La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza 8832870584, 9788832870589

È questa un'indagine multidisciplinare sulla natura del male politico, sui modi concreti in cui esso si è manifesta

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Italian Pages 298 [300] Year 2019

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La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza
 8832870584, 9788832870589

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Renzo Paternoster

LA POLITICA DEL MALE

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Il nemico e le categorie politiche della violenza

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Indice

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Prologo

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Capitolo I La figura del nemico 1.1. Dallo straniero al nemico, 17 – 1.2. Dal nemico assoluto a quello convenzionale, 20 – 1,3. Dal nemico ideologico a quello illegittimo, 25 – 1.4. Dal nemico di classe a quello totale, 27 – 1.5. Dal nemico etnico a quello globale, 32.

37

Capitolo II Il Male e la violenza 2.1. Il Male e la banalità del Bene, 37 – 2.2. Il corpo come luogo del Male, 43 – 2.3. La violenza e l’archetipo fondatore, 45 – 2.4. La violenza politica, 49 – 2.5. La deumanizzazione, la giustificazione del Male, 53 – 2.6. Esclusione morale delle vittime e disimpegno morale dei carnefici, 57.

65

Capitolo III Il nemico da discriminare 3.1. Razzismo, pregiudizi e stereotipi, 65 – 3.2. “Razze”, diversità e discriminazione, 69 – 3.3. Il peso della tradizione biblica, 72 – 3.4. Dal razzismo culturale a quello scientifico, 76 ‒ 3.5. Il razzismo nel XXI secolo, 80.

9

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87

Indice

Capitolo IV Il nemico torturato 4.1. La tortura, una pratica antica, 87 – 4.2. Un percorso storico, 90 – 4.3. Contro la tortura, 94 – 4.4. Torture dittatoriali, 99 – 4.5. Torture democratiche, 106.

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113

Capitolo V Il nemico imprigionato 5.1. Dal carcere ai luoghi di internamento, 113 – 5.2. La funzione dei campi per civili, 120 – 5.3. La forma campo, 123 – 5.4. La (non) vita nei campi, 127 – 5.5. L’evoluzione dei campi, 131.

139

Capitolo VI Il nemico violato 6.1. La donna, il “nemico” dell’uomo, 139 – 6.2. I tortuosi sentieri della violenza sessuale, 146 – 6.3. Il corpo della donna come bottino, 150 – 6.4. Il corpo della donna come campo di battaglia e luogo di dominio, 155 – 6.5. Stupri etnici e stupratori “umanitari”, 163.

171

Capitolo VII Il nemico da uccidere 7.1. Modi di uccidere, 171 – 7.2. La morte nelle guerre contemporanee, 179 – 7.3. Lo sterminio di massa: quale riflessione linguistica, 185 ‒ 7.4. Massacri e stermini nella storia, 192 ‒ 7.5. La morte come programma politico, 199 – 7.6. Massacri e stermini contemporanei, 205.

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Indice

219

11

Capitolo VIII Il nemico ucciso 8.1. Sulla morte, 219 – 8.2. Il corpo morto, 222 – 8.3. Il corpo del nemico ucciso, 224 – 8.4. Il nemico da mangiare, 228 ‒ 8.5. Il corpo del nemico da dissolvere, 230 ‒ 8.6. Il nemico desaparecido, 237 ‒ 8.7. Il corpo-morte, 244.

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255

Epilogo 9.1. La vergogna e la colpa, 255 – 9.2. “Comuni” carnefici, 258 – 9.3. L’importanza del Ricordo, 260 – 9.4. La pedagogia attraverso il dolore, 263.

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Bibliografia

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Prologo

Annick Cojean, giornalista francese, racconta che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, questa lettera ai suoi insegnanti: Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università. Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.1

Ecco, è proprio l’umanità perduta l’argomento di questo lavoro. Uno studio di un’Umanità seviziata, violata, imprigionata e sterminata da parte di una politica oscena che si è fatta criminale. Questo saggio che il lettore ha tra le mani non è tuttavia una storia della violenza (su cui esistono per altro ricostruzioni degne di nota) e neppure un trattato di sociologia della violenza (anche in questo caso ci sono approfondimenti illuminanti). 1

A. COJEAN, Les mémoires de la Shoah, in «Le Monde», 29 aprile 1995.

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Prologo

Non si tratta nemmeno di formulare sentenze, questo è compito dei giudici. È piuttosto un’ipotesi di lavoro che, spiegando gli eventi crudeli prodotti da una politica dispotica, cercherà d’impegnare la curiosità intellettuale del lettore per stimolarne l’interesse e promuovere il suo pensiero critico nei confronti di una politica che vuole dominare anche la storia. Attraverso un percorso multidisciplinare, questo lavoro di ricerca, dunque, ha voluto cercare i caratteri persistenti di politiche che si sono abbandonate alle perversioni, quindi ha indagato sulla natura del male politico, ma anche sui modi concreti in cui esso si è manifestato e sulle origini delle pratiche che l’hanno reso sempre più crudele. Il menù della cattiveria, l’antologia dei dolori del mondo prodotti da una politica che mortifica la vita e finanche la morte, è vasto. Dunque questo lavoro indagherà in questa estensione violenta, facendo capire che tutte le malvagità sono certamente uniche, ma, pur variando le forme di crudeltà, ogni male ha uguale valenza al pari degli altri. Questo sia per dare medesima dignità alle vittime sia per cogliere al meglio i meccanismi di ciascuno. Il senso comune predominante abbraccia la tesi della “belva umana”, secondo la quale lo stato di natura degli esseri umani è violento. In questo lavoro sarà smontata questa tesi, perché il comportamento criminale non è affatto la conseguenza di una particolare predisposizione né di un individuo né di un popolo, perché tutti possiamo diventare carnefici ed essere sedotti da un “Bene banale”. Anche l’assunto che innalza la cultura all’opposto della violenza devastatrice sarà scomposta, perché, come ricorda la lettera del preside americano, molti carnefici avevano istruzione medio–alta. La violenza politica, inoltre, non è patrimonio esclusivo di un popolo o di uno Stato. Sicuramente «la democrazia non produce gli stessi effetti del totalitarismo», afferma Tzvetan Todorov, che ha vissuto sulla sua pelle la negazione dei diritti umani fondamentali, «tuttavia i bambini massacrati non fanno diffe-

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Prologo

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renza tra bombe totalitarie e bombe umanitarie, atomiche o convenzionali»2. C’è un’accumulazione di convenzioni internazionali a protezione dei diritti umani, anche in caso di guerre, tuttavia la storia insegna che le disposizioni che nascono da questi accordi sono quasi sempre disattese. Dunque le leggi, pur impiantando principi fondamentali, sono inefficaci dinanzi a scelte individuali. Pertanto, ogni sterminio, ogni crudeltà politica non sono eventi metafisici, ma il frutto di scelte. Ogni carnefice è un individuo che sceglie, ogni vittima è una persona che è risucchiata fuori dalla storia a causa di queste scelte. Non mi dilungherò molto in questa introduzione, per permettere al lettore di entrare subito in contatto con la realtà del male politico, per aiutarlo a riflettere criticamente, al termine della lettura, sul nostro tempo. Solo un’avvertenza prima di continuare: per l’intrecciarsi degli argomenti, molti crimini sono ripresi più volte nei vari capitoli per esaminarli sotto più punti di vista e avere un quadro più completo. Mi auguro che questo lavoro di ricerca faccia vergognare il lettore, quella vergogna che i vari carnefici non hanno saputo esprimere, che non hanno voluto esprimere. Io per primo ho provato vergogna nello scoprire e studiare l’indicibile, dominando in me l’impulso di fermarmi, poiché il mio spazio morale e mentale è stato continuamente sollecitato, provocando un profondo e doloroso turbamento interiore. Ma ho continuato, nella vergogna che mi assaliva sempre di più ho continuato, sperando di trasmettere questa emozione al lettore, per stimolare un’autovalutazione e proiettarlo nella difesa ad oltranza dei diritti umani dinanzi a qualsiasi politica che si fa criminale e riconoscersi in valori che devono essere comuni a tutta l’Umanità. La vergogna può essere azione. Se uno Stato o un gruppo umano vara programmi di sterminio, di espulsioni, di violenze in massa, di politiche razziali, 2

T. TODOROV, Mémoire du mal. Tentation du bien. Enquéte sur le siècle, Robert Laffont, Paris 2000, trad. it. Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001, p. 348.

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Prologo

queste non potranno essere prodotte se mancano gli “operai” che l’attuano. Dare il via a uno sterminio, a una politica razziale, a una violenza di massa è una scelta, una pura scelta non determinata da forze o strutture astratte: sono gli esseri umani a fare politica, non le cose. Ognuno di noi ha la possibilità di influire positivamente sui presupposti oggettivi di una violenza politica attraverso un grande potere: il potere di scegliere. Questo è il minimo che possiamo fare, ma almeno facciamolo. Nonostante dopo la scoperta di Auschwitz si è detto che non sarebbe successo più, la sua logica ha continuato a mietere vittime innocenti e la storia si è ripetuta. L’orrore dunque è sempre in agguato, non smette di far parte della nostra storia, continua a irrompere prepotentemente. Mi chiedo: ci deve pur essere un confine al male. No, purtroppo non c’è e, come vedremo, la storia lo insegna.

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Capitolo I

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La figura del nemico

1.1. Dallo straniero al nemico Fin dai tempi più remoti, secondo il contesto sociale, civile e geografico, l’uomo ha avuto una percezione diversa dello straniero. Spesso egli è percepito in maniera negativa, etichettato come “diverso”, come qualcuno che “non appartiene” e, quindi, di cui non ci si può fidare. Lo stesso termine “straniero”, ha uguale radice dei vocaboli “estraneo” e “strano”, indicando ciò che è “di fuori”, “esterno”, “diverso da me”. Lo “stra–” iniziale della parola, che deriva dalla forma latina extra, ci consegna l’immagine di qualcosa che “sta fuori” rispetto a “ciò che sta dentro”. È quindi un discrimine che nasce geograficamente, ma che diventa politico–sociale. Nelle lingue indoeuropee il vocabolo che indica lo straniero racchiude in sé tutto il repertorio dei significati semantici dell’alterità, quindi forestiero, estraneo, nemico, in sintesi tutto ciò che è “Altro” da noi. Siamo dunque di fronte a tre antinomie: intero/esterno, che riporta a un luogo; estraneo/proprio, che rinvia a un possesso; strano/familiare, che rimanda alla comprensione. In generale nel mondo classico, l’idea di straniero come “qualcosa che non appartiene” è radicata, perché chi è estraneo al mio spazio, alla mia vita, è “strano”. Tuttavia, almeno ini17

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La politica del male

zialmente, non si ha un’accezione negativa del termine straniero. Nell’antica Grecia lo straniero è il xénos (ξένος), l’ospite di fuori che deve essere accolto rivestito di dignità e rispetto, poiché era convinzione che gli dei, sotto mentite spoglie, visitassero gli esseri umani per testare la loro bontà e ospitalità. L’accoglienza allo straniero, dunque, almeno nella sua prima fase, è accordata senza nessuna condizione, poiché egli era protetto da Zeus1. Qualora fosse stato necessario, ci si difendeva dallo straniero solo dopo averlo accolto e averlo stimato come persona ostile. Con l’evolversi della lingua, xénos arriva a significare “straniero” e, unito a fobia, questa parola inizialmente dall’accezione positiva, cambia del tutto di senso producendo oggi il termine “xenofobia”, paura dello straniero. Lo stesso vale per gli antichi Romani. Nella Roma arcaica il termine per indicare lo straniero è inizialmente hostis, che pure identificava l’ospite da riverire. Questo è riportato anche in un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.), da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano accreditati gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano)2, prerogative garantite dallo Stato Romano. Successivamente il termine hostis assume una connotazione oppositiva e si carica di significati, appunto, ostili: quindi lo “straniero” diventa un nemico3, mentre per indicare colui “che viene da fuori pacificamente” si comincia a usare il termine hospes, da cui viene “ospite”.

1 Cfr. F. GIUSTINELLI, Letteratura e pregiudizio. Diversità e identità nella cultura greca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 113–116. 2 Cfr. A. ACCARDI, M. COLA, Guerra e partnership. Una riflessione sull’ambivalenza di Hostis, in «I Quaderni del Ramo d’Oro», n. 3, 2010, p. 228, http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/Guerra_e_partnership.pdf 3 Cfr. L. SOLIDORO, Sulla condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, «Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze», Vol. 1, 2006, pp. 21–36.

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I. La figura del nemico

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Sia per i Romani sia per i Greci, tuttavia, l’ospitalità concessa allo straniero pacifico non

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dà origine ad alcun processo assimilativo: lo hostis, lo xénos, è sacro proprio nella sua identità ed individualità altra rispetto a quella dell’ospite. E l’ospite, a sua volta, è sempre anche hostis, è sempre anche nella condizione di divenire a sua volta straniero, viandante bisognoso d’ospitalità. Nello hospes vive anche lo hostis, e nello hostis lo hospes.4

Nel momento in cui il forestiero diventa nemico, lo spazio del confine tra il “Noi” e l’“Altro straniero”, da geografico e linguistico diventa politico, culturale e religioso: l’estraneità geografica e linguistica si associa inevitabilmente a quella mentale e lo straniero diventa qualcuno da cui tutelarsi5. Tuttavia, anche quando lo straniero, ossia colui che viene da fuori, diventa nemico, gli antichi non ne fanno una questione razzista, ma un problema politico unicamente legato alla sua manifesta ostilità, sebbene rimane sempre aperta la possibilità che egli possa convertirsi in “ospite” dimostrando la sua amicizia. Per questo lo straniero ostile è un “nemico convenzionale”, da integrare all’interno dell’Impero una volta conquistato. Le cose cambiano dal III secolo, quando le scorrerie per fini di saccheggio e bottino condotte da guerrieri appartenenti alle popolazioni che gravitavano lungo le frontiere settentrionali, minacciano più seriamente Roma: il nemico diventa il “barbaro”, egli ha lo status hostilis e per questo è soggetto a processi di disumanizzazione6. Lo straniero è sicuramente chi dimora oltre i confini, ma può essere anche chi abita all’interno del mio “spazio”, del mio or4

M. CACCIARI, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, p. 33. Cfr. B. WALDENFELS, Phänomenologie des Fremden, Suhrkamp, Frankfurt 2006, trad. it., Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. 6 Cfr. F. CONDELLO, I nomi del nemico: appunti sul lessico classico, «Griseldaonline», IV, 2004, http://www.griseldaonline.it/temi/il-nemico/i-nomi-delnemico-condello.html 5

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La politica del male

dine politico–sociale, ma in posizione “strana”, “estranea” appunto, perché non conforme alle idee politiche o alle norme sociali vigenti. Il discrimine, abbandonato il confine geografico, resta di natura politico–sociale. Nel corso della storia, ad esempio, l’omosessuale è considerato uno straniero nel senso etimologico del termine, perché “estraneo” alla cultura dominante, per questo egli è relegato fuori dalla società, quindi esiliato, imprigionato, ucciso. Lo stesso vale per le altre categorie politiche, etniche e sociali, quali gli oppositori politici interni, oppure quelli che professano una religione diversa da quella nazionale e così via. Così, se l’hostis è il forestiero nemico, lo “straniero” interno è l’inimicus, il concittadino rivale, che diventa adversari quando si scontra sul terreno del confronto politico7. Egli è ancor più pericoloso dello straniero ostile, perché è uguale a noi, celandosi tra noi: se i nemici esterni sono identificati come “loro”, come gli “altri”, quelli interni sono una parte del “noi” che non vuole essere come noi. 1.2. Dal nemico assoluto a quello convenzionale La Chiesa di Roma trasforma la teoria del nemico. Infatti, l’ingresso sulla scena politica del cristianesimo, religione con vocazione universale (cattolica, appunto)8, muta radicalmente l’immagine del nemico: il nemico diventa assoluto perché dall’esterno, con una religione diversa, minaccia la Respublica 7

Il competitor è invece l’avversario in un conflitto d’interessi Cfr. M. MORANI, Il nemico nelle lingue indoeuropee in AA VV., Amicus (Inimicus) Hostis. Le radici concettuali della conflittualità “privata” e della conflittualità “politica”, a cura di G. MIGLIO, Giuffrè, Milano 1992, pp. 9–69. 8 Cattolico deriva dal greco katholikôs, e indica “ciò che forma un tutto”. Il legame fondamentale di questa Chiesa si instaura con la figura storica del Cristo e non con un luogo geografico determinato. Ciò conferisce a questa religione una dimensione universale, che trascende i confini di una specifica regione. Cfr. J.B. DUROSELLE, J.B. MAYEUR, Histoire du catholicisme, Press Universitaires de France, 1985, trad. it., Storia del cattolicesimo, Roma, 1994, p. 10.

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I. La figura del nemico

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christiana; dall’interno, invece, attraverso l’eresia mina irrimediabilmente le Verità possedute e controllate dal Pontefice e dalla sua Chiesa, mettendo in pericolo l’unità dei cristiani9. Nel Medioevo, così, al nemico tradizionale si aggiunge quello di religione, un nemico demoniaco e con tratti zoomorfi. Individuarlo e combatterlo diviene un merito e un santo dovere. Ecco la Chiesa invitare i poteri secolari cristiani a difendere l’ortodossia della religione cristiana e dei suoi luoghi più sacri (la Terra Santa). Ecco che compare una forma di vita consacrata con una “missione” di tipo militare, benedetta per secoli dalla Chiesa di Roma. I Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (meglio conosciuti come cavalieri Templari), l’Ordine Militare e Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme (Lazzariti), l’Ordine Canonicale del Santo Sepolcro, i Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme (Ospitalieri), l’Ordine dei Fratelli della Casa Ospitaliera di Santa Maria dei Teutonici in Gerusalemme (Teutonici), l’Ordine Ospitaliero d’Altopascio (cavalieri del Tau), l’Ordine militare di San Benedetto d’Avis, l’Ordine Militare di Alcántara, l’Ordine di San Giacomo della Spada, i Frati della militiae Christi (cavalieri Portaspada), l’Ordine di San Giovanni e San Tommaso, il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, i Crocigeri della Stella Rossa (Betlemitani), il Sacro Ordine Societas Jesu Christi, i Frati della cavalleria di Evora, il Sacro Militare Ordine di Santo Stefano e molti altri, sono ordini religioso–militari e confraternite militari che combattono in nome della fede un nemico totale10. Il culto di “santi militari”, tra cui san Michele Arcangelo, san Giorgio, san Sebastiano, santa Barbara, san Maurizio, san 9

Cfr. P.F. BEATRICE (a cura di), L’intolleranza cristiana nei confronti dei pagani, EDB, Bologna 1993; G. RUGGIERI (a cura di), I nemici della cristianità, il Mulino, Bologna 1997; A. SANTOSUOSSO, Barbari, predoni e infedeli, Carocci, Roma 2005. 10 Cfr. A. DEMURGER, Chevaliers du Christ, les ordres religieux militaires au Moyen Âge, Le Seuil, Paris 2002, trad. it., I Cavalieri di Cristo. Gli ordini religioso–militari del medioevo (XI–XVI secolo), Garzanti, Milano 2004; R. AFFINATI, Ordini religioso–militari, Edizioni Chillemi, Roma 2009.

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La politica del male

Martino e così via, rafforza il fanatismo devozionale di queste confraternite armate. Poiché il nemico religioso è assoluto si conia finanche un concetto per raggirare il quinto dei comandamenti dati da Dio a Mosè, che prescrive “non uccidere”: “malicidio”. Il concetto è elaborato dell’abate e teologo francese Bernardo di Chiaravalle (1090–1153)11 nel De laude novae militiate ad Milites Templi, giustificando così l’uccisione di una persona con l’estirpazione di un male assoluto, come l’eliminazione fisica dell’incarnazione del male, pur restando il pagano ostile ucciso degno d’amore in quanto uomo. Dunque per Bernardo, «Il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo»12, dunque, «Chi uccide un malfattore, non è omicida, ma malicida e rappresentante di Cristo contro coloro che compiono il male, e sarà considerato difensore dei cristiani»13. In questo modo la morte data e ricevuta nel nome di Cristo non comporta peccato, ma procurava vera gloria14. Allo stesso tempo la Chiesa accende i roghi della “Santa Inquisizione”, per “bruciare” i nemici interni alla cristianità (eretici, streghe, scienziati non conformi alle dottrine cristiane e così via)15. 11 Canonizzato nel 1174 da papa Alessandro III e proclamato “Dottore della Chiesa” da papa Pio VIII nel 1830. Sul santo e teologo francese, cfr. J. CHABANNES, Saint Bernard, France–Empire, Paris 1963, trad. it. Bernardo di Chiaravalle mistico e politico, Città Nuova, Roma 2001. 12 De laude novae militiate ad Milites Templi, III,4. 13 Ibidem. 14 Sull’argomento cfr. F. CARDINI, La nascita dei Templari. San Bernardo di Chiaravalle e la Cavalleria mistica, Il Cerchio, Rimini 1999; Aa. Vv., I Templari, la guerra e la santità. Il Cerchio, Rimini 2000. 15 In realtà sarebbe più corretto parlare di inquisizioni, poiché si sono realizzate nel corso della storia differenti istituzioni a carattere giudiziario e repressivo. Sull’argomento cfr. F. CARDINI, M. MONTESANO, La lunga storia dell’inquisizione. Luci e ombre della “leggenda nera”, Città Nuova, Roma 2005; M. BAIGENT, R. LEIGH, The Inquisition, Viking, New York 1999, trad. it., L’inquisizione. Persecuzioni, ideologia e potere, il Saggiatore, Milano 2010.

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I. La figura del nemico

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In un momento di crisi della Chiesa di Roma, individuare un nemico dove riversare le colpe delle disgrazie del mondo diventa improrogabile. Attraverso la scure della Santa Inquisizione la Chiesa ha provveduto a far tacere i nemici, a terrorizzare i dissidenti, a ghettizzare ancor più gli ebrei, a frenare scienziati e liberi pensatori, tutti accusati di improbabili reati. Così di fronte a questa supposta “congiura diabolica” tutto è permesso all’inquisitore, pur di bloccare i nemici dell’ortodossia: dalla scomunica alle epurazioni, dalle conversioni forzate alla prigionia, dai supplizi alla morte sul rogo. Spenti i roghi, streghe e “diavoli umani” paradossalmente spariscono16. La scoperta di “nuovi mondi” popolati da popolazioni sinora conosciute, con struttura fisica differente dal fenotipo noto in Europa, determina una nuova “alterità”: questi popoli sono giudicati “non umani”, privi di ragione, sentimento e moralità, e per questo o sono sterminati o sottomessi. Partendo dal presupposto che quei popoli sono considerati selvaggi e privi di ragione, e quindi “stranieri all’umanità”, è rispolverata la teoria aristotelica della schiavitù naturale applicandola a quelle genti17. Con la Riforma protestante (XVI secolo) la Respublica christiana è demolita da un nemico diabolico e con tratti zoomorfi: se per il Papa l’eretico Martin Lutero è una bestia immonda18, per molti riformatori protestanti il pontefice incarna la figura 16

Per l’Età medievale cfr. J.C. MAIRE VIGUEUR, Forme del conflitto e figure del nemico nel Medioevo: alcune riflessioni, in F. CANTÙ, G. DI FEBO, R. MORO, L’immagine del nemico. Storia, ideologia e rappresentazione tra età moderna e contemporanea, Viella, Roma 2009, pp. 23–30. 17 Cfr. T. TODOROV, La conquête de l’Amerique. La question de l’autre, Éditions du Seuil, Paris 1982, trad. it., La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1992; F. MIRES, En Nombre de la Cruz. Discusiones teológicas y políticas frente al holocausto de los indios, DEI, San José 1986, trad. it., In nome della croce. Dibattito teologico–politico sull’olocausto degli Indios nel periodo della Conquista, La Piccola Edizioni, Celleno 1991. 18 Scrive papa Leone X nel 1520 nella bolla Exsurge Domine rivolta al frate eretico Martin Lutero «Sorgi o Signore, un porco selvatico è entrato nella Tua vigna».

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La politica del male

apocalittica dell’Anticristo19 e la Chiesa, per la dottrina che insegna, è la “prostituta di Babilonia” profetizzata nell’Apocalisse20. Per i protestanti il Papato è così corrotto, da essere irriformabile e per questo va combattuto; per il Pontefice i riformatori sono diabolici sovvertitori e quindi nemici assoluti della Chiesa di Cristo: la diatriba si carica di motivi politici e, tra il XVI e il XVII secolo, inevitabilmente scoppiano guerre di religione imbevute di odio teologico, in cui il nemico è assoluto e va soppresso fisicamente21. Con l’affermazione dello Stato nazionale l’immagine del nemico è più determinata. Ora si impone una precisa distinzione tra quelli che si trovano all’interno o all’esterno della comunità degli Stati e tra quelli che si trovano dentro lo Stato. Poiché l’inimicizia è ora fra Stati, il nemico diventa convenzionale e di circostanza e, quindi, non è discriminato come criminale. Nel rapporto amico/nemico, dunque, manca ogni assunto di odio assoluto, poiché non esistono nemici “ereditari”, ma solo antagonisti con cui è sempre possibile riappacificarsi: mentre all’esterno del consesso degli Stati c’è ancora il barbaro incivile, che può sempre essere assoggettato, all’interno di ogni ordine politico, invece, l’antagonista perde la qualifica di nemico e acquisisce quella di criminale22.

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Nel Adversus execrabilem Antichristi bullam (1520) Lutero identifica il Papa come l’Anticristo e lo scomunica. Tale definizione è consolidata nel 1537 negli Articoli di Smalcalda, diventando un dogma per i luterani. Cfr. M. VANNINI, L’Anticristo. Storia e mito. Mondadori, Milano 2015, in particolare cap. V. 20 I calvinisti francesi (ugonotti), nel Sinodo di Gap del 1603 identificano il Papa come “figlio della perdizione” e il Papato come “prostituta vestita di colori scarlatti”. Cfr. ibidem. 21 Cfr. C. VIVANTI, Le guerre di religione nel Cinquecento, Laterza, Roma– Bari 2007. 22 Cfr. S. ANDRETTA, Note sulla natura dell’immagine del nemico in età moderna tra identità e alterità, in F. CANTÙ, G. DI FEBO, R. MORO, L’immagine del nemico, cit., pp. 31–40.

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1.3. Dal nemico ideologico a quello illegittimo La Rivoluzione francese torna a trasformare il nemico, che ridiventa assoluto, ma con l’aggiunta di due nuove qualifiche: illegittimo e ideologico, perché ostile ai nuovi “valori nazionali”. Il nemico è dunque screditato, senza alcuna distinzione fra nemico interno e nemico esterno. Egli minaccia sia dall’interno sia dall’esterno il vincolo sociale che la rivoluzione ha creato. Nella sua relazione alla Convenzione Nazionale, Sui principi di morale e politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica, del 17 piovoso anno II (5 febbraio 1794), il rivoluzionario Maximilien de Robespierre dichiara chiaramente che i nemici, in quanto assoluti e illegittimi, vanno trattati con terrore: Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in questa situazione, la massima principale della vostra politica dev’essere quella di guidare il popolo con la ragione, e i nemici del popolo con il Terrore.23

Quando la rivoluzione si trasforma in governo, instaura il cosiddetto “Regime del terrore” che, dal settembre 1793 al luglio 1794, scatena una violenta repressione contro gli oppositori politici, considerati traditori24. Il 17 novembre 1793 il rivoluzionario Louis Antoine de Saint–Just così giustifica questa campagna di terrore contro i nemici: «Fra il popolo e i suoi nemici non vi può essere nulla in comune se non la spada; dobbiamo governare con il ferro coloro che non si possono governare con la giustizia»25. L’unico mezzo di comunicazione tra 23

Cfr. M. ROBESPIERRE, La rivoluzione giacobina, a cura di U. CERRONI, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 161–168. 24 Cfr. R. MARTUCCI, Lesa nazione, lato oscuro dell’Ottantanove. La rivoluzione francese e il suo nemico interno (1789–1791), in «Quaderni fiorentini», XXXVIII, 2009, pp. 321–418 25 In S. SCHAMA, Cittadini. Cronaca della Rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1989, p. 796.

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l’amico e il nemico interno della rivoluzione diventa dunque la ghigliottina, elevata a strumento pedagogico per le masse26. Il nemico esterno, invece, è combattuto con un classico conflitto tra Stati. Lo spirito della rivoluzione in Francia, con la sua radicale ispirazione a liberarsi definitivamente dai suoi nemici, è tutto racchiuso nella Marsigliese27, l’attuale inno nazionale francese, una chiamata alle armi contro il nemico così che il suo sangue possa riempire le strade e le campagne: Avanti, figli della Patria, il giorno della gloria è arrivato! Contro di noi della tirannia, la bandiera insanguinante è innalzata. […] Alle armi, cittadini. Formate i vostri battaglioni. Marciamo, marciamo! (Marciate, marciate!), che un sangue impuro abbeveri i nostri solchi!28

Con l’occupazione della Spagna da parte dell’esercito francese nel 1808, il concetto di nemico si carica di nuovi significati: egli diventa spregevole, privo di onore militare e criminale, per questo illegittimo. Infatti, l’arroganza imperialista di Napoleone incontra in Spagna un nemico inusuale, non un avversario militarmente ordinato e identificabile, ma un intero popolo in 26

Questo strumento di morte prende il nome dal fisico Joseph–Ignace de Guillotin, che lo propose all’Assemblea Legislativa di Parigi come metodo meno barbaro per i nemici condannati alla pena capitale. Tuttavia non è un’invenzione dei francesi, perché già altrove erano utilizzati marchingegni simili (in Inghilterra, il Gibbet di Halifax, utilizzato dal 1280; in Irlanda nel 1307; in Scozia, la Scottish Maiden, dal Cinquecento; nella Roma papalina cinquecentesca, la “Mannaia romana”, una crudele diavoleria molto simile alla ghigliottina francese, ma dotata di lama a forma di mezzaluna anziché obliqua. Cfr. A. CASTRONUOVO, La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina, Stampa Alternativa, Viterbo 2009. 27 L’inno assunse il nome di Marsigliese perché cantata dai volontari provenienti da Marsiglia al loro arrivo a Parigi. Cfr. H. LUXARDO, Histoire de la Marseillaise. Plon, Paris 1989. 28 «Allons enfants de la Patrie, le jour de gloire est arrivé! Contre nous de la tyrannie, l’étendard sanglant est levé. […] Aux armes, citoyens. Formez vos bataillons. Marchons, marchons! (Marchez, marchez!), qu’un sang impur Abreuve nos sillons!». Il testo in La Marseillaise de Rouget de Lisle, «Elysee – Présidence de la République», http://www.elysee.fr/la-presidence/lamarseillaise-de-rouget-de-lisle/. Traduzione dell’autore.

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I. La figura del nemico

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armi, che utilizza una strategia militare “alternativa”, alla quale i reparti regolari francesi non sono preparati: la guerrilla, “piccola guerra”29. La guerriglia partigiana spagnola colma di odio verso gli occupanti alimenta la ferocia dei francesi: tutto diventa lecito, da una parte e dall’altra, e la lotta si trasforma in guerra senza quartiere, feroce e spietata. Il guerrigliero–partigiano spagnolo assume la qualifica di combattente illegittimo, quindi nemico assoluto e indegno di essere assoggettato al trattamento riservato tradizionalmente ai prigionieri di guerra, per questo se catturato è giustiziato. L’invasore francese è anch’egli assoluto, perché criminale e subdolo30, e va combattuto senza pietà. La Rivoluzione francese inaugura dunque l’idea del nemico assoluto, che contribuisce a consolidare l’identità Noi/Loro. Questa visione del nemico non solo è lasciata in eredità al regime napoleonico, ma prepara la logica posta in essere dalle realtà politiche del Novecento sull’“assolutizzazione” della figura del nemico. 1.4. Dal nemico di classe a quello totale Con la nascita del marxismo il nemico diventa un avversario ideologico: all’idea di Nazione si affianca quella di classe. Così, al nemico politico si aggiunge un nuovo avversario: il nemico di classe. Si legge nel Manifesto del Partito comunista: 29

Il termine “guerriglia” nasce proprio per definire la resistenza spagnola contro l’esercito napoleonico durante la guerra peninsulare. La storia è tuttavia ricca di episodi di guerriglia fin dall’antichità, anche se non ebbero questo nome. Cfr. in breve il mio Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, pp. 110–115, più completo E. CECCHINI, La storia della guerriglia. Dall’antichità all’era nucleare, Mursia, Milano 1990 30 In una convenzione segreta firmata il 27 ottobre 1897, Francia e Spagna avrebbero dovuto spartirsi il Portogallo. In virtù di questo trattato fu permesso all’esercito francese di entrare in Spagna per dirigersi verso il Portogallo. Ma le cose cambiarono e i francesi si trasformarono in esercito di occupazione. Sulle origini e sull’andamento della guerra cfr. D. GATES, The Spanish Ulcer. A History of the Peninsular War, Da Capo Press, Cambridge 1986, ora 2001.

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La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi […] oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta […]. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato.31

I due avversari si inseriscono, dunque, in un quadro di una conflittualità, interna ed esterna, economica, sociale e politica. Questa conflittualità è condotta contro popoli, ideologie, forme di vita e di produzione32. Con l’avvento dei conflitti mondiali il nemico diventa totale, proprio come lo sono le due guerre che sconvolgeranno il mondo. Questi conflitti mondiali, poiché impregnati d’odio verso il nemico, segneranno un definitivo passaggio dalla crudeltà come fatto istintuale, alla crudeltà come frutto di una pianificazione, trascinando le parti in lotta in un processo cumulativo di reciproca distruzione33.

La Prima Guerra Mondiale inaugura la caratterizzazione del nemico, sia esterno sia interno, che torna a essere criminalizzato, enfatizzando la sua irriducibile diversità: In entrambi i casi, all’interno e all’esterno, si tratta di un nemico illegittimo sempre sull’orlo della disumanizzazione: la

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K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, (1848), Editori Riuniti, Roma 1983, p. 54. 32 Cfr. D. LOSURDO, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013, ora 2015. 33 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, cit., p. 94.

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sua immagine è quella di un sotto–uomo perverso e minaccioso perché rappresenta la nostra possibile degradazione; è per rendere evidente la sua pericolosità, per impedire che si mimetizzi con la sostanza genuina della politica, che si procede alla iper– rappresentazione del nemico, ossia lo si dipinge con tratti caricaturali, o grotteschi, o comunque con segnali vistosi, che ne denuncino e ne fissino la non piena umanità, che ne mostrino chiaramente la natura ibrida, cangiante, metamorfosata, in bilico fra umanità e bestialità. Quanto più il nemico è diabolico, e cerca di confondere e di confondersi, quanto più pretende di essere parte della civiltà e della verità, tanto più va smascherato e stigmatizzato.34

La guerra di trincea amplificò questa visione del nemico, ora nascosto il più delle volte nella trincea o dietro le nuove micidiali mitragliatrici: egli diventa un rivale dai contorni oscuri e inquietanti, da annientare a tutti i costi35. La criminalizzazione e la demonizzazione del nemico assume un ruolo importante, sia per motivare i soldati al fronte e accrescere l’odio nei loro confronti sia per mantenere coeso il fronte interno e mobilitare l’intera popolazione al grande sforzo bellico. La cultura di guerra imperniata sull’odio per il nemico fa decadere anche la tradizionale distinzione tra militari e civili e questi ultimi, pur non partecipando materialmente allo scontro armato, diventano a pieno titolo un obiettivo delle operazioni belliche. Un nemico totale non si deve solo sconfiggere, ma anche umiliare. Così, conclusa la guerra, negli accordi di Versailles del 1919 le Potenze vincitrici si dimostrano impietose verso il nemico tedesco. Oltre il ripristino dei confini territoriali, lo smantellamento dell’impero coloniale e le restrizioni al riarmo, 34

C. GALLI, Sulla guerra e sul nemico, «Griseldaonline», IV, 2004, http://www.griseldaonline.it/temi/il-nemico/sulla-guerra-e-sul-nemico-carlogalli.html 35 Cfr. P. FUSSELL, The Great War and the Modern Memory, Oxford University Press, Oxford 1975, trad. it. La Grande guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 2000, pp. 101–102.

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La politica del male

alla Germania è richiesto anche un’enorme cifra per le riparazioni dei danni provocati alle Nazioni aggredite, creando le condizioni di una crisi economica36. Inoltre alla Germania è attribuita per intero la responsabilità del conflitto, chiedendo la consegna del kaiser Guglielmo II di Hohenzollern per processarlo con l’accusa di «offesa suprema alla morale internazionale»37. Tutto questo suscitò, oltre il disonore militare, anche un’umiliazione psicologica in tutto il popolo tedesco. Il trattato di Versailles, per il suo carattere umiliante e punitivo servirà da terreno di coltura al nascente nazionalsocialismo tedesco, che a sua volta porterà alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Anche il patto Briand–Kellogg del 1928, trattato di rinuncia alla guerra sottoscritto da molti Stati, ha amplificato la criminalizzazione di un nemico che scatena una guerra38. Tuttavia, come ha scritto il filosofo tedesco Carl Schmitt, non si abolisce la guerra condannandola, anzi così facendo si criminalizza chi la pratica «ed è per questo che oggi la guerra si può fare solo nelle forme peggiori. Chi mi sta di fronte deve essere un criminale e come tale va eliminato»39. Con l’instaurazione dei regimi totalitari la contrapposizione amico/nemico raggiunge il suo apice. Ora il nemico racchiude tutte le caratteriste assunte nel corso dei secoli: è barbaro, è as-

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Nell’art. 231 del trattato si legge: «La Germania riconosce che lei ed i suoi alleati sono responsabili, per averli causati, di tutti i danni subiti dai Governi Alleati ed associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati». Il testo del trattato in «Herodote.net», https://www.herodote.net/Textes/tVersailles1919.pdf 37 Art. 227 del trattato. In ibidem. Il processo non ebbe comunque luogo. 38 Nonostante le buone intenzioni, nell’accordo mancava la previsione di qualsiasi sanzione a carico degli Stati inadempienti. Non solo, fino al 1939, nonostante ben 63 Stati avessero depositato le ratifiche, l’accordo non ha mai trovato applicazione. Il testo del patto in «Centro studi per la pace»: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=briandkellog. 39 C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Walther Rotschild, Berlin– Grunewald 1928, trad. it. Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1988, p. 120.

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I. La figura del nemico

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soluto, è totale. Per questo è ingiusto, illegittimo, demoniaco, ideologico, criminale. Solo l’odio è il sentimento che può legare l’amico al nemico. In questo il dittatore italiano Benito Mussolini è chiaro:

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Signori, non si fa la guerra senza odiare il nemico, non si fa la guerra senza odiare il nemico dalla mattina alla sera, in tutte le ore del giorno e della notte, senza propagare quest’odio e senza farne l’ultima essenza di se stessi. Bisogna spogliarsi una volta per tutte dai falsi sentimentalismi. Noi abbiamo di fronte dei bruti dei barbari.40

Il nemico esterno è un avversario ideologico e imperialista, perché insidia la Nazione, mettendo in pericolo la Patria. Egli va combattuto con una «guerra integrale — cioè una guerra che coinvolge Stato, società, esercito e partito, economia, politica, ideologia; insomma tutte le forme dell’umana esistenza»41. Il nemico interno è invece un antagonista del popolo, perché minaccia l’idea di Nazione. Egli può essere un antagonista attivo, un oppositore potenziale o un nemico oggettivo. Quest’ultimo è un nemico per definizione ideologica, quindi non per la sua condotta individuale, ma per le sue caratteristiche oggettive, quali l’orientamento politico o l’appartenenza a una classe/“razza” che l’ideologia del regime addita come ostile42. Egli è ancor più pericoloso del nemico esterno, perché vive e si cela nella Nazione: Nei totalitarismi compare una concezione della politica che dall’antagonismo arriva fino alle dinamiche della distruzione fisica del nemico interno, che nelle logiche totalitarie costituisce la pericolosa minaccia sia alla fondazione dell’identità poli40

B. MUSSOLINI, Discorso alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, 2 dicembre 1942, in «Prima linea. Settimanale della Federazione dei fasci di combattimento di Lubiana», 5 dicembre 1942, p. 3. 41 C. GALLI, Sulla guerra e sul nemico, cit. 42 Cfr. H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace and World, New York 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 578–582.

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La politica del male tica del regime sia alla colonizzazione delle coscienze. Per questo, il nemico interno è presentato nella sua ubiquità, nel suo essere al tempo stesso antagonista interno e avversario esterno: interno perché vive e opera dentro la comunità, esterno perché considerato estraneo alla stessa società.43

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Per questo il nemico interno va scovato: se irrecuperabile va soppresso, se “correggibile” va invece “raddrizzato” attraverso la rieducazione politica. In una logica di rifondazione del tessuto politico–sociale, ecco allora comparire i campi di concentramento per rieducare gli “elementi infetti” del sistema. 1.5. Dal nemico etnico a quello globale Con la Seconda Guerra Mondiale ogni residua distinzione tra nemici civili e nemici militari è annullata, con la conseguenza che la tradizionale separazione tra fronte esterno e interno decade e anche i centri abitati divengono bersaglio delle operazioni militari (basti ricordare, tra gli altri, i bombardamenti nazisti su Coventry, in Inghilterra, o quelli Alleati su Dresda, in Germania, o ancora lo sganciamento di ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki). Il secondo conflitto mondiale aggiunge un’altra categoria di nemico, quello biologico. In questa tipologia di nemico la figura dell’avversario non nasce da alcuna considerazione di tipo militare o politico, ma unicamente dall’appartenenza a una “razza” considerata inferiore. Con il nemico biologico non sono possibili compromessi, l’unica soluzione è quella “finale”: cancellarli fisicamente dall’Umanità. Il culmine di questa razzizzazione del nemico si raggiunge con la pratica nazista volta alla distruzione fisica di interi gruppi etnici. Conclusa la Seconda Guerra Mondiale, i vincitori decidono di criminalizzare definitivamente il nemico, portandolo dinanzi 43

R. PATERNOSTER, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, p. 183.

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a tribunali creati ad hoc: il Tribunale internazionale militare di Norimberga e il Tribunale internazionale militare per l’Estremo Oriente (il cosiddetto Tribunale di Tokio)44. I processi diventano la prosecuzione della guerra in forme apparentemente giudiziarie, per umiliare e criminalizzare risolutivamente un nemico considerato totale. Con l’avvento della Guerra fredda, i due grandi imperi antagonisti, USA e URSS, dimostrano di non aver perso la capacità di valutare correttamente il proprio nemico, questo grazie alla minaccia atomica. Per questo riescono a mantenere allo “stato freddo” il conflitto tra di loro, determinando un carattere quasi ininterrottamente “caldo” altrove, attraverso le guerre combattute per procura nel resto del mondo. Nello stesso tempo, all’interno il nemico diviene più temuto e la sua ricerca assume caratteri quasi maniacali, generando una parossistica caccia all’oppositore, vero o presunto, al traditore e alla spia. Il nemico interno è per il regime uno straniero, nel senso etimologico del termine, un estraneo con cui si è inimicus e hostis, per questo va allontanato ed esiliato in campi oppure eliminato fisicamente. Finita la Guerra fredda il vuoto di potere sulla scena internazionale accende i locali nazionalismi, così le problematiche rimaste allo stato latente durante “l’equilibrio del terrore” si acutizzano. Scoppiano dunque conflitti basati sull’identità di sangue, anziché su quella della cittadinanza, come il neotribalismo violento in Ruanda tra Hutu e Tutsi (1990–1994). Le etnie concorrenti, non riconoscendo la controparte e, marcandola come “nemica di sangue” che incarna il Male, si sentono autorizzate a stermi-

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Al termine della guerra si svolsero a Norimberga una serie di processi per giudicare i criminali nazisti. Lo stesso si fece a Tokyo per le più importanti personalità dell’impero giapponese. Le accuse per tutti furono quelle di aver commesso tre tipologie di reati: crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’Umanità. Cfr. D. ZOLO, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma–Bari 2006; AA.VV., Processare il nemico: da Socrate a Norimberga, a cura di A. DEMANDT, Einaudi, Torino 1996.

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La politica del male

nare l’avversario per creare un insieme etnicamente omogeneo45. Anche la guerra scoppiata nella ex Jugoslavia è un conflitto tra etnie concorrenti, divise anche da divergenze religiose, sociali e politiche. Un conflitto che, con il suo corredo di violenza smisurata contro il nemico, ha messo in evidenza il ruolo decisivo dei nazionalismi e della loro convinzione che un’unione statale è possibile solo su base etnica. Non solo. L’intervento di un terzo attore (la NATO) ha anche stabilito chi è il vero nemico nel conflitto (i serbi), accelerando la loro sconfitta e dimostrando il ruolo cruciale che l’elemento politico ha anche nei contesti dove sembrano prevalere fattori etnici46. In seguito all’attacco portato dal radicalismo armato islamico al cuore degli USA l’11 settembre 2001, il nemico diventa illegittimo. Infatti, la guerra al terrore scatenata dopo gli attentati di New York e Washington, ha permesso all’amministrazione degli Stati Uniti d’America di inventare una nuova straordinaria categoria di nemico: quella del “combattente illegale” (unlawful combatant)47. Tali nemici non avrebbero diritto allo status di prigionieri di guerra (e quindi non ricadono nella III Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra) né alla tutela che la IV Convenzione di Ginevra del 1949 offre ai civili detenuti per ragioni di sicurezza e nemmeno alle garanzie derivanti dalla disciplina penale “domestica”. So-

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Cfr. J. HATZFELD, Une saison de machettes, Le Seuil, Paris 2003, trad. it. A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda, Bompiani, Milano 2004. 46 Cfr. J. ELSÄSSER, Kriegsverbrechen. Die tödlichen der Bundesregierung und ihre Opfer im Kosovo–Konflikt, K. V. V. Konkret, Hamburg 2000, trad. it. Menzogne di guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli 2002; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade. Yugoslavia, NATO and Western Delusions, Monthly Review Press, New York 2002. 47 Cfr. G.H. ALDRICH, The Taliban, al Qaeda, and the Determination of Illegal Combatants, «Humanitäres Völkerrecht», n. 4, 2002, pp. 202–206; S. SCHEIPERS, Unlawful Combatants. A Genealogy of the Irregular Fighter, Oxford University Press, Oxford 2015.

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I. La figura del nemico

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no nemici “speciali”48 e per loro è creato un altro diritto, che sfugge a qualsiasi controllo e limitazione. Lo stato di eccezione creato per gli unlawful combatants diventa tuttavia un «puro atto d’imperio, extralegale […] per cui la politica è superiore al diritto e all’etica pubblica di cui il diritto rappresenta la traduzione istituzionale»49. La comparsa del Califfato Islamico50 riporta in scena il nemico barbaro, non in senso etimologico, ma nel significato dispregiativo di incivile, crudele, spietato, bestiale, brutale. Le modalità della guerra intrapresa da questa organizzazione militare, ossia civile all’interno dei territori del vicino Oriente e terroristica contro l’Occidente, e il trattamento riservato ai nemici catturati, rimandano all’efferatezze tribali: fucilazioni, crocifissioni, lapidazioni, schiacciamenti sotto il peso di grandi massi, annegamenti, bruciamenti di persone vive, decapitazioni con coltello e così via. A questo si aggiunge la distruzione dei reperti archeologici, di monumenti storici e di biblioteche per cancellare la storia dei rivali e riscriverne una nuova. Il nuovo nemico, dunque, non è un nemico di civiltà, come il fascismo, né un nemico di sistema, come il comunismo – e meno che mai un nemico conven48

Speciali perché non conducono operazioni in ottemperanza alle leggi e alle consuetudini di guerra, non vestono uniformi né altri segni visibili che li rendano riconoscibili come nemici, attaccano la popolazione civile, operano clandestinamente al di fuori di ogni legge. 49 P. RAFONE, La brutta china dello stato d’eccezione, in La strategia della paura, «Limes Rivista italiana di Geopolitica», n. 11, Roma dicembre 2015, p. 173. 50 Le origini risalgono al gruppo al-Jamāʿat al-Tawḥīd wa al-Jihād (Organizzazione per l’Unità [e Unicità di Dio] e del Jihād) sorto dalle macerie dell’Iraq del post Saddam Hussein. Il gruppo è poi divenuto ad-Dawlah al-Islāmiyah fīl-ʿIrāq (più noto come Al Qaeda in Iraq). Morto il capo storico Abu Mus’ab al-Zarqawi, l’organizzazione diventa Dawlat al-ʿIrāq al-Islāmiyya (ISI, Stato Islamico dell’Iraq) e poi al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām (ISIS, Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham), poi ancora solo al-Dawla al-Islāmiyya (IS, Stato Islamico). Rimando al mio La politica del Terrore. Il Terrorismo: storia, concetti, metodi, Aracne, Roma 2015, pp. 346–356 e alla bibliografia citata.

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zionale, come erano gli Stati l’uno per l’altro, prima dell’età delle ideologie –; è un nemico biopolitico, ovvero una sorta di parassita cresciuto dentro alla globalizzazione, pervasivo come questa e – versatile, mutante e imprevedibile come un virus mortale – capace di attaccare le potenze territoriali, per colpirne la sostanza vitale: le popolazioni. Il terrorismo è un nemico nuovo e complesso, nel quale precipitano e si trasfigurano molteplici immagini tradizionali del nemico51.

Per contro, i nemici del Califfato sono presentati come infedeli, miscredenti, impuri e demoniaci, quindi da combattere integralmente e senza compromessi, esonerandoli da ogni limite nella scelta dei mezzi. Il nuovo nemico, facendo decadere definitivamente le classiche opposizioni della politica, interno/esterno e militare/civile, diventa globale e radicale, come l’epoca in cui opera.

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C. GALLI, Nemico. Quando l’avversario è il simbolo del male, «la Repubblica», 5 maggio 2011, p. 42.

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Capitolo II

Il Male e la violenza

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2.1. Il Male e la banalità del Bene Il Male, come fatto o processo, è sempre stato compresente alla storia dell’uomo. La sua etimologia insegna che prima ancora di un malessere fisico e/o un disagio materiale, è una disposizione negativa in campo etico/morale. Infatti il suo etimo è da ricondursi all’aggettivo malus, ossia cattivo e, nel senso più esteso, nocivo o dannoso: se il Bene è un concetto positivo, il Male è dunque un concetto privativo, entrambi racchiudono i valori e le norme dell’agire. Prima di procedere nella disamina, occorre tener presente la distinzione che comunemente si fa tra il Male naturale, derivante dall’ambiente fisico in cui viviamo (alluvioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, siccità e così via), e quello morale, dovuto all’agire degli individui. Il Male naturale appare in generale indipendente dall’azione umana, anche se nel nostro tempo la mano dell’uomo spesso concorre ad amplificarlo1. Il Male dipendente dall’azione umana si realizza quando la volontà di chi lo compie e di chi lo riceve sono in antitesi: il carnefice compie azioni che la vittima non avrebbe voluto che si compissero. In un’accezione amplia, il Male è una condotta che ostacola, impedisce, intralcia la libera manifestazione dell’“Essere”, una prepotenza che si attua attraverso comportamenti che procurano 1

Questo saggio, trattando della politica, si occuperà del secondo.

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La politica del male

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sofferenza fisica e/o intellettuale volta a dominare, sottomettere, ostacolare e/o annullare, fisicamente e/o intellettualmente, un individuo o un gruppo umano, compromettendo irrimediabilmente le loro libertà e le loro identità. Fin dalle origini l’Umanità ha conosciuto l’esperienza del Male. Nella narrazione mitica e religiosa delle civiltà primitive e arcaiche, l’origine del Male assume l’immagine della caduta dell’essere umano per un atto di superbia e di ribellione verso un’entità suprema: In generale, il mito presenta la caduta, come un accidente sopravvenuto dopo le origini del cosmo, ma le cui conseguenze segnano la condizione umana: essa è degradata. […] alla sua origine la Creazione era buona perché era opera di Esseri divini; il male viene da una colpa alla quale si trova vincolata la responsabilità dell’uomo; la condizione umana è segnata dalla fragilità, dalla malattia, dalla morte2.

A questo si aggiunge la presenza di una o più divinità ostili, che possono essere geni del regno dei morti, divinità decadute o avversari dell’Essere supremo: In quasi tutti i grandi politeismi del mondo antico vi era la figura di un dio del Male, complementare a un dio del Bene. Questo perché le civiltà antiche consideravano il Bene e il Male come due facce della stessa medaglia: così a una divinità buona si contrapponeva una malvagia. A quest’ultima erano ricondotti tutti gli aspetti negativi dell’universo3.

Entrambi miti si collegano con i mali dell’uomo: fragilità, malattie, catastrofi naturali, guerre, morte. Nell’antico Egitto ritroviamo Horus e Seth, rispettivamente il dio celeste, generalmente benigno, e il dio del caos, solita2

J. RIES, Mito e rito. Le costanti del sacro, Opera Omnia, vol. 4, tomo 2, Jaca Book, Milano 2008, pp. 237–238. 3 Dal mio Diavolo di un diavolo, origini e cultura di un “essere” malefico, in «Storia in Network», aprile 2015, http://www.storiain.net/ storia/diavolo-diun-diavolo-origini-e-cultura-di-un-essere-malefico/

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II. Il male e la violenza

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mente malvagio; presso i cananei4 ci sono Ba’al e Mot, signore dell’universo il primo, divinità del caos e del male il secondo; tra i Maya la divinità Ah Puch è il signore della Morte, frequentemente associato al dio della guerra e del sacrificio umano; tra gli aztechi Tezcatlipōca e Quetzalcóatl, generalmente maligno il primo, benevolo il secondo; per i giapponesi la dea del sole Ama–terasu–o–mikami in contesa con suo fratello Susa–no–o– ono–mikoto, l’indisciplinato dio della tempesta5; nell’antica religione persiana le due divinità opposte sono Ahura Mazda, un dio buono, e Ahriman, un nume malvagio, entrambi domiciliati rispettivamente in un mondo celeste e in un inferno, quest’ultimo è servito da entità malefiche quali Lilith, Azazel, Leviathan, Rahab, le cui figure passeranno alla Cabala ebraica successiva6. Le entità malvagie, distruttrici o contrapposte a Dio sono dunque riscontrabili nelle tradizioni e nei pantheon di pressoché ogni cultura. Con il cristianesimo e l’islamismo queste entità diventano una, rispettivamente Satana7 e Iblis8, con molte affi-

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Popolo che precede gli ebrei in Palestina, abitante nella regione di Canaan che comprendeva, approssimativamente, il territorio attuale di Libano, Israele e parti di Siria e Giordania. 5 L’imperatore del Giappone è considerato discendente della dea del sole. Cfr. S. ONO, Shinto: The Kami Way, Charles E. Tuttle, Boston 1962, trad. it. Iniziazione allo Shintoismo, Edizioni Mediterranee, Roma 2004, pp. 16–17. 6 Cfr. AA. VV., Génies, Anges et Démons, Editions du Seuil, Paris 1971, trad. it., Geni, angeli, démoni, Edizioni Mediterranee, Roma 1994; J. BURTON RUSSELL, The Devil. Perceptions of Evil from Antiquity to Primitive Christianity, Cornell University Press, Ithaca–London 1987, pp. 17–120 (orig. 1977). 7 Nell’ebraismo non esiste il concetto di diavolo come nel cristianesimo o nell’islamismo. Il riferimento a Satana nel Vecchio Testamento non è un titolo o un nome proprio e, soprattutto, non è il diavolo. Satana, o meglio “il satan” (ha-satan), è un tentatore ed è nominato diciotto volte nel Vecchio Testamento. Successivamente, ritroviamo Satana nominato ben 188 volte nel Nuovo Testamento, facendo assumere un certo rilievo alla sua figura. Cfr. L. TAS, Il Diavolo ebraico, in A.M. CRISPINO, F. GIOVANNINI, M. ZATTERIN, Il libro del diavolo. Le origini, la cultura, l’immagine, Dedalo, Bari 1986, p. 36. 8 Cfr. G. BASETTI SANI, Il peccato di Iblis e degli angeli nel Corano, Iperbole, Palermo 1987.

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nità, a partire dalla caratteristica di essere entrambi “angeli decaduti” e di avere una schiera di anime demoniache. Il diavolo diventa così solo un’entità tentatrice, il meccanismo attraverso cui agisce il Male, poiché è l’essere umano che sceglie, che decide di praticare il Male, iniziando proprio dal suo allontanamento da Dio. Per Clemente Alessandrino, Origene, sant’Agostino e san Tommaso, il diavolo è un “non–essere”, privo cioè di entità propria, perché per esistere ha bisogno dell’uomo. Questa riflessione la ritroviamo già nella cultura greca. Platone per primo attribuisce la malvagità umana alla mancanza di educazione e alle influenze che il corpo ha sull’anima. Egli afferma che l’origine del Male non può essere Dio, perché è un principio buono e da esso non può discendere alcun peccato: Dio è innocente (thèos anaìtios), dice il filosofo nel mito di Er, narrato nel X libro della “Repubblica”, mentre ognuno è responsabile delle proprie scelte. Se Socrate afferma che nessuno è volontariamente malvagio, Aristotele assume invece una posizione opposta, imputando la responsabilità di ogni azione a chi l’ha deliberata e commessa, poiché l’uomo è padrone delle sue azioni9. Sul concetto del Male come non–essere concorda il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz che nel 1705 introduce il termine filosofico Teodicea, nella sua opera redatta cinque anni più tardi col titolo Essai de théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male). Il termine è per Leibniz una “giustificazione di Dio” rispetto al problema della sussistenza del Male nel mondo e del libero arbitrio umano10. Per Hegel il problema del Male si colloca nel quadro della sintesi degli opposti. In pratica Bene e Male sono termini opposti tra loro, per essi vale il principio secondo cui il termine posi9

Cfr. S. BROGI, I filosofi e il male. Storia della teodicea da Platone ad Auschwitz, FrancoAngeli, Milano 2006, pp. 35–50. 10 Cfr. E. SPEDICATO, La strana creatura del caos. Idee e figure del male nel pensiero della modernità, Donzelli, Roma 1997, pp. 3–12.

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tivo (il Bene) non ha vita se non vincendo sul negativo (il Male). Insomma volere il Bene è negare il Male, per questo il Male è un momento astratto, una nullità assoluta che si contrappone al Bene che è l’autorealizzazione della ragione nella sua totalità11. Il pensiero di Hegel è seguito dai filosofi italiani Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Hobbes, Spinoza, Locke e Kant affermano che il Male è soggettivo, poiché si presenta come elemento negativo del giudizio, in quanto prodotto della volontà e della valutazione umana. Il Male dunque è un “non valore” e si presenta come una sfida personale per ogni essere umano, poiché è l’uomo a giudicare di volta in volta ciò che è bene e ciò che è male. Facendo un lungo passo in avanti12, la modernità in tutta la sua drammatica esperienza richiede nuovi approcci al problema del Male. Infatti, dopo la Seconda Guerra Mondiale il dibattito filosofico sul Male si sposta su quello che è considerato “Male assoluto” (assoluto nel suo senso etimologico: ab-solutum, ossia “sciolto da”, quindi slegato da ogni vincolo e da ogni limitazione): il nazismo e i suoi prodotti. I campi di sterminio nazisti dimostrerebbero che esiste un Male assoluto, così estremo nei suoi propositi, da rendere superfluo l’umano. Anzi, un Male, come dice Hannah Arendt, che diventa finanche «banale», perché non è l’esito di un decadimento demoniaco, ma il risultato di un semplice processo amministrativo portato a termine con lo zelo disciplinato di burocrati e di persone comuni:

11 Cfr. F. MENEGONI, Il problema dell’origine del male in Hegel, in «Verifiche: rivista trimestrale di scienze umane», vol. 33, n. 3-4, 2004, pp. 293–316. 12 Per un’indagine più approfondita sul problema del Male in filosofia, oltre ai già citati saggi di Stefano BROGI (I filosofi e il male) e di Eugenio SPEDICATO (La strana creatura del caos), rimando a S. NEIMAN, Evil in Modern Though. An Alternative History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton 2002, trad. it. In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Laterza, Roma-Bari 2011; S. FORTI, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012.

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Il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida, […], il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle radici e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua «banalità». Solo il bene ha profondità è può essere radicale.13

Tuttavia il Male diventa assoluto nella misura in cui il Bene è assoluto. Il Male non è un dato congenito, ma il frutto di una passione (negativa) costruita. Nondimeno, un Male può essere banale solamente in base alla considerazione soggettiva che si ha del Bene. Ad esempio, quando i nazisti gasavano gli ebrei non si posero il problema della giustificazione del Male che stavano arrecano, poiché nella loro visione distorta del mondo quello era solo un “bene”. In pratica nei nazisti, ma questo vale per qualsiasi carnefice, c’era una valutazione morale del Bene, anziché una vera e propria legittimità del Male. In questo sta la “banalità del Male”, in una valutazione morale del Bene. Demonizzare gli assassini o i torturatori, vuol dire trasferire la colpa a un’entità astratta che ha reso demoni uomini perfettamente normali. La condizione umana implica la capacità di compiere delle scelte, di dire sì o no. Queste decisioni sono prese in base al proprio modo di intendere il mondo, insomma alla propria considerazione di ciò che è giusto e sbagliato, quindi di cosa è Bene o Male. Questo vuol dire che quando riflettiamo su comportamenti di persone che scelgono di uccidere, massacrare, violentare, torturare, segregare in nome di una ideologia, non dobbiamo riferirci ad essi come persone che compiono azioni illogiche o semplicemente coperte dall’ubbidienza militare. Un 13

Da una lettera di Arendt a Gershom Scholem, in H. ARENDT, The Jew as Pariah. Jewish Identity and Politics in the Modern Age, Grove Press, New York 1978, trad. it. Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Unicopli Milano 1986, ora Feltrinelli, Milano 1986, p. 227. Cfr. anche ID., Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York 1963; tr. it. La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004.

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II. Il male e la violenza

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massacro non avviene perché i capi hanno deciso, ma si realizza perché anche i sottoposti lo vogliono. Comprendere questo aiuta a chiarire che gli orrori della politica non sono mai frutto di una irragionevolezza, di una pazzia, ma «il portato di atti consapevoli e di utilità programmata per il dominio totale sulle persone»14, l’esito di una razionalità in una logica di potere. Per questo il Bene, a volte, può divenire banale, il Male, invece, mai.

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2.2. Il corpo come luogo del Male Ognuno di noi è un corpo, ha un corpo ed è il proprio corpo. Il corpo è la casa esclusiva dell’anima, essenza dell’Io e coscienza attiva dell’essere umano. È quindi sede della personalità, poiché in essa ci sono l’intelletto, la volontà e le emozioni. Il pensiero è il mio essere, il corpo è ciò che sono. Ogni corpo, dunque, contiene un soggetto: Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza è corporea e che il mio corpo è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto, ma sono io, così come il mio volto non è un’immagine di me, ma sono io stesso. [...] non esiste un uomo al di fuori del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso nella realizzazione della sua esistenza15.

Con il nostro corpo abitiamo il mondo: esso è lo strumento attraverso cui l’Io entra in contatto con il mondo, influenzandolo ed essendone influenzato. Il corpo diventa così il confine tra l’Io e il mondo:

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R. PATERNOSTER, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, p. 409. 15 U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 15–16 (orig. 1983).

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Gli esseri umani hanno esperienza del mondo attraverso il corpo: sentono, comunicano, percepiscono, desiderano innanzi tutto attraverso il corpo. Il corpo è infatti una specie di mediatore tra noi e il mondo, un mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante. Noi comprendiamo il mondo che ci circonda perché il nostro corpo è stato esposto fin dalla nascita alle ‘regolarità’ del mondo.16

Il corpo è il luogo nel quale convergono gli elementi culturali. Sul corpo sono impressi simboli e segni di appartenenza (tatuaggi, scarificazioni, perforazioni e così via). Attraverso questi simboli, questi “interventi culturali” che modificano la natura biologica, si costruisce l’individuo sociale. Il corpo è il luogo della vulnerabilità umana, una fragilità che si manifesta per mezzo della violenza, sia quella prodotta da alterazioni organiche o funzionali (malattia e deperimento) sia quella causata da volontà altrui (abuso della forza e prepotenza psicologica). Il corpo è anche inserito in campi politici, diventando la posta in gioco dei rapporti di potere interni a una determinata società. Sul corpo ricadono così i segni del controllo politico (ad esempio limitazione della libertà) e della crudeltà del potere corrotto (uccisioni, torture, violazioni e così via). Quando il potere incontra la sfera della vita, il corpo dell’individuo diventa appunto la posta in gioco delle strategie politiche, subendo la sovranità assoluta dell’autorità (legittima o meno). Si ha così la biopolitica17, ossia la gestione del corpo 16

U. FABIETTI, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza 1999, p.139. 17 Il termine “biopolitica”, nel suo senso moderno, è coniato agli inizi del Novecento dall’antropologo e filosofo francese Georges Bataille. Nella metà degli anni Settanta, Michel Foucault, interpretando il biopotere come la nuova forma di esercizio della sovranità, lo riempie della semantica precisa in cui oggi lo usiamo. Cfr. M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, trad. it., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978; ID., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978–1979, Gallimard, Paris 2004, trad. it. Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France, 1978– 1979, Feltrinelli, Milano 2005.

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II. Il male e la violenza

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come spazio supremo di esercizio da parte del potere governamentale18. Nella biopolitica il corpo assume un duplice aspetto: esso è sia strumento sia oggetto di violenza. Dunque corpo assoggettante e corpo assoggettato, ossia corpo capace di offendere e corpo che riceve l’oltraggio:

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Il corpo rappresenta un simbolo, una realtà, una memoria, nel quale e attraverso il quale si imprime un significato antropologico, e questo vale sia per colui che vive lo stato di violenza sia per colui che se ne serve come oggetto della sua e dell’altrui volontà.19

Attraverso la violenza politica, il corpo umiliato, violato, imprigionato, suppliziato, smembrato, ucciso, cremato, fatto sparire, assume una funzione simbolica e pedagogica del biopotere: rinnova, nutre, assegna un senso di trionfo, diventando epifania del potere stesso. 2.3. La violenza e l’archetipo fondatore Facciamo subito alcune precisazioni. La violenza distruttiva è una manifestazione esclusivamente umana: all’interno del mondo animale raramente una specie si comporta in modo autodistruttivo verso i suoi simili come invece agisce l’essere umano. Scrive l’etologo Konrad Lorenz, «L’aggressione intraspecifica è rara nel mondo animale e […] difficilmente ha esiti mortali. La distruttività dell’uomo non è lupina, è tipicamente umana»20.

18

Sulla biopolitica cfr. anche R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 19 C.B. TORTOLICI, Violenza e dintorni, Armando, Roma 2005, p.11. 20 K. LORENZ, Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression, Borotha Schoeler, Wien 1963, trad. it. L’aggressività, il Saggiatore, Milano 2000, p.11.

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La politica del male

La violenza non può essere congenita21, ma è un comportamento sociale mediato da significati culturali: «la violenza non è una res, non ha una realtà concreta come una cosa, è una forma simbolico–relazionale»22. Violenza è l’atto del violare e il violento è qualcuno che viola arbitrariamente con la forza lo “spazio”, fisico e psichico, dell’Altro: violento dal latino violéntus, dove la terminazione uléntus indica un eccesso, una sproporzione. Sebbene il termine latino violentia ha la stessa radice di vis, forza, la violenza non è sinonimo di quest’ultimo termine, infatti entrambi i vocaboli rivelano caratteristiche e azioni umane tra loro opposte: la forza della vita, la violenza della morte; la forza della non–violenza, la violenza della violenza; la forza del diritto, la violenza dell’illegalità; la forza dell’infermo, la violenza della malattia; la forza dell’amore, la violenza dell’odio23. La violenza non è mai un fine, ma è solo il mezzo, se non fosse così ci troveremmo in presenza di squilibrati. In quanto mezzo, il risultato della violenza è quello di distruggere il senso 21

Il dibattito sulla natura della violenza umana è tuttora aperto. Nel 1986 un gruppo internazionale di esperti in antropologia, psicologia, sociologia e biologia s’incontrarono a Siviglia per discutere sulle origini della violenza umana. Le conclusioni furono articolate nei dieci punti della “Dichiarazione di Siviglia”, con la quale si nega categoricamente la natura innata della violenza. Cfr. Dichiarazione di Siviglia sulla Violenza, Conferenza Generale UNESCO, 16 novembre 1989, in «Università degli Studi di Padova. Centro di Ateneo per i Diritti umani», http://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/Dichiarazione_ Siviglia.pdf. Un altro studio, recentemente condotto da ricercatori spagnoli, ha evidenziato che la violenza ha basi genetiche (anzi, filogenetiche) e la specie umana l’ha ereditata nel corso della sua evoluzione. Cfr. J.M. GÓMEZ, M. VERDÚ, A. GONZÁLEZ–MEGÍAS, M. MÉNDEZ, The phylogenetic roots of human lethal violence, «Nature», 538, 2016, pp. 233–237. 22 C.B. TORTOLICI, Violenza e dintorni, cit., p. 10. 23 Benché si continuano a descrivere le uccisioni delle proprie partner come delitti passionali, occorre appuntare che di passione non c’è niente, l’amore non uccide, l’amore è un’altra cosa. La bibliografia sulle violenze alle donne è vasta, in breve rimando al mio Sono caduta su un coltello: piccola storia della violenza sulle donne, in «Storia in Network», luglio 2016, http://www.storiain. net/storia/sono-caduta-su-un-coltello-piccola-storia-della-violenza-sulledonne/.

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II. Il male e la violenza

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delle cose, per questo non potrà mai essere priva di senso. Anche se può sembrare insensata, astrusa o schizofrenica, la violenza-mezzo ha sempre un senso, un valore a cui riferirsi. In quanto tale essa diventa un’arma del potere (individuale, sociale e politico), che si manifesta nella sua massima produzione di forza estrema, la crudeltà24. Poiché la violenza è un mezzo e il potere è un fine, la prima richiede sempre una giustificazione, il secondo no25. La violenza è dunque potere, nel senso di dominio, di riduzione di qualcuno o qualcosa sotto una forza e una volontà prepotente. In quanto strumento del potere, essa diventa anche generatrice del potere stesso. La violenza di per sé è destrutturante, produce disordine disgregando i legami sociali ed etici. Essa realizza comunque una relazione, seppur di segno negativo, basata sull’abuso della forza in azione, che si manifesta in maniera fisica, verbale e, nelle situazioni di dipendenza socio–politica, anche come una precisa omissione (qualcuno non fa ciò che dovrebbe). La violenza è anche un concetto plurale, perché tanti sono gli ambiti d’azione: si va dall’ambito familiare a quello sociale, dall’ambito religioso a quello economico e politico. I miti fondatori fanno iniziare la propria storia particolare da un atto di violenza. Si è già accennato che nelle narrazioni mitiche l’origine del Male assume l’immagine della caduta dell’essere umano o di qualche divinità ostile per un atto di superbia e ribellione, quindi un gesto di violenza verso un’entità suprema26. Stando ai miti di fondazione, anche le società umane e le città nascono (e si mantengono nel tempo) attraverso atti violenti, generalmente un assassinio fra consanguinei, quasi sempre tra fratelli.

24

Si affronterà il legame tra violenza e potere politico nel prossimo paragrafo. Cfr. H. ARENDT, On Violence, Harcourt Brace and World, New York 1970, trad. it. Sulla violenza, Ugo Guanda Editore, Parma 2008, pp. 37–62. 26 Cfr. par. 2.1. di questo capitolo. 25

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La politica del male

La Bibbia ebraica scopre il problema della violenza già con Adamo ed Eva, il primo uomo e la prima donna che, disubbidendo, compiono un gesto violentissimo contro di Dio, che a sua volta li scaccia violentemente dall’Eden. La “nuova” Umanità creata fuori dal Paradiso esordisce con un fratricidio: Caino, figlio maggiore di Adamo ed Eva, uccide per invidia suo fratello Abele. Nella mitologia greca molti sono i miti delle fondazioni intrisi di violenza: all’origine di Micene troviamo le dispute e le terribili vendette reciproche di Atreo col fratello Tieste; il fratricidio fra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice, è all’origine di Tebe; il contrasto violento dei gemelli Acrisio e Preto, che si contendono il regno paterno, combattendosi già nel grembo materno, sino a quando il primo diventa re di Argo, mentre il secondo lascia la sua città e diventa re di Tirinto. Roma antica ha come mito fondatore la lotta tra Romolo e Remo e il fratricidio del primo, ma se ripensiamo alla genealogia dei due fratelli, troviamo il loro prozio Amulio che probabilmente uccide il proprio fratello Numitore. La lista potrebbe essere ancora lunga tra miti nordici, orientali, africani, aborigeni e racconti fondativi dei nativi del continente americano27. La “violenza fondativa” di società e città–stato diventa dunque archetipo delle conflittualità che si succedono regolarmente a ogni epoca della storia umana28: all’orizzontalità dei rapporti tra pari si preferisce dunque la verticalità dei rapporti di dominio.

27

Sull’argomento in generale cfr. R. GIRARD, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, trad. it., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; J. RIES, Mito e rito. Le costanti del sacro, cit.; M. CALLONI, Potere: fra violenza e legittimità politica, in AA. VV., Che cos’è la politica?, a cura del Seminario di teoria critica, Meltemi, Roma 2008, pp. 132–137. 28 Cfr. E. CECCHINI, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1994, ora 2016.

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2.4. La violenza politica Stando ai miti, la modernità eredita la violenza e la riconcettualizza secondo la cultura e le esigenze di ogni tempo. Mettiamo da parte la violenza individuale29 e concentriamoci solo su quella collettiva. Se nelle società primitive la violenza tra gruppi è stata una necessità per appropriarsi di una risorsa o resistere a un attacco, insomma una prerogativa indispensabile per la sopravvivenza stessa del gruppo30, e nel Medioevo la violenza politica è stata generalmente una manifestazione di potere che alimenta quello stesso potere, dall’epoca moderna essa è divenuta un’arma del potere31. La nascita dello Stato moderno, infatti, pone fine all’arbitrio e alla violenza individuale nel sociale, che i più potenti hanno esercitato sui più deboli. Lo Stato, quindi, avoca a sé il monopolio della violenza, sia quella nei confronti del nemico esterno sia quella riferita ai nemici interni, come anche quella concernere l’ordine pubblico e le punizioni da adottare nei confronti di chi non rispetta la legge. Può accadere che questo monopolio statale della violenza può essere violato dall’antistato (ad esempio dal terrorismo rivoluzionario)32, che a sua volta pratica violenza contro lo Stato33. La violenza politica esprime dunque una forma di potere e contropotere. La politica si fa violenta quando un’identità si ideologizza, assolutizzandosi. Non solo una identità etnica, ma anche ideologica, culturale e religiosa: «Si tratta di un’“identità” che viene 29 E per questo rimando agli innumerevoli studi condotti nell’ambito della psicanalisi, dell’etologia umana, dell’etnologia e della criminologia. 30 Cfr. P. CLASTRES, Archeologie de la violence, l’Aube, Paris 1997, trad. it. Archeologia della violenza, Meltemi, Roma 1998. 31 Cfr. F. CARDINI, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande rivoluzione, Sansoni, Firenze 1982. 32 Su cosa sia il terrorismo, rimando ancora al mio La politica del terrore. Il terrorismo: storia, concetti, metodi, Aracne, Roma 2015, pp. 19–34. 33 La violenza eseguita dalle organizzazioni criminali non è da considerarsi politica, anche quando è rivolta verso esponenti dello Stato, perché gli obiettivi della criminalità sono “politici” in maniera strumentale, mentre gli scopi veri e propri riguardano l’illecito guadagno.

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sentita e rappresentata in modo rigido», esaltando «la dicotomia noi–loro, buono–cattivo, puro–impuro, che struttura e dà confini al gruppo»34. Attraverso la violenza la politica assume un potere assoluto di disposizione dell’individuo e di dominio della società. Il politologo Harold Nieburg così spiega la violenza politica:

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Atti di disgregazione, distruzione e offesa tali che il loro scopo, la loro scelta degli obiettivi e delle vittime, la loro esecuzione e/o i loro effetti abbiano rilevanza politica, cioè tendano a modificare il comportamento di terzi in una situazione di contrattazione che abbia conseguenze per il sistema sociale35.

La violenza politica ha quattro assoluti: sottomettere, terrorizzare, espellere, eliminare. Sottomettere per dominare e conservare l’unità di potere; terrorizzare per annullare le possibilità di resistenza; espellere dalla società, anche a titolo preventivo, isolando e internando i nemici, veri o presunti; eliminare fisicamente gli elementi perturbanti all’ordine costituito. Il tipo e la qualità di violenza dispensata riflette la considerazione che si ha del nemico. Alle finalità politiche occorre aggiungere il carattere strutturante della violenza, la premeditazione, l’uso arbitrario della forza come modalità di decisione. La violenza politica non punisce condotte, ma sanziona opinioni, colpisce appartenenze, incrimina l’Essere nel suo essere, perché essa è il dominio di una politica incapace di essere risolutiva con i suoi propri mezzi che, escludendo il confronto pacifico e annullando la normalità dei rapporti politico–sociali, dà intenzionalmente corso alla prepotenza trasformandosi in forza arbitraria che sottomette, terrorizza, espelle, uccide36. Le manifestazioni della violenza politica sono sempre celate e supportate «da un ordine discorsivo normalizzante, che le mo34

C. CORRADI, Sociologia della violenza. Modernità, identità, potere, Meltemi, Roma, 2009, p. 10. 35 H.L. NIEBURG, Political Violence, St. Martin’s Press, 1969, trad. it., Violenza politica, Guida Editori, Napoli, 1974, p. 19. 36 Corsivo dell’autore.

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stra appunto come ragionevoli e necessarie»37. Quindi, tali manifestazioni sono sempre giustificate da chi le compie, presentandole come la soluzione a una situazione di malcontento incolmabile, da parte della violenza antistatale; come risposta a una minaccia dei fondamenti della Nazione e della società o dell’ideologia imperante, da parte dello Stato. La violenza politica è spargimento del terrore, soprattutto attraverso la morte, che determina una prepotenza dei fatti per togliere autonomia alla politica, attraverso strutture e modalità clandestine, con l’utilizzo deliberato e sistematico di mezzi che generano terrore in una determinata popolazione in modo da alterarne profondamente l’assetto politico–culturale, di farle mutare in senso involutivo programmi e posizioni, di compromettere profondamente la sua identità tradizionale, debilitandola, sia con atti sia con minacce, per poterla meglio dominare o plasmare38.

La violenza statale, poi, non è solo morte, ma anche «un lavorio sul corpo della vittima che va bel al di là della morte»39, in pratica un potere che decide non solo chi può morire e chi può vivere, ma anche come deve vivere e a quali condizioni. Così, attraverso la violenza, la politica irrompe nel corpo: lo fa suo con lo stupro, lo plasma attraverso la tortura, lo esclude nei campi, lo rimuove dall’Umanità uccidendolo, lo nasconde per sempre attraverso la desaparecion. Dunque essa, agendo sul corpo, «impedisce ogni possibilità»40. 37

F. DEI, Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza, in ID. (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma 2005, p.16 38 R. PATERNOSTER, La politica del terrore. Il terrorismo: storia, concetti, metodi, cit. pp. 28–29. 39 C. CORRADI, Sociologia della violenza. Modernità, identità, potere, cit. p. 20. 40 M. FOUCAULT, The Subject and the Power, in H. DREYFUS, P. RABINOW, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982, trad. it. Il soggetto e il potere, in La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, a cura di D. BENATI, M. BERTANI, I. LEVRINI, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 248.

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La politica del male

Occorre tuttavia aggiungere che la violenza politica non deve necessariamente risolversi in un’azione, perché può determinarsi anche in una volontà di negazione, ossia un rifiuto ad agire. È questa quella che il politologo Peter Bachrach e l’economista Morton Baratz hanno chiamato “l’altra faccia del potere”, quella delle «non–decisioni», ossia quell’atteggiamento in cui si decide di non decidere semplicemente trascurando determinate richieste, oppure facendo finta di non conoscerle, oppure ancora sopprimendole ancor prima che vengano presentate41. Si studieranno le varie manifestazione della violenza politica nei prossimi capitoli, ricordando che non sono solo i regimi dispotici a utilizzarla contro i nemici (interni ed esterni), ma anche ogni altra forma di governo, compresa la democrazia, può ricorrere arbitrariamente alla forza violenta. In ogni caso, lo Stato che usa violenza si pone sempre fuori da ogni contratto politico. Tra gli ingredienti per preparare e attuare una condizione di violenza politica ci sono il sentimento di appartenenza e la conseguente designazione di un nemico (interno ed esterno). Questi elementi a loro volta comportano la creazione o la diffusione di pregiudizi e stereotipi necessari per legittimare azioni distruttive contro persone, gruppi etnici, politici, sociali o religiosi42. Attraverso la violenza, pertanto, la politica rifiuta di ascoltare, delimitando spazi precisi e creando confini propri. Plasmando identità integrali, classifica i cittadini, stabilendo chi appartiene e chi no a un ordine politico–sociale, chi è titolare dei diritti e chi no. L’intensità della violenza, poi, sarà determinata dalla considerazione che si ha del nemico, dal grado di umanità che gli si riconosce: quanto più egli è considerato diverso dai persecutori tanto più sarà posto fuori dal loro orizzonte etico, determinando 41

Cfr. P. BACHRACH, M.S. BARATZ, Power and Poverty. Theory and Practice, Oxford University Press, Oxford 1970, trad. it. Le due facce del potere, Liviana, Padova 1986, in particolare pp.72–74. 42 Una breve disamina dei pregiudizi e degli stereotipi sarà esposta nel prossimo capitolo, al primo paragrafo.

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condotte crudeli. Per questo la deumanizzazione del nemico diventa una fonte indispensabile della violenza politica.

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2.5. La deumanizzazione, la giustificazione del male Fin dall’antichità il concetto di gruppo di appartenenza (etnico, sociale, religioso, culturale) è fortemente radicato nella psiche umana. Se esiste il “mio” gruppo”, necessariamente deve esserci un altro gruppo. Ora, con questo “altro” gruppo posso avere corrispondenze e amicizie, oppure discordanze e odi. In entrambi i casi si scatenano meccanismi importanti che portano, nel primo caso alla collaborazione reciproca, nel secondo caso al conflitto. L’appartenenza a un gruppo è avvertita in termini cognitivi, valutativi ed emozionali, comportando una divisione psicologica tra “in” (dentro) e “out” (fuori). La percezione dell’Altro come essere umano spinge ad assumere reazioni emotive empatiche. Grazie all’empatia, le emozioni di un’altra persona producono una reazione vicaria, in quanto si riconoscono appartenenti a un mio simile. Attraverso le emozioni vicarie si attiva un flusso di scambi emotivi fra gli individui, condividendo con successo i valori morali. Quando la tendenza alla condivisione con chi è simile viene a mancare si attua un processo cognitivo ed emozionale che porta alla comparsa di pregiudizi e stereotipi. Entrambi portano a considerare il proprio gruppo “diverso” dagli altri, valutandolo superiore e conferendogli più umanità rispetto ai restanti gruppi umani. Questa posizione ha preso il nome di “teoria della infra–umanizzazione” dove il prefisso “infra–” (da latino, “sotto”) designa la svalutazione dell’umanità dell’Altro rispetto alla propria. L’infraumanizzazione diventa una propensione implicita a valutare la natura umana dei membri degli altri gruppi come imperfetta e incompleta rispetto a quella del gruppo di apparte-

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nenza43, sottraendo ai primi le emozioni tipicamente umane (emozioni secondarie)44. Se svalutare l’umanità del proprio nemico non è sufficiente, questa può anche essere completamente detratta, attribuendo qualità non umane all’Altro. Si attiva così il processo della de– umanizzazione, dove il prefisso “de–” ha un valore privativo/sottrattivo. Se nella teoria dell’infraumanizzazione si distingue tra caratteristiche unicamente umane (emozioni secondarie) e quelle condivise con il regno animale (emozioni primarie)45, più recentemente le teorizzazioni sulla deumanizzazione distinguono tra tipicamente umano ed esclusivamente umano. Nel 2006 lo psicologo sociale Nick Haslam avanza per primo l’idea di due concezioni di deumanizzazione: una di tipo animalizzante, l’altra di tipo meccanizzante46. Partendo dal presupposto che gli animali si distinguono dagli esseri umani per la loro natura irrazionale, istintiva e ignorante, 43

Cfr. J.P. LEYENS, M.P. PALADINO, R. RODRÍGUEZ TORRES, J. VAES, S. DEMOULIN, A. RODRÍGUEZ– PÉREZ, R. GAUNT, The Emotional Side of Prejudice. The Attribution of Secondary Emotions to In–groups and Outgroups, «Personality and Social Psychology Review», vol. IV, n. 2, 2000, pp. 186– 197; G. BOCCATO, B.P. CORTES, S. DEMOULIN, J.P LEYENS, The automaticity of infra-humanization, «European Journal of Social Psychology», n. 37, 2007, pp. 987–999. 44 Le emozioni secondarie (allegria, invidia, vergogna, ansia, perdono, rassegnazione, gelosia, speranza, offesa, nostalgia, rimorso, delusione) sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, disprezzo, sorpresa, disgusto). Sono più complesse, hanno bisogno di essere “attivate” sviluppandosi con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale. 45 Cfr, J.P. LEYENS, M.P. PALADINO, R. RODRÍGUEZ TORRES, J. VAES, S. DEMOULIN, A. RODRÍGUEZ-PÉREZ, R. GAUNT, Differential Association of Uniquely and Non Uniquely Human Emotions to the Ingroup and the Outgroup, «Group Processes & Intergroup Relations», vol. V, n. 2, 2002, pp. 105–117; S. DEMOULIN, R. RODRÍGUEZ TORRES, A. RODRÍGUEZ PEREZ, J. VAES, M.P. PALADINO, R. GAUNT, B. CORTEZ POZO, J.P. LEYENS, Emotional prejudice can lead to infra–humanisation, «European Review of Social Psychology», 15, 2004, pp. 259–296. 46 Cfr. N. HASLAM, Dehumanization. An integrative review, «Personality and Social Psychology Review», 10, 2006, pp. 252–264.

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i gruppi di persone animalizzati sono considerati mancanti di civiltà, sensibilità morale e capacità cognitive raffinate, attribuendo loro comportamenti meno cognitivi e più controllati da bisogni e pulsioni. A loro è negata anche la possibilità del riscatto culturale. Insomma sono animali e tali restano. Le forme di animalizzazione dell’umano sono state molteplici: dal rapporto che si instaurò con gli indios dopo la scoperta della America, all’essenza subumana assegnata ai neri africani durante la tratta degli schiavi; dall’animalizzazione degli indigeni in tutti gli scenari coloniali alla degradazione dell’umano del carcere iracheno di Abu Ghraib47. La deumanizzazione di tipo meccanicistico comporta invece la dequalificazione delle persone ad automi freddi e passivi, quindi esseri disinteressati, sprovvisti di immaginazione e di emozioni, perciò privi di apertura cognitiva e con un comportamento inteso come una reazione di causa–effetto e non derivante da una spontanea iniziativa personale. Un esempio di riduzione meccanicistica è quello praticato nei campi di lavoro forzato, un mondo in cui l’internato è ridotto a macchina produttiva, diventando un pezzo intercambiabile di una catena di montaggio. Quando togliere umanità al nemico trasformandolo in animale o macchina produttiva non basta, per giustificare la sua sottomissione, il suo sfruttamento o la sua eliminazione, ecco che il registro della deumanizzazione si arricchisce di altre forme dequalificanti: la demonizzazione, l’oggettivazione, la biologizzazione48. Brevemente: con la demonizzazione non solo si 47

Il 27 aprile del 2004 il programma d’inchiesta della CBS, 60 minutes, mostrò per la prima volta le immagini degli abusi subiti dai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Tra le immagini che poi sono circolate, quella della soldatessa statunitense Lynndie England che, sorridente e fiera, trascina al guinzaglio un prigioniero iracheno nudo. Cfr. R. LEUNG, Abuse Of Iraqi POWs By GIs Probed, «CBSNEWS», April 27, 2004, http://www.cbsnews.com/news/abuse-of-iraqipows-by-gis-probed/; D. RATHER, Abuse At Abu Ghraib, in «CBSNEWS» May 05, 2004, http://www.cbsnews.com/news/abuse-at-abu-ghraib/; J. STRUK, Private Pictures. Soldiers’ Inside View of War, I.B. Tauris, London 2011, pp. 1–20. 48 Cfr. P.A. GOFF, L. EBERHARDT, M.J. WILLIAMS, M.C. JACKSON, Not Yet Human. Implicit Knowledge, Historical Dehumanization, and Contemporary

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toglie umanità, ma si rende il nemico un’entità anti–umana, quindi un demone genio del male49; con l’oggettivazione l’individuo diventa un oggetto, una cosa, uno strumento, quindi un corpo da utilizzare50; la biologizzazione si sostanzia in metafore attinenti le malattie, la purezza, l’igiene, che trasformano il nemico in virus, morbo, pestilenza, agenti infettivi e inquinanti, quindi elementi che richiedono particolari trattazioni (epurazione, bonifica, estirpazione, distruzione)51. Persone e gruppi sociali possono essere vittima di tutti i tipi di deumanizzazione. Nel circolo vizioso della deumanizzazione, ci sono categorie di persone considerate “non umane” e altre “non più umane”, ossia si ha una deumanizzazione a priori e una deumanizzazione a posteriori. Ad esempio, gli ebrei, i rom e i sinti sono per definizione i popoli “meno umani” che esistano, la loro deumanizzazione è a priori, nel senso che non è una condizione che sopraggiunge, ma si ha per nascita; gli oppositori politici, invece, perdono la loro umanità qualora si oppongono a un ordine prestabilito, prima non lo erano, quindi la loro deumanizzazione è a posteriori, perché interviene dopo un loro determinato comportamento. Per i primi la loro condizione è immutabile, perché eConsequences, in «Journal of Personality and Social Psychology», vol. XCIV, n. 2, 2009, pp. 292–306; C. VOLPATO, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, Roma–Bari 2011. 49 Il popolo che più di altri è stato demonizzato nel corso della storia è quello ebraico, segnando più momenti drammatici (tra tutti la Shoah, il loro sterminio da parte dei nazisti). 50 Le sperimentazioni su cavie umane effettuate durante la Seconda Guerra Mondiale nei Lager nazisti e nelle unità medico-militari giapponesi costituiscono senza dubbio il grado più estremo di oggettivazione del nemico. Cfr. il mio Campi, cit., pp. 321–350. Gli studi più recenti sulla oggettivazione si sono concentrati soprattutto sull’oggettivazione sessuale delle donne. Cfr. D.M. SZYMANSKI, L.B. MOFFITT, E.R. CARR, Sexual Objectification of Women: Advances to Theory and Research, «The Counseling Psychologist», 39, 1, 2011, pp. 6–38. 51 La metafora del virus, della malattia e dell’igiene permea molta retorica eliminazionista. Cfr. J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, èditions du Seuil, Paris 2005, trad. it. Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, in particolare pp. 34–58.

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reditaria; per i secondi si potrebbe avere una certa redenzione attraverso la cosiddetta “rieducazione politica”52. Riepilogando. Con la deumanizzazione si creano i presupposti all’attuazione del male53. I nemici diventano topi, scarafaggi, serpenti, vermi, scimmie, cani, bestie da soma, parassiti, virus, zecche, microbi, cancro, veleno, elementi inquinanti, esseri diabolici, streghe, cavie, cose inanimate, pezzi meccanici intercambiabili di una catena di montaggio, automi senza sentimenti di affetto e comprensione. Ogni metafora utilizzata comunica la precisa condizione di pericolosità del gruppo: le metafore animalistiche esprimono repulsione, bestialità, sottomissione; quelle diaboliche comportano la visione dell’Altro come un’entità anti-umana e demoniaca, che incarna l’origine e le cause di tutti i mali; quelle biologiche rimandano all’idea della malattia, della pestilenza, della intossicazione, dell’avvelenamento; quelle oggettuali e meccaniche degradano l’essere umano a oggetto impersonale, rinviando all’uso strumentale delle sole qualità fisiche del suo corpo. Una volta avviato questo processo, il passo per arrivare a crudeltà inaudite è molto, molto breve. 2.6. Esclusione morale delle vittime e disimpegno morale dei carnefici La deumanizzazione conduce a un processo di “esclusione morale” delle vittime da parte dei carnefici: a un gruppo posto all’esterno dei confini dell’Umanità non spettano i principi e le regole morali che fanno capo al “gruppo umano del Noi”. In pratica il processo di “esclusione morale” prevede una compartimentazione della coscienza morale che porta all’esclusione dai principi di dignità e giustizia per gli individui che ne 52

Questa “correzione” può avvenire in determinati luoghi creai ad hoc, come i campi di concentramento adibiti alla rieducazione, che avviene nella maggior parte dei casi attraverso il lavoro forzato e sedute di indottrinamento. 53 D. BAR-TAL, P.L. HAMMACK, Conflict, delegitimization, and violence, in L.R. TROPP (ed), The Oxford Handbook of Intergroup Conflict, Oxford University Press, New York 2012, pp. 29-52.

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La politica del male

sono vittime: la percezione dell’Altro come essere non più umano scatena reazioni emotive ostili, che non stimolano più sentimenti positivi comuni (equità, amicizia, rispetto, comprensione, solidarietà, fratellanza umana), «aprendo uno spazio a comportamenti negativi carichi di irrazionalità distruttiva immuni del senso di colpa»54. Insomma, è il trionfo della diseguaglianza. A riguardo c’è una illuminante riflessione di Franz Stangl, ex-comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, alla domanda di Gitta Sereny, la sua intervistatrice nel carcere di Düsseldorf, «come fece a prendere una qualsiasi parte in questo crimine?»: «L’unico modo che avevo per sopravvivere era dividere la mia coscienza in compartimenti stagni»55. I confini dei principi morali diventano dunque i confini stessi delle comunità del Noi e del Voi56. Nel 1973, il professore di Etica sociale Herbert Kelman, prendendo in esame le cause socio–psicologiche delle atrocità collettive, rilevò la relazione che si instaura fra violenza e deumanizzazione, dimostrando che relegare il nemico all’interno di una categoria subumana permette a chiunque di liberarsi la coscienza57. La deumanizzazione, così, non solo è il mezzo per escludere le vittime dall’Umanità, giustificandone le violenze, ma anche il procedimento per alleviare la coscienza degli aguzzini e scagionarsi per comportamenti che in altri momenti sarebbero consi54

R. PATERNOSTER, Campi. Deportare e concentrare, cit., p. 39. T. SERENY, Into That Darkness: from Mercy Killing to Mass Murder, a study of Franz Stangl, the commandant of Treblinka, McGraw Hill, New York 1974, trad. it., In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975, p. 220. 56 Cfr. Z. BAUMAN, Life in Fragments. Essays in Postmodern Morality, Blackwell, Oxford 1995; S. OPOTOW, Moral exclusion and injustice. An Introduction, «Journal of Social Issues», 46, 1, 1990, pp. 1-20; E. STAUB, Moral exclusion, personal goal theory, and extreme destructiveness, «Journal of Social Issues», 46, 1, 1990, pp. 47-64. 57 Accanto alla deumanizzazione Kelman aggiunge altri due motivi che spingono a commettere atrocità sociali: l’autorizzazione delle autorità legittime (eseguivo gli ordini) e la routinizzazione delle procedure. Cfr. H.C. KELMAN, Violence without moral restraint. Reflection on the dehumanization of victims and victimizers, «Journal of Social Issues», vol. 29, n. 4, 1973, pp. 25–61. 55

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derati immorali. È questo il “disimpegno morale” da parte dei carnefici, un insieme di dispositivi cognitivi che autoscagionano il persecutore, che a sua volta incolpa le vittime di quanto subito. In pratica il carnefice fa ricorso a principi superiori (ragione di Stato, difesa del Noi e così via), disattivando parzialmente o totalmente il contro morale, mettendosi al riparo dal senso di colpa, trasformando così un’azione criminale in qualcosa di moralmente accettabile58. Lo psicologo statunitense Philip George Zimbardo, attraverso un famoso esperimento condotto all’interno dell’Università di Stanford nel 1971, dimostrò cosa succede se si mettono delle brave persone in un contesto “cattivo” definito soltanto dal gruppo di appartenenza. L’esperimento prevedeva l’assegnazione a ventiquattro volontari dei ruoli di guardie e prigionieri all’interno di un carcere simulato. Gli inattesi risultati ebbero dei risvolti così drammatici da indurre a sospendere la sperimentazione dopo soli sei giorni: la depersonalizzazione e il comportamento di gruppo aveva di fatto portato i partecipanti a entrare completamente nel ruolo, tanto che in pochissimo tempo le guardie divennero così sadiche e maltrattanti, da procurare ai prigionieri evidenti segnali di depressione. L’esperimento ha messo in evidenza il ruolo delle determinanti ambientali dei fenomeni di deumanizzazione, vale a dire ha documentato come questi fenomeni scaturiscano in circostanze ben precise, disimpegnando moralmente gli attori sociali e incoraggiandoli a porre in atto comportamenti altrimenti vietati59. 58

Cfr. M.J. OSOFSKY, A. BANDURA, P.G. ZIMBARDO, The role of moral disengagement in the execution process, «Law and Human Behavior», 29, 4, 2005, pp. 371-393; A. BANDURA, Moral Disengagement. How People Do Harm and Live with Themselves, Macmillan, New York 2016, trad. it. Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, Erickson, Trento 2017. 59 Cfr. P. ZIMBARDO, The Lucifer effect. How Good People Turn Evil, New York, Random House, New York 2007, trad. it. L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008.

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La politica del male

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Nonostante l’esclusione morale delle vittime e disimpegno morale dei carnefici, l’umanità dei carnefici, a volte, non si esaurisce del tutto. Riferisce Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz: Le fucilazioni mi atterrivano, soprattutto pensando alle masse, alle donne e ai bambini. Ne avevo abbastanza, ormai, delle esecuzioni di ostaggi, delle fucilazioni in gruppo […] Era proprio questo che mi turbava di più, quando pensavo alle descrizioni che Eichmann ci aveva fatto dello sterminio di ebrei, mediante mitragliatrici e mitra, compiuto dalle squadre speciali (Einsatzkommandos). Pare che vi si svolgessero scene spaventose: i tentativi di fuga da parte dei condannati, l’uccisione dei feriti, soprattutto delle donne e dei bambini. I frequenti suicidi nelle file delle squadre speciali, da parte di coloro che non erano più in grado di sopportare quei bagni di sangue. Alcuni sono impazziti. La maggioranza dei membri di queste squadre hanno cercato di dimenticare il loro triste lavoro annegando nell’alcool. Secondo le descrizioni di Höfle, anche i militi di Globocnik addetti ai luoghi di sterminio consumavano quantità inverosimili di alcool.60

Anche la giustificazione a obbedire ai comandi dei superiori, discolpa spesso riferita dai carnefici durante un loro processo, potrebbe essere un disimpegno morale, ma questo sembra essere generalmente più un alibi preferito dai criminali per autoassolversi e dislocare le responsabilità, poiché alla base c’è sempre e comunque un processo di deumanizzazione del nemico, che fa accettare gli ordini, anche se moralmente riprovevoli. Durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, la difesa si basò sull’affermazione che il funzionario eseguisse zelantemente gli ordini dei suoi superiori, rispettando le leggi del III Reich. Questo “spostamento delle responsabilità” disimpegnava moralmente Eichmann. In base a questo, la filosofa Hannah A60 R. HÖSS, Commandant in Auschwitz, Deutsche Verlang-Anstalt, Stuttgart 1958, trad. it. Comandante in Auschwitz, Einaudi, Torino 1995, p.130. L’utilizzo dei gas per uccidere in massa fu un’enorme sollevazione morale per Höss.

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rendt elaborò la teoria della “banalità del male”, per riferirsi all’incapacità del pensiero razionale del gerarca nazista che, in un’ottica di obbedienza acritica, seguiva le leggi e i comandi incondizionatamente, ritenendoli giusti61. A distanza di quasi cinquant’anni un’altra filosofa ha però dimostrato che il gerarca nazista non era “incapace di pensare”, che non era imbevuto di rispetto verso i suoi superiori, ma che quella di Eichmann fu una strategia difensiva che scaricava su altri le responsabilità dello sterminio degli ebrei. La tedesca Bettina Stangneth, infatti, consultando molto materiale, tra cui oltre milletrecento pagine di memorie manoscritte, nonché le trascrizioni di venticinque ore di registrazione di interviste rilasciate da Eichmann al giornalista olandese Willem Sassen, ex nazista trasferitosi in Argentina, è arrivata alla conclusione che il gerarca nazista non era stato “incapace di pensare”, che non era un semplice subordinato, ma che il suo apporto allo sterminio di milioni di ebrei fu determinante62. Infatti, tra le altre azioni, fu Eichmann, assieme al generale Reinhard Heydrich, a organizzare nel 1942 la conferenza di Wannsee, dove fu pianificata la “Soluzione finale” del popolo ebraico. La convinzione antiebraica di Eichmann non venne meno neppure dopo la fuga in Argentina: Eichmann è parte della fitta rete di sostegno e aiuto reciproco tessuta dai nazisti in Sud America, incontra spesso numerosi camerati e non considera affatto concluso il progetto che ha condotto allo sterminio di due terzi degli ebrei europei solo pochi anni prima. Al contrario, lamenta di non essere riuscito a fare abbastanza per “sterminare il nemico”: “avrei potuto fare di più e avrei dovuto fare di più”.63

61

Cfr. H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem., cit.. Cfr. B. STANGNETH, Eichmann vor Jerusalem. Das unbehelligte Leben eines Massenmörders, Arche, Zürich und Hamburg 2011, trad. it., La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, Luiss University Press, Roma 2017. 63 Ivi, p. 350. 62

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La politica del male

Il suo sprezzante odio contro gli ebrei si manifesta pochi attimi prima di morire, quando alla guardia che lo accompagnò al patibolo riferì: «Spero che tutti voi mi seguiate presto»64. In un celebre esperimento ispirato al processo a Eichmann, lo psicologo statunitense Stanley Milgram dimostrò che le persone sono disposte a obbedire agli ordini di un’autorità legittima, compiendo azioni anche in contrasto con la propria morale. In breve. Nell’esperimento un volontario (nel ruolo di insegnante), sotto la spinta di uno sperimentatore, doveva infliggere delle scariche elettriche a un’altra persona (nel ruolo di alunno) ogni volta che questo non ricordava una lista di parole. Le scosse erano somministrate attraverso bottoni che recavano delle scritte, da “lieve” (15 volt) a “pericolosa” (sino a 450 volt). Lo scopo dell’esperimento, veniva detto ai volontari, era testare se la memoria potesse migliorare tramite la punizione degli errori. In realtà chi riceveva le scosse (che erano solo simulate) era un attore che fingeva una reazione con implorazioni e grida al progredire dell’intensità delle scariche elettriche. Dopo l’esperimento ai volontari veniva detta la verità e ciò che era accaduto diveniva oggetto di confronto. Milgram volle dimostrare che fattori di tipo situazionale (tra cui le pressioni di un’autorità) possono influenzare il comportamento delle persone, che si rendono disponibili a esercitare azioni che in altri momenti non avrebbero praticato65. Tuttavia studi più recenti hanno smontato, anche se non completamente, la tesi di Milgram, dimostrando che non vi sono evidenze specifiche che attestano che tutte le persone entrino davvero in tale stato di sudditanza a un’autorità legittima66. Milgram, infatti, ha 64

M. GINSBURG, Eichmann’s final barb: ‘I hope that all of you will follow me’, «The Time of Israel», 2 December 2014, http://www.timesofisrael.com/eichmanns-final-barb-i-hope-that-all-of-youwill-follow-me/. 65 S. MILGRAM, Obedience to authority. An experimental view. Harper & Row, New York 1974, trad. it. Obbedienza all’autorità, Einaudi, Torino 2003. 66 Cfr. S. REICHER, S.A. HASLAM, After Shock? Towards a Social Identity Explanation of the Milgram “Obedience” Studies, in: «British Journal of Social Psychology», vol. L, n. 1, 2011, pp. 163-169; M.M. HOLLANDER, The reper-

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II. Il male e la violenza

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sovrastimato il concetto di “obbedienza alle autorità” e sottovalutato l’idea del “disimpegno morale”: i soggetti che si sottoposero all’esperimento erano consapevoli che quella era una sperimentazione e che mai il test avrebbe raggiunto esiti mortali; un numero ragguardevole di loro ha resistito agli ordini, interrompendo l’esperimento; quelli che hanno rispettato gli ordini dello sperimentatore lo hanno fatto dopo aver tentato diverse strategie di resistenza; pochi sono stati quelli che continuarono a somministrare le scosse elettriche sino all’ultima. Milgram, inoltre, ha tralasciato di associare alle decisioni dei volontari le inclinazioni personali e il contesto in cui viveva o aveva vissuto, pur essendo queste fondamentali nello stabilire il comportamento di chi è esortato da un’autorità a comminare straordinarie sofferenze a un’altra persona. Ad esempio Milgran sicuramente sorvolò sulla motivazione di una donna che non volle proseguire il test: ella riferì nel colloquio post esperimento di essere cresciuta nella Germania nazionalsocialista e che aveva «visto troppo dolore»67. Dunque, tutti i soggetti che parteciparono all’esperimento sapevano di agire in un “concetto di senso”, quindi di essere protagonisti di un esperimento che mai avrebbe potuto avere esiti mortali. Questo ha prodotto un disimpegno morale da parte di chi decise di proseguire, poiché era consapevole che era un esperimento e che quel test, condotto tra l’altro nella Yale University, era attuato per il bene della scienza. Lo stesso Milgram si rende conto di non essere riuscito perfettamente a individuare la complessa personalità che spiega la cieca obbedienza a una autorità68. Ritornando a Eichman, il “disimpegno morale” del gerarca nazista è dunque tutto nella considerazione che ha degli ebrei, ossia esseri fuori dall’Umanità. Eichmann non è un burocrate che “non pensa”: in un’ottica normale “pensa male”, secondo gli ideologi nazisti della Soluzione finale “pensa bene”. Il suo toire of resistance. Non-compliance with directives in Milgram’s ‘obedience’ experiments, «British Journal of Social Psychology», 54, 3, 9 January 2015, pp. 425-44. 67 Ivi, p. 82. 68 Ivi, p. 194.

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non è quindi un “Male banale”, ma un “Bene banale”, derivato dalla valutazione soggettiva di un Bene che lo ha portato a legittimare un Male non ritenuto tale69. La deumanizzazione, l’esclusione morale delle vittime e il disimpegno morale dei carnefici, dunque, rendono immuni rispetto al destino dell’Altro, ponendo il nemico fuori dell’orizzonte etico dei persecutori, giustificando condotte violente e criminali, minimizzando il ruolo dell’aguzzino, dislocando la responsabilità verso i superiori che hanno impartito l’ordine, attribuendo la colpa alle vittime70. Tutto questo ha permesso di far pullulare nella storia bestie immonde, demoni depravati, microrganismi infettivi, pezzi intercambiabili di macchine, giustificando e rendendo moralmente accettabili violenze, abusi, sino all’annientamento fisico in massa.

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Ho ripreso la mia valutazione già esposta nel par. 1 di questo capitolo. Cfr. A. BANDURA, Moral disengagement in the perpetration of inhumanities, in «Personality and Social Psychology Review», vol. 3, n. 3, 1999, pp. 193–209; ID., Social cognitive theory of moral thought and action, in W.M. KURTINES, J.L. GEWIRTZ (Eds.), Handbook of moral behavior and development, vol. 1, Erlbaum, Hillsdale 1991, pp. 45–103. 70

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Capitolo III

Il nemico da discriminare

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3.1. Razzismo, pregiudizi e stereotipi Il razzismo è una convinzione basata su un’arbitraria suddivisione e gerarchizzazione degli esseri umani in gruppi (le cosiddette “razze”), che giustifica la supremazia di alcune di queste “razze” sulle altre, realizzandola attraverso pratiche di inferiorizzazione e di esclusione di varia natura e intensità. Negando l’uguaglianza del genere umano in nome delle differenze, il razzismo si estende anche a discriminazioni verso individui giudicati appartenenti a gruppi “non naturali” (gli omosessuali), a portatori di caratteristiche fisiche considerate sfavorevoli (disabili), a credenti di altre confessioni religiose diverse dalla maggioranza, a chi non appartiene a un ceto sociale considerato “elevato”, agli antagonisti politici, a donne e uomini che non corrispondono agli ideali correnti di bellezza e così via. La teorizzazione di livelli razziali differenti ha permesso di giustificare fenomeni come la schiavitù, la sottomissione coloniale, l’emarginazione dalla società, la ghettizzazione, la persecuzione sino agli stermini di massa. Nell’ambito della psicologia sociale due forme di ragionamento stanno alla base dei comportamenti razzisti e discriminatori: il pregiudizio e lo stereotipo1. 1

Nel significato comune i termini “pregiudizio” e “stereotipo” sono spesso associati e accomunati. In realtà, come vedremo avanti, hanno significati completamente differenti.

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“È più difficile disintegrare un pregiudizio che un atomo”, diceva Albert Einstein. In effetti caratteristiche di un pregiudizio, come di uno stereotipo, sono la loro rigidità e il loro essere resistenti alle disconferme dell’esperienza. La loro generalizzazione e la loro ripetitività, poi, completano il brutto quadro, creando effetti tendenzialmente negativi nelle relazioni umane. Il pregiudizio è, come suggerisce il suo etimo, un “giudizio antecedente” 2 ossia una valutazione a priori fondata su una generalizzazione falsa, resistente alle prove dell’esperienza, della conoscenza, della relazione diretta e, quindi, conservata a dispetto di eventuali fattori che la contraddicono. Il pregiudizio comunemente indica una “sentenza anticipata”, quindi un’opinione immotivata con valore arbitrario. Infatti, il pregiudizio, può essere definito un’opinione precostituita, preconcetta e adottata, un giudizio affrettato o avventato, sprovvisto di giustificazione razionale o espresso a prescindere da una conoscenza precisa dell’oggetto. Cristallizzandosi dunque in forme irreversibili, il pregiudizio impedisce valutazioni corrette. La persona (o il gruppo) che nutre un pregiudizio nei confronti di un altro tenderà a prendere in considerazione solamente le cose che confermano le sue idee, rafforzando così i preconcetti in cui crede. Lo psicologo sociale Rupert Brown, così definisce il pregiudizio: Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la sola appartenenza ad esso»3. [Il pregiudizio] può essere considerato sia come processo di gruppo sia come fenomeno che può essere analizzato a livello della percezione, dell’emozione e dell’azione individuali.4 2

Dal latino praeiudicium, composto di prae– prima e iudicium giudizio. R. BROWN, Prejudice. Its social psychology, Basil Blackwell, Oxford 1995, trad. it. Psicologia sociale del pregiudizio, trad. it., il Mulino, Bologna, 1997, p. 15 (orig. 1995). 4 Ivi, p. 7. 3

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III. Il nemico da discriminare

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Il pregiudizio va stimato non solo come un fenomeno unicamente cognitivo, ma occorre considerare anche le sue componenti emotive e le sue espressioni comportamentali (individuali e di gruppo). Infatti, il pregiudizio è un atteggiamento composto da tre aspetti: una componente cognitiva, una emozionale e una comportamentale. La componente cognitiva comprende le credenze che compongono l’atteggiamento; quella emozionale rappresenta il tipo di emozione collegata sia all’atteggiamento (ad esempio la rabbia o la bonarietà) sia all’estremità dell’atteggiamento (l’ansia moderata, l’ostilità incontrollata); quella comportamentale collegata alle azioni dell’individuo (che agisce individualmente o in gruppo). I pregiudizi possono nascere in qualunque momento dell’arco di una vita, dipendendo dalle circostanze storiche ed educative5. La prima conseguenza che realizza un pregiudizio riguarda la creazione delle coppie oppositive Io-Tu, Noi-Voi, cioè la categorizzazione di alcune persone in uno specifico gruppo definito estraneo (outgroup) diverso da quello di appartenenza e che mi identifica (ingroup)6. La categorizzazione è infatti il tema sottostante della cognizione sociale umana, l’atto cioè di raggruppare gli stimoli in base alle loro somiglianze e di metterli in contrasto in base alle loro differenze7. Quando i pregiudizi prendono una forma permanente diventano stereotipi. Lo stereotipo è un modello fisso di conoscenza e di rappresentazione della realtà, è una specifica caratterizzazione unilate5

Secondo le ricerche, il pregiudizio è acquisito già durante l’infanzia, poiché i bambini sono più permeabili alle influenze familiari e sociali. Cfr. M.C. BARBIERO, Noi e gli altri: atteggiamenti e pregiudizi nel bambino, Guida, Napoli 1985. 6 Cfr. M.E. DE CAROLI, Categorizzazione sociale e costruzione del pregiudizio. Riflessioni e ricerche sulla formazione degli atteggiamenti di “genere” ed “etnia”, Franco Angeli, Milano 2005. 7 Cfr. anche H. TAJFEL, J.P. FORGAS, La categorizzazione sociale: cognizioni, valori e gruppi, in V. UGAZIO (a cura di), La costruzione della conoscenza. L’approccio europeo alla cognizione del sociale, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 139-198 (ora 2007).

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La politica del male

rale degli “Altri” (gruppo o collettività) che spesso deriva anche dal pregiudizio. L’origine del termine stereotipo (dal greco stereòs, rigido e tòpos, impronta, modello), può essere ricercato in quella fase del processo di stampa nel quale è prodotto un calco per rendere possibile la riproduzione su pagina di modelli o figure, attraverso appunto una “forma” fissa. Fu il giornalista politico statunitense Walter Lippmann a descrivere l’utilizzo che le persone fanno di calchi cognitivi per poter riprodurre nella loro mente immagini di persone o di eventi. Nel 1922, nel suo Public Opinion8, egli si riferiva a questi calchi come “quadri mentali che abbiamo in testa”, considerando gli stereotipi come: Una rappresentazione ordinata più o meno consistente del mondo, alla quale si sono adattati i nostri modi di essere, i nostri gusti, capacità, comodità e speranze. Possono non rappresentare un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile al quale siamo adattati. In quel mondo le cose e le persone hanno il loro posto fisso e fanno certe cose che sono attese. In esso ci troviamo a casa.9

Sostiene lo psicologo sociale Rupert Brown: Valutare qualcuno attraverso uno stereotipo, significa attribuirgli certe caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo cui questi appartiene. Uno stereotipo rappresenta, in altri termini, un’inferenza tracciata a partire dall’assegnazione di una persona a una data categoria.10

Poiché il rapporto conoscitivo con la realtà non è diretto, ma corrotto da immagini mentali fisse, che di quella determinata realtà ciascuno si forma, gli stereotipi diventano semplificazioni rigide. Se questa “immagine fissa” è solamente adottata da una 8

In italiano, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2004. W. LIPPMANN, Public Opinion, Harcourt, Brace and Company, New York 1922, trad. it. L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2004, p. 95. 10 R. BROWN, Psicologia sociale del pregiudizio, cit., p. 103. 9

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III. Il nemico da discriminare

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persona è una convinzione personale, ma se è accolta da un gruppo, da una collettività, diventa uno stereotipo. La forza sociale di uno stereotipo dipende dal grado di condivisione, dal livello di generalizzazione delle caratteristiche stereotipiche, dal grado di rigidità. Il grado di condivisione è dato dall’estensione quantitativa di una particolare immagine che un gruppo si fa di un altro; il livello di generalizzazione delle caratteristiche stereotipiche rappresenta il grado di convinzione che le peculiarità negative attribuite a un gruppo siano diffuse in maniera omogenea tra tutti i membri di quel gruppo; il grado di rigidità è espresso dalla misura di resistenza al cambiamento degli stereotipi, in pratica, più intensamente saranno radicati nella cultura di un gruppo, più difficilmente risulteranno modificabili. Come i pregiudizi, anche gli stereotipi comprendono una varietà di opinioni rigide su gruppi basate su etnia, sessualità, nazionalità, religione, politica, status sociale e posizione economica. Così, ad esempio, tutti gli ebrei sono avidi di denaro e cospiratori; tutti i musulmani sono fanatici e potenziali terroristi; tutti i clandestini sono potenziali delinquenti; tutti gli “zingari” sono accattoni, scansafatiche e ladri e rapiscono pure i bambini. Stereotipi e pregiudizi sono dunque gabbie mentali che ricavano dalle differenze la diversità dei diritti. Questo naturalizza relazioni diseguali, giustificando così la discriminazione sino al razzismo violento. 3.2. “Razze”, diversità e discriminazione Si racconta che lo scienziato Albert Einstein, giunto in America dopo la sua fuga dalla Germania nazista, alla domanda inclusa nel modulo d’immigrazione sulla “razza di appartenenza”, abbia risposto: umana. Quest’aneddoto non è confermato, ma tutti sappiamo che il grande fisico dovette vivere sulla propria pelle la discriminazione razziale, essendo ebreo. Partendo da questo episodio, sorge spontanea la domanda: esistono più razze umane? Rispondiamo subito di no, non esi-

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stono diverse razze umane e l’idea di una distinzione razziale tra essere umani è destituita di qualsiasi validità scientifica. Inoltre, il sorriso e le lacrime sono uguali in qualsiasi essere umano. Per lungo tempo il concetto di “razza” si è fondato sulla base delle diversità del fenotipo (dal greco phainein, che significa “apparire”, e týpos, che significa “impronta”), cioè delle caratteristiche somatiche esterne, tra cui maggiormente il colore della pelle. Con lo sviluppo della genetica si è iniziato a guardare al genotipo (ossia la composizione genetica di un organismo) come elemento distintivo dei gruppi umani. Allora è possibile scientificamente definire il concetto di “razza”? Rispondiamo ancora no. Dal punto di vista scientifico è scorretto dividere gli esseri umani in “gruppi” caratterizzati da differenze di pelle o da altre caratteristiche. Tutti i gruppi etnici hanno lo stesso numero di cromosomi e le differenze geniche tra le varie “razze” sono insignificanti, mentre c’è una grande variabilità genica individuale all’interno di ogni singola “razza”. In definitiva, nella differenza siamo tutti parenti. Questa parentela è avvenuta grazie alla mescolanza genetica, conseguenza dei continui scambi migratori che si sono verificati nella storia dell’umanità. Se i gruppi razziali non possono essere biologicamente definiti, le categorie razziali sono allora costrutti sociali. Nell’antichità il razzismo non è biologico ma si basa su differenze politiche, linguistiche, culturali e religiose. Uno dei primi documenti che sembra legittimare la discriminazione tra gli esseri umani è probabilmente una stele risalente all’antico Egitto del XIX secolo a.C. Vi è scritto: Frontiera Sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibito a qualsiasi nero, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino11. 11

Cit. in P.L. SHINNIE, Ancient Nubia, Routledge, London 2009, p. 76 (orig. 1996).

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Non tutti gli studiosi concordano con la traduzione del termine “nero”, alcuni rapportano il vocabolo a “nubiani”, gli abitanti della Nubia, regione comprendente l’Egitto Meridionale (Bassa Nubia), lungo le rive del Nilo, e la parte Settentrionale del Sudan (Alta Nubia). Tuttavia la sostanza non cambia, poiché i nubiani erano di carnagione nera. Però, quella degli Egizi fu solo una discriminazione di natura politica, perché dopo la conquista della Nubia la popolazione di pelle nera fu integrata saldamente nella civiltà dell’antico Egitto. Gli antichi Greci e Romani, più che associare l’appartenenza alla razza, collegavano il concetto di cittadinanza a quello di civiltà, dividendo il genere umano non in razze, ma in popoli (étnoi). La cittadinanza presso gli antichi Greci e nell’Impero romano rendeva giuridicamente liberi, un privilegio sociale, politico e giuridico, non certo biologico. Chi accettava i valori della civiltà greca o romana era riconosciuto cittadino. Lo stesso termine “barbari” utilizzato da Greci, poi dai Romani, oggi usato con un significato ostile o di scherno, indicava unicamente tutti i non–greci (nella radice della parola, infatti, la ripetizione della sillaba “bar”, restituisce in maniera onomatopeica il balbettìo incomprensibile): se un barbaro impara il greco o il latino chiaramente non è più un barbaro. È vero che Aristotele giustificava la schiavitù sostenendo che “per natura” alcuni comandano e altri obbediscono, vale a dire che schiavi si nasce e non si diventa, ma questo non esprime ancora un discorso compiutamente razziale, anche perché lo schiavo è comunque considerato un uomo e la sua situazione dipende dall’inclinazione del carattere: Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà […] è schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui

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è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla12.

La concezione di “proprietà” fornirà ai teorici delle razze la base per formulare antropologie discriminative, che porteranno a una legittimazione dei rapporti di dominio, autorizzando non solo l’utilizzo degli esseri umani come bestie da soma, ma anche come cavie negli esperimenti scientifici. L’Impero Romano fu la società più multietnica dell’antichità, non conosceva persecuzioni di “diversi” in quanto tali, ma solo quando questi rappresentavano una minaccia o non volevano sottomettersi all’ordine costituito. Ad esempio, l’ostilità verso gli ebrei non fu di tipo razziale, ma politica e poi religiosa. L’appartenenza a un gruppo etnico non era causa dello status sociale e chiunque, in teoria, poteva migliorare la propria condizione economica e sociale. Lo stesso privilegio della cittadinanza non fu distribuito secondo la “razza”, ma secondo la fedeltà a Roma. 3.3. Il peso della tradizione biblica Il Vecchio Testamento o Primo Testamento, testo sacro comune a ebrei e cristiani, contribuisce all’elaborazione di teorie discriminatorie basate sull’appartenenza a una stirpe. In un passo della Genesi, il narratore informa che Noè si è ubriacato. L’ebbrezza porta il patriarca biblico a denudarsi all’interno della sua tenda, prima di addormentarsi. Cam vede la nudità di suo padre e, invece di tener la cosa per sé in virtù della deferenza filiale, la racconta ai fratelli Sem e Japhet, mancando di rispetto al padre. Sem e Japhet prendono un mantello e, camminando a ritroso in modo da non disonorarlo guardandone la nudità, coprono il padre. Al risveglio Noè, saputo del comportamento dei tre figli, maledice Cam nella sua discendenza, lodando gli altri due figli. Egli profetizza che la discendenza di 12

ARISTOTELE, Politica, I, 4–5 (IV secolo a.C.).

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Cam da parte di suo figlio Canaan sarebbe divenuta schiava della stirpe di Sem e Japhet13. Nel capitolo successivo, il testo sacro traccia una “tavola delle genti” partendo da Noè, proseguendo con i suoi figli e poi i suoi nipoti. Poiché il mitico “diluvio universale” ha distrutto tutto, queste persone danno origine a tutti i popoli della terra. Il testo descrive come i discendenti di Noè si sono dislocati sulla terra. I Semiti, discendenti da Sem, popolano il continente asiatico (ebrei, fenici, arabi, maltesi e altri che ancora oggi parlano lingue afro–asiatiche); gli iafetiti, eredi di Japhet, l’indoeuropa; i camiti, nipoti di Cam, il Nordafrica e l’Etiopia: «Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro generazioni, nei loro popoli. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio»14. Poiché si crede che Cam avesse una carnagione scura, si identificano erroneamente nella sua discendenza le popolazioni negridi africane. Questa credenza nasce probabilmente dall’origine del nome Cam, che deriva dall’egiziano Khem o Kemet, cioè “terra nera”. Ma semiti, camiti e iafetiti sono tre famiglie di popoli tutti di discendenza bianca, o meglio caucasica. Dunque, una maledizione di un uomo (Noè) e non di Dio, offre un alibi alla sottomissione di una stirpe (camiti), considerata simbolo del «degrado piuttosto che della primitività»15, ad altre stirpi (semiti e iafetiti). Il successivo capitolo della Genesi spiega il motivo della dispersione dei popoli discendenti da Noè e l’acquisto di lingue diverse. L’essere umano spinto dal desiderio di potenza come tentativo ambizioso per arrivare alla divinità costruisce la mitica “Torre di Babele”. Dio punisce questo tentativo oltraggioso, confondendo le lingue e disperdendo l’essere umano su tutta la terra16. 13

Genesi 9, 20–27. Genesi, 10, 32. 15 J.P. CHRÉTIEN, Hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi, in J.L. AMSELLE, E. M’BOKOLO (a cura di), Au coeur de Vethnie. Ethnie, tribalisme et État en Afrique, La Découverte, Paris 1985, trad. it. L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma 2008, p. 170. 16 Genesi 11, 1–9. 14

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A parte il dominio sui popoli della “Terra di Canaam” (regione che ora comprende anche Israele) da parte del popolo semita discendente da Abramo (israeliti), durante il Medioevo cristiano si trovano poche tracce sull’utilizzazione di questi passi della Genesi per giustificare la sottomissione di popoli. Dal Seicento, con la scoperta di “nuovi mondi”, il peso della tradizione biblica trasformerà la maledizione in alibi per assoggettare la stirpe di Cam17. Durante l’epoca medievale certamente si assiste a un’ondata di discriminazioni verso altri popoli o verso una categoria di persone, ma sono tutte dovute a motivi religiosi e politici e non razziali. In questo periodo dilagano le violenze tra cristiani e musulmani, le persecuzioni contro eretici e pagani, le “guerre” all’interno dello stesso cristianesimo fra cattolici e ortodossi e fra cattolici e protestanti, si accendono i roghi per condannare uomini e donne accusati di stregoneria, si acutizza l’odio cristiano contro gli ebrei18. Quest’ultimo popolo è quello più perseguitato nella storia: già avversati prima del cristianesimo, lo saranno in seguito ancor più quando l’Europa si cristianizzerà. Tuttavia, per buona parte del Medioevo sarà un’avversione non a sfondo biologico, ma di natura religiosa e politica, tant’è vero che all’interno della cristianità, chiunque avesse accettato di essere battezzato, quale che ne fosse l’origine razziale, avrebbe dovuto essere considerato un cristiano al pari di qualsiasi altro. Il forte spirito comunitario e la forte identità culturale degli ebrei hanno scatenato da sempre l’ostilità di altri popoli nei loro riguardi; a questo si aggiunga il pregiudizio religioso frutto ancora della tradizione biblica (Nuovo Testamento): il popolo ebraico è ritenuto l’erede di quello che fece uccidere Gesù il Cri17

Sulla schiavitù della stirpe camitica cfr. G. GLIOZZI, Adamo e il nuovo mondo. La nascita dell’etnologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500–1700), La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 111–125. 18 Cfr. C. DELACAMPAGNE, L’invention du racisme. Antiquité et Moyen Âge, Fayard, Paris 1983, trad. it. L’invenzione del razzismo. Antichità e Medioevo, Ibis, Pavia 2000.

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sto. Questa avversione verso gli ebrei prenderà erroneamente il nome di antisemitismo. Il termine “antisemita” fu coniato dal giornalista viennese Wilhelm Marr nel 1879 per indicare l’ostilità nei confronti degli ebrei. Probabilmente Marr riprese il termine semitisch coniato dallo storico tedesco August Ludwig von Schlözer come aggettivo per indicare il gruppo delle lingue che comprende il siriaco, l’aramaico, l’arabo, l’ebraico, il fenicio, tutti idiomi parlati da quelle popolazioni che il passo biblico della Genesi fa discendere da Sem, figlio di Noè19. Se usato correttamente, dunque, il vocabolo “antisemitismo” dovrebbe indicare l’ostilità nei confronti dell’intera famiglia semitica e non solo verso gli ebrei. Gli ebrei non sono il solo popolo a essere perseguitato in questo periodo. Infatti, man mano che l’Europa cristiana allarga i suoi confini, viene a galla un sentimento di superiorità verso i popoli colonizzati non cristiani, che determina grande violenza e arbitrio. Con la scoperta di “nuovi mondi” e “nuovi popoli” la superiorità europea infatti caratterizzerà la moderna storia: il contatto con popolazioni sinora sconosciute, con struttura fisica differente dal fenotipo noto in Europa, determina una nuova “alterità”. Questi popoli sono così giudicati “non umani”, privi di ragione, sentimento e moralità, e per questo vanno sterminati o sottomessi. Ovviamente vi sono in questo periodo anche dei cattolici, come ad esempio il domenicano padre Bartolomeo de Las Casas, che sostengono l’uguaglianza degli esseri umani a prescindere dalle differenze etniche o religiose20. La demonizzazione degli ebrei e la scoperta di nuovi popoli in America, Asia e Africa gettò quindi le basi del razzismo biologico, che a sua volta generò la strage di molti popoli e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, tra cui l’abominevole tratta dei neri.

19

Cfr. il già citato passo della Genesi, 10, 21–31. Rimando al mio La prima Carta dei Diritti Umani nacque nel Nuovo Mondo, in «Storia in Network», numero 110, dicembre 2005.

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3.4. Dal razzismo culturale a quello scientifico Il razzismo scientifico affonda le sue radici nel determinismo biologico e possiamo collocare la sua nascita nel XVIII21. Già nel 1684, il medico e filosofo francese François Bernier, a seguito di osservazioni effettuate nei suoi numerosi viaggi, nel suo Nouvelle division de la Terre par les différentes éspèces ou races d’homme qui l’habitent suggerisce l’idea dell’esistenza di diversi tipi di esseri umani, ciascuno localizzato su un continente, distinti dal colore della pelle e da altre caratteristiche fisiche e somatiche. Bernier, tuttavia, non ne ricava giudizi di superiorità o inferiorità di un “tipo” rispetto a un altro. Nella prima metà del Settecento, il medico e naturalista svedese Carl von Linné (latinizzato in Linnaeus, poi divenuto Linneo) si serve per la prima volta, come criterio distintivo delle razze, del colore della pelle, dividendo i gruppi umani in bianchi, neri, rossi e gialli. Il grande progetto di classificazione umana è messo nero su bianco nel suo Systema naturae (1735). Nel 1749, il naturalista Georges–Louis Leclerc, conte di Buffon, sostiene nella sua Histoire naturelle de l’homme, che la formazione delle razze sarebbe in sostanza il risultato dell’esposizione alle condizioni materiali di un determinato ambiente. In pratica, il naturalista francese sostiene che, per effetto di differenti condizioni ambientali, ovvero per degenerazione ambientale, da un unico “tipo” umano si sarebbero originate tutte le altre razze umane. Così, per il naturalista francese, i gruppi «naturali» di individui sono determinati da peculiari caratteri morfologici. Nel XIX secolo, con lo sviluppo delle scienze naturali, si sviluppano in Europa teorie scientifiche che determinano il peggioramento della situazione in termini di razzismo.

21

Cfr. A.M. ROSSI, Il mito del determinismo biologico. Più che scienza fu pregiudizio, «Sapere», 5, ottobre 2009, pp. 36–44; ID, Le presunte basi biologiche del razzismo, «Naturalmente», vol. 23/3, pp. 1–7, 2010 (prima parte); vol. 23/4, pp. 4–7, 2010 (seconda parte).

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III. Il nemico da discriminare

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Il primo a porre le basi del pensiero razzista moderno è il diplomatico e filosofo francese Joseph Arthur, Comte de Gobineau. Nel suo Essai sur l’inégalité des races humaines (1853) sviluppa il concetto di “decadenza razziale”. In pratica la decadenza delle “civiltà dei bianchi” è dovuta, secondo il filosofo francese, a una mescolanza tra popolazioni bianche e quelle di colore. Per questo egli sostiene che, per arrestare questo decadimento della razza bianca, si deve attuare un disegno di discriminazione delle razze “inferiori”. Dalla teoria evolutiva di un’unica razza, che poi si sarebbe diversificata a causa delle diverse condizioni ambientali, si ripassa a quella “poligenetica”, che farebbe risalire le popolazioni del mondo a progenitori diversi. Nel 1775, l’antropologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach, nel trattato De generis humani varietate nativa, riprende la precedente suddivisione dei gruppi umani (caucasici, mongoli, etiopi, amerindi, malesi), assegnando questa volta un preciso ordinamento gerarchico delle “razze”, basato su criteri estetici e in cui naturalmente la precedenza è assegnata al proprio gruppo di appartenenza (la caucasica, quella europea). Blumenbach, involontariamente, dà corpo alle teorie razziste in Europa. Grande sostenitore della teoria poligenetica diventa Edward Long, storico e amministratore coloniale britannico in Giamaica. Nel capitolo “Negroes”, incluso nel secondo dei tre volumi della sua History of Jamaica (1774), propone una classificazione delle razze basate su tre specie umane: gli europei e i loro affini, i negri, gli orang-utan (il primate più vicino all’uomo, che condivide circa il 97% del nostro patrimonio genetico) sino a tutte le scimmie antropomorfe senza coda. La teoria razzista di Long contiene anche un’altra eresia scientifica: i mulatti22, sostiene il britannico, in virtù della loro “mescolanza di razza” so-

22 Una curiosità sul termine “mulatto”: deriva dallo spagnolo mulàto (con riferimento al mulo, animale ibrido), espressione a sua volta ripresa dall’arabo movallad o muallad, che indicava in origine il figlio nato da padre arabo e madre non araba.

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no sterili. Ovviamente questo non è vero, e lo stesso Long poteva constatarlo direttamente vivendo in Giamaica. Fervente sostenitore della teoria poligenetica delle origini umane è lo storico tedesco Christoph Meiners. Nel 1785, con il suo Grundriss der Geschichte der Menschheit (Lineamenti della storia umana), inaugura la strada al razzismo scientifico in Europa. Egli postula la teoria dell’esistenza di una pluralità di razze umane con caratteri ereditari e indelebili, ordinate gerarchicamente in base a giudizi di valore. Ovviamente, anche per lui gli europei (esclusi gli slavi) sarebbero superiori a tutti gli altri popoli. Da Meiners in poi le farneticazioni pseudo–scientifiche sulle razze umane si ampliano. Verso la fine del Settecento, il famoso anatomista olandese Petrus Camper, introducendo per primo l’utilizzo dell’angolo facciale in anatomia comparativa (ossia quell’angolo che si forma tra una linea orizzontale passante per il foro uditivo esterno e la spina nasale inferiore e un’altra verticale passante per la parte più sporgente della fronte e dei denti incisivi), suddivide le razze umane su una base di tipo estetico, associando il concetto di “fisicamente bello”. Le misure dell’angolo facciale di Camper, sono poi prese in considerazione dalle emergenti teorie razziste. Queste associarono lo sviluppo delle facoltà intellettive all’angolo facciale. In pratica, partendo dall’idea che le facoltà intellettive hanno sede nei lobi frontali del cervello (l’angolo facciale è tanto più aperto quanto più il cranio è sviluppato anteriormente) si possono determinare le razze superiori da quelle inferiori. Secondo Camper l’angolo facciale del nero non superava i settanta gradi, e ciò è un evidente sintomo della sua somiglianza con la scimmia. A conclusioni simili arrivano altri studiosi. Tra questi, l’antropologo francese Julien–Joseph Virey che, nella sua Histoire naturelle du genre humain (1801), incrementa le argomentazioni di Meiners, ribadendo che le razze bianche sono belle, a differenza di quelle nere che sono brutte. Verso il 1845, anche Anders Retzius, docente svedese di anatomia, sostiene le teorie di Camper e conia il concetto di indice cefalico. Secondo l’accademico, poiché le teste lunghe e strette (cosiddette “doli-

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cocefale”) sono assai più belle e armoniche di quelle larghe (chiamate “brachicefale”), non vi è alcuna incertezza sull’evidenza che gli individui bianchi europei sono dotati di migliori “facoltà dell’anima” rispetto ai neri. Arthur de Gobineau, diplomatico e filosofo francese, nel suo saggio Essai sur l’inégalité des races humaines (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane), pubblicato nel 1853–54, suddivide le razze umane in bianca, nera e gialla, attribuendo a ciascuna determinate caratteristiche morali e psicologiche innate, per sostenere la tesi della superiorità dei bianchi sui neri e sui gialli. Secondo il diplomatico gli Stati si avviano prima o poi sulla strada del loro graduale declino a causa della progressiva degenerazione dei popoli causata dal “meticciato”, ossia dalla mescolanza di sangue tra razze diverse. A questo, secondo Gobineau, si può ovviare preservando la purezza della razza superiore, quella ariana ovviamente. La teoria di Charles Darwin sull’evoluzione darà consistenza alla credenza della degenerazione della razza. Sebbene il biologo e naturalista britannico non mirasse chiaramente a costruire una teoria razziale, anzi egli stesso utilizza spesso nei suoi scritti l’espressione “le cosiddette razze” per ribadire la sua contrarietà ai preconcetti razzisti, la sua opera The Origin of Species (1859) dà notevole impulso al successivo sviluppo delle teorie razziali attraverso il “darwinismo sociale”. Questo, nonostante nel saggio ci fossero tutti gli elementi necessari per smentire il razzismo. Il darwinismo sociale non è altro che l’applicazione dell’evoluzionismo alla società umana. Francis Galton, cugino di Darwin, nell’opera Inquiries into the human faculty and its development (1883), introduce il neologismo eugenics, derivandolo dal greco eugéneia (di buona stirpe, di buona nascita), per indicare il programma finalizzato a migliorare, attraverso procreazioni selettive, la specie umana. Nasce l’eugenetica, la disciplina che si propone il miglioramento della specie umana. Nella sua forma estrema l’eugenetica sociale arriva a suggerire la necessità di eliminare gli individui affetti da malformazioni congenite e da malattie ereditarie.

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Nel 1922 è coniato negli Stati Unti il termine under man (sub–umano), che poi diventerà il cavallo di battaglia dell’ideologia nazista della “purezza della razza”. Autore è Theodore Lothrop Stoddard, tra i padri del razzismo scientifico, che intitola un suo saggio The Revolt Against Civilization. The Menace of the Under Man (La rivolta contro la civilizzazione. La minaccia del sub–umano), in cui definisce sub–umani i bolscevichi russi. Il termine sarà adottato poi dai nazisti, grazie alla versione tedesca del libro: Der Kulturumsturz: Die Drohung des Untermenschen23. 3.5. Il razzismo nel XXI secolo Il dibattito sulla “razza”, dunque, attraversa tutta la storia dell’uomo avendo, a partire dall’evo moderno, esiti ripugnanti e criminali24. Se le prime teorie razziste giustificarono il sistema schiavistico nel continente americano e africano, la politica di sfruttamento nel periodo coloniale e la discriminazione razziale negli Stati Uniti d’America25, la strumentalizzazione politica di queste nuove teorie razziste giustificherà i tragici eventi realizzati da governi razzisti nel Novecento. In particolare i teorici del nazismo ebbero spianata la strada per giustificare qualunque violenza e discriminazione verso gli 23

Sulle teorie scientifiche del razzismo cfr. S.J. GOULD, The Mismeasure of Man, W. W. Norton, New York 1981, trad. it. Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, il Saggiatore, Milano 2006; P.A. TAGIUEFF, Le racisme. Un exposépour comprendre, un essaipour réfléchir, Flammarion–Dominos, Paris 1997, trad. it. Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Raffaello Cortina, Milano 1999; M. OLENDER, Race sans histoire, Le Seuil, Paris 2009, trad. it. Razza e destino, Bompiani, Milano 2014. 24 G.M. FREDRICKSON, Racism: A Short History, Princeton University Press, Princeton 2002, trad. it. Breve storia del razzismo, Donzelli, Roma 2005. 25 In particolare con la società segreta Ku–Klux Klan, attiva in tre distinti periodi dal 1866 sino agli anni Ottanta del Novecento. Cfr. il mio Il KKK, la setta che macchiò di sangue nero l’onore degli USA, in «Storia in Network», giugno 2006.

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ebrei, i rom e i sinti, gli omosessuali, i portatori di handicap fisico e mentale, consegnando alla storia la vergogna dell’Olocausto degli ebrei e del Porrajmos dei rom e sinti, della sterilizzazione coatta dei cosiddetti Erbkranke (gli individui affetti da malattie degenerative), dell’eutanasia infantile che portò all’eliminazione di neonati e bambini sotto i tre anni con gravi malformazioni e disabilità congenite, dell’eutanasia degli adulti portatori di una malattia inguaribile, dell’eliminazione fisica di chi era portatore di gravi menomazioni fisiche e mentali. L’affermarsi della convinzione della superiorità dei bianchi sui neri, portò dal 1948 al 1993 al governo dell’apartheid nella Repubblica Sudafricana. Apartheid vuol dire nella lingua afrikaans “separazione” e fu una politica di segregazione e divisione razziale che regolava le relazioni tra la minoranza bianca e la maggioranza non bianca della popolazione (bantu, neri africani, persone con discendenza mista, asiatici) in Sudafrica. Dal 1948 al 1993 il razzismo di Stato della Repubblica Sudafricana permise l’attuazione di leggi che prescrivevano per ciascun gruppo i luoghi da frequentare, quali mezzi pubblici usare, il tipo di lavoro da esercitare e a quale categoria di sistema scolastico si poteva accedere. Ovviamente, per legge, erano proibite quasi tutte le relazioni interrazziali e l’esclusione dei non bianchi da ogni forma di rappresentanza politica. Oltre alla violenza quotidiana26, fu predisposto finanche un programma criminale, il Project Coast, che mirava a ridurre la fecondità della popolazione di colore del Paese attraverso la realizzazione e lo sviluppo di un micidiale vaccino razzialmente selettivo27. I danni prodotti dal razzismo nella prima metà del Novecento portano a una serie di condanne: nel 1950 l’ONU censura il razzismo con la Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO, negando ufficialmente la correlazione tra la differenza fenotipica 26

La testimonianza di vittime e aguzzini durante l’apartheid in D. FRANCHI (a cura di), Raccontare la verità. Sud Africa 1996–1998. La commissione per la verità e la riconciliazione, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2010. 27 Cfr. C. GOULD, P. FOLB, Project Coast: Apartheid’s Chemical and Biological Warfare Programme, United Nations Institute for Disarmament Research, Ginevra 2002.

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nelle razze umane e la differenza nelle caratteristiche psicologiche, intellettive e comportamentali28; nel 1965 la “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” definisce il razzismo come ogni differenza, esclusione e restrizione dalla parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche29; nel 1978 la Conferenza Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura riunita a Parigi adottata all’unanimità e per acclamazione la “Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali”, in cui si ritorna con convinzione ad affermare priva di ogni fondamento scientifico qualunque dottrina che pretende di attribuire alle differenze di razza difformità attitudinali, intellettuali e psichiche e che attribuisce a incroci tra razze diverse effetti in qualche modo negativi dal punto di vista biologico30; nel 2000, su iniziativa delle Nazioni Unite, si proclama per il 21 marzo di ogni anno la “Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”31. Malgrado queste disposizioni si continua purtroppo a discriminare. Il massiccio flusso migratorio di popoli da Sud e da Est, poi, peggiora la situazione, riportando a brutte derive razzistiche il mondo contemporaneo. Tuttavia si dimentica che la migrazione non è una causa, ma una conseguenza: di fronte alle crescenti miserie, alle numerose ingiustizie e ai molteplici conflitti 28

Cfr. The Race Concept, «Unesco.org», http://unesdoc.unesco.org/images/ 0007/000733/073351eo.pdf, in appendice il Text of the Statement of 1950. 29 Cfr. International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination, New York, 21 December 1965, «United Nations. Human Rights. Office Of The High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/ ProfessionalInterest/Pages/CERD.aspx 30 Cfr. Declaration on race and racial Prejudice, 27 November 1978, «Unesco.org», http://www.unesco.org/webworld/peace_library/UNESCO/HRIGHTS/107116.HTM 31 La data è stata stabilita in memoria della giornata più sanguinosa dell’Apartheid sudafricano: l’eccidio di 69 manifestanti neri nel 1960 a Sharpeville (Sudafrica). La risoluzione ONU 2142 (XXI) del 26 ottobre 1966 che stabilisce questa celebrazione in «United Nation», http://www.un.org/ en/events/racialdiscriminationday/

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armati che lacerano i molti “Sud del mondo”, migrare diviene l’unica possibilità di sopravvivenza. Non esistono dunque diverse razze umane: l’idea di una distinzione razziale tra essere umani è destituita di qualsiasi validità scientifica. È il razzismo a creare le “razze umane”, le quali esistono solo nel contesto discorsivo-pratico del razzismo. Genetisti e biologi evoluzionisti assicurano che ognuno di noi è diverso dagli altri solo per l’un per mille del suo DNA32. Quindi una sola razza umana, o meglio nessuna. Pur in mancanza di razze, i razzismi resistono, aggrappandosi a idee astratte e vaghe come identità. Non potendosi ammantare di scientificità, i razzismi diventano un fenomeno culturale e politico, che trasforma un determinato gruppo in “razza”, attraverso la naturalizzazione delle sue peculiarità (razzizzazione), vale a dire la propensione a tradurre le differenze culturali in termini di differenze naturali, a ridurre a natura il sociale, a trascrivere in chiave naturalistica le caratteristiche in base alle quali determinati individui e gruppi vengono distinti dal resto della popolazione o addirittura dal resto del genere umano33.

Dunque, una costruzione funzionale alla discriminazione in funzione politica e sociale, che a sua volta motiva forme di dominio totale, dalla segregazione allo sterminio. Il riemergere dei nuovi nazionalismi alimenta la razzizzazione di un gruppo, facendo leva sull’identità. Alla base del nazionalismo c’è sempre l’idea della unicità della Nazione, intesa come unità d’identità di un popolo, che 32

Cfr. L.L. CAVALLI SFORZA, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996; L.L. CAVALLI SFORZA, F. CAVALLI SFORZA, Razza o pregiudizio? Evoluzione dell’uomo fra natura e storia, Einaudi, Torino 1996; G. BARBUJANI, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2010. 33 A. RIVERA, Idee razziste, in R. GALLISSOT, M. KILANI, A. RIVERA, L’imbroglio etnico in quattordici parole–chiave, Dedalo, Bari 2001, pp.154– 155.

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tende a classificare le persone al suo interno, ordinandole gerarchicamente. Quando l’argomento della difesa dell’identità si radicalizza diventa razzismo, scaricando sull’Altro inquietudini e invidie34. Il “diverso” da Noi, l’estraneo, diventa così il capro espiatorio sul quale riversare ogni causa di disgrazia, alimentando comportamenti intolleranti verso l’Altro con stereotipi negativi. Questi stereotipi assolvono a due funzioni principali: rinforzano una identità collettiva positiva, se riferiti al proprio gruppo, tendono ad avere caratteri spesso discriminanti se riferiti a un gruppo di non–appartenenza. In quest’ottica, uno stereotipo diventa «un’opinione esagerata in associazione a una categoria» e la sua funzione diventa «quella di giustificare (razionalizzare) la nostra condotta in relazione a quella categoria»35. Sotto questo aspetto l’identità diviene una gabbia che imprigiona, ostacola, impedisce: Non si vuole qui criticare il concetto di identità, di cui certamente non si può fare a meno, il vero problema consiste nel modo in cui questa identità è costruita, a pregiudizio di che cosa e soprattutto come si pone in relazione ad altre identità. Una seria preoccupazione nasce cioè quando l’identità diventa una vera e propria ossessione, dando origine alla coppia amico– nemico36.

Con il nemico di razza non sono possibili compromessi, ogni dialogo è pregiudicato dalla peggior depravazione che assume il razzismo, quella di non prevede alcun tipo di riconciliazione, di relazione positiva con l’Altro. Diceva già nel 1942 l’antropologo inglese Ashley Montagu: «I problemi della razza sono essenzialmente problemi di relazioni umane, e i problemi della 34

Cfr. A. BURGIO, Nonostante Auschwitz. Il «ritorno» del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma 2010. 35 G.W. ALLPORT, The nature of prejudice, Addison–Wesley, Cambridge 1954, trad. it. La natura del pregiudizio, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 266. 36 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 337.

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razza non sono che una delle tante prove del nostro fallimento nelle relazioni umane»37. Come non dargli ragione.

37

A. MONTAGU, Man’s Most Dangerous Myth. The Fallacy of Race, Harper & Brothers, New York 1952, trad. it. La razza. Analisi di un mito, Einaudi, Torino 1966, pp. 357–358.

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Capitolo IV

Il nemico torturato

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4.1. La tortura, una pratica antica Il sostantivo femminile tortura deriva dal tardo latino tortúra, da tòrtus, che si riconduce a torqueo, che indicava l’atto d’intreccio di una cosa, da cui torquère, “torcere”, e vale pertanto con il significato proprio di curvare, attorcigliare, flettere e piegare con forza. Il termine si rifà alla “torsione delle membra” che anticamente s’infliggeva a un imputato per estorcere (ex-torquēre) informazioni o confessioni1. A torqueo si riconducono una serie di lemmi correlati con l’area semantica della tortura, in particolare il sostantivo tormentum (da torqueamèntum: torqueo con desinenza mèntum, indicante lo strumento), che dall’iniziale significato di strumento a corda, passerà a quello di atto o arnese di tortura, per arrivare per ulteriore traslato al significato attuale di “sofferenza”, “supplizio”. Più in generale, col termine tortura s’individua un metodo di coercizione fisica o psicologica per annullare la volontà di un individuo, per ottenere determinate azioni, tra cui la confessione, il rilascio di informazioni, la conversione, la sottomissione e l’ubbidienza. Si associa alla nozione di tortura anche il complesso delle sevizie esercitate sui condannati durante l’espiazione della pena, come mezzo di aggravamento del trattamento 1 Cfr. Cfr. Voce “Tortura”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online, https://www.etimo.it/?term=tortura.

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La politica del male

detentivo (ad esempio incatenamento, custodia in ambienti insalubri e così via). La tortura è dunque un programmato, deliberato e sistematico oltraggio violento perpetrato sul corpo e sulla mente di un individuo, per azzerarlo fisicamente, psicologicamente e culturalmente, spogliandolo della sua dignità umana, privandolo della sua singolarità e violando i suoi legami culturali e religiosi:

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Imporre il dolore e l’umiliazione è un atto che persegue una logica di cancellazione della vittima. Poter disporre del corpo significa poter disporre dell’uomo, della sua condizione, dei suoi valori più cari.2

Abolendo vergognosamente tutti i limiti, la tortura diventa una pratica pedagogica di esercizio politico attraverso il dolore. Con la tortura la politica si inserisce prepotentemente nel corpo, facendosi verbo nella carne. L’essere umano diventa così un corpo ferito in un processo che lo scrittore Jean Amery a definito di Verfleischlichung, ossia riduzione completa a mera carne: Solo nella tortura il farsi carne dell’uomo diviene completo: fiaccato dalla violenza, privato di ogni speranza di soccorso, impossibilitato a difendersi, il torturato nel suo urlo di dolore è solo corpo nient’altro.3

2

Le Breton D., Anthropologie de la douleur, Édition Métailié, Paris 1995, trad. it., Antropologia del dolore, Meltemi, Roma 2007, p. 196. 3 J. AMERY, Jenseits von Schuld und Sühne: Bewältigungsversuche eines Überwältigten, Szczesny, Munich 1966, trad. it., Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 63. Jean Amery è il pseudonimo di Hans Chaim Mayer (ha cambiato il suo cognome anagrammando in francese il suo originale). Coinvolto nella distribuzione di propaganda antinazista, nel luglio 1943 Améry è catturato e sottoposto a tortura prima dalla Gestapo, poi dalle SS nella loro centrale belga a Fort Breendonk. Una volta che i nazisti realizzano di trovarsi davanti a un ebreo piuttosto che a un pericoloso cospiratore è tradotto ad Auschwitz. Con l’avanzata sovietica viene trasferito con altri prigionieri prima a Buchenwald e poi a Bergen-Belsen. Qui vi resta sino alla liberazione del campo da parte dell’esercito britannico (aprile 1945).

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IV. Il nemico torturato

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Proprio questa riduzione, porta alla terribile esperienza di vivere, in un totale stato di inerme passività, la propria morte restando in vita. La tortura, dunque, è quello spazio in cui il corpo del torturato non appartiene più a se stesso, ma al torturatore. È lo spazio dell’essere senza essere, il margine in cui il torturato è ancora il proprio corpo senza averne più facoltà. Il trionfo del torturatore, al di là dalla infinita varietà dei metodi (sui quali la fantasia umana si è esercitata con smisurato successo da millenni)4, è portare il torturato oltre la sua vita e al limite della morte. Se il torturato muore, il torturatore ha fallito la sua missione. Il vero scopo del torturatore non è tanto quello di estorcere informazioni, tra l’altro poco credibili, quanto quello di creare una «distanza psichica radicale rispetto alle vittime, per convincersi che esse non sono, o che non sono più, esseri umani»5. Tutto questo degradando e disumanizzando la vittima, annichilendo la persona, mettendo a tacere una voce, una storia, una libera alterità: La tortura tratta il corpo vivente come se fosse una cosa inanimata, e il suo esecutore è qualcosa di più che un signore detentore del potere di vita e morte, perché la sua sovranità innalza il potere assoluto al di là dell’uccidere, annullando l’umanità dell’uomo mentre questo è ancora in vita. Così la tortura trasforma l’essere umano in una creatura senz’anima.6

Un torturato non riprenderà mai il suo posto nella vita, perché la tortura ha innalzato un muro tra sé e il mondo, protocollando un potere sul corpo: 4

Cfr. M. KERRIGAN, The instruments of torture, Amber Book, London 2001, trad. it. Gli strumenti di tortura, L’Airone, Roma 2001. 5 J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, èditions du Seuil, Paris 2005, trad. it. Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, p. 366. 6 W. SOFSKY, Die Ordnung des Terrors: das Konzentrationslager, Fischer, Frankfurt am Main 1993, trad. it., L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 337.

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La politica del male

Chi è stato torturato rimane torturato. […] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.7

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La vittima, dunque, resta per sempre vittima, anche quando l’oppressore non c’è più, perché la violenza oggettivante della tortura ha irrimediabilmente derubato il suo senso d’identità, frantumando la sua personalità, poiché il carnefice ha “lavorato” sapientemente la sua carne e la sua mente, per trasformare il dolore in una modalità di controllo politico. 4.2. Un percorso storico Strumento per carpire informazioni, dispositivo di sottomissione totale, mezzo di minaccia, arma della politica, la tortura nella sua variabilità attraverso i secoli è una costante della storia umana. Presente sin dall’antichità e presso tutte le culture, la tortura nasce come punizione dolorosa e disonorevole inflitta a nemici e malfattori, qualora avessero compiuto azioni ritenute infami. Le prime tracce della tortura risalgono agli antichi Egizi, che fin dal XX secolo a. C. usano metodi molto crudeli8 per intimorire, punire o far confessare malfattori e nemici. Nel mondo greco e romano la tortura, dapprima riservata solo agli schiavi e agli stranieri e via via estesa a fasce sempre più larghe della popolazione, assume il carattere di strumento giuridico in una duplice veste: come dispositivo istituzionale per ottenere testimonianze (tortura come strumento di prova) e come mezzo di punizione (tortura come sanzione legale). Nella commedia Le rane Aristofane elenca ironicamente alcuni di questi supplizi: “Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, 7 8

P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2001, p. 30 (orig. 1986). Cfr. M. KERRIGAN, Gli strumenti di tortura, cit., pp. 45–46.

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mettigli l’aceto nel naso, ammassagli mattoni sul petto, appendilo per i pollici”9. Durante il periodo delle invasioni barbariche non si ha notizia della tortura come mezzo istituzionale nei procedimenti giudiziari, ma nell’XII secolo essa torna a essere ampiamente utilizzata nei processi penali grazie alla rinascita del diritto romano. Essa ha la duplice funzione di mezzo per estorcere confessioni e avvalorare le prove processuali, di strumento punitivo. La Chiesa di Roma non soltanto la tollera, ma la utilizza essa stessa nella lotta contro gli eretici. Infatti, pur estranea al diritto canonico, la tortura entra a far parte della procedura della Santa Inquisizione con la bolla Ad extirpanda, emanata il 15 maggio del 1252 da papa Innocenzo IV. Si prescrive nella bolla pontificia: «II podestà o il rettore della città saranno tenuti a costringere gli eretici catturati a confessare e a denunciare i loro complici». Tuttavia, nella sua crudeltà, papa Innocenzo precisa che la tortura degli imputati non deve «far loro perdere alcun membro o mettere la loro vita a repentaglio». E ancora: la tortura deve essere applicata una sola volta e sotto stretto controllo medico, mai a vecchi e bambini, e non può durare più di quindici minuti10. Nonostante le precise regole procedurali che teoricamente dovrebbero moderarne l’uso, non vi è in realtà alcun freno agli abusi e gli inquisitori operavano nella massima libertà. Ad esempio, per ovviare alla regola dell’unica seduta, gli inquisitori verbalizzano le successive applicazioni di tortura come semplici continuazioni della prima. La fantasia degli inquisitori non ha limiti e numerose sono le torture applicate, dall’impalamento all’annodamento dei capelli, dalla privazione del sonno (Tormentum insominae) alla “Culla della strega” (la vittima è ben chiusa in un sacco, che poi è sospeso al soffitto e fatto oscillare continuamente), per finire ai famosi roghi per “abbrustolire” 9

E. CANTARELLA, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Rizzoli, Milano 2000. 10 Il testo completo della bolla papale in «Documenta Catholica Omnia», http://www.documentacatholicaomnia.eu/01p/12431254,_SS_Innocentius_IV,_Bulla_%27Ad_Extirpanda%27_%5BAD_125205-15%5D,_LT.pdf

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streghe ed eretici11. Spesso per verificare la colpevolezza di un accusato si praticano anche riti giudiziari particolari, chiamati “ordalìe”. L’ordalìa (dal germanico antico ordal, che significa “giudizio di Dio”) è una pratica giuridica con la quale l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato sono determinate sottoponendolo obbligatoriamente a una prova molto dolorosa. Dall’ordalìe del fuoco12 e dell’acqua13 sino ai duelli, la determinazione dell’innocenza deriva dal completamento della prova senza subire danni o dalla rapida guarigione delle lesioni riportate o dalla vittoria (nel duello). Le ordalìe, tuttavia, non sono un fenomeno esclusivo della civiltà occidentale medievale, ma di un fenomeno che abbraccia dall’antichità tante culture14. Fatto unico nell’Europa di questo periodo è la condanna della tortura come strumento di indagine da parte Rinaldo da Concorezzo, vescovo di Ravenna. Nel grande processo contro i Cavalieri Templari indetto dal re di Francia Filippo il Bello e da papa Clemente V agli inizi del 1300, Rinaldo è scelto come inquisitore responsabile del procedimento ai cavalieri dell’Italia settentrionale (Veneto, Lombardia, Emilia–Romagna e Istria). Nel processo il vescovo di Ravenna condanna la tortura come strumento di indagine, escludendo l’utilizzabilità delle confessioni estorte con tali mezzi: Devono essere considerati innocenti coloro per i quali è possibile dimostrare che hanno confessato solo per timore della 11

Cfr. M. KERRIGAN, Gli strumenti di tortura, cit., pp. 41–47. La prova consiste nel far trasportare agli accusati un pezzo di ferro rovente di peso variabile e per una certa distanza: se il percorso è terminato con l’oggetto incandescente fra le mani, l’accusato non è considerato colpevole. Un’altra ordalìa del fuoco consiste nel camminare bendati e scalzi su carboni ardenti. Dopo tre giorni i giudici controllano le ferite: se non rimarginate l’accusato è considerato colpevole. 13 Generalmente consisteva nel far immergere agli accusati le mani in acqua bollente, alla profondità dei polsi, a volte sino ai gomiti. Si aspettava poi, come per l’ordalìa del fuoco, tre giorni per valutare le colpe. 14 Cfr. F. CUOMO, Nel nome di Dio. Roghi, duelli rituali e altre ordalie nell’Occidente medievale cristiano, Newton & Compton, Roma, 1994. 12

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tortura. È innocente anche chi ha ritirato la confessione estorta con la violenza oppure non ha osato ritirarla per timore d’essere nuovamente torturato.15

La sentenza di Rinaldo da Concorezzo è un’anticipazione delle tesi di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene,1764), Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura, opera pubblicata postuma nel 1804), Joseph von Sonnenfels (Su l’abolizione della tortura, 1775) e di molti altri intellettuali, che con vigore si sono battuti contro questa pratica criminale. Il primo a vietare l’uso della tortura è Federico II di Prussia nel 1740, seguito da altri sovrani sotto la spinta dell’Illuminismo e del Razionalismo. Nei primi anni dell’Ottocento in quasi tutta l’Europa è abolito l’utilizzo di questa pratica. Essa, tuttavia, pur eliminata dagli ordinamenti giudiziari, resta come pratica corrente extragiudiziaria soprattutto nei conflitti civili in molte parti del mondo, Europa compresa16. Se sino al Medioevo la tortura è stata la “regina” della prova, nella storia moderna e contemporanea essa è diventata “serva” del biopotere. La tortura infatti ha assunto una doppia funzione: informativa e terroristica. A volte è un metodo per indurre a parlare, altre volte è una strategia per ridurre al silenzio. In tale prospettiva, la tortura è qualcosa di più di una tecnica di interrogatorio, è un modo di esercitare potere. In quest’ottica il torturatore diventa uno degli “operai” specializzati di una catena di montaggio del potere, rendendo la tortura non più una pratica occasionale, ma una scienza sempre più sofisticata e professionalizzata. 15

In R. CARAVITA, La figura di Rinaldo da Concorezzo arcivescovo di Ravenna, grande inquisitore per il processo ai templari, in G. MINNUCCI, F. SARDI (a cura di), I Templari: mito e storia. Atti del Convegno Internazionale di Studi alla Magione Templare di Poggibonsi (Siena, 29–31 maggio 1987), A.G. Viti–Riccucci, Sinalunga–Siena, 1989 p. 100. 16 Un excursus storico della pratica della tortura in G.R. SCOTT, A History of Torture, T. Werner Laurie, London 1940, trad. it. Storia della tortura, Mondadori Milano 1999, pp. 55–172; G. LATERRA, Storia della tortura, Olimpia, Sesto Fiorentino (Firenze), 2007.

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Difatti, la tortura contemporanea poggia su un’articolata struttura preparata adeguatamente e composta non solo dal torturatore, ma da istruttori (per formare il personale che materialmente compirà la tortura), medici (per monitorare lo stato della salute della vittima per evitarne il decesso o per somministrare farmaci psicotropi), psicologi (per fornire il profilo psichico della vittima al fine di individuare il tipo di tortura più adeguata) e scienziati (che studiano sia tecniche sempre più sofisticate per il controllo della mente sia soluzioni che non lascino evidenti segni sul corpo del malcapitato). L’uso della tortura nel nostro tempo non è dunque il prodotto dell’arbitrarietà dei singoli militari, come i governi vogliono far credere quando qualche verità viene a galla, semmai sono gli atti di violenza gratuita a essere il prodotto dell’arbitrarietà dei singoli e del loro abuso di potere. 4.3. Contro la tortura Sebbene oggi il divieto di tortura sia inequivocabile, questa brutalità per ottenere la confessione, la conversione o semplicemente la sottomissione della vittima, continua a essere utilizzata. Il divieto di tortura, non solo in tempo di pace ma anche di guerra, è contemplato espressamente sia nel diritto umanitario sia nelle regole internazionali a tutela dei diritti umani: nessuna circostanza può quindi giustificare l’uso della tortura e tutti i trattamenti crudeli, inumani e degradanti per estorcere informazioni, per punire o per soggiogare17. L’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 dell’ONU ricorda agli Stati che «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione cru-

17 Cfr. F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2006.

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deli, inumani o degradanti»18, mentre il Patto dell’ONU sui diritti civili e politici del 196619 all’art. 7 vincola gli Stati a non utilizzare la tortura e neppure le punizioni o i trattamenti crudeli, disumani o degradanti20. Oltre alle disposizioni del diritto di guerra tra Stati che vietano di sottoporre a tortura o a trattamenti inumani o degradanti i prigionieri di guerra21, la popolazione civile22 e tutte le persone che si trovano assoggettate al potere del nemico23, tale divieto è espressamente enunciato anche nel contesto di conflitti armati di natura interna24. Nel 1975, la World Medical Association (WMA, Associazione Mondiale dei Medici), nella Dichiarazione di Tokyo definisce le torture come: Sofferenze fisiche o mentali inflitte in modo deliberato, sistematico o arbitrario da una o più persone che agiscono da sole o su ordine di una autorità per obbligare un’altra persona a fornire informazioni, a fare una confessione o per qualunque altra ragione25.

18

Cfr. Universal Declaration of Human Rights, in «United Nations Human Rights. Office Of The High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/UDHR /Pages/Language.aspx?LangID=itn. 19 Adottato dall’Assemblea Generale il 16 dicembre 1966, è entrato in vigore il 23 marzo 1976. 20 Nell’articolo si aggiunge anche che «nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico». Cfr. International Covenant on Civil and Political Rights, 16 December 1966, in «United Nations – Human Rights. Office Of The High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CCPR.aspx. 21 Articoli 13, 14, 17, 87 e 130 della III Convenzione di Ginevra del 1949. 22 Articoli 5, 27, 31, 32 e 147 della IV Convenzione di Ginevra del 1949. 23 Art. 75 del I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra. 24 Art. 3 delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949; articoli 4, 5 e 7 del II Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra. 25 Cfr. WMA Declaration of Tokyo – Guidelines for Physicians Concerning Torture and other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment in Relation to Detention and Imprisonment, in «World Medical Association», http://www.wma.net/en/30publications/10policies/c18/

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La stessa dichiarazione specifica anche che «i medici non dovranno approvare la pratica della tortura o di altre procedure crudeli, inumani o degradanti, né parteciparvi» e questo «in tutte le situazioni, conflitti armati e guerre civili comprese»26. Sempre la World Medical Association, nell’Assemblea Generale Annuale del 2007 chiarisce anche che per un medico non è possibile optare per l’inazione, obbligando esplicitamente i medici «a documentare i casi di tortura di cui vengono a conoscenza», ricordando che «il non documentare e denunciare questi atti può essere considerato come una forma di tolleranza e di mancato soccorso alle vittime»27. Con l’intento di incrementare l’efficacia della lotta contro la tortura nel mondo intero, il 10 dicembre 1984 è varata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti28. All’art. 2 la tortura è intesa come: [...] qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti uni26

Ibidem. Cfr. Doctors Urged to Document Cases of Torture, in «World Medical Association», http://www.wma.net/en/40news/20archives/2007/2007_10/ 28 Le disposizioni della Convenzione sono entrate in vigore il 26 giugno 1987. Cfr. Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, 10 December 1984, in «United Nations – Human Rights. Office Of The High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/Pro fessionalInterest/Pages/CAT.aspx 27

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camente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.29

Nell’articolo che segue, la Convenzione condanna in maniera assoluta l’uso di tale pratica:

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Nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può esser invocata in giustificazione della tortura [Art. 2.2].

Questa disposizioni non permette alcuna deroga a tale divieto. È chiaro, quindi, che anche l’ordine da parte di un superiore di torturare, non giustifica l’azione della tortura: sia chi ordina tale pratica sia chi obbedisce e la esegue rientra nella categoria dei torturatori. Gli articoli successivi indicano esplicitamente i vincoli per gli Stati aderenti alla Convenzione: Nessuno Stato Parte espellerà, respingerà o estraderà una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura [Art. 3]. Ogni Stato Parte vigila affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale. Lo stesso vale per i tentativi di praticare la tortura o ogni atto commesso da qualsiasi persona, che rappresenti una complicità o una partecipazione all’atto di tortura [Art. 4.1].

Pensare che le convenzioni internazionali possano porre fine alla ferocia della tortura è una mera utopia. Purtroppo la tortura continua a far parte del corredo della politica, pur riconoscendo l’illiceità di questo metodo. Infatti, questo è confermato dalla prassi degli Stati che, quando sono accusati di violare questo divieto, nascondo tali condotte, confermando di riconoscere le norme internazionali su questa interdizione. 29

Ibidem.

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Dai Lager nazisti ai Gulag sovietici, dai campi ustascia a quelli di Tito, dalla repressione francese in Algeria (1954–1962) ai famigerati regimi latinoamericani del secolo scorso (anni Sessanta e Settanta del Novecento), dalla Guerra del Vietnam (1955–1975) alla Cambogia di Pol Pot (1976–1979), dalla Grecia dei Colonnelli (1967–1974) alla Gran Bretagna contro gli ex nazisti (1945–1947) e poi contro i separatisti dell’IRA (anni Settanta del Novecento), dal Sudafrica ai tempi dell’apartheid a molti Stati mediorientali, dal “lager” di Guantánamo Bay alla “notte cilena” della caserma di Bolzaneto a Genova (2001), dalle decapitazioni–show in Medio Oriente ai porno interrogatori del carcere di Abu Ghraib, la lista è lunga e purtroppo continua. In particolare alcuni metodi di tortura usati dalla democratica Gran Bretagna durante la campagna anti–terroristica nei confronti dell’IRA, hanno fatto scuola su altri governi che li hanno utilizzati quando è parso loro utile, perfezionandoli. Sono le cosiddette “cinque tecniche di interrogatorio” usate nei confronti dei prigionieri irlandesi: wall standing, costringere il detenuto a stare contro una parete con le mani sul capo e in punta di piedi in modo che tutto il peso poggi sulle dita; hooding, incappucciamento del prigioniero; subjection to noise, l’arrestato è tenuto in una stanza tra rumori assordanti; sleep deprivation, deprivazioni del sonno; deprivation of food and drink, rigida riduzione della dieta durante la detenzione30. La pratica della tortura e dei trattamenti disumani, è bene ricordarlo, non è limitata alle sole dittature militari o a regimi autoritari, ma inflitta anche da Stati che si considerano democratici. Le ricerche condotte da Amnesty International, infatti, sono devastanti, come le torture che si continuano a praticare31. Il campionario dei tormenti è molto “creativo”, dalle classiche e intramontabili fustigazioni e percosse si è passati a metodi 30

Cfr. B. MENSAH, European Human Rights Case Summaries, Cavendish, London 2002, p. 449. 31 Cfr. Amnesty International, Stop Torture, https://www.amnesty.org/en/getinvolved/stop-torture/. Nel Report 2015/16 Amnesty International denuncia i trattamenti disumani ancora presenti. Il report in http://www.amnestyusa.org/ sites/default/files/pol1025522016english.pdf

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più sofisticati che lasciano meno segni esteriori, quali la sospensione del corpo, la privazione del sonno, l’esposizione al freddo, gli abusi sessuali, l’elettroshock, le finte esecuzioni, le detenzioni prolungate in isolamento totale, la privazione di cibo e acqua per giorni, la simulazione d’annegamento (waterboarding), le posizioni prolungate di stress, le privazioni sensoriali. L’inventario è lungo e si potrebbero aggiungere altri orrori32. La tortura è oggi una vera e propria scienza del dolore, che consiste nel frantumate i “cervelli” per ricomporli in nuove combinazioni di gradimento al potere che supplizia. 4.4. Torture dittatoriali Con la Guerra fredda USA e URSS, ossessionati da spie, vere o presunte, utilizzano e fanno utilizzare la tortura come strumento per gli interrogatori, come metodo inquisitorio e finanche come sistema per “convertire”. Oltre all’ossessione per spie e traditori, la Guerra fredda dei regimi totalitari si caratterizza anche per il sistema messo a punto della rieducazione politica. Quasi sempre collegata al lavoro forzato, la rieducazione politica dei nemici interni è soprattutto associata alla tortura, utilizzata non solo per carpire qualsiasi informazione, ma anche per “convertire” il cittadino al nuovo corso politico. Nella vasta geografia concentrazionaria dei regimi totalitari per rieducare i cittadini più refrattari, spiccano due grandi realtà in cui gli internati non solo subiscono supplizi, ma sono anche obbligati a partecipare alle torture per dimostrare la loro “conversione”: il sistema Pitesti e l’auto–rieducazione nei campi di Tito33. 32

Cfr. Amnesty International Italia, Metodi di tortura nel mondo, http://www.amnesty.it/stoptortura/metodi. 33 Mi sono occupato più dettagliatamente di queste due realtà concentrazionarie nel già citato Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, pp. 219–235 e pp. 282–296.

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La logica che governa la rieducazione politica dei regimi totalitari è lineare: l’internamento in campi di concentramento o in prigioni per far raggiungere il “ravvedimento” dell’oppositore attraverso la detenzione, il duro lavoro, spesso anche insensato, e l’indottrinamento politico. Nella Repubblica Socialista di Romania e nella Jugoslavia di Tito è aggiunta un’ulteriore procedura: l’intervento degli stessi detenuti al processo di “correzione politica” degli altri internati, una malvagità sadica che pretende la partecipazione degli stessi carcerati alla violenza dispensata nei campi e nelle prigioni. In un periodo in cui i venti della Guerra fredda cominciarono a soffiare impetuosi, qualsiasi disgregazione del fronte interno del blocco orientale fu giudicata da Mosca una crepa pericolosa. Nei piani sovietici ogni Paese all’interno del suo blocco rappresentava una preziosa pedina nella grande strategia politico– militare della Guerra fredda, per questo Mosca richiese una completa compattezza politica, che a sua volta esigeva una totale sudditanza di tutti gli Stati satelliti. La Jugoslavia di Josip Broz “Tito” non doveva niente all’URSS, essendosi liberata dall’occupazione straniera solo grazie ai propri partigiani. Per questo Tito era l’unico leader all’interno del blocco sovietico che poteva permettersi di non conformarsi interamente ai dettami di Stalin, pretendendo una propria autonomia di governo. Egli, sostenuto da una solida base nazionalista che rifiutava qualsiasi sudditanza a Mosca, voleva riservarsi una completa autonomia d’azione sia sul piano politico–economico sia su quello dottrinale. Per questo impostò una politica volta a realizzare il progetto di una confederazione balcanica, poi iniziò a sviluppare un socialismo secondo indirizzi diversi da quelli di Mosca, rendendo di fatto la Jugoslavia un Paese politicamente e ideologicamente indipendente dalla Unione Sovietica. Stalin, sentendo minacciata l’egemonia “spirituale” dell’URSS, considerò Tito un pericoloso virus che avrebbe potuto contagiare le altre Repubbliche popolari. Inevita-

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bile arrivò la scomunica da Mosca34: accusando Tito e il suo entourage di nazionalismo e deviazionismo rispetto alla dottrina marxista–leninista, il 28 giugno del 1948 Mosca estromise la Jugoslavia dal Cominform35. La rottura con Mosca, tuttavia, rese più forte il dittatore jugoslavo, subito rieletto all’unanimità a segretario generale dal congresso del Partito Comunista Jugoslavo celebrato a luglio dello stesso anno. Nella nuova “via al socialismo jugoslavo” la dissidenza fu ritenuta il più pericoloso dei reati. Per questo si internarono i nemici del regime, attuando sistematiche purghe all’interno dell’apparato dello Stato e del partito36. Fra tutti dissidenti, i cosiddetti “cominformisti”, ossia gli stalinisti locali veri o presunti, furono considerati i più nocivi. Per loro si aprirono luoghi di rieducazione politica e civile: erano carceri politiche durissime, battezzate con ipocrisia “Istituti di miglioramento”, e campi di internamento chiamati “Campi di correzione”. Prigioni e campi divennero lo strumento del controllo dittatoriale sia per allontanare dalla società gli eretici del socialismo jugoslavo, sia per garantire la monoliticità della società e la coerenza degli uomini del partito all’ideale socialista jugoslavo. Tra i luoghi più terribili di “redenzione politica” ci furono i penitenziari di Sremska Mitrovica (Serbia) e Bileca (Erzegovina), il castello di Skofja Loka (Slovenia), la fortezza di Stara 34

Cfr. AA. VV., Mosca–Belgrado, I documenti della controversia 1948–1958, Schwarz, Milano 1962; L. KARCHMAR, The Tito-Stalin Split in Soviet and Yugoslav Historiography, in S. W. VUCINICH (ed), At the Brink of War and Peace. The Tito–Stalin Split in a Historic Perspective, «Social Science Monographs», New York 1982, pp. 253–271. 35 Il Cominform (forma italianizzata di Kominform – in russo Informacionnoe Bjuro Kommunističeskich i Rabočich Partij, ossia Ufficio di Informazione dei Partiti Comunisti e Laburisti) è stata un’organizzazione internazionale costituita nel settembre del 1947 con funzioni di coordinamento e reciproco scambio di informazioni tra i partiti comunisti dei vari Paesi europei. 36 Molto spesso il presunto tradimento all’ideale socialista jugoslavo divenne un pretesto per giustificare anche l’eliminazione di rivali politici. Cfr. S. BIANCHINI, Epurazioni e processi politici in Jugoslavia 1948–54, in «Storia contemporanea», 19, 4, 1990, pp. 587–615.

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Gradiska (Croazia), i campi di internamento di Borovnica e Aidussina (Slovenia), delle isole di Ugljan (Dalmazia), Sveti Grgur e Goli Otok (Croazia). In questi luoghi si sperimentarono nuovi sistemi di correzione politica e civile, che comprendevano l’auto–correzione attraverso la partecipazione alla rieducazione politica di tutti gli internati. Tra torture e soprusi l’internato doveva dimostrare di essersi ravveduto denunciando parenti e amici e, soprattutto, dispensando “violenze educative” ai cominformisti non ancora pentiti. La partecipazione degli stessi deportati al processo rieducativo ha la duplice funzione di azzerare psicologicamente e fisicamente gli eretici del socialismo jugoslavo e scongiurare qualsiasi forma di ribellione collettiva, per la diffidenza reciproca e il timore che chiunque avrebbe potuto fare la spia. Tra i supplizi più originali, che confermano la partecipazione degli stessi prigionieri da rieducare alla pratica della tortura, il cosiddetto Kkroz stroj (letteralmente “attraverso la fila”)37, un corridoio umano creato dagli stessi detenuti il quale, tra percosse brutali, doveva passare chi giungeva nel luogo di redenzione o chi si dimostrava più riottoso. Durante questa “cerimonia” i detenuti erano controllati dalle guardie, che valutano quanta determinazione mettevano nell’espletamento del rituale, in tal modo chi si sottraeva o non interveniva con convinzione era costretto a subire lo stesso supplizio. Così alcuni dei deportati si dimostravano spietati esecutori, altri invece simulavano le percosse spingendo in avanti lo sventurato, per aiutarlo a terminare più in fretta il passaggio nel corridoio. Un altro tormento era l’inquisizione condotta dai detenuti della stessa baracca o cella: tra insulti e percosse il malcapitato subiva un interrogatorio da parte dei suoi compagni di sventura sino a quando non ammetteva le proprie colpe.

37

Chiamato anche špalir (l’ala, lo schieramento), o pure Topli Zec, alla lettera “lepre calda”. Cfr. I. KOSIĆ, Goli otok, najveći Titov konclogor, Adamić, Rijeka (Croazia) 2003, p. 52.

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Poi ancora c’era il “boicottaggio”, che poteva essere normale (bojkot), duro (stmgi) e durissimo (najstrogi)38. In pratica era una punizione riservata ai detenuti più riottosi, i cosiddetti “passivisti”, che erano alla mercé degli altri prigionieri che non potevano rivolgergli la parola se non per insultarlo o picchiarlo. Al boicottato, inoltre, erano riservati i lavori più massacranti, come portare grossi carichi di pietre, pulire le latrine, subire stroj continui, fare la guardia alle kible (i recipienti che servivano da orinatoio notturno), assistere alle lezioni politiche in piedi. Per far cessare il boicottaggio, il detenuto deve dar prova del suo ravvedimento, denunciando qualcuno o svelando informazioni. Altre forme di torture per redimere il compagno indisciplinato erano la jazbina, che consisteva nel tenere il punito sotto un ammasso soffocante di coperte durante le giornate afose, e la tiganj, che consisteva nel tenere legato il detenuto ostinato su una sedia esposta al sole per ore senza la possibilità di bere39. Alle torture seguivano la fame, la sete, le malattie, l’isolamento, il lavoro pesante senza alcuna utilità pratica. A testimonianza del grado paranoico degli arresti e del trattamento riservato a persone che avevano lo stesso ideale politico, ma opinioni diverse su come perseguirlo, giunse l’ammissione tardiva di Aleksandar Ranković, capo dell’Ozna, il Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, «non vi erano reali prove di cominformismo per il 47 per cento degli arrestati»40. Anche a Pitesti, in Romania, si inaugurò un nuovo modo di torturare per rieducare gli oppositori del regime. Il carcere di Pitesti è stato uno dei 116 luoghi, 44 carceri e 72 campi di lavoro forzato, in cui il regime comunista rumeno internò e torturò i suoi dissidenti. Dopo la vittoria del Partidul Comunist Român nel 1946 e la conseguente costituzione della Repubblica Popolare Romena, formalizzata con la Costituzione del 13 aprile 1948 e in stretta 38

G. PANSA, Prigionieri del silenzio, Sperling & Kupfer, Milano 2004, p. 244. Cfr. ivi, p. 253 40 S. BIANCHINI, Epurazioni e processi politici in Jugoslavia 1948–54, cit., p. 603. 39

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sudditanza nei confronti di Mosca, iniziò un lungo periodo di terrore sistematico contro oppositori politici, reali o immaginari. Gli oppositori più pericolosi furono eliminati fisicamente, gli altri allontanati dalla società e “parcheggiati” in luoghi specifici per correggerli e rieducarli al nuovo corso socialista. Alcuni furono incarcerati per motivi strettamente politici, altri furono perseguitati a causa della professione di fede al cristianesimo41. Le condizioni di detenzione furono terribili e la pratica della rieducazione politica in Romania fu una delle più terrificanti di tutto il blocco sovietico42. Tra i luoghi di prigionia politica e lavori forzati, i più terribili furono sicuramente i posti di lavori coatti nelle miniere di alluminio presso il Delta del Danubio, il campo di Văcăreşti e quello per l’inutile progetto di escavazione del canale Danubio– Mar Nero, i penitenziari di Sighetu Marmaţiei, Gherla, Aiud, Targu Ocna, Galati, Craiova, Deva, Ocnele Mari, Jilava, Suceava, Brasov e Pitesti43. In quest’ultimo carcere fu attuato un particolare “esperimento” per la rieducazione politico–sociale, con torture psicologiche e fisiche che portarono al crollo totale dell’individuo, trasformando le vittime in carnefici. In pratica la rieducazione a Pitesti, tra torture e vessazioni, mirò dapprima al rinnegamento delle convinzioni e delle idee politico–religiose, poi all’alterazione della personalità. 41

Cfr. M. STANESCU, Reeducarea în România comunistă (1945–1952), Aiud, Suceava, Pitesti, Brasov, 3 voll., Polirom, Bucureşti 2010. 42 Cfr. T.M. NEAMTU, De ce, Doamne? Mărturiile unui deţinut politic, Dacia, Cluj–Napoca (România) 1995, trad. it., Perché, Signore? Testimonianza di un detenuto politico, Mimep–Docete, Pessano (Milano) 1997; V. POPESCU (a cura di), Le catacombe della Romania. Testimonianze dalle carceri comuniste 1945–1964, Rediviva, Milano 2014; L. HOSSU LONGIN, Memorialul durerii [Il memoriale del dolore], Humanitas, Bucuresti 2006 (la più vasta raccolta di testimonianze video, con trascrizione cartacea, il cui sottotitolo è eloquente: O istorie care nu se invata la scoala, una storia che non si impara a scuola). 43 La geografia concentrazionaria della Romania comunista in I. CIUPEA, S. TODEA, Represiune, sistem şi regim penitenciar în România. 1945–1964, in R. CESEREANU (ed), Comunism şi represiune în România comunistă. Istoria tematică a unui fratricid naţional, Polirom, Iaşi (România) 2006, pp. 38–81 (specialmente pp. 42–47 e pp. 73–74).

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Questo particolare metodo di rieducazione politica, che neppure i famigerati Gulag sovietici hanno conosciuto, ha esordito nell’estate del 1948 nella prigione di Suceava, poi è stata trasferita nella prigione di Pitesti, luogo ideale per la sua particolarità di essere totalmente inaccessibile a testimoni esterni e lontano da qualunque grande centro abitato. Apostolo di questo esperimento fu un detenuto, Eugen Turcanu, ex militante di estrema destra, convertitosi al credo comunista per ridurre la sua pena. L’esperimento di Pitesti ha avuto caratteristiche uniche per modalità e per qualità delle torture, che la differenziano da analoghe forme di rieducazione politica. Il processo di rieducazione si svolgeva in cinque fasi: “indebolimento della persona”, all’ingresso della prigione venivano attuate restrizioni molto rigide con razioni di cibo molto contenute, privazione del sonno e della parola e così via; “smascheramento esteriore”, il detenuto era indotto attraverso la tortura a rivelare i nomi di altri dissidenti, compreso parenti e amici; “smascheramento interiore”, il prigioniero era costretto a denunciare ai suoi torturatori le proprie convinzioni ideologiche o religiose; “smascheramento pubblico”, il recluso doveva pubblicamente abiurare i suoi ideali politici e religiosi e distruggere la reputazione dei propri parenti più stretti e amici più cari, per poi partecipare obbligatoriamente ad atti blasfemi, anche sessuali; “metamorfosi”, il prigioniero doveva liberamente torturare un parente, un amico o un compagno di cella, per dimostrare di essersi veramente ravveduto. Specificità dell’intero percorso di rieducazione era la coabitazione nella stessa cella tra torturatori e torturati, il che impediva di non godere di alcuna solidarietà da parte di qualcuno, come anche nessuna possibilità di alleggerire il terrore, perché a Pitesti si era «soli con se stessi»44. Il catalogo delle torture prevedeva tecniche sia classiche sia fantasiose: dalle lesioni con corpi contundenti alle marchiature a fuoco, dalla privazione del sonno alla costrizione a dormire in 44

R. CESEREANU, Tortură şi oroare: fenomenul Piteşti (1949–1952), in CESEREANU (ed), Comunism şi represiune în România comunistă. Istoria tematică a unui fratricid naţional, Polirom, Iaşi (România) 2006, p. 157.

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posizioni prestabilite, dalla reclusione in celle totalmente buie all’esposizione prolungata a luce intensa, divieto di parlare, dall’obbligo a mangiare direttamente dalle gavette cibo bollente all’imposizione a ingerire sale senza poter bere, dalla costrizione a urinare nelle bocche dei compagni alla coprofagia, dalla nudità pubblica ad atti sessuali contro natura, e così via45. A Pitesti era vietato anche morire e quando accadeva era solo per un imprevisto. Infatti nel periodo in cui è stato applicato a Pitesti l’esperimento (dicembre 1949–agosto 1951), ci furono ventitré decessi, due suicidi e ventuno decessi dovuti a errori da parte dei torturatori46. 4.5. Torture democratiche I sospetti sull’uso sistematico di tecniche poco ortodosse d’umiliazione e acquisizione delle informazioni da parte degli agenti segreti e militari statunitensi nell’interrogare i nemici sono sempre esistiti47. Dopo l’apertura degli archivi della più nota agenzia d’intelligence mondiale, la Central Intelligence Agency (CIA), i sospetti sono diventati certezze. L’apertura degli archivi USA, infatti, ha svelato e reso di pubblico dominio molti documenti compromettenti, tra cui il testo originale di due manuali sull’interrogatorio di controspionaggio: il Kubark Counterintelligence Interrogation, del 1963, e lo Human Resource Exploitation Training Manual, di venti anni dopo. Si tratta di guide 45 In italiano indispensabile sull’argomento è il testo di Dario FERTILIO, Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2010. 46 Cfr. M. STĂNESCU, Asupra numărului morţilor din reeducarea ,,de tip Piteşti (1949–1951), in I. POPA (ed), „Experimentul Piteşti”. Conference Proceedings. Comunicări prezentate la Simpozionul „Experimentul Piteşti – Reeducarea prin tortură”, Editura Fundaţia Culturală Memoria, Piteşti 2003, pp. 369–370; . A. MUREŞAN, Pitesti. Cronica unei sinucideri asistate, Institutul de Investigare a Crimelor Comunismului şi Memoria Exilului Românesc, Polirom, Bucureşti–Iaşi 2008, p. 61. 47 Cfr. A.W. MCCOY, A Question of Torture. CIA interrogation from the Cold War to the War on Terror, Henry Holt and C., New York 2006.

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IV. Il nemico torturato

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all’interrogatorio “efficace” basato su ricerche scientifiche e sul modello delle “3 D”: dependency, debility, dread (dipendenza, debilitazione, terrore). Nei due manuali si spiegano agli “addetti ai lavori” i metodi dell’interrogatorio efficiente senza lasciare tracce riscontrabili a un esame medico, come ottenere ciò che si desidera, quando ricorrere alle pressioni psicologiche e quando a quelle fisiche, quali sono i limiti da non oltrepassare, oltre ai più agghiaccianti e sofisticati metodi di manipolazione del soggetto. Il primo manuale, il Kubark Counterintelligence Interrogation, dove Kubark è un nome in codice per definire la stessa CIA, risale al luglio 1963 ed è composto di centoventisette pagine. Ha una dettagliata sezione che s’intitola “Coercive Counterintelligence Interrogation of Resistant Sources”. Dopo diverse pagine accademiche che riprendono studi universitari e dotte citazioni sulla tortura, il manuale descrive nei dettagli il modo migliore per “ottenere informazioni da fonti resistenti”48. Il manuale fa scuola in tutti i conflitti successivi, tanto da essere perfezionato in un successivo testo vent’anni dopo nel Human Resource Exploitation Training Manual. Molte disposizioni richiamano un’altra guida redatta dall’intelligence dell’esercito, il cosiddetto Project X, in uso durante i primi anni della guerra del Vietnam per addestrare il personale militare alla controguerriglia. Questo documento riprende in pieno le tecniche degli interrogatori coercitivi descritti nel Kubark Counterintelligence Interrogation, incluse le minacce di uso della violenza e la capacità — da parte dell’interrogante — di «manipolare l’ambiente del soggetto per creare una spiacevole e intollerante situazione, per fargli perdere ogni conoscenza di tempo, spazio e percezione sensitiva»49. Questo manuale diventa in testo fondamentale per le dittature latinoamericane del secolo scorso che

48

Il testo del manuale in «The National Security Archive», http://nsarchi ve.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB122/ 49 Il testo del manuale in ibidem.

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lo utilizzano per i famigerati Centros clandestinos de detención50. Un’ultima “invenzione” della CIA è la “tortura per procura”. L’Agenzia statunitense l’ha chiamata rendition, più precisamente extraordinary rendition (consegna straordinaria). In pratica si tratta di individuare il bersaglio, rapirlo con un rapido blitz, trasportarlo altrove per interrogarlo. Se fino all’11 settembre 2001 (data degli attacchi terroristici su New York e Washington) l’attività di extraordinary rendition comportava il trasferimento di sospetti nemici dal territorio di cattura a quello degli USA, successivamente il metodo di azione è variato e il catturato o è trattenuto in prigioni segrete della CIA fuori dal territorio statunitense (i cosiddetti “siti neri”)51, per essere soggetto a illegali “tecniche di interrogatorio potenziato”, oppure trasferito in un Paese meno attento ai diritti umani, nel quale la tortura è usanza consolidata, lasciandolo alle amorevoli cure degli agenti locali, dopo aver fatto una lista delle informazioni che s’intendono ottenere. In uno studio del 2013 la Open Society Foundations, organizzazione che si occupa della promozione della democrazia e dei diritti umani nel mondo, denuncia la pratica della extraordinary rendition da parte statunitense con la collaborazione, tacita o volontaria, di cinquantaquattro Paesi di ogni parte del mondo, comprese alcune democrazie occidentali, tra cui l’Italia52. Lo studio si chiama Globalizing Torture. CIA secret detention and extraordinary rendition e inizia con le inquietanti parole dell’ex vicepresidente USA Dick Cheney, tratte da un discor50

Sull’argomento rimando al mio Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, cit., pp. 306–313. 51 Cfr. D. PRIEST, CIA Holds Terror Suspects in Secret Prisons, «Washington Post», November 2, 2005; J. Mayer, The Black sites. A rare look inside the C.I.A.’s secret interrogation program, «The New Yorker», August 13, 2007. 52 Tra gli altri Paesi implicati citati nel documento ci sono Spagna, Portogallo, Austria, Germania, Irlanda e Cipro, mentre Polonia, Lituania e Romania avrebbero ospitato anche le famigerate prigioni segrete della Cia. Il rapporto Globalizing Torture. CIA Secret Detention and Extraordinary Rendition, in «Open Society Foundations, https://www.opensocietyfoundations.org/sites/ default/files/globalizing-torture-20120205.pdf

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so tenutosi il 16 settembre 2001, pochi giorni dopo gli attentati a New York e Washington:

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Dobbiamo lavorare attraverso una sorta di lato oscuro. Dobbiamo spendere il tempo nell’ombra del mondo dell’intelligence. Molto di quello che necessitiamo deve essere fatto in silenzio, senza alcuna discussione, utilizzando mezzi e metodi già in possesso delle nostre agenzie di intelligence, se vogliamo raggiungere un risultato di successo. Questo è il mondo in cui queste persone operano e dovrà essere vitale per noi utilizzare ogni mezzo a nostra disposizione, prima di tutto, per ottenere il nostro obiettivo53.

Nel Globalizing Torture sono documentati 136 casi di renditions, la maggior parte con destinazione Pakistan, Afghanistan, Egitto e Giordania. Tra questi quello di Mohamed Al-Zery, di nazionalità egiziana, rapito in Svezia e trasferito in Egitto da un commando statunitense; Maher Arar, canadese di origine siriana, arrestato nel 2002 mentre rientrava dalle vacanze in Tunisia, trasferito in Siria; l’egiziano Abu Omar, “prelevato” a Milano in via Guerzona, il 17 febbraio 2003, e trasferito in segreto in Egitto. La guerra al terrorismo ha dunque reso legittime metodi arbitrari. Altre pratiche inammissibili di torture e violenza gratuita sono state documentate finanche dagli stessi torturatori, mentre sorridenti posavano accanto ai torturati. Tra queste fotografie, quella soldatessa ventunenne Lynndie England mentre tiene al guinzaglio un prigioniero inerme. Il 28 aprile del 2004 il programma d’inchiesta 60 minutes della rete televisiva americana CBS, ha divulgato per la prima volta le violentissime immagini della “normalità” della vita dei detenuti del carcere di Abu Ghraib in Iraq: simulazione di esecuzioni, attacchi con i cani, prigionieri sodomizzati con manici di scopa, costretti a indossare vesti femminili, portati nudi a

53

Ivi, p. 5.

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guinzaglio, oscenamente ammucchiati uno sull’altro54. Tali pratiche sono denunciate pubblicamente anche da Amnesty International in un report del 6 marzo del 200655. Se gli abusi perpetrati dai militari in Iraq sono emersi grazie alla comparsa di alcune fotografie sfuggite alla rigida censura militare, la prigione di Guantánamo a Cuba è stata per lungo tempo una prigione fantasma occupata da fantasmi56. Ma nulla può restare per lungo tempo segreto. A svelare i retroscena nascosti di Guantánamo sono stati sia le testimonianze di alcuni ex detenuti57 sia report giornalistici58 sia ancora memorie scritte da persone che in quel carcere hanno lavorato59. L’organizzazione Wikileaks ha fatto di più: a reso pubblici documenti scottanti che riguardano questa prigione, compreso le schede ufficiali di ogni internato60. Il campionario degli orrori di Guantánamo è vasto e vario, una brutalità istituzionalizzata in protocolli precisi inclusi in un manuale, che pianificano la progressiva disintegrazione della resistenza fisica e psicologica dei condannati e la totale distru-

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Cfr. Abuse at Abu Ghraib, «CBSNews», http://www.cbsnews.com/news/ abuse-at-abu-ghraib/. 55 Cfr. Iraq: Beyond Abu Ghraib: Detention and torture in Iraq, in «Amnesty International», 6 March 2006, https://www.amnesty.org/en/documents/mde14/ 001/2006/en/. 56 Sull’argomento rimando al mio Campi, cit., pp. 394–402. 57 Tra queste cfr. N. SASSI, G. BENHAMOU, Prisonnier 325, camp Delta. De Vénissieux à Guantanamo, Denoël, Paris 2006, trad. it. Prigioniero 325, Delta Camp, Einaudi, Torino 2006 e di M. OULD SLAHI, L. SIEMS, Guantánamo Diary, Canongate, Edinburgh 2015, trad. it., 12 anni a Guantánamo, Piemme, Casale Monferrato 2015. 58 Tra questi il cortometraggio del regista statunitense Alex GIBNEY, Taxi to the dark side (“Taxi per l’inferno”), vincitore del premio Oscar 2008. 59 Come quella del sergente Joe HICKMAN (Murder at Camp Delta. A Staff Sergeant’s Pursuit of the Truth About Guantanamo Bay, Simon & Schster, New York 2015) o quella di James YEE, ex assistente spirituale musulmano del campo (For God and Country. Faith and Patriotism under Fire, Public Affairs, New York 2005). 60 Cfr. Gitmo files. WikiLeaks Reveals Secret Files on All Guantánamo Prisoners, in «WikiLeaks», https://wikileaks.org/gitmo/.

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IV. Il nemico torturato

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zione della loro dignità umana61: privazione del sonno, sovversione dei ritmi naturali di veglia, esposizione a estreme temperature, aggressione sensoriale con musica a tutto volume e possenti fasci di luce, esposizione della nudità, utilizzo di cani per intimidire, impiego di donne negli interrogatori dei maschi e altre misure tese a disorientare62. A tutt’oggi si continua a ripetere che “certe cose” non devo esistere, trascurando il fatto che certe pratiche si continuano ancora a perpetuare ovunque e dovunque, nelle democrazie non meno che nei regimi tirannici. La guerra al terrore scatenata dopo gli attentati a New York e Washington ha dunque abolito ignominiosamente tutti i limiti, lasciando spazio sufficiente alla interpretazione personale di alcuni diritti in nome dello stato d’eccezione. Le brutalità dei discepoli del terrore del cosiddetto “Stato Islamico”63, diffuse anche attraverso i video delle crudeli decapitazioni degli ostaggi, non possono giustificare una pratica che mai può appartenere alle democrazie, perché non si possono difendere metodi incivili con la barbarie degli altri. Tant’è vero, che il fatto che la tortura non appartenga più alla legge, conferisce agli Stati che si proclamano democratici di praticarla occultamente e di negarne il suo impiego. Questo perché gli Stati sono consapevoli che essa è un metodo espressamente condannato dal nucleo fondamentale del diritto internazionale dei diritti dell’uomo, che è l’espressione diretta dell’indiscutibile valore della dignità umana. 61 Cfr Camp Delta Standard Operating Procedure, in «WikiLeaks», https://wikileaks.org/detaineepolicies/doc/US-DoD-DELTA-SOP-2002-1111.html 62 Cfr. Guantanamo document confirms psychological torture, in «WikiLeaks», https://wikileaks.org/wiki/Guantanamo_document_confirms_psycho logical_torture. Cfr. anche M.P. DENBEAUX, J. HAFETZ, The Guantánamo Lawyers. Inside a Prison Outside the Law, New York University Press, New York 2009, pp. 229–288. 63 Sull’autoprocalamto Stato Islamico, rimando al mio Da al-Qa’ida allo Stato Islamico: la genesi del terrore in nome di Dio, «Storia del Mondo», n. 84, 2017, http://www.storiadelmondo.com/84/paternoster.genesi.pdf

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La politica del male

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Democrazia e tortura sono dunque un ossimoro, perché la prima attribuisce valore crescente alla dignità della persona, fondandosi sul rispetto dell’essere umano; la seconda sulla demolizione della onorabilità dell’individuo, basandosi sull’oltraggio della persona.

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Capitolo V

Il nemico imprigionato

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5.1. Dal carcere ai luoghi di internamento Argomento di questo capitolo sono i luoghi di reclusione del nemico politico, ovvero i campi di internamento e concentramento dove si rinchiude l’“eccedenza che non appartiene” a un ordine politico-sociale1. Prima però occorre distinguere questi luoghi da altri spazi di reclusione, quali il carcere e i campi di prigionia militare. Se il carcere così come lo conosciamo oggi è un’istituzione relativamente recente, la cella è presente sin dall’antichità. La funzione della cella, infatti, non è stata quella di privare il colpevole della libertà a titolo di punizione principale, ma un modo per controllarlo prima e durante il giudizio: in sostanza la cella era un luogo di custodia dell’imputato o del condannato. Dunque il carcere come pena specifica era ignoto sia a Romani sia ai Greci, che preferivano sottoporre il colpevole a pene corporali o al risarcimento pecuniario2. Nonostante il carattere sussidiario dei luoghi di reclusione, il diritto romano, nei casi di attentato alla pax publica, prese in considerazione la reclusione anche 1

Riprendo in questo capitolo alcuni concetti sviluppati più estesamente nel mio Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017. Si limiteranno in questo capitolo, quindi, i riferimenti a tale saggio. 2 Cfr. J.-U. KRAUSE, Kriminalgeschichte der Antike, Verlag C.H. Beck, Munchen 2004, trad. it. La criminalità nel mondo antico, Carocci, Roma 2006, pp. 69-70.

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La politica del male

«come forma di grave afflizione da riservarsi ai criminali peggiori, perché iniziassero a soffrire prima ancora della materiale esecuzione della condanna capitale»3. A questo scopo furono usate vecchie cisterne o antichi sotterranei. Esempio è Il Carcer Tullianum, il più antico carcere di Roma per prigionieri illustri che si trova nel Foro Romano, che consisteva di due piani sovrapposti di grotte scavate alle pendici meridionali del Campidoglio usate una volta come cisterne d’acqua4. Questo potrebbe spiegare l’origine etimologica del termine “carcere”, che potrebbe derivare dal verbo latino coercere, ossia costringere, o dal sostantivo carcer, ovvero recinto5. Gli antichi ebrei utilizzavano il termine aramaico carcar, che significa tumulare, sotterrare, rimandando agli originari luoghi di prigionia ubicati proprio in fosse sotterranee o in pozzi. Anche il sistema penale medievale non permise lo sviluppo di un vero e proprio sistema carcerario, poiché, basato su criteri della vendetta privata, anche in questo periodo della storia la pena tendeva al risarcimento del danno o alla riparazione della offesa mediante pene corporali6: La pena, nell’epoca medievale, si basava sulla categoria etico-giuridica del taglione, cui era associato il concetto di e-

3 G. TESSITORE, L’utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive, Franco Angeli Editore, Milano 2002, p. 23, così cit. in T. BURACCHI, Origini ed evoluzione del carcere moderno, 2004, risorsa digitale, in http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/origini_carcere.pdf, p. 2. 4 Tra i personaggi illustri qui rinchiusi, Gaio Sempronio Gracco (nel 121 a.C.), Giugurta re della Numidia (nel 104. a.C.), Vercingetorige re dei Galli (nel 46 a.C.), Seiano prefetto del pretorio di Tiberio (nel 31 d.C.). Cfr. P. FORTINI, Carcer tullianum. Il carcere mamertino al Foro romano, Electa, Milano 1998. 5 A conferma di quanto detto è il sinonimo di carcere “gattabuia”, che rimanda proprio alle ubicazioni delle prime prigioni. Il vocabolo, infatti, potrebbe essere un rifacimento del latino parlato catugiam, derivato a sua volta dal greco katagheìon, che significa sotterraneo (ghé, infatti, è la terra). 6 D. MELOSSI, M. PAVARINI, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI–XIX secolo), il Mulino, Bologna 1977, p. 21.

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V. Il nemico imprigionato

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spiatio, forma di vendetta basata sul criterio di pareggiare i danni derivanti dal reato7.

I luoghi di detenzione temporanea e preventiva erano costituiti, oltre dai tradizionali sotterranei, anche da maschi e dongioni, le torri costruite all’interno dei castelli. In questo periodo la detenzione era più vista come metodo per ottenere la confessione dell’imputato attraverso l’isolamento e ogni genere di brutalità8. L’idea del carcere come pena in senso stretto sarebbe sorta nel Medioevo in seno alle corporazioni monastiche, in quanto la Chiesa «disponendo della giurisdizione criminale sui chierici e non potendo lecitamente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere al carcere e alle pene corporali»9. Ecco nascere i penitenziari — dal latino paenitentía, penitenza — luoghi come celle di monasteri, di eremi e i prigioni vescovili che dovevano funzionare come occasione di verità dove il peccatore fosse in presenza continua dei sensi della sua colpa, e dove chi si avvicinava, con la preghiera e la meditazione, al pentimento ed alla conversione, sarebbe stato in fine redento e libero.10

Fuori dall’ambito della Chiesa la pena restò ancora di tipo corporale e la segregazione cellulare continuò a essere un mezzo cautelativo per assicurare il colpevole alla giustizia11. 7

R. MANCUSO, Scuola e carcere. Educazione, organizzazione e processi comunicativi, FrancoAngeli, Milano, 2004, p.172. 8 T. BURACCHI, Origini ed evoluzione del carcere moderno, cit., pp. 36-51; D. QUAGLIONI, La giustizia nel Medioevo e nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2004, pp. 33-42. 9 G. RUSCHE, O. KIRCHHEIMER, Punishment and Social Structure, Columbia University Press, New York 1939, trad. it., Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1978, p. 135. 10 A. PARENTE, La Chiesa in carcere, Ufficio Studi Amministrazione Penitenziaria Ministero della Giustizia, Roma 2007, p. 52. 11 Cfr. ibidem, pp. 42–55; T. BURACCHI, Origini ed evoluzione del carcere moderno, cit., pp. 51-56.

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A partire dal XV secolo, il lento processo di trasformazione che portò le piccole comunità feudali a divenire agglomerati urbani, creò una massa di mendicanti, vagabondi, prostitute e debitori. Divenne così necessario arginare questo fenomeno. La forma del castigo ecclesiastico basato sulla penitenza da espiare in cella per un periodo determinato, incrociò l’idea della rieducazione attraverso l’istruzione e il lavoro. Nascono così le “case di correzione”, luoghi in cui sottoporre al domicilio coatto e al lavoro obbligatorio i soggetti più deboli, prodotti in quantità dallo sviluppo della nuova economia di mercato: L’istituzione delle case di correzione non era il risultato dell’amore fraterno o di un pubblico sentimento di solidarietà nei confronti dei diseredati, ma faceva semplicemente parte dello sviluppo capitalistico.12

Infatti, attraverso questi istituti non solo si “correggeva” il recluso, indirizzandolo all’apprendimento delle buone regole attraverso la rigida disciplina e tramite il lavoro, ma lo si rendeva socialmente utile grazie all’«abitudine all’operosità»13, scoraggiando anche altri dal vagabondaggio e dall’ozio. Pur non sostituendo tutta la gamma delle punizioni vigenti (dalla multa alla pena capitale), le “Case di correzione attraverso la disciplina e il lavoro obbligatorio” divennero dunque un potente strumento di controllo sociale. Infatti, nate con spirito caritativo e, quindi, per salvaguardare i soggetti più deboli dall’evoluzione storica, in realtà si svilupparono per proteggere la società borghese dai soggetti disturbatori. La prima “Casa di correzione” fu creata nel 1557 a Londra, nel Royal Palace of Bridewell, l’ex residenza di re Enri-

12

G. RUSCHE, O. KIRCHHEIMER, Pena e struttura sociale, cit. p. 97. M. WEISSER, Crime and Punishment in Early Modern Europe, Harvester Press, Hassocks (Sussex) 1979, trad. it., Criminalità e repressione nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 1989, p. 142. 13

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V. Il nemico imprigionato

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co VIII14. Dal 1576 altri istituti dello stesso tipo furono eretti in tutto il Regno Unito, prendendo il nome di Bridewells15. La “casa di correzione attraverso il lavoro” raggiunge la sua forma più alta di sviluppo in Olanda. La prima fu l’Amsterdams Tuchthuis (casa di correzione di Amsterdam), aperta nel 1596 in un’ala del monastero delle clarisse della città. Attività lavorativa prevalente fu quella di grattugiare con una raspa un particolare tipo di legno brasiliano, fino a farne una polvere finissima, da cui i tintori avrebbero ricavato il pigmento per tingere i filati. Questa pratica diede il nome a questi istituti correzionali maschili: Rasphuis, casa della raspa. L’equivalente femminile si chiamava Spinhuis (casa di filatura), per via dell’attività lavorativa rivolta alla filatura e al cucito. La prima di queste fu istituita nel 1597 nel monastero di sant’Orsola, sempre ad Amsterdam. Tramite la monotona pratica del rasping e dell’impegnativa arte della filatura, attraverso l’imposizione di un rigido sistema di divieti e obblighi, con la pratica religiosa (preghiera e lettura della Bibbia), si sarebbero dovute così concretizzare le funzioni correzionali, ovvero educazione alla virtù, redenzione sociale e salvezza spirituale16. Fu questo il senso dell’iscrizione incisa sul frontone del primo Rasphuis di Amsterdam: Virtutis est domare quae cuncti pavent (È cosa virtuosa domare ciò che tutti temono)17.

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La richiesta di utilizzare il palazzo per contenere la mendicità dilagante a Londra e riformare gli internati attraverso il lavoro obbligatorio e la disciplina, fu inoltrata al re da alcuni esponenti del clero inglese. Cfr. D. MELOSSI, M. PAVARINI, Carcere e fabbrica, cit. p. 34; M. CAPPELLETTO, A. LOMBROSO, Carcere e società, Marsilio, Milano 1976, p. 137. 15 Cfr. J. INNES, Prisons for the Poor. English Bridewells, 1555-1800, in F.G. SNYDER, D. HAY (eds), Labour, Law and Crime: an Historical Perspective, Tavistock, London-New York 1987, pp. 42-122. 16 Cfr. P. SPIERENBURG, The Prison Experience. Disciplinary Institutions and Their Inmates in Early Modern Europe, Rutgers University Press, New Brunswick-London 1991, pp. 41-68. 17 T. ERIKSSON, The reformers. An historical survey of pioneer experiments in the treatment of criminals, Elsevier Scientific, New York 1976, p. 15.

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La politica del male

Le case di correzione si svilupparono in tutta l’Olanda e poi nel resto dell’Europa e in Nord America, divenendo l’istituzione antenata del carcere moderno. La tortura e la pena di morte per i criminali continuarono tuttavia a essere largamente praticate, come continuò a esistere la reclusione in sotterranei e altri luoghi malsani per debitori e per chi doveva essere sottoposto a procedimenti giudiziari. Una profonda svolta nell’istituzione del carcere moderno arriva con l’Illuminismo. Filosofi, giuristi e teorici del diritto rifiutano il principio vendicativo della pena, adottando quello basato sulla rieducazione e sull’umanizzazione. Cesare Beccaria, ad esempio, nel saggio Dei Delitti e Delle Pene (1764) invoca l’esigenza di stabilire i reati per legge, la proporzionalità delle condanne rispetto all’infrazione, il criterio educativo della punizione, la modalità della pena improntata a un maggior senso di umanità18. Ecco che si sviluppa l’idea del carcere non più come luogo di custodia dell’imputato, ma come spazio del condannato. Il carcere, in un’ottica di precisione della legge, diventa così il luogo dei “diritti sospesi” e di correzione del carcerato19. Se la prigione è il luogo dove si rinchiudono gli individui giudicati colpevoli per un reato da una sentenza emessa da un tribunale regolare, i campi di prigionia sono il luogo dove gli internati sono prigionieri extragiudiziari. Nei primi sono rinchiusi i delinquenti domestici, responsabili di un crimine; nei secondi i nemici esterni, colpevoli di “indossare una divisa di un altro colore”. L’internamento militare non è una pena, poiché il prigioniero di guerra non si è reso colpevole di alcun crimine: egli

18 Oltre alle varie ristampe, il lavoro di Beccaria si può leggere in «Biblioteca della Letteratura Italiana», http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_7/ t157.pdf 19 Sull’evoluzione delle prigioni rimando anche a M. FOUCAULT, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, trad. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014; F. VIANELLO, Il carcere. Sociologia del penitenziario, Carocci, Milano 2012.

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V. Il nemico imprigionato

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ha solo servito la propria Patria durante la guerra20. La prigionia militare è dunque solo un preciso provvedimento di sicurezza che sottrae al nemico i suoi soldati, terminando col cessare delle ostilità. Tutti i prigionieri di guerra internati, purché combattenti regolari e legittimi21, sono protetti dal diritto internazionale22, Essi, una volta catturati, hanno il beneficio di conservare gli oggetti di loro proprietà, escluso quelli d’uso militare; hanno diritto a un trattamento umano; sono obbligati a rispettare le leggi e la disciplina dello Stato che li ha catturati, purché rispettose dei diritti umani. I primi grandi internamenti di soldati nemici iniziano con la lunga guerra di secessione americana (1861–1865). La necessità di utilizzare zone di internamento è dovuta all’esaurirsi della vecchia pratica dello scambio dei prigionieri di guerra. Per il loro gran numero, i soldati catturati sono internati in luoghi improvvisati, trasformati per l’occasione in aree di prigionia: vecchi penitenziari, ex fabbriche, stalle. Con il protrarsi della guerra e l’aumento del numero dei prigionieri, sorge l’esigenza di creare strutture apposite in desolati appezzamenti di terreno circondati da palizzate. Il sovraffollamento, le precarie condizioni igieniche, la scarsità di cibo e acqua e la diffusione di epidemie, determinano un alto tasso di mortalità tra i prigionieri23. Il Risorgimento italiano (XIX secolo) inaugura in Europa la deportazione, l’internamento e la rieducazione del nemico, 20

Diverso è il caso di soldati che si sono macchiati di crimini di guerra. Sono considerati combattenti illeggitimi chi partecipa attivamente alle ostilità senza distinguersi dalla popolazione civile o dal soldato regolare (ad esempio le spie, i sabotatori e i mercenari). In caso di cattura non assumono lo status di prigionieri di guerra. 22 La terza Convenzione di Ginevra 12 agosto 1949 stabilisce rigorose norme sul trattamento e la protezione dei prigionieri di guerra. In parte sostituisce il testo della precedente Convenzione sui prigionieri di guerra adottata il 27 luglio 1929. La convenzione del 1949 in «Ministero della Difesa», https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_ Giuridico/Documents/92319_conv_ginevra3.pdf 23 Cfr. B.G. CLOYD, Haunted by Atrocity. Civil War Prisons in American Memory, Louisiana State University Press, Baton Rouge (Louisiana) 2010. 21

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La politica del male

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combattente o meno, in fortezze e campi attrezzati. La guerra hispano–cubana (1895–1898), dà avvio ai primi campi di concentramento per civili, successivamente perfezionati dagli inglesi, anche con recinzioni in filo spinato, durante la guerra in Sudafrica contro i boeri (1899–1902). Da prigionia militare i campi sono così convertiti in internamento civile, in questo modo da gestione militare durante una guerra esterna si trasformano in esercizio politico dello spazio interno. D’ora in poi, la presenza dei campi per civili non risparmierà nessuna area geografica. 5.2. La funzione dei campi per i civili Trattando dei luoghi di internamento per civili, tre verbi racchiudono meglio questa categoria della violenza politica: isolare, escludere, eliminare. Isolare, vocabolo desunto da “isola”, rinvia a un “luogo separato dal resto”. Escludere, derivato dal latino ex–clàudere, da cui exclūsus, ossia quelli relegati fuori dalle cinta della città, conduce invece all’idea di “chiudere fuori”. Eliminare, nel suo senso etimologico rimanda all’azione di “metter fuori casa”24. Quindi i luoghi di internamento e concentramento sono spazi circoscritti, rigorosamente separati dal resto, per “mettere all’esterno” dalla propria collettività e “rinchiudere fuori” da un ordinamento chi non appartiene, privandolo delle tutele del diritto e di tutte le prerogative che derivano dallo status di cittadino. L’esclusione, l’eliminazione e l’isolamento rimandano pertanto all’idea di chi appartiene o meno. L’appartenenza così specificherà chi escludere, eliminare e isolare, perché considerato estraneo a un ordine politico-sociale o ritenuto in eccesso rispetto a una geografia umana. L’appartenenza porta di conseguenza a una classificazione dei gruppi umani in un determinato 24

Dal latino eliminare, derivato di limen –mĭnis, “soglia”, con il prefisso e. Lìmen sta per lìc-men e designa la pietra trasversale della porta, tanto la inferiore che si calca con i piedi, tanto quella superiore.

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V. Il nemico imprigionato

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spazio politico–sociale, generando in questo modo due mondi: uno che spetta solo a chi “fa parte”, dunque gli inclusi; l’altro abitato da chi “non appartiene”, quindi dagli esclusi. Questi due mondi hanno due distinti sistemi giuridico–morali, il primo è titolare di tutti i diritti, compreso quello di escludere chi non appartiene; il secondo è sottoposto alle volontà di chi ha deciso l’estromissione. Nazione, classe, razza e ideologia sono i pretesti legittimanti che autorizzano la creazione di questi due sistemi giuridico– morali. L’etichettamento di un determinato gruppo umano designato come nemico sul piano politico, sociale, religioso o razziale, porta così dapprima alla deportazione, poi all’internamento o al concentramento, in alcuni casi allo sterminio. Infatti, il secondo sistema giuridico-morale, quello degli scartati dal primo, include tre spazi dove sono deportati gli esclusi: i campi di internamento, quelli di concentramento e quelli di sterminio. Questa ripartizione è tuttavia solo funzionale, perché la storia ha conosciuto “campi misti”, ossia luoghi che abbracciano più funzioni. Ad esempio, si possono avere campi che sono di internamento e concentramento, come il statunitense “Camp Delta” della base navale di Guantánamo, luogo di concentramento per i prigionieri combattenti catturati in Afghanistan e di internamento per civili ritenuti collegati ad attività terroristiche. Un altro esempio può essere il campo nazista di Auschwitz–Birkenau, contemporaneamente luogo di concentrazione e di sterminio. È la funzione di un campo che stabilisce le differenze all’interno dei vari universi concentrazionari. I campi di internamento sono strutture temporanee create per segregare masse di civili durante una guerra. La detenzione diventa così una “misura preventiva” nei confronti di minoranze che “non appartengono”, ossia gli ignari civili delle nazioni divenute avversarie che risiedono in uno Stato e che diventano così “potenziali sospetti”. Questi campi sono utilizzati anche per bonificare le zone delle operazioni militari dai civili. Il fine di questa tipologia di campi non è punitivo, ma preventivo. Per questo la morte non è programmata, ma a volte diventa un “ef-

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La politica del male

fetto collaterale” permanente, che subentra per le difficili condizioni igieniche, alimentari e sanitarie. I primi campi di internamento, quelli creati nella guerra hispano–cubana (1895–1898) o quelli creati dai britannici per segregare i civili boeri furono altamente mortiferi, a differenza di quelli “più umani” (ma solo rispetto ai primi) creati dagli statunitensi durante le guerre mondiali per separare dalla popolazione i cittadini residenti di origine italiana, tedesca o giapponese. I campi di concentramento, invece, sono strutture permanenti con finalità punitive, rieducative e terroristiche. Punitive per colpire chi pensa diversamente da un potere costituito; rieducative per correggere e rifondare il sociale; terroristiche per intimorire ed educare la popolazione libera. Generalmente questa categoria di campi nasce al di fuori di un contesto bellico internazionale, rientrando in un preciso progetto politico. Attraverso una rigorosa disciplina dello spazio, del tempo e del pensiero, scandita dal vivere in comune, dal lavoro forzato e da lezioni ideologiche, i campi di concentramento racchiudono la volontà di un potere precostituito di programmare l’essere umano, dominandolo nel corpo e nella personalità, per edificare una società ideale. Esempi di campi di concentramento possono essere gli Arbeitserziehungslager e gli Staatliche Besserungs und Arbeit Lager nazisti25, i Gulag sovietici26, i Laogai cinesi27, i Kwan-liso nordcoreani28. I campi di concentramento a volte sono serviti anche come “magazzino” per detenere cavie umane per esperimenti scientifici. È il caso dei campi delle famigerate “Unità scientifiche giapponesi”29. 25

“Campi di lavoro rieducativo”, i primi; “Campi statali di lavoro correttivo”, i secondi. 26 Acronimo di Glavnoe Upravlenie LAGerej, ossia Direzione centrale dei Campi. 27 Sigla che sta per Laodong gaizao dui, ovvero Lavoro correzionale penitenziario. 28 Colonie politiche del lavoro penale. 29 Cfr. il mio Il tradimento di Ippocrate. Il programma di guerra batteriologica giapponese e gli esperimenti umani, «Nuova Storia Contemporanea», Anno XVIII. n. 5, Settembre-ottobre 2014, pp. 37-48.

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V. Il nemico imprigionato

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I campi di sterminio hanno caratteristiche proprie rispetto agli altri campi. Essi non sono destinati a “ospitare” grandi masse di persone, ma solo quelle funzionali al disegno di morte. Seguono dunque l’esclusiva finalità dello “smaltimento” di quella Umanità considerata dannosa e in eccesso, attraverso l’eliminazione fisica dei deportati. Campi specificatamente di sterminio sono stati quelli istituiti dai nazisti a Chełmno (Polonia), Bełżec (Polonia), Sobibór (Polonia), Treblinka (Polonia). Il complesso di Auschwitz-Birkenau in Polonia (con i tre campi principali di Auschwitz, Birkenau e Monowitz e 45 sottocampi), Majdanek (Polonia), Maly Trostenets (Bielorussia), tutti nazisti, e quello ustascia di Jasenovac (Croazia), sono stati invece campi misti, ossia di concentramento e sterminio. In definitiva, i campi di internamento attestano “cosa si è”, hanno come fine la separazione e servono per sorvegliare; i campi di concentramento affermano “cosa non si deve essere”, hanno come fine l’omologazione politico-sociale e servono per convertire; i campi di sterminio indicano “cosa non si è”, hanno come fine l’omologazione biogenetica e servono per rigenerare una geografia umana. Dunque, i campi di internamento sono strumenti di controllo politico-sociale; i campi di concentramento sono dispositivi per il recupero civile, morale e politico; i campi di sterminio il rimedio per eliminare un’eccedenza etnica e ridisegnare un profilo demografico. L’esperienza di tutte le tipologie dei campi è così direttamente legata alla volontà politica di dominare la storia, annichilendo l’essere umano nel corpo e nella volontà. 5.3. La forma campo Un campo (di internamento, di concentramento e di sterminio) è una struttura determinata dalle funzioni per il quale è istituito. Poiché lo scopo è quello di convogliare e detenere grandi quantità di persone, i campi di concentramento e di internamento sono generalmente di ampie dimensioni, più grandi di

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La politica del male

quello sterminio, perché quest’ultimi non hanno la precisa funzione di “ospitare”. La sua forma semplice rende un campo il modo più economico per escludere, isolare o eliminare categorie residuali di persone ritenute pericolose, ostili o in esubero agli occhi di un potere dominante. Dai primi campi fatti di tende (o altri ripari improvvisati) e con una recinzione di filo di ferro, si passa a quelli con baracche, torrette di guardia e filo spinato (poi anche elettrificato). La storia ha conosciuto anche istituzioni detentive che hanno struttura architettonica diversa da quella dei campi, ma con le stesse finalità. Sono luoghi come carceri, fortezze o istituti di pena la cui vocazione è identica a quella dei campi, ossia rifondare attraverso la reclusione e la rieducazione il tessuto politicosociale di una Nazione. Tra queste si ricorda la fortezza di Fenestrelle, luogo dei Savoia per la “conversione” dei duosiciliani al nuovo corso del Regno d’Italia; oppure il carcere romeno di Piteşti, attivo per la rieducazione forzata dei giovani al socialismo di Stato. Simbolo per eccellenza dell’architettura dei campi è il filo spinato. Esso è la «metafora della violenza politica»30, l’immagine di un potere che esclude, isola, elimina. Nato per delimitare una proprietà e, al tempo stesso, difenderla da un pericolo esterno, il filo spinato diventa il simbolo dell’oppressione, lo strumento per la gestione assoluta di uno spazio escludente. Il primo filo di ferro modificato fu ideato nel 1860 dal francese Leonce Eugene Grassin-Baledans, per difendere fondi agricoli e bestiame. Il suo progetto consisteva in punti irti, creando una recinzione pericolosa da oltrepassare. Seguirono altri modelli, tra cui quello di Louis François Janin, che propose un doppio filo con punte di metallo a forma di diamante31. Il filo 30

O. RAZAC, Histoire politique du barbelé, La Fabrique Editions, Paris 2000, trad. it. Storia politica del filo spinato. La prateria, la trincea, il campo di concentramento, Ombre corte, Verona 2001, p. 49. 31 A. KRELL, The devilʼs rope, A cultural history of barbed wire, Reaktion, London 2002, p.16.

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spinato come lo conosciamo oggi è brevettato negli USA nel 1874 da Joseph Farwell Glidden, un colono dell’Illinois. Si tratta di due fili di ferro attorcigliati fra loro al cui interno ci sono spine, ottenute con «ferro ritorto e tagliato obliquamente alle due estremità»32. Con la corrente elettrica, poi, il filo spinato diventa mortalmente più efficace. Nato per proteggere i confini da elementi esterni (banditi e animali selvatici), con il campo il filo spinato, tracciando «sul suolo le linee di una divisione attiva»33, diventa dunque elemento di protezione dell’esterno da quello che si trova rinchiuso all’interno. Radicalizzando all’estremo il principio della prigione, un campo deve in generale soddisfare una serie di condizioni: isolamento, segretezza, fuga impossibile, convenienza economica. Importante, quindi, è l’ubicazione di un campo, che deve essere realizzato possibilmente in zone remote e inospitali per garantire l’isolamento, la riservatezza e la fuga impossibile. La disponibilità di ricchezze del sottosuolo e del suolo, allo sfruttamento delle quali è destinato il lavoro forzato degli internati, assicurerebbe invece la convenienza economica. La “forma campo” non riguarda unicamente l’architettura dei campi, ma anche gli aspetti relativi alle condizioni di vita. Riguardo questo aspetto, tra i vari campi le differenze sono marcate e variano nel tempo. Per la maggioranza dei campi la promiscuità, le rigide regole interne, la liturgia quotidiana degli appelli, la conformità dei prigionieri attraverso l’obbligo di indossare divise, la spersonalizzante toilette comunitaria, il degrado fisico e morale realizzato per gradi, fanno parte della routine del campo. In altri campi si aggiungono gli insensati lavori imposti per offendere la dignità del prigioniero e fiaccarlo nel fisico, la tortura abituale, le violenze gratuite. Le città concentrazionarie hanno finanche luoghi dove rinchiudere i più riottosi: segregazione nella segregazione, inferno nell’inferno. Questi sono luoghi dove generalmente la morte 32 33

O. RAZAC, Storia politica del filo spinato, cit., p. 23. Ivi, p. 19.

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La politica del male

sopraggiunge prima che la pena abbia termine. Ad esempio, il campo di Tarrafal, istituito durante la dittatura di Salazar nell’isola di Capo Verde, era dotato della cosiddetta Frigideira (la padella), un parallelepipedo di cemento armato, con due porte di ferro opposte sormontate da una piccola fessura grigliata che davano accesso a due celle contigue e non comunicanti. All’interno solo due secchi, uno per l’acqua da bere, l’altro per le deiezioni. La mancanza di areazione, di illuminazione, di letti o sedie, l’alimentazione (pane e acqua) a giorni alterni e l’isolamento totale contribuiva a rendere infernale il soggiorno, che poteva durare anche un mese e mezzo34. Un altro esempio potrebbe essere il terribile Radilište 101 (Reparto 101), del campo titino di Goli Otok. Un buco profondo otto metri e largo circa venticinque, con in fondo e al centro una baracca illuminata da potenti fari giorno e notte, in cui all’isolamento totale si aggiungevano la fame, le torture, le violenze gratuite35. Come per i campi di prigionia militare, anche per i campi di internamento, concentramento e sterminio l’inquadramento giudiziario è generalmente di detenzione amministrativa, ossia si è internati senza essere giudicati da un tribunale regolare. Si può finire in un campo anche dopo un processo, ma il giudizio, spesso basato su congetture, è quasi sempre inquinato da procedure arbitrarie. Gli stessi campi nascono fuori dal diritto comune, in uno «stato di eccezione»36 in cui la legge ordinaria è sospesa per far posto a una nuova normativa con una nuova morale. Non sono quindi un equivoco, ma il risultato di atti consapevoli e intenzionali: «Con il campo, il sovrano [la politica] non decide solo sull’eccezione, ma produce una situazione di fatto come conse34

Cfr. il mio Tarrafal, il campo delle morte di Salazar, in «Storia in Network», ottobre 2016, http://www.storiain.net/storia/tarrafal-il-campodella-morte-di-salazar/ 35 Cfr. il mio Goli Otok, il Gulag di Tito, in «Storia in Network», numero luglio 2014, http://www.storiain.net/storia/goli-otok-il-gulag-di-tito/ 36 G. AGAMBEN, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 38.

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guenza della sua decisione sull’eccezione»37. Insomma, sono dispositivi di potere straordinario, nel suo senso etimologico: dal latino extraordinarius formato da extra cioè “fuori” e da òrdinem ossia “ordine”. Il campo dunque esclude e include: esclude da un ordine politico-sociale per includere in un altro che legittima la violazione di norme che valgono solo nel primo ordine.

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5.4. La (non) vita nei campi Nessuna persona “normale” può immaginare come si vive in un campo. I campi negano al deportato la facoltà di restare pienamente un essere umano: ogni individualità, ogni dignità è lasciata fuori dal campo. Solo in questo modo la funzione di un campo può manifestarsi illimitatamente. Derubati del proprio passato e privati del futuro, gli internati subiscono la perdita della propria identità attraverso il sistematico declassamento a non–essere. Il processo di de–umanizzazione a cui sono sottoposti gli internati, la degradazione attraverso ogni sorta di umiliazione, la spoliazione di ogni diritto, il furto della dignità, «non permettono agli uomini di restare uomini»38, giacché i campi «non sono stati creati per questo»39. I campi devono frantumare ogni residua resistenza a un ordine precostituito, rendendo l’internato oggetto inerte del proprio destino. Per questo la vita di ogni deportato è riportata a un livello primitivo, attraverso le inadeguate razioni di cibo che assoggettano l’internato al dominio assoluto dei carcerieri, la promiscuità imbarazzante fra prigionieri, il logorante lavoro 37

Ivi, p. 190. Corsivo dell’autore. V. SALAMOV, Kolymskie rasskazy, 1973, trad. it., Kolyma. Racconti dai lager staliniani, Savelli, Roma 1978, p. 11. Questa edizione italiana è stata condotta sul testo russo in samizdat, senza consenso dell’autore. Esistono edizioni tradotte in italiano più recenti, dal titolo: I racconti di Kolyma (tra cui quella della Einaudi, Torino 1999 e quella della Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2010). 39 Ibidem. 38

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La politica del male

forzato, le insignificanti e sistematiche violenze gratuite, le durissime punizioni, la malvagità sadica che pretende la partecipazione degli stessi internati alla vita nei campi (per mantenere la disciplina, per sbarazzarsi dei morti, per rieducare i propri compagni). Già i motivi dell’internamento a causa di un lignaggio, di un pensiero, di un’intelligenza, di una professione di fede, sono elementi che nella loro oggettiva attuazione bastano da soli, senza altri fattori, a provocare quel totale smarrimento della persona. Il degrado fisico e il crollo morale dell’internato si realizza per gradi. Inizia già con la deportazione, avvenuta in condizioni disumane, ammassati in carri bestiame, o ammucchiati in navi stracolme, oppure ancora attraverso interminabili marce. Prosegue attraverso la fame che assoggetta l’internato al dominio dei carcerieri, tramite la violenza gratuita che incentiva il terrore, per mezzo delle punizioni che promuovono condotte individualiste idonee sia ad annullare ogni forma di solidarietà fra deportati sia a scoraggiare il crearsi di pericolosi sodalizi tra gli internati. Il dominio totale a cui un internato è sottoposto lo portano alla condizione di vittima non più umana, perché, come ha osservato Giorgio Agamben, il campo è «il luogo nel quale la più assoluta conditio inhumana mai apparsa sulla terra sia stata realizzata»40. Proprio la conditio inhumana è al tempo stesso epifania e sostanza della maggior parte dei campi, il requisito indispensabile ai carnefici per realizzare il loro progetto assoluto di rimodellazione politico-sociale. Privando il deportato delle prerogative giuridiche, di ogni statuto politico, dell’umanità e della propria unicità individuale, i campi de–umanizzano i prigionieri, giustificando il loro internamento e aprendo ai carcerieri la strada a comportamenti negativi carichi di irrazionalità distruttiva. 40

Cfr. G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 185.

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V. Il nemico imprigionato

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Si ricorda che la de–umanizzazione è una forma assoluta di svalutazione dell’Altro, che legittima comportamenti non più tra la stessa specie ma tra “nature” diverse41. Chi è de–umanizzato viene escluso completamente dall’Umanità e ridotto ad animale, essere demoniaco, elemento biologico (microbo, virus, morbo, pestilenza, cancro), automa, oggetto (strumento, merce, cosa tra le cose)42. Nei campi, l’inedia e le violenze determinano la perdita graduale dei tratti e dei modi di fare tipici di un essere umano. Con il progressivo abbruttimento, sia fisico sia morale, si convalida il processo di de–umanizzazione, instaurando di fatto una superiorità legittima e stabile del carceriere sull’internato, che giustifica così le violenze e allevia la coscienza agli aguzzini43. La de-umanizzazione non solo giustifica il trattamento disumano degli internati da parte dei carcerieri, scagionandoli dai loro crimini, ma favorisce anche lo sfruttamento dei prigionieri nei lavori forzati, peggio ancora autorizza anche a trattarli come dei semplici elementi biologici, nel modo di cavie umane per esperimenti medici. Le sperimentazioni mediche e bio–batteriologiche su cavie umane effettuate nei Lager nazisti e nelle unità medico–militari giapponesi, infatti, costituiscono il grado più estremo di reificazione del vivente (nella sua accezione marxiana, ossia ridurre un essere vivente a cosa). Una realtà in cui l’umanità dell’internato scompare agli occhi di alcuni medici e scienziati. Il corpo dell’internato diventa così una “cosa” da smembrare e testare, un oggetto per il quale non si è avvertito alcuna responsabilità44. 41

Si è affrontato il processo di de–umanizzazione nel secondo capitolo al paragrafo cinque di questo lavoro. 42 Sulle funzioni della de–umanizzazione, oltre ai testi già segnalati nel capitolo II, par. 5, si rimanda anche a D. BAR-TAL, Delegitimization: The extreme case of stereotyping and prejudice, in D. BAR-TAL, C.F. GRAUMANN, A.W. KRUGLANSKI, W. STROEBE (eds), Stereotyping and prejudice. Changing conceptions, Springer-Verlag, New York 1989, pp. 169-182. 43 Sulla de-umanizzazione nei campi, cfr. il mio Campi. Deportare e concentrare, cit. pp. 41-60. 44 Sulle cavie umane nei campi, cfr. Ibidem, pp. 331-350.

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La politica del male

Non a caso, nelle famigerate unità scientifiche militari giapponesi, le cavie umane sono chiamate maruta, pezzo di legno.

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Un maruta, un pezzo di legno, era quindi soltanto [un] semplice materiale destinato agli esperimenti. Non lo si considerava un essere umano […] noi non consideravamo quei pezzi di legno, quei tronchi, come esseri umani. Erano solo carne da tirare su un’asse45.

Come nelle famigerate Unità scientifiche giapponesi, anche nei campi di sterminio nazisti, si giunge a nullificare il valore della persona umana, sottraendo ai deportati finanche la morte, «ridotta a pura sofferenza della carne»46. Lo stesso termine coniato dai nazisti per designare la terribile natura di questi campi, Vernichtungslager, ha un significato ancor più crudele di sterminio, vuol dire “trasformare qualcosa in nulla”. Se nei campi di concentramento la de–umanizzazione è ostentata, diventando strumento pedagogico di terrore per le masse non ancora deportate, in quelli di sterminio è occultata all’esterno, perché i campi di annientamento non devono dimostrare nulla a nessuno. La de–umanizzazione degli internati è dunque propedeutica alla demolizione materiale dell’umano. In questo senso un campo diventa il cimitero dei viventi, il luogo in cui ci sono corpi vivi che non vivono più. 5.5. L’evoluzione dei campi I campi così come li conosciamo oggi nascono alla fine dell’Ottocento in un contesto coloniale, o meglio ancora sono 45

Testimonianza di uno scienziato giapponese riportata in J.L. MARGOLIN, L’armée de l’empereur. Violences et crimes du Japon en guerre 1937–1945, Armand Colin, Paris 2007, trad. it. L’esercito dell’Imperatore. Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937–1945, Lindau, Torino 2009, p. 339. 46 S. ZAMPIERI, Il flauto d’osso. Lager e letteratura, Giuntina, Firenze 1996, p. 24.

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V. Il nemico imprigionato

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creati in occasione di rivolte anticoloniali47. Il primo campo di concentramento moderno fu istituito dal governatore spagnolo Weyler Y Nicolau nel 1896 nella provincia di Pinar del Río, nella parte occidentale dell’isola di Cuba. Tecnicamente fu un campo di internamento, poiché l’intenzione fu quella di rinchiudere i civili cubani, per bloccare l’espandersi della ribellione e tagliare gli aiuti ai rivoltosi. Nelle intenzioni del governatore spagnolo non era contemplata una mattanza di civili, ma in realtà le terribili condizioni abitative, igieniche e alimentari determinarono la morte di uno su quattro dei riconcentrati48. Per la politica adottata a Cuba, gli statunitensi chiamarono Valeriano Weyler y Nicolau “The Butcher”, il macellaio (in spagnolo, “el Carnicero”). Nel 1899, durante l’insurrezione anticoloniale filippina, anche gli statunitensi giustificarono la creazione di campi col pretesto di proteggere la popolazione dalla guerriglia. In realtà le finalità di quei campi furono ben altre. Infatti, rientrando nella politica della “terra bruciata”, i campi servirono non solo per tagliare gli aiuti ai guerriglieri, ma per tenere in ostaggio le loro famiglie. Nei campi, le condizioni di vita degli internati, per la maggior parte donne e bambini, già segnati dalle violenze subite prima della deportazione, provocarono un tasso di mortalità che arrivò al venti per cento49. 47

Mi riferisco al campo intenso come appezzamento recintato e controllato da guardie armate, perché questa origine potrebbe essere retrodatata alle riserve in cui vennero confinate le popolazioni native nordamericane. Anche i luoghi di internamento dei Savoia, in primis la fortezza di Fenestrelle, in cui furono concentrati i soldati e i civili duosiciliani riottosi che, manifestando aperta resistenza ai piemontesi, si dichiararono palesemente fedeli a re Francesco II di Borbone, furono luoghi di concentramento, ma non ebbero la forma classica del campo. 48 Cfr. R. IZQUIERDO CANOSA, La reconcentración 1896-1897, Verde Olivo, La Habana 1998. 49 Cfr J.M. GATES, War-Related Deaths in the Philippines, 1898–1902, in «Pacific Historical Review», v. 55, n. 2, University of California Press, Berkeley, May 1986, pp. 367-378; A.M. HILSDON, Madonnas and martyrs: militarism and violence in the Philippines, Ateneo de Manila Univesity Press, Manila 1995, in particolare pp. 133-151.

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La politica del male

Nell’aprile del 1902, gli avvocati Moorfield Storey e Julian Codman ‒ membri della New England Anti Imperialist League e consulenti legali della Philippine Investigating Committee, nata nel 1902 al fine di documentare le atrocità commesse dall’esercito americano nelle Filippine ‒ pubblicarono un memoriale in cui denunciarono le barbarie commesse dagli statunitensi nell’arcipelago, definendo i campi statunitensi «un sobborgo dell’inferno»50. Con i luoghi di internamento creati dagli statunitensi nelle Filippine, inizia a prendere forma il campo di concentramento come spazio di controllo e di assoggettamento totale di certe popolazioni da parte di altre. Sono i campi inglesi in Sud Africa, creati dal 1900, che radicalizzano il sistema concentrazionario rendendo al meglio l’attuale forma campo. Non solo compare il filo spinato a difesa di quegli spazi crudeli di esclusione e oppressione, ma sono aggiunte anche le finali punitive che determinano, a guerra finita, la morte tra il quindici e il venti per cento della popolazione internata, ossia all’incirca 28mila internati, la maggior parte dei quali bambini51. Attraverso i campi i britannici realizzano così una campagna militare contro i civili, “ripulendo” interi territori da quell’umanità in eccesso, cancellando la loro memoria storica distruggendo i luoghi della loro vita civile, riterritorializzando la popolazione in spazi controllati, decimandoli attraverso l’inedia e la violenza. La pacifista inglese Emily Hobhouse, del South African Conciliation Committee, testimone oculare di quello che si verificava nei campi, denunciò pubblicamente in un rapporto le terribili condizioni in cui si trovavano gli internati, specialmente i

50 J. CODMAN, S. MOORFIELD, Secretary Root’s Record: "Marked Severities" in Philippine Warfare. An Analysis of the Law and Facts Bearing on the Action and Utterances of President Roosvelt and Secretary Root, G.H. Ellis, Boston 1902, p. 99, ora HardPress, Stockbridge (Massachusetts) 2012, p. 92. 51 Cfr. H. WESSELING, Verdeel en heers. De deling van Afrika. 1880-1914, Bert Bakker, Amsterdam 1991, trad. it., La spartizione dell’Africa. 18801914, Corbaccio, Milano 2001, pp. 461-463.

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V. Il nemico imprigionato

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bambini52, qualificando quei campi come «una grande crudeltà»53. I tedeschi perfezionano il sistema concentrazionario inglese nell’Africa sudoccidentale (attuale Namibia), mutandone sia le finalità sia l’intensità: alle finalità punitive aggiungono l’assoggettamento totale dei prigionieri in un’ottima deumanizzante, associando alle violenze gratuite e alle torture, anche il lavoro forzato. L’internamento nei campi di concentramento fa parte dell’ultima fase della guerra dei tedeschi contro gli Herero e i Nama. Il razzismo che condizionava la cultura europea dell’epoca54, influenzò notevolmente le politiche di assoggettamento coloniale e la campagna militare tedesca divenne sterminazionista55. In questo senso, i campi di concentramento conclusero il lavoro sterminazionista iniziato con le campagne militari, determinando un altissimo tasso di mortalità tra gli internati. Sempre in una visione perfettamente razzista, i campi coloniali tedeschi divennero anche il “serbatoio” da dove prelevare “materiale” per esperimenti scientifici e antropologici. Due studiosi di genetica dell’epoca, i medici Eugen Fischer e Theodor Mollison, per corroborare le loro folli tesi sulla superiorità della

52

Cfr. B. BRUNA, Il Rapporto di Emily Hobhouse sui campi di concentramento in Sud Africa (gennaio - ottobre 1901), in «DEP Deportate, esuli, profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, nr. 2, 2005, pp. 1-10. 53 In A.J. KAMIŃSKI, Konzentrationslager 1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, W. Kohlhammer, Stuttgart 1982, trad. it., I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 40. 54 Cfr. G.L. MOSSE, Toward the Final Solution. A History of European Racism, Howard Fertig, New York 1978, trad. it. Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3-123. 55 Cfr. I. HULL, Military Culture and the Production of “Final Solutions” in the Colonies. The Example of Wilhelminian Germany, in R. GELLATELY, B. KIERMAN (eds), The specter of Genocide. Mass murder in historical perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, trad. it. Cultura militare e «soluzioni finali» nelle colonie: l’esempio della Germania guglielmina, in Lo spettro del genocidio, Longanesi, Milano 2005, pp. 181-208.

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La politica del male

razza tedesca, condussero nei campi degli esperimenti sugli internati, in particolar modo sui meticci e sui gemelli56. La politica coloniale tedesca in Africa Sudoccidentale generò i semi di una violenza razziale organizzata che sarà attuata in Europa dai nazisti. La Prima Guerra Mondiale, estrema e assoluta in ogni suo aspetto, ha reso «familiare il fantastico e normale l’orrore»57, mettendo al centro delle operazioni militari anche i civili58. Il conflitto è totale, offrendo prigionieri di guerra e nemici civili in gran quantità: i campi, allora, diventano lo strumento più economico per gestire questa grande massa di persone considerate nemiche. Oltre ai grandi campi di prigionia militare, compaiono anche campi d’internamento per i civili divenuti nemici, i cosiddetti “alien enemies”, ossia gli stranieri residenti che appartengono a Paesi nemici o che sono uniti da legami di discendenza. A quest’ultimi si aggiungono anche le popolazioni residenti nei territori occupati dagli eserciti nemici. Poiché l’internamento di civili stranieri non è stato più adottato in Europa dai tempi delle guerre napoleoniche59, nessuna convenzione internazionale tutelava questa gran massa di non combattenti. Esisteva solo una generica raccomandazione espressa dalla Convenzione dell’Aja del 1899 che rimetteva «alle leggi 56

Cfr. C.W. ERICHSEN, The angel of death has descended violently among them: Concentration camps and prisoners of war in Namibia, 1904-08, University of Leiden African Studies Centre, Leiden (Nederland) 2005. 57 P. FUSSEL, The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, Oxford 1975, trad. it. La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984, cit. da A. GIBELLI, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 75. 58 Cfr. B. BIANCHI (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano 2006. 59 Nel 1803 Napoleone internò circa diecimila inglesi (dai diciotto ai sessant’anni) residenti in Francia, come rappresaglia all’inizio delle ostilità da parte dell’Inghilterra, che sequestrò due mercantili francesi, senza una formale dichiarazione di guerra. Cfr. P. COLEMAN, International Law and the Great War, The Lawbook Exchange, Clark (New Jersey) 2005, p. 83 (orig. 1915).

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V. Il nemico imprigionato

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dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica»60. Di certo non furono considerati prigionieri, ma civili sotto tutela militare temporanea. Le condizioni di vita all’interno furono tuttavia spesso drammatiche, per carenza di cibo e sovraffollamento; molti internati furono costretti anche a svolgere lavori per sostenere l’economia di guerra61. L’internamento dei civili stranieri si ripeterà in grande stile anche durante il secondo conflitto mondiale. A ridosso della Prima Guerra mondiale si consuma il dramma degli armeni in Turchia, considerati popolo incompatibile con il progetto panturco e per questo deportato verso il nulla. Infatti, i campi che il governo dei “Giovani Turchi” riserva loro, non sono i classici luoghi di concentramento o internamento, ma accampamenti di fortuna, privi di qualsiasi organizzazione logistica per il rifornimento e la distribuzione del cibo e dei medicinali, che servono unicamente da tappa prima di affrontare estenuanti marce verso un altro campo, che funge da nuova destinazione provvisoria62. Dunque, “campi–sosta” in condizioni proibitive, prima di affrontare nuovi spostamenti, in attesa della morte per inedia, malattia o sfinimento63. 60

Si legge nel Preambolo della Convenzione: «Attendendo che si possa istituire col tempo un codice completo delle leggi della guerra, le Alte Parti contraenti stimano opportuno di stabilire che nei casi che non hanno potuto essere previsti nelle disposizioni da esse adottate, le popolazioni e i belligeranti rimangono sotto l’egida e la signorìa dei principî del diritto delle genti, quali risultano dagli usi vigenti fra gli Stati civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica». L’accordo in «Centro Studi per la Pace», http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id= 2004103120 1007. 61 Cfr. A. GIBELLI, La grande guerra degli Italiani 1915-1918, Sansoni, Firenze 1998, pp. 124-131. 62 R. H. KEVORKIAN, Le sort des deportes dans les camps de concentration de Syrie et de Mesopotamie, in R.H. KEVORKIAN (ed), L’extermination des déportés arméniens ottomans dans les camps de concentration de Syrie– Mésopotamie (1915–1916). La deuxième phase du génocide, in «Revue d’Histoire Arménienne Contemporaine», II, Bibliothèque Nubar de l’Ugab, Paris 1998, pp. 7–61. 63 La tragedia armena è stata immortalata da duecento fotografie scattate dall’ufficiale medico tedesco Armin Wegner di stanza in Anatolia. Cfr. AA.

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La politica del male

Da luogo di internamento, poi, i campi si evolvono diventando luoghi per eccellenza della repressione, del terrore di Stato, sino allo sterminio pianificato. Nazione, classe, ideologia e razza diventano gli elementi legittimanti dei successivi sistemi concentrazionari che la storia conoscerà. Ecco così aprirsi campi per neutralizzare (i nemici politici e intere classi politiche e sociali antagoniste), punire (gli oppositori politici più pericolosi), educare (i presunti avversari), recuperare (gli omosessuali e i mendicanti), riabilitare (prostitute e piccoli delinquenti comuni), terrorizzare e passivizzare (la popolazione civile), annientare (i “nemici della razza”). Tutto questo attraverso l’isolamento fisico, la violenza gratuita, l’inedia, il lavoro forzato con pretese correttive, l’indottrinamento politico-sociale, l’eliminazione fisica. Dai campi della dittatura portoghese di Salazar64, passando per i War relocation center statunitensi, canadesi e australiani, per i GULag65 sovietici, i Lager66 nazisti, gli Speziallager67 della Germania dell’Est, i Kampe pune68 albanesi e gli altri terribili luoghi di concentramento dei Paesi dell’Europa sotto influenza

VV., Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915. Immagini e testimonianze, Guerini, Milano 1996. 64 Tra cui il già citato campo di Tarrafal, sull’isola di Santiago, a Capo Verde, colonia penale soprannominata non a caso “Campo della Morte lenta” o “Pantano della Morte”. 65 È l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej, ossia “Direzione Centrale dei Campi”. Col tempo questo termine è passato a indicare anche l’intero sistema sovietico di reclusione politica e di lavoro forzato, in tutte le sue forme e varianti. 66 Nome generico che include una molteplice varietà di campi, tra cui i Konzentrationlager (campi di concentramento), i Vernichtungslager (campi di annientamento, stermino), gli Arbeitslager) (i campi di lavori forzati), gli Arbeitserziehungslager (campi di lavoro rieducativo) e gli Staatliche Besserungs und Arbeit Lager (campi statali di lavoro correttivo). 67 Speziallager, (in russo Spezlag) i campi speciali dell’Abteilung Speziallager des NKVD der UdSSR in Deutschland (Dipartimento dei campi speciali del Commissariato del Popolo per gli Affari interni in Territorio Tedesco dell’URSS). 68 Campi di lavoro.

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dell’Unione Sovietica, i LaoGai69 cinesi, i campi jugoslavi di Tito, i Trai cai tao70 vietnamiti, i Samana71 laotiani, i kwan–li– so72 nordcoreani, i centri di “smascheramento”73 cambogiani, le UMAP74 cubane, i Centros clandestinos de detención latinoamericani, i campi del fascismo ellenico, i campi serbi, croati e bosniaci della guerra civile e secessionista in Jugoslavia, i campi–prigione israeliani, sino alle strutture detentive speciali statunitensi della base di Guantánamo75, sono questi i luoghi simbolo di un potere assoluto che vuole dominare il corpo e la mente, isolando “chi non appartiene”, sanando i cittadini avvelenati dalle idee di libertà, Dio, famiglia e diritti umani, oppure annientando chi è considerato razzialmente inferiore76.

69

È la forma abbreviata di Laodong gaizao dui, che si traduce con “Lavoro Correzionale Penitenziario”, la principale struttura concentrazionaria cinese. Il termine è spesso usato in modo generalizzato per indicare le molteplici forme di “internamento correttivo” che includono, tra gli altri, i “Centri di rieducazione attraverso il lavoro” (Laodong jiaoyang suo o abbreviato Laojiao), i riformatori per adolescenti (Shaoguan), la “Destinazione professionale obbligatoria per i criminali in scadenza di pena” (Xingmanshifang qiangzhixing liuchang jiuye, o brevemente Jiuye). 70 Campi di ri–creazione e di riforma del pensiero. 71 In laotiano vuol dire seminario, un eufemismo per indicare la rieducazione. 72 Colonia penale lavorativa, la maggiore e peggiore struttura di concentramento. A questa sono affiancate altre realtà concentrazionarie, tra cui i Kyo– hwa–so (i centri di reclusione per sentenze a termine) e Jip–kyul–so (i centri di detenzione per fuggitivi rimpatriati dalla Cina). 73 Centro dove sono rinchiusi gli oppositori ineducabili, presunti o reali, per interrogarli e ucciderli. 74 Unità Militari di Aiuto alla Produzione, campi di concentramento con la doppia funzione di rieducazione e lavoro coatto. 75 Guantánamo Bay Naval Base è la base militare statunitense a Cuba a cui interno sono organizzate delle strutture detentive speciali per ospitare terroristi o presunti tali: Camp X–Ray, Camp Iguana e poi Camp Delta. 76 Per tutti, mi permetto ancora una volta di rinviare al mio Campi. Deportare e concentrare, pp. 71-404 e alla bibliografia ivi contenuta.

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VI. Il nemico violato

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Capitolo VI

Il nemico violato

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6.1. La donna, il “nemico” dell’uomo Partiamo da una constatazione: nel mondo umano la diversità biologica (femmina e maschio) è data dalla natura, la diversità di genere è invece un prodotto della cultura. Dunque, la femmina e il maschio sono concetti biologici, la donna e l’uomo sono concetti sociali. Insomma, nel mondo umano si ha un solo tipo di femmina e uno solo di maschio1, ma ci sono tante donne e tanti uomini secondo la cultura prevalente. Quando la cultura crea pregiudizi e stereotipi sulla femmina e sulla donna, allora dà origine alle violenze, alle discriminazioni, alle prevaricazioni, all’esclusione, tutte ferite che segnano indelebilmente la storia delle donne. Molto probabilmente nel Paleolitico le comunità umane sono fondate sull’eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di gerarchia e autorità. Sono le cosiddette “società gilaniche”, da “gilania”, neologismo coniato dalla sociologa statunitense Riane Eisler per indicare questa fase storica plurimillenaria di parità tra i sessi: gi– deriva dal termine greco gynè, donna, an– viene da andros, uomo, la lettera l ha il significato di unione2. 1

L’ermafroditismo, ossia la possibilità di possedere tratti fisici di entrambi i sessi, è una rarità nel mondo umano, mentre è una condizione normale per alcune specie animali e vegetali. 2 Cfr. R. EISLER, The Chalice and The Blade. Our History, Our Future, Harper & Row, San Francisco 1987, trad. it., Il calice e la spada. La nascita del predominio maschile, Pratiche Editrice, Parma 1996, pp. 192–193.

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La politica del male

Più avanti nel Neolitico ci sono comunità matriarcali. La prima divinità primordiale è una donna, la Grande Dea Madre, venerata attraverso figure steatopigie, le cosiddette Veneri dai grossi seni e dai paffuti sederi3. Nel lento passaggio dalla Preistoria alla Storia si pongono le basi per l’affermarsi di un potere tutto maschile (patriarcato), che eclissa il potere generativo del femminile (Dea Madre), riconducendolo ora a un Dio maschio. Questo rappresenta la fine dell’uguaglianza dei sessi e l’inizio dell’uso strumentale della differenza di genere. Molti sentieri del mito iniziano a popolarsi di figure femminili malvagie o mostruose, tra queste Ammit, terribile creatura dell’antico Egitto, conosciuta come la “Divoratrice”; Lilith, donna–demone in Mesopotamia (nella Cabala ebraica è la prima donna, moglie di Adamo nell’Eden, poi ripudiata per avergli disobbedito); Astarte, dea semitica dell’amore lubrico; Kali, la terrificante dea hindu; Circe, Medea e Clitemnestra nell’antica Grecia, ingannatrice la prima, assassina la seconda, adultera l’ultima; Strige, presso gli antichi Romani, creatura che si nutre di carne e sangue umano, specialmente quelli dei bambini. La “produzione” dei nuovi testi sacri rileva il pregiudizio contro le donne, considerate sempre inferiori all’uomo. In molte Scritture si ritrova una visione della donna ispiratrice del male, peccatrice, tentatrice, bramosa di potere, che vuole finanche sovvertire i comandi di Dio: Pandora, ad esempio, la prima donna per la mitologia greca, che infrange l’ordine di Zeus di aprire il vaso che gli aveva regalato, facendo uscire gli spiriti maligni che erano i mali del mondo (malattia, vizio, pazzia, vecchiaia, gelosia), che si abbatterono inesorabilmente sulla umanità4; oppure Eva, la prima donna della cultura ebraico–

3

Cfr. P. RODRIGUEZ, Dios nació. Mujer. La invención del concepto de Dios y la sumisión de la mujer, Ediciones B, Barcelona 1999, trad. it. Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina, Editori Riuniti, Roma 2000. 4 ESIODO, Le opere e i giorni, c.a. VIII secolo a.C.

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VI. Il nemico violato

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cristiana, che causa la fine dell’Eden inducendo Adamo a disobbedire a Dio5. La funzione principale di queste narrazioni è quella di rendere la donna colpevole dei mali dell’Umanità e relegarla a un ruolo inferiore rispetto a quello maschile: alla parità spirituale non si rispecchia un’uguaglianza nella vita terrena. I testi sacri abbondano così di divieti e di imposizioni imposte alle donne, sempre sottomesse al patronato dell’uomo (padre, fratello, marito)6. Il maschile si è imposto come canone dell’umanità anche nel linguaggio: quando ci riferiamo all’essere umano in generale, spesso si usa il termine “uomo”, che a sua volta indica anche la condizione biologica di maschio7. Inizialmente in latino l’uomo è il vir, mentre l’homo identificava il genere umano8. Nella Bibbia cristiana, ad esempio, è scritto: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò»9. Dunque l’uomo passa a designare anche il genere umano, al contrario del termine “donna” che si riferisce esclusivamente agli individui di sesso femminile. Con il patriarcato la figura della femmina–donna cambia dunque registro: la sua funzione di donna è declassata, il suo corpo da femmina è mercificato. Relegate così al ruolo di madri e di “oggetti” sottomessi al marito/padre, esse perdono la dimensione di donna. Questa dequalificazione si ritrova già nelle più remote legislazioni. Nel Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C), una delle più antiche raccolte di leggi scritte, ad esem5

Vecchio Testamento, Genesi, 3, 1-7. Cfr. A.T. NEGRI (a cura di), La donna nelle tre grandi religioni monoteiste. Ebraismo, Cristianesimo e Islam, Edizioni Mille, Torino, 2002; L. SCOPEL, La figura della donna nelle religioni, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2012. 7 Questo doppio significato è comune a molti vocaboli equivalenti in altre lingue: ad esempio in inglese man, in francese homme, in spagnolo hombre. La lingua tedesca, invece, distingue tra mann (individuo maschio) e mensch (qualificazione generica della specie umana). 8 Il latino hŏmō è legato a hŭmus, terra, avente senso quindi di “terrestre”. 9 Genesi 1, 27. Il testo continua più avanti: «Nel giorno in cui Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e diede loro il nome di uomo nel giorno in cui furono creati» (Genesi 5, 1–2). 6

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La politica del male

pio è dichiarato che la donna, pur avendo notevole indipendenza giuridica, “è proprietà del marito e la figlia nubile è di proprietà del padre” (rigo 129). Se presso i babilonesi e gli egizi le donne godettero dei diritti di proprietà, pur essendo sottoposte al padre o al marito, presso gli antichi popoli germanici la donna è “ostaggio” della forza maschile, mentre è passibile di ripudio e giuridicamente inferiore nel mondo ebraico o anche vittima di infiniti abusi e violenze nelle antiche Cina e India. Presso gli antichi greci e romani, invece, la donna era un vero e proprio “possesso” del marito o del padre, quindi non godeva del controllo giuridico né della sua persona, né dei suoi figli, né dei beni della sua famiglia. Non a caso è coniata presso i Romani l’espressione latina ancora oggi usata imbecillus sexus, sesso debole10. Nel Medioevo la donna è classificata in base alla diversa condizione sociale, alle diverse aree geografiche e ai momenti storici presi in considerazione11. Si parte da un’ondata misogina dell’Alto Medioevo, dovuta al monopolio del sapere e della cultura da parte degli uomini di Chiesa, sempre più angosciati verso la donna, a cui continuano ad attribuire peccati imperdonabili (dalla tentazione di Adamo e la disubbidienza verso Dio, alla morte di Giovanni il Battista, alla rovina di Sansone e così via). La donna è quindi temuta e controllata, perché capace di istigare e minacciare la virtù degli uomini. Essa diventa spesso il capo espiatorio di qualsiasi cosa, come succede più tardi, quando la Chiesa comincia a sentire minacciato il suo tradizionale pote10

Due casi a parte sono Sparta e l’Etruria: le donne spartane arrivarono a gestire di fatto l’economia, mentre la donna etrusca godeva praticamente degli stessi diritti dell’uomo (pur nel rispetto della suddivisione in classi). Cfr. N. CRINITI, Imbecillus sexus. Le donne nell’Italia antica, Grafo, Brescia 1999; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Editori Riuniti, Roma 1985; A. RALLO (a cura di), Le donne in Etruria, L’Erma di Bretschneider, Roma 1989. 11 Cfr. G. DUBY, M. PERROT (a cura di), Storia delle Donne in Occidente. Il Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2005 (tomo 2 della traduzione dei 5 volumi originali in francese Histoires des femmes en Occident, 5 voll., Paris, Plon 1991- 1992).

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VI. Il nemico violato

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re spirituale e temporale, bandendo l’Inquisizione e la caccia alle donne malefiche. Un manuale pubblicato tra il 1486 e il 1487, il Malleus Maleficarum (Martello delle streghe), redatto dai domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, offre finanche un supporto teologico alla discriminazione di genere, spiegando i fondamenti dell’inferiorità femminile: Già nella prima donna è evidente che per natura ha minor fede: infatti, al serpente che le chiedeva perché non mangiassero da tutti gli alberi del Paradiso, già con la sua risposta si rivelava in dubbio e senza fede nelle parole di Dio. E tutto questo è dimostrato dall’etimologia del nome. Infatti, femmina viene da “fede” e “meno” perché ha sempre minor fede e la serba di meno12.

Ma gli autori di questo manuale, che riscosse molti consensi, tanto da essere adottato dalla quasi totalità degli inquisitori ed ecclesiastici, nonché dai giudici dei tribunali locali, dimenticarono la corretta etimologia del termine “femmina”, che ha la stessa radice di fecundus, rimandando quindi all’idea di allattare, per cui femmina è colei che allatta e per estensione la madre di tutti13. Partendo da queste pseudo conoscenze linguistiche, Sprenger e Kramer fanno credere che in ogni donna c’è sempre una Eva, creatura portata a dubitare della fede, dimostrando l’indole femminile alle seduzioni del male, insomma la loro natura di streghe14.

12

H. INSTITOR (KRÄMER), J. SPRENGER, Malleus maleficarum, Strasburgo 1486-1487, trad. it., Il martello delle streghe. La sessualità femminile nel “trasfert” degli inquisitori, Spirali, Milano 2003, p. 90. 13 Cfr. Voce “Femmina”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: http://www.etimo.it/?term=femmina 14 Unica eccezione per gli estensori del Malleus maleficarum è quella di Maria madre di Cristo, che «per grazia e per natura la fede non venne meno». H. INSTITOR (KRÄMER), J. SPRENGER, Il martello delle streghe, cit., p. 91.

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La politica del male

Proprio l’immagine della donna come strega diventa una delle più potenti raffigurazioni medievali del femminile, salvo poi scoprire che, spenti i roghi, le streghe scompaiono. Nel tardo Medioevo il declassamento della donna comincia ad affievolirsi, almeno nelle classi superiori, in cui la donna deve assumere nuove responsabilità in ambito politico e amministrativo per l’assenza ricorrente del marito. Con la nascita della borghesia, il Basso Medioevo rivaluta completamente la figura femminile, ora istruita e inserita nella società. La donna borghese, così, apporta un sostanziale riscatto alla condizione femminile. Nel tardo Medioevo la donna inizia a recuperare cosa le era stato tolto nei secoli precedenti, tuttavia, nonostante la vigorosa partecipazione della componente femminile ai moti rivoluzionari, è la Rivoluzione francese a rimettere in discussione simili opportunità tutte derivate dall’appartenenza di casta: nella società borghese dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri non parve affatto naturale riconoscere alle donne una loro paritaria presenza nella dimensione pubblica, mentre il positivismo ottocentesco si sforzava di trovare ragioni oggettive per relegarle nei limiti del privato15.

Si ritorna così indietro, ad esempio i codici Napoleonici del 1804 prevedono la certificazione maritale, in base alla quale la donna è di proprietà del marito16. Nell’epoca moderna, anche se la donna entra nelle fabbriche e acquisisce più diritti, fa ancora fatica a stabilire la giusta parità con l’uomo in ambito sociale e politico (il primo Paese a riconoscere finalmente i diritti politici alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1893, seguita da dodici stati degli USA nel 1914 e poi da alcuni Paesi europei)17. 15

A. VARNI, Il potere è donna, in «Il Sole 24Ore», 21 dicembre 2014. Cfr. G. DUBY, M. PERROT (a cura di), Storia delle Donne in Occidente. Dal Rinascimento all’Età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009. 17 Cfr. ID., Storia delle Donne in Occidente. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2007. 16

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La storia contemporanea vede finalmente la donna protagonista del suo riscatto. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento nascono le prime grandi organizzazioni femministe, si hanno le prime importanti disposizioni internazionali sulla parità tra uomo e donna, in primis quella inclusa nella Carta fondante le Organizzazioni delle Nazioni Unite, che al preambolo dichiara di «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne», ribadendo questa ultima uguaglianza all’articolo 55, in cui si stabilisce che: Le Nazioni Unite promuoveranno […] il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione18.

A queste fanno seguito alle disposizioni, tra cui la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne” (risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993)19. Nonostante questo, paradossalmente c’è un aumento della violenza contro le donne, che va di pari passo con il «declino dell’impero patriarcale»20, retaggio di una concezione che affonda le sue radici nell’idea del supermaschio dominatore: L’emancipazione della donna non porta ancora all’equilibrio sperato. Il bisogno dell’uomo di dimostrare la propria superiorità prende al contrario forme estremamente inquietanti. Dietro lo stupro c’è quasi sempre il bisogno di umiliare la don18

U.N., Universal Declaration of Human Rights, in «United Nations. Human Rights. Office of the High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/UDHR/ Documents/UDHR_Translations/itn.pdf 19 Cfr. Assemblea Generale ONU, Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, 1993, in «Università degli Studi di Padova. Centro di Ateneo per i Diritti Umani», http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_ internazionali/Dichiarazione-sulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne1993/27 20 M. MARZANO, Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, Mondadori, Milano 2010, p. 46.

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La politica del male

na, la volontà di lasciare una traccia di sé su quest’essere che si continua a considerare inferiore21.

Così le donne continuano a essere offese, denigrate, vestite di lividi, molto spesso sono uccise, regolarmente violate sessualmente22.

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6.2. I tortuosi sentieri della violenza sessuale L’intuizione da parte dell’uomo che i suoi genitali potessero servire come arma per generare dominio, è una delle più scellerate scoperte della storia23. Nel corso della storia il maschio ha utilizzato il pene molto più spesso del cervello, trasformandolo in arma, sia concreta sia simbolica. La già marcata misoginia si arricchisce di un nuovo espediente per sottolineare con forza la superiorità dell’uomo sulla donna: la violenza sessuale o la minaccia di essa. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la violenza sessuale come: Qualunque atto sessuale o tentativi di ottenere atti sessuali, le avances o i commenti non desiderati contro la sessualità di una persona e attraverso l’uso della coercizione ad opera di qualsiasi persona, indipendentemente dalla sua relazione con la

21

Ibidem. Sulla discriminazione delle donne nella storia, cfr. M. BARDÈCHE, Histoire des femmes, 2 voll., Stock, Paris 1968, trad. it. Storia della donna, 2 voll., Mursia, Milano 1973; V. HAZIEL, E Dio negò la donna. Come la legge dei padri perseguita da sempre l’universo femminile, Sperling & Kupfer, Milano 2007. 23 Ho parafrasato un passaggio del saggio Contro la nostra volontà, della giornalista e attivista per i diritti delle donne Susan Brownmiller. Cfr. il suo Agaist Our Will. Men, Women and Rape, Simon & Schuster, New York 1975, trad. it. Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani, Milano 1976, p. 13. 22

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VI. Il nemico violato

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vittima, in qualsiasi ambiente, compreso e non solo quello della casa o del luogo di lavoro.24

È violenza sessuale, quindi, ogni forma di coinvolgimento in attività sessuali (consumate o tentate), senza il consenso spontaneo e libero di una persona, anche quando questa sia incapace a consentire all’atto sessuale (causa infermità mentale, età infantile, uso di droghe o alcool o ancora farmaci e così via). Nella violenza sessuale non sempre è utilizzata la forza fisica, poiché può essere impiegata anche l’intimidazione psicologia, ad esempio nell’impiego di uno status sociale per intimorire o minacciare la vittima, oppure per condizionare una persona che versa in uno stato di bisogno (ad esempio richiesta di prestazioni sessuali in cambio di qualcosa, come protezione o assunzione al lavoro). Una violenza sessuale non è soltanto un processo fisico esteriore. Essa ferisce l’anima della vittima, la stritola, la umilia. Annulla la sua personalità, lasciando cicatrici invisibili che mai potranno rimarginarsi. La violenza sessuale include una serie di atti compiuti contro la volontà della vittima, tra questi lo stupro, l’abuso sessuale, le molestie sessuali, l’esposizione non autorizzata del corpo nudo, gli atti violenti contro l’integrità sessuale, inclusa la mutilazione dei genitali (infibulazione e castrazione)25. Sono considerate molestie sessuali i contatti fisici non necessari, comprese toccate non gradite; le insinuazioni e i commenti equivoci sull’aspetto esteriore di una persona; le osservazioni e/o le ingiurie sessiste su caratteristiche, comportamento e orientamento sessuali; l’esposizione di materiale pornografico. Per abuso sessuale si intende ogni tipo di contatto sessuale non consensuale che non implichi la penetrazione. È abuso anche l’uso di parole dispregiative, il rifiuto di utilizzare metodi contraccettivi, causare deliberatamente dolore fisico al partner 24

World Health Organization, World report on violence and health, Geneva 2002 p. 149. 25 Per tutti cfr., ivi, pp. 149–150.

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La politica del male

durante i rapporti sessuali, contagiare deliberatamente il partner con infezioni di tipo sessuale. Lo stupro in generale è un atto sessuale non consensuale caratterizzato dalla penetrazione con pene, mano, dita o con altri oggetti della vagina, dell’ano o della bocca della vittima. Se per Carl Gustav Jung lo stupro rappresenta il comportamento di colui che non riesce a simbolizzare i propri impulsi26, per il suo collega René Major l’agire dello stupratore è contrassegnato dal desiderio di rendersi padrone dell’oggetto (la persona stuprata) per marcare il suo dominio27. Quindi, se da un lato c’è una incapacità di chi attua la violenza di gestire sentimenti, emozioni e impulsi, dall’altro c’è un perverso senso di possesso e di dominio. Da parte dell’aguzzino la vittima diventa un dispositivo per attraversare un orizzonte simbolico e raggiungere un determinato scopo: un piacere (sadico), un (perverso) senso di dominazione, una potenza simbolica (scellerata), una superiorità maschile (illusoria). Nello stupro si ritrovano le emozioni di aggressione, odio e disprezzo maggiormente verso le donne. Nello stupro verso le donne si trovano anche radicati gli stereotipi, i cosiddetti miti dello stupro, che fanno del femminile l’elemento provocatore (ad esempio per la sua avvenenza o per il suo modo di vestire)28. Lo stupro è retaggio anche di miti antichi. I sentieri della mitologia sono pieni di stupri e divinità virili libidinose che costruiscono, e assieme fortificano, gli stereotipi sui rapporti di

26

Cfr. C.G. JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1980, p. 71. 27 R. MAJOR, Questo farsi violenza, in AA. VV., Violenza e psicoanalisi, Documenti del Convegno Internazionale di Psicoanalisi a cura di A. VERDIGLIONE, Milano novembre 1977, Feltrinelli, Milano 1978, p. 26. 28 Cfr. J. HAMLIN (ed), List of Rape Myths. Sociology of Rape, University of Minnesota, Duluth 2001 e 2005, http://www.d.umn.edu/cla/faculty/jhamlin/ 3925/myths.html; M.R. Burt, Rape myths, in M.E. Odem, J. Clay–Warner (Eds), Confronting Rape and Sexual Assault, Scholarly Resources, Wilmington 1998, ora Rowman & Littlefield, Lanham 2003, pp. 129–143.

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VI. Il nemico violato

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potere e di prepotenza del maschile sul femminile29. Nei racconti greci ci sono Leda, Antiope, Hera, Europa, Semele e altre violate dallo stupratore seriale Zeus, Cassandra abusata da Aiace di Locride, Crisippo dal suo tutore Laio, Persefone (per i Romani Proserpina) dallo zio Ade, Medusa da Poseidone, Filomela da suo cognato Tereo, le ninfe e Dafni da parte di Pan, mentre i Centauri si applicavano nei loro possessi orgiastici e in scorrerie sessuali; nella Bibbia ebraica Dinah è violentata dal principe cananea Shekhem, mentre la figlia del re David Tamar è stuprata dal fratello Amnon; nella leggenda scandinava Rindr è abusata da Odino e così via30. Nelle narrazioni mitiche, la violenza sessuale è anche un elemento vitale che porta spesso alla creazione di una nuova divinità o eroe, come anche alla fondazione di un’istituzione. Ad esempio Atena nasce da uno stupro perpetrato da Zeus ai danni di Meti; Teseo, il fondatore di Atene, oltre ad essere uno stupratore è figlio di madre stuprata; Rea Silvia è costretta a unirsi a Marte, da cui nasceranno Romolo e Remo; Romolo fonda Roma ma per popolarla e assicurare la discendenza decide di prendere con l’inganno e la forza le donne di un altro popolo (Ratto delle Sabine); lo stupro di Lucrezia da parte del figlio di Tarquinio il Superbo determina la fine della monarchia e l’avvento della repubblica romana; il tentativo di stupro ai danni di Virginia pone fine al decemvirato legislativo romano. Molto genericamente, dal periodo antico a tutto il Medioevo le donne sono il “bene materiale” su cui esercitare un diritto di possesso da parte dell’uomo (il padre, il marito o il fratello) e la violenza contro di esse è ritenuta un crimine contro la proprietà, poiché in caso di stupro il “valore economico” di una donna è 29

Cfr. F. LUCREZI, F. BOTTA, G. RIZZELLI, Violenza sessuale e società antiche. Profili storico–giuridici, Edizioni del Grifo, Lecce 2003. 30 Cfr. D. CERRATO, La cultura dello stupro: miti antichi e violenza moderna, in M.E. JAIME DE PABLOS (ed), Epistemología Feminista: Mujeres e Identidad, Arcibel, Sevilla 2011, pp. 432–449; C. SCHODDE, Rape Culture in Classical Mythology, in «Found in Antiquity», October 6, 2013 https://foundinantiquity.com/2013/10/06/rape-culture-in-classicalmythology/comment-page-1/

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irrimediabilmente distrutto. Quindi, uno stupro è considerato un delitto non contro la donna, ma contro l’uomo a cui “apparteneva”31. In questa perversa logica, in caso di conflitti armati o di ostilità politiche, lo stupro non è solo un’azione sessuale violenta, ma diventa il mezzo scellerato per assoggettare e umiliare il nemico, il dispositivo criminale per disgregare una comunità, uno strumento crudele di intimidazione politica. In tal modo, il corpo della donna diventa assieme bottino di guerra e campo di battaglia. 6.3. Le donne come bottino Se già in tempo di pace la considerazione della donna come essere umano autonomo, indipendente e uguale al maschio fa fatica a emergere e realizzarsi, figuriamoci in tempo di guerra. La violenza sulle donne del nemico è una costante nelle guerre. Essa non ha nessuna funzione militare, ma serve unicamente a umiliare il rivale sconfitto che è colpito nella sua “proprietà”, allo stesso modo del saccheggio e della distruzione dei suoi altri averi. La più ricorrente violenza è certamente lo stupro, ma spesso le donne sono sequestrate e costrette a sposarsi, a servire o a prostituirsi. Dall’antichità e per tutto il Medioevo il ratto o lo stupro delle donne del nemico è un elemento connaturale al conflitto stesso: la donna è un legittimo bottino di guerra che premia i vincitori e umilia i vinti, insomma un atto per ricompensare il soldato e una manifestazione per sancire la sconfitta del nemico in ogni suo aspetto. Nella società patriarcale, dove l’unico soggetto che fa la storia è il maschio, «un uomo che risulta incapace di pro31

Cfr. S. DEACY, K. PIERCE, Rape in Antiquity. Sexual Violence in the Greek and Roman Worlds. Duckworth, London 1997, ora Bloomsbury Academic London 2002; S.P. Pistono, Rape in Medieval Europe, in «Atlantis», vol. 14, n. 2, 1989, pp. 36–43.

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teggere la propria moglie, sorella o figlia è un uomo impotente e disonorato e questa incapacità compromette la sua virilità»32. Omero riporta nell’Iliade un dialogo fra Agamennone e Achille riguardante il lecito possesso delle donne catturate durante la guerra di Troia; gli storici Erodoto e Tito Livio raccontano la squallida consuetudine di concepire la donna del rivale come bottino di guerra; perfino la legge Biblica insegna ai guerrieri come trattare le donne del nemico: Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. E se acconsente alla pace e t’apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e soggetto. Ma s’essa non vuol far pace teco e ti vuol far guerra, allora l’assedierai; e quando l’Eterno, il tuo Dio, te l’avrà data nelle mani, ne metterai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, te li prenderai come tua preda; e mangerai il bottino de’ tuoi nemici, che l’Eterno, l’Iddio tuo, t’avrà dato33.

Osserva Susan Broenmiller: A parte una genuina umana preoccupazione per mogli e figlie amate, lo stupro perpetrato da un vincitore è una prova inconfutabile della condizione d’impotenza virile del vinto. La difesa delle donne è stata fin dalla notte dei tempi un simbolo dell’orgoglio maschile, così come il possesso delle donne è stato un simbolo del successo maschile. Lo stupro compiuto da un soldato conquistatore distrugge tutte le residue illusioni di potere e di possesso negli uomini della parte sconfitta34.

In generale sia il rapimento per ridurre le donne del fronte nemico in schiavitù sia gli stupri delle mogli e delle figlie dell’avversario non sono coordinati da una strategia, ma sono precisa espressione di disprezzo delle donne, trattate appunto 32 G. LERNER, The Creation of Patriarchy, Oxford Paperbacks, Oxford 1987, p. 78. 33 Deuteronomio 20, 10-14. 34 S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà, cit., pp. 42–43.

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come proprietà da depredare al nemico: alla donna così «è stato risparmiato il ruolo di combattente ma non quello di vittima»35. La concezione della donna come “proprietà” dell’uomo e, quindi, come “bottino” per diritto di guerra, si ritrova nella famosa vicenda del ratto delle Sabine. A commento dell’episodio avvolto nella leggenda, Aurelio Agostino notava che sarebbe stato «più giusto far guerra con una popolazione che aveva rifiutato a corregionali e confinanti le proprie figlie chieste come mogli che con una popolazione che le richiedeva perché rapite». Romolo – notava il padre, dottore e santo della Chiesa di Roma – «come vincitore» di un’eventuale guerra contro i Sabini «poteva forse giustamente per diritto in tempo di guerra prendere le fanciulle che gli erano state negate ingiustamente», ma egli «senza alcun diritto rapì in tempo di pace le fanciulle rifiutate e condusse una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente indignati»36. La violenza sulle donne durante una guerra trova le prime condanne nei codici militari di Riccardo II d’Inghilterra (1384) e Enrico V (1419), disposizioni adottate per bandire le crudeltà verso le donne e i bambini durante una contesa armata e punire gli stupratori della guerra dei cent’anni (1337–1453). Con la nazionalizzazione della giustizia penale, la violenza sessuale diventa un reato contro lo Stato, e non più un illecito contro il marito o il padre, mentre trattazioni giuridiche e politiche, codici militari e accordi internazionali iniziano a vietare tale sopruso in guerra. Nel Seicento, ad esempio, Ugo Grozio ricorda che massacrare e violare i civili indifesi non dovrebbe rientrare fra i fini militari. Nel De Iure Belli ac Pacis (1646) il giurista e umanista olandese afferma l’assoluta esigenza di proibire durante i conflitti la violazione dei diritti dei popoli, di conseguenza lo stupro 35

F. BATTISTELLI, Guerrieri ingiusti. Inconscio maschile, organizzazione militare e società nelle violenze alle donne in guerra, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 18. 36 AURELIO AGOSTINO, De civitate Dei, II, 17.

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VI. Il nemico violato

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«non dovrebbe rimanere impunito in guerra meno che in tempo di pace»37. In un trattato di amicizia e di commercio stipulato nel 1785 fra Stati Uniti D’America e Prussia, tra le altre disposizioni, oltre a dettagliate istruzioni sul trattamento dei prigionieri di guerra, si stabilisce che in caso di guerra, le donne e i bambini «non saranno molestati nella loro persona»38. Il 19 febbraio 1847, durante la spietata guerra USA–Messico (1846–1848), il generale statunitense Winfield Scott emana il General Orders n. 20 quale sussidio al più generico “Rules and Articles of War” del 1806. Nell’ordine militare, temendo che «molti e gravi reati non previsti nell’atto di Congresso» possano essere commessi dai soldati dei due eserciti (art. 1), proibisce condotte immorali, quali l’omicidio premeditato, la rapina, le pugnalate o le mutilazioni maligne, la profanazione di chiese, cimiteri e case, lo stupro (art. 2), stabilendo che «gli interessi dell’umanità esigono imperativamente che tutti i crimini di cui sopra devono essere puniti severamente» (art. 3) da una Corte marziale (artt. 7 e 10)39. Nel novembre 1862, lo storico ed economista Francis Lieber in una lettera al generale statunitense Henry Halleck, segretario di Stato militare, suggerisce di perfezionare il codice per la condotta dei militari impegnati in guerra. Lieber interviene durante la feroce guerra di secessione tra gli Stati confederati del Sud e l’Unione del Nord (1961–1865), un conflitto spietato perché, richiedendo la resa incondizionata dell’avversario, radicalizzò lo scontro. Partendo dal presupposto che anche la guerra richiede regole, modalità procedurali e leggi sulla condotta dei soldati, Lieber suggerisce una serie di misure per disciplinare il 37

H. GROTIUS, On the Law of War and Peace, ed. S.C. Neff, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. 356. 38 Articolo XXIII del trattato. Cfr. Y. KHUSHALANI, Dignity and Honour of Women as Basic and Fundamental Human Rights, Martinus Nijhoff, Den Haag 1982, p. 3. 39 General Headquarters of the Army, General Orders n. 20, February 19, 1847, Tampico, Mexico, in «Rice. Digital Scholarship Archive», https://scholarship.rice.edu/jsp/xml/1911/27562/3/aa00208tr.tei.html

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comportamento dei militari in guerra. Le indicazioni di Lieber diventano regole nel General Orders n. 100, sottoscritto dal presidente Abraham Lincoln il 24 aprile 1863. Nel regolamento, tra i principi di civiltà nella conduzione delle guerre, oltre il riconoscimento nei territori occupati della religione, della moralità, della sacralità delle relazioni domestiche e dei civili (art. 37), si ritrova il divieto di eseguire qualsiasi atto di violenza sfrenata commessa nei confronti di persone nei territori invasi, compreso lo stupro, da sanzionarsi «con la pena di morte, o altra pena che risulti commisurata alla gravità dell’offesa» (art. 44)40. Il Codice Lieber diviene la base del diritto bellico internazionale, diventando il modello al quale poi si ispireranno i regolamenti emanati in Europa, destinati a disciplinare i problemi umanitari nascenti dai conflitti armati nazionali e internazionali, dal “Manuale di Oxford” del 188041 alle varie convenzioni internazionali sulle norme e consuetudini di guerra42. Nonostante questo lo stupro continua a prosperare come atto «normale di guerra»43, «indipendentemente dalla nazionalità o dalla località geografica», ricorda Susan Broenmiller; poiché la guerra fornisce sempre «agli uomini una tacita licenza di violentare»44.

40

Cfr. US War Department, General Orders n. 100. Instructions for the Government of Armies of the United States in the Field (Lieber Code), in «Library of Congress», https://www.loc.gov/rr/frd/Military_Law/Lieber_Collection/pdf /Instructions-gov-armies.pdf 41 Scritto dal giurista svizzero Gustave Moynier, uno dei fondatori della Croce Rossa, e adottato all’unanimità dall’Istituto di Diritto Internazionale, il “Manuale di Oxford” del 1880 è diventato la base per le legislazioni nazionali e internazionali sul diritto umanitario durante le guerre. Cfr. Institute of International Law, The Laws of War on Land, Oxford 9 September 1880, in «International Committee of the Red Cross», https://ihl-databases.icrc.org/ihl/ INTRO/140?OpenDocument. 42 Cfr. Y. KHUSHALANI, Dignity and Honour of Women as Basic and Fundamental Human Rights, cit.. 43 R SEIFERT, The Second Front, The Logic of Sexual Violence in War, in «Women’s Studies International Forum», 19, 1–2, January–April 1996, p. 35. 44 S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà, cit., pp. 35–36.

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6.4. Il corpo come campo di battaglia e luogo di dominio

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La donna è la rappresentazione concreta e simbolica della Nazione. Oltraggiare colei che genera i figli della Nazione vuol dire colpire l’essenza collettiva di un popolo: violare il suo corpo vuol dire violare il corpo della Patria. La necessità di umiliare una Nazione passa quindi attraverso il corpo della donna: Il corpo di una donna violentata diventa un campo di battaglia rituale, un terreno per la parata trionfale del vincitore. L’atto compiuto su di lei un messaggio trasmesso da uomini ad altri uomini: una vivida prova di vittoria per gli uni e di una sconfitta per gli altri45.

Nei conflitti contemporanei gli stupri sono ancora considerati come un elemento concomitante allo stato di guerra, ma si aggiungono nuovi elementi: oltre all’appagamento dei militari in campo, la violenza sessuale diventa un’arma di guerra psicologica; lo strumento per esercitare dominio (estorcere informazioni, relegare al silenzio o semplicemente per mostrare autorità), una tattica per destabilizzare un territorio, disgregando la comunità attraverso l’alterazione della composizione etnica. Queste violenze sessuali non fanno distinzioni di genere, anche se le donne continuano ad essere quelle maggiormente colpite. Lo stupro diventa così una strategia militare e un processo politico per cancellare quello che è stato e scrivere nuove pagine di storia. Con la Prima Guerra Mondiale il campo di battaglia entra risolutivamente nelle città, segnando il «definitivo passaggio dalla crudeltà come fatto istintuale, a quella della crudeltà come frutto di una pianificazione»46, trascinando in questo modo «le parti in lotta in un processo cumulativo di reciproca distruzione […] diventando così una catastrofe antropologica»47. 45

Ivi, p. 43. R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 94. 47 Ivi, pp. 94–95. 46

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Tra le violenze di massa, oltre all’aumento dei massacri di civili, si registra anche un incremento dello stupro di guerra, che si trasforma da elemento “accessorio” dei conflitti, a strumento psicologico di dominio totale. Gli stupri in Belgio e in Francia nel 1914 da parte dell’esercito germanico, sono un esempio della guerra psicologica inaugurata con il primo conflitto mondiale48. Nei Balcani, invece, le violenze sulle donne durante l’occupazione austro–ungarica e bulgara assunsero un carattere di massa, con lo scopo di spingere la popolazione serba a lasciare i propri territori, al fine di snazionalizzare la regione49. Nonostante le violenze sessuali non facessero parte di un piano preordinato, come invece avvenne per la Francia, per il Belgio e per la Serbia, anche sul fronte italiano fu raggiunto un livello quantitativo molto elevato di stupri. Nel 1917, a seguito della rotta di Caporetto (24–25 ottobre), il Friuli e parte del Veneto furono occupati dall’Impero austro–ungarico. L’occupazione si caratterizzò per il saccheggio sistematico di ogni bene mobile, dalle cose agli animali, e per la sistematica violenza sessuale sulle donne, senza alcuna distinzione di età50. Gli stupri portarono a uno sconvolgimento del tessuto sociale, perché nacquero molti “figli del nemico”, frutto delle violenze subite. Poiché i nati dalle violenze degli occupanti erano rifiutati dalle madri e non potevano beneficiare delle provvidenze statali crea48

Cfr. M. STRAZZA, Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, Consiglio Regionale della Basilicata-CRPO, Potenza 2010, pp. 21–34. 49 Cfr. B. BIANCHI, Crimini di guerra e contro l’umanità. Le violenze ai civili sul fronte orientale (1914-1919), Unicopli, Milano 2012; ID., Gli stupri di massa in Serbia durante la prima guerra mondiale, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 43–60. 50 Cfr. A. GIBELLI, Guerra e violenze sessuali: il caso veneto e friulano, in AA. VV., La memoria della grande guerra nelle Dolomiti, Paolo Gaspari, Udine 2001, pp. 195–205; D. CESCHIN, “L’estremo oltraggio”: la violenza alle donne in Friuli e in Veneto durante l’occupazione austro-germanica (1917– 1918), in B. BIANCHI (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano 2006, pp. 165–184; M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., pp. 43–67.

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te per i figli dei caduti in guerra, fu addirittura fondato nel 1918 a Portogruaro, per iniziativa di don Celso Costantini, un istituto per accogliere questi bambini51. Strutture d’abbandono per i “figli del nemico tedesco” furono aperte anche in Belgio e Francia. In quest’ultimo Stato qualcuno propose finanche la depenalizzazione dell’aborto, per evitare l’alterazione del tessuto nazionale e, quindi, la “degenerazione ereditaria” francese dovuta alla nascita dei “figli del nemico”52. Anche quando la guerra terminò, l’arma dello stupro fu utilizzata per umiliare gli sconfitti. Come successe in Renania, occupata dall’esercito francese a seguito dell’armistizio dell’11 novembre 1918. Infatti, dopo aver umiliato la Germania politicamente con il “Trattato di Versailles”, che pose fine dal primo conflitto mondiale, le truppe francesi di occupazione si preoccuparono di umiliare fisicamente anche i tedeschi: i soldati francesi, molti dei quali di colore, si resero così responsabili di numerosi stupri. La guerra era finita solo sul piano militare, ma su quello politico–sociale continuò a persistere53. Anche le occupazioni coloniali europee furono luogo di violenze e stupri. Le realtà coloniali sono sempre state un dominio politico–economico basato sulla millantata supremazia europea. Poiché esisteva un abisso razziale tra l’europeo e il nativo, si possono immaginare quali violenze subirono le donne del luogo54. I popoli indigeni non europei erano infatti giudicati come 51 Cfr. B. MONTESI, “Il frutto vivente del disonore”: i figli della violenza, l’Italia, la Grande guerra, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra, cit., pp. 61–78; M. Strazza, Senza via di scampo, cit., pp. 68–71. 52 Cfr. S. AUDOIN–ROUZEAU, L’enfant de l’ennemi, 1914–1918, Aubier, Paris 1995. 53 Cfr. E. FATTORINI, Il colpo di grazia sessuale. Le violenze delle truppe nere in Renania negli anni venti, in A. BRAVO (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma–Bari 1991, pp. 28–56. 54 Cfr. A. MCCLINTOCK, Imperial Leather. Race, Gender and Sexuality in the Colonial Context, Routledge, London 1995. Sulle colonie italiane cfr. N. POIDIMANI, Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. BORGOMANERI (a cura di), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati, Milano 2006.

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sotto–uomini, per cui tutto si poteva nei loro confronti. I regimi coloniali furono dunque molto voraci: non solo espropri totali di terre e animali alla popolazione locale, ma anche continue umiliazioni agli indigeni e alle loro tradizioni, con lavori forzati e violenze sulle donne. Particolare crudeltà fu elargita nell’Africa tedesca del Sud–Ovest (1884–1919)55 e, più tardi, nella colonia e protettorato del Kenya nell’Africa orientale britannica (1920– 1963), dove le torture e la violenza sessuale, anche con serpenti e bottiglie rotte, furono sia la forma specifica della disumanizzazione delle donne africane da parte dei britannici sia l’arma per bloccare la guerriglia anticoloniale passata alla storia come “Mau Mau rebellion” (1946–1955)56. I crimini sessuali continuano nella Seconda Guerra Mondiale, sia da parte degli eserciti delle Potenze dell’Asse sia di quelli degli Alleati57. Le donne nemiche sono state destinatarie di sadiche attenzioni da parte del nazismo. Nonostante fosse vietato ai tedeschi avere rapporti sessuali con le donne ebree, molte di queste furono violentate dai nazisti sia nelle zone occupate sia nei Lager58. Per evitare malattie veneree i vertici dell’esercito istituirono finanche bordelli per la Wehrmacht e per le SS. Bordelli furono anche impiantati nei Lager, specialmente quelli adibiti al lavoro forzato: destinati agli stessi internati, le visite a questi luoghi di

55

Cfr. L. COSTALUNGA, Aspetti del colonialismo tedesco in Africa orientale, 1884–1914, Effepi, Genova 2001. 56 Cfr. C.M. ELKINS, Detention and rehabilitation during the Mau Mau Emergencey. The crisis of late colonial Kenya, Harvard University, Cambridge 2001, p. 263; J. FRANKS, Scram from Kenya! From colony to republic, Pomegranate Press, Lewes 2004, p. 300. Sulla guerriglia anticoloniale cfr. il mio Kenya 1946–1957: la rivolta Mau Mau la repressione Britannica e il Risorgimento keniota, «clio», n. 4, anno XLVIII, 2012 e relativa bibliografia. 57 Cfr. J. BOURKE, Rape. A history from 1860 to the present day, Virago Press, London 2007, trad. it. Stupro. Storia della violenza sessuale Storia della violenza sessuale dal 1860 ad oggi, Laterza, Roma–Bari 2009, pp. 408–441. 58 Cfr. S.M. HEDGEPETH, R.G. SAIDEL (eds), Sexual Violence against Jewish Women during the Holocaust, Brandeis University Press, Hanover and London 2010, pp. 75–136.

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tolleranza erano concesse come premio per la produttività, pagate generalmente con buoni–lavoro59. Un altro modo per distruggere la dignità delle donne è stata quella di utilizzarle come “fabbrica” di figli perfetti. Nel tentativo di ricreare e conservare la purezza della razza ariana, il nazismo diede via anche al progetto Lebesborn (fonte della vita): migliaia di donne furono trasformate in generatrici di una stirpe di uomini corrispondenti ai canoni della razza ariana. Ingravidamento avveniva generalmente con soldati delle SS in cliniche chiamate “casa di maternità”, dove le donne di “pura razza ariana” portavano avanti la gravidanza sino alla nascita dei “figli di Hitler”. Il progetto fu esportato anche fuori la Germania, nei territori occupati dai nazisti ovunque fosse possibile rintracciare il ceppo puro della razza ariana60. La prima “casa di maternità” cominciò a funzionare il 15 agosto 1936, a Steinhoering, un piccolo villaggio non lontano da Monaco61. L’ossessione per la “purezza razziale” portò i medici nazisti anche ad attuare terribili esperimenti medici sulle donne internate nei Lager, trasformandole in cavie umane62. Se il progetto Lebesborn avrebbe dovuto accrescere e migliorare la cosiddetta razza ariana, gli esperimenti condotti sulle internate al contrario avrebbero dovuto trovare la soluzione per sterilizzare in massa 59

Cfr. R. SOMMEL, Das KZ-Bordell. Sexuelle Zwangsarbeit in nationalsozialistischen Konzentrationslagern, Schöningh, Paderborn 2009. 60 Alla fine della guerra si contavano dieci sedi Lebensborn in Germania, nove in Norvegia, due in Austria, una in Belgio, Francia, Olanda, Lussemburgo e Danimarca. 61 Sull’argomento cfr. G. LILIENTHAL, Der “Lebensborn e. V”. Ein Instrument nationalsozialisticher Rassenpolitik, Fischer Taschenbuch, Frankfurt 1985; K. ERICSSON, E. SIMONSEN (eds), Children of World War II: The Hidden Enemy Legacy, Berg, New Yorg 2005, trad. it., I “figli” di Hitler. La selezione della “razza ariana”, I figli degli invasori tedeschi nei territori occupati, Boroli, Milano 2007. 62 Cfr. L. STERPELLONE, Le cavie dei lager. Gli «esperimenti» medici delle SS, Mursia, Milano 1978, ora 2009; V. SPITZ, Doctors from Hell. The Horrific Account of Nazi Experiments on Humans, Sentient, Boulder 2005. Alcuni documenti (lettere e report) riguardanti gli esperimenti nei campi, sono consultabili sul sito web della «Jewish Virtual Library» all’url: http://www.je wishvirtuallibrary.org/jsource/Holocaust/medtoc.html

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le donne delle razze considerate inferiori. Particolarmente attivo nelle sperimentazioni sulle internate fu il dottor Carl Clauberg, un famoso ginecologo che, utilizzando le prigioniere nel Block 10 di Auschwitz, si dedicò alla ricerca di una procedura non chirurgica per una sterilizzazione permanente, efficace e veloce delle donne63. Le violenze sessuali dei fascisti italiani assunsero particolare rilievo durante la ritirata, soprattutto sulle partigiane. Le violenze furono utilizzate non solo per estorcere informazioni, ma anche per punire queste donne «che hanno osato ribellarsi al regime» e, soprattutto «che hanno voluto lottare per emancipare se stesse da quel ruolo sociale inferiorizzante e sottomesso di brave mogli ubbidienti e madri sacrificali»64. L’esercito nipponico è passato alla storia per il criminale “Stupro di Nanchino”, evento accaduto nell’ambito della seconda guerra cino–giapponese (1937–1945). Il 13 dicembre 1937 i giapponesi occuparono l’allora capitale cinese, “stuprandola”: per circa sei settimane furono commessi i peggiori crimini ai danni della popolazione civile, con uccisioni indiscriminate, saccheggi e violenze di massa di ogni genere. Gli stupri furono un elemento centrale delle violenze: tra le ventimila e le ottantamila donne di ogni età furono stuprate in pubblico o di fronte ai familiari, poi mutilate e uccise65. Le donne che si salvarono dalla morte, specialmente le più giovani, furono inviate nei bor63

Cfr. H.J. LANG, Die Frauen von Block 10, Hoffmann und Campe, Hamburg 2011. In breve il mio Un ginecologo al servizio del reich nazista, in «Storia in Network», marzo 2014, http://www.storiain.net/storia/un-ginecologo-alservizio-del-reich-nazista/. Nel sito web «Olokaustos», http://www.olo kaustos.org/bionazi/leaders/clauberg.htm alcune testimonianze di donne sottoposte a esperimenti da Clauberg. 64 M. PONZANI, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico», Torino, Einaudi, 2012, p. 215. Per contro i partigiani non furono molto “teneri” con le collaborazioniste del regime fascista. Cfr. G. PANSA, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, Rizzoli, Milano 2012. 65 Cfr. I. CHANG, The Rape of Nanking. The Forgotten Holocaust of World War II, Basic Books, New York 1997; trad. it. Lo stupro di Nanchino. L’olocausto dimenticato della seconda guerra mondiale, Corbaccio, Milano 2000., M. Strazza, Senza via di scampo, cit. pp. 75–79.

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delli militari giapponesi, diventando jugun ianfu (donne di conforto). Stimate tra 80.000 e 410.000 le “prostitute imperiali”, generalmente di nazionalità cinese, coreana, filippina, indonesiana, erano prelevate dalle case o ingannate con promesse di lavoro in fabbriche o nella ristorazione e costrette a prostituirsi nei bordelli militari che i giapponesi avevano creato nelle loro zone di occupazione66. Nel 1992 il governo giapponese, pur non quantificando il numero, attraverso il capo segretario di gabinetto Koichi Kato, ha ammesso che «il governo pre–1945 aveva stabilito, costruito e gestito “stazioni di conforto”»67. I “cattivi” della Seconda Guerra Mondiale, anche attraverso queste terribili pratiche, si confermano di essere stati davvero molto cattivi. I “buoni”, i cosiddetti “liberatori”, non furono così buoni. Un giro di parole per dire che la lista delle violenze sulle donne durante la Seconda Guerra Mondiale coincide perfettamente con l’elenco di tutte le storie militari di questo conflitto. Particolarmente colpite furono le donne tedesche68 alla fine della guerra, colpevoli di essere madri, figlie e compagne dei nazisti. Violenze sessuali furono dispensate dai soldati sovietici (due milioni furono le vittime di stupri da parte dei soldati dell’Armata Rossa nelle rispettive aree d’occupazione69, di que-

66

Cfr. Y. YOSHIAKI, Confort Women. Sexual Slavery in the Japanese Military During World War II, Columbia University Press, New York 2002 (orig 1995); Z. SU, Ianfu Kenkyu (Research on Comfort Women) (in cinese), Shanghai Bookstore, Shanghai 1999. 67 S. JAMESON, Japan admits Sexual Slavery in WWII, Expresses Remorse, «Los Angeles Times», 7 Luglio 1992. 68 M. GEBHARDT, Als die Soldaten kamen. Die Vergewaltigung deutscher Frauen am Ende des Zweiten Weltkriegs, Deutsche Verlags–Anstalt, München 2015. 69 Cfr. D. BLATMAN, The Death Marches. The Final Phase of Nazi Genocide, Harvard University Press, Cambridge 2011, trad. it. Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, Rizzoli, Milano 2009, p. 130. In generale A. GROSSMANN, A Question of Silence: the Rape of German Women by Occupation Soldiers, in N. A. DOMBROWSKI (ed), Women and War in the Twentieth Century: Enlisted with or Without Consent, Garland, New York 1999, pp. 162–183.

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ste poco più di un milione solo a Berlino70), dai militari statunitensi in Francia e Germania71, dai francesi in Germania e Italia (tra queste le famose “marocchinate” della primavera del 1944 della Valle del Liri e di tutto il Basso Lazio, ovvero la tragica conseguenza delle cinquanta ore di “libertà” concesse dal generale Alphonse Juin dopo l’attacco finale alle difese tedesche asserragliate attorno a Cassino ai suoi soldati, molti dei quali erano marocchini e algerini della truppa irregolare dei Goumiers, inquadrata nel corpo di spedizione francese impegnato nella campagna d’Italia)72. Nella “pace calda” protrattasi nel periodo della Guerra fredda le violenze sessuali diventano un’arma politica per estorcere informazioni, relegare al silenzio o semplicemente per mostrare autorità. In quest’ottica, nei regimi latinoamericani della seconda metà del Novecento, le donne sono destinatarie particolari del surplus di violenza di genere. In una cultura maschilista, dove i ruoli di genere sono rigidamente determinati, le donne che si oppongono al regime sono considerate non solo nemiche dello Stato, ma pericolose sediziose dei valori patriarcali. Queste donne, dunque, incarnano la “nemicità” per eccellenza. Per questo vanno bloccate, attraverso l’incarcerazione nei Centros clandestinos de detención, e punite, per mezzo della tortura e dello stupro. Lo stupro, dunque, diventa la celebrazione sia del potere maschile sia di quello politico73. 70

Cfr. M. MARTINI, Liberatori e Liberate. Ricordo e rimozione delle violenze sessuali commesse dall’Armata Rossa nella Germania occupata, in M. Flores (a cura di), Stupri di guerra, cit., pp. 81–98. 71 Cfr. J.R. LILLY, La Face Cachee Des GI’s. Les viols commis par des soldats americains en France, en Angleterre et en Allemagne pendant la Seconde Guerre mondiale, Poyot & Rivages, Paris 2003, trad. it. Stupri di guerra. Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania 1942–1945, Mursia, Milano 2004. 72 Cfr. M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., pp. 103–129; S. CATALLO, Le marocchinate, Sensibili alle foglie, Roma 2015. 73 Cfr. O. WORNAT, M. LEWIN, Putas y guerrilleras. Crimenes sexuales en los centros clandestinos de detención, Planeta, Buenos Aires 2014; M.R. STABILI, Violenze di genere e stupri di massa in America Latina, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra, cit., pp. 158–215.

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Le violenze sulle donne in guerra non si fermano: lo scontro tra Bangladesh e Pakistan (1971), l’occupazione indonesiana di Timor Est (1975), le guerre civili in Myanmar (1988) e in Sri Lanka (1983–2009), i conflitti armati in Liberia (1989–2003), Sierra Leone (1991–2002) e quello ancora in corso in Congo, sono alcuni esempi di eventi bellici in cui la donna continua a rappresentare un “campo di battaglia” tra le parti in lotta74.

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6.5. Stupri etnici e stupratori “umanitari” Nonostante le terribili violenze sulle donne registrate nelle due guerre mondiali, l’Europa ha conosciuto un’altra tragica catastrofe umanitaria: i conflitti scoppiati nei Balcani (1991– 1995), che hanno portato alla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Una terribile e sanguinosa guerra di tutti contro tutti che ha coinvolto sia le etnie sia le fedi religiose: croati contro bosniaci, bosgnacchi (bosniaci musulmani) contro serbo–bosniaci (ortodossi), serbi (ortodossi) contro croati (cattolici) e bosniaci non ortodossi, tutto con la sapiente regia della Nato. Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina è stato la tragedia più immane di tutto lo scontro bellico: una guerra civile in cui i tre popoli del Paese (bosgnacchi, serbi e croati) si sono combattuti senza sconti. Una guerra dipinta come scontro primitivo fra le diverse etnie del Paese, ma che tuttavia ha nascosto ben altro: interessi politici ed economici, ambizioni personali dei leader politici, convenienze di entità politico–economiche–religiose esterne. Pur essendo documentati75 stupri di massa sulle donne in ciascuna delle fazioni etniche presenti in Bosnia, la gran parte 74

Per tutti cfr. L. WOLFE, The Index: Rape in War, «Women Under Siege Project», October 18, 2013, http://www.womenundersiegeproject.org/blog/entry/ the-index-rape-in-war-october-2013. 75 Cfr. U.N. Security Council, Final report of the Commission of experts established pursuant to Security Council Resolution 780 (1992), 27 may 1994, par. 244-249. Nell’indagine effettuata dalle Nazioni Unite sono stati registrati

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dei casi è stata commessa dalle truppe serbo–bosniache (organizzazioni paramilitari, ausiliari della polizia e bande di uomini) ai danni di donne musulmane76. Amnesty International ha quantificato in circa 20.000 le donne bosgnacche stuprate o violate sessualmente77, il governo bosniaco è andato a rialzo, valutando il numero in 50.00078. Il Rapporto finale delle Nazioni Unite del 1994 ha individuato cinque contesti in cui le violenze sessuali sono state praticate in Bosnia: per intimidire la popolazione avversaria e costringerla ad abbandonare i territori contesi; per umiliare dopo aver conquistato e occupato militarmente un territorio; per estorcere informazioni; per de-umanizzare le donne rendendole oggetto di piacere nei bordelli istituiti per i soldati; come strumento di assimilazione forzata attraverso l’ingravidamento violento delle donne bosgnacche79. Quest’ultimo contesto fa assumere agli stupri di massa contemporanei una nuova veste, rivestendo di un particolare valore simbolico costitutivo un atto che diventa una strategia militare che tende, attraverso la violenza sessuale, molti casi in cui anche gli uomini hanno subito abusi sessuali o mutilazioni genitali. Cfr. ivi, par. 234. 76 L’esistenza di una politica di stupro sistematico da parte dei serbo–bosniaci ordinato dal governo di Belgrado non è stata provata. Il 24 marzo 2016, la sentenza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) che ha condannato per dieci capi d’accusa per crimini contro l’umanità e crimini di guerra Radovan Karadžić, il presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, ha affermato l’assenza di prove sufficienti per considerare il presidente della Repubblica di Serbia Slobodan Milosevic d’accordo con le organizzazioni militari serbo–bosniache per attuare la “pulizia etnica” in Bosnia Herzegovina. Cfr. il verbale di giudizio rilasciato dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia in «United Nations – International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia», http://www.icty. org/x/cases/karadzic/tjug/en/160324_judgement.pdf. 77 Cfr. Amnesty International, Whose justice? The women of Bosnia and Herzegovina are still waiting, Amnesty International Publications, London 2009, p. 5. 78 Cfr. S.V. DI PALMA, Lo stupro come arma contro le donne: l’ex Jugoslavia, il Rwanda e l’area dei Grandi Laghi africani, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra, cit., p. 218. 79 U.N. Security Council, Final report of the Commission of experts established pursuant to Security Council Resolution 780 (1992), cit., par. 232-253.

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a “far nascere per incorporare”. A prima vista sembra contraddittorio, ma analizzando questa incoerenza alla luce delle credenze culturali dove questo tipo di violenze si registrano (nel nostro caso nei Balcani), emerge una realtà che giustifica ampiamente questa nuova strategia militare: è infatti credenza in molte culture patriarcali che l’appartenenza a un gruppo etnico sia determinata dal padre. Sulla base di questi falsi miti, si stuprano per fecondare volontariamente le donne del nemico al fine di far nascere creature appartenenti al gruppo etnico dello stupratore. Attraverso lo stupro inseminante, allora, si recide il legame di filiazione con la comunità di appartenenza della donna, perpetuando l’identità etnica dello stupratore. Il pene diventa una vera e propria arma che, attraverso il seme (le munizioni di questa arma), ipoteca il futuro del gruppo etnico dello stupratore. Lo stupro diventa finanche un elemento decisivo nel genocidio che si è consumato nel 1994 in Ruanda. Se la guerra tra i due gruppi etnici del Paese, hutu e tutsi, ha avuto fondamentalmente motivazioni politiche legate ad antiche inimicizie80, un insieme di ragioni etniche e sessiste ha portato durante il conflitto allo stupro sistematico di migliaia di donne. Istigati dalle autorità politiche e spronati dalla Radio Télévision Libre des Mille Collines81, il gruppo hutu – attraverso i soldati dell’esercito regolare, la guardia presidenziale, gli Interahamwe (gruppo paramilitare estremista hutu) e i civili – ha commesso massacri e violenze di ogni tipo su quello tutsi, arrivando a stuprare in circa cento giorni tra le 250.000 e le 500.000 donne82. Anche se 80

Cfr. M. FUSASCHI, Hutu–Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 81 È stata un’emittente gestita dai circoli estremisti hutu, utilizzata inizialmente come principale mezzo per aizzare la propaganda dell’odio contro i tutsi e poi come vero e proprio strumento per dirigere i massacri. Cfr. A. THOMPSON (ed.), The Media and the Rwanda Genocide, Pluto Press, London 2007. 82 Cfr. U.N. Commission on Human Rights, Report on the Situation of Human Rights in Rwanda Submitted by Mr. René Degni–Segui, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights under par. 20 of Resolution S–3/1, 25 May 1994, E7CN.4/1996/68, 29 January 1996, par. 16.

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quest’ultima cifra sembra eccessiva, il valore minimo fa rabbrividire. I supremi giudici del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, nel procedimento contro Jean–Paul Akayesu, insegnante e bourgmestre (sindaco) di Taba, hanno riconosciuto lo stupro di massa come elemento decisivo e caratteristico del genocidio, stabilendo che l’aggressione sessuale era parte integrante del processo di distruzione del gruppo etnico Tutsi e che lo stupro era sistematico e perpetrato solo contro le donne Tutsi, manifestando così lo specifico intento richiesto da queste azioni per costituire un genocidio.83

L’idea che le donne non abbiano a che fare con l’orrore degli stupri da parte dei maschi è infranta dal comportamento di Pauline Nyiramasuhuko, paradossalmente ministra ruandese per la promozione delle donne e della famiglia: ella è stata condannata all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, oltre per la partecipazione al genocidio, anche per aver incoraggiato lo stupro di massa nella prefettura di Butare e per aver fatto liberare per l’occasione malati di AIDS per contagiare le donne tutsi (aprile 1994)84. Il coinvolgimento delle donne hutu alle violenze, nasce anche dal rancore verso le donne tutsi, considerate le più avvenenti nel continente Africano e per questo pericolose, perché in grado di soggiogare l’uomo hutu85. 83 Cfr. International Criminal Tribunal for Rwanda, The Prosecutor v Jean– Paul Akayesu, Case n. ICTR–1996–4–T, 2 September 1998, par. 731, in «U.N. Mechanism for International Criminal Tribunals – International Criminal Tribunals», http://unictr.unmict.org/sites/unictr.org/files/case-documents/ ictr96-4/trial-judgements/en/980902.pdf 84 Cfr. International Criminal Tribunal for Rwanda, The Prosecutor v. Pauline Nyiramasuhuko et al., Case n. ICTR–98–42–A, 14 December 2015, in «U.N. Mechanism for International Criminal Tribunals – International Criminal Tribunal for Rwanda», http://unictr.unmict.org/sites/unictr.org/files/casedocuments/ictr-98-42/appeals-chamber-judgements/en/151214.pdf 85 Cfr. C. VIDAL, Situazioni etniche in Ruanda, in J.L. AMSELLE, E. M’BOKOLO (a cura di), Au coeur de Vethnie. Ethnie, tribalisme et État en A-

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Le violenze sulle donne tutsi in definitiva sono servite per umiliare definitivamente i superstiti maschi hutu del genocidio, per infliggere la “morte sociale” alle loro donne e per compromettere la natalità all’interno del gruppo, il resto l’ha fatto l’AIDS, di cui il 70% delle donne hutu è risultato contagiato, condannando le sopravvissute ai massacri a una lenta e dolorosa agonia86. Sebbene lo stupro di guerra sia considerato un crimine contro l’umanità dalla legislazione internazionale, dallo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (2002)87 alle numerose risoluzioni delle Nazioni Unite88, l’efficacia di tali disposizioni risulta inefficace. Molte sono le zone di guerra in cui le violenze sessuali fanno da corredo ai conflitti armati: Eritrea, Burundi, Liberia, Guinea, Sierra Leone, Haiti, Costa d’Avorio, Benin, Sud Sudan, Somalia, Congo. Quest’ultimo Paese è stato elevato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per la violenza su donne e bambini nei conflitti, Margot Wallstrom, a “capitale mondiale dello stupro”89. Infatti, nella Repubblica Democratica del frique, La Découverte, Paris 1985, trad. it. L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma 2008, p. 209. 86 Cfr. African Rights, Rwanda. Broken Bodies, Torn Spirits. Living with Genocide, Rape and HIV/AIDS, African Rights, Kigali 2004 (il report si può leggere anche in «GBV Africa», http://preventgbvafrica.org/wpcontent/uploads/2013/10/brokenbodies.africanrights.pdf); Amnesty International, Rwanda: “Marked for Death”, Rape Survivors Living with HIV/AIDS in Rwanda, London 2004, in «Amnesty International», https://www.amnesty. org/en/documents/afr47/007/2004/en/ 87 Lo Statuto considera lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata, o «qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità» come crimine contro l’umanità qualora siano commessi in «modo diffuso o sistematico». Cfr. Rome Statute of International Criminal Court, in «Cour Pénale Internationale – International Criminal Court», https://www.icc-cpi.int/resourcelibrary/official-journal/rome -statute.aspx. 88 Risoluzioni e documenti in «UN. Office of the Special Representative of the Secretary General for Sexual Violence in Conflict», http://www.un.org/sexual violenceinconflict/. 89 United Nation, Tackling sexual violence must include prevention, ending impunity – UN official, 27 April 2010, in «UN News Centre», http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=34502#.WNOuMjvhCUk

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La politica del male

Congo sin dallo scoppio della guerra civile nel 1998, lo stupro diventa uno strumento sistematico per esercitare il controllo sulla comunità locale90. La regolarità degli stupri, sia da parte dell’esercito sia da parte dei ribelli, è stata denunciata sin dal 2010 dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per la violenza su donne e bambini nei conflitti, Margot Wallstrom, la quale ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di intervenire per fermare queste violazioni umane e del diritto internazionale. Nonostante il processo di pace cominciato nel 2003 e la condanna nel 2016 da parte della Corte penale internazionale dell’ex vicepresidente del Congo, Jean–Pierre Bemba Gombo, per saccheggio, assassinio e stupro91, la pratica dello stupro di massa continua ad essere praticata sistematicamente nelle province orientali del Paese92. La tattica dello stupro di guerra non poteva che essere adottata a sua volta anche dal cosiddetto Stato Islamico e dai gruppi ad esso affiliati, tra cui il nigeriano Boko Haram. L’autoproclamato Stato Islamico ha di fatto teorizzato la schiavitù sessuale attraverso veri e propri contratti di vendita autenticati dai tribunali islamici del califfato. La loro liberazione può avvenire unicamente attraverso un “certificato di emancipazione” attestato da un tribunale islamico. Le vittime sono maggiormente le donne yazide, una popolazione curda che abita principalmente nel Nord dell’Iraq, vendute o date in premio agli aspiranti jihadisti93. 90

Cfr. M.M. KURTZ, M.T. DIGGS, Wartime Rape: A Case Study of the Democratic Republic of Congo, in M.M. KURTZ, L.R. KURTZ (eds), Women, War and Violence: Topography, Resistance and Hope, Vol. 1, Praeger, Santa Barbara 2015, pp. 183–200. 91 Cfr. CPI–ICC, The Prosecutor v. Jean–Pierre Bemba Gombo – Sentence, 21 June 2016, in «Cour Pénale Internationale – International Criminal Court», https://www.icc-cpi.int/CourtRecords/CR2016_04476.PDF 92 Cfr. S. KIRCHNER, Wartime Rape. Sexual Terrorism in the Eastern Provinces of the Democratic Republic of Congo – International Law and Human Rights, Grin Verlag, Munich 2008. 93 R. CALLIMACHI, ISIS Enshrines a Theology of Rape, «The New York Times», AUG. 13, 2015, https://www.nytimes.com/2015/08/14/world/mid dleeast/isis-enshrines-a-theology-of-rape.html?smid=tw-share&_r=0

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VI. Il nemico violato

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Una campagna di stupro e schiavitù sessuale è portata avanti anche dall’organizzazione terroristica Boko Haram. Migliaia di ragazze sono state trattenute contro la loro volontà, costrette a matrimoni forzati e soggette a indottrinamento implacabile. Lo stupro non è solo un «sottoprodotto del caos della guerra in Nigeria», ha detto nel 2015 il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, bensì «una calcolata tattica del terrore»94, una deliberata strategia per dominare gli abitanti delle campagne e un tentativo di creare una nuova generazione di militanti islamici nel Paese95. Per completare l’agghiacciante quadro delle violenze sessuali durante i conflitti armati, occorre aggiungere gli ancor più criminali reati sessuali commessi durante le missioni di pace e le missioni umanitarie da parte dei peacekeepers. Molti sono i casi documentati di violenze e abusi contro le donne da parte dei cosiddetti “operatori della pace”: durante e dopo le guerre nell’ex Jugoslavia; in Mozambico e Somalia da parte dei soldati italiani durante le missioni di pace nel 1993–199596; nella Repubblica Democratica del Congo da parte dei caschi blu dell’ONU che chiedevano favori sessuali in cambio di cibo, acqua o piccoli doni a donne e bambine, molte di queste hanno poi partorito ritrovandosi sole e ripudiate dalla propria tribù, e 94

Cfr. K. SIEFF, They were freed from Boko Haram’s rape camps. But their nightmare isn’t over, «The Washington Post», April 3, 2016, https://www. washingtonpost.com/world/africa/they-were-freed-from-boko-harams-rapecamps-but-their-nightmare-isnt-over/2016/04/03/dbf2aab0-e54f-11e5-a9ce681055c7a05f_story.html?utm_term=.3babfc8bd6f1 95 J. ZENN, E. PEARSON, Women, Gender and the evolving tactics of Boko Haram, «Journal Of Terrorism Research», 5(1), 2014, pp. 46–57; T.B. ORIOLA, “Unwilling Cocoons”: Boko Haram’s War Against Women, «Studies in Conflict and Terrorism», 2016 May 12, pp. 1–23. 96 Tra le manifestazioni più orribili durante l’operazione condotta dai parà della Folgore nell’ambito di “Restore Hope” (1992–1995), quelli di una giovane somala stuprata con un razzo illuminante e di un prigioniero torturato con elettrodi applicati ai genitali. Del caso si occupò anche il Parlamento Italiano. Cfr. https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/83335.pdf. Cfr. anche Human Rights Watch, The Power These Men Have Over Us. Exploitation and Abuse by African Union Forces in Somalia, September 8, 2014: http://www.hrw.org/reports/2014/09/08/power-these-men-have-over-us.

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La politica del male

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ancora violenze sessuali e abusi ad Haiti, in Sierra Leone, Costa d’Avorio, Sudan del Sud, Mali97. Questo conferma una certa continuità di forme simboliche nel considerare le donne “il corpo della donna”, allargando il concetto di stupri di guerra in stupri di pace. Ricorda Hillary Margolis , ricercatrice sui diritti delle donne di Human Rights Watch: «In un Paese in cui i gruppi armati di routine predano i civili, le forze di pace dovrebbero essere protettori, non predatori»98.

97

Per tutti cfr. K. AKONOR, UN Peacekeeping in Africa. A Critical Examination and Recommendations for Improvement, Springer, New York 2017, pp.35–57; S. Omari, The Index: Peacekeeper Rape, by the Numbers, «Women Under Siege Project», March 18, 2016, http://www.womenundersiegepro ject.org/blog/entry/the-index-peacekeeper-rape-by-the-numbers; S.E. Mendelson, Barracks and Brothels: Peacekeepers and Human Trafficking in the Balkans, Center for Strategic and International Studies, Washington 2005. 98 Human Rights Watch, Central African Republic: Rape by Peacekeepers. UN, Troop-Contributing Countries Should Hold Abusers Accountable, in « Human Rights Watch», February 4, 2016, https://www.hrw.org/news/2016 /02/04/central-african-republic-rape-peacekeepers.

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Capitolo VII

Il nemico da uccidere

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7.1. Modi di uccidere Chiariamo subito che non è la morte che uccide, essa è solo la conseguenza di una serie di azioni atte a provocarla. Infatti, ci sono due processi per morire: in modo naturale, quando la morte non è collegabile con un elemento traumatico esterno (morte naturale per malattia), e in modo artificiale, quando la morte è provocata da cause esterne che interrompono i processi vitali (eventi traumatici come incidenti, morte violenta provocata dall’uomo)1. La centralità della morte causata dalla violenza politica assume un valore e molti significati: il valore è quello dell’eliminazione fisica del nemico, i significati cambiano secondo i modi di uccidere. L’assassinio è l’elemento esterno che da sempre accompagna il genere umano: L’assassinio, che in apparenza rappresenta una flagrante contraddizione dell’“orrore della morte”, è un dato umano universale quanto la morte stessa. È specificamente umano perché 1

Materia di questo saggio è la violenza politica, quindi si tralascia l’analisi sulla morte per cause naturali e quella per eventi traumatici, rimandando a saggi specifici, tra cui: U. CURI (a cura di), Il volto della Gorgone. La morte e i suoi significati, Bruno Mondadori, Milano 2001; L. HEATH, Matters of Life and Death. Key Writings, Radcliffe Publishing, Oxford 2008, trad. it. Modi di morire, a cura di M. Nadotti, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

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l’uomo è l’unico animale che procura la morte al proprio simile senza necessità vitale […]. Inoltre l’assassinio è universale perché compare sin dalla preistoria, ma si riproduce per tutto il corso della storia diventando espressione della legge (è il caso del taglione o della morte inflitta come punizione), venendo stimolato da questa (la guerra), o trasformandosi in nemico della legge (il criminale)2.

Il desiderio di potere e quello di esercitare il controllo sugli altri è una caratteristica dominante dell’essere umano. Per questo, a differenza dell’animale che uccide per esigenze di sopravvivenza e senza odio, quindi per necessità vitali, l’essere umano ammazza con avversione e lo fa per vendetta, per rabbia, per avidità, per bramosia. Persino nella guerra l’assassinio va già aldilà della necessità, come dimostra in modo eclatante la sfrenata ecatombe dei vinti, in cui si uccidono anche donne e i bambini, e la voluttà del massacro e della tortura a morte3.

L’essere umano uccide con cattiveria e malvagità, utilizzando spesso la crudeltà. Ammazza per affermarsi sugli altri, uccide perfino se stesso quando le difficoltà ad accettare le condizioni della sua vita si trasformano in depressione o sconforto, infine è disposto finanche a uccidersi per uccidere diventando viva energia devastatrice. Sono numerosi pressoché illimitati i modi di uccidere il nemico: si può ucciderlo sul colpo, oppure facendolo soffrire a lungo. Il lessico collegato alla morte cambia secondo le modalità dell’uccisione: se si usa un’arma da fuoco, si dice freddare; se si usa un coltello, accoltellare o pugnalare a morte; se è usato il veleno, avvelenare; se si taglia la testa, decollare o decapitare; se la morte è provocata per asfissia si usano più termini secondo la circostanza che procura la morte (immergendo in un liquido, 2

E. MORIN, L’Homme et la Mort, Paris, Edition du Seuil, 1970, trad. it., L’uomo e la morte, Meltemi, Roma 2002, p. 76. 3 Ivi, p. 77.

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VII. Il nemico da uccidere

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affogare o annegare; senza immersione, soffocare; stringendo le mani intorno al collo, strangolare o strozzare; se si asfissia attraverso la garrota, garrotare). Il macabro menù potrebbe continuare: crocifiggere, bruciare, gasare, lapidare, fustigare, murare vivo, impalare, scuoiare, dare in pasto a bestie feroci (damnatio ad bestias) e così via. Il grado di crudeltà assegna un valore antropologico all’uccisione del nemico: ogni modalità di assassinio assume una qualità simbolica, seguendo forme culturali molto precise. Tra i tanti modi di uccidere il nemico, i più ricchi di proprietà simboliche sono la decapitazione e la morte sul rogo. Forma suprema di uccisione nella storia è la decapitazione. Al fondo di questa modalità di morte dispensata c’è la convinzione primitiva e popolare della testa come dimora dell’organo pensante, l’anima. Il culto della “testa senza il corpo” risale ai primordi dell’Umanità4: La testa rappresenta in generale l’ardore del principio attivo. Essa comprende l’autorità del governare, dell’ordinare, dell’istruire. Rappresenta anche lo spirito nel suo manifestarsi, in relazione al corpo che è una manifestazione della materia. […] La testa rappresentava anche la forza ed il valore guerriero dell’avversario, che si aggiungevano a quelli del vincitore.5

Dalla mitologia alla storia il significato del gesto non cambia, pur cambiando le modalità: staccando la testa si separa la coscienza dal corpo e quest’ultimo diventa un “essere senza essere”, per questo un corpo senza testa o una testa senza corpo hanno una forte carica simbolica. 4

J. KRISTEVA, Visions capitales, Editions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1998, trad. it. La testa senza corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli, Roma 2009, pp. 15–47; F. LARSON, Severed. A History of Heads Lost adn Heads Found, Granta Books, London 2014, trad. It. Teste mozze. Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri, UTET, Novara 2016. 5 J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dictionnaire des Symboles, vol II, LaffontJupiter, Paris 1969, trad. it. Dizionario dei simboli, vol. II, Rizzoli, Milano 1999, pp. 468–469.

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La politica del male

In generale, la decapitazione esprime il proposito di sottrarre all’avversario la sua natura umana di essere pensante, rendendolo dissimile da quello che era prima e, quindi, di evidenziarne con l’esposizione pubblica della testa mozzata la diversità o difformità sopraggiunta. Alla base della crudele pratica della decapitazione possiamo trovare motivazioni rituali, eroiche, di potere e di giustizia. Presso i primitivi la decapitazione era praticata in modo rituale per scopi magico-religiosi e bellici. A fini bellici la testa del nemico era il trofeo più ambito che si potesse ottenere in battaglia poiché, implicando la possessione simbolica dell’anima del vinto, si legittimava la vittoria trasformandola in supremazia. A questo fine sono collegate le decollazioni dei nemici presso gli Assiri, i Celti, i Galli, gli Irlandesi. Da macabra pratica rituale legata alla guerra e al culto, la testa mozzata diviene poi il simbolo di giustizia di una comunità. Nel mondo antico, nel Medioevo e nell’Età moderna, la decapitazione diventa infatti una pena capitale. Da notare che l’attuale termine “pena capitale” deriva dal latino capitàlis, originato a sua volta dal sostantivo caput, che designava sia la testa sia tutto ciò che è principale6. Per secoli la pena di morte per decapitazione diventa un rito pubblico con funzione pedagogica: attraverso essa si dimostrava l’autorità incontrastata di chi infliggeva la condanna, scongiurando altri comportamenti analoghi tenuti da chi era punito. Dalla spada, riservata ai nobili, e dalla scure, riservata al popolino e ai criminali comuni, si passa a marchingegni che danno una fine rapida e, soprattutto, che rendono la morte impersonale, eliminando il rapporto diretto tra boia e condannato: dal “Patibolo di Halifax”, utilizzato in Inghilterra dal 1280, alla francese “ghigliottina”, passando per un rudimentale macchinario uti-

6

Appunto, capitale come città principale di uno Stato. Cfr. voce “Capitale”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: http://www.etimo.it/?term=capitale.

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VII. Il nemico da uccidere

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lizzato in Irlanda dal 1307, alla scozzese Scottish Maiden e alla papalina “Mannaja romana” entrambe del Cinquecento7. Nel XXI secolo la ghigliottina lascia il posto a nuovi arcaismi dello Stato Islamico, con decapitazioni fatte con coltelli, che aumentano la sofferenza della vittima. Le decollazioni ritornano a essere uno spettacolo di morte mostruoso, fatto di cerimonie pubbliche, filmate e lanciate nel web come spot pubblicitari. Le decapitazioni in video, come tutte le altre macabre sentenze di morte eseguite dallo Stato Islamico, hanno un forte richiamo simbolico: le vittime sono perfettamente riconoscibili, mentre i carnefici sono mascherati. Le vittime si riconoscono, sono il militare catturato, il giornalista sequestrato, l’infedele imprigionato, tutti in tuta arancione, che nella semiotica della comunicazione deve richiamare il campo di prigionia statunitense di Guantánamo; il carnefice è invece coperto dal passamontagna rendendosi un anonimo “eroe di Allah”, egli potrebbe essere chiunque. Inoltre, la stessa arma utilizzata per decollare, il coltello, richiama l’uccisione di un animale, quindi ha una funzione deumanizzante della vittima. Le teste mozzate “artigianalmente” dai miliziani dello Stato Islamico diventano dunque materia comunicativa, raggiungendo il massimo effetto mediatico di una politica di morte e odio: Soltanto la forza dell’odio alimentata dall’idea trasfigurata di una ‘convinzione’ religiosa poteva continuare a mantenere la mano ferma e decisa necessaria per sgozzare un uomo e non riuscire a sentire, durante quel lungo minuto che è intercorso tra l’inizio dell’operazione barbarica e la fine della vita, le urla di dolore terrificanti di un uomo come lui.8

Di grande proprietà simbolica, ricca di significati, è anche la condanna al rogo.

7

Cfr. A. CASTRONUOVO, La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina, Stampa Alternativa, Viterbo 2009. 8 C.B. TORTOLICI, Violenza e dintorni, Armando, Roma 2005, p. 30.

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Il fuoco, oltre ad avere valore importante per l’essere umano9, occupa un posto di rilievo nel suo immaginario: illumina le tenebre, distrugge e trasforma, la sua fiamma sale al cielo, come il fumo da esso prodotto10. Il fuoco è “dono” sacro e molte divinità si rivelano nelle loro manifestazioni sotto l’aspetto di fiamme. Con il fuoco sono identificate le fiamme di molti Inferni11. Per molte civiltà il fuoco è dotato di potere apotropaico con una doppia correlazione: è segno del peccato e del Male e, allo stesso tempo, elemento che purifica. La stessa radice del termine “puro” rimanda al fuoco, evidenziando che il momento della purificazione sia dimorato da esso: L’aggettivo latino purus ha la stessa radice che in greco ha dato pur, “fuoco”: come se i latini avessero voluto astrarre dal fuoco il concetto di purità, o i greci avessero voluto definire il fuoco in funzione della purificazione12.

Dal greco pur (πῦρ) si possono ricondurre termine collegati al fuoco: pira, pirico, pirotecnico, piromane. Molte civiltà hanno utilizzato il fuoco per cerimonie sacrificali, per il rito funebre13 o come strumento per punire. Come pena capitale la morte attraverso il fuoco era prevista dal codice babilonese di Hammurabi, dalla legislazione egizia,

9

La capacità di accendere e utilizzare il fuoco ha allontanato l’essere umano dalla condizione animale. 10 Cfr. J.G. FRAZER, Mythes sur l’origine du feu, Payot, Paris 1931, trad. it., Miti sull’origine del fuoco, Xenia, Milano 1993. 11 Cfr. G. DURANT, Les structures anthropologiques de l’Imaginaire, Presses Universitaires de France, Paris 1963, trad. it. Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale Dedalo, Bari 2009, pp. 210–214. 12 D. SABBATUCCI, Politeismo, vol. 1, Bulzoni, Roma 1998, p. 145. 13 Cfr. C. CAPONE, Uomini in cenere. La cremazione dalla preistoria a oggi, Editori riuniti, Roma 2004.

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VII. Il nemico da uccidere

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assira ed ebraica, occasionalmente anche dagli antichi romani e greci14. È comunque nel Medioevo che la morte sul rogo acquista una potente carica simbolica. Nel 1197 Pietro II d’Aragona, durante il concilio di Gerona, introduce la pena del rogo invitando «i propri amministratori a catturare gli eretici e a punirli “corpora eorum ignibus crementur”»15. Nel 1220 Federico II inserisce la pena della morte con il fuoco per tutti gli eretici. Grandi falò per gli eretici, e poi per le streghe (e per i libri messi all’Indice), si accendono anche in Italia, Germania, Francia e Inghilterra. Nella penisola iberica la muerte en la hoguera (morte al palo) è riservata anche a musulmani ed ebrei che non si convertono al cristianesimo. Così, nell’Europa cristiana il fuoco ritrovò un ruolo di rilevo nella religione. I suoi effetti terrificanti vennero posti in particolare evidenza in due modi: nella forma dei roghi a cui venivano condannati coloro che erano stati accusati di eresia o di stregoneria, e nelle visioni dell’inferno e del purgatorio. […] gli orrori del fuoco venivano sfruttati per aggiungere forza alle campagne clericali – orrori in forma di torture fisiche al palo e di torture mentali attraverso le immagini dell’inferno e del purgatorio. Probabilmente i due tipi di agonia erano correlati e la paura dell’inferno e del purgatorio veniva rafforzata dalle esecuzioni pubbliche con il fuoco.16 14

Cfr. G.R. SCOTT, The History of Torture Throughout the Ages, T. Werner Laurie, London 1940, trad. it. Storia della tortura, Arnoldo Mondadori, Milano 1999, pp. 179-184; M. ROTH, Crime and Punishment. A History of the Criminal Justice System, Cengage Learning, Blemont (California) 2010, p. 5; A. LEAHY, Death by Fire in Ancient Egypt, «Journal of the Economic and Social History of the Orient», vol. 27, n. 2, 1984, pp. 199-206. 15 «Espressione che, come ha rilevato giustamente il Maisonneuve, è di difficile interpretazione perché non sappiamo se stia ad indicare di bruciare le spoglie degli eretici oppure se indichi la condanna a morte sul rogo». H. Maisonneuve, Études sur les origines de l’Inquisition, Paris 1960, p. 141. Così in S. SOSPETTI, Il rogo degli eretici nel Medioevo, tesi di dottorato, Università di Bologna, 2013, p. 28. 16 J. GOUDSBLOM, Fire and Civilization, Penguin Books, London 1992, trad. it. Fuoco e civiltà dalla preistoria a oggi, Donzelli, Roma 1996, p. 100.

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Durante l’Inquisizione medievale, dunque, gli eretici e le streghe sono condannati alle fiamme dell’Inferno, ma prima devono passare da quelle accese dagli uomini. Al fondo di questa tortura mortale ritornano le credenze relative alla funzione rigeneratrice e purificatrice del fuoco: «La virtù purificatoria e vivificante della fiamma distrugge gli elementi corruttibili e caduchi dell’individuo»17. Inoltre, la morte sul rogo assolve ad altre due funzioni: si concilia con il divieto della Chiesa di Roma della sanguinis effusio (spargimento di sangue) nelle condanne a morte, distrugge completamente il corpo dell’eretico evitando di lasciare le spoglie alla venerazione dei suoi seguaci. A differenza della decapitazione che ha molte varianti secondo l’arma o lo strumento utilizzato, la pena capitale del rogo differisce solo per l’intensità del fuoco, che può essere alto, provocando generalmente la morte per asfissia, oppure basso, comportando una dolorosa agonia, causando la morte o per decomposizione degli organi vitali e perdita di liquidi, oppure per infarto. Nel febbraio del 2015 il pilota giordano Muath Safi Yousef al-Kasasbeh, di fede musulmana, è arso vivo mentre è rinchiuso in una gabbia18. L’esecuzione è immortalata in un video con tanto di effetti speciali: il cosiddetto Stato Islamico riaccende i roghi in nome di Dio, spettacolarizzando la morte. Nel 2016 la sorte di morire tra le fiamme tocca a due soldati dell’esercito turco, bruciati vivi nella provincia siriana di Aleppo. Anche in questo caso l’esecuzione è ripresa in un video sapientemente predisposto. Nel gennaio del 2017 i carnefici dello Stato Islamico bruciano anche una famiglia composta da una madre e quattro bambini a Kirkuk (Iraq), “colpevoli” di voler fuggire dalla zona della città controllata dallo stesso Stato Islamico. Se spesso nel Medioevo si usava soffocare o stordire il condannato prima di bruciarlo, per risparmiargli l’atroce agonia tra 17

I. BUTTITTA, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Sellerio, Palermo 2002, p. 53. 18 Il militare era stato catturato dagli estremisti islamici dello Stato Islamico il 25 dicembre a Raqqa, in Siria, a seguito dello schianto del suo aereo.

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le fiamme19, i roghi contemporanei (come tutte le altre macabre esecuzioni capitali dello Stato Islamico, compreso la strategia degli uomini-bomba20), eseguiti in una professionale cornice teatrale, sono solo il sadico desiderio di infliggere morte atrocemente, per ammonire e disorientare un pubblico più vasto di quello che presenziava le piazze del Medioevo. Tutto questo non è il Medioevo barbaro dell’Islam, ma l’Età bruta di una parte dell’Islam che disprezza la vita e l’essere umano: il terrorismo dello Stato Islamico vince sul piano narrativo, per fortuna non in quello militare. 7.2. La morte nelle guerre contemporanee La morte causata dalla violenza politica è ancor più un fatto sociale, è una morte plurale. Tra tutte le violenze politiche, «la guerra è il feudo della morte»21. Se sino alla Rivoluzione francese la morte in guerra è stata un fatto personale, legato per lo più a un sovrano o a un nobile, dopo diventa un evento sociale, collettivo, poiché ora si muore per la Patria e non più per un signore. Questo ha determinato una “nazionalizzazione” della morte in guerra che, elaborando una mistica del “caduto per la Patria”, ha portato alla celebrazione pubblica del loro valore, anche attraverso l’edificazione di monumenti celebrativi, non più per i soli generali eroi, ma ora per tutti i militi morti per la Patria. Anche in questo caso la violenta dipartita è superata trasformando lo stato negativo di “defunto-morto” in quello di “defunto-vivo”: In quest’ottica il mito del soldato caduto ha come obiettivo quello di restaurare nel popolo un nuovo senso di comunione, una unità mistica che costruisce e alimenta la nuova “religione 19

Questa alternativa alla morte atroce tra le fiamme era riservata ai soli eretici che si pentivano prima dell’esecuzione. 20 Il fenomeno dei cosiddetti kamikaze sarà studiato nel prossimo capitolo. 21 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 277.

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della Patria”. […] Il corpo del soldato anche nella rigidità della sua morte serve alla Patria, comunica, parla a chi resta come se fosse vivo: anche se egli non è più utile ai fini della battaglia, come guerriero, ora è testimone ed è affidato alla terra che lo ha visto nascere, affinché fiorisca nella realtà come superbo e immortale protagonista della storia della Nazione.22

La Prima Guerra Mondiale, con la mobilitazione totale e l’irruzione della tecnica nel teatro bellico, che prende la forma di nuove e più rapide armi, diventa un incontro inedito con la morte, ora divenuta di massa. Caratteristica della Grande Guerra è la trincea, metafora della fossa funeraria, ma con corpi vivi che attendono il passare della morte23. Nella trincea solo un parapetto segna il fragile confine tra la vita e la morte. Al di là della trincea c’è la “terra di nessuno”, il campo di battaglia «costantemente cosparso di caduti insepolti, rimasti là dove la morte li aveva colti, che si putrefacevano lentamente»24. All’interno della trincea si vive una quotidianità sporca e paralizzata da una guerra di logoramento, fatta da interminabili attese e improvvisi attacchi all’arma bianca preceduti dal fuoco delle artiglierie: Quando la furia delle artiglierie culmina nel parossismo del tamburellamento (fuoco tambureggiante N.d.A.) non c’è più nulla che interessa: né gli affetti lontani, né gli amici vicini, né la vita né la morte. Morti ci si sente anzi di già.25

22

Ivi, pp. 285–286. Su “l’estetica della morte in guerra” e la “nazionalizzazione della morte in guerra” cfr. ivi, pp. 277–291. 23 Cfr. L. FABI, E. TREVISANI, 1915-1918: la trincea infinita. Vita quotidiana al fronte della grande guerra, Tosi Editore, Ferrara 1997; A. MAGNIFICI, Vita di trincea, Nordpress, Chiari (Bs) 2005. 24 S. ELISEO, La trincea come “casa” del soldato, in «Rivista Militare», n.3/2012, pp. 96–97. 25 A. MARPICATI, Saggi di psicologia delle masse combattenti, «La proletaria», Bemporad, Firenze, p. 23, cit. in S. ELISEO, La trincea come “casa” del soldato, in «Rivista Militare», n.3/2012, pp. 98–99.

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VII. Il nemico da uccidere

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Nella vita di trincea la morte si addensa ininterrottamente come minacciose «nuvole di un temporale»26 che, scrosciando all’improvviso, travolge la vita dei soldati. La convivenza con la morte è tema di molte lettere scritte dai soldati al fronte. Così scrive in una lettera dal fronte il 18 luglio 1916 il soldato italiano R. V. di ventitré anni: Ma la guerra è ancora lunga e si deve concludere la pace sul nostro fronte e quello Russo, allora certo che la pace non verrà mai e si deve venire ancora a lungo tanto da non sospirare e se non si muore oggi si muore domani, perché cara mia scamparla in questa, scamparla in questa altra e dagli un mese e dagli due, dagli cinque dagli dieci e dagli dodici e quattordici, poi un giorno bisogna cadere e non si puote sfuggire, perché la storia e troppo lunga e mi è venuta a noia, io non sento più nulla e qualche giorno vado nel carcere e finisco di tribolare e di far guerra … Non credevo mai che questa guerra volesse essere così lunga e così sanguinosa e neanche disgraziata.27

È il poeta italiano Giuseppe Ungaretti, in trincea presso il bosco di Courton, vicino Reims, che in un’unica e pregnante similitudine riporta il senso della precarietà della vita sul fronte di guerra: Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

La Grande guerra si appropria anche di un ulteriore elemento che rende il conflitto moderno e totale: l’aria. Il bombardamento 26

E. JÜNGER, Sturm, 1923, trad. it. Il tenente Sturm, Il Sole 24 Ore, Milano 2012, p. 10. Lo scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger in questo racconto, pubblicato per la prima volta a puntate nel 1923, ha descritto in chiave autobiografica la vita di trincea. 27 Cit. in E. FORCELLA, A. MONTICONE, Plotone di esecuzione. I processi della 1° guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1968, pp. 74–75. Il soldato è condannato a un anno e sei mesi di reclusione militare per lettera denigratoria.

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La politica del male

aereo, soprattutto degli agglomerati urbani, diviene la massima espressione della Guerra totale, annullando definitivamente l’idea cavalleresca del combattimento28. La morte dai campi di battaglia si sposta così anche all’interno degli agglomerati urbani e il bombardamento aereo sui civili diventa un’azione della guerra stessa29. Il secondo conflitto mondiale amplifica il senso della guerra di massa, cancellando definitivamente la linea di demarcazione tra sfera militare e sfera civile e, quindi, revocando la distinzione tra combattenti e civili. Le parti in lotta sono trascinate in un processo cumulativo di reciproca distruzione, anche grazie all’utilizzo di nuove e più potenti armi, capaci di colpire il nemico a notevole distanza: «la morte è ora data in maniera ‘impersonale’ da una tecnologia bellica che razionalizzava e rendeva seriale il gesto di uccidere»30. Ora si muore di più e dappertutto: lo spettro di una morte famelica e ubiqua si impossessa permanentemente della storia delle umane miserie. Tra i crimini della Seconda Guerra Mondiale, i campi di sterminio nazisti e i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki rappresentano la celebrazione di una politica che, inarrestabile, si fa criminale nel più totale dispregio di ogni senso d’umanità. Se con i campi di sterminio nazisti fa irruzione l’orribile, con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki si ha l’apoteosi di una scienza malvagia al servizio di una politica scellerata. Le due bombe atomiche che nel 1945 distrussero le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, avevano anche un nomignolo: “Ragazzino” (Little Boy) e “Ciccione” (Fat Man), nome 28

Il primo grande teorico del bombardamento aereo fu il generale italiano Giulio Douhet, che negli anni Venti del Novecento scrisse un vero e proprio trattato su questa "opzione bellica": Il dominio dell’aria, pubblicato nel 1921 a cura del Ministero della Guerra e ristampato nel 1932 insieme con altri scritti. 29 Sulla guerra aerea rimando al mio Il terrore viene dal cielo: la guerra aerea, in «Storia in Network», n. 137, marzo 2008, http://www.storiain.net/arret /num137 /artic3.asp. 30 N. LABANCA, G. ROCHAT, a cura di, Il soldato, la guerra e il rischio di morire, Edizioni Unicopli, Milano 2006, p. 162.

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VII. Il nemico da uccidere

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in codice della bomba Mk.1 e Mk.231. La prima bomba, quella che il 6 agosto colpì Hiroshima, era un ordigno all’uranio 235, con uno schema costruttivo mai sperimento prima, e con una potenza equivalente a 13-18 chilotoni32; la seconda, sganciata su Nagasaki il 9 agosto, era al plutonio 23 con una potenza uguale a 18-23 chilotoni. Per la prima volta nella storia un solo ordigno uccide sul colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone33. L’utilizzo delle due bombe atomiche sul Giappone è stato un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità, peraltro mai punito. All’interno del governo statunitense alcuni dirigenti e diversi ufficiali dell’esercito statunitense, tra cui George Marshall, capo di Stato Maggiore generale, formularono riserve sull’utilizzo delle bombe atomiche: i primi temevano che l’utilizzo delle bombe atomiche fosse comparato ai crimini di guerra dei nazisti; i secondi formularono riserve sull’utilizzo delle bombe atomiche, poiché calpestavano il codice militare che prevedeva il divieto assoluto di massacrare volontariamente dei civili34. In una conversazione con il presidente statunitense Harry Truman il 6 giugno 1945, il segretario di Stato per la guerra Henry Lewis Stimson manifestava i propri sentimenti: 31

Cfr. R. RHODES, The Making of the Atomic Bomb, Simon and Schuster, New York 1986, trad. it. L’invenzione della bomba atomica. 6 agosto 1945: l’inizio di una nuova era, Rizzoli, Milano 2005. 32 Il chilotone (o kiloton) è un’unità di misura della quantità di energia liberata dagli esplosivi equivalente alla potenza sviluppata dall’esplosione di mille tonnellate di TNT (tritolo). 33 Tanti furono i morti immediati a Hiroshima, mentre a Nagasaki furono 40.000. A questi, poi, si devono aggiungere i feriti morti successivamente e i morti delle generazioni future colpite dalle radiazioni nucleari. Benché più potente, la bomba di Nagasaki fece meno vittime per un errore di lancio, poiché la bomba brillò a quasi quattro chilometri a Nord-Ovest da dove previsto, in una zona della città difesa da una catena di colline. Una comparazione delle due bombe in s.a., The Atomic Bombings of Hiroshima and Nagasaki, in «atomicarchive», http://www.atomicarchive.com/Docs/MED/med_chp10.shtml; s.a., Hiroshima & Nagasaki bombing, in «Hiroshima day committee», http://www.hiroshima committee.org/Facts_NagasakiAndHiroshimaBombing.htm 34 Cfr. B.J. BERNSTEIN, The Atomic Bombing Reconsidered, in «Foreign Affairs», 74, January–February 1995, p. 143.

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La politica del male

«Gli ho detto che ero inquieto per questo aspetto della guerra […] perché non volevo che gli USA si guadagnassero la reputazione di sorpassare Hitler in atrocità»35. Come riferito, alcuni degli stessi ufficiali dell’esercito statunitense, tra cui George Marshall, capo di Stato Maggiore generale, formularono riserve sull’utilizzo delle bombe atomiche, poiché calpestavano il codice militare che prevedeva il divieto assoluto di massacrare volontariamente dei civili. Dopo l’utilizzo dei due ordigni nucleari, gli USA si giustificarono adducendo che quella fu l’alternativa meno dolorosa a un’invasione statunitense del Giappone, oltre a essere una rappresaglia legittima all’attacco compiuto dai nipponici a Pearl Harbour. In verità il lancio dei due ordigni atomici su un Giappone ormai vinto e impotente, permise di dare un’impressionante dimostrazione della potenza militare statunitense e, al contempo, di occupare da sola il Giappone. Tuttavia l’autoassoluzione da parte degli USA comunque non cambia la sostanza del crimine, che ha azzerato la distanza morale che li separava dalla criminale Germania di Hitler. La massificazione della morte realizzata nella Seconda Guerra Mondiale non mina assolutamente le coscienze dei governanti. Infatti, iniziata la cosiddetta Guerra fredda, le maggiori potenze iniziano a istituire programmi di ricerca per nuove armi non convenzionali sempre più devastanti, tra cui quelle chimiche e batteriologiche36. La Guerra fredda dall’Europa si trasferisce nel mondo, diventando molto calda. La competizione bipolare della Guerra fredda ha uno dei suoi massimi momenti drammatici nel conflitto in Vietnam (1955-1975)37. Tratti distintivi di questo conflitto 35

In ivi, p. 146. Sullo sviluppo di nuove e più potenti armi non convenzionali cfr. il mio Guerrocrazia, cit., pp. 158–184. 37 Il 1955 è la data di costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale Vietnamita, i cosiddetti Việt Cộng, ossia “comunisti del Vietnam”. La guerra non interessò soltanto il territorio del Vietnam del Sud, ma coinvolse progressivamente il Laos e la Cambogia. Cfr. M. K. HALL, The Vietnam War, Harlow, New York 2000, trad. it. La guerra del Vietnam, il Mulino, Bologna 2011. 36

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sono il carattere mediatico38 e la forte carica d’odio che anima i combattenti. Infatti i media portano per la prima volta direttamente nelle case il vero volto della guerra, con le immagini del dolore dei civili bruciati dal napalm, i soprusi della potenza americana, la morte dei soldati statunitensi. Con la guerra in Vietnam si ha una radicalizzazione dei comportamenti distruttivi verso l’essere umano, questo sia per la modernizzazione dei mezzi e degli strumenti bellici sia per la concezione che si ha del nemico: la morte è dispensata in gran quantità e nei modi più terrificanti, divenendo il simbolo estremo dell’offesa al nemico. Gli americani hanno perso la guerra in Vietnam, e non l’hanno persa solo nella giungla vietnamita, ma anche a casa loro: la coscienza disgustata degli statunitensi, infatti, alzò la voce contro quella “guerra sporca”, accelerando la disfatta militare. L’amministrazione USA fa tesoro del mancato controllo dell’impatto politico dell’informazione nella “Guerra del Golfo” (1990–1991): così in Iraq «niente sangue, nessun morto o ferito inquadrato», solo filmati di «luoghi e oggetti da colpire, lontani, anonimi, centrati da missili intelligenti, senza indovinare la vita che essi contenevano» e «della criminale mattanza che si abbatté sui militari iracheni, in fuga sull’autostrada per Baghdad, si seppe solamente a guerra finita»39. 7.3 Lo sterminio di massa: quale riflessione linguistica Dell’uccidere in funzione politica hanno offerto testimonianza tutte le civiltà, anche se dal Novecento l’essere umano ha iniziato in maniera sistematica a saccheggiare la vita. L’esigenza di voler meglio interpretare gli stermini di massa che dal Novecento si sono succeduti, ha condotto alcuni scienziati politici, sociali e del diritto a coniare neologismi. Non si 38

Cfr. D.C. HALLIN, The “Uncensored War”. The Media and Vietnam, Oxford University Press, Oxford 1986. 39 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia, cit., p. 107.

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La politica del male

tratta solo di chiamare in modo nuovo gli stermini di massa, ma di un tentativo di indicarne un tipo particolare di sterminio indirizzato intenzionalmente verso un gruppo specifico di persone, “colpevoli” solo di appartenere a una determinata categoria sociale, religiosa, politica, etnica. Etnocidio, genocidio, uccisione di massa, politicidio, democidio sono alcuni di questi nuovi vocaboli creati in una prospettiva di diritto internazionale per identificare specifici stermini di massa. L’etnologo francese Robert Jaulin, riprendendo la denuncia fatta nel 1965 dal suo collega Georges Condominas40 della crudele strategia statunitense verso le etnie delle montagne del Vietnam41, perfeziona il concetto di etnocidio applicandolo agli indigeni americani sottomessi dagli europei42. Dunque, l’etnocidio è inteso da Jaulin come l’assoggettamento forzato e l’eliminazione dei tratti culturali distintivi di un gruppo umano da parte di una cultura egemone. Per estensione è poi diventato la politica di distruzione fisica e culturale di gruppi etnici. Il termine “genocidio” fu invece coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin per identificare i crimini nazisti legati alla distruzione fisica di interi gruppi etnici o sociali43. Il professor Benjamin Valentino preferisce usare l’espressione più generica di mass killing (uccisione di massa), utilizzando come criterio quantitativo l’uccisione intenzionale di cinquantamila persone in almeno cinque anni44.

40

Cfr. G. CONDOMINAS, L’Exotique est quotidien, Paris, Plon 1965. Cfr. C. MARTA, Relazioni interetniche. Prospettive antropologiche, Guida, Napoli 2005, p. 74. 42 Cfr. R. JAULIN, La Paz Blanca, Amorrortu Editores, Buenos Aires 1968 e il testo collettaneo El etnocidio a través de las Américas, Siglo XXI, Cotoacán (México). 43 “Genocidio” è il titolo del nono capitolo del saggio di Lemkin Axis Rule in occupied Europe: Laws Of Occupation, Analysis Of Government, Proposals For Redress, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, 1944, ora The Lawbook Exchange, Clark - New Jersey, 2005. 44 Cfr. B.A. VALENTINO, Final Solutions. Mass Killing and Genocide in the 20th Century, Cornell University Press, Ithaca and London 2004, ora 2013. 41

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Gli scienziati politici Barbara Harff e Ted Robert Gurr hanno cercato di superare il limite della nozione di genocidio di Lemkin, che lascia fuori gli stermini di massa per motivi politici, proponendo il concetto di “politicidio”, ossia gli eccidi in massa di oppositori e di intere classi politiche45. Anche il politologo Rudolph Joseph Rummel ha ripreso il tentativo di colmare questa lacuna, proponendo l’espressione “democidio” per meglio inglobare tutti i generi di stermini46. La definizione di democidio, infatti, comprende il genocidio, il politicidio e tutti gli omicidi di massa commessi dagli Stati. Nella concezione di Rummel, tuttavia, il democidio comporta il coinvolgimento diretto dello Stato nella preparazione e nella perpetrazione delle uccisioni, lasciando fuori altre entità che potrebbero comunque organizzare siffatte azioni criminali. Accanto a questi termini creati in una prospettiva di diritto internazionale, ci sono espressioni particolari che riguardano esclusivamente la memoria di un popolo, ossia tragedie sterminazioniste vissute da una determinata comunità: Maafa, Pachakuyuy, Holodomor, Metz Yeghérn, Porrajmos, Shoah. Maafa in lingua swahili significa “grande disastro”, è un termine introdotto dall’antropologa Marimba Ani per descrivere la storia e gli effetti delle atrocità inflitte al popolo africano dal XVI secolo47. Pachakuyuy è invece un termine quechua48, significa “terremoto”, “catastrofe”, e rimanda allo sterminio indios che parte dalla conquista delle Americhe da parte degli europei49. 45

Cfr. B. HARFF, T.R. GURR, Toward Empirical Theory of Genocides and Politicides. Identification and Measurement of Cases since 1945, «International Studies Quarterly», 32, 3, 1988, pp. 359-371. 46 Cfr. R.J. RUMMEL, Death by Government, Transaction Publishers, New Brunswick (NJ) 1994, trad. it. Stati assassini. La violenza omicida dei governi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 41-54. 47 Cfr. M. ANI, Let the Circle be Unbroken. The Implications of African Spirituality in the Diaspora, The Red Sea Press, Trenton (New Jersey) 1980; B. CLAVERO, Genocide Or Ethnocide, 1933-2007. How to Make, Unmake, and Remake Law with Words, Giuffrè, Milano 2008, pp. 59-60. 48 Famiglia di lingue native americane del Sud America. 49 Cfr. Ivi, B. CLAVERO, ivi, p. 106.

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La politica del male

Holodomor (in russo Голодомор) ha la sua radice in due parole ucraine: holod (inedia, fame estrema,) e moryty (morire, indurre sofferenza), ed è il nome attribuito alla terribile carestia causata dalla politica sovietica in Ucraina (1929-1934)50. Metz Yeghérn (in armeno Մ ե ծ Ե ղ ե ռ ն ) è il termine con cui gli armeni dell’Impero Ottomano ricordano la loro persecuzione da parte del governo turco avvenuta a partire dal 1915: significa il “Grande Male”, un male assoluto, «fisico e anche morale»51. Porrajmos in lingua rom vuol dire “grande divoramento”, è il termine con il quale nel 1993 il linguista Ian Hancock identifica lo sterminio nazista dei Rom e dei Sinti (da porrav, divorare, e il suffisso nominale –imos)52. Il linguista Marcel Courthiade, esperto di romanes, ha proposto in alternativa il termine samudaripen, che vuol dire “tutti morti”53. Porrajmos è più utilizzato in ambito accademico, tuttavia il rom comune non utilizza alcuno di questi termini. Shoah (‫שואה‬, sho’āh in ebraico) è un termine che ritroviamo nella Bibbia ebraica con diversi significati tutti legati all’idea di distruzione, di catastrofe, di tempesta devastante. Il vocabolo fu già usato per la prima volta nel dicembre 1938 in una riunione del Comitato Centrale del Partito Socialista nella Palestina sottoposta al mandato britannico, in riferimento a cosa stava accadendo alla comunità ebraica tedesca da parte dei nazisti54. Per quanto questo termine esprimeva la preoccupazione degli ebrei 50

Cfr. K.B. PENUEL, M. STATLER (eds), Encyclopedia of Disaster Relief, vol. 2, New York University–Sage, Washington–Los Angeles 2011, p. 304. 51 M. NORDIO, Presentazione, in C. MUTAFIAN, Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Guerini, Milano 1995. 52 Cfr. I. HANCOCK, On the interpretation of a word: Porrajmos as Holocaust, in «Romani Archive and Documentation», http://www.radoc.net/radoc.php? doc=art_e_holocaust_interpretation&lang=ry&articles=true. 53 Cfr. M.COURTHIADE, The Nazi Genocide of the Rroms or Samudaripen: its impact after the WWII, in «IRU – International Romani Union», http://www.iru2020.com/IRU_SAMUDARIPEN%20AFTERMATH%20%20ENGLISH.pdf 54 A.V. SULLAM CALIMANI, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001, p. 19; AA. VV., Destinazione Auschwitz, Proedi, Milano 2006, p. 4.

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residenti nell’attuale Israele, essi non sapevano ancora che la “tempesta nazista” avrebbe purtroppo colpito buona parte delle altre comunità ebraiche europee. Lo sterminio degli ebrei da parte del Terzo Reich ha anche altri nomi: Endlösung, Churban, Giudeocidio, Olocausto. I nazisti lo chiamarono Endlösung der Judenfrage (Soluzione finale della questione giudaica), un eufemismo coniato al fine di mascherare lo sterminio premeditato delle comunità ebraiche. Gli ebrei ortodossi preferiscono usare il termine Terzo Churban, che richiama le due distruzioni del Tempio Santo di Gerusalemme (Bet HaMikdash)55, immane tragedia per l’ebraismo: in questo modo si è voluto assimilare la catastrofe più recente a quelle più antiche della storia del popolo di re David56. Giudeocido è un altro termine proposto per nominare lo sterminio nazista degli ebrei. È stato indicato dallo storico ebraico Arno Joseph Mayer, che boccia tutti i neologismi che richiamano la religione, preferendo utilizzare, appunto, il termine più attinente di Judeocide57. Il termine olocausto, invece, traduce un termine biblico legato alla sfera dei sacrifici cruenti e animali. Con tale espressione, infatti, si traduce in lingua greca il sacrificio ebraico detto ‘olah (innalzamento), una cerimonia di sacrificio animale in cui “tutto è bruciato”. La versione dei Settanta (la traduzione della Bibbia in lingua greca) traduce appunto con holokauston il rito sacrificale in cui un animale era interamente distrutto con il fuoco, senza recuperarne nessuna parte per il consumo alimentare: la 55

Il primo Tempio fu completamente distrutto nel 586 a.C. da Nabucodonosor II. Ricostruito fu nuovamente distrutto dal futuro imperatore Tito nel 70 d.C. Oggi ne resta solamente il muro occidentale di contenimento, detto comunemente “Muro del Pianto” (Kotel ha-Ma’aravi). 56 Cfr. P.R. BARTROP, M. DICKERMAN (eds), The Holocaust. An Encyclopedia and Document Collection, vol. 1, ABC-CLIO, Santa Barbara (California) 2017, p. 127. 57 Cfr. A.J. MAYER, Why Did the Heavens Not Darken? The "Final Solution" in History, Pantheon Books, New York 1988, tr. it. Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Mondadori, Milano 1990.

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radice holos vuol dire “totale”, mentre kaustos significa “bruciare”, quindi è l’atto di distruggere completamente con il fuoco. Certo ci può essere una sorta di corrispondenza tra il fumo prodotto dal sacrificio animale e quello che usciva dai camini dei forni crematori, come ci può essere una certa assonanza tra il “tutto bruciato” del rito sacrificale, ossia la distruzione senza residui dell’animale sacrificato, e quello degli ebrei nei campi di sterminio, ridotti in cenere. Tuttavia l’immagine biblica del rito sacrificale indica un gesto culturale, quella dei camini dei Vernichtungslager un fatto criminale. Per distinguere l’olocausto biblico da quello degli ebrei si è scelto di assegnare al termine la O grande, tuttavia negli ambienti ebraici questo vocabolo non è accettato di buon grado per la sua impropria connotazione religiosa: lo sterminio del popolo ebraico non è stato un’immolazione religiosa, ma un atto scellerato non gradito a Dio. Diceva Primo Levi: «Io uso questo termine Olocausto malvolentieri perché non mi piace. Ma lo uso per intenderci. Filologicamente è sbagliato»58. Per questo, puntualizza il filosofo italiano Giorgio Agamben: Stabilire una connessione anche lontana, tra Auschwitz e l’olah biblico, e tra la morte nelle camere a gas e la ‘dedizione totale a motivi sacri e superiori’ non può che suonare come una beffa59.

Di più. Il termine olocausto è stato usato ben prima della tragedia che ha colpito il popolo ebraico sotto il nazismo. Infatti l’espressione è utilizzata dai cronisti Roger of Howden e Richard of Devizes per riferirsi al massacro degli ebrei avvenuto a York in Inghilterra nel 119060. Nel 1833 anche Leitch Ritchie utilizza il termine “holocaust” in riferimento al massacro ordinato da Luigi VII di trecento persone all’interno di una chie58

P. LEVI, Conversazioni e interviste, Einaudi, Torino 1997, p. 243. G. AGAMBEN, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998 p. 29. 60 Cfr. A. BALE, The Jew in the medieval book. English antisemitism, 13501500, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 27. 59

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sa61. L’espressione olocausto è utilizzato inizialmente anche in riferimento la persecuzione armena da parte dell’Impero ottomano agli inizi del Novecento. Lo utilizza lo storico Lysimachos Oeconomos nel suo The tragedy of the Christian Near East. Appendix: The Smyrna Holocaust62. Anche Winston Churchill utilizza questo termine in riferimento alla persecuzione armena, definendola «olocausto amministrativo»63. In riferimento ai nazisti, il termine olocausto è già utilizzato nel 1939, quando un editoriale del London Times Literary Supplement del 26 agosto segnalava: «la febbre bruciante che domina la Germania da alcuni anni, minaccia di sfociare in un olocausto»64. Secondo il direttore esecutivo del World Jewish Congress Elan Steinberg, il primo uso del termine olocausto per descrivere lo sterminio nazista degli ebrei, si trova nella prefazione di un libro del 1944 intitolato Legal Claims Against Germany. Morris Cohen, l’autore del saggio, scrive: «Milioni di vittime sopravvissute dell’olocausto nazista, ebrei e non ebrei, staranno davanti a noi negli anni a venire»65. Dal momento che le parole servono a dare forma a un evento specifico, alla bontà dei termini generici di genocidio, democidio, politicidio e così via – spesso abusati nel linguaggio comune o usati secondo le convenienze politiche per ingigantire un evento – per motivi di precisione sociologica, preferisco utilizzare la definizione di “sterminio programmato di massa (degli armeni, o degli ebrei e così via)”, dove “programmato” sottolinea l’intenzionalità della violenza. In alternativa preferisco i termini specifici della terminologia autoctona, poiché aiutano a 61

L. RITCHIE, Wanderings by the Loire, Longman, London 1833, p. 104. Anglo-Hellenic League, London 1923. 63 W. CHURCHILL, The World Crisis. The Aftermath 1918–1922, vol. IV, Thornton Butterworth, London 1929, p. 158. 64 Tutti gli utilizzi del termine “Olocausto” in riferimento alla politica nazista in J. PETRIE, The secular word Holocaust: scholarly myths, history, and 20th century meanings, in «Journal of Genocide Research», vol. 2, n. 1, 2000, pp. 31-63. 65 First Use of “Holocaust”, in «Jewish Virtual Library» http://www.jewishvirtuallibrary.org/first-use-of-147-holocaust-148. 62

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menzionare un determinato evento tragico in modo da rendergli un’identità precisa. Questo perché, nominare correttamente vuol dire rendere giustizia a un popolo, esprimere l’immensa offesa da loro subita, mettere di fronte alle responsabilità storiche ben precise, comprendere un determinato evento nella sua concretezza per lanciare un monito ben preciso all’Umanità.

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7.4. Massacri e stermini nella storia Hegel descrive la storia come un «un mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati e la virtù degli individui»66. Infatti, la storia dell’Umanità, sin dalle prime civiltà organizzate, gronda sangue ed è costellata di massacri e stermini di massa67. Massacri sono già attestati nella Preistoria dell’Umanità. La vasta sepoltura comune risalente al Mesolitico ritrovata a Jebel Sahaba, in Sudan, di 59 persone, tra uomini, donne e bambini, tutte trafitte da selci, attesta che i nostri primi antenati non erano certo gentili con i propri nemici. Altre scoperte archeologiche di fosse comuni di persone brutalmente torturate, mutilate e uccise risalenti al Neolitico, attestano la volontà di uccidere in massa il nemico68. Considerato che i siti archeologici che testimoniano i massacri nella Preistoria sono distanti tra loro, si potrebbe affermare la tesi che simili eccidi non fossero casi isolati69. 66

G.W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1982, vol. I, p. 58 (orig. 1830). 67 Cfr. D. EL KENZ (ed), Il massacro nella storia, cit., pp. 5- 171. 68 Come quelle di Talheim (Bade-Wurtemberg), di Schöneck-Kilianstädten (Assia), di Herxheim (Renania-Palatinato) e di Asparn-Schletz (Austria), Bergheim (Francia). In queste fosse i corpi non erano deposti in modo accurato, come nei normali siti funerari del tempo. 69 Cfr. E.M. WILD, P. STADLER, A. HÄUßER, W. KUTSCHERA, P. STEIER, M. TESCHLER-NICOLA, J. WAHL, H.J. WINDL, Neolithic massacres: Local skirmishes or general warfare in Europe?, «Radiocarbon», 46(1), 2004, pp. 377– 385; R. SCHULTING, L. FIBIGER (eds.), Sticks, Stones, and Broken Bones. Neolithic Violence in a European Perspective, Oxford University

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VII. Il nemico da uccidere

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I testi sacri di molte religioni condividono storia di massacri e hanno scritture che incitano allo sterminio. Il Vecchio Testamento narra del grande sterminio voluto da un Dio attraverso un “Diluvio universale” per castigare l’uomo70. Lo stesso Dio ordina agli Israeliti: «Sterminerai dunque tutti i popoli che il Signore Dio tuo sta per consegnare a te; il tuo occhio non li compianga»71. Ecco allora che il “popolo prediletto” si vota a grandi massacri nei confronti degli Hittiti, Amorrei, Perizziti, Evei, Gebusei e Cananei. Proprio la conquista della “Terra di Canaan” (ca 1200 a.C.) è rappresentativa di una guerra di conquista votata alla “pulizia etnica”. Tutti i testi sacri delle religioni monoteiste hanno scritture che incitano al massacro, perché Dio è un’Entità gelosa che pretende l’esclusività per sé e per il suo popolo72. Passando alla Storia, gli Assiri sono noti per la loro spietata ferocia nei confronti delle popolazioni vinte73, pratica celebrata anche nei loro bassorilievi come simbolo di potenza74; per gli antichi Greci il massacro, pur restando una procedura eccezionale, è utilizzato principalmente per affermare il predominio po-

Press, Oxford 2012; C. MEYER, C. LOHR, D. GRONENBORN, K.W. ALT, The massacre mass grave of Schöneck-Kilianstädten reveals new insights into collective violence in Early Neolithic Central Europe, «PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», 112 (36) 11217-11222, September 2015, https://doi.org/10.1073/pnas.1504365112. 70 Genesi, 7. Grandi diluvi sono presenti in molti testi e miti religiosi. Cfr. S. CALABRESI, I misteri del diluvio nella storia e nel mito, EdicolaWeb, 2015, http://www.esoterismoemisteri.com/files/Stelio-Calabresi_I-misteri-deldiluvio-e-la-storia-del-mito.pdf. 71 Deuteronomio 7, 16. 72 Cfr. il mio Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, pp. 198-223. 73 Tra questi massacri quello ordinato nel 689 a.C. dal re Sennacherib contro gli abitanti di Babilonia, distruzione che fu completata deviando il corso dell’Arakhtu (uno dei due canali dell’Eufrate). 74 A Londra, nel British Museum è esposta una stele che celebra la vittoria del re Assurbanipal sui Sumeri attraverso scritte che elencano massacri e violenze contro le donne.

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La politica del male

litico75; i Romani attraverso i massacri dimostrano la loro potenza militare76. In entrambe le civiltà, i massacri sono collegati a fattori di prestigio politico, dunque alla vendetta, alla sanzione e/o all’egemonia. Nel Medioevo, poi nella Storia moderna, si continua con Gengis Khan, Tamerlano e Kublai Khan, i condottieri mongoli con vocazione sterminazionista; con re Etelredo II d’Inghilterra che, il 13 novembre 1002, stermina tutti i danesi presenti nel Regno d’Inghilterra (St. Brice’s Day massacre); con papa Innocenzo III che nel 1208 bandisce la “Crociata contro gli albigesi”, determinando lo sterminio dei catari; con il massacro dei francesi nel Vespro siciliano (30 marzo 1282); con la scoperta dell’America (1492) e la successiva colonizzazione da parte degli europei, che causano una catastrofe demografica delle popolazioni autoctone; con Oliver Cromwell che nel 1649, durante la conquista dell’Irlanda, massacra gli abitanti di Drogheda e Wexford; con l’espansione coloniale in Africa e Asia, che comporta massacri in grande stile per imporre il controllo del territorio, sino al primo grande stermino del Novecento degli Herero e dei Nama da parte dei tedeschi nella Deutsch-Südwestafrika (Namibia) fra il 1904 e il 190777. 75

Tucidide, ad esempio, nella Storia della guerra del Peloponneso, racconta del grande massacro avvenuto sull’isola di Melo nel 416 a.C. da parte degli ateniesi. 76 Nel 215 Caracalla fa massacrare gli alessandrini vendicandosi dei loro motti satirici; nel 203 a.C. Scipione l’Africano devasta i campi numidici e cartaginesi uccidendo oltre ventimila persone in una sola azione; nel 146 a.C. Cartagine è distrutta assieme alla maggior parte dei suoi abitanti; nel 52 a.C. Giulio Cesare fa strage dei Galli; nel 60/61 d.C. i Druidi dell’isola di Anglesey furono massacri dall’esercito di Gaio Svetonio Paolino durante la conquista romana della Britannia. Questi sono alcuni esempi della ferocia degli imperatori romani e dei loro generali che certo non brillavano per clementia nei confronti del nemico vinto. 77 Questi sono solo alcuni esempi. Oltre al già citato Il massacro nella storia di D. EL KENZ, cfr. B. KIERNAN, Blood and Soil. A World History of Genocide and Extermination from Sparta to Darfur, Yale University Press, New Haven (Ct) 2007; M. WHITE, The Great Big Book of Horrible Things, Brockman, New York 2011, trad. it. Il libro nero dell’umanità. La cronaca e i numeri delle cento peggiori atrocità della storia, Ponte alle Grazie, Milano 2011.

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È proprio dal XX secolo che emerge un’inclinazione della politica alla pratica della violenza di massa, una violenza che si manifesta nella sua forma più intensa, sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo. La tragedia degli Armeni inaugura in Europa la politica dello sterminio. Tra il 1915 e il 1916 la minoranza armena diventa bersaglio del governo ottomano, ossia il triumvirato di Tal’at Pasha, Enver Pasha e Djemal Pasha. Già il sultano Abdul Hamid II ritenne quei sudditi cristiani irriverenti nei confronti dell’autorità sovrana per le loro richieste di riforme volte a tutelare le loro persone, i loro beni, la loro religione, e per questo, tra il 1895 ed il 1897, divennero oggetto di una dura repressione con l’assassinio di migliaia di Armeni e la devastazione dei loro villaggi78. Quando salgono al potere i Giovani Turchi, i primi anni del Novecento, gli Armeni sono considerati un ostacolo alla “turchificazione” dell’Impero. Così, il 27 maggio 1915, il governo ottomano, retto dal triumvirato di Tal’at Pasha, Enver Pasha e Djemal Pasha, approfittando della assenza del Parlamento (precedentemente annullato) e della guerra in corso, legalizza e legittima il “trasferimento provvisorio”, per ragioni di sicurezza nazionale e necessità militari, di una parte della popolazione e di tutte quelle persone considerate sospette79. Gli Armeni non sono citati nella legge, ma sono maggiormente loro i destinatari del provvedimento di deportazione. La destinazione e la sistemazione nei campi di raccolta nei deserti dell’interno della Siria e dell’Iraq attuali, dovrebbe essere per tutti i deportati l’esito finale delle marce forzate. Purtroppo non è così. Tutto il processo di deportazione è associato a violenze d’ogni tipo, dagli stupri sino agli assassinii passando da una serie di brutalità di ogni ge-

78

Tra le atrocità subite dagli armeni sotto Abdul Hamid II, l’eccidio nel 1896 di circa tremila persone, bruciate vive nella cattedrale di Urfa, dove avevano trovato rifugio. Sugli eccidi hamidiani cfr. M.I. MACIOTI, Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, Cultura Nuova, Roma 2011, pp. 18–30. 79 Il 10 giugno è adottata anche la “Legge temporanea di espropriazione e confisca” dei beni delle persone soggette al trasferimento.

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nere. Il numero di morti tra il 1915 e il 1916 è stato stimato tra un milione e un milione e mezzo80. In Ucraina, a seguito della collettivizzazione forzata dell’agricoltura voluta da Stalin nel 192981, i Kulaki (i contadini benestanti, proprietari di una certa estensione di terra, che avevano alle loro dipendenze altri contadini) iniziarono un’azione di protesta e di boicottaggio, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il Politburo mandò l’esercito a requisire tutto quello che trovavano, compresi gli animali. Al tempo stesso furono istituiti sia dei blocchi stradali per impedire alla popolazione di spostarsi sia delle liste di proscrizione a interi villaggi e aziende agricole. Al contempo fu attuata una dura repressione, con eccidi, distruzione di villaggi e deportazioni nei famigerati Gulag. La collettivizzazione e la repressione provocarono una grande carestia, che produsse tra i quattro e i sette milioni di morti82. Nella Germania di Hitler, in conseguenza al mito della cosiddetta “purezza della razza ariana” non si esitò a portare avanti una politica pianificata di morte in massa. Il pensiero nazista, infatti, non prevedeva il riconoscimento dell’Altro come elemento fondativo della vita comunitaria nel suo spazio vitale (der Lebensraum): Il nazismo è una visione del mondo, cioè, in primo luogo una visione della Storia, un racconto singolare, che continua dovunque, in ogni istante e sotto tutte le forme, a raccontare il 80

Cfr. M. IMPAGLIAZZO, Una finestra sul massacro: documenti inediti sulla strage degli armeni, 1915-1916, Guerini e Associati, Milano 2000; G. LEWY, The Armenian Massacres in Ottoman Turkey. A Disputed Genocide, University of Utah Press, Salt Lake City 2005, trad. it., Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2006. 81 Scopo della collettivizzazione fu la creazione di grandi unità produttive nella campagna, al posto delle tante piccole e medie aziende agricole, in modo da consentire il controllo diretto dello Stato anche sulla produzione agricola. All’inizio del 1928 furono già prese misure straordinarie per requisire il grano. 82 Sull’Holodomor cfr. E. CINNELLA, Ucraina: il genocidio dimenticato, 19321933, Della Porta Editori, Pisa 2015; A. APPLEBAUM, Red Famine. Stalin’s War on Ukraine, Penguin Randomhouse, New York 2017.

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passato della razza, le sue gesta, le sue prove, le sue glorie e le sue sventure.[…] Questa storia, continuamente narrata, ha una essenza normativa: il racconto segreto della norma, una norma che detta come agire, e perché.83

Così, con il consolidamento del potere nazista, il razzismo già imperante nel cuore dell’Europa, smise di essere un pregiudizio sociale e divenne politico. Nel luglio del 1941 Hitler diede l’ordine a Goring, suo luogotenente, di preparare una direttiva in cui incaricava Heydrich, capo dei servizi di sicurezza, di risolvere la questione ebraica nella sfera di influenza tedesca in Europa. Il 20 gennaio 1942, Heydrich e altri quattordici alti funzionari del Partito e del governo tedesco si riunirono in una villa nel sobborgo berlinese di Wannsee per discutere l’esecuzione del piano di annientamento degli ebrei. In questo modo, nell’ottica della Endlösung (Soluzione finale della questione ebraica)84, dell’annientamento degli altri Untermenschen (“sub– umani”, riferito a quei popoli considerati “razzialmente inferiori”, quali rom e sinti)85, della nazificazione e della relativa “purificazione razziale” dei Balcani86, del dissenso interno (in pri-

83

J. CHAPOUTOT, La loi du sang. Penser et agir en nazi, Gallimard, Paris 2014, trad. it. La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, Torino 2016, pp. 371-372. 84 Cfr. M. CATTARUZZA, M. FLORES, S. LEVIS SULLAM, E. TRAVERSO (a cura di), Storia della Shoah. Lo sterminio degli Ebrei, vol. 2, UTET–L’Espresso, Torino–Roma 2005–2008; S. FRIEDLÄNDER, The Years of Extermination. Nazi Germany and the Jews, 1939-1945, HarperCollins, New York 2007, trad. it. Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei: 1939-1945, Garzanti, Milano 2009. 85 Cfr. G. BOURSIER, M. CONVERSO, F. IACOMINI, Zigeuner. Lo sterminio dimenticato, Sinnos, Roma 1996; L. GUENTER, The Nazi Persecution of the Gypsies, Oxford University Press, Oxford 2000, trad. it., La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002. 86 Cfr. P. MOJZES, Balkan Genocides. Holocaust and Ethnic Cleansing in the 20th Century, Rowman & Littlefield, Lanham (Maryland) 2011, ora 2013.

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mis del comunismo)87, della estirpazione delle false religioni (in primis Testimoni di Geova e Pentecostali)88, degli omosessuali89 e di altre categorie di persone90, furono prodotte da tredici a venti milioni di vittime91. Tra il 1941 e il 1945, il nazionalismo esasperato degli ustascia di Ante Pavelić ha realizzato nello Stato Indipendente di Croazia il più grande sterminio di massa della Seconda Guerra Mondiale in rapporto alla popolazione di uno Stato: 750.000 serbi, 60.000 ebrei e circa 26.000 rom92. A parte il più bestiale massacro della popolazione compiuto spesso porta a porta, per molti “alieni” della “nuova Croazia” si aprirono le porte dei campi di concentramento, dove si moriva in gran quantità93. Nel solo campo di Jasenovac furono trucidate, spesso con coltelli e asce, tra 45.000 e 52.000 serbi, tra 12.000 e 20.000 ebrei, tra 87

Cfr. G. GOZZINI, La persecuzione degli oppositori politici, in A. CHIAPPANO, F. MINAZZI (a cura di), Il paradigma nazista dell’annientamento. La Shoah e gli altri stermini, Giuntina, Firenze 2006, pp. 99-108. 88 Cfr. M. PIERRO, Fra Martirio e Resistenza. La persecuzione nazista e fascista dei Testimoni di Geova, Actac, Como 2002; C. VERCELLI, Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei lager nazisti, Carocci, Roma 2011. 89 Cfr. J. LE BITOUX, Les oubliés de la mémoire, Hachette, Paris 2002, trad. it., Il triangolo rosa. La memoria rimossa delle persecuzioni omosessuali, Manni, San Cesario di Lecce 2003. 90 Per tutti cfr. G. GIANNINI, Vittime dimenticate. Lo sterminio dei disabili, dei rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova, Nuovi Equilibri, Viterbo 2012. 91 Cfr. Holocaust Encyclopedia, Documenting Numbers of Victims of the Holocaust and Nazi Persecution, «United States Holocaust Memorial Museum», https://www.ushmm.org/wlc/en/article.php?ModuleId=10008193 92 La stima delle vittime è ancora tuttora motivo di dibattito. Sugli stermini compiuti dagli ustascia cfr. R. YEOMANS, Cults of Death and Fantasies of Annihilation. The Croatian Ustasha Movement in Power, 1941–45, «Central Europe», 3(2), 2005, pp. 121-142; M. LEVY, “The Last Bullet for the Last Serb”. The Ustaša Genocide against Serbs: 1941–1945, Nationality Papers, 37(6), 2009, pp. 807–37. 93 Particolare e gradito attrezzo di morte ustascia utilizzato nei campi di concentramento è lo srbosjek, in serbo-croato vuol dire “tagliaserbo”, una specie di guanto di pelle con incorporata una lama ricurva, che permetteva di sgozzare con più facilità e sveltezza.

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15.000 e 20.000 rom e tra 5.000 e 12.000 croati e musulmani etnici, oppositori politici e religiosi94.

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7.5. La morte come programma politico Parto da una constatazione elementare: non è la quantità dei morti ammazzati che rende più criminale. È la qualità delle giustificazioni omicide che rende più scellerato un carnefice rispetto a un altro. Tuttavia la diversità delle motivazioni che hanno ispirato i carnefici, assieme alla varietà del trattamento dispensato al nemico, sono irrilevanti dal punto di vista delle vittime, poiché non intacca la loro uguale dignità. Massacro e sterminio sono due termini che designano omicidi in massa. Non siamo di fronte a due parole intercambiabili, ognuna ha un significato preciso. In un disegno politico di un potere, il massacro è l’uccisione spietata di un sostanzioso numero di persone che nasce soprattutto da una situazione di intensa tensione; lo sterminio è un atto efferato, che segue a ordini specifici provenienti da autorità politiche e militari e consiste in una serie di massacri programmati con intento di dominio. Un massacro ha un’estensione limitata, mentre uno sterminio ha una dimensione illimitata. La differenza tra uno sterminio e un massacro non è dunque solo quantitativa, ma anche qualitativa, ossia indica non solo un incremento numerico, ma anche di merito: il massacro è un mezzo in vista di obiettivi politicomilitari, lo sterminio ha un fine a sé in un progetto politico. La stessa origine etimologica dei due termini aiuta a comprendere questa differenza. L’etimologia della parola massacro è da ricondursi a termine francese massàcre, a sua volta da macecre, macelleria, e prima ancora nell’antico picardo machecler, il màglio (martello a due teste per ammazzare i buoi), e nel latino 94

Anche in questo caso la stima delle vittime è ancora motivo di dibattito. Sul campo di Jasenovac rimando al mio Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, pp. 174- 177; cfr. anche Holocaust Encyclopedia, Jasenovac, «United States Holocaust Memorial Museum», https://www.ushmm.org/wlc/en/article.php?ModuleId=10005449.

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barbarico mazacrium, carneficina95; sterminio, invece, proviene dal tardo latino exterminium, da exterminare, espellere dai confini, nel senso di bandire e distruggere96. Un’altra osservazione: uno sterminio prevede la morte in massa come programma politico, quindi non avviene in un vuoto irrazionale, ma in un pieno logico. Chi cerca di addebitare una illogicità a un atto come questo sbaglia: per quanto indicibile uno sterminio di massa non rappresenta uno spazio di irrazionalità distruttiva, ma il luogo di una lucida volontà politica votata alla morte. Uno sterminio è quindi un atto criminale premeditato, che segue una preparazione, una organizzazione e una realizzazione. Uno sterminio si realizza grazie alla presenza di una serie di fattori: il carattere dello Stato, il quadro di riferimento morale, la presenza di odi antichi o di pregiudizi e stereotipi nei confronti di uno o più gruppi, l’adesione totale o di parte della popolazione a un programma sterminazionista. Più sono questi fattori più aumenta la possibilità di un piano sterminazionista. Le pratiche di sterminio sono il risultato di un processo che si articola in varie fasi, dalla costruzione teorica alla messa in pratica, sino all’occultazione per negarne il crimine. La prima fase è la “classificazione”: gli individui sono raggruppati in categorie e distinti in amici-nemici, puri-impuri. Tale costruzione politica, etnica, religiosa e culturale dell’Altro porta a realizzare una “comunità del Noi” contrapposta a quella del Voi. Il passo successivo è la gerarchizzazione dei gruppi, che irrigidisce le differenze e decide chi deve vivere e chi deve morire: 95

Cfr. Voce “Massacro”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: http://www.etimo.it/?term=massacro; D. EL KENZ (ed), Le massacre, objet d’histoire, Gallimard, Paris 2005, trad. it. Il massacro nella storia, UTET, Torino 2008, p, IX (che trae da O. BLOCH, W. von WARTBURG, Dictionnaire étymologique de la langue française, PUF, Paris 1975, pp. 395-396 e da A. REY (dir), Dictionnaire Historique de la langue française, Le Robert, Paris 1992, II, p. 1200). 96 Cfr. Voce “Sterminare”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: http://www.etimo.it/?term=esterminare.

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Estremizzando la stigmatizzazione — ossia stabilendo un confine netto fra chi appartiene a un ordine, a uno spazio politico-sociale condiviso, e chi vi è escluso — si nega l’Altro de– umanizzandolo, attivando un perverso processo che determina la classificazione di un gruppo umano in categorie sociali estreme negative, delegittimate dalle norme e dai valori morali che regolano la società umana, e per questo soggette a subire comportamenti crudeli sino ad azioni genocidarie.97

Concomitante alla gerarchizzazione è la designazione delle vittime come colpevoli di qualcosa: non è sufficiente che i “prescelti” siano presentati come “diversi da Noi”, devono essere considerati adeguatamente malvagi e pericolosi. Questa fase avviene attraverso la costruzione del capro espiatorio: il gruppo che deve essere eliminato è investito di tutti i mali (economici, politici e sociali), passati e presenti; la sua soppressione è un atto purificatore necessario per la redenzione nazionale, razziale o politica. Le accuse al gruppo preso di mira sono poi reificate e poste a fondamento di un programma politico, che si polarizza assolutizzando la reale colpevolezza del capro espiatorio. Ogni membro della comunità del Noi, dunque, non solo deve riconoscere il capro espiatorio come un elemento pericoloso del gruppo, ma deve anche aspirare a una sua eliminazione, al fine di rendere l’intera comunità del Noi più sicura. In Ruanda, ad esempio, la violenza sterminatrice attuata porta a porta con il machete divenne una precisa forma di riconoscimento del Noi, chi non partecipava diveniva un “Hutu moderato” e per questo ucciso. I progetti di sterminio vengono rafforzati anche in un «quadro di senso», elaborato da intellettuali98 o da falsi miti scientifici99. Abbiamo già studiato che le teorie scientifiche legate alla

97

R. PATERNOSTER, Campi. Deportare e concentrare, cit., p. 38. J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, èditions du Seuil, Paris 2005, trad. it. Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, pp. 62-67. 99 Ivi, pp. 67-69. 98

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razza sono tutti inconsistenti100, eppure il nazismo, ad esempio, ne fece sapiente uso, legittimando lo sterminio degli ebrei, dei sinti e dei rom. Nessuno, però, ebbe il coraggio di suggerire a Hitler che il “gruppo razziale ariano” non è altro che un’errata trasposizione sul piano biologico di una “famiglia linguistica”. Sfruttando gli stereotipi creati dalle false teorie scientifiche, la propaganda, poi, anche attraverso un sapiente uso dei media, esaspera questa costruzione del nemico, manipolando il sentimento comune e alimentando l’odio, per catturare il consenso popolare o almeno l’indifferenza. Il nazismo utilizzò un’abile propaganda per dipingere le razze non ariane come un corpo estraneo alla società tedesca, per legittimare lo sterminio di milioni di persone e chiedere l’adesione anche dei tedeschi non nazisti al programma di pulizia etnica101. Decisiva, ad esempio, è stata la propaganda hutu nello sterminio tutsi: il giornale dell’Hutu Power, Kangura, con la sua retorica anti-tutsi, e le trasmissioni di Radio Televisione Libera delle Mille Colline, che inneggiavano all’uccisione degli scarafaggi trasmettendo ossessivamente la canzone Iye tubatsembatsembe, la quale ripeteva “sterminiamoli, sterminiamoli tutti!”, divennero determinati nell’alimentare l’odio e fomentare la partecipazione generale allo sterminio102. Inizia così la campagna d’odio che condurrà “persone normali” ad attuare lo sterminio. Segue la pianificazione e l’organizzazione, che costituiscono un elemento determinante nel distinguere gli stermini dai massacri, perché mai uno sterminio di massa può scaturire dall’improvvisazione o da moti spontanei. Radicalizzata la divisione tra “Noi” e “Loro”, identificati i nemici, raccolto il consenso popolare, in un clima di paranoia lo sterminio è attuato. 100

Vedi capitolo III. Cfr. M. PEZZETTI (a cura di), La razza nemica. La propaganda antisemita nazista e fascista, Gangemi, Roma 2017. È il catalogo di una mostra tenutasi a Roma. 102 Cfr. A. THOMPSON (ed), The Media and the Rwanda Genocide, Pluto, London 2007; F. FONJU NDEMESAH, La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda, Infinito, Roma 2009. 101

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Se il fine di una politica sterminazionista è quello di vedere aumentare il numero delle vittime uccise, la crudeltà nell’ammazzare rappresenta un’opera pedagogica per rafforzare il senso di appartenenza. Trucidare è altro da uccidere. Se ad Auschwitz si uccideva in modo impersonale e moderno col gas, nel campo ustascia di Jasenovac si uccideva direttamente con asce e coltelli, testimoniando la volontà di supremazia dei carnefici. Uccidere con un coltello, come facevano appunto gli ustascia nello Stato Indipendente di Croazia, o con un machete, come hanno fatto gli Hutu in Ruanda, non è un gioco sadico, ma serve a rafforzare simbolicamente l’azione, strappando letteralmente l’umanità alla vittima. Proprio la deumanizzazione è l’elemento fondamentale nell’attuazione di un progetto sterminazionista, un processo fondamentale che conduce non solo alla costruzione del consenso dell’opinione pubblica, ma anche alla “esclusione morale” delle vittime e al “disimpegno morale” dei carnefici103: Annullare e distruggere l’uomo, o meglio, l’umanità che è nell’altro perché l’umanità riconosciuta a questo unificherebbe carnefice e vittima nella stessa specie di appartenenza, il che impedirebbe di aggredire ed uccidere un conspecifico. L’altro si può uccidere solo se è considerato appartenente ad una specie diversa. La distruzione così è giustificata perché è come se non avvenisse tra individui della stessa specie (intraspecifica) ma tra individui di specie diverse (interspecifica).104

In Ruanda, la Radio Televisione Libera delle Mille Colline invitava a schiacciare gli inyenzi, gli scarafaggi, come furono considerati le vittime tutsi dai carnefici hutu. Nelle unità scientifiche militari giapponesi della Seconda Guerra Mondiale, gli internati erano considerati maruta, pezzi di legno, e per questo utilizzati come cavie umane per gli esperimenti per la ricerca mi103 Cfr. E. STAUB, The roots of evil. Psychological and cultural origins of genocide and other group violence, Cambridge University Press, Cambridge 1989. 104 C.B. TORTOLICI, Violenza e dintorni, cit., p. 42.

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La politica del male

litare105. Durante la Mau Mau rebellion (1952-1957)106, il valore della vita di un guerrigliero kikuyu valeva solo per essere portatore di informazioni militari: un ufficiale dell’esercito britannico, capo di alcune operazioni antiguerriglia, affermò che «nonostante molti pensassero che i Mau Mau fossero meglio morti, noi li preferivamo vivi. Non si possono ottenere molte informazioni da un cadavere»107. Sotto il nazismo il fenomeno della deumanizzazione è completo: ebrei, rom e sinti furono iscritti d’ufficio in tutti i registri della deumanizzazione che non permetteva nessuna loro redenzione, per questo furono annientati. C’è un’ultima fase nel processo sterminazionista: l’occultamento e la negazione del crimine. Quando i nazisti percepirono la loro imminente sconfitta, cercarono in tutti i modi di eliminare il maggior numero di prove a loro carico108. Nell’autunno 1943, arrivò l’ordine di chiudere e distruggere senza lasciare traccia i Vernichtungslager di Bełżec, Treblinka e Sobibor. Il campo di Bełżec fu raso al suolo, sulle fosse comuni fu piantato un bosco di pini; a Treblinka e Sobibor, dopo la demolizione completa del centro, furono costruite delle fattorie agricole. Completamente distrutti furono anche i campi di Monowitz, bombardato il 18 e il 26 dicembre del 1944, e di Chełmno, dove nel gennaio del 1945 furono incendiate tutte le installazioni. In altri campi si procedette a cancellare i forni crematori e le camere a gas, a sotterrare i corpi in fosse comuni, a distruggere tutti i documenti. In altri casi subentra la negazione dello sterminio, giustificandolo con scuse improbabili. Ad esempio, i governi turchi hanno sempre negato lo sterminio degli Armeni, attribuendo l’elevato numero delle vittime alla guerra, all’invasione russa e all’ostilità del gruppo etnico.

105

Cfr. Il mio Campi. Deportare e concentrare, cit., pp. 342-350. Cfr. Il mio Kenya 1946-1957: la rivolta Mau Mau la repressione Britannica e il Risorgimento keniota, «clio», n. 4, anno XLVIII, 2012, pp. 617-637. 107 Cit. in B. MCINTYRE, Britain in Kenya. If We Are Going to Sin, Then We Must Sin Quietly, in «The Times», April 8, 2011. 108 Cfr. R. HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, vol. II, Einaudi, Torino 1999, pp. 1077-1089. 106

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VII. Il nemico da uccidere

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Gli stermini di massa, dunque, non sono eventi che accadono per colpa di esseri mostruosi: i mostri non esistono, esistono gli uomini. Per questo, quello che serve per scongiurare nuovi lutti, nuove amputazioni dell’Umanità, è la memoria: una memoria che non si rassegni all’orrore. Una memoria più “larga”, che contenga tutti gli stermini di massa. Una memoria separata da un uso politico strumentale. Una memoria che sappia farci vergognare. Una memoria che ci ricordi che non esistono le razze, ma esiste il razzismo. Una memoria che educhi alla legalità, intesa come promozione di una cultura del rispetto delle regole di convivenza sociale. Una memoria, dunque, che va sostanziata, diventando uno strumento pedagogico capace di condurci ad assunzioni morali permanenti, per scongiurare eventuali altri consensi a un “Bene banale”. 7.6. Massacri e stermini contemporanei Nonostante gli orrori compiuti dal nazifascismo in Europa, e sebbene lo Statuto del Tribunale Militare di Norimberga abbia poi riconosciuto le azioni criminali che riguardano violenze e abusi contro popoli o parte di popoli come crimini di guerra e contro l’umanità109, sancendo tra le altre risoluzioni la responsabilità penale individuale per i crimini internazionali, l’uomo non ha voluto riscattarsi dalle barbarie della politica e ha continuato a sterminare. In Indonesia, tra il 1965 e il 1967, in nome dell’anticomunismo, la dittatura del generale Haji Mohammad Suharto sterminò circa un milione di persone, tra comunisti e oppositori politici, veri o presunti, sindacalisti, intellettuali, membri dei grandi movimenti di massa indonesiani e chiunque si ribellò 109

I processi che si tennero a Norimberga dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946, sono stati un importante punto di partenza per successive evoluzioni del diritto internazionale per la punibilità dei crimini contro l’umanità. Cfr. C.D. LEOTTA, Il genocidio nel diritto penale internazionale. Dagli scritti di Raphael Lemkin allo Statuto di Roma, Giappichelli, Torino 2013.

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all’Orde Baru, il “Nuovo Ordine” imposto dal regime110. Pur non occupando un posto centrale nell’apparato repressivo del regime, che preferì massacrare111, in Indonesia si aprirono anche terribili spazi concentrazionari in cui lavoro forzato e tortura divennero il “pane quotidiano” degli internati112. Con l’invasione del Timor Est, l’esercito indonesiano di Suharto continuò a massacrare in grande stile. Dal 1975, e per ventiquattro anni, gli occupanti hanno cercato di rendere il popolo autoctono una esigua minoranza sulla propria terra, massacrando a più riprese, deportando e limitando le nascite113. Ciò ha portato a una stima di 200.000, e forse oltre, di persone uccise durante l’occupazione114. In termini di percentuale tra vittime e numero di abitanti, a Timor Est si è consumato il maggior sterminio di massa del periodo successivo la Seconda Guerra Mondiale. Osceno è anche il bilancio della guerra civile che scoppiò in Nigeria nel 1967. A seguito delle pressioni indipendentistiche 110

Il New York Times definì l’operazione «uno dei più selvaggi assassini di massa della storia politica». Cfr. M. FRANKEL, U.S. Aides Are Cautious On Indonesia Power Shift; U.S. Aides wary on Jakarta shift, Special to New York Times, March 12, 1966, p. 1. 111 Cfr. E. POLITO, Indonesia: dal grande pogrom anticomunista al genocidio di Timor est, Odradek , Roma 2000; B.R. ANDERSON O’GORMAN (ed), Violence and the State in Suharto’s Indonesia, Southeast Asia Program Publications, Ithaca (New York) 2001. 112 Sull’isola di Buru, la terza più grossa isola dell’arcipelago malese, furono costruiti diciotto campi di concentramento, mentre campi dell’esercito, stazioni della gendarmeria e prigioni, tra cui il Cipinang Penitentiary Institution di Jakarta, furono trasformati in luoghi punitivi. Cfr. B. GRIMES DIX, Buru inside out, in L.E. VISSER (ed), Halmahera and beyond, KITLV Press, Leiden (Netherlands) 1994, p. 59–78; AA. VV., Prisons in Indonesia. Defunct Prisons in Indonesia, Kambangan Island, Buru, Cipinang Penitentiary Institution, Cisarua, LLC Book, Memphis 2010. 113 J. NEVINS, A not-so-distant horror. Mass violence in East Timor, Cornell University Press, Ithaca 2005. 114 Cfr. C. BUDIARDJO, L.S. LIONG, The War Against East Timor, Zed Books, London, 1984, pp. 49–51; Asia Watch, Human Rights in Indonesia and East Timor, Human Rights Watch, New York 1989, p. 253; R. CRIBB, How many deaths? Problems in the statistics of massacre in Indonesia (1965-1966) and East Timor (1975-1980), in I. WESSEL, G. WIMHÖFER (eds), Violence in Indonesia, Hamburg: Abera, 2001 pp. 82-97.

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VII. Il nemico da uccidere

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del popolo Igbo, che aveva proclamato la Repubblica del Biafra nella zona sudorientale del Paese, nella guerra che seguì perirono all’incirca due milioni di persone, la maggior parte per malattie e fame, indotti dal blocco economico e sanitario da parte del governo nigeriano115. In Cambogia, dal 1975 al 1979, il regime del terrore instaurato dai Khmer rossi di Pol Pot determinò da 1,5 a 2 milioni di morti. In un’ottica di rifondazione dell’intera società cambogiana su base comunista e contadina, il regime classificò l’intera popolazione in due categorie: il “popolo nuovo” e il “sottopopolo”, ossia i traditori, i nemici del socialismo e le persone appartenenti alle minoranze (vietnamiti, cinesi e musulmani Cham). Se la prima categoria andava rieducata, la seconda doveva essere eliminata. Così, pur prediligendo l’estirpazione degli “elementi infetti”116, l’indottrinamento, la rieducazione e il terrore furono una parte fondamentale della politica dei Khmer rossi117. Per questo il regime non solo decise di trasformare l’intero Paese in una «prigione rieducativa senza sbarre»118, ma si attrezzò di luoghi in cui segregare gli oppositori119. Il criminale esperimento cambogiano terminò solo con l’invasione militare del Paese da parte del Vietnam. 115

J.C. KORIEH (ed.), The Nigeria-Biafra war: Genocide and the politics of memory, Cambria Press, Amherst (New York) 2012; L. HEERTEN, A.D. MOSES, (eds), Postcolonial Conflict and the Question of Genocide. The Nigeria-Biafra War, 1967-1970, Routledge, New York 2017. 116 Cfr. K.D. JACKSON, Cambodia, 1975–1978: Rendezvous with Death, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1989 (ora 1992), pp. 179– 208; A. LABAN HINTON, Why Did They Kill? Cambodia in the Shadow of Genocide, University of California Press, Berkeley and Los Angels (California) 2005. 117 Cfr. D. SIRACUSA, T.N. BOVANNRITH, Cercate l’Angkar. Il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Jaca Book, Milano 2004. 118 Così fu definita la Cambogia dai profughi. P. SHORT, Pol Pot: Anatomy of a Nightmare, Henry Holt, New York 2004, trad. it., Pol Pot, anatomia di uno sterminio, RCS, Milano 2005, p. 385. 119 L’arcipelago carcerario della Cambogia in J.–L. MARGOLIN, Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, in S. COURTOIS (a cura di), Il libro nero del comunismo, cit., pp. 573–577.

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Tra tutti i grandi conflitti che hanno insanguinato l’Africa postcoloniale120 (Liberia, Sierra Leone, Angola, Congo, Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda, Somalia)121, quello che accade in Ruanda dal 6 aprile a metà luglio del 1994 è, in termini di percentuale tra vittime, numero di abitanti e tempo impiegato, lo sterminio di massa più rappresentativo dei guasti prodotti dalle politiche coloniali e dall’ingerenza dell’Occidente nel postcolonialismo122: in soli centoquattro giorni sono state massacrate, molto spesso con machetes, pressappoco un milione di persone, circa sette al minuto123. Non c’è stato limite all’orrore. Se i nazisti hanno colto l’occasione della guerra per mettere in atto il loro progetto di sterminio degli ebrei e dei rom, in Ruanda è lo sterminio programmato che ha fatto scoppiare la guerra civile. Pretesto è stata la distruzione dell’aereo presidenziale di Juvénal Habyarimana, abbattuto da uno o due missili terra-aria mentre atterrava all’aeroporto di Kigali. Il presidente ruandese era di ritorno con il collega del Burundi Cyprien Ntaryamira da un colloquio di pace, per dirimere i contrasti tra le etnie Hutu e Tutsi presenti nei loro Paesi. Ufficialmente ancora oggi sono ignoti i responsabili di tale atto, ma è stato appurato che i missili partirono dall’Anti Aircraft Battalion dell’esercito ruandese, situato nei pressi dell’aeroscalo. L’assassinio del presidente Ha120

Cfr. S. BELLUCCI, Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale, Carocci, Roma 2006; T. STAPLETON, Africa. War and Conflict in the Twentieth Century, Routledge, London 2018. 121 Cfr. AA. VV., Wars since 1900. List of Wars, «The Polynational War Memorial», http://www.war-memorial.net/wars_all.asp. 122 In realtà Tutsi e Hutu hanno la stessa lingua, la stessa religione e le stesse tradizioni, convivendo senza eccezionali contrasti già prima dell’arrivo dei coloni occidentali, tanto che i matrimoni misti sono sempre stati una pratica diffusa. Fu il dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga, a dividere la popolazione secondo criteri fino ad allora estranei e a preferire l’etnia più ricca e che più si avvicinava ai canoni estetici occidentali. Cfr. P.COSTA, L. SCALETTARI, La lista del console. Ruanda: cento giorni un milione di morti, Paoline, Milano 2004, pp. 33-37. 123 Il numero delle vittime del genocidio censito dal governo ruandese e diffuso nel dicembre 2001, è di 1.074.017. Cfr. H. ROMBOUTS, Victim Organisations and the Politics of Reparation: A Case-study on Rwanda, Intersentia, Antwerp-Oxford 2004, pp. 145-146.

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VII. Il nemico da uccidere

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byarimana diede mano libera alla parte del governo (Hutu) contraria agli accordi, che affidò la colpa dell’attentato a una non meglio definita organizzazione Tutsu: fu l’inizio dello sterminio di massa, una carneficina fatta porta a porta con i machete, e non solo dei Tutsi, ma anche degli Hutu moderati o di quelli sospettati di aiutare i nemici124. Quella che è stata definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi è in realtà una lotta per il potere125. Un altro conflitto passato per scontro etnico, ma di tutt’altra natura, è stato quella scoppiato nel 1991 nell’ex Jugoslavia, una serie di guerre al massacro di tutti contro tutti, coinvolgendo sia le etnie sia le fedi religiose: croati contro bosniaci, bosgnacchi (bosniaci musulmani) contro serbo-bosniaci (ortodossi), serbi (ortodossi) contro croati (cattolici) e bosniaci non ortodossi; poi kosovari albanesi contro kosovari serbi, poi ancora la NATO contro la Serbia. Oggi sappiamo che a incitare al massacro non è stata la mancanza di volontà dei diversi gruppi etnici di continuare vivere insieme, bensì la volontà politica di separazione. Durante i conflitti che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia, la comunità internazionale ha prontamente diviso le parti in lotta in carnefici e vittime: i carnefici hanno avuto quasi sempre il volto dei serbi, le vittime sono state i bosniaci musulmani. In realtà il confine tra buoni e cattivi non è stato così netto come si vorrebbe126. Sicuramente le vittime bosgnacche sono state molto più numerose rispetto a quelle da parte serba e croata, tuttavia una barbarie non si misura con i soli numeri. Nessuno fu esente 124

Cfr. A. GUICHAOUA, From War to Genocide. Criminal Politics in Rwanda, 1990–1994, University of Wisconsin Press, Madison (Wisconsin) 2015, pp. 214-240; K. SINEMA, Who Must Die in Rwanda’s Genocide? The State of Exception Realized, Lexington Books, Lanham 2015, pp. 97-129. 125 Cfr. Cfr. D. SCAGLIONE, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, EGA, Torino 2003. 126 Cfr. M. COLLON, Poker menteur, EPO, Bruxelles 1998; J. ELSÄSSER, Kriegsverbrechen. Die tödlichen der Bundesregierung und ihre Opfer im Kosovo-Konflikt, K.V.V. Konkret, Hamburg 2000, trad. it. Menzogne di guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli 2002; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade. Yugoslavia, NATO and Western Delusions, Monthly Review Press, New York 2002.

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dalla brutalità durante la guerra, come ha stabilito il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia127. Pur di ottenere o conservare una fetta di territorio, non si è esitato finanche a uccidere i civili appartenenti alle proprie comunità. Ibran Mustafic, già deputato musulmano del Partito dell’Azione Democratica al Parlamento della Bosnia-Erzegovina, riferisce non solo dell’armamento da parte di alcuni Stati occidentali ai musulmani bosniaci, nonostante il divieto dell’ONU, e, soprattutto, di crimini di massa da parte dell’esercito bosniaco musulmano rivolti ai serbi della Bosnia, ma anche alla loro stessa popolazione128. Le stragi sui civili del Markale (mercato) di Sarajevo del 5 febbraio 1994 (68 morti e 144 feriti) e del 28 agosto 1995 (43 morti e 75 feriti), cause scatenanti l’intervento militare della NATO contro i serbo-bosniaci e la Serbia, pare siano stati compiuti dagli stessi bosniaci, almeno così rivelano alcuni testi al Tribunale dell’Aia129. Cessate le ostilità militari, ancora oggi in quelle zone dell’ex Jugoslavia si è in guerra contro la verità. Anche il sanguinoso conflitto in Darfur è stato ricondotto al solo scontro etnico e religioso. Sicuramente la complessità etnica di quest’area dell’Africa, che storicamente ha determinato una contrapposizione tra le popolazioni contadine sedentarie (di origine africana) e le tribù di pastori nomadi (di origine araba), ha reso questa regione un territorio instabile, tuttavia le ragioni devono essere ricercate soprattutto nei motivi economici e politici. Se un tempo erano presenti dispositivi di risoluzione delle 127

I documenti dell’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia in http://www.icty.org/. 128 Cfr. I. MUSTAFIĆ, Planirani haos 1990-1996, UG Majke Srebrenice i Podrinja, Sarajevo 2008. Ibran Mustafic è stato oggetto di diversi attentati dopo la pubblicazione del libro 129 Tra questi il testimone KW-568, un membro delle unità speciali bosniache musulmane. Il teste, nel periodo in cui aveva l’incarico di garantire la sicurezza durante le riunioni del corpo governativo bosniaco, ascoltò i piani militari prospettati durante le riunioni, tra cui attacchi terroristici sugli stessi bosniaci musulmani nel Markale di Sarajevo e a Srebrenica, al fine di accusare i serbi e ottenere un intervento della NATO in loro favore. Cfr. The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, The Prosecutor v. Ratko Mladić. Case No. IT-09-92-T, 16 February 2015, p. 123.

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VII. Il nemico da uccidere

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contese, come il consiglio dei vecchi delle tribù e la creazione di nuovi legami familiari attraverso matrimoni incrociati, con l’arrivo dei coloni britannici è attuata la politica del “divide et impera”, rendendo inefficaci questi codici tribali. Il golpe militare del 30 giugno 1989, che porta al potere il colonnello Omar Hasan Ahmad al-Bashir, determina un regime dominato dal Fronte Nazionale Islamico, distanziando sempre più le due anime sudanesi, quella araba e quella non araba. La politica di arabizzazione del Sudan attuata dal nuovo regime, che già determina una guerra civile tra il Nord (prevalentemente arabo e musulmano) e il Sud (africano, cristiano e separatista), condanna le periferie non arabe del Paese all’abbandono politico e all’emarginazione economica. Dopo i primi boicottaggi economici e le formali proteste riferite in Parlamento, al-Bashir sostituisce i membri dell’amministrazione locale con elementi fedeli al regime, instaurando un “Comitato per la Restaurazione dell’Autorità di Stato e Sicurezza in Darfur”. Molti attivisti, oppositori e intellettuali sono arrestati. Parte della popolazione darfuniana, preoccupata di perdere definitivamente il controllo sulle proprie terre, si organizza in movimenti armati130 per combattere il governo centrale: dopo anni di proteste politiche, di frustrazione derivante da una politica di oppressione e di ghettizzazione economica, si passa allo scontro armato a bassa intensità (per lo più piccoli attacchi e attentati contro istituzioni governative presenti in Darfur). Dagli inizi del 2003 la portata degli attacchi ribelli si estende notevolmente e il regime decide di estirpare la cancrena darfuniana. La tattica utilizzata è quella della terra bruciata e della carestia, impiegando sia l’Aeronautica sudanese sia milizie non governative, tra cui i cosiddetti Janjawid131 e la Popular Defence Force132. Gli attacchi ai villaggi Darfuri iniziano di so130

Principalmente nel “Sudan Liberation Movement/Army” e nel “Justice and Equality Movement”. 131 Sono un gruppo di predoni provenienti soprattutto, ma non solo, dai Baggara, allevatori di bovini e dagli Abbala, allevatori di cammelli. Janjawid è un termine coniato dalle vittime del Darfur, rimanda agli antichi predoni della regione (in sudanese ğanğawīd , da ğinn, demone, ğawād, cavallo). 132 Sono una milizia armata, composta da civili e riservisti, che agisce in ap-

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La politica del male

lito con raid aerei dell’Aeronautica sudanese e terminano con l’incursione delle milizie Janjawid, che uccidono, saccheggiano e distruggono tutto. Chi sopravvive non ha altra scelta che lasciare il villaggio ormai distrutto e fuggire per evitare di trovarsi nel raid successivo133. Questa strategia a prodotto oltre due milioni e mezzo di vittime, tra morti (circa 400.000) e profughi134. Per tutto questo, il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir è oggetto di un mandato d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità emesso dal Procuratore della Corte penale internazionale nel marzo 2009135. Il sanguinoso conflitto che scoppia in Siria nel marzo del 2011 può essere considerato una “mini guerra mondiale”, per gli attori coinvolti e per le grandi atrocità sui civili. Sulla scia della “Primavera araba”136, che chiedeva al regime di Bashar alAssad un cambiamento sociale, economico e politico, la protesta si trasforma in guerra civile, per poi tramutarsi in qualcosa di più grande137. Infatti, le ingerenze di numerosi Paesi esteri hanno influenzato notevolmente le sorti del conflitto, incremen-

poggio alle forze armate convenzionali. 133 Cfr. N.R. BASSIL, The Post-Colonial State and Civil War in Sudan. The Origins of Conflict in Darfur, I.B. Tauris, London 2012. 134 Cfr. E. REEVES, How many dead in Darfur?, «The Guardian» 20 August 2007, https://www.theguardian.com/commentisfree/2007/aug/20/howmanydea dindarfur. 135 Sul dramma del Darfur cfr. S. TOTTEN, E. MARKUSEN, Genocide in Darfur. Investigating the Atrocities in the Sudan, Routledge, New York 2006; M. W. DALY, Darfur’s Sorrow. A History of Destruction and Genocide, Cambridge University Press, Cambridge 2007; L. PIERANTONI, Darfur, Chimienti, Manduria (Taranto) 2008. 136 La cosiddetta “Primavera araba” è un insieme di proteste che hanno portato a uno sconvolgimento nel mondo arabo. Ha inizio in Tunisia nel dicembre 2010, per poi estendersi maggiormente a Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Marocco, Algeria, Giordania, Gibuti, Iraq e Siria. Cfr. M. MERCURI, S.M. STORELLI, La primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, Vita e Pensiero, Milano 2012. 137 Cfr. D. FRANCESCHI, La guerra civile siriana. Contesto storico e geopolitico della crisi, «Storico», aprile 2017, http://www.storico.org/africa_ islamici_israele/guerracivile_siria.html.

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VII. Il nemico da uccidere

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tandone le dimensioni e incidendo sul suo protrarsi138. In un difficile contesto geopolitico come quello mediorientale, caratterizzato dalle divisioni interne all’Islam, dagli interessi geoeconomici di USA, Russia e Cina, da convenienze politiche di Francia, Regno Unito, Arabia Saudita, Qatar, Israele, Iran e Turchia, dalle farneticanti pretese del cosiddetto Stato Islamico, il conflitto siriano è divenuto una tragedia internazionale139. La Siria è così sprofondata in una criminale orgia di sangue, con bombardamenti indiscriminati su aree civili, tra cui scuole e ospedali, anche con armi non convenzionali (munizioni a grappolo e incendiarie, al fosforo bianco, al napalm, al cloro, al gas nervino); assedi e distruzioni di intere città; deportazioni in massa; rapimenti e torture; devastazioni del patrimonio storicoculturale del Paese. Un campionario di atrocità commesse da tutte le parti in conflitto che ha fatto venir meno la distinzione tra buoni e cattivi, determinando oltre 500.000 morti, quindici milioni di civili bisognosi di assistenza umanitaria, oltre sette milioni di profughi, una catastrofe umanitaria in cui soprattutto i bambini sono le vittime innocenti della cupidigia degli adulti140. Questo inventario delle atrocità di massa è incompleto, tuttavia fornisce l’idea della lunga storia dei crimini di massa. Anche se ogni caso storico è a sé stante, rispondendo a una propria logica, l’obiettivo resta identico per tutti gli stermini di massa: eliminare il maggior numero di persone. Un programma sterminazionista poco conosciuto e per certi versi sottovalutato dalla comunità internazionale è quello dei Rohingya, una minoranza etnica che abita prevalentemente in Myanmar (Birmania)141. Il termine “rohingya” deriva da Ro138

Cfr. R. CRISTIANO, Siria. L’ultimo genocidio. Così hanno vinto i nemici del dialogo, Castelvecchi, Roma 2017; L. DECLICH, Siria, la rivoluzione rimossa. Dalla rivolta del 2011 alla guerra, Alegre, Roma 2017. 139 Cfr. A. FOFFANO, Siria. La guerra segreta dell’intelligence, Solfanelli, Chieti 2017. 140 Cfr. «The Syrian Observatory for Human Rights», http://www.syriahr.com/en/?p=62760; «Syrian network for human rights», http://sn4hr.org/; «I am Syria», http://www.iamsyria.org/death-tolls.html. 141 Myanmar è il nome imposto dopo il colpo di Stato del 1988.

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La politica del male

hang, denominazione in lingua rohingya dello Stato di Rakhine (precedentemente chiamato Arakan), una regione situata al confine occidentale della Birmania, adiacente all’odierno Bangladesh. Stanziati nel Rakhine già prima che lo Stato birmano conquistasse questa piccola fetta d’Asia142, i rohingya sono considerati dal governo del Myanmar una minoranza etnica estranea, illegittimamente residente nei suoi confini, con l’aggravante di essere di fede mussulmana. Sulla base di questa presunta estraneità della popolazione rohingya al territorio birmano poggia la politica di esclusione dei governi che si sono succeduti dal 1948, anno dell’indipendenza del Paese. Questo ha generato e crea tuttora «oppressione dalla nascita alla morte», come attesta da Ginevra un rapporto della missione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite143. Il criterio di cittadinanza del Myanmar si basa sul concetto di taingyintha (“razze nazionali”). Tale sistema, stabilito a partire dalla Union Citizenship Act del 1948144 e perfezionato con il Burma Citizenship Law del 1982145, riconosce tre tipologie di cittadinanza: piena, associata e naturalizzata. Hanno diritto alla cittadinanza piena coloro le cui famiglie hanno vissuto nel Paese da prima del 1823 (un anno prima della prima guerra anglobirmana); sono invece cittadini associati quelli che hanno ottenuto la cittadinanza con la legge del 1948; i naturalizzati, infine, sono quelli che provano la loro residenza nel Paese antecedente il 4 gennaio 1948 (giorno in cui la Birmania divenne indipendente), ma che hanno fatto domanda di cittadinanza dopo il 142

Cfr. E. GIORDANA, Rohingya, popolo senza frontiere, in E. GIORDANA (a cura di), Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera, Rosenberg & Sellier, Torino 2018, pp. 80-82. 143 UNITED NATIONS - HUMAN RIGHTS COUNCIL, Report of the Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar, 10–28 September 2018, p. 6. 144 Cfr. The Union Citizenship Act - (Act No. LXVI of 1948), in «ibiblio», http://www.ibiblio.org/obl/docs/UNION_CITIZENSHIP_ACT-1948.htm 145 Burma Citizenship Law (Pyithu Hluttaw Larv No 4 of 19BZ), in «Global Citizenship Observatory», http://eudo-citizenship.eu/NationalDB/docs/1982% 20Myanmar%20Citizenship%20Law%20%5BENGLISH%5D.pdf]

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1982. I Rohingya sono esclusi dalle tre categorie, poiché non riescono a produrre le prove documentali necessarie per fare domanda di cittadinanza. Il gruppo rohingya è così escluso dalle 135 “razze nazionali”, diventando di fatto apolide. Di conseguenza i diritti civili e legali sono stati e continuano a essere molto limitati146. I rohingya non possono accedere ai servizi sanitari, non hanno diritto allo studio, al lavoro, al voto, a contrarre matrimonio, a praticare la propria religione, a possedere terreni e proprietà immobiliari, a viaggiare all’interno del Paese senza un permesso speciale. Amnesty International, l’organizzazione internazionale che lotta contro le ingiustizie e in difesa dei diritti umani nel mondo, ha definito «apartheid» il modo in cui vive il popolo rohingya in Myanmar147. I governi del Myanmar considerano i rohingya come immigrati, che in origine vivevano in Bangladesh, e che in seguito si sarebbero spostati in Birmania durante il periodo coloniale britannico. L’aggravante, oltre la religione professata (quella islamica) in un Paese prevalentemente buddhista, è che durante la Seconda Guerra Mondiale, a differenza della maggioranza birmana che supportò le forze giapponesi, i rohingya diedero sostegno militare e logistico alla Gran Bretagna (che aveva promesso la creazione di una loro “area nazionale”). Se dal 1948 al 1962 la situazione non fu molto drammatica, potendo alcuni attestare la presenza della propria famiglia da almeno due generazioni e ricevere carte d’identità provvisorie e ricoprire finanche cariche pubbliche, con le giunte militari che si susseguono dal 1962 al 2011 la politica contro i rohingya degenerò, a tal punto che molti fuggirono in Bangladesh, dove l’ONU diede loro lo status di rifugiati e predispose campi profughi. 146

Cfr. N. CHEESMAN, How in Myanmar “National Races” Came to Surpass Citizenship and Exclude Rohingya, Journal of Contemporary Asia, vol. 47, n. 3, 2017, pp. 461-483. 147 AMNESTY INTERNATIONAL, Myanmar: Rohingya trapped in dehumanising apartheid regime, in «amnesty.org», 21 November 2017, https://www.amnesty.org/en/latest/news/2017/11/myanmar-rohingya-trappedin-dehumanising-apartheid-regime/

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La politica del male

La creazione di organizzazioni politiche e militari tra i rohingya (tra le quali l’Esercito di Liberazione dell’Arakan, l’Organizzazione Nazionale Arakan Rohingya, il Fronte Islamico Arakan Rohingya, l’Organizzazione di Solidarietà Rohingya, l’Esercito Islamico Rohingya, l’Organizzazione di Liberazione Islamica Rohingya, il Fronte Islamico Arakan Rohingya, l’Esercito Nazionale Rohingya, l’Harkat-ul-Mujahidin e il Jihad Islamico di Birmania)148, che attuano un’energica guerriglia, giustifica l’indiscriminata repressione da parte delle forze militari birmane, anche con bombardamenti di interi villaggi, uccisioni sommarie, stupri di massa ed espulsioni in grande stile. Alla persecuzione statale si aggiungono anche gli estremisti buddhisti, che alimentano il fuoco dell’intolleranza. I rohingya dunque vivono un crescendo di violenza prodotto dalla volontà di distruzione di questo popolo. La violenza è così spietata e permanente che l’ONU ha usato più volte il termine «pulizia etnica»149. Il Tribunale permanente dei popoli, il foro d’opinione internazionale finalizzato alla promozione dei diritti umani, nella sessione realizzata dal 18 al 22 settembre 2017 a Kuala Lumpur (Malesia), nella facoltà di legge dell’Università di Malaya, si è spinto a utilizzare il termine “genocidio”, denunciando appunto lo sterminio di massa commesso contro i Rohingya, altri crimini contro l’umanità commessi sempre contro i Rohingya, ma anche nei confronti di gruppi musulmani del Myanmar e contro gli Kachin, quest’ultimo minoranza buddhista residente maggiormente nel Nord nello Stato del Kachin, che aspira al riconoscimento di uno Stato autonomo sia pure nell’ambito di una strut-

148

Cfr. S. SERAJUL ISLAM, State Terrorism in Arakan, in T.H. TAN (ed), A Handbook of Terrorism and Insurgency in Southeast Asia, Edward Elgar, Cheltenham (UK)-Northampton (USA) 2007, pp. 327-335. 149 UN human rights chief points to ‘textbook example of ethnic cleansing’ in Myanmar, in «UNNews», 11 September 2017, https://news.un.org/en/story /2017/09/564622-un-human-rights-chief-points-textbook-example-ethniccleansing-myanmar; ‘No other conclusion,’ ethnic cleansing of Rohingyas in Myanmar continues – senior UN rights official, in «UNNews», 6 March 2018, https://news.un.org/en/story/2018/03/1004232.

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tura realmente federale della Birmania150 e lo sterminio di massa commesso contro i Rohingya151. Nel 1991, la liberazione di Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti umani e destinataria del Nobel per la pace nel 1991, e il suo successivo insediamento nelle “stanze birmane del potere”, aveva portato una ventata di speranza tra i rohingya e le altre minoranze etniche perseguitate in Myanmar. I suoi discorsi di democrazia, giustizia, autonomia lanciati durante gli anni della dittatura militare, purtroppo sembrano valere solo per una parte dell’umanità e i rohingya restano un popolo fantasma costretto a sopravvivere tra indifferenza e angherie. L’immobilismo della comunità internazionale, poi, capace solo di lanciare accuse e proclami, rimane inqualificabile.

150

I rohingya tuttavia restano il popolo più martoriato. Cfr. PPT, State Crimes Allegedly Committed in Myanmar against the Rohingyas, Kachins and Other Groups, in «Permanent Peoples’ Tribunal», 18-22 September 2017, Kuala Lumpur, Malaysia, http://permanentpeoplestribunal.org/wp-content/uploads/ 2017/11/PPT-on-Myanmar-Judgment-FINAL.pdf, pp. 12-20. 151 Cfr. Ivi, pp. 20-27.

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Capitolo VIII

Il nemico ucciso

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8.1 Sulla morte Spesso si commette l’errore di considerare la morte come l’opposto della vita, dimenticando che è la nascita l’opposto della morte. Entrambe, nascita e morte, sono fasi liminari della vita, gli unici assoluti di una vita: sei morto perché sei nato, nasci per poi morire. Tra tutti gli esseri viventi, l’essere umano è l’unico a possedere la consapevolezza di dover attraversare queste due fasi liminari, quindi di dover morire: Tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte e onnipresente durante tutta la sua vita […]; la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede, alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti: in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura.1

I modi di definire e analizzare la morte variano diametralmente da cultura a cultura. Sin dall’inizio della civiltà, la morte è ritenuta un fenomeno estraneo all’originaria natura dell’uomo. Questo spiega i numerosissimi miti che sono nati per decifrare 1

L. V. THOMAS, Anthropologie de la mort, Payot, Paris 1975, trad. it. Antropologia della morte, Milano, Garzanti, 1976, p. 10.

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in qual modo essa, modificando una condizione primordiale, sia entrata nel mondo. Tale mutamento ha avuto origine da alcuni avvenimenti mitici collegati al peccato e alla violazione di un tabù posto all’origine (come nell’ebraismo e nel cristianesimo), oppure da una maledizione divina, oppure ancora da alcuni circostanze mitologiche che introducono la morte nel mondo indipendentemente dalla volontà degli uomini (religioni animiste)2. In molte religioni, poi, la morte è intesa come un “passaggio” verso un’altra vita con o senza Dio, quindi con la morte la vita non è tolta ma solo trasformata3. La dipartita di una persona non riguarda unicamente l’individuo che muore, ma entrano in gioco altri fattori, quali i parenti superstiti, il gruppo sociale (o il clan o la tribù per le società primitive) nel quale il defunto aveva vissuto. Per questo la morte è considerata un “fatto sociale”, un avvenimento che determina una crisi, non soltanto nel gruppo familiare, ma anche in quello più ampio della stirpe, del clan, della tribù, della società locale: Il disordine ontologico rappresentato dalla morte si traduce in un disordine sociale (separazione, dolore e lutto) […] Il disordine della morte sarebbe irrimediabilmente rovinoso se il gruppo non proponesse qualche soluzione. Per fargli perdere forza distruttiva diverse sono le possibilità nelle quali il simbolo trova efficacia4.

La morte, dunque, distrugge non solo la “persona fisica” ma anche la “persona sociale”, quindi il rapporto dell’individuo con 2

Cfr. F.P. DE CEGLIA (a cura di), Storia della definizione di morte, FrancoAngeli, Milano 2014. 3 Anche se ciascuna religione trova vie differenti per elaborare il concetto di morte, in generale la maggior parte delle confessioni offrono “passaggi in altre vite” dopo la dipartita. Cfr. J. BOWKER, The meanings of Death, Cambridge University Press, Cambridge 1991, trad. it. La morte nelle religioni: ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, buddismo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1996; L. CRIPPA, Inferni e paradisi. Viaggio oltre la morte, Piemme, Milano 2007. 4 L.V. THOMAS, Antropologia della morte cit., pp. 460–461.

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VIII. Il nemico ucciso

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il suo gruppo e di conseguenza l’equilibrio dinamico della vita collettiva. Il “vuoto sociale” creato dalla dipartita di qualcuno dipende dalla posizione che il defunto aveva nella vita della società e dei gruppi di appartenenza. Per questo, per affrontare e superare l’evento morte e colmare il “vuoto sociale”, le società hanno strutturato nel corso della storia una serie di rituali utili alla elaborazione del lutto: l’ultimo saluto, i riti delle esequie, il lamento e il pianto rituale, i necrologi, le espressioni di condoglianze da parte di amici, le cerimonie religiose, sono tutte liturgie che servono sia all’elaborazione del lutto sia a esprimere il sentimento di una relazione tra chi è morto e chi vive, legame che termina così solo materialmente5: I riti funebri servono, senza dubbio, a compiere una separazione rituale tra i vivi e i morti, ma servono innanzitutto a separare l’immagine del defunto dal cadavere a cui resta legata al momento del decesso.6

I rituali funebri diventano di conseguenza riti di separazione e riti di aggregazione, attraverso i quali al defunto è garantita una nuova forma di esistenza sociale7. Infatti, le successive “cerimonie del ricordo” sono legate non tanto alla morte di quella persona, quanto alla sua vita. I riti del lutto e del cordoglio, le cerimonie di commiato e del ricordo sono quindi l’esito di un profondo processo culturale che, variando secondo il periodo storico e il contesto geografico 5

Cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002 (ed. or.: 1958); A. M. Di Nola, La Morte trionfata. Antropologia del lutto, Newton Compton, Roma 1995. In breve il mio La morte: riti, credenze e usanze per demonizzarla, in «Storia in Network», n. 180, ottobre 2011, http://win.storiain.net/arret/num180/artic1.asp 6 R. POGUE HARRISON, The Dominion of the Dead, University of Chicago Press, Chicago 2003, trad. it., Il dominio dei morti, Fazi, Roma 2004, p. 157. 7 I riti funebri appartengono a una categoria che l’antropologo Arnold van Gennep ha definito “riti di passaggio”. Cfr. il suo Les rites de passage, Ėmile Nourry, Paris 1909, trad it., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

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e religioso di riferimento, indicano una sola funzione: trasformare lo stato negativo di defunto in quello positivo di morto.

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8.2 Il corpo morto Necessità fondamentale per l’elaborazione del lutto è la presenza del corpo morto. Attraverso il corpo morto si formalizza la morte, dando senso al percorso della vita, con un suo preciso inizio e una ineluttabile fine. Pur nel suo apparente non-essere, il corpo morto è vivo, continua a essere denso di significati, per questo richiede precise e particolari attenzioni. Seppur manca di consapevolezza, il corpo morto seguita a mantenere un’identità, proseguendo a interloquire con quanti erano in relazione con quel corpo quando era in vita. Col corpo e nel corpo ci mostriamo in vita; col corpo e nel corpo ci mostriamo nella morte. Anche nella morte il corpo ha sempre un “resto di umanità”: L’attenzione rituale che universalmente circonda i cadaveri (e che pare connessa alla stessa origine filogenetica dell’essere umano), nasce dal fatto che essi sono “resti” di umanità e non semplici residui organici. […] Gli investimenti culturali e affettivi di cui i corpi sono oggetto in vita non si dissolvono del tutto al sopraggiungere della morte: nei resti risuona ancora, anche se in dissolvenza, l’eco dell’umanità in essi scolpita.8

Come in vita, anche nella morte il corpo è titolare dei diritti personali, norme inalienabili. Al momento della morte così i diritti personali si trasformano, ma non si esauriscono, sancendo il diritto nella morte. Per questo in molte legislazioni nazionali il vilipendio del cadavere, ossia l’oltraggio di un corpo morto o 8

A. FAVOLE, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 22.

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delle sue ceneri e la sua mutilazione o deturpazione, è considerato un reato9. Poiché il corpo resta in ogni caso un vettore di relazione e aggregazione sociale, diventa significativo il ruolo svolto dai resti mortali nella storia delle varie società umane. Se alcuni popoli preferiscono distruggere il cadavere dopo adeguati riti o mangiarlo, altri optano per la sua tumulazione, altri ancora per la sua conservazione e trasformazione10. Tutte queste procedure trasformano la morte da una drammatica assenza a una confortante presenza interiore. In breve. La cremazione risponde alla necessità di evitare la sconcertante putrefazione, mentre l’esposizione agli agenti atmosferici o alla rapacità degli animali selvatici procurava l’accelerazione del processo di decomposizione. Attraverso il cannibalismo si assimilavano le qualità e le virtù della persona deceduta (parente, membro del villaggio o nemico di guerra). La tumulazione serve per assegnare un luogo fisico al defunto, divenendo la nuova “casa” del caro estinto, lo spazio simbolico dove vive il morto e dove recarsi per “incontrarlo”. La mummificazione del defunto rispettava l’esigenza di preservare nel tempo il corpo, mentre la trasformazione del corpo in reliquie, ossia l’asportazione di parti della salma e la conversione in preziosi oggetti di culto con formidabile valenza simbolica, innesca il duplice significato di memoria e venerazione, diventando in generale veicolo del sacro, attestando così il fondamentale nesso fra corpo e vita anche nella morte11. Distrutto, ingerito, trasformato o conservato, il corpo morto non è dunque mai abbandonato al proprio destino. Per questo 9

In Italia tale reato è contemplato nell’art. 410 del Codice penale. Cfr. R. HUNTINGTON, P.METCALF, Celebrations of death. The anthropology of mortuary ritual, Cambridge University Press, Cambridge 1979, trad. it. Celebrazioni della morte. Antropologia dei rituali funebri, il Mulino, Bologna 1985; F. REMOTTI (a cura di), Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Mondatori, Milano 2006. 11 Cfr. L. CANETTI, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Viella, Roma 2002; A LOMBATTI, Il culto delle reliquie. Storia, leggende, devozioni, SugarCo, Milano 2007. 10

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l’assenza del corpo morto non solo ha effetti devastanti per la famiglia e la comunità di appartenenza, entrambi impossibilitati sia a elaborare il lutto sia a costruire una memoria, ma assume un carattere offensivo alla dignità personale del defunto. In questo modo annullando il cadavere la morte diventa incompiuta, avviando un processo di allontanamento del morto dalla morte: il corpo morto che non c’è diventa così un corpo senza morte.

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8.3 Il corpo del nemico ucciso La morte chiama in causa anche i corpi del nemico ucciso. La guerra è più che mai il feudo della morte, la morte dell’amico e quella del nemico12. Se il corpo dell’amico ucciso è venerato e ostentato come eroe13, quella del nemico è spesso oltraggiato, di frequente seppellito in massa, raramente rispettato14. Entrambi i corpi, quello dell’amico e quello del nemico, diventano strumento narrativo a favore dell’uso politico. Il corpo morto del soldato amico ha come obiettivo quello di restaurare nel popolo un nuovo senso di comunione, una unità mistica che costruisce e alimenta la nuova “religione della Patria”. […] Il corpo del soldato anche nella rigidità della sua morte serve alla Patria, comunica, parla a chi resta come se fosse vivo: anche se egli non è più utile ai fini della battaglia, come guerriero, ora è testimone ed è affidato alla terra che lo ha visto nascere, affinché fiorisca nella realtà come superbo e immortale protagonista della storia della Nazione.15

12

Cfr. C.R. GAZA, Morire, uccidere: l’essenza della guerra, FrancoAngeli, Milano 2014. 13 Cfr. G.L. MOSSE, Fallen soldiers. Reshaping the memory of the World Wars, Oxford University Press, New York 1990, trad. it. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 2007. 14 Utile sull’argomento è G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006. 15 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, pp. 285-286.

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Per questo il corpo morto del soldato amico è onorato, seppellito con tutti gli onori, spesso tumulato in mausolei comuni, trasformando il lutto privato in collettivo16. Diversa è la considerazione sul nemico ucciso, la cui qualifica di avversario resta imprigionata anche nel corpo morto: si è nemici da vivi e anche da morti. Per questo non merita particolari attenzioni, molte volte è seppellito in fosse comuni, spesso è ostentato come bottino di guerra, di frequente è anche oltraggiato. Ammassare in anonime fosse comuni i corpi dei nemici uccisi ha la doppia funzione di occultare un crimine di massa e, al tempo stesso, diventa una necessaria procedura per smaltire il gran numero di morti, eliminando l’identità dei corpi. La promiscuità nella morte cancella la dignità della vittima, un nome mischiato ad altri nomi, una vita morta mescolata con altre vite morte, un trapasso indegno come quello dei “coinquilini” di quell’anonima tomba: La fossa comune, senza segni, senza nome, senza lutto, riconduce i corpi alla loro nuda essenza minerale, strappa da quelle spoglie fino all’ultimo brandello di umanità, viola la sacralità dei confini che la comunità ha perimetrato con le sue tombe.17

Se il corpo morto dell’amico è esposto a testimonianza di un martirio e, soprattutto, per dar prova della malvagità dell’avversario, per un rovesciamento simmetrico, il corpo del nemico ucciso è esibito per sfregio, per ammonire, per terrorizzare, per ostentare una volontà di potenza. Pratica in uso sin dall’antichità, l’esibizione del cadavere del nemico ha rivestito nel corso della storia un significato partico16

Il termine “mausoleo” nasce in riferimento alla maestosa tomba di Mausolo, satrapo della Caria anatolica, eretta ad Alicarnasso (l’odierna Bodrum) intorno al 350 a.C.. Il sepolcro è così maestoso, è considerato una delle sette meraviglie del mondo, che da allora tutti i monumenti funebri hanno preso questo nome. 17 G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso, cit., p. 243.

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lare, manifestando una specifica intenzione di chi lo compie18. A volte non basta uccidere il nemico, la sua morte deve assumere valore pedagogico, deve comunicare un’intenzione, una volontà. Ecco, allora, che il cadavere del nemico è messo alla berlina come monito per chi non si conforma a un potere precostituito, come simulacro di un potere decaduto, come materia inerte di vendetta, come dominio assoluto dell’uccisore. La storia pullula di accanimenti post-mortem di illustri cadaveri. Tra gli esempi contemporanei più clamorosi c’è quello di Benito Mussolini, esposto con la sua amante e alcuni suoi gerarchi nel piazzale Loreto a Milano. L’episodio ricorda cosa accadde al tribuno romano Cola di Rienzo che nel 1354, mentre cercava di fuggire travestito da popolano cencioso, fu riconosciuto e condotto nella chiesa di Santa Maria in Ara Coeli per essere processato, ma qui Cecco dello Viecchio lo accoltellò a morte. Trascinato il cadavere sino alla chiesa di San Marcello, fu appeso per i piedi, restando al pubblico ludibrio dei romani per due giorni e una notte. Il terzo giorno fu trascinato presso il Mausoleo di Augusto e qui bruciato. Le sue ceneri furono poi disperse19. L’ingloriosa fine di Mussolini fu un evento accessorio rispetto ai fatti precedenti. Esporre i cadaveri degli antifascisti era stata una moda del regime, una sanzione che ostentava il disprezzo per il nemico. Il 10 agosto 1944, proprio nel piazzale milanese furono lasciati in bella mostra, gettati sul marciapiede sotto il sole estivo coperti da mosche, quindici detenuti politici appena fucilati20. Il 29 aprile 1945 le parti si invertirono e proprio Mussolini, quindici gerarchi fascisti, la sua amante Claretta 18

R. BONDÌ, Homo moriens. Ermeneutiche della morte da Omero a oggi, Pellegrini, Cosenza 2006, pp. 69-77. 19 Cfr. Anonimo romano [Bartolomeo di Iacovo da Valmontone], Cronica. Vita di Cola di Rienzo, 1357 o 1358, cap. XXVII, http://www.classici stranieri.com/liberliber/Cronica%20-%20Vita%20di%20Cola%20di%20 Rienzo/cronic_p.pdf 20 G. SCIROCCO, Piazzale Loreto, 10 agosto 1944, in C. FIAMINGO (a cura di), Culture della memoria e patrimonializzazione della memoria storica, Unicopli, Milano 2014, pp. 127-143.

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Petacci e suo fratello Marcello, fucilati il giorno prima (tranne Achille Starace, ucciso quella stessa mattina in piazza) furono scaricati nel piazzale milanese e lasciati al pubblico disprezzo della folla inferocita. Sui cadaveri cominciò lo scempio della folla assetata di vendetta, con calci, sputi, colpi di pistola. L’enorme afflusso di persone fece decidere di issare i cadaveri sulla tettoia di un distributore di benzina per accontentare sguardi lontani. Per spregio i corpi furono appesi a testa in giù. Quello spettacolo volle confermare la morte del dittatore, lanciando un messaggio: il fascismo era fallito21. La storia si è poi ripetuta con il presidente della Liberia Samuel Kanyon Doe, ripreso in video legato mentre è torturato, ucciso e smembrato il 9 settembre 1990 da miliziani comandati da Prince Johnson, un altro signore della guerra, e poi mostrato pubblicamente nudo in una piazza di Monrovia22; con il Conducător romeno Nicolae Ceaușescu e sua moglie Elena, “padroni” della Romania dal 1965 al 1989, fucilati “in diretta” il 25 dicembre del 1989 dopo un processo farsa e poi mostrati al pubblico23; con il despota iracheno Saddam Hussein, impiccato il 30 dicembre 2006 e ripreso in due video amatoriali, di cui quello con audio testimonia il giubilo e lo scherno dei presenti24; con il dittatore libico Mu’ammar Gheddafi, che il 20 ottobre 2011 è malmenato e offeso dai ribelli che lo hanno scovato nascosto in una tubatura di cemento sotto l’autostrada, poi ucciso con un colpo alla tempia sparato dalla sua stessa pistola d’oro, infine adagiato su un materasso all’interno della casa di un ri21

Cfr. S. LUZZATTO, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Einaudi, Torino 1998, ora 2011; S. BERTOLDI, Piazzale Loreto, Rizzoli, Milano 2004. 22 Cfr. S. Ellis, The Mask of Anarchy: The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of African Civil War, New York University Press, New York 2006, pp. 9-11 (orig. 1999). 23 Cfr. G. CARTIANU, Sfarsitul Ceausestilor. Sa mori impuscat ca un animal salbatic, Adevarul Holding, Bucuresti 2010, trad. it. La fine dei Ceausescu. Morire ammazzati come bestie selvatiche, Aliberti, Reggio Emilia 2012. 24 I due video sono ancora presenti su internet, ma evito di segnalare i collegamenti ipertestuali.

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belle ed esposto al pubblico25. Nell’accanimento sul corpo morto dell’ex tiranno caduto in disgrazia è manifesta la vendetta da parte di chi ha subito l’oppressione, mentre nell’esposizione pubblica del cadavere c’è la volontà di dimostrare pubblicamente che la sua tirannia è cessata. C’è così la doppia morte: l’esecuzione pubblica del tiranno e l’uccisione del simbolo che rappresenta, in entrambi i casi con scherno pubblico. Diverso è stato il trattamento del mai pentito nazista Erich Priebke, condannato nel 1998 all’ergastolo per crimini di guerra, ma quasi subito posto alla detenzione domiciliare per la sua età avanza. Nel 2009 gli è concesso finanche il permesso di uscire di casa per alcune ore alla settimana per affrontare “indispensabili esigenze di vita”. Priebke non è mai stato oggetto di azioni violente nelle sue brevi uscite. Morto per malattia nell’ottobre 2013 in una comoda casa all’età di cento anni, in occasione delle sue esequie il suo feretro è stato “salutato” con sputi, calci, pugni, urla e bestemmie26. Se pur comprensibile, la giustizia sommaria o il dileggio di un cadavere non sono mai la via giusta, poiché soddisfano solo il momentaneo piacere della vendetta, ma non il duraturo principio della giustizia: sic transit gloria mundi. 8.4 Il nemico da mangiare Non tutte le storie che si raccontano sui cannibali sono vere, molte sono frutto di equivoci culturali o peggio di discrediti contro presunti nemici. Ad esempio l’accusa di sangue rivolta periodicamente agli ebrei27, oppure le maldicenze medievali 25

Pure per il Raìs c’è un video ancora presente in internet dei suoi ultimi istanti di vita, mentre è offeso, picchiato, ucciso ed esposto. Anche per Gheddafi evito di segnalare i collegamenti ipertestuali riferiti al video. 26 Cfr. La Stampa Tv, Calci e sputi contro il feretro di Priebke, 15 ottobre 2013, http://www.lastampa.it/2013/10/15/multimedia/italia/calci-e-sputicontro-il-feretro-di-priebke-BYrxTifEyxXBw60cAexUfO/pagina.html 27 Cfr. F. JESI, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Bol-

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sulle streghe “mangia bambini”, oppure ancora le insinuazioni antropofaghe sui comunisti28, sono tutte diffamazioni create per scopi ideologici, politici, razziali e religiosi. Già l’origine etimologica del termine è probabilmente frutto di una incomprensione. La parola “cannibale”, infatti, deriva da canniba, vocabolo con cui gli indigeni americani delle Piccole Antille designavano certi popoli che per la loro ferocia furono accusati anche di mangiare carne umana. Colombo, in una relazione scritta al ritorno dal primo viaggio alle Antille, cita questo popolo come “Canibales”, puntualizzando che non ha incontrato di persona questi “mostri” e ne ha solo sentito parlare. La pratica di mangiare un proprio simile ha sempre un significato simbolico. Infatti, l’orizzonte cannibale […] è un elemento costitutivo della cultura, di tutte le culture in diverso grado. A questo titolo è produttore di pratiche sociali, culturali, politiche e religiose e si manifesta nelle forme più varie: il mito, il racconto, l’attività artistica, le produzioni inconsce, l’espressione amorosa, la manifestazione delle identità, i simboli religiosi, le relazioni di potere, le rappresentazioni del corpo e della malattia, lo spazio della parentela29.

Non dimentichiamo che da un punto di vista psicologico, anche se in modo “occulto”, il cannibalismo è ancora presente nel nostro quotidiano. Non per nulla, nel nostro linguaggio l’espressione “ti mangerei” rivolta al partner o ai propri figli piccoli è assai frequente, senza dimenticare la messa in atto di questi comportamenti, come i morsetti affettuosi o di passione, oppure giocare con i propri figli “a mangiare il pancino”. Anche lati Boringhieri, Torino 2007. 28 Cfr. S. PIVATO, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, il Mulino, Bologna 2015. 29 M. KILANI, Cannibalismo e antropoiesi o del buon uso della metafora, in AA.VV., Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Meltemi, Roma 2005, p. 276 (orig. Figures de l’bumain. Les représentations de l’antbropologie, Éditions de l’Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales, Paris 2003).

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mangiarsi le unghie, o mordersi l’interno delle guance, può definirsi come un atto cannibalico (precisamente autocannibalismo). Il cattolicesimo, infine, ha finanche istituzionalizzato, sia pure a livello simbolico, il cannibalismo magico e rituale, in quanto nel sacramento dell’eucaristía (comunione) si permette al fedele di mangiare il corpo e bere il sangue di Cristo per assimilarne forza e spirito. L’antropologo tedesco Ewald Volhard, collocando il fenomeno cannibalico in un ampio contesto simbolico, classifica il cannibalismo in: profano, giuridico, magico e rituale. In breve: il cannibalismo profano è privato e non ha particolari significati impliciti, poiché si tratta di consumare carne umana per esigenze alimentari o per desiderio; quello giuridico è una sanzione sociale che riguarda il nemico interno, colui che si è macchiato di particolari crimini ed è per questo condannato ad essere divorato dalla tribù di appartenenza; quello magico si spiega con la credenza di assumere qualità e virtù particolari della vittima consumandone le sue carni; quello rituale serve per ingraziarsi le divinità soprattutto in occasione di trionfi di guerra30. Proprio in un contesto bellico primitivo, cibarsi del nemico significa assorbirne le sue virtù e la sua energia, quindi aver rispetto e onore per il nemico, oppure per dimostrare il suo annientamento totale31. 8.5 Il corpo morto da dissolvere La massima celebrazione della “morte incompiuta”, quella in cui appunto manca il corpo morto, sono stati i forni crematori dei Vernichtungslager nazisti e la desaparecion in America Latina. 30

Cfr, E. VOLHARD, Kannibalismus, Strecker und Schroder, Stuttgart 1939, trad. it. Il cannibalismo. Civiltà, cultura, costumi degli antropofagi nel mondo, Res Gestae, Milano 2013. 31 Cfr. J. GUILAINE, J. ZAMMIT, Le Sentier de la guerre. Visages de la violence préhistorique, Éditions du Seuil, Paris 2001, trad. eng. The Origins of War. Violence in Prehistory, Blackwell, Oxford and Maiden 2005, pp. 41-49.

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La traduzione in italiano di Vernichtungslager, ossia campi di sterminio, non rende a sufficienza la radicalità del termine: Vernichtung in tedesco ha un significato ancora più crudele di “sterminio”, vuol dire “trasformare qualcosa in nulla”. Infatti, nei Vernichtungslager si trattò di annientare una parte della Umanità, di cancellare ogni traccia riferita a esseri considerati Untermensch (sub-umani), annichilendo persino la loro morte. I Vernichtungslager nazisti furono l’ultimo anello di una politica razzista e criminale nei confronti di ebrei, rom, sinti, serbi e altre categorie di persone. Questi centri di annientamento furono la realizzazione storica più efferata della biologizzazione della politica. Il nazismo raccoglie il pensiero razzista già presente in Europa32, portandolo ai suoi esiti estremi. Se gli ebrei furono da sempre identificati come il male assoluto da estirpare, i cosiddetti zigeuner (zingari) furono considerati dapprima geneticamente dei pericolosi “asociali”, poi di “razza decaduta”. Infatti, quando il medico e psicologo tedesco Robert Ritter, uno dei più importanti e attivi teorici della razza e direttore della “Unità di Ricerca di Igiene Razziale e di Biologia Demografica” sotto il nazismo, appurò che per la loro origine indiana e l’appartenenza linguista al ceppo indoeuropeo, Rom e Sinti sono ariani esattamente come i tedeschi, superò questa imbarazzante scoperta sostenendo che durante gli incessanti spostamenti si erano “contaminati” con altri popoli: per questo fu deciso di dichiararli “ariani decaduti”33, proponendo la loro sterilizzazione forzata. Lo storico Guenter Lewy propone la categoria di politica genocidaria, proprio in virtù della sterilizzazione forzata a cui furono sottoposti34. Anche la loro natura asociale ebbe basi scientifiche: 32

Cfr. G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, cit., pp. 3-62. 33 Cfr. F.M. FELTRI, Per discutere di Auschwitz. Le domande perenni, le tendenze della ricerca, i problemi ancora aperti, Giuntina, Firenze 1998 pp. 1722. 34 Cfr. il suo The Nazi Persecution ofthe Gypsies, Oxford University Press, Oxford 2000, trad. it. La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002, pp. 318-326.

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nel 1943 Eva Justin, assistente del Ritter, nella sua tesi di dottorato35 elaborò una teoria sulla presenza nel sangue zingaro del “gene del Wandertrieb” (particella cromosomica del vagabondaggio), confermando l’irrecuperabilità della “razza zingara”36. L’8 dicembre1938, Heinrich Himmler emanò un decreto concernente la «lotta contro la piaga zingara», con cui si ribadiva la pericolosità dei Rom e Sinti e la necessità di inviare tutte le informazioni su di loro ai vari dipartimenti di polizia, sottolineando che i «risultati delle ricerche biologiche-razziali» dimostrano che il problema degli zingari deve essere risolto come «una questione razziale” e, pertanto, «il trattamento della questione zingara è parte del compito nazionalsocialista di rigenerazione nazionale»37. Con le basi scientifiche e le direttive politiche si aprì la tragica strada verso il Porrajmos, lo sterminio dei Rom e Sinti38. La storia degli ebrei è costellata di persecuzioni. Massacri e migrazioni forzate di ebrei avvennero, di tempo in tempo, ovunque39. Hitler e i suoi accoliti raccolsero l’antisemitismo già 35

La tesi di dottorato di Eva Justin (Lebensschicksale artfremd erzogener Zigeunerkinder und ihrer Nachkommen) in «Schweizerisches Institut für Antiziganismusforschung» http://www.sifaz.org/eva_justin_dissertation_artfremd_erzogene_zigeunerkin der_1943.pdf 36 Cfr. B. MULLER-HILL, Tödliche Wissenschaft. Die Aussonderung von Juden, Zigeunern und Geisteskranken 1933-45, Rowohlt, Hamburg 1984, trad. it., Scienza di morte. L’eliminazione degli ebrei, degli zigani e dei malati di mente (1933-1945), Ets, Pisa 1989, pp. 70-75; H. FRIEDLANDER, The Origins of Nazi Genocide. From Euthanasia to the Final Solution, The North Carolina University Press, Chapel Hill 1995, trad. it. Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Editori Riuniti, Roma 1997. pp. 352-354. 37 La circolare di Himmler in M. Burleigh, W. Wippermann, The Racial State. Germany 1933–1945, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 12021. 38 Sul Porrajmos cfr. anche L. BRAVI, Lo sterminio degli zingari, in A. CHIAPPANO, F. MINAZZI (a cura di), Il paradigma nazista dell’annientamento. La Shoah e gli altri stermini, Giuntina, Firenze 2006, pp. 109-122. 39 Cfr. L. POLIAKOV, Histoire de l’antisémitisme, Calmann-Lévy, Paris 19551977, trad. it. Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia, Firenze

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presente in Germania, portando ai suoi esiti estremi40. La persecuzione degli ebrei nel III Reich fu messa in atto in diverse fasi. In un primo momento si puntò a escludere gli ebrei dalla vita pubblica, boicottandoli anche economicamente. Questa politica discriminatoria troverà il suo apice in due distinti provvedimenti legislativi conosciuti come “Leggi di Norimberga”, emanate il 15 settembre del 1935: la “Legge per la cittadinanza del Reich” e la “Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco”41. Obiettivo di questa politica discriminatoria fu quello di costringere gli ebrei tedeschi a emigrare fuori dalla Germania. Di fatto queste due leggi crearono il consenso giuridico per la sopraffazione fisica degli ebrei in Germania: L’attività antiebraica fu svolta dalla pubblica amministrazione, dai militari, dall’industria e dal partito. Tutte le componenti della vita organizzata tedesca furono coinvolte in quest’impresa. Ogni organismo diede il suo contributo; furono utilizzate tutte le specializzazioni e alla cattura delle vittime parteciparono tutti gli strati della società.42

Evento che segna l’inizio della fase più violenta della persecuzione antisemita fu la cosiddetta “Notte dei cristalli”43: dalla tarda serata del 9 novembre 1938 e per tutta la notte del 10, fu1974-1994; R. CALIMANI, Storia del pregiudizio contro gli ebrei, Mondadori, Milano 2007. 40 Cfr. F. TROCINI, Il pregiudizio antisemita nella Germania dell’Ottocento, in «Lettera Internazionale», 81, 2004, pp. 45-47; M. FERRARI ZUMBINI, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, il Mulino, Bologna 2001. 41 A queste va aggiunta “La legge sulla bandiera del Reich”, che stabiliva che la croce uncinata diventasse il simbolo sulla bandiera del III Reich. Cfr. Cfr. A. LOTTO, Le leggi di Norimberga, in «DEP. Deportate, esuli, profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, n. 5-6, 2006, pp. 199-215. 42 R. HILBERG, Perpetrators, Victims, Bystanders. Jewish Catastrophe 19331945, HarperCollins, New York 1992, trad. it. Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei. 1933-1945, Mondadori, Milano 1996, p. 25. 43 M. GILBERT, Kristallnacht. Prelude to Destruction, Harper & Collins, London 2006, TRAD. IT. 9 Novembre 1938. La notte dei cristalli, Corbaccio, Milano 2008.

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rono attaccate e distrutte migliaia di proprietà ebraiche, dalle case ai negozi, sino alle sinagoghe. Pretesto per scatenare questa furia antisemita fu l’assassinio, avvenuto a Parigi il 6 novembre, del terzo consigliere d’ambasciata tedesca Ernst von Rath da parte di un giovane esule ebreo, Hirsch Grynszpan. Con l’invasione della Polonia da parte della Germania (1939) le politiche antiebraiche furono intensificate, iniziando dalla ghettizzazione forzata degli ebrei in quartieri spesso recintati da filo spinato. Questo provvedimento, predisposto come misura temporanea, servì per liberare ampi territori destinati alla colonizzazione tedesca, oltre a favorire la riduzione numerica degli ebrei che morivano in gran quantità per inedia44. Con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica (1941) gli ebrei sotto il controllo tedesco aumentarono, per questo iniziarono le grandi operazioni di eliminazione in massa degli ebrei, dapprima con unità speciali addette allo sterminio (Einsatzgruppen o Einsatzkommandos)45, poi con camere a gas mobili, i cosiddetti Gaswagen: I Gaswagen erano dei grandi autocarri con un cassone lungo 4 o 5 metri, largo circa 2 metri e 20 e alto 2 metri, rivestito all’interno di lamiera. Sul pavimento c’era una grata di legno. Nel fondo del cassone c’era un’apertura che poteva venir collegata allo scappamento con un tubo metallico mobile. Quando i camion erano al completo i battenti delle porte posteriori venivano chiusi e si stabiliva il collegamento tra lo scappamento e l’interno del camion […] I membri del commando impiegati come autisti dei Gaswagen mettevano poi in moto il motore, cosicché le persone che si trovavano all’interno morivano soffocate dai gas di scarico.46

44

Cfr. AA. VV., I Ghetti Nazisti, Gangemi, Roma 2012. E. COLLOTTI, Sui compiti repressivi degli Einsatzkommandos della polizia di sicurezza tedesca nei territori occupati, in «Il Movimento di liberazione in Italia», XXIII, n. 103, 1971, pp. 80-97. 46 Dalla testimonianza di Walter Burmeister, autista di Gaswagen a Chełmno. E. Klee, W. Dressen, V. Riess, «The Good Old Days» The Holocaust as Seen by Its Perpetrators and Bystanders, Free Press, New York 1988, trad. it., «Bei 45

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Il 31 luglio 1941, il maresciallo del Reich Hermann Göring, con una comunicazione scritta, incaricò il generale delle SS Reinhard Heydrich di predisporre tutte le misure che ritenesse necessarie «per portare a termine» si legge nella missiva, «l’agognata soluzione finale della questione ebraica»47. Lo sterminio degli ebrei sovietici costituì il primo passo di un processo di sterminio di massa che in seguito si estese alla Polonia, con la creazione dei campi di annientamento (Vernichtungslager)48, alla Germania e a tutta l’Europa occupata dai nazisti49. Simbolo del crimine che si consumò in Europa sono i camini dei Vernichtungslager. Infatti, constatate le difficoltà esistenti nel procedere con le fucilazioni in massa, come avevano fatto fino ad allora gli Einsatzkommandos, si stabilì di optare per l’uso di camere a gas fisse, per sopprimere in massa, e di forni crematori per annientare definitivamente. Se le camere a gas costituirono l’ultimo anello della “catena di montaggio della morte”, i forni crematori furono la metafora della “catena di smontaggio della vita”: Nei campi di sterminio non basta il delirio mortifero dell’annientamento degli ebrei, dei rom, dei sinti, degli omosessuali, dei Testimoni di Geova e di chi è schiacciato per sem-

tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha seguito e da chi stava a guardare, La Giuntina, Firenze 1990, p. 172. 47 W. HOFER, Il Nazionalsocialismo. Documenti 1933-1945, Feltrinelli, Milano 1979, p. 250, così cit. in F.M. FELTRI, Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei. Lezioni, documenti, bibliografia, Giuntina, Firenze 1995, p. 105. 48 Cfr. Y. ARAD, Belzec, Sobibor, Treblinka. The Operation Reinhard Death Camps, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1987. 49 Il percorso completo che porta all’annientamento degli ebrei da parte dei nazisti in C.R. Browning, The Origins of the Final Solution: The Evolution of Nazi Jewish Policy 1939-1942, William Heinemann, London 2004, trad. it. Le origini della Soluzione finale L’evoluzione della politica antiebraica del nazismo. Settembre 1939-marzo 1942, il Saggiatore, Milano 2012.

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pre dal fanatismo nazista, necessita anche cancellare l’estetica della morte.50

Le camere a gas rappresentano lo strumento di una messa a morte di routine, asettica nel suo procedimento e terribilmente produttiva nella sua funzionalità. I forni crematori, invece, non solo aiutano a negare il crimine, ma recano un’offesa ontologica al corpo, deumanizzato da vivo e anche da morto. La dissoluzione della reliquia corporea da onorare in un rito funebre, da piangere, da deporre in un sepolcro, è la suprema offesa da parte dei carnefici che vogliono così appropriarsi anche della morte delle vittime, dopo aver sottratto loro la vita. Il camino dei campi di annientamento, che sputa fumo umano e sparge «sulla terra l’odore acre della sofferenza»51, è così il feticcio di una politica di morte che, sovrastando il Vernichtungslager, ricorda agli «abitanti della città della morte»52, giorno e notte, che quella era l’unica via di uscita dal lager. Il camino rappresenta la zona liminare del rito di passaggio che si consuma nel campo di sterminio, con il prima, il corpo morto, ucciso, gassato, ancora prigioniero nel campo, pesante, perché ancora gravato dell’inumanità degli aguzzini, e il dopo, il fumo del corpo bruciato che abbandona il campo, leggero, che diventa per sempre libero e che nessuno può più imprigionare.53

Attraverso il camino la morte si vede e si annusa. Una morte non più umana, perché deritualizzata. Una morte degradata, perché scostumata.

50

R. PATERNOSTER, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, Aracne, Roma 2017, p.151. 51 E. Springer, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio, Venezia 2011, p. 117, (orig. 1997), cit. in ivi, p. 164. 52 Ivi, p. 164. 53 Ivi, p. 163.

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8.6 Il nemico desaparecido Quando qualcuno o qualcosa è assente si dice che si è verificato un vuoto. Quest’ultimo non è identico al nulla, perché è uno spazio pieno di altro (attesa, speranze, ricordi e così via). Un’assenza è dunque una mancata presenza che crea un vuoto in cui si resta sospesi. È il caso della desaparición forzada attuata dai feroci regimi golpisti in America latina, che tennero in scacco la popolazione civile dal 1963, anno del golpe in Honduras, sino al 1990, fine del regime di Augusto Pinochet in Cile. Desaparecido deriva da desaparecer, termine spagnolo che significa “sparire”, un verbo che all’origine era intransitivo, poi, con le dittature latinoamericane del Novecento, si trasformò in transitivo, con il significato causativo di “far scomparire (qualcosa o qualcuno)”54. Il termine desaparecido è usato per la prima volta nel 1980 dal generale Jorge Rafael Videla, dittatore de facto dell’Argentina: egli, durante una conferenza stampa in Venezuela, in risposta alle pressioni dei giornalisti riguardo la sorte degli oppositori scomparsi, rispose che «no están ni vivos ni muertos; están desaparecidos» (non sono né vivi, né morti: sono desaparecidos)55. Il desaparecido è dunque qualcuno che è stato fatto sparire, non una scomparsa volontaria, quindi, ma qualcosa di programmato da altri. Persone, pertanto, inghiottite dalla politica repressiva dei regimi latinoamericani, per essere isolate, torturate e, il più delle volte, uccise e fatte sparire. La storia dei desaparecidos ci porta pertanto in Sudamerica nei fatidici anni 70 del Novecento. La vittoriosa rivoluzione cubana del 1959, che porta al potere Fidel Castro, preoccupa la ricca classe borghese e militare. Così, temendo la diffusione delle idee rivoluzionarie socialiste in tutta l’America Latina, 54

Cfr. A. ADELSTEIN, G. VOMMARO (coord.), desaparecidos, in Diccionario del léxico corriente de la política argentina. Palabras en democracia (1983-2013), Universidad Nacional de General Sarmiento, Los Polvorines (Buenos Aires) 2014, p. 130. 55 J.A. GALVÁN, Latin American Dictators of the 20th Century. The Lives and Regimes of 15 Rulers, McFarland, Jefferson (North Carolina) 2013, p. 160.

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con il beneplacito degli Stati Uniti d’America si realizzano una serie di golpe militari che instaurano feroci dittature56: in Honduras con Osvaldo López Arellano (1963), in Brasile con Humberto Castelo Branco (1964), in Bolivia con la giunta militare di René Barrientos Ortuño (1964), in Ecuador con Guillermo Rodríguez Lara (1972), in Cile con Augusto Ugarte Pinochet (1973), in Argentina con Jorge Rafael Videla e soci (1976), in Uruguay con Aparicio Méndez (1976), in El Salvador con una giunta militare (1979)57. Accantonata la minaccia esterna, ora l’idea della sicurezza nazionale è tutta basata sul nemico interno: a essere in pericolo non sono i confini geografici dello Stato, ma le frontiere ideologiche. Tra le soluzioni per fronteggiare il nemico interno, dal pericoloso sovversivo comunista all’oppositore politico democratico, oltre alla dura repressione interna, c’è anche la costituzione di una «rete internazionale del terrore di Stato». È la cosiddetta “Operazione Condor”, un sistema repressivo che dal 1975, con il benestare degli Stati Uniti d’America, prevede la stretta collaborazione dei regimi del Cile, Brasile, Bolivia, Uruguay, Paraguay, Perù e Argentina per schedare, ricercare, catturare o eliminare fisicamente i nemici ideologici di qualunque nazionalità americana e in qualunque Stato si trovassero58. La scoperta casuale nel 1992 in un commissariato di Lambaré, in Paraguay, di diverse tonnellate di documenti d’archivio della dittatura di Alfredo Stroessner, ha permesso di

56

Cfr. A. ROUQUIÉ, Amérique latine. Introduction à l’Extrême-Occident, Seuil, Paris 1987, trad. it. L’America latina. Introduzione all’Estremo Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 166-173. 57 Altre dittature sono stati presenti sin dal 1935: in Nicaragua con la famiglia Somoza (1935), ad Haiti con una giunta militare guidata dal colonnello Paul Magloire (1950) e poi dai Duvalier (1957), in Guatemala con Castillo Armas (1954), in Paraguay con Alfredo Stroessner (1954). Quasi tutte le dittature andarono a sostituire i precedenti governi di stampo progressista. 58 Cfr. S. CALLONI, Operación Cóndor, pacto criminal, La Jornada, Ciudad de México 1999, trad. it. Operazione Condor. Un patto criminale, Zambon, Milano 2010; L. ROSSI, F. CANTONI, Operazione condor. Storia di un sistema criminale in America Latina, Castelvecchi, Roma 2018.

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ricostruire questa cooperazione del terrore59. Furono così perseguiti dapprima i “comunisti”, poi i loro “collaboratori”, poi ancora i “simpatizzanti”60. L’applicazione della dottrina della «Sicurezza nazionale», di matrice statunitense, ha permesso che si realizzasse l’indicibile:

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Nel delirio semantico in cui padroneggiano qualifiche come “marxista-leninista”, “senza patria”, “materialista e ateo”, “nemico dei valori occidentali e cristiani”, tutto era possibile.61

In effetti la categoria di “nemico interno” ha assunto multiformi significati, trasformandosi in un grande calderone dove fare entrare in massa le vittime della paranoica repressione indiscriminata: oppositori dichiarati o presunti, dirigenti sindacali che chiedevano diritti per i lavoratori, giornalisti non asserviti al regime, ragazzi che si prodigavano per aiutare i bisognosi dei 59 L’Archivio comprende 700.000 documenti che coprono dal 1954 al 1989, 740 quaderni, 115 diari della polizia, 204 casse di schede e documenti, 574 documenti che raccolgono i dati su organizzazioni politiche, 8639 schede segnaletiche, 1888 passaporti e carte d’identità, 10.000 fotografie di detenuti, 1.500 libri sequestrati dalla polizia, 534 cassette audio con registrazioni di interrogatori, conferenze, riunioni e programmi radiofonici. K. ZOGLIN, Paraguay’s Archive of Terror. International Cooperation and Operation Condor, «University of Miami Inter-American Law Review», vol. 32, n. 1, 2001, pp. 57-82. 60 Ancor prima del Condor esistevano già delle correlazioni tra gli apparati militari dei vari Paesi interessati: il “patto di Chapultepec” (1945), in cui gli USA avrebbero fornito armi e finanziamenti per la lotta al comunismo; la “Scuola delle Americhe” (1946), per la formazione e l’addestramento degli ufficiali sudamericani; le “Conferenze degli Eserciti Americani” (a partire dal 1960), ossia riunioni biennali per lo scambio d’informazioni tra i vari servizi segreti riguardo le attività dei partiti, associazioni, o singole persone ammorbati dal comunismo; la “Confederazione Anticomunista dell’America Latina” (1972), era un’emanazione la “Lega Mondiale Anticomunista”, un movimento internazionale legato ai diversi servizi segreti di governi anticomunisti. Cfr. V. RIVERA, É. DE JESÚS, Historia de la Doctrina de la seguridad Nacional, «Convergencia. Revista de Ciencias Sociales», vol. 9, n. 27, 2002, Universidad Autónoma del Estado de México, Toluca (México), pp. 11-39. 61 Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, Nunca Mas, Buenos Aires 1984, p. 9.

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quartieri poveri, rappresentanti degli studenti nelle scuole, sacerdoti e suore che aderivano alla “Teologia della liberazione”62. Particolarmente efficaci nel sistema di repressione sono stati i “Centri clandestini di detenzione” (Centros clandestinos de detención) e la “sparizione forzata” (desaparición forzada). I Centros clandestinos de detención sono stati i luoghi in cui il regime segregava e torturava i suoi nemici. Non sono stati dei veri e propri campi di concentramento, ma luoghi segreti spesso anche molto piccoli, come locali della Polizia, ville, garage, palestre, cantine e così via, in cui la persona “prelevata” è stata condotta clandestinamente per essere interrogata, torturata e molto spesso condotta alla morte: In pratica, attraverso la detenzione in condizioni estreme si isolava il presunto oppositore, con la tortura sistematica si cercava di carpire quante più informazioni possibili, con la sua uccisione si riduceva il numero dei nemici del regime.63

Il nemico interno, dopo essere stato “prelevato” di nascosto, era condotto in uno di questi centri, dove cessava di essere una persona e di avere un nome: identificato con un numero al posto della sua identità anagrafica, evitando così che il suo nome uscisse dai centri di detenzione, diventava «semplicemente un

62

La Teologia della liberazione mette «in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano, costruendo una Chiesa popolare e socialmente attiva». R. PATERNOSTER, La Teologia della liberazione: con Cristo e con Marx?, «Storia in Network», n. 124, 2007, http://win.storiain.net/arret/num124/artic5.asp 63 R. PATERNOSTER, Campi, cit., p. 310.

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corpo»64 da torturare e poi, eventualmente, far sparire per sempre65. La desaparición forzada diventa dal 1966 il dispositivo principale della repressione in Guatemala, poi nel Cile, infine in Argentina e Uruguay, e in misura minore anche in altri Paesi dell’America Latina66. Con questa modalità la repressione diviene un delitto perfetto: nessun testimone, nessun carnefice e, soprattutto, nessuna vittima, perché ovviamente il regime ha sempre negato pubblicamente il suo arresto: Far scomparire la gente è un tipo di crimine che agisce nell’ombra, in un silenzio clandestino. Ciò ha l’inevitabile conseguenza di essere conosciuto e insieme negato, di erodere i confini tra realtà e immaginazione, insinuando il fantasma dell’orrore nella vita di ogni giorno e guastandola diffusamente di minuto in minuto, come nel caso della Shoah.67

In definitiva: senza corpo del reato, senza criminali e senza testimoni, non c’era ufficialmente nessun crimine. Il “silenzio” diventò così parte integrante del terrore di Stato. Senza ombra di pentimento, il generale argentino Videla spiega al giornalista Ceferino Reato il perché è stata adotta questa soluzione: 64

P. CALVEIRO, Poder y desaparición. Los campos de concentración en Argentina, Colihue, Buenos Aires, 1998, p. 47, trad. it. Potere e sparizione. I campi di concentramento in Argentina, Manifestolibri, Roma 2010. L’argentina Pilar Calveiro, oppositrice del regime del suo Paese, è stata “ospite” in diversi centri clandestini di detenzione, dove ha subito torture. 65 La desaparición riguardò anche i neonati, vittime della pratica del robo de bébés: tra le persone sequestrate, le gestanti furono fatte partorire nei centri di detenzione clandestini, le madri uccise e i loro piccoli affidati alle famiglie sterili dei militari o a quelle benestanti e senza figli che appoggiavano il regime. 66 A.L. MOLINA THEISSEN, La desaparición forzada de personas en América Latina, «Progetto Desaparecidos», http://www.desaparecidos.org/ nuncamas/web/investig/biblio_theissen_01.htm 67 M. VIÑAR, M.U. VIÑAR, Dal Sudamerica: terrorismo di Stato e soggettività, in M. FLORES (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 214.

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Poniamo che per vincere la guerra contro la sovversione fossero 7-8 mila le persone che dovevano morire ebbene, non potevamo fucilarli e nemmeno affidarli all’autorità giudiziaria […] Per non provocare reazioni e proteste dentro e fuori dal Paese, si giunse alla decisione di far sparire tutta questa gente. Ogni scomparsa può certamente essere intesa come mascheramento, dissimulazione, di una morte.68

Come per i nazisti, anche i regimi fascisti latinoamericani utilizzavano particolari eufemismi per celare i crimini: traslado e volo sono stati due termini che hanno avuto lo stesso significato, condanna a morte. Traslado vuol dire “portare da una parte a un’altra”. Ecco, quando a un detenuto era comunicato che sarebbe stato traslado in un altro centro di detenzione e sottoposto a una vaccinazione, in realtà si avviava la procedura della sua morte. La vaccinazione era in verità un’iniezione di una potente droga, con lo scopo di stordire o uccidere. Morti o ancora vivi ma incoscienti, o erano fatti sparire in fosse comuni oppure subivano “il volo”, ossia caricati su camion e poi su aerei, spogliati e lanciati nell’oceano, diventando pasto per i pesci69. A questa procedura spesso partecipavano sacerdoti che impartivano l’estrema unzione ai condannati a morte, come il prete Christian Von Wernich, cappellano della Polizia della Provincia di Buenos Aires durante la dittatura, poi condannato all’ergastolo per la sua partecipazione diretta in 42 detenzioni illegali, 31 casi di tortura e 7 omicidi70. La sparizione del corpo morto del prigioniero ha una doppia funzione: cancellare i segni della tortura e lasciare la speranza 68

C. REATO, Disposición Final. La confesión de Videla sobre los desaparecidos, Sudamericana, Buenos Aires 2012, p. 2 e p. 56. 69 Cfr. H. VERBITSKY, El vuelo. “Una forma cristiana de muerte": confesiones de un oficial de la Armada, Planeta, Buenos Aires 1995, trad. it., Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Feltrinelli, Milano 1996. È la confessione raccolta dall’autore di Adolfo Scilingo, già ufficiale della Marina militare argentina, che partecipò ad almeno due voli della morte. 70 Cfr. H BRIENZA, Maldito tú eres. El caso Von Wernich. Iglesia y represión ilegal, Marea, Buenos Aires 2003.

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in un ritorno. La presenza del corpo, infatti, avrebbe testimoniato il compimento del ciclo della repressione, producendo reazioni negative nell’opinione pubblica mondiale, mentre la sua mancanza non avrebbe reso evidente il crimine, creando ambiguità sulla sorte della vittima e impedendo riconoscimento del carnefice. L’incertezza sulla reale fine di un familiare, inoltre, avrebbe reso i suoi familiari più docili per non inimicarsi il regime, scongiurando un verdetto di morte. In quest’ultimo caso, le aspettative dei regimi sono state disattese, perché pian piano si sono create delle associazioni che hanno rivendicato la scomparsa dei figli e dei nipoti, contribuendo a mantenere costantemente viva una memoria di denuncia. Tra queste le argentine Asociación Madres de Plaza de Mayo (Madri di Plaza de Mayo) e Asociación Civil Abuelas de Plaza de Mayo (Nonne di Plaza de Mayo), che hanno rispettivamente reclamato le notizie sui figli desaparecidos e sui nipoti dati in affidamento a famiglie sterili del regime71. Anche se le autorità non hanno mai dato risposte, lasciando le famiglie sospese in un tormentoso vuoto, questi movimenti di denuncia hanno permesso di far conoscere l’orribile verità della repressione fatta di centinaia di migliaia di persone sequestrate, torturate o uccise, e altre decine di migliaia sparite nel nulla72. Se la morte impone l’interruzione di un tempo, l’assenza prescrive invece una sospensione. Per le famiglie dei desaparecidos il proprio caro resta sospeso in un logorante limbo: ni vivos ni muertos; la vita si è smaterializzata, la morte è irraggiungibile. Solo con il ritrovamento del corpo morto la condizione di desaparecido può passare a quella di morto. 71

Azucena Villaflor, una delle fondatrici dell’associazione delle Madri di Plaza de Mayo pagò con la vita il suo attivismo nella ricerca del figlio Néstor, desaparecido con la sua fidanzata Raquel, dal 30 novembre 1976. Il 10 dicembre 1977 lei stessa fu rapita e uccisa dai militari. Nel 2005 i suoi resti sono stati identificati insieme a quelli delle altre due madri in una fossa comune del cimitero General Lavalle, ove erano stati sepolti come N.N., dopo essere stati ritrovati fra il 1977 e il 1978 su una spiaggia a sud di Buenos Aires. 72 I dati sono ancora contrastanti e non si è ancora pervenuti a una cifra ufficiale dell’effettiva entità delle vittime della repressione.

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I cadaveri permettono la fisicità dell’evento morte. Senza un corpo morto si perde il senso della vita attraverso la mancanza di una delle sue due fasi liminari: si ha un inizio di un percorso della vita, tramite la nascita, manca però la sua fine, ossia la visualizzazione della morte che diventa così astratta, intangibile e irreale. Se non esiste un corpo morto, la morte non può essere “addomesticata”, perché mancano i momenti della sua celebrazione con i riti del lutto, del cordoglio, della sepoltura. Il sepolcro vuoto del desaparecido diventa così il simulacro di una politica criminale che ha voluto impadronirsi anche della morte. Attraverso la desaparecion la morte è quindi degradata, resa impudica, perché è una morte incompiuta… una morte senza morte. 8.7 Il corpo-morte Ammazzare uccidendosi pare “folle”, un gesto fatto da persone alienate, ma non è proprio così. Certamente è un modo “irrazionale” di fare guerra a un nemico, ma l’irrazionalità è nella testa di chi subisce, non di chi esegue. Dunque, non si tratta di persone con determinate patologie psichiche, la questione è molto più complessa. Il gesto, infatti, è inscrivibile in un processo articolato, che comprende una concezione particolare del rapporto tra materialità e trascendenza, tra morte e vita. Prima di proseguire s’impone subito un appunto per evitare fraintendimenti: spiegare non vuol dire giustificare, ma comprendere, nel senso di “afferrare con l’intelletto”73, pur non approvando. Il ricorso ad azioni che prevedono la morte dispensata attraverso la morte autoinflitta non appartiene al solo mondo radicale islamico, ci sono altri esempi di missioni di “non-ritorno” che

73

Cfr. Voce “Comprendere”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: https://www.etimo.it/?term=comprendere.

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hanno più carattere politico che religioso74. Giusto per restare nella storia contemporanea, ricordiamo i cosiddetti kamikaze giapponesi o le missioni suicide condotte dai palestinesi nei Territori Occupati e fuori, dagli indipendentisti ceceni contro la Russia75 o dai separatisti Tamil dello Sri Lanka76. Certamente l’Islam radicale è quello che, più di altri, ha contribuito a scrivere la storia della strategia degli “uomini bomba”. Per indicare la figura dell’islamico radicale che riporta il proprio corpo al centro della dinamica omicida, la lingua italiana ha preso in prestito un termine improprio per contesto storico e culturale: kamikaze. Anche in riferimento al contesto da cui è attinto questo termine, il Giappone durante la campagna del Pacifico nella Seconda Guerra Mondiale, è impreciso. Precisamente in Giappone la parola kamikaze ricorda solo due provvidenziali tifoni che salvarono il Paese dalle orde mongole. Infatti, il termine kamikaze, di solito tradotto come “vento divino” (kami, spirito sacro, entità divina del shintoismo; kaze, vento, tempesta, ma anche “respiro”, da ka, che significa inspirare, e ze, che significa espirare), nasce alla fine del Duecento, quando il Giappone stava per essere invaso e conquistato dai mongoli di Kublai Khan. I tentativi di invasione furono due, nel 1274 e nel 1281, entrambi bloccati da un tifone che costrinse la grandissima armata mongola alla ritirata. I giapponesi interpretarono l’evento come una protezione data dai kami al popolo nipponi-

74

Cfr. M. MINICANGELI, I kamikaze nella storia, Datanews, Roma 2004. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica in Cecenia nacquero movimenti indipendentisti contro la Russia, alcuni di questi si radicalizzarono compiendo attentati terroristici, molti dei quali sono stati missioni di non ritorno. Cfr. A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Edizioni Lavoro, Roma 2005. 76 Le Tigri della Liberazione del Tamil Eelam, combattono con la tecnica della guerriglia in Sri Lanka fin dal 1972. Il loro omicidi più eccellenti, attuati con la strategia degli uomini/donne-bomba, sono quelli del Primo ministro Rajiv Ratna Gandhi (21 maggio 1991) e del presidente dello Sri Lanka Ranasinghe Premadasa (1° maggio 1993). Cfr. S. HOPGOOD, Tamil Tigers, 19872002, in D. GAMBETTA (ed), Making Sense of Suicide Missions, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 43-76. 75

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co, così chiamarono quei due tifoni Kamikaze, tempesta divina o spirito degli dei. Verso la fine della guerra del Pacifico (1941-1945) il Giappone era ormai sull’orlo della capitolazione, fu così che l’ammiraglio di divisione Takijirō Ōnishi, raccogliendo il patrimonio culturale dell’antica casta guerriera dei samurai, elaborò una strategia particolare, organizzando squadre speciali per “missioni di non-ritorno”: l’ufficiale superiore sostituì il primitivo tema della fedeltà del samurai al proprio signore feudale, con la dedizione verso l’imperatore e la Patria, entità ritenute in accordo ai canoni shintoisti - sacre e inviolabili. Nacquerò i Tokubetsu kōgeki tai (corpi speciali d’attacco), abbreviato in Tokkōtai77. Ōnishi aggiunse il termine Shinpū (vento divino), espressione che attraverso la on’yomi (lettura del suono) dei kanji (ideogrammi), basata sulla pronuncia originale cinese, è espresso come kamikaze: L’uso che Ōnishi fece del termine shinpu per i tokkotai della marina derivava sia dal suo background familiare sia dal suo desiderio che il vento divino sotto forma di tokkotai ripetesse il miracolo di salvare il Giappone.78

In realtà si trattò di contenere la vittoria del nemico, arrecandogli danni materiali e perdite umane. Per questo le missioni di non ritorno non si limitarono ai soli piloti d’aereo, ma furono utilizzate anche barche esplosive, le famose Shinyo79, che dovevano provocare esplodendo delle falle alle grandi navi nemiche, 77

Cfr. E. OHNUKI-TIERNEY, Kamikaze, Cherry Blossoms, and Nationalisms. The Militarization of Aesthetics in Japanese History, University of Chicago Press, Chicago 2002, trad. it. La vera storia dei kamikaze giapponesi. La militarizzazione dell’estetica nell’Impero del Sol Levante, Bruno Mondadori, Milano 2004. 78 Il padre di Ōnishi era un istruttore di kendo (scherma giapponese) e aveva chiamato Shinpu la sua palestra. E. OHNUKI-TIERNEY, La vera storia dei kamikaze giapponesi, cit., nota 4, p. 168. 79 Storico è l’attacco di trentasei di questi motoscafi che il 15 febbraio del 1945, al largo dell’isola Corregidor, vicino al Golfo di Manila, riuscirono ad affondare tre navi da guerra statunitensi.

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e i pericolosissimi siluri umani, i Kaiten, gli equivalenti subacquei degli aerei kamikaze80. L’idea di missioni suicide è già presente in altri ambienti militari. Nel 1935, durante la guerra italiana in Abissinia, l’Inghilterra invia nel Mediterraneo a titolo intimidatorio una parte della potente Home Fleet, la flotta della Royal Navy britannica. Tra le varie ipotesi prospettate dalle gerarchie militari italiane, c’è quella di utilizzare piloti-suicidi per neutralizzare la macchina bellica inglese. La ricompensa speciale per questo sacrificio è una stele nella piazza principale del paese natio. L’idea non si concretizza sia per le remore che avrebbe creato nell’opinione pubblica italiana, troppo impregnata di morale cattolica, sia per la mancanza di volontari. In Giappone, invece, è realizzata. Le missioni Tokkōtai furono tutte assegnate a giovani volontari, molti dei quali accettarono a malincuore, perché convinti dalle gerarchie militari di quanto fosse onorevole «morire come i bei petali del ciliegio che cadono»81 per l’imperatore. Il ciliegio selvatico in Giappone è il simbolo radioso della bella stagione, la primavera, che annuncia il ritorno alla vita. Essi, nella loro fragile bellezza, sono assunti dai giapponesi a simbolo dell’impermanenza. Un antico proverbio giapponese recitava: Il ciliegio selvatico è il primo tra i fiori, come il guerriero è il primo tra gli uomini. La similitudine a questi fiori appare in quasi tutte le ultime lettere dei giovani suicidi. Dopo aver emanato il loro gradevole profumo, i fiori di ciliegio selvatico cadono dall’albero senza rimpianti. Come questi fiori,

80

I Kaiten, la cui traduzione letterale potrebbe essere “che inverte la marea”, erano di piccoli sommergibili con in dotazione una testata esplosiva, guidati da uno o due militari, e lanciati da unità di superficie o da sommergibili. L’impatto poteva affondare una nave di medie dimensioni. 81 Cfr. E. OHNUKI-TIERNEY, Kamikaze Diaries. Reflections of Japanese Student Soldiers, University of Chicago Press, Chicago 2006, p. 28. L’antropologa e storica Emiko Ohnuki-Tierney, attingendo a diari e lettere dei volontari, sfata lo stereotipo che dipinge questi soldati come dei fanatici nazionalisti che con entusiasmo si schiantavano contro i bersagli nemici.

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anche i giovani fedeli giapponesi cadono orgogliosi per morire per la Patria.82

Un canto militare che spesso si intonava prima della partenza per l’ultima missione, recitava: «siamo nati in alto come samurai dei cieli […] e un giorno rinasceremo come fiori di ciliegio nel giardino del santuario Yasukuni»83. Ai coraggiosi volontari del Tokkōtai si diceva infatti che le loro anime avrebbero trovato posto nel sacro tempio di Yasukuni84. Consapevole dell’inefficacia della strategia degli attacchi suicidi, dispiaciuto del martirio dei suoi giovani soldati, sconvolto dai due bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki e costernato dall’inevitabile proclama imperiale di resa, l’ammiraglio Ōnishi, ispirandosi alle regole dell’antico Bushidō (il codice di condotta del samurai), il 15 agosto 1945 optò per il suicidio rituale. Prima di uccidersi però scrisse una lettera indirizzata ai valorosi uomini del Tokkōtai e ai giovani giapponesi: Parlo alle anime dei Tokkōtai. Vi ringrazio dal profondo del cuore per le vostre impavide battaglie. Sebbene abbiate creduto nella vittoria del Giappone e siete morti con eleganza, come fiori di ciliegio, la vostra lealtà non è stata ricompensata. Con la mia morte, io chiedo perdono ai miei uomini e alle loro menomate famiglie. Mi rivolgo adesso a tutti i giovani in Giappone: mi aspetto che tutti voi realizziate che agire avventatamente, gettare via le vostre vite, rappresenta solo un favore reso al nemico; mi aspetto che seguiate fedelmente il sacro ordine [di arrendersi] di Sua Maestà l’Imperatore, sopportando il dolore. 82

R. PATERNOSTER, Kamikaze giapponesi e kamikaze musulmani: la differenza è …, in «Storia in Network», numero 95, settembre 2004, http://win.storiain.net/arret/num95/artic3.asp 83 Cit. P. HILL, Kamikaze, 1943–5, in D. GAMBETTA (ed), Making Sense of Suicide Missions, cit., p. 33. 84 Il tempio scintoista Yasukuni Jinja, letteralmente “santuario della pace nazionale”, situato nei pressi di Tokyo, è il luogo dedicato alle anime di tutti i guerrieri morti per l’imperatore. Oggi tutti i nomi dei valorosi uomini del Tokkōtai sono conservati in questo santuario.

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Ma nel dolore, non dimenticate l’orgoglio di essere giapponesi. Siete il tesoro della nazione. Anche in tempo di pace, mantenete vivo lo spirito Shinpū e fate del vostro meglio per garantire il benessere del popolo giapponese e la pace tra le nazioni.85

L’immagine del “vento divino” dei soldati nipponici durante la Seconda Guerra Mondiale rimanda a un’immagine di difesa nei confronti di una guerra regolare, minacciata o in corso, seppur con una strategia non-convenzionale. Per questo è improprio definire “kamikaze” gli uomini-bomba islamici che, ricordiamo, il più delle volte agiscono in un contesto che può definirsi di terrorismo. In entrambi i casi, tuttavia, non si agisce in un vuoto culturale, poiché sia nella cultura nipponica sia in quella islamica, l’idea di martirio per interessi superiori (per lo Stato e per l’imperatore, per la propria “terra” e per la propria religione) giustifica questa forma di sacrifico. Alla base delle motivazioni che spingono una persona a uccidersi per uccidere, c’è dunque l’archetipo del martire. Già il termine corretto per identificare l’islamico che compie un’azione mortale uccidendosi è shahīd (al plurale shuhadā), che vuol dire “testimone”, ossia l’autore di una shahāda (testimonianza) attraverso una ʿamaliyyāt al-istishādiyya (operazione di testimonianza) che comporta, quindi, un istishād (sacrificio martiriale). L’atto di darsi la morte per una causa, specialmente religiosa, è ricorrente in ogni società fin dai tempi antichi, seppur con modalità diverse86. L’espressione martire assume la pienezza del suo significato religioso nella storia antica del mondo cristiano. Se in una società pagana come quella dell’antica Roma i primi cristiani erano tutti martyres, poiché “testimoni di Cristo”, con le inevitabili persecuzioni molti divennero martiri giacché uccisi: così nel primo Cristianesimo si è uccisi perché 85

In P.C. SMITH, Mitsubishi Zero. Japan’s Legendary Fighter, Pen & Sword, Barnsley 2014, pp. 188-189. 86 Cfr. M. BORSARI, D. FRANCESCONI (a cura di), Martirio. Il sacrificio di sé nelle tradizioni religiose, Fondazione San Carlo – Banca popolare dell’Emilia-Romagna, Modena 2005.

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martyres, in seguito si diventa martiri perché si è uccisi. Col tempo le gerarchie cristiane cancellano l’elemento suicida dalla professione di fede, lasciando il compito di “rendere martiri” ai persecutori. In questo modo nel Cristianesimo la sofferenza o la morte non sono cercate per se stesse, ma vengono accolte come esito possibile della professione di fede. L’Islam radicale rovescia la visione passiva che il mondo cristiano ha del martirio, facendo diventare la morte strumento della testimonianza: in quest’ottica nello shahīd vi è coincidenza tra fede professata in maniera incondizionata, vita vissuta nella pienezza dell’Islam, morte terrena ricercata come esito della professione di fede. Se in generale il suicidio è inteso come una “uscita dalla vita” e un “ingresso nella morte”87, il criterio in cui si sviluppa l’intenzione dello shahīd di sacrificarsi per uccidere altri, ricade in una logica di uscita da una vita e ingresso in un’altra: diventando esso stesso strumento di morte, dispensa la morte castigatrice alle sue vittime, mentre riserva a sé la gratificante vita eterna, in cui potrà godere di sei ricompense. Infatti, nell’ḥadīth numero 72 narrato nel Sunnah88 dall’imam al-Tirmidhī (825892), si dice che il martire ha dinanzi agli occhi di Dio sei premi: gli è subito tutto perdonato; vede immediatamente il posto che gli è stato assegnato in Paradiso; è esente dal castigo della tomba e dal grande terrore; lo si incorona con il diadema della venerazione, ciascun rubino del quale vale quanto la terra con tutto ciò che essa contiene; lo si sposa a settantadue spose vergini dai begli occhi; ed egli intercede in favore di settanta dei suoi parenti.89

87

Cfr. J. HILLMAN, Suicide and the Soul, Harper & Row, New York 1964, trad. it. Il suicidio e l’anima, Astrolabio, Roma 1972, pp. 7, 28, 33, 37. 88 La Sunnah è una raccolta di detti e comportamenti del Profeta Maometto trasmessi nei singoli ḥadīth (aneddoti brevi). Nella tradizione canonica musulmana funge da ”codice di comportamento” per il credente. 89 In A. GUILLAUME, The Traditions of Islam, Ayer Company, Salem (New Hampshire) 1987, p. 112.

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Il gesto dello shahīd, dunque, è inscrivibile in un processo complesso, che presenta una concezione particolare del rapporto tra immanenza e trascendenza: l’aspirante martire prima di compiere il gesto suicida, si sottopone a un processo di sacralizzazione attraverso le preghiere; questo gli conferirà una forza spirituale capace di trascendere l’immanenza del suo corpo. È questa “forza aggiunta” che permette all’aspirante martire di portare a termine la sua “missione”, trasformandolo in un “già morto”. Per questo egli è indicato dai suoi compagni di fede come ash-shahid al-hayy, “martire vivente”90. La volontà di martirio si inscrive così direttamente nel corpo dello shahīd: «Il corpo non soltanto nasconde un’arma, il corpo è trasformato in arma, non in un senso metaforico, ma nel senso più reale, balistico, dell’espressione»91. Lo shahīd non dona solo se stesso, egli tramuta l’uccisione del nemico in dono al gruppo, alimentando così l’impegno della causa politico-religiosa92. I nemici uccisi diventano così il mezzo per colpire un potere considerato corrotto e prevaricatore: Ora, il fatto di sacrificare la propria vita uccidendo al contempo il nemico detestato è certamente una sfida assoluta a ogni potere. Il potere infatti, se non ottiene un consenso volontario all’obbedienza, non può che esercitarsi attraverso la paura e, in definitiva, attraverso la minaccia di morte che si esercita su ciascuno. Pertanto, chi non ha più paura di sacrificare la propria vita annulla per definizione l’effetto di potenza di questo potere.93 90

Cfr. T. ASAD, On Suicide Bombing, Columbia University Press, New York 2007, p. 48. 91 A. MBEMBE, Necropolitiche, in «Antropologia», anno 8, n. 9-10, 2008, p. 72. 92 Chi si serve di questa strategia ha motivazioni politiche diverse, pur avendo uno sfondo religioso comune. Cfr. J. ELSTER, Motivations and Beliefs in Suicide Missions, in D. GAMBETTA, (ed), Making Sense of Suicide Missions, cit., pp. 233-258. 93 J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, èditions du Seuil, Paris 2005, trad. it. Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, p. 448.

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Il concetto di martirio è tuttavia diversificato all’interno delle numerose tradizioni islamiche. Chi l’ha resa un pilastro della propria confessione è stato però certamente l’Islam sciita 94. Gli sciiti, che sono una minoranza in seno all’Islam, hanno assegnato un valore sacrale al martirio di Al-Ḥusayn ibn ʿAlī ibn Abī Ṭālib, nipote di Maometto e leader del “partito di Ali”, che si fece uccidere a Kerbala (nell’attuale Iraq) nel 680 dalle truppe del califfo sunnita al potere. Il martirio di AlHusayn è considerato dagli sciiti un atto di estremo sacrificio volontario per la causa di Allah, per questo egli è chiamato Sayyid al-Shuhadā, ovvero “Signore dei Martiri”. AlHusayn inizia a essere celebrato nella tradizione sciita con rituali impressionanti, dove talora ci si autoflagella pubblicamente. Con Ruḥollāh Moṣṭafāvī Mōsavī Khomeynī, la rivoluzione islamica iraniana (1978-1979) sacralizza la morte di Al-Husayn, rendendolo suscettibile di essere preso come modello per l’Islam. Sulla scia della tradizione degli Assassini, i seguaci del persiano al-Hasan ibn as-Sabbāh, setta particolarmente attiva nei secoli XI e XII, che si serviva dell’omicidio come mezzo per raggiungere traguardi politico-religiosi esponendosi a morte certa95, l’Āyatollāh96 Khomeynī rilancia infatti la mistica del 94

Dal 632 d.C., anno della morte del profeta Maometto, l’Islam ha iniziato a ramificarsi in fazioni, famiglie spirituali e scuole, che spesso si sono combattute tra loro. La questione di chi avrebbe dovuto ereditare la guida religiosa e politica dell’Islam provocò la scissione in due correnti fondamentali, quella dei sunniti e quella degli sciiti. I primi (la maggioranza) appoggiarono Abu Bakr, suocero e amico del profeta; i secondi ritennero che il legittimo successore andava individuato tra i consanguinei di Maometto, sostenendo che il Profeta avesse designato a succedergli ʿAlī ibn Abī Ṭālib, suo cugino e genero. Questi diventarono noti come sciiti, una forma contratta dell’espressione shīʿat ʿAlī (partigiani di Ali). Cfr. A. SFEIR, L’Islam contre l’Islam. L’interminable guerre des sunnites et des chiites, Grasset, Paris 2013, trad. it. L’Islam contro l’Islam. L’interminabile guerra fra Sunniti e Sciiti, Enrico Damiani Editore, Salò (Brescia) 2013. 95 B. LEWIS, The Assassins. A Radical Sect in Islam, Weidenfeld & Nicolson, London 1967, trad. it. Gli Assassini. Una setta radicale islamica, i primi terroristi della storia, Arnaldo Mondadori, Milano 2002.

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VIII. Il nemico ucciso

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martirio attivo: sacrificare la propria vita per difendere il vero Islam diventa un imperativo vincolante per il “giusto” musulmano. Durante i durissimi nove anni di guerra (1980-1988) fra l’Iran e l’Iraq, la mistica della morte eroica propagandata da Khomeynī ha la sua massima realizzazione. Con una semplice norma di legge, l’Āyatollāh arruola finanche bambini sopra i dodici anni, i cosiddetti basij (ufficialmente Nirouy-e moqavemat-e basij, ovvero “Forza di resistenza di mobilitazione”), impiegati in assalti o mandati nei campi minati per aprire varchi alle squadre d’assalto97. Il khomeinista culto per i martiri, superando la proibizione coranica del suicidio, rende il sacrificio estremo personale un’azione gloriosa. Così, attraverso il khomeinismo, la fascinazione della morte gloriosa per la causa di Allah arriva in Libano, attraverso gli sciiti di Hezbollah (Hizb`Allāh, Partito di Dio). Obiettivi di fondo del movimento sono: servire ed estendere la rivoluzione islamica, combattere i miscredenti (Israele in primis) che occupano il sacro suolo del Libano. Non avendo a disposizione armi sofisticate, si opta per le bombe-umane98. Il primo martire di Hezbollah è il diciasettenne Ahmad Qassir che l’11 novembre del 1982, con la sua Mercedes imbottita di tritolo, si trasforma in bomba umana facendosi esplodere all’interno del comando del quartier generale di Tsahal a Tiro, provocando 141 vittime, la maggior parte soldati israeliani99. Da allora, per contaminazione, le missioni suicide diventano una costante nella lotta armata di matrice islamica radicale, non solo sciita. Infatti, a partire dalla seconda parte degli anni Novanta del Novecento inizia la messe di attentati suicidi contro Israele da parte 96

Da àyàt Allàh, letteralmente “segno di Dio”. Nello sciismo è un rilevante titolo conferito ad autorevoli dottori di scienze religiose e giuridiche. 97 Cfr. S. GOLKAR, Captive Society. The Basij Militia and Social Control in Iran, Columbia University Press, New York 2015. 98 Sul movimento armato libanese cfr. G. ZAIMI, Hezbollah. Partito politico libanese e milizia iraniana, Aracne, Roma 2014. 99 In memoria del martirio di Qassir, l’11 novembre di ogni anno gli sciiti libanesi commemorano la “Giornata del martire” (Yawm ash- shahīd), ricordando chi si è sacrificato per la causa di Allah.

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La politica del male

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dei movimenti armati palestinesi100. Seguono le operazioni martirio dei movimenti ultra-fondamentalisti presenti in Cecenia, Kashmir, Algeria. In seguito, il precetto di martirio si globalizza, diventando energia devastatrice planetaria. Gli attentati contro le Twin Towers di New York e il Pentagono di Washington ne sono solo l’inizio101.

100

Cfr. L. RICOLFI, Palestinians, 1981-2003, in D. GAMBETTA, (ed), Making Sense of Suicide Missions, cit., pp. 77-129. Se inseriamo nella casistica delle missioni suicide anche i “no escape attacks”, allora la prima azione con tecnica suicida è compiuta proprio per la causa palestinese: il 30 maggio 1972, tre persone assaltano l’aeroporto di Lod di Tel Aviv (l’attuale Ben Gurion), sparando all’impazzata contro civili e indossando bombe a mano in modo da esplodere se colpiti dalla sicurezza israeliana. I tre uccidono ventiquattro persone e ne feriscono settantasei. Uno di loro è ucciso dalla sicurezza israeliana, l’altro muore dilaniato dalla bomba che porta con sé, l’altro è ferito e viene bloccato. I tre sono giapponesi della Nihon Sekigun (Armata Rossa Giapponese) e si sono sacrificati per la causa palestinese. 101 Sull’argomento rimando al mio La politica del Terrore. Il Terrorismo: storia, concetti, metodi, Aracne, Roma 2015, pp. 292-356.

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Epilogo

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9.1. La vergogna e la colpa Quando il 27 gennaio del 1945, inseguendo i tedeschi in ritirata dalla Polonia, le truppe sovietiche della 60ª Armata del 1º Fronte ucraino arrivarono ad Auschwitz si trovarono di fronte uno spettacolo raccapricciante: parvenze di uomini e donne muti che, dietro il filo spinato, sembravano spettri immobili con il terrore negli occhi. Quei soldati, ricorda Primo Levi: Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota […] la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri1

Paradossalmente la vergogna appartiene alle vittime e a chi scopre l’indicibile, ai carnefici no, che non nutrono neppure alcun senso di colpa. Spesso vergogna e senso di colpa sono considerati sinonimi, ma sono due emozioni sociali (o interpersonali) differenti: nella prima è direttamente coinvolto il Sé, che diventa l’oggetto di una valutazione negativa; nel secondo l’interesse riguarda le azioni che sono state commesse e le loro conseguenze. In pratica attraverso la vergogna si mette in discussione il “cosa sono”, 1

P. LEVI, La tregua, Einaudi, Torino 2010, pp. 10-11 (orig. 1963).

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mentre tramite il senso di colpa si attiva il “cosa ho fatto”. In entrambi i casi il riferimento non è solo al Sé, ma anche al giudizio degli altri, alle norme trasgredite o al danno arrecato al prossimo2. Lo psichiatra e filosofo Karl Jaspers indagando sui crimini nazisti, ha distinto quattro tipi di colpe: criminale (o giuridica), morale, politica e metafisica. Le prime due appartengono all’individuo, la terza al gruppo sociale; l’ultima sia all’individuo sia al gruppo sociale. La colpa criminale riguarda la trasgressione delle leggi, perciò da sanzionare giuridicamente secondo il grado di responsabilità; la colpa morale è quella che risponde kantianamente alla propria coscienza e riguarda che si è fatto o non si è fatto; la colpa politica è una sorta di colpa storica di un governo, ma si riversa sui cittadini dal momento che questi partecipano della vita politica di una nazione sostenendo un governo col voto o con il consenso; la colpa metafisica nasce dall’infrazione del principio di solidarietà tra gli esseri umani, quindi dalla corresponsabilità di chi pur sapendo, ovunque si trovasse, non è intervenuto3. Una colpa non esclude l’altra. Jaspers si riferiva alle responsabilità della Germania nazista, ma questo vale tutte le volte che un crimine politico si consuma. Vergogna e senso di colpa, se attivati, risultano importanti nelle relazioni umane, perché consentono di far tesoro degli errori, di verificarli, di correggerli. Attraverso il senso di colpa e la vergogna, infatti, la coscienza si ribella, denunciando qualcosa a se stessi, poiché entrambe affondano le loro radici, nel «risuonare in se stessi della voce del giudizio»4. Una persona che non si vergogna, che non è assalita dai sensi di colpa per aver 2

Cfr. M.W. BATTACCHI, Vergogna e senso di colpa in psicologia e nella letteratura, Raffaello Cortina, Milano 2002. 3 Cfr. K. JASPERS, Die Schuldfrage, Schneider, Heidelberg 1946, trad. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Milano 1996. 4 B. WILLIAMS, Shame and Necessity, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1993, trad. it. Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna 2007, p. 105.

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compiuto un’azione illecita non si asterrà dal commetterla in futuro. Senso di colpa e vergogna non equivalgono al pentimento, ma possono esserne all’origine. Entrambe non dovrebbero avere una data di scadenza, per riconoscersi sempre attorno al rifiuto di compiere scelte immorali che comportano azioni criminali. Ecco, sotto questo aspetto un impiego della vergogna e del senso di colpa nelle scelte politiche potrebbe essere un primo passo verso un impegno civile connesso alle responsabilità morali. Se sul piano giuridico si risponde a un giudice, sul piano morale si deve rispondere sempre alla propria coscienza, che non può mai essere annullata del tutto. La politica imponendo un nemico globale, totale e assoluto, manipola le emozioni secondo i propri valori, istituzionalizzando la negazione della vergogna e del senso di colpa. Così, incapace di vergognarsi e immune dai sensi di colpa, la politica diventa prepotente, dispotica, spudorata e inumana, esponendosi irrimediabilmente alle seduzioni del male. Durante i famosi processi di Norimberga (1945-1949)5, ad esempio, si verificò l’assenza totale del senso di colpa nei nazisti alla sbarra, aggravato dalla mancanza del benché minimo pentimento. Tutti hanno cercato di discolparsi adducendo il pretesto di obbedire agli ordini. Lo stesso fece Otto Adolf Eichmann nei suoi due processi a Gerusalemme (1961-1962)6. Anche a voler dar per buone le loro motivazioni, si trattò pur sempre di obbedienza accettata e non subita, perché si può essere disobbedienti quando si ricevono ordini che macchiano la coscienza, oltre il fatto che l’obbedienza non può essere una virtù se è disgiunta dall’esercizio dell’autonomia individuale, intesa quest’ultima come capacità di scelta. Occorre sempre mette in 5

I processi di Norimberga furono tredici. Quello che più catalizzò l’opinione pubblica mondiale fu il primo, quello celebrato nel 1945-1946 ai 24 più alti gerarchi nazisti catturati. Seguirono altri 12 processi ai membri di più basso rango del potere militare, medico, politico ed economico della Germania nazista. 6 Il primo grado fu celebrato dall’11 aprile 1961 al 14 agosto 1961, l’appello davanti alla Corte Suprema nel marzo 1962. La sentenza definitiva della condanna a morte arrivò il 29 maggio del 1962.

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discussione le strutture ideologiche per spingerci a prendere coscienza e compiere l’esercizio del discernimento attorno ai migliori valori consustanziali all’essere umano, perché “nessun potere è in grado di togliere la moralità a una persona, se costui della sua moralità rimane cosciente”7.

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9.2. “Comuni” carnefici Un’altra strada da percorrere per poter prevenire il male è quella di riconoscere che chiunque possa commetterlo. Come già riferito nel capitolo Il Male e la violenza, cercare di additare la colpa dei crimini politici a esseri diabolici, vuol dire trasferire le responsabilità a un’entità astratta che ha reso demoni uomini perfettamente normali. Le atrocità della politica non dipendono neppure dalla psicopatologia di chi li attua, ma da una serie di processi psicologici “normali” che sono promossi da un potere. L’universo dei carnefici si compone di persone “normali”, di “uomini comuni”(come recita il titolo del libro di Christopher Browning)8, di persone “della porta accanto” (come riporta il titolo del saggio di Jan Tomasz Gross)9, di “volenterosi carnefici” (come intitola il suo lavoro Daniel Jonah Goldhagen)10, non fanatici assassini, professionisti della tortura, esperti del crimine, 7 Ho parafrasato il passaggio di un articolo di Wlodek Goldkorn pubblicato su L’Espresso: «nessun carnefice è in grado di togliere la dignità alla vittima, se la vittima della sua dignità rimane cosciente». W. GOLDKORN, Dagli armeni alla Shoah, il Novecento secolo dei genocidi, «L’Espresso», 27 gennaio 2015. 8 Cfr. Ordinary Men. Reserve Battalion 101 and the Final Solution in Poland, Harper, New York 1993, trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino 2004. 9 Neighbors. The destruction of the Jewish community in Jedwabne, Princeton University Press, Princeton 2001, trad. it. I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002. 10 Hitler’s Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, New York 1996, trad. it., I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1996.

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ma persone “normali” che hanno innalzato una barriera alla loro coscienza per esseri svincolati da qualsiasi considerazione morale. Provate a chiedere a un sopravvissuto tutsi se poteva prevedere che il suo buon vicino di casa hutu, col quale da anni si scambiava ogni giorno il saluto, potesse sterminare la sua famiglia; o a un serbo o a un croato o ancora a un bosgnacco, che hanno giocato insieme a carte nella stessa piazza per molto tempo, se potevano immaginare che si sarebbero trovati a uccidersi a vicenda. Come è possibile, allora, che uomini e donne “normali” possano mutarsi in carnefici? Come è possibile che gruppi di persone che sino a poco tempo prima convivevano pacificamente si trasformino in assassini seriali? Carnefici non si nasce, si diventa… e si diventa grazie a una forte “deculturazione” che porta alla rottura con gli universi di riferimento e crea esecutori apatici, apatici in senso etimologico — dal latino apathīa, composto dalla particella negativa a e pathos, ossia passione, affezione11 — vale a dire persone che hanno carenza di sensibilità, di empatia, di reazioni affettive verso l’Altro. A questa riduzione di sensibilità, alla realizzazione di questi processi psicologici attivati, si arriva per gradi, ammaestrando abilmente le persone: individuazione del nemico, propaganda contro di esso, sua deumanizzazione, giustificazione, autorizzazione, distruzione. Un programma sterminazionista o un progetto concentrazionario non si realizzano dalla sera al mattino. Un governo ha bisogno di tempo per “addomesticare” opportunamente al male una massa di cittadini. Un programma sterminazionista o un progetto concentrazionario hanno bisogno di un consenso esteso, o per lo meno di una indifferenza passiva. Così il potere assolutizzerà le sue politiche contro un gruppo considerato estraneo che, attraverso la forza persuasiva della propaganda, sarà delegittimato e categorizzato in un genere non più umano; i sudditi proietteranno nel 11 Cfr. Voce “Apatia”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, https://www.etimo.it/?term=apatia.

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gruppo delegittimato le frustrazioni, le paure e le tensioni attivando un processo psicologico in cui la coscienza abdica a una nuova morale, che potrebbe sfociare in uno sviluppo distruttivo fino agli esiti estremi, perché ora ritenuto ragionevole e oggettivamente necessario. Insomma, si tratta di costruire e prescrivere uno standard morale collettivo per regolare azioni che una morale individuale non ammetterebbe. Per assicurarsi la formazione di un consenso e il concorso di obbedienti operai del crimine in un progetto scellerato, dunque, un potere ideologizza le sue politiche, creando una nuova etica che, istituzionalizzata, possa servire come metro dell’agire. Comprendere ciò, vuol dire che chiunque possa diventare carnefice e che in qualsiasi momento efferati crimini contro l’umanità possono ripetersi. Per questo è opportuno monitorare lo stato di salute della ragione nelle ideologie, conservare sempre un pensiero critico autonomo per essere vaccinati dalle “tentazioni maligne”, non dal male, ma dalle seduzioni di una politica immorale, perché il male si sceglie. 9.3. L’importanza del ricordo La storia serve per elaborare i ricordi. Spesso si utilizza il termine “ricordo” come sinonimo di “memoria”, ma non è così. Nel suo senso originario la memoria è l’attività del cervello di conservare delle informazioni, solo successivamente il termine ha iniziato a identificare anche i “contenuti” della memoria, ossia una ricorrenza, un evento e così via. Il ricordo è un’altra cosa. Il Progetto web “Una parola al giorno” da una pregevole definizione di “ricordo”: Non è memoria. Il ricordo richiama nel presente del cuore e del sentimento qualcosa che non è più qui o non è più adesso. Non nella sua forma originale. E che però, per il solo tornare in cuore, rivive — non sogno fatuo o fantasticheria, ma sentimento concreto, esperienza diretta. È la possibilità di consultare il passato, di in-

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terrogarlo, di distendercisi ancora — non per fuggire malati di nostalgia, ma per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro. Per tenere alta la consapevolezza sorridente di chi siamo, da dove veniamo e di dove abbiamo la possibilità di spingerci. Per non perdere niente di quello che naturalmente esce dalla nostra vita. Niente e nessuno.12

Dunque, la memoria è un magazzino di date e di fatti, mentre il ricordo, come suggerisce il suo etimo è un “richiamare al cuore”, quindi una dimensione interiore ed emotiva collegata a un evento. Per questo, riguardo alla violenza politica, a “memoria” preferisco il termine “Ricordo”, con la lettera maiuscola, perché attraverso esso si dà il giusto risalto a una testimonianza che attiva una procedura di valutazione per metterci in rapporto con il nostro passato. Un Ricordo di un male politico è primariamente un atto di verità13 che deve nascere dalla vergogna, perché: Non vogliamo un mondo in cui il crime sfugge alla punizione, dove il male sfugge all’essere chiamato con il suo vero nome, dove l’infamia viene inghiottita dalla sabbia e dal vento. L’entropia è uno scandalo morale. […] Il male conta sulla certezza che l’erba coprirà le fosse piene di calce viva, che la terra inghiottirà il bossolo, che le voci si faranno silenziose e la memoria fallirà. […] L’entropia fa ricordare un obbligo. […] I migliori marcatori sono quelli inseriti nella mente umana e trasmessi di generazione in generazione. […] nulla, nemmeno il crimine infame, è immortale.14

Contro questo pericolo, allora, dobbiamo ricordare, e dobbiamo farlo nel modo giusto. Innanzitutto non sacralizzando e, 12

Lemma “ricordo”, in «Una parola al giorno», https://unaparolaalgiorno.it/ significato/R/ricordo. 13 Cfr. R RICOEUR, La Mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000, trad, it. La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003. 14 M. IGNATIEFF, The treacherous sands of time, «Independent», 6 september 1998, https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/the-treacheroussands-of-time-1196282.html

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soprattutto, non rendendo un Ricordo esclusivo solo per il popolo che ha subito una crudeltà. Sacralizzare vuol dire assolutizzare e innalzare un ricordo a elemento costitutivo della storia in generale, non permettendo una comparazione: il Ricordo diventa educativo se non ricorre al discorso di chi è stato il più cattivo. Non esiste una gerarchia del male. Stabilire una graduatoria del male vuol dire innanzitutto sminuire la responsabilità di alcuni. Pur variando le forme di crudeltà, ogni male ha uguale valenza e l’aritmetica delle perdite umane non basta a stabilire se un crimine sia più crimine di un altro. Ad esempio, il grado di crudeltà è probabilmente meno intenso se riguarda la morte per gassazione o per fucilazione rispetto a un’uccisione per sgozzamento (tecnica praticata dagli ustascia) o alla morte a colpi di machete (come è successo in Ruanda). Uno stupro può sembrare meno crudele di una uccisione con il machete o con il gas, ma una violenza sessuale (specie se di gruppo e prolungata) “uccide dentro” stritolando l’anima della vittima, costretta a vivere per sempre con cicatrici invisibili che mai potranno rimarginarsi. Anche la macabra contabilità delle vittime non è sufficiente a considerare un male superiore a un altro: i nazisti tra il 1941 e il 1945 annientarono circa sei milioni di ebrei, circa il 50% della popolazione appartenente al gruppo vittima presente nei territori del III Reich, in Ruanda nel 1994 furono massacrati tra 800.000 e 1.050.000 persone tutsi, un numero sicuramente minore, ma con maggiore percentuale (approssimativamente il 77% della popolazione di questa etnia)15. Se andiamo più indietro circa l’80% degli herero morirono come conseguenza diretta o indiretta della campagna militare nell’Africa Tedesca del SudOvest16. La predisposizione di un apparato tecnico e ammini15

Cfr. D. SCAGLIONE, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, EGA, Torino 2004, p. 10; F. SABATINO, L’omologazione selvaggia. Per una critica biopolitica della violenza, Libreria universitaria, Padova 2010, p. 157. 16 J. SARKIN, Germany’s Genocide of the Herero. Kaiser Wilhelm II, His General, His General, His Settlers, His Soldiers, UTC Press, Cape Town (South Afica) 2011, p. 137; F. SABATINO, L’omologazione selvaggia, cit., p. 157.

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strativo da parte dei nazisti finalizzato allo sterminio di interi gruppi umani, in primis quello ebraico, certamente rende unica la Shoah rispetto ad altri stermini di massa. Per questo ogni “macello umano”, ogni scelleratezza politica che viola l’essere umano è di per sé unica e assieme criminale al pari degli altri, poi diversa sarà la sanzione da applicare a vari carnefici nei differenti casi, ma questo è compito di un giudice e non dello scienziato politico. Per questo credo sia corretto dare uguale “Ricordo” a ogni evento, perché nessuno debba essere più vittima di un’altra. Raffrontare un crimine politico con altri è dunque utile per meglio differenziare ogni scelleratezza e per comprendere nel migliore dei modi i meccanismi di ciascuno. Monopolizzare un ricordo, invece, vuol dire legarlo alla esperienza di un solo popolo, invece un crimine di massa è un delitto contro tutti, contro tutta l’Umanità. 9.4. La pedagogia attraverso il dolore «Meditate che questo è stato», ci ricorda ancora Primo Levi nella sua poesia Se questo è un uomo. Un’esortazione che mette in risalto l’importanza del Ricordo del male, di tutto il male che l’essere umano è capace di realizzare. Un Ricordo che sappia educare efficacemente senza rassegnarci all’orrore. Ci esorta lo storico e politologo statunitense Daniel Jonah Goldhagen: Dobbiamo porre termine a una serie di errori e autoinganni che confondono i fatti e annebbiano il giudizio. […] Dobbiamo guardare alle stragi di massa con occhi imparziali. Dobbiamo tenere distinti i compiti della definizione, che richiede di specificare che cosa stiamo esaminando, della spiegazione, che richiede di rendere conto del perché i fatti si verificano e le persone agiscono, e della valutazione morale, che richiede di giudicare il carattere dei fatti e la colpevolezza degli attori. Dob-

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biamo affrontare il fenomeno disponibili a riflettervi a fondo, sistematicamente e dall’inizio.17

Dunque, non adattarsi all’orrore, ma mostrarlo senza vergogna affinché diventi monito. Ecco, quello che propongo è una pedagogia che, attraverso il dolore ci porti a interrogarci sui meccanismi che hanno generato tanta crudeltà. Per ricordare il male nelle sue estreme efferatezze, dobbiamo metterci dalla parte delle vittime, della loro sofferenza. Rappresentarci in quei corpi torturati, violati, imprigionati, vilipesi, uccisi, aiuta a comprendere che li potevo esserci io, come vittima o come carnefice: «le descrizioni del male, possono generare il bene» insegna Tzvetan Todorov nel suo Di fronte all’estremo18. Una pedagogia che, attraverso il dolore, ci aiuti a comprendere nel presente i segni anticipatori di un passato da non riproporre, per scardinare in anticipo eventuali ricadute. Una pedagogia che, attraverso il valore umanizzante del dolore degli altri, sappia mettere in discussione la politica come dominio. Una pedagogia che ci conduca a dotarci sempre di un pensiero critico dinanzi a ordini politici scellerati. Una pedagogia attraverso il quale si aiuti a prendere coscienza di come ottenere, proteggere e rispettare i diritti umani. Una pedagogia che ci insegni a non trasformare i conflitti che inevitabilmente possono scoppiare da materiali a simbolici, perché i primi si risolvono per lo più con compromessi, i secondi possono portare a stermini di massa e violenze di ogni genere. Una pedagogia che elevi il Ricordo a vaccino contro qualsiasi violenza. 17

D.J. GOLDHAGEN, Worse Than War. Genocide, Eliminationism, and the Ongoing Assault on Humanity, Perseus Books, Jackson (Tennessee), 2010, trad. it., Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità, Mondadori, Milano 2010, p. 12. 18 Cfr. T. TODOROV, Face a l’extreme, Seuil, Paris 1991, trad. it. Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 2011.

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Una pedagogia che educhi alla complessità. Una pedagogia che ci abitui a pensare moralmente, per farci agire moralmente. Una pedagogia che insegni l’accettazione delle differenze. Una pedagogia che sottolinei il valore universale del rispetto per la vita, per la libertà, per la solidarietà, per la tolleranza, per i diritti umani e per l’uguaglianza tra uomo e donna. Una pedagogia che disarmi le culture e la politica. Ben vengano anche le commemorazioni, ossia come suggerisce l’etimo del termine “commemorare”: “ricordare insieme”19. Tuttavia queste non devono essere celebrazioni rituali che ripercorrano gli avvenimenti come se la storia si fosse fermata, ma lezioni attive che propongano insegnamenti universali in grado di far acquisire una coscienza in grado di opporsi a perverse politiche d’odio e, allo stesso tempo, che sappiano individuare e rifiutare nuove ingiustizie. Non dimentichiamo il monito di Primo Levi: «ciò che è accaduto può ritornare. Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre». Il Ricordo si esercita ogni giorno, con i fatti.

19

Dal latino commemoràre, composto da cŭm cioè “con” e memoràre ossia “ricordare”. Cfr. voce: commemorare, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, https://www.etimo.it/?term=commemorare.

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Finito di stampare nel mese di febbraio dell’anno 2019 per conto di Andrea Giannasi editore.

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