarismo liberista basato sul perfetto calcolo razionale come fonda463

mento della scelta morale. Dopo la Rivoluzione francese si è realizzato cioè un liberalismo ideologico, il cui protagonista è il “Soggetto senza Storia”. Tale soggettività risulta essere lo strumento però di una mano invisibile che provvidenzialmente sa orientare le azioni degli individui verso esiti collettivi benefici ai più, anche nel sacrificio di minoranze e individui. Una nuova forma di ottimismo hegeliano accompagna tale illusione di una razionalità assoluta in cui è però nulla la responsabilità personale degli uomini concreti, perché tale processo si fonda sulla granitica esaltazione delle leggi ineluttabili dell’economia che assoggettano gli uomini ad una forma aggiornata di determinismo storico, quello delle teorie della scelta razionale che assicurano assoluta scientificità all’agire economico. L’effetto è quello di tranquillizzare tutti che l’attività economica possa essere sottratta all’abbraccio soffocante dell’etica e della politica. È il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia globale, i cui valori sono sottratti alla produzione effettiva delle merci, basandosi solo sull’uso del consumo. Il consumismo è la cifra di questo nichilismo senza tragedia che, riducendo tutti i valori a quelli economici dello scambio, non misura più l’alienazione rispetto alla miseria, ma piuttosto rispetto allo sradicamento. Si tratta della esaltazione solipsistica dell’individualismo che culmina nella “società liquida” di un Baumann, per il quale al tempo della globalizzazione è coessenziale una società di frantumi umani e civili, che presuppone la radicale svalutazione dell’ordine accusato della colpa dell’impotenza. In questo contesto in che modo si può parlare di nuovo di personalismo per le sorti della morale e della politica? Pietro Pavan nel suo Compendio di Dottrina sociale della Chiesa ha definito la persona non come assoluta individualità edificata 464

su se stessa ma come soggetto aperto alla piena verità dell’uomo, in cui si ha la condivisione di un bene comune. Essa non sopporta né l’individualismo radicale del liberismo economico, che destoricizza l’uomo esaltandone la verità astratta della sua maturità razionale né la riduzione dell’uomo alla collettività. Qui è l’individuo ad essere sradicato dalle sue relazioni sociali. Essa non sopporta neppure il collettivismo che annulla la personalità dell’io nel valore di un noi indistinto che tende ad assorbire ogni soggettività. Ma esso fugge anche dal relativismo culturale di un certo comunitarismo, che annulla la persona coi suoi valori e diritti nella dimensione sociale del clan in cui viene rifiutato il valore universale della verità e della giustizia. L’avvento della biopolitica che fa assurgere chi è più in grado di influenzare le opinioni collettive nel vero sovrano sociale è solo l’ultimo segno della piena economicizzazione del mondo. In essa è fortemente in crisi la possibilità di difendere la indisponibilità della persona col dono della sua infinita dignità, la quale sta alla base della uguaglianza dei diritti negli ordinamenti costituzionali contemporanei. I princìpi di tali ordinamenti sono ancora irrinunciabili e fondanti? La riduzione della persona alla volontà sovrana della propria corporeità pulsionale è corrispettiva alla fine della centralità del valore oggettivo della persona, che pure sta a fondamento del progetto moderno del progresso illuministico di emancipazione da ogni forma di schiavitù. Se valore è solo ciò che è oggetto di preferenza individuale, alla vita unica della persona sembrerebbe essersi ormai sostituito soltanto il valore onnipotente della merce, che spinge la persona a contrapporsi addirittura al suo corpo nella misura in cui esso viene visto solo come un oggetto ormai divisibile all’infinito nelle sue parti. 465

Il corpo non è più visto come indisgiungibile dalla persona, anzi l’uomo consuma se stesso tanto da produrlo come oggetto stesso di consumo (uteri in affitto, banco del seme, vendita di organi, sessualità futile). Danno fastidio gli imperativi della morale, di cui viene rifiutato l’agente, il cui criterio di condotta rimane soltanto la convenienza momentanea. Non c’è più l’azione del soggetto responsabile, che ormai è esangue ed astratto, ma solo l’atto utile alle leggi del mercato. Si è così progressivamente consumata la visione della persona come soggetto sovrano con diritti inalienabili, perché si è scissa la natura della persona dall’essere soggetto sussistente del diritto. Antonio Rosmini diceva nella sua Filosofia del diritto del 1843 che la persona è infatti “diritto sussistente”, cioè che non ha solo dei diritti, ma è l’essenza stessa del diritto23. La modernità ha dimenticato prevalentemente questa connessione classica fra persona e diritto. I padroni della vita frammentata sono le nuove élites che assoggettano i nuovi schiavi della ambigua democrazia del mercato globale. In esso si ha col dominio della tecnica la perfetta dissociazione fra scienza e vita, la cui cifra è stata abbandonata ad un astratto naturalismo falsamente universalistico quanto quei particolarismi che contrastano coi diritti dell’esperienza giuridica occidentale legata alla civiltà che difende la natura umana. Che cosa è allora il valore? Come oggetto di scelta individuale deve avere un aspetto di oggettività rispetto alle possibili opinioni che variano in una scala di preferenze quantificabili, ma si può anche ridurre ad un significato soggettivo e relativo inteso come qualcosa di rivestito di bene rispetto ad altri beni. 23

Cf. ROSMINI A., Filosofia del diritto (1843), a cura di ORECCHIA R., I, Giuffrè Editore, Milano 1967, n. 49.

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In questo secondo caso l’esistenza e la vita possono anche asserire la loro inutilità. La persona deve tornare ad essere valutata rispetto al bene comune, che è ciò su cui dovrebbe tornare a riflettere oggi la cultura politica di orientamento democratico. Il bene comune non è stabilito da maggioranze o da gruppi più forti dentro il corpo sociale, perché in tale prospettiva si tende ad escludere molti della indispensabile dimensione della partecipazione. Si può dire che l’etica è comunicabile ma non negoziabile, benché etiche differenti entro una certa soglia possono e devono coesistere. Negoziabili sono politica e diritto se permettono la saldatura tra responsabilità personale e percorso istituzionale dentro la partecipazione della natura morale della decisione politica. Il bene comune è questa partecipazione che la Gaudium et Spes definisce l’«insieme delle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente». Il bene comune è la dimensione sociale e comunitaria del bene morale, in cui si realizza l’agire morale del perfezionamento personale. Nel dibattito attuale fra liberals e communitarians (Rawls, Nozick, Taylor, Sandel, Habermas) si è affrontato il problema del rapporto fra giusto e bene. La società pluralista disegnata dalla modernità ha escluso che il bene comune sia un obiettivo della dialettica politica sulla base accertata di una comune condivisione della stessa idea di bene. Ma la politica non può non argomentare intorno al bene comune per poter deliberare efficacemente. Anche quando a fondamento della democrazia c’è solo la visione procedurale, essa comunque presuppone l’uguaglianza dei partecipanti i quali portano nella discussione lo stesso peso delle proprie ragioni. La dottrina 467

sociale cristiana ricorda che la visione contrattualistica della giustizia nella società è superata da quella per cui essa senza la carità, il dono e l’amore rimane un guscio vuoto, pronta a negare se stessa. La persona è legata al bene comune, perché presuppone che lo scambio dei beni non si attua senza che tutti possano poter usufruire dei valori inesauribili come quelli enunciati dalla teoria dei diritti umani fondamentali. La concezione personalistica dei diritti umani è connessa all’autorealizzazione dell’uomo inteso come auto- ed eterorelazione, che radica il progetto comunitario nella giustizia i cui fondamenti universali sono riconducibili al bene comune, sostanzialmente differente dal benessere utilitario. Con le riflessioni di Giuseppe Capograssi, Mounier e Maritain si è parlato sessanta anni fa circa di un ritorno della persona con la conclusione dell’epoca dei totalitarismi nazifascisti24. Anche il marxismo sembrava poter avere cittadinanza in questo nuovo umanesimo, attraverso la valorizzazione delle tesi del giovane Marx. Ma il declinare del secolo delle ideologie ha posto nuovamente problemi per la vita dell’idea personalistica. La stagione antiideologica sembrò infatti avere un esito antipersonalistico. É anche stato questo un esito necessario? La più antiideologica delle prospettive politiche contemporanee che è il liberalismo si è rifiutato, a differenza del socialismo, di fare un progetto di società, credendo che individui e gruppi sociali avrebbero dovuto essere lasciati liberi di costituire il proprio futuro. Il corso della civiltà avrebbe dovuto avere la forma delle scelte dei singoli e delle forze sociali all’interno del contenitore di progetti di mercato. Le ideologie 24

823.

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Cf. CAMPANINI G., Democrazia e persona, in AA. VV., Persona, cit., pp. 817-

classiche del fascismo e del comunismo, col loro monopolio centrale della forza e del consenso guidato dal partito, hanno proposto sin dall’inizio un solido modello di società. Il liberalismo ha contestato, invece, l’idea che la società si possa programmare a priori, nell’intenzione di lasciare al solo mercato la guida effettiva verso gli esiti ultimi della politica, la quale può essere indagata solo a posteriori. Questa lettura liberale della società sembra la vincente alla fine del Novecento, soprattutto dopo la Caduta del muro (1989). Nuovi muri si annunciano oggi nel ritorno degli egoismi nazionali, religiosi e culturali. Dal rifiuto di progettualità sociali segue la negazione di ogni intervento programmatico e razionale dello Stato. La progettualità fragile del liberalismo si richiama solo ai valori della libertà negativa (la libertà dai condizionamenti esterni, dall’ignoranza e dalla miseria) e dell’eguaglianza dei punti di partenza, per arrivare con Rawls alla fine alla progettazione di una giustizia fra gli uomini con il neocontrattualismo. Questo è l’ideale della società aperta e della democrazia delle regole procedurali. Essa non può però non incontrare le questioni aperte dall’umanesimo personalista. Dietro alla concezione della democrazia di carattere ascendente, che promuove l’idea del governo del popolo, dal popolo e per il popolo, sta una certa idea di persona. Il popolo ha diritto di governare in quanto è composto di persone capaci di decisioni politiche attraverso il discernimento del bene dal male. Il popolo ha diritto di controllare l’operato dei governanti del cui potere è giudice. Il popolo ha diritto di chiedere al governo di operare al servizio dei cittadini, che sono interlocutori degni del potere. Dietro questa visione permane una idea di persona, che pure Norberto Bobbio deve accettare per quanto la si giudichi nozione 469

ambigua e oscura. La differenza fra totalitarismo e democrazia è data dal posto che la persona occupa nella politica. Per i totalitarismi gli uomini sono un incidente di percorso, una platea di sudditi, una riserva di forza lavoro; per la democrazia la persona è o dovrebbe essere al centro del riferimento della vita civile, in cui essa risulta il fine della compagine sociale. Senza una filosofia della persona la democrazia decade a tecnica della coesistenza e a puro potere guidato da una razionalità strumentale. Maritain, Capograssi, Mounier, La Pira, Stefanini, Del Noce, Sciacca, Ricoeur e altri, pur da punti di vista diversi, sono stati i profeti di questa riabilitazione personalistica della vita pratica. Una nuova stagione del personalismo è necessaria di fronte ai nuovi problemi della società industriale di massa e al consumismo. Bioetica e informazione sollecitano coi loro problemi questo ritorno alla persona. La bioetica colla sua domanda su cos’è l’uomo è la spina nel fianco delle strutture politiche democratiche. La scienza sa o crede di sapere attraverso quali meccanismi nasce e si sviluppa la vita ed è in un certo senso suo diritto intervenire sui meccanismi di produzione della vita per migliorarli anche attraverso manipolazioni. Ma una scienza senza limiti e controlli rischia di espropriare l’uomo del suo diritto di essere soggetto che la democrazia difende con le sue norme. L’uomo altera e inquina l’ambiente come la democrazia, perché se ne mette in discussione il principio di libertà che sta alla sua stessa base. L’informazione tende, se priva di limiti, ad inquinare addirittura la coscienza colle sue manipolazioni del processo di comunicazione. É pur vero che non tutti possono conoscere tutto ciò che avviene nella sfera del potere, ma alla democrazia è necessaria una corretta informazione sulle questioni che riguardano tutti i cittadini. Una ragionevolmente libera e plu470

ralistica informazione è coessenziale al concetto di governo del popolo, dal popolo e per il popolo. Uno statuto dell’embrione e dell’informazione presuppongono proprio una idea di persona che non sia completamente manipolabile almeno in via di diritto. L’antropologia contemporanea ha scoperto che l’uomo è sociale fin dal principio, per cui la persona è costitutivamente in relazione ad un Noi che la precede. L’io non esiste come terreno cintato che poi si apre allo spazio degli altri, al Noi, ma è da subito intrinsecamente legato alla comunità, alle sfere sociali della famiglia, delle comunità intermedie e della società che ne permettono lo sviluppo, l’educazione e la realizzazione. L’io è fin dall’inizio della vita embrionale un individuo, un ente indiviso in sé e diviso dagli altri, ma non è incomunicabile, poiché è originariamente inserito in un contesto di comunicazione intersoggettiva. Io esisto nell’atto stesso del mio manifestarmi in gesti e parole nel contesto reale dell’eterorelazione. Il mio corpo non è esterno o estraneo a me, come l’involucro o lo strumento dell’anima, ma è il mio stesso esprimermi, il mio esistere-in-relazione. Il corpo è per MerleauPonty il veicolo che al soggetto permette di essere nel mondo, è il soggetto nell’atto di manifestarsi. L’io è certamente ipseità, relazione a se stesso o autorelazione, il sé però sarebbe privo di consistenza se non fosse anche originariamente eterorelazione, ossia radicale struttura comunicativa immersa nella intersoggettività e nella socialità. Il soggetto come autorelazione ed eterorelazione s’inscrive già da sempre nel patrimonio collettivo del linguaggio, delle espressioni e dei gesti (tecniche del corpo). I comportamenti mentali sono da sempre condizionati dalla lingua che parliamo, poiché nessuno inizialmente è riconducibile solo a sé. La civiltà cui apparteniamo, la lingua 471

che usiamo, la religione e le istituzioni in cui si articola la società civile e l’enorme contesto delle comunicazioni di massa mostrano una forma di incarnazione sociale degli uomini che dalla sua radice li condiziona. In questo che Pietro Prini chiama il primato del Noi sull’Io sta l’essenza etica della società: essa risiede «nel suo interiorizzarsi come la condizione e la possibilità di ogni condotta umana che intenda sottoporsi ad una regola»25. Seguire una regola è possibile per un soggetto solo privatamente? Per Habermas l’essenza etica della società sta nelle regole dell’agire comunicativo, che presuppone la critica reciproca e l’ammaestramento vicendevole, per arrivare all’accordo. La regola cioè deve possedere una validità intersoggettiva. Il personalismo sociale da Maritain ha imparato a considerare il rapporto interpersonale sia sul piano individuale che su quello sociale. Esso deve infatti tener conto del valore della persona in sé e per sé che sta nell’esprimere istanze di carattere universale nel senso che ha un essenza universale legata ad un destino trascendente; ma per altro verso questa essenza universale della persona costituisce il fondamento di istituzioni come la famiglia e lo Stato, che prescrivono relazioni monogamiche e finalità solidaristiche garantite dal Welfare State. Il personalismo ha così il compito inesauribile di indicare fini e mezzi adatti per tradurre l’etica in codificazione istituzionale con decisioni favorevoli alla difesa della dignità della persona e alla sua crescita nello sviluppo nella storia.

25

579.

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PRINI P., L’interpersonalismo: concetti e corollari, in AA. VV., Persona, cit., p.

3. Conclusioni provvisorie Il personalismo deve dare una risposta non conformistica a questi problemi, poiché rimane la coscienza critica della democrazia. Anche se gran parte dei paesi legati all’Occidente ritengono fondamentali i diritti umani, la loro difesa è un compito sempre aperto ed inesauribile vista la crisi delle visioni ideologiche e l’avvento della tecnoscienza colla sua onnipotenza. La promozione e la difesa della persona non può essere lasciata solo nelle mani degli esperti di problemi economico-sociali e politico-giuridici. Il pensiero debole della democrazia oggi largamente accreditato si presenta col volto suadente dell’antitotalitarismo radicale e anarcoide di chi non accetta discussioni sulla verità, che è l’ospite mal sopportato della società opulenta e cosiddetta pluralista. La retorica delle differenze fra risposte culturali opposte porta al rifiuto stesso della domanda sull’uomo. Allora la democrazia non è il regime delle risposte, ma quello delle domande. Sono i totalitarismi che sanno, la democrazia sa di non sapere, ritiene cioè che non esiste una risposta unica e definitiva a tutti i problemi, ma si pone in maieutico atteggiamento di ricerca di una verità comune sull’uomo, che, proprio perché è di tutti, è anche di nessuno in particolare ma di ciascuno in specie. Così il personalismo non oppone tanto una versione forte della democrazia alla ragione debole di certa ermeneutica, non avendo da avanzare visioni ideologiche della democrazia che finiscono per proporre una visione totalitaria del governo del popolo, ma propone una visione per cui la persona intesa come diritto sussistente rappresenti il limite più resistente alla sua tendenza manipolatoria. Lo Stato è sempre tentato dal demone dell’onnipotenza, se dimentica che l’uomo, per dirla 473

con san Tommaso, non è orientato alla città secondo tutto se stesso, ma solo in quanto essere politico e sociale, sapendo che politicità e socialità non esauriscono tutta la ricchezza fenomenologica dell’universo della persona. Ad esso è invece essenziale la dimensione di apertura verticale verso la Trascendenza, che è più alta della sfera politica perché è fuori di essa, rappresentandone così la sua eccedenza. La persona aperta strutturalmente alla Trascendenza rimane ancora oggi il limite invalicabile allo Stato e alla democrazia i cui demoni notturni sono sempre in agguato quando questo orizzonte verticale scompare alla coscienza. La prospettiva ispirata dalla apertura alla Trascendenza dona una capacità particolare di scrutare la storia alla luce di una escatologia metastorica grazie alla quale viene respinta la logica sia del totalitarismo dei pochi che presumono di conoscere il corso della storia, sia il relativismo dei molti che lo ignorano. Così si rispetta in effetti il pluralismo delle visioni e delle scelte che si nutrono senza esaurirlo del cibo della verità, la quale ci libera dalla idolatria dell’io senza radici e dai miti perfettistici dei vari collettivismi.

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ETICA E POLITICA: IL NODO DELLA RESPONSABILITÀ Donatella Buonfiglio La riflessione filosofica si è da sempre soffermata sui nessi esistenti tra la nozione di bene individuale e quella di bene comune, cercando di individuare i mezzi più adatti a realizzare una sempre maggiore convergenza tra i due piani. A seconda che sia stato dato maggiore rilievo all’aspetto individuale piuttosto che a quello comunitario, nella modernità sono state elaborate diverse ipotesi, finalizzate a far confluire la realizzazione personale con quella della comunità di appartenenza. Nella Repubblica platonica, ad esempio, secondo Giuseppe Riconda, «la realizzazione della giustizia nello Stato e nell’individuo procedono in modo parallelo: se è vero che la giustizia nello Stato si ha quando ogni individuo attende al compito proprio, è altrettanto vero che ciò può avvenire solo se l’individuo ha realizzato in sé la giustizia. L’uomo giusto è uno in sé e nella comunità perché è fedele al proprio compito»1. Anche nella Politica aristotelica risulta evidente il legame tra il bene in vista di cui si agisce (hoù hèneka) e l’azione che tende a realizzarlo, tanto che si può ben affermare con RudiDONATELLA BUONFIGLIO, Dottore di Ricerca in “Storia delle dottrine politiche” presso l’Università di Roma «La Sapienza». 1 RICONDA G., Bene/Male, Il Mulino, Bologna 2011, p. 19.

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ger Bubner che «rimane quindi come principio guida per i concetti fondamentali della politica l’analisi della struttura della prassi, la quale afferma che tutti coloro che agiscono lo fanno in vista di un bene», concludendo che «buono è ciò che appare degno della fatica della prassi», evidenziando il fatto che la struttura del bene può emergere e concretizzarsi solo mediante l’agire, che ha come teatro dell’azione proprio il mondo2. La polis, dunque, non è solo un ordinamento fondato sul potere, ma una comunità di persone che, unite da una tendenza naturale, promuovono la realizzazione di un telos: tale fine è la vita buona (eu zen), ossia finalizzata al bene inteso come guida del nostro agire. In tal senso l’uomo è un animale politico, in quanto riceve il logos dalla natura e mediante esso, all’interno della natura stessa, riconosce il bene comune e fonda un corpo politico che ne individua i contenuti; egli infine, attraverso il linguaggio, esprime il giusto e l’ingiusto, ossia la percezione del bene e del male. La ricerca dei nessi tra etica e politica, tuttavia, implica non solo una definizione più chiara di termini relativi ai due ambiti quali ad esempio “persona”, “bene”, “azione”, “volontà” e così via, ma soprattutto richiede una fondazione dei concetti che intende porre alla base di una certa teoria. La questione della cosiddetta “giustificazione” o “fondazione razionale” delle regole e quindi delle istituzioni implica il riconoscimento di una visione del mondo ordinata, in cui ogni cosa ha il suo posto e il suo valore. Ebbene, questo ordine tradizionale che era dato per assunto dall’antica filosofia pra2

BUBNER R., Linguaggio e politica, in VIGNA C. (a cura di), L’etica e il suo altro, Franco Angeli Edizioni, Milano 1994, p. 228.

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tica, viene ad interrompersi e a confrontarsi con un vero e proprio mutamento di paradigma, trovandosi davanti al fatto che non c’è un’unica ragione che si ponga come garante di certi valori, bensì occorrono ragioni diverse, spesso capaci di offrire solamente delle giustificazioni parziali e relative. Eppure, accanto a questa tensione etica che non riesce ad eliminare mai del tutto il senso di incertezza, troviamo che la maggior parte delle teorie morali elaborate nell’ultimo secolo insiste sul carattere universale dei giudizi morali. Come sostiene Eugenio Lecaldano, se le posizioni “assolutistiche” sono «all’origine di pericolosi e insanabili contrasti, l’alternativa a ciò non è il nulla o la perdita di senso della nostra esistenza, ma piuttosto un continuo impegno a elaborare un’etica che si muova su un piano più realistico ed empiricamente fondato»3. D’altro canto, anche la posizione pluralista corre il rischio di porre sullo stesso piano i diversi sistemi etici, quando invece risulta essenziale chiederci se possiamo disporre di criteri per affrontare conflitti e contrasti esistenti tra le concezioni etiche, accettando la pluralità senza togliere valore all’etica in sé. Come afferma Maurizio Ferraris, «punto di partenza e presupposto essenziale per il pluralista è che si possa e si debba individuare e distinguere “un’etica minima”, all’interno di un più ampio e specifico sistema di valori». E questo «confronto tra i progetti anche alternativi può segnare un arricchimento e uno sviluppo della cultura umana»4. Proprio all’interno del disorientamento etico che attra3

LECALDANO E., Etica, UTET, Torino 1995, p. 165. FERRARIS M., Morale, in Le domande della filosofia, Biblioteca di Repubblica, Roma 2011, p. 27. 4

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versa la civiltà occidentale, diviene sempre più stringente la domanda sui valori, la ricerca di nuovi elementi capaci di illuminare le contraddizioni del nostro tempo per misurarsi con le nuove frontiere dello sviluppo scientifico e tecnologico. Così afferma Francesco Miano nel suo libro sulla Responsabilità: «il prospettivismo dei valori non vuol dire morte dei valori, vuol dire, al contrario, riconoscimento di una molteplicità che, se può essere motivo di angustia e di tormento, può diventare anche condizione di più libera e mobile moralità»5. Se è impossibile entrare nel dettaglio ed esprimere gli aspetti basilari delle principali teorie etiche contemporanee, è invece determinante in questa sede riflettere sulla concreta possibilità di individuare un legame forte tra due esigenze fondamentali dell’essere umano: la ricerca della propria realizzazione e insieme il bisogno insopprimibile di relazionarsi all’altro. A tal proposito, così si esprime Paul Ricoeur: «Definirò la prospettiva etica mediante i tre termini seguenti: mira della vita buona, con e per gli altri, entro istituzioni giuste. Le tre componenti della definizione sono ugualmente importanti». Ebbene, la realizzazione della vita buona implica non solo la cura di sé, bensì anche la cura dell’altro e dell’istituzione, portando Ricoeur alla conclusione che «la stima di sé e la sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra»6. Se immaginassimo l’essere umano come un sistema di cerchi concentrici che, partendo dalla sfera più intima e personale, via via si allarga a comprendere in sé la società di cui fa parte, comprenderemmo immediatamente che ciascuno di 5

MIANO F., Responsabilità, Guida, Napoli 2009, p.14. RICOEUR P., Etica e morale, in VIGNA C. (a cura di), L’etica e il suo altro, cit., p.218. 6

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questi cerchi è inevitabilmente interconnesso agli altri e ci sarebbe quasi impossibile prenderne in considerazione uno solo senza coinvolgere gli altri. Questa struttura molteplice, complessa e apparentemente incomprensibile, può rivelarsi invece il punto di partenza più affascinante da cui ripartire per una ricerca nuova, spinti soprattutto dall’esigenza di evitare i cosiddetti “universali pretesi” che sempre sono portatori di conflitti insanabili poiché viziati dal particolarismo culturale. Così spiega Paul Ricoeur: «Una nozione, paradossale lo ammetto, si propone, quella di universali potenziali o incoativi. Questa nozione rende meglio conto dell’equilibrio riflesso che noi cerchiamo tra universalità e storicità. Solo una discussione a livello concreto tra le culture potrà dire, al termine di una lunga storia ancora a venire, quali universali pretesi diventeranno universali riconosciuti»7. In questo contesto di complessità conflittuale, entra in gioco la responsabilità, concetto capace di offrire una lettura nuova all’interno di altrettanto nuove problematiche emergenti. La novità della lettura non deve indurre a pensare ad un rinnovamento superficiale volto solamente a rendere interessanti e maggiormente appetibili le noiose e antiquate disquisizioni su cosa è bene e cosa è male, come va fatto il primo ed evitato il secondo, con quale intenzione o atto di volontà vada realizzato il bene e così via. Al contrario, pur collocandosi tra gli elementi di maggiore originalità del pensiero contemporaneo, il concetto di responsabilità costituisce senza dubbio il nodo più forte e determinante tra etica e politica, un efficace mezzo di realizzazione della persona sia sul piano individuale che sociale. 7

IBIDEM, p. 225.

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Innanzitutto, la persona si realizza come tale solo nella relazione con chi è nella sua prossimità, e questo vale tanto sul piano dello sviluppo fisico-intellettivo che sociale: l’essere responsabili di solito si associa al peso connesso al rispetto di regole che spesso intralciano la nostra libera iniziativa o anche al timore di essere giudicati per come abbiamo agito e con quali conseguenze; in realtà, la responsabilità è prima di tutto “dare una risposta”, ossia restituire lo sguardo a chi ci ha coinvolto, ci ha interrogato e quindi aspetta una nostra reazione. «Nella sua etimologia, che indica quale radice il verbo latino respondeo, appare decisiva infatti l’idea di risposta. Essere responsabili significa “rispondere a”, rispondere all’appello che viene da una situazione, dal tempo che si vive, dalla storia [… ] ma è soprattutto rispondere a qualcuno e più ancora rispondere di qualcuno»8. Se l’etica del Novecento è un’etica della responsabilità intesa come realizzazione dell’umano, essa implica una continua tensione dell’individuo che non si libera mai completamente del “senso dell’incertezza”. Ma è proprio su questa base che si può riproporre in termini nuovi la questione della “fondabilità dell’etica”. Inoltre, avendo a che fare con un “dover essere”, ossia con un termine ideale non ancora realizzato, la responsabilità va intesa sia in senso sincronico che diacronico: la visione superficiale di noi stessi e del contesto in cui siamo inseriti ci impedisce di vedere un fatto evidente e cioè che le nostre azioni hanno conseguenze che vanno ben al di là della nostra realtà di riferimento, bensì sono atti da intendere come telos di un’esistenza dinamica che si trascende. Il sistema dei cerchi concentrici diviene così una costru8

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MIANO F., op. cit., p. 8.

zione multidimensionale calata nella temporalità, anzi addirittura arricchita dal suo essere tale. In tal senso risulta essere fondamentale il contributo di Hans Jonas alla lettura della modernità: egli nel Principio di responsabilità mette in evidenza la novità della questione, individuandola nel trionfo dell’homo faber, capace di attuare trasformazioni così eclatanti da costringere l’etica a spostare la sua prospettiva da un orizzonte di prossimità a un attento esame delle conseguenze a lungo termine dell’agire umano. Nota a tal proposito Francesco Miano: «Ciò che emerge è non solo la responsabilità del singolo, ma il decisivo tema del carattere cumulativo dell’agire umano»9. Si smette quindi di ricercare solo il bene umano e si riconosce invece che il mondo naturale possiede dei fini in sé di cui l’uomo deve aver cura. È la prospettiva futura che ridefinisce completamente gli imperativi etici, giacché non abbiamo alcun diritto di ledere le generazioni future, ossia gli esseri umani che non esistono ancora e che, per causa nostra, potrebbero non-essere. L’imperativo di cui parla Jonas è un imperativo “pubblico”, «ha carattere politico ed è chiaramente orientato al futuro ponendo un problema di responsabilità oggettiva, occupandosi non della coerenza del singolo atto con se stesso, ma degli effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire»10. Tutto questo conferma quanto sopra sostenuto: la complessità e il dinamismo della società tecnologica richiedono una lettura interconnessa delle diverse componenti della società e ci chiama ad una risposta etica capace di protendersi 9

IBIDEM, p. 118. IBIDEM, p. 123.

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nella temporalità. Così ammonisce Jonas: «In considerazione del potenziale quasi escatologico dei nostri processi tecnici, l’ignoranza circa le conseguenze ultime diventa essa stessa una ragione per assumere un atteggiamento di riserbo responsabile, il secondo bene dopo il possesso della saggezza».11 E poiché coloro che devono ancora nascere sono impotenti, diviene essenziale il ruolo della politica, intesa come attività in grado di operare per il futuro, colmando quel “vuoto etico” di fronte al quale l’attuale società si trova. Tuttavia, farsi carico del futuro dell’intera biosfera significa inevitabilmente soffermarsi sui limiti che l’agire umano deve porsi per evitare la distruzione dell’essere. Non è affatto semplice diffondere un senso tutto nuovo di “disciplina sociale”, in grado di attuare un controllo delle sempre più ampie potenzialità della tecnica: tale consapevolezza si recupera, per Jonas, attraverso la cosiddetta “euristica della paura”, cioè un uso positivo del timore che possa contrastare lo sfrenato desiderio di potenza dell’uomo. Ciò tuttavia può realizzarsi solo se l’uomo non limita il suo “fare” solo per paura delle conseguenze giuridiche in cui potrebbe incorrere, bensì per il fatto di sentirsi responsabile di fronte a un altro essere che lo chiama ad uscire dalla sua autoreferenzialità: questo “dover fare” del soggetto chiamato ad aver cura dell’oggetto va ben oltre la vuota responsabilità formale dell’agente davanti al suo agire superando anche il concetto di responsabilità reciproca in nome di una dissimmetria che opera in senso verticale. In ciò consiste, come ben esprime Paolo Becchi, la dimensione nuova della responsabilità: «questo orientamento della responsabilità 11

JONAS H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2002, p. 126.

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verso il futuro è determinato dalla consapevolezza che il nostro agire nell’età della tecnica è qualitativamente e quantitativamente cambiato rispetto a tutte le epoche precedenti: siamo per la prima volta nella condizione di mettere a repentaglio il futuro della vita umana e della stessa vita in quanto tale»12. Porre l’accento sulle conseguenze delle proprie scelte aiuta l’uomo a leggere a fondo il proprio ruolo sulla terra, lo scopo della sua esistenza e il servizio che egli svolgerà nel corso di tutta la sua vita nei confronti dell’umanità intera13. Senza responsabilità, risulta davvero difficile cogliere come un insieme inscindibile la realizzazione del singolo uomo e contemporaneamente della sua specie. Altrettanto difficile sarebbe ottenere una visione ampia o ancora meglio completa della complessità del mondo e della necessità di ricercare la felicità comune all’interno di un vero e proprio groviglio di desideri individuali. Tale visione è ben espressa da Rocco Pezzimenti nel suo recente libro su Etica, le sfide della modernità. Per una morale sociale condivisa, quando si sofferma sul fatto che il senso di responsabilità nasce dalla consapevolezza della dualità, poiché la vita implica la relazionalità con qualcuno; tale relazionalità si manifesta nella temporalità e dunque nella finitezza. L’altro risulta quindi necessario alla nostra libertà quanto alla nostra responsabilità, dato che la sua persona costituisce un 12

BECCHI P., L’itinerario filosofico di Hans Jonas, in APEL K.-O. - BECCHI P. RICOEUR P., Hans Jonas. Il filosofo e la responsabilità, BONALDI C. (a cura di), Albo Versorio, Milano 2004, p. 51. 13 A tal proposito, illuminanti sono le riflessioni sull’imputabilità e sull’estensione della responsabilità dei nostri atti contenute nel Nono studio dell’opera di RICOEUR P., Sé come un altro, a cura di IANNOTTA D., Jaca Book, Milano 2002, pp. 343-407.

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limite all’agire della nostra persona. Se entra in crisi la visione teleologica del mondo, entra in crisi anche il concetto di responsabilità che non può esistere se non in rapporto ad una finalità da realizzare. Commentando la nota affermazione di Hans Jonas che dice: «Sul diritto individuale al suicidio si può discutere, sul diritto dell’umanità al suicidio invece no», Pezzimenti così si esprime: «A suo parere, non si può fare dell’esistenza umana una posta in gioco. Giustamente si può dire, parafrasando Pascal, che si può scommettere solo sull’al di là, l’al di qua ha bisogno di certezze e non di scommesse […]. Questa (la mia azione) non può essere solo guidata dal sapere scientifico, per incolpare poi la scienza di arrivare a conclusioni inumane, ma deve anche essere guidata da scelte morali fondate sul rispetto della persona»14. Se gli elementi fondamentali dell’azione morale sono la motivazione, la scelta e la realizzazione, affinché un’azione possa considerarsi veramente libera, è essenziale collocarle nella temporalità, non solo per cogliere il rapporto tra soggettività e oggettività, ma anche perché l’agente colga il significato di tale azione e, comprendendolo, faccia della sua scelta un vero atto di libertà. In quest’ottica, la persona che abbiamo davanti e che aspetta la nostra risposta non costituisce un limite della nostra vita morale, ma, al contrario, la possibilità di una realizzazione concreta e completa del nostro essere. La responsabilità, quindi, venendo a perdere qualsiasi carattere di astrattezza, si può tradurre immediatamente in una esigenza concreta, risultando capace di dare voce ai volti invisibili che, pur essendo alla ricerca di un senso, sembrano destinati a restare inascoltati. 14

PEZZIMENTI R., Etica, le sfide della modernità. Per una morale sociale condivisa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, p. 174.

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E se invece di considerarci esseri oppressi dalle responsabilità ci vedessimo, al contrario, come uomini condannati all’irresponsabilità e quindi all’incompiutezza? Se la responsabilità è la capacità di rispondere, di leggere la realtà, di interrogarci sullo scopo della nostra esistenza, non sarebbe forse desiderio comune sentirci responsabili per essere finalmente realizzati? Svegliandoci una buona volta da quel reciproco assopimento che spegne ogni interrogativo e ci condanna all’esistenza vuota e anonima del “si”, possiamo scegliere di rispondere a un richiamo, più che a un’obbligazione meramente imposta dall’esterno, compiendo quello che Ricoeur definisce uno “slancio verso l’atto” che, disvelando le nostre colpe e mancanze, disvela tuttavia la nostra umanità e dunque ci realizza come esseri umani. Ricoeur riconosce a Jonas il grande merito di aver “riorientato” l’idea di imputabilità, riconoscendo nell’ altro, di cui io sono responsabile, la vittima non solo effettiva ma anche potenziale della mia azione, grazie ad un ampliamento della sfera della responsabilità tanto nello spazio che nel tempo. Tale interpretazione, lungi dal soffocare la libertà di azione umana come fosse una pesante coltre che opprime la nostra capacità di scelta, va intesa invece come una effettiva possibilità di valorizzare la singolarità dell’uomo, il suo essere chiamato, lui e lui solo, a scegliere e ad agire, rispondendo a se stesso ed alla comunità di appartenenza. Infatti, se è vero che la responsabilità è sempre e solo individuale, essa si concretizza però sul piano sociale e quindi politico, così come afferma Miano: «la responsabilità è un importante termine medio tra libertà e comunità»15. Abbandonando qualsiasi visione retorica volta a leggere 15

MIANO F., op. cit., p. 183.

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la storia come l’avvento della perfezione o come il compimento della peggiore catastrofe, la comunità responsabile potrebbe realizzare l’umanità dell’uomo, dapprima solo in forma abbozzata e poi gradualmente portata a compimento, mediante la realizzazione di un impegno inscindibilmente legato ad una data situazione. Commentando l’idea di Robert Spaemann secondo cui le persone sono individui in un senso incomparabile, Pezzimenti così si esprime: «il concetto di persona si rapporta sempre nei confronti di un altro e, più spesso, di altri. Ha insomma bisogno di un riconoscimento per essere quello che è […] e si tratta di un riconoscimento inalienabile»16. Prima che la realizzazione di desideri specifici, la nostra ambizione esistenziale più fondante è il poterci trovare in mezzo a esseri umani che ci riconoscono e in cui ci riconosciamo: l’uomo è sempre stato alla ricerca del proprio bene, questo è un dato di fatto, ma se questa ricerca non si limitasse al raggiungimento di un bene meramente personale e fosse invece il conseguimento di un bene storico? Se la prospettiva individuale si aprisse a quella più ampia della comunità? Forse proprio in questo consiste la sfida della responsabilità: costituire un mezzo di realizzazione tanto dell’uomo che interroga quanto di quello che risponde, tanto del singolo individuo che sperimenta la libertà della risposta, quanto della collettività che si proietta nel proprio futuro. Il nodo della responsabilità diviene così lo strumento per conseguire la piena libertà sia della persona che della comunità politica. Solo in questo modo si potrà individuare un percorso che, per quanto accidentato e contraddittorio, sarà in grado di con16

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PEZZIMENTI R., op. cit., p. 163.

durci a una sempre più piena confluenza di privato e pubblico, di ciò che noi siamo come esseri già dati e di ciò a cui tendiamo in quanto esseri progettanti. Il nodo della responsabilità non va quindi inteso come un impedimento da rimuovere, come un groviglio da sciogliere, quanto piuttosto come un saldo legame tra la nostra attitudine alla socialità e la nostra libertà di scelta e di azione, giacché etica e politica trovano proprio nella responsabilità lo strumento più adeguato a concretizzare la nozione di bene, estendendolo dall’umanità vivente sino all’umanità futura che erediterà quanto noi abbiamo realizzato. Al termine delle sue riflessioni sul concetto di responsabilità, Paul Ricoeur così conclude nell’opera Il Giusto: «Alla fine il dilemma suscitato dalla questione degli effetti collaterali dell’azione, tra i quali si classificano gli effetti nocivi, ci ha ricondotto alla virtù della prudenza. Ma, allora, non si tratta più della prudenza nel senso debole della prevenzione, bensì di quello della prudentia, erede della virtù greca della phronesis […]. A questa prudenza, nel senso forte del termine, infatti, viene rimesso il compito di riconoscere, tra le innumerevoli conseguenze dell’azione, quella di cui possiamo legittimamente essere ritenuti responsabili, in nome di una morale della misura»17. In conclusione, possiamo affermare che il concetto di responsabilità trascende la mia stessa azione, pur collocandosi nel “qui” e nell’ “ora”, ossia nell’immanenza, nella concretezza 17

RICOEUR P., Il Giusto, trad. it. di IANNOTTA D., SEI, Torino 1998, pp. 5556. Sul rapporto tra bene e giusto, si veda anche DA RE A., Il bene e il giusto: una panoramica delle attuali proposte etico-politiche, in GAHL R.A. (a cura di), Etica e politica nella società del Duemila, Armando Editore, Roma 1998, pp. 45-64.

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dell’agire e delle situazioni storiche, anzi addirittura le supera e completa il suo senso nell’oltre da me. La responsabilità, inoltre, realizzandosi solo nella prassi, supera il formalismo etico, senza rinunciare all’universalità, pur salvaguardando il pluralismo etico, visto che ognuno di noi è responsabile di fronte all’altro e al mondo e può attuare diverse forme di risposta, ugualmente valide pur nella loro varietà. Ma forse il maggior merito del concetto di responsabilità è quello di aprire nuovi scenari in cui collocare la questione etica, ponendola come un discorso in fieri, anziché relegarla in una dimensione asfittica e chiusa in categorie rigide, inadeguate ad interpretare la complessità. Proprio questa sua caratteristica rende la responsabilità più atta a rispondere alle esigenze della modernità, nel tentativo di edificare una comunità politica che non si esaurisca in una positivizzazione delle norme e punti invece ad elaborare regole che, lungi dall’essere vuote imposizioni, possano attualizzare nel tempo e nello spazio la nostra potenziale umanità.

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IL CORPO POSTUMANO E IL PRESUNTO ESAURIMENTO DEL VALORE EPISTEMOLOGICO DELLA METAFORA ORGANICISTICA Luca Mencacci 1. Introduzione ‹‹Una volta era la “ribellione delle masse” che minacciava l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura occidentale. Ai nostri tempi, invece, la minaccia principale sembra venire da chi si trova al vertice della gerarchia sociale, non dalle masse››1. Agli inizi del Ventunesimo secolo, appare ormai tristemente realistica la lucida quanto allarmante profezia, con la quale Christopher Lasch concludeva la sua indagine sul “tradimento della democrazia”, chiosando con amaro sarcasmo che: ‹‹quando Josè Ortega Gasset, nel 1930, pubblicò la ribellione delle masse, non poteva prevedere un tempo in cui sarebbe stato più appropriato parlare di “ribellione dell’élite››.2 Alle profetiche parole dello studioso americano avevano LUCA MENCACCI, Ricercatore in “Scienza Politica” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi (Roma). 1 LASCH C., La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 2001, p. 29. 2 IBIDEM.

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fatto eco, alcuni anni più tardi, le riflessioni di Zygmunt Bauman. «É accaduto qualcosa che Menenio Agrippa avrebbe considerato inconcepibile, allorché esortò i plebei a restare a Roma e ad abbandonare l’intenzione di andarsene e lasciare i patrizi a se stessi. Egli resterebbe allibito nel sapere che alla fine non furono i plebei, ma gli equivalenti moderni degli antichi patrizi romani che volutamente o meno, mai comunque tornando sui propri passi, decisero di secedere, di scaricarsi dai propri obblighi e di lavarsi le mani delle proprie responsabilità. Gli odierni patrizi non hanno più bisogno dei servigi della comunità; di fatto, non vedono più cosa lo stare nella e con la comunità possa offrire loro che essi non abbiano già acquisito o sperano di poter acquisire in modo autonomo, mentre per contro, vedono fin troppo bene tutti i vantaggi che l’assolvimento degli obblighi di solidarietà comunitaria rischierebbero di far perdere loro»3. Parole, quelle del sociologo polacco, che andavano nella stessa direzione epistemologica, ma che aggiungevano un ulteriore elemento di discussione e approfondimento. Questa sorprendente direzione presa dagli eventi, infatti, non solo confonde le aspettative degli studiosi sul corso della storia, ma mette in discussione assunti culturali ormai stabiliti da tempo. A ben vedere, Menenio Agrippa sarebbe probabilmente stato molto più sconcertato nell’apprendere di essere stato privato degli argomenti che si trovavano alla base del suo convincente apologo. Sarebbe stato molto più stupito nel sospettare della sopravvenuta incapacità del corpo umano di garantire la tradizionale analogia della società politica. Una incapacità che non deriva solo dagli esiti di una lunga ed arti3

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BAUMAN Z., Voglia di continuità, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 50.

colata elaborazione filosofica, che si è succeduta nei secoli, quanto piuttosto da un vulnus spirituale che la cultura scientifica ha insinuato nell’umanesimo occidentale, provocandone quella che, nel linguaggio caro a Baudrillard, viene definita come una sorta di “delegittimazione antropologica” «Una volta che l’umano non viene più spiegato in termini di trascendenza e libertà ma in termini di funzioni ed equilibrio biologico, la definizione stessa dell’umano comincia a perdere vigore, di pari passo con quella di umanesimo»4. Del resto, se già verso la metà del XVII secolo, Cartesio poteva suggerire che il corpo non fosse essenziale alla esistenza, allora si può ben comprendere come alla fine del XX, l’idea stessa di corpo possa precipitare nella insignificanza culturale e quindi nella insostenibilità metaforica5. «Costretto a vivere la vita concepita dall’intelletto, il corpo è divenuto un fascio di processi in terza persona: la vista, l’udito, il tatto, la mobilità; per ciascun processo il suo organo, le sue cause, la sua scienza specifica»6. Pertanto, laddove il corpo non è più fonte di senso, non si vede come possa continuare ad ambire e a fissare un termine di paragone, per convincere un gruppo sociale, determinato alla secessione da quella società alla quale non sente più di appartenere. Gli attuali «risultati scientifici non sono il prodotto di un intelletto che abita un corpo, ma di un intelletto puro che, solo prescindendo dalla individuazione corpo4

BAUDRILLARD J., L’illusione dell’immortalità, Armando Editore, Roma 2007,

p. 20. 5

‹‹Se posso dubitare che il corpo esiste, non posso dubitare che io esisto; perciò il mio corpo non è essenziale alla mia esistenza›› (DESCARTES R., Meditationes de prima philosophia (1641); trad. it. Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Id. Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, col. II, Seconda meditazione, p. 27). 6 GALIMBERTI U., Il corpo, Feltrinelli, Milano 2002, p. 73.

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rea, è in grado di produrre quelle costruzioni logico ideali in cui la scienza si riconosce. Nell’ambito dei fatti culturali che caratterizzano la vicenda umana, la scienza è dunque quell’episodio nato dalla possibilità di prescindere dal corpo e dal mondo percettivo e intuitivo che il corpo dischiude» 7. Il precipitare dell’umano nel biologico, predeterminato dal caso ma manipolabile dalla scienza, avvilisce in misura radicale la percezione del corpo, non limitandosi a svilire il valore culturale della sua somatografia ma a negare addirittura il suo contributo alla esistenza stessa, sollecitando l’ambizione verso le chimere della deriva postumana8. 7

IBIDEM, p. 85. «Ai fini di una doverosa explicatio terminorum occorre precisare che ‹‹il termine “postumano” arriva agli onori della cronoca culturale con la mostra Post Human, curata dal mercante e critico Jeffrey Deitch al FAE Musèe d’Art Contemporain di Losanna nel giugno del 1992 […]. La mostra non ebbe solo un grande successo, ma suscitò discussioni e riflessioni che andavano nel senso dei problemi sollevati da Deitch nel saggio introduttivo del catalogo. In quello scritto, Deitch partiva dalla considerazione delle nuove possibilità offerte dalle biotecnologie per intervenire su diversi aspetti del nostro corpo e della nostra personalità: “Sempre più si afferma la sensazione che dovremmo assumere il controllo sul nostro corpo e sulle sue condizioni sociali, piuttosto che accettare puramente e semplicemente ciò che abbiamo ereditato”. La possibilità di intervenire sul patrimonio genetico per assicurare a noi o ai nostri discendenti particolari caratteristiche fisiche, mentali, comportamentali, portava Deitch ad affermare che stiamo passando dall’evoluzione darwiniana, o “evoluzione naturale”, a una “evoluzione artificiale”» (CARONIA A., Il Cyborg, Shake edizioni, Milano 2008, pp. 135 – 136). Sul tema, tra gli altri, si vedano MARCHESINI R., Posthuman. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002; BARCELLONA P., L’era del postumano, Città Aperta, Troina (EN) 2007. Sulle sue implicazioni politiche della trasformazione tecnologica dell’umano cf. BARCELLONA P. - CIARAMELLI F. - FAI R. (a cura di), Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Dedalo, Bari 2007. 8

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Se l’orizzonte esistenziale finisce con l’essere permeato in misura totalizzante dalla prospettiva scientifica, la capacità di quest’ultima di prescindere dalla soggettività somatica finisce con il restituire un corpo come un mero aggregato di organi fungibili, modificabili, persino superabili, e apparentemente del tutto incapaci di produrre un significato che possa andare oltre la mera funzione loro attribuita. A di là dei risultati ottenuti, e di quelli realisticamente ottenibili, per quanto l’avverbio abbia un senso nell’attuale contesto scientifico, negli ultimi anni del XX secolo, la cultura occidentale, complici le suggestioni evocate da una certa narrativa e cinematografia di genere, sembra aver modificato in misura radicale la concezione del corpo umano. La trasformazione tecnologica dell’umano non viene indirizzata solo al potenziamento del fisico o alla riproducibilità delle sue parti, ma sembra essere chiamata ad alimentare una seduzione di una sua superabilità, che nella attuale impossibilità di una concreta realizzazione, precipita il corpo nell’imbarazzante palude della sua insignificanza postumana, quale mero supporto di una informazione. Scopo del presente saggio, sarà, allora, quello di indagare se il corpo, così come oggi viene percepito, plasmabile e fungibile, sia ancora in grado di sostenere quella metafora organicistica che tradizionalmente ha accompagnato la riflessione filosofica e scientifica sulla società politica. La radicale torsione rappresentativa che investe il corpo organismo, invero, più intuita che realizzata, ma non per questo meno sentita, sembra aggiornare la somatografia della rappresentazione politica aprendola verso un percorso epistemologico di non agevole percorribilità, del quale tuttavia non sfuggono le potenzialità interpretative di quella che oggi si è ormai soliti 493

chiamare società postdemocratica9. Quindi, proprio ‹‹la modificazione delle credenze sociali associate alla immagine che sorregge la metafora (nel nostro caso il corpo vivente, che diventa il modello di comprensione dell’aggregazione politica) si riflette sulla metafora stessa rendendola aperta, sempre soggetta al mutamento di contesto e al dibattito››.10 Del resto, senza scomodare il celebre passaggio della Retorica di Aristo9

Lo stesso Colin Crouch ha ammesso tutte le difficoltà del caso nel descrivere compiutamente quella fase involutiva della democrazia che, secondo la sua analisi, stiamo vivendo, finendo con il rinunciare a darne una definizione precisa ma indicando solo un percorso allarmante di progressiva entropia della sovranità popolare, nella quale ‹‹i cittadini perdono effettivamente ogni possibilità di tradurre le loro richieste in azione politica››, pur conservando almeno formalmente la piena titolarità dei diritti elettorali. Cf. CROUCH C., Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari 2004, p. 116. 10 BRIGUGLIA G., Il corpo vivente dello stato, una metafora politica, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 10. Gli autori che si sono soffermati ad analizzare gli effetti esplicativi delle metafore politiche appartengono, per lo più, alla scuola angloamericana che, interpretando il linguaggio come una forma particolarmente pervasiva di azione simbolica, sottolineano la capacità della metafora di sollecitare e intensificare certe suggestioni. In particolare, Murray Edelmann, nell’analisi del comportante politico del homo symbolicus, arriva ad affermare che il cittadino non agisce in seguito a razionali valutazioni di eventi percepiti oggettivamente, ma risponde emotivamente a riduzioni soggettive di senso operate dal linguaggio simbolico e metaforico, cui ha accesso. In questo senso la metafora costituisce la stessa realtà politca nella quale finisce per vivere ed agire il cittadino. Cf. EDELMAN M., Myths, metaphors, and political conformity, in «Psychiatry», 30 (1967), pp. 217–228; sul tema si veda anche MILLER E.F., Metaphor and political knowledge, in «The American political science review», (1975), pp. 155–170; sulla metafora come momento di semplificazione di fenomeni politici complessi, SOLESBURY W., Strategic planning: metaphor or method, in ‹‹Policy and Politics›› 9/4 (1981), pp. 417 – 437; sulla capacità della metafora, oltre che di spiegare la complessa realtà politica, anche di contribuire a padroneggiarla, restituendo protagonismo al cittadino, WALZER M., On the role of symbolism in political thought, in «Political Science

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tele per il quale «noi impariamo soprattutto dalle metafore», l’indagine scientifica, come già aveva evidenziato Popper, non può esaurirsi nel rigore nomologico della giustificazione matematica, ma dovrebbe aprirsi alla suggestione creativa, indotta da quella intuizione e persino da quella provocazione che si alimentano del linguaggio analogico e metaforico.11 A maggior Quarterly», 82/2 (1967), pp. 191–204; sulla responsabilità anche etica della creazione e dell’uso di metafore volte a indurre l’interlocutore a pregiudiziali percorsi di comprensione di emergenti fenomeni politici, ROSENTHAL D.C., Metaphors, models and analogies in social science and public policy, in «Political Behavior», 4/3 (1982), pp. 283–301; sul rischio della deformazione della metafora da strumento cognitivo a costruzione ideologica, LANDAU M., On the use of metaphors in political analysis, in «Social research», 28 (1961), p. 336. Sull’uso della metafora somatica nell’epistemologia politica italiana, oltre al citato testo di Gianluca Briguglia, che concentra la sua analisi sul periodo che va dal Medioevo di Marsilio da Padova agli albori della età moderna di Hobbes, si può far riferimento, in particolare, per quanto concerne il debito del pensiero politico occidentale nei confronti della riflessione platonica, a CANAVERO A., Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano 1995; per una completa disamina del valore euristico della metafora politica, RIGOTTI F., Metafore della politica, Il Mulino, Bologna 1989 e AA. VV., Il potere delle immagini: la metafora politica in prospettiva storica, a cura di EUCHNER W. - RIGOTTI F. - SCHIERA P., Il Mulino, Bologna 1983. 11 Rispettivamente, ARISTOTELE, Retorica, III, 10, 1410b, IDEM, Opere, vol. X, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 161 e POPPER K., La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970. «Le affermazioni politiche, di qualunque tipo, non sono apodittiche ovvero basate su un sistema di assiomi preciso e convenzionale come quelle matematiche» (RIGOTTI F., Rassegna introduttiva sulle metafore storicopolitiche, in AA. VV., Il potere delle immagini: la metafora politica in prospettiva storica, cit., p. 15). Appaiono, invece, intimamente legate alla eventualità di una loro accettabilità presso l’uditorio e quindi fanno necessariamente riferimento a quel discorso retorico che, a partire dal pensiero classico greco, ‹‹verteva intorno ad argomenti probabili e che mirava a persuadere l’uditorio circa l’accettabilità di una asserzione››. (ECO U., Il linguaggio politico, in BECCARLA G.L., I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani, Milano 1973, p. 91).

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ragione per tutte quelle scienze, relativamente nuove, chiamate a misurarsi con una epistemologia di una complessità emergente quanto apparentemente irriducibile, capace di mettere in crisi gli ordinari punti di riferimento dell’analisi scientifica12. «Molti sono i filosofi, gli epistemologi e gli scienziati contemporanei che riconoscono nella metafora un momento caratteristico dell’emergenza di nuove conoscenze […]. È dunque quando l’accordo sul vocabolario viene a vacillare, quando le certezze metodologiche sono messe in discussione, quando le idee nuove non possono o non vogliono usare i concetti di prima per esprimersi, quando si deve scegliere fra le incertezze, quando insomma si tratta di modificare il rapporto con il sapere, che la metafora diventa allora lo strumento più utile al nuovo sapere per legittimarsi e all’individuo per assimilarsi e accomodarsi al suo sapere»13. 12

‹‹Ogni scienza nascente e poco evoluta – “E Dio sa se la scienza politica è poco evoluta” scriveva Bertrand de Jouvenel [Du Pouvoir. Histoire naturelle de sa croissance, Constant Bourquin, Paris 1947, p. 22; trad. it. Del potere. Storia naturale della sua crescita, SugarCo, Milano 1991] – deve aiutarsi con associazioni e analogie e fin qui niente di nuovo. Ma deve anche avere la modestia di riconoscerle come tali, da una parte, e di accettare, dall’altra, che esse lasciano una traccia indelebile nelle nozioni astratte alle quali vengono applicate›› (RIGOTTI F., Metafore della politica, cit., p. 21). 13 FABBRI MONTESANO D. - Munari A., Il conoscere del sapere. Complessità e psicologia culturale, in BOCCHI G. - CERUTI M. (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori-Paravia, Milano 2007, pp. 317–318. La letteratura in tal senso è davvero vasta. Basti qui ricordare Black che afferma la peculiarità epistemologica della associazione metaforica di aprirsi a nuovi orizzonti di senso attraverso lo svelamento di connessioni altrimenti insospettabili e la rivelazione di nuove conoscenze, semplicemente cambiando i rapporti semantici tra i diversi elementi lessicali. (Cf. BLACK M., Modelli, archetipi, metafore, Pratiche ediz., Parma 1983). In particolare, proprio le metafore sembrano diventare preziosi strumenti di ricerca allorquando le novità “introdotte” dal cammino storico delle

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2. Membra senza un corpo, individui senza comunità Se l’immagine della comunità politica come corpo organismo è un topos ricorrente della riflessione, probabilmente la sua espressione più ricordata è proprio quella offerta dall’apologo Menenio Agrippa, raccontato da Tito Livio nel secondo libro di Ab Urbe Condita. Così suggestiva che lo stesso Bauman, dopo circa duemilacinquecento anni, sente ancora la necessità di farne un riferimento saliente della sua provocatoria riflessione. La storia è nota. I nemici di Roma erano alle porte, ma il suo esercito non voleva saperne di radunarsi per muovere contro di loro. Questo, infatti, era composto prevalentemente dalla plebe, piccoli artigiani e agricoltori, i quali, per onorare il servizio militare, non potevano accudire ai propri affari, che finivano con il versare in pesanti situazioni debitorie, proprio nei confronti di quei patrizi accusati di essere l’unico ceto privilegiato dell’ordine sociale, che avrebbe dovuto essere difeso. La mancanza di volontà del Senato di risolvere, con un provvedimento legislativo, la delicata questione, aveva provocato la famigerata secessione dei plebei sul Monte Sacro. Solo la mediazione di Menenio Agrippa, basata sul celebre apologo dell’equilibrio funzionale delle diverse parti del corpo, riuscirà a ricucire lo strappo e a salvare la situazione. Tuttavia, c’è stato un tempo, come lo stesso Agrippa ricorda, in cui, egli non avrebbe potuto raccontarlo. Un tempo nel quale il corpo non si offriva allo sguardo dello studioso nella sua unità organica. ‹‹Tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed realtà sociali e politiche rischiano di mettere in crisi gli ordinari strumenti di comprensione e il tradizionale linguaggio del discorso scientifico. (Cf. BOYD R. - KUHN T.S., La metafora nella scienza, Feltrinelli, Milano 1983).

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singulis membris, suum cuique consilium, suus sermo fuerit, […]››14. Era quella la stagione mitica nella quale Omero aveva cantato le gesta di quei principi achei che avevano attraversato il mar Egeo per assediare la città di Troia. Il racconto del corpo dei protagonisti della Iliade è invero sorprendente e sembra del tutto avulsa dalla tradizionale rappresentazione che la cultura occidentale ha offerto di esso. Innanzitutto, in Omero manca una parola che indica con precisione il corpo nella sua totalità, la quale per il poeta si ricompone solo nella immobilità della morte. Il corpo per Omero è, essenzialmente, il cadavere immobile ed ormai privo di vita. La vitalità, invece, risiede nelle singole membra che, nel vorticoso dinamismo dell’azione bellica, inseguono la definizione narrativa del personaggio che contribuiscono a caratterizzare. ‹‹Il corpo umano non viene rappresentato nel suo armonico insieme unitario, ma soprattutto nelle “parti” in cui si articola: testa, busto, braccia, gambe. Inoltre, ciascuna delle parti viene ben evidenziata in ciascuna delle sue caratteristiche specifiche, e viene così differenziata dalle altre. Pertanto, più che in funzione del nesso strutturale 14

«Al tempo in cui il corpo umano non formava come oggi un tutto in perfetta armonia, ma le singole membra, avevano una propria opinione e usavano un proprio linguaggio […]» (LIVIO T., Ab Urbe Condita, II, 32; ed. it. a cura di MAZZOCCATO G.D., Newton & Compton, Roma 1997). A tale proposito Cristina Zaltieri commenta: «l’attribuzione di un consilium proprio ad ogni organo rimanda ad un registro linguistico politico poiché consilium, nella lingua latina, deriva dal verbo consulo che ha il significato di “decidere, determinare, prendere provvedimenti”, intende dunque un atto di intelligenza che si concretizza in azione. Consilium si prestò così in modo adeguato ad evocare il pensare che si dispone all’agire politico» (ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, Negretto editore, Mantova 2009, p. 41).

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con l’organismo nella sua unità, ciascuna parte viene raffigurata in ciò che a essa è peculiare››.15 L’Iliade, del resto, narra di quella guerra, che, nella cultura greca, dell’epoca è padre e re di tutte le cose16. Nella danza macabra dei duelli e degli scontri le membra agiscono in modo autonomo, rispondendo esclusivamente a quella furia cieca che sembra pervadere l’intero racconto e finendo con l’alimentare il mito di una guerra capace di rivelare il destino degli uomini, la natura divina degli uni come quella umana degli altri17. L’uomo omerico, in realtà, non solo non possiede esperienza del corpo come organismo unitario, ma non concepisce neppure un’anima che di questo possa manifestarsi come principio egemone. Questa mancanza, insieme all’evidente caratterizzazione 15

REALE G., Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano 1999, p. 19. 16 ERACLITO, fr. 12. Sebbene numerose allusioni al famigerato frammento di Eraclito si trovino sia nel De Iside et Osiride di Plutarco e nel Quomodo historia conscribenda sit di Luciano, il testo completo è riportato dal teologo e scrittore romano Ippolito nella Refutatio contra omnes haereses con queste parole: ‹‹Ascoltiamo Eraclito che dice che il Padre di tutte le cose generate [ovvero il logos eracliteo considerato da Ippolito identico al Dio creatore] è generato e ingenerato, creazione e demiurgo: padre di tutte le cose è la guerra e di tutte è re: gli uni li rese dei, gli altri uomini, gli uni li fece schiavi, gli altri liberi››. In ERACLITO, Frammenti, a cura di FRONTEROTTA F., Rizzoli, Milano 2013, p. 47. 17 Influenzata dal clima guerrafondaio dell’epoca in cui si trova tristemente a scrivere, Simone Weil restituisce della Iliade una lettura pessimistica, quale poema della forza che annichilisce lo spirito umano, l’esaltazione di un principio notevole e grossolano che rivela la miseria umana, nella incapacità di ricondurre e sottomettere le passioni individuali all’armonia della comunità politica e che si pone «al servizio della impresa di de-creazione della quale è artefice l’uomo, una volta che Dio abdicando, con la creazione, alla propria onnipotenza, cede il mondo alle creature» (ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, cit., p. 107).

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egocentrica, orgogliosa e violenta della compagine in armi che assedia la città di Troia, sembrerebbe non lasciare spazio alla manifestazione di una comunità politica sia pur in nuce. ‹‹Il mondo omerico è un mondo di eroi guerrieri, che lottano per l’onore (time), la fama (kleos) e la gloria (kydos), dando prova di aretè, la virtù guerriera saldamente connessa con la violenza (bia) e con il furore bellicoso (lyssa), riconducibile alla sfera dell’animosità (thymos). È un mondo di re (basileis), al plurale, che, subentrati alla “monarchia dei tempi eroici” di età micenea, in cui l’autorità era concentrata nella persona del sovrano (anax), si contendono lo “scettro” del comando militare, sfidandosi per l’aristeia e contestandosi vicendevolmente con spirito di competizione (agon), come è testimoniato dallo scontro tra Agamennone e Achille nel primo canto dell’Iliade. Sono re che stentano a trovare il “consiglio”, quell’esercizio della riflessione di cui pure avvertono la necessità per temperare il proprio nobile ardore e comporre i propri conflitti mediante il ricorso a una “misura” comune, a un ordine ispirato alla giustizia››18.

Le modalità espressive peculiari della tradizione orale, cui appartiene la stessa epica omerica, caratterizzano la dimensione politica, polifonica quanto conflittuale, della comunità di eroi greci. Dall’esame del poema Iliade ‹‹si comprende che ogni basileus aveva il potere di radunare gli Achei in assemblea e che ogni uomo poteva prendere parola, impugnando a tal fine lo skeptron, il bastone del comando che diveniva in tal contesto il segno del diritto di parola, e ponendosi nel mezzo (en meson) dei convenuti, dando così una conformazione comunitaria allo spazio occupato dalla folla che intorno si as18

FERRARESI F., Il tutto e le parti. Categorie e soggetti della conflittualità politica nell’antichità, in ‹‹Scienza&Politica», vol. 25/47 (2012), p. 152.

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siepava››19. E questo tanto nell’accampamento greco quanto all’interno delle stesse mura della città di Troia. Sebbene il poema sia animato dalle passioni per la forza che, oltre a qualificare il valore di un uomo e di un eroe, ambisce ad elevarsi a principio normativo, il consiglio dei re, o meglio dei vari signori della guerra che si sono riuniti intorno ad Agamennone per vendicare il torto subito da Menelao, conferisce a tutti i partecipanti uno stato di sostanziale eguaglianza, esaltato dalla forma circolare che spontaneamente di volta in volta assume. La sostituzione nell’assemblea della spada con lo scettro di legno, della violenza con la parola permette quella condivisione e, quindi, quella metabolizzazione collettiva delle passioni che altrimenti avrebbero trovato libero sfogo e sterile espressione in quel mero atto di solipsismo autoreferenziale, nel quale si consuma l’eroismo bellico fine a se stesso. L’argomentazione sostituisce il combattimento, la riflessione lo scontro, suggerendo così il necessario riconoscimento di un destino comune che finisce con il coinvolgere, inevitabilmente, tutti gli intervenuti. Dagli astanti in arme, riuniti in circolo, all’assemblea dei cittadini nell’agorà, il passo è ancora lungo, nei campi di battaglia che circondano la città di Troia, tuttavia, il seme fecondo della democrazia era stato gettato.20 19

A proposito del porgere la parola in mezzo ad un circolo di uditori, osserva Rossella Fabbrichesi: «il circolo dei guerrieri, inchinato di fronte all’oggetto posto in mezzo a tutti, è il cerchio di ogni comunità dell’occidente, che della parola ha fatto il principale strumento di guerra, è il vero bottino da spartire tra i vincitori›› (FABBRICHESI R., La freccia di Apollo. Semiotica ed eroica nel pensiero antico, ETS, Pisa 2006, p. 38). 20 Ad altra condivisione pubblica delle passioni spetterà, in seguito, l’onore e l’onere di sostenere e qualificare la rivoluzione democratica operata dalla polis. Alla riflessione indotta dalla rappresentazione teatrale delle tragedie, e dell’Ore-

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Non può, quindi, sembrare un caso il fatto che sia proprio Pallade Atena, patrona della città di Atene, culla esemplare della democrazia, a fermare le intenzioni omicide di Achille nei confronti di Agamennone, suggerendo al Pelide di non sfoderare la sua spada in assemblea, ma di limitarsi ad una replica che, per quanto violenta ed ingiuriosa, rimanga comunque solo verbale. E Achille, pur rispettando il volere della dea, non trattiene il suo risentimento e non frena certo le sue parole nell’appellare Agamennone come un “ubriacone. minaccioso come un cane, ma vile come un cervo”. Scegliendo di parlare, tuttavia, le sue mani abbandonano l’elsa argentata della sua grande spada e finiscono con mantenere solida la presa sullo scettro di legno. L’esercito greco uscirà, certo, indebolito dal suo giuramento successivo, ma la comunità politica, invece, potrà dirsi rafforzata dal rispetto della convenzione assembleare. «Nell’Iliade il potere politico riesce ad evitare il pericolo di uno sparagmos [frammentazione dissolutrice] delle sue molteplici membra attraverso la messa in comune (es to koinon) delle passioni e l’asservimento ad esse della parola che li rende pubblistea di Eschilo in particolare, che proprio della sanguinosa saga degli Atridi racconta gli esiti, il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff fa risalire la definitiva emancipazione politica della polis dal polemos. ‹‹La fine della vicenda degli Atridi narrata da Eschilo nel luogo d’incontro dei cittadini di Atene consiste in un appello a giudicare, e in tal modo giudicare diviene un carattere essenziale del politico. Il nuovo modo di esistenza scoperto, questa esperienza storica unica di un essere nel mondo radicalmente altro sotto la forma di giudicare sociale, della ponderazione pubblica di una pluralità di possibilità e della decisione a favore di una precisa linea d’azione: ciò fu ed è, a partire da quel momento, la politica›› (KRIPPENDORFF E., L’arte di non essere governati. Politica ed etica da Socrate a Mozart, Fazi Editore, Roma 2003, p. 24).

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che e le esalta; il potere aristocratico per impedire che trionfi in tale società di eguali la discordia (eris) e con essa la dispersione sociale, necessita che la forza del thymós [impulsi passionali] sia condivisa di modo che il molteplice, altrimenti destinato alla frantumazione nell’agôn [contesa], divenga comunità. La funzione della parola nell’assemblea come nella battaglia sta nel comporre quella catena di trasmissione del thymós, ossia delle passioni da un corpo all’altro».21

Ma gli insulti che Achille rivolge ad Agamennone testimoniano anche l’incapacità di quella parola, priva di un principio razionale che la guidi e la orienti, di governare le posizioni che denotano la società omerica. Essa, infatti, è capace, ancora, solo di consentire la trasmissione da un capo all’altro, tanto che il legame politico della comunità degli eroi greci si riduce ad un mero contagio delle stesse passioni. «L’Iliade è epica testimonianza di un corpo sociale dalle molteplici membra in cui, ben prima dell’affermazione della razionalità come principio egemonico dell’uomo e della comunità, le passioni svolgono la funzione di forze al servizio della aggregazione politica; siamo ancora lontani dalle affermazioni di quella forma di paideia sia dell’individuo che della comunità, che deve piegare il thymós alla docilità e alla sottomissione affinché l’individuo non lasci la propria anima in balia del caos e la società realizzi la reductio ad unum del molteplice»22.

21 22

ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, cit., p. 135. IBIDEM

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3. Il discorso e l’organismo, una giustificazione teleologica del molteplice L’esistenza dell’aristocrazia militare cantata nell’Iliade si declina in un continuo di slanci passionali; singoli atti eroici che ne esaltano l’orgoglioso spirito competitivo, l’audacia personale e il valore individuale. Sarà l’affacciarsi sul campo di battaglia delle ordinate file di opliti a modificare radicalmente lo scenario. La rigida disciplina imposta dal nuovo schieramento, la necessità di tenere il passo e di non lasciare il posto cambieranno le virtù del guerriero, al quale non verrà più richiesto un impeto furioso ed incontrollato quanto piuttosto ‹‹una completa padronanza di sé, un controllo costante per sottomettersi a una disciplina comune, sangue freddo necessario per frenare le spinte istintive che rischierebbero di turbare l’ordine generale delle formazioni››23. Una nuova virtù si affaccia alle origini della polis democratica: la sophrosyne, quel ragionevole dominio di sé che porta ad imbrigliare la passione, controllandone le pulsioni e manifestandole con prudenza, in vista del raggiungimento di un più alto fine collettivo. L’assoggettamento del guerriero eroico alla disciplina oplita apre la strada a quello del cittadino alle necessità della polis. Ma per la maturazione della consapevolezza di una concezione del corpo come organismo, al servizio di un principio gerarchico, si rende necessario un ulteriore passaggio culturale, l’affermazione della civiltà basata sulla scrittura alfabetica24. 23

VERNANT J.-P., Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 52. È la tesi di Cristina Zaltieri sulla genealogia della rappresentazione del corpo come organismo. (Cf. ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’or24

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La diffusione della pratica della scrittura, infatti, introduce la consapevolezza che singoli elementi, privi di significato autonomo come le letture dell’alfabeto, possano acquistare un valore immenso se allineato in una disposizione preordinata ed eteronoma. Grazie all’ordine del discorso, quella che sembrava essere una molteplicità irriducibile, evita la dispersione anarchica e acquista un senso fecondo. L’abitudine alla scrittura insinua e agevola la comprensione del rapporto che più lega le singole membra al corpo, e permette di fondare l’epistemologia della metafora organicistica della società politica. In questo contesto culturale e spirituale, la riflessione politica greca potrà fondare la rappresentazione del corpo come organismo unitario, all’interno del quale ogni organo incarna un ruolo, svolge una funzione al servizio del tutto, e, quindi, a utilizzarne l’immagine come termine di paragone per quell’ordine superiore realizzato dalla polis nel quale lo zoòn politikòn trova la sua ragion d’essere. ganismo, cit., p. 145 e ss.). Sul tema della influenza dell’avvento della scrittura sulla riflessione antropologica si rimanda a SINI C., La scrittura e il debito: conflitto tra cultura e antropologia, Jaca Book, Milano 2002. Il nesso tra una civiltà basata sulla cultura orale e una rappresentazione eccessiva ed esuberante delle singolarità eroiche, al contrario di quello che sarebbe successo in seguito con l’avvento del racconto in forma scritta, era già stato posto in evidenza da Walter J. Ong che precisava come al fine di ‹‹organizzare l’esperienza in una forma che possa essere ricordata a lungo, e non per ragioni romantiche o didattiche, vengono generate figure smisuratamente grandi, cioè eroiche. Le personalità incolori non possono sopravvivere nel contesto di una memorizzazione orale e, proprio per essere ritenute importanti e ricordate, le figure eroiche tendono alla tipizzazione; il saggio Nestore, il furioso Achille, l’astuto Ulisse›› (ONG W.J., Oralità e scrittura, Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1989, p. 103). Sulla sostituzione dell’uomo comune all’eroe mitico, quale conseguenza inintenzionale della scoperta e della diffusione della scrittura si veda BALDINI M., Storia della comunicazione, Newton & Compton, Roma 2003, pp. 41 e ss.

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Sarà Platone nel Fedro, grazie all’analogia con il discorso scritto, ad inaugurare la tradizione metaforica del corpo organismo che influenzerà la riflessione occidentale a seguire. Come le lettere dell’alfabeto rinvengono un senso nell’ordine che viene dato loro dal discorso, così le membra del corpo finiscono con il trovare, nella necessaria concezione unitaria dell’organismo, la loro ragion d’essere. Ed anzi, persino le loro eterogenee necessità, contraddittorie, conflittuali, quanto spesso ineludibili, diventano, poi, quegli elementi prodromici della necessità di un coordinamento di natura intimamente politica e, quindi, dell’assoggettamento a un principio gerarchico esogeno25. Del resto, se il corpo rappresenta la matrice che informa il sorgere dei bisogni, ad altra parte, aliena alle sue passioni e ai suoi errori, non può che spettare la soddisfazione degli stessi. Ad una parte che, se presa da sola, è capace di volgersi con purezza di intenti alla ricerca della verità: l’anima, che, nel pensiero platonico, pur nella ambiguità del suo ruolo di prigioniera dell’involucro che lo contiene, diventa immagine ideale e guida del corpo politico. Lettere, membra e persino gli uomini, presi singolarmente, sono così assoggettati alla stessa sorte, quella della necessità del rinvenimento di un principio egemone che, attraverso una loro organizzazione, li dispone in un orizzonte di senso funzionale e, nello specifico politico, persino solidale. Le necessità logiche grammaticali del discorso dialettico finiscono per fornire l’impulso per la maturazione del discorso politico platonico. 25

«Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per l’acquisto delle ricchezze; e le ricchezze siamo costrette a procurarcele per il corpo e per servire i bisogni del corpo» in PLATONE, Fedone, 66 d, in IDEM, Tutte le opere, a cura di MALTESE E.V., Newton&Compton, Roma 1997, vol. I, p. 159.

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Proprio nel momento in cui si acquisisce la consapevolezza che le singole membra, così come i singoli uomini, non sono in grado di provvedere ad un’autonoma soddisfazione delle proprie necessità, la lettura politica del corpo trova la sua piena espressione. Già ne La Repubblica l’incapacità del singolo di provvedere ai propri bisogni emergeva come fattore costituente della volontà politica di fondare e mantenere uno stato che avrà, nella triadica armonia delle parti dell’anima, l’immagine ideale cui ispirarsi, ma con il Timeo si giunge a una definitiva somatografia del corpo che, assoggettandolo al principio egemone dell’anima, ne evita tuttavia una esclusione dal discorso politico e ad anzi gli restituisce una dignità spesso fraintesa. «Attraverso tale percorso l’anima si erge sia a principio d’organizzazione dello stato sia a principio di organizzazione del corpo organismo permettendo un reciproco rispecchiamento: la città, anch’essa psicologizzata, destinata al governo dei filosofi, strateghi dell’anima, trova in questo modo un suo analogo nel corpo organismo, guidato dal principio egemonico dell’intelletto»26.

Sarà poi Aristotele nella Politica a suggellare la definitiva subordinazione della parte al tutto. ‹‹E per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale, come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà senz’altro una volta distrutta): ora, tutte le 26

ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, cit.,

p. 36.

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cose sono definite dalla loro funzione e capacità, sicché, quando non sono piú tali, non si deve dire che sono le stesse, bensì che hanno il medesimo nome. È evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio››27.

La rappresentazione del corpo organismo così viene costruita e raccontata dai dialoghi platonici ovvero «la nascita concettuale del corpo non più aggregato di membra, recipiente di fluidi vitali, neppure materia inerte, ma “organo”, strumento per le funzioni dell’anima, differenziato, come essa, in “parti” collaboranti o conflittuali», sposta l’attenzione sull’interrogativo in merito a quale organo detenga il potere28. L’assemblaggio delle parti del corpo umano da parte degli dei su mandato del demiurgo evidenzia una rilevante scrittura di senso che risponde al dominio della testa, quale l’acropoli del corpo, dove alberga la parte più nobile dell’anima, quella immortale. Nella cultura classica greca, la testa «è la parte più divina e domina in noi tutto il resto. E ad essa gli dei diedero come servitore anche tutto il corpo, dopo che l’ebbero composto, comprendendo che questo parteciperebbe a tutti i suoi movimenti, quali che fossero»29. Ma nella cultura latina il discorso prende una piega com27

ARISTOTELE, Opere, Laterza, Bari 1973, vol. IX, pp. 6-7. Cf. VEGETTI M., Anima e corpo, in VEGETTI M. (a cura di), Il sapore degli antichi, Boringhieri, Torino 1985, pp. 201–228. 29 PLATONE, Timeo, 44d, IDEM, Tutte le opere, cit., vol. IV, pp. 575–577. 28

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pletamente diversa. La leggenda racconta che il popolo romano, non appena ebbe ascoltato le parole di Menenio Agrippa, si rese conto della ineludibile necessità della diversità dei ruoli, come fondamento di una società complessa, quale quella descritta dall’Urbe e, immediatamente, fece ritorno sui propri passi, per riunirsi ai patrizi ed affrontare il nemico comune, ormai alle porte della città. Senza nulla togliere alla capacità di mediazione politica, che sembra doveroso attribuire a Menenio Agrippa, il racconto di Tito Livio evidenzia un curioso paradosso linguistico, perché il vincolo organico che si presuppone rivelatore e salvifico viene meno proprio nel momento in cui si deve rivolgere a dei singoli, che riflettono se stessi in termini di parte. Evidentemente, se i plebei devono essere persuasi dalla sua abilità oratoria, essi stessi non si sentono più organi interdipendenti dell’intero corpo sociale. Piuttosto, accettano di farne parte, solo a determinate condizioni e rilevanti concessioni. Messo alle strette da una situazione insostenibile, il Senato seppe venire a più miti consigli, condonando numerose situazioni debitorie che affliggevano gran parte dei ceti meno abbienti, rivedendo la legislazione che le rendeva intollerabili e istituendo due, tra le cariche più rappresentative, in termini di garanzia della giustizia sociale nella antica Repubblica, quella degli edili e quella dei tribuni della plebe30. 30

Può, del resto, sorprendere quanto alcune recenti ricerche di psicologia sociale hanno svelato sulle potenzialità persuasive della metafora. Da esse (in particolare JOHNSON J.T. - TAYLOR S.E., The Effect of metaphor on political attitudes, in «Basic and applied social psychology», 2/4 (1981), pp. 305–316; BOSMAN J., Persuasive effects of political metaphors, in «Metaphor and symbolic activity», 2/2 (1987),

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‹‹Il corpo-organismo dell’apologo non assomiglia a quello del Timeo, qui non c’è alcun disegno demiurgico a renderlo organismo, né alcuna strategia psicocentrica. Nel Timeo la geografia organica del corpo designata dagli dei minori non mirava né alla sopravvivenza di esso, né ad una esplicazione di forza, di energia; o, per meglio dire, aveva come fine quello di rendere il corpo asservito alle istanze dell’anima così da convogliare le sue molteplici forze entro il progetto conoscitivo e politico. Il corpo-organismo dell’apologo di Menenio è, invece, da pensare come un’impresa di produzione entro la quale ogni membro è impegnato nell’opera di immagazzinamento, accumulo e “lavorazione” delle risorse e ciò che alla fine della favola, si rivela come comune a ognuno degli organi, ciò che li rende “uguali” siano essi mani, bocca, stomaco, è il lavoro che ognuno è tenuto a compiere per salvare l’intero dalla minaccia di morte che incombe››31.

La metabolizzazione di quello che prima era un principio esogeno, organizzatore e dirigente, in un criterio funzionale endogeno, per quanto indispensabile alla sopravvivenza, restituisce l’immagine di un corpo organismo soggiacente ad una razionalità economica, ben più pragmatica dell’aulica, elegante, ma forse sin troppo ideale sophrosyne platonica. Con la conseguenza, e neppure troppo banale, dal punto di vista simpp. 97–113), si evince che ‹‹I soggetti più influenzabili […] sono anche i soggetti più informati e culturalmente più sofisticati. In altre parole, la metafora “lavora” solo se ha un sostrato di conoscenze e di competenze su cui agire, altrimenti rimane inoperosa […] Non solo ognuno di noi cresce in una tradizione metaforica alla quale è, spesso inconsapevolmente, assai sensibile, ma la reazione emotiva alle metafore è proporzionale al modo in cui sono integrate nella sfera della esperienza interiore» (RIGOTTI F., Rassegna introduttiva sulle metafore storico-politiche, in AA. VV., Il potere delle immagini: la metafora politica in prospettiva storica, cit., p. 19). 31 ZALTIERI C., L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo, cit., pp. 41–42.

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bolico, dell’accentramento delle funzioni egemoniche nello stomaco. 4. Dal corpo divino al corpo artificiale Toccherà alla singolare novità cristiana restituire equilibrio e dignità alle parti, superando la logica della mera funzionalità ed aprendo il corpo alla compartecipazione del divino. Sebbene la metafora introdotta da San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi 32 risulti debitrice della cultura greca che legava la prospettiva cosmologica a quella politica, per affermare la somiglianza dell’unità dei cittadini, all’interno della polis, a quell’unità dell’intero genere umano, sotto la volta celeste del cosmo, la riflessione dell’evangelista sposta l’accento sulla intima qualificazione di quel legame. San Paolo non si limita ad illustrare l’evidenza fisiologica delle pluralità delle membra in un unico corpo, ma mostra la natura essenzialmente costitutiva della complementarietà di queste, necessaria affinché il corpo possa dirsi un organismo veramente coeso da un intimo sentimento di empatia. Il bisogno reciproco, soddisfatto dalla mutua solidarietà, rende il corpo tale e, solo in quanto tale, può ambire a descrivere e a qualificare la comunità politica. In questo senso ci si rende conto di quanto, unità e pluralità, non siano solo connaturali all’essere corpo, ma addirittura necessari a superare quella uniformità, che ne avvilirebbe le potenzialità espressive. La comunità dei cristiani, battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, assurge al tempo stesso a esperimento 32

SAN PAOLO, Prima lettera ai Corinzi, cap. 12, vv. 12–27.

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e paradigma della convivenza politica all’interno di un corpo sociale ‹‹essenzialmente legato a Cristo con un rapporto di immanenza e di appartenenza››33. Con l’introduzione della figura del corpo di Cristo, San Paolo dimostra di aver pagato il suo debito con la tradizione culturale greca e di aver saputo guardare oltre, superandone le aporie spirituali; egli supera la visione di una società politica chiamata solo al mero riflesso di un ordine cosmico imperscrutabile. Con Gesù Cristo, termine di paragone della metafora ma anche pietra di fondazione costruzione sociale, infatti, non si introduce solo «una grandezza unitaria capace d’integrare le diversità dei credenti, depotenziandole quali fattori di disunione e contrapposizione»34, ma si creano i presupposti di una concreta testimonianza dell’agire politico quotidiano. Con la visione organicistica di Platone, ogni parte del corpo era diventata depositaria di una funzione al servizio di un principio spirituale che organizzava, amministrava e conservava la propria prigione materiale. Questa rappresentazione aveva aperto l’orizzonte epistemologico alla suggestione occidentale della somatografia della comunità politica. Ma, mentre il realismo funzionale del pensiero romano poteva contrapporre, alla dialettica conflittuale dei ruoli e dei ceti, solo il mero riconoscimento della ineludibile efficacia dello scambio economico, l’intima tensione religiosa del messaggio paolino può ora infondere un autentico paradigma di responsabilità e di sacrificio a quel confronto, altrimenti irriducibile 33

BARBAGLIO G., La prima Lettera ai Corinzi, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, p. 680. 34 IBIDEM, p. 669.

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e alla lunga foriero di una disgregazione suicida. La testimonianza del Dio, che si è fatto uomo riassumendo in sé anche la sofferenza di ogni differenza economica e la tensione di ogni polarizzazione sociale, restituisce alla polis un orizzonte espressivo che va oltre la mera convivenza, qualificandola come topos della mediazione politica, dove l’eterogeneità diventa feconda e la conflittualità creativa. Non è certo questa la sede per ripercorrere la fortuna che la rilettura cristiana concesse alla somatografia politica nel corso dei secoli, né il dibattito sul rapporto tra immortalità della sovranità e mortalità del sovrano che pure alla metafora paolina tanto deve35, merita qui solo un cenno l’immagine del Policratus raccontata da Giovanni di Salisbury per la sua capacità di offrirsi sia come modello organizzativo dell’esperienza 35 «Con San Paolo si ha la prima versione del “doppio corpo del potere”, riferito in questo caso alla comunità della Chiesa nei tempi dei viaggi dell’apostolo. Si tratta della famosa formulazione del Corpus Mysticum, dove il corpo politico, che può essere paragonato al corpo di Cristo (così come al corpo di qualunque altro fedele) non assomiglia, ma è il corpo di Cristo. Ernst Kantorowicz, nel suo studio sui “due corpi del Re” (The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton (NJ) 1957), ha mostrato come la dottrina paolina del corpo politico” della Chiesa si sia venuta trasformando nel corso del Medioevo. Paolo, infatti, per indicare il “corpo politico” ecclesiale, parla di Corpus Christi, laddove il termine di Corpus Mysticum era normalmente usato per definire l’ostia consacrata. Con uno slittamento semantico avvenuto tra l’XI e il XII secolo, i due termini vennero a sostituirsi vicendevolmente, così che il Corpus Christi venne a denotare l’ostia consacrata, mentre il Corpus Mysticum divenne il corpo organizzato della società cristiana» (BONI F.. Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sacralità del corpo nell’epoca della comunicazione globale, Meltemi, Roma 1996, p. 24). Sul tema, oltre l’opera di Kantorowicz, si veda anche DE LUBAC H., Corpus Mysticum: Essai sur L’Eucharistie et l’Église au moyen âge, Aubier, Paris 1944.

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sia come una concreta prospettiva di ricerca, con l’ambizione di rivestire un ruolo cruciale nella possibilità stessa di pensare il politico. ‹‹Ereditando dalla tradizione l’immagine organologica, Giovanni di Salisbury ne amplifica le idee portanti, dando rilievo alla nozione di bene comune, d’interazione tra le parti della comunità politica giungendo a una vera e propria visione “fisiologica” dello Stato, in cui uffici e mansioni politiche sono proiezioni della complessità di un corpo vivo, dinamico, che considera ogni singolo membro in autonoma e responsabile relazione con la giustizia (aequitas) che, come l’anima nel corpo, pervade e vivifica la compagine statale […]. Ciò che qui importa sottolineare è proprio la tensione essenziale tra il linguaggio metaforico e pensiero politico, la stretta relazione tra immagine concreta e astrazione della teoria, in un certo senso l’ancoraggio alla realtà percettibile di una entità concettuale – la complessità dello Stato – che, in quanto tale, sfuggirebbe al dominio del sensibile››36.

In quello che necessariamente può essere solo un breve excursus della tradizione metaforica in questione, si impone come un passaggio fondamentale la lettura che ne restituisce Machiavelli. Lo studioso fiorentino, infatti, introduce almeno due elementi di novità, atte a produrre un notevole arricchimento del valore euristico dell’immagine organicistica del corpo politico. Innanzitutto, come il corpo di un qualsiasi essere vivente, anche quello della comunità politica subisce dei processi degenerativi che ne influenzano il ciclo vitale portandolo, in mancanza di un suo rinnovamento, alla morte, ovvero alla dissoluzione. L’introduzione della consapevolezza di un naturale depe36

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BRIGUGLIA G., Il corpo vivente dello stato, una metafora politica, cit., p. 17.

rimento conferisce una rilevanza originale, quanto pressante, a quella dimensione temporale che, fino ad allora, era stata sottesa alle dinamiche di governo acriticamente orientate verso l’ideale utopico37. Ma, soprattutto, impone un ulteriore punto di vista dal quale osservare le sollecitazioni proposte dalla visione metaforica. Alla rilevanza esterna della rappresentazione anatomica si accompagna, persino si sostituisce e per certi versi si impone, l’intima emergenza della dinamica fisiologica38. In Machiavelli, la vitalità di un corpo è data dalla dinamica conflittuale degli umori, in esso naturalmente presenti, e dalle risposte fisiologiche che l’organismo è in grado di predisporre e attuare. Quindi, proseguendo con efficace realismo la suggestione metaforica, la salute di una comunità politica dipende dalla felice ricomposizione delle istanze che emergono da quel pluralismo sociale in essa inevitabilmente rappresentato39. Senza considerare, poi, la necessaria metabolizzazione delle ambizioni individuali che l’autore fiorentino tratta in termini estremamente pragmatici, inaugurando quasi una sorte di antropologia del desiderio politico, ovvero ‹‹della impossibilità di bloccare il 37

MACHIAVELLI N., Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, I, t. II, in IDEM, Opere, a cura di RINALDI R., Vol. I, UTET, Torino 1999, pp. 946 e ss. 38 Un cambio di prospettiva, certo non arbitrario, ma evidentemente suggerito dalla complessa situazione politica nella quale versava la nostra penisola. Se, infatti, si può sostenere che gran parte del territorio fosse assoggettato alle potenze europee, è anche vero che raramente queste finivano con l’esporsi in misura risolutiva. Esse, piuttosto, sembravano poco attratte dalle complicate vicende italiche, che così si aggrovigliavano in continue rivalità e congiure che indebolivano le diverse signorie, presenti nel territorio, ed alimentavano sospetti e rancori che, ben difficilmente, avrebbero potuto sostenere un più ricomprensivo ed ambizioso disegno di convivenza civile. 39 MACCHIAVELLI N., Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, IV, t. I, cit., pp. 446-447.

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desiderio che è la radice del movimento e del conflitto››40. L’attenzione richiesta da Macchiavelli alle fisiologie, ai rapporti conflittuali e all’endemico scontro delle ambizioni che alberga in tutti gli uomini, sembra reintrodurre il carattere naturale della legittimità della pretesa secessionistica di tutte quelle membra che metaforicamente compongono il corpo politico. L’enfasi posta su questo confronto, per dirla in termini eufemistici, anche se sarebbe più corretto parlare dell’incubo di una violenza fratricida, spinge Thomas Hobbes a interrogarsi sulla possibilità di predisporvi un rimedio. A questa visione antropologica negativa e atomizzata che caratterizza lo stato naturale dell’umanità, Hobbes, riprendendo il simbolismo ellenico del macroanthropos, della polis come “uomo scritto in grande”, contrappone la costruzione di un colosso artificiale che possa ergersi sopra le parti ricomprendendole tutte e dirigendole secondo un superiore senso di giustizia ed equità sociale. Profondamente debitore della riflessione sul corpo umano proposta da Cartesio, il pensiero di Hobbes ne amplifica le conseguenze, aprendo l’orizzonte epistemologico non solo alla riduzione meccanicistica della visione del corpo e, quindi, alla sua paradossale demolizione, ma, addirittura, ad un vero e proprio divorzio da quell’attributo umano che avrebbe, invece, dovuto continuare a caratterizzarlo. Sulla contingenza storica delle passioni che, incontrollate, 40

BRIGUGLIA G., Il corpo vivente dello stato, una metafora politica, cit., p. 112. Mentre le necessità del corpo, nella riflessione greca, diventavano la ragion d’essere di un ordine superiore che le frenasse e le contemperasse, in Machiavelli, invece, declinano il presupposto antropologico di ogni vicenda politica e, in quanto tale, il motore della storia. Cf. le considerazioni sul punto dedicate in VINCIERI P., Natura umana e dominio. Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Longo, Ravenna 1984.

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finirebbero inevitabilmente per condurre all’autoannientamento, si erge così il Leviatano che è, sì uomo artificiale, realizzato a regola d’arte da quegli uomini i quali, decidendo di assoggettarsi al pactum subiectionis, si votano ad una concezione meccanicistica della comunità politica, ma anche mostro biblico, i cui contorni mitici, quanto sfumati e incomprensibili, assurgono a richiamo e parodia di un assolutismo metafisico41. Se Cartesio poteva già insinuare che Dio fosse un artigiano tra i tanti, solo migliore degli altri, ma che in realtà non esistesse alcuna differenza di principio tra le macchine da Lui create e quelle costruite dagli uomini, persino nessuna differenza di perfezionamento né di complessità42, Thomas Hobbes, allora, può ben sostenere che la sovranità è solo un’anima artificiale, forse un mero lubrificante degli ingranaggi. 41 In questo senso appare significativo sottolineare come ‹‹l’immagine dello stato come Leviatano, nella sua mitica sostanza mostruosa, vada ad opporsi all’immagine dello stato come corpo/macchina di impianto sostanzialmente razionale. Nell’immaginario hobbesiano sembra così che venga a inscenarsi proprio una sorta di drastica opposizione tra il bestiale e il razionale, fra la mostruosità organica e la corporeità meccanica e cioè, in ultima analisi, fra il corpo irregolare e irriconoscibile del mostro, da una parte, il corpo meccanicamente costruito e perciò conoscibile oltre che artificialmente riproducibile, dell’uomo in quanto animale regolare dall’altra››. (CANAVERO A., Corpo in figure: …cit., p.. 194). Come se, in questo scarto tra previsione umana ed esito disumano, si potesse scorgere una oscura profezia, tanto della sconsideratezza dell’impresa umana di erigere l’ennesima Torre, quanto dei rischi della autorefenzialità della ragione strumentale. Quest’ultima, infatti, egualmente sottesa alla definizione normativa come alla realizzazione tecnologica, finisce per contendere all’uomo il controllo di entrambe. Sul riferimento alla mostruosità del corpo politico, anche per quanto riguarda il “nuovo idolo” di Nietzsche e il Minotauro di De Jouvenel si veda anche RIGOTTI F., Metafore della politica, cit., pp. 68 e ss. 42 CARTESIO, Discorso sul metodo, a cura di CARLINI A., Laterza, Bari 1987, p. 102.

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5. Il cyborg e le anticipazioni di un futuro postdemocratico Se il corpo può essere considerato solo come un automa allora si può ipotizzare e, persino, finire con il credere che le sue parti possano essere sostituite, replicate e migliorate dalla tecnologia che via via il progresso scientifico mette a disposizione. Giova rileggere le famigerate parole poste nella pagina di apertura del Leviatano di Hobbes, proprio per sottolineare la tensione demiurgica ad esse inevitabilmente sottesa. «La natura, l’arte con cui Dio ha fatto il mondo e la governa, è imitata dall’arte dell’uomo, come in molte altre cose, anche in questo: anche nella capacità di produrre un animale artificiale. Se infatti la vita non è altro che un moto delle membra, il cui inizio è in qualche fondamentale parte interna, perché non potremmo dire che tutti gli automi (macchine che si muovono da sé per mezzo di molle e ruote, come un orologio) possiedono una vita artificiale? Che cos’è infatti il cuore, se non una molla; e i nervi, se non altrettante corde; e le articolazioni, se non altrettante ruote, che danno moto all’intero corpo secondo l’intento dell’artefice? Anzi, l’arte procede oltre, imitando l’opera razionale ed eccelsa della natura, l’uomo. Infatti con l’arte è creato il grande Leviatano, detto Repubblica o Stato (in latino civitas), che non è altro che un uomo artificiale, sebbene di statura e di forza maggiori di quelle dell’uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu inteso. Ed in esso, la sovranità è un’anima artificiale, che dà vita e moto all’intero corpo […]. Infine i patti, per mezzo dei quali le parti di questo corpo politico furono per la prima volta realizzate, poste assieme ed unite, assomigliano al fiat,

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al facciamo l’uomo, che Dio pronunciò al momento della creazione»43.

Non può certo essere questo breve saggio a arrogarsi la pretesa di delineare i contorni della nuova metafora organicistica del terzo millennio. Non ci si può esimere, tuttavia, dall’evidenziare come la tecnologia abbia finito con il modificare tanto il corpo stesso, quanto la sua percezione, a tal punto da suggerirne una completa rilettura, seguendo l’impostazione dello studio di Antonio Caronia che vede il corpo artificiale come invaso dalla tecnologia, replicato negli spazi produttivi e disseminato nelle reti telematiche44. Senza addentrarci in letture fantascientifiche, che tanto hanno comunque contribuito a plasmare l’immaginario popolare45, oggi, di fronte ai progressi della medicina, l’immagine 43 HOBBES T., Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, a cura di PACCHI A., con la collaborazione con LUPPOLI A., Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 5–6. 44 CARONIA A., Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Muzzio Editore, Padova 1996. 45 ‹‹Il termine cyborg, contrariamente a quanto si è verificato con il termine robot, ha avuto origine nell’ambito scientifico: è stato coniato, infatti, nel 1960 da Manfred E. Clines e Nathan S. Kline in una pubblicazione in cui si ipotizzava la possibilità di modificare farmacologicamente l’organismo umano per renderlo capace di sopportare le condizioni estreme dei viaggi spaziali. [cf., Cyborgs and Space, in HABLES GRAY C. (ed.), The Cyborg handbook, Routledge, New York 1995.] Ma sin da subito l’uso del neologismo è stato praticamente ridotto all’ambito letterario. […] In genere, si può dire che la ricerca di alto profilo in questo campo ha perseguito due scopi fondamentali: da una parte, lo sviluppo di sistemi in grado di restaurare funzioni sensitive o motrici in pazienti disabili o menomati; da un’altra, l’esplorazione delle possibilità di incrementare le capacità senso-motorie dell’essere umano in generale, senza che necessariamente queste siano state previamente danneggiate. Altri possibili obiettivi, come l’in-

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evocata da Hobbes stupisce solo per la ingenuità, non certo per la sua concreta fattibilità. Interrogarsi, allora, sul senso politico di questa invasione porterebbe probabilmente a indagare sulla progressiva erosione della unità nazionale in un contesto globale policentrico nel quale la tecnocrazia finanziaria di organismi internazionali e lobbies transnazionali contendono la sovranità al popolo, la cui compatta unità aveva permesso al Leviatano, alias stato nazionale, di sorgere nella storia. «La globalizzazione mette in questione uno dei presupposti fondamentali della prima modernità, e cioè la figura concettuale che A. D. Smith chiama “nazionalismo metodologico” [Nationalism in the Twentieth Century, Oxford, 1979]: i contorni della società erano pensati come completamente sovrapponibili ai contorni dello Stato nazionale. Con la globalizzazione in tutte le sue dimensioni, al contrario, non si crea solo una nuova molteplicità di legami trasversali tra stati e società […]. Globalità significa la frantumazione di nuovi rapporti di potere e di concorrenza, conflitti e incroci tra unità e attori nazionalstatali da un lato, e attori, identità, spazi sociali, condizioni e processi transnazionali dall’altro»46. cremento artificiale della memoria o della capacità decisionale, per ora rimangono nell’ambito dei futuribili […] La dimensione etica dell’uso della tecnica come potenziamento dell’essere umano si trova nel potere determinante verso il fine, il quale deve sempre rimanere umano. La modernità, lì dove si è lasciata guidare dallo scientismo dominante gran parte della antropologia del Ventesimo secolo, ha subito invece fortemente la tentazione di abbandonare nella macchina il potere determinate: per coloro i quali la persona si riduce a funzioni, la macchina è molto più affidabile» (GALVAN J.M., Cyborg, (voce) in SGRECCIA E. - TARANTINO A., Enciclopedia di Bioetica e Scienza giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2010, vol. III, pp. 782 e ss). 46 BECK U., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999, p. 40.

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La stessa sovranità deve essere ormai studiata come un potere separato dal colosso monolitico al quale dava la vita e assicurava un movimento autonomo, ma, soprattutto, deve essere intesa come frantumata e divisa da parte di una pluralità di attori politici, nazionali, regionali e transnazionali, le cui rappresentazioni si muovono ben lontane dai riflettori del controllo democratico47. La replicabilità del corpo, la sostituzione dell’uomo nel processo economico, sembra poi riassumere non solo quegli scenari critici già profetizzati dal celebre studio di Jeremy Rifkin, nel quale si legge il timore di una moltitudine di persone che «si affacceranno per la prima volta sul mercato del lavoro per ritrovarsi senza alcuna possibilità di occupazione e molte saranno le vittime di un’innovazione tecnologica che sostituisce sempre più velocemente il lavoro umano con le macchine in quasi tutti i settori della economia globale»48, ma soprattutto apre alla riconsiderazione del ruolo sociale di quei cittadini che vivono in società dove la posizione lavorativa si manifestata nel tempo intimamente connessa con la partecipazione politica49. 47

Nel paragrafo significativamente intitolato “L’élite delle multinazionali e il potere politico”, Colin Crouch afferma che ‹‹le aziende non sono semplicemente organizzazioni, ma concentrazioni di potere […]. La grande maggioranza delle aziende è organizzata in modo da dare considerevole potere ai manager più esperti […]. Più l’azienda diviene potente come forma organizzativa, più diventano potenti gli individui che occupano queste posizioni. Essi diventano ancora più potenti qundo il governo concede loro di organizzare le sue attività e si inchina alla superiorità della loro competenza›› (CROUCH C., Postdemocrazia, cit., pp. 55–56). 48 RIFKIN J., La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini&Castaldi, Milano 1995, p. 15. 49 BAUMAN Z., Vite di scarto, Laterza, Roma - Bari 2005.

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La commistione dell’artificiale con il naturale che stressa il concetto di corpo come organismo sino a prospettarne la sostituibilità di ogni sua parte e seduce con la radicale replica dell’intero ‹‹non potrebbe funzionare se non fossimo già immersi in un paesaggio artificiale, un paesaggio in cui le cose e le loro rappresentazioni si confondono, un paesaggio che, grazie alla potenza e alla pervasività della tecnologia che lo costituisce, ha la forza di iscriversi direttamente nel nostro sistema nervoso››50 sino a rendere sempre più difficile la possibilità di pensarsi come un io separato e distaccato dal mondo. Soprattutto nel configurarsi di quest’ultimo come mediamondo, realtà mediatica ‹‹universale, connettiva e condivisa››51 che apre l’ordine rigido del testo scritto – e conseguentemente del politico per quanto sin qui detto – alla virtualità dell’ipertesto e alla ibridazione con l’immagine. Mentre il corpo appare allora disseminato nelle reti telematiche che avvolgono l’intero pianeta grazie alla proliferazione delle tecnologie comunicative, ridotto a mera protesi di una dimensione elettronica che lo avvolge e lo disperde, risorge persino la seduzione dell’utopia planetaria: «ciascuno di noi, più o meno circondato e invaso dalla tecnologia, sta diventando una cellula ibrida di una sorta di macro organismo che invade tutto il globo: in modo ancora semiconsapevole ne costruiamo dall’interno il metabolismo e il sistema nervoso. Ci avviamo a diventare gli elementi costituivi, i neuroni, gli organi, le cellule, di una creatura planetaria che si è sviluppata finora tramite i meccanismi tipici di ogni sistema com50

CARONIA A., Il corpo virtuale … cit., p. 72. BOCCIA ARTIERI G., I media-mondo, forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Meltemi, Roma 2004, p. 9. 51

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plesso: l’autorganizzazione, l’autocatalisi, la coevoluzione, la simbiosi. Questa creatura potrebbe diventare sede di una intelligenza collettiva e forse di una coscienza collettiva»52. 6. Conclusione Sulle certezze che il progresso tecnologico porti inevitabilmente all’affermazione di una democrazia universale molte sono le nubi che si addensano53. Tuttavia, ai fini del presente saggio, soccorre in conclusione uno scenario persino più inquietante, suggerito da Francis Fukuyama il quale nel libro Our Posthuman Future, pubblicato appena dieci anni dopo il suo famigerato The End of Hystory, è stato costretto ad ammettere di non aver considerato ai fini della sua celeberrima tesi, gli effetti della moderna biogenetica, capaci di minare in 52

LONGO G.O., Il simbionte. Prove di umanità futura, Meltemi, Roma 2003, p.50. Sul tema si veda anche LÉVY P., Intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996. Sul fatto che lo stesso cyberspazio possa declinare uno spazio democratico, anzi, nelle speranze dei suoi apologeti possa addirittura realizzare nell’agorà virtuale i fasti della democrazia diretta, meritano di essere segnalati i dubbi di RODOTÀ S., Tecnopolitica. La democrazia e del nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 1997; in particolare per la metafora della rete informatica paragonata alla ragnatela del ragno si rimanda a MALDONADO T., Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997; «Consideriamo, per esempio, la più ovvia delle somiglianze. Sappiamo che la rete e la ragnatela hanno una cosa in comune: né l’una ne l’altra sono creazioni ex nihilo. Così come la ragnatela è progettata, costruita e gestita da un ragno, è difficile concepire una rete telematica senza qualcuno che svolga un ruolo equivalente a quello del ragno» (IBIDEM, p. 31). 53 Cf. GALIMBERTI U., Psiche e techne. L’uomo nella età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.

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misura radicale gli ideali progressisti della democrazia liberale. «Poco prima di morire, Thomas Jefferson ha scritto: “la diffusione generalizzata della luce della scienza ha presentato agli occhi di tutti una concreta verità, cioè il fatto che la maggioranza dell’umanità non è nata con una sella sulla schiena, e che la minoranza eletta non è dotata alla nascita di stivali e speroni, pronta a cavalcare gli altri legittimamente e per grazia di Dio”. L’eguaglianza politica insita nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti si basa sul fatto empirico della naturale eguaglianza umana. Siamo molto diversi per personalità e cultura, ma condividiamo la qualità umana che fornisce a ciascuno il potenziale per comunicare e instaurare un rapporto morale con ogni altro suo simile sul pianeta. La questione fondamentale sollevata dalle biotecnologie è questa: cosa ne sarà dei diritti politici il giorno in cui, di fatto, saremo in grado di far nascere alcune persone con la sella sulla schiena e altre con stivali e speroni?»54. Mai come in questo caso conviene lasciare ai posteri l’ardua sentenza, e soprattutto l’ingrato onere di rivitalizzare una tradizione metaforica duramente stressata dalle modifiche culturali e, forse persino spirituali, che entrambi i termini di paragone stanno subendo all’alba del terzo millennio.

54

FUKUYAMA F., L’Uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologia, Mondadori, Milano 2002, p. 17. Sul tema si veda anche HABERMAS J., Il futuro della natura umana , Einaudi, Milano 2001; POSSENTI V., Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013.

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AUTONOMIA, SOGGETTIVITÀ E VULNERABILITÀ NEL PENSIERO DI AXEL HONNETH Anja Hansen Questo articolo è dedicato al tema del rapporto fra autonomia, soggettività e vulnerabilità nella teoria del riconoscimento di Axel Honneth. Mi concentro prima sui fattori e sui contesti che operano sullo sfondo del suo pensiero. Soffermarsi su di essi sarà forse utile alla ulteriore comprensione della sua teoria, vista anche la popolarità di quest’ultima specialmente in Europa e negli Stati Uniti d’America. Successivamente metterò in evidenza gli elementi costitutivi del riconoscimento. La mia analisi si conclude con alcune considerazioni critiche che prendono spunto da un testo che Honneth ha scritto in lingua inglese insieme a Joel Anderson nel 2005 intitolato Autonomy, Vulnerability, Recognition, and Justice. Esso rappresenta una buona sintesi del lavoro di ricerca sul riconoscimento che il filosofo tedesco ha portato avanti nell’ultimo quarto di secolo.1 L’apANJA HANSEN, Dottore di Ricerca in “Studi politici” presso l’Università di Roma «La Sapienza» e docente presso l’Università di Groningen. 1 HONNETH A. - ANDERSON J., Autonomy, Vulnerability, Recognition, and Justice, in CHRISTMAN J. - ANDERSON J. (eds.), Autonomy and the Challenges to Liberalism. New Essays, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 127-149; trad. it. Autonomia, vulnerabilità, riconoscimento e giustizia, in CARNEVALE A. - STRAZZERI I. (a cura di), Lotte, riconoscimento, diritti, Perugia, Morlacchi 2011, pp. 107-142.

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proccio che uso è quello della storia delle idee e non della filosofia in senso stretto. Fare filosofia significa porre problemi filosofici e tentare di risolverli filosoficamente. Fare storia delle idee significa invece ricostruire nel modo più preciso possibile cosa è stato pensato a proposito di certi eventi o problemi entro determinati contesti. In un articolo dedicato al posto che Honneth occupa nella storia della Scuola di Francoforte, proprio Anderson sostiene che dalla fine degli anni sessanta la ‘terza generazione’ dei francofortesi, alla quale Honneth apparterrebbe, ha consolidato un proprio profilo intellettuale internazionale scegliendo ‘differenza’, ‘identità’ e ‘pluralismo’ come temi centrali. Per i francofortesi della sua generazione, scrive Anderson, Honneth rappresenta un ‘indiscusso centro di gravità’. Per sottolineare l’importanza di quest’ultimo, secondo un costume assai diffuso in molti ambienti accademici, Anderson non trascura di menzionare che nel triennio 20072010 Honneth è stato il destinatario di un grosso finanziamento da parte della Volkswagen finalizzato allo studio delle trasformazioni del riconoscimento nel XXI secolo.2 Probabilmente il giudizio di Anderson è condizionato dall’amicizia e dalla vicinanza intellettuale che lo lega ad Honneth. Comunque sia, la notevole produzione e le molteplici attività e iniziative alle quali il sociologo e filosofo sociale tedesco contribuisce su scala ormai globale sono un indice della popolarità e della fama che egli ha acquisito nel corso degli ultimi decenni. Egli è uno dei più richiesti conferenzieri eu2

ANDERSON J., Situating Axel Honneth in the Frankfurt School Tradition, in PE-

THERBRIDGE D. (ed.), Axel Honneth. Critical Essays. With a Reply by Axel Honneth,

Brill, Leiden-Boston 2011, pp. 31-57, 46-47.

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ropei e sono numerosi anche i blogs che in rete s’interessano delle sue teorie. Nel periodo 1969-1974 Honneth ha studiato filosofia, sociologia e letteratura tedesca presso le università di Bonn e di Bochum. Ha continuato gli studi presso la Freie Universität di Berlino nel periodo 1974-76. All’istituto di sociologia di questa stessa università, Honneth ha mosso i suoi primi passi accademici ricoprendo l’incarico di assistente scientifico dal 1977 al 1982. Proprio nel 1982, sotto la supervisione del sociologo, scrittore e artista svizzero Urs Jaeggi,3 Honneth ha conseguito il diploma dottorale presentando una tesi intitolata Kritik der Macht. Foucault und die Kritische Theorie. Nella sua tesi dottorale, pur attribuendo alla teoria del potere di Foucault un ruolo centrale, Honneth ha esaminato anche il contributo dato alla teoria sociale critica da Adorno, Horkheimer e Habermas. Successivamente la dissertazione è stata pubblicata con il titolo Kritik der Macht. Reflexionsstufen einer kritischen Gesellshaftstheorie.4 Nel biennio 1982-1983 Honneth ha svolto attività di ricerca presso il Max-Planck-Institut für Sozialwissenschaften a Starnberg, vicino Monaco di Baviera, che dal 1981 era stato posto sotto la direzione di Jürgen Habermas che li si era trasferito nel 1971.5 3

Dal 1972 al 1992 Urs Jaeggi è stato professore di sociologia a Francoforte. Già sul finire degli anni sessanta egli aveva suscitato grande interesse fra molti giovani tedeschi, fra cui Honneth, per i suoi studi empiricamente orientati sulle dinamiche del potere nell’allora Repubblica Federale. 4 HONNETH A., Kritik der Macht. Reflexionsstufen einer kritischen Gesellshaftstheorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1985; trad. it., Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, a cura di SCIACCA M.T., Edizioni Dedalo, Bari 2002. 5 L’istituto fu creato nel 1970 col nome di Max-Planck-Institut zur Erforschung der Lebensbedingungen der wissenschaftlich-technischen Welt su impulso del suo primo direttore, il noto fisico nucleare e filosofo Carl Friedrich von Weizsäcker.

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A quest’ultimo nel 1964 era stata assegnata la cattedra di filosofia e sociologia della Goethe-Universität di Francoforte, un tempo occupata da Horkheimer. Nel 1983 Habermas fece ritorno a Francoforte con l’incarico di professore di filosofia sociale e filosofia della storia e nello stesso anno chiamò Honneth che li è rimasto fino al 1989. Dall’ottobre 1989 al luglio 1990 Honneth ha ricoperto l’incarico di Fellow presso il Wissenschaftskolleg di Berlino. Sempre nel 1990 ha conseguito l’abilitazione presso il dipartimento di filosofia della Goethe-Universität di Francoforte. Sia la tesi postdottorale che la lectio ad essa connessa hanno avuto per tema la ‘lotta per il riconoscimento’. Nel 1991 ha insegnato filosofia a Costanza. Dal 1992 al 1996 è stato professore di filosofia politica alla Freie Universität di Berlino e dal settembre 1995 all’aprile 1996 è stato ospite della New School for Social Research di New York. Nel 1996 è stato nominato a succedere ad Habermas nella cattedra di filosofia sociale presso la Goethe-Universität di Francoforte, incarico che ancora ricopre, entrando così a far parte del prestigioso Instituts für Sozialforschung che dirige dall’aprile 2001 nonostante egli continui ad essere riluttante nell’accettare la qualifica di pensatore organico della Scuola di Francoforte. Honneth occupa l’ufficio che fu di Theodor Adorno anche se, su sua espressa richiesta, la mobilia originale è stata fatta cambiare del tutto. Dall’aprile al giugno del 1996 è stato ospite del dipartimento di filosofia dell’Università di Amsterdam e dal 2011 è Jack C. Weinstein Professor of the Humanities presso la Columbia University di New York. Il libro che ha dato a Honneth grande fama internazionale, e che secondo l’opinione di molti ha sancito l’inizio di un nuovo percorso di ricerca dopo gli anni dedicati allo studio del materialismo storico, della teoria dei sistemi, alla rivisitazione critica 529

dell’eredità e degli sviluppi della Scuola di Francoforte e al confronto critico con la concezione procedurale della giustizia sociale di Rawls e quella discorsivo-trascendentale di Habermas, è stato Kampf um Anerkennung, pubblicato a Francoforte sul Meno nel 1992 dall’editore Surhkamp che nel 2003 ha deciso di ristamparlo con l’aggiunta di un nuovo epilogo scritto per l’occasione dallo stesso Honneth.6 A buon diritto questo libro segna l’ingresso di Honneth nella cerchia dei teorici della giustizia sociale contemporanei. Prima di concentrare l’attenzione sui punti che caratterizzano quest’opera desidero fare riferimento ad un particolare tipo di problema che per lo storico delle idee ha un certo peso. Senza considerare i bersagli critici che fanno da sfondo al discorso honnettiano sulla ‘lotta per il riconoscimento’ come motore della giustizia sociale è molto difficile procedere nell’opera di ricostruzione. Bisogna ammettere che il percorso teorico intrapreso da Honneth non è facile da ricostruire. Qualcuno potrebbe giudicarlo addirittura oscuro e contorto. A mio parere si tratta di un percorso complesso più che oscuro o contorto perchè si svolge su più piani, e perchè prende in considerazione punti di riferimento filosofici che appaiono lontani fra di loro. Direi che è la base di partenza prescelta per avviare l’intero itinerario di ricerca a rendere la ricostruzione della prospettiva di Honneth particolarmente impegnativa. Infatti Honneth fa scaturire la sua teoria del valore 6

HONNETH A., Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1994; trad. it., La lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, a cura di SANDRELLI C., Il Saggiatore, Milano 2002. Cf. IDEM, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte. Mit einen neuen Nachwort, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2003. Ho fatto riferimento alla traduzione inglese del testo: The Struggle for Recognition. The Moral Grammar of Social Conflicts, ed. ANDERSON J., Polity Press, Cambridge 2004.

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morale o normativo della ‘lotta per il riconoscimento’ dall’esigenza di riformare le scienze sociali e la filosofia. Non è la prima volta che nella storia delle idee si tenta di fondare qualcosa di notevole sulla base di un’esigenza di riforma del sapere. È noto, per esempio, il caso di Hobbes che nel XVII secolo ha collegato la propria teoria dello Stato alla riforma della scienza politica.7 Honneth è convinto che per ottenere dei progressi nel campo delle teorie della giustizia bisogna riconsiderare i fondamenti delle scienze sociali e della filosofia. E così alla critica sociale di Marx, che ha identificato le vie dell’ingiustizia e dello sfruttamento insite nel modo di produzione capitalistico, Honneth ha rimproverato l’eccessiva importanza data ai fenomeni strutturali e impersonali e a quelli materiali. La giustizia sociale non può essere ridotta ad una sola questione di soddisfazione dei bisogni personali materiali. Per essere autentica essa deve prendere in considerazione in modo integrale i bisogni personali di natura psicologica e morale. Marx ha invece completamente marginalizzato il valore della soggettività sia dal punto di vista dell’esperienza estetica sia da quello dell’esperienza emotiva che è alla base della moralità. Il marxismo in generale ha negato la possibilità di trovare una fondazione normativa all’interno dei rapporti inter-soggettivi. Questa negazione lo ha portato a sottovalutare l’importanza delle voci dissonanti emerse dai gruppi minori e poco rappresentativi che anche in un sistema capitalistico di fatto esistono e spesso svolgono un ruolo propositivo molto importante. L’alterità tra7

SKINNER Q., Reason and Rhetoric in the Philosophy of Hobbes, Cambridge University Press, Cambridge 1996; trad. it., Ragione e retorica nella filosofia di Hobbes, a cura di CERETTA M., Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, pp. 351-391; IDEM, Visions of Politics. III: Hobbes and Civil Science, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 66-86, 177-208.

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scurata da Marx va invece recuperata e bisogna cercarla fra le pieghe della società pluralista e multiculturale, fra quelle dell’amore e della compassione, e fra quelle della creazione artistica e dello scavo introspettivo.8 Alla critica sociale dei padri della Scuola di Francoforte, che tanto hanno fatto per gettare una nuova luce sui volti inediti dell’alienazione umana, Honneth ha rimproverato l’incapacità di incidere sulla prassi, o di determinarla, e la scarsa sensibilità e fiducia nei confronti dell’azione dei gruppi e dei movimenti. Pensatori come Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm sarebbero rimasti prigionieri delle loro stesse diagnosi sul dominio della ‘ragione strumentale’ sulla natura e sui rapporti sociali e inter-personali. In maniera abbastanza decisa Honneth ha criticato anche le teorie della giustizia di derivazione kantiana. Questo non vuol dire che Honneth abbia rinunciato completamente a Kant. Infatti proprio da Kant egli ha tratto ispirazione per sostenere che esiste un dovere preciso di limitare il proprio egocentrismo accettando come un valore le istanze che pongono dei limiti all’amore di sé. A questo proposito Honneth dice che dal punto di vista del vero riconoscimento «il comportamento non si orienta in base alle proprie intenzioni, ma in base alle qualità [...] dell’altro». Il comportamento volto al riconoscimento costituisce vero e proprio agire morale «perchè si lascia determinare dal valore di un’altra persona».9 Su di un piano 8

A. HONNETH - J. ANDERSON, Autonomy, Vulnerability, Recognition, and Justice, cit., pp. 135-137. 9 A. HONNETH, Anerkennung als Ideologie, in «WestEnd. Neue Zeitschrift für Sozialforschung», 1/1 (2004), pp. 51–70; trad. it., Riconoscimento come ideologia in IDEM, Capitalismo e riconoscimento, a cura di SOLINAS M., Firenze University Press, Firenze 2010, pp. 77-99, p. 89. L’articolo è stato ripubblicato con il sottotitolo Zum Zusammenhang von Moral und Macht in HONNETH A., Das Ich im Wir. Studien zur Anerkennungstheorie, Suhrkamp, Berlin 2010, pp. 103-130.

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diverso però Honneth ha criticato il kantismo della concezione procedurale della giustizia di Rawls e quello della concezione etico-discorsiva di Habermas. Honneth sostiene che Rawls e Habermas hanno avuto il torto di rinchiudersi in una torre d’avorio di astrazioni intellettualistiche, hanno cioè ricavato la giustizia da princìpi razionali astratti anche se lo hanno fatto percorrendo vie diverse. Nel caso della teoria procedurale di Rawls è evidente l’influsso del modo analitico di fare filosofia, tipicamente anglosassone. È vero che Rawls si è preoccupato di fondare razionalmente e normativamente il suo discorso sulla giustizia come equità prendendo le distanze sia dall’utilitarismo che dall’intuizionismo. È pure vero però che il filosofo politico americano ha dato la precedenza non alle esigenze reali dei gruppi e dei singoli ma alla ricerca dei princìpi che devono modellare l’assetto fondamentale delle istituzioni in una società che rispetta i diritti fondamentali dei cittadini. Secondo Rawls i princìpi di giustizia possono solo essere quelli che le persone razionali sceglierebbero come vincolanti trovandosi in una posizione iniziale di uguaglianza determinata dal fatto che ogni persona si trova dietro un ‘velo d’ignoranza’ in vista di una distribuzione di doti e capacità. Inevitabilmente l’equità di cui si parla in questa teoria finisce per essere una questione che riguarda principalmente la distribuzione di costi e benefici nel contesto della cooperazione sociale.10 Per quanto riguarda la proposta di Habermas si capisce che essa è caratterizzata dal timore che le masse possano an10

RAWLS J., A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1971; trad. it., Una teoria della giustizia, a cura di MAFFETTONE S., Feltrinelli, Milano 1982, pp. 61-168.

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cora una volta regredire verso stadi di barbarie già tragicamente sperimentati, specialmente in Germania. Per questo motivo tale proposta mira a giustificare il rafforzamento degli imperativi morali universali mediante una certa configurazione dell’ordinamento giuridico che dia priorità ai princìpi costituzionali di stampo liberal-democratico e ai diritti umani. Specialmente durante gli anni ottanta, Habermas si è spesso spinto a criticare il relativismo delle correnti post-moderne e post-strutturaliste. Per dare sostegno alla razionalità critica di ognuno, che secondo Habermas ha il compito di fare da argine contro ogni tentativo di annientare la dignità umana, egli stesso ha parlato della necessità di affidarsi ad una «trascendenza intramondana». Ragione pratica e «ragione comunicativa» sono diverse nel senso che la prima si riferisce a singoli attori oppure a «macrosoggetti di natura statale e sociale», mentre la seconda è «un medium linguistico, attraverso cui s’intrecciano interazioni e si strutturano forme di vita». La ragione comunicativa «è iscritta nel telos linguistico dell’intesa, formando un complesso di condizioni possibilitanti e limitanti insieme». Nelle condizioni di validità del linguaggio Habermas individua le condizioni di partenza della moralità e della giustizia. C’è quindi un forte legame fra normatività e comunicazione. Habermas dice che la ragione comunicativa «possiede contenuti normativi solo nella misura in cui, per agire comunicativamente, uno deve sempre affidarsi a presupposti pragmatici di natura controfattuale», deve, cioè, affidarsi a delle «idealizzazioni». «Una corona d’idealizzazioni inevitabili forma il fondamento controfattuale d’ogni prassi d’intesa effettiva che sia capace di volgersi criticamente contro i propri risultati e di trascendere se stessa». In una situazione del genere «l’agente comunicativo si trova certamente sotto534

messo alla costrizione di una debole necessità trascendentale, ma non per questo egli si trova già invischiato nella costrizione prescrittiva di una regola d’azione determinata». Per Habermas solamente se la prassi comunicativa quotidiana «si sovraccarica di presupposti idealizzanti» i processi di apprendimento e di mutuo rispetto possono aver luogo.11 Per Honneth teorie come quelle di Rawls e Habermas risposano, ancora una volta, su di una ingiustificabile divaricazione fra essere e dover essere. Esse sarebbero state sviluppate in isolamento rispetto alla prassi sociale e istituzionale che anima il tessuto etico di una società, e a partire da questo ‘dorato isolamento’ sarebbero state calate nella realtà sociale. In questo modo tali teorie hanno scarsa utilità descrittiva e i soggetti non sono altro che passivi fruitori di princìpi calati dall’alto di un non ben precisato ‘mondo delle idee’. Honneth suggerisce di guardare al divenire storico nella sua concretezza e in diverse occasioni ha proposto un metodo che potrebbe chiamarsi ‘ricostruzione normativa’.12 Si tratta di un metodo che punta a disvelare il potenziale normativo insito nelle realizzazioni, anche istituzionali, della modernità. Attraverso questo approccio, chiaramente influenzato dalla filosofia hegeliana del diritto, gli elementi di normatività che appaiono nella fattualità possono essere riconosciuti e sistematizzati all’interno di un quadro teorico che permette l’in11

HABERMAS J., Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaat, Suhrkamp. Frankfurt am Main 1992; trad. it., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di CEPPA L., Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1996, pp. 11-13. 12 HONNETH A., Rekonstruktive Gesellschaftkritik unter genealogischen Vorbehalt: zur Idee der ‘Kritik’ in der Frankfurter Schule, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 48 (2000), pp. 729-737.

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dividuazione di princìpi che a loro volta costituiscono la ‘grammatica morale’ che sottende l’agire finalistico dei gruppi e dei singoli. Allo stesso tempo Honneth avverte che sebbene le moderne democrazie liberali danno straordinaria importanza alla libertà individuale, garantendo a ciascuno ampi spazi di autonomia, in esse il riconoscimento dei contenuti di questi spazi di libertà e autonomia è solo formale. Esse trascurano le vulnerabilità a cui sono esposti gli individui come anche il loro bisogno di interdipendenza. Perciò non basta affidarsi a un’immagine della libertà in cui alla diminuzione o scomparsa delle restrizioni corrisponde un incremento automatico della sfera dell’autonomia.13 Come Honneth ha spiegato in un articolo del 2004 intitolato Anerkennung als Ideologie, in cui si cerca di dimostrare che il riconoscimento deve essere distinto da ogni forma di assoggettamento ideologicamente orientato, bisogna elaborare «una teoria critica della società che cerchi di individuare i suoi fondamenti normativi nell’atto del reciproco riconoscimento».14 Nelle pagine iniziali di Das Recht der Freiheit, il volume dedicato alle basi sociali della vita democratica pubblicato nel 2011, egli mette in guardia contro il pericolo costituito da una giustificazione di norme di giustizia sociale che, precedendo l’analisi immanente delle condizioni storiche attuali, non può che essere sterile. L’alternativa, come abbiamo visto, è ricavare i princìpi della giustizia sociale direttamente nella forma di un’analisi 13

HONNETH A. - ANDERSON J., Autonomy, Vulnerability, Recognition, and Justice, cit., pp. 128-130. 14 HONNETH A., Riconoscimento come ideologia, cit., p. 78.

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della società attraverso il metodo della ‘ricostruzione normativa’.15 Va detto che pur criticando il costruttivismo di Rawls e Habermas, Honneth prende le distanze dall’anti-universalismo di autori come Lyotard che, per mettersi al riparo da ogni mistificazione, rendono impossibile la fondazione dell’uguale diritto di tutti, e di tutte le culture, a vivere pacificamente.16 Allo stesso tempo, in nome di un «moderato realismo morale» integrato da «una robusta concezione del progresso», Honneth prende le distanze dal relativismo morale «che è fondamentalmente incompatibile con gli obiettivi normativi del concetto di riconoscimento».17 Ritornerò fra breve sulla questione di come Honneth intende l’idea di ‘moderato realismo morale’. Occorre invece ricordare che, contrariamente a quanto detto da Anderson, e cioè che Honneth evita le ipostatizzazioni della filosofia della storia,18 l’idea di una ‘robusta concezione del progresso’ è tipica di una filosofia della storia. Lo stesso Honneth dichiara che occorre «presupporre una direzione di sviluppo nelle trasformazioni culturali delle qualità 15

IDEM, Das Recht der Freiheit. Grundriß einer demokratischen Sittlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2011. Ho seguito la traduzione inglese di questo testo. Cf. IDEM, Freedom’s Right. The Social Foundations of Democratic Life, trad. it., GANAHL J., Polity Press, Cambridge 2014, pp. 1-11. 16 Questo articolo è apparso nello stesso anno sia in lingua tedesca che in lingua inglese. Cf. HONNETH A., An Aversion against the Universal. A Commentary on Lyotard’s Postmodern Condition in «Theory, Culture and Society», 2 (1985), pp. 147-156; IDEM, Der Affekt gegen das Allgemeine. Zu Lyotards Konzept der Postmoderne in «Merkur», 38/8 (1985), pp. 893–902. 17 IDEM, Riconoscimento come ideologia, cit., pp. 86-87. 18 ANDERSON J., Situating Axel Honneth in the Frankfurt School Tradition, cit., p. 48.

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assiologiche umane tale da permettere dei giudizi fondati sulla validità trans-storica della cultura del riconoscimento del momento dato». Infatti un autentico giudizio morale «può essere formulato soltanto muovendo dalla più progredita prospettiva morale contemporanea».19 È centrale nell’opera recente di Honneth il richiamo alla filosofia politica di Hegel, e in particolare al capitolo della Phänomenologie des Geistes dedicato sull’auto-coscienza, e più in generale alle Grundlinien der Philosophie des Rechts.20 Mentre in Hegel la moralità è una componente individuale – è il bene praticato dall’individuo – e l’eticità è una componente comunitaria – è il bene praticato da un gruppo – e pertanto la seconda si impone sulla prima, in Kampf um Anerkennung Honneth tenta una riconciliazione fra queste due componenti servendosi della psicologia e della filosofia sociale di Mead.21 In questa sede mi limito a ribadire che per Honneth le lotte per il riconoscimento costituiscono il principale fattore di ‘evoluzione’ morale nella vita degli uomini e delle donne. Quella moderna sarebbe quindi un’epoca maggiormente caratterizzata da razionalità rispetto alle precedenti perchè, proprio grazie al nuovo contenuto delle attuali lotte sociali, i rapporti di riconoscimento hanno assunto un ruolo centrale. 19

HONNETH A., Riconoscimento come ideologia, cit., pp. 80, 87. HEGEL G.W.F., Phänomenologie des Geistes in Gesammelte Werke, hrsg. W. Bonsiepen und R. Heede, Felix Meiner, Hamburg 1980, vol. 9; trad. it., Fenomenologia dello spirito, a cura di CICERO V., Rusconi, Milano 1999, pp. 261-331. IDEM, Grundlinien der Philosophie des Rechts (Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse) in Werke, hrsg. E. Moldenhauer und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2004, vol. 7; trad. it., Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di CICERO V., Bompiani, Milano 2006. 21 HONNETH A., The Struggle for Recognition, cit., pp. 71-91. 20

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In effetti Honneth si è esposto a molte critiche da questo punto di vista dato che è possibile argomentare che la modernità è attraversata anche da tendenze che possono definirsi regressive. Honneth sostiene che le lotte sociali di cui è piena la storia, e di cui gruppi e movimenti sono i veri protagonisti, sono lotte che vertono sulla forte esigenza di fare ottenere il più ampio riconoscimento possibile alle proprie istanze e richieste di valorizzazione. La discriminazione e l’ingiustizia fanno scattare le lotte per il riconoscimento che a loro volta sono modi per ottenere autonomia e di conseguenza consentono di accedere ad un maggior grado di felicità. In Kampf um Anerkennung Honneth dice che la lotta per il riconoscimento deve essere considerato uno schema interpretativo che serve a capire meglio i processi sociali attraverso i quali nelle nostre società si registrano dei cambiamenti dal punto di vista delle libertà individuali e collettive. Queste lotte, come abbiamo già detto, sarebbero sostenute da una carica morale interna. Sono i sentimenti di rabbia e indignazione ad avere una valenza morale quando sono essi stessi la conseguenza di una negazione delle aspettative o della speranza che la nostra volontà di identificarci con le nostre capacità vengano riconosciute. Se vi sono forme di vita sociale che impediscono ai gruppi o ai singoli di vivere seguendo i propri valori, mancando la certezza di ricevere adeguato riconoscimento, tutti quelli che lotteranno per il riconoscimento eventualmente negato lo faranno esprimendo anche una carica critica nei confronti delle forme di vita sociale che impediscono la piena realizzazione di sé.22 Honneth dice chiaramente che le lotte per il riconoscimento 22

IBIDEM, pp. 92-139.

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vanno viste come degli strumenti di critica della legittimità morale di certe pratiche sociali. Tuttavia egli non sembra preoccuparsi più di tanto dell’eventualità, sempre presente invece nella teoria di Habermas, che gli impedimenti possano derivare da una libera scelta da parte di una maggioranza di persone, un tempo soffocata, a danno di una minoranza. Anche per prendere le distanze dalle visioni che nella speranza di superare il formalismo della concezione liberale classica finiscono per rendere l’autonomia personale dipendente dal supporto materiale fornito dalle politiche del welfare, Honneth insiste sull’importanza di una teoria ‘riconoscimentale’ dell’autonomia. Quest’ultima è vista come la capacità reale ed effettiva di sviluppare e perseguire una propria idea di vita che sia degna di essere vissuta. Certamente occorre una rete di supporto istituzionale che permetta la continua fruizione di questa autonomia. Il nocciolo della questione è, secondo Honneth, assicurare che ognuno possa nutrire un certo tipo di sentimenti ‘positivi’ verso se stesso o se stessa. La fiducia in noi stessi (self-trust), il rispetto di sé (self-respect) e la stima di noi stessi (self-esteem) dipendono in modo radicale dall’atteggiamento di favore o di sfavore degli altri. Questi tre elementi non sono meri stati d’animo variabili o mere credenze su noi stessi ma ‘proprietà’ che ci appartengono all’interno di storicamente determinati percorsi di esperienza personale e collettiva. Qui si vede in che senso Honneth intende la nozione di ‘moderato realismo morale’. Pur nella diversità di condizioni e posizioni esistono delle proprietà che ciascuno di noi possiede e che debbono essere riconosciute attraverso una serie di pratiche e atteggiamenti: 1) pratiche e atteggiamenti di rispetto dell’autonomia e dignità dell’altro giuridicamente istituzionalizzate per garantire la cura del self-respect; 2) solide 540

relazioni di amore e amicizia, necessarie alla cura del self-trust; 3) relazioni e pratiche di solidarietà e valori, anche convenzionali, condivisi all’interno delle quali l’unicità di ognuno venga ampiamente riconosciuta, cosa necessaria alla cura del self-esteem.23 Secondo Honneth le tre proprietà appena menzionate sono aspetti essenziali della ‘relazione pratica’ con il proprio sé, e possono svilupparsi solo grazie al riconoscimento reciproco in un orizzonte di socialità. La fiducia in noi stessi (selftrust) nasce quando ci sentiamo liberi di esprimere bisogni e desideri senza la paura di essere rifiutati o giudicati negativamente. Amore e amicizia costituiscono l’orizzonte primario per questo tipo di esperienza. Il rispetto di sé (self-respect) nasce quando possiamo sentirci sicuri che gli altri riconosceranno la nostra dignità che consiste nella capacità di avanzare richieste, pretese e aspettative. Nel caso in cui queste ultime ricevano una configurazione giuridica sottoforma di diritti in senso tecnico il rispetto di sé può stabilizzarsi in una cornice di aumentata certezza o sicurezza. La stima di sé (self-esteem) nasce quando la nostra identità viene riconosciuta in contesti di solidarietà e nella rete di relazioni che intratteniamo con gli altri. L’identità di ognuno si sente al sicuro solo quando essa è vista come un qualcosa di unico e irripetibile. In questa prospettiva Honneth dimostra un certo grado di originalità in quanto con la propria teoria del riconoscimento va al di là dei paradigmi liberali e di quello social-democratico. Alla fruizione della giustizia sociale non può bastare la libertà negativa della tradizione liberale classica 23

HONNETH A. - ANDERSON J., Autonomy, Vulnerability, Recognition, and Justice, cit., pp. 130-132.

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come pure la pratica di sostegno materiale offerta dalle politiche del welfare. Il liberalismo oggi, secondo Honneth e Anderson, deve preoccuparsi delle vulnerabilità che la pratica della libertà negativa produce creando un danno nei confronti dell’autonomia. Se vuole davvero e concretamente assicurare l’autonomia individuale contro ogni abuso, uno Stato liberale moderno non può limitarsi ad ingrandire lo spazio di immunità dagli interventi esterni, ma deve anche agire per ridurre i pericoli a cui vanno incontro le ‘infrastrutture riconoscitive’ – relazioni di amore e di amicizia; relazioni garantite giuridicamente; relazioni sociali convenzionali – che sostengono l’autonomia individuale. Alla base dell’eccessiva esaltazione della libertà negativa troviamo una incapacità di tener conto delle motivazioni e degli scopi che supportano le nostre scelte autonome. L’approccio all’autonomia basato sul riconoscimento consente a istituzioni, gruppi e individui di adoperarsi attivamente affinchè ognuno possa dare sostegno all’altro nello sforzo quotidiano di stabilire una corretta relazione pratica con il sé. Senza questa cura l’autonomia individuale è compromessa.24 Secondo Honneth e Anderson la fiducia in sé è vulnerabile nel senso che essa può sempre essere minata da abusi e violenze psicologiche e di tipo sessuale. Il rispetto di sé è vulnerabile nel senso che esso può sempre essere compromesso dalla violazione dei diritti. La stima di sé è vulnerabile nel senso che essa può sempre diventare il bersaglio di denigrazione, insulto e stigmatizzazione correlata ad uno stile di vita adottato. La teoria della giustizia sociale basata sul riconoscimento non può accontentarsi di un semplice sostegno 24

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IBIDEM, pp. 129, 131.

istituzionale e giuridico, ma deve essere un qualcosa di cui si fa esperienza nell’intimo di ognuno all’interno della quotidianità sociale in cui i casi di vulnerabilità effettivamente si verificano. Honneth e Anderson si appellano al senso di concretezza di ciascuno concludendo il loro articolo ricordando che non si può e non si deve più negare la natura sociale o intersoggettiva dell’autonomia.25 A questo punto vorrei avanzare delle osservazioni critiche. In primo luogo si tratta di capire che ruolo può svolgere la responsabilità personale in un contesto in cui si tende a dare per scontato che qualunque pretesa o aspettativa maturata nell’intimo di una persona sia dotata di una carica di intrinseca bontà. Siamo in presenza di un postulato di natura metafisica? Per Honneth sono censurabili solo le pretese e le aspettative che, in un modo o in un altro, danneggiano il desiderio di riconoscimento.26 Chiaramente ci sono situazioni in cui assecondare questo desiderio diventa esso stesso un pericolo nei confronti del riconoscimento a cui gli altri aspirano. Honneth sembra oscillare fra una visione assolutista del diritto al riconoscimento ed una possibilista o relativista. Si può sempre verificare il caso in cui individui, gruppi o istituzioni siano costretti a intervenire per evitare danni di vario genere alle persone o ai beni, pubblici e privati. Naturalmente Honneth ne tiene conto. Però non è chiaro se, e fino a che punto, il filosofo tedesco ritiene che vi sia un dovere di rivedere auto-criticamente il proprio progetto di vita da parte di chi aveva certe 25

IBIDEM, pp. 143-145. In senso critico verso la genericità del concetto di riconoscimento in Honneth cf. SCHUPPERT F., Freedom, Recognition and Non-Domination. A Republican Theory of (Global) Justice, Springer, Dordrecht 2014, pp. 38-44. 26

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pretese che ora si vedono disattese. Una revisione del genere potrebbe sempre essere vista come un qualcosa di punitivo o repressivo oppure come una diminuzione della propria autonomia in generale. Su di un altro piano si pone anche il problema di come considerare l’insulto e la denigrazione, e di come reagire. Possono esperienze negative del genere avere una qualche valenza formativa o addirittura di riscatto morale? Possiamo trarre insegnamenti positivi anche al cospetto di tali negatività? Honneth e Anderson sembrano disinteressarsi di questo aspetto, e questo disinteresse è strano in quanto sono proprio le ferite che scaturiscono dalla denigrazione, spesso, a innescare ulteriori lotte per il riconoscimento. La riflessione critica, l’azione di valore e addirittura quella eroica non si danno senza il trauma dell’insulto, della denigrazione e della discriminazione. Certamente non si vuole con questo dire che tali negatività si debbano in una certa maniera incentivare o incoraggiare o accettare passivamente. Quello che intendo dire è che in Honneth e Anderson queste negatività sono accettate in modo implicito e indiretto come un ‘male necessario’, se è vero che la storia è progresso. Tuttavia, nella loro visione non si trova un’elaborazione della nozione di ‘male necessario’ che è, appunto, presupposta. Non è un problema da poco quello costituito da una società in cui le persone per mettersi al riparo da reazioni negative o lesive del rapporto pratico col sé rinunciano ad esplorare nuove occasioni di critica e auto-critica. Anche contro le intenzioni degli autori c’è il rischio che il riconoscimento venga percepito in modo assoluto ed esclusivo come il diritto di esprimere il sé in pubblico senza remore, reticenze o vergogna. Come potrebbe mantenere il proprio valore un riconoscimento che si trasforma in meccanica e incondizionata 544

accettazione di qualunque opzione esistenziale che di moralmente caratterizzante e peculiare ha solo il fatto di essere manifestazione di sé? Per quanto paradossale la cosa possa sembrare un’organizzazione o un movimento favorevole alla pratica della pedofilia avrebbe buon gioco a far passare qualsiasi restrizione o limitazione come una diminuizione della propria autonomia dovuta alla vulnerabilità prodotta dal rifiuto di consentire l’accesso al riconoscimento. Lo scopo dichiarato della teoria del riconoscimento di Honneth è quello di fare crescere la giustizia sociale. Dato che nel dare priorità alla relazione pratica con il sé non esistono gerarchie fisse di valore, si deduce che l’individuo in cerca di riconoscimento, un individuo evidentemente ‘emancipato’, corre il rischio di atteggiarsi ad ‘io assoluto’, un io che in modo sorprendente prende il volo, si stacca dalla contingenza che la teoria del riconoscimento dice di voler valorizzare. Infine, l’ipotesi di sviluppare dei princìpi di giustizia sociale nella forma di un’analisi della società è tanto suggestiva quanto ambigua in quanto presuppone una valutazione che è tutt’altro che incontestabile, e cioè l’idea che la prassi sociale possegga una carica valoriale propria. Tale visione presuppone un atto di fede nei confronti di qualcosa di essenziale che anima la storia. Siamo oltre il ‘moderato realismo etico’ rivendicato da Honneth. Siamo al cospetto di una filosofia della storia. Evidentemente non è la Provvidenza divina che Honneth ha in mente. Cos’altro può essere se non un nuovo Weltgeist? Come si giustifica un atto di fede in qualcosa del genere? Su quale piano si colloca tale credere?

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POTERE CHE FRENA, SACROSANCTITAS E VITA SOVRANA NELLA VISIONE NEOLIBERALE Francesco Maiolo Negli ultimi decenni il dibattito politico-filosofico sulla sovranità ha risentito della crisi dei fondamenti ultimi. Esso appare caratterizzato da una diffusa e persistente volontà di sottoporre i tradizionali modelli d’autorità ad una radicale decostruzione. Si è tentato di capire cos’è il potere contro ogni ‘illusione’ metafisica e contro ogni trascendentalismo. Parallelamente la ‘grande trasformazione’ in senso neoliberale delle nostre società sta avendo notevoli ripercussioni sul comune modo d’intendere il potere di ultima istanza con esiti nichilistici. Quella neoliberale appare come una filosofia della vita basata su presupposti e tentativi di razionalizzazione che, pur nella loro eterogeneità, presentano tratti comuni d’innegabile natura nichilistica sia rispetto alla sacrosanctitas che in maniera esplicita e diretta anima la visione cristiana della dignità della persona umana sia rispetto alla sacrosanctitas che in modo surrettizio ha animato l’etica liberale classica. Foucault è uno dei massimi assertori della necessità di liberarsi da ogni metafisica del potere per passare alla microfisica del potere.1 Il suo progetto prende le mosse dall’attacco nei conFRANCESCO MAIOLO, Assistant Professor presso University College Utrecht. 1 Cf. MAIOLO F., Foucault e la sovranità, Aracne Editrice, Roma 2012, pp. 43-60.

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fronti delle visioni economicistiche del potere, sia quelle connotate in senso contrattuale che quella marxista-leninista. Nella prima prospettiva il potere è un bene oggetto di un diritto alienabile. La costituzione del potere sovrano è il prodotto di un’operazione giuridica dell’ordine della cessione mediante contratto. Nella concezione marxista-leninista, invece, il potere è uno strumento indispensabile al mantenimento dei rapporti di produzione capitalistica e al consolidamento della dominazione di classe. Il progetto foucaultiano prevede anche un attacco congiunto al paradigma repressivo e a quello conflittuale. Accentuando le differenze che caratterizzano questi due paradigmi, il filosofo francese ha asserito che lungo un primo asse che da Hegel conduce a Reich, passando per Freud, il potere sovrano è la forza repressiva per eccellenza. Lungo il secondo asse, dominato da Nietzsche, il potere è il principale strumento di cristallizzazione degli effetti squilibranti prodotti nella guerra e dalla guerra. Questi due paradigmi costituirebbero la base di due grandi sistemi di analisi del potere. Il primo connota un sapere che ruota attorno al duplice binomio contratto-oppressione e legittimità-illegittimità. In questa cornice la sovranità si trasforma in fonte di oppressione ogni volta che l’esercizio del potere travalica i termini fissati dal contratto sociale. Il secondo sistema connota invece un sapere che fa perno sull’ulteriore duplice binomio guerra-repressione e lotta-sottomissione. La repressione, precisa Foucault, non è quel che l’oppressione era rispetto al contratto, cioè un abuso, ma, al contrario, «il semplice effetto e la semplice continuazione di un rapporto di dominazione».2 2

FOUCAULT M., Il faut défendre la société. Cours au Collège de France, 1975-1976, eds. Ewald F. - FONTANA A., Seuil-Gallimard, Paris 1997; trad. it., Bisogna difendere la società, a cura di BERTANI M. - FONTANA A., Feltrinelli, Milano 2009, pp. 20-25.

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Per Foucault tali saperi e paradigmi sono inadeguati a rendere conto della natura e delle modalità di manifestazione ‘pulviscolare’ del potere nelle odierne società. Egli ritiene che la sovranità non sia un bene disponibile nello stesso senso in cui lo sono tutti gli altri beni nel momento in cui divengono oggetto di confliggenti pretese di possesso. Essa è, invece, allo stesso tempo causa ed effetto di una infinita quantità di relazioni all’interno delle quali gli individui sono un indispensabile elemento connettivo, la base stessa della transitività del potere.3 Contrariamente a quanto affermato da Marx, il filosofo di Poitiers ritiene che il potere non trovi la propria ragion d’essere e il proprio fine ultimo nella volontà della classe egemone di consolidare l’assetto capitalista dei rapporti di produzione. Secondo Foucault nell’interpretare la storia dei rapporti di produzione Marx avrebbe fatto oggetto di interpretazione non una realtà ma un qualcosa che si poneva già come interpretazione di una realtà.4 Bisognava prendere atto che il vecchio ordine disciplinare, fondato sulla nozione di repressione, aveva perso vigore lasciando libero campo a nuove pratiche di regolamentazione e normalizzazione.5 Le odierne società di massa sono «società di normalizzazione» in cui si alternano e si combinano «la norma della disciplina e la norma della regolazione». Il potere ha «preso possesso della vita» nel senso che esso oc3

IDEM, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di FONTANA A. - PAP., Einaudi, Torino 1977, p. 184. 4 FOUCAULT M., Nietzsche, Freud, Marx in Cahiers de Royaumont, VI, Colloque de Royaumont, juillet 1964, Les Éditions de Minuit, Paris 1967, pp. 183-200; trad. it. Nietzsche, Freud, Marx in Archivio Foucault 1: 1961-1970, a cura di REVEL J., Feltrinelli,. Milano 1996, pp. 137-146. 5 IDEM, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; trad. it., Sorvegliare e punire, a cura di TARCHETTI A., Einaudi, Torino 1995, pp. 29-31. SQUINO

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cupa l’intero campo del biologico attraverso, appunto, l’alternarsi e il combinarsi di tecniche di controllo disciplinari e tecniche di controllo regolamentari.6 Il ridimensionamento del paradigma repressivo ha permesso a Foucault di edificare un paradigma d’analisi più complesso che guarda alla produzione normalizzatrice di discorsi cui attribuire valore di verità. Il paradigma in questione è, com’è noto, quello biopolitico. Il biopotere è un grande ed inedito dispositivo tecnologico ideato per controllare l’individuo e la specie. Sul primo versante si incontra il corpo-macchina, oggetto di un’anatomo-politica che una pluralità di soggetti sociali utilizza per stabilire i percorsi attraverso i quali, puntando sull’incremento della docilità individuale, tenta di assicurarsi il massimo di energia di cui i corpi dispongono. Sul secondo versante si incontra il corpo-specie di cui si occupano gli apparati statali visto il loro interesse istituzionale per la gestione di fenomeni quali la nascita, la crescita demografica, la malattia e la mortalità. Il biopotere ha come suo obiettivo primario l’«amministrazione dei corpi» e la «gestione calcolatrice della vita» e contribuisce notevolmente allo sviluppo del sistema capitalistico grazie ad una costante ricerca di equilibrio fra crescita demografica e crescita economica. Avvalendosi di strategie e tattiche di controllo sempre più capillari ed invasive, esso risulta eccedente rispetto alla sovranità rendendo quest’ultima obsoleta. Quel che conta è «distribuire ciò che è vivente in un dominio di valore e di utilità». Perciò la legge dovrà funzionare come istanza di normalizzazione.7 Foucault 6

IDEM, Bisogna difendere la società, op. cit., pp. 215, 218. FOUCAULT M., La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, a cura di PASQUINO P. - PROCACCI G., Feltrinelli, Milano 1997, pp. 8, 120-125, 127-128. 7

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ha anche tentato di demolire il monopolio dei giuristi e dei teorici della politica in materia di sovranità. Trattare quest’ultima sulla base di equazioni che legano da un lato il potere alla sovranità e dall’altro la sovranità alla legge è un «privilegio teorico» insostenibile visti i risultati che l’approccio biopolitico consente di raggiungere al fine di cogliere il potere nella sua concretezza. Tuttavia, lamentava Foucault, nel pensiero e nell’analisi politica «non si è ancora tagliata la testa al re».8 È singolare il suo totale disinteresse nei confronti di un paradosso precedentemente evidenziato da Bataille. Per quest’ultimo «la messa a morte del re è la più grande affermazione della sovranità: il re non può morire».9 È stato osservato che l’«ossessione» per la sovranità si riproduce «non malgrado la, ma proprio grazie alla decapitazione del sovrano».10 Che sussista o meno un’ossessione del genere, certamente quella attuale è una situazione in cui l’esigenza di basare ogni ricerca in materia di potere sulla «decisione» di postulare che «gli universali non esistono» ha raggiunto livelli di popolarità senza precedenti.11 Il carattere aporetico di questa opzione non sembra aver intaccato mini8

IBIDEM, pp. 79-80. BATAILLE G., La Souveraineté in Œuvres complètes, VIII, ed. KLOSSOWSKI T., Gallimard, Paris 1976; trad. it., La sovranità, a cura di GABELLONE L., SE, Milano 2009, p. 35. 10 MARRAMAO G., L’ossessione della sovranità: per una metacritica del concetto di potere in Michel Foucault in Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati-Boringhieri, Torino 2000, p. 313. 11 FOUCAULT M., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 19781979, eds. EWALD F. - FONTANA A. - SENELLART M., Seuil-Gallimard, Paris 2004; trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di BERTANI M. - ZINI V., Feltrinelli, Milano 2005, p. 15. 9

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mamente la sua popolarità. Assecondando tale volontà si rischia di rimanere in balía di quello che Recalcati ha chiamato ‘delirio dell’interpretazione’.12 Evidentemente non tutti vedono le cose alla stessa maniera, e fra quelli che pure scorgono un rischio del genere, non tutti lo ritengono un disvalore. Nella prospettiva ermeneutica riconducibile all’insegnamento di Rorty, ad esempio, un’erranza del genere assume una valenza positiva, edificante e irrinunciabile all’interno di una moderna società pluralista13. In tale prospettiva non si danno punti fermi su cui fondare la validità delle nostre pretese conoscitive e l’ermeneutica stessa sembra essere solo un modus philosophandi retorico-poetico che mira al superamento dell’argomentare logico tradizionale. Vattimo ha parlato di un «nichilismo costruttivo» insito nell’ermeneutica vista la sua vocazione negativa nei confronti della capacità che la metafisica avrebbe di istigare alla violenza. Il nostro attuale Lebenswelt è un vasto campo di interpretazioni confliggenti che, dal punto di vista della loro valenza veritativa, debbono essere assunte come equivalenti fra di loro. Per Vattimo «la verità nasce nell’accordo e dall’accordo». L’unica verità incontrovertibile è che «non ci sono fondamenti ultimi davanti a cui la nostra libertà debba formarsi». Non è il sapere come stanno le cose che libera. Piuttosto «è verità solo ciò che libera», e, conclude il filosofo torinese, ciò che 12

RECALCATI M., Il sonno della realtà e il trauma del reale, in DE CARO M. FERRARIS M. (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012, pp. 191-206. 13 RORTY R., Philosophy and the Mirror of Nature, VII, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1979; trad. it., La filosofia e lo specchio della natura, a cura di MILLONE G. - SALIZZONI R., Bompiani, Milano 2004, pp. 629-719.

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libera sommamente non è che la dissoluzione dei fondamenti.14 Non si può dire che ci sia accordo sul fatto che il nodo gordiano costituito dalla metafisica del potere sia stato reciso. Su posizioni diametralmente opposte a quelle decostruzioniste troviamo ancora visioni della sovranità d’ispirazione teologica. Anche in questo ambito ci imbattiamo in un alto grado di aporeticità. Ne La sovranità necessaria, ad esempio, Roberto De Mattei asserisce che la «riconquista concettuale» della sovranità e la «difesa» dello Stato dagli attacchi concentrici ai quali sono entrambi sottoposti sono «un imperativo della nostra epoca». A suo dire la riscoperta del loro «fondamento tradizionale» fungerebbe da «elemento di resistenza contro il caos anarchico che minaccia di inghiottirci». L’erosione della sovranità dello Stato avrebbe favorito la diffusione dell’anomia e il ritorno, su scala planetaria, di tribalismi regressivi di vario genere. L’affermazione delle visioni storicistiche, riducendo l’auctoritas a mera potestas, sarebbe la causa intellettuale di tale erosione. Al recupero della sovranità, che ha la volontà divina come fondamento remoto e la natura stessa dell’uomo in quanto essere sociale come fondamento prossimo, De Mattei affida il difficile compito di metterci al riparo dal nichilismo e dalla dissoluzione sociale.15 Una visione come quella appena esposta costituisce uno dei possibili modi d’intendere la funzione del potere che frena, l’enigmatica figura annunciata da san Paolo ai Tessalonicesi 14

VATTIMO G., Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003, pp. 6-8, 97-106; Id. Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Editori Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 110-121. 15 DE MATTEI R., La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Il Minotauro, Roma 2001, pp. 8, 185-187.

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(2 Ts 2, 6-7). Gesù stesso aveva fatto riferimento a futuri dolori e persecuzioni, avvertendo che tanti saranno quelli che abbandoneranno la fede e altrettanti si presenteranno come falsi profeti pronti ad ingannare la gente: «il male sarà tanto diffuso che l’amore di molti si raffredderà», ma «Dio salverà chi resisterà fino alla fine» (Mt 24, 4-14). Dato che l’epifania del Cristo deve essere attesa attraversando un tempo di immensa devastazione e desolazione, dato che la parusia del Signore sarà preceduta dal trionfo dell’apostasia e dell’anomia, ci si deve chiedere se sia saggio riporre le proprie speranze proprio nella sovranità dello Stato. Ammesso e non concesso che quest’ultima possa fungere da potere catecontico, come ricorda Cacciari, la sua pretesa di fare da argine all’anomia risulta difficilmente fondabile. Non sappiamo se la forza catecontica esprima una valenza salvifica, o almeno benefica, o se sia una forza di resistenza meramente naturale che opera fino a esaurimento. Si pone l’ulteriore problema del senso del mandato attribuito alla forza catecontica. O si tratta di una forza che, operando nel saeculum, si nutre dell’energia dell’Anticristo ritardandone il pieno disvelamento per il fatto che l’apocalisse annunciata dal Signore è in divenire, o si tratta di una forza che, in virtù della propria irriducibile alterità, tenta di impedire l’apocalisse non potendo accettarla secondo un impulso che risponde ad un superiore ordine provvidenziale. In ogni caso, l’attesa della parusia non giustifica l’eliminazione o l’indebolimento della forza catecontica.16 Alla luce di quest’ultima considerazione si può tentare di fondare teologicamente la speranza riposta nell’azione di un’istanza come lo Stato sovrano. Il problema, semmai, è che nella fase storica attuale la 16

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CACCIARI M., Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, pp. 24-25, 33.

sua mutazione in senso neoliberale non permette allo Stato sovrano di operare nella maniera e secondo le finalità auspicate da De Mattei. Si può sostenere che l’indebolimento della forza catecontica che l’attesa della parusia non giustifica è scongiurato dalla maniera in cui, invece, opera Satana nel mondo. A quest’ultimo viene associato un dominio che è disarmonico e disarmonizzante. Secondo Girard egli è sovrano nella misura in cui riesce ad imporsi come principio d’ordine non meno che di disordine. Allo scopo di darsi apparenza di essere, il Maligno ha bisogno di agire in modo parassitario. Tuttavia, per mantenere il proprio dominio, egli non può fare a meno di rinunciare a quanto gli è più caro, cioè l’idea stessa di rendere il proprio potere assoluto e universale. In un primo momento Satana istiga ed esaspera le rivalità fino a trasformare la comunità in un crogiolo di scandali ed inimicizie. Poi, quando il peso dell’odio rischia di distruggere la comunità stessa su cui egli desidera esercitare il proprio potere, egli fa convergere l’attenzione verso una vittima destinata a raccogliere su di sé l’odio che tutti fino a quel momento avevano riversato gli uni sugli altri mettendo in pericolo l’esistenza stessa della vita della comunità. Il momento della Crocefissione, ricorda Girard, è decisivo perché segna il passaggio dal ciclo del tutti contro tutti al ciclo del tutti contro uno. Questo rito cruento permette a Satana di prevenire «la distruzione totale del proprio regno, placando la collera della folla e ripristinando la tranquillità indispensabile alla sopravvivenza di qualunque comunità umana». La morte di Gesù ha sulla folla l’effetto pacificatore che Satana, non meno di Pilato, si attendeva da essa. Almeno provvisoriamente, la comunità si sente liberata da ogni tensione interna. Attraverso tale opera di conservazione 555

sacrificale Satana riesce a «proteggere il suo dominio dalle opere che minacciano di annientarlo, e che sono essenzialmente le sue». Lo scacco a cui egli va incontro è però quanto di più radicale ci possa essere. Ogni volta che Satana cede al proprio smodato amore per la nequizia egli è costretto a mortificarlo. Satana è condannato a scacciare se stesso (Mt 12, 26; Mc 3, 23-26). È forse Satana stesso uno dei volti del potere che frena? E che rapporti esistono fra Satana e lo Stato sovrano? Secondo Girard, la contrapposizione fra Dio e Satana è sovrapponibile a quella che vede da un lato il sovrano che non è mai per i suoi sudditi «un ostacolo ed un antagonista», perchè «non desidera nulla in modo avido e concorrenziale», e dall’altro il sovrano avido di potere che trasforma persino i suoi imitatori in «ostacoli diabolici».17 Questa contrapposizione sembra aprire ad un rilancio dell’immagine hobbesiana dello Stato come un ‘Dio mortale’. In questa direzione tale contrapposizione potrebbe almeno fungere da punto di riferimento ideale per la speranza in una ripresa della sovranità. Nell’invito di De Mattei a riscoprire il significato più profondo della relazione di complementarità che lega ordo ordinans e ordo ordinatus facendo leva sulla sovranità dello Stato si ravvisa un ulteriore problema. Infatti, privilegiare il punto di vista etico-morale, isolandolo, rischia di far scomparire quasi del tutto dal campo visivo dello studioso come del credente l’ambiguità inerente al principio di sovranità che la dottrina cristiana non ha mancato di evidenziare con costanza. Nella tradizione veterotestamentaria l’immagine di Babilo17

GIRARD R., Je vois Satan tomber comme l’éclair, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1999; trad. it., Vedo Satana cadere come la folgore, a cura DI FORNARI G., Adelphi, Milano 2001, pp. 57-61, 64-66.

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nia, simbolo della superbia che anima ogni progetto di dominio mondano, riflette la misteriosa ambiguità del principio di sovranità tanto nella raffigurazione offerta dal profeta Geremia (Ier 51, 7; 49-53) quanto in quella che appare in un noto passo dell’Apocalisse (Apc 17, 1-18). In entrambi i casi si fa riferimento ad un misterioso calice dorato stracolmo d’ogni nequizia e nefandezza del cui contenuto si sono inebriati i popoli della terra. I Padri della Chiesa hanno tentato di collocare gli effetti dirompenti dell’ambiguità del principio di sovranità all’interno di un quadro salvifico e provvidenziale senza per questo edulcorarne i contorni. Nella Expositio del Vangelo di san Luca, ad esempio, riproponendo l’insegnamento paolino, sant’Ambrogio ribadisce che non il potere in sé è un male, ma il desiderio smodato di quest’ultimo.18 Nell’Exameron egli narra del disfacimento della condizione politica in cui gli uomini sono capaci di condividere fatiche e responsabilità, obbedienza e comando. Nessuno insuperbisce per l’esercizio del potere da parte degli altri, né si vergogna di mettersi al servizio degli altri. L’avanzamento nelle posizioni, conferito secondo un ordine di funzione e per un periodo limitato, non suscita invidia ed è tollerabile perché comporta compiti la cui esecuzione viene condivisa. Per via della successione nelle cariche, nessuno osa tiranneggiare l’altro. Quando però si decide di non frenare più la brama di potere, si desistere dal lasciare ad altri le posizioni raggiunte, il servizio si trasforma in asservimento, l’incertezza e la mancanza di fiducia si diffondono facendo in modo che alla fatica segua il tarlo dell’incuria. A causa della dilagante ne18

MEDIOLANENSIS A., Expositio evangelii secundum Lucam, IV, 28-30, in Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera IV, a cura di ADRIAEN M. - BALLERINI P., Corpus Christianorum Series Latina 14, Brepols, Turnhout 1957.

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gligenza si deve ricorrere alla punizione. La costrizione finisce per innescare reazioni di avversione e la fatica costante indebolisce ogni sana disposizione. Il potere liberato e prolungato produce superbia.19 Anche in sant’Agostino affiora la drammatica ambivalenza del principio di sovranità. Da un lato, egli ricorda che i regni di questo mondo sono stati edificati sul sangue dei vinti. Emblematico è il caso di Romolo, il fondatore di Roma, che assicurò la propria sovranità mediante il fratricidio. Posto che è sempre preferibile essere schiavi degli uomini piuttosto che della libido dominandi, il potere che nasce dalla violenza avrà vita effimera. Dio non ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza per poi abbandonarlo al dominio arbitrario dell’uomo stesso.20 In un passo del De ordine in cui è descritta con intenti allegorici una scena di lotta fra due galli, sant’Agostino sostiene che anche la carica dirompente del dominio è una manifestazione dell’armonia del Tutto. Nei galli che si affrontano con violenza non vi è nulla di disarmonico. Anche tale contesa esiste in virtù di una ragione superiore che tutto armonizza. La bellezza di tale ordine rifulge nei due galli in lotta fra di loro tanto nella vittoria quanto nella la sconfitta, che appaiono misteriosamente come le due facce di una stessa medaglia.21 19

MEDIOLANENSIS A., Exameron, VIII, 15, 52-55, in Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera I, a cura di SCHENKL K., Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum 32/1, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Prague-WienLeipzig, 1897. 20 AUGUSTINUS A., De civitate Dei, III, 6; XV, 5; XIX, 15, a cura di DOMBART B. - KALB A. in Sancti Aurelii Augustini Opera, Corpus Christianorum Series Latina 47-48, Brepols, Turnhout 1955. 21 AUGUSTINUS A., De ordine, I, 2.10; I, 8.25, a cura di GREEN W.M. in Sancti Aurelii Augustini Opera, Corpus Christianorum Series Latina 29, Brepols, Turnhout 1970.

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La sensibilità che traluce da questo modo di guardare alle radici della sovranità indica che i confini esistenti fra la dimensione istituzionale della sovranità e quella fattuale sono più opachi e labili di quel che comunemente si ritiene. Mentre nella ricerca storico-giuridica si è imposto un paradigma interpretativo che ha fatto coincidere il passaggio dal medievale al moderno con il passaggio dalla concezione patrimoniale e personale del potere a quella non-patrimoniale e impersonale, l’indagine filosofico-politica ha continuato ad interessarsi al tema dell’ambiguità del principio di sovranità con particolare riferimento agli aspetti personali e possessori dei rapporti che sono alla base della sovranità stessa.22 Dalla Fenomenologia dello spirito (1807) di Hegel si apprende che nella loro immediatezza gli individui sono l’uno per l’altro dei meri oggetti. Per far emergere la propria umanità, essi si debbono sforzare di oltrepassare gli angusti limiti della loro immediatezza. L’agire che ne scaturisce è però un pericolo perché proprio attraverso l’azione ogni individuo eleva a verità, nell’altro come in se stesso, «la propria certezza di essere per sé». Chi tenta di estranearsi da questa condizione di lotta, e quindi di sottrarsi al rischio di perdere tutto, inclusa la vita, potrà al massimo essere riconosciuto come persona, cioè come un figurante o una maschera. Una volta stabilito che essere umano nel senso più autentico significa imporsi come autocoscienza, signoria e servitù cominciano a scambiarsi le parti. Solo nell’immediatezza dell’esperienza, il signore ed il servo sono «figure opposte». A prima vista, il soccombere in cui si sostanzia la servitù si addice ad una coscienza non-autonoma la cui essenza è l’essere per l’altro in 22

MAIOLO F., Medieval Sovereignty. Marsilius of Padua and Bartolus of Saxoferrato, Eburon, Delft 2007, pp. 19-33, 103-116.

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virtù della paura della morte. Il dominio si addice invece ad una coscienza autonoma che ha per essenza l’essere-per-sé. Proprio «quando il signore si realizza compiutamente come signore», cioè quando si trova nel pieno godimento di quanto egli più desidera, egli si scopre dipendente dall’inessenzialità del servo. Quest’ultimo è lo specchio su cui il signore «vede dinanzi a sé tutt’altro che una coscienza autonoma, ma piuttosto una coscienza nonautonoma». Il signore vacilla e tale scoperta si ripercuote sulla coscienza inessenziale del servo. La signoria mostra che «la sua essenza è proprio l’inverso di ciò che la signoria stessa vuole essere» e che «la verità della coscienza autonoma è la coscienza servile». La servitù saprà così trasformarsi «nel proprio rovescio, e diverrà la vera autonomia». Il servo ha effettivamente in mano le chiavi della negazione dell’essere-per-sé a cui aspira il signore.23 Marx ha insistito sul fatto che una delle basi della sovranità è data dal consumo delle ricchezze in antitesi al duro lavoro richiesto per la loro produzione. Nel contesto dei moderni rapporti di lavoro l’uomo costringe un altro uomo a trasformare la propria attività nell’asservimento di sé e il prodotto del proprio lavoro in una perdita. Attraverso il dominio esercitato dal padrone del lavoro emerge la signoria di colui che non produce rispetto alla produzione, al prodotto ed al lavoratore, per il quale il lavoro stesso è un oggetto che riesce a reperire soltanto con notevoli sforzi e ad intervalli di tempo imprevedibili.24 23

HEGEL G.W.F., Phänomenologie des Geistes (1807), IV, A, hrsg. BONSIEPEN W. - HEEDE R. in Gesammelte Werke, Felix Meiner, Hamburg 1980, vol. 9; trad. it., Fenomenologia dello spirito, a cura di CICERO V., Rusconi, Milano 1999, pp. 275-289. 24 MARX K., Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 in Gesamtausgabe Werke. Schriften, Briefe, hrsg. ADORATSKIJ V. - VERLAG M.-E., Berlin 1932, 1 Abt., Bd. 3, pp. 29-172; trad. it., Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, pp. 66-82.

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Concentrandosi sull’elemento predatorio, in chiave anticontrattualista, Nietzsche ha definito lo Stato come «un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda». Colui che «può comandare» e che è «naturalmente signore» non si preoccupa di onorare patti di alcun genere. Con tali esseri «non si fanno calcoli» dal momento che «sopraggiungono come il destino, senza un motivo, una ragione». Essi «esistono come esiste il fulmine», e «l’opera loro è un’istintiva plasmazione di forme». Nietzsche li vede come «gli artisti più spontanei» che esistono, i quali «ignorano che cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo».25 Facendo tesoro di tutte queste istanze in Bataille si associa la sovranità al «godimento di possibilità non giustificate dall’utilità». La vita sovrana «comincia quando, assicurato il necessario, la possibilità della vita si apre senza limiti». Senza dubbio esiste una sovranità diversa da quella degli Stati. Non a caso essa è stata a lungo un carattere attribuito a divinità varie, sacerdoti, re e signori. La sovranità «appartiene essenzialmente a tutti gli uomini», tuttavia ciò che la contraddistingue è «il consumo delle ricchezze, in opposizione al lavoro, alla servitù, che producono ricchezze senza consumarle». Un uomo costretto a lavorare «consuma i prodotti senza i quali gli sarebbe impossibile produrre». L’uomo-sovrano «consuma 25

NIETZSCHE F., Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, (1887) in Sämtliche Werke, hrsg. COLLI G. - MONTINARI M., Deutscher Taschenbuch Verlag-de Gruyter, München-Berlin-New York 1999, vol. 5; trad. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, a cura di Masini F., Adelphi, Milano 1995, p. 76.

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invece l’eccedente della produzione». Egli «gode realmente dei prodotti di questo mondo al di là dei suoi bisogni». La più autentica «vita sovrana» comincia «quando, assicurato il necessario, la possibilità della vita si apre senza limiti». Sovrano è «il godimento di possibilità non giustificate dall’utilità». Per Bataille «l’al di là dell’utilità è il regno della sovranità». Si tratta di un al di là affatto particolare perché se da un lato sovrano è «godere il tempo presente senza guardare ad altro all’infuori di esso», dall’altro tale godimento può regalare «la sensazione miracolosa di disporre liberamente del mondo». Ciò che contraddistingue il sovrano è «il consumo delle ricchezze» in contrapposizione al lavoro del servo che deve concentrarsi sulla produzione più che sul consumo delle ricchezze. Miracoloso, sovrano, è il potere di «disporre liberamente del mondo». Dato che «non esiste nulla di miracoloso che non sia in un certo senso divino», e «nulla di divino che non sia al tempo stesso miracoloso», fra sovranità, consumo del superfluo e sacro esiste un legame indissolubile.26 È possibile affermare che una relazione del genere sia completamente assente dalla visione neoliberale dei rapporti di potere dato che in essa l’unica sacrosanctitas che conta è la desacralizzazione del sacro? L’etica liberale, stando all’insegnamento crociano, è una concezione della vita di natura meta-politica, una «concezione totale del mondo e della realtà». Nel distinguerla sia dalla quella laico-autoritaria che da quella religiosa-trascendente, Croce afferma che in essa si rispecchia tutta la filosofia e la religione dell’età moderna nella misura in cui sono guidate dalla dialettica che, grazie alla diversità e all’opposizione delle forze spirituali, «accresce e nobilita di continuo la vita e le 26

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BATAILLE G., La sovranità, cit., pp. 13-15, 35.

conferisce il suo unico e intero significato». Su questo fondamento teoretico nasce «la disposizione pratica liberale di fiducia e favore verso la varietà delle tendenze, alle quali si vuole piuttosto offrire un campo aperto perché gareggino e si provino tra loro e cooperino in concorde discordia».27 Gentile ha visto nella concezione liberale solo «la soluzione di un determinato problema storico», quello dello sviluppo della società borghese. Egli ha bollato il liberalismo come una dottrina che «torna sempre variamente camuffandosi a girare pel mondo come l’ultimo figurino della politica eterna».28 Per avere senso, una concezione come quella di Croce non può fare a meno di far leva su di una certa idea di sacrosanctitas. Il limite maggiore di tale impostazione è che i suoi contenuti sono immanenti, appartenenti cioè ad una dimensione in cui ogni cosa può virtualmente rovesciarsi nel suo contrario. In una dimensione del genere non vi è motivo alcuno per ritenere che le diverse tendenze si affronteranno cooperando in concorde discordia. Vero è che nei classici della tradizione liberale si rinviene lo sforzo di condurre gli uomini ad una concezione ragionevole di se stessi, della loro natura e delle società in cui vivono. Non ci si dovrebbe stancare mai di andare alla ricerca dell’errore, dell’autoinganno e della confusione per porvi rimedio ope rationis. Questa era l’essenza della modernità e della sacrosanctitas liberale. Bisogna chiedersi che ne è di quest’ultima all’interno della visione neoliberale. L’etica neoliberale accetta il principio che i vizi privati il più delle volte producono pubblica utilità ma ne dilata il 27

CROCE B., Etica e politica, (1930), Adelphi, Milano 1994, p. 332. GENTILE G., Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, (1946), Sansoni, Firenze 1964, pp. 61, 64-65. 28

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campo d’applicazione fino al punto di far perdere consistenza perfino all’esigenza di sconfiggere l’errore. Nella prospettiva di una piena autonomia individuale cosa è self-interest, come pure cosa è errore, dipende esclusivamente dalla percezione di ognuno. Questo tipo di etica assolutizza il principio d’autonomia individuale ed eleva il cambiamento costante, il vivere pericolosamente, a regola di vita. Ad essa si addice la definizione di modernità data da Alain Touraine: moderno è «tutto ciò che costantemente si crea e si trasforma».29 Friedrich von Hayek amava ripetere che il vero liberalismo «vuole muoversi, non stare fermo». Non vi è ragione che il vero liberale «desideri mantenere le cose come sono». Quest’ultimo «ritiene che la necessità più urgente, nella maggior parte del mondo, è quella di spazzar via gli ostacoli al libero sviluppo». Bisogna avere il coraggio di «lasciar andare le cose per il loro verso, anche se non possiamo prevedere dove ci porteranno». La libertà è solo uno strumento «essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile» indipendentemente da qualsiasi ricerca di errori da correggere.30 E non è forse proprio l’assenza di una dimensione di errori da correggere ciò che spalanca le porte all’imprevedibile? È in particolare la legge schumpeteriana della distruzione creatrice a farsi custode dell’ imprevedibilità. Essa, unitamente alla concezione della mo29

TOURAIN A., Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde aujourd’hui, Fayard, Paris 2005; trad. it., La globalizzazione e la fine del sociale, a cura di D’AGOSTINI T. - FIORINI M., Il Saggiatore, Milano 2008, p. 98. 30 VON HAYEK F., Why I am not a Conservative in The Constitution of Liberty (1960), Routledge, London-New York 1999, pp. 395-411; trad. it., Perché non sono un conservatore, a cura di INFANTINO L., Armando Editore, Roma 1997, pp. 31-33, 42. Si veda anche La società libera, a cura di BIANCHE M. - MALAGODI L., Vallecchi, Firenze 1969, pp. 48-49.

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dernità come dominio assoluto del cambiamento, sta trasformando la fissità di qualsiasi dogma nella cifra universale della vita inautentica. Come ha rilevato Grahame Lock, alla stabilità del dogma viene ormai richiesto di prepararsi alla ‘pattumiera della storia’.31 Chi è dunque il sovrano pulviscolare che la visione neoliberale della vita ostenta e promuove? È quella maschera d’io che, pur rimanendo formalmente il centro d’imputazione dei diritti di cittadinanza, non guadagna più il proprio profilo in una fase che idealmente precede quella dell’incontro con le opportunità offerte dalla società-mercato ma nella contingenza delle condizioni date, apprendendo le regole del gioco praticandole in una condizione di fluidità. La vita sovrana, ha osservato Umberto Galimberti, consiste nella scelta di «mantenersi aperta la libertà di scegliere», anche se scegliere si riduce a «ribadire l’identico nell’illusione del diverso».32 La carica nichilistica insita in tale concezione è pronta a esplodere in ogni momento e in ogni luogo dato che, come presagito da Nietzsche, il mondo vero finì per diventare favola.33 Col suo tramonto sarebbe scomparso anche quello apparente. Tuttavia, oltre Nietzsche, è proprio il diventare favola del mondo – la 31

LOCK G., Dogma, heresy and voluntary servitude: from the second millennium to the third, in «Episteme. Revista Multidisciplinar de Universidade Técnica de Lisboa», 7-8-9 (2001), pp. 9-28. 32 GALIMBERTI U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 559, 578, 614. 33 NIETZSCHE F., Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophiert (1888) in Sämtliche Werke, hrsg. COLLI G. - MONTINARI M., Deutscher Taschenbuch Verlag-de Gruyter, München-Berlin-New York 1999, vol. 6; trad. it. Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, a cura di MONTINARI M., Adelphi, Milano 2000, pp. 46-47.

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favola del cambiamento perenne e dell’individuo come il solo e unico sovrano – a consentire alla visione neoliberale di non farsi più carico della possibilità che la sparizione del mondo vero possa implicare quella del mondo apparente. Anche un ostacolo del genere può imprevedibilmente essere superato. Si sono così creati i presupposti affinché tutto trovi spazio su di una superficie smisurata dove everything goes.

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INDICE

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Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Tommaso Valentini, Andrea Velardi)

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Alla ricerca della natura umana (e della persona) . . . . . (Vittorio Possenti)

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Le radici medievali del personalismo contemporaneo: Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio . . (Benedetto Ippolito) Ciò che rende l’uomo persona. Dall’erramento ferino alla ricostituzione dell’humanitas nella Scienza nuova di G. Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Antonio Sabetta)

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«Complessità», «molteplicità», «autenticità» e «particolarità» della «natura umana». L’idea di «menschliche Natur» nella filosofia di Herder e Kant. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 (Andrea Gentile) Joseph Maréchal: desiderio e incondizionato nella conoscenza umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 (Gennaro Luise)

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Ideali di vita e significato. William James sulla natura umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Alessia Affinito)

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I concetti di persona ed homo capax nella prospettiva ermeneutica di Paul Ricoeur . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 (Tommaso Valentini) Dalla sostanza all’Ens Successivum. I problemi della identità personale nel tempo. . . . . . . . . . . . . . . . . (Andrea Velardi)

185

Persons as psychophysical agents and communicators . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Joe Friggieri)

235

Plasticità neurale e senso di sé tra genetica ed epigenetica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Mirko Di Bernardo)

255

Agire individuale e vita sociale in Kant. Da un punto a tutti i punti: della speranza di approssimarci ad una pace perpetua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Guido Traversa)

285

L’esperienza della libertà nelle condizioni dell’essere finito. Rosmini e Schelling su amore e trascendenza . . . . . . . 305 (Markus Krienke) L’antinomia antropologica in Romano Guardini . . . . . (Giuseppe D’Acunto) 572

329

Le polarità sociali e il paradigma tecnocratico. Romano Guardini nel pensiero di J. M. Bergoglio . . . . (Massimo Borghesi)

349

L’io in(de)finito. La fenomenologia di Levinas per un personalismo non ontologico . . . . . . . . . . . . . . (Giuseppe Stinca)

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“Contrapporsi senza massacrarsi”. Il contributo del paradigma del dono alla ricerca di un criterio regolativo della convivenza nell’età globale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 413 (Daniela Falcioni) Identità e differenza sessuale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Maria Teresa Russo)

419

Il futuro del personalismo fra etica e politica . . . . . . . . (Paolo Armellini)

443

Etica e politica: il nodo della responsabilità . . . . . . . . . (Donatella Buonfiglio)

475

Il corpo postumano e il presunto esaurimento del valore epistemologico della metafora organicistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Luca Mencacci) Autonomia, soggettività e vulnerabilità nel pensiero di Axel Honneth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Anja Hansen)

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Potere che frena, sacrosanctitas e vita sovrana nella visione neoliberale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (Francesco Maiolo)

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Profili bio-bibliografici dei curatori TOMMASO VALENTINI (Spoleto, 1979) è professore associato di “Filosofia politica” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi (Roma); docente incaricato di “Storia della filosofia moderna” presso la Pontificia Università Antonianum. Dal 2004 ad oggi lavora come segretario di redazione di «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia» presso la Pontificia Università della Santa Croce (Roma). Dal 2006 al 2008 ha approfondito i suoi studi sul pensiero classico tedesco a Monaco di Baviera presso la Ludwig-Maximilians Universität. Ha pubblicato numerosi articoli su Kant, J.G. Fichte, il personalismo e l’ermeneutica filosofica (in particolare Paul Ricoeur). È autore dei seguenti volumi: Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, Editori Riuniti university press, Roma 2011; I fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico, Editori Riuniti university press, Roma 2012; Filosofia e cristianesimo nell’Italia del Novecento, Drengo Edizioni, Roma 2012. ANDREA VELARDI è ricercatore di Filosofia Teoretica presso il Dipartimento di Scienze Cognitive e Psicologiche dell’Università degli Studi di Messina dove insegna Filosofia dei Processi Cognitivi nel corso di Laurea di Psicologia. E’ docente incaricato di Teoria della Conoscenza e di Semiotica presso l’Università degli Studi di Roma Tre dove fa parte anche del Laboratorio di Ontologia. Svolge attività di Consulente per la Didattica e la Ricerca della Facoltà di Psicologia presso l’Università Niccolò Cusano. E’ Honorary Visiting Fellow presso la City University of London, dove lavora sulla struttura della categorie e dei concetti, e collaboratore del Centro Studi sull’apprendi575

mento e la memoria della Università di York. È collaboratore fisso delle pagine culturali e dei libri del Messaggero. Ha dedicato i suoi studi all’ontologia e alle sue relazioni con la mente e il linguaggio, al realismo, alla teoria della conoscenza e del pensiero umano, alla empatia, alla teoria della persona. È autore di: Il nuovo paradigma. Categorie, prototipi e semantica cognitiva (Edas, 2005), Linguaggio e memoria in Le scienze cognitive del linguaggio (Il Mulino, 2006), Verità e realismo. Per una ontologia dei dati della conoscenza (Falzea, 2006), La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? (Mimesis, 2012), La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza (Mimesis, 2013). Quarta di copertina I saggi che compongono il volume prendono in esame la complessità del nesso “natura umana-persona-libertà” sotto un triplice punto di vista: storico-teoretico, etico e politico. Tali contributi mostrano delle notevoli affinità nel sottolineare la complessità dell’antropologia filosofica e delle nuove problematiche di carattere etico-politico: si pensi alla definizione stessa della “natura umana”, alle nuove sfide della bioetica o alla teoria del gender. Viviamo in un’epoca di “emergenza antropologica”: psicologia sperimentale, neuroscienze, biologia evoluzionistica e nuove tecnologie ci hanno costretto a riconsiderare ab imis fundamentis che cosa è l’uomo, ci hanno spinto a risemantizzare il concetto di persona e a mettere in dubbio se sia ancora legittimo parlare di una “natura umana” e della sua presunta specificità. Nell’attuale contesto speculativo, inevitabilmente caratterizzato da un primato delle scienze sperimentali e da rinnovate forme di naturalismo, si ripropone con ancora più radicalità il celebre interrogativo kantiano: «Che cos’è l’uomo?

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was ist der Mensch?». Nel volume viene analizzato anche il concetto di libertà, intrinsecamente connesso a quello di persona, ed oggetto oggi di rinnovato dibattito sia sotto il profilo epistemologico che etico-politico: si pensi al rapporto speculativo tra determinismo e libertà o alla vexata quaestio del rapporto tra il potere politico e le sfere di libertà del singolo.

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