La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile 8822129857, 9788822129857

In questo libro che, a cominciare dalla questione aristotelica, tocca aspetti essenziali della filosofia gentiliana, Gen

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Italian Pages 144 [152] [152] Year 1998

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La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile
 8822129857, 9788822129857

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BIBLIOTECA DI CULTURA 233

LA .'\!UOVA !TALlA

LA POTENZA E LATTO DUE SAGGI SU GIOVANNI GENTILE GENNARO SASSO

© Copyright 1998 by La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze) Prima edizione: marzo 1998 Progetto grafico e copertina: Marco Capaccioli (C.D.&V.), Firenze Redazione: Paola Campinoti Fotocomposizione: Editografica, Rastignano (Bologna) Stampa: Cartoedit, Città di Castello (Perugia)

L'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa (AIDROS), via delle Erbe, 2 - 20121 Milano, tel. e fax 02/809506.

Sasso, Gennaro

La potenza e l'atto : due saggi su Giovanni Gentile - (Biblioteca di cul­ tura; 233). - ISBN 88-221-2985-7 I. Tit. l Gentile, Giovanni Srudi critici

195

INDICE

Prefazione

VII

Giovanni Gentile: filosofo aristotelico o megarico?

l

Gentile e Carabellese sulla potenza e l'atto (a proposito di Rosmini)

lOl

Indice dei nomi

133

v

PREFAZIONE

Scritto nel 1995, e poi più volte rielaborato e, in alcune sue parti, svolto, il primo dei due saggi compresi in questo volu­ me affronta la questione del particolare nesso che a quello aristotelico lega l'atto puro teorizzato da Giovanni Gentile, e quindi anche l'altra, che alla prima è connessa, della potenza e dell'atto. Detta in due parole (ma per ragionarla ne è occorsa qualcuna di più), la tesi che vi si sostiene è che se nella conce­ zione dell'atto puro Gentile è assai più vicino ad Aristotele di quel che non si pensi ed egli stesso pensasse, nei confronti della questione concernente la potenza e l'atto è, o dovrebbe addirittura esser proclamato, vicino ai Megarici. Questa, detta appunto in due parole, la tesi del primo e più ampio saggio; che concerne comunque una questione essenziale e può per­ ciò essere letto in relazione al secondo e al terzo capitolo del mio Filosofia e idealismo, (n, Giovanni Gentile, Napoli, Bi­ bliopolis, 1995), che svolgono l'uno la questione dell'atto, del tempo, della morte, l'altro quella dell'astratto e del concreto, e, presi insieme, delineano l'interpretazione filosofica che a me pare debba darsi dell'idealismo attuale. Minori e più de­ boli contatti, ma qualcuno forse, a ben guardare, sì, questo libro rivela anche nei confronti dell'ampia indagine su Le due VII

PREFAZIONE

Italie di Giovanni Gentile, che ho da poco consegnata all'edi­

tore, n Mulino di Bologna, presso il quale vedrà a suo tempo la luce. È dunque, quello che ora presento agli studiosi, uno scritto che in qualche modo conclude la vicenda (non voglio dire la storia, che mi parrebbe troppo ambizioso sostantivo) dei rapporti che, fin da quando ero giovane studente universi­ tario, cominciai ad intrattenere con questo filosofo che, a lun­ go tenuto al margine e come dimenticato, è sembrato che non dovesse più venir fuori dal piccolo cerchio costituito dai suoi fedeli seguaci e studiosi, e che ora tende bensì ad essere abba­ stanza spesso nominato, ma in modo per lo più approssimati­ vo e da gente che, non sapendo più a che congresso votarsi, sembra essersi rassegnata a subire questo più che improprio «ritorno del rimosso». Non credo sia necessario avvertire che, come non sono mai stato iscritto al club dei fedeli dediti all'apologia di Gio­ vanni Gentile, così con quest'ultimo atteggiamento le pagine che seguono, e le altre che su questo argomento mi è accaduto di scrivere, non hanno niente a che vedere. Le ragioni che ne costituiscono la radice sono filosofiche, soltanto filosofiche: come etico-politiche e storiografiche, oltre che filosofiche, so­ no quelle che hanno determinato la nascita del libro che ho dedicato alle due Italie. E risalgono assai indietro nel tempo, ai primissimi anni del dopoguerra, quando (e non intendo farmene un merito, desidero solo constatare un fatto), come quella che condussi sul pensiero di Croce, così, con altrettanta forza, mi s'impose la riflessione alla quale le opere e la filoso­ fia di Gentile mi chiamavano: rendendomi per questa parte tanto più arduo il suo esercizio quanto tneno potessi nascon­ dere a me stesso il profondo dissenso politico che mi divideva da lui. Detto questo, credo sia superfluo aggiungere che al­ l'idealismo italiano mi sono rivolto con la consapevolezza che quel che, nella filosofia e nel resto, vi avevo imparato, non potesse non esigere un atteggiamento che, libero da ogni pre­ giudizio, fosse o provasse a essere soltanto critico. E ora deb­ bo constatare che, se il qualsiasi traguardo filosofico al quale sono, bene o male, pervenuto è molto lontano, per quel che soprattutto concerne il tono filosofico (ma non solo questo), dalle filosofie dell'idealismo italiano, l'attenzione e lo studio che ho dedicati alla loro ricostruzione critica hanno costituito una delle condizioni del suo conseguimento. n che è detto VIII

PREFAZIONE

non certo per sottolineare il significato e il valore di quel tra­ guardo, che non spetta comunque a me determinare quali siano, ma al semplice scopo di offrire al lettore un elemento utile alla miglior comprensione di quel che qui troverà scritto. Una parola, infine, a proposito del titolo del primo sag­ gio; che potrebbe sembrare persino provocatorio, perché, cer­ to, come non si propose mai di essere un seguace di Aristotele e anzi, per quel che concerne la teoria dell'atto puro, stabilì con lui un rapporto di netta e drastica contrapposizione (ac­ tus, il suo atto, actum quello concepito dal pensatore antico), così sarebbe caduto dalle nuvole a sentir formulare la conget­ tura relativa al suo essere, forse, e in obiecto, un megarico. Ma la paradossalità del titolo si spiega naturalmente con la tesi svolta in questo libro, nel quale infatti si sostiene che - qua­ lunque cosa Gentile pensasse di essere, qualunque «natura» assegnasse al suo atto, comunque prospettasse il rapporto del­ l'antico e del nuovo, dell'astratto e del concreto - se l'occhio si dirige non all'intenzione, ma all'obiettiva filigrana del suo pensiero, allora la sua vicinanza all'atto aristotelico si rivela assai più forte della (presunta e proclamata) lontananza. Per quanto poi concerne la questione della potenza e dell'atto, che costituisce l'altro filo, q, meglio, il rovescio dell'ordito logico da lui intessuto, che Gentile dovesse essere vicino piut­ tosto ai Megarici che non ad Aristotele, anche questa è una conclusione solo all'apparenza paradossale: perché sembra in­ vece dettata e imposta dai pensieri che, per questa parte, egli in effetti pensò. Infine, i ringraziamenti; che, come nei precedenti, anche in questo caso debbono essere rivolti alla professoressa Ange­ la Schinaia, che con la sua cortesia e competenza ha reso più agevoli le ricerche da me condotte nell'Archivio della Fonda­ zione Giovanni Gentile; ad Antonello d'Angelo, con il quale ho a più riprese discusso intorno alla tesi sostenuta in questo libro, e alla cui competenza aristotelica non mi sono mai rivol­ to invano, e, quindi, a Marcello Musté.

G.S. Roma, 3 0 dicembre 1996

IX

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

Corre netto negli scritti filosofici di Giovanni Gentile' il con­ cetto secondo cui una cosa è l'atto quale egli cominciò ad intenderlo da quando l'idealismo - che fin dagli esordi gli stava in mente - prese a precisarsi e a determinarsi in riferi­ mento a questa idea, un'altra cosa l'atto che invece s'incontra in Aristotele. In un saggio del1926, che subito, nell'esordio, definì «essoterico» e che decise infatti di scrivere per segnare la distanza determinatasi fra il suo pensiero autentico e l'inter­ pretazione che si era cominciata a darne, la differenza sussi­ stente fra il suo atto e quello di Aristotele fu fissata con la più grande energia polemica 2 • E insistendo sul punto che, come

1

Per l'interpretazione complessiva dell'attualismo, cfr. il mio Filoso­

fia e idealismo, Il, Giovanni Gentile, Napoli 1995.

2 La questione del rapporto stretto da Gentile con Aristotele sta al centro di queste pagine; e sarà via via documentato. Poiché qui si fa questio­ ne del «primo» attualismo, converrà chiarire che, in relazione al concetto del giudizio, la differenza intercorrente fra Aristotele e Kant era stata fissata già nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, !, Pedagogia generale, l

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGAR!CO'

questo era un actum purum, ossia un atto per intero atteggiato nella forma dell'oggettività, il suo era invece actus purus, non oggetto, ma soggetto, avvertì anche e precisò che «l'atto ari­ stotelico è forma pura, motore immobile; immobile di quel movimento che», sempre a giudizio dell'antico filosofo, «è proprio del pensiero quale si conosce nell'esperienza»'. Non contento di questo, che pure avrebbe potuto esser considera­ to sufficiente, a ulteriore chiarimento, aggiunse: L' atto invece di cui parliamo oggi è lo stesso pensiero del­ l' esperienza: anzi è l'esperienza pura. E si distingue da ogni altro atto che sia stato fatto oggetto di considerazione in passato per questo, che esso è inteso come atto in atto, atto presente, e non come atto già compiuto. È infatti da considerare che si parla bensì comune­ mente di atti passati, compiuti, materia di storia o di una speculazio­ ne metafisica che si volga a una realtà idealmente preesistente al pensiero in cui tale speculazione si attua; ma quegli atti sono, per una ferrea necessità logica, che nessuno sforzo di pensiero potrà mai infrangere, relativi ad un atto immanente e affatto insuperabile: che è per l'appunto l'atto del pensiero onde la storia del passato si rico­ struisce, o si rappresenta nella sua struttura quella tale realtà metafi­ sica ravvisata preesistente al pensiero stesso che se la rappresenta. E

Firenze 1959', pp. 74-75 , e, più ampiamente, ne Il metodo dell'immanenza ( 1 912) , in La rz/orma della dialettica hegeliana, Firenze 1954', pp. 202 -206, che, fra gli scritti del «primo» attualismo è altresì quello in cui l'opposizione della filosofia moderna (filosofia del soggetto) alla filosofia antica (filosofia dell'oggetto), è per la prima volta reso esplicito. Sarebbe naturalmente del più grande interesse stabilire quando questa idea, che conobbe il suo culmi­ ne nel modo stesso in cui concepì il Sistema di logica, si determinasse in Gentile che, del resto, la elaborò nel medesimo atto in cui prese a svolgere l'idea del cristianesimo e della funzione che esercitò nel determinare la ge­ nesi della filosofia moderna (per questo aspetto della questione sono impor­ tanti, e meritevoli di più attenzione di quella che abbiamo ricevuta, gli Studi sullo stoicismo romano del primo secolo d.C., Trani 1904 , la cui idea risale al 1 896 e, così come sono, non costituiscono se non il frammento di un libro che avrebbe dovuto trattare del significato del cristianesimo nel quadro della cultura antica, e che non fu scritto) . Come che sia, accenni all'idea che in seguito si sarebbe svolta nella forma dell'anzidetta opposizione, sono già nella giovanile Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Val/a), Firenze 1962', pp. 81 ss. , là dove Gentile tratta del movimento francescano e del misticismo; e cfr. poi I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, Firenze 1 963 ', pp. 3 9 ss. , e il complesso degli studi dedicati a l Rinascimento. ' Avvertimenti ( 1 926), in Introduzione alla filosofia, Firenze 1 9582 , p. 229.

2

GIOVANNI G E NTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARJCO?

tra quegli atti, storici o metafisici, e quest' atto c'è una notabile diffe­ renza; la quale si precisa dicendo, che quelli propriamente non sono atti, ma fatti (ancorché eterni) ; e l'unico atto, che sia dawero e non possa non esser tale, è questo, che infatti è, per consentimento gene­ rale, attuale. Ma dire attuale un atto, è usare un inutile pleonasmo. L'atto che non sia attuale è come una luce che non sia luminosa, un vivente che non sia vivo4•

Qui, per la verità, potrebbe subito apparire inammissibi­ le che fra un atto che sia actum, e cioè «compiuto», passato, chiuso nell'inconcussa necessità della sua perfezione, e un atto che sia actus e, perciò, «nel» suo atto, si faccia, sebbene en­ trambi siano eterni, cadere la distinzione. E tanto più potreb­ be apparire inammissibile quanto più si considerasse che, co­ me nell'eterno è impensabile che s'introducano differenze e «un» eterno si distingua perciò da un altro, così proprio non è pensabile che addirittura si parli di «due» atti e li si distingua; e l'uno sia preso come oggetto, l'altro come soggetto. Per l'eterno si potrebbe ripetere qui quel che Giordano Bruno disse, all'inizio del quinto dialogo del De la causa, principio e uno, dell'infinito, «sotto» la cui «comprensione», scrisse con grande efficacia, «non è parte maggiore e parte minore, per­ ché alla proporzione de l'infinito non si accosta più una parte quantosivoglia maggiore che un 'altra quantosivoglia minore; e però ne l'infinita durazione non differisce la ora dal giorno, il giorno da l'anno, l'anno dal secolo, il secolo dal momento; perché non son più gli momenti e le ore che gli secoli, e non hanno minor proporzione quelli che questi a la eternità»5• Ma, sebbene sia da considerare come tutt'altro che infondato, su questo rilievo non gioverebbe, ora, insistere; e restando invece aderenti alla linea generale dell'argomentazione gentiliana, converrà piuttosto ribadire il punto essenziale. Atto «compiu­ to», e di necessità appartenente al passato, è, per Gentile, l'atto di Aristotele: pensiero che non già si pensa nell'atto del suo pensarsi, ma pensiero piuttosto «pensato» e chiuso perciò in questa sua irrevocabile «perfezione». Diverso in tutto, per conseguenza, dall'atto che anche qui Gentile tornò a delinea­ re: atto che, per non lasciar sussistere, e soprattutto per non 4 5

lvi, pp. 229-230.

Dialoghi italiani, I, Dialoghi meta/isici, ed. Gentile/Aquilecchia, Fi­

renze 1985 , p. 320.

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GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

favorire, equivoci, definì «in atto», attuale nel suo stesso esse­ re attuale - e radice bensì dell'altro atto, che è chiuso in sé stesso, compiuto e passato, ma, appunto, radice, e in quello, proprio perché ne è distinto, assolutamente (sempre che lo si intenda nella radicalità, appunto, del suo esser atto) inobietti­ vabile. Diversità, dunque, dell'atto in atto da quest'altro atto che è lì, immobile, consegnato, come gli «irrevocati dì» di Ermengarda6, alla fatale necessità del suo essere compiuto, passato, esaurito in sé stesso, e che, riattualizzandolo, eterna­ mente riconduce il primo nel suo intrinseco giro costitutivo. E su questa diversità che, detta così, suona ovvia e indiscutibile, e che invece ovvia e indiscutibile non è affatto, dovrà tornarsi. E vi torneremo infatti non appena si sia richiamata l' attenzio­ ne sui paragrafi che, in questo saggio «essoterico», tengono dietro a quello da cui sono state tratte le linee sulle quali si è fin qui discusso.

Sul paragrafo, innanzi tutto, quarto: nel quale Gentile osservò che, inteso nel modo in cui sembrava a lui di doverlo intendere, l'atto è nient'altro che «il pensiero che pensa: non il libro che fu scritto, ma il libro che si viene scrivendo: non pensiero già pensato (o pensabile perché in sé stesso determi­ nato anche prima che sia pensato), ma quel pensiero che è pensato in quanto pensante: cioè un pensiero il cui oggetto coincide col soggetto»7• Se non coincidesse con il soggetto, e da questo si distinguesse come ciò che sta «di contro» e per­ ciò appunto se ne distingue, quel pensiero preesisterebbe, co­ me «pensabile», al pensiero; e, condizionando ab extra il suo atto, in una singolare inversione di ruoli lo atteggerebbe come oggetto, gli sottrarrebbe la qualità sua più specifica, che è non

6 Insieme all'altro, concernente il «tempo felice nella miseria» di Francesca da Rimini, l'esempio di Ermengarda fu proposto da Gentile nel § 6 de L'atto del pensare come atto puro (in La riforma, p. 186); e fu discusso da Croce nel primo dei suoi due interventi del 1913 sull'idealismo attuale (Conversazioni critiche, Bari 19242, II, pp. 70-71) e ancora dal primo nella sua replica (Saggi critici, Firenze 1927, II, p. 31 Frammenti di filosofia, Firenze 1994, p. 54). Per l'espressione «irrevocati dì», cfr. l'esegesi, datane da F. d'Ovidio, Ermengarda , in Nuovi studi manzoniani, Napoli 1916, pp. 79-105. Ma cfr. anche, per alcuni precedenti della questione, I. Del Lungo, Divagazioni grammaticali in proposito degli «i"evocati di>> nell'Adelchi, in Pagine letterarie e ricordi, Firenze 1893, pp. 129-145. 7 Avvertimenti, p. 230. =

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GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

già di disporsi e relativizzarsi lungo la linea successiva del tempo, ma è bensì di esser lui il centro «estemporaneo» di ogni temporalità, del passato, del futuro, e, quando lo si in­ tenda come ciò che sta fra questi due, dello stesso presente. Di qui quel che, nei confronti di questo concetto, in lui assolutamente centrale, Gentile svolse (§ 5) nella forma di un necessario corollario. Ed ecco dunque la libertà dell'io, o del­ l' atto, o del pensiero pensante nell'atto di questo pensare: che è libertà perché niente c'è che possa condizionare il suo inizio. Inizio assoluto, perché «dire libertà è dire appunto inizio d'una realtà nuova. Prima nulla, dopo tutto»8• Ed ecco (§§ 7 e 8) la extratemporalità, o, come qui Gentile preferì dire, l'«estempo­ raneità» dello spirito, o dell'atto. Estemporaneità che, a reci­ dere ogni legame e a purificare così ogni contatto che pur mostrasse di avere con il tempo, meglio tuttavia si definirebbe «attualità». In quanto tale, il pensiero non ha infatti né ieri né domani, e nemmeno «oggi», se con questo termine s'intenda qualcosa che stia «in mezzo» fra il primo e il secondo e perciò, di necessità, ne dipenda. Non ha ieri, non ha domani, non ha oggi: non perché li sopprima, ma «perché li contiene, o meglio li produce». n pensiero, l'atto, lo spirito: tutto questo è pre­ sente non perché, occorre ripeterlo, stia «in mezzo» fra il pas­ sato e il futuro, ma per la diversa ragione che sono piuttosto questi due, il passato e il futuro, ad avere nel presente un centro di essenziale riferimento. Un centro che, se ne prescin­ dessero, l'uno non potrebbe non convertirsi nell'altro: come subito si comprende se si considera che il passato di ieri era il futuro di ieri l'altro mentre il futuro di domani è «pure il passato di pos-domani». E questa è, per Gentile, una situazio­ ne insuperabile: come con facilità ci si avvede se si riflette che, così concepito, questo centro è «spostabile sempre, insieme coi termini che ne dipendono, finché» il presente non sia se non «un presente pensato, o definito, in astratto: finché sia cioè non il presente, ma l'idea del presente. Laddove esso si fissa, e con sé fissa e determina passato e futuro, quando cessi di essere l'idea del presente, e sia il presente, cioè l'attualità del pensiero che pensa»9• Fin qui le parole di Gentile. Parole problematiche bensì nel loro fondo; ma, nell'espressione, net-

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lvi, p. 231. lvi, p. 233 .

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GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

te invece e tali che non possono (o non dovrebbero) dar luogo ad equivoci. Parole che, pur nella loro chiarezza, Gentile non poté per altro evitare di rendere ancora più problematiche quando, proseguendo, osservò che «questo presente», il pre­ sente dello spirito o dell'atto o del pensiero pensante, «non è l'oggi o l'ora che passa»; ma è bensì «forma del pensiero che pensa, scevra di quella diversità e molteplicità, che è propria del tempo nel suo flusso. La diversità o molteplicità è infatti delle cose che abbiamo ad oggetto del pensiero: è del pensiero stesso in quanto esso diventi oggetto di pensiero; non mai del pensiero che pensa». La problematicità dell'assunto qui si ra­ dicalizza e si esaspera a misura che il discorso riconduce al centro dell'idealismo attuale. E il radicalizzarsi della proble­ maticità si determina non perché Gentile assumesse che l' atto del pensiero non conosce l'ora che passa ed è, in quanto tale, scevro della molteplicità che è propria del tempo nel suo flus­ so o dello stesso pensiero in quanto diventi «oggetto del pen­ siero». Ma si determina bensì perché, a parte l'oscuro riferì­ mento che egli qui fece alle «cose», nell'assumere quel che assunse e nel dire quel che disse, non fu radicale abbastanza. N on riuscì infatti ad avvedersi che, considerato nella sua es­ senza, l'atto non può conoscere il peculiare tempo del suo «diventare oggetto» di sé medesimo, e del suo , attraverso la negazione del suo «Sé» oggettivo, diventare sul serio l'atto. Questo ritmo del «diventare», questo dialettismo, «è» infatti l'atto: al quale è dunque vietato di costituirsi attraverso le sue (presunte) fasi ideali. Del che, certo, e sia pure in modo obli­ quo e indiretto, Gentile dette, in queste pagine, segno di esser­ si avveduto. E allorché scrisse che, in quanto «pensa» ed è nell'atto del pensare, il pensiero è «scevro» della diversità, è «scevro» della molteplicità, è il puro , semplice e immoltiplica­ bile atto del suo atto, è a questa idea e alla sua logica che tenne fermo lo sguardo: con la paradossale conseguenza alla quale gli avvenne tuttavia di metter capo e che si rende manifesta quando ci si chieda a che si debba allora, se dall' atto l'atto non può uscire mai, la produzione di quel «pensato» che è per un altro verso la sua determinatezza e costituisce qualcosa come lo stimolo da cui l'atto è sollecitato a rientrare in sé stesso e a riconquistare la sua attualità. Giunti a questo punto, l'essenziale, per quanto concerne la questione che ci sta di fronte, e che riguarda pur sempre la 6

GIOVAN:-.11 GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

differenza che Gentile tracciò netta fra la sua concezione del­ l' atto e quella che fu già di Aristotele, è stato detto: almeno, s 'intende bene, per quel che si riferisce al versante attualistico . Non così, per quel che concerne Aristotele. E occorrerà perciò che a lui e a quanto vi si connette si conceda ascolto diretto: senza dimenticare peraltro le tante pagine nelle quali, fin dagli esordi della sua speculazione, Gentile si pose dinanzi al con­ cetto aristotelico dell'atto; che in sé stesso e attraverso altresì le riformulazioni tomistiche, gli fu presente nelle varie sue artico­ lazioni e connessioni, e in quella, innanzi tutto, concernente la «potenza». A questi testi, aristotelici e gentiliani, occorre dun­ que rivolgere lo sguardo; e leggerli con responsabilità filosofi­ ca, senza perciò, secondo un costume sempre più largamente dominante (e sempre più deplorevole) , considerare come puri, remoti ed estranei oggetti di ricostruzione storica, se non addi­ rittura di fattuale constatazione, le questioni che vi sono af­ frontate. E si cominci con quella che, come sempre in Gentile, anche in questo saggio si presenta come la più aspra: come la più aspra perché, rispetto ad ogni altra, è preliminare. Con la questione, dunque, che concerne la distinzione, e che qui ed ora non riguarda, infatti, in modo specifico e diretto, la rela­ zione dei distinti quale Croce la concepì e che sempre Gentile criticò per la reciproca trascendenza che, le une nei confronti delle altre, le «forme» non potevano, a suo parere, non patire. Ma riguarda bensì la distinzione, lo strumento e il criterio della distinzione, il concreto distinguere di cui anch'egli, e con piena consapevolezza, si servì: innanzi tutto per distin­ guere, non solo o non tanto, il suo atto da quello aristotelico, quanto piuttosto l'atto che definì «in atto» dall'atto che, tra­ scorso, passato, esaurito in sé stesso, sta, rispetto al primo, nel medesimo rapporto in cui un libro che si stia scrivendo sta con quello che già si sia scritto ed è come se non apparte­ nesse più alla mente che lo concepì e persino alla mano che lo fissò sulla carta. Questa distinzione, al cui ambito ideale ap­ partiene altresì quella concernente l'actus e l'actum, è la stessa che Gentile stabilì fra il concreto e l'astratto, oppure fra l'atto e il fatto; e che nella Logica ebbe a presentare in modo tale che, per la sua forza, piuttosto che dell'opposto l'astratto as­ sunse il carattere del distinto: tanto che fu definito «grado al concreto». 7

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

È una distinzione, questa, che, cadendo fra i termm1 che, appunto, distingue, non cade tuttavia, ossia non proviene dal di fuori: come l'accetta che taglia in due il ramo, o la lama della ghigliottina che, dall'alto, si abbatte sul collo del re di Francia e lo decapita. E Gentile avrà infatti di volta in volta la cura e l'opportunità di chiarire (e così comunque deve inten­ dersi) che autore del distinguere non è l'atto astratto, che infatti è un «fatto» e un oggetto, il prodotto astratto e «fissato in sé» della distinzione; ma è bensì l'atto concreto che in sé stesso si oppone e si distingue dall'astratto, e così è concreto. Con il che, per altro, la questione si è convenientemente com­ plicata. E per varie ragioni, sotto vari aspetti. Si è complicata, in effetti, perché questo interno distinguersi dell'atto che po­ ne sé innanzi a sé e, alla luce del «sé» che pone, nega e allo n­ tana il «sé» posto, rivela nel suo fondo un tratto di invincibile ambiguità. Per un verso, esso si realizza attraverso una nega­ zione che ha valore assoluto e il «Sé» posto toglie perciò alla stregua piuttosto di un opposto che non di un distinto. Ma, per un altro, la sua realizzazione avviene mercé e attraverso il recupero dell'opposto, innalzato perciò al vertice del distinto. Opposizione e distinzione qui tendono a confondersi, a pre­ supporsi in circolo, a contaminarsi, perciò, l'una con l'altra 10• Donde, appunto, l'ambiguità, che del confondersi è tanto la causa quanto la conseguenza; e che si chiarisce nella sua ragio­ ne - nella ragione del suo prodursi, quando appunto si consi­ deri che, se il «sé» posto è posto come negato ed è negato perché, attraverso questo atto di negazione, l'atto realizzi sé stesso nella sua propria pienezza e attualità, non si può poi anche assumere che, con l'atto che, per realizzarsi, lo oltrepas­ sa, stia nella stessa relazione onde un distinto sta con, ed è grado, all'altro distinto. Si determina qui una situazione singo­ lare, che nel paragone con le tesi crociane trova il suo miglior chiarimento. Anche in Croce, come si sa, la questione del distinguersi si intreccia con quella della negazione e dell'opposizione. Vi si intreccia perché, allo stesso modo, in sostanza e struttural­ mente, dell'atto gentiliano, anche il suo distinto è una sintesi di opposti: un valore dunque che pone il disvalore e realizza 1°

Cfr., per questo, Filosofia e idealismo, II, pp. 257 ss., passim.

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GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

sé stesso mercé l'espulsione di questo, del disvalore, dal qua­ dro della positività. Ma, a differenza di quel che accade in Gentile, nei confronti del distinto da cui si distingue e al quale subentra nel circolo della realtà, il distinto non svolge, in quan­ to (si badi) quello sia un distinto , alcuna funzione negativa. In quanto, infatti, si dia e svolga sé stessa, la negazione ha ad oggetto non il distinto in quanto sia un distinto; ma il distinto bensì che, preso come opposto, e perciò come disvalore, dal distinto che gli subentra, come opposto e come disvalore è altresì reso intrinseco all'atto costitutivo di questo. Di qui, in Croce, il delinearsi di due diverse dimensioni che, a rigore, non riescono a coesistere nel segno della coerenza e si oppongono, invece, con la stessa energia con cui si richiamano e, per così dire, si esigono. Da una parte, il quadro e la relazione dei distinti non riescono ad essere e non sono un quadro autenti­ co: non sono, e non riescono ad essere, un'autentica relazione. A tenere il campo della realtà, e ad esaurirlo in sé, è infatti di volta in volta il distinto che emerge attraverso e dalla negazione del distinto preso come opposto e, altresì, attraverso e dalla negazione dell'intero nesso che, in quest'ultimo, non sta altri­ menti che come implicito. Ma, da un'altra, il nesso dei distinti assume invece la fisionomia dell'autentico nesso, ossia dell'or­ ganismo, nel quale i distinti sono e debbono tutti essere com­ presenti, e perciò non impliciti, bensì espliciti, nell'unità. E, con le conseguenze che da questi due quadri necessariamente scaturiscono, ecco le difficoltà che in entrambi si danno a vedere. Nel primo caso, la difficoltà si manifesta in ciò che, con l'atto di negazione che gli è costitutivo, il distinto non riesce a rigore ad essere sul serio il distinto. Il quadro che i distinti costituiscono e nel quale sono compresi non sta altrimenti che implicito nel distinto che, preso come opposto, è, dal distinto che in questo atto gli subentra, attualmente negato. E fra l'esplicito (il distinto che subentra) e l'implicito (il distinto a cui subentra) non si dà, né può darsi, distinzione. Se fra l'uno e l'altro si desse distinzione, e l'implicito fosse perciò un distin­ to, non potrebbe essere un «implicito»; e verrebbe ad essere falso quel che invece si assume sia vero, e cioè che, nei con­ fronti del distinto che attualmente tiene il centro della realtà ed è, nel suo segno, tutto lo spirito, gli altri non sono se non impliciti. Nel secondo caso, la difficoltà si manifesta invece in relazione al movimento e al passaggio dall ' un distinto all'altro; 9

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

e in tanto prende questo aspetto in quanto, se per Croce non si dà movimento ove non si dia negazione, qui per certo non si dà negazione e dunque, da un distinto ad un altro, nessun movi­ mento e nessun passaggio 1 1 • Le difficoltà che a questo riguardo si rivelano intrinseche al tentativo che, ciascuno con le sue armi, Gentile e Croce entrambi esperirono di pensare in un quadro coerente la di­ stinzione e l'opposizione sono, le une e le altre, pungenti diffi­ coltà. E sono tuttavia diverse perché, se, come si è visto, Genti­ le non riuscì in questa materia ad evitare il rischio dell'ambi­ guità e della contaminazione, per parte sua Croce provò, inve­ ce, questo rischio, a vincerlo: soggiacendo tuttavia ad un altro, non meno grave. Sebbene anche ai suoi occhi la distinzione e l'opposizione si stringessero e stessero insieme in un nesso 1 2 , è vero infatti che, più accorto in questo del suo amico ed avver­ sario, Croce non fece che l'una e l'altra appartenessero ad un unico e identico atto, distinguibile dall'esterno mediante quei due «nomi». Ma distinse. Distinse perché, diceva, il pensiero è distinzione e anche fra questa e l'opposizione non può, ex lege sua, non distinguere. Con il che, per altro, nessuno potrebbe sostenere che le difficolta fossero sul serio evitate, o che, al posto di quelle evitate, altre, e altrettanto gravi, non insorges­ sero. Per la conseguenza aporetica che è intrinseca al suo con­ cetto, la distinzione è infatti, in actu exercito, non conforme a quel che asserisce in actu signato. Non è conforme, e non distingue. Non distingue perché, in primo luogo, facendo del­ l'opposto, attraverso l'atto, un distinto, si trova nell'impossibi­ lità di distinguerlo, come opposto, dal distinto. Non distingue, in secondo luogo, perché, identicamente distinguendo i distin­ ti, ne rivela l'identità: con la conseguenza che, definite con questo strumento, la distinzione e l'opposizione non corri­ spondono al logo, o, meglio, al linguaggio, che le ritrae con questo carattere. Come distinte, ossia identicamente distinte, sono infatti identiche. E non solo né di distinzione, né 1 1 Per un quadro più ampio, cfr. Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975 , pp. 13 9 ss.; e anche Filosofia e idealismo, I, Benedet­ to Croce, Napoli 1994 , pp. 180 ss. 12 Cfr., per es. , Logica come scienza del concetto puro, Bari 1 9204 , pp. 62 -63 ; e anche Sulla teoria della distinzione e delle quattro categorie spirituali (1948), in Filosofia e storiogra/ia, Bari 1949, pp. 1 6 - 1 7 . 10

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di opposizione, può parlarsi come di due atti concretamente definibili ciascuno nella sua fisionomia propria; ma nemmeno, e a fortiori, ci si può attendere che, per effetto delle loro con­ giunte virtù, lo spirito riesca nell'impresa di vincere l'immobili­ tà e l'inerzia; e di realizzare in sé stesso il movimento. Identità significa immobilità, non movimento. Non è quindi pensabile che dall'identità il movimento possa mai esser ricavato come conseguenza. li che apparirebbe del resto tanto più evidente se si considerasse che a tal segno con il movimento l'identità non ha e non può avere commercio in quanto, se se ne distinguesse, non per questo il movimento riuscirebbe ad esserne provato o, che si dica, dedotto; mentre a sua volta, per ciò stesso che se ne distingue, quella, l'identità, gli sarebbe diversa, e dunque non sarebbe in nessun modo assumibile come l'identità: come quel­ la, in sostanza, dalla quale, secondo la pretesa, il movimento si deduce. La difficoltà che per questo aspetto emerge dalle rifles­ sioni crociane è dunque in ogni senso analoga a quella che si determina là dove si debba spiegare come mai e perché, es­ sendo sintesi di opposti e risolvimento eterno dell'opposizio­ ne, possa accadere che il distinto sia preso come opposto e negato, quindi, in quel suo autentico carattere di distinto, dal distinto che è, nel circolo, sul punto di subentrargli e di pren­ derne il posto. Se la sintesi è sintesi, e perciò, come si è detto, eterno superamento dell'opposizione e della negatività, come mai, e perché, la crisi? Come mai, e perché, il separarsi e il dividersi di ciò che è, in atto, superamento e orizzonte di ogni separazione e divisione? Come mai, infine, e perché, se l'op­ posizione e la negazione sono non altrove che nel loro essere negate e superate, si darebbe un superamento al quale si deb­ ba fino in fondo riconoscere questa eterna capacità di supera­ re il superamento che, come sintesi di opposti, il distinto è a sé stesso? Erano queste, come si sa, le questioni cruciali. E, dando luogo ad un argomento altamente rischioso, Croce do­ vette assumere che tutto questo avvenisse per la natura stessa dello spirito che, spiegava, in sé stesso patisce l'opposizione, è essere e non essere, è Unruhe, irrequietezza: con la conse­ guenza che, sempre di nuovo, ogni atto sintetico che in sé mede­ simo abbia perciò conseguito l'appagamento è, in questo me­ desimo atto, costretto ad opporsi, a dividersi, a separarsi e quindi, ancora, a superarsi in una nuova sintesi. 11

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Assunzione problematica, rischiosa: tale, in una parola, che nel quadro dei distinti e degli opposti introduceva gravi complicazioni. Lo si vede se, per esempio, si considera che non può a rigore essere un distinto il distinto che, come si dice, subentra e prende il posto del precedente: a quel modo stesso che distinto non è questo che - dall'altro che gli subentra, sta, anzi, subentrandogli, è sul punto di subentrargli - è stato preso come opposto e investito dalla potenza della negazione. Che sia così, non è difficile comprendere. E delle due, infatti, l'una. Se si assume che, in questo atto del subentrare, il subentrante sia un distinto, allora non può anche assumersi che sia un subentrante, ossia tale che, nel subentrare, non sia però anco­ ra, e in ogni senso, subentrato al distinto a cui, nel circolo, tiene dietro. È infatti un distinto, non «qualcosa» che sia in via di diventarlo, il distinto che ,subentra al distinto che , perciò, è stato preso come opposto . E un distinto: ossia una realizzata sintesi di opposti, nella quale l'opposto negativo non sta se non come «escluso» entro l'orizzonte in cui anche perciò può dirsi che sia «incluso»: con la conseguenza, se è così, che non dinan­ zi a sé, come qualcosa da negare, esso ha l'oggetto, l'oggetto della negazione, ma dentro di sé, come qualcosa dunque di già negato e di costitutivo perciò, in questo atto, dell'orizzonte sintetico della distinzione. Se, viceversa, si assume che, in sen­ so forte e specifico, il distinto sia un subentrante distinto, dovrà perciò anche assumersi che, subentrante e distinto es­ sendo «lo stesso», esso sia altresì colto e fermato nell'atto del suo «diventare» (che non è perciò un «diventare») il distinto. Ma se il subentrante distinto fosse inteso come il suo «diventa­ re» o «star diventando» il distinto che subentra, e questo «di­ ventare» fosse fermato nel suo «essere il diventare», per ciò stesso saremmo collocati nel vivo dell'opposizione in quanto opposizione: nel punto ideale, cioè, in cui gli opposti stanno l'uno contro l'altro, e non c'è l'opposizione che risolve sé stessa nella sintesi, perché piuttosto il suo risolversi è la stessa cosa del suo atto - dell'atto in cui, senza poterio ulteriormente risolvere, l'opposizione sta, e non può trascendersi. Opposizione, dunque, senza l'atto che le conferisca oriz­ zonte sintetico e risolutivo. Non sintesi di analisi, ma analisi in via di «diventare» (senza poter diventare) sintesi. E qui, certo, distinto non è quello che si definisce come il suo «diventare» o «star diventando» tale: distinto non è quello a cui «suben­ tra» e che, investito di negatività, è infatti soltanto un opposto 12

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rispetto al quale anche il «distinto» è qui soltanto un opposto. Siamo infatti, e occorre sottolinearlo, al centro di un'opposi­ zione senza atto sintetico, senza orizzonte. Siamo nel vivo di una situazione che è, per Croce (e non a torto) , in ogni senso inconcepibile. Se infatti l'opposizione è reale, per lui, non al­ trimenti che nell'orizzonte sintetico che la include, è ben com­ prensibile che quella descritta sopra si presenti come una si­ tuazione inconcepibile: alla quale è perciò tanto più grave, e significativo, che, in una sua dimensione, il suo pensiero allu­ da. Non è infatti il distinto che, nell'inconcluso processo della sua formazione e mentre, appunto, questa si avvia verso la sua meta e il suo compimento, sta nell'opposizione (che è perciò tanto un'opposizione senza forma quanto una distinzione non pervenuta a sé stessa, e anch 'essa, dunque, senza forma) ; ma è bensì l'opposizione che sta nel distinto, vinta e in eterno si­ gnoreggiata da lui. L'idea di un'opposizione che sia priva di forma o di atto, e di un distinto altresì che, nel suo (presunto) pervenire a sé stesso, ancora non abbia raggiunta la meta e non sia perciò il soggetto di sé stesso, non sia il distinto questa idea, deve ribadirsi, è, per Croce, assurda. E non di meno è proprio questa idea che, nel momento cruciale della sua argomentazione, tende, irresistibilmente, a venire in pri­ mo piano e ad affermarsi. Se ne vuole un'altra prova? Se ne vuole una prova che sia, ancor più di questa, eloquente? Ebbene, si torni allora a considerare la tesi che Croce delineò là dove disse che, poiché lo spirito in universale è essere e non essere, dramma, inquie­ tudine, divenire, da questo suo carattere non può non conse­ guire che ogni sintesi nella quale l'inquietudine sia, per dirla con Hegel, pervenuta al suo «risultato calmo», debba riaprirsi per di nuovo ricomporsi nella sintesi lungo l'incessante per­ corso in forza e in ragione del quale lo spirito è lo spirito 1 3 • Si torni a considerarla, questa tesi; e la si osservi nelle conse­ guenze che necessariamente ne scaturiscono. Si cominci per­ ciò con l'osservare che se, come qui si dice, lo spirito è preso, uberhaupt, come tutto lo spirito, non dunque nelle forme spe-

13

Cfr. , essenzialmente, Logica, p. 65; e si veda anche Saggio sullo pp. 65-66.

Hegel, Bari 1 9 1 3 ,

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dali, ma nella sua �ucrtç, non è nell'arte o nella filosofia, non è nell'economica o nell'etica, che può osservarsi e si osserva in atto la sua dialetticità. È invece in lui, nello spirito universali­ ter conceptus. Ma, se è così, allora è evidente che, nei confron­ ti delle forme speciali, lo spirito è necessariamente assunto nel segno di una sorta di ulteriorità metafisica: con la conseguen­ za che, se quello delle forme speciali è tuttavia lo spirito, lo spirito nella distinta e articolata concretezza della sua struttu­ ra, e perciò, a rigore, tutto lo spirito, lo spirito nella sua non oltrepassabile interezza, l'altro, lo spirito universaliter concep­ tus, è perciò un «metaspirito», una metastruttura, rispetto all a quale le forme distinte non potranno a loro volta atteggiarsi altrimenti che in un rapporto che sia, anch'esso, di distinzio­ ne. Il che è, per altro, impossibile. Se fra «metaspirito» e spiri­ to, struttura e metastruttura, il rapporto fosse di distinzione, non si darebbero infatti il metaspirito e lo spirito, la meta­ struttura e la struttura. Si darebbero, in realtà, soltanto distin­ ti. La tentazione, che fu anche di Platone, di elevare l'essere al di sopra dei generi sommi, e di farne perciò qualcosa come un «metagenere», dovrebbe, in questo caso, emendare sé stessa e la sua pretesa. E dello spirito universaliter conceptus non po­ trebbe assumersi che sia, in sé, essere e non essere: dal mo­ mento che tale è bensì, ma solo nelle forme speciali, che il «non essere» tengono dentro di sé, come negato, tolto e supe­ rato nella sintesi in cui consistono. Se, d'altra parte, pensato in termini di essere e di non essere, lo spirito universaliter conceptus fosse per ciò stesso pensato come opposizione, que­ sta dovrebbe a sua volta essere pensata, non come l'assurda opposizione senza forma di cui si è parlato sopra, ma come opposizione risolta nella sintesi. E la conseguenza sarebbe, a questo punto, una grave conseguenza; che può, in concreto, articolarsi nei seguenti tre punti. l) La sintesi è dello spirito universaliter conceptus. Ma poiché l'universalità non è, né mai può essere, termine di rap­ porto, ne consegue l'impossibilità e l'inconcepibilità delle for­ me speciali, e delle corrispettive sintesi. 2) La sintesi è delle forme speciali. Le quali, peraltro, in quanto tutte allo stesso modo sintetiche, non riescono a man­ tenere la forma pura del loro esser distinte; e la distinzione rivela infatti, nel suo fondo, il volto dell'identità. Dato, e non concesso, che, come forme speciali e distinte, siano tuttavia concepibili, ne deriva l'inconcepibilità di quel che pure si era 14

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO'

assunto fosse concepibile (anzi compossibile) : lo spirito uni­ versa/iter conceptus. 3) Universaliter conceptus, lo spirito non è sintesi, è oppo­

sizione pura, opposizione senza forma, e consiste nella inquie­ tudine che comunica alle forme speciali; che, insoddisfatte della loro «perfezione», si dispongono al passaggio e al supera­ mento. Ma, a questo punto, la difficoltà si specifica ed assume due volti. a) La prima, e più evidente, deriva dal rigore stesso con il quale sempre Croce escluse che, anzi che esserne preceduta, la opposizione possa essa precedere la distinzione, presentan­ dosi perciò come opposizione pura, come opposizione senza forma. b) La seconda consiste in ciò che se, come qui si sostie­ ne, lo spirito universaliter conceptus comunicasse, di volta in volta, alle forme speciali (che la ricevono e ne sono indotte alla crisi, al passaggio, al superamento) la sua propria inquie­ tudine, queste dunque dovrebbero, di per sé, esserne prive. E lo sono infatti, dal momento che, in quanto forme, sono per­ fette, e, in quanto perfette, sono non la pura e inconcepibile «inquietudine», ma il «risultato calmo», la forma dell'inquie­ tudine. Proprio per questo, ossia a causa della perfezione e della conseguente impossibilità di movimento, da cui le vede­ va affette, Croce propose che l'inquietudine esse la derivasse­ ro dallo spirito universaliter conceptus, che era in loro non al punto di non esserne anche «fuori». Ma le forme seguitavano tuttavia ad essere «perfette»: e che non lo fossero, era impos­ sibile. Ne conseguiva che, in quanto perfette, non potevano né sollecitare esse, nello spirito universaliter conceptus, l'in­ quietudine che, essendo in suo possesso, quello comunicava alla loro perfezione, né riceverla dal suo influsso. Se esse ne avessero sollecitata l'azione, avrebbero, come soggetto di que­ sta sollecitazione, dovuto possedere l'atto perfetto del loro non possederlo: ossia, in parole più semplici, avrebbero dovuto possedere l'inquietudine della quale attendevano, dallo spirito universaliter conceptus, il dono; e questo è contraddittorio, è impossibile. Se, al contrario, di questa azione «inquietante» fossero state l'oggetto nell'atto stesso in cui altresì conferma­ vano di essere «perfette», la contraddizione sarebbe stata non meno stridente, l'impossibilità non meno radicale: non essen­ do in effetti concepibile che ciò che è perfetto riceva, dal di dentro o dal fuori, una qualsiasi modificazione del suo status. 15

GIOVANNI GENTILE: FILOSOFO ARISTOTELICO O MEGARICO?

Si è così determinato, e lo si vede con sufficiente chia­ rezza, un intrico assai fitto di conseguenze aporetiche. E vi predomina tuttavia il pensiero, non fino in fondo pensato ma tenace, in forza del quale, resasi indipendente dalla signoria della forma, l'opposizione opera in libertà, come pura forza negativa della sintesi. Che è poi, a guardar bene, un pensiero tanto illegittimo e ricco di esiti aporetici, quanto, per un altro verso, presso che inevitabile nel quadro di una filosofia che, orientata a provare la concepibilità del «divenire» e del «pas­ saggio», si era ritrovata chiusa in un sistema categoriale che non a questa concepibilità conduceva ma, piuttosto, al suo contrario. E lo si comprende se si considera che qui, in questo pensiero illegittimo ma inevitabile, ha in effetti la sua radice quel che in Croce accadde negli ultimi anni della sua vita, quando, ripreso in mano il filo della dialettica e del movimen­ to, si avvide del pericolo al quale, nella filosofia dello spirito, questo e quello soggiacevano. Lo individuò questo pericolo nella perfezione delle forme, dalla quale derivava che esse non potessero superarsi nel circolo; e per questo fece rìcorso a quella sorta di opposizione pura e senza forma che, sotto vari punti di vista, gli si rivelò il >. 122

GENTILE E CARABELLESE SULLA POTENZA E L'ATTO

questione 29 , è pur vero che, quando la paragonava ad un «atto primo», egli la intendeva come un'energia, un «potere»'0; e, cosa non frequente in lui, gli accadeva di far ricorso ad un esempio suggestivo, ad una similitudine. Come si è visto, la paragonava infatti ad una certa attività «quasi direi infrenata», la quale, tolto via il freno, come un arco «incordato, scocca e ferisce». La potenza, che definiva «atto primo», e altresì come tale che «produce» gli «atti secondi», era perciò da lui conce­ pita, e converrà servirsi delle sue parole, come «qualcosa di stabile», laddove, aggiungeva, l'operazione della potenza è «passaggera» e dura, dovrà intendersi, quanto è necessario perché la sua capacità (di produrlo) produca l'atto secondo; che al primo aggiunge bensì quel che a questo «mancava», ma certo non lo risolve in sé, e né supera né dissolve la sua stabilità e fermezza. In questo senso, Carabellese poteva ben dire, con­ tro Gentile, che, rispetto all'atto secondo, l'atto primo, ossia l'aristotelica potenza, seguita a sussistere e a restar ferma in sé:

29 Per il rapporto con la materia, cfr. Nuovo saggio, §§ 1 009- 1 1 , 1 022. Ma la questione, non semplice, andrebbe discussa a parte. 10 E con ciò direi che il Rosmini andasse oltre il segno, perché se i'«atto primo» è tale che, come si dice al § 650 (n, p. 178),) «non è connesso necessariamente con molte operazioni e attuazioni che a quello susseguo­ no>>; se inoltre è vero che «se io penso [. . ] tutto ciò a cui si stende l'atto primo dell'ente, penso l'ente>>, a quello stesso modo che, per pensare l'uo­ mo, è sufficiente pensare il suo essere «un animale ragionevole>>, tutto il resto essendo o non necessario, o necessario bensì, ma già «virtualmente>> contenuto nella definizione generale, ecco allora che !'«atto primo>> acquisi­ sce una sua perfezione e quel che ne consegue è addirittura esso a esser contenuto in potenza nel suo atto. Il che, senza dubbio, costituisce uno sviluppo singolare, e interessante, della questione connessa al concetto ari­ stotelico e ai suoi vari esiti speculativi: dal momento che quel che sembrava dovesse definirsi come «potenza>> è in realtà un atto a cui, in contrasto con quel che è detto al § 1 009, niente manca per esser tale nella pienezza della sua realtà sostanziale, e che soltanto in questo senso è «potenza>>: che quel che gli «manca>> sta in potenza in lui che è percio la (attuale) potenza di quel che in lui è in potenza. L'atto è dunque, in questo quadro, la potenza, che è perciò, appunto, un atto, della potenza che è in lui. E non solo, per conse­ guenza, fra «potenza>> e «potenza>> non c'è qui unicità di significato; ma deve anche chiedersi come sia possibile che un atto contenga potenze o virtualità che, essendo in lui, non siano, ciò nonostante, in atto. Questioni interessanti, nelle quali l'acume del Rosmini toccava punti che, per un altro verso, restavano celati alla sua consapevolezza, e come soffocati nella labi­ rintica rete delle sue cento e cento distinzioni e suddivisioni. Ma che varreb­ be forse la pena di studiare . .

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GENTILE E CARABELLESE SULLA POTENZA E L'ATTO

dal momento che, come quel che si aggiunge e colma la «man­ canza» si aggiunge, appunto, a qualcosa che anche in ragione di tale «mancanza» si definisce, così o l'aggiunta può essere ideal­ mente soppressa (e la «mancanza» torna a caratterizzare la fermezza dell'atto primo) o l'atto secondo si esaurisce (e il primo perciò torna con la sua intatta capacità di produrne altri: di produrre, s'intende, altri atti secondi) . Se è così, allora si comprende che tali e tanti, ossia di così gran peso, sono gli elementi che il concetto della potenza include ed intreccia in sé, che, per coglierne la natura e il significato, occorre fermarsi a considerarli con calma, senza, se possibile, perdere di vista il determinato scopo che questa indagine si prefigge. E poiché, essendo una metafora, l'immagine dell'arco è anche espressiva di una difficoltà che, a quel che sembra, Ro­ smini intravvide e non riuscì tuttavia a risolvere, esaminiamo­ la, questa difficoltà, e scomponiamola nei suoi termini. C'è infatti l'arco, con la sua sussistenza, la sua determinatezza, la sua fermezza: c'è, in altri termini, il suo «esserci», che è desti­ nato a sussistere anche quando la freccia ne sia stata scoccata e sia giunta al suo segno. E c'è l'operazione in vista della quale l'arco è stato pensato, progettato, costruito. Con il che la si­ tuazione che si delinea è analoga, anzi in ogni senso identica, a quella, di gusto schiettamente aristotelico, che prevedesse un medico e la sua arte: un medico il quale sarebbe bensì in po­ tenza quando si trovasse a non esercitarla e stesse, rispetto a quella, in riposo, ma, certo, nel trovarsi «in potenza» rispetto all'esercizio della sua scienza, non perciò cesserebbe di posse­ derla e di realizzarla, quando occorresse, nella cura delle ma­ lattie che affliggono il genere umano 3 1 • Che è, o sembra esse­ re, una situazione concettuale caratterizzata dal più alto grado possibile di autoevidenza: a tal segno, dunque, che nessuno si sognerebbe di definire «non medico», e privo per conseguen­ za della correlativa arte e scienza, il medico che in un momen­ to della sua giornata non le esercitasse o ne esercitasse altre che, anch'esse, fossero presenti nel suo patrimonio scientifico; così come, del pari, nessuno negherebbe la qualità del musica o del pilota di trireme a un musico che, qui ed ora, fosse

·3 1

Cfr . , per es . , Phys. , El, 255

a

3 1 -b 5 .

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GENTILE E CARABELLESE SULLA POTENZA E L'ATTO

intento a coltivare un campo e a un pilota di trireme che, qui ed ora, sedesse in un teatro e vi seguisse, poniamo, il dramma di Agamennone, scritto per la scena dal poeta tragico di nome Eschilo. Tutto semplice, dunque, tutto chiaro: al punto che nes­ suna questione si profila sull'orizzonte sgombro di nubi? Ma nemmeno per sogno. Almeno due questioni urgono, infatti, all'interno di questo passaggio argomentativo. La prima con­ cerne la situazione che, definendo l' «atto primo», Rosmini ritraeva e spiegava in termini di capacità, anzi, addirittura, di attività: di qualcosa, dunque, che, caratterizzato per un verso da una «mancanza» e dalla conseguente incompletezza, è però in grado di acquisire quel che gli manca e, qui ed ora, lo rende incompleto. E deve perciò chiedersi: ma com'è possibi­ le? Com'è possibile che il «qualcosa che manca» al «qualcosa che ne manca» sia ottenuto da quest'ultimo che infatti ne manca? Da quale energia dipenderà, da quale potere, da qua­ le capacità ? In virtù di che cosa nel «manchevole» si accende­ rà l'energia, si accenderà il potere, si accenderà la capacità per cui gli sia dato di trascendere sé stesso e la sua propria «man­ chevolezza»: di trascenderla e, perciò, di rendersi «comple­ to»? O, infatti, il «manchevole» è strutturalmente determinato nella sua q;; u crtc; da questa «manchevolezza», che è il suo «es­ sere» e, se fosse intesa così, come «atto» della sua manchevo­ lezza dovrebbe essere intesa: come «atto» della manchevolez­ za, e non come manchevolezza dell'atto della manchevolezza, dal momento che anche questa «manchevolezza» non potreb­ be comunque non essere considerata, nella sua strutturalità, se non come il suo proprio non trascendibile «atto». Oppure il «manchevole» ha in sé il principio del suo proprio trascen­ dimento e superamento. Il che si formalizza dicendo che «in sé» il manchevole possiede quel che ad esso manca e aggiun­ gendo che solo linguisticamente lo si può definire così: dal momento che, secondo il concetto, esso è al contrario la sua propria compiutezza e completezza, alle quali niente, per con­ seguenza, può essere aggiunto . In realtà, e se si guarda con più attenzione, entrambe queste situazioni rivelano il medesimo volto . E il loro caratte­ re è infatti che se, strutturalmente, la manchevolezza è, e non può non essere, l'«atto» della manchevolezza, allora, sia nel­ l'uno sia nell'altro caso, «manchevolezza» non è che un nome, 125

GE'JTILE E CARABELLESE SULLA POTE0/ZA E L'ATTO

un nome che, rispetto al concetto, suona improprio e rivela un forte disagio logico . Se la «manchevolezza» è il carattere strut­ turale del «manchevole», dire «manchevolezza» è come dire «atto della manchevolezza». Ma se si dà l'atto, si dà la sua intrascendibilità: si dà la sua attualità che è, altresì, la sua perfezione; quella stessa perfezione che riluceva, e si rendeva manifesta nella seconda delle due ipotesi schematizzare qui sopra: nell'ipotesi all'interno della quale, e per la cui logica, chiudendo in sé il principio attivo, l'energia e la capacità del suo proprio trascendimento e compimento, il «manchevole» rivela­ va che in realtà il suo (presunto) autotrascendimento non era che il suo (non trascendibile) «atto». A nessuno sfuggirà che non è una conclusione di debole o secondaria importanza questa, alla quale, lungo questa via, siamo pervenuti. Intesa come «atto primo» (e quali che siano le ragioni per le quali Rosmini l'ha concepita e definita così) , la «potenza» è senz' altro un atto; che, in quanto tale, non può non attingere in sé stesso la sua propria «perfezione» o com­ piutezza. Il che conduce a dire che, certo, per un verso Ro­ smini non aveva torto quando (e comunque poi la pensasse nei confronti dell'indeterminato) assumeva che di «potenza» non si sarebbe potuto parlare se, contestualmente, non la si fosse intesa come tale che consiste in sé stessa e «sta» ferma; . come l'atto, dunque, di questa consistenza e fermezza. Ma, per un altro, non aveva invece ragione; e dalla consapevolezza che lo aveva persuaso a cogliere nella «potenza» il principio dell'attività non ricavava infatti la luce che avrebbe reso a lui trasparente il senso della sua ricerca. Non aveva ragione per­ ché, posta l'attualità, posto cioè il carattere di «atto» della «potenza», necessariamente era posta la sua perfezione; posta questa, la «manchevolezza» era tolta, o restava un nome: con la conseguente impossibilità di parlare, in questo quadro, di trascendimento e compimento} 2 • Anche per un 'altra ragione, del resto ( e con questo si tocca forse il punto veramente nevralgico della questione) , Rosmini non aveva ragione; e lo si comprende se, di nuovo, si

J Z Che è poi quel che, senza proporselo, ma nell'obiettivo movimento del suo pensiero, il Rosmini era riuscito ad intravvedere: cfr. sopra, nota 30.

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volga l'occhio alla metafora dell'arco. Del quale deve inten­ dersi che «è» il suo proprio atto sia nel suo essere fermo e in riposo, sia nell'esercizio della sua funzione. Due atti, dunque; e, per conseguenza, due perlezioni: dalJ'una delle quali all'al­ tra il passaggio è, a rigore, impossibile. E impossibile, beninte­ so, quando, in termini di pura razionalità e assumendo l' oriz­ zonte categoriale che, per questa parte, anche il Rosmini con­ divideva o presupponeva, la pedezione sia intesa come ciò che esaurisce in sé ogni possibilità di mutamento; e il passag­ gio si riveli perciò, in questo contesto, congelato nella perfe­ zione, o, se si desidera un'espressione più sobria, secca e me­ no equivoca, impossibile. Lo si vede chiaro, quasi fosse il Ro­ smini medesimo a dichiararlo, nella stessa metafora dell' arco e del giro linguistico mediante il quale trovò la sua espressione; che non poté, quanto al concetto, non riuscire difettosa, per­ ché era un concetto quello che il Rosmini cercava di delineare nel suo carattere proprio, e non fu se non un'immagine ciò a cui dette luogo: un 'immagine che, nell'atto in cui rivela l'in­ tenzione, la travolge nell'oscurità. Per rendere plausibile, ed esprimere, l'idea secondo la quale, dalla fase del suo «stare» come l 'attualità del suo esser fermo in sé stesso l'arco «passa» a quella della sua attuale funzione (lo scoccare della freccia) , dal pensiero che oscuramente gli bruciava dentro Rosmini fu come costretto a dire che quando si trova nel suo puro stato di arco, e al di qua dunque della sua funzione e del conse­ guente esercizio, quello sta altresì come «infrenato»: a tal punto che il freno dev'esser tolto vj a, perché la funzione e l'esercizio pervengano al loro atto. E necessario che il freno sia tolto via. E come no: è necessario al massimo grado. Ma pensabile tuttavia non è né che il toglimento sia estraneo al­ l'atto, ché, in tal caso, il suo carattere sarebbe l'irrazionalità e l'arbitrio, né che (e già se n'è spiegata la ragione) il toglimento sia un autotoglimento. E allora? Allo ra è chiaro che, se dalla potenza è impossibile passa­ re all'atto quando quella sia concepita come astratta e pura possibilità di passaggio, e di questo suo «esser possibile» non voglia tuttavia cogliersi il carattere di attualità, altrettanto im­ possibile è che dall'atto siE_assi all'atto. E impossibile la prima ipotesi, perché, posto cKe la potenza sia possibilità, pura possi­ bilità, il suo passaggio non può non essere inteso come in ogni senso interno all'universo del possibile: come un passare, dun127

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que, del possibile nel possibile, e perciò, a rigore, come un passare che non passa e che soltanto per metafora può esser ritratto nel significato che quel verbo per lo più assume nel comune parlare. Il che si schematizza dicendo che il possibile è un atto , intrascendibile perciò in un ulteriore atto. Ma impossi­ bile è anche la seconda ipotesi: nella quale in effetti si ribadisce quel che già nello sviluppo della prima era emerso, e cioè che è impossibile che dall'atto si passi all'atto. L'atto è perfezione. Non può dunque uscire da sé. E, a differenza di quel che il Rosmini esplicitamente supponeva, proprio perché è perfetto, nemmeno all'atto è consentito di trascorrere verso il suo pro­ prio esaurimento. Con la conseguenza che se per l'arco quello dello «stare in riposo» è un atto dal quale uscire gli è a rigore impossibile, come mai può essergli accaduto di entrarvi o di rientrarvi? E apparterrà alla 'tU'X,YJ, al suo irrazionale e irrazio­ nalisticamente estrinseco potere, di irrompere con questo ca­ rattere nel sacro recinto della razionalità e di sconvolgerne le regole. Apparterrà alla sua indeducibile necessità se, sbarcato infine dopo «mille perigli» nella petrosa lthaca, Odisseo ritrovi il suo vecchio arco, lo svegli, impugnandolo e tendendolo, dal lungo letargo di vent'anni, per dirigerlo verso gli usurpatori della sua regia dimora e farne terribile strage. Ma ancora alla 'tUX,YJ, della quale, come Edipo, anche Odisseo è in questo senso il figlio, dipenderà se poi la strage esaurisca il suo atto ed abbia termine: ossia che abbia termine l'atto entro il quale, per intenderla e concepirla, è necessario assumerla. Che se, invece di assumere come atto la strage, e come risolti nel suo atto i moltePlìci aùid ella sua cruenta attuazione, come atto si assu­ messero questi atti, e, per esempio, lo scoccare della freccia che li realizza, non solo la molteplicità degli atti rientrerebbe nel­ l'unicità dell'atto e svelerebbe per questa via la sua inconcepibi­ lità, ma l'atto dello scoccare la freccia nemmeno esso sarebbe concepibile che si proseguisse nel volo di questo arnese. Se mai infatti si facesse che il suo volo fosse un volo, in questo, che è il suo atto ed è perciò immobile e perfetto, anche la _freccia starebbe, eleaticamente e zenonianamente, fer1Tla33 : con Ìacon-

33 Tornano alla mente i versi di P. Valéry, nel Cimitière marin: «Zé­ non ! Cruel Zénon ! Zénon d'Elée ! l M'as tu percé de cette flèche ailée l Qui vibre, vele, et qui ne vele pas». (Cfr. G. Calogero, Storia della logica antica, I, L'età arcaica, Bari 1 967 , pp. 1 8 1 e 205 -206 ) . Sarebbe eccessiva pedanteria 128

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seguenza, paradossale e inevitabile, che mai la vendetta di Odis­ seo riuscirebbe a pervenire al suo proprio compimento. Sono paradossi? Rispetto al glorioso senso comune che, prima pretende di entrare nella filosofia e di assumerne il volto, e poi di imporre a questa le sue regole, sì. Sono paradossi. Ma il senso comune è qualcosa come una metafisica che, inconsape­ vole del dramma aporetico che la travaglia, si fosse trasferita nel linguaggio della saggezza mondana; il quale insegna che, scoc­ cate dall'arco, le frecce se ne distaccano, volano, e poi giungono al bersaglio, consumando sia la vendetta dell'eroe oltraggiato sia la tragedia di quanti lo oltraggiarono. Oppure: il senso comune è un Amleto il quale, sul palcoscenico shakespeariano, si muovesse con i modi e parlasse con le parole di messer N ida. Se nella logica della potenza si scende fino ad attingerne la ra_diçe, questa si rivela un atto. Se nella logica dell'atto si scende fino ad attingerne la radice, l'atto si rivela come la stessa cosa dell'intrascendibile e non perfezionabile perfezione. E allora le frecce non si staccano dall'arco , oppure, volando e posto che volino, stanno ferme, e non giungono alla meta: alla quale, se mai giungessero , allora occorrerebbe intendere che da sempre e per sempre vi sono giunte, perché, se si sta al logo, e questo non sia ridotto ad antropologia, l'atto è eterno: è un eterno presente, se si vuoi indulgere alla non rigorosa colloquialità, «senza pas­ sato e senza futuro». E la potenza, dov'è la potenza? La potenza, s'intende bene, quale la si concepisce quando la si ponga innanzi all'atto o come tale, invece, che abbia questo alla sua radice e perciò gli tenga dietro: quando così, in un modo o nell'altro, e in entrambi i casi (perché questo è il punto autentico della questione) , la si consideri, per la stessa costituzione e pensabilità . dell'atto, es­ senziale? Potrà sembrare un paradosso, o qualcosa che non finisce in realtà di sorprendere. Ma è pur vero che quando, constatata l' aporeticità intrinseca al concetto dell'antecedenza, osservare che, se, come V aléry diceva, la freccia sul serio volasse senza volare, e fosse perciò ferma nel suo «atto», nemmeno sarebbe ammissibile che giungesse mai a ferirlo? Direi di sì, che sarebbe una pedanteria degna di don Ferrante, perché la ferita patita dal poeta è prodotta non dalla freccia, che infatti vibre, vale, et ne vale pas, ma, appunto, da questo spettacolo offerto dal suo volare «senza» volare.

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lo si capovolga nel contrario concetto della susseguenza, la ragione che sta al fondo ed esige il capovolgimento è pur sempre quella secondo cui alla potenza rinunziare è impossibi­ le. E a tal punto lo è che, non potendola collocare dinanzi all'atto, si fa che sia posteriore a questo; che, nel giro prospetti­ co che in tal modo ha inizio, torna tuttavia a trovarsela dinanzi, come quella che gli era comunque necessaria, e alla quale era perciò indispensabile che guardasse per essere e poter essere la sua radice. Di questa ambiguità - che del concetto della potenza (da Aristotele in poi) è veramente costitutiva e tale che, comunque, non riesce ad esserne distaccata - non soltanto Rosmini e, in quanto ne ripeteva i modi concettuali, Carabellese rimasero vittime, ma anche Gentile; che, criticando quest'ultimo e la sua pretesa di «obiettività», interpretava il primo alla luce del suo più profondo concetto. E vittima ne rimase nell'interpretazio­ ne, non soltanto del nesso atto/potenza/atto, ma altresì di quel­ lo trascendentale/empirico, a priori/a posteriori. Gli accadde infatti, in quest'ultimo caso, di non riuscire ad avvedersi fino in fondo (e se n'è parlato nelle precedenti pagine) della difficoltà che Kant aveva invece in qualche modo avvertita e che, tenen­ dola presente, ragionandovi intorno e anche subendola, aveva messa in luce non solo nella deduzione trascendentale, ma anche nello schematismo. E altrettanto gli accadde nel primo di questi due casi: dal momento che, affermata la precedenza ideale dell'atto rispetto alla potenza, non ritenne che, così, la questione non fosse chiusa, ma rimanesse aperta e richiedesse ben altro, per la sua soluzione, da questo troppo semplice concetto. Se è così, il senso del discorso che, in modo sommario ma, forse, non del tutto estrinseco, è stato condotto in margine a questa disputa, oggi pressoché dimenticata 34 e degna, invece,

34 Mi riferisco naturalmente a questa specifica disputa e non, benin­ teso, alla questione rosminiana che, con diverse prospettive critiche, gli stu­ diosi di Gentile hanno invece affrontata nel loro autore: anche se, al riguar­ do, debba informarsi che non così, salvo errore, le cose sembrano essere andate, o andare, per il Carabellese. I suoi interpreti, almeno i più recenti, si sono fin qui preoccupati piuttosto della sua modernità e della sua attualità, nascoste sotto la coltre di un arcaico linguaggio (quello di Varisco e dello stesso Rosmini) , che non del suo rapporto con il pensatore roveretano. E lo 130

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di essere almeno di scorcio rievocata è chiaro. La logica più profonda che agiva alla radice del suo pensiero e ne costituiva il tema dominante avrebbe in effetti richiesto che Gentile lo svolgesse nel senso e nel segno dell'assoluta, intrascendibile, non obiettivabile attualità dell'atto; che, dopo essere stata af­ fermata con le parole, doveva essere radicalizzata ed essenzia­ lizzata nella consapevolezza che, se l'atto è sul serio l'atto, né innanzi a sé, e nemmeno per altro dopo di sé, può avere una «potenza», con la quale debba comunque entrare in contatto. Era insomma, per usare un simbolo storiografico, e di alquanto paradossale intenzione, un esito rigorosamente megarico quel­ lo da cui il pensiero di Gentile era atteso, e al quale invece non pervenne. Non vi pervenne (nella sua, s'intende, soggettiva consapevolezza) , e l'attesa risultò delusa, perché egli riteneva che, se l'atto fosse stato inteso così, come a tal punto in atto che ogni differenza ne fosse essa stessa stata rivelata come nient'altro che identica alla sua intrascendibile identità, non ci sarebbe stato più alcun modo di mostrarne l'interno dinami­ smo e dialettismo. L'atto non avrebbe avuto né respiro né, quindi, :y!g. Ed era perciò, trasfigurata e resa interna al suo sistema di pensiero, l'istanza crociana (ma anche platonica, anche aristotelica, anche hegeliana) della «differenza» quella alla quale Gentile dava qui ascolto; e tanto più, si badi, quanto meno fosse, per un altro verso, disposto ad articolare l'atto in forme distinte e a stringerne quindi, attraverso le distinzioni, l'unità. Ciò nonostante, distinse anche lui (e per questo, non per ragioni estrinseche, affermò che la critica rivolta da Croce al suo monismo e panlogismo egli la intendeva, in senso pro­ fondo, come l'autocritica della sua filosofia) . Distinse, e della distinzione volle assumere in proprio la responsabilità. Distin­ se, e della categoria relazionistica all'interno della quale l'eser­ cizio del distinguere necessariamente trova posto, pagò lui pu­ re le pesanti conseguenze aporetiche. -

hanno perciò connesso a Kant per cogliere, lungo questa via, le possibili, nascoste, relazioni e affinità che, in obiecto, il suo pensiero rivelerebbe, nella questione della temporalità, con quello di Heidegger. Non è una questione che possa essere affrontata, discussa, e decisa qui. Ma è notevole che nel libro a tutt'oggi (per quel che so) più completo che gli sia stato dedicato, e cioè quello di G. Semerari, Storicismo e ontologismo critico, Manduria 1 964 , non solo d i questa polemica che oppose Carabellese a Gentile n o n s i parli, ma nemmeno, in generale, di Rosmini, che pure è un pensatore del quale, non solo da giovane, ma sempre, Carabellese si prese cura.

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Sono le questioni che in altra sede sono state sottoposte ad analisi e, per quanto era in noi, illu strate e dispiegate nelle loro conseguenze 3 5 • E qui non occorre ripeterle se non per far vedere come l'ambiguo rapporto della potenza e dell'atto, del­ l' atto e della potenza, abbia proiettata la sua incerta luce sullo stesso atto puro. n quale, come logo, per un verso emerge dalla natura, nella quale stava immerso come immemore di sé, per una sorta di richiamo che dall'esterno, o da un interno coscienzialmente non inerte, gli pervenga, lo colpisca e lo ri­ desti dal sonno: emerge dalla natura, e perciò è costretto a presupporla, anche nel caso in cui questa, la natura, non sia se non il suo essersi (ma come? perché? ) alienato in essa. E per un altro coincide invece con sé stesso, con il puro atto di questo coincidere con sé: anche se poi, proprio come accade nel rapporto della potenza e dell'atto, l'atto del coincidere con sé, l'atto in atto, o l'atto dell'atto, siano, in questo medesi­ mo giro, la loro propria risoluzione nel fatto, nell'astratto, di nuovo nella natura. E il volto della potenza, che pure a ragio­ ne, per un aspetto, Gentile dichiarava posteriore all'atto, tor­ nava a recare su di sé, profondamente inciso, il segno dell'an­ teriorità. Non è per conseguenza una stravaganza, o un sem­ plice caso, ma è al contrario una necessità da spiegarsi in questo stretto giro di concetti, se, nel ripensamento del siste­ ma al quale dette mano ne La filosofia dell'arte, Gentile ripre­ se la teoria rosminiana del «sentimento fondamentale» 36 ; che interpretò bensì con la massima libertà, e quasi in forma sim­ bolica; ma attraverso la quale ancora una volta cercò di con­ trastare ( dell'atto puro il sentimento fondamentale costituisce qualcosa come un 'ideale radice, una sorta di coinvolgimento cosmico, un 7te:: p tixov) la spinta che da sé stesso il suo pensie­ ro riceveva a risolversi in forme megariche, nell'immobile in­ trascendibilità dell'atto.

35 Si veda nel primo dei due saggi raccolti in questo libro; e soprat­ tutto, Filosofia e idealismo, I I , Giovanni Gentile, Napoli 1 995 , pp. 1 65 ss. 36 Filosofia e idealismo, 11, pp. 1 3 -68. 132

IND I CE DEI NOMI

Aquilecchia, G., 3. Aristotele, VII, IX, l , 3, 7, 20, 30, 3 1 , 32, 33, 34, 3 5 , 36, 37, 40, 4 1 , 44, 45, 47, 48, 5 1 , 52, 54, 57, 59, 60-8 1 , 83, 87, 88, 9 1 , 96, 99, 1 1 5 ,

D'Angelo, A., IX, 86. Del Lungo, I. , 4. D'Ovidio, F., 4. Eschilo, 1 2 5 .

1 24. Ferrari, M . , 1 02 . Fritz, K . von, 9 5 .

Bacone, F . , 32. Barth, K. , 5 5 . Bergson, H . , 93. Billot, L., 86. Bonitz, H . , 65, 74. Bruno, G., 3, 1 08 .

Giannantoni, G . , 95. Gioberti, V., 3 1 , 4 5 , 1 08 . Glockner, H . , 30. Goethe, J.W., 56. Guglielmo di Moerbeke, 87.

Calogero, G . , 6 9 , 1 28 . Cambiano, G . , 9 5 . Campanella, T., 1 08. Carabellese, P . , 1 0 1 - 1 32 . Carlini, Armando, 6 9 . Cartesio, R. , 36. Caviglione, G., 1 02 , 1 03 . Colamarino, G . , 20. Croce, B., VIli, 4, 7 , 8, 9 , 1 0, 1 1 , 1 3, 1 5 , 1 6, 1 7, 23, 29, 44, 84, 1 03, 1 1 4, 1 3 1 .

Hegel, G.W. F . , 1 3, 29, 30, 3 1 , 99,

1 08. Heidegger, M . , 1 3 1 . Humboldt, W. von, 27. Jaeger, W., 62, 63 . Kant, I . , l , 36, 37, 53, 99, 1 04, 1 07, 1 08, 1 09, 1 1 2 , 1 1 3, 1 1 4, 1 30. Leibniz, G.W., 1 22.

133

INDICE DEI NOMI

Lombardo Radice, G . , 1 03.

Ross, D . , 65, 72.

Masci, F . , 1 02. Megarici , VII, IX, 96, 1 32. Mign i n i, F . , 86. Morando , G., 1 02. Murri, R. , 3 1 , 83, 8 5 , 86, 87, 89 , 90, 92, 93, 99. Musté, M., IX.

Salvatorelli, L., 83. Schin ai a , A., IX. Semerari, G., 1 04 , 1 3 1 . Socrate, 30. Spaventa, B . , 1 03, 1 04 , 1 09. Spirito, U., 27.

Nardi, B. 34. Negri, Antimo, 57. Ollé-Laprune, L., 3 1 , 83, 84, 8 5 , 86. Omodeo. A. , 53. Orestano, F., 1 06. Parmenide, 76, 77. Piovani, P., 1 03 , 1 07. Platone, 14, 33, 34, 3 5 . Reale, G . , 6 3 , 6 5 , 7 5 . Rosmini, A. , 3 1 , 45, 1 0 1 - 1 32.

1 05 ,

1 08,

Tasso, T., 44. Telesio, B., 47. Tilgher, A. , 20. Tommaso d 'Aqu i n o, 30, 72, 99, 1 22. Trendelenburg, A. , 57, 70. Valéry, P., 1 28, 1 29 . Varisco, B . , 1 02, 1 09 , 1 30. Weischedel, W. , 1 1 3. Zenone di Elea, 1 28 .

134

Biblioteca di cultura

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5. M ari a Luisa Gengaro, Nove capitoli delle arti figurative. Prefazione di A. Banfì . 6. Giulio Augusro Levi, Da Dante al Machiavelli. 7. Giulio Augusro Le vi, Dall'Alfieri a noi. 8-9. Mario Umerstei ner, Sofocle. Studio critico, 2 voli.

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34. Glauco Nawli , Scrittori francesi. Situazioni e as pe r ti . 3 5 . Giuseppe Faggin, Schopenhauer. Il mistico senza Dio. 36. Dario Faucci, Storicismo e metafisica nelpensiero crociano. Saggio d'interpretazione. 37. Mario C o rs i , Le origini del pensiero di Benedetto Croce. 3 8 . Achille De Ruberris, Nuovi studi sulla censura in Toscana. Con documenti inediti. 39. T ullio Mogno, La filosofia.

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